Quattro

Se il Controllore la teneva sotto sorveglianza, lei non avrebbe potuto andare da nessuna parte, scoprire alcunché, senza mettere in pericolo della gente. Forse, anche se stessa. E il Controllore era lì per sorvegliarla: l’aveva detto, se solo lei avesse ascoltato. Le era occorso tutto quel tempo per rendersi conto che i funzionari dell’Azienda non viaggiavano in battello. I burocrati volavano con gli aerei e gli eli dell’Azienda. Convinta della propria scarsa importanza, non aveva compreso il motivo della presenza del Controllore e non aveva badato alle sue parole d’avvertimento.

Non aveva ascoltato neppure quello che le aveva detto Tong Ov: le piacesse o no, lo ammettesse o no, lei era importante. Lei rappresentava l’Ekumene su Aka. E il Controllore le aveva detto, ma lei non aveva ascoltato, che l’Azienda l’aveva autorizzato a impedire che l’Ekumene, cioè lei, indagasse e rivelasse il perdurare di pratiche reazionarie, di ideologie marce come cadaveri putridi.

Un cane in un cimitero, ecco come il Controllore vedeva Sutty. "Tieni lontano il Cane che è amico della gente, o con le unghie tutto riporterà alla luce…"

«Il tuo retaggio è angloindiano.» Zio Hurree, con quelle sopracciglia bianche cespugliose, e gli occhi tristi così ardenti. «Devi conoscere Shakespeare e le Upanishad, Sutty. Devi conoscere la Gita e i poeti laghisti.»

Lei li conosceva. Conosceva fin troppi poeti. Conosceva più poeti, più poesie, più sofferenze, più cose di quanto non fosse necessario per chiunque. Così aveva cercato di essere ignorante. Di andare in un posto dove non sapeva nulla. C’era riuscita benissimo, oltre ogni previsione.

Dopo avere meditato a lungo nella sua stanza tranquilla, dopo lunghi momenti di indecisione e di ansietà, e qualche attimo di disperazione, inviò il primo rapporto a Tong Ov… e indirettamente al Dicastero della Pace e della Sorveglianza, al Ministero Socioculturale e a tutti gli altri dipartimenti dell’Azienda che intercettavano qualsiasi comunicazione indirizzata all’ufficio di Tong. Impiegò due giorni per scrivere due pagine. Descrisse il viaggio in battello, il panorama, la città. Parlò del cibo squisito e della balsamica aria di montagna. Chiese un prolungamento della vacanza, che si era rivelata piacevole e istruttiva, per quanto intralciata dallo zelo bene intenzionato ma iperprotettivo di un funzionario che riteneva opportuno impedirle di conversare e interagire con la gente del luogo.

Il governo aziendale di Aka, pur se incline a controllare tutti e tutto, desiderava anche accontentare e impressionare positivamente i visitatori dell’Ekumene. Dimostrarsi all’altezza, avrebbe detto zio Hurree. Tong Ov era esperto nell’usare quella seconda motivazione per limitare la prima, ma il messaggio di Sutty avrebbe potuto creargli dei problemi. Gli avevano consentito di inviare un Osservatore in una regione "primitiva", però avevano inviato un loro Osservatore a osservare l’Osservatore.

Attese la risposta di Tong, diventando via via sempre più sicura che sarebbe stato costretto a richiamarla nella capitale. Al pensiero di Dovza City, Sutty si rese conto che non desiderava affatto lasciare la cittadina, la regione montana. Per tre giorni fece delle escursioni a piedi nelle aree agricole e lungo la riva del giovane fiume turbolento dalle acque azzurro ghiaccio, schizzò il Silong che sovrastava i tetti decorati di Okzat-Ozkat, inserì nel noter le ricette dei piatti squisiti di Iziezi ma non tornò con lei al "corso di esercizio fisico", parlò con Akidan di scuola e di sport ma non parlò con gli sconosciuti né con le persone che incontrava di solito per strada, tenne volutamente un inoffensivo comportamento da turista.

Da quando era giunta a Okzat-Ozkat, aveva dormito bene, senza le lunghe peregrinazioni nel mondo dei ricordi che avevano interrotto le sue notti a Dovza City, ma in quel periodo di attesa si svegliò ogni notte, immersa nell’oscurità, e si ritrovò nella Riserva.

La prima notte, era nel minuscolo soggiorno dell’appartamento dei genitori e guardava un quasivero di Dalzul. Papà, un neurologo, aborriva i collegamenti corporei della realtà virtuale. «Mentire al corpo è peggio che torturarlo» ringhiava, sembrando zio Hurree. Aveva staccato da tempo i moduli errevi dal loro apparecchio, che quindi funzionava solo come olotivù. Essendo cresciuta al villaggio, dove le uniche tecnologie di comunicazione erano rappresentate dalle radio e da un vecchio televisore 2D nella sala di ritrovo comune, Sutty non sentiva la mancanza dei collegamenti errevi. Stava studiando, ma aveva girato la sedia per vedere l’Inviato dell’Ekumene sul balcone del Sancta Sanctorum, fiancheggiato dai Padri in veste bianca.

Le maschere speculari dei Padri riflettevano l’immensa folla, centinaia di migliaia di persone radunate nella Grande Piazza, come una minuscola screziatura. Il sole brillava sulla chioma splendente e stupefacente di Dalzul. L’Angelo, lo chiamavano ormai, l’Araldo di Dio, il Messaggero Divino. La mamma borbottava e derideva quei termini, però lo osservava e ascoltava le sue parole con estrema attenzione e devozione, come gli Unisti, come chiunque, come tutti al mondo. Come faceva Dalzul a infondere la speranza nei fedeli e nei miscredenti nel medesimo tempo, con le stesse parole?

«Vorrei diffidare di lui» disse la mamma. «Ma non ci riesco. Dalzul lo farà… insedierà al potere i Padri Miglioristi. Incredibile! Ci libererà.»

Sutty non stentava a crederci. Sapeva, grazie agli insegnamenti di zio Hurree e della scuola, e per convinzione innata, che il Dominio dei Padri sotto cui aveva vissuto tutta la vita era stato un accesso di follia. L’Unismo era una reazione di panico alle grandi epidemie e alle grandi carestie, uno spasmo di colpa globale e di espiazione isterica, che si stava eccitando sempre più, stava per sfociare nell’orgia finale di violenza, quando l’"Angelo" Dalzul era giunto dal "Cielo", e con la sua magica eloquenza aveva trasformato la foga distruttiva in bontà e benevolenza, lo sterminio in mite abbraccio. Una questione di tempismo, uno spostamento dell’equilibrio. Dalzul possedeva la saggezza trasmessagli dagli insegnanti hainiani che avevano vissuto eventi simili mille volte nella loro storia infinita, ed era astuto come i suoi antenati bianchi terrestri che avevano convinto tutti gli altri sulla Terra che la loro via era l’unica via. Gli era bastato posare il dito sulla bilancia per mutare un odio fanatico e cieco in amore cieco universale. E adesso sarebbero tornate la pace e la ragione, e la Terra avrebbe ripreso il proprio posto tra i mondi pacifici e ragionevoli dell’Ekumene. Sutty aveva ventitré anni e non aveva difficoltà a credere a tutto ciò.

Il Giorno della Libertà, il giorno in cui aprirono la Riserva: le restrizioni alla libertà dei non credenti abolite, tutte le restrizioni riguardanti le comunicazioni, i libri, l’abbigliamento femminile, i viaggi, il culto, tutto quanto. La gente della Riserva usci in massa dai negozi, dalle case, dalle scuole e si riversò nelle strade piovose di Vancouver.

Non sapeva che fare, in realtà, dopo aver vissuto così a lungo in silenzio, schiva, cauta, umile, mentre i Padri predicavano e governavano e inveivano e i Tutori della Fede confiscavano, censuravano, minacciavano, punivano. Erano sempre stati i fedeli a radunarsi in folle immense, a glorificare a gran voce, a cantare, a festeggiare, a marciare qui e là, mentre i miscredenti si tenevano nascosti e parlavano sottovoce. Ma la pioggia cessò a poco a poco, e la gente portò nelle strade e nelle piazze chitarre e sitar e sassofoni, e cominciò a suonare e a ballare. Uscì il sole, basso e dorato sotto grossi nuvoloni, e la gente continuò a ballare i balli allegri dell’incredulità. In McKenzie Square c’era una ragazza che conduceva una danza in tondo, pelle d’avorio, folti capelli neri lucenti, cino-canadese, rideva, una ragazza chiassosa, allegra, troppo rumorosa, sfacciata, sicura di sé, ma Sutty si unì al suo girotondo perché le persone che ballavano si stavano divertendo moltissimo e il ragazzo che suonava la fisarmonica era bravissimo. Sutty e la ragazza dai capelli neri si ritrovarono faccia a faccia in una figura di danza che avevano appena inventato. Si presero per mano. Una rise, anche l’altra rise. Si tennero per mano tutta la notte.

Da quel ricordo, Sutty sprofondò dolcemente nel sonno, il sonno tranquillo che faceva quasi sempre in quella stanza ampia e silenziosa.

Il giorno dopo fece una lunga camminata in riva al fiume, tornò tardi, stanca. Mangiò con Iziezi, lesse un po’, srotolò il materassino.

Non appena spense la luce e si coricò, tornò a Vancouver, il giorno dopo la libertà.

Erano andate a fare una passeggiata sopra la città, in New Stanley Park, loro due. C’erano ancora dei grandi alberi lassù, alberi enormi di prima dell’inquinamento. Abeti, aveva spiegato Pao. Abeti Douglas e abeti rossi, si chiamavano. Una volta le montagne erano coperte di alberi. «Coperte di alberi! Nere di alberi!» disse Pao, con la sua voce rauca, non modulata, e Sutty vide le grandi foreste nere, i folti capelli neri lucenti.

«Sei cresciuta qui?» chiese, perché non sapevano ancora nulla l’una dell’altra, e Pao rispose: «Sì, e adesso voglio andarmene via!».

«Dove?»

«Hain, Ve, Chiffewar, Werel, Yeowe-Werel, Gethen, Urras-Anarres, O!»

«O, O, O!» strillò Sutty, ridendo e piangendo quasi nel sentire la propria litania, il proprio mantra segreto gridato a squarciagola. «Anch’io! E le farò, lo farò, me ne andrò!»

«Stai studiando?»

«Sono al terzo anno d’addestramento.»

«Io ho appena iniziato.»

«Mettiti in pari!» esclamò Sutty.

E Pao per poco non recuperò. Fece tre anni di studio in due. Sutty si laureò dopo il primo di quegli anni e rimase il secondo come assistente, insegnando grammatica e hainiano alle matricole. Quando fosse andata alla Scuola Ekumenica a Valparaíso, lei e Pao sarebbero rimaste separate solo otto mesi; e Sutty sarebbe tornata a Vancouver per le vacanze di dicembre, quindi la loro separazione sarebbe durata in realtà appena quattro mesi, e poi altri quattro, e poi di nuovo insieme, avrebbero terminato insieme la Scuola Ekumenica, e sarebbero rimaste insieme per il resto della vita, su tutti i Mondi Conosciuti. «Faremo l’amore su un mondo di cui adesso nessuno conosce neppure il nome, a mille anni di distanza da oggi!» aveva detto Pao, ridendo con quella sua deliziosa risata chioccia che sgorgava dalla pancia e poi la scuoteva tutta, facendola dondolare avanti e indietro. Le piaceva ridere, le piaceva raccontare e ascoltare barzellette. A volte rideva nel sonno. Sutty sentiva la risata sommessa nel buio, e la mattina Pao le spiegava di avere sognato qualcosa di davvero buffo, e rideva ancora cercando di raccontarle quei sogni divertenti.

Vivevano nell’appartamento che avevano trovato e dove si erano trasferite due settimane dopo la libertà, il caro e sudicio seminterrato di Souché Street, Sushi Street, perché c’erano tre ristoranti giapponesi in quella strada. Avevano due stanze: una con il pavimento interamente coperto di futon, l’altra con il fornello, il lavandino, e il pianoforte verticale con quattro tasti rotti e muti che costituiva un arredo fisso dell’appartamento perché era troppo malridotto per una riparazione, e farlo portare via sarebbe costato troppo. Pao suonava dei bellissimi valzer con qualche nota mancante, mentre Sutty cucinava bhaigan tamatar. Sutty recitava le poesie di Esnanaridaratha di Darranda e rubacchiava mandorle mentre Pao friggeva il riso. Un topo mise al mondo dei topolini nella dispensa. Seguirono lunghe discussioni per decidere che fare dei cuccioli. Ci fu uno scambio di accuse etniche ingiuriose: la crudeltà dei cinesi, che trattavano gli animali come cose inanimate, la malvagità degli indiani, che davano da mangiare alle vacche sacre e lasciavano morire di fame i bambini. «Non voglio vivere con i topi!» urlò Pao. «E io non voglio vivere con un’assassina!» replicò Sutty. I topolini crebbero e cominciarono a fare razzie. Sutty comprò una trappola a gabbia di seconda mano. Come esca usarono del tofu. Presero i topi uno alla volta, e li liberarono in New Stanley Park. La madre fu l’ultima a essere catturata, e quando la liberarono cantarono:

Dio ti benedirà, madre amorevole

Del figlio del tuo fedel marito,

Stringiti a lui e non conoscer altri,

Vivi tu pura e incontaminata.

Pao conosceva parecchi inni unisti, e ne aveva uno per quasi tutte le occasioni.

Sutty prese l’influenza. L’influenza era una cosa spaventosa, molti tipi di virus erano mortali. Ricordava benissimo il terrore provato, in piedi nel tram affollato mentre il mal di testa la tormentava sempre più, e poi quando era arrivata a casa e i suoi occhi non riuscivano a mettere a fuoco il viso di Pao. Pao la curò notte e giorno e quando la febbre calò le fece bere dei tè medicinali cinesi che sapevano di piscio e di muffa. Sutty rimase debole per giorni e giorni, stesa sui futon a fissare il soffitto sporco e scolorito, debole e intontita, tranquilla, rimettendosi in salute.

Ma in quell’epidemia, la piccola Zietta trovò la strada del ritorno che portava al villaggio. La prima volta che Sutty si sentì abbastanza in forze per fare una visita a casa, fu un’esperienza strana trovarsi là con mamma e papà senza Zietta. Sutty continuava a girare la testa, pensando che Zietta fosse in piedi nel vano della porta o seduta nell’altra stanza, avvolta nella sua coperta-bozzolo sbrindellata. La mamma le diede i braccialetti di Zietta, i sei cerchietti di ottone di tutti i giorni, i due d’oro per mettersi in ghingheri, cerchietti minuscoli, fragili, in cui Sutty non sarebbe mai riuscita a infilare le mani. Li donò a Lakshmi, perché la bambina di Lakshmi li indossasse quando fosse cresciuta. «Non essere attaccata alle cose, sono un peso inutile, che intralcia. Quello che vale la pena di tenere, conservalo nella tua testa» aveva detto zio Hurree, predicando quello che aveva dovuto mettere in pratica. Sutty tenne però il sari di cotone rosso e arancione sottile sottile, che una volta piegato scompariva quasi e non poteva certo intralciarla. Era in fondo alla sua valigia, lì a Okzat-Ozkat. Un giorno forse l’avrebbe mostrato a Iziezi. Le avrebbe parlato di Zietta. Le avrebbe fatto vedere come si indossava un sari. Alla maggior parte delle donne interessava saperlo, alla maggior parte delle donne piaceva provarsi il sari. Una volta, Pao aveva provato il vecchio sari grigio e argento di Sutty, per divertirla durante la convalescenza, ma aveva detto che le ricordava troppo le gonne, che naturalmente aveva dovuto indossare in pubblico tutta la vita per via delle leggi uniste sull’abbigliamento, e inoltre non riusciva a capire come si facesse a fissarlo bene nella parte superiore. «Così mi usciranno le tette!» aveva strillato. E poi, facendole saltar fuori apposta, aveva eseguito una versione davvero notevole di quella che chiamava "danza classica indiana sui futon".

Sutty si era spaventata di nuovo, si era spaventata moltissimo, quando aveva scoperto che tutto quello che aveva appreso nei mesi prima di ammalarsi — la storia ekumenica, le poesie imparate a memoria, perfino semplici parole hainiane che conosceva da anni — sembrava essere stato cancellato. «Cosa farò, cosa farò, se non riesco a conservare le cose nemmeno nella testa?» aveva sussurrato a Pao, quando infine era crollata e aveva confessato il terrore che la tormentava da una settimana. Pao non l’aveva consolata molto, l’aveva solo lasciata sfogare e alla fine le aveva detto: «Penso che passerà. Penso che un po’ alla volta ti ritornerà in mente tutto». E naturalmente Pao aveva ragione. Parlare del problema si rivelò salutare. Il giorno dopo, mentre Sutty era in tram, i versi iniziali delle Terrazze di Darranda all’improvviso le sbocciarono nella mente come grandi fuochi d’artificio, quelle meravigliose parole ordinate, impetuose, ardenti; e lei capì che tutte le altre parole erano là al loro posto, non erano andate perse, aspettavano nell’oscurità, pronte a venire quando le avesse chiamate. Comprò un enorme mazzo di margherite e lo portò a casa per Pao. Le misero nell’unico vaso che avevano, di plastica nera, e la composizione floreale assomigliava a Pao, il nero e il bianco e l’oro. Con la visione di quei fiori, una consapevolezza intensa e completa del corpo di Pao la pervase adesso, lì nell’ampia stanza silenziosa su un altro mondo, come la pervadeva sempre là, allora, quando era con Pao, e quando non era con lei, ma in fondo erano sempre insieme, una vera separazione non c’era mai stata, nemmeno il lungo volo a sud lungo l’intera costa delle Americhe era stato una separazione. Nulla le aveva separate. "Non lasciar ch’io ammetta impedimento al connubio delle menti sincere…" «Oh, mia mente sincera» mormorò Sutty al buio, e sentì il caldo abbraccio che la stringeva prima di addormentarsi.


