CITTÀ HORT

Nell’oscurità che precede l’alba, Arren indossò gli abiti che gli erano stati consegnati (indumenti da marinaio, lisi ma puliti) e percorse a passo svelto i silenziosi corridoi della Grande Casa fino alla porta orientale, scolpita nel corno e nei denti di drago. Il Portinaio lo lasciò uscire e gli indicò la strada che doveva prendere, con un lieve sorriso. Arren seguì la più alta via della città, e poi un sentiero che conduceva alle darsene coperte della Scuola, a sud, lungo la riva della baia, oltre i moli di Thwil. Riusciva appena a distinguere il cammino. Gli alberi, i tetti, i colli grandeggiavano come masse indistinte nell’oscurità; l’aria buia era immobile e molto fredda; ogni cosa taceva, e sembrava tenersi isolata e nascosta. Solo sopra il mare scuro, verso oriente, c’era una fioca linea di chiarore: l’orizzonte, che s’inclinava fuggevolmente verso l’invisibile sole.

Arren raggiunse la scalinata della darsena coperta. Non c’era nessuno, niente si muoveva. Stava abbastanza caldo, nell’ingombrante giubba da marinaio e nel berretto di lana; ma rabbrividì mentre attendeva, sui gradini di pietra, nell’oscurità.

Le darsene coperte spiccavano nere sopra l’acqua nera: e all’improvviso ne venne un suono cupo e cavernoso, un tonfo tonante, ripetuta tre volte. Arren si sentì rizzare i capelli in testa. Una lunga ombra scivolò silenziosa sull’acqua. Era una barca, che avanzava verso il pontile senza far rumore. Arren scese di corsa i gradini fino al molo e saltò a bordo.

— Prendi il timone — disse l’arcimago, una figura agile e buia a prora. — E tieni salda la barca, mentre io alzo la vela.

Erano già fuori, sull’acqua, e la vela si apriva dall’albero come un’ala bianca, cogliendo la luce via via più viva. — Un vento dell’ovest per risparmiarci la fatica di uscire a remi dalla baia: è il dono di commiato del Maestro della Chiave dei Venti, senza dubbio. Sta’ attento, ragazzo: la barca è leggera, e vira facilmente. Così. Un vento dell’ovest e un’aurora serena per il Giorno dell’Equilibrio di primavera.

— Questa barca è la famosa Vistacuta? — Arren aveva sentito parlare della barca dell’arcimago, in canti e leggende.

— Sì — rispose l’altro, trafficando con le sartie. La barca sgroppava e virava, mentre il vento si rinforzava; Arren strinse i denti e cercò di tenerla in rotta.

— Vira facilmente, mio signore, ma sembra animata da una volontà propria.

L’arcimago rise. — Lasciala fare: anche lei è saggia. Ascolta, Arren — disse, e s’interruppe, inginocchiandosi e fissando Arren. — Adesso io non sono un signore, e tu non sei un principe. Io sono un mercante, di nome Falco, e tu sei mio nipote, di nome Arren, e viaggi con me per imparare a navigare; e veniamo da Enlad. Da quale città? Una piuttosto grande, nell’eventualità che incontriamo un concittadino.

— Temere, sulla costa meridionale? I suoi abitanti commerciano in tutti gli stretti.

L’arcimago annuì.

— Ma — disse cautamente Arren, — tu non hai l’accento di Enlad.

— Lo so. Ho l’accento di Gont — replicò il suo compagno; e rise, alzando gli occhi verso l’oriente che si rischiarava. — Ma credo di poter prendere a prestito da te ciò che mi serve. Dunque, noi veniamo da Temere, con la nostra barca, Delfino, e io non sono un signore né un mago né Sparviero, ma… come mi chiamo?

— Falco, mio signore.

Poi Arren si morse la lingua.

— Pratica, nipote — disse l’arcimago. — Ci vuole pratica. Tu non sei mai stato altro che un principe. Io, invece, sono stato molte cose, e per ultima, forse la meno importante, anche arcimago… Andiamo a sud, a cercare pietre emmel, quelle cose azzurre da cui si ricavano amuleti. So che in Enlad le pagano bene. Ne ricavano talismani contro i reumatismi, le slogature, i torcicollo e gli inceppamenti della lingua.

Dopo un istante Arren rise; e quando alzò la testa, la barca si sollevò su un’onda lunga e lui vide l’orlo del sole contro l’orlo dell’oceano: un bagliore dorato e improvviso, davanti a loro.

Sparviero stava ritto, con una mano sull’albero, perché la piccola barca balzava sulle onde convulse, e salmodiò rivolgendosi all’aurora dell’equinozio di primavera. Arren non conosceva la Vecchia Lingua, la lingua dei maghi e dei draghi: ma udiva lodi ed esultanza in quelle parole, che avevano un ritmo grandioso come quello delle maree o dell’equilibrio dei giorni e delle notti in eterna successione. I gabbiani gridavano nel vento, e le spiagge della baia di Thwil scivolavano via a destra e a sinistra: si addentrarono sulle lunghe onde luminose del mare Interno.

Da Roke a Città Hort non è un gran tragitto; ma trascorsero tre notti in mare. L’arcimago aveva dimostrato una gran fretta di partire, ma adesso era più che paziente. I venti divennero contrari appena loro si allontanarono dalla cerchia di clima incantato che attorniava Roke; ma lui non evocò un vento magico nella loro vela, come avrebbe fatto qualunque incantatore; invece, per ore e ore, insegnò ad Arren come guidare la barca in un vento avverso e costante, nel mare irto di scogli a est di Issel. La seconda notte cadde la fredda e sferzante pioggia di marzo, ma lui non recitò incantesimi per tenerla lontana. La notte seguente, mentre stavano all’esterno dell’entrata di Porto Hort, in una calma oscurità fredda e nebbiosa, Arren rifletté e notò che l’arcimago, nel breve tempo trascorso da quando l’aveva incontrato, non aveva compiuto nessuna magia.

Tuttavia era un marinaio impareggiabile. In quei tre giorni di navigazione insieme a lui, Arren aveva imparato di più che nei dieci anni di gare e di svaghi sulla baia di Berila. E mago e marinaio, in fondo, non sono poi tanto diversi: entrambi operano con i poteri del cielo e del mare, e usano i grandi venti per avvicinare ciò che è remoto. Arcimago, o Falco il mercante del mare: era più o meno la stessa cosa.

