LO STRETTO DEI DRAGHI

Sulle acque esterne dello Stretto Occidentale, il signore dell’isola dei Saggi, svegliandosi intorpidito e rigido a bordo di una piccola barca in un freddo mattino luminoso, si levò a sedere e sbadigliò. E dopo un momento, tendendo il braccio verso nord, disse al compagno, che sbadigliava a sua volta: — Là! Quelle due isole, le vedi? Sono le isole più meridionali dello Stretto dei Draghi.

— Tu hai occhi d’aquila, mio signore — commentò Arren, scrutando il mare con gli occhi assonnati, senza scorgere nulla.

— Io sono lo Sparviero — disse il mago; era ancora gaio, e sembrava che scacciasse da sé ogni triste presentimento. — Non riesci a vederle?

— Vedo i gabbiani — rispose Arren dopo essersi stropicciato gli occhi, scrutando l’orizzonte azzurro-grigio davanti alla barca.

Il mago rise. — Neppure un falco potrebbe vedere i gabbiani a una distanza di venti miglia.

Quando il sole si ravvivò sopra le nebbie a oriente, i minuscoli punti volteggianti che Arren osservava parvero scintillare, come polvere d’oro scossa nell’acqua o particelle di polvere in un raggio di sole. E allora Arren si accorse che erano draghi.

Mentre la Vistacuta si avvicinava alle isole, Arren vide i draghi che volavano in cerchio e planavano sul vento mattutino, e il cuore gli balzò di gioia, la gioia dell’esaudimento che quasi sembrava sofferenza. Tutta la gloria della mortalità era nel loro volo. La loro bellezza era fatta di forza terribile, scatenata e selvaggia, e dell’eleganza della ragione. Perché erano creature pensanti, dotate di eloquio e di un’antica saggezza: nelle trame del loro volo c’era una fiera e voluta concordia.

Arren non disse nulla, ma pensò: non m’importa ciò che verrà poi; ho visto i draghi nel vento del mattino.

Talvolta le trame diventavano scomposte, e i cerchi si spezzavano, e spesso, nel volo, un drago eruttava dalle narici un lungo getto di fiamma che s’incurvava e restava librato nell’aria per un momento, ripetendo la curva e il fulgore del lungo corpo arcuato del drago. Nel vederlo, il mago disse: — Sono irati. Danzano sfogando la loro collera nel vento.

E poi disse: — Ormai siamo nel nido dei calabroni. — Perché i draghi avevano visto la piccola vela sulle onde, e prima uno e poi un altro si staccarono dal vortice della danza e discesero, protesi nell’aria, remigando con le grandi ali verso la barca.

Il mago guardò Arren, che stava seduto al timone poiché le onde erano agitate e contrarie. Il ragazzo lo teneva saldo con mano ferma, sebbene i suoi occhi seguissero il battito di quelle ali. Sparviero tornò a voltarsi, come se fosse soddisfatto, e lasciò che il vento magico abbandonasse la vela. Alzò il bastone e parlò a voce alta.

Al suono di quella voce, alle parole della vecchia Lingua, alcuni draghi volteggiarono in volo, disperdendosi, e ritornarono alle isole. Altri si fermarono e rimasero librati nell’aria, con gli artigli simili a spade protesi ma trattenuti. Uno, scendendo più basso sull’acqua, volò lentamente verso di loro: con due colpi d’ala giunse sopra la barca. Il ventre corazzato sfiorò la cima dell’albero. Arren vide la pelle rugosa e priva di squame tra la giuntura interna della spalla e il petto, che, insieme all’occhio, è l’unica parte vulnerabile del drago, a meno che la lancia che lo colpisce sia dotata di un incantesimo possente. Il fumo che usciva a volute dalla lunga bocca dentata lo soffocava; e insieme al fumo veniva un lezzo di carogna che lo fece rabbrividire e l’assalì provocando conati di vomito.

L’ombra passò. Ritornò, bassa come prima, e questa volta Arren sentì il rovente soffio di fornace dell’alito che precedeva il fumo. Udì la voce di Sparviero, chiara e intensa. Il drago passò oltre. Poi tutti si allontanarono, ritornando verso le isole come lapilli ardenti portati da una raffica di vento.

Arren trattenne il respiro e si terse la fronte, coperta di sudore freddo. Guardò il suo compagno, e vide che la chioma gli si era sbiancata: l’alito del drago aveva bruciato e increspato la punta dei capelli. E la pesante vela era strinata e brunita da un lato.

— Hai la testa un po’ bruciacchiata, ragazzo.

— Anche tu, mio signore.

Sparviero si passò la mano sui capelli, sorpreso. — È vero… È stata un’insolenza: ma non cerco un dissidio con questi esseri. Mi sembrano furiosi o frastornati. Non hanno parlato. Non ho mai incontrato un drago che non parlasse prima di attaccare, se non altro per tormentare la sua preda… Ora dobbiamo andare avanti. Non guardarli negli occhi: distogli la faccia, se è necessario. Procederemo col vento del mondo: soffia propizio da sud, e forse avrò bisogno della mia arte per altre cose. Reggi la barca.

La Vistacuta avanzò e ben presto ebbe sulla sinistra un’isola lontana, e sulla destra le isolette gemelle che avevano avvistato per prime. Queste si ergevano in basse scogliere, e tutta la roccia scabra era imbiancata dallo sterco dei draghi e dalle piccole sterne a testa nera che facevano il nido, intrepide, fra loro.

I draghi si erano innalzati in volo e volteggiavano negli strati superiori dell’aria, come avvoltoi. Nessuno ridiscese in picchiata verso la barca. Talvolta si scambiavano grida, alte e aspre attraverso gli abissi aerei, ma se c’erano parole in quelle grida, Arren non le distingueva.

La barca aggirò un piccolo promontorio, e il ragazzo vide sulla spiaggia qualcosa che per un momento gli sembrò una fortezza diroccata. Era un drago. Teneva un’ala nera ripiegata e l’altra protesa, immensa, sopra la sabbia e nell’acqua, così che il movimento delle onde l’agitava un poco, in una parodia del volo. Il lungo corpo serpentino era disteso sulla roccia e la sabbia. Era mutilato di una zampa anteriore, la corazza e la carne erano strappate dal grande arco delle costole, e il ventre era squarciato, e tutt’intorno per metri e metri la sabbia era annerita dal sangue velenoso. Tuttavia, l’essere era ancora vivo. La vita è così possente, nei draghi, che soltanto un potere magico equivalente può ucciderli in modo rapido. Gli occhi verde-oro erano aperti; e quando la barca passò oltre, l’enorme testa scarna si mosse un poco e un vapore misto a spruzzi di sangue eruttò dalle narici con un sibilo rumoroso.

La spiaggia, tra il drago morente e la battigia, era segnata dalle impronte delle zampe e dei pesanti corpi dei suoi simili, e le sue viscere calpestate erano affondate nella sabbia.

Arren e Sparviero non parlarono fino a quando furono lontani dall’isola, attraverso l’inquieto canale dello stretto dei Draghi, irto di scogli e guglie e sagome di roccia, verso le isole settentrionali di quella doppia catena. Allora Sparviero disse: — Era uno spettacolo atroce. — E la sua voce era dura e fredda.

— Si… divorano tra loro?

— No. Non più di quanto facciamo noi. Sono impazziti. Gli è stata sottratta la favella. Loro che parlavano prima degli uomini, che sono più vecchi di ogni creatura vivente, i Figli di Segoy… sono stati sospinti verso il muto terrore delle bestie. Ah, Kalessin! Dove ti hanno portato le tue ali? Sei vissuto per vedere disonorata la tua razza? — La sua voce echeggiava come ferro percosso; e guardava in alto, scrutando il cielo. Ma i draghi erano indietro, e ora volteggiavano più bassi, sopra le isole rocciose e la spiaggia macchiata di sangue, e lassù non c’era altro che il cielo azzurro e il sole meridiano.

Non c’era al mondo nessun vivente, eccettuato l’arcimago, che avesse navigato nello Stretto dei Draghi o l’avesse visto. Vent’anni prima, o più, l’aveva navigato interamente da est a ovest, e l’aveva ripercorso al ritorno. Era un incubo e una meraviglia, per un marinaio. L’acqua era un labirinto di canali azzurri e di bassi fondali verdi; e adesso, con la mano e con la parola e con cura vigile, Sparviero e Arren vi guidavano la barca, tra le scogliere e le rocce. Alcune erano basse, coperte o semicoperte dallo sciacquio delle onde, rivestite di anemoni e cirripedi e felci marine sottili come nastri: sembravano mostri acquatici sinuosi o rivestiti di un guscio. Altre si ergevano ripide dal mare, in pareti e guglie, e c’erano archi e semiarchi, torri scolpite, forme fantastiche di animali, dorsi di cinghiali e teste di serpenti, tutti enormi, deformati, indistinti, come se la vita fremesse semiconscia nella pietra. Le onde del mare vi battevano con un suono che pareva un respiro, e loro erano bagnate dall’amara spuma lucente. In una di quelle rocce, da sud, si scorgevano chiaramente le spalle incurvate e la testa nobile e pesante di un uomo, chino e pensieroso sopra il mare; ma quando la barca l’ebbe superata, guardandola da nord, l’aspetto umano era sparito, e le rocce massicce rivelavano una grotta in cui il mare entrava e usciva creando un tuono cavernoso e risonante. Sembrava che in quel suono ci fosse una parola, una sillaba. Mentre procedevano, gli echi si attutirono e la sillaba giunse più chiara; perciò Arren chiese: — C’è una voce, nella grotta?

— La voce del mare.

— Ma pronuncia una parola.

Sparviero ascoltò; guardò Arren e poi guardò di nuovo la grotta. — Come la intendi?

— Mi sembra il suono ahm.

— Nella Vecchia Lingua significa il principio, oppure tanto tempo fa. Ma io la sento come ohb, che è un modo per indicare la fine… Attento, là avanti! — esclamò di colpo, mentre anche Arren lanciava un avvertimento. — Fondali bassi! — E sebbene la Vistacuta scegliesse la strada come un gatto in mezzo ai pericoli, per qualche tempo furono occupati a governarla, e lentamente la grotta che tuonava incessante la sua parola enigmatica rimase indietro.

Le acque diventarono più profonde, e la barca uscì dalla fantasmagoria di rocce. Davanti a loro incombeva un’isola simile a una torre. Le sue pareti erano nere, formate da molti cilindri o giganteschi pilastri compressi insieme, con spigoli diritti e superfici piane, che s’innalzavano dall’acqua, a perpendicolo, per cento braccia.

— Quello è il Forte di Kalessin — disse il mago. — Così mi dissero i draghi, quando venni qui molto tempo fa.

— Chi è Kalessin?

— Il più vecchio…

— È stato lui a costruire questo luogo?

— Non lo so. Non so neppure se fu costruito. E non so quanto sia vecchio Kalessin. Uso il maschile per parlare di lui, ma non so neppure se è maschio o femmina… In confronto a Kalessin, Orm Embar è quasi un cucciolo. E io e te siamo come mosche di maggio. — Scrutò quelle palizzate tremende, e Arren alzò lo sguardo, inquieto, pensando che un drago poteva lanciarsi da quel lontano orlo nero e piombare su di loro quasi contemporaneamente alla sua ombra. Ma non apparve nessun drago. Passarono lentamente tra le acque immobili, sopravvento alla roccia, e non udirono altro che il fruscio e lo sciacquio delle onde in ombra contro le colonne di basalto. Lì l’acqua era profonda, senza scogli: Arren governava la barca, e Sparviero stava ritto a prua e osservava gli strapiombi e il cielo fulgido, più avanti.

La barca uscì finalmente dall’ombra del Forte di Kalessin alla luce solare del pomeriggio inoltrato. Avevano attraversato lo stretto dei Draghi. Il mago alzò la testa, come uno che vede finalmente quello che cerca; e attraverso quell’immenso spazio d’oro, davanti a loro, venne sulle auree ali il drago Orm Embar.

Arren udì Sparviero gridargli: Aro Kalessin? Intuì il significato della domanda, ma non riuscì a comprendere la risposta del drago. Eppure, quando ascoltava la Vecchia Lingua, aveva sempre la sensazione di essere sul punto di comprenderla: come se fosse un linguaggio che aveva dimenticato, non uno che non aveva mai conosciuto. Quando il mago lo parlava, la sua voce era assai più chiara di quando parlava hardese, e sembrava che creasse intorno a sé una specie di silenzio come fa il rintocco più sommesso di una grande campana. Ma la voce del drago era come un gong, profonda e fremente, o come il sibilante ritmo dei cembali.

Arren guardava il suo compagno ritto sulla sottile prua, intento a parlare con l’essere mostruoso librato sopra di lui, che riempiva metà del cielo: e una specie di orgoglio compiaciuto invase il suo cuore nel vedere quanto è piccolo e fragile e terribile un uomo. Perché il drago avrebbe potuto strappare la testa all’uomo con un sol colpo delle sue zampe unghiute, avrebbe potuto stritolare e affondare la barca come una pietra affonda una foglia galleggiante, se fossero state soltanto le dimensioni ad avere importanza. Ma Sparviero era pericoloso quanto Orm Embar, e il drago lo sapeva.

Il mago girò la testa. — Lebannen — disse; e il ragazzo si alzò e avanzò, sebbene non desiderasse avvicinarsi di un passo a quelle fauci lunghe cinque braccia, a quegli occhi lunghi, gialloverdi, dalle pupille verticali, che lo guardavano brucianti dall’aria.

Sparviero non gli disse nulla, ma gli posò una mano sulla spalla e parlò di nuovo al drago, brevemente.

— Lebannen — disse la voce immane, spassionata. — Agni Lebannen!

Arren alzò la testa: poi la pressione della mano del mago gli rammentò il monito, e lui evitò lo sguardo degli occhi verde-oro.

Non sapeva parlare la Vecchia Lingua, ma non era ammutolito. — Io ti saluto, Orm Embar, nobile drago — disse con voce chiara, come si conviene a un principe che ne incontra un altro.

Poi ci fu silenzio, e il cuore di Arren batté convulsamente, faticosamente. Ma Sparviero, ritto accanto a lui, sorrise.

Il drago riprese a parlare, e Sparviero rispose: ad Arren quel dialogo parve lungo. Alla fine terminò all’improvviso. Il drago s’innalzò con un colpo d’ala che per poco non rovesciò la barca, e si allontanò. Arren guardò il sole; e gli parve che non fosse più vicino al tramonto. Il dialogo, in realtà, non era stato lungo. Ma il volto del mago aveva il colore della cenere bagnata, e gli brillavano gli occhi, quando li voltò verso Arren. Si sedette.

— Ben fatto, ragazzo — disse con voce rauca. — Non è facile… parlare ai draghi.

Arren preparò un po’ di cibo, perché non avevano mangiato per tutto il giorno; e il mago non disse altro fino a quando ebbero mangiato e bevuto. Ormai il sole era basso sull’orizzonte, sebbene a quelle latitudini settentrionali, non molto tempo dopo la metà dell’estate, la notte giungesse tardi e lentamente.

— Bene — cominciò Sparviero, — Orm Embar, a modo suo, mi ha detto molto. Afferma che colui che cerchiamo è e non è su Selidor… È difficile, per un drago, parlare chiaramente. Non hanno una mentalità semplice. E anche quando uno di loro vuol dire la verità a un uomo (il che avviene di rado), non sa come appare all’uomo la verità. Perciò gli ho chiesto: «Così come tuo padre Orm è a Selidor?». Perché, come tu sai, è stato là che Orm e Erreth-Akbe morirono combattendo l’uno contro l’altro. E lui ha risposto: «No e sì. Lo troverai a Selidor, ma non a Selidor». — Sparviero s’interruppe e rifletté, masticando un tozzo di pane duro. — Forse intendeva dire che, sebbene l’uomo non sia a Selidor, è là che dobbiamo andare per raggiungerlo. Forse…

«Poi gli ho chiesto degli altri draghi. Ha detto che quest’uomo è andato tra loro, perché non li teme: anche se viene ucciso ritorna dalla morte vivo, nel suo corpo. Perciò hanno paura di lui, come di un essere al di fuori della natura. Il loro timore permette alla sua magia di dominarli; e lui toglie loro la Lingua della Creazione, lasciandoli preda della loro indole selvaggia. Perciò si divorano a vicenda, o si tolgono la vita buttandosi in mare… una morte odiosa per il serpente di fuoco, la belva del fuoco e del vento. Allora ho chiesto: "Dov’è il tuo signore, Kalessin?". E la sua unica risposta è stata: "È a occidente". E questo può significare che Kalessin è volato verso le altre terre, più lontano di quanto si siano mai spinte le navi, secondo i draghi; oppure può significare qualcosa di diverso.

«Allora non ho fatto altre domande, e lui ha formulato la sua, dicendo: "Ho sorvolato Kaltuel, tornando a nord, e le Toringate. A Kaltuel ho visto gli abitanti di un villaggio uccidere un neonato sulla pietra di un altare, e a Ingat ho visto un incantatore ucciso dai suoi compaesani a colpi di pietre. Ged, credi che divoreranno il bambino? L’incantatore tornerà dalla morte e scaglierà pietre contro i suoi compaesani?". Ho pensato che si burlasse di me, e stavo per rispondergli irosamente: ma non mi stava deridendo. Ha detto: "Le cose hanno perso ogni senso. C’è una breccia nel mondo, e il mare ne defluisce. La luce ne defluisce. Rimarremo nella terra arida. Non si parlerà più e non si morirà più". E così, finalmente, ho compreso ciò che intendeva dirmi.

Arren non lo comprese; e inoltre, era dolorosamente turbato. Perché Sparviero, ripetendo le parole del drago, aveva inequivocabilmente chiamato se stesso col suo vero nome. E questo richiamò alla mente di Arren il triste ricordo della donna sofferente di Lorbanery che gridava «il mio nome è Akaren!». Se i poteri della magia e della musica, e del linguaggio e della fiducia, si andavano indebolendo e avvizzendo tra gli uomini, se la follia della paura li prendeva, cosicché, come i draghi orbati della ragione, si scagliavano l’uno contro l’altro per distruggersi… se era così, come poteva salvarsi il suo signore? Era abbastanza forte?

Non appariva forte, seduto con le spalle curve sulla cena di pane e di pesce affumicato, con i capelli ingrigiti e strinati dal fuoco, e le mani sottili, e il volto stanco.

Eppure il drago lo temeva.

— Cosa ti affligge, ragazzo?

Con lui, si poteva dire solo la verità.

— Mio signore, tu hai pronunciato il tuo nome.

— Oh, sì. Dimenticavo: non l’avevo mai fatto, prima. Avrai bisogno del mio vero nome, se andremo dove dobbiamo andare. — Sparviero alzò gli occhi verso Arren, masticando. — Pensavi che fossi rimbambito e che me ne andassi in giro a barbugliare il mio nome, come i vecchi stolti che hanno dimenticato il buonsenso e la dignità? Non ancora, ragazzo!

— No — disse Arren, così confuso che non seppe aggiungere altro. Era stanchissimo: la giornata era stata lunga, e piena di draghi. E la via davanti a lui diventava sempre più tenebrosa.

— Arren — riprese il mago. — No: Lebannen. Dove stiamo andando, è impossibile nascondersi. Là tutti portano il loro vero nome.

— I morti non possono soffrire — replicò Arren, tristemente.

— Non è soltanto là, non solo nella morte, che gli uomini prendono il loro nome. Coloro che possono rimanere feriti di più, i più vulnerabili: coloro che hanno dato amore e non l’hanno ricevuto, pronunciano l’uno il nome dell’altro. Coloro che hanno cuore fedele, i datori di vita… Sei esausto, ragazzo. Sdraiati e dormi. Non c’è nulla da fare, ormai, se non mantenere la rotta per tutta la notte. E domattina vedremo l’ultima isola del mondo.

Nella voce di Sparviero c’era una gentilezza insuperabile. Arren si raggomitolò a prua, e il sonno venne subito a lui. Udì il mago incominciare una nenia sommessa, quasi mormorante, non in hardese ma nelle parole della Creazione: e mentre incominciava finalmente a comprendere e a ricordare il significato di quelle parole, un attimo prima di capirle si addormentò.

In silenzio, il mago ripose il pane e il pesce, controllò le lenze, rimise ordine sulla barca; poi, presa la cima che guidava la vela e sedutosi, suscitò un forte vento magico. Instancabile, la Vistacuta corse veloce verso nord, come una freccia sul mare.

Ged abbassò lo sguardo su Arren. Il volto del ragazzo addormentato era illuminato dall’oro rosso del lungo tramonto, i capelli scomposti erano agitati dal vento. L’aspetto delicato, disinvolto, principesco del ragazzo che si era seduto accanto alla fontana della Grande Casa pochi mesi prima era scomparso: quel volto era più magro e più duro, e molto più forte. Ma non era meno bello.

— Non ho trovato nessuno da seguire, sulla mia via — disse a voce alta Ged l’arcimago al ragazzo addormentato o al vento vuoto. — Nessun altro che te. E tu devi andare per la tua strada, non per la mia. Eppure il tuo regno sarà in parte mio. Perché io ti ho conosciuto prima. Ti ho conosciuto prima! Mi loderanno per questo, in futuro, più che per quanto ho fatto nell’ambito della magia… Se ci sarà un futuro. Perché prima noi due dobbiamo porci al punto d’equilibrio, al fulcro stesso del mondo. E se io cadrò, tu cadrai, e tutto il resto… Per un poco, per un poco. Nessuna tenebra dura in eterno. E anche allora ci sono le stelle… Oh, ma vorrei vederti incoronato in Havnor, col sole che brilla sulla Torre della Spada e sull’Anello che io e Tenar portammo da Atuan, dalle buie tombe, prima ancora che tu nascessi!

Poi rise e si voltò verso il nord, dicendo a se stesso nella lingua comune: — Un capraio per portare al trono l’erede di Morred! Non imparerò mai?

Dopo, mentre sedeva con la cima nella mano e guardava la gonfia vela tendersi arrossata nell’ultima luce dell’occaso, parlò di nuovo, a bassa voce. — Non vorrei essere a Havnor, né a Roke. È tempo di finirla, col potere. Abbandonare i vecchi giocattoli e andare avanti. È tempo che io ritorni a casa. Vorrei vedere Tenar. Vorrei vedere Ogion, e parlare con lui prima che muoia, nella casa sullo strapiombo di Re Albi. Agogno di camminare sulla montagna, la montagna di Gont, nelle foreste, in autunno, quando le foglie hanno colori vivaci. Non esiste un regno che uguagli le foreste. È tempo che io vi faccia ritorno, in silenzio, e solo. E forse allora imparerei ciò che nessun atto e nessuna arte e nessun potere può insegnarmi, ciò che non ho imparato mai.

Tutto l’occidente sfolgorava in una furia, una gloria rosseggiante, così che il mare appariva cremisi e la vela aveva il colore del sangue; e poi venne quietamente la notte. Per tutta quella notte il ragazzo dormì e l’uomo vegliò, scrutando continuamente davanti a sé nell’oscurità. Non c’erano stelle.

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