Arrivò la breve risposta di Tong Ov: uno stampato, ricevuto da un ufficio della Prefettura Distrettuale e consegnatole a mano, dopo una verifica del suo braccialetto con il codice d’identità, da un fattorino in divisa. "Osservatore Sutty Dass: Considera la tua vacanza l’inizio di un viaggio di istruzione. Continua la ricerca e la registrazione delle osservazioni personali come ritieni opportuno."

Il Controllore era sistemato! Sorpresa ed esultante, Sutty uscì a guardare la vetta impennacchiata del Silong e a riflettere su dove iniziare.

Nella mente, aveva raccolto innumerevoli cose da approfondire: gli esercizi di meditazione; le porte con la decorazione della nuvola, che aveva trovato in tutta la città, sempre imbiancate o dipinte con altri colori; le iscrizioni nei negozi; le metafore dell’albero che continuava a sentire quando si parlava di cibo o di salute o di qualsiasi argomento relativo al corpo; l’esistenza possibile di libri proibiti; l’esistenza certa di una rete d’informazione, più discreta di quella elettronica e non controllata dall’Azienda, una rete che permetteva alla gente di tutta la cittadina di tenersi sempre in contatto e di essere sempre informata, per esempio circa Sutty: chi era, dov’era, cosa voleva. Sutty vedeva quella consapevolezza negli occhi delle persone che incrociava per strada, dei negozianti, degli scolari, delle vecchie che zappavano nei piccoli orti, dei vecchi seduti al sole sui barili agli angoli delle strade. Non l’avvertiva come un’intromissione, era come se camminasse tra linee sottilissime che la guidavano; non erano vincoli, limitazioni, bensì rassicurazioni. Che al suo arrivo non avesse varcato la soglia di Iziezi o del Fecondatore per puro caso, adesso le sembrava probabile, sebbene non sapesse spiegare la cosa, e gradito, sebbene non sapesse perché.

Ora che era libera, decise di tornare nella bottega del Fecondatore. Raggiunse la parte alta della cittadina, cominciò a salire la ripida stradina. A metà percorso, s’imbatté nel Controllore.

Non dovendo più preoccuparsi di obbedirgli o di evitarlo, lo guardò come l’aveva guardato la prima volta durante il viaggio sul fiume, non come l’oggetto del controllo burocratico guarda il burocrate, ma umanamente. Il Controllore aveva schiena dritta e bei lineamenti, anche se l’ambizione, l’ansia, l’autorità, avevano reso la sua faccia dura e tesa. Nessuno nasceva così, rifletté Sutty. Non esistevano bambini arcigni. Magnanima, lo salutò: «Buongiorno, Controllore!».

Il tono allegro e sciocco della propria voce le risuonò negli orecchi. Sbagliato, sbagliato. Per lui, un saluto simile era una provocazione bell’e buona. Il Controllore rimase in silenzio, fronteggiandola.

Quindi si schiarì la voce e disse: «Mi è stato ordinato di annullare la richiesta che ti avevo fatto di informare il mio ufficio dei tuoi contatti e dei tuoi spostamenti. Dato che tu non avevi aderito, ho cercato di sorvegliarti a scopo protettivo. Mi hanno comunicato che ti sei lamentata di questo. Ti chiedo scusa per qualsiasi disturbo o disagio causato da me o dal mio personale».

Il suo tono era gelido e cupo, ma aveva una certa dignità, e Sutty, vergognandosi, disse: «No… mi dispiace, io…».

«Ti avverto» proseguì il Controllore, ignorandola, con un tono di voce più intenso, «qui ci sono persone che intendono servirsi di te per i loro scopi. Non sono resti pittoreschi di un’epoca passata. Non sono innocue. Sono malvage. Sono la feccia di un veleno mortale… la droga che ha stordito il mio popolo per diecimila anni. Cercano di trascinarci di nuovo in quella paralisi, in quella barbarie assurda. Anche se forse sono gentili con te, ti avverto, sono crudeli. Per loro sei una preda. Ti lusingheranno, ti insegneranno cose false, ti prometteranno miracoli. Sono i nemici della verità, della scienza. La loro cosiddetta conoscenza è farneticamento, superstizione, poesia. Le loro pratiche sono illegali, i loro libri e i loro riti sono proibiti, e tu lo sai. Non mettere la mia gente nella posizione spiacevole di scoprire una scienziata dell’Ekumene in possesso di materiale illegale, che partecipa a riti turpi e vietati. Ecco cosa ti chiedo… come scienziata dell’Ekumene…» Aveva cominciato a balbettare, alla ricerca delle parole giuste.

Sutty lo guardò, trovando la sua agitazione grottesca, snervante. Replicò seccamente: «Non sono una scienziata. Studio poesia. E non c’è bisogno che tu mi venga a parlare dei danni che la religione può provocare. Li conosco».

«No» fece il Controllore, stringendo e aprendo i pugni. «Non li conosci… Non sai nulla di cosa eravamo un tempo. Dei nostri grandi progressi. Non torneremo mai alla barbarie.»

«E tu sai qualcosa del mio mondo?» ribatté Sutty incredula, sprezzante. Poi le sembrò che quella conversazione fosse del tutto inutile e desiderò solo allontanarsi da quel fanatico. «Ti assicuro che nessun rappresentante dell’Ekumene s’intrometterà negli affari akani a meno che non gli venga chiesto espressamente di farlo.»

Lui la fissò e disse con straordinaria veemenza: «Non tradirci!».

«Non ho la minima intenzione…»

Il Controllore volse il capo, in un gesto di diniego o di dolore. Poi, di colpo, passò oltre, e proseguì lungo la strada.

Sutty provò nei suoi confronti un impeto di odio che la spaventò.

Si girò e riprese a camminare, dicendosi che avrebbe dovuto provare compassione per lui. Era sincero. Come la maggior parte dei fanatici. Quello sciocco, stupido e arrogante, che cercava di dirle che la religione era pericolosa! Ma stava solo ripetendo come un pappagallo la propaganda dovzana. Cercava di spaventarla, arrabbiato perché i suoi superiori l’avevano fatto apparire colpevole. Non potendo controllare lei, esasperato, aveva perso il controllo di se stesso. Non era assolutamente il caso di pensare più a lui.

Continuò a percorrere la salita, diretta al negozietto, per chiedere al Fecondatore cos’erano le porte con la nuvola, il motivo per cui era uscita.

Quando entrò nel negozio, la stanza alta e buia con le pareti coperte di parole le sembrò appartenere a una realtà del tutto diversa. Rimase immobile un minuto, lasciando che quella realtà diventasse sua. Guardò l’iscrizione: "Nella discesa della nube scura dal cielo l’albero-lampo biforcuto cresce dalla terra".

L’elegante vasetto donatole dal Fecondatore recava un motivo che sulle prime le era parso un arbusto o un albero stilizzato, poi però si era resa conto che avrebbe potuto trattarsi di una variante dell’immagine della nuvola sulle porte doppie. Aveva schizzato il motivo del vaso. Quando il Fecondatore spuntò dai reconditi recessi oscuri della bottega, Sutty posò lo schizzo sul banco e chiese: «Per favore, yoz, sai dirmi cos’è questo motivo?».

Lui osservò il disegno. Con voce fievole e stridula, commentò: «È un disegno molto grazioso».

«È preso dal vasetto che mi hai donato. Ha un significato? Significa qualcosa d’importante?»

«Perché me lo chiedi, yoz?»

«M’interessano le cose vecchie. Le vecchie parole, le vecchie usanze.»

Il Fecondatore la fissò con occhi velati dall’età, e non disse nulla.

«Il vostro governo» Sutty usò la vecchia parola, biedins, "sistema di funzionari", invece del termine moderno vizdestit, "impresa collettiva" o "azienda"… «il vostro governo, lo so, preferisce che la gente impari nuove usanze, non si soffermi sul passato.» Usò ancora il vecchio termine per dire "gente", non riyingdutey, "produttori-consumatori". «Ma agli storici dell’Ekumene interessa tutto quello che i mondi membri hanno da insegnare, e noi crediamo che una conoscenza proficua del presente abbia radici nel passato.»

Il Fecondatore ascoltò, affabile, impassibile.

Sutty proseguì decisa: «Mi è stato chiesto, dal mio superiore nella capitale, di scoprire il più possibile su alcune vecchie usanze che là non esistono più, le arti e le credenze e le tradizioni che regnavano su Aka prima che la mia gente venisse qui. Un Controllore Socioculturale mi ha assicurato che il suo dipartimento non ostacolerà i miei studi». Pronunciò l’ultima frase con un certo piacere vendicativo. Era ancora scossa, irritata, dopo lo scontro con il Controllore. Ma la quiete di quel luogo, la penombra, i vaghi odori, le antiche scritte parzialmente visibili, le facevano sembrare quell’episodio qualcosa di remoto.

Una pausa. L’indice magro del vegliardo si mosse sopra il disegno che lei aveva fatto. «Non vediamo le radici» disse il Fecondatore.

Sutty ascoltò.

«Il tronco dell’albero» proseguì lui, indicando l’elemento del disegno che, in un edificio, era la porta a due battenti. «I rami e il fogliame dell’albero, la chioma di foglie.» Indicò la "nuvola" a cinque lobi sopra il tronco. «Questo è anche il corpo, vedi, yoz…» Si toccò le anche e i fianchi, si batté leggermente la testa con un movimento come di foglie delle dita, e sorrise brevemente. «Il corpo è il corpo del mondo. Il corpo del mondo è il mio corpo. Così, dunque, l’uno fa due.» Le sue dita mostrarono il punto in cui il tronco si divideva. «E i due generano ognuno tre rami, che si ricongiungono, dando cinque.» Le dita si spostarono sui cinque lobi del fogliame. «E dai cinque nasce la miriade, le foglie e i fiori che muoiono e ritornano, ritornano e muoiono. Gli esseri, le creature, le stelle. L’essere che si può descrivere. Però non vediamo le radici. Non possiamo vederle, descriverle.»

«Le radici sono nella terra…?»

«La montagna è la radice.» Il Fecondatore fece un bellissimo gesto solenne, unendo in punta il dorso delle mani e formando così con le dita una vetta, poi toccandosi il petto sul cuore.

«La montagna è la radice» ripeté Sutty. «Questi sono misteri.»

Lui tacque.

«Non puoi dirmi altro? Parlami del due, e del tre, e del cinque, yoz.»

«Per parlare di queste cose è necessario molto tempo, yoz.»

«Ho tutto il tempo necessario per ascoltare, non devo fare altro. Però non voglio far perdere tempo a te, né disturbarti. Né chiederti di dirmi cose che non vuoi dirmi, cose che è meglio tenere segrete.»

«Tutto è tenuto segreto, adesso» commentò il Fecondatore con quella sua vocetta flebile. «Eppure è tutto in bella vista.» Si girò, e guardò le file di cassettini e le pareti sopra gli armadi interamente coperte di parole, incantesimi, poesie, formule. Adesso, agli occhi di Sutty, gli ideogrammi non si espandevano e non si contraevano, non respiravano, ma rimanevano immobili sui muri alti immersi nella penombra. «Ma per molti non sono parole, sono solo vecchi graffi, scarabocchi. Così la polizia li lascia stare… Al tempo di mia madre, tutti i bambini sapevano leggere. Potevano iniziare a leggere la storia. La narrazione non è mai cessata. Nelle foreste e sulle montagne, nei villaggi e nelle città, narravano la storia, la narravano a voce alta, la leggevano a voce alta. Eppure era tutto segreto anche allora. Il mistero dell’inizio, delle radici del mondo, le tenebre. La fine, yoz. Dove è il principio.»

Così iniziò l’istruzione di Sutty. Anche se in seguito lei concluse che in realtà era iniziata quando, seduta al tavolinetto nella propria stanza in casa di Iziezi, aveva sentito per la prima volta il sapore di quel cibo sulla lingua.

Uno degli storici di Darranda diceva: "Imparare una credenza senza credere è come cantare una canzone senza melodia".

Sottomettersi, obbedire, essere disposti ad accettare quelle note come le note giuste, quel modello come il modello vero, ecco il gesto essenziale per eseguire, tradurre, comprendere. Il gesto non doveva essere permanente, un atteggiamento mentale o spirituale duraturo; tuttavia non era falso. Era qualcosa di più della sospensione dell’incredulità necessaria per assistere a una commedia, ma era qualcosa di meno di una conversione. Era una posizione, una postura nella danza. Gli insegnanti di Sutty, provenienti da molti mondi e radunati nella città di Valparaíso, in Cile, le avevano insegnato questo, e lei non aveva motivo di mettere in discussione i loro insegnamenti.

Era andata su Aka per imparare a cantare la canzone di quel mondo, a ballare la sua danza; e finalmente, secondo lei, lontano dal rumore incessante della città, stava cominciando a sentire la musica e a imparare a muoversi al ritmo di quella musica.

Un giorno dopo l’altro, registrò i propri appunti, osservazioni confuse che si contraddicevano, approfondivano, rivedevano, ipotizzavano, un’abbondanza caotica di informazioni su ogni sorta di argomento, una mappa disordinata e frammentaria che malgrado la sua complessità rappresentava solo uno schizzo approssimativo di un angolo dell’immensità che lei doveva esplorare: un modo di pensare e di vivere sviluppato ed elaborato nel corso di migliaia di anni dalla grande maggioranza degli esseri umani di quel mondo, un enorme sistema interdipendente di simboli, metafore, corrispondenze, teorie, cosmologia, cucina, callistenia, fisica, metafisica, metallurgia, medicina, fisiologia, psicologia, alchimia, chimica, calligrafia, numerologia, erboristeria, alimentazione, leggende, parabole, poesia, storia e racconti.

In quell’immensa foresta vergine mentale, Sutty cercò sentieri e segni, istituzioni che potessero essere descritte, idee che potessero essere definite. Evitò d’istinto i grandi concetti nebulosi e cercò elementi tangibili, come l’architettura. Gli edifici di Okzat-Ozkat con la doppia porta che rappresentava l’Albero una volta erano templi, "umyazu", una parola adesso bandita, cancellata. Le parole cancellate erano utili segnalazioni di sentieri che avrebbero potuto indicare la strada da seguire in quell’area selvaggia. "Tempio" era la traduzione migliore? Cosa accadeva nell’umyazu?

Be’, le avevano risposto, la gente un tempo andava là e ascoltava.

Cosa?

Oh, be’, le storie, ecco.

Chi raccontava le storie?

Oh, i maz. Vivevano là. Alcuni di loro.

Sutty dedusse che gli umyazu dovevano essere stati delle specie di monasteri, di chiese, e molto simili a biblioteche: luoghi dove dei professionisti raccoglievano e conservavano i libri e la gente andava a imparare a leggerli, a sentirli leggere. Nelle aree più ricche, c’erano stati grandi e prosperi umyazu, dove la gente si recava in pellegrinaggio per vedere i tesori della biblioteca e "sentire la Narrazione". Quelli erano stati tutti distrutti, abbattuti o fatti saltare, tranne il più vecchio e famoso, la Montagna d’Oro, molto lontano, a oriente.

Da un quasivero ufficiale che aveva seguito con partecipazione totale quando era a Dovza City, Sutty sapeva che la Montagna d’Oro era stata trasformata in un Sito Aziendale per il culto del Dio della Ragione: un culto artificiale che esisteva solo in quel centro turistico e in certi slogan e vaghe dichiarazioni dell’Azienda. Prima, comunque, la Montagna d’Oro era stata sventrata. Il quasivero mostrava scene di libri che venivano tolti da un grande archivio sotterraneo per mezzo di macchine, enormi pale che li ammassavano su camion ribaltabili come fossero immondizia, scavatrici che li spingevano a mucchi in una discarica. Chi seguiva il quasivero con la realtà virtuale prendeva parte alle operazioni di una di quelle macchine, mentre una musica vivace e allegra suonava come sottofondo. Sutty aveva fermato il quasivero a metà della scena, e aveva scollegato le connessioni corporee della realtà virtuale dall’apparecchio. In seguito, aveva guardato e ascoltato i quasiveri dell’Azienda senza più parteciparvi direttamente, anche se ricollegava i moduli errevi ogni giorno, quando lasciava la sua cabina di ricerca al Ministero Centrale della Poesia e dell’Arte.

Tali ricordi la inducevano a provare una certa solidarietà nei confronti di quella religione, ammesso che ciò che stava studiando fosse una religione, ma la cautela e la diffidenza bilanciavano il suo punto di vista. Lei doveva evitare i giudizi e le teorie, attenersi all’evidenza e all’osservazione, ascoltare e registrare quanto le dicevano.

Malgrado fossero tutte cose bandite, illecite, la gente ne parlava liberamente, rispondeva fiduciosa alle sue domande. Sutty non ebbe difficoltà a scoprire gli schemi e i cicli annuali e perenni di feste, digiuni, indulgenze, astinenze, celebrazioni. Quei riti, che in generale sembravano simili alle pratiche della maggior parte delle religioni che conosceva, adesso erano naturalmente segreti, nascosti, oppure inseriti in modo così complesso e discreto nel tessuto della vita comune che i Controllori del Dipartimento Socioculturale non erano in grado di indicare una particolare azione e dire: "Questo è proibito".

A Okzat-Ozkat, i menu dei piccoli ristoranti per i lavoratori erano un bell’esempio della sopravvivenza oscura ma fiorente di consuetudini illecite. Il menu era scritto in alfabeto moderno su un tabellone accanto alla porta. Oltre all’akakafi, comprendeva i generi alimentari prodotti dall’Azienda e pubblicizzati, distribuiti e venduti in tutto il pianeta dal Ministero della Sanità e della Nutrizione: prodotti delle grandi agrifabbriche, ad alto tenore proteico, integrati con vitamine, confezionati, che andavano solo riscaldati. I ristoranti avevano disponibili alcune di quelle vivande, liofilizzate, in scatola, o surgelate, e certe persone le ordinavano. La maggior parte di coloro che andavano in quei piccoli ristoranti, però, non ordinava nulla. Si sedevano, salutavano il cameriere, e aspettavano che fossero serviti i cibi freschi e le bevande adatti a quel giorno, all’ora del giorno, alla stagione e al tempo, secondo una teoria e una pratica alimentare antichissime, il cui scopo era di far vivere a lungo e bene con una buona digestione. O con un cuore sereno. Le due espressioni si equivalevano in rangma, la lingua locale.

In una delle lunghe sedute serali di registrazione, nel pieno dell’autunno, accovacciata sul tappeto rosso nella stanza silenziosa, Sutty definì nel proprio noter il sistema akano come una religione-filosofia analoga al buddismo o al taoismo, che aveva studiato sulla Terra: quella che gli hainiani, con la loro predilezione per liste e categorie, chiamavano "una religione di processo". «Non esistono parole akane per indicare dio, dei, il divino» disse Sutty al noter. «I burocrati dell’Azienda hanno inventato una parola che significa dio e hanno instaurato un teismo di stato quando hanno scoperto che un concetto di divinità era importante nei mondi presi come modelli. Hanno capito che la religione è uno strumento utile per chi è al potere. Ma qui non esisteva nessun teismo o deismo indigeno. Su Aka, "dio" è una parola senza referente. Niente lettere maiuscole. Nessun creatore, solo il creato. Nessun padre eterno che premi e punisca, che giustifichi l’ingiustizia, stabilisca la crudeltà, offra la salvezza. L’eternità non è un punto estremo, bensì una continuità. La divisione primaria dell’essere in materiale e spirituale solo come "due in uno", o uno in due aspetti. Nessuna gerarchia di Natura e Soprannaturale. Nessun elemento binario tipo Tenebre/Luce, Male/Bene, Corpo/Anima. Nessuna vita ultraterrena, nessuna rinascita, nessuna anima immortale disincarnata o reincarnata. Nessun paradiso, nessun inferno. Il sistema akano è una disciplina spirituale con fini spirituali, i quali però sono gli stessi che persegue mirando al benessere fisico ed etico. L’azione giusta è fine a se stessa. Dharma senza karma.»

Era arrivata a una definizione della religione akana. Per un minuto, si sentì completamente soddisfatta della definizione e di sé.

Poi si accorse che stava pensando a una serie di miti che Ottiar Uming aveva raccontato. La figura centrale, Ezid, uno strano personaggio romantico che a volte appariva come un giovane bello e gentile, a volte come una giovane bella e impavida, era chiamato "l’Immortale". Sutty aggiunse un appunto: «E "Ezid l’Immortale", allora? Questo significa che credono in una vita ultraterrena? Ezid è una persona, due persone, o molte? "Immortale / che vive per sempre" sembra significare: intenso, ripetuto molte volte, famoso… forse ha anche un significato particolare e indica: in perfetta salute fisico-spirituale, che vive saggiamente. Verificare questo punto».

Più volte nei suoi appunti, dopo ogni conclusione, c’era quel: "Verificare questo punto". Le conclusioni portavano a nuovi inizi. I termini cambiavano, venivano corretti, corretti di nuovo. Poco tempo dopo, Sutty non era per nulla contenta della propria definizione del sistema come religione; non sembrava una definizione errata, ma non era del tutto adeguata. Il termine "filosofia" era ancor meno appropriato. Riprese a chiamarlo "il sistema", "il Grande Sistema". Poi lo chiamò "la Foresta", perché scoprì che nell’antichità era chiamato "la via attraverso la foresta". Lo chiamò "la Montagna" quando scoprì che alcuni dei suoi insegnanti definivano quello che le insegnavano "la via verso la montagna". Alla fine, lo chiamò "la Narrazione". Questo, però, dopo avere conosciuto maz Elyed.

Fece lunghe discussioni con il proprio noter per stabilire se nel dovzano, o nel lessico antico e in parte non dovzano usato dalla gente istruita, ci fosse qualche parola che potesse significare "sacro" o "santo". C’erano parole che lei traduceva come "potere", "mistero", "non controllato dalla gente", "parte dell’armonia". Quei termini non erano mai riservati a un luogo o a un tipo d’azione particolari. Sembrava, anzi, che nel vecchio modo di pensare akano qualsiasi luogo, qualsiasi atto, se percepito in modo corretto, fosse in effetti misterioso e potente, potenzialmente sacro. E la percezione sembrava comportare la descrizione: parlare del luogo, o dell’atto, o dell’evento, o della persona. Parlarne, farne una storia.

Quelle storie, tuttavia, non erano vangelo. Non erano la Verità. Erano tentativi di verità. Barlumi, scorci di sacralità. Non si era tenuti a credere, solo ad ascoltare.

«Be’, è così che ho imparato la storia» diceva la gente, dopo avere raccontato una parabola o un episodio storico o un’antica leggenda familiare. «Be’, ecco cosa dice questa storia.»

I personaggi santi delle storie raggiungevano la santità, ammesso che lo fosse, in mille modi diversi, nessuno dei quali pareva particolarmente santo a Sutty. Non c’erano regole, come povertà o castità o obbedienza, oppure il baratto dei propri beni terreni con una ciotola da mendicante, o l’isolamento in cima a una montagna. Alcuni eroi e maz famosi protagonisti delle storie erano ricchi sfondati; a quanto sembrava, la loro virtù era stata la generosità: costruire umyazu splendidi e imponenti in cui collocare i loro tesori, o andare in processione con centinaia di compagni, tutti in sella a eberdin con finimenti d’argento. Alcuni eroi erano guerrieri, alcuni capi potenti, altri calzolai, altri ancora bottegai. Certi personaggi santi delle storie erano amanti appassionati, e la storia riguardava la loro passione. Molti erano coppie. Non c’erano regole. C’era sempre un’alternativa. I narratori, quando commentavano le leggende e le storie raccontate, potevano far notare che quello era stato "un" buon modo o "un" modo giusto di fare qualcosa, ma non dicevano mai che era "il" modo giusto. E "buono" era sempre un aggettivo: buon cibo, buona salute, buon sesso, buon clima. Niente lettere maiuscole. Mai buono nel senso di bontà, di bene. Il Bene o il Male come entità, forze contrastanti, mai.

Quel sistema non era affatto una religione, disse Sutty al noter, con entusiasmo crescente. Certo, aveva una dimensione spirituale. Infatti, era la dimensione spirituale della vita per coloro che lo seguivano. Ma la religione come istituzione che imponesse un credo e affermasse una propria autorità, la religione come comunità formata da una conoscenza di divinità estranee o istituzioni in competizione, non era mai esistita su Aka.

Fino all’epoca attuale, forse.

Le terre abitabili di Aka erano un unico enorme continente con un lunghissimo arcipelago al largo della costa orientale. Dovza era l’estrema regione sudoccidentale del grande continente. Non essendo divisi da oceani, gli akani fisicamente appartenevano a un unico tipo, con lievi variazioni locali. Tutti gli Osservatori avevano rilevato tale caratteristica, tutti avevano fatto notare l’omogeneità etnica, la mancanza di diversità sociale e culturale, ma nessuno di loro si era reso conto appieno che tra gli akani non c’erano stranieri. Non c’era mai stato nessuno straniero, finché non erano arrivate le navi dell’Ekumene.

Era un fatto semplice, ma difficilissimo da comprendere per la mente terrestre. Niente stranieri. Niente "altri", nel senso letale di alterità esistente sulla Terra, l’implacabile divisione fra tribù, i confini arbitrari e invalicabili, gli odi etnici nutriti per secoli e millenni. Lì, "gente" non significava "la mia gente", ma "la gente"… tutti, l’umanità. "Selvaggio" non indicava un forestiero incomprensibile, ma una persona incolta. Su Aka, tutta la competizione era famigliare. Tutte le guerre erano guerre civili.

Uno dei grandi poemi epici che stava registrando un po’ alla volta riguardava una lunga e sanguinosa contesa per una valle fertile, iniziata come litigio tra un fratello e una sorella per un’eredità. Le lotte tra regioni e città-stato per il dominio economico si erano susseguite in tutta la storia akana, sfociando spesso in conflitto armato. Ma in quelle guerre e in quegli scontri combattevano soldati di professione, su campi di battaglia. Era molto raro, e condannato nelle storie e negli annali come sbagliato, vergognoso e punibile, che i soldati distruggessero città o campagne, o che facessero del male ai civili. Gli akani si scontravano per avidità e sete di potere, non per odio o in nome di un credo. Combattevano secondo regole precise. Avevano le stesse regole. Erano un unico popolo. Il loro modo di pensare e di vivere era universale. Avevano cantato tutti una sola canzone, anche se a molte voci.

Gran parte di quello spirito unitario comune, a giudizio di Sutty, era dipeso dalla scrittura. Prima della rivoluzione culturale dovzana esistevano parecchie lingue principali e innumerevoli dialetti, ma usavano tutti gli stessi ideogrammi, che ognuno era in grado di comprendere. Per quanto sotto certi aspetti fossero scomode e arcaiche, le scritture non alfabetiche potevano unire e conservare — come avevano fatto sulla Terra gli ideogrammi cinesi — un gran numero di lingue e dialetti diversi; e grazie alle scritture non alfabetiche, testi scritti migliaia di anni addietro erano leggibili senza traduzione, anche se i suoni delle parole erano cambiati fino a diventare irriconoscibili. Sì, per i riformatori dovzani, forse quello era stato proprio il motivo principale che li aveva convinti a sbarazzarsi della vecchia scrittura: oltre a intralciare il progresso, era pure una forza conservatrice attiva. Manteneva in vita il passato.

A Dovza City, Sutty non aveva conosciuto nessuno in grado di leggere la vecchia scrittura, o che ammettesse di saperlo fare. Le sue poche domande iniziali a quel riguardo avevano suscitato una tale disapprovazione, dinieghi così recisi, che aveva imparato subito a tacere, a non dire a nessuno che lei sapeva leggere i vecchi caratteri. E i funzionari con cui aveva a che fare non le avevano mai chiesto nulla. La vecchia scrittura non veniva più usata da decenni; probabilmente non si erano mai resi conto che, a causa dei fenomeni temporali relativi ai viaggi spaziali, era proprio quella la scrittura che Sutty aveva imparato.

Non era stata del tutto sciocca a chiedersi, là a Dovza City, se poteva essere davvero l’unica persona del pianeta capace di leggerla adesso, e non era stata del tutto sciocca a provare sgomento a quell’idea. Se portava l’intera storia di un popolo, non il suo popolo, nella testa, bastava dimenticare una parola, un carattere, un segno diacritico, e una parte di tutte quelle vite, di tutti quei secoli di pensiero e sentimento, sarebbe andata perduta per sempre…

Era stato un enorme sollievo trovare, lì a Okzat-Ozkat, molte persone, vecchi e giovani, perfino bambini, che portavano e si ripartivano quel carico prezioso. I più sapevano leggere e scrivere alcune decine di caratteri, o alcune centinaia, e molti studiavano per completare l’apprendimento. Nelle scuole dell’Azienda, i bambini imparavano l’alfabeto di derivazione hainiana e venivano educati come produttori-consumatori; a casa o in lezioni illegali in stanzette dietro un negozio, un laboratorio, o un magazzino, imparavano gli ideogrammi. Si esercitavano scrivendo i caratteri su piccole lavagne che si potevano cancellare in un attimo. I loro insegnanti erano lavoratori, padroni di casa, negozianti, gente comune della cittadina.

Quegli insegnanti della vecchia lingua e delle vecchie usanze, i "colti", erano chiamati maz. Yoz era un termine che indicava rispettosa uguaglianza; maz, come appellativo, indicava maggiore rispetto. Come titolo o nome significava — capì a poco a poco Sutty — una funzione o una professione che non era definibile come prete, insegnante, dottore o studioso, ma conteneva aspetti di ognuna di esse.

Tutti i maz che Sutty conobbe — e col passare delle settimane conobbe la maggior parte dei maz di Okzat-Ozkat — vivevano in condizioni di povertà più o meno agiata. Di solito avevano un mestiere per arrotondare quello che percepivano come maz per insegnare, dispensare medicamenti e consigli sull’alimentazione e la salute, celebrare cerimonie quali matrimoni e funerali, e leggere e parlare nelle riunioni serali, le narrazioni. I maz erano poveri non perché le vecchie consuetudini stessero morendo o fossero care solo agli anziani, ma perché la gente che pagava i maz era povera. Quella era una cittadina marginale, che arrancava fra tante asperità, senza ricchezza. Gli abitanti, però, sostenevano i maz, pagavano i loro insegnamenti "a parola", per usare l’espressione locale. La sera, andavano a casa di un maz ad ascoltare le storie e le discussioni, e pagavano regolari parcelle in monete di rame o banconote di piccolo taglio. Non c’era nulla di vergognoso in quella transazione, né da parte di chi pagava né da parte di chi percepiva; non c’era l’ipocrisia di una "donazione": si pagavano in contanti le prestazioni di un professionista.

Molti bambini partecipavano a quelle riunioni serali, e ascoltavano, più o meno, le narrazioni, o si addormentavano tranquilli. I bambini assistevano gratis fino ai quindici anni, età in cui cominciavano a pagare le stesse parcelle degli adulti. Gli adolescenti prediligevano le sedute di certi maz specializzati nella recita o nella lettura di poemi epici e racconti avventurosi, come La guerra della valle e le storie di Ezid la Meraviglia. I corsi di esercizio fisico di tipo più vigoroso e marziale erano frequentatissimi da giovani di ambo i sessi.

I maz, comunque, erano per la maggior parte di mezza età o vecchi, non perché stessero estinguendosi come gruppo, ma perché, come dicevano, ci voleva una vita per imparare a camminare nella foresta.

Sutty voleva scoprire perché diventare colti fosse un lavoro interminabile, ma anche scoprirlo sembrava un’impresa interminabile. Cosa credeva quella gente? Cosa considerava sacro? Sutty continuò a cercare il nocciolo della questione, le parole al centro della Narrazione, i libri sacri da studiare e memorizzare. Li trovò. Ne trovò molti, non uno fondamentale. Nessuna bibbia. Nessun corano. Dozzine di upanishad, un milione di surra. Ogni maz le diede qualcosa di diverso da leggere. Aveva già letto o sentito innumerevoli testi: scritti, orali, scritti e orali; molti, se non la maggior parte, esistevano in più di una versione. Gli argomenti delle narrazioni sembravano infiniti, anche adesso che tanto materiale era stato distrutto.

All’inizio dell’inverno, Sutty pensò di avere trovato i testi principali del sistema in una raccolta di poesie e trattati chiamata Il pergolato. Tutti i maz ne parlavano con grande rispetto, ne citavano brani. Sutty lo studiò per settimane. A quanto era in grado di stabilire, era stato scritto in prevalenza dai millecinquecento ai mille anni addietro nella regione centrale del continente, durante un periodo di prosperità materiale e di fermento artistico e intellettuale. Era un vasto compendio di raffinati ragionamenti filosofici su essere e divenire, forma e caos, meditazioni mistiche sulla Creazione e il Creato, e splendide e complesse poesie metafisiche riguardanti l’Uno che è Due, i Due che sono Uno, il tutto collegato, illuminato, e complicato dai commentari e dalle annotazioni in margine dei secoli successivi. La nipote di zio Hurree, la studiosa pedante, si lanciò con entusiasmo in quella giungla di significati, disposta a smarrirsi per anni nell’intrico. Fu riportata alla realtà solo dalla propria coscienza, che le stette dietro portando il greve fardello del buonsenso, rimproverandola: "Ma questo non è la Narrazione, è solo una parte della Narrazione, solo una piccola parte…".

La coscienza, infine, fu aiutata in modo decisivo da maz Oryen Viya, il quale affermò che il testo del Pergolato che Sutty andava a studiare ogni giorno a casa sua da un mese era solo una parte, in molti punti completamente diversa, di un testo da lui visto molti anni prima in un grande umyazu di Amareza.

Non esisteva un testo esatto. Non esisteva una versione standard. Di nulla. Non c’era un unico Pergolato, ma molti, moltissimi pergolati. La giungla era sterminata, e non si trattava di una sola giungla, bensì di innumerevoli giungle, tutte brulicanti di tigri ardenti di significato, innumerevoli tigri…

Sutty finì di inserire la versione del Pergolato di Oryen Viya nel noter, ripose il cristallo, diede uno scappellotto al lato pedante della propria personalità, e ricominciò da capo.

Qualunque cosa fosse, quello che stava cercando di scoprire, di apprendere, non era una religione con un credo e un libro sacro. Non si occupava di fede. Tutti i suoi libri erano sacri. Non si poteva definire con simboli e idee, per quanto i suoi simboli e le sue idee fossero bellissimi, abbondanti, interessanti. E non si chiamava "Foresta", sebbene a volte la chiamassero così, né "Montagna", sebbene a volte la chiamassero così, ma perlopiù, a quanto le risultava, era chiamata "la Narrazione". Perché?

Be’ (disse il buonsenso, brusco), perché le persone colte qui narrano continuamente delle storie.

Sì, certo (replicò il suo intelletto con un certo disprezzo), narrano parabole, storie, è così che istruiscono. Ma che cosa fanno?

Sutty si mise a osservare i maz.

Sulla Terra, quando aveva studiato le lingue di Aka, aveva appreso che tutte le lingue principali avevano un particolare pronome singolare-duale, usato per una donna incinta o un animale gravido e per una coppia sposata. L’aveva incontrato di nuovo nel Pergolato e in molti altri testi, dove indicava il tronco singolo-doppio dell’albero dell’essere e pure i personaggi mitici-eroici delle storie e delle epopee, che di solito — come gli eroi produttori-consumatori della propaganda dell’Azienda — erano coppie. Quel pronome era stato bandito dall’Azienda. Usarlo nel linguaggio parlato o scritto era un reato punibile con una multa. Sutty non l’aveva mai sentito pronunciare a Dovza City. Lì, invece, lo sentiva pronunciare ogni giorno, anche se non in pubblico, in riferimento agli insegnanti-officianti, i maz. Perché?

Perché i maz erano coppie. Erano sempre coppie. Una unione sessuale, eterosessuale o omosessuale, monogama, che durava tutta la vita. Perfino oltre la morte, perché se rimanevano vedovi non si risposavano mai. Assumevano e conservavano ognuno il nome dell’altro. La moglie del Fecondatore, Ang Sotyu, era morta da quindici anni, ma lui era ancora Sotyu Ang. Erano due che erano uno, uno che era due.

Perché?

Sutty si eccitò. Era sulle tracce del principio centrale del sistema: i Due che sono Uno. Doveva concentrarsi e cercare di capire.

Dei maz cortesi le diedero molti testi, tutti più o meno pertinenti. Sutty apprese che dall’interazione dei Due derivavano i tripli Rami che si univano e formavano i Fogliami, i quali comprendevano le Quattro Azioni e i Cinque Elementi, cui facevano di continuo riferimento la cosmologia e i sistemi medico ed etico, e che erano inseriti nell’architettura e costituivano la struttura del linguaggio, specialmente nella sua forma ideogrammatica… Sutty si rese conto che stava addentrandosi in un’altra giungla, una giungla antichissima e spaventosamente lussureggiante. Si fermò ai margini e guardò dentro, smaniosa ma cauta, con la coscienza che uggiolava dietro di lei come un cane. Bravo cagnolino, il cane del dharma. Sutty non penetrò in quella giungla.

Ricordò che intendeva scoprire cosa facessero effettivamente i maz.

I maz eseguivano, o recitavano, o facevano, la Narrazione. Raccontavano.

Alcune persone non avevano molto da dire. Possedevano un libro o una poesia o una mappa o un trattato che avevano ereditato o ricevuto in dono, e che, almeno una volta all’anno, in genere d’inverno, mostravano o leggevano a voce alta o recitavano a memoria a chiunque fosse interessato. Quelle persone erano chiamate educatamente "persone colte", ed erano rispettate perché possedevano e mettevano a disposizione degli altri quel particolare tesoro, però non erano maz.

I maz erano professionisti. Dedicavano gran parte della vita all’acquisizione e alla divulgazione delle loro conoscenze, e si guadagnavano da vivere in quel modo.

Alcuni di loro, specialisti in cerimonie, assomigliavano ai preti delle religioni terrestri convenzionali, officiavano in occasione di riti di passaggio, matrimoni, funerali, accoglievano i neonati nella comunità, celebravano il quindicesimo compleanno, che era considerato un momento importante e propizio (Uno più Due più Tre più Quattro più Cinque). Le narrazioni di quei maz erano perlopiù basate su formule: canti e rituali e racconti delle storie eroiche più familiari.

Alcuni maz erano medici, guaritori, erboristi o botanici. Al pari di chi dirigeva gli esercizi fisici e le arti ginniche, quei maz raccontavano il corpo, si rivolgevano al corpo e lo ascoltavano anche (il corpo che era l’Albero, che era la Montagna). Le loro narrazioni erano insegnamenti medici concreti, descrittivi.

Alcuni maz lavoravano soprattutto con i libri: insegnavano ai bambini e agli adulti a scrivere e leggere gli ideogrammi, insegnavano i testi e come capirli.

Ma il lavoro fondamentale dei maz, quello per cui erano così stimati dalla gente, era raccontare: leggere a voce alta, recitare, narrare storie, e parlare delle storie. Più cose raccontavano, più erano stimati, e meglio le raccontavano, meglio venivano pagati. Quello di cui parlavano dipendeva da quello che sapevano, dal loro grado di erudizione, da quello che inventavano essi stessi e, ovviamente, da quello di cui avevano voglia di parlare in un dato momento.

L’incoerenza di tutto ciò era sbalorditiva. Nelle settimane in cui aveva appreso laboriosamente la storia del Due e dell’Uno, dell’Albero e del Fogliame, Sutty era andata a sentire ogni sera maz Ottiar Uming che raccontava una lunga saga mitico-storica sull’esplorazione delle Isole Orientali avvenuta sei o settemila anni prima, e parecchie volte la settimana, di mattina, era andata anche a sentire maz Imyen Katyan, che narrava le origini e la storia del cosmo, diceva i nomi di stelle e costellazioni, e descriveva i movimenti degli altri quattro pianeti del sistema akano, mostrando antiche carte celesti, bellissime e precise. Che senso aveva tutto ciò? C’era qualche connessione tra quella massa di cose disparate?

Stanca delle astrazioni della filosofia, per cui non aveva nessuna predisposizione, Sutty si dedicò a quella che i maz chiamavano "narrazione del corpo". I maz guaritori sembravano sapere parecchie cose sul mantenimento della salute. Chiese a Sotyu Ang di insegnarle la medicina. Il Fecondatore cominciò a parlarle con pazienza delle proprietà curative di ogni pianta dell’immenso erbario che aveva ereditato dai genitori di Ang Sotyu e che occupava gran parte dei cassettini della bottega.

Era felice che lei registrasse nel noter tutto quello che le diceva. Finora Sutty non aveva incontrato nessun elemento di sapienza arcana nella Narrazione, nessun segreto sacro che si potesse rivelare solo agli esperti, nessuna conoscenza tenuta nascosta per rafforzare l’autorità dei dotti, ingigantire la loro santità, o accrescere le loro parcelle. «Annota quello che ti dico!» ripetevano tutti i maz. «Memorizzalo! Conservalo per dirlo ad altra gente!» Sotyu Ang aveva dedicato la vita allo studio delle proprietà delle erbe, e non avendo discepoli né apprendisti era grato in modo commovente a Sutty, che conservava quelle conoscenze. «È tutto quello che ho da offrire alla Narrazione» disse. Lui non era un guaritore, ma un farmacista e un erborista. Non era forte in teoria; le sue spiegazioni del perché una data erba fosse efficace erano spesso semplice magia associativa o mere conclusioni lapalissiane: questa corteccia scaccia la febbre perché è un febbrifugo… Ma il sistema terapeutico alla base di quella farmacologia era, per quanto poteva giudicare Sutty, pragmatico, preventivo ed efficace.

Farmacia e medicina erano uno dei rami del Grande Sistema. C’erano molti, molti rami. La narrazione interminabile dei maz riguardava molte, molte cose. Tutte le cose, tutte le foglie dell’immenso fogliame dell’Albero. Sutty era sempre convinta che dovesse esserci un motivo informatore, qualche interesse centrale. Il tronco dell’Albero. Era l’etica? La giusta condotta nella vita?

Essendo cresciuta sotto l’Unismo, Sutty non era così ingenua da pensare che ci fosse per forza un rapporto tra religione e moralità, o che questo rapporto, se esisteva, fosse probabilmente benefico.

Però aveva cominciato a cogliere e ad apprendere un’etica akana caratteristica, espressa in tutte le parabole e i racconti morali sentiti nelle narrazioni, e nel comportamento e nei discorsi delle persone che conosceva a Okzat-Ozkat. Come la medicina, l’etica era pragmatica e preventiva, e sembrava piuttosto efficace. Prescriveva in primo luogo il rispetto del proprio corpo e del corpo di chiunque altro, e proibiva soprattutto l’usura.

La frequenza con cui il lucro eccessivo veniva denunciato nelle storie e dall’opinione pubblica dimostrava che il senso del male aveva radici profonde, su Aka. A Okzat-Ozkat, i reati erano soprattutto furto, imbroglio, malversazione. C’era poca violenza personale. Le aggressioni, compiute da ladri o da vittime incollerite di furti o estorsioni che si vendicavano, erano assai rare e ogni caso del genere suscitava discussioni che duravano anche settimane. I delitti passionali erano ancora più rari. Non si vedevano in essi lati affascinanti e non venivano condonati. Nei racconti e nelle storie, non si diventava eroi ammazzando e massacrando. Gli eroi erano coloro che riparavano azioni violente, o che morivano valorosamente. La parola che indicava "assassino" era un vocabolo analogo al termine "pazzo". Iziezi non seppe dire a Sutty se gli assassini venissero chiusi in prigione o in manicomio, perché non le risultava che ci fossero assassini a Okzat-Ozkat. Aveva sentito dire che in passato gli stupratori venivano castrati, però non sapeva di preciso come fosse punito adesso lo stupro, perché non le risultava neppure che ci fossero stati casi di stupro, lì. Gli akani erano teneri coi loro bambini, e pareva che Iziezi trovasse quasi inconcepibile l’idea di maltrattarli; conosceva certe storie di genitori crudeli, di bambini rimasti orfani che morivano di fame perché nessuno li prendeva in casa, ma disse: «Queste sono storie di tanto tempo fa, quando la gente non era ancora istruita».

L’Azienda, naturalmente, aveva introdotto una nuova etica, con nuove virtù quali il senso civico e il patriottismo, e un nuovo e vasto settore per quanto riguardava il crimine: la partecipazione ad attività proibite. Ma Sutty non aveva ancora conosciuto nessuno a Okzat-Ozkat, eccetto i funzionari dell’Azienda e forse qualche studente del Magistero, che considerasse criminali i maz o le loro pratiche. Bandito, illecito, illegale, deviante: quelle nuove categorie ridefinivano il comportamento, ma erano senza alcun significato morale, tranne che per i loro artefici.

Allora, in passato, non c’erano altri crimini che non fossero stupro, omicidio e usura?

Forse non c’era stato bisogno di ulteriori sanzioni. Forse il sistema era così universale che nessuno poteva immaginare di vivere fuori di esso, e solo la follia autodistruttiva poteva sovvertirlo. Era il modo di vivere, allora. Era il mondo.

Quell’ubiquità del sistema, la sua grande antichità, la tremenda forza dell’abitudine acquisita attraverso il suo modellamento minuzioso della vita quotidiana, dell’alimentazione, degli orari e degli scopi del lavoro e della ricreazione… tutto ciò, disse Sutty al noter, avrebbe potuto spiegare l’Aka moderno. Almeno, avrebbe potuto spiegare come l’Azienda di Dovza avesse conquistato l’egemonia tanto facilmente, come fosse riuscita a esercitare un controllo costante e minuzioso sul modo di vivere della gente, su cosa mangiava, beveva, leggeva, sentiva, pensava, faceva. Il sistema c’era già. Esisteva dall’antichità, solidissimo, su tutto il Continente e le Isole di Aka. A Dovza era bastato impossessarsi del sistema e cambiarne gli obiettivi. Quel grande modello sociale consensuale in cui ogni individuo cercava l’appagamento fisico e spirituale, era stato trasformato in una grande gerarchia in cui ogni individuo serviva la crescita indeterminata della ricchezza materiale e della complessità sociale. Da un equilibrio omeostatico attivo, si era passati a uno squilibrio attivo proiettato in avanti.

La differenza, disse Sutty al noter, era tra qualcuno seduto a riflettere dopo un buon pasto e qualcuno che correva a precipizio per prendere l’autobus.

Un’immagine che trovò soddisfacente.

Ripensò ai suoi primi mesi su Aka con incredulità e con un senso di commiserazione per se stessa e i produttori-consumatori di Dovza City. «Che sacrifici ha fatto questa gente!» disse al noter. «Hanno accettato di rinnegare tutta la loro cultura e di impoverire le loro vite per la "Marcia verso le Stelle", una meta artificiale e teorica, un’imitazione delle società che ritenevano superiori semplicemente perché in possesso della tecnologia del volo spaziale. Perché? Manca un fattore. È successo qualcosa che ha causato o catalizzato questo enorme cambiamento. È stato solo l’arrivo dei Primi Osservatori dell’Ekumene? Certo, quello fu un evento straordinario per un popolo che non aveva mai conosciuto estranei…»

E anche un fardello di responsabilità enorme per gli estranei, rifletté Sutty.

«Non tradirci!» aveva detto il Controllore. Ma la gente di Sutty, i navigatori stellari dell’Ekumene, gli Osservatori così attenti a non intervenire, a non interferire, a non assumere il controllo, avevano portato con sé il tradimento. Arriva un pugno di spagnoli, e i grandi imperi degli inca, degli aztechi, tradiscono se stessi, crollano, lasciano che i loro dei e la loro lingua vengano cancellati… Così gli akani erano stati i conquistatori di se stessi. Disorientati da concetti estranei, dall’idea stessa di estraneità, avevano lasciato che gli ideologi di Dovza li dominassero e li impoverissero. Come gli ideologi del socialcapitalismo nel ventesimo secolo, e i fanatici dell’Unismo nel secolo di Sutty, avevano dominato e impoverito la Terra.

Se davvero quel processo era iniziato con il primo contatto, forse era a titolo di riparazione che Tong Ov voleva scoprire il più possibile sul passato di Aka antecedente l’arrivo dei Primi Osservatori. Aveva qualche speranza di restituire infine agli akani quello che loro avevano gettato via? Lo Stato Azienda non l’avrebbe mai consentito. "Cercala nella spazzatura, la moneta d’oro", era un detto che Sutty aveva appreso da maz Ottiar Uming. Secondo lei, il Controllore non sarebbe stato d’accordo. Per il Controllore, la moneta d’oro era un cadavere putrefatto.

Sutty conversò mentalmente col Controllore parecchie volte, durante quel lungo inverno di apprendimento e ascolto, di lettura ed esercizio, di riflessione e ripensamento. Il Controllore diventò il suo sacco di segatura da prendere a pugni, per sfogarsi. Lui non poteva rispondere, doveva ascoltarla e basta. C’erano cose che Sutty non voleva registrare nel noter, cose che pensava nell’intimità della propria testa, opinioni che non poteva evitare di avere ma che cercava di tenere separate dall’osservazione. Per esempio, l’opinione che se la Narrazione era una religione, era diversissima dalle religioni terrestri, dato che era del tutto priva di dogmatismo, di impeto emotivo, del rinvio della ricompensa a una vita futura, e condannava il fanatismo. Tutti quegli elementi, di cui gli akani avevano fatto tranquillamente a meno, secondo Sutty erano stati introdotti da Dovza. Era lo Stato Azienda a costituire una religione. Così a lei piaceva evocare l’uniforme blu e marrone, la schiena rigida e il volto gelido del Controllore, e dirgli che era un fanatico, e uno sciocco, come tutti gli altri burocrati-ideologi, che cercavano di arraffare cose di nessun valore da altre genti e gettavano nella spazzatura il loro tesoro.

Il vero Controllore in carne e ossa doveva aver lasciato Okzat-Ozkat; Sutty non lo vedeva da settimane. Era un sollievo. Lo preferiva di gran lunga come figura immaginaria da bistrattare.

Aveva smesso di chiedere cosa facevano i maz. Anche un bambino di pochi anni avrebbe saputo rispondere a quella domanda. I maz raccontavano. Narravano, leggevano, recitavano, discutevano, spiegavano e inventavano. La materia infinita delle loro narrazioni non era fissa e non si poteva definire. E continuava a crescere, perfino adesso; perché non tutti i testi erano appresi da altri, non tutte le storie risalivano all’antichità, non tutte le idee e i pensieri erano stati tramandati nel corso degli anni.

La prima volta che incontrò Odiedin Manma fu in occasione di una narrazione, quando il maz raccontò la storia di un giovane, l’abitante di un villaggio delle colline pedemontane del Silong, che sognava di volare. Il giovane sognava di volare così spesso e in modo così vivido che a un certo punto cominciò a scambiare i sogni per la realtà. Descriveva le sensazioni del volo e le cose che vedeva dall’aria. Disegnava mappe di bellissime terre sconosciute dall’altra parte del mondo, nuove terre scoperte durante i suoi voli. La gente andava a sentire i suoi racconti e a vedere le mappe meravigliose. Ma un giorno, scendendo in un burrone mentre inseguiva un eberdin fuggito dal gregge, mise un piede in fallo, precipitò, e rimase ucciso.

La storia terminava così. Odiedin Manma non fece commenti, e nessuno gli rivolse domande. La narrazione si svolgeva a casa dei maz Ottiar e Uming. Più tardi, Sutty chiese delucidazioni a maz Ottiar Uming, perché quella storia l’aveva lasciata perplessa.

La vecchia disse: «Il compagno di Odiedin, Manma, è rimasto ucciso in una caduta quando aveva ventisette anni. Erano maz da un anno appena».

«E Manma sognava di volare?»

Ottiar Uming scosse il capo. «No» rispose. «Quella è la storia. La storia di Odiedin Manma, yoz. Lui racconta quella. Il resto della sua narrazione è nel corpo.» Si riferiva agli esercizi fisici, alle attività ginniche, di cui Odiedin era un insegnante molto stimato.

«Capisco» annuì Sutty, e se ne andò, riflettendo.

Sapeva una cosa, aveva imparato di sicuro una cosa, lì a Okzat-Ozkat: aveva imparato ad ascoltare. Ascoltare, sentire, continuare ad ascoltare ciò che aveva sentito. Portare con sé le parole e ascoltarle. Se il compito dei maz era narrare, il compito degli yoz era ascoltare. Come facevano notare tutti, i maz non servivano a nulla senza gli yoz, e viceversa.

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