TERZA PARTE Maggio 2121

È impossibile, per una creatura come l’uomo, restare completamente indifferente riguardo al benessere o al malessere dei suoi simili e non essere pronta, per proprio conto, a stabilire, nel caso in cui non abbia particolari impedimenti, che ciò che promuove la loro felicità è bene e ciò che porta alla loro afflizione è male.

David Hume, An Enquiry Concerning the Principles of Morals.

19

Lizzie si ritirò ulteriormente all’ombra dell’edificio. La tribù si trovava appena dietro l’angolo. No, non si trattava di una "tribù": una tribù era caratterizzata da regole, ordine, bontà. Quella era solo un… un… non sapeva cosa.

"La feccia della Terra, quelli" sentì dentro la mente ed era la voce di sua madre. A chi si era riferita Annie? Non c’era nessuno come quelle persone: non c’era nessuno del genere a East Oleanta o nella Contea di Willoughby. Lizzie non riusciva a ricordare chi Annie avesse definito feccia. Non riusciva a ricordare niente. Aveva troppa paura.

— È il mio turno — disse la voce di un uomo. — Scendi da lei, tu!

— Trattieni i cavalli, sto finendo… Tutta tua.

Una terza voce rise. — Non hai lasciato molto, eh, Ed? Spero che a Cal non piacciano vivaci, a lui.

— Cazzo, ma non respira nemmeno!

— Sì invece. Salta su, Cal.

— Cristo!

— Se arrivi per ultimo ti prendi quello che resta.

Lizzie toccò la propria cintura con il rassicurante rigonfiamento che attivava lo scudo personale. Lo scudo era acceso. Riusciva a vedere attorno alle mani un debole scintillio. Gli uomini là fuori non avrebbero potuto farle del male, anche se l’avessero presa. Il massimo che avrebbero potuto fare sarebbe stato sbatacchiare in giro un po’ lo scudo, con lei dentro come una salsiccia. Lizzie ricordava le salsicce. Annie le faceva sempre. Salsicce. Ma che diavolo aveva in mente per pensare alle salsicce? La ragazza là fuori veniva… e Lizzie non poteva fare assolutamente nulla per aiutarla. Non poteva nemmeno aiutare se stessa, nascondendosi all’interno dell’edificio dietro al quale si era accucciata. Il fabbricato, come tutti gli altri nella rimessa abbandonata della ferrovia a gravità, era protetto da uno scudo a energia-Y. Lei premette il proprio scudo contro quello dell’edificio.

L’altra ragazza gridò.

Lizzie chiuse gli occhi ma riusciva ancora a vedere la ragazza dietro le palpebre. Riusciva a vedere tutto: la ragazza legata nuda a terra, i quattro uomini, il resto della tribù a pochi passi di distanza. Altre donne che ignoravano ciò che accadeva perché la ragazza era stata rapita da un’altra tribù e non era una dei loro. E i bambini che guardavano i quattro uomini, incuriositi…

Come potevano? Come potevano?

— Ne hai avuto abbastanza — disse uno degli uomini. — Vieni via, dobbiamo muoverci, noi.

— Dagli un minuto, Ed. I vecchi hanno bisogno di tempo, loro.

Un latrato di risate.

E se uno dei bambini curiosi avesse girato attorno all’edificio e avesse visto Lizzie? Lei avrebbe potuto afferrarlo e metterlo fuori combattimento prima che avvertisse gli altri.

No, non ci sarebbe riuscita. Un bambinetto, come sarebbe stato Dirk tra qualche anno. Non ci sarebbe riuscita. Fino a che punto era poi impenetrabile uno scudo personale? Ormai indossava quello di Vicki da due settimane e non lo sapeva con esattezza. Teneva fuori gli insetti, i procioni, la pioggia e i rovi. Erano le uniche cose con cui lo aveva testato.

— Vieni, Cal! — gridò uno degli uomini. — Ce ne andiamo, noi!

Lentamente, la tribù si allontanò alla spicciolata dall’edificio di Lizzie. Diciassette, venti, venticinque. Indossavano tute lacere e portavano tele cerate e caraffe d’acqua. Niente coni a energia Y, nessun terminale. Quattro sudici bambini Cambiati, ma nessun neonato. Quando furono tutti fuori vista, Lizzie si avventurò oltre l’angolo dell’edificio.

La ragazza era morta. Il sangue colava a terra dalla gola tagliata. Aveva gli occhi sbarrati, il volto contorto in un’espressione terrorizzata e nello stesso tempo implorante. Sembrava della stessa età di Lizzie ma più minuta, coi capelli più chiari. Su un lobo portava un orecchino di latta a forma di cuore.

"Non posso seppellirla" pensò Lizzie. Il terreno era duro: non pioveva da una settimana. Lizzie non aveva alcun attrezzo con cui scavare, e se fosse rimasta ancora a lungo, avrebbe perduto per sempre il coraggio di attraversare il ponte. Oh, Dio, e se quelle persone avessero passato anche loro il ponte? Se l’avessero sorpresa lì?

No. Non avrebbe permesso che accadesse. Non era indifesa come quella povera ragazza. Inoltre, anche se Lizzie avesse potuto, non sarebbe stata comunque una buona idea seppellirla: la tribù della ragazza poteva venirla a cercare e sarebbe stato meglio se avesse saputo quello che le era successo invece di domandarsi in eterno se fosse ancora viva. Sarebbe stato intollerabile. Se fosse stato Dirk…

Allontanò da sé quel terribile pensiero, si inginocchiò sul terreno insanguinato e slegò le mani e i piedi della ragazza dai grezzi paletti in legno. Estrasse i paletti dal suolo; alla tribù della ragazza poteva almeno risparmiare quello. Felice perché lo scudo la proteggeva dal contatto col sangue della giovane che scorreva, Lizzie sollevò il corpo e barcollò fino all’ombra dell’edificio. Fece rotolare il cadavere contro la cupola a energia-Y e ne coprì il busto con una camicia presa dallo zaino, legandola attorno alla vita della ragazza per evitare che venisse portata via dal vento.

Si incamminò quindi verso il ponte, prima che fosse troppo buio e lei troppo spaventata.

Sapeva perfettamente dove si trovava. Anche se non osava attivare il terminale per aprire alcun tipo di collegamento rintracciabile, poteva utilizzarlo per accedere alle informazioni della biblioteca di cristallo, che conteneva atlanti dettagliati. Quella era la rimessa della Ferrovia a Gravità Senatore Thomas James Corbett, nel New Jersey. Ovviamente, la ferrovia a gravità aveva smesso di funzionare durante le Guerre del Cambiamento. Gli edifici protetti, tuttavia, erano ancora lì, probabilmente con i treni dentro, e non c’era nulla che potesse distruggere la linea a levitazione magnetica. Scintillanti binari gemelli di un materiale che Lizzie non era in grado di identificare arrivavano fino a lì dalla Contea di Willoughby e percorrevano il ponte che superava il fiume Hudson per giungere a Manhattan. Dovevano passare, secondo le cartine, a nord di Central Park per giungere diritta a una stazione di terra della Enclave di Manhattan Est.

E poi?

Come prima cosa, doveva arrivarci.

Lizzie fissò il ponte e quindi il cielo. Mancavano più o meno tre ore al tramonto: avrebbe potuto attraversare protetta dall’imbrunire e nascondersi dall’altra parte. Il ponte offriva scarsa copertura. Era stretto, non più di tre metri di larghezza, e non mostrava sporgenze o supporti visibili. Ma come stava in piedi? Probabilmente nello stesso modo in cui si era retta la ferrovia a gravità. La fisica e l’ingegneria non avevano mai interessato troppo Lizzie. Però avrebbe potuto raccogliere tutte le informazioni possibili prima di attraversare.

L’Hudson scintillava brillante nella luce del sole. Presso il fiume, mezzo nascosto da un’alzaia, Lizzie trovò una chiazza di terreno erboso. Bevve dall’Hudson, disattivò lo scudo e si spogliò. Mentre giaceva a terra per alimentarsi, sollevava la testa ogni pochi secondi per essere sicura che non si avvicinasse nessuno. Il sole dava una gradevole sensazione sulla pelle nuda, ma lei non riuscì a goderne. Non appena la sua chimica Cambiata le segnalò sazietà, balzò in piedi, si vestì e riattivò lo scudo personale. Quindi si mise al lavoro col computer. Al tramonto sapeva tutto quanto c’era nella biblioteca di cristallo sul Ponte a Traliccio della Ferrovia a Gravità Governatore Samantha Deborah Velez.

All’estremità orientale del ponte, nascosta nella profonda ombra di un edificio, Lizzie rimase ad ascoltare con estrema attenzione. Un’ora prima aveva sentito delle persone iniziare ad attraversare il ponte. In quel momento, tuttavia, non c’era nessuno in vista, e tutto quello che riusciva a sentire era il grido di gabbiani che turbinavano e il lambire del fiume contro le sponde. Si mise carponi e cominciò a strisciare sul ponte, presentando la sagoma più piccola possibile.

Il ponte era lungo 2,369 chilometri.

L’oscurità era calata prima di quanto Lizzie avesse previsto. Il buio rappresentava ovviamente una copertura, ma lei aveva paura di strisciare attraverso il ponte non illuminato. Non tanto di cadere, quanto… di cosa? Aveva soltanto paura e basta. Di tutto.

No, non ne aveva. Lei era Lizzie Francy, il miglior pirata informatico del paese, l’unica Viva ad avere osato riprendere parte del potere politico dai Muli. Non avrebbe avuto paura. Soltanto le persone come sua madre avevano paura di tutto, anche prima del neurofarmaco.

"Resta a casa, piccola, al tuo posto, tu." Di nuovo la voce di Annie. Dio, sarebbe stata felice quando fosse stata troppo vecchia per sentire nella testa la voce di sua madre. Quanti anni avrebbe dovuto avere? Forse addirittura trenta?

Poi udì qualcos’altro. Persone che attraversavano il ponte arrivando dalla parte di Manhattan.

Lizzie strisciò in avanti ancora più in fretta. Ormai riusciva a vedere la luce che portavano, una forte torcia a energia-Y che ballonzolava in lontananza. Quanto lontano? Il vento soffiava contro di lei: portava le loro risate. Risate maschili.

Doveva essere lì vicino, "vicino": era passato un po’ di tempo da quando aveva sentito l’ultimo…

Lo sentì al tatto nell’oscurità, il piccolo dosso scuro al margine del ponte, studiato per essere utilizzato durante le riparazioni. I tecnici vi agganciavano i fluttuanti, quindi attivavano lo scudo di energia che aumentava momentaneamente l’ampiezza del ponte per godere di maggiore possibilità di manovra. Gli scudi potevano sostenere parecchie tonnellate di equipaggiamento, se necessario. Potevano anche piegarsi a ogni angolazione desiderata. Lizzie ne aveva letto nella biblioteca di cristallo: ma non conosceva i codici di attivazione. Non aveva osato aprire un collegamento satellitare per cercare di carpire l’informazione dai data base dell’azienda della ferrovia a gravità.

Ormai non aveva alcuna possibilità di scelta.

— Attivare sistema — sussurrò. — Oh, Dio, "attivare sistema". Volume minimo.

— Terminale attivato — sussurrò il computer.

Lavorò in fretta, mormorò febbrilmente al terminale, controllò la luce della torcia più avanti. Sembrava essersi fermata. Voci occasionali di cui non distingueva le parole le soffiavano contro portate dal vento. Voci alterate, una discussione. Bene. Che litigassero pure, che si picchiassero, che si buttassero giù dal ponte. E se avessero buttato lei giù dal ponte? Non sapeva nuotare.

"Resta a casa, piccola, al tuo posto, tu."

— Traccia 74, codice J — tentò Lizzie. "Dai, dai." Doveva trattarsi di un codice semplice. Forse perfino di tipo industriale, standard, facile da ricordare per tutti i tecnici turnisti delle squadre. Non doveva presentare troppi fattori contingenti né cambiamenti automatici: sarebbero stati di intralcio in caso di un’emergenza. Doveva essere semplice, non troppo segreto…

Eccolo.

La torcia si muoveva nuovamente in avanti. Lizzie afferrò il terminale e lo zaino. Appoggiò una mano sul dosso scuro e pronunciò il codice. Senza produrre alcun rumore, grazie a Dio non lo faceva, il ponte si estese sopra l’acqua, una piattaforma trasparente di energia che scompariva nell’oscurità.

Lizzie esitò. Sembrava così poco concreto. Se vi fosse strisciata sopra e se il ponte l’avesse lasciata cadere nel fiume di sotto… ma non sarebbe accaduto. L’energia-Y non era poco solida. L’energia-Y era la cosa più affidabile e solida che fosse rimasta dai vecchi tempi, prima delle Guerre del Cambiamento, quando la vita era stata sicura.

Le voci si cristallizzarono in parole. "Sbrigati… Dov’è… non può… la ragazza, Janey…"

Poteva essere gente per bene. Potevano essere semplicemente persone normali che attraversavano un ponte. Oppure potevano essere come quegli animali alla rimessa. Lizzie guardò di nuovo lo scudo quasi invisibile, chiuse gli occhi e vi rotolò sopra. Sussurrò un codice e sentì lo scudo curvarsi, muoversi e scivolare sotto il ponte per permettere di effettuare un’ispezione e una riparazione.

Cautamente, Lizzie riaprì gli occhi. Giaceva pochi centimetri sotto il traliccio, la cui parte inferiore era butterata di escrescenze e pannelli. Probabilmente alcuni erano terminali. Per una volta tanto, non provò alcun desiderio di trafugare dati. Si aggrappò con una mano al bordo del campo di energia che la sorreggeva, cercando di trovare il punto in cui si collegava col ponte. Per quello che avvertiva lei, l’intero scudo era scivolato esattamente sotto il ponte ed era individuabile da sopra soltanto da qualcuno che cercasse effettivamente nel buio un’estensione di un campo di energia.

Sopra di lei, le persone si allontanarono.

Aspettò alcuni minuti dopo avere avvertito l’ultima vibrazione nel ponte. Pronunciò quindi il codice per fare tornare indietro l’estensione e quello per farla richiudere.

Sul lato est del ponte la ferrovia a gravità si divideva. Una linea procedeva a sud, lungo la costa occidentale di Manhattan, su una stretta striscia di terra fra il fiume e la cupola dell’Enclave di Manhattan Ovest. L’altra deviava a nord, schivando l’enclave e andando a finire a Central Park. Da quella parte, Lizzie lo sapeva, c’erano le rovine della New York dei Vivi. Ormai non ci vivevano più molte persone: cemespugna rotta e pietre cadute non fornivano molto come cibo. Quelli che erano rimasti erano pericolosi.

Non aveva scelta. Era la via per arrivare al dottor Aranow.

Avvolta nello scudo personale, Lizzie si nascose sotto un folto cespuglio fino al mattino. Si sentiva abbastanza sicura di non essere vista, ma non riuscì ad addormentarsi per lungo tempo.


Alla luce del giorno, New York era anche peggio di quanto si fosse immaginata.

Non aveva mai visto nulla del genere. Sì, invece, in quegli ologrammi di storia che Vicki aveva insistito che lei studiasse nel software istruttivo, prima che Lizzie fosse abbastanza grande da puntare i piedi e studiare solo quello che desiderava. Gli ologrammi avevano mostrato posti proprio come quello: ammassi bruciati e crollati di macerie ricoperti da erbacce. Strade così intasate che non si poteva essere sicuri di quale direzione avevano avuto un tempo. Metallo contorto disseminato in giro, separato da aree color nero trasparente nei punti in cui determinate armi avevano levigato tutto, fondendolo. Lizzie aveva sempre immaginato che quegli ologrammi fossero fasulli, come il software di letteratura che le aveva fatto guardare Vicki. O se non completamente fasulli quanto meno esagerati.

Quella città in pezzi invece era vera.

Lei si mosse con circospezione attraverso le orribili rovine, in ascolto. In qualche occasione udì delle voci. Si nascose immediatamente, tremando, finché gli uomini non si allontanarono. Non li vide mai e ne fu più che felice.

C’erano persone che abitavano in alcuni edifici mezzo crollati. Vide una donna portare acqua dal fiume, un uomo intrecciare una corda, un bambino Cambiato inseguire una palla. Quindi un bambino nonCambiato, in braccio a una ragazzina di dieci anni.

La ragazzina Cambiata era sudicia, mezza nuda, coi capelli sporchi per la polvere dei detriti. Però la pelle le risplendeva di salute e lei si arrampicò con forza su un cumulo di macerie, col piccolo avvinghiato al petto. Lui… lei?… sembrava avere circa un anno, l’età della figlia di Sharon, Callie. Le sue gambette, tuttavia, avevano un aspetto raggrinzito e debole, il ventre era gonfio e le braccia assomigliavano a bastoncini. Una ferita aperta sulla gamba lasciava colare del pus. Quando la ragazzina lo adagiò a terra, il piccolo si lamentò e sollevò le braccine che, quasi immediatamente, gli ricaddero lungo i fianchi.

Ecco che aspetto avrebbero avuto ben presto tutti i bambini, se Miranda Sharifi non avesse prodotto altre siringhe del Cambiamento e se il Rifugio avesse diffuso il neurofarmaco. Proprio così.

La ragazzina tirò in piedi il piccolo che subito ricadde. Le sue ossa non avevano alcuna forza.

Lizzie si allontanò dai due. Sarebbe stato meglio aspettare finché non si fossero ritirati dalla zona, ma lei non riuscì a sopportare di restare lì. Con grande attenzione, si fece strada attraverso Manhattan, orientandosi con la ferrovia a gravità anche quando dovette deviare a nord per evitare alcune persone. A sud, davanti a lei e alle sue spalle, riusciva a scorgere le toni di Manhattan Ovest e Manhattan Est, separate dall’immensa distesa del parco. Le torri scintillavano alla luce del sole e brillanti chiazze di colori modificati geneticamente rifiorivano sulle loro terrazze all’interno delle cupole a energia-Y dell’enclave. I velivoli entravano e uscivano da porte invisibili nella cupola invisibile.

A metà pomeriggio, aveva raggiunto la porta terrestre settentrionale dell’Enclave di Manhattan Est.

Era circondata da una specie di villaggio-in-rovina-all’interno-della-città-in-rovina. Di quelli che Lizzie immaginò fossero gli edifici originali in cemespugna, la metà era intatta e vuota, ancora circondata da scudi impenetrabili. L’altra metà era ridotta in macerie, incendiata, bombardata o abbattuta da pura e semplice forza bruta. Attorno e in mezzo agli edifici, la gente aveva costruito baracche con assi di legno, macerie di cemespugna, teli di plastica e perfino robot guasti. Be’, ogni tribù si accontentava di quello che riusciva a trovare. Quelle baracche, tuttavia, a loro volta erano distrutte o rovinate, alcune rappezzate, altre no, come se lì ci fosse stata una seconda Guerra del Cambiamento, una terza e poi una quarta.

Lizzie non vide persone, ma sapeva che c’erano: un falò da campo spento con le ceneri non ancora smosse; un sentiero ben tracciato libero da erbacce; un mazzo di fiori selvatici non ancora avvizziti, gioco di qualche bambino; cosa più sconcertante di tutte, una fotografia incorniciata di un uomo con abiti molto all’antica coi polsini e il colletto inamidati, che teneva in mano una specie di libro incastonato. Ma com’era arrivata lì quella? Restò nascosta, tenendo d’occhio la porta di entrata dell’enclave e aspettò.

All’improvviso suonò un segnale d’allarme.

Le persone sfrecciarono subito fuori dai nascondigli e da dietro i detriti, dalle baracche e perfino da un tunnel sotterraneo. Vivi, ma vestiti come Lizzie non aveva mai visto. Indossavano abiti da Muli: stivali, piccole camicie attillate, pantaloni, cappotti eleganti. Il tutto, però, a brandelli: nessuno aveva un vestiario completo. Le persone, donne, bambini e qualche uomo, non apparivano pericolose. Si radunarono attorno alla porta di ingresso dell’enclave e il segnale risuonò nuovamente.

Se Lizzie voleva vedere ciò che accadeva, doveva per forza unirsi a loro. Si avvicinò alla piccola folla con estrema cautela. Puzzavano, ma nessuno la degnò di attenzione. Quindi non erano una vera tribù dove tutti si conoscevano e restavano insieme. Erano solo un pugno di persone. Lei riuscì a raggiungere il fronte del gruppo.

La cupola dell’enclave era di colore grigio opaco fino a circa cinque metri di altezza, trasparente di lì in poi. Probabilmente i residenti non volevano essere guardati dai Vivi che rovinavano la visuale dei loro magnifici giardini. La porta, un profilo nero sul campo energetico grigio, scomparve all’improvviso. Tutti si misero a correre all’interno dell’enclave.

Non poteva essere così facile!

Non lo era. Dentro c’era una seconda cupola sigillata, piena di… cosa? Pile di vestiti, scatoloni di roba. Lizzie notò una bambola con la testa rotta, qualche piatto, una scatola in legno graffiata, alcune coperte. A quel punto comprese: i Muli dell’Enclave di Manhattan Est davano via le cose che non volevano più.

La gente cominciò a strappare roba dalle scatole, dai cumuli di oggetti, dalle mani di altri. Ci furono un po’ di spintoni, ma nessuna vera lotta. Lizzie osservò con attenzione, cercando di assimilare tutto, sia la struttura della cupola, sia i resti. Vestiario, quadri, giocattoli, lenzuola e coperte, vasi da fiori, mobili, oggetti in plastica. Nulla di elettronico o a energia-Y, nulla che potesse diventare un’arma. In tre minuti la cupola venne spogliata interamente e tutti i Vivi scapparono con i nuovi stracci.