Era un uomo piuttosto taciturno, sebbene si mostrasse sempre cordiale e bonario. Le goffaggini di Arren non l’irritavano; era cameratesco, e sarebbe stato impossibile immaginare un compagno migliore, pensava Arren. Ma l’arcimago sprofondava nei suoi pensieri, e taceva per ore e ore, e poi, quando parlava, aveva una certa asprezza nella voce e guardava Arren come se non lo vedesse. Questo non smorzava l’affetto che il ragazzo provava per lui, ma forse ne sminuiva un po’ la simpatia: gli incuteva un certo timore. Forse anche Sparviero se ne rendeva conto, perché in quella notte di nebbia, al largo delle rive di Wathort, cominciò a parlare con Arren di se stesso, a frasi spezzate. — Non voglio andare tra gli uomini, domani — disse. — Ho finto di essere libero… Ho finto di credere che nel mondo non ci sia nulla d’insolito; che io non sono l’arcimago, e neppure un incantatore. Che sono Falco di Temere, senza responsabilità né privilegi, e che non devo niente a nessuno… — S’interruppe; dopo una lunga pausa, continuò: — Cerca di scegliere con cura, Arren, quando è necessario compiere le grandi scelte. Quando ero giovane, dovetti scegliere tra la vita dell’essere e la vita del fare. E mi avventai su quest’ultima, come una trota su una mosca. Ma ogni azione che compi, ogni atto, ti lega a sé e alle sue conseguenze, e ti costringe ad agire e ad agire ancora. E allora, solo raramente incontri la paura, un tempo come questo, tra un’azione e l’altra, quando puoi fermarti e limitarti a essere. O a domandarti chi sei, dopotutto.

Come poteva un uomo come quello, si chiese Arren, avere dubbi su chi era e cos’era? Aveva pensato che dubbi simili fossero riservati ai giovani che ancora non avevano fatto nulla.

La barca ondeggiava nella grande oscurità fresca.

— Per questo mi piace il mare — disse nel buio la voce di Sparviero.

Arren lo comprendeva; ma i suoi pensieri correvano lontano, com’era sempre avvenuto in quei tre giorni e in quelle tre notti, verso la loro ricerca, lo scopo del loro viaggio. E poiché, finalmente, il suo compagno sembrava disposto a parlare, chiese: — Credi che a Città Hort troveremo ciò che cerchiamo?

Sparviero scrollò la testa, forse per rispondere di no o forse per indicare che non lo sapeva.

— Non potrebbe essere una specie di pestilenza, un’epidemia, che passa di terra in terra devastando le messi e gli armenti e gli spiriti degli uomini?

— Una pestilenza è un movimento del grande equilibrio: questo è diverso. Ha in sé il lezzo del male. Forse ne soffriremo, quando l’equilibrio delle cose si ristabilirà; ma non perdiamo la speranza, non rinunciamo all’arte e non dimentichiamo le parole della Creazione. La natura non è innaturale. Questo non è un assestamento dell’equilibrio, bensì una perturbazione. C’è una sola specie di esseri che può farlo.

— Un uomo? — chiese incerto Arren.

— Noi uomini.

— In che modo?

— Con uno smisurato desiderio di vita.

— Di vita? Ma cosa c’è di male nel desiderio di vivere?

— Nulla. Ma quando aspiriamo al potere sulla vita, a ricchezze infinite, sicurezza inattaccabile, immortalità… allora il desiderio diventa avidità. E se la conoscenza si allea alla cupidigia, sopravviene il male. Allora l’equilibrio del mondo è turbato, e la rovina piomba sui piatti della bilancia.

Arren rifletté per qualche istante, e poi chiese: — Allora tu credi che sia un uomo, quello che cerchiamo?

— Un uomo e un mago. Sì.

— Ma avevo pensato, in base a quanto mi avevano insegnato mio padre e i miei maestri, che le grandi arti della magia dipendessero dall’Equilibrio delle cose e perciò non si potessero usare per scopi malefici.

— Questa — disse Sparviero, in tono piuttosto ironico, — è un’affermazione discutibile. Infinite sono le discussioni dei maghi… Ogni isola di Earthsea conosce streghe che gettano sortilegi immondi, incantatori che usano la loro arte per ottenere ricchezze. Ma c’è di più. Il Signore del Fuoco, che cercò di sconfiggere la tenebra e di arrestare il sole al meriggio, era un grande mago; perfino Erreth-Akbe avrebbe incontrato difficoltà a sconfiggerlo. Anche il Nemico di Morred era così. Dovunque andasse, intere città si prosternavano davanti a lui; per lui combattevano gli eserciti. L’incantesimo che intessé contro Morred era così potente che non fu possibile arrestarlo neppure quando lui venne ucciso e l’isola di Soléa fu sopraffatta dal mare e tutto ciò che vi si trovava perì. Quelli furono uomini in cui la grande forza e la grande sapienza servivano il male e se ne alimentavano. Non sappiamo se la magia al servizio del bene possa sempre rivelarsi più forte. Ci limitiamo a sperarlo.

È piuttosto avvilente trovare la speranza quando ci si attende la certezza. Arren non era disposto a rimanere a lungo su quelle vette gelide. Dopo un po’ disse: — Capisco perché tu affermi che solo gli uomini operano il male. Perfino gli squali sono innocenti: uccidono perché devono farlo.

— È per questo che null’altro può resisterci. Una sola cosa al mondo può opporsi a un uomo dal cuore malvagio: ed è un altro uomo. Nella nostra vergogna sta la nostra gloria. Solo il nostro spirito, che è capace di creare il male, è capace di sconfiggerlo.

— Ma i draghi — disse Arren, — non operano grandi mali. Anche loro sono innocenti?

— I draghi! I draghi sono avidi, insaziabili, infidi, spietati, privi di scrupoli. Ma sono malvagi? Chi sono, io, per poter giudicare le azioni dei draghi?… Sono più sapienti degli uomini. In un certo senso sono come i sogni, Arren. Noi uomini facciamo sogni, operiamo la magia, compiamo il bene, compiamo il male. I draghi non sognano. Sono sogni loro stessi. Non operano la magia: è la loro sostanza, la loro essenza. I draghi non fanno: sono.

— A Serilune — disse Arren, — c’è la pelle di Bar Oth, ucciso da Keor, principe di Enlad, trecento anni orsono. Da quel giorno, nessun drago si è più avventurato fino a Enlad. Ho visto la pelle di Bar Oth. È pesante come ferro, e così grande che, spiegata, coprirebbe l’intera piazza del mercato di Serilune, a quanto dicono. I denti sono lunghi quanto il mio avambraccio. Eppure dicono che Bar Oth era un drago giovane e non aveva ancora finito di crescere.

— Tu desideri vedere i draghi.

— Sì.

— Hanno il sangue freddo e velenoso. Non devi guardarli negli occhi. Sono più antichi dell’umanità… — Sparviero rimase in silenzio per lunghi istanti, e poi proseguì: — E anche se giungessi a dimenticare tutto ciò che ho fatto, o a pentirmene, ricorderei comunque che una volta ho visto i draghi in volo nel vento, al tramonto, sopra le isole occidentali, e ne sarei contento.

