ALLA RICERCA.

17 Un nuovo cavaliere.

Nihal si avvicinò alla capanna di legno con titubanza. Non era affatto sicura di quello che stava per fare, anche se aveva riflettuto a lungo. Aveva paura. Proprio lei, che sul campo di battaglia non si lasciava mai prendere dal panico, che non temeva né la morte né le ferite. Piantala di fare la femminuccia. Ormai hai deciso. Entra e basta.

Sarebbe stato un regalo per il suo compleanno, ma soprattutto per la sua nomina a Cavaliere, ormai imminente.

Si ritrovò in una stanza buia e soffocante. «C’è nessuno?» chiese ad alta voce.

Si fece avanti un omone. Sembrava uno di quei venditori di carne che aveva visto al mercato: grasso, sporco e sudato. Un brivido le percorse la schiena. L’uomo si puliva le mani con uno straccio.

«Chi sei?» chiese.

«Una cliente, ovvio» rispose Nihal, cercando di darsi un contegno.

«Le donne non si fanno tatuaggi» rispose quello senza scomporsi.

«Non si finisce mai d’imparare: io sono una donna che se li fa. Sono un Cavaliere di Drago» disse. Scoprì lo stemma che aveva sul petto.

L’uomo ebbe un attimo di stupore, poi riprese la sua espressione apatica. «Non ancora, sei un allievo.»

«Domani ci sarà la cerimonia di consacrazione.»

«Ce li hai i soldi?»

La ragazza tirò fuori un sacchetto e ne sparse il contenuto su un tavolo. «Questi bastano?»

L’uomo li valutò con attenzione, annuì e andò in una stanza attigua.

Nihal restò sola nella penombra. Molti Cavalieri prima della nomina si facevano un tatuaggio, era una specie di tradizione. Naturalmente fioccavano le leggende sull’atroce dolore che bisognava sopportare e parecchi si erano divertiti a spaventarla. Ido, invece, era stato laconico. «Ci manca solo quello» aveva detto, e con quelle quattro parole aveva sancito tutta la sua disapprovazione. Ma ormai era fatta, era inutile avere paura: qualche minuto e sarebbe finita.

Quando il tatuatore tornò, aveva tra le mani un coltello sottile e affilato e una serie di ciotole piene di pigmenti colorati. «Dove lo vuoi, questo tatuaggio?» chiese con un sorrisetto ambiguo.

Tutti così, quelli che incontrava: o non la prendevano sul serio, oppure iniziavano a guardarla con quello sguardo laido. Nihal sbuffò e sguainò piano la spada. Il suo riflesso nero percorse il volto dell’uomo che le stava davanti. Il tatuatore cambiò immediatamente espressione.

«Solo per ricordarti che quest’arma non è qui per bellezza» disse Nihal con tutta calma. «Ora veniamo a noi. Il tatuaggio lo voglio sulla schiena, per cui adesso mi spoglio. Tu invece ti giri e non ti volti finché non mi sono sdraiata su quel tavolo. Sono sicura che sei una brava persona, ma la prudenza non è mai troppa. Tutto chiaro?»

L’uomo deglutì in silenzio e fece un cenno col capo.

«Perfetto. Girati.»

«Che tatuaggio vuoi?» chiese l’uomo, mentre le dava la schiena. Gli tremava la voce e a Nihal venne quasi da ridere.

«Due ali di drago, una per spalla. Chiuse.»

«Perché chiuse?»

«Perché quando sarà il momento le spiegherò al vento e volerò via. Puoi girarti, ora.»

Prona sul tavolo, la schiena nuda, Nihal sentì l’uomo avvicinarsi e passarle un panno caldo sulle spalle. Si accorse che il cuore le batteva forte e si maledisse per quella stupida paura. Infine vide il coltello e la punta già nera di inchiostro. Strinse gli occhi e sentì la lama inciderle la pelle.


Uscì dalla capanna felice. La schiena era indolenzita e la ferita le bruciava, ma ora aveva le sue ali. Non restava che capire quando si sarebbero spalancate.

Quando arrivò alla base, trovò Ido ad attenderla sulla porta. «Dove sei stata?» chiese, tra un tiro di pipa e l’altro.

Nihal preferì rimanere sul vago. «In giro.»

«Tu non me la conti giusta» rispose lui, dopo averla scrutata a lungo.

«Ido, a volte ti comporti come se fossi mio padre!»

Lo gnomo sorrise. «Vieni dentro, forza, che dobbiamo parlare.»

Nihal lo seguì e lui la fece sedere.

«Allora, ti senti pronta per la cerimonia di domani?»

Nihal divenne seria. «Credo di sì» disse. “Credo” era la parola giusta.

«Bene, allora sarai pronta anche per questo» disse Ido, poi sparì dietro la porta della stanza accanto.

Ricomparve poco dopo con un fagotto di iuta, sotto il cui peso le sue gambe corte si piegavano. Lo buttò sul tavolo mentre Nihal lo fissava con uno sguardo interrogativo.

«Questo è per te, dacci un’occhiata» disse con apparente noncuranza.

Nihal toccò l’involucro, incuriosita. Sentì alcune forme strane e qualcosa di duro. Poi lo aprì, ma il sacco era tanto grande che dovette infilarci la testa dentro per capire che cosa contenesse. Quando uscì, scapigliata, sul suo viso era dipinta un’espressione incredula.

«Ora sei un Cavaliere e non mi sembra molto decoroso che te ne vada in battaglia conciata come un mendicante» borbottò lo gnomo, quasi imbarazzato. Era la prima volta che faceva un regalo.

Nihal iniziò a svuotare il sacco: c’erano una corazza splendente, un paio di spallacci, un elmo e due gambali. Erano tutti di cristallo, nero come la notte e lucente di terribili bagliori. Come la sua spada. La corazza era levigata a regola d’arte e dalla parte bassa della vita partiva un fregio: rappresentava un drago ritorto su se stesso, che con mille volute si arrampicava su per il busto fino all’altezza del petto, dove troneggiava la testa; la bocca spalancata sputava due fiotti di fiamme che si avvolgevano intorno al profilo dei seni. Gli spallacci erano foggiati come due teschi di drago, i denti aguzzi sprofondati nella linea delle spalle. Sui gambali tornava il motivo delle fiamme. Infine, l’elmo aveva due grossi spuntoni che partivano dai lati del capo.

Nihal la guardò senza parole. Era la sua armatura.

«L’elmo l’ho fatto fare in modo che non ti dia fastidio sulle orecchie. È leggera, sai, non dovrebbe impacciarti nei movimenti» spiegò Ido, ma Nihal continuava a tacere. «Di sicuro tuo padre avrebbe fatto qualcosa di più bello e grandioso, ma spero che ti piaccia e che ti ci trovi bene a combattere e... oh, al diavolo!» imprecò alla fine.

Nihal gli saltò al collo e lo abbracciò stretto. Era più di quanto potesse sperare, era un regalo meraviglioso, era la prova della stima che Ido nutriva per lei. Le vennero le lacrime agli occhi. «Grazie, grazie...» continuava a ripetere.

Ido la allontanò. Aveva gli occhi un po’ lucidi. «Se speri di farmi piangere come una femminuccia ti sbagli di grosso, sappilo» brontolò, poi scoppiò a ridere e Nihal rise con lui.

«Io... è tutto bellissimo, Ido. Tu mi hai salvata, mi hai cresciuta, hai fatto di me un guerriero... io...» Nihal non trovava le parole per ringraziare lo gnomo che l’aveva riportata alla vita.

Ido rispose dandole una sonora pacca sulla schiena. «Su, bando ai sentimentalismi, va’ a prendere quel buono a nulla di Laio e diamoci una mossa» disse. Il sorriso che fino a poco prima troneggiava sulle sue labbra scomparve non appena sentì Nihal gemere. «Che cosa hai combinato?» chiese. Sbuffò dalla pipa una serie di nuvolette di fumo compatte e ravvicinate, come accadeva sempre quando si arrabbiava.

Con gli occhi di Ido puntati addosso, Nihal arretrò fino a trovarsi con le spalle al muro. Accidenti. E adesso? Non le restava che confessare. «Ho fatto il tatuaggio...» disse con un filo di voce.

Sbuffo di fumo. «E che razza di tatuaggio ti sei fatta?» Sbuffo di fumo.

«Due ali... sulla schiena...»

Sbuffo di fumo. Silenzio.

«Non sono tanto grandi... E poi hanno un significato...»

Sbuffo di fumo. «Non ti faccio una scenata solo perché...» sbuffo di fumo «solo perché siamo in ritardo. Altrimenti mi avresti sentito, eccome! E ora sparisci, prima che cambi idea.»

Nihal schizzò fuori dalla capanna con un mezzo sorriso sulle labbra.


Partirono dopo pranzo. Ido su Vesa e Laio dietro a Nihal su Oarf.

Nihal adorava volare. Quando saliva sul suo drago e vedeva tutto dall’alto si stupiva come se fosse la prima volta. Cavalcava Oarf senza finimenti e, che lei sapesse, era l’unica tra i Cavalieri di Drago a farlo. Laio era costretto ad aggrapparsi a lei con tutte le forze per non cadere. Nihal non voleva dominare il suo drago, lei e Oarf erano una sola cosa. Tra loro non c’era bisogno di ordini, perché il pensiero dell’uno era quello dell’altra.

Giunsero a Makrat verso sera. La città si presentò ai loro occhi nella confusione e nell’afa estiva. Nonostante l’ora, le vie e le piazze erano affollate ed echeggiavano di voci, sussurri, risa e frastuono. Quando passarono davanti all’enorme portone dell’Accademia, Nihal non poté fare a meno di pensare a Sennar. Che stupida era stata. Il giorno del loro ultimo incontro avrebbe voluto dirgli quanto fosse importante per lei, abbracciarlo e tenerlo stretto perché non andasse via. Invece lo aveva ferito, con la spada e con le parole. E ora forse era morto. Scacciò quel pensiero. Sennar era vivo e sarebbe tornato.


Cenarono all’Accademia, insieme ai cadetti. A Nihal fece uno strano effetto rientrare nel vasto refettorio.

«Ti ricordi quando mangiavamo qui anche noi?» le chiese Laio tra un boccone e l’altro. Poi iniziò a raccontare a Ido come aveva conosciuto Nihal.

Ma lei non aveva voglia di rievocare i tempi andati. Non erano stati bei mesi quelli passati lì dentro. In fondo era trascorso così poco tempo. Ricordava bene le sensazioni che aveva provato tra quelle mura: l’isolamento, la solitudine, l’odio, l’impressione di essere diversa. Anche adesso tutti la guardavano, allievi e maestri, e Raven dal suo scanno non le toglieva gli occhi di dosso. Lei sapeva perché: era una donna, era un mezzelfo. Le sembrò che non fosse cambiato niente.

Sorbì la sua minestra in silenzio, mentre Laio la riempiva di chiacchiere e Ido la osservava senza fiatare.