Lizzie aspettò, mentre il cuore cominciava a martellarle in petto.

— Per favore, adesso lasciate la cupola — disse la voce severa di un robot. — La consegna di oggi è terminata. Per favore, adesso lasciate la cupola.

Lizzie restò dove si trovava, sfiorando con le dita il suo scudo personale.

— Per favore, adesso lasciate la cupola. La consegna di oggi è terminata. Per favore, adesso lasciate la cupola.

All’esterno, qualcuno gridò qualcosa di incomprensibile. I Vivi si immobilizzarono terrorizzati e poi cominciarono a correre.

— Per favore, adesso lasciate la cupola. La consegna di oggi è terminata. Per favore, adesso lasciate la cupola. — E poi, come per caso, lei si trovò fuori. La muraglia posteriore a energia l’aveva spinta poco cerimoniosamente in avanti, chiudendosi così in fretta che Lizzie cadde a faccia in giù.

I Vivi, che continuavano a strillare e a correre, scomparvero all’interno delle loro tane e dei loro buchi. Alcuni non furono abbastanza svelti. La banda di razziatori, soprattutto uomini ma anche qualche donna, si gettò su di loro e cominciò a saccheggiare gli scarti dei Muli, abbattendo le persone, gridando e strillando mentre calpestavano con pesanti stivali rubati facce e corpi.

Lizzie rotolò indietro verso la cupola che l’aveva appena espulsa. Aveva capito perché le baracche erano state ripetutamente distrutte e ripetutamente ricostruite. Il prezzo da pagare per vivere nei pressi del bottino di stracci usati dell’enclave era che altri cercavano di appropriarsene, con vari livelli di cattiveria.

Arrancò in piedi e cominciò a scivolare lungo la cupola. Inutile, era il bersaglio più visibile e meglio equipaggiato. Due uomini conversero su di lei.

— Lo zaino! Acchiappalo, Tish!

Non erano due uomini ma un uomo e una donna alta e dalle spalle larghe come quelle di un uomo che mostrava profondi occhi color porpora sotto ciglia lunghissime. "Modificata geneticamente."

I begli occhi da Mulo sogghignarono davanti a Lizzie e la donna cercò di afferrarla, incontrando lo scudo personale. — Cazzo! È schermata, lei! — L’accento era perfettamente da Vivo.

Tish pesava almeno quindici chili più di Lizzie. La fece cadere su un fianco e Lizzie si sentì crollare e scivolare contro la cupola a energia. Si rannicchiò piagnucolando all’interno del suo bozzolo. Tish le cadde accanto in ginocchio, con gli occhi color porpora che scintillavano di gioia pregustando la tortura, e cominciò a scuotere Lizzie per il collo come un cane con l’osso.

— Allora se non posso entrare lì dentro, io, posso sempre scuoterti fino a spezzarti il collo proprio dentro il tuo piccolo scudo sicuro…

Lizzie estrasse dallo stivale il coltello che Billy usava per scuoiare i conigli e lo spinse con un movimento dal basso in alto sotto lo sterno della donna.

Aveva affilato il coltello ogni giorno, durante le lunghe ore diurne in cui era stata nascosta. Nonostante ciò, rimase sorpresa di quanto fosse duro far passare la lama attraverso muscoli e carne. Spinse finché la lunga lama non fu conficcata fino al manico.

Gli splendidi occhi di Tish si spalancarono; crollò in avanti sopra Lizzie, in un abbraccio inerte.

Lizzie la spinse via e si guardò in giro terrorizzata. L’uomo che aveva detto a Tish di afferrare il suo zaino si trovava dall’altra parte della zona sgombra da macerie e stava combattendo con uno dei pochi uomini rimasti in vita nelle vicinanze dell’enclave. Il compagno di Tish sembrava avere la meglio. C’erano poi altri due razziatori in giro, e in un minuto qualcun altro l’avrebbe attaccata, Lizzie aveva a disposizione solo pochi istanti.

Non esitò: se ci avesse pensato non sarebbe mai stata in grado di farlo. Tish era pesante e lei non avrebbe potuto trascinarne il corpo muscoloso, ma non aveva bisogno di tutto il corpo.

Tremando, Lizzie si inginocchiò accanto a Tish e tirò fuori il cucchiaio d’argento che aveva rubato dalla sala da pranzo del dottor Aranow. Aveva avuto la bizzarra idea che, una volta all’interno di Manhattan Est, lo avrebbe potuto mostrare al sistema dell’edificio, convincendo "Jones" a lasciarla entrare. Fermò la palpebra destra di Tish fra il pollice e l’indice destro, l’aprì per bene e fece scivolare il cucchiaio sotto il bulbo oculare. Trattenendo il respiro, estrasse l’occhio dall’orbita. Quindi tirò fuori il coltello dal corpo di Tish e il sangue della donna la spruzzò a fiotti, scivolando lungo la parte esterna dello scudo a energia. Lizzie tagliò nervi e muscoli che legavano il bulbo all’orbita vuota.

Si girò, cercando a tastoni il profilo nero della porta dell’enclave. Il sangue macchiava le superfici esterne dello scudo a energia-Y della cupola e del suo. Inserito nel profilo della porta c’era un analizzatore di retina standard, programmato per concedere l’ingresso a ogni configurazione modificata geneticamente. Una misura di emergenza: un tecnico poteva essere colto all’esterno, un adolescente avventuroso poteva restare bloccato. Lizzie lo sapeva dai dati che spesso aveva trafugato.

Appoggiò l’occhio di Tish contro lo scanner e la porta della cupola esterna si aprì. Le si chiuse alle spalle, proprio davanti ai razziatori che gridavano per ucciderla.

Lizzie crollò a terra ed ebbe un conato. Non riuscì a vomitare: non aveva ingerito cibo per bocca da settimane. Ma non aveva tempo. Quanto poteva restare fresco un bulbo oculare per ingannare uno scanner? Quel tipo di informazione non si trovava nei data base.

Barcollando in piedi, sollevò l’occhio color porpora modificato geneticamente di Tish verso il secondo scanner. Si aprì anche la porta interna e Lizzie vi si catapultò attraverso.

Era dentro Manhattan Est.

Più precisamente, si trovava in una specie di deposito, pieno di robot da lavori pesanti immobili contro le pareti. Bene. Niente robot-poliziotti finché non avesse lasciato quell’edificio che doveva essere fortemente schermato e ben sigillato. Poteva aspettare. Lizzie si stese sul pavimento finché non riuscì a respirare normalmente.

Quando fu in grado di stare in piedi, disattivò lo scudo personale. Il sangue di Tish scivolò sul pavimento. Lizzie riattivò lo scudo e si rese conto soltanto in quel momento di avere ancora in mano l’occhio della donna. Non era insanguinato: tutto il sangue si era versato quando lei aveva ritirato il coltello dal corpo di Tish.

Tish non aveva mai utilizzato i suoi occhi modificati geneticamente per entrare nell’enclave. Perché no? Doveva sapere di essere modificata. Lizzie, tuttavia, aveva capito il motivo dell’esilio di Tish quando lei aveva cercato di scuoterla a morte. Le mani di Tish si erano strette attorno al suo collo; il corpo di Tish si era premuto contro il suo. Attraverso gli abiti, Lizzie aveva sentito i punti duri nei posti sbagliati, lo sterno malformato, le costole asimmetriche. Lo scheletro di Tish si era deformato nell’utero. Nuda, sarebbe apparsa grottesca. Lizzie rifletté sull’importanza che i Muli attribuivano alla perfezione fisica, e su quanto tempo Tish avesse vissuto con i Vivi per ottenere quell’accento. Vicki aveva sempre sostenuto che odiare se stessi fosse il tipo peggiore di odio. Lizzie non aveva mai capito cosa intendesse dire Vicki.

Rabbrividì e lasciò cadere l’occhio purpureo a terra. Sentì un conato. Non poteva abbandonare lì quella cosa col rischio che la trovasse un robot addetto alle manutenzioni. Si costrinse a recuperare l’occhio e a infilarlo in tasca.

Lizzie cominciò pazientemente a inserirsi nei codici di sicurezza del deposito.

Le occorse quasi mezz’ora. Quando ebbe terminato, uscì nell’Enclave di Manhattan Est. Si trovò su una strada immacolata orlata di fiori modificati geneticamente: lunghe e sottili forme azzurre che si protesero verso di lei. Lizzie balzò indietro, ma i fiori erano soffici, flaccidi, innocui. L’aria profumava di cose meravigliose: fumo di caminetto a legna, erba appena tagliata e spezie che non riuscì a identificare. Le torri di Manhattan scintillavano alla luce del tramonto mentre la programmazione delle loro pareti esterne si intonava delicatamente ai colori del cielo. Da un punto non ben precisato arrivò un profondo tubare di colombi.

C’erano persone che vivevano davvero in quella bellezza e in quell’ordine. Costantemente. Lo facevano sul serio. Lizzie terrorizzata, esausta e incantata, si sentì sul punto di piangere.

Non ne ebbe il tempo. Le andò incontro un robot-poliziotto.

Freneticamente infilò la mano in tasca per prendere l’occhio di Tish. Si era fatto più molle, leggermente flaccido. Lizzie si sentì rivoltare lo stomaco. Tenne l’oggetto disgustoso davanti all’occhio destro, chiudendo anche il sinistro, ma il robot non tentò nemmeno di prendere una scansione di retina dell’occhio purpureo in putrefazione. Non si sa come, quello sapeva già che lei non apparteneva a Manhattan Est. Lizzie vide la nebbiolina che le venne spruzzata in faccia, gridò e si accasciò sui fiori modificati geneticamente che avvolsero amorevolmente i soffici petali attorno ai suoi arti paralizzati.

20

Jennifer Sharifi, vestita con una fluente abbaya bianca, si trovava nella sala conferenze dei Laboratori Sharifi. Gli altri membri della squadra del progetto la chiamavano "centro di comando" ma a Jennifer quel nome non piaceva. La squadra era una comunità, non un esercito. Attraverso il pannello trasparente e bordato posto sul pavimento, le stelle scintillavano sotto i suoi piedi.

Jennifer, tuttavia, non stava guardando in basso ma a una fila di cinque oloschermi. La sala conferenze era stata trasformata. Era sparito il lungo tavolo a ferro di cavallo con le diciotto sedie. L’ampio spazio era stato riempito da banchi di computer e consolle mentre i membri del gruppo si muovevano liberamente fra le strumentazioni. Jennifer restava immobile. Si muovevano soltanto i suoi occhi, dardeggiando da schermo a schermo, assimilando tutto, senza tralasciare niente.

Schermo numero uno: l’accampamento "tribale" nell’Oregon, su un monitor a frequenza nascosta. I Vivi passeggiavano sulla spiaggia rocciosa del Pacifico nella nebbia di metà pomeriggio perché quei Vivi lo facevano sempre su quella spiaggia a metà pomeriggio. Tuttavia, le facce orribili dei Vivi erano chiaramente sconvolte e impaurite. I Vivi si ammassavano insieme a tre metri dall’oceano agitato. Tutto attorno, i giornalisti Muli gridavano domande. Le robocamere registravano.

— La stampa ha scoperto finalmente uno dei siti dell’esperimento? — fece Eric Hulden, avvicinandosi a lei. — Abbastanza lenti, eh? — Eric era uno dei nuovi, uno dei pochi giovani del Rifugio che Jennifer e Will avevano fatto entrare nel progetto in uno stadio successivo. Senza interrompere il guizzare avanti e indietro del suo sguardo, Jennifer sorrise. Eric era alto, forte, perfetto come tutti gli Insonni. Cosa ancora più importante, era freddo, di quella freddezza necessaria per comprendere e dominare il mondo. Ben più freddo di Will. Comunque, se Jennifer sorrideva direttamente a Eric, gli occhi modificati geneticamente di lui si tingevano di un blu più profondo. Aveva novantasei anni meno di lei.

Quello, in ogni caso, poteva aspettare.

Schermo numero due: notiziari terrestri. Il lato sinistro dello schermo diviso in due mostrava la United Broadcast Network, il più affidabile dei canali dei Muli. Un’annunciatrice con la appariscente bellezza modificata geneticamente tipica dei Grandi di Spagna diceva: — In un importante colpo di data-atoll al Cambio di Singapore, le azioni brasiliane della Stanton Orbital Corporation sono salite… — Nulla nel notiziario menzionava uno strano neurofarmaco che alterava il comportamento dei Vivi. Non lo faceva nemmeno il programma di segnalazione sulla parte destra dello schermo, che analizzava costantemente i principali canali di notizie del mondo in svariate lingue. Al momento, la fortuna del progetto teneva: il virus di Strukov non si era ancora alterato spontaneamente.

— Allora il neurofarmaco rappresenta soltanto una storia locale in Oregon — commentò Eric. — Pazzi Muli.

— Non proprio locale — ribatté pacatamente Jennifer. — Soltanto sotterranea. — Indicò i due schermi successivi.

Schermo numero tre: il ricercatore capo di Jennifer, Chad Manning, stava fornendo uno dei suoi sei rapporti quotidiani sul progresso alla Kelvin-Castner nella replica del neurofarmaco di Strukov. La Kelvin-Castner veniva controllata approfonditamente in modi che gli sciocchi Dormienti non avrebbero mai scoperto. Chad riceveva un flusso di dati che poi analizzava e traduceva in termini comprensibili per gli Insonni che non fossero microbiologi. La Kelvin-Castner procedeva con lentezza, troppo perché il progresso servisse a qualcosa.

Schermo numero quattro: il monitoraggio pirata dei progressi del governo. Quello era più problematico. Gli enti federali avevano sistemi di sicurezza decisamente migliori di quelli della Kelvin-Castner. Né Jennifer né il suo responsabile delle comunicazioni, Caroline Renleigh, erano sicure che le le informazioni che riuscivano a trafugare fossero complete. Per quel che aveva scoperto il Rifugio, comunque, i laboratori governativi di Bethesda, pur tenendo in "custodia cautelare" dei Vivi infettati dal virus di Strukov, non erano ancora riusciti a replicarlo né a combatterlo. L’FBI non aveva trovato alcun indizio determinante sul bombardamento a La Solana. Per quello che ne sapeva il Rifugio.

"Miranda lo avrebbe scoperto di sicuro." Jennifer allontanò all’istante quel pensiero. Il pensiero non esisteva e non era mai esistito. I suoi occhi sfrecciarono fra i cinque schermi.

Eric Hulden le appoggiò una mano sulla spalla. — Ero venuto a dirti che c’è un collegamento con Strukov. Vuole colpire Brookhaven fra un’ora. A te va bene?

— Bene. Chiama l’intera squadra per assistere.

— Benissimo, Jennifer. — Una parte della mente di lei notò come il giovane aveva pronunciato il suo nome. Freddamente, con decisione. Le piaceva. Ma poteva aspettare.

Schermo numero cinque: vuoto. Veniva utilizzato per le comunicazioni dagli agenti di Jennifer sulla Terra. Erano Dormienti, informatori contro la loro stessa razza, ben pagati e ben poco fidati. Tutto quello che Jennifer doveva sapere arrivava da lì, all’istante.

Mentre Eric si allontanava, il quinto schermo si illuminò con un bagliore informe. Trasmissione solo via audio. Il codice di crittaggio apparve sul fondo dello schermo. La comunicazione arrivava da uno dei suoi agenti negli Stati Uniti. — Signora Sharifi, sono Sondra Schneider. Abbiamo localizzato Elizabeth Francy.

— Vai avanti — disse Jennifer con compostezza, ma sentì il petto sollevarsi. Quella piccola Viva era stata sorprendentemente difficile da trovare. Dopo che il Rifugio aveva captato il suo ingresso elettronico nel flusso di dati trasmessi alla stazione orbitale dall’accampamento dei Vivi in Pennsylvania, la Francy era scomparsa. Per quanto difficile da credere, un membro della classe più bassa dei Dormienti aveva compreso subito ciò in cui si era imbattuta. La ragazzina sapeva che il Rifugio era connesso in qualche modo con il neurofarmaco che aveva infettato la sua patetica "tribù". Elizabeth Francy aveva compreso anche che se avesse aperto una qualsiasi linea di comunicazione tramite satellite o ripetitore terrestre, il Rifugio l’avrebbe localizzata all’istante. Era sparita dalla Rete, da qualsiasi sorveglianza visibile, e si era nascosta da qualche parte della campagna selvaggia. Jennifer aveva sperato che fosse morta.

— Elizabeth Francy si trova in stato di fermo presso la polizia dell’Enclave di Manhattan Est — riferì Sondra Schneider. — È riuscita ad arrivare fino a New York e a entrare da una porta di terra dell’enclave. Una mezz’ora prima dell’arresto, la porta era stata aperta tramite una scansione di retina di Mulo non registrata nelle nostre banche dati. Non riesco a spiegarlo. Un robot della ditta appaltatrice della sicurezza dell’enclave, la Patterson Protect, ha classificato l’ingresso come sospetto e si è attivato per sedare e catturare. Il nostro programma di segnalazione in Rete ha captato il nome della ragazza nella richiesta di informazioni inviate ad altre ditte appaltatrici tramite la rete della polizia.

Jennifer chiese in fretta: — Quanto tempo fa?

— Dieci minuti circa. Le somministreranno presto un siero della verità, se non lo hanno già fatto. Ma è tutto fuori-Rete, ovviamente. Non abbiamo alcun accesso.

— Non abbiamo un agente all’interno della Patterson Protect?

— Sfortunatamente no.

Jennifer rifletté. Lizzie Francy doveva essere andata a Manhattan Est in cerca di Victoria Turner, la sua mentore quasi adottata, o di Jackson Aranow. Ma perché? Per informarli di avere scoperto che il Rifugio monitorava la tribù infetta, ovviamente. Se la ditta di polizia locale pensava che fosse degna di fiducia e lo avrebbe fatto di sicuro, quanto meno avrebbe voluto sapere come aveva fatto un Vivo a penetrare a Manhattan Est, Lizzie avrebbe detto tutto. Avrebbe detto tutto anche sul Rifugio. Ma le avrebbero creduto? La controindicazione dei sieri della verità era che se il soggetto credeva che le sue bugie fossero verità, la droga avrebbe stimolato la confessione di bugie. I Dormienti avrebbero creduto che Elizabeth Francy fosse un’allucinata?

Forse no. Specialmente se Jackson Aranow avesse sostenuto le asserzioni della ragazzina Viva.

Maledizione, mancava meno di un’ora al test più importante di Strukov!

Jennifer restò perfettamente immobile, sconcertata per la propria reazione. Non aveva mai tali impeti di rabbia. Erano scarsamente produttivi, indebolivano. Jennifer Sharifi non si infuriava mai. Diveniva fredda e, di conseguenza, efficace.

Il momento di rabbia non aveva mai avuto luogo.

— Signora Schneider me ne occuperò io — disse con voce calma. — Faccia uscire tutti i nostri agenti da Manhattan Est, senza dare nell’occhio, durante i prossimi quarantacinque minuti. Si assicuri che comprendano che devono andarsene immediatamente. Mi occuperò io del resto. — Strukov avrebbe potuto procedere con il test su Brookhaven, ma Jennifer lo avrebbe istruito di cambiare il secondo bersaglio in Manhattan Est. La cosa avrebbe risolto il problema di Elizabeth Francy.

— Capito — disse Sondra Schneider. Il quinto schermo si spense. Lo sguardo di Jennifer riprese a spostarsi repentinamente e con regolarità sugli altri quattro.

I Vivi sulla spiaggia del Pacifico ammassati per la paura dei giornalisti Muli…

Il notiziario della UBN e i programmi di segnalazione all’interno della Rete, ignari del neurofarmaco inibitore…

Flussi di dati dalla Kelvin-Castner, dati che si accumulavano troppo lentamente per districare la complessa matassa delle molecole di Strukov…

Rapporti investigativi frustrati dell’FBI sull’esplosione nucleare a La Solana…

Il volto freddo di Miranda sullo schermo cinque…

Il corpo di Jennifer fremette per lo shock. Non c’era nulla sullo schermo numero cinque. Non c’era più stato niente da quando Sondra Schneider era scomparsa. Miranda era morta. La sua immagine non era mai esistita.

— Eccoti qui — disse Will Sandaleros. — Jenny, guarda questo.

Lei, invece, fissò Will. Il volto dell’uomo era rosso per l’eccitazione. Le stava porgendo un terminale portatile che mostrava un modello CAD di un robot.

— Il veicolo di diffusione dei peruviani. Quei bastardi finalmente ci hanno consegnato il progetto dettagliato che, contrattualmente, dovevano fornirci settimane fa. È abbastanza interessante. È…

— L’ho già visto — lo interruppe Jennifer. — Settimane fa.

— Te l’avevano fatto vedere? La versione dettagliata? E tu non mi hai detto nulla?

Jennifer si limitò a fissarlo. Il volto dell’uomo, qualche momento prima rosso per quello che considerava un suo trionfo sui peruviani, impallidì per quello che considerava tradimento da parte di lei. Sempre di più, Will era assorbito da quelle ridicole lotte di potere. Si arrabbiava, comprometteva la sua obiettività e la sua efficacia. Perdeva di vista l’imponente e sacra missione del progetto.