Tacquero, e non ci fu altro suono che il mormorio dell’acqua contro la chiglia della barca; e non c’era luce. E così finalmente, là sulle acque profonde, dormirono.


Nella luminosa foschia del mattino entrarono in Porto Hort, dove cento imbarcazioni stavano ammarrate o si accingevano a partire: pescherecci, barche per la raccolta dei granchi o la pesca a strascico, mercantili, due galee a venti remi, una grande galea a sessanta remi in pessime condizioni, e alcune agili e lunghe navi dalle alte vele triangolari, ideate per cogliere il vento nelle afose bonacce dello Stretto Meridionale: — Quella è una nave da guerra? — chiese Arren mentre incrociavano una delle galee a venti remi, e il suo compagno rispose: — Una nave di mercanti di schiavi, a giudicare dalle catene nella stiva. Vendono uomini nello Stretto Meridionale.

Arren rifletté un attimo, poi andò alla cassa degli attrezzi e ne estrasse la spada, che la mattina della partenza aveva riposto dopo averla avviluppata con cura. La scoprì; poi rimase indeciso, con la lama inguainata nelle mani e la cintura penzoloni.

— Non è una spada da mercante — disse. — Il fodero è troppo lussuoso.

Sparviero, occupato a governare il timone, gli lanciò un’occhiata. — Portala, se vuoi.

— Pensavo che fosse più saggio.

— Anche quella spada è saggia — disse l’arcimago, con gli occhi fissi sui varchi che si aprivano nella baia affollata. — Non è forse vero che non ama essere usata?

Arren annuì. — Così dicono. Eppure ha ucciso. Ha ucciso uomini. — Abbassò lo sguardo sull’elsa sottile e un po’ consunta. — Ma io no. Mi fa sentire molto sciocco. È troppo più vecchia di me… Prenderò il mio coltello — concluse. Avvolse di nuovo la spada e la ripose nella cassa. Aveva un’espressione perplessa e irata. Sparviero non disse nulla, per qualche istante, poi chiese: — Adesso vuoi prendere i remi, ragazzo? Siamo diretti verso il pontile, là vicino alla scala.

Città Hort, uno dei sette grandi porti dell’arcipelago, saliva dai moli rumorosi su per le pendici di tre ripide colline, in un groviglio di colori. Le case erano d’argilla e intonacate di rosso, arancione, giallo e bianco; i tetti erano di tegole purpuree; gli alberi di pendick in fiore formavano masse rossoscure lungo le strade più alte. Tendoni a strisce vivaci si stendevano da un tetto all’altro, ombreggiando le strette piazze del mercato. I moli erano illuminati dal sole; le vie che si allontanavano dal porto erano fenditure buie, piene di ombre e di gente e di chiasso.

Quando ebbero ammarrato la barca, Sparviero si chinò a fianco di Arren, come per controllare il nodo, e disse: — Arren, a Wathort c’è gente che mi conosce piuttosto bene; perciò guardami, in modo da potermi riconoscere. — Quando si raddrizzò, la sua guancia non era più sfigurata dalla cicatrice. Aveva i capelli grigi, il naso grosso e piuttosto rincagnato; e invece di un bastone di tasso alto quanto lui, portava una bacchetta d’avorio, che nascose dentro la camicia. — Mi riconosci? — chiese ad Arren con un ampio sorriso, parlando con l’accento di Enlad. — Avevi mai visto tuo zio così?

Arren aveva visto molti incantatori, alla corte di Berila, mutare volto quando mimavano le Gesta di Morred, e sapeva che era soltanto illusione; non perse la calma e riuscì a rispondere: — Oh, sì, zio Falco!

Ma mentre il mago contrattava con un guardiano del porto la tariffa per l’attracco e la custodia della barca, Arren continuava a guardarlo per essere sicuro di riconoscerlo. E mentre lo guardava, la metamorfosi lo turbava di più, non di meno. Era troppo completa: quello non era l’arcimago, non era un capo, una saggia guida… La tariffa pretesa dal guardiano era alta, e Sparviero pagò borbottando e si allontanò con Arren continuando a borbottare. — Una dura prova per la mia pazienza — disse. — Pagare quel ladro per custodire la mia barca quando mezzo incantesimo avrebbe fatto molto meglio! Bene, questo è il prezzo del travestimento… E ho dimenticato il dovuto linguaggio, non è vero, nipote?

Stavano camminando per un’affollata via colorata e puzzolente, fiancheggiata da botteghe poco più grandi di chioschetti; i proprietari stavano sulle soglie tra mucchi e festoni di mercanzie, proclamando a gran voce la bellezza e la convenienza di pentole, calze, cappelli, badili, spilloni, borse, bricchi, canestri, attizzatoi, coltelli, corde, catenacci, lenzuola, e ogni altro tipo di merce.

— È una fiera?

— Eh? — chiese l’uomo dal naso rincagnato, piegando la grigia testa.

— È una fiera, zio?

— Una fiera? No, no. C’è mercato tutto l’anno, qui. Tieniti pure le focacce di pesce, padrona, ho già fatto colazione! — E Arren cercò di togliersi di torno un uomo con un vassoio carico di vasetti d’ottone che lo seguiva piagnucolando: — Compra, prova, bel padroncino, non ti deluderanno, un alito dolce come le rose di Numima, attirerà le donne, prova, giovane signore del mare, giovane principe…

Subito Sparviero si mise di mezzo fra Arren e il venditore ambulante, chiedendo: — Che amuleti sono?

— Non sono amuleti! — gemette l’uomo, arretrando. — Io non vendo amuleti, signore del mare! Soltanto sciroppi che addolciscono l’alito dopo le bevande e le racidi di hazia… soltanto sciroppi, grande principe! — Si rannicchiò sul lastricato, e il vassoio con i vasetti tintinnò, e alcuni dei minuscoli recipienti s’inclinarono facendo traboccare dall’orlo un po’ del contenuto: una sostanza viscosa, rosea o purpurea.

Sparviero gli voltò le spalle senza pronunciare una parola e proseguì insieme ad Arren. Ben presto la folla si diradò e le bottegucce divennero sempre più povere e squallide, simili a canili: si esibivano come mercanzie una manciata di chiodi storti, un pestello rotto, un vecchio pettine da cardatore. Quella miseria infastidiva Arren assai meno del resto; all’estremità più ricca della strada si era sentito soffocato e nauseato dalla pressione degli oggetti in vendita e dalle voci che gli gridavano di comprare. E l’abiezione del venditore ambulante l’aveva sconvolto. Pensò alle strade fresche e luminose della sua città nordica. A Berila, pensò, nessuno si sarebbe umiliato in quel modo davanti a uno straniero. — È un popolo immondo! — disse.

