Tre

Il viaggio meraviglioso di un battello che risaliva un fiume attraverso un deserto terminò il decimo giorno a Okzat-Ozkat. Sulla carta geografica la cittadina era un puntino ai margini di un esteso groviglio di isobare, la Grande Catena delle Sorgenti. A tarda sera, nell’oscurità fredda e limpida, era un’immagine confusa di muri biancastri, fioche finestre orizzontali poste in alto, odori di polvere e di sterco e di frutta marcia e una fragranza secca d’aria di montagna, una cantilena di voci, uno scalpiccio di piedi sulla pietra. Traffico su ruote quasi inesistente. Un bagliore rossastro scintillava in lontananza su una costruzione alta, scolorita, appena visibile sopra i tetti ornati, sullo sfondo verdognolo degli ultimi sprazzi di luce del cielo a ovest.

Gli annunci e la musica dell’Azienda risuonavano assordanti sui pontili. Quel rumore, dopo dieci giorni di voci sommesse e di silenzio del fiume, indusse Sutty ad allontanarsi subito.

Nessuna guida turistica la stava aspettando. Nessuno la seguì. Nessuno le chiese di mostrare il codice d’identità.

Ancora prigioniera dell’estasi passiva del viaggio, curiosa, nervosa, attenta, vagò per le strade vicino al fiume finché non cominciò a sentire tutto il peso della borsa a tracolla e la sferza pungente del vento. In una stradina buia in salita, si fermò davanti a una porta. La porta della casa era aperta, e una donna sedeva su una sedia nella luce gialla proveniente dall’interno, come se stesse godendosi una dolce serata estiva.

«Sai dirmi dove posso trovare una locanda?»

«Qui» disse la donna. Era disabile, notò adesso Sutty, con gambe che parevano stecchi. «Ki!» chiamò.

Apparve un ragazzo che dimostrava una quindicina d’anni. Senza una parola, invitò Sutty a entrare nella casa. La condusse in una grande stanza a pianterreno, una stanza dal soffitto alto, scura, arredata con un tappeto. Era un tappeto magnifico: lana cremisi di eberdin, con disegni concentrici in bianco e nero, austeri e complessi. L’unico altro oggetto nella stanza era l’apparecchio per l’illuminazione, una strana lampada grosso modo quadrata, piuttosto debole, collocata tra due alte finestre orizzontali. Il filo della lampada entrava da una finestra.

«C’è un letto?»

Il ragazzo indicò con un gesto timido una tenda in un angolo buio all’estremità opposta della sala.

«Bagno?»

Il ragazzo piegò la testa in direzione di una porta. Sutty andò ad aprirla. Tre gradini piastrellati scendevano in una stanzetta anch’essa piastrellata, in cui c’erano diversi strani ma interpretabili arnesi di legno, metallo e ceramica, che brillavano nel caldo bagliore di una stufetta elettrica.

«Tutto molto bello» disse Sutty. «Quanto costa?»

«Undici haha» mormorò il ragazzo.

«La notte?»

«Per una settimana.» La settimana akana era di dieci giorni.

«Oh, benissimo» annuì Sutty. «Grazie.»

Sbagliato. Non avrebbe dovuto ringraziarlo. I ringraziamenti erano "locuzioni servili". I titoli onorifici e le insignificanti espressioni rituali di saluto, di commiato, di richiesta di permesso, e di falsa gratitudine, per favore, grazie, non c’è di che, addio, resti fossili di un’ipocrisia primitiva: tutti ostacoli che intralciavano un rapporto autentico e sincero tra i produttori-consumatori. Sutty aveva imparato la lezione, in quei termini, poco dopo il suo arrivo su Aka. Si era esercitata fino a perdere del tutto simili brutte abitudini prese sulla Terra. Come mai adesso le era uscito di bocca quel selvaggio ringraziamento?

Il ragazzo si limitò a sussurrare qualcosa, parole che lei gli chiese di ripetere: un’offerta di cibo. Sutty accettò senza ringraziare.

Mezz’ora dopo, il ragazzo portò nella stanza un tavolino basso, apparecchiato con una tovaglia stampata e piatti di porcellana rosso scuro. Dietro la tenda, Sutty aveva trovato dei cuscini e un materassino bene imbottito; aveva appeso i propri indumenti alla sbarra e ai pioli che aveva trovato sempre dietro la tenda; aveva sistemato libri e taccuini sul pavimento lucido, sotto l’unica luce; e adesso era seduta sul tappeto, senza fare nulla. Le piaceva lo straordinario senso di spazio di quella stanza… ampiezza, altezza, silenzio.

Il ragazzo le servì una cena che comprendeva carne di pollame arrosto, verdure arrostite, un cereale bianco che sapeva di mais, e un tè aromatico tiepido. Accovacciata sul tappeto serico, Sutty mangiò tutto quanto. Il ragazzo si affacciò silenzioso un paio di volte per vedere se avesse bisogno di qualcosa.

«Dimmi il nome di questo cereale, per favore.» No. sbagliato. «Ma prima, dimmi come ti chiami.»

«Akidan» mormorò lui. «Quello è tuzi.»

«È buonissimo. Non l’avevo mai mangiato. Cresce qui?»

Akidan annuì. Aveva un viso forte, dolce, ancora da bambino, però s’intravedeva già l’uomo. «Fa bene al bosco» mormorò.

Sutty annuì saggia. «Ed è squisito.»

«Grazie, yoz.» Yoz: un termine definito dall’Azienda un appellativo servile, e bandito da almeno cinquant’anni. Significava, più o meno, persona come me, mio simile. Sutty non aveva mai sentito pronunciare quella parola se non sui nastri con cui aveva imparato le lingue akane sulla Terra. E "fa bene al bosco", era anche quello un fossile maligno? Forse l’avrebbe scoperto l’indomani. Quella sera avrebbe fatto il bagno, avrebbe srotolato il materassino e dormito nel silenzio benedetto di quel luogo montano.


Un lieve bussare, presumibilmente di Akidan, la guidò alla colazione, che aspettava sul tavolinetto fuori dalla porta. C’erano un grosso frutto tagliato e senza semi, pezzetti di qualcosa di giallo e piccante su un piattino, una pagnottella friabile grigiastra e una tazza senza manico di tè tiepido, questa volta leggermente amaro, con un sapore che all’inizio non le piacque, ma che trovò sempre più gradevole. Frutta e pane erano freschi e delicati. Sutty non mangiò la strana roba gialla sottaceto. Quando il ragazzo tornò per portare via il tavolino, gli chiese il nome di ogni cosa, perché era cibo del tutto diverso da quello che aveva mangiato nella capitale, e perché le era stato servito con cura considerevole. La vivanda sottaceto era abid, le spiegò Akidan. «È per la mattina presto» disse. «Per aiutare la frutta dolce.»

«Quindi dovrei mangiarlo?»

