Rincasando in monorotaia, Sutty all’improvviso scoppiò in lacrime. Nessuno le badò. Accalcata nella vettura, stanca dopo il lavoro e intontita dal lungo tragitto tutto scossoni, la gente se ne stava seduta a osservare l’olo propagandistico sopra il corridoio: centinaia di bambini in divisa rossa che scalciavano e saltavano all’unisono seguendo un motivetto allegro che risuonava stridulo nell’aria.
Mentre saliva le numerose rampe di scale che portavano al suo appartamento, Sutty pianse ancora. Non c’era motivo di piangere. Doveva esserci un motivo. Doveva avere qualche malanno. La sofferenza che provava era paura, una paura maledetta che sfociava nel panico. Terrore. Terrore puro. Era pazzesca l’idea di farle compiere quel viaggio da sola. Tong era folle a pensare una cosa simile. Lei non sarebbe mai riuscita a farcela. Si sedette alla scrivania per inviargli una richiesta ufficiale di ritorno sulla Terra. Le parole hainiane, però, non le venivano. Erano tutte sbagliate.
Le doleva la testa. Si alzò per cercare qualcosa da mangiare. Non c’era nulla nella dispensa, assolutamente nulla. Quand’era che aveva mangiato l’ultima volta? Non a mezzogiorno. Non quella mattina. Non la sera prima.
«Cosa mi succede?» chiese all’aria. Non c’era da meravigliarsi se le faceva male lo stomaco. Non c’era da meravigliarsi se aveva attacchi di pianto e di panico. In vita sua, non si era mai dimenticata di mangiare. Perfino in quel periodo, il periodo successivo, quando era tornata in Cile, perfino allora si era cucinata i pasti e li aveva mangiati, cacciandosi in gola il cibo condito di lacrime salate, giorno dopo giorno.
«Non lo farò» disse. Non sapeva cosa intendeva dire. Si rifiutò di continuare a piangere.
Ridiscese le scale, mostrò il codice d’identità all’uscita, percorse dieci isolati fino al negozio di alimentari più vicino, un negozio della catena globale, mostrò il codice d’identità all’ingresso. Tutti i generi alimentari erano confezionati, trattati, surgelati, comodi: niente di fresco, niente da cucinare. La vista delle sfilze di roba impacchettata le fece sgorgare di nuovo le lacrime. Furiosa e umiliata, comperò un panino imbottito caldo al banco del "Già Pronto". L’uomo che la servì era troppo occupato per guardarla in faccia.
Si fermò fuori dal negozio, per strada, evitando di guardare i passanti, si ficcò in bocca il cibo bagnato di lacrime salate, e si sforzò di mandarlo giù, come aveva fatto allora, in quell’altro posto. Allora si era resa conto che doveva vivere. Era il suo compito. Continuare a vivere anche dopo la gioia. Lasciare dietro di sé amore e morte. Andare avanti. Andare avanti da sola e lavorare. E adesso voleva chiedere di essere rimandata sulla Terra? Alla morte?
Masticò e inghiottì. Dai veicoli che transitavano le giungevano raffiche smozzicate di musica e slogan. A quattro isolati, il semaforo di un incrocio si era guastato, e i clacson dei robotaxi strombazzavano più assordanti della musica. Gente a piedi — i produttori-consumatori dello Stato Azienda, in uniformi color ruggine, marrone chiaro, blu, verdi, o in calzoni, casacche e giacche standard fabbricate dall’Azienda, tutti con scarpe di tela StarMarch — le sfilava accanto accalcandosi, uscendo dai garage sotterranei, affrettandosi verso i condomini.
Sutty masticò e inghiottì l’ultimo boccone coriaceo di cibo, dolce e salato. Non sarebbe tornata indietro. Avrebbe continuato. Avrebbe continuato il suo lavoro, da sola. Tornò a casa, mostrò il codice d’identità all’entrata, e salì le otto rampe di scale. Le avevano assegnato un appartamento all’ultimo piano, ampio, vistoso, un appartamento ritenuto adatto a un ospite onorevole dello Stato Azienda. L’ascensore non funzionava da un mese.
Per poco non perse il battello. Il robotaxi si smarrì cercando di trovare il fiume. La portò all’Acquario, quindi al Dipartimento delle Risorse Idriche, poi di nuovo all’Acquario. Sutty dovette bloccare il controllo automatico e riprogrammare il mezzo tre volte. Mentre attraversava di corsa la banchina, l’equipaggio del Traghetto Otto del fiume Ereha stava già ritirando la passerella. Sutty gridò, gli uomini riabbassarono la passerella, e lei salì a bordo trafelata. Buttò i bagagli nella piccola cabina e tornò in coperta a osservare la città che le scorreva accanto.
Lì vicino all’acqua, sovrastata dalle pareti a strapiombo dei palazzoni commerciali e governativi, la città presentava un lato più squallido e tranquillo. Sotto enormi argini di cemento, c’erano pontili e magazzini di legno, anneriti dal tempo, un andirivieni di piccole imbarcazioni simili a tanti insetti acquatici, impegnate in attività che senza dubbio non erano degne dell’attenzione del Ministero del Commercio, e comunità di case galleggianti inghirlandate di rampicanti fioriti, e tanfo di liquami.
Un torrente scorreva in un alveo di cemento tra alte pareti scure e si gettava nel grande fiume. Sopra di esso, appoggiato al parapetto di un ponte a schiena d’asino, c’era un pescatore: una sagoma semplice, immobile, fuori del tempo… l’immagine di un disegno in uno dei libri akani che avevano parzialmente recuperato dalla trasmissione sabotata.
Con quanta reverenza si era accostata a quelle poche pagine di immagini, versi poetici, frammenti di prosa, con quanta attenzione le aveva esaminate, là a Valparaíso, cercando di capire da quelle pagine come fossero gli abitanti di quest’altro mondo, desiderosa di conoscerli. Non era stato facile cancellare le copie dal suo noter, lì su Aka, e nonostante quello che diceva Tong, secondo lei era stata una cosa sbagliata, una capitolazione al nemico. Aveva studiato le copie nel suo noter un’ultima volta, con amore, con dolore, cercando di assimilarle prima di distruggerle. "E non ci sono orme nella polvere dietro di noi…" Aveva chiuso gli occhi mentre cancellava quella poesia. Facendolo, le era sembrato di cancellare tutte le sue struggenti speranze di scoprirne il significato, una volta giunta su Aka.
Però ricordava i quattro versi della poesia, e la speranza e lo struggimento erano ancora vivi.
I motori silenziosi del Traghetto Otto borbottavano sommessi. Col passare delle ore, gli argini artificiali si fecero sempre più bassi, più vecchi, interrotti con maggior frequenza da scale e approdi. Alla fine, scomparvero del tutto, lasciando il posto a fango e canne e sponde cespugliose, e l’Ereha si allargò sempre più, scorrendo sorprendentemente ampio attraverso una piatta distesa di campi verdi e giallo-verdi.
Per cinque giorni il battello navigò verso est su quel placido corso d’acqua, sotto un sole mite e nella mite oscurità stellata, stagliandosi come la cosa più alta nel paesaggio circostante. Di tanto in tanto giungeva a una città fluviale, attraccava a un vecchio molo sovrastato da nuovi palazzoni commerciali e residenziali, e prendeva a bordo provviste e passeggeri.
Sutty scoprì che era incredibilmente facile parlare con la gente sul battello. A Dovza City, tutto contribuiva a determinare in lei un atteggiamento riservato e taciturno. Anche se i quattro extraplanetari disponevano di appartamenti privati e di una certa libertà di movimento, l’Azienda organizzava la loro vita in modo molto rigoroso, fissando appuntamenti, programmando e sorvegliando il loro lavoro e gli svaghi. Non che fossero gli unici a essere tanto controllati: il repentino e gigantesco progresso tecnologico di Aka era sostenuto da una rigida disciplina, fatta osservare universalmente e accettata da tutti. Sembrava che tutti in città lavorassero sodo, per parecchie ore, dormissero poco, mangiassero in fretta. Ogni ora era programmata. Tutte le persone dei Ministeri della Poesia e dell’Informazione con cui Sutty era stata in contatto sapevano esattamente cosa volevano che facesse e in che modo doveva farlo, e non appena lei cominciava a eseguire le istruzioni ricevute, i suoi interlocutori se ne andavano in fretta per i fatti loro, lasciando che lei si occupasse dei propri.
Sebbene su Aka le tecnologie e le conquiste dei mondi ekumenici fossero considerate fulgidi modelli, di esempio in ogni campo, i quattro visitatori dell’Ekumene erano tenuti, come diceva Tong, sotto una campana di vetro. Di tanto in tanto venivano mostrati al pubblico e nei quasiveri, figure sorridenti sedute a un banchetto dell’Azienda o accanto al capo di qualche dicastero che teneva un discorso; ma non erano invitati a parlare, loro. Solo a sorridere. Forse i ministri non si fidavano, temevano che gli ospiti dicessero qualcosa di sbagliato. Forse i ministri li consideravano esempi piuttosto scialbi e insipidi delle civiltà superiori che Aka si stava sforzando tanto di emulare. La maggior parte delle civiltà, forse, sembravano più scintillanti se osservate in generale e da parecchi anni luce di distanza.
Aveva conosciuto molti akani e li aveva trovati quasi tutti simpatici, tuttavia dopo metà anno sul pianeta Sutty in pratica non aveva mai fatto una conversazione che si potesse davvero definire tale con nessuno di loro. Non aveva visto nulla della vita privata akana, eccetto gli austeri pranzi dei burocrati e dei funzionari aziendali d’alto livello. Nessuna prospettiva, neppure remota, di amicizia personale si era mai profilata all’orizzonte. Senza dubbio, alle persone che incontrava era stato consigliato di parlare con lei solo lo stretto necessario, in modo che l’Azienda potesse mantenere il pieno controllo delle informazioni che lei riceveva. Ma nemmeno con le persone che vedeva spesso si era instaurato un rapporto di intimità. Sutty non avvertiva questo distacco come pregiudizio, xenofobia; gli akani erano del tutto indifferenti nei confronti dell’appartenenza straniera. Il fatto era che avevano tutti troppo da fare, ed erano tutti burocrati. La conversazione seguiva un copione prestabilito. Ai banchetti, le persone parlavano di affari, di sport, di tecnologia. Quando aspettavano in fila o in lavanderia, parlavano di sport e degli ultimi quasiveri. Evitavano gli argomenti personali e, in pubblico, ripetevano quello che diceva l’Azienda su tutte le questioni attinenti alla politica e all’opinione pubblica, arrivando a contraddire Sutty quando la sua descrizione della Terra non concordava con quanto era stato insegnato loro a proposito di quello splendido mondo progredito e ricco di risorse.
Sul traghetto, invece, la gente parlava. Parlava a livello personale, intimamente, esaurientemente. Si appoggiava al parapetto e parlava, si sedeva sul ponte a parlare, si fermava a tavola con un bicchiere di vino e parlava.
Una parola o un sorriso di Sutty erano sufficienti perché fosse ammessa alla conversazione. E lei si rese conto, un po’ alla volta, dato che la cosa la sorprese non poco, che ignoravano che lei era straniera.
Tutti sapevano che c’erano degli Osservatori dell’Ekumene su Aka; li avevano visti nei quasiveri, quattro figure così distaccate e insignificanti tra i ministri e i dirigenti, stranieri impettiti in mezzo ai palloni gonfiati; non si aspettavano di incontrarne uno tra la gente comune.
Sutty era convinta non solo che sarebbe stata riconosciuta, ma anche che l’avrebbero isolata e tenuta a distanza in tutti gli spostamenti. Però non le avevano offerto una guida, e lei non aveva notato alcun sorvegliante che la tenesse d’occhio. A quanto pareva, l’Azienda aveva deciso di lasciarla viaggiare proprio da sola. In città era stata sola, ma sotto la campana di vetro, una bolla di isolamento. La bolla era scoppiata. E lei era fuori.
Era un po’ intimorita, quando ci pensava, ma in fin dei conti non ci pensava tanto, perché era troppo piacevole. Era accettata… una dei passeggeri, una della folla. Non doveva spiegare, non doveva eludere le domande, perché nessuno le chiedeva nulla. Parlava un dovzano quasi privo d’accento, lo parlava senza dubbio con un accento meno marcato rispetto a molti akani non originari della regione di Dovza. Vedendo i suoi tratti somatici — bassa, esile, pelle scura — la gente immaginava che lei fosse della parte orientale del continente. «Sei dell’Est, vero?» dicevano. «Mia cugina Muniti ha sposato un uomo di Turu…» E poi continuavano a parlare di sé.
Sutty li sentì parlare di loro, dei loro cugini, delle loro famiglie, delle loro occupazioni, delle loro opinioni, delle loro case, delle loro ernie. Chi aveva animali da compagnia viaggiava in battello, scoprì coccolando il micino affettuoso di una donna. Chi detestava o aveva paura di volare, prendeva il battello, le spiegò in modo dettagliato un vecchio signore ciarliero. Le persone che non avevano fretta sceglievano il battello e chiacchieravano, scambiandosi le rispettive storie. A Sutty ne raccontavano più che alla maggior parte degli altri passeggeri, perché lei ascoltava senza interrompere, se non per dire cose come: "Davvero? E poi cos’è successo? Meraviglioso! Oh, terribile!". Ascoltava avida, instancabile. Quei racconti scialbi e frammentari di vite comuni non potevano annoiarla. Contenevano tutto quello che le era mancato a Dovza City, tutto quello che veniva tralasciato dalla letteratura ufficiale, dalla propaganda eroica. Se avesse dovuto scegliere tra eroi ed ernie, Sutty non avrebbe avuto la minima esitazione.
Mentre il battello continuava a risalire il fiume, spingendosi sempre più nell’entroterra, cominciarono a salire a bordo passeggeri di tipo diverso. Per la gente di campagna, il battello fluviale era il mezzo più semplice ed economico per spostarsi da una cittadina all’altra: s’imbarcava qui e scendeva là. Adesso le città erano più piccole, senza grandi edifici. Al settimo giorno, i passeggeri non salivano a bordo con animali da compagnia e bagagli, ma con cesti contenenti pollame e capre al guinzaglio.
Non erano esattamente capre, né caprioli, né mucche, né creature terrestri d’altro genere, erano eberdin, però belavano, e avevano pelo serico: nell’ecologia mentale di Sutty occupavano la nicchia della capra. Venivano allevati per il latte, la carne, e il pelo serico. In passato, stando alla pagina colorata di un libro illustrato recuperata dalla trasmissione sabotata, gli eberdin trainavano carri e venivano usati addirittura come cavalcature. Sutty ricordava le bandiere rosse e azzurre sul carro, e la scritta sotto l’immagine: IN VIAGGIO VERSO LA MONTAGNA D’ORO. Si chiese se si fosse trattato di una storia fantastica per bambini o di un’altra razza di eberdin. Nessuno poteva cavalcare le bestiole che vedeva, perché arrivavano sì e no al ginocchio. All’ottavo giorno, salivano a bordo a greggi interi. Il ponte di poppa pullulava di eberdin.
La gente di città con gli animali da compagnia e i viaggiatori che avevano paura di volare erano tutti sbarcati di buon’ora quella mattina a Eltli, una città da cui partiva una linea ferroviaria che collegava con le località di soggiorno della Catena delle Sorgenti Meridionali. Vicino a Eltli, l’Ereha attraversava tre chiuse, una molto alta. Oltre le chiuse, il fiume cambiava: diventava più impetuoso, più stretto, più rapido; le sue acque non erano più di un blu torbido venato di marrone, ma di un etereo verdazzurro.
A Eltli terminarono anche le lunghe conversazioni. La gente di campagna ora a bordo del battello non era ostile, ma schiva con gli estranei, e parlava perlopiù con i conoscenti, in dialetto. Sutty accolse volentieri la ritrovata solitudine, che le consentiva di osservare.
A sinistra, mentre il fiume piegava in direzione nord, si susseguivano svettanti picchi montani, roccia nera, ghiacciai candidi. Di fronte al battello, a monte, non si vedeva alcuna vetta, nulla di sensazionale, il terreno saliva solo lentamente, continuava a salire a poco a poco. E il Traghetto Otto, ora pieno di belati e di strida rauche, e di voci sommesse e intermittenti di campagnoli, e di odori di letame e di pane fritto e di pesce e di melone, procedeva lento, coi motori silenziosi impegnati in uno sforzo notevole per vincere la forte corrente, avanzando tra ampie sponde rocciose e pianure senz’alberi coperte di erba, un’erba sottile, sbiadita, piumosa. Scrosci di pioggia si riversarono sul terreno, cadendo da grandi nubi che si muovevano veloci, poi la pioggia cessò, lasciando il posto al sole, all’aria tersa, alla fragranza di terra. La notte fu silenziosa, fredda, stellata. Sutty rimase alzata fino a tardi e si svegliò presto. Uscì in coperta. A est il cielo si stava rischiarando. Oltre la distesa in ombra delle pianure occidentali, l’alba accese a uno a uno, come fiammiferi, i picchi lontani.
Il battello si fermò in un punto dove non c’era nessuna cittadina, nessun villaggio, un luogo che pareva disabitato. Una donna in casacca di vello e cappello di feltro spinse il proprio gregge sulla passerella, gli animali scesero a terra correndo e lei li seguì di corsa, lanciando imprecazioni alle bestie e rauchi saluti agli amici rimasti a bordo. Dal parapetto di poppa, Sutty osservò il gregge per chilometri e chilometri, una macchia sbiadita sempre più piccola sulla piana grigiodorata. Tutto il nono giorno passò in un’estasi di luce. Il battello procedeva adagio. Il fiume, adesso limpido come il cielo, scorreva così silenzioso che il battello sembrava galleggiare a mezz’aria, sospeso tra due cieli. Tutt’intorno a loro, distese di roccia e di erba sbiadita, spazi vaghi. Le montagne erano scomparse, nascoste dal grande rigonfiamento del terreno in salita. Terra, cielo e fiume si fondevano.
Quella sera, mentre era di nuovo accanto al parapetto, Sutty pensò: "Questo viaggio è più lungo di quello che ho fatto dalla Terra ad Aka".
E pensò a Tong Ov, che avrebbe potuto compiere quel viaggio di persona e invece aveva affidato l’incarico a lei. Si chiese come ringraziarlo. Osservando, descrivendo, registrando, sì. Ma non poteva registrare la propria felicità. La parola stessa distruggeva il sentimento.
Pensò: "Pao dovrebbe essere qui. Con me. Pao sarebbe venuta. Saremmo state felici".
L’aria si oscurava, l’acqua tratteneva la luce.
C’era un’altra persona sul ponte. Era l’unico altro passeggero imbarcatosi nella capitale, un uomo taciturno sulla quarantina, un funzionario dell’Azienda in blu e marrone chiaro. Le uniformi erano onnipresenti, su Aka. Gli scolari portavano casacche e pantaloncini scarlatti: masse e file e puntini rosso vivo saltellanti in tutte le strade delle città, uno spettacolo sorprendente e allegro. Gli studenti universitari indossavano divise verdi e ruggine. Il blu e il marrone chiaro erano i colori del Dipartimento Socioculturale, che comprendeva il Ministero Centrale della Poesia e dell’Arte e il Ministero Mondiale dell’Informazione. A Sutty il blu e il marrone chiaro erano molto familiari. I poeti sfoggiavano quei colori, i poeti ufficiali almeno, e anche i produttori di nastri e quasiveri, e i bibliotecari, e i burocrati di sezioni del dipartimento con cui Sutty aveva meno dimestichezza, come l’Ufficio della Purezza Etica. Gli emblemi sulla giacca di quell’uomo indicavano che era un Controllore, un grado piuttosto elevato della gerarchia. Quando si era imbarcata, immaginando di trovare a bordo qualche tipo di presenza o vigilanza ufficiale, qualche sorvegliante che seguisse il suo viaggio, si era aspettata che quell’individuo mostrasse interesse per lei o desse segno di tenerla d’occhio. Non aveva notato nulla del genere, invece. Dal suo comportamento non si capiva affatto se sapeva chi era lei. Era sempre stato taciturno e distaccato, consumava i pasti al tavolo del comandante, comunicava solo col proprio noter, ed evitava i gruppi di conversatori ai quali Sutty si univa sempre.
Ora l’uomo si accostò al parapetto, fermandosi non lontano da lei. Sutty gli rivolse un cenno con la testa e lo ignorò, perché le aveva sempre dato l’impressione di voler essere lasciato in pace.
Ma lui parlò, rompendo il silenzio profondo del grande paesaggio crepuscolare, dove solo l’acqua, con un mormorio sommesso e tenace, manifestava la propria resistenza alla prua e alle fiancate del battello. «Una regione desolata» disse il Controllore.
La sua voce svegliò un giovane eberdin legato a un montante lì accanto. L’animale belò sommessamente e scosse la testa.
«Sterile» proseguì l’uomo. «Arretrata. Ti interessano gli occhi di amanti?»
Il piccolo eberdin belò ancora.
«Prego?» rispose Sutty.
«Occhi di amanti. Gemme, pietre preziose.»
«Perché le chiamano così?»
«Una fantasia primitiva. Una somiglianza immaginaria.» Per un attimo, lo sguardo dell’uomo incrociò il suo. Le rare volte che aveva pensato a lui, Sutty aveva concluso che doveva trattarsi di un tipo scialbo e tronfio, di un piccolo egocrate. La fredda intensità di quello sguardo la sorprese.
«Si trovano lungo le sponde dei torrenti, nella regione montuosa. Solo là» disse il Controllore, indicando a monte, «e solo su questo pianeta. Ma tu sei qui perché ti interessa qualcos’altro, suppongo.»
Sapeva chi era Sutty, dunque. E a giudicare dal suo atteggiamento, voleva farle capire che disapprovava il fatto che lei potesse spostarsi liberamente, da sola.
«Sono su Aka da poco tempo, e ho visto soltanto Dovza City. Ho ricevuto il permesso di visitare un po’ i dintorni.»
«Di risalire il fiume, andare nell’interno» precisò l’uomo, abbozzando una specie di sorriso tirato. Attese che lei aggiungesse qualcosa. Sutty avvertì una pressione da parte sua, un’aspettativa, come se il Controllore pensasse che lei doveva rendergli conto delle proprie azioni. Sutty si oppose a quella pressione.
L’uomo guardò le piane purpuree che si perdevano nella notte, poi l’acqua, che sembrava conservare ancora una lieve trasparenza luminosa. Disse: «Dovza è una regione di splendidi panorami. Coltivazioni rigogliose, industrie fiorenti, luoghi di soggiorno incantevoli nella Catena delle Sorgenti Meridionali. Non avendo visto nulla di quelle bellezze, perché hai deciso di visitare questo deserto?».
«Io vengo da un deserto» rispose Sutty.
Quella risposta lo fece tacere alcuni istanti.
«Sappiamo che la Terra è un mondo ricco, in continuo progresso» disse infine il Controllore, la voce cupa di disapprovazione.
«Una parte del mio mondo è fertile. Gran parte è ancora sterile. L’abbiamo maltrattato parecchio… È un mondo intero, Controllore. C’è spazio sufficiente per una notevole varietà. Proprio come qui.»
Sutty colse il tono di sfida della propria voce.
«Tuttavia tu preferisci i luoghi desolati e i mezzi di trasporto arretrati?»
Quello non era il rispetto esagerato mostratole dalla gente di Dovza City, dove la trattavano come una fragile creatura esotica che andava protetta dalla realtà. Quella era diffidenza, sfiducia. Il Controllore le stava dicendo che era sbagliato permettere agli stranieri di andarsene in giro da soli. Il primo caso di xenofobia incontrato da Sutty su Aka.
«Mi piacciono le imbarcazioni» rispose cauta, affabile. «E trovo che questa regione sia bellissima. È austera ma bellissima. Non credi?»
«No» replicò lui. Era un ordine. Non era consentito dissentire. Quella era la voce ufficiale dell’Azienda.
«Allora, come mai risali il fiume verso l’interno? Sei in cerca di occhi di amanti?» Sutty parlò in tono scherzoso, perfino un po’ civettuolo, per consentirgli, volendo, di cambiare tono e abbandonare l’atteggiamento inquisitorio.
Lui non lo fece. «Affari» rispose. "Vizdiat", la giustificazione definitiva akana, lo scopo indiscutibile, il nocciolo di tutto. «In questa zona ci sono sacche di fossilizzazione culturale e di attività reazionarie ribelli. Spero che tu non abbia intenzione di lasciare la città e addentrarti nella regione montana. Là non è ancora arrivata l’istruzione, gli indigeni sono brutali e pericolosi. Per l’autorità che esercito in questa zona, devo chiederti di rimanere sempre in contatto col mio ufficio, di denunciare qualsiasi segno di pratiche illegali e di informarci se intendi viaggiare.»
«Apprezzo la tua sollecitudine e mi sforzerò di aderire alla tua richiesta» disse Sutty, una frase presa pari pari da Esercizi avanzati di dovzano parlato e locuzioni per selvaggi.
Il Controllore annuì una volta, gli occhi fissi sulla sponda che scorreva lentamente, oscurandosi a poco a poco. Quando Sutty si voltò di nuovo nella sua direzione, lui si era già allontanato.