Quando fu ora di ritirarsi ciascuno nelle proprie stanze, lo gnomo la fermò. «So come ti senti, Nihal. Ma non devi avere paura. Ti meriti quello che riceverai domani.»

«Sì, certo» annuì lei poco convinta. «Fa caldo, vado a fare una passeggiata» tagliò corto, quindi si allontanò in fretta. Desiderava stare sola.


Il giorno dopo, il salone le parve ancora più immenso di quanto lo ricordasse. E pieno, strapieno, traboccante di gente. Si sentì mancare l’aria. Erano tutti lì per lei. Aveva cominciato a sentire una strana oppressione al petto già mentre si preparava. Laio aveva insistito per vestirla personalmente. Era stato un piacere guardarlo mentre le allacciava le fibbie, le aggiustava la corazza, le fissava i gambali.

«Sei diventato uno scudiero provetto» aveva osservato Nihal.

«Non dirlo troppo in giro» aveva scherzato lui. «Qualche cavaliere potrebbe sentirti e cercare di accaparrarsi i miei servigi.»

Nihal aveva riso.

«Finito!» aveva esclamato Laio dopo un ultimo strattone. «Ora puoi guardarti, Cavaliere.»

Nihal si era voltata verso il grande specchio che ornava la sala che le era stata assegnata per quella mattina e quasi non si era riconosciuta: sulla lamina d’argento scintillava la figura di un guerriero, un vero guerriero, imponente e minaccioso.

«D’ora in poi sarà così che ti vedrà il nemico: un demone nero sul campo di battaglia» aveva detto Laio con un sorriso. «Adesso però non c’è tempo per la vanità, Cavaliere. È ora di andare.»

Mentre percorreva al fianco di Laio i corridoi dell’Accademia, la sensazione di disagio era cresciuta. E quando si era trovata davanti l’infinito susseguirsi di volte del salone principale, era giunta al culmine.

Nihal chiuse gli occhi per calmarsi e immaginò che Sennar fosse lì, in mezzo alla folla. Ce l’ho fatta, Sennar. Guardami. Ce l’ho fatta.

Poi sentì squillare le trombe e Raven e Sulana, la regina bambina che governava ispirata dal ricordo del padre, fecero il loro ingresso.

Il Supremo Generale era impettito come al solito. Aveva cambiato armatura dall’ultima volta che Nihal aveva avuto il discutibile piacere di vederlo; quella che indossava ora sfavillava d’argento e pietre preziose ed era assurdamente ricoperta di fregi. Raven aveva la faccia tronfia e sprezzante che Nihal aveva detestato fin dalla prima volta che l’aveva visto. Il suo inseparabile cagnolino lo seguiva scodinzolante ed eccitato a qualche passo di distanza.

Al braccio di Raven avanzava Sulana, bella come una ninfa, eterea e compresa nel suo ruolo. Camminava solenne, senza guardare la folla, e aveva un’espressione matura e insolita per la grazia e la giovinezza dei suoi lineamenti.

Avanzarono fino allo scanno di Sulana. Raven aiutò la regina ad accomodarsi, quindi si posizionò alla sua destra, in piedi.

Appena fuori dalla porta spalancata del salone, Nihal attendeva scalpitante. L’etichetta non prevedeva ancora il suo ingresso. Fu Ido ad avanzare. Nihal l’aveva già visto in pompa magna, ma quel giorno aveva un che di marziale che le altre volte gli mancava. Indossava un’armatura che metteva di rado, sobria e funzionale, e aveva un incedere tanto deciso che, nonostante la statura ridotta, sembrava svettare al centro della sala.

Lo gnomo si fermò davanti a Sulana e al Supremo Generale; sguainò la spada, la depose a terra e si inginocchiò, per poi rialzarsi subito dopo.

Un mormorio percorse la folla: il cerimoniale prevedeva che il Cavaliere restasse in ginocchio come atto d’ossequio verso Raven. Nihal sorrise quando vide il sommo Raven avere un impercettibile moto di stizza.

Poi la cerimonia ebbe inizio.

«Ido della Terra del Fuoco» tuonò il Supremo Generale «perché ti presenti oggi al mio cospetto?»

«Vengo a presentare all’esercito e al popolo tutto delle Terre libere il mio allievo, Nihal della Terra del Vento, perché possa ricevere la nomina a Cavaliere di Drago.»

«Che dunque faccia il suo ingresso il candidato» disse Raven.

Nihal mosse i suoi primi passi nella sala.

Era una sensazione strana attraversare da sola quella vasta navata, calcare il tappeto rosso che la ricopriva. Sentì gli occhi di tutti volgersi su di lei. Percepì l’ammirazione di cui era oggetto mentre avanzava fiera verso Raven. Le giunsero alle orecchie i bisbigli della folla: «Com’è giovane», «Ha un’armatura straordinaria», «Che andatura fiera». Giunta ai piedi del trono di Sulana, sguainò la spada, la depose a terra al suo fianco, abbassò il capo e si inginocchiò. Ferma in quella posizione, sentì il suono dei passi di Raven sul tappeto.

«Qual è il tuo nome?»

«Nihal.»

«Da dove vieni?»

«Dalla Terra del Vento.»

«Quali sono le tue intenzioni di Cavaliere?»

«Lottare con tutte le mie forze per le Terre libere, dare la mia vita per la libertà e per Sua Maestà la Regina.»

«Togliti l’elmo.»

Nihal obbedì e dall’elmo emersero una scapigliata chioma azzurra e un gentile volto di ragazza.

Gli astanti impiegarono qualche istante per registrare l’immagine, ma la reazione non si fece attendere. Il mormorio fu tanto alto che Raven dovette lanciare un’occhiataccia perché nell’uditorio si ristabilisse il silenzio.

Raven raccolse la spada. «Porgimi il tuo braccio destro, Cavaliere.»

Nihal tolse uno dei guanti che indossava e scoprì la pelle chiara.

Raven vi passò sopra la spada e il sangue iniziò a fluire lento dalla ferita. «Giura sulla tua vita e sul tuo sangue.»

Nihal alzò il braccio perché tutti potessero vedere la striscia rossa, quindi parlò con voce alta e sicura: «Giuro di dedicare la mia vita alla causa della pace. Giuro di mettere la mia spada al servizio della giustizia. Giuro di proteggere fino alla morte le Terre libere. Che possa il sangue delle mie vene disseccarsi e il filo della mia vita spezzarsi prima che io possa rompere questo giuramento». Raven abbassò la spada sul capo di Nihal.

«Nihal della Torre di Salazar, oggi hai pronunciato il tuo giuramento davanti agli dèi e davanti agli uomini. La tua carne e il tuo sangue apparterranno per sempre all’Ordine. Ti dichiaro Cavaliere di Drago e servitore delle Terre libere.»

Un unico grido partì dalla fila dei Cavalieri che assistevano alla cerimonia, suggellando l’ingresso di Nihal nell’Ordine.

Raven le restituì la spada e Nihal poté di nuovo alzarsi. Dopo essersi inchinata alla regina, si voltò verso gli astanti e sollevò la sua arma nera.

L’uditorio esplose in un applauso e Nihal si sentì vittoriosa.


Ido la raggiunse per primo, la strinse a sé e la guardò senza dire una parola. Poi Nihal fu travolta da una folla di sconosciuti che volevano complimentarsi con lei.

La cerimonia proseguì nel cortile interno, dove si festeggiavano abitualmente le consacrazioni. Mentre la sua allieva era al centro dell’attenzione, circondata da leziosi cortigiani, dignitari impomatati e cavalieri che le dispensavano congratulazioni, consigli e pacche sulle spalle, Ido se ne rimase in disparte sotto un porticato. Osservava i festeggiamenti con distacco e un vago senso di nausea: sapeva bene quanta finzione ci fosse in tutti quegli ossequi. Non c’era nessuno, in quel cortile, che non si stesse domandando che cosa ci faceva una donna nell’esercito, o che non pensasse che la sua presenza era in qualche modo disdicevole. Non vedeva l’ora di poter tornare alla base a farsi una fumata in santa pace. Una voce interruppe il filo dei suoi pensieri.

«Non crederai di avermi colpito con il tuo gesto di prima.»

Ido si voltò. Raven sorrideva sarcastico, nella sua parodia di armatura.

«Supremo Generale! Anche tu da queste parti?» rispose lo gnomo in tono beffardo, poi afferrò il primo bicchiere che gli capitò sotto mano e ne ingollò il contenuto in un colpo solo. «Non ti ho mai fatto atto d’obbedienza quando ero giovane e malleabile, non vedo perché dovrei fartelo ora che sono un vecchio scorbutico.»

«Vedo con piacere che non sei cambiato.»

«Potrei dire altrettanto di te» ribatté Ido con freddezza.

I due uomini si guardarono a lungo, in silenzio.

«Non riesci proprio a dimenticare, vero, Ido?» disse infine Raven.

Lo gnomo agguantò un secondo bicchiere. «Già. Chissà come mai?»

Raven fece un gesto d’insofferenza. «Hai mai pensato alla mia posizione? Se tu fossi stato al mio posto, ti saresti comportato come me.»

Ido sentì montare la rabbia. «Chiudiamo qui questa conversazione. È molto meglio per entrambi.»

«Sai bene che io credo che tu sia un gran guerriero» ribatté Raven. «E... sì, anche la tua allieva... Ammetto di aver sbagliato quando ho cercato di impedirle di entrare all’Accademia. Ti basta, come atto di contrizione?»

La mano di Ido giocherellava nervosa con l’elsa della spada. «Per quanto ancora mi considererai un soggetto pericoloso?»

Il Supremo Generale non rispose. «Nihal lo sa?» chiese a tradimento.

La dita di Ido strinsero l’impugnatura e il suo volto si fece paonazzo. «Questo che cosa c’entra?»

«Pura e semplice curiosità. Allora?» insistette Raven, mentre un sorriso sottile gli affiorava alle labbra. «Non gliel’hai detto, vero?»

«No» rispose Ido.

«Visto?» ghignò Raven. «La verità è che sei tu il primo a non aver dimenticato il passato. Non hai il coraggio di parlarne nemmeno con la tua allieva prediletta. Come puoi pensare che possa dimenticarlo il Supremo Generale che regge questo Ordine? Magari potrei dirglielo io. Che ne pensi?»

La spada di Ido scivolò lentamente fuori dal fodero. «Lasciami in pace, Raven, o quello che dimenticherò saranno i gradi e le buone maniere» sibilò.

Raven non si scompose. «Calma, calma. Il mio era solo uno scherzo innocente. In battaglia sei controllato, ma fuori dalla mischia ti va subito il sangue al cervello.»

Il Supremo Generale si allontanò sorridendo e Ido allentò la presa sulla spada. La cosa peggiore era che quell’idiota aveva ragione: dopo tutto quel tempo, non era ancora riuscito a dimenticare. Quanto ci sarebbe voluto perché potesse finalmente sentirsi riscattato?