Akidan sorrise imbarazzato. «Aiuta a equilibrare.»

«Capisco. Lo mangerò, allora.» Sutty lo fece. Il ragazzo parve contento. «Sai, Akidan, vengo da molto lontano.»

«Da Dovza City.»

«Da ancora più lontano. Da un altro mondo. Dalla Terra dell’Ekumene.»

«Ah.»

«Quindi ignoro come si vive qui. Mi piacerebbe farti tante domande. Va bene?»

Akidan si strinse leggermente nelle spalle, annuendo, un gesto molto adolescenziale. Per quanto timido, era padrone di sé. Qualunque cosa significasse per lui, accettava con disinvoltura il fatto che un’Osservatrice dell’Ekumene, un’extraplanetaria che in teoria lui avrebbe dovuto vedere solo come immagine elettronica trasmessa dalla capitale, vivesse lì, in casa sua. Nemmeno un’ombra della xenofobia che Sutty aveva colto nell’individuo sgradevole incontrato sul battello.

La zia di Akidan, la disabile, che sembrava tormentata costantemente da una leggera sofferenza, parlava poco e non sorrideva, ma aveva lo stesso atteggiamento tranquillo e ospitale. Sutty si accordò con lei per un soggiorno di due settimane, forse più. Si era domandata se fosse l’unica cliente della locanda; ora, orizzontandosi nella casa, scoprì che c’era una sola camera per gli ospiti.

Nella metropoli, in ogni albergo e abitazione, in ogni ristorante, negozio, emporio, ufficio o dipartimento, quando si entrava e si usciva veniva sempre controllato in modo automatico il chip d’identità, l’importantissimo codice personale, la garanzia della propria esistenza come produttore-consumatore registrata nelle banche dati dell’Azienda. Il suo codice personale le era stato rilasciato nel corso delle lunghe formalità d’ingresso allo spazioporto. Senza di esso, l’avevano avvertita, lei non aveva identità su Aka. Non poteva affittare una stanza né noleggiare un robotaxi, non poteva comprare cibo al mercato né mangiare al ristorante, non poteva entrare in nessun edificio pubblico senza far scattare un allarme. La maggior parte degli akani aveva il chip inserito nel polso sinistro. Lei aveva preferito portare il proprio in un braccialetto apposito. Mentre parlava con la zia di Akidan nel piccolo ufficio sul davanti della casa, si guardò attorno in cerca del lettore di codice d’identità, pronta a compiere col braccio sinistro il gesto universale. Ma la donna fece ruotare la sedia verso un’imponente scrivania con decine di cassettini. Dopo parecchi errori, e pause per riflettere, trovò il cassetto che cercava, tirò fuori un polveroso libretto di moduli e ne staccò uno. Girò di nuovo la sedia e porse il modulo a Sutty, perché lo compilasse a mano. Era così vecchio che la carta era friabile, però c’era proprio uno spazio per il codice d’identità.

«Per favore, yoz, dimmi come devo rivolgermi a te» chiese Sutty. Un’altra frase presa da Esercizi avanzati.

«Il mio nome è Iziezi. Per favore, dimmi come devo rivolgermi a te, yoz e deyberienduin.»

Benvenuta-sotto-il-mio-tetto. Una bella parola. «Il mio nome è Sutty, yoz e gentile locandiera.» Inventato per l’occasione, sembrò sortire l’effetto desiderato. Il viso scarno e contratto di Iziezi s’illuminò leggermente. Quando Sutty le restituì il modulo, la donna portò le mani giunte al petto, con una lieve flessione del capo, un gesto appena accennato ma molto formale. Un gesto assolutamente proibito. Sutty ricambiò.

Mentre lei usciva, Iziezi stava mettendo il libretto di moduli e il modulo compilato da Sutty in un altro cassetto della scrivania. A quanto pareva, almeno per qualche ora, lo Stato Azienda non avrebbe saputo dove alloggiava l’individuo EX/HH 440 T 386733849 H 4/4939.

"Sono sfuggita alla rete" pensò Sutty, e uscì alla luce del sole.

All’interno della casa c’era piuttosto buio, tutte le finestre orizzontali erano poste molto in alto, e mostravano solo un cielo azzurro intenso. Quando andò all’aperto, Sutty rimase abbagliata. Muri di case bianchi, tegole scintillanti, strade ripide di ardesia scura che rifletteva la luce. Sopra i tetti, a ovest, quando cominciò ad abituarsi al chiarore abbacinante, Sutty vide il muro bianco più alto… una parete altissima… una cortina increspata di luce che si ergeva imponente nel cielo. La fissò, battendo le palpebre. Era una nuvola? Un’eruzione vulcanica? L’aurora boreale di giorno?

«La madre» disse un ometto sporco e sdentato, con un carrettino a tre ruote, sorridendole dalla strada.

Sutty lo guardò perplessa.

«La madre dell’Ereha» spiegò l’ometto, e indicò la parete di luce. «Il Silong. Eh?»

Il monte Silong. Sulla carta geografica, il punto più alto della Catena delle Sorgenti del Grande Continente di Aka. Sì. Risalendo il fiume, il rialzo del terreno l’aveva tenuto nascosto. Lì si riusciva a vedere forse la metà superiore del monte, un fulgore seghettato sopra cui si librava, ancora più remoto e immenso ed etereo, un picco cornuto, velato in parte di luce dorata. Dalla cima ondeggiavano gli impalpabili vessilli nevosi del vento eterno.

Mentre Sutty e l’uomo col carrettino osservavano, altre persone si fermarono ad aiutarli a osservare. Quella fu l’impressione che ebbe Sutty. Loro conoscevano l’aspetto del Silong, perciò potevano aiutarla a vederlo. Dissero il nome del monte e lo chiamarono "Madre", indicando il luccichio del fiume in basso, in fondo alla strada. Uno di loro disse: «Potresti andare sul Silong, yoz?».

Erano persone piccole, esili, con le gote paffute e gli occhi stretti degli abitanti della regione collinare, denti guasti, abiti rattoppati, mani e piedi fini, rovinati dal freddo e dalle ferite. Avevano quasi lo stesso colorito bruno di Sutty.

«Andare là?» Sutty li guardò, vide che sorridevano tutti, e non poté fare a meno di sorridere. «Perché?»

«Sul Silong si vive per sempre» disse una donna grinzosa, con uno zaino pieno di quella che sembrava pietra pomice.

«Caverne» disse un uomo con una faccia giallognola sfregiata. «Caverne piene di vita.»

«Buon sesso!» disse l’uomo col carrettino, e tutti risero. «Sesso per trecento anni!»

«È troppo alto» disse Sutty. «Come si fa ad andare lassù?»

Tutti sogghignarono e risposero: «Volando!».

«Un aereo può atterrare sul monte?»