— Scusami, Will, mi devo occupare di alcune cose. Strukov deve lanciare fra meno di un’ora.

— Sapevi che desideravo avere il progetto del veicolo, che ho tormentato quei figli di puttana…

— Un Insonne non "tormenta", Will. — Jennifer vide Eric Hulden, dall’altra parte della stanza, che li stava osservando.

— Ma tu sapevi…

— Ti prego di scusarmi.

La mano di Will si serrò sul terminale. — D’accordo, Jenny. Ma dopo i test di oggi, affronteremo una discussione personale.

— Sì, Will. Lo faremo. Dopo i test. — Si allontanò con grazia.

Il resto della squadra arrivò nella sala conferenze. L’atmosfera era tranquilla, quasi dimessa. La situazione era troppo importante per suscitare ilarità o il genere di accaloramento irresponsabile che mostrava Will. Quello era il culmine della vita di Jennifer.

Finalmente avrebbe reso il Rifugio davvero sicuro per gli Insonni.

Erano stati disprezzati, perseguitati, odiati, maltrattati e anche uccisi (ricordava sempre Tony Indivino) per oltre cento anni. I Dormienti avevano odiato la sua gente perché gli Insonni erano più intelligenti, più tranquilli, di maggior successo. Migliori. Il passo successivo nell’evoluzione umana. Così la specie perdente aveva cercato di rendere impotenti gli Insonni nel mondo. Soltanto Jennifer Sharifi e Tony Indivino avevano previsto l’arrivo di quella inevitabile guerra a lungo termine. Ormai era rimasta solo Jennifer per rendere sicura la sua gente contro un nemico che poteva contare su un numero tanto più cospicuo.

Quando tutti i membri della squadra si furono radunati, Jennifer si mosse fra loro, mormorando parole di ringraziamento, di elogio e di incoraggiamento. Persone forti, competenti, fredde. Le più efficienti e leali del sistema solare.

Jennifer aveva deciso di non fare alcun tipo di discorso. Che fosse l’evento a parlare, in modo eloquente, per proprio conto. Evidentemente, Strukov aveva compiuto la stessa scelta. Senza alcun preambolo, il principale schermo a parete si illuminò e la telecamera montata sul veicolo telecomandato peruviano si attivò.

Sotto i loro piedi, attraverso il pannello trasparente sul pavimento, la Terra apparve alla vista.

Il veicolo telecomandato volò basso e tranquillo sopra Long Island nello stato di New York. Lentamente si vide crescere di dimensione, in lontananza, la cupola dell’Enclave di Brookhaven, che dominava l’erba nuova di primavera, le strade abbandonate e i paesi in rovina dei Vivi di Long Island. Il veicolo si direzionò verso l’alto e Jennifer fu in grado di vedere all’interno della cupola dell’enclave. Edifici semplici e dalle proporzioni gradevoli. Case. Complessi commerciali. Aree di intrattenimento. Edifici governativi. I Laboratori Nazionali di Brookhaven.

Brookhaven rappresentava il sito ideale per il primo test contro un’enclave ad alta sicurezza per il virus di Strukov. Abbastanza piccola (quanto non lo sarebbe stata la base dell’aeronautica di Taylor), abbastanza isolata (quanto non lo sarebbe stato il Pentagono), abbastanza poco appariscente (quanto non lo sarebbe stata l’Enclave di Washington Mall). A causa poi della presenza dei Laboratori Nazionali di Brookhaven, era schermata pesantemente come una qualsiasi altra installazione governativa da qualsiasi altra parte. Se il veicolo telecomandato di Strukov poteva penetrare attraverso gli scudi a energia-Y di Brookhaven, poteva penetrare attraverso quelli di qualsiasi altro posto.

Eccetto quello che aveva protetto La Solana. Jennifer allontanò il pensiero.

Il veicolo telecomandato volò attraverso il triplo scudo-Y di Brookhaven come se non ci fosse nemmeno stato. Il mezzo accelerò e zoomò appena sotto la cima dell’ultima cupola e l’immagine scomparve.

— È dentro — sospirò Chad Manning. — Siamo dentro.

— Veicolo telecomandato disintegrato — disse Caroline Renleigh. — Brookhaven ovviamente è equipaggiata per la guerra batteriologica. Devono esserci dei sistemi di sicurezza che segnaleranno, rintracceranno, punteranno… Come hanno fatto i peruviani a…

— I segnali di reazione potrebbero essere stati ritardati elettronicamente alla fonte — annunciò David O’Donnell dalla sua consolle di sicurezza.

Lo schermo si illuminò nuovamente. L’immagine era distorta, tremolante. Jennifer si rese conto che rappresentava intrusioni di microsecondi nei computer di sicurezza della stessa Brookhaven, che lavoravano in sovrapposizione sui monitor di Brookhaven con scariche non continue per meglio evadere la localizzazione. Non c’era suono. Lo schermo si divise in due. La parte superiore mostrò alcuni specialisti della sicurezza accigliati davanti ai banchi dei macchinari. Quella inferiore riportò dati presi dal computer dell’enclave.

— Sanno che è penetrato qualcosa — disse Will, alle sue spalle. — Sanno che potrebbe essere un agente biologico. Stanno sigillando i laboratori…

— Troppo tardi — disse Jennifer, studiando i dati sulla parte inferiore dello schermo. Quanto meno per chiunque non si fosse trovato in un ambiente sigillato durante l’esplosione.

Will esultò: — Possiamo anche permetterci che qualcuno scampi all’infezione. Non è probabile che riescano a scoprire cosa li ha colpiti. — Il suo umore era cambiato. Se Jennifer si fosse voltata avrebbe visto Will eccitato, con le braccia che fremevano e gli occhi che brillavano. Non si voltò.

I dati sulla parte inferiore dello schermo dicevano:


RIASSUNTO DI STATO: PENETRAZIONE DALL’ESTERNO TIPO 7C

BROOKHAVEN SIGILLATA MECCANICAMENTE RF-765

PRESI CAMPIONI DI ARIA PER ANALISI — PROGRAMMA 5B

RACCOMANDATA ALLERTA MEDICA


— Non servirà a niente — disse Will, ridacchiando.

Jennifer mantenne un’espressione impassibile. Will tendeva a sottovalutare il nemico. C’erano persone decisamente in gamba a Brookhaven, per essere Dormienti. Non bravi quanto i peruviani ma comunque competenti. Sydney Goldsmith, Marianne Hansten, Ching Chung Wang, John Becker. A differenza dei patetici siti dei test dei Vivi, il gruppo di Brookhaven avrebbe localizzato facilmente il virus non respirato nei campioni d’aria presi automaticamente, nonostante la sua bassa concentrazione e il suo breve dimezzamento vitale. L’avrebbero legato con un mezzo di contrasto radioattivo e lo avrebbero fatto respirare agli animali. Il gas sarebbe entrato nel flusso sanguigno e avrebbe circolato per qualche minuto prima di perdersi nel respiro e di essere distrutto dal Depuratore Cellulare. Prima che tutto ciò avvenisse, le parti del cervello più attive in quel momento particolare avrebbero ricevuto il maggiore afflusso di sangue. Il mezzo di contrasto avrebbe chiaramente indicato le amigdale. I ricercatori avrebbero effettuato sia scansioni cerebrali sia test cellulari. Avrebbero iniziato un esame tenace della lunga e intricata catena di eventi provocati da Strukov.

Ma ben prima che i ricercatori di Brookhaven dipanassero la matassa, non avrebbero più avuto desiderio di farlo. La novità della ricerca li avrebbe fatti sentire vagamente a disagio. Non era sufficientemente familiare. Si sarebbero sentiti in ansia tutte le volte che avessero pensato alla novità della situazione. Per qualche tempo avrebbero anche combattuto contro tale ansia, ma poi quella sarebbe cresciuta. I ricercatori di Brookhaven, e alla fine, di tutte le enclavi dotate di cupole degli Stati Uniti, avrebbero scelto il conosciuto rispetto all’ignoto. Avrebbero avuto sensazioni decisamente troppo sconvolgenti quando si fossero mobilitati per qualsiasi nuova ricerca.

A quel punto, Jennifer Sharifi e il resto degli Insonni sarebbero stati veramente al sicuro.

Will stava versando dello champagne. Jennifer non beveva mai, la faceva sentire non perfettamente al controllo della situazione, ma quella volta non poteva non partecipare al festeggiamento della sua gente. Ce l’avevano fatta. Erano al sicuro.

Sollevò il bicchiere. Nella stanza cadde il silenzio. Con voce calma, dalla tonalità bassa, Jennifer disse: — Grazie agli sforzi di tutte le persone presenti in questa stanza, finalmente abbiamo vinto. La biochimica dei Dormienti si è rivoltata contro di loro. Durante la prossima ora, veicoli telecomandati penetreranno nelle enclavi del Pentagono, di Washington Mall, dello spazioporto Kennedy e di Manhattan Est. Non morirà alcun Dormiente. Ma nessuno di loro sarà più in grado di minacciarci nuovamente, se non nei modi che già conosciamo e che possiamo combattere. Saremo al controllo, anche se solo perché non ci verranno aizzati contro nuovi demoni sconosciuti. Brindiamo ora al demone che conosciamo.

Risate. Bicchieri scolati. Quindi il volto di Strukov apparve sullo schermo principale.

— Signora Sharifi, lei e il suo popolo, senza dubbio, state festeggiando il successo della penetrazione a Brookhaven. Anch’io mi sento compiaciuto: ero davvero bramoso di scoprire se saremmo riusciti in una simile impresa. Tuttavia non posso permettere…

— Oh, mio Dio! — esclamò David O’Donnell dalla consolle di sicurezza. — Lancio. Codice sedici A. Ripeto. "Lancio."

— …che voi portiate avanti questo progetto. Anch’io, ovviamente, sono un Dormiente. E anche se non provo alcun sentimento di lealtà nei confronti del mio genere, sono spinto per natura all’autoconservazione come loro. O come voi. Quindi…

Una luce brillante esplose sotto i loro piedi, in un punto imprecisato fra il pannello sul pavimento e il pianeta rotante migliaia di chilometri sotto di loro.

— I missili di difesa del Rifugio sono stati distrutti — annunciò David O’Donnell. — Lancio quelli di riserva.

— …quindi non verranno innescati ulteriori veicoli telecomandati dei peruviani. E visto che tutti sappiamo dall’esperienza di La Solana che solo una bomba atomica è in grado di operare una distruzione completa, temo che sarò costretto a utilizzare una bomba atomica. Conoscete il motto di La Rochefoucauld sulla superiorità? Le vrai moyen d’être trompé…

"Al sicuro" pensò inebetita Jennifer. "Pensavo che fossimo finalmente al sicuro."

…c’est de se croire plus fin que les autres.

— Batteria di missili di controffensiva numero due distrutta — disse con voce strozzata David O’Donnell.

Jennifer avanzò di un passo. Pensò per un folle momento che il volto di Strukov sullo schermo a parete fosse stato sostituito da quello di Miranda.

La stazione orbitale del Rifugio esplose in uno scoppio di brillante luce letale.

21

Lizzie si svegliò in una stanzetta spoglia, non più grande di due metri e mezzo per un metro e venti, con pareti di cemespugna prive di finestre. Tre pareti. Si sedette sul letto, che era solo una piattaforma sporgente da un muro e cercò la parete mancante. Una donna le era seduta dirimpetto su una sedia. Dietro la donna, con un’uniforme blu, si allungava un corridoio privo di segni salienti.

— Salve — disse la donna. Era bella come Vicki: modificata geneticamente. Capelli neri, occhi scuri, pelle bianca come la neve. La quarta parete, comprese Lizzie, era uno scudo a energia-Y.

— Lei si trova nel quartier generale della Sicurezza di Manhattan Est, Patterson Protect Corporation, legalmente appaltatrice. Io sono l’agente Foster. Lei è Elizabeth Francy ed è stata presa per effrazione e violazione di domicilio, due reati penali. Vorrebbe dirmi come ha fatto a penetrare nell’enclave?

Lizzie tastò la tasca. L’occhio color porpora era sparito, quindi significava che l’agente Foster sapeva com’era entrata. Lizzie la fissò in silenzio.

— Signora Francy, non mi sembra che lei capisca. Manhattan Est è proprietà privata. La Patterson Protect è autorizzata a trattare questioni di polizia intra-enclave. Possiamo interessare anche il Dipartimento di Polizia di New York, se lo decidiamo. L’irruzione con scasso è un reato penale. E l’omicidio è un reato da pena capitale. — Sollevò l’occhio di Tish. — La Patterson Protect può usare, e lo farà, sieri della verità come da autorizzazione legale.

— Non ho ucciso nessuno! Ho bisogno di vedere subito una persona. Il dottor Jackson Aranow. Devo dirgli una cosa molto importante!

— Dottor Jackson Aranow — ripeté il poliziotto e restò seduta in silenzio. Lizzie immaginò che un sistema le comunicasse informazioni all’auricolare. Un istante dopo, la donna disse: — Perché lei…

La porta che si trovava in un punto imprecisato del corridoio alle spalle di lei si spalancò. Passi di corsa. Apparve un ragazzo, non più di quattordici anni, vestito con la stessa uniforme: sul colletto portava la targhetta INTERNO. Il suo volto mostrava sbalordimento ed eccitazione. — Agente Foster! Venga presto, il notiziario…

— Daniel — fece il poliziotto con voce inespressiva.

— …dice che…

— "Daniel."

— …qualcuno ha fatto saltare in aria il Rifugio con una bomba atomica!

Lentamente, l’agente Foster si alzò. Seguì il ragazzo lungo il corridoio, ma non prima che Lizzie notasse una parata di espressioni in sequenza sul suo volto: shock, riflessione, piacere.

"Hanno fatto saltare in aria il Rifugio."

Lizzie balzò giù dalla piattaforma-letto. Le gambe non le cedettero, qualunque fosse stato il neurofarmaco utilizzato dal robot-poliziotto, non aveva lasciato effetti. Passò le mani sullo scudo a energia-Y che formava la quarta parete della cella. Nessuna apertura. Nessun macchinario da quella parte. Nessun modo per uscire.

"Hanno fatto saltare in aria il Rifugio." Chi? Perché? Con tutti gli Insonni dentro? Poteva essere stata Miranda Sharifi, in guerra con sua nonna. Ma perché in quel momento? Poteva avere connessioni con il neurofarmaco della paura in qualche modo?

Non aveva alcun senso.

E Lizzie era stanca di congetturare. Stanca, infuriata, impaurita. Di arrivare a New York a piedi per cercare Vicki e il dottor Aranow. Di essere attaccata da Vivi, Muli e robot. Di essere minacciata di arresto per omicidio. Perfino di trafugare dati. Era una madre. Il suo posto era a casa con suo figlio. Non appena avesse trovato Vicki, il dottor Aranow o chiunque a cui mollare quella patata bollente in mano, era precisamente lì che sarebbe tornata.

— Ehi! — gridò Lizzie, incerta. Non rispose nessuno. L’agente Foster non tornò.

Lizzie cominciò a recitare tutti i codici standard vocali, per vedere se riusciva a farsi rispondere in qualche modo da un sistema dell’edificio. Non accadde nulla.

Si accomodò in attesa.

Passò un’ora. Ma non sarebbe tornato nessuno per interrogarla? Non era rimasto più nessuno a New York? E se quelli che avevano fatto saltare in aria il Rifugio avessero scaricato una bomba su Manhattan Est? Be’ non lo avrebbe mai scoperto prima di essere morta. Ma se qualcuno aveva diffuso il neurofarmaco della paura anche lì? I poliziotti se ne sarebbero andati a casa tranquillamente, impauriti per ogni novità, lasciandola a marcire in una cella?

Tutto lì dentro era sintetico. Non c’era nulla di consumabile.

Ma doveva esserci un robot che le portasse qualcosa da mangiare, dell’acqua. Un posto per pisciare. Esaminò il foro sul pavimento.

Trascorse stancamente un’altra ora. Lizzie cercò di pensare con lucidità, di pianificare. Benissimo, se non fosse arrivato nessuno e non fosse successo niente quando lei avesse contato fino a cento… d’accordo, duecento.

Tempo scaduto.

— Uhhhh! — strillò Lizzie. Si afferrò qualche pelo nelle narici e tirò forte. Le fece un male terribile. Il muco cominciò subito a fluirle dal naso, il cuore prese a batterle forte e sentì che il volto arrossiva. Strappò altri peli del naso e le lacrime iniziarono a scenderle sulle guance mentre il naso colava. Cominciò quindi a respirare ansimando velocemente e poco profondamente, finché non sentì che iperventilava. Si accasciò sul pavimento in cemespugna.

— Si richiede assistenza medica — disse la cella. — Schema respiratorio anormale. Pressione sanguigna in rialzo di quaranta punti su trenta, battito cardiaco uno-trenta, la scansione cerebrale mostra…

Un’unità medica fluttuò attraverso lo scudo-Y. Era di un tipo che lei non aveva mai visto prima, nemmeno quando nei paesi dei Vivi c’erano unità mediche. Un piccolo braccio con un cerotto sfrecciò verso di lei: un altro tranquillante. Lizzie balzò sulla piattaforma-letto, afferrò l’unità medica e la tirò su verso di sé, sollevandola da terra per bloccarla in modo che nessuno dei bracci robotici la raggiungesse. Sperò che l’allarme inviato dall’unità al sistema dell’edificio non avesse persone attorno che lo sentissero.

— Apri una comunicazione medica! — strillò lei e recitò il codice all’associazione medica del dottor Aranow, proprio come lo aveva trafugato dal suo sistema personale. Dio, doveva aprirsi! Quell’affare era un’unità medica, no? Doveva essere connesso con la struttura ufficiale.

— Comunicazione ufficiale medica aperta — disse tranquillamente una voce femminile. — Sto registrando. Dica pure, dottor Aranow.

— Mi colleghi col sistema di casa mia!

— Questa unità non è abilitata. Lei ha aperto un collegamento ufficiale medico con un canale per la registrazione. Proceda, prego.

— Stramaledizione! — strillò Lizzie. E se l’unità avesse attivato delle difese fisiche? Cominciò a snocciolare i codici di sovrapposizione di sicurezza trafugati da diversi sistemi governativi, sperando che uno aprisse il canale che pensava fosse possibile aprire… "doveva" essere possibile; perfino i collegamenti ufficiali dei Muli avevano delle porte di servizio perché un sistema fosse usato diversamente da come era stato programmato.

— Collegamento aperto — disse la voce femminile e, un istante dopo, si sentì una voce maschile: — Sì, dottor Aranow?

Jones. Il sistema di casa del dottor Aranow. Lizzie trasse un profondo respiro per calmarsi.

— Jones, dica al dottor Aranow che ha una chiamata d’emergenza da parte di Lizzie Francy. — Continuò a tenere l’unità medica il più lontano possibile, anche se quella aveva smesso di cercare di applicarle cerotti tranquillanti. — La signora Lizzie Francy.

— Il dottor Aranow non è disponibile, al momento. Vuole lasciare un messaggio registrato?

— No! Non… voglio dire, ho bisogno di lui, io! Collegami col suo sistema personale!

— Mi dispiace ma questo sistema nan può farlo tramite ordini esterni. Vuole registrare un messaggio?

Non aveva un collegamento ad altissima priorità e quel robot che dispensava cerotti non aveva la possibilità di crearne uno. Allora?

— La prego di rispondere durante i prossimi quindici secondi. Vuole registrare un messaggio?

— No! — gridò Lizzie disperata. — Fammi parlare con la sorella del dottore!

— Un momento, prego.

A quel punto udì una voce debole, spaventata: — Pronto?

— Signorina Aranow! — All’improvviso Lizzie non riuscì a ricordare il nome della sorella di Jackson. Riusciva a vederla, sottile ed elegante col suo vestito a fiori, che teneva in braccio Dirk, le lacrime che le scendevano sul pallido volto terrorizzato. Lizzie riusciva a ricordare il nome del sistema personale di lei, "Thomas" e tutti i suoi codici di accesso. Ma non aveva la minima idea di come si chiamasse di nome la ragazza. — Signorina Aranow, sono Lizzie Francy, l’amica del dottor Aranow. Quella col bambino. Sono in prigione nell’Enclave di Manhattan Est! Dica subito al dottor Aranow e a Vicki di venirmi a prendere, è un’emergenza!

— In prigione? Con il "bambino"? — Cominciò la signorina Aranow.

L’unità medica la spinse repentinamente con un insolito impeto di energia. Il cerotto si attaccò al polso di Lizzie che venne subito avvolta dall’oscurità: non vide nemmeno l’unità medica fluttuare via dalla sua presa per aleggiare sopra il suo corpo, accasciato mezzo sopra e mezzo fuori dalla piattaforma-letto.


Theresa giaceva tremante sul letto. Quella ragazza Viva era in prigione. Con il bambino.

Vide, chiaramente come se fissasse le pareti del suo studio invece di quelle della camera da letto, gli ologrammi presi dai notiziari sui bambini dei Vivi, malformati, deformi, affamati, morenti…

No. Si stava comportando in modo ridicolo. Il bambino di Lizzie non stava morendo. Quel piccolo era Cambiato. Però si trovava in prigione, in una cella da qualche parte, e doveva essere accaduto "qualcosa" a sua madre perché la comunicazione si interrompesse in quel modo. Qualcuno aveva fatto del male a Lizzie Francy? E al bambino?

Theresa non aveva mai visto una prigione. Tuttavia aveva guardato ologrammi di storia e film. Le prigioni, in quelli, erano sudicie e orribili celle che puzzavano e ospitavano persone pericolose che facevano del male agli altri. Di sicuro però non erano più così. I robot-pulitori non permettevano che fossero sudicie. Ma per il resto…

Si sollevò, appoggiandosi contro i cuscini. Le piaghe sulle mani e sul corpo le si erano chiuse. Era in grado di mangiare e di parlare, perfino di camminare un po’, con le stampelle. Aveva avuto anche un fluttuante ma Jackson lo aveva rispedito indietro perché, aveva detto, usarlo non l’avrebbe aiutata a ricostruire la muscolatura. Due volte al giorno, il roboinfermiere istruiva Theresa assistendola con il software di riabilitazione fisica. Alzarsi costituiva comunque uno sforzo, e passare le mani sulla testa calva la faceva piangere. Jackson aveva tolto tutti gli specchi dalle stanze. Durante la maggior parte del tempo, Theresa stava a letto dettando appunti, ore e ore di appunti ossessivi, a Thomas. Su Leisha Camden. Sugli Insonni. Su Miranda Sharifi.

A quel punto disse al sistema: — Thomas, fai emanare da Jones una chiamata a priorità assoluta a mio fratello alla Kelvin-Castner!

— Lo farò subito, Theresa.

Tuttavia fu Cazie, scompigliata e corrucciata, che rispose. — Tess? Cosa c’è che non va? Perché una chiamata di emergenza?

— Ho bisogno di parlare con Jackson.

— Lo so. Ma perché? — Cazie faceva tamburellare le dita su una scrivania invisibile. I capelli neri avevano bisogno di una spazzolata e lei aveva borse sotto gli occhi. Appariva tesa e sconvolta.

Theresa si ritirò contro i cuscini.

— È… privato.

— Privato? Ti senti bene?

— Sì… io… sì. Riguarda qualcun altro.

Lo sguardo di Cazie si concentrò all’improvviso, tagliente. — Chi altri? È arrivato un messaggio per Jackson? Non si tratta di qualcosa riguardo al Rifugio, eh?

— Rifugio? Perché mai Jackson dovrebbe ricevere un messaggio riguardante il Rifugio?

Lo sguardo di Cazie si velò di nuovo. — Niente. Da parte di chi è il messaggio?

— Cos’è questa storia del Rifugio?

— Niente, Tessie. Ascolta, non volevo trattarti male, visto che sei così malata. Torna a dormire, piccola. Jackson è nel bel mezzo di una riunione importante e io non voglio interromperlo, ma gli dirò che hai chiamato. A meno che non si tratti di qualcosa di importante che tu voglia dire a me perché io gliela riferisca. Theresa fissò Cazie negli occhi. Lei le stava mentendo. Theresa lo sapeva. Come? Quello non lo sapeva. Sì, invece. Theresa aveva finto di essere Cazie e ormai riusciva a distinguere quando Cazie stava fingendo. Uno spostamento della voce, un’espressione negli occhi dorati: Jackson non era in riunione. Quindi Cazie voleva tenere Theresa lontana da Jackson. E voleva tenerla lontana da qualcosa che riguardava il Rifugio. Cazie, poi, non aveva mai apprezzato che Jackson aiutasse quella ragazza, Lizzie, e il suo bambino…

— No, no — disse con un filo di voce. — Niente di importante. Soltanto un messaggio da parte di… Brett Carpenter. Quello con cui Jackson gioca a tennis. Per una partita.

— Ma hai detto che si trattava di un’emergenza.

— Io… avevo voglia semplicemente di parlare con Jackson. Mi sento un po’ sola.

Il volto di Cazie si addolcì. — È ovvio che sia così, Tessie. Ti farò chiamare da Jackson nel momento stesso in cui terminerà la riunione. Inoltre verrò questa sera a trovarti. Te lo prometto.

— Va bene. Grazie.

— Adesso riposa come una brava bambina e tutto andrà meglio. — Il collegamento si interruppe.

— Thomas — disse Theresa. — Segnalazione da notiziari, ultime ventiquattro ore. Qualsiasi cosa riguardante il Rifugio.

Non ebbe bisogno di segnalazioni. Lo schermo si attivò sulla notizia del momento, e Theresa vide l’ologramma del Rifugio che saltava in aria, ascoltò il cronista scioccato, seguì la simulazione della traiettoria del missile, udì la condanna infuriata del Presidente Garrison contro i terroristi nucleari ancora senza nome.

— Ripetere — disse Theresa a Thomas. La parola le uscì dalla bocca come un sussurro strozzato e le lacrime salate le bruciarono la pelle ustionata dalle radiazioni. Il notiziario venne ripetuto.

Dunque erano tutti morti. Miranda Sharifi: morta a La Solana, con gli strani e inumani Super che avevano trasformato l’umanità in qualcosa di diverso. Jennifer Sharifi: morta al Rifugio, con il suo brillante, potente popolo che controllava gran parte del denaro di tutto il mondo, in modi che Theresa non aveva mai compreso. Leisha Camden: morta sette anni prima in una palude della Georgia. Tutti morti. Tutte le persone modificate geneticamente in modo da non dover mai dormire, tutte le persone che, diceva Jackson, erano considerate il gradino successivo nell’evoluzione. Tutti morti.

Lizzie Francy e il suo bambino, però, erano vivi. In prigione nell’Enclave di Manhattan Est. "Dillo al dottore! Dillo a Vicki! Venite a prendermi…"

Theresa non era in grado di farlo. Era troppo debole, troppo spaventata.

"La prego, dica al dottor Aranow e a Vicki Turner di venire a prendermi immediatamente, è un’emergenza!"

Ci sarebbe riuscita lei, se fosse divenuta Cazie.

Theresa chiuse gli occhi. Le lacrime smisero di scendere. Jackson non aveva idea, nessuno lo sapeva, di quante volte durante il mese passato Theresa era divenuta Cazie. Stesa sul letto, piena di dolori nonostante gli antidolorifici, lottando per seguire il programma di riabilitazione, costringendosi a pensare all’esplosione a La Solana senza farsi prendere dal panico o da attacchi di ansia. Theresa si era allenata a essere Cazie. A essere una persona che non aveva paura, in grado di decidere cosa fare e poi di farlo.

In quel momento divenne Cazie.

Gradatamente, il respiro di Theresa rallentò. Le mani smisero di tremarle. Cosa più importante, sentì la differenza nella propria testa. Come cambiare canali dei notiziari. Il suo cervello le dava sensazioni diverse. Era possibile? Ma era proprio ciò che provava.

Theresa appoggiò a terra le gambe e allungò le mani per prendere le stampelle. Il roboinfermiere le fluttuò a lato. — Ha bisogno di aiuto, signorina Aranow? Non preferirebbe usare la padella?

— No. Disattivare — disse Theresa, e la parte di lei che era ancora Theresa… c’era sempre quella parte, soltanto che se ci pensava troppo le faceva perdere la parte che non lo era, si accorse dell’espressione decisa del tono. Il tono di Cazie con la voce ancora roca di Theresa.

"Non pensarci."

Lottò per uscire dalla camicia da notte e per infilarsi un vestito. Le pendeva sul corpo scheletrico. Scarpe, giacca. Nell’ingresso colse un’occhiata di se stessa allo specchio.

"No." Oh, Dio, no. Quella testa calva, era sua? Occhi infossati, pelle bruciata sopra il cranio: tutto suo? Riprese a piangere.

No. Cazie non avrebbe pianto. Cazie avrebbe saputo che si trattava di una cosa temporanea, che stava guarendo. Lo diceva sempre Jackson: Cazie si sarebbe messa un cappello. Theresa ne prese uno di Jackson e se lo calzò fin sopra le orecchie.

— Prigione di Manhattan Est, verificare coordinate — disse al robotaxi che l’edificio aveva chiamato per lei; assunse un’espressione truce come quella di Cazie. Aveva aspettato il robotaxi per quasi un quarto d’ora ma era riuscita sempre a rimanere Cazie.

— Sì, signorina Aranow — rispose il robotaxi. Theresa oscurò i finestrini e chiuse gli occhi per non vedersi nel riflesso dei vetri.

Il robotaxi la lasciò davanti a un edificio vicino alla parete orientale dello scudo dell’enclave. Qualche persona che stava camminando in fretta si fermò sul marciapiede, fissandola. Theresa ignorò tutti. Mento in alto, mani serrate strette insieme, disse all’analizzatore di retina nell’atrio deserto: — Sono Theresa Aranow. Sono qui per vedere un… un prigioniero. Lizzie Francy. Oppure chiunque sia il responsabile, qui.

— Lei non è registrata come avvocato, signorina Aranow — rispose l’edificio. — E nemmeno come parente stretta del prigioniero.

— No, io sono… potrei parlare con un essere umano, per favore?

— Mi dispiace, siamo in stato di emergenza. Tutto il personale della Patterson Protect è stato stanziato altrove. Vuole aspettare?

Stato di emergenza. Ovvio. L’attacco al Rifugio. Le persone avevano paura che la bomba successiva cadesse su New York. Se lei non avesse oscurato i finestrini del robotaxi si sarebbe accorta di tutta la gente che abbandonava l’enclave in volo. Non c’era da meravigliarsi che al suo edificio fosse occorso tanto tempo per procurarle un robotaxi. E forse anche la gente dall’aria sconcertata che aveva visto all’esterno non era stata colpita tanto dal suo aspetto bizzarro quanto dalla propria paura. La cosa le tirò su il morale.

— Non voglio aspettare — ribatté. — Voglio portare fuori da qui Lizzie Francy. Cosa devo fare?

— Vuole collegarsi agli Atti Pubblici?

— Sì. — Davvero? Perché no?

— Questa è una registrazione degli Atti Pubblici — disse un sistema diverso. — Come posso esserle di aiuto?

— Io voglio… io voglio portare a casa Lizzie Francy. Con me.

— Francy, Elizabeth, cittadina ID CLM-03-9645-957 — recitò il sistema. — Catturata alle 4.45 pomeridiane. 18 maggio 2121 al 349 Est della 96.ma Strada dal robot poliziotto della Patterson Protect numero di serie 45296, con l’autorizzazione per l’Enclave di Manhattan Est di effettuare operazioni ufficiali all’interno della cupola dell’enclave. Posta in stato di detenzione al quartier generale della Patterson Protect alle 5.01 pomeridiane, personale di guardia, agente Karen Ellen Foster. Motivo della carcerazione: effrazione e violazione di domicilio. Attuale stato legale: operazione limitata all’enclave, non notificata alla NYPD. Attuale stato della detenuta: in custodia, nessun avvocato registrato.

Theresa ripeté in maniera cocciuta, perché non sapeva cosa altro dire: — Voglio portarla a casa.

— La detenuta non è in stato d’arresto da parte della NYPD. La Patteroan Protect non ha diritti di detenzione prolungata senza che ci sia notifica alla nypd. Non è stata inoltrata alcuna notifica per Francy, Elizabeth, cittadina ID CLM-03-9645-957. Tuttavia la persona arrestata non è autorizzata a rimanere all’interno dell’Enclave di Manhattan Est a meno che sia accolta da un cittadina residente.

— Lei è… mia ospite. — Era abbastanza? Cazie lo avrebbe ritenuto sufficiente. Theresa disse, con maggiore fermezza: — Mia ospite. Mia. Di Theresa Aranow.

— Mi consenta di mettere agli atti che, in assenza di notifiche alla nypd da parte della Patterson Protect, la detenuta Elizabeth Francy. cittadina ID CLM-03-9645-957 è stata rilasciata sotto richiesta della cittadina Theresa Katherine Aranow, cittadina ID CGC-02-8735-341. Grazie per il sostegno dato alla Patterson Protect.

Theresa si fece prendere improvvisamente dal panico. — E il bambino! Mi lasci portare a casa anche il bambino, il bambino di Lizzie, non mi ricordo il nome… il bambino!

Il sistema non rispose. Theresa chiuse gli occhi, lottando per mantenere il controllo. Cazie non si sarebbe fatta prendere dal panico. Cazie avrebbe aspettato di vedere se Lizzie fosse uscita da una di quelle porte tenendo in braccio il bambino. Cazie avrebbe aspettato e poi deciso cosa fare… "Lei era Cazie."

— Signorina Aranow? — disse Lizzie. — "Theresa?" Theresa riaprì gli occhi. Lizzie era lì, senza il bambino. La stava fissando con occhi sbarrati e Theresa ricordò che aspetto dovesse avere. Disse: — Dov’è… dov’è il piccolo?

— Il piccolo? Il mio bambino, vuoi dire? A casa con mia madre, lui. Perché?

— Pensavo…

— Che cosa ti è successo?

In quel momento, Theresa crollò. Non era Cazie. Dal momento che c’era qualcun altro, un estraneo, che Lizzie aveva rammentato a Theresa che aspetto avesse, che lei era riuscita a fare uscire Lizzie non era più Cazie. Era Theresa Aranow e sentiva il respiro affannarsi e vedeva il braccio ossuto aggrapparsi alla scompigliata ragazzetta Viva che, per quanto ne sapeva Theresa, poteva anche essere l’unico altro essere umano in un’enclave prossima a essere colpita da una bomba atomica. Theresa gemette.

— No, non qui — disse Lizzie da una certa distanza. — Dio, è proprio come Shockey, vero? E non hai mai inalato un neurofarmaco. Vieni, non cadere, appoggiati a me. No aspetta, ho bisogno di recuperare il mio terminale. Sistema dell’edificio! Voglio lo zaino, io, quello che avevo quando sono arrivata qui!

Le gambe indebolite di Theresa cedettero. Le sue stampelle caddero a terra e lei insieme con loro. In seguito quanto tempo dopo? si sentì mezzo trascinare, mezzo portare all’esterno. Infilare in un robotaxi. Tenere fermamente attorno alle spalle.

— Forza, ragazza mia, va tutto bene. Forza piccola — stava dicendo Lizzie in continuazione. — Non fare così, tu. Non puoi fare così, io ho bisogno di te!

"Ho bisogno di te." Quella frase le penetrò nel cervello. "Ho bisogno di te." Come la gente aveva bisogno di Cazie, come la gente aveva bisogno di Jackson, ma non di Theresa. La gente non aveva mai avuto bisogno di Theresa perché lei era sempre stata quella bisognosa.

Non quella volta.

Si sforzò ancora una volta di diventare Cazie. Il suo respiro rallentò, le strade si misero a fuoco nuovamente, le dita si staccarono da Lizzie. Le scattò di nuovo qualcosa nel cervello.

Lizzie la fissava sbalordita. — Come hai fatto?

— Non posso… spiegarlo.

— Be’, allora non farlo, tu. Abbiamo cose più importanti di cui occuparci. Dove puoi fare andare questo aggeggio per poter parlare?

— A casa!

— No. Probabilmente è sotto controllo. Cos’è tutto quel bosco?

— Central Park. Ma non possiamo…

— Robot — disse Lizzie — scendi al Central Park e fermati in un luogo appartato. Devono esserci un sacco di alberi e niente persone nel giro di cento metri.

Il robotaxi sfrecciò attraverso le strade dell’enclave, entrò nel parco e si fermò sotto un immenso acero presso l’East Green. Con una mano, Lizzie trascinò Theresa fuori dal robotaxi. Con l’altra teneva uno zaino color porpora che aprì sull’erba per estrarre un terminale. Il robotaxi sparì.

— Volevo che aspettasse! — esclamò Lizzie. — Oh, non importa, ne chiameremo un altro. Devo trovare immediatamente il dottor Aranow, devo correre il rischio di fare una chiamata…

— Jackson è alla Kelvin-Castner — disse Theresa. Si strinse le braccia attorno al corpo devastato, ormai infreddolito ed esausto. — Ma non puoi contattarlo. Cazie intercetta tutte le sue chiamate, perfino quelle d’emergenza. Non voleva che lo sapessi, ma il Rifugio è stato bombardato e distrutto.

Lizzie non commentò. Non apparve nemmeno sorpresa. Poi, disse però lentamente: — Sei sicura?

— Sì. — Theresa sentì di nuovo scendere le lacrime. — Ho visto il notiziario.

— Chi è stato?

Theresa non poté fare altro che scuotere la testa.

Lizzie le chiese bruscamente: — Perché stai piangendo? C’erano soltanto Insonni al Rifugio, no?

— Leisha… Miranda…

— Miranda Sharifi sta sulla Luna. A Selene. E chi sarebbe Leisha? Non importa, lasciami riflettere, tu.

Lizzie rimase seduta davanti al terminale spento, in silenzio. Theresa si sforzò di riprendere il controllo di se stessa. Lei era Cazie, lei era Cazie. No, non lo era. Lei era Theresa Aranow, malata, debole ed esposta al Central Park e voleva disperatamente tornare a casa e andare a dormire.

Lizzie disse lentamente: — Il Rifugio ha creato il neurofarmaco della paura che ha infettato il mio bambino, mia madre, Billy e tutti gli altri. Quanto meno, penso sia stato il Rifugio. Stavano monitorando la mia tribù ricevendo flussi di dati fortemente criptati e schermati e non so proprio come potessero sapere che noi eravamo infettati se non era colpa loro. Soltanto… soltanto che adesso sono tutti morti, tutti gli Insonni… Dio, Theresa, non crollare adesso, tu!

— Voglio… tornare a casa.

— No, non possiamo. Devo trovare il dottor Aranow. Se non possiamo chiamarlo, dovremo andare laggiù, noi. Ascolta, chiamerò un robotaxi col terminale. Cerca solo di resistere.

Theresa non ci riuscì. Però non si fece prendere nemmeno dal panico: era troppo esausta, fino al midollo delle ossa indebolite. Cercò di dire a Lizzie che un robotaxi non le avrebbe portate alla Kelvin-Castner a Boston perché i robotaxi non potevano lasciare l’enclave, ma era troppo esausta per riuscire a formulare la frase. L’ultima cosa che ricordò fu di essersi addormentata sull’erba del Central Park, modificata geneticamente e fragrante, mentre piangeva per gli Insonni che erano spariti e che non sarebbero tornati mai più.

22

Jackson era seduto nell’atrio della Kelvin-Castner su una panca di marmo bianco, circondato da colonne di marmo bianco, da una vasca decorativa riempita di acqua lattiginosa e dal suo avvocato. La superficie dell’acqua bianca veniva infranta occasionalmente da velocissimi pesci argentati, modificati geneticamente e scintillanti. Le colonne bianche erano delicatamente venate d’argento. L’ultima volta che Jackson si era seduto lì, l’ingresso era stato tutto un rifiorire di doppie eliche. Qualcuno lo aveva riprogrammato.

L’avvocato di Jackson, che indossava un severo cappotto nero abbottonato fino al mento, costava alla TenTech una tariffa tripla per il servizio "urgente, esclusivo e prioritario". Jackson lo aveva scelto da uno dei migliori studi legali di Manhattan un’ora prima, provocando il ritardo di altri casi. Per quella circostanza in particolare, Jackson non voleva un avvocato della TenTech che poteva essere andato a letto con Cazie.

— Non possono tenerci qui in attesa all’infinito, no? — chiese.

— No — rispose Evan Matthew Winterton della Cisnero, Linville, Winterton e Adkins. Era modificato geneticamente secondo un modello di bellezza tipico del Diciottesimo secolo: lungo volto ossuto e aristocratico, occhi taglienti e profondi, delicate dita lunghe e dalla forza elastica. Winterton armeggiava su un terminale a mano in modalità di scrittura. — Contrattualmente, lei ha un accesso fisico garantito allo stabilimento così come ai dati. Non, tuttavia, alla persona di Alex Castner. Lui non è costretto a riceverla.

— Ma Thurmond Rogers sì.

— Sì. Anche se la dicitura nella sezione cinque del quarto paragrafo risulta ambigua su qualche dettaglio… Perché non si è rivolto a me fin dal principio per la stesura?

— Non sapevo che avrei avuto bisogno di lei o di qualcuno del suo rango. Avevo fiducia che la Kelvin-Castner avrebbe fatto ciò che aveva promesso.

L’avvocato si limitò a fissarlo.

— D’accordo, sono stato uno sciocco — ammise Jackson, sperando che l’edificio stesse registrando. Che Cazie e Rogers sapessero pure che lui lo sapeva. — Non mi farò ingannare di nuovo. Ecco il motivo per cui ho chiamato un esperto in sistemi così come ho assunto lei.

— Può anche avere un esperto di sistemi — disse Winterton con la pazienza di chi ha già esposto un concetto svariate volte. — Un esperto di sistemi che scriva programmi di segnalazione, di organizzazione dati e algoritmi riassuntivi. Quello che non può avere è un esperto di sistemi che trafughi documenti privati dell’industria, a meno che lei non abbia prove sufficienti per una causa per violazione di contratto da parte della Kelvin-Castner. Le ho già spiegato, Jackson, che lei non possiede tali prove.

No. Tutto quello che aveva era la capacità di leggere gli occhi di Cazie. Anni di osservazione gli avevano conferito la sensibilità di una scansione cerebrale. Tuttavia non era il genere di cose che portava a una citazione in giudizio. Conduceva soltanto alla verità.

— Tuttavia — proseguì Winterton, nello stile pedante che Jackson sospettava mascherasse l’istinto di uno squalo assassino — se il suo esame professionale dei dati offerti, più quello dell’esperto di sistemi, mostrasse un motivo sufficiente per sospettare che la Kelvin-Castner non si stia adeguando alle promesse contrattuali di divulgazione, allora è certamente possibile un subpoena duces tecum.

Quindi anche Winterton si aspettava che l’edificio stesse registrando. Stava ammonendo Castner.

La parete si illuminò e apparve un ologramma di Thurmond Rogers che sorrideva calorosamente. — Jackson! Sono contento che tu abbia fatto un salto qui per vedere di persona i nostri progressi!

— No, non penso che lo sarai — replicò Jackson. — Questo è il mio avvocato, Evan Winterton. È in arrivo anche un esperto di sistemi da New York con due consulenti medici. Esamineremo con estrema attenzione i tuoi dati, Thurmond, per essere sicuri che stiate soddisfacendo gli impegni contrattuali.

Il sorriso di Rogers non tentennò. — Certamente, Jackson. Procedura standard quando c’è tanto in gioco. Sei benvenuto.

— Allora facci entrare.

— Be’, Jackson, questa è una struttura a protezione biologica quattro. L’impianto di aerazione è sigillato, lo sai, e abbiamo procedure di decontaminazione da installazione degli Stati Uniti di Classe A. Nessun ricercatore ha lasciato l’edificio dall’inizio del progetto. Una volta dentro, sei dentro. Alex Castner però ha autorizzato disponibilità completa di terminali per te nella zona non sigillata della Kelvin-Castner. Le stanze sono abbastanza confortevoli. Quindi, se vorrai seguire il mio ologramma…

— No — rispose Jackson. — La mia squadra utilizzerà le strutture confortevoli, ma io verrò dentro. Ai laboratori.

Il volto di Thurmond assunse un’espressione grave. — Jackson, non è consigliabile. In particolar modo con tua sorella così malata e suscettibile di infettarsi. Non è Cambiata, no? Me lo ha detto Cazie. Anche se il neurofarmaco non è trasmissibile nella sua forma attuale, non esiste garanzia che una versione non possa mutare o che non ne venga deliberatamente creata una trasmissibile per contatto diretto.

— Io vengo dentro — disse Jackson. — C’è sul contratto.

— Allora non posso fermarti — commentò Rogers e, dalla mancanza di esitazione, Jackson comprese che l’ipotesi era stata presa in considerazione ancora prima del suo arrivo. "Se insiste, a livello legale lo dobbiamo ammettere", aveva stabilito qualcuno, Castner oppure il consiglio della K-C o il software di probabilità giuridiche. — Ma ovviamente dovrai passare per le procedure di decontaminazione e restare in quarantena prima di uscire. Se seguirete l’ologramma, vi condurrò al corridoio appropriato per…

L’ologramma si immobilizzò.

Nello stesso istante, la linea di Winterton trillò. — Chiamata Codice Uno, Signor Winterton. Ripeto chiamata Codice Uno…

Winterton disse: — Proceda. Via cavo, per favore. — Soltanto in quel momento Jackson notò il sottile filo isolato che correva discretamente dal colletto del cappotto di Winterton fino al suo orecchio sinistro. Le chiamate di Codice Uno del suo studio legale giungevano su un canale fortemente criptato. Una volta che il telecomando che aveva in tasca li aveva decodificati, però, i dati erano passibili di intercettazione ambientale. A meno che arrivassero al suo cervello non via radio ma tramite cavi schermati vecchio stile. A volte, rifletté freddamente Jackson, i metodi all’antica erano i migliori. Come esaminare gli esperimenti della K-C visivamente e di persona.

Il volto allungato e aristocratico di Evan Winterton tremò all’improvviso. Gli occhi incavati si spalancarono, quindi si chiusero. Jackson si rese conto di assistere a una reazione emotiva estrema di quell’uomo. L’ologramma bloccato di Thurmond Rogers scomparve repentinamente.

— Che c’è? — chiese Jackson. — Cos’è successo?

Winterton si prese un momento di tempo per rispondere. La sua voce sembrò gracchiare. — Qualcuno ha fatto saltare in aria il Rifugiò.

— Il Rifugio?

— Esplosione nucleare. Dall’esterno, la traiettoria del missile aveva origine in Africa. Il presidente ha dichiarato uno stato di allerta nazionale. — Winterton si alzò, fece un passo avanti, senza alcuno scopo, e cominciò a digitare freneticamente sul telecomando, continuando a restare in ascolto dell’impianto auricolare. Jackson cercò di assimilare la notizia. Il Rifugio sparito. Così come La Solana. Tutti gli Insonni, o quasi. Ma lo sapevano soltanto lui, Vicki e Theresa. Il resto del mondo pensava che Miranda Sharifi fosse al sicuro nella base di Selene.

— Chi…?

— Non importa — commentò Winterton, e Jackson comprese che non gli importava sul serio. La Cisnero, Linville, Winterton e Adkins aveva molti clienti che trattavano direttamente o indirettamente con il Rifugio. Il groviglio di imprese di Jennifer Sharifi, gli investitori, le compagnie fiduciarie e le attività di data-atoll avevano bisogno di una legione di avvocati, sia Insonni sia, come paravento, Dormienti. Ogni istituzione finanziaria del mondo avrebbe reagito al massacro del Rifugio. Sarebbero occorsi decenni per chiarire tutte le implicazioni legali.

I Vivi non avevano decenni a disposizione. Non se il neurofarmaco si fosse diffuso.

— Mi dispiace, Jackson, devo andare — disse Winterton. — Affari urgenti al mio studio.

— Ma io l’ho assunta! — protestò Jackson. — Lei è obbligato a restare finché noi…

— Mi dispiace ma non lo sono — replicò Winterton. — Al momento non abbiamo ancora messo nulla per iscritto. Se non si trattasse di questioni di priorità assoluta nel mio studio… Ma di certo lei comprende che questo cambia tutto. Il Rifugio è stato distrutto.

Nemmeno Evan Matthew Winterton riusciva a nascondere una nota di timore reverenziale nella voce, notò Jackson mentre l’avvocato si allontanava.

Jackson fissò la vasca dell’atrio con la sua acqua biancastra. I pesci argentati continuavano a sfrecciare e balzare incessantemente. Il loro metabolismo era geneticamente accelerato per reggere quel livello di attività. Si chiese che cosa mangiassero.

"Il Rifugio è stato distrutto. Questo cambia tutto." E, con la voce di Vicki: "Dipende da te, Jackson"!

Non voleva che dipendesse da lui. Lui era un individuo, non particolarmente influente e la sua istruzione personale aveva rafforzato il suo credo che nessun individuo faceva mai la differenza. La scienza era contraria. L’evoluzione non si interessava mai al singolo, ma solo alla sopravvivenza della specie. La chimica cerebrale sagomava la scelta individuale delle azioni, indipendentemente da quanto la persona in questione credesse nel libero arbitrio. Perfino le grandi scoperte scientifiche, se non fossero state fatte dagli uomini e dalle donne che le avevano fatte, alla fine sarebbero state compiute da qualcun altro. Quando il lento accumulo di brandelli di conoscenza raggiungeva una massa critica, allora si avevano le macchine a vapore, la relatività o l’energia-Y. L’individuo non era mai realmente importante per un cambiamento radicale. Forse l’eccezione era rappresentata da Miranda Sharifi… ma Miranda Sharifi non era stata umana e non erano rimaste più Miranda Sharifi.

Inoltre Jackson non lo voleva. Desiderava vivere tranquillamente con Theresa, essere in grado di riconquistare l’amore di Cazie e di praticare la medicina, la medicina convenzionale, quella che aveva studiato prima che gli Insonni cominciassero a rimodellare il mondo. In quello stato, non poteva avere nessuna di quelle cose, ma restavano ciò che desiderava.

Era vero?

Se avesse voluto praticare la medicina convenzionale si sarebbe unito ai Medici per l’Aiuto Umano, lasciando la sua comoda enclave ed esercitando fra i bambini Vivi che morivano per la mancanza di cure mediche. Se davvero avesse voluto indietro Cazie non le si sarebbe opposto sul ruolo della TenTech nell’imporre le finalità dello studio della trasmissione del neurofarmaco. Se avesse voluto vivere tranquillamente con Theresa perché non era con lei, nel loro appartamento con vista sull’Eden protetto di Central Park?

"Benvenuto all’evoluzione umana."

Si alzò. I pesci argentati continuarono a piroettare freneticamente nella vasca bianca. Probabilmente il metabolismo modificato geneticamente non permetteva loro di fermarsi.

— Edificio — disse Jackson. — Di’ alla sicurezza che sono pronto a iniziare le procedure di decontaminazione per entrare nei laboratori a rischio biologico sigillati.

Un ologramma a distanza di Cazie gli apparve accanto al gomito. Jackson era appena emerso dalla Decontaminazione, vestito con un camice verde usa e getta della Kelvin-Castner. Il vestito non offriva alcuna protezione. Forse la K-C non si preoccupava di ciò che avrebbe potuto infettarlo più di quanto non si fosse preoccupata di ciò che avrebbe potuto portare con sé. O forse sarebbe dovuto passare attraverso altre Decontaminazioni prima di ispezionare i laboratori a rischio biologico dove si stava ricreando il neurofarmaco inibitore. Sempre che tali laboratori esistessero.

L’ologramma di Cazie, proiettato da dentro la Kelvin-Castner o da fuori, disse: — Salve, Jackson. Nonostante tutto, è bello rivederti in carne e ossa.

Le sue maniere erano perfette. Non fredde, non accusatrici, non ingrazianti, non falsamente amichevoli. Cazie parlava con espressione grave, tranquilla, appena con un’ombra di rammarico perché le cose non potevano essere diverse, un’ombra di rispetto per il diritto di Jackson di fare ciò che faceva. Perfette.

— Salve, Cazie. — Sconcertato, provò per lei un’improvvisa fitta di pietà. Perché non provava niente altro. — Possiamo iniziare?

— Sì. Ci sono moltissime cose da farti vedere e arriverà ben presto qualcuno per mostrartele. Ma mentre eri in Decontaminazione, è arrivata una complicazione.

— "Arrivata"?

— La tua amica Victoria Turner. Con quella ragazzina Viva, la madre dei campioni di tessuto giovanili. La signorina Turner pretende di essere ammessa ovunque tu ti trovi. Lo pretende con una certa veemenza, potrei aggiungere.

La proiezione di Cazie guardò Jackson in modo espressivo, con un’improvvisa vulnerabilità negli occhi olografici. Deliberata o genuina? Non era mai stato in grado di capirlo, con Cazie. E ormai non gli importava più.

Rifletté velocemente. — Fai accedere Vicki alla Decontaminazione. Può assistermi durante l’ispezione. Metti Lizzie nella stanza esterna con gli esperti informatici di New York. Sono già arrivati?

— No. Ma temo che la signorina Turner non possa vagare allegramente attraverso i laboratori di proprietà della Kelvin-Castner soltanto perché tu hai una…

— Un’assistente ispettore fa parte del mio contratto. Rileggilo.

— Un assistente esperto, non una specie di dilettante…

— Un tempo Vicki lavorava per l’Ente di Controllo per gli Standard Genetici. È esperta di spionaggio. Adesso mostrami come posso collegarmi immediatamente con Lizzie mentre Vicki è in Decontaminazione.

Cazie si morse il labbro inferiore con una forza tale da far cadere una goccia di sangue rosso brillante. Quindi spiegò gelidamente: — Prosegui per questo corridoio e attraversa l’ultima porta sulla sinistra. — Jackson comprese che Cazie aveva accettato il cambiamento di rapporti fra loro e che aveva superato la cosa. Quella singola goccia di sangue olografico era l’unica ammissione che lui avrebbe mai visto. O che Cazie si sarebbe permessa di provare.

La porta conduceva a una stanza della dimensione di un’alcova con un terminale standard e indipendente collegato al sistema dell’edificio. Jackson disse: — Chiamata per Lizzie Francy, all’interno dello stabilimento.

— Dottor Aranow! Non si preoccupi per Theresa, è tornata a casa e sta dormendo.

— Theresa? Tornata a casa? Ma di che stai parlando?

Lizzie sogghignò. Jackson si accorse che stava scoppiando per l’eccitazione e l’autosoddisfazione. Era tutta scompigliata: fili d’erba, molto verde, molto modificata geneticamente, fra i capelli, il volto sporco, la stridente tuta gialla più stropicciata di quanto pensava che potesse stropicciarsi una tuta di plastica. Rappresentava una macchia vivida, giovane, disordinata nell’immacolato loculo di lavoro della Kelvin-Castner, e Jackson si sentì sollevare lo spirito solo a guardarla.

— Sono venuta a piedi fino a Manhattan Est per trovare lei, perché ho qualcosa di importante da dirle per cui non potevo aprire una comunicazione…

— Allora non dirlo qui.

— Certo che no — ribatté con disprezzo Lizzie. — Comunque sono arrivata a Manhattan Est per conto mio, le dirò dopo come, poi un robot della sicurezza mi ha pizzicato e mi ha sbattuta in prigione. Ho finto un’emergenza medica e ho costretto l’unità medica ad aprire un collegamento con casa sua, soltanto che lei non c’era, e allora ho parlato con Theresa, e lei è venuta giù alla prigione e mi ha tirata fuori…

— "Theresa"? Come ha potuto…

— Non lo so. Fa qualcosa di strano col cervello. Comunque, quando Theresa ha cominciato a spaventarsi troppo, l’ho portata a casa e ho usato il suo sistema per chiamare Vicki che, ho scoperto, stava cercando me. Mi ha portato qui perché ha detto che lei aveva bisogno di me. Ma io prima le volevo riferire che il roboinfermiere dice che Theresa sta bene e che sta dormendo. Anche Dirk sta bene: ho chiamato mia madre.

A Jackson vennero le vertigini. Lizzie, una Viva, appena più che una bambina, aveva camminato per trecento chilometri fino a New York, aveva superato quello che si riteneva uno scudo a energia impenetrabile, aveva sovvertito l’equipaggiamento di sicurezza della Patterson Protect e stava seduta lì, bramosa di scagliarsi contro una delle più importanti compagnie farmaceutiche del mondo. "L’individuo non era realmente importante per un cambiamento radicale?"

— Ascolta, Lizzie. Ho bisogno che tu mi scriva dei programmi di segnalazione per una lista di combinazioni di parole chiave che io ti fornirò, per ricercarle in tutta la documentazione della Kelvin-Castner. Copiami tutto quello che viene evidenziato, indicando chiaramente una doppia segnalazione.

Lizzie lo fissò con espressione perplessa. Quello che lui le chiedeva di fare era una cosa che poteva realizzare chiunque avesse un minimo di familiarità con i sistemi informatici. Lui pronunciò le ultime parole molto lentamente e con grande attenzione, fissandola direttamente negli occhi, sperando che lei comprendesse.

— È molto importante. Ho bisogno che tu faccia quello che sai fare meglio.

Lei comprese. Jackson lo capì dal sorriso. Quello che lei sapeva fare meglio era trafugare dati in fretta, confondendo le proprie tracce mentre procedeva: nemmeno gli esperti informatici della K-C sarebbero riusciti a seguirla e sarebbero sempre stati una mossa dietro di lei. Avrebbe trovato i dati nascosti corrispondenti alle combinazioni segnalate ben più in fretta di quanto si aspettassero e li avrebbe copiati nella propria biblioteca di cristallo più velocemente di quanto avrebbero creduto possibile. Specialmente di quanto avrebbero creduto possibile per una ragazzina Viva.

Dopo che lei vi fosse riuscita, Jackson avrebbe avuto dati sufficienti per una subpoena duces tecum, usando i documenti privati della K-C.

— Va bene, dottor Aranow — disse allegramente Lizzie, e lui avrebbe giurato che appariva così sciocca e mezza tonta da mettere sulla falsa pista qualsiasi osservatore della K-C. Si stava "divertendo", quella streghetta.

Jackson no. Lasciò che Cazie lo accompagnasse al primo dei laboratori della K-C e che lo presentasse al tecnico junior di laboratorio (insulto di status, ovviamente) cui era stato affidato il compito di spiegare la ricerca all’intruso esterno. Jackson si preparò a sentire un fiume di riassunti irrilevanti, a esaminare esperimenti irrilevanti in atto e a chiedersi dietro quali porte sigillate procedesse il vero lavoro, in direzioni che non avrebbero reso il piccolo Dirk meno impaurito di fronte agli alberi che aveva davanti alla porta di casa.

"Penetra in profondità, Lizzie e fallo in fretta."


A mezzanotte, Jackson aveva un forte mal di testa. Per ore si era concentrato sulle ricerche che gli erano state mostrate, cercando di distinguere le fumose linee di quello che invece non gli veniva mostrato. Non aveva mangiato. Non aveva assunto luce solare. Cervello e corpo non ne potevano più.

Per la prima volta si accorse che Vicki non era ancora arrivata.

— Questo particolare sviluppo di proteine sembrava promettente, da principio — disse il ricercatore anziano che Jackson aveva insistito perché sostituisse il giovane tecnico di laboratorio come guida. — Ma come vede dal modello, la ionizzazione gangloidea…

— Dov’è Victoria Turner? La mia assistente doveva essere qui parecchie ore fa.

Il dottor Keith Whitfield Closson, uno dei più eminenti microbiologi degli Stati Uniti, fissò freddamente Jackson. — Non ho la minima idea di dove siano i suoi, dottore.

— No. Mi dispiace. Grazie per il suo tempo, dottore, ma penso che faremmo meglio a riprendere domani mattina. Se volesse indicarmi gentilmente dove si trovano i miei appartamenti…

— Dovrà chiamare il sistema dell’edificio perché le mandi una ologuida — rispose Closson ancor più freddamente. — Buona notte.

L’edificio lo condusse in camera sua, un rettangolo indefinibile studiato per essere confortevole ma non esteticamente gradevole. Letto, armadio, scrivania, sedia, terminale. Jackson usò il terminale della camera per chiamare Lizzie.

Lei era seduta da sola nella stessa stanza di molte ore prima, un gomito sul tavolo disseminato dei resti di un pasto per bocca. Aveva i capelli che le sparavano in tutte le direzioni, evidentemente tirati nel bel mezzo della battaglia, e gli occhi neri le scintillavano. Non sembrava stanca nemmeno lontanamente. All’improvviso Jackson si sentì vecchio.

— Lizzie come stanno procedendo i programmi di segnalazione?

— Bene — sogghignò lei. — Mi sto avvicinando a un segnale molto interessante. Oh, Vicki mi ha detto di dirle che sta passando attraverso la Decontaminazione e sarà lì presto per parlarle.

— Come mai ci ha messo tanto?

— Glielo dirà personalmente. Mi dispiace, Jackson, ma devo tornare al lavoro.

Era la prima volta che Lizzie lo chiamava per nome. Suo malgrado, Jackson sorrise mestamente. Lizzie lo considerava suo pari. Che effetto gli faceva?

Era troppo stanco per provare effetti per qualsiasi cosa.

Quando uscì dalla doccia, con il pigiama verde omaggio Kelvin-Castner, Vicki era seduta sull’unica sedia verde omaggio K-C.

— Salve, Jackson. Mi sono invitata a entrare.

— Lo vedo. — Quella stanza era controllata? Certamente.

Vicki sembrava più stanca di quanto si sentisse Jackson. Invece delle tute da Vivo che le aveva sempre visto addosso, indossava pantaloni e tunica verdi K-C post Decontaminazione. Gli disse: — Sono stata a casa tua, ecco perché non sono venuta prima. Non allarmarti, Theresa sta bene. Ma devo raccontarti molte cose.

— Forse non…

— …da così lontano. Sì, hai ragione, tesoro.

Si alzò dalla sedia e si incamminò verso di lui, senza fermarsi finché non l’ebbe spinto indietro sul letto e non gli si fu sdraiata accanto. Gli appoggiò la bocca direttamente sull’orecchio e sussurrò. — Potesti anche comportarti come se facessimo sul serio, sai. Questione di monitor.

Jackson la abbracciò. Presumibilmente lei era addestrata per quel genere di cosa: lui no. Si sentiva imbarazzato, ridicolo, esausto ed eccitatissimo. Il corpo di lei era leggero e lungo fra le sue braccia, differente dalla piccola voluttuosità di Cazie. Odorava di fluidi di Decontaminazione e di pulitissimi capelli femminili.

Lei gli coprì l’orecchio con le labbra. — Lizzie ha lasciato la tribù due settimane fa perché ha scoperto che lì avveniva un forte monitoraggio. Ha seguito il flusso di dati fino a ricondurlo al Rifugio. Erano loro i responsabili del rilascio del neurofarmaco. No, non reagire, Jackson. Continua a fare il carino.

Il Rifugio. Responsabile della diffusione del neurofarmaco. Perché? Per impedire al potere di spostarsi imprevedibilmente nelle mani degli imprevedibili Vivi?

— Inoltre sta succedendo qualcosa di davvero strano ai Laboratori Nazionali di Brookhaven — sussurrò Vicki. — Blocco di informazioni. Dopo che il Rifugio è saltato in aria e Lizzie si è sentita di nuovo libera di infilarsi nella Rete, è entrata nei data base del governo. Io tiro a indovinare, ma penso che quelli del Rifugio abbiano tentato di diffondere il neurofarmaco nelle enclavi, prima che qualcuno li facesse saltare in aria. I notiziari presumono si sia trattato di Selene ma, se quello che dice Theresa è vero, Selene è deserta e Jennifer Sharifi ha ucciso Miranda prima che il Rifugio venisse colpito. Quindi è stato qualcun altro a distruggere il Rifugio. Non mostrare reazioni, Jackson, agisci in modo naturale.

"Agisci in modo naturale." Che diavolo significava? Jackson non lo sapeva più. "Selene è deserta" e "Jennifer Sharifi ha ucciso Miranda" e "qualcun altro ha distrutto il Rifugio". Gli tremavano le braccia. Per fermarle, strinse più forte Vicki e le premette la bocca contro il collo. — E… e Theresa?

— Cerca di metterti a tuo agio, Jackson. La storia è lunga e complicata. A Theresa è accaduto qualcosa e io non capisco di cosa si tratti di preciso. O come sia accaduto.

Interludio

DATA TRASMISSIONE: 20 maggio 2121

A: Base Selene, Luna

VIA: Stazione Terrestre Enclave Denver, Satellite CEO C-1663 (U.S.)

TIPO MESSAGGIO: Non codificato

CLASSE MESSAGGIO: Classe D, Accesso Servizio Pubblico, in accordo con la Legge Congressuale 4892-18, maggio 2118

GRUPPO DI ORIGINE: il Paese di Crawford-Perez

MESSAGGIO:


Contavamo su di lei, noi, Miranda Sharifi. Lei doveva salvarci, noi. Adesso è troppo tardi. Tre bambini sono già malati, loro. Ed è tutta colpa sua.

Adesso a chi ci dovremmo rivolgere, noi? A chi?

CONFERMA RICEZIONE: Nessuna

23

Theresa si svegliò da un sonno profondo per ritrovarsi nel proprio letto, senza ricordare come c’era arrivata. L’aveva portata a casa Lizzie Francy con un robotaxi? Doveva essere successo proprio così.

E lei, Theresa Aranow, era riuscita a fare uscire Lizzie dalla prigione.

Theresa stava stesa tranquillamente, meravigliandosi. Le faceva male la testa, le prudeva il mento e le bruciava il cranio pelato. Sentiva tutti i muscoli flaccidi. Però era riuscita a costringersi a lasciare l’appartamento, ad andare in una prigione e a liberare una ragazza estranea che aveva visto una sola volta in vita sua. A dispetto del timore, dei dubbi e dell’ansia, che non erano certo diversi da quelli che aveva provato prima. Il suo cervello non era cambiato ma, in qualche modo, se fingeva di essere Cazie "cambiava".

Non fingeva di diventare Cazie. Diventava Cazie. Quanto meno per un po’ e soltanto nella propria mente.

Significava, forse, che se lei riusciva a mutare in qualche modo il proprio cervello, tutti potevano riuscirci? Senza ulteriori siringhe da parte degli Insonni che, oltretutto, non esistevano più?

Il roboinfermiere fluttuò accanto al suo letto. — È ora della riabilitazione fisica, signorina Aranow. Gradirebbe mangiare, prima?

— Sì. No. Lasciami pensare, per cortesia.

Theresa fissò il robot. Per sei settimane aveva sentito Jackson o Vicki dare le istruzioni. Conosceva tutti i termini utili.

— Effettuare una scansione cerebrale, per favore. Stampare il risultato.

Il robot si mise in posizione, estese quattro schermi attorno alla sua testa e ronzò dolcemente. Theresa rimase immobile e pensò a una notte dell’autunno precedente, quando Cazie aveva portato a casa alcuni amici, quegli spaventosi uomini freddi che indossavano stracci e api e inalavano continuamente qualche sostanza. Quando la stampa uscì dal robot, lei si stese sulla coperta a fiori rosa.

— Adesso voglio un’altra scansione cerebrale fra cinque minuti esatti.

— È insolito prendere due scansioni a così breve tempo di distanza l’una dall’altra. I risultati non…

— Fallo comunque. Per favore. Soltanto questa volta, va bene?

Stava pregando un robot. Cazie non avrebbe mai pregato un robot. Theresa chiuse gli occhi e divenne Cazie. Stava entrando nella prigione con passo deciso, insisteva per riportare a casa Lizzie; era all’aeroporto di Manhattan Est, prendeva accordi per noleggiare un aereo, stava affrontando Cazie, Cazie che affrontava Cazie!, le diceva di trattare meglio Jackson, le diceva che brava persona era in effetti Jackson, diceva a Cazie…

Il roboinfermiere ronzò.

Theresa chiuse gli occhi. Quando fu nuovamente soltanto Theresa, esaminò le due stampe, cercando di confrontarle.

Theresa scese dal letto.

Allora era vero.

Il suo cervello funzionava in modo diverso quando lei era Cazie. Quando lei "sceglieva" di farlo lavorare in modo diverso. Poteva scegliere di mutarne la chimica, l’elettricità o tutte le cose che le scansioni misuravano. Era vero.

Il roboinfermiere disse con voce gradevole: — È ora della riabilitazione fisica, signorina Aranow. Gradirebbe mangiare prima?

— No. Disattivare. Per favore.

Theresa scese dal letto. Le gambe le tremavano, ma era in grado di reggersi. Non c’era tempo per la doccia. Non voleva sprecare le forze. Anche se aveva l’aspetto di una pulciosa mendicante…

Si fermò. Una mendicante. Qualcuno che non aveva alcun potere per comandare, nessun potere per nascondersi, nessun potere per commerciare. Nessun potere con cui incutere paura.

Tolse la camicia da notte e si incamminò con passo incerto nella stanza di Jackson. Prese dal suo armadio pantaloni e camicia e utilizzò delle forbici per strapparli e tagliarli. Da un vaso di fiori modificati geneticamente, grossi e appariscenti boccioli color porpora che gli aveva portato Cazie, Theresa prese del terriccio e lo sfregò sugli abiti di Jackson. Il terriccio era modificato geneticamente per una serie di cose, ma comunque sporcò alla perfezione pantaloni e camicia. Quegli abiti erano troppo grandi per Theresa: se li legò al corpo con una corda.

Quando si guardò allo specchio le venne da piangere. La testa calva e ustionata, il volto smunto, gli abiti laceri e sporchi, il corpo tremante e debole… No, non doveva piangere. Doveva esultare. Quello era il suo dono e lei finalmente stava per usarlo.

— Puoi seguirmi, per favore? — disse al roboinfermiere, sentendosi sollevata quando le ubbidì.

Riuscì a salire sul tetto, a montare sull’aeromobile, ad arrivare fino all’accampamento sul fiume Hudson senza dover diventare Cazie. Si stava risparmiando. Quando l’aeromobile atterrò, fuori dalla vista dell’accampamento di Vivi, trasse un profondo respiro e cominciò.

— Signorina Aranow È davvero arrivato il momento della riabilitazione fisica — disse il roboinfermiere sul sedile accanto al suo. — Gradirebbe mangiare prima? — Theresa lo ignorò.

"Lei era una mendicante, una mendicante con un dono. Il dono di avere bisogno di quelle persone impaurite. Il dono di avere bisogno di essere nutrita, di essere accolta, di essere fatta entrare. Aveva fame, era debole e aveva bisogno di loro. Lei portava il dono del bisogno per salvarli."

— Signorina Aranow. è davvero…

"Lei era una mendicante. Una mendicante con un dono. Il dono di avere bisogno di quelle persone impaurite. Il dono di avere bisogno di essere nutrita, di essere accolta…"

— Signorina Aranow!

— Rimani qui per una mezz’ora e poi seguimi.

"Lei non era Theresa, era una mendicante. Una mendicante con un dono. Il dono di avere bisogno…" La camminata fino all’accampamento rischiò di darle il colpo di grazia. L’accampamento sembrava deserto, ma la mendicante sapeva che non era così. Si acquattò all’esterno, bene vista davanti a una finestra, e cominciò a piangere. — Ho tanta fame, ho tanta fame… — Ed era vero. Theresa aveva fame, la mendicante aveva fame, Theresa era la mendicante con il suo dono.

Alla fine la porta si aprì e una vecchia donna sbirciò carica di paura da dietro l’angolo, stringendo forte lo stipite.

— La prego, signora, io non sono Cambiata, non ho mangiato, sono malata, e ho tanta fame, non mi lasci qui…

La paura della donna si sentiva forte nell’aria: la mendicante riusciva ad avvertirne l’odore. Il vecchio volto, tuttavia, si corrugò di compassione. La mendicante vide che la vecchia, nelle sua lunga vita, aveva imparato cosa significasse avere fame, essere malati e soli.

Lentamente, la vecchia scivolò fuori dalla porta e con lei le altre due persone a cui era legata: un’altra donna anziana e una ragazza i cui lineamenti marcati assomigliavano a quelli della seconda donna. Una di loro teneva in mano una ciotola, un’altra una coperta, la terza un bicchiere di plastica. Si fermarono a tre metri dalla mendicante, respirando affannosamente, tese per il terrore.

— Vi prego, vi prego, non riesco più a muovermi…

La paura combatté con i ricordi. Le donne anziane, che ricordavano i giorni di fame e malattia precedenti al Cambiamento, divennero per un breve momento le persone che erano state a quel tempo. E si avvicinarono a Theresa, l’estranea nel bisogno.

— Ehi, com’è possibile che non sei Cambiata, tu? Mangia questo, forza… Guarda le sue braccia, Paula, sembrano bastoni, loro…

Ciotola di plastica e cucchiaio. Una sbobba di cibo colloso che assomigliava ai fiocchi di avena ma aveva il sapore delle noci, soltanto un po’ più amaro, non del tutto mascherate da uno sciroppo d’acero troppo dolce. La mendicante ingollò tutto.

— Ma sta morendo di fame, lei… Paula, non riesce quasi a muoversi, non possiamo lasciarla qui, noi…

Da dietro l’angolo del pesante portone, scivolarono fuori Josh, Mike e Patty, tenendosi stretti per mano. Jomp. Flebilmente, la mendicante sollevò la testa pelata e ustionata. Non la riconobbero. — Non è "Cambiata" lei? Gesù Cristo…

— Comincia a piovere, non può restare qui fuori così, lei…

Mike la tirò su. La mendicante si contrasse quando la pelle tenera venne sollevata dalle braccia di lui. La portò all’interno, mentre gli altri li seguivano accodati.

Una stanza scura ed estranea, volti poco familiari la osservavano impauriti. Sentì serrarsi la gola e aumentare il battito cardiaco. Ma lei non era Theresa. Lei era la mendicante. La mendicante con un dono. Loro avevano bisogno che lei avesse bisogno di loro.

Il neonato nonCambiato, quello che aveva già visto in precedenza, in un’altra vita, la guardò da dietro le gambe di sua madre. Allora era ancora vivo. Ed era cresciuto: la mendicante vedeva che era diventato un bambinetto. Gli colava muco dal naso. Il braccino sinistro deformato, più corto del destro, gli penzolava dalla spalla.

— Grazie — disse al circolo di volti. Alcuni si ritrassero, ma il resto annuì e sorrise. — Adesso mi permetterete di darvi qualcosa, visto che mi avete aiutato?

Allarme immediato. Qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo. La mendicante si chiese, nel profondo, nella parte di cervello dove era qualcun altro, come dovevano essere mutate tutte le scansioni cerebrali di quella gente a causa delle sue parole.

— Potete farlo, accettare questo — disse. — È soltanto un robot. Avete visto tutti dei robot, un sacco di volte.

La porta dell’edificio era stata lasciata aperta. Il roboinfermiere, secondo le istruzioni ricevute, aveva seguito la mendicante. Il bambino nonCambiato, che non aveva visto i robot, cominciò a piangere.

— È un’unità medica — disse con voce disperata la mendicante. Forse doveva provare a parlare come loro. — Un’unità medica, quella. Come le avevamo prima, noi. Non può Cambiare quel bambino, ma gli può dare una medicina per il naso. Gli può rimettere a posto il braccio, lui. — E ancora una volta. — Questo potete farlo.

— Fare che cosa, noi? — chiese Josh. Era sempre il più intelligente e il meno impaurito. La mendicante parlò con lui.

— Fare qualcosa di nuovo, Josh. Tu puoi farlo, tu, se è una buona cosa e se vuoi farla davvero. Io posso insegnarti come, io.

Stava procedendo troppo in fretta. Josh impallidì e indietreggiò di un passo. Tuttavia lei scorse anche il barlume di interesse nei suoi occhi, prima che si perdesse nella paura. Poteva farcela. Poteva imparare a creare una diversa chimica cerebrale fingendo di essere una persona diversa. Forse non ci sarebbero riusciti tutti, ma alcuni sì. Come Josh. E forse sarebbe stato abbastanza.

Un uomo stava indietreggiando davanti al roboinfermiere, trascinandosi dietro i suoi due compagni. — No, no, stiamo bene così noi. Portatelo via, tu!

La madre del bambino deformato, però, non si mosse. Theresa allungò una mano e, con un angolo della camicia lacera e sporca, asciugò il naso del piccolo. La madre glielo permise, ma serrò la mano sulla spalla buona del figlio. Consentì comunque di toccare il proprio bambino alla mendicante, che finì con l’avere la mano sporca di muco. Lei aveva un motivo per combattere la paura.

"Prendi un neurofarmaco, Tessie. È un problema medico."

Con quel pensiero, Theresa tornò Theresa. Theresa debole, Theresa spaventata, Theresa in un luogo estraneo in mezzo a estranei. Sentì il respiro accelerare. Però era stata la mendicante, era arrivata fino a lì, aveva fatto qualcosa di buono… e la volta dopo sarebbe riuscita a esserlo un po’ più a lungo. Avrebbe insegnato ad altri come fare, ma non in quel momento, era troppo debole, aveva tanta paura, ma loro capivano la paura e si sarebbero curati di lei.

Ebbe il tempo per un altro pensiero prima che l’oscurità si impadronisse di lei. Un pensiero di Theresa, non della mendicante: "Solo in parte un problema medico, Jackson. Solo in parte".


Quando tornò in sé, Theresa giaceva al buio su uno strano letto. No, non era un letto: una pila di coperte sul pavimento, distese su fronde di pino. Riusciva a sentirne l’odore mentre frusciavano sotto il corpo. Attorno, si profilavano pareti irregolari.

L’accampamento dei Vivi. Era stesa su uno dei loro letti. Chiuse gli occhi e diventò Cazie. Solo Cazie sarebbe uscita di lì senza farsi prendere dal panico. Lei "era" Cazie, era decisa, minuta e priva di paura, era Cazie: l’ormai familiare click le scattò nel cervello.

Si alzò nel buio e avanzò a tentoni lungo la parete più vicina. Terminava con una coperta pesante appesa come tenda. Dopo che l’ebbe scansata, vide una luce più forte provenire da un cono a energia-Y al centro del pavimento di quella sorta di caverna. La stanza puzzava di gente sporca che dormiva. Cazie l’attraversò con il corpo malridotto. A metà strada, il roboinfermiere fluttuò verso di lei. — Signorina Aranow, ha saltato due sedute di riabilitazione…

— Zitto! — sussurrò Cazie. — Non parlare! Tu resta qui.

Il robot sussurrò: — Non sono programmato per ricevere ordini di riassegnazione, signorina Aranow. Devo rimanere con lei.

Quella stupida cosa era legata a lei. Come Jomp. Theresa/Cazie assunse un’espressione truce. — Allora seguimi fra mezz’ora. Come prima.

Vacillò fino alla porta e l’aprì senza rumore. La luna era piena, alta nel cielo. "Cazie" si incamminò lungo il sentiero che costeggiava il fiume fino ad arrivare all’aeromobile. Le occorse tutta la forza di Theresa, quella in prestito, quella creata, quella naturale e una ancora che poteva essere solo un dono, per farcela.

— Oh, Dio — disse una voce. — Oh, Theresa!

Vicki Turner. La sua voce. Ma che ci faceva sul tetto del suo condominio nella notte fredda? Theresa, che era profondamente addormentata prima che l’aeromobile atterrasse, strizzò gli occhi e si ritirò contro il sedile.

— Ma guardati, Theresa. Dove sei andata? Quegli stracci… non hai un cappello? Vieni, lascia che ti aiuti…

— Ero Cazie — disse Theresa. — E la mendicante.

— Cosa? Vieni dentro, tremi. Aspettavo qui che tornassi a casa perché non sapevo proprio dove cercarti, e non osavo dire a Jackson che eri sparita. Tessie, lascia che ti aiuti, qui c’è l’ascensore…

Si era addormentata di nuovo. Stava sognando, doveva essere così, strane forme con denti enormi che le davano la caccia attraverso un giardino modificato geneticamente dove tutti gli alberi la odiavano: percepiva il loro odio rovesciarlesi addosso a ondate e non capiva che cosa avesse fatto perché loro la volessero distruggere…

— Theresa, svegliati, è soltanto un sogno. Hai gridato. Hai dormito per ore…

Sentiva il corpo bruciare. Le strane forme le avevano dato fuoco. Le faceva male la testa. — Io non… non mi sento bene.

Vicki accanto al letto con una mano sulla spalla di Theresa, rimase in silenzio. Theresa voltò la testa e vomitò sul cuscino.

Vicki aspettò che avesse finito. — Vieni, Tessie, scendi giù dall’altra parte. Non cadrai, ti tengo io, andiamo in bagno. Lì. Theresa, ascolta, è molto importante. Dov’è il roboinfermiere?

— Io… io l’ho lasciato. — Permise che Vicki le pulisse la faccia con un panno fresco. Com’era fresco. Lei stava bruciando, le forme con i denti affilati le avevano incendiato braccia e gambe e ormai le fiamme vi danzavano sopra, secche e ustionanti.

— Lasciato dove? Dove, Tess?

— A… all’accampamento.

— Un accampamento? Un accampamento di Vivi? Hai dato il roboinfermiere a un accampamento di Vivi?

— Io ero… la mendicante. — Sentì rivoltarsi lo stomaco e vomitò di nuovo.

— Theresa, all’accampamento, c’era forse qualche Vivo nonCambiato? Hai toccato qualcuno che era malato?

— Il bambino. Il suo naso…

— Cosa aveva il suo naso? Quanto era malato?

Lei non riuscì a rispondere. Il bagno turbinava e sobbalzava e lei vomitò ancora, bile nera a gocce filamentose.

Si trovò di nuovo a letto, ma il letto era pulito. Vicki le teneva un catino sotto la bocca tutte le volte che le venivano i conati di vomito. La testa le pulsava dall’interno con tale forza che lei riusciva a vedere solo dei lampi e quelli le infilzavano lance infuocate negli occhi. Vide che la stanza era un macello: buchi nelle pareti, mobili rovesciati… Era stata Vicki? Perché lo aveva fatto?

— Dov’è, Tess? Rifletti, tesoro. È importante. Dove si trova?

— Cosa? — chiese Theresa. Il volto di Vicki aveva un’espressione incalzante e intensa. Come il volto di Cazie. Nessuno poteva opporsi a Cazie. Nemmeno Jackson. Ma Theresa era troppo debole, troppo infuocata, troppo dolorante per diventare Cazie…

— Dov’è la cassetta di sicurezza, Tess? La cassetta privata di tuo padre. So che ne aveva una perché l’ho sentito dire a Jackson. Forza, Tessie, rimani in te. Dov’è la cassetta di sicurezza?

Sicurezza. Lei aveva sempre voluto essere sicura. Per tutta la vita aveva voluto essere sicura e non lo era mai stata. "Prendi un neurofarmaco, Tess." Ma quello non l’avrebbe resa sicura, lo sapeva, aveva bisogno di qualcosa di più, qualcosa di più importante…

— Dov’è la cassetta privata di tuo padre?

— Penso… nella camera da letto? La parete dietro il bagno… — Vicki corse via. Solo a quel punto Tess si rese conto che la stanza ridotta a pezzi non era la sua ma quella di suo fratello, era nel letto di Jackson e non nel suo. La camera di Jackson, che un tempo era stata quella dei suoi genitori.

Dal bagno arrivò un rumore fragoroso. Jones disse immediatamente: — Signorina Aranow. c’è un problema idraulico nel bagno padronale. Vuole che mandi a chiamare un robot di manutenzione?

— Sì… No…

Altri botti. Qualcosa di pesante che colpiva qualcos’altro, duramente. Theresa si rannicchiò nel letto di Jackson. Arrivò Vicki, tutta bagnata.

— Benissimo, è una serratura antica, meccanica. Completamente invisibile a ogni strumento elettronico. Si apre a combinazione. Qual è il codice, Theresa? Tre numeri, Theresa! Resta sveglia!

— Non so… chiama Jackson…

— Non posso raggiungerlo. La Kelvin-Castner lo ha isolato elettronicamente e forse lui non lo sa. Non posso contattare Lizzie e non so abbastanza di sistemi… aspetta un momento. "Sistemi."

— Sto… sto morendo?

— No, se riuscirò a evitarlo — disse Vicki con espressione grave. — E non se tuo fratello è sentimentale e ingenuo come penso. Jones, informazioni sul calendario!

Theresa si contrasse. Vicki parlava esattamente come Cazie. Ma com’era possibile? "Theresa" era Cazie…

Jones disse: — Che date vuole sapere, signorina Turner?

Vicki corse in bagno strillando a Jones: — Il compleanno di Jackson. Il compleanno di Theresa…

Theresa stava morendo. Ma non poteva morire, doveva cantare i vespri con Sorella Anne. Vespri, canti mattutini e… cosa c’era poi? Qualcos’altro. Il bambino Vivo nonCambiato col naso gocciolante avrebbe cantato con lei. Lei glielo aveva promesso…

— La data della laurea di Jackson in medicina — strillò Vicki.

Se Theresa fosse morta, sarebbe morto anche il bambino col naso gocciolante. "Non puoi, Jackson", disse lei arrabbiata al fantasma che le stava accanto al letto. "Non puoi fermarmi. Io posso mostrare loro come fare. Non capisci che è un dono? È sempre stato il mio unico dono. Il bisogno. Tu avevi bisogno di me, di occuparti di me."

Vicki le stava accanto, con qualcosa in mano. Aveva smesso di strillare. In effetti, Theresa era in grado a mala pena di sentirla. La voce di Vicki le giungeva da un luogo lontanissimo e sembrava ancora quella di Cazie. — Il codice era la sua data di matrimonio, maledetta la sua futile insistenza. La data di nozze con quel narcisistico succubo. Theresa, ascolta…

Vicki aveva in mano una siringa del Cambiamento.

— Ascolta, Tess. Jackson mi aveva detto di averla messo via in una cassetta di sicurezza per te. Per il giorno in cui avessi deciso di mutare la tua decisione sul Cambiamento. Hai preso una malattia dal bambino nonCambiato all’accampamento dei Vivi: doveva trattarsi di un virus a mutazione rapida. C’è ogni genere di microbo che proviene dai boschi adesso che la popolazione ospite è priva di vaccini. Tess, ti ho somministrato antivirali presi dalla scorta di Jackson ma sembra che non funzionino. Io non capisco molto di medicina, il roboinfermiere non c’è e io non posso contattare Jackson. Quindi devi farti iniettare la siringa del Cambiamento…

Theresa scosse la testa. Le lacrime le bruciavano gli occhi.

— Tessie, avresti dovuto farti iniettare comunque, prima o poi, per le radiazioni prese in Nuovo Messico. Le probabilità di cancro… io ti faccio l’iniezione, Theresa. Devo.

— D-d-d… — Non riusciva a pronunciare la parola. Dono. Il suo dono. Sarebbe andato perduto se fosse stata Cambiata, bisognava combattere per conquistare la propria anima avevano detto così tutti i grandi personaggi storici che Thomas aveva citato…

— Mi dispiace, Tess. — Vicki afferrò il braccio di Theresa e sollevò la siringa.

— "Mendicante" — mormorò Theresa. — Dono… — chiuse gli occhi e la febbre le danzò nel corpo, bruciandole l’anima. Tutto sparito.

Non sentì nulla. Quando riaprì gli occhi, Vicki teneva ancora in mano la siringa sopra il braccio di Theresa.

— Tessie — sussurrò Vicki. — Preferisci davvero morire? Non posso lasciartelo fare. Sì, posso. Ma non dovrei, dovrebbe essere una tua scelta. Stramaledetto Jackson! Dovrebbe essere un problema tuo!

Tess disse: — "Mio"… problema.

Vicki la fissò. — Sì. Un problema tuo. Tua la scelta, tua la vita. Dio, Tess, come faccio a non… va bene. È tua la scelta. Devo iniettarti? Se non lo farò, potresti morire, ma io non "so" se morirai davvero. Se ti inietto, la chimica del tuo cervello potrebbe alterarsi, oppure no, in qualche modo. Quanto meno un po’.

Quel tanto per restare comunque Theresa.

Anche se il suo corpo veniva Cambiato. Lei era più del suo solo corpo. Ma non lo aveva sempre saputo? Non era quello il motivo per cui aveva discusso così animatamente con Jackson?

— Tess? Stai sorridendo come… Dio, tesoro, ti brucia la fronte… non so cosa fare!

— Iniettami — disse Theresa e, nel momento in cui l’ago le penetrava nella pelle e attraverso l’incandescente turbine della febbre, pensò che Vicki era diversa da Cazie, dopo tutto: Cazie non avrebbe mai detto che non sapeva cosa fare.

La sottile siringa nera si svuotò nel braccio devastato.

24

Quando finalmente Vicki ebbe terminato di parlare, Jackson restò a lungo in silenzio. Il corpo di lei sul letto per gli ospiti della Kelvin-Castner non lo distraeva più, e certo non aveva più alcun sonno.

Le credeva. Anche se alcuni degli eventi che gli aveva sussurrato all’orecchio parevano incredibili. Theresa, la sua Theresa, che aveva tirato fuori di prigione Lizzie Francy? Che era andata da sola in un accampamento di Vivi per lasciare loro un roboinfermiere? "Che sceglieva di essere Cambiata?"

Tuttavia credeva a Vicki. In fondo, però, aveva creduto sempre anche a Cazie, fino a quando era arrivato alla Kelvin-Castner…

— Devo mostrarti qualcosa — disse Vicki e quella volta fu la sua voce a essere impastata dal sonno. — Una specie di prova. Ma può aspettare domattina. Io sono stanca morta. Stremata da Lizzie e Theresa, i figli della prossima era…

— I cosa? — chiese Jackson con un tono più brusco di quanto non intendesse, perché si sentiva disorientato. Theresa che sceglieva di essere Cambiata. Theresa, Cambiata. Avrebbe avuto ancora bisogno di lui?

— I figli della prossima era — ripeté Vicki, quasi biascicando. — Autonominatisi… — si addormentò.

Jackson si scostò dal corpo abbandonato di lei e scese dal letto. Dormire era impossibile. Nella stanza, al massimo tre metri per tre, non c’era spazio per camminare. Se avesse usato il terminale avrebbe potuto svegliare Vicki. Non voleva che Vicki fosse sveglia. Non avrebbe fatto altro che colpirlo con ulteriori ganci destri emotivi, era proprio quello che "aveva fatto" e lui, per la giornata, era stato colpito anche troppe volte.

Quanti pugni che scuotevano il cervello potevano definirsi troppi? E perché diavolo l’unico a riceverli era proprio lui?

Senza fare rumore, Jackson aprì la porta della camera da letto, se la chiuse alle spalle e cominciò a camminare a piedi nudi, col pigiama preso in prestito, lungo il corridoio poco familiare e dall’aspetto austero. In fondo, trovò un piccolo atrio deserto. Era ovvio che fosse deserto, era notte fonda. L’atrio comprendeva un divano, sedie, una tavola e un roboservitore, tutto austero come il corridoio, oltre a un terminale a schermo piatto.

— Accendere sistema — disse Jackson.

— Sì, posso esserle d’aiuto? — Un programma anonimo, per tecnici in attesa o ospiti annoiati e affetti da insonnia. Indubbiamente con accesso limitato. Era sufficiente.

— Notiziari, per favore. Canale 35.

— Certamente. E se ci fosse qualsiasi cosa che la Kelvin-Castner possa fare per lei, non esiti a chiederlo.

— …nel Kansas orientale. Il tornado ha sfiorato l’Enclave di Wichita che ha attivato immediatamente gli scudi ad alta sicurezza. A Washington, il Congresso continua a discutere sul controverso pacchetto del regolamento aeroportuale: il voto al Senato è previsto per domani mattina. A Parigi, l’Enclave della Sorbonne ha assistito alla prima esecuzione del nuovo concerto di Claude Guillaume Arnault, Le Moindre. Il venerabile, irascibile, festeggiatissimo compositore non…

— Comunicazioni interne — disse Jackson. Il notiziario non aveva detto nulla di nuovo sulla distruzione del Rifugio. E il neurofarmaco inibitore non faceva ancora parte delle notizie principali, era soltanto un fenomeno isolato, una curiosità locale che riguardava gli arretrati Vivi.

Folli. Le enclavi erano tutte folli.

— Sì. posso aiutarla? — disse il programma. — Con quale dipartimento interno vuole essere collegato?

— Non con un dipartimento ma con un individuo. Lizzie Francy. È un’utente ospite che si trova da qualche parte in questo edificio. Nella zona non bioschermata.

— Certamente. E se ci fosse qualsiasi cosa che la Kelvin-Castner possa fare per lei, non esiti a chiederlo.

Il volto di Lizzie apparve sullo schermo. I suoi capelli crespi sparavano in venti direzioni diverse, irsuti vettori. Gli occhi neri le scintillavano dall’eccitazione, a dispetto delle borse scure che aveva sotto. — Ho appena cercato di collegarmi con la sua stanza.

— Non sono lì — spiegò scioccamente Jackson. — C’è soltanto Vicki. Veniva da casa mia e di Theresa…

— So tutto — disse Lizzie in fretta. Sollevò le mani sui capelli e tirò, creando ulteriori vettori. — L’ho svegliata. Jackson, io ho bisogno, io, di venire da lei. Di vederla di persona, io. Adesso.

— Lizzie, qui dentro siamo bioschermati. Se vieni dentro non potrai uscire per…

— Lo so, lo so! Ma devo entrare, io. Subito.

Jackson la osservò più attentamente. Non era eccitazione quella che brillava negli occhi di Lizzie. Era paura. E il suo modo di parlare era tornato quello dei Vivi.

— Lizzie, cosa…

— Ancora niente. Non riesco a infiltrarmi in questo sistema, io. È troppo difficile. Ma non mi piace stare qui, a me, da sola. Voglio Vicki. Voglio entrare dentro, io!

Lizzie, si accorse Jackson, si sforzava di apparire patetica. Una ragazzina sola in piena notte in un ambiente estraneo, che voleva il suo surrogato di madre. Soltanto che quella era la Lizzie Francy che era arrivata a piedi fino a New York da sola, si era infiltrata in un’enclave apparentemente impenetrabile e aveva trafugato dati da più imprese di Muli di quante Jackson potesse nominarne. Quell’atteggiamento patetico era fasullo.

La paura sottostante non lo era.

— Dirk… — iniziò.

— So che se vengo dentro, io, starò in quarantena per qualche settimana. Ma io voglio Vicki, io! E non riesco a infilarmi in questo fottuto sistema! — Le si riempirono gli occhi neri di lacrime.

Sconcertato, Jackson acconsentì: — Benissimo, dirò a un ologramma di portarti in Decontaminazione. Thurmond Rogers mi ha fornito il codice. L’intero procedimento dura circa un’ora. Ma non puoi portarti dietro il terminale, Lizzie.

— C’è il mio diario! E le fotografie di Dirk! — A quel punto cominciò a piangere.

— Lizzie, tesoro…

— Voglio Vicki!

All’improvviso, lo desiderò anche Jackson. Vicki sapeva come trattare un inaspettato attacco isterico. Lizzie, fra tutte le persone che conosceva, che piagnucolava e piantava un gran casino per avere sua madre… Ma Vicki non era nemmeno sua madre. E Jackson non credeva affatto che non fosse riuscita a penetrare nel sistema della Kelvin-Castner.

— Vieni dentro, Lizzie — disse Vicki al suo fianco. — Lascia il terminale. Le informazioni per cui ti preoccupi non vanno di backup nel sistema di Jackson?

— No! Se ci provo, potrebbero essere intercettate!

— Allora prendi il tuo sistema personale. Sei scollegata già dalla K-C, vero? Certamente. E portalo fuori dall’edificio. Attraverso la porta alle tue spalle, volta a sinistra in fondo al corridoio e continua fino all’uscita antincendio. Proprio lì fuori ci sono sette persone in un pulmino. Consegna loro il tuo sistema e loro lo proteggeranno finché tu sarai qui dentro con me.

Jackson strizzò gli occhi. Un "pulmino"?

Immediatamente lo schermo si divise in due e Thurmond Rogers disse da una delle metà: — Nessuno dei dati di nostra proprietà può essere rimosso fisicamente dalla Kelvin-Castner. La signorina Francy ha analizzato i nostri sistemi e…

Vicki lo interruppe: — Due delle sei persone nel pulmino sono agenti di sicurezza. Hanno a disposizione un equipaggiamento per sigillare il sistema di Lizzie in modo che non possa essere aperto se non con una scansione di retina sua, di Jackson o dei due rappresentanti della Kelvin-Castner presenti al momento della chiusura. Un rappresentante potresti essere tu, Thurmond.

— Anche così, non potete…

— Una delle persone nel pulmino è un avvocato. Ha un’ingiunzione del tribunale che lo abilita a rimuovere in modo sicuro qualsiasi documento della Kelvin-Castner che abbia pertinenza con il contratto legale del dottor Aranow con la Kelvin-Castner.

— È contrattuale soltanto se…

— Un’altra persona nel pulmino è un microbiologo. È pronto a esaminare i dati di Lizzie prima che vengano sigillati e a dichiarare come esperto legalmente riconosciuto, se essi sono veramente rilevanti rispetto al contratto del dottor Aranow. A meno che, ovviamente, tu non sia contrario al fatto che lei esamini i dati.

Thurmond Rogers fissò Vicki con uno sguardo d’odio.

— Vai pure, Lizzie — disse Vicki. — È una camminata breve e nessuno ti fermerà. C’è una spia all’interno del colletto della tua tuta e la gente nel pulmino potrà tenerti sott’occhio quando non sarai più inquadrata dai monitor della K-C. Il dottor Rogers dirà all’edificio di aprirti la porta e di lasciarti rientrare. Con un testimone del pulmino che ti accompagni. Vai adesso, tesoro.

Lizzie, con gli occhi ancora lucidi, prese il terminale e il suo orribile zaino color porpora. Si strinse forte al petto il terminale e uscì dal raggio della videocamera di comunicazione. Vicki trasse un profondo respiro e lo trattenne finché il volto maschile di un estraneo non apparve sullo schermo. In piena notte, l’estraneo si presentava perfettamente a posto, pettinato e calmo. — Elizabeth Francy è con noi all’esterno, signorina Covington. Con il sistema. La chiusura del sistema inizierà non appena sarà arrivata la squadra della Kelvin-Castner, a meno che la Kelvin-Castner non preferisca che la dottoressa Seddley esamini i dati.

— Rogers? — chiese Vicki.

L’odio di Thurmond Rogers non si era sedato, ma ormai lui lo aveva sotto controllo. — Nessun esame in questo momento. Io andrò immediatamente alla porta di emergenza est accompagnato da un addetto alla sicurezza della Kelvin-Castner.

— Certamente — disse il volto maschile ben curato, e Jackson pensò scioccamente all’anonimo sistema per gli ospiti che gli aveva acceso il notiziario. — La signorina Francy, accompagnata dall’agente Addison, sta tornando nell’edificio. — Tutt’e due le metà dello schermo si spensero.

Jackson guardò Vicki. Era a piedi nudi e aveva i capelli scompigliati dal sonno. Aveva qualche ciocca appiccicata alla guancia sinistra. Sembrava giovane e indifesa. — Chi è l’agente Addison? — chiese lui. — E le altre tre persone nel pulmino?

— Guardie del corpo.

— Come facevi a sapere…

— È il mio mestiere — disse Vicki. — O almeno lo era. Anche se, ovviamente, non sono stata io a pagare per questo. Lo hai fatto tu.

— Come…

— Lizzie ha trafugato i tuoi numeri di conto corrente molto tempo fa. Ma è una piccola creatura etica, a modo suo. Potrei giurare che non li ha mai usati. — Sorrise. — Non si può dire lo stesso di me.

Jackson mise una mano sul braccio di Vicki. Non lo strinse forte ma non lo accarezzò nemmeno. — Che cosa ha trovato Lizzie?

— Non lo saprò finché non ce lo avrà detto. O finché il suo terminale resterà sigillato. Ma mi interessa di più sapere perché è voluta entrare nell’area bioschermata per parlarci di persona.

— L’agente, la guardia del corpo, qualsiasi cosa sia, resterà con lei per tutta la Decontaminazione?

— Come atomi fusi insieme. — Vicki parlò all’aria. — E l’agente è dotato di trasmettitori continui sottocutanei. Oltre che di altri potenziamenti.

— Così aspetteremo — disse Jackson. — Finché Lizzie non sarà fuori dalla Decontaminazione.

— Aspetteremo — confermò Vicki. — Sistema, chiedi al robot servitore di portare del caffè.

— Certamente. E se ci fosse qualsiasi cosa che la Kelvin-Castner possa fare per lei, non esiti a chiederlo.

Vicki si limitò sorridere.


A Lizzie e all’agente Addison occorse un’ora per uscire dalla Decontaminazione. Jackson bevve due tazze di caffè e guardò Vicki prepararsi a lanciare un’altra granata. Ormai conosceva i segnali. La donna bevve lentamente il proprio caffè, deliberatamente, guardando il notiziario. Alla fine lui le chiese: — Che cosa stai aspettando di sentire, di preciso?

— Qualsiasi cosa riguardante Brookhaven. — Vicki parlò con naturalezza, il che significava che non le interessava se la conversazione veniva origliata. Si spostò leggermente sul divano della sala di attesa, accovacciando le gambe sotto il corpo.

— I Laboratori Nazionali di Brookhaven? Che cosa è successo?

— Non so. Il programma di monitoraggio di Lizzie, tuttavia, ha colto un’anomalia. Quel programma esamina trasmissioni provenienti da determinate agenzie governative in modo da evidenziare differenze per volume, frequenza, priorità e codifica. Tutte le informazioni inviate da Brookhaven mostravano un’anomalia. — Vicki tirò giù le gambe e le accavallò.

— Un’anomalia? Qualche cambiamento significativo? — chiese Jackson.

— Una significativa mancanza di cambiamento. Stesso volume, frequenza, priorità e codifica, ogni giorno.

— Vuoi dire…

— Il neurofarmaco inibitore è penetrato attraverso lo scudo dell’enclave. E non si tratta di un’enclave qualsiasi, quello è un laboratorio governativo, ritenuto biologicamente sicuro. — Vicki spostò nuovamente il peso sul divano. — Ovviamente, la Kelvin-Castner ne è già al corrente, ne sono sicura. Maledizione, non riesco a mettermi comoda.

Si alzò dal divano, si stiracchiò, sbadigliò e sorrise a Jackson. Per una volta tanto, lui comprese che cosa lei lo stava invitando a fare. Le disse: — Vieni, accomodati qui con me.

La donna attraversò la stanza fino alla poltrona di lui e gli si sedette sulle ginocchia. Lo schermo continuava a recitare notizie a un volume che, si accorse improvvisamente Jackson, era lievemente più alto del normale. Le labbra di Vicki gli stuzzicarono l’orecchio. Lei gli disse dolcemente: — Voglio mostrarti qualcosa — e si sbottonò la camicetta.

Jackson sentì un subbuglio di ormoni in petto. Vide, quindi, i disegni sul petto di lei.

Vicki mormorò: — Qui probabilmente ci sono meno monitor che nella tua camera da’ letto. Comunque, spostati più a sinistra. Di più. Ecco.

I loro corpi formarono uno stretto triangolo con lo schienale imbottito della poltrona. Vicki piegò la testa e i suoi capelli schermarono lo spazio racchiuso fra di loro, impedendone la vista dal soffitto. Slacciò altri bottoni.

Aveva seni lisci e pallidi. Più piccoli di quelli di Cazie, ma più sodi, dolcemente rialzati. Sulla curvatura superiore c’era uno schizzo tracciato con inchiostro non lavabile, del genere usato per contrassegnare e datare documenti di laboratorio che non venivano inseriti in linea. C’erano penne del genere in tutta la Kelvin-Castner. Vicki si era disegnata addosso dopo essere passata dalla Decontaminazione. Jackson sbirciò i disegni: c’era luce a mala pena sufficiente a distinguere le linee tracciate con l’inchiostro. Il profumo di Vicki, la fragranza della sua pelle e del suo respiro, gli annebbiavano il cervello.

Finché non si rese conto di cosa stava guardando.

Due schizzi grezzi di scansioni cerebrali. Quella sopra il seno sinistro era di Theresa. Jackson la riconobbe perfino tracciata al contrario e a grandi linee. Aveva guardato quotidianamente quei particolari grafici durante la malattia di sua sorella e molto di frequente negli anni precedenti. Erano grafici che rappresentavano una sovreccitazione cerebrale cronica, in particolare nelle zone più primitive del cervello che controllavano le emozioni. La zona limbica, l’ipotalamo, le amigdale, la formazione reticolare della zona pontina, il midollo ventrale rostrale: tutte sovreccitate.

Il sistema di attivazione reticolare ascendente, SARA, che reagiva per l’input neurale proveniente da molte altre parti del cervello, mostrava un’attività di onde particolarmente frenetica: bassa ampiezza, alta frequenza, intensa asincronia. I segnali di allarme viaggiavano costantemente verso la corteccia di Theresa che, di conseguenza, riteneva costantemente il mondo un luogo allarmante. Quelle informazioni, a loro volta, ritornavano indietro al SARA che reagiva con un’attività elettrochimica ancor più frenetica. I segnali elettrochimici di pericolo allertavano pensieri di pericolo che a loro volta allertavano ulteriori reazioni elettrochimiche di stress. Si trattava del circolo vizioso che Theresa non aveva mai permesso a Jackson di interrompere con neurofarmaci.

La seconda serie di tratti grezzi era completamente diversa. In effetti era diversa da qualsiasi scansione cerebrale Jackson avesse mai visto. Il SARA e i grafici primitivi mostravano soltanto un’eccitazione normale, del genere associato con un’azione regolare, intenzionale e realistica. Ma l’input che proveniva "dalla" corteccia al SARA era di tipo intenso. Parti del cervello, poi, indicavano una vera e propria tempesta elettrica. Quelle erano le sezioni del cervello associate con un’intensa attività non-somatica: attacchi di epilessia, visioni religiose, allucinazioni immaginative, determinati tipi di creatività. Grafici simili venivano riscontrati spesso in visionari chiusi in manicomio: gente che credeva di essere Napoleone, Gesù Cristo o il Generale Manheim. Combinare quello schema con il controllo e la chiarezza di onde alfa di grande ampiezza e bassa frequenza, di solito prodotto di intensa concentrazione o biofeedback…

— Di chi è la seconda scansione?

— Di Theresa.

— Impossibile!

— No. Sono tutt’e due di Theresa. Una, presa prima che si mettesse nello stato mentale per compiere qualcosa di difficile per lei, e una dopo. Non so esattamente come ci riesca.

— Vorrei tanto vedere i dati relativi al segmento vertebrale!

— Sul mio seno c’è spazio limitato a differenza di quello di altre persone — commentò acida Vicki. — Ho memorizzato solo le parti delle due stampe che mi sembravano più diverse l’una dall’altra.

— Ma come ha potuto Tess…

— Abbassa la voce, Jackson. E fingi di sbaciucchiarmi sul serio, siamo ancora sul monitor. Ti ho detto che non so come faccia Theresa, ma so quello che mi ha detto che pensa di fare. Theresa trasforma la propria scansione cerebrale fingendo di essere Cazie.

Jackson restò in silenzio. Theresa che fingeva di essere Cazie. Capace di indurre, almeno temporaneamente, il genere di schema di attività cerebrale di un altro temperamento, completamente diverso dal suo, oltre all’attività di intensa creatività immaginativa che era al limite dell’allucinatorio. Doveva cominciare col controllare i pensieri nella corteccia, che cambiavano le informazioni di ritorno nel suo sistema nervoso autonomo… Tutte le esperienze emotive, dopo tutto, erano essenzialmente storie che il cervello creava per dare un senso alle reazioni fisiche del corpo. Tess aveva trovato un modo per invertire il procedimento. Lei raccontava a se stessa una specie di storia, la raccontava al suo cervello conscio che andava ad alterare le sue reazioni fisiche più primitive. Fino ad arrivare al livello neurochimico. Controllava il suo mondo fisico tramite mera immaginazione e forza di volontà.

Jackson non aveva mai conosciuto realmente sua sorella.

Disse con una certa esitazione: — Dovrò replicare questo…

— Certamente. Ma non ora. — Vicki riabbottonò la camicetta, ma non si spostò da lui. Accoccolata sulle sue ginocchia, con il respiro caldo contro il suo collo, gli disse con voce del tutto differente: — Sai che ho un po’ paura di te?

— Come no.

— Non mi credi. Pensi di essere l’unico ad avere paura dei sentimenti. Be’, fottiti.

Si alzò di scatto. Da quello che aveva detto, Jackson si aspettava di vederla arrabbiata, invece il suo volto mostrava dolore e insicurezza. In quel preciso istante, Jackson si rese conto che quella donna avrebbe potuto sostituire Cazie nella sua vita.

Il pensiero lo riempì subito di terrore. Un’"altra" donna bisbetica, prepotente? Che lo beffeggiava di continuo, lottando per controllarlo, sapendo quello che lui avrebbe detto prima ancora che lo dicesse. Il profumo di Vicki, più forte da che non gli stava più così vicino, gli riempì il naso e la gola. Aveva lasciato slacciati gli ultimi tre bottoni della camicetta. Deliberatamente? Ovvio. Si sentì carico di risentimento per quel tentativo di manipolazione.

La vulnerabilità di Vicki durò soltanto un momento. Quindi riprese a essere Victoria Turner, controllata e competente.

Victoria Turner. Non Cazie. Quella confusione era sua, non di lei.

Era Theresa a essere Cazie.

Jackson scoppiò in una fragorosa risata. Non poté farci nulla: quella situazione critica, grottesca, lo colpì all’improvviso come intollerabilmente buffa. O, forse, intollerabilmente insopportabile. Theresa. Brookhaven. Il neurofarmaco traditore. La Kelvin-Castner. Il Rifugio. Il mondo andava in pezzi a micro e macro livelli e lui, Jackson, aveva scelto come oggetto di paura una donna che diceva di avere altrettanta paura di lui, soltanto che lui aveva troppa paura per crederle e lei aveva troppa paura per credere che lui aveva troppa paura… — Vicki… — disse teneramente.

I loro sguardi si incontrarono nella stanza scialba, mentre il notiziario strillava. Il momento si allungò come caramello, elastico e dolce.

— Vicki…

— Stanno entrando i suoi ospiti — annunciò con voce squillante il sistema. — La signorina Francy e il signor Addison arriveranno fra novanta secondi. Devo farli accomodare?

— Sì — disse Jackson. Gradì quell’interruzione così come ne restò dispiaciuto.

— Certamente. E se ci fosse qualsiasi cosa che la Kelvin-Lastner possa fare per lei. non esiti a chiederlo.

Addison era un tecnico scelto chiaramente non solo per essere minaccioso ma anche per apparirlo. La sua testa sfiorava il soffitto e le sue braccia avevano un diametro doppio rispetto a quelle di Jackson. Probabilmente era anche potenziato: muscoli, vista, tempo di reazione. Esaminò la stanza in modo professionale. Accanto a lui Lizzie sembrava una bambolina molto piccola, molto strapazzata, molto impaurita, vestita con gli abiti verdi usa e getta della Kelvin-Castner. Si lanciò verso Vicki e la strinse forte. Jackson si aspettò di sentire Vicki farle delle moine materne, ma non accadde.

— Forza, Lizzie, riprenditi — fece Vicki. — Non mi verrai a dire che il pirata informatico che tutto conquista diventa piagnucoloso per un piccolo lavaggio in profondità. Sei andata più all’interno dei buchi del governo di quanto i pulitori della Decontaminazione siano appena entrati nei tuoi.

Lizzie si mise a ridere. Una risata incerta ma pur sempre una risata. La rudezza sboccata di Vicki le aveva dato coraggio. Jackson non avrebbe mai capito le donne.

— Adesso siediti qui e raccontaci quello che hai trovato — disse Vicki. — No, non preoccuparti dei monitor. Va bene che la K-C sappia che sappiamo quello che sappiamo. Vuoi un po’ di caffè?

— Sì — rispose Lizzie. Sembrava più calma. Non avendo avuto tempo di tirarli dopo la Decontaminazione, i capelli le stavano piatti e puliti contro la testa. Addison terminò il controllo della stanza e si pose fra Lizzie e la porta aperta dell’alcova.

Vicki esortò: — Allora che cosa sappiamo?

Lizzie sorseggiò il caffè con una smorfia. Jackson comprese che non era abituata a quello vero. Le si sedette davanti e la guardò.

— Sappiamo che la Kelvin-Castner ha creato un modello di probabilità per la ricerca sul neurofarmaco della paura che ha… che ha Dirk. — La voce di Lizzie si incrinò soltanto per un istante. — Non ci capisco quasi niente. Però sembra un programma per fornire dati al dottor Aranow secondo un percorso prestabilito. Alcuni punti delle segnalazioni riflettevano equazioni Lehman-Wagner sull’affidabilità secondo quello che il dottor Aranow avesse richiesto, l’albero decisionale avrebbe fornito dati coerenti. Penso. Quello che sono riuscita a stabilire è che ogni ramo dell’albero finiva in equazioni inconcludenti.

Jackson chiese serenamente: — Come fai a sapere che i dati non erano reali?

— Le date della maggior parte delle informazioni erano riferite al futuro.

— Proiezioni di esperimenti…

— Non so — disse perentoria. — Come farei? — Jackson si accorse che non doveva discutere con lei: la sua sicurezza poteva sgonfiarsi con la stessa velocità con cui era aumentata.

— Nessuno lo saprà finché il terminale non verrà dissigillato e tu non potrai esaminare i dati direttamente, Jackson — disse Vicki dolcemente. — Mi sembra comunque un buono strumento per annullare il contratto, no?

— Sì — ammise Jackson. — Gli stava crescendo dentro, tranquillamente, una rabbia fredda e immensa come fosse nera acqua immota. Cazie lo sapeva?

Lizzie proseguì: — Il modello di probabilità aveva riferimenti incrociati con un sacco di roba su di lei, dottor Aranow. Un programma psicologico personalizzato. — Lizzie arrossì.

Quindi Cazie sapeva.

Jackson si alzò ma quando si trovò in piedi si accorse che non aveva alcun posto dove andare. Lizzie, chiaramente, non aveva ancora terminato. La sua rabbia fredda e nera aumentò.

— Ottimo lavoro, Lizzie — commentò Vicki. — Ma non è tutto qui, vero? Perché volevi unirti a noi disperatamente nell’area bioschermata?

La mano di Lizzie tremò. Il resto del caffè si versò. — Vicki…

— No, dillo pure. Qui. Adesso. Così tutti sapranno quello che sa la K-C.

Le mani di Lizzie tremavano ancora ma la voce era ferma. — C’erano altri modelli di probabilità nei dati nascosti. Erano più semplici, e sono riuscita a capirli, io. Mostravano varie probabilità di mutazione del neurofarmaco originale. O forse non proprio dell’originale, ma di qualcosa che può diventare. Quella parte era difficile. Ma i modelli per tracce differenti… i modelli…

— Dammi la media Tollers — disse freddamente Jackson. — La probabilità media puntava alla trasmissione diretta dell’infezione, vero? Da persona a persona, tramite cellule Nielson nei fluidi corporei. Quale era la probabilità Tollers?

Con la voce che si elevava per la sorpresa Vicki domandò: — Lo sapevi?

— Lo immaginavo. Speravo di sbagliarmi. Questo tipo di vettore di trasmissione è notoriamente instabile, muta in continuazione, Lizzie. Qual è la probabilità Tollers di mutazione in una forma trasmissibile per via aerea che sopravviva autonomamente al di fuori delle colture di laboratorio e del corpo umano?

— Zeo virgola zero tre per cento.

Basso. Il progettista (il diavolo di Insonne che fosse) del vettore originale (qualunque diavolo esso fosse) aveva fatto il possibile per impedire un’infezione incontrollabile per via aerea in tutto il mondo. Almeno quello. — E per la mutazione in una forma autonoma in grado di trasmettersi direttamente da umano a umano?

Lizzie sussurrò: — Trentotto virgola sette per cento.

Più di una possibilità su tre. Così, ormai lo sapevano, pensò Jackson. L’infezione inibitoria poteva trasmettersi da persona a persona tramite sangue, saliva, sperma. Urina? Probabilmente. Trentanove per cento di possibilità. Per arrivare a una percentuale così alta i campioni di laboratorio dovevano mutare come pazzi.

— Avevi paura di restare infettata anche tu, là fuori — disse Vicki a Lizzie. — A quel punto non saresti più stata in grado di aiutare Dirk. Quindi sei venuta all’interno dell’area bioschermata con noi.

Jackson continuò: — Anche se la mutazione avesse avuto già luogo, il che non è probabile, lei non l’avrebbe contratta restando lontana dalle persone. Avrebbe dovuto entrare in contatto diretto con sangue o avere un rapporto sessuale o… Lizzie, cosa c’è?

Lizzie sussurrò: — O toccare bulbi oculari?

— "Bulbi oculari?"

— Morti, voglio dire, io. Oh, dottor Aranow, io ho toccato… oh, Dio, e se l’avessi presa? Dirk! Dirk! Non c’è un test, e se l’ho presa, io, e se l’ho presa?

La ragazza era preda di un attacco isterico. Jackson ricordò che Lizzie aveva diciotto anni ed era passata attraverso orrori che lui non immaginava nemmeno. Lizzie si mise a singhiozzare e, quando Vicki la portò via lungo il corridoio e da qualche parte una porta si chiuse alle loro spalle, Jackson fu felice per l’improvviso silenzio.

Sembrò passare molto tempo prima che Vicki tornasse, anche se non era così. I suoi occhi viola modificati geneticamente apparivano stanchi. Doveva essere mattino presto.

— Lizzie sta dormendo.

— Bene — commentò Jackson.

Vicki si trovava a un metro da lui, non stava tentando nemmeno di toccarlo. — E adesso che succede?

— La Kelvin-Castner butta via il falso progetto di ricerca e ne inizia uno serio. — Jackson fissò lo schermo muto. — Avete sentito, bastardi? Adesso avete un motivo valido. Non sono soltanto i Vivi che hanno respirato qualche strana sostanza. Ce l’hanno anche a Brookhaven, no? Anche le enclavi schermate possono prendere l’infezione. Potete prenderla anche voi. Meglio trovare un antidoto.

Aspettò, immaginando di vedere apparire Thurmond Rogers, Alex Castner o magari Cazie. Lo schermo restò spento.

— Così adesso siamo tutti sulla stessa barca — commentò Vicki. — Spinti dagli stessi interessi. Bello.

— Giusto — convenne con amarezza Jackson.

— A meno che io, tu e Theresa non sappiamo qualcosa che il resto del mondo non sa — continuò Vicki. — Miranda Sharifi e gli Insonni non possono tirarci fuori dai guai, questa volta. Non ci saranno siringhe miracolose provenienti dal Rifugio, dall’Eden o da Selene. I Super sono tutti morti.

Jackson la fissò sbalordito.

— No, non dovremmo tenerlo segreto, Jackson. Abbiamo bisogno di dirlo alla K-C. Abbiamo bisogno di chiamare la stampa, il governo e tutta la gente che conta su Miranda Sharifi perché ci salvi ancora una volta. Perché la K-C non otterrà aiuto dal cielo. E il governo dovrà fare irruzione a Selene per verificare l’assenza di persone. E la gente potrebbe smettere di inviare messaggi a Miranda perché questa volta non salterà fuori nessuna dea ex-machina. La machina si è rotta e la dea è morta. Jackson, ti prego, abbracciami. Non mi interessa chi stia guardando.

Lui lo fece e, anche se Vicki gli dava una sensazione calda fra le braccia, la cosa non lo aiutò. Non seriamente.

— Jack — intervenne Cazie dallo schermo del terminale con volto corrucciato. — Dimmi quello che sai su Miranda Sharifi e Selene.

Raccontò tutto a Cazie, in piena notte. Raccontò tutto ad Alex Castner, sempre in piena notte. Raccontò tutto alla FBI e alla CIA nella tarda mattinata del giorno dopo, perché, saltò fuori, la Kelvin-Castner non aveva chiamato i federali se non dopo avere indetto un consiglio di amministrazione. Jackson fu felice per il sonno prolungato. Alla CIA e alla FBI dovette raccontare tutto molte volte.

Dopo, cercò di allontanare dalla mente le indagini. Passò intere giornate a occuparsi dei dati che la Kelvin-Castner gli forniva ormai liberamente. Non aveva motivi per non farlo. Come aveva detto Vicki, erano tutti sulla stessa barca.

Il ventunesimo giorno di quarantena, l’ultimo, aveva analizzato tutti i dati in possesso della K-C. Non si recò personalmente nei laboratori: non era un ricercatore. Si limitò ai modelli medici, che erano inconcludenti. Forse si sarebbe trovato un antidoto per il neurofarmaco ma non sapevano ancora né dove né come.

Né quando.

La rabbia fredda e nera restò dentro. La rabbia non derivava dall’impossibilità di produrre una cura: non era impossibile. La rabbia non derivava dal fatto che qualcuno aveva creato quel neurofarmaco crudele e pericoloso, sconosciuto in natura: per quattromila anni gli uomini avevano creato veleni sconosciuti in natura per annullarsi a vicenda. La rabbia non derivava nemmeno dal fatto che la Kelvin-Castner aveva anteposto i propri profitti al bene pubblico, finché le due cose non avevano coinciso: le industrie funzionavano così.

Durante il ventunesimo giorno, mentre Jackson stava lasciando la K-C per un breve viaggio per andare a trovare Theresa, Thurmond Rogers lo bloccò appena prima del portello di sicurezza che immetteva nella parte non bioschermata dell’edificio. Thurmond Rogers in persona, non con un ologramma o una linea di comunicazione. — Jackson.

— Penso che non abbiamo niente da dirci, Rogers. O fai il messaggero per Cazie?

— No — disse Rogers e, notando il suo tono, Jackson lo osservò più attentamente. La pelle di Rogers, modificata geneticamente perché risultasse appena abbronzata per contrastare con i riccioli biondi, appariva chiazzata e scialba. Le pupille degli occhi turchesi erano dilatate, perfino nella luce solare simulata del corridoio.

— Che c’è? — chiese Jackson, ma lo sapeva già.

— È passato alla trasmissione diretta.

— Dove?

— Enclave North Shore di Chicago.

Nemmeno fra i Vivi. Qualcuno era uscito dalla North Shore, oppure qualcuno vi era entrato, e aveva trasmesso il neurofarmaco via sangue, sperma, urina, saliva, allattamento. Era in una forma non aerea.

Chiese bruscamente a Rogers: — Comportamento della vittima?

— Stessa grave inibizione. Ansia da panico per le nuove azioni.

— Modelli medici?

— Corrispondono agli effetti conosciuti. Fluido cerebrospinale, scansioni cerebrali, battito cardiaco, attività delle amigdale, livelli ormonali del sangue…

— Va bene — fece Jackson intendendo il contrario, dato che non andava bene per niente. Poi capì perché era così infuriato.


— È sempre lo stesso — disse Jackson a Vicki. Sedevano uno di fianco all’altra nella sua aeromobile, in decollo da Boston. In quel mese i Giardini Pubblici sotto di loro erano carichi di fiori gialli: narcisi, giunchi, rose e viole del pensiero in una artistica confusione modificata geneticamente. La cupola della State House scintillava dorata nel tardo sole pomeridiano e, oltre la cupola, l’oceano aleggiava grigioverde. Dopo un mese passato davanti ai terminali, le dita di Jackson parevano goffe sulla consolle del veicolo. Inserì il pilota automatico e fletté le spalle contro lo schienale del sedile. Era stanchissimo.

— Cosa è sempre lo stesso? — chiese Vicki.

— Le persone. Continuano a fare sempre la stessa cosa anche se non funziona.

— A quali persone specifiche ti riferisci? — Vicki appoggiò una mano sulla coscia di Jackson. Lui là coprì con la propria e pensò immediatamente: "Dove sono i monitor?". Ventun giorni a trattenersi, consapevoli del fatto di essere osservati. Ma non c’erano monitor nell’aeromobile. O forse sì? Il veicolo era stato parcheggiato per tre settimane sotto la cupola della Kelvin-Castner. Ovvio che ci fossero dei monitor. E comunque lui era troppo stanco per un rapporto sessuale.

— Tutte le persone — rispose lui. — Tutti. Continuiamo a fare quello che abbiamo sempre fatto, anche se non funziona. Jennifer Sharifi ha continuato a tenere sotto controllo tutto quello che poteva minacciare il Rifugio. Miranda Sharifi ha continuato ad affidarsi al miglioramento della tecnologia per sollevare noi poveri mendicanti ottenebrati, costretti a dormire. La Kelvin-Castner continua a seguire i profitti, indifferente a dove conducano. Lizzie continua a trafugare dati da tutti i sistemi che si trova davanti. Cazie… — si interruppe.

— …continua a recitare per un eventuale pubblico che soddisfi la sua sete di applausi — proseguì Vicki, più acidamente. — E tu? Tu che cosa continui a fare, Jackson?

Lui restò in silenzio.

— Non avevi pensato di applicare la tua teoria anche a te stesso? Be’, allora lo farò io. Jackson continua a presumere che il modello medico possa spiegare tutto sulle persone: stila la biochimica e capirai la persona.

Lui le lanciò un’occhiata in tralice. La donna aveva gli occhi chiusi: Jackson si rammaricò di non poterne vedere il viola purissimo. Lei aveva tirato via le dita calde dalle sue. — Mi sembri Theresa — disse lui.

— Theresa — fece Vicki senza aprire gli occhi. — Sta imparando a fare qualcosa di diverso. Molto diverso.

— È solo un controllo di biofeedback della chimica cerebrale…

— Sei pazzo, Jackson — commentò Vicki. — Non so come faccio a essere innamorata di un uomo così pazzo. Guarda Theresa quando scoprirà che il neurofarmaco inibitorio è trasmissibile. Guardala e basta. A proposito: veicolo, atterra laggiù, nella prima radura a ore due.

I fiori nella radura non erano modificati geneticamente. L’erba era dura e profumava di mentuccia. L’aria era un po’ troppo fredda, almeno per dei corpi nudi. Però Jackson scoprì di non essere poi stanco come pensava.

Dopo, Vicki lo abbracciò, il suo lungo corpo stampato nell’erba e nella vegetazione, che profumava di menta schiacciata. Lui l’accarezzò, aveva la pelle d’oca. Contro la spalla, sentì le labbra di lei incurvarsi in un sorriso.

— Soltanto biochimica, Jackson?

Scoppiò a ridere: stava troppo bene per seccarsi. — Non cedi mai, eh?

— Se lo facessi non ti piacerei. Soltanto biochimica?

Lui le avvolse attorno un braccio. Dovevano tornare all’aeromobile: quel campo irregolare era terreno duro. Ed esposto. Era ricoperto anche di insetti che pungevano. E poi lui doveva vedere Theresa, tornare alla Kelvin-Castner, intraprendere la battaglia legale perché la K-C condividesse i dati con la CDC visto che il neurofarmaco si era trasformato da atto di terrorismo casuale a motivo di crisi per la salute pubblica.

La voce di Vicki fu improvvisamente incerta, quella qualità inaspettata che si presentava nei momenti più inaspettati. — Jackson? Biochimica?

Lui la strinse più forte. — Non biochimica. Amore.

E quella era, e allo stesso tempo non era, la verità. Come tutto il resto.

Загрузка...