— Da questa parte, nipote — fu l’unica replica del suo compagno. Svoltarono in un vicolo tra alti muri rossi, senza finestre, che correva lungo il fianco della collina e passava attraverso un arco inghirlandato da striscioni putrefatti, per uscire di nuovo nel sole su una piazza in forte pendenza: un altro mercato, affollato di chioschi e baracchette e brulicante di gente e di mosche.

Intorno alla piazza c’erano uomini e donne in gran numero, seduti o sdraiati, immobili. Le bocche erano stranamente nerastre, come illividite da percosse, e intorno alle labbra le mosche sciamavano come grappoli di ribes secco.

— Quanti sono! — disse la voce di Sparviero, bassa e concitata come se anche lui fosse turbato da quello spettacolo; ma quando Arren lo guardò, vide solo la faccia ottusa e placida del gioviale mercante Falco, per nulla preoccupata.

— Cos’ha quella gente?

— Hazia. Acquieta e intorpidisce, e libera il corpo dalla mente. E la mente vaga, senza intralci. Ma quando ritorna al corpo, ha bisogno di altra hazia… e il bisogno cresce, e la vita si abbrevia, perché quella roba è veleno. Dapprima viene il tremito, e poi la paralisi, e infine sopravviene la morte.

Arren guardò una donna, seduta col dorso appoggiato a un muro caldo di sole: aveva levato la mano come per scacciare le mosche dalla faccia, ma quella mano compiva nell’aria un movimento circolare e sussultante come se lei l’avesse dimenticata e la muovesse solo per slancio della paralisi o del tremito dei muscoli. Il gesto era come un incantesimo svuotato da ogni intenzione, un sortilegio privo di significato.

Falco la stava guardando, impassibile. — Vieni via! — disse.

Attraversò la piazza del mercato, dirigendosi verso un chiosco ombreggiato da un telone. Strisce di luce solare colorate di verde, d’arancione, di limone, di cremisi e di celeste cadevano sulle stoffe e gli scialli e le cinture messi in mostra, e danzavano moltiplicandosi nei minuscoli specchi incastonati nell’alto copricapo impennacchiato della venditrice. Questa era grande e grossa e cantilenava con voce sonora: — Sete, rasi, tele, pellicce, feltri, lane, coperte di Gont, veli di Showl, sete di Lorbanery! Ehi, nordici, toglietevi quelle giubbe: non vedete che splende il sole? questo non vi sembra adatto a portare in dono a una ragazza della lontana Havnor? Guardate: seta del sud, fine come l’ala di una libellula! — Aveva spiegato con mosse esperte una pezza di seta trasparente, rosea e tramata di fili d’argento.

— No, padrona, le nostre mogli non sono regine — disse Falco, e la voce della donna si levò in un barrito: — Allora di cosa vestite le vostre donne? Di tela da sacco o da vela? Avaracci che non volete comprare un po’ di seta per una povera donna gelata e tremante nelle eterni nevi del nord! Allora cosa ne dite di questo: uno scialle di Gont, per tenerla calda nelle notti d’inverno! — Gettò sul banco un grande quadrato bianco e bruno, intessuto del pelame argenteo delle capre delle isole nordorientali. Il finto mercante tese la mano per tastarlo, e sorrise.

— Sei davvero di Gont? — disse la voce squillante: e lo scialle, ondeggiando, lanciò mille punti colorati in un turbinio, sul tendone e sulle stoffe.

— Questo è un lavoro di Andrad, vedi? Ci sono soltanto quattro fili di trama sull’ampiezza di un dito. A Gont ne mettono sei o più. Ma spiegami perché hai abbandonato la magia per metterti a vendere cianfrusaglie. Quando sono venuto qui, anni orsono, ti ho vista estrarre fiamme dagli orecchi degli uomini, e poi trasformare quelle fiamme in uccelli e campanellini dorati: ed era un mestiere certamente migliore di questo.

— Non era un mestiere — ribatté il donnone; e per un momento Arren sentì i suoi occhi, duri e freddi come agate, che fissavano lui e Falco tra l’irrequieto brillio delle piume ondeggianti e degli specchietti.

— Era molto grazioso, quel trucco: estrarre il fuoco dagli orecchi — proseguì Falco, in tono triste ma sincero. — Speravo di poterlo mostrare a mio nipote.

— Be’, vedi — disse la donna, in tono meno aspro, appoggiando sul banco le grosse braccia brune e l’ingombrante seno. — Sono trucchi che non facciamo più. La gente non vuole saperne. Ha capito come facciamo. Questi specchi… ecco, vedo che ti ricordi dei miei specchi. — Scosse la testa, e i punti riflessi di luce colorata turbinarono intorno a loro, vertiginosamente. — Bene, si può stordire un uomo col lampeggiare degli specchietti e con le parole e altri trucchi che non ti spiegherò, finché quello crede di vedere ciò che non vede, cose che non ci sono. Come le fiamme e i campanellini d’oro, o le vesti con cui bardavo i marinai, tessuto d’oro con diamanti grossi come albicocche, e quelli se ne andavano pavoneggiandosi come il Re di Tutte le Isole… Ma erano soltanto trucchi. È facile ingannare gli uomini. Sono come i polli affascinati da un serpente, o da un dito tenuto fisso davanti a loro. Gli uomini sono come polli. Ma alla fine capiscono di essere stati raggirati e ingannati: allora si arrabbiano, e non trovano più piacere in queste cose. Perciò mi sono data a questo commercio, e forse non tutte le sete sono sete e non tutte le lane sono di Gont, ma ad ogni modo si consumeranno: si consumeranno! Sono vere, non menzogne e aria come gli abiti di stoffa d’oro.

— Bene, bene — replicò Falco, — allora in tutta Città Hort non è rimasto nessuno che tragga fiamme dagli orecchi o compia magie come facevano un tempo?

A queste ultime parole, la donna aggrottò la fronte; poi si raddrizzò e incominciò a ripiegare con cura la coperta. — Quelli che vogliono menzogne e visioni masticano hazia — disse. — Va’ a parlare con loro, se vui! — e indicò con un cenno del capo le figure immobili tutt’intorno alla piazza.

— Ma c’erano i maghi, quelli che incantavano i venti per i marinai e gettavano sortilegi della buona fortuna sui loro carichi. Anche loro si sono dati ad altri mestieri?

Ma la donna, in preda a una furia improvvisa, si mise a barrire più forte di Falco. — C’è un incantatore, se è quello che cerchi: un grande mago col bastone e tutto il resto. Lo vedi, laggiù? Ha navigato con Egre, creando i venti e scoprendo ricche galee, così dice lui; ma erano tutte menzogne, e alla fine il capitano Egre l’ha ricompensato come meritava: gli ha mozzato la mano destra. E adesso se ne sta là, come vedi, con la bocca piena di hazia e il ventre pieno d’aria. Aria e menzogne! Aria e menzogne! Non c’è nient’altro nella sua magia, capitan Caprone!

— Bene, bene, padrona — disse Falco, con insistente mitezza. — Volevo solo sapere. — Lei gli voltò l’ampia schiena in un grande vortice di specchietti abbaglianti, e Falco si allontanò con Arren al fianco.

Ma quella sua camminata aveva uno scopo preciso: li portò nei pressi dell’uomo indicato dalla mercantessa. Sedeva appoggiato a un muro, e guardava nel vuoto: il volto scuro e barbuto era stato molto bello, un tempo. Il raggrinzito moncherino del polso giaceva sulle pietre del lastricato, nella calda luce del sole: una vista orribile.

Ci fu un certo movimento tra i chioschetti, dietro di loro, ma Arren non riuscì a distogliere gli occhi da quell’uomo: era prigioniero di un fascino inorridito. — Era davvero un mago? — domandò, a voce molto bassa.

— Forse è quello che veniva chiamato Lepre e che dominava il maltempo per conto del pirata Egre. Erano predoni famosi… Scostati! — Per poco un uomo che veniva correndo a precipizio dai chioschetti non li investì entrambi. Un altro arrivò al trotto, curvo sotto il peso di un grande banchetto pieghevole carico di galloni e di pizzi. Un baracchino cadde con uno schianto rumoroso; i tendoni venivano spinti da parte o smontati in tutta fretta; gruppi di persone si spingevano o lottavano attraverso la piazza del mercato, le voci si levavano in grida e urla. Più forte di tutto echeggiava il barrito della donna dal copricapo di specchietti. Arren l’intravide mentre brandiva una specie di bastone o di pertica contro un gruppo di uomini, scacciandoli a grandi fendenti, come uno schermitore. Era impossibile capire se si trattava di una rissa generalizzata o dell’assalto di una banda di ladri o di una zuffa tra due fazioni rivali di venditori ambulanti. Molti passavano di corsa, con le braccia cariche di merci che potevano essere bottino oppure la loro legittima proprietà salvata dai saccheggiatori. C’erano lotte a coltellate e a pugni, e risse in tutta la piazza. — Da quella parte — disse Arren, indicando una strada secondaria lì vicino. Si avviò in quella direzione, poiché era evidente che dovevano andarsene al più presto; ma il suo compagno l’afferrò per il braccio. Si voltò indietro e vide che l’uomo chiamato Lepre si stava alzando faticosamente. Quando fu in piedi, barcollò per un istante e poi, senza guardarsi intorno, s’incamminò al limitare della piazza, sfiorando con l’unica mano i muri delle case come per guidarsi o sostenersi. — Non perderlo di vista — disse Sparviero, e presero a seguirlo. Nessuno li molestò, né loro due né l’uomo che pedinavano; e in pochi istanti lasciarono la piazza del mercato e iniziarono a scendere la collina nel silenzio di una viuzza tortuosa.

In alto, le soffitte delle case quasi s’incontravano, bloccando la luce; i ciottoli del selciato erano viscidi per l’acqua e i rifiuti. Lepre procedeva a passo svelto, sebbene continuasse a strascicare la mano lungo i muri come un cieco. Dovevano stargli molto vicino, per non perderlo di vista a un crocicchio. All’improvviso, Arren si sentì invadere dall’eccitazione della caccia: tutti i suoi sensi erano all’erta, come durante una caccia al cervo nelle foreste di Enlad: vedeva nitidamente ogni faccia che incontrava, e aspirava il lezzo dolciastro della città, un odore misto di spazzatura, d’incenso, di carogne e di fiori. Mentre attraversavano un’ampia strada affollata, udì rullare un tamburo e vide una fila di donne e di uomini nudi, incatenati l’uno all’altro ai polsi e alla cintura, con i capelli arruffati che ricadevano sui volti: solo un’occhiata e poi scomparvero, mentre lui seguiva Lepre giù per una scalinata e in una stretta piazza, dove c’erano soltanto alcune donne che spettegolavano accanto alla fontana.

Sparviero raggiunse Lepre e gli posò una mano sulla spalla; e Lepre si scostò, come se l’avesse scottato, si ritrasse rabbrividendo e arretrò entro un portone massiccio. Poi si fermò, tremando, e li guardò con gli occhi ciechi di un animale braccato.

— Sei tu, l’uomo che chiamano Lepre? — chiese Sparviero; parlava con la sua vera voce, che era aspra ma aveva un’intonazione gentile. L’uomo non disse nulla: sembrava che non ascoltasse. — Voglio qualcosa da te — proseguì Sparviero. Neppure questa volta ottenne una risposta. — Sono disposto a pagare.

Una lenta reazione: — Avorio o oro?

— Oro.

— Quanto?

— Il mago conosce il valore dell’incantesimo.

La faccia di Lepre fremette e cambiò: si animò per un istante, così fuggevolmente che parve illuminarsi di un guizzo, e poi si rannuvolò di nuovo nell’apatia. — È tutto finito — disse. — Tutto finito. — Un attacco di tosse lo fece piegare su se stesso; sputò saliva nera. Quando si raddrizzò rimase passivo, tremante, come se avesse dimenticato ciò di cui stavano parlando.

Ancora una volta Arren lo scrutò, affascinato. L’angolo in cui si era incuneato era formato da due statue gigantesche che fiancheggiavano un portone, telamoni col collo piegato sotto il peso dell’architrave, col corpo muscoloso che emergeva solo in parte dal muro, come se avessero tentato di liberarsi dalla pietra per prendere vita e avessero fallito a metà del tentativo. La porta che sorvegliavano era imputridita sui cardini; l’edificio, che un tempo era stato un palazzo, era semidiroccato. Le facce, tetre e gonfie, erano scheggiate e incrostate di licheni. In mezzo a quelle figure poderose l’uomo chiamato Lepre stava inerte e fragile, con gli occhi bui come le finestre di una casa abbandonata. Alzò il braccio mutilato, parandolo tra sé e Sparviero, e piagnucolò: — Padrone, fa’ la carità a un povero invalido…

Il mago fece una smorfia di sofferenza o di vergogna; Arren intuì che l’uomo aveva intravisto il suo vero volto per un attimo, nonostante il camuffamento. Sparviero posò di nuovo la mano sulla spalla di Lepre e disse alcune parole, sottovoce, nella lingua dei maghi che Arren non comprendeva.

Ma Lepre comprese. Si aggrappò a Sparviero con l’unica mano e balbettò: — Tu puoi ancora parlare… parlare… Vieni con me, vieni…

Il mago rivolse una rapida occhiata ad Arren, poi annuì.

Scesero per le ripide viuzze in una delle valli, al di là dei tre colli di Città Hort. Le strade divennero più strette e buie e silenziose, via via che scendevano. Il cielo era una striscia pallida tra le gronde sporgenti, e i muri delle case che le fiancheggiavano erano umidi. In fondo alla gola scorreva un fiumiciattolo che puzzava come una fogna scoperta; tra le arcate dei ponti, le case si affollavano lungo le rive. Lepre svoltò nel buio androne di una di quelle case, e svanì come la fiamma di una candela. Lo seguirono.

Le scale, prive d’illuminazione, scricchiolavano e cedevano sotto i loro piedi. Arrivato in cima, Lepre spalancò una porta, e allora poterono vedere dov’erano: una stanza vuota, con un pagliericcio in un angolo e una finestra senza vetri dalle cui imposte filtrava un po’ di luce polverosa.

Lepre si girò verso Sparviero e gli afferrò di nuovo il braccio. Mosse le labbra. Infine disse, balbettando: — Drago… drago…

Sparviero ricambiò con fermezza il suo sguardo, senza dir nulla.

— Non posso parlare — aggiunse Lepre; lasciò il braccio di Sparviero e si accovacciò sul nudo pavimento, piangendo.

Il mago s’inginocchiò accanto a lui e gli parlò sottovoce nella Vecchia Lingua. Arren era rimasto in piedi accanto alla porta chiusa, con la mano sull’impugnatura del coltello. La luce grigia e la stanza polverosa, quelle due figure inginocchiate, lo strano suono sommesso della voce del mago che parlava nella lingua dei draghi: tutto si fondeva come in un sogno che non ha rapporti con quanto accade nella realtà e col trascorrere del tempo.

Lentamente, Lepre si rialzò. Si spolverò le ginocchia con l’unica mano, e nascose dietro la schiena il braccio mutilato. Si guardò intorno, guardò Arren: adesso i suoi occhi vedevano. Quasi subito distolse lo sguardo e si sedette sul pagliericcio. Arren rimase in piedi, di guardia; invece Sparviero, con la semplicità di coloro che hanno vissuto l’infanzia in una casa priva di mobili, si sedette a gambe incrociate sul nudo pavimento. — Dimmi come hai perso la tua arte e il linguaggio della tua arte.

Per lunghi istanti, Lepre non gli rispose. Cominciò a battersi il braccio mutilato sulla coscia, con un movimento inquieto e convulso, e infine disse, a raffiche di parole: — Mi hanno tagliato la mano. Non posso intessere incantesimi. Mi hanno tagliato la mano. Il sangue è sgorgato, si è coagulato.

— Ma questo è avvenuto dopo che avevi perso il potere, altrimenti non avrebbero potuto farlo.

— Il potere…

— Il potere sui venti e sulle onde e sugli uomini. Tu li chiamavi con i loro nomi e loro ti ubbidivano.

— Sì, ricordo che ero vivo — replicò Lepre, con voce bassa e rauca. — E conoscevo le parole e i nomi.

— E ora sei morto?

— No. Vivo. Vivo. Ma un tempo ero un drago… Non sono morto. Talvolta dormo. Il sonno è molto simile alla morte, tutti lo sanno. I morti camminano nei sogni, tutti lo sanno. Vengono da te vivi, e ti dicono tante cose. Escono dalla morte, nei sogni. C’è un modo. E se ti spingi abbastanza lontano, c’è sempre una via per ritornare. Puoi trovarla, se sai dove cercare. E se sei disposto a pagarne il prezzo.

— Qual è il prezzo? — La voce di Sparviero fluttuò nell’aria semibuia come l’ombra di una foglia cadente.

— La vita… Cos’altro, se no? Con cosa puoi comprare la vita, se non con la vita? — Lepre si dondolava avanti e indietro sul pagliericcio, con uno strano brillio astuto negli occhi. — Vedi — disse, — loro possono tagliarmi la mano. Possono tagliarmi la testa. Non ha importanza. Io so trovare la via del ritorno. So dove cercare. Là possono andare solo gli uomini del potere.

— I maghi, vuoi dire?

— Sì. — Lepre esitò: sembrò che tentasse di pronunciare la parola ma non ci riuscisse. — Uomini del potere — ripeté. — E devono… e devono rinunciare. Pagare.

Poi ammutolì, incupendosi, come se la parola «pagare» avesse finalmente suscitato in lui un’associazione di idee e si fosse accorto che stava regalando informazioni invece di venderle. Non sarebbe stato possibile ottenere altro da lui, neppure i balbettii e gli accenni alla «strada del ritorno», che Sparviero sembrava giudicare significativi; e poco dopo, il mago si alzò. — Ebbene, una mezza risposta non è migliore di una risposta completa — disse. — E lo stesso vale per il pagamento. — Con la sveltezza di un prestigiatore, gettò un pezzo d’oro sul pagliericcio, davanti a Lepre.

Lepre lo prese. Guardò l’oro, e Sparviero, e Arren, muovendo la testa a scatti. — Aspetta — balbettò. Appena la situazione cambiava, ne perdeva il controllo; e adesso brancolava disperato, alla ricerca di quanto avrebbe voluto dire. — Aspetta. Questa notte. Ho l’hazia.

— Non ne ho bisogno.

— Per mostrarti… Per mostrarti la via. Stanotte. Ti condurrò io. Te la mostrerò. Tu puoi arrivarci, perché tu… perché tu sei… — Cercò a tentoni la parola, finché Sparviero disse: — Io sono un mago.

— Sì! Quindi possiamo… possiamo giungervi. Alla via. Quando sogno. Nel sogno. Capisci? Ti condurrò io. Verrai con me, alla… alla via.

Sparviero stava immobile, pensieroso, al centro della stanza. — Forse — replicò infine. — Se verremo, saremo qui all’imbrunire. — Poi si girò verso Arren il quale si affrettò ad aprire la porta, impaziente di andarsene.

La strada umida e ombrosa sembrava luminosa come un giardino, dopo la stanza di Lepre. S’incamminarono verso la parte più alta della città, lungo la via più breve, una ripida scalinata di pietra fra muri grondanti di edera. Arren aspirava ed espirava come un leone marino. — Uff!… Hai intenzione di ritornarci?

— Sì, se non riuscirò a ottenere le stesse informazioni da una fonte meno pericolosa. Molto probabilmente, quello ci tenderà un’imboscata.

— Ma tu non sei protetto contro i predoni e così via?

— Protetto? Cosa intendi dire? Credi che io me ne vada in giro avviluppato in incantesimi come una vecchia timorosa dei reumatismi? Non ne ho il tempo. Nascondo la faccia per tener celata la nostra ricerca: ecco tutto. Possiamo difenderci a vicenda. Ma in verità, durante questo viaggio non potremo tenerci fuori dai pericoli.

— È naturale — disse Arren, irrigidendosi, irritato, offeso nel suo orgoglio. — Non è questo, che io cerco di fare.

— Tanto meglio — replicò il mago, inflessibile, e tuttavia con un certo buonumore che placò l’irritazione di Arren. In realtà, il ragazzo era stupito della propria collera: non aveva mai pensato di parlare in quel tono all’arcimago. Ma del resto, quello era l’arcimago e non lo era, quel Falco dal naso rincagnato e dalle guance squadrate e mal rasate, e dalla voce che talora era quella di uno e talvolta di un altro: un estraneo, di nessun affidamento.

— Ha un significato, quello che lui ti ha detto? — gli chiese, perché non era entusiasta della prospettiva di ritornare in quella stanza semibuia, affacciata sul fiume maleodorante. — Tutte quelle storie, essere vivo e essere morto, e ritornare anche con la testa tagliata?

— Non so se ha un significato. Volevo parlare con un mago che avesse perso il suo potere. Lui ha detto che non l’ha perso ma l’ha dato… in cambio di qualcosa. Di cosa? Vita per vita, ha detto. Potere per potere. No, non lo comprendo; tuttavia, vale la pena di ascoltarlo.

La ferma ragionevolezza di Sparviero acuì ancora di più la vergogna di Arren. Sentiva di essere petulante e nervoso come un bambino. Lepre l’aveva affascinato; ma adesso che l’incantesimo era rotto provava nausea e disgusto, come se avesse mangiato qualcosa di ripugnante. Decise di non parlare più, fino a quando avesse riacquistato l’autocontrollo. Un attimo dopo, mise un piede in fallo sugli scalini consunti e viscidi, scivoltò, e recuperò l’equilibrio graffiandosi le mani sulle pietre. — Oh, maledetta questa sudicia città! — proruppe, rabbiosamente. E il mago replicò, in tono asciutto: — Non è necessario maledirla, credo.

C’era davvero qualcosa di strano e fuori posto, nella città di Hort e nell’aria stessa; e si poteva credere veramente che fosse oppressa da una maledizione: eppure non si trattava di una presenza ma piuttosto di un’assenza, di un indebolimento di tutte le qualità, come un morbo che contagiasse ben presto lo spirito di ogni visitatore. Perfino il calore del sole pomeridiano era malsano: un caldo troppo pesante per il mese di marzo. Le piazze e le strade brulicavano di attività e di movimento, ma non c’erano né ordine né prosperità. Le merci erano scadenti, i prezzi alti, e i mercati erano malsicuri per i venditori e gli acquirenti, pieni di ladri e di bande vaganti. Non c’erano molte donne per le vie, e quelle poche uscivano quasi sempre in gruppi. Era una città senza legge, senza governo. Parlando con la gente, Arren e Sparviero scoprirono infatti che a Città Hort non c’era più un consiglio, un sindaco o un signore. Alcuni di coloro che un tempo governavano la città erano morti, e altri si erano dimessi, e altri ancora erano stati assassinati; vari capi signoreggiavano sui diversi quartieri, le guardie dominavano il porto e s’impinguavano le tasche, e via discorrendo.

La città non aveva più un centro. La gente, nonostante la sua attività irrequieta, sembrava priva di scopo. Gli artigiani, a quanto pareva, non avevano voglia di lavorare bene; perfino i ladri rubavano soltanto perché era l’unica cosa che sapevano fare. C’era tutta la chiassosa vivacità di una grande città portuale, in superficie, ma intorno stavano seduti immobili i mangiatori di hazia. E sotto la superficie, le cose non sembravano interamente reali: neppure i volti, i suoni, gli odori. Sbiadivano, di tanto in tanto, in quel lungo pomeriggio caldo, mentre Sparviero e Arren camminavano per le vie e parlavano con questo e con quello. Si dissolvevano rapidamente. I tendoni a strisce, i ciottoli sporchi, i muri colorati e tutta la vividezza dell’esistenza sparivano, lasciando la città mutata in una città di sogno, svuotata e squallida nella luce nebbiosa del sole.

Solo nella parte più alta, dove si recarono a riposare un poco nel tardo pomeriggio, quella malsana atmosfera di fantasticheria s’interruppe per qualche tempo. «Non è una città fortunata», aveva detto Sparviero qualche ora prima; e adesso, dopo ore di vagabondaggi senza meta e inutili conversazioni con numerosi sconosciuti, appariva stanco e tetro. Il camuffamento si andava attenuando un poco: una certa durezza si lasciava scorgere attraverso il volto burbero del mercante. Arren non era riuscito a liberarsi dall’irritazione di quel mattino. Si sedettero sull’erba ruvida, in cima alla collina, sotto le fronde di un boschetto di alberi di pendick, con le foglie scure e tempestate di boccioli rossi, alcuni già aperti. Da lassù non vedevano nulla della città, tranne i tetti di tegole che digradavano verso il mare. La baia spalancava le braccia, azzurra come l’ardesia sotto la foschia primaverile, e si protendeva fino all’orizzonte. Non c’erano linee nette di demarcazione. Rimasero a guardare quell’immenso spazio azzurro. La mente di Arren si schiarì, si schiuse per accogliere e celebrare il mondo.

Quando andarono a bere a un ruscelletto vicino che scorreva limpido sulle pietre brune, sgorgando dalla sorgente nascosta in qualche giardino principesco sulla collina alle loro spalle, bevve profondamente e immerse la testa nell’acqua fredda. Poi si alzò e declamò due versi delle Gesta di Morred:


Sono lodate le Fontane di Shelieth, l’arpa argentina delle acque,

Ma benedetto per sempre nel mio nome questo ruscello che ha placato la mia sete!


Sparviero rise, ascoltandolo, e anche Arren rise. Scrollò la testa come un cane, e gli spruzzi finissimi volarono nell’ultima aurea luce del sole.

Dovettero lasciare il boschetto e ridiscendere nelle strade; e quando ebbero cenato in un chiosco che vendeva untuose focacce di pesce, la notte scese pesante nell’aria. L’oscurità calò rapida nelle strette vie. — Sarà bene che andiamo, ragazzo — disse Sparviero, e Arren chiese: — Alla barca? — Ma sapeva che non sarebbero andati alla barca bensì alla casa sul fiume, alla stanza vuota e polverosa e terribile.

Lepre li stava aspettando sul portone.

Accese una lampada a olio per illuminare la buia scala. La minuscola fiamma tremolava senza sosta mentre lui la reggeva, e gettava sui muri ombre enormi e fuggevoli.

Lepre si era procurato un altro sacco di paglia per far sedere gli ospiti, ma Arren andò a sistemarsi sul pavimento nudo, accanto alla porta. L’uscio si apriva verso l’interno, e per sorvegliarlo avrebbe dovuto sedersi all’esterno; ma quel corridoio nero come la pece gli era insopportabile, e voleva tener d’occhio Lepre. L’attenzione di Sparviero, e forse anche i suoi poteri, si sarebbero concentrati su ciò che Lepre gli avrebbe detto o mostrato: toccava a lui, Arren, stare in guardia contro un eventuale tradimento.

Lepre stava più eretto, e tremava meno del solito; si era ripulito la bocca e i denti; e all’inizio parlò con lucidità, sebbene in tono eccitato. Nella luce della lampada i suoi occhi erano così scuri che la sclerotica non si vedeva, come negli occhi degli animali. Discusse concitatamente con Sparviero, esortandolo a mangiare l’hazia. — Voglio condurti con me. Dobbiamo percorrere la stessa strada. Tra poco io andrò, che tu sia pronto o no. Devi prendere l’hazia, per seguirmi.

— Credo di poterti seguire.

— Non dove andrò io. Questo non è… un incantesimo. — Sembrava incapace di pronunciare le parole «mago» e «magia». — Io so che tu puoi giungere nel… nel luogo: lo sai, al muro. Ma non è là. È una strada diversa.

— Se tu andrai, potrò seguirti.

Lepre scosse la testa. Il bel volto devastato era soffuso di rossore; spesso girava gli occhi per guardare Arren, includendo anche lui sebbene parlasse soltanto a Sparviero. — Ascolta: ci sono due specie di uomini, no? La nostra specie, e gli altri. I… i draghi e gli altri. Gli umani senza potere sono vivi soltanto a metà. Non contano. Non sanno cosa sognano; hanno paura dell’oscurità. Ma gli altri, i signori degli uomini, non hanno paura di addentrarsi nella tenebra. Noi abbiamo la forza.

— Purché conosciamo i nomi delle cose.

— Ma là i nomi non hanno importanza: è questo il punto, è questo il punto! Non si ha bisogno di quello che si fa, di quello che si sa. Gli incantesimi sono inutili. Si deve dimenticare tutto questo: si deve lasciar perdere. Mangiare hazia serve appunto a questo: si dimenticano i nomi, si lascia andare la forma delle cose, e si va dritto alla realtà. Tra poco io vi andrò: se vuoi scoprire dove vado, dovrai fare ciò che ti dico. Io dico ciò che lui dice. Per essere signori della vita si deve essere signori degli uomini. Si deve scoprire il segreto. Io potrei dirtene il nome, ma cos’è un nome? Un nome non è reale, non è la realtà eterna. I draghi non possono andarvi. I draghi muoiono. Tutti muoiono. Stanotte ne ho presa tanta, di hazia, che non potrai mai raggiungermi. Non c’è neppure una macchia, su di me. Dove mi smarrirò, tu potrai guidarmi. Ricordi qual è il segreto? Ricordi? Niente morte. Niente morte… no! Niente letto sudato, niente bara putrefatta, mai più, mai più. Il sangue si prosciuga come un fiume in secca, e scompare. Niente paura. Niente morte. I nomi svaniscono, e svaniscono anche le parole e la paura. Mostrami dove mi smarrisco: mostramelo, mio signore…

E continuò così, in una soffocata estasi di parole che era come il salmodiare di un incantesimo e che tuttavia non formava un incantesimo, un tutto unico, un senso. Arren ascoltava, ascoltava, sforzandosi di comprendere. Se almeno fosse riuscito a capire! Sparviero doveva fare ciò che l’altro diceva, e prendere la droga, per quella volta, per poter scoprire di cosa stava parlando Lepre, il mistero di cui non voleva o non poteva parlare. Perché erano venuti lì, altrimenti? Ma del resto (Arren distolse lo sguardo dal volto estatico di Lepre per fissare l’altro profilo), forse il mago aveva già compreso… Era duro come la roccia, quel profilo. Dov’erano il naso rincagnato e l’espressione blanda? Falco, il mercante, era scomparso, dimenticato. Lì stava il mago, l’arcimago.

La voce di Lepre era divenuta un borbottio ritmico; e il suo corpo oscillava, seduto a gambe incrociate. Il volto era scavato, la bocca socchiusa. Di fronte a lui, nella piccola luce ferma della lampada a olio posata sul pavimento, l’altro non parlava mai; ma aveva teso il braccio e aveva preso la mano di Lepre. Arren non l’aveva visto compiere quel gesto. C’erano lacune nell’ordine degli eventi, lacune d’inesistenza… Doveva essere torpore. Senza dubbio erano trascorse alcune ore: poteva essere quasi mezzanotte. Se si addormentava, sarebbe riuscito a seguire anche lui Lepre nel sogno e giungere a quel luogo, alla vita segreta? Forse sì. Adesso gli sembrava possibile. Ma doveva sorvegliare la porta. Lui e Sparviero non ne avevano quasi parlato; ma entrambi erano consapevoli che facendoli tornare di notte a casa sua Lepre poteva aver progettato un’imboscata: era stato un pirata, conosceva molti predoni. Non avevano detto nulla, ma Arren sapeva che doveva stare in guardia perché, mentre il mago compiva quello strano viaggio dello spirito, era indifeso. Ma, scioccamente, aveva lasciato la spada a bordo della barca; e a cosa sarebbe servito il suo coltello, se quella porta si fosse aperta improvvisamente dietro di lui? Ma questo non sarebbe accaduto: lui poteva ascoltare e udire. Lepre non parlava più. I due uomini tacevano; tutta la casa taceva. Nessuno poteva salire quelle scale malferme senza far rumore. Lui avrebbe potuto parlare, se avesse udito un suono; avrebbe gridato, e la trance si sarebbe spezzata, e Sparviero si sarebbe voltato e avrebbe difeso se stesso e lui con tutte le folgori vendicative della furia di un incantatore… Quando lui si era seduto sul pavimento, Sparviero l’aveva guardato: un’occhiata sola, di approvazione; approvazione e fiducia. Lui era la sentinella. Non ci sarebbero stati pericoli, se lui montava di guardia. Ma era difficile continuare a osservare quei due volti, con la minuscola perla della lampada che stava tra loro sul pavimento, adesso che entrambi tacevano e stavano immobili, con gli occhi aperti che non vedevano la luce né la stanza polverosa, non vedevano il mondo, bensì qualche altro mondo del sogno o della morte: osservarli e non cercare di seguirli…

Là, nell’immensa oscurità asciutta, c’era qualcuno che lo chiamava a cenni. Vieni, disse l’alto signore delle ombre. Nella mano reggeva una minuscola fiamma, non più grande di una perla: la protendeva verso di lui, offrendo la vita. Lentamente, Arren mosse un passo nella sua direzione, per seguirlo.

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