Risolini, scrollate di capo. La donna grinzosa disse: «In nessun posto» e l’uomo dalla faccia giallastra ribadì: «Niente aereo» e l’ometto col carrettino concluse: «Dopo trecento anni di sesso, chiunque può volare!». Poi, mentre stavano ridendo in coro, smisero di colpo, tremolarono come ombre, sparirono, e non rimasero che l’uomo col carretto, che riprese a spingerlo lungo la strada, e Sutty, che si ritrovò a fissare il Controllore.

Sul battello non le era sembrato una figura di spicco, lì, invece, spiccava. La sua pelle, la sua carnagione, era diversa da quella della gente del posto: liscia, coriacea, ricordava addirittura la plastica. La giubba e i gambali blu e marrone chiaro erano puliti, senza una grinza, e simili a qualsiasi uniforme su qualsiasi mondo. A Okzat-Ozkat, il Controllore era una nota stonata, proprio come Sutty. Era uno straniero, un alieno.

«Mendicare è illegale» esordì.

«Non stavo mendicando.»

Dopo una breve pausa, il Controllore disse: «Hai frainteso. Non incoraggiare i mendicanti. Sono parassiti dell’economia. Fare l’elemosina è illegale».

«Nessuno stava chiedendo l’elemosina.»

Il Controllore le rivolse un rapido cenno con il capo — "d’accordo, allora, sei stata avvisata" — e si allontanò.

«Grazie mille per essere sempre così affascinante e cortese!» disse Sutty nella propria lingua nativa. Oh, sbagliato, sbagliato. Non aveva il diritto di fare del sarcasmo, in nessuna lingua, anche se il Controllore non le prestava attenzione. Era un tipo insopportabile, ma lei era tenuta comunque a comportarsi secondo le regole. Se voleva ottenere delle informazioni, lì, non doveva inimicarsi i burocrati locali; se voleva scoprire qualcosa, non doveva giudicare. Il vecchio motto degli esploratori: "Dove inizia l’opinione, termina la percezione". Forse quelle persone erano davvero dei mendicanti, che stavano cercando di lavorarsi proprio lei. Come faceva a saperlo? Lei non sapeva nulla, nulla di quel luogo, di quella gente.

Si mise in cammino per imparare a conoscere Okzat-Ozkat, con l’umile proposito di non avere alcuna idea preconcetta.

Gli edifici moderni — la prigione, la prefettura, gli enti agrario, culturale, minerario, il magistero, il liceo — erano simili agli edifici analoghi delle altre città che Sutty aveva visto: costruzioni semplici, massicce. Lì, erano alti solo due o tre piani, però spiccavano, come il Controllore. Il resto della città era piccolo, sporco, fragile. Muri bassi tinteggiati di rosso o arancione, finestre orizzontali poco sotto i cornicioni, tetti di tegole rosse o verde oliva con decorazioni intricate lungo gli spioventi e animali fantastici di ceramica che sollevavano gli spigoli con le loro bocche irte di denti; negozietti con i muri esterni e interni interamente coperti di scritte nei vecchi segni ideografici, scritte cancellate con un’imbiancatura, ma che trasparivano con una strana leggibilità subliminale. Ripide strade lastricate d’ardesia, e scalini che conducevano a porte sprangate dipinte di rosso e di blu e poi imbiancate. Cortili dove uomini lavoravano, fabbricando corda o tagliando pietra. Stretti appezzamenti tra le case, dove donne anziane vangavano, zappavano, sarchiavano, e cambiavano la disposizione di impianti d’irrigazione in miniatura. Alcune vetture nella zona del porto fluviale e parcheggiate vicino ai grandi edifici bianchi, ma nelle strade il traffico era esclusivamente pedonale, carriole e carretti spinti a mano. E, con grande gioia di Sutty, dalla campagna arrivò una carovana: grossi eberdin che trainavano carri a due ruote con tettucci di tela ornati di frange verdi, e due eberdin ancora più grossi, delle dimensioni di pony, con campanacci legati alla lana vellutata del collo, ognuno montato da una donna in giaccone rosso che sedeva impassibile tra gli alti corni della sella.

La carovana oltrepassò la facciata della Prefettura Distrettuale, un piccolo frammento gaio e tintinnante del passato che si muoveva con calma sotto lo sguardo vacuo del futuro. Dal tetto della Prefettura proveniva un fragore di musica ispiratrice mista a esortazioni. Sutty seguì la carovana per diversi isolati e la vide fermarsi ai piedi di una delle lunghe gradinate. Anche la gente nella strada si fermò, con quell’aria di amabile sollecitudine, quasi volesse aiutarla a osservare, anche se nessuno le disse nulla. Dalle porte rosse e blu uscirono delle persone, e scesero la gradinata per dare il benvenuto ai viaggiatori e portare dentro i bagagli. Un albergo? La residenza cittadina dei mercanti?

Sutty tornò indietro, dirigendosi verso uno dei negozi che aveva visto prima nella parte alta della città. Se aveva compreso bene le scritte attorno alla porta, quel negozio vendeva lozioni, unguenti, aromi e fertilizzante. Comprando una crema per le mani, magari avrebbe avuto il tempo di leggere alcune delle scritte che coprivano ogni muro dal pavimento al soffitto, tutte nei vecchi caratteri illegali. Sulla facciata del negozio, le scritte erano state imbiancate e cancellate con nuove scritte nell’alfabeto moderno, ma queste ultime erano ormai abbastanza sbiadite da permettere di distinguere alcune delle parole nascoste sotto. Era là che Sutty aveva scorto "aromi e fertilizzante". Probabilmente profumi e… cosa? Fecondità? Medicine contro la sterilità, forse? Entrò.

Fu subito sommersa dagli aromi… forti, dolci, penetranti, strani. Un ambiente fioco e acre. Sutty ebbe la singolare sensazione che i pittogrammi e gli ideogrammi dalle forme nere e blu scuro che coprivano le pareti stessero muovendosi, non a scatti come caratteri intravisti di sfuggita, ma in modo uniforme, regolare, espandendosi e contraendosi adagio, come se stessero respirando.

La stanza era alta, illuminata dalle solite finestrelle appena sotto il soffitto, e rivestita di armadietti pieni di cassettini. Quando i suoi occhi si abituarono alla penombra, vide un vecchio esile in piedi dietro un banco sulla sinistra. Dietro la testa del vecchio, due caratteri spiccavano nitidi sulla parete. Sutty li Lesse d’impulso, alcuni dei loro vari significati le vennero in mente quasi subito: eminente / cima / cappello di feltro / guardare giù / balzare su… e poi: due / dualità / lati / lombi / unire / separare.

«Yoz e deyberienduin, posso esserti utile?»

Lei chiese se avesse un unguento o una lozione per la pelle secca. Il proprietario annuì affabile e cominciò a rovistare nei mille cassettini con un’aria di tranquilla sicurezza, certo di trovare alla fine ciò che cercava, esattamente come Iziezi coi cassettini della scrivania.

Mentre si svolgeva la ricerca, Sutty ebbe il tempo di leggere le pareti, ma la sconcertante illusione di movimento continuò, e lei non riuscì a capire granché delle scritte. A quanto pareva, non si trattava di scritte pubblicitarie, come aveva immaginato, bensì di ricette, o formule magiche, o citazioni. Si parlava molto di rami e di radici. C’era un carattere che Sutty conosceva come "sangue", ma scritto con un qualificativo elementare diverso, che avrebbe potuto mutare il significato in "linfa" o "succo". C’erano formule come "il cinque dal tre, il tre dal cinque". Alchimia? Medicina, ricette, incantesimi? Sutty sapeva solo che erano vecchie parole, vecchi significati, che per la prima volta stava leggendo il passato di Aka. E non aveva alcun senso.

A giudicare dall’espressione, il proprietario aveva trovato un cassetto di suo gradimento. Guardò all’interno per un po’ con aria soddisfatta, prima di estrarre un vaso di terracotta opaco e posarlo sul banco. Poi ricominciò a cercare pacifico tra le file di cassetti privi di qualsiasi etichetta finché non ne trovò un altro che riscuoteva la sua approvazione. Lo aprì e guardò dentro, e poco dopo tirò fuori una scatola di carta clorata. La prese e sparì in una stanza interna. Alcuni istanti più tardi tornò con la scatola, un vasetto smaltato e un cucchiaio. Posò tutti gli oggetti sul banco, in fila. Con il cucchiaio, prese qualcosa dal vaso opaco e lo mise nel vasetto smaltato, pulì il cucchiaio con un panno rosso che teneva sotto il banco, versò nel vasetto smaltato due cucchiai di una fine polvere bianca simile a talco presa dalla scatola dorata, e cominciò a mescolare la miscela con la stessa pazienza infinita. «Renderà ben liscia la corteccia» disse sottovoce.

«La corteccia» ripeté Sutty.

Il vecchio sorrise e, posando il cucchiaio, si passò una mano sul dorso dell’altra.

«Il corpo è come un albero?»

«Ah» disse il vecchio, esattamente come Akidan aveva detto "Ah". Era un suono di assenso, ma con riserva. Era un sì, ma non proprio sì. Oppure, sì, ma non usiamo quella parola. O ancora, sì, ma non occorre parlarne. Un sì con una scappatoia.

«Nella nuvola scura che scende dal cielo… il forcuto… il biforcuto…?» disse Sutty, provando a leggere un’iscrizione sbiadita ma scritta in modo magnifico nella parte superiore della parete.

Il vecchio batté forte una mano sul banco e portò l’altra alla bocca.

Sutty sussultò.

Si fissarono. Il vecchio abbassò la mano. Sembrava tranquillo, nonostante la reazione sorprendente. Forse stava sorridendo. «Non a voce alta, yoz» mormorò.

Sutty continuò a fissare per un attimo, poi chiuse la bocca.

«Sono solo vecchie decorazioni» disse il proprietario. «Tappezzeria antiquata. Linee e punti senza senso. Da queste parti vive gente antiquata, che lascia in giro queste decorazioni sorpassate invece di pulire i muri, dipingendoli, perché siano bianchi e silenziosi. Il silenzio è una nevicata. Ora, yoz e onorevole cliente, questo unguento permette alla pelle di respirare un poco. Vuoi provarlo?»

Sutty mise un dito nel vasetto e spalmò una piccola quantità di crema chiara sulle mani. «Oh, che sollievo! E che odore gradevole! Come si chiama?»

«Il profumo è l’erba chiamata immimi, l’unguento è un mio segreto, e il prezzo è zero.»

Sutty aveva preso il vasetto e lo stava ammirando; era sicuramente un oggetto antico, vetro massiccio smaltato, con un coperchio elegante, un gioiellino. «Oh, no, no, no» disse, ma il vecchio alzò le mani giunte come aveva fatto Iziezi e piegò il capo con tale dignità che era impossibile insistere. Sutty imitò il suo gesto. Poi gli sorrise e disse: «Perché?».

«… l’albero-lampo biforcuto cresce dalla terra» mormorò il vecchio, in un sussurro quasi impercettibile.

Dopo un istante, lei tornò a guardare l’iscrizione e vide che terminava con le parole pronunciate dal vecchio. I loro occhi s’incontrarono di nuovo. Poi il vegliardo sparì nella penombra in fondo alla stanza, e Sutty uscì in strada, battendo le palpebre nel chiarore intenso e stringendo il dono.

Mentre ripercorreva il dedalo di vie ripide, diretta alla locanda, rifletté. A quanto pareva, prima il Mobile, poi il Controllore, e adesso il Fecondatore, o qualunque cosa fosse, l’avevano prontamente cooptata, in modo indolore, coinvolgendola nei loro disegni senza dirle quali fossero. «Va’ a cercare le persone che conoscono le storie e riferisci a me quello che scopri» aveva detto Tong. «Evita i reazionari dissidenti e riferisci a me quello che scopri» aveva detto il Controllore. Quanto al Fecondatore, l’aveva corrotta perché tacesse o ricompensata per aver parlato? La seconda ipotesi, secondo lei. Ma l’unica cosa di cui avesse la certezza era di essere troppo ignorante per fare quello che stava facendo senza mettere in pericolo se stessa o gli altri.

Per conquistare il potere tecnologico e la libertà intellettuale, il governo di quel mondo, aveva messo al bando il passato. Lei non sottovalutava l’ostilità dello Stato Azienda akano nei confronti delle "decorazioni sorpassate" e del loro significato. Per quel governo, che aveva dichiarato di volersi sbarazzare della tradizione, delle consuetudini e della storia, tutte le vecchie usanze, le vecchie pratiche, i vecchi metodi, le vecchie idee, le vecchie devozioni, erano fonti di sovversione contagiosa, cadaveri putrefatti da bruciare o seppellire. La scrittura che li aveva conservati andava cancellata.

Se i nastri didattici e i drammi storici dei quasiveri che aveva studiato nella capitale si basavano su fatti reali, e secondo lei quel materiale si basava almeno in parte su eventi realmente accaduti nella vita di persone ancora al mondo, ciò significava che uomini e donne erano stati schiacciati dai muri dei templi abbattuti, erano bruciati vivi con i libri che cercavano di salvare, avevano subito il carcere a vita per avere insegnato sedizione anacronistica e ideologia reazionaria. I nastri e i drammi esaltavano quella guerra contro il passato presentando i bombardamenti, gli incendi, le demolizioni in termini severamente eroici. Giovani coraggiosi che si liberavano di genitori stupidi, preti conniventi, insegnanti di superstizione, fomentatori della reazione, e che inflessibili bruciavano le foreste pestilenziali dell’errore, piantando al loro posto frutteti sani… giovani coraggiosi nel denunciare il professore malvagio che aveva nascosto un dizionario di ideogrammi sotto il letto… giovani coraggiosi che facevano saltare gli alveari mostruosi dov’era immagazzinato il veleno dell’ignoranza… giovani coraggiosi che demolivano con le ruspe i fragili rituali della superstizione… e che poi, mano nella mano, guidavano i loro compagni produttori-consumatori perché si unissero alla Marcia verso le Stelle.

Dietro la facile ed eccessiva retorica, c’erano sofferenza autentica, vera passione. Da ambo le parti. Sutty lo sapeva. Era figlia della violenza, come aveva detto Tong Ov. Eppure stentava a tenere presente un particolare amaro e ironico: lì avveniva l’esatto contrario della situazione che aveva conosciuto lei, il negativo; lì, i credenti non erano i persecutori ma i perseguitati.

Ma erano tutti veri credenti, da entrambe le parti. Terroristi laici o terroristi santi… che differenza c’era?

L’unica cosa che le era parsa insolita nell’incessante propaganda dei Ministeri dell’Informazione e della Poesia era che gli eroi delle storie esemplari in genere agissero in coppia… un fratello e una sorella o una coppia di fidanzati o di sposi. Se si trattava di una coppia con un legame sessuale, l’unione era sempre eterosessuale. Il governo akano nutriva un odio ossessivo per la devianza. Tong l’aveva avvertita subito quando era giunta su Aka: «Dobbiamo adeguarci. Non sono ammesse obiezioni, discussioni. Tutto quello che può essere visto e denunciato come un’avance sessuale a una persona dello stesso sesso costituisce un reato gravissimo. Che fastidio, che tristezza! Questa povera gente!» E aveva sospirato per le sofferenze dei fanatici e dei puritani, per le sofferenze e le crudeltà.

Sutty non aveva bisogno di quell’avvertimento, dato che aveva pochissimi contatti con le persone come individui, ma naturalmente ne aveva tenuto conto, ed era stato un fattore della sua grande delusione iniziale, del suo sconforto. Le vecchie usanze e la vecchia lingua akana che aveva imparato sulla Terra l’avevano indotta a pensare che l’attendesse una società sessualmente aperta, priva o quasi di sessismo. La società del suo paese d’origine sulla Terra era ancora inibita da discriminazioni sociali e sessuali, aggravate dalla misoginia e dall’intolleranza degli Unisti. Sulla Terra, nessun posto era del tutto libero da tale macchia, nemmeno le Riserve. Tra l’altro, si era specializzata in Aka, aveva imparato quelle lingue, anche perché lei e Pao avevano letto nei rapporti dei Primi Osservatori che nella società akana non vigevano discriminazioni sessuali e che l’eterosessualità non era né obbligatoria né privilegiata. Però era cambiato tutto, dalle fondamenta, durante gli anni del suo viaggio dalla Terra ad Aka. Una volta arrivata, Sutty era stata costretta a tornare alla circospezione, alla cautela, alla repressione di se stessa. E al pericolo.

Ma allora, perché tutti cercavano così prontamente di reclutarla, di servirsi di lei? Non era certo il fiore all’occhiello di nessuno.

Le ragioni di Tong erano abbastanza evidenti: Tong aveva colto al volo l’occasione di inviare qualcuno da solo nell’entroterra, e aveva scelto lei perché conosceva la vecchia scrittura e la vecchia lingua e avrebbe capito cos’aveva scoperto quando l’avesse scoperto. Ma se avesse scoperto qualcosa, cos’avrebbe dovuto fare? Sarebbe stato materiale di contrabbando. Illegale. Sedizione contro l’Azienda. Tong le aveva detto che aveva fatto bene a cancellare i frammenti dei vecchi libri recuperati dalla trasmissione sabotata. Eppure, adesso voleva che lei registrasse materiale del genere?

Quanto al Controllore, be’, lui si stava divertendo a fare sfoggio della propria autorità. Doveva essere eccitante per un modesto tutore della correttezza culturale trovare un vero straniero, un autentico Osservatore dell’Ekumene, al quale dare ordini: "Non parlare con i parassiti della società… non lasciare la città senza la mia autorizzazione… fa’ rapporto al capo, cioè al sottoscritto".

E il Fecondatore? Sutty era convinta che il vecchio sapesse chi era, e che il suo dono non fosse un semplice gesto di cortesia nei confronti di una straniera, ma significasse qualcosa. Chissà cosa, però.

Data la sua ignoranza, se Sutty avesse permesso a qualcuno di loro di controllarla, avrebbe potuto fare del male. Se però avesse cercato di fare qualcosa di ardito e di decisivo da sola, il danno l’avrebbe causato quasi di sicuro. Doveva procedere passo passo, aspettare, osservare, imparare.

Tong le aveva dato una parola in codice da inserire in un messaggio in caso di guai: "devolvere". Ma Tong in realtà non si aspettava che potessero sorgere problemi. Gli akani amavano i loro ospiti stranieri, le mucche da cui mungevano il latte della tecnologia avanzata. Non avrebbero permesso che lei si cacciasse in qualche situazione pericolosa. Sutty non doveva lasciarsi paralizzare da una prudenza eccessiva.

L’avvertimento del Controllore a proposito degli indigeni brutali era soltanto una frottola per spaventarla. Okzat-Ozkat era un luogo sicuro dove vivere, sicuro in modo patetico. Era una povera cittadina di provincia, trascinata nella scia tumultuosa del progresso akano, ma abbastanza arretrata da conservare ancora resti sbrindellati del vecchio modo di vivere, dell’antica civiltà. Probabilmente l’Azienda aveva consentito a un extraplanetario di andare lì perché era un posto così fuori mano, una località sperduta, pittoresca e innocua. Tong ce l’aveva mandata seguendo un’intuizione, nella speranza di trovare, sotto la strepitosa, univoca, monolitica vicenda moderna di Aka, qualche traccia di quello che all’Ekumene interessava tanto: il carattere singolare di un popolo, il suo modo di essere, la sua storia. Lo Stato Azienda akano voleva dimenticare, nascondere, bandire, seppellire tutto ciò, e se lì Sutty avesse scoperto qualcosa l’Azienda non sarebbe stata contenta. Ma i giorni della gente schiacciata dalle macerie e bruciata viva erano finiti. O no? Il Controllore intimidiva e faceva il prepotente, ma cosa poteva fare?

Non molto, a lei. Parecchio, forse, a quelli che parlavano con lei.

"Sta’ ferma" si disse. "Ascolta. Ascolta quello che hanno da dire."

L’aria era secca a quell’altezza, fredda all’ombra, calda al sole. Si fermò in una tavola calda vicino al Magistero per comprare una bottiglia di succo di frutta e si sedette a bere a un tavolino all’aperto. Musica allegra, esortazioni, notizie sul raccolto, statistiche sulla produzione, programmi sanitari, diffusi in rutta la piazza dagli onnipresenti altoparlanti. In qualche modo, Sutty doveva imparare ad ascoltare in mezzo a quel rumore, cogliere quello che nascondeva, il significato nascosto.

Il suo significato era per caso la sua continuità? Gli akani avevano paura del silenzio?

Nessuno, attorno a lei, sembrava avere paura di nulla. Erano studenti, con le uniformi verdi e ruggine dell’Istruzione. Molti avevano gli zigomi prominenti e l’ossatura delicata dei vecchi del posto, ma erano lustri e floridi, sprizzavano giovinezza e sicurezza, chiacchieravano e gridavano intorno a lei senza vederla. Per loro, qualunque donna oltre la trentina era un’aliena.

Stavano mangiando il tipo di cibo che lei aveva mangiato nella capitale, roba trattata ad alto contenuto proteico, e bevevano akakafi, una bevanda calda locale ribattezzata con un nome semiterrestre. La marca di akakafi dell’Azienda si chiamava Stardrink ed era onnipresente. L’akakafi era agrodolce, nero, conteneva uno straordinario miscuglio di alcaloidi, stimolanti e sostanze depressive. Sutty ne detestava il sapore, le impastava la lingua, ma aveva imparato a ingoiarlo, dato che bere insieme l’akakafi era uno dei pochi rituali di rapporto sociale che gli abitanti di Dovza City si concedessero, e dunque molto importante per loro. «Un akakafi?» strillavano non appena uno arrivava in casa, in ufficio, a una riunione. Rifiutare era maleducazione, addirittura un affronto. Molte chiacchiere avevano come argomento l’akakafi: dove trovare quello migliore (non lo Stardrink, naturalmente), dov’era coltivato e trattato, come prepararlo. La gente si vantava del numero di tazze che ne beveva ogni giorno, come se una leggera dipendenza fosse, chissà perché, lodevole. Quei giovani ne bevevano litri.

Sutty li ascoltò attenta, sentì parlare di esami, premiazioni, vacanze. Nessuno parlava di corsi o di materie di studio, tranne due studenti vicini a lei che stavano discutendo su come insegnare ai bambini dell’asilo l’uso del gabinetto. Il ragazzo insisteva che il migliore incentivo era la vergogna. La ragazza replicò: «Meglio pulire e sorridere». Al che il ragazzo, seccato, attaccò con un predicozzo, tirando in ballo l’adattamento, gli obiettivi etici e il lassismo igienico.

Tornando a casa, Sutty si chiese se quella di Aka fosse una cultura basata sul senso di colpa, sulla vergogna, o su qualcosa di completamente diverso. Come mai tutti erano disposti a muoversi nella stessa direzione, a parlare la stessa lingua, a credere le stesse cose? Avevano paura di essere cattivi, o paura di essere diversi?

Ecco che saltava fuori di nuovo la paura, rifletté Sutty. Un problema suo, non loro.

Quando arrivò alla locanda, la padrona di casa era seduta sulla soglia. Si salutarono timidamente con espressioni illegali. Parlando del più e del meno, Sutty disse: «Mi piace molto il tè che servite. È molto meglio dell’akakafi».

Iziezi non abbassò una mano di scatto e non portò l’altra alla bocca, però le sue mani ebbero un fremito improvviso, e dalle labbra le uscì lo stesso «Ah» pronunciato dal Fecondatore. Poi, dopo una lunga pausa, cauta, abbreviando la parola inventata, la locandiera disse: «Ma l’akakafi proviene dal tuo paese».

«Certa gente sulla Terra beve qualcosa di simile. La mia gente, no.»

Iziezi sembrava tesa. Evidentemente, era un argomento delicato.

Se ogni argomento era un campo minato, non le restava che continuare a parlare ignorando le esplosioni, rifletté Sutty. Chiese: «Non piace nemmeno a te?».

Iziezi fece una smorfia. Dopo un silenzio nervoso, rispose decisa: «Fa male alla gente. Prosciuga la linfa e disturba il flusso. Alle persone che bevono akakafi tremano le mani e sussulta il cuore. Almeno, così dicevano. In passato. Molto tempo fa. Mia nonna. Adesso tutti lo bevono. Era una di quelle vecchie regole, sai. Non una cosa moderna. Alla gente moderna piace».

Cautela; confusione; convinzione.

«All’inizio non mi piaceva il tè che bevete a colazione, però adesso mi piace. Cos’è? Cosa fa?»

La faccia di Iziezi si rasserenò. «Quello è bezit. Avvia il flusso e riunisce. Rinvigorisce anche il fegato, un poco.»

«Sei una… esperta di erbe» disse Sutty, non conoscendo la parola che indicava "erborista".

«Ah!»

Una piccola mina era esplosa. Un piccolo avvertimento.

«Gli esperti di erbe sono rispettati e stimati nel mio paese natio» disse Sutty. «Molti di loro sono dottori.»

Iziezi non disse nulla, ma a poco a poco il suo volto tornò a rasserenarsi.

Mentre Sutty si girava per entrare in casa, la disabile disse: «Tra qualche minuto, vado al corso di esercizio fisico».

"Esercizio fisico?" pensò Sutty, lanciando un’occhiata agli stecchi inerti che pendevano dalle ginocchia di Iziezi.

«Se non hai trovato un posto dove esercitarti e desideri venire…»

L’Azienda era molto forte in ginnastica. A Dovza City, tutti appartenevano a un gruppo ginnico e frequentavano corsi che curavano la forma fisica. Parecchie volte al giorno, dagli altoparlanti risuonavano musica vivace e grida di "Uno! Due!", e intere fabbriche e palazzi di uffici riversavano nelle strade e nei cortili i produttori-consumatori perché saltassero e si piegassero e ruotassero di lena all’unisono. In quanto straniera, Sutty era riuscita quasi sempre a evitare quegli esercizi, ma guardando la faccia consunta di Iziezi disse: «Vengo volentieri».

Entrò in casa, e cercò un posto d’onore in bagno per lo splendido vasetto donatole dal Fecondatore. Poi si cambiò, si tolse i gambali aderenti e indossò dei pantaloni larghi. Quando uscì dalla stanza, vide che Iziezi, usando delle stampelle, si stava sistemando su una piccola carrozzella a motore fabbricata dall’Azienda, modello Starflight. Sutty disse che le sembrava un mezzo ben costruito. Di tutt’altro avviso, Iziezi ribatté: «Va bene solo in piano» e partì, sobbalzando e sussultando sulla strada ripida e dissestata. Sutty camminò accanto a lei, dando una mano quando la carrozzella si bloccava, cosa che accadeva circa ogni due metri. Arrivarono a un edificio basso, con le solite finestre sotto i cornicioni, e un portone a due battenti. Un battente un tempo era rosso, e l’altro blu, con un motivo a nuvola dipinto sopra che adesso traspariva spettrale, a chiazze rosa e grigie attraverso le mani di bianco. Iziezi puntò dritta sulla porta e la spalancò. Sutty la seguì.

Sembrava che ci fosse buio pesto, dentro. Sutty si stava abituando a quei passaggi dall’oscurità interna al bagliore abbacinante esterno e viceversa, ma i suoi occhi no. Appena oltre la porta, Iziezi si fermò e attese che Sutty si togliesse le scarpe e le mettesse su una mensola all’estremità di una fila di scarpe, tutte di tela nera, modello StarMarch, naturalmente. Poi Iziezi girò la carrozzella, scese ad andatura sostenuta una lunga rampa, parcheggiò dietro una panca e, sollevandosi con le stampelle, vi si sedette sopra. Sembrava che la panca si trovasse al margine di una grande area coperta di stuoie, oltre la quale regnava un’oscurità vellutata.

Sutty riuscì a scorgere delle figure indistinte, sedute qui e là a gambe incrociate sulle stuoie. Sulla panca, vicino a Iziezi, sedeva un uomo con una gamba sola. Iziezi si sistemò, posò le stampelle e alzò lo sguardo verso Sutty, che indicò il pavimento con un cenno della mano. Era entrato qualcuno e la porta si era aperta per un attimo, e in quell’istante di visibilità grigia Sutty vide che Iziezi sorrideva. Una cosa bellissima e commovente.

Sutty si sedette a gambe incrociate sulla stuoia, le mani in grembo. Per parecchio tempo, non accadde nulla. Era sicuramente diverso da tutti i corsi di esercizio fisico che aveva visto, rifletté Sutty, e molto più di suo gusto. Le persone entravano in silenzio, una o due alla volta. Quando i suoi occhi si abituarono del tutto, vide che la sala era molto grande. Doveva essere stata scavata quasi interamente nel terreno. Le finestre lunghe e basse, poste dove le pareti incontravano il soffitto, erano di vetro bluastro spesso, che lasciava entrare solo una luce diffusa. Sopra le finestre, il soffitto saliva formando una cupola o una serie di volte: Sutty riusciva a scorgere solo travi scure che si ramificavano. Frenò gli occhi curiosi e si sforzò di rimanere seduta, di respirare, e di non addormentarsi.

Sfortunatamente, per lei la meditazione da seduta e il sonno tendevano sempre a convergere. Quando l’uomo che le sedeva accanto cominciò a dilatarsi e a contrarsi come gli ideogrammi sulla parete del negozio del Fecondatore, provò solo un vago interesse. Poi, assumendo col busto una postura un po’ più eretta, vide che l’uomo stava alzando le braccia tese sopra la testa fino a unire il dorso delle mani, e poi abbassava le braccia molto lentamente, seguendo il ritmo regolare del respiro. Iziezi e alcune altre persone stavano facendo la stessa cosa, più o meno allo stesso ritmo. Quei movimenti sereni, silenziosi, erano come il pulsare di una medusa in un acquario buio. Sutty si unì alla pulsazione.

Altri movimenti furono introdotti qua e là, uno alla volta, tutti movimenti delle braccia, e tutti al ritmo lento del respiro. C’erano periodi di riposo, poi la calma espansione e contrazione — tendere e rilassare, dilatare e contrarre — ricominciava, trasmettendosi da una figura indistinta all’altra. Un suono basso, bassissimo, accompagnava i movimenti, un mormorio ritmico muto, musica del respiro di cui non si distingueva la sorgente. Dall’altra parte della sala, una figura si alzò con estrema lentezza, biancastra, ondeggiando: un uomo o una donna, in piedi, stava compiendo i movimenti con le braccia, e piegava il busto in avanti o indietro o di lato. Altre due o tre persone si alzarono con la stessa flessuosità snodata, e cominciarono a protendersi, a oscillare, senza mai staccare un piede dal pavimento, simili più che mai a creature marine radicate, anemoni, una foresta di alghe, mentre il canto incessante, quasi impercettibile, pulsava come il moto ondoso, crescendo e calando…

Luce, rumore… una violenta esplosione bianca, come se il tetto fosse volato via. Delle lampade quadrate sfolgorarono, appese a volte polverose. Sutty rimase seduta, esterrefatta, mentre tutt’intorno a lei gli altri balzavano in piedi e cominciavano a saltellare, a scalciare, a piegarsi come pupazzi a molla, obbedendo a una voce aspra che gridava: «Uno! Due! Uno! Due!». Sutty si girò verso Iziezi, che sedeva sulla panca sobbalzando come una marionetta, sferrando pugni all’aria, uno, due, uno, due. Il mutilato vicino a lei scandiva il tempo a squarciagola, battendo una stampella sulla panca.

Incrociando lo sguardo di Sutty, Iziezi le fece cenno di alzarsi.

Sutty si alzò in piedi, obbediente ma disgustata. Riuscire a raggiungere uno stato di meditazione collettiva così meraviglioso, e poi distruggerlo con quegli stupidi esercizi da culturisti. Ma che razza di gente era quella?

Due donne in blu e marrone chiaro stavano scendendo la rampa a grandi passi, al seguito di un uomo in blu e marrone chiaro. Il Controllore. I suoi occhi fissarono subito Sutty.

Lei era in piedi in mezzo agli altri, tutti immobili adesso, a parte l’ansito del petto.

Nessuno parlò.

Il divieto degli appellativi servili, dei saluti, di qualsiasi espressione di accoglienza e di commiato, creava dei buchi nella struttura del processo sociale, dei vuoti colmati solo con un piccolo sforzo, una tensione ricorrente. Gli akani di città erano cresciuti con quell’artificiosità e senza dubbio non l’avvertivano, ma Sutty l’avvertiva ancora, e sembrava che l’avvertissero anche gli altri lì dentro. Il silenzio rigoroso imposto dalle tre figure sulla rampa metteva i presenti in condizione di svantaggio: non sapevano come romperlo. Alla fine, il mutilato si schiarì la voce e disse con una certa baldanza: «Stiamo facendo esercizi aerobici salutari, come prescritto nel Manuale sanitario per i produttori-consumatori dell’Azienda».

Le due donne e il Controllore si scambiarono un’occhiata annoiata, stizzita, con un’aria di "te l’avevo detto, no?". Il Controllore si rivolse a Sutty come se lì dentro non ci fosse nessun altro. «Sei venuta qui per fare ginnastica aerobica?»

«Abbiamo esercizi molto simili nel mio paese» rispose Sutty, scaricando su di lui l’indignazione e lo sgomento in una raffica di eloquenza. «Sono contentissima di avere trovato qui un gruppo con cui esercitarmi. Spesso l’esercizio fisico è più proficuo se fatto con un gruppo veramente interessato. Ò almeno, così crediamo nel mio paese, sulla Terra. E naturalmente spero di imparare nuovi esercizi da queste persone gentili che mi hanno accolta qui.»

Il Controllore non mostrò alcuna reazione se non un attimo di pausa, poi si voltò e seguì le donne in blu e marrone chiaro che risalivano la rampa. Le donne uscirono. Lui si girò e rimase appena dentro la porta, a osservare.

«Continuate!» gridò il mutilato. «Uno! Due! Uno! Due!» Tutti scalciarono e tirarono pugni e saltarono per i cinque o dieci minuti successivi. All’inizio, la furia di Sutty era autentica, poi sbollì, grazie a quegli stupidi esercizi, e avrebbe voluto ridere, ridere per liberarsi dello shock con una risata.

Spinse sulla rampa la carrozzella di Iziezi, trovò le proprie scarpe nella fila di scarpe. Il Controllore era ancora là. Lei gli sorrìse. «Dovresti unirti a noi» gli disse.

Lo sguardo del Controllore era impersonale, di valutazione, non denotava alcuna reazione. L’Azienda la stava esaminando.

Sutty si accorse di mutare espressione, che i propri occhi lo squadravano con un misto di sdegno e di incredulità, come se vedessero qualcosa di insignificante, grossolano, un mostriciattolo. Sbagliato! Sbagliato! Ma l’aveva fatto. Gli passò accanto e uscì nell’aria fredda della sera.

Tenne stretto lo schienale della carrozzella per aiutare Iziezi a zigzagare tra un sobbalzo e l’altro lungo la discesa, e per non pensare all’assurdo impeto di odio che il Controllore aveva suscitato in lei. «Adesso mi rendo conto che hai ragione a lamentarti che il terreno pianeggiante scarseggia» disse.

«Non esiste… qui… il terreno pianeggiante» precisò Iziezi, parlando a scatti. Rimanendo aggrappata, alzò un attimo una mano verso l’enorme mole verticale del Silong, che scintillava con bagliori bianchi e dorati sopra i tetti e le colline già immersi nel crepuscolo.

Nell’atrio della locanda, Sutty disse: «Spero di poter ancora venire presto al vostro corso di esercizio fisico».

Iziezi fece un gesto che avrebbe potuto essere di garbato assenso o di scusa sconsolata.

«Preferivo la parte più tranquilla» continuò Sutty. Non vedendo alcun sorriso né ottenendo risposta, aggiunse: «Mi piacerebbe davvero imparare quei movimenti. Sono bellissimi. Davano la sensazione di avere tutti un significato preciso».

Iziezi restò ancora in silenzio.

«Per caso, c’è un libro che ne parli, un libro che io possa studiare?» La domanda sembrava esageratamente cauta, e nel medesimo tempo incredibilmente sconsiderata.

Iziezi indicò il soggiorno comune, dove un monitor videoquasivero, spento, occupava un angolo della stanza. Accanto a esso, erano ammucchiate pile di nastri distribuiti dall’Azienda. Oltre ai manuali, di cui ognuno riceveva una nuova serie ogni anno, nuovi nastri venivano spesso consegnati a tutti i produttori-consumatori, nastri informativi, educativi, ammonitori, ispiratori. Dipendenti e studenti venivano esaminati spesso sul contenuto di quei nastri in sessioni ordinarie e straordinarie, al lavoro e all’università. «La malattia non giustifica l’ignoranza!» dichiarava la voce profonda dell’Azienda nei video di lavoratori ospedalizzati che seguivano entusiasti un quasivero sullo stampaggio della plastica. «La ricchezza è il lavoro e il lavoro è ricchezza!» cantava il coro del video istruttivo su Capitale e Lavoro. Gran parte della letteratura studiata da Sutty era costituita da materiale simile, nel consueto stile poetico e ispiratore. Sutty guardò con malevolenza le pile di nastri.

«Il manuale sanitario» mormorò incerta Iziezi.

«Pensavo a qualcosa da leggere nella mia camera di notte. A un libro.»

«Ah!» La mina esplose vicinissima questa volta. Poi, silenzio. «Yoz Sutty» sussurrò la disabile, «i libri…»

Silenzio, greve.

«Non voglio esporti a nessun rischio.»

Sutty si ritrovò — che assurdità — a mormorare.

Iziezi si strinse nelle spalle. L’alzata di spalle significava: "Rischio? E allora? Tutto è un rischio".

«Pare che il Controllore mi stia seguendo.»

Iziezi fece un gesto che esprimeva: "No, no". «Vengono spesso al corso. Abbiamo una persona che sorveglia la strada, accende le luci. Allora noi…» Stancamente, diede dei pugni all’aria. Uno! Due!

«Dimmi quali sono le pene, yoz Iziezi.»

«Per chi fa i vecchi esercizi? Una multa. Forse la revoca della licenza. Forse basta andare alla Prefettura o al Liceo e studiare i manuali.»

«E per un libro? Per chi possiede un libro, lo legge?»

«Un… vecchio libro?»

Sutty annuì.

Iziezi era restia a rispondere. Abbassò lo sguardo. Infine, sussurrando, disse: «Forse si va incontro a molti guai».

La disabile era immobile sulla carrozzella. Sutty, in piedi accanto a lei. Nella strada, l’oscurità era scesa del tutto. Sopra i tetti, la barriera del Silong rosseggiava opaca con uno sfolgorio aranciato. Più in alto, remota e fulgida, la vetta brillava ancora in un tripudio di riflessi dorati.

«So leggere la vecchia scrittura. Voglio imparare le antiche usanze. Però non voglio che tu perda la licenza della locanda, yoz Iziezi. Mandami da qualcuno che non sia l’unico sostegno di suo nipote.»

«Akidan?» disse Iziezi con nuovo vigore. «Oh, lui ti porterebbe fino alla Radice Madre!» Poi batté una mano sul bracciolo della carrozzella e portò l’altra alla bocca. «Sono tante le cose proibite» disse da dietro le dita, rivolgendo a Sutty un’occhiata un po’ maliziosa.

«E dimenticate?»

«La gente ricorda… La gente sa, yoz. Ma io non so nulla. Mia sorella sapeva. Era istruita. Io, no. Conosco delle persone che sono… istruite… Ma, fin dove vuoi arrivare?»

«Fin dove le mie guide mi conducono benevole» rispose Sutty. Non era una frase presa da Esercizi avanzati di grammatica per selvaggi, ma dal frammento di un libro, la pagina danneggiata con l’immagine di un uomo che pescava da un ponte e quattro versi di una poesia:

Dove le mie guide mi conducono benevole

io vado, le seguo leggero,

e non ci sono orme

nella polvere dietro di noi.

«Ah» disse Iziezi… non una mina che esplodeva, ma un lungo sospiro.

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