Durante il viaggio di ritorno, Nihal di tanto in tanto si girava e sbirciava il suo maestro, che fu cupo per tutto il tragitto. Ido aveva insistito per ripartire presto e quando finalmente avevano preso il volo si era chiuso in se stesso. Quel volto teso e imbronciato non era da lui, ma la ragazza non si preoccupò. Quando Ido era pensieroso, era meglio lasciarlo stare.

E poi lei era di ottimo umore e niente e nessuno glielo avrebbero guastato. «Reggiti forte» disse a Laio, mentre spronava Oarf. «Mettiamo un po’ di pepe a questo viaggio!»

Era contenta, sì.


Giunsero alla base a notte fonda. Sull’accampamento regnava un silenzio perfetto e si avviarono al passo verso le scuderie. Laio era appisolato sulla schiena di Oarf, che lo tollerava di buon grado, e Nihal sentiva che l’eccitazione cominciava a cedere il posto alla stanchezza. Non vedeva l’ora di infilarsi nel proprio letto. Avrebbe passato la sua prima notte da Cavaliere di Drago sotto le coperte, a pensare con calma a quello che era successo.

Mentre si avvicinavano alle scuderie, però, iniziarono a sentire un frastuono sempre più forte, fino a diventare un baccano infernale.

«Che cosa sta succedendo?» chiese Nihal a poche braccia dal portone.

Ido scese da Vesa e si diresse all’ingresso. «Ho un sospetto...» disse con un sorriso furbo. Poi spalancò la porta.

Dentro era una bolgia. Decine di fiaccole illuminavano le scuderie a giorno, l’aria era densa di fumo e risuonava una musica allegra. Tutti gli abitanti della base sembravano essersi pigiati là dentro e non ce n’era uno che non avesse in mano un boccale o un bicchiere.

«Eccoli!» urlò una voce, non appena Ido e Nihal, attoniti, misero piede nelle scuderie. Decine di teste si voltarono all’unisono verso di loro.

Nelgar si fece avanti con un boccale di birra in mano. «Lode ai due tipi più loschi di tutta la base: il terribile gnomo e la donna guerriero! Alla salute!» urlò allegro e tutti gli fecero eco, tra calici tintinnanti e risate.

Laio si svegliò stropicciandosi gli occhi.

«Ehi, tu, scudiero! C’entri qualcosa con questo putiferio?» chiese Ido.

«In effetti è stata una mia idea» rispose Laio con uno sbadiglio. «Però me n’ero scordato!»

Nelgar prese Nihal sottobraccio. «Vieni dentro, Cavaliere. Sei tu l’ospite d’onore!»

Al suo ingresso iniziarono a fioccare brindisi e complimenti.

«Io... non capisco...» disse Nihal confusa.

Ido aveva già il suo boccale colmo in mano. «Allora te lo spiego io: il tuo solerte scudiero ha pensato bene di riunire qui a festeggiarti tutti gli sfaccendati della base.» Quando si sollevò un coro di proteste, Ido alzò il boccale e lo mise a tacere. «Sai che ti dico, Nihal? Visto che ci tocca partecipare, tanto vale fare onore alla birra e alle danze!» Quindi levò in alto il boccale tra gli applausi.

La confusione ricominciò più caotica di prima, Laio si svegliò del tutto e Ido si scatenò come al suo solito. Nihal rimase imbambolata a ricevere le strette di mano dei compagni. Una festa in suo onore. Non sapeva se essere raggiante o imbarazzata. Nel dubbio se ne stava in piedi in mezzo alla massa di cavalieri, donne, soldati e scudieri. Sotto il suo naso spuntò un bicchiere colmo di birra.

«No, grazie, io non...»

«Poche chiacchiere» esclamò uno dei fanti. «Un vero Cavaliere non rifiuta mai da bere.»

Nihal prese il boccale, vi appoggiò le labbra e ne bevve un piccolo sorso.

Intorno a lei riecheggiarono commenti di disapprovazione: «Così bevono le signorine!», «Sei o non sei un Cavaliere di Drago?», «Tutto d’un colpo, forza!». Nihal prese fiato e li accontentò. Riemerse dal boccale tossendo a più non posso.

«Ora sì che ci siamo!» urlò una voce, scatenando l’ennesima salva di applausi e risate.

Anche Nihal scoppiò a ridere e sentì una strana sensazione riscaldarle il cuore. Le piaceva essere al centro dell’attenzione. Non lo avrebbe mai detto, ma le piaceva.

Tra brindisi, battute e musica, la festa decollò. Nihal parlava con tutti, rideva, scherzava. E beveva. E più beveva, più la testa si svuotava e più voleva bere ancora. Il mondo sembrava diventato più leggero, si sentiva a un palmo da terra. Se pensava ai dubbi della sera prima le veniva da ridere, perché ora era lì e doveva solo divertirsi. All’inizio guardò gli altri ballare: i fanti che volteggiavano con le loro mogli, le procaci vivandiere strette tra le braccia di qualche cavaliere. Poi vide venirle incontro Ido, con le guance rosse e gli occhi lucidi. Le fece un inchino e le baciò la mano. «Se non ricordo male, qualche mese fa, quando c’eravamo appena conosciuti, mi concedesti un ballo. Credo di avere diritto a un altro.»

«Sarà un onore, Cavaliere. Vi prego però di attendere qualche istante» scherzò Nihal. Ancora vestita della sua armatura, sgusciò tra i ballerini e, con la spada che sbatteva sulla coscia, volò fuori.

Entrò nella stanza di Ido barcollando e chiedendosi perché all’improvviso il mondo avesse iniziato a girare più veloce. Aprì in fretta e furia la cassapanca e tirò fuori un vestito verde che si era comprata prima di farsi tatuare. Cercò di ricordarsi come si legava il corpetto e come andassero sistemate gonna e sottogonna. Ci mise un po’ e dovette litigare con i passanti e tutti i vari lacci e lacciuoli, ma alla fine ci riuscì. Scalciò via gli stivali e fu pronta.

Si fiondò fuori dalla capanna e corse a piedi nudi verso le scuderie. Quando arrivò davanti all’ingresso non azzeccò la posizione della porta e andò a sbattere contro lo stipite. Accidenti. Chi l’ha spostata? Si riprese dalla botta, lisciò la gonna, fece un bel respiro ed entrò.

Il primo ad accorgersi di lei fu un fante, che diede una gomitata allo scudiero che gli stava accanto. Poi, a uno a uno, tutti si voltarono verso l’ingresso.

I suonatori ammutolirono, i ballerini si bloccarono e i bicchieri rimasero a mezz’aria. Il vestito era semplice, niente di pretenzioso, e non era nemmeno della sua taglia, ma Nihal era comunque bellissima. Il silenzio fu rotto da un «Però!» assai poco elegante.

Nihal avanzò un po’ impacciata, cercando di non ridere. «Sono qui per voi, Cavaliere» disse, dopo essersi fermata davanti al suo maestro.

«E questo da dove esce?» chiese Ido.

«Regalo di compleanno» rispose lei, mentre porgeva la mano allo gnomo.

La musica riattaccò più vivace di prima. Nihal non conosceva un solo passo di danza, ma Ido era un ballerino provetto e le bastò seguirlo, sbirciando ora i suoi piedi ora quelli delle coppie intorno a lei.

Ido fu solo il primo a chiederle l’onore di un ballo. Il secondo fu Laio, finalmente sveglio ed eccitato dalla festa, che la trascinò in una danza stranissima che nessuno aveva mai visto. Poi fu la volta di molti altri.

Nihal si sentiva bene, allegra, senza pensieri. Quella notte era una ragazza come tutte le altre: le sue orecchie si erano accorciate, i suoi occhi rimpiccioliti e i capelli non erano più blu, ma castani, biondi, neri. Il tempo volava intorno a lei, le ore scorrevano via rapide e altrettanto faceva la birra, che le alleggeriva la testa e le gambe.

Al culmine dei festeggiamenti una voce domandò: «Ido, sbaglio o hai dimenticato qualcosa?». Lo gnomo trangugiò l’ennesimo boccale. «Mi sa proprio di sì» disse, dopo essersi pulito i baffi con il dorso di una mano.

«Allora non è un vero Cavaliere.»

«Giusto! La prova! Ci vuole la prova!» commentarono altre voci.

Nihal aveva difficoltà a concentrarsi e a mettere in ordine i pensieri. Di che accidenti stavano parlando?

«Veramente è un po’ tardi... e non so se sono in grado...» si schermì Ido.

A poco a poco, tutti i presenti iniziarono a scandire: «Prova! Prova!» finché lo gnomo non fu costretto ad abbozzare.

«E sia!» esclamò Ido. «Che la prova abbia inizio.»

Nihal si trovò caricata sulle spalle di un fante. Cercò Laio e lo vide ridacchiare al suo seguito. «Ehi! Che cosa sta succedendo?»

«Niente, è un’usanza dell’Ordine. In qualità di nuovo Cavaliere, devi solo battere il tuo maestro in un duello coi draghi...»

A Nihal ci volle qualche secondo per realizzare. «Ma io ho bevuto! Come faccio a...»

Quando il fante la scaricò di fronte a Oarf, Nihal iniziò a ridere. «State scherzando, vero? I nostri draghi sono stanchi per il viaggio, a me gira tutto, non ho la mia spada e poi guardate come sono vestita!» protestò, ma le sue parole caddero nel vuoto.

Un Cavaliere le diede una pacca sulla spalla. «La spada ora te la porta Laio, non ti preoccupare. Quanto all’abbigliamento, credo di interpretare il volere di tutti dicendo che devi combattere così.»

I presenti esplosero in un’ovazione.


Nihal scalza, vestita di verde, con in mano la spada di cristallo nero.

Ido spettinato, sorridente, con gli occhi lucidi per l’alcol.

Nihal e Ido, Ido e Nihal, uno di fronte all’altra.

Tra loro, Nelgar. «Le regole sono semplici: vi alzate coi draghi e combattete. Potete usare solo la spada. Vince chi disarma o disarciona l’altro. Manca una posta in gioco. Che cosa vi giocate?»

«Un bacio» disse subito Ido. «Se vinco, Nihal concederà un bacio a...» si guardò intorno «Laio! Sì, dovrai dare un bacio a Laio.»

«Perfetto, sta bene. Se vinco io, però, pipa requisita per una settimana. Hai finito di appestarmi col tuo tabacco.»

«Tanto non hai speranze» ghignò lo gnomo, poi entrambi salirono in groppa ai loro draghi.

Nelgar sguainò la spada e levò la lama al cielo. «Pronti a partire, Cavalieri!»

Nihal sentì Oarf fremere e all’improvviso fu lucida come prima di una battaglia, tesa in ogni muscolo del corpo, pronta alla scatto. Guardò Ido, il suo maestro, e gli scoccò un sorriso beffardo.

Poi, illuminata dalla luna, la lama di Nelgar disegnò un arco nell’oscurità.

Vesa e Oarf scattarono in alto, sempre più in alto, fino a sfiorare la luna piena, a toccare il limpido cielo estivo.

Fu mentre salivano che Ido sferrò il primo attacco, avvicinandosi a Nihal, ma Oarf cambiò immediatamente direzione. La ragazza sedeva diritta sulla schiena del drago, le bastavano le gambe per reggersi in groppa. Afferrò la spada a due mani, fece un lungo giro e infine si lanciò sull’avversario a tutta velocità, piegata in avanti. Solo all’ultimo si alzò e menò un fendente, che però andò a vuoto e le fece perdere l’equilibrio.

Ido si allontanò, rinunciando ad approfittare della situazione. «Ti vedo un po’ brilla» urlò lo gnomo. «Vuoi del vantaggio?»

«Non ti sopravvalutare! Pensa a sconfiggermi, piuttosto» rispose Nihal, mentre ripartiva all’attacco.


Da terra il combattimento era uno spettacolo affascinante: i due draghi, a un’altezza vertiginosa, si avvicinavano sinuosi per poi staccarsi di nuovo e volteggiare liberi, in una sorta di ballo senza fine. In alto, dove si svolgeva la battaglia, delle incitazioni che partivano dagli spettatori non arrivavano che echi confusi.

Ido era rapido, misurato, preciso, mentre Nihal giocava soprattutto di forza e di velocità. Per un po’ si fronteggiarono con attacchi repentini seguiti da fughe e ritirate strategiche, poi lo gnomo si stufò. Si avvicinò a Nihal e la tenne a lungo impegnata in un semplice corpo a corpo. Il rumore delle lame era accompagnato dal respiro affannato dei draghi. Nihal calibrava ogni azione, ogni gesto, e rispondeva con calma a tutti gli attacchi.

«Hai imparato davvero bene, mezzelfo» disse Ido mentre si allontanava.

«Ho avuto un buon maestro, dopotutto» rispose lei, un istante prima di lanciarglisi nuovamente contro.

La battaglia continuò così a lungo. Era una situazione di stallo: Nihal iniziava a essere stanca e sentiva che anche Oarf era esausto. Doveva giocarsela in un altro modo.

«Un ultimo sforzo» sussurrò al drago, poi lo spronò a tutta velocità contro Vesa.

Ido restò fermo ad aspettarla, con il sorriso sulle labbra, sicuro di sé. Oarf continuò ad accelerare. Vesa iniziò a retrocedere, preoccupato.

Non appena l’obiettivo fu abbastanza vicino, Nihal si rizzò su Oarf, chiuse gli occhi e saltò. Quando li riaprì era in piedi sulla schiena di Vesa: la mano libera arpionata ai capelli di Ido, quella con cui brandiva la spada intorno alla gola dello gnomo.

«Abbiamo un vincitore!» disse trionfante.

«Dici?» chiese di rimando il suo maestro, poi la allontanò con una gomitata.

Fu allora che Nihal ebbe un capogiro. Perse l’equilibrio. Si aggrappò con forza a Ido. Caddero entrambi e precipitarono.

Dal basso risuonò il grido del pubblico, seguito poco dopo da un sospiro di sollievo collettivo. Il volo dei due contendenti era stato breve. Intercettati dalla groppa di Oarf, planarono dolcemente e toccarono terra incolumi. Gli applausi coronarono l’impresa.

Laio si precipitò ad aiutare Nihal a scendere. Ido smontò dal drago e si massaggiò la schiena indolenzita. «Sei proprio una maledetta testona» disse, poi strizzò l’occhio a Nihal.

«Allora, chi ha vinto?» chiese la ragazza, ancora col fiatone.

«Direi che avete pareggiato» disse Nelgar. «Peccato, niente bacio e niente requisizione del tabacco. Però c’è ancora la birra che ci attende!»

La festa riprese e proseguì fino all’alba, tra bevute, risate e danze.

Nihal si lasciò andare del tutto; al dolce intontimento si sostituì lo stordimento e infine un senso di smarrimento totale.

Quando la compagnia si disperse, il sole faceva già capolino dietro la fitta foresta che circondava la base. Laio dovette mettersi un braccio di Nihal intorno al collo e cingerle la vita per sorreggerla. Ido li seguì, appena un po’ barcollante. Ce ne voleva per farlo ubriacare.

Entrarono nel buio della capanna. Laio posò Nihal sul letto con dolcezza, si stropicciò gli occhi e se ne andò a dormire, sbadigliando fino a slogarsi la mandibola.

La mezzelfo socchiuse gli occhi. Intravide la sua stanza, lo gnomo che la copriva con il lenzuolo. Tutto aveva contorni irreali. Le sembrava di avere una tempesta nello stomaco. D’un tratto si sentì triste come non mai.

«Ido...» farfugliò. «Sto male...»

«Non preoccuparti, ragazza. Un bel sonno e sarai come nuova.»

Una lacrima le scivolò lungo la guancia. «No, no, sto male... sono un essere spregevole...»

«Che diamine dici?»

«Un ideale... un motivo... io non ho un motivo...»

«Oh, dèi del cielo!» esclamò lo gnomo. «Ti ha preso la sbornia triste! Dormi, Nihal. Va tutto bene. Dormi.»

Ido uscì dalla stanza in punta di piedi. Nihal sentì la porta cigolare sui cardini. Poi richiuse gli occhi e sprofondò in un sonno senza sogni.

18 Il nemico.

Dopo la partenza di Sennar, era stato il consigliere Dagon a fare le sue veci. Il suo ruolo di Membro Anziano, però, non gli aveva permesso di essere una presenza costante nella zona di combattimento della Terra del Vento.

La situazione era drammatica. Il fronte era retrocesso di molto, tanto che ormai si trovava quasi sulla linea di confine con la Terra dell’Acqua. Sembrava che il Tiranno stesse puntando tutto su quel territorio, vi ammassava non solo fammin, ma anche gnomi e uomini. La loro presenza turbava i guerrieri delle Terre libere: alla paura della morte e allo scoramento per la superiorità numerica delle truppe nemiche si univa la sensazione di tradimento. Nel giro di pochi mesi, l’esercito del Tiranno si era impadronito della maggior parte della regione.


«Come, perché?» chiese Nelgar, innervosito. «Perché hanno bisogno di rinforzi!» Non si aspettava che lo gnomo facesse tante storie.

Ido camminava a grandi passi avanti e indietro per l’alloggio del sovrintendente della base. Sembrava nervoso. «Preferirei restare qui dove sono.»

«Non se ne parla neanche. Sei un ottimo guerriero, laggiù c’è bisogno di gente come te, Ido. Comunque non c’è da discutere. Partirete e basta.»

Nihal taceva. La prospettiva di andare a combattere sul fronte della Terra del Vento non le dispiaceva. Era la Terra in cui aveva vissuto da bambina e combattere per quella gente le dava un motivo in più per lottare. Ma evidentemente Ido non era della stessa opinione.

Lo gnomo si accese la pipa e guardò Nelgar negli occhi. «Ci sono ragioni di... opportunità, che consiglierebbero di non mandarmi in quel territorio.»

Nelgar sostenne il suo sguardo. «Non so di cosa parli» disse freddo.

«Da chi è partito l’ordine?»

«Da chi vuoi che sia partito? Da Raven» rispose Nelgar.

Ido batté con violenza il pugno sul tavolo, lasciando Nihal di stucco.

Nelgar si passò le mani sul viso e sospirò. «Ido, non posso farci nulla. Lo sai.»

«Al diavolo, non è colpa tua!» concluse lo gnomo, poi uscì sbattendo la porta.

Nihal lo seguì per cercare di capire che cosa turbasse tanto il suo maestro, ma Ido fu vago e alla fine perfino sgarbato.

«Non mi piace quel posto, d’accordo? E non mi dare il tormento con i tuoi interrogatori! Non sei la sola ad avere brutti ricordi.»

Nihal desistette e si disse che non doveva più pensarci. Anche lei si era tenuta stretta i suoi segreti, in passato. Sapeva bene che le domande a volte possono essere insopportabili. Tuttavia la sua curiosità non si sopì.


Fu così che, dopo più di un anno di assenza, Nihal tornò a calcare le steppe della Terra del Vento. Aveva paura a rimettervi piede, perché era il luogo dove aveva perso tutti i suoi affetti, ma al tempo stesso sentiva che era un passo importante. Se da un lato temeva che il passato tornasse ad assalirla, dall’altro era consapevole di dover superare anche quella prova, o non avrebbe mai potuto mettere la parola fine a quel periodo della sua vita.

Si stabilirono in un campo appena oltre il confine della Terra dell’Acqua, vicino ai resti di una torre distrutta. In quel posto si respirava aria di rassegnazione. Ganna, il mago che faceva le veci di consigliere del campo, era un ragazzino. Di per sé la cosa non sarebbe stata un problema – anche Sennar era giovane – ma il giovane era poco esperto di tattica e di strategia e insicuro fino al parossismo. Durante le riunioni taceva, parlava solo se interrogato e non era capace di tirare fuori una buona idea nemmeno a pregarlo. Uno strazio.

Ido e Nihal non furono certo accolti a braccia aperte: una donna e uno gnomo non erano quello che i Cavalieri consideravano un valido rinforzo. Anche il generale del campo all’inizio li guardò con sospetto, poi si limitò a ignorarli, senza consultarli prima di prendere una decisione. Sembrava uno che ne avesse viste troppe in vita sua. Era magro, neppure troppo anziano, a giudicare dal corpo atletico. Eppure il viso era segnato da molte rughe, le spalle erano sempre curve, gli occhi grigi e spenti. Un uomo stanco della guerra e del sangue, un uomo stanco della vita. Si presentò come Mavern.

La ragazza non se ne preoccupò. Era abituata a quel modo di fare e aveva imparato che, quando si trattava di dare prova del proprio valore, la sua spada valeva più di mille discussioni.

Ido sembrava turbato, ma Nihal era certa che la cosa non avesse nulla a che fare con l’atteggiamento degli altri Cavalieri. Usciva di rado dalla sua tenda ed era diventato taciturno e pensieroso.

Chi invece non tardò a riscuotere la simpatia di tutti fu Laio. Divenne subito la mascotte del campo. I Cavalieri scherzavano con lui e approfittavano dei suoi servigi, tanto che in pratica divenne lo scudiero di tutti. Del resto, come si poteva non volergli bene? Era un ottimo aiutante di campo ed era sempre allegro, sempre disponibile: un raggio di luce nel buio di quella guerra.

Per la prima volta da quando aveva iniziato a combattere, Nihal ebbe la sua tenda personale.

Si adattò presto ai nuovi ritmi dell’accampamento, ma soprattutto si abituò a una vita in cui scendere in battaglia era l’attività principale. Quando stava alla base poteva passare anche settimane senza impugnare la spada, mentre lì i guerrieri avevano appena il tempo di riprendere fiato tra un’azione bellica e l’altra.

Il territorio pullulava di spie, gli attacchi nemici erano frequenti, e quando non subivano offensive, andavano a dare man forte a qualche accampamento vicino.

Nihal si fece valere già nella prima battaglia, durante un attacco a una torre, una delle tante. Trasgredì gli ordini che la volevano in seconda linea, si affiancò agli altri Cavalieri di Drago e si lanciò all’attacco al fianco di Ido. I due erano abituati a combattere insieme, erano efficaci e coordinati come un meccanismo ben oliato e furono di grande sostegno agli altri guerrieri. La torre venne conquistata rapidamente e senza troppe perdite.

La ragazza però non riuscì a evitare una solenne lavata di capo. Un tempo avrebbe fatto fuoco e fiamme per difendere la sua iniziativa, ma quella volta se la sorbì tutta in silenzio e con noncuranza.

«Avete ragione, ho sbagliato. Però ora la torre è nostra, se non sbaglio» disse solo alla fine, guardando Mavern negli occhi.

Quella bravata valse a lei e a Ido un salto in avanti nella stima dei Cavalieri del campo, che a poco a poco iniziarono a considerarli elementi indispensabili per la buona riuscita delle missioni.

Nel giro di un mese, la vita nel nuovo accampamento acquistò ritmi familiari e stancanti. Nihal combatteva molto e riposava poco. Si sentiva a suo agio.


Era una notte afosa, illuminata solo dalla luna piena.

Il caldo non dava tregua e opprimeva l’accampamento. Nihal aveva dimenticato quanto potessero essere soffocanti le notti della sua Terra. Era stanca, non aveva voglia di pensare, il sonno sarebbe stata la medicina migliore per la sua inquietudine. Invece non arrivava, la lasciava boccheggiante ad ascoltare i grilli, che frinivano a tutto spiano a un passo dalla tenda. Nihal odiava quegli insetti, le davano sui nervi. Alla fine uscì a guardare la luna e ad approfittare della brezza sottile che ogni tanto soffiava un alito agonizzante sulla steppa. Si sedette con la spada piantata a terra fra le gambe e chiuse gli occhi. Nel giro di poco si assopì.

Forse fu grazie ai suoi sensi sempre vigili, o forse fu solo un caso, ma a un tratto si svegliò e guardò in alto. Un’ombra nera passava rapida sul disco argenteo della luna. Fu solo un istante e le ci volle un po’ per rendersi conto di che cosa fosse. La consapevolezza arrivò insieme all’urlo della sentinella: «Siamo attaccati!». Il grido finì in un rantolo.

Nihal divelse la spada da terra e si lanciò verso le scuderie. Quello che aveva visto era un drago! Li attaccavano dal cielo! Incrociò i volti tesi dei guerrieri che uscivano dai loro alloggi, gli scudieri che avevano già iniziato a bardare i draghi, i fanti che correvano da una parte all’altra. E poi giunsero i fammin. Sembravano spuntati dal nulla, si lanciavano sulle tende a fare strage di chi si attardava. All’improvviso una luce squarciò la notte e si levò un vento caldo, insopportabile. Parte dell’accampamento divampò in un incendio, mentre in alto sopra di loro volavano gli uccelli sputafiamme. Non c’era tempo, né per Oarf né per l’armatura.

Nihal si dispose in posizione d’attacco solo con la spada e confidò nel buio per non essere riconosciuta. Il suo cuore rallentò, le sue percezioni si fecero più fini e fu pronta per combattere. Si lanciò sui fammin decisa e sicura.

Il campo non riuscì a reagire all’offensiva con prontezza. I più erano intontiti dalle fiamme, dal fumo e dal caldo. Ancora una volta, l’esercito del Tiranno si era mosso con astuzia e abilità.

Nihal vide avanzare Ido. Aveva in mano la spada ed era perfettamente in sé. Si fece largo con la solita calma, sgominando chiunque gli si parasse innanzi, e la affiancò.

«Ce n’è uno in groppa a un drago. È lui che incendia le tende. Va’ a prendere Oarf!» le urlò.

«Non c’è tempo, Ido!»

«Ti copro io! Tu pensa solo a correre» disse lo gnomo, poi con un balzo si fiondò sul fammin che insidiava la ragazza.

Nihal si lanciò di corsa verso la scuderia. Vide nuovamente l’ombra oscurare la luna e incombere minacciosa sul terreno. Fu allora che ebbe una strana sensazione.

Sulle prime le parve un semplice capogiro, ma era qualcosa di diverso. Accelerò la corsa. Abbatté due nemici che le si pararono di fronte e raggiunse il drago, che l’attendeva scalpitante. Infilò un elmo che trovò a terra: era più prudente coprirsi il volto. Non ebbe bisogno di dire nulla, saltò in groppa a Oarf e si alzarono in volo un attimo prima che le fiamme attecchissero anche sulle scuderie.

Dall’alto la situazione apparve in tutta la sua gravità: metà campo era invaso dal fuoco e numerosi cadaveri punteggiavano il terreno; nell’altra metà la battaglia infuriava, ma i fammin erano in superiorità schiacciante. Con le zampe irte di artigli brandivano spade diverse dalle solite, che mandavano strani bagliori rossastri. Nihal planò sul campo, Oarf afferrò un paio di quelle creature al volo e le uccise. Poi scese ancora e raccolse Laio, che correva alla ricerca di un riparo.

«Aggrappati a me e non mi lasciare per nessun motivo» gli ordinò Nihal.

Continuò a mietere vittime col suo drago in mezzo alle file nemiche, sforzandosi di restare calma, di non perdere la concentrazione. Ma era difficile: lo spettacolo era orrido e scoraggiante. Sentiva l’amico stringerla; doveva portarlo da qualche parte, al sicuro. Vide una radura sgombra di nemici e pensò che fosse il luogo ideale.

«Ti porto giù» urlò. «Tu tieniti stretto la spada e se arriva qualcuno ammazzalo, d’accordo?» Sentì il viso di Laio annuire contro la sua schiena.

Dopo che lo ebbe depositato, si alzò di nuovo in volo, per poi scendere in picchiata sulla mischia.

Era costretta a combattere a un pelo da terra e percepiva lo sforzo che facevano le immense ali di Oarf, ma non c’era scelta. Tutto il campo era in fiamme. Non restava che cercare di vendere cara la pelle.

Non sapeva da quanto tempo combatteva, quando a un tratto si sentì assalita da una sensazione di oppressione e un coro di voci gementi le riempì la testa. Quell’urlo disperato le rimbalzò nel cervello. Si dimenticò dov’era e quel che stava facendo. Era la stessa sensazione che aveva provato il giorno della caduta di Salazar. Fu allora che, circondata dal crepitio delle fiamme, con le tempie che le pulsavano e la vista annebbiata, alzò lo sguardo e lo vide.

Era proprio sopra di lei, illuminato dalla luce funerea della luna. Sembrava immenso: un drago, ancora più nero del cielo notturno in cui si librava. Con le enormi ali membranose spalancate, si reggeva a mezz’aria e la guardava fisso, con uno sguardo lucido, senza odio, che le gelò il sangue nelle vene. I suoi occhi erano accesi di sangue, rossi come tizzoni ardenti che covano sotto la brace, e brillavano di una luce sinistra. Un uomo sedeva sull’animale. Un uomo indefinito nei contorni, immobile. Sembrava smisurato ed era nero, come il suo animale. Oarf, il drago possente e forte, che non temeva nulla di quanto vi era in cielo e in terra, tremò.

Si guardarono per un breve momento, ma a Nihal parve interminabile. Era paralizzata da quella figura, incapace di muoversi. Un taglio rosso si aprì nell’immensa figura nera e il drago spalancò la bocca scarlatta in un ghigno luminoso. Allora Nihal poté vedere gli occhi dell’uomo: occhi piccoli e brillanti, occhi da furetto, occhi sicuri. Le urla nella sua mente ebbero il sopravvento, la assordarono. Non capì più nulla, vide solo una vampata rossa andarle incontro, mentre cadeva in un abisso senza fondo. Un grido coprì le voci, un ruggito che pareva una risata di scherno e di vittoria.

Nihal si trovò a terra, protetta sotto l’ala di Oarf. Era intontita, non capiva nulla e sentiva un forte dolore a un braccio.

«Nihal, che ti ha preso? Sei ferita?»

La ragazza guardò imbambolata Ido e non riuscì a rispondere.

«Oarf, portala via di qui, al sicuro» disse lo gnomo, mentre la caricava di peso in groppa all’animale.

Nihal si aggrappò con tutte le sue forze e cercò di riprendere possesso dei suoi pensieri; mentre Oarf spiccava il volo, vide il drago nero scendere sull’accampamento come la morte, seminando distruzione. Di nuovo l’assalto delle voci si fece insopportabile. Allora ricordò e capì: Salazar al tramonto, la pianura incendiata dal sole e in lontananza l’esercito del Tiranno. In alto volava una figura tenebrosa, alata: lo stesso drago che ora aveva davanti agli occhi.


Ci volle un’intera notte di lotta senza quartiere per respingere l’attacco. Dovettero uccidere i fammin a uno a uno, perché per quelle bestie non esisteva ritirata. Il guerriero in groppa al drago nero li abbandonò prima dell’alba, quando era ormai chiaro che non sarebbero riusciti a prendere il campo.

I primi raggi del sole inondarono l’accampamento di una luce impietosa. Non era rimasta una sola costruzione in piedi. Avevano mantenuto la posizione, ma nulla di più. Il campo era perduto.

Quando Nihal lo vide, Ido si aggirava tra le ceneri, esausto. Era stato l’anima della resistenza e aveva combattuto senza tregua, incurante delle ferite, del caldo, del fuoco, della morte. Ora era sfinito. Un passo in più e sarebbe crollato.

La ragazza fece atterrare Oarf e gli corse incontro. «Ido, stai bene?» chiese allarmata, mentre passava in rassegna le ferite sul corpo dello gnomo.

«No, non sto bene, ma neanche tanto male come sembra» rispose lui con voce roca. La guardò e gli occhi si fermarono sull’ampia ustione sul braccio. «Sei ferita.»

«Non è niente» rispose lei. «Ora dobbiamo andarcene.»

Ido scosse il capo. «No, qualcuno potrebbe essere ancora vivo, in mezzo a questo macello. Devo trovarlo» mormorò. «Dobbiamo cercare...»

Nihal lo interruppe. «Vieni via, Ido. Vieni via.»


I superstiti, un centinaio di persone, poco più della metà degli originari abitanti del campo, furono riuniti in una radura poco distante. Era stata una sconfitta su tutta la linea. La perdita del campo era irreparabile e il numero dei feriti molto alto.

«Nihal, vuoi dirmi che cosa ti è capitato?» chiese Ido, quando si fu ripreso.

Il volto della ragazza si fece serio, mentre ricordava l’orribile sensazione che aveva provato davanti al drago nero.

«Allora?» insistette lo gnomo.

«Io conosco quel guerriero.»

Negli occhi di Ido passò un’ombra. «Quale?»

«Quello sul drago nero. Lo conosco, Ido. Quando Salazar venne assalita dall’esercito del Tiranno, io ero sulla terrazza della torre, insieme a Sennar.

Ho visto le lance dei fammin scintillare alla luce del tramonto. Ho visto l’esercito avvicinarsi. E alla sua testa c’era quell’uomo.»

Ido rimase in silenzio.

«Ieri notte, quando me lo sono trovato davanti, non ho capito più niente. È per questo che il suo drago mi ha colpita.»

«È Dola» mormorò Ido. «L’uomo di ieri notte si chiama Dola.»

Nihal guardò lo gnomo negli occhi. «Sennar mi ha parlato di lui. Dola... È lui che ha distrutto la mia città. È per colpa sua che mio padre è morto.»

Ido sostenne il suo sguardo, poi voltò la testa e chiuse gli occhi.


Si spostarono in un accampamento a poche miglia di distanza, sempre lungo il confine ma più verso occidente. Se si prestava attenzione, si poteva sentire il rumore delle correnti impetuose del Saar. Là Ido e Nihal ebbero il primo momento di pausa dal giorno in cui era avvenuto l’attacco. Da quella notte ciascuno dei due, a modo suo, era stato impegnato a cercare di risollevare la situazione. Non si erano lasciati scoraggiare, anzi, avevano infuso coraggio agli altri e supportato i generali nel rimettere insieme le file dell’esercito.

Nihal sapeva che Ido aveva apprezzato il modo in cui si era comportata. Nei suoi gesti sicuri, nella sua calma determinazione, lo gnomo aveva letto che ormai era una persona diversa, un guerriero maturo e affidabile. Ma lei non si sentiva affatto così. L’incontro con Dola l’aveva scossa e le aveva risvegliato ricordi insopportabili.

«Non riesco a smettere di pensare a quel guerriero il giorno dell’attacco a Salazar» disse una sera, mentre se ne stava a guardare il cielo estivo con Ido. «Ora me lo ricordo bene, sai? Cavalcava il suo drago nero e sotto di lui l’esercito si stendeva come la pece.» Si girò verso Ido. «Sai che cosa ha fatto alla gente della mia città? Li ha chiusi nella torre in fiamme e li ha lasciati bruciare vivi. Uomini, donne e bambini.»

Ido aspirò con calma dalla pipa e buttò fuori una nuvola di fumo compatto. «I generali del Tiranno si comportano tutti così.»

Nihal alzò il viso verso le stelle, pensierosa. «Credo che dovremmo andare a stanarlo. Voglio chiedere al generale di organizzare una spedizione contro di lui a cui potermi aggregare.»

Ido tacque per qualche istante, poi sbuffò un’altra nuvola di fumo. «Mi sembra una pessima idea.»

«Perché?»

«Ti pare che questo distaccamento sia in grado di affrontare un nemico come Dola? Guardati intorno, Nihal. Siamo stati decimati, siamo allo stremo delle forze. Non è il momento per i gesti dimostrativi. Dola è un guerriero potente, comanda la Terra del Vento. Ed è spietato.»

«Ido, quell’uomo ha ucciso mio padre, sterminato i miei amici, raso al suolo la mia città!» Senza accorgersene, Nihal aveva alzato la voce. «Quell’uomo va fermato. E voglio essere io a farlo!»

Ido si tolse la pipa di bocca e la guardò a lungo, in silenzio. «Chi è che sta parlando, Nihal?» chiese alla fine.

La ragazza lo guardò senza capire. «Io... io sto parlando.»

«Quale parte di te?» ribatté lo gnomo scandendo le parole.

Nihal si sentì le guance in fiamme. «So cosa stai pensando, ma ti sbagli.»

«Non mi sembra, da quel che dici» rispose Ido.

«Non è per vendetta» mormorò la ragazza.

Ido si rimise la pipa in bocca. «E per cosa, allora?»

«Per giustizia.»

«Ascoltami, Nihal. Se mai ci sarà una spedizione contro Dola, e ti assicuro che non ci sarà, tu potrai anche partire con tutti i buoni propositi di questo mondo, convinta di andare a compiere una semplice missione di guerra, ma quando ti troverai di fronte a quell’uomo...» Ido lasciò il discorso in sospeso, poi scosse la testa. «Non metterti alla prova, Nihal. Non farlo.»

Dopo quella sera, Nihal non ritornò sull’argomento con il suo maestro, né si azzardò a proporre missioni suicide al generale, ma nel suo cuore e nella sua mente l’immagine di Dola non poteva essere cancellata. Il ricordo di quell’immenso animale nero e dei suoi occhi rossi che la fissavano dal profondo dell’inferno non la lasciava mai. Quegli stessi occhi forse avevano fissato il cadavere di Livon, steso nella fucina a coprire il suo sangue, si erano posati sui tanti abitanti di Salazar che lei conosceva prima che le fiamme esaurissero le loro esistenze. La rabbia le saliva alla gola e sentiva che doveva fare qualcosa. Sapeva che Ido aveva ragione: dare la caccia a quell’uomo significava giocare col fuoco. Sapeva anche che il suo desiderio di vendetta non si era sopito e non aspettava altro che un momento come quello per assalirla di nuovo. Non era vendetta, quella che cercava? Non voleva forse riscattare il sangue di tutti i suoi concittadini che Dola aveva destinato a una morte orrenda? No, non è così. Dola è un nemico e io sono un Cavaliere di Drago. È per questo. È solo per questo.

La decisione di Nihal maturò in fretta. Sarebbe stata lei, cresciuta a Salazar, a mettere fine al regno di Dola. Avrebbe fatto in modo che la città distrutta dal Tiranno si prendesse la sua rivalsa su colui che l’aveva ridotta in cenere. Dopo la caduta di Dola, per l’esercito delle Terre libere sarebbe stato più facile riconquistare la Terra del Vento.

Era determinata e galvanizzata dal suo progetto. Per la prima volta dopo tanto tempo sentiva di essere impegnata in qualcosa di importante. Forse è così che ci si sente quando si insegue un ideale, quando si sa dove sta andando la propria vita , si diceva.

Quando ebbe trovato tutte le giustificazioni di cui aveva bisogno, smise di pensarci. Non si fece altre domande, perché in fondo all’anima sapeva che le risposte che avrebbe trovato non le sarebbero piaciute.


A quella notte funesta in cui l’accampamento era stato raso al suolo seguì un periodo di relativa calma. I feriti si rimisero in piedi, i soldati superstiti furono integrati nelle truppe del campo che li aveva accolti e i generali misero a punto nuove strategie.

A Nihal l’occasione per affrontare Dola si presentò dopo quasi un mese di inattività. I vertici del campo avevano deciso di tentare una spedizione contro un accampamento nemico a oriente. Se fossero riusciti a far cadere la loro roccaforte, sarebbero potuti partire da lì per cercare di riguadagnare terreno nell’entroterra.

Le riunioni per pianificare l’azione ebbero inizio una settimana prima della data dell’attacco e vi parteciparono tutti i Cavalieri di Drago.

Per la prima volta Nihal dette il suo contributo. Non era mai stata interessata alle strategie; ai tempi dell’Accademia le lezioni teoriche la annoiavano a morte. Però, nonostante fosse appena un anno che calcava i campi di battaglia, aveva combattuto molto e l’esperienza non le mancava. Quando avanzò la sua proposta su come disporre le truppe in vista dell’assalto, si preparò a vedersela rifiutata.

Invece il generale, dopo averla ascoltata con attenzione, disse che gli sembrava una buona idea. «Tu e Ido avrete a vostra disposizione le truppe sullo schieramento orientale, cento uomini ciascuno. Attaccherete al nostro accenno di ritirata, chiudendo sui lati» concluse.

Ido si tolse la pipa di bocca per lo stupore. «Stasera nevica» sussurrò a Nihal, poi si rificcò in bocca la pipa con aria soddisfatta.

Nihal trattene a stento un sorriso. Aveva una doppia occasione: comandare degli uomini, ma soprattutto mettere le mani su Dola.


La mattina della battaglia Nihal aveva il cuore in subbuglio. Camminava nella steppa, alla testa dei suoi soldati, seguita da Oarf, e cercava inutilmente di calmarsi. Fino a quel giorno, era sempre riuscita a frenarsi. Era ciò che le aveva insegnato Ido: freddezza, prudenza, autocontrollo. Quella mattina, invece, non riusciva a mantenere la concentrazione per più di qualche minuto. Da quando si era svegliata non aveva fatto altro che pensare a Sennar. Le capitava ogni volta che le succedeva qualcosa di importante, o che la sua vita era a una svolta: si domandava che cosa avrebbe fatto lui al suo posto. Da quando era partito, però, si chiedeva anche se l’avrebbe mai rivisto.

Ido, al suo fianco, sembrava invece l’immagine della tranquillità. Fumava la sua pipa dall’alto di Vesa, che affrontava flemmatico la steppa un passo dopo l’altro.

Lo gnomo calò lo sguardo su di lei nel momento in cui Nihal si tergeva il sudore dalla fronte. Era pallida. «Va tutto bene?»

«Certo. È il caldo...»

«Era da un po’ che non ti vedevo così agitata.»

Lei alzò il viso e si sforzò di sorridere. «È la prima volta che mi capita di guidare dei soldati» rispose, ma Ido continuava a fissarla. Nihal si chiese come facesse a cogliere sempre il suo stato d’animo. Proprio come Sennar...

«È una battaglia come le altre» disse lo gnomo.

Nihal tirò ancora le labbra in quell’insopportabile sorriso forzato che le veniva fuori ogni volta che nascondeva qualcosa al suo maestro.

Quando furono in vista dell’accampamento che dovevano assaltare, una linea color ocra all’orizzonte, la testa di Nihal si vuotò del tutto e il suo cuore prese a battere con regolarità. Si fermarono sulla cima di una collina, in attesa. Ai loro piedi, videro una distesa di tende di un marrone spento, almeno una cinquantina, disseminate in cerchi concentrici nel raggio di mezza lega. Il puzzo delle bestie che ci vivevano arrivava fin lassù e prendeva alla gola. Al centro, una costruzione di legno scuro. Dola. Quella è la capanna di Dola, si disse Nihal, e il suo cuore prese a galoppare.

La battaglia ebbe inizio. Mentre i fanti scendevano a precipizio e divoravano la pianura a larghi passi verso l’accampamento, Nihal estrasse la spada. Il suo riflesso accecava, nella luce splendente del sole estivo. Salì su Oarf e fu affiancata da Vesa. Anche Ido aveva sguainato la spada e la teneva stretta in pugno. Più di una volta Nihal si era chiesta dove si fosse procurato un’arma così: sull’elsa c’erano simboli strani, alcuni raschiati via a forza, altri incisi profondamente. Erano rune, forse, di una lingua che lei non conosceva.

«Partiremo al primo segno di ritirata» disse Ido ai soldati.

Nihal strinse l’elsa.

Il momento dell’attacco arrivò. Il contingente guidato dallo gnomo e dalla mezzelfo scattò in avanti gridando. L’effetto fu quello sperato: chi era impegnato a combattere nella piana non si aspettava un secondo fronte di carica. Le prime linee riuscirono a penetrare nel cuore dell’accampamento senza troppe difficoltà.

In groppa a Oarf, Nihal combatteva come al suo solito, colpendo chiunque le si parasse innanzi, ma al contempo si guardava intorno. Del guerriero sul drago nero sembrava non esserci traccia e Nihal trovò strano che in un momento tanto grave Dola non arrivasse a dare man forte ai suoi soldati. Tra loro c’erano molti uomini, e altrettanti gnomi. Si erano venduti al Tiranno, lottavano contro le loro stesse Terre. Nihal si chiese che cosa li attraesse tanto in quell’uomo.

Si sforzava di restare concentrata sulla battaglia e guidava gli uomini che le erano stati affidati, ma i suoi occhi non si stancavano di scrutare ovunque.

All’improvviso, da un gruppo di tende in lontananza si alzò un lembo di fuoco, che investì chiunque combattesse a terra, soldati dell’esercito delle Terre libere e fammin, bruciando ogni cosa.

La bestia nera parve emergere dalle fiamme, come un demone, e si alzò in volo con pochi potenti battiti d’ali. Nihal sentì il cuore in gola. Dola faceva il suo ingresso in battaglia, armato di una lunga lancia e completamente ricoperto di un’armatura bruna che non lasciava intravedere nulla del suo corpo. Il ruggito possente del drago riempì l’aria e, nonostante il sole brillasse, sembrò che sul campo fossero calate le tenebre.

Nihal spronò Oarf, mentre mille voci le rimbombavano nella testa. «Dola!» urlò a squarciagola, poi si gettò su di lui con la spada in avanti.

Il primo colpo mancò il bersaglio, perché il cavaliere lo schivò con facilità. Nihal si allontanò di poco. Il sudore le scorreva a rivoli lungo le guance, sentiva la furia montare. Fece rallentare Oarf e invertì la direzione. Ora il nemico era dritto davanti a lei. Portava una maschera terribile, buia come la notte, sotto la quale scintillavano due punti luminosi che la scrutavano indecifrabili.

A Nihal sembrò che Dola ridesse. Sì, rideva di lei, della sua spada, del suo drago, della sua città. Un grido furibondo le salì alla gola. Si avventò su di lui e in quel momento fu il drago nero a ridere. Spalancò la sua bocca di vulcano e le vomitò addosso una vampata rosso sangue. Oarf schivò la fiamma con una brusca virata e Nihal ripartì all’attacco. Ancora una volta il guerriero eluse il fendente. Sotto la maschera risuonò un sogghigno sarcastico.

«Non ridere di me!» urlò Nihal, quindi si gettò su Dola con foga, brandendo la spada. Il furore le fece perdere il controllo. Stai calma. Stai calma, maledizione! I suoi colpi andavano a vuoto uno dopo l’altro, mentre quelli vibrati dal suo avversario erano vigorosi e rischiavano di disarcionarla ogni volta. Quell’uomo era dotato di una forza che Nihal non aveva mai incontrato in nessun nemico, una forza tale che dovette afferrare la spada a due mani per poterla contrastare. Ma il suo corpo era strano. Le sue braccia e le sue gambe non erano normali.

Nihal ci mise un po’ a capire: Dola aveva la stessa altezza, le stesse proporzioni di Ido. Il guerriero più potente dell’esercito del Tiranno era uno gnomo.

Nihal iniziava a essere stanca ed era sempre più furiosa. Perché non riusciva a colpirlo? Lo gnomo non si scomponeva, ribatteva a ogni fendente con una mano sola. Le voci le sussurravano di dare tutto, di perdersi in quella battaglia. Si sforzava di restare lucida, ma il suo cuore batteva impazzito, i muscoli tremavano per la tensione. Ora! Colpiscilo ora!

Quando la lama di cristallo nero riuscì a scalfire l’armatura di quell’essere, Nihal urlò di gioia, ma il gridò le morì sulle labbra. Dola le mostrò con tracotanza il braccio. Sotto gli occhi stupiti della ragazza, la scalfittura si riparò da sola e scomparì.

Le voci la intontirono, la disperazione la sommerse come una marea inarrestabile. Sentì Oarf gemere e il sangue del suo drago inzupparle la coscia. Fu allora che Nihal perse la testa. Lanciò un urlo, preparò un fendente dall’alto e calò la spada con tutta la forza che aveva. Dola alzò semplicemente il braccio e fermò il colpo con una sola mano. Si trovarono vicinissimi. Nihal poteva sentire il respiro regolare del suo avversario e per un istante ne intravide il sorriso maligno attraverso l’elmo.

Poi un dolore insopportabile la percorse da capo a piedi. Nihal sbatté gli occhi una, due volte. Intravide la lancia dello gnomo che veniva estratta piano dal suo fianco. Non si accorse neppure di cadere all’indietro.

Precipitò sul campo nemico, priva di sensi, in mezzo ad altri corpi senza vita. Non ci fu Oarf ad attutire la sua caduta. Il drago era a terra, con una gamba immobilizzata. Sputò fuoco e fiamme per tenere lontani i fammin dal corpo della sua compagna. Poi la prese fra i denti e iniziò faticosamente a trascinarla via nella polvere. Non si fermò fino a quando non furono lontani dalla battaglia, al sicuro.

19 La convalescenza di Nihal.

Durante il delirio, Nihal fu perseguitata dagli occhi roventi del drago nero e da quelli gelidi e maligni di Dola. Li vedeva inseguirla nel buio e schernirla. In sogno si guardava fuggire attraverso un’oscurità senza fine. Sentiva i propri passi rimbombare su un suolo invisibile e, per quanto corresse, il fiato del drago nero era sempre più vicino, un alito di fuoco che la insidiava fino ad avvolgerla e a dilaniarle le carni.

Poi ancora immagini di morte. Salazar che implodeva e rovinava a terra, squassata dall’incendio. Livon che le diceva: “Non mi hai ancora vendicato”. Il suo popolo che ripeteva come una nenia: “Dov’è il sangue di chi ha sparso il nostro? Dov’è la vita di chi ha spento la nostra?”.

Fu un incubo interminabile. Poi, a poco a poco, il rumore e le urla si spensero. Il terrore che la attanagliava si dissolse. Alla fine furono solo buio e silenzio e calma.

Forse questa è la morte. Sono morta.


Quando socchiuse le ciglia, la luce del giorno le ferì gli occhi.

Era in una tenda, qualcuno le teneva la mano. Voltò piano la testa. «Laio...» sussurrò.

«Va tutto bene» rispose il ragazzo, mentre le accarezzava i capelli. «Va tutto bene. Davvero.»

Il suo mormorio la aiutò a riaddormentarsi e finalmente scivolò in un sonno sereno.

Quando tornò in sé e il bruciore della ferita le diede tregua, poté ascoltare da Laio la dinamica del suo salvataggio. Oarf l’aveva portata fino alle retrovie e l’aveva consegnata alle cure degli scudieri.

«Come sta?» chiese preoccupata.

«La ferita era profonda, ma ora si sta rimarginando» disse il ragazzo. Poi la guardò con aria di rimprovero. «Che cosa ti è venuto in mente, Nihal?»

«Non capisco cosa intendi» si schermì lei.

Laio scosse la testa. «Non prendermi per tonto, Nihal. Quell’uomo è troppo forte per te, non dovevi farti trascinare fino a quel punto.»

Nihal non rispose. Era infuriata, sopraffatta da una collera cieca e divorante.

Non solo Dola l’aveva sconfitta, ma aveva ferito il suo drago. Non poteva tollerare l’idea che anche Oarf avesse rischiato di morire per mano di quell’uomo. Distruggerlo non era più una semplice sfida: era una necessità.

Qualche giorno dopo si presentò al suo capezzale anche Ido. Lo gnomo non era messo bene: aveva una ferita a un braccio e sembrava esausto.

«Stavolta mi hai fatto davvero preoccupare, maledizione!» esordì non appena ebbe varcato la soglia.

Nihal rise, ma lo gnomo non rispose con altrettanta giovialità. «Come è andata la battaglia?» chiese allora la ragazza per cambiare argomento.

«La sera del giorno in cui sei stata ferita ci siamo ritirati e abbiamo eretto questo accampamento» disse, mentre si sedeva di fianco alla branda. «La battaglia è diventata un assedio, ma al momento siamo in una situazione di stallo.»

«Chi mi ha curata?»

«Ganna. È uno stratega disastroso, ma come mago non è male.»

Nihal guardò le coperte. «Ido, la lancia di Dola ha penetrato la mia armatura.»

«Lo so. Hai un fianco squarciato.»

«Ma il cristallo nero è il materiale più resistente del Mondo Emerso. Come è possibile che...»

«Nihal, Dola non è un guerriero qualunque. È a stretto contatto col Tiranno. Ha superato molti limiti, molti più di quelli che riesci a immaginare. È per questo che ti avevo consigliato di evitarlo.» Ido le lanciò un’occhiata di rimprovero.

Nihal capì che il suo maestro non voleva infierire, ma che non approvava l’impresa che l’aveva portata in quel letto.

«Eravamo molto vicini quando mi ha colpito. Ha avuto tutto il tempo di prendere la mira, non poteva sbagliare il colpo» disse la ragazza. «Sai cosa significa?» insistette, ma lui si ostinò a tacere. «Ido, rispondimi: mi ha risparmiata?» Silenzio. «Ti ho fatto una domanda. Dola mi ha risparmiata?»

«Non ha importanza.»

«Per me ne ha, invece. Ha ferito il mio drago e si è fatto beffe di me, così come si è fatto beffe di tutta la gente della mia città!» Nihal alzò la voce. «Mi ha lasciata in vita per questo. Per dirmi che per lui non significo niente, che non sono neppure un pericolo!»

Una fitta al fianco la costrinse a tacere.

«Sì, ti ha risparmiata!» sbottò Ido. «E allora? Ringrazia il cielo di essere ancora viva.»

«Dola è uno gnomo, lo sapevi?» chiese Nihal.

Ido si alzò senza una parola e si diresse verso l’uscita della tenda.

«Aspetta! Lo conosci, hai già combattuto con lui? Perché non vuoi parlarne, maledizione!»

Ido si voltò stizzito. «Non lo conosco! E sono preoccupato per te. Possibile che tu non capisca che cosa ti stia succedendo?»

A Nihal tornarono in mente gli incubi che aveva avuto mentre lottava.

«Non voglio che tu resti qui» tagliò corto Ido. «Ti ho fatto dare una licenza di due settimane, che passerai nella Terra dell’Acqua. Lì ti rimetterai in sesto e tornerai quando sarai di nuovo in te e avrai dimenticato tutta questa storia.»

Nihal provò a sollevarsi dal cuscino. «No! Io...» Il dolore le mozzò il fiato. Impallidì.

Ido tornò indietro. Non era più arrabbiato o deluso. «Io voglio solo che tu rifletta, Nihal. Fai una pausa e pensa a quel che hai conquistato in questi mesi. Nient’altro. Partirai domani» disse senza ammettere repliche, poi uscì.


Laio insistette per andare con lei e Nihal a sua volta sollevò un putiferio per poter portare Oarf con sé. Alla fine dovettero accontentare sia lo scudiero sia il Cavaliere e partirono tutti e tre insieme, accompagnati da una guida. Quando Nihal vide Oarf, quasi si commosse. La ragazza non poteva muoversi, ma avrebbe voluto appendersi al collo enorme del drago e chiedergli scusa. Lo guardava con gli occhi lucidi e anche lui la fissava, bianca come un lenzuolo e stesa sulla brandina, come per dirle che un Cavaliere e il suo drago condividono lo stesso destino ed era normale che ora entrambi fossero feriti.

Il mago che si era occupato di Oarf era stato davvero bravo, forse anche più di quello che si era occupato di Nihal. Una lunga cicatrice gli segnava una zampa, ma il drago poteva dirsi guarito.

Il viaggio fu piacevole. La portantina che era stata allestita per Nihal era comoda e il paesaggio, che si intravedeva in lontananza, della Terra dell’Acqua, solcata dalle sue mille sorgenti, lasciava come sempre senza fiato. Dopo i campi di battaglia, di fronte a quello spettacolo meraviglioso Nihal ricordò che c’era una vita senza la guerra, una vita a cui forse, un giorno, quando avesse cessato di cercare se stessa nel sudore della battaglia, avrebbe preso parte. La prima volta che la ragazza era andata dalla Terra del Vento a quella dell’Acqua, tre anni addietro, il passaggio dall’una all’altra era appena percepibile, ma ora le cose erano molto diverse. Dallo squallore delle steppe bruciate dal fuoco di troppe battaglie, si passava all’improvviso alla lucentezza di una terra ancora vergine e feconda. Al confine, a segnare il passaggio da un regno all’altro, Nihal vide una sorta di barriera azzurrina.

«Che cos’è?» chiese alla guida.

«Cosa?»

Nihal tirò fuori un braccio dalla portantina. «Quella striscia là in fondo» disse indicando lontano.

«Siete una maga?» chiese l’uomo.

«No. Diciamo che conosco abbastanza la magia» rispose Nihal.

«Ah, ecco, ora si spiega. È la barriera che hanno eretto le ninfe della Terra dell’Acqua contro l’esercito del Tiranno. Solo chi conosce la magia può vederla.»

«Io non vedo niente» disse Laio, che si era sporto dal cavallo e strizzava gli occhi verso l’orizzonte.

«Un gruppo di ninfe la tiene in piedi notte e giorno.»

Se Nihal aguzzava la vista, poteva addirittura vederle, quelle evanescenti figure d’acqua. Erano in piedi a qualche braccio dalla barriera, erette in tutta la loro bellezza, le mani diafane rivolte verso il confine. I loro volti erano assorti e i lunghi capelli scossi dal soffio del vento. Da quei visi concentrati emanava un senso di malinconia, di cose perdute per sempre, di vite consumate nel sacrificio e nella solitudine.

Nihal sentì quel sentimento avanzare verso di lei come nebbia in una vallata, per poi avvolgerla. Ebbe un capogiro e le parve di udire le voci di quelle creature che avevano scelto il sacrificio e rinunciato alla vita, ma che non potevano dimenticare la dolcezza di un’esistenza normale. Le giunse l’eco di una litania immensamente triste e udì le parole della formula con cui le ninfe mantenevano in piedi la barriera. Era come un canto straziante, carico di dignità e di dolore.

Nihal conosceva il tormento di chi sa di avere perduto qualcosa che non potrà mai più essere recuperato. Distolse lo sguardo da quelle creature infelici.


Si stabilirono in un villaggio poco distante dal confine. A ridosso delle case c’era il bosco, tra i cui alberi le ninfe trovavano riposo. Una specie di base dell’esercito completava il panorama.

Nihal trascorse i primi giorni a letto e quel riposo forzato non fu poi così spiacevole. Era troppo stanca e indebolita per poter pensare ad altro che non fosse una pronta guarigione.

Furono alcune ninfe a occuparsi della sua ferita. La prima volta che una di loro si presentò nel piccolo alloggio e le disse che era lì per curarla, la mezzelfo rimase stupita. La creatura eterea le si avvicinò lentamente, procedendo come se fosse sospesa dal suolo. Poi la toccò. Nihal non aveva mai avuto un contatto fisico con le ninfe. Sembravano fatte di acqua pura e lei aveva sempre pensato che fossero quasi impalpabili. Invece la mano che si posò con delicatezza sul suo fianco era fredda, ma corporea e tangibile. Il senso di refrigerio che trasmetteva pulsava di vita e le diede una sensazione di benessere che neppure le più potenti formule di guarigione di Sennar erano riuscite a farle provare.

«È una magia?» chiese Nihal.

La ninfa sorrise. «Se così si può dire... Per voi uomini ha senso parlare di magia, voi siete disgiunti dalle forze naturali, non potete afferrare la vita che scorre nella terra o negli alberi, o nell’acqua che è nostra madre. Ma per noi è diverso: noi stesse siamo natura e dunque siamo quella che voi chiamate magia.»

Grazie a quelle cure Nihal poté alzarsi dal letto, ma dal momento in cui lo fece il suo spirito irrequieto ricominciò a tormentarla. La licenza era di due settimane e non ne era passata nemmeno una. Si chiedeva come avrebbe fatto a resistere. Nei primi giorni di convalescenza non ci aveva pensato, ma ora le immagini della sua sconfitta la ossessionavano. Rivedeva il ghigno del drago e gli occhi di Dola, e sentiva che la partita non era chiusa.

Iniziò a girovagare per i dintorni del villaggio, seguendo il corso dei mille rigagnoli che solcavano quella terra. Il filo dei suoi ragionamenti si dipanava tortuoso come il percorso delle acque e si avvolgeva sempre intorno allo stesso pensiero: Dola. Neppure lo splendore del paesaggio riusciva a distoglierla da quel nome. Non poteva tollerare l’idea che Dola fosse ancora libero di fare quel che voleva della Terra del Vento, della sua patria, della sua casa. Non avrebbe trovato requie finché non l’avesse sconfitto.

Una sola cosa la preoccupava: l’armatura dello gnomo. Quando era riuscita a colpirla, la scalfittura si era aggiustata da sola. Doveva trattarsi di un incantesimo del Tiranno. Con un nemico come quello non bastava la spada: bisognava ricorrere alla magia.

Fu una sera, mentre si arrovellava su chi consultare per trovare una soluzione, che tutti i pezzi andarono al proprio posto.

Forse dovrei tornare alla biblioteca di Makrat. Potrei escogitare un modo per distrarre quell’insopportabile bibliotecario e consultare i libri neri, quelli nella zona proibita. Lì ci saranno sicuramente formule in grado di...

Nihal ebbe un sussulto. Come aveva fatto a non pensarci prima? Megisto! Secondo gli Annali della lotta al Tiranno era vivo, imprigionato chissà dove proprio nella Terra dell’Acqua. Era Megisto che doveva cercare! Chi meglio di lui poteva conoscere la magia del Tiranno? Chi, se non un mago che era stato suo servo fedele?


Il giorno seguente, durante le consuete cure della ninfa, Nihal si fece coraggio e decise di tentare. «Cerco una persona. Forse tu sai dove posso trovarla...»

La ninfa continuò il suo lavoro, passando dolcemente le mani sulla ferita.

Nihal prese quel silenzio come un incoraggiamento a proseguire. «Si tratta di Megisto» disse tutto d’un fiato.

Le mani della ninfa ebbero un tremito. «Megisto è un rinnegato» disse, senza alzare gli occhi dalla ferita.

«Lo so. Ho bisogno di parlargli.»

La ninfa scosse la testa. «Non dovresti cercarlo per nessun motivo. Nessuno dovrebbe.»

«Ascoltami, ti prego» insistette Nihal. «Chi mi ha ridotta così è un terribile nemico, uno dei guerrieri più crudeli del Tiranno. Dovrò affrontarlo di nuovo e voglio sconfiggerlo. Ma per farlo ho bisogno dei consigli di chi conosce le formule proibite. Ho davvero bisogno di sapere... Ti prego, dimmi come trovarlo.»

La ninfa tacque a lungo, senza smettere di occuparsi della ferita, tanto che Nihal credette di aver fallito nel suo intento. Poi, quando ebbe finito, si alzò e si diresse verso l’uscita dell’alloggio, in silenzio e con un’espressione imperscrutabile sul viso.

Giunta sulla soglia, si voltò verso la ragazza. «Nel posto più buio del bosco a settentrione di questo accampamento c’è una piccola radura» disse con un filo di voce. «Non puoi sbagliare, la riconoscerai perché ha una roccia al centro. Vai lì al sorgere della luna e attendi. Lo incontrerai senza doverlo cercare.»

Nihal sorrise. «Grazie, davvero.»

«Non è un favore quello che ti ho fatto» mormorò la ninfa, poi uscì.


Nihal non resistette. Il sole aveva appena iniziato a calare quando, avvolta nel mantello nonostante il caldo, sgattaiolò fuori e raggiunse il capanno ai margini del villaggio che era stato adibito a scuderia di Oarf. Quando il drago la vide, si eresse in tutta la sua altezza e la salutò con un grugnito di soddisfazione.

«Vado a caccia di rocce, Oarf. Che ne dici di accompagnarmi?»

Il drago abbassò la testa per lasciarla salire.

«Come farei senza di te?» disse Nihal con un sorriso.

Si alzarono in volo e si diressero a settentrione, sorvolando la foresta a bassa quota. Alla luce del tramonto il bosco assumeva sfumature più cupe e nel cielo in fiamme risuonavano solo i richiami degli uccelli e il battito ritmico delle ali di Oarf.

Nihal teneva lo sguardo fisso a terra. Vide dall’alto una fitta rete di ruscelli, un altopiano, file ordinate di alberi e intricate macchie di vegetazione. Scorse anche la faglia rocciosa all’interno della quale era stato prigioniero Laio. Continuò ad aguzzare la vista, finché non individuò il luogo che cercava: Uno spiazzo erboso irregolare, circondato da alberi ad alto fusto, al cui centro spiccava un grosso masso.

Fece atterrare Oarf vicino alla pietra e smontò con una certa fatica, perché la ferita le doleva ancora.

Si guardò intorno. “Lo incontrerai senza doverlo cercare” aveva detto la ninfa. Il mago doveva essere già lì, ma nella radura c’era un silenzio perfetto e nessuna traccia di una presenza umana.

Nihal si innervosì. Non sapeva che cosa doveva fare. Si sedette davanti alla roccia, mentre Oarf la guardava con aria interrogativa.

Il sole scomparve dal cielo, le ombre a terra si allungarono, la notte calò a poco a poco, ma Megisto non comparve.

Nihal si sarebbe addormentata, se non fosse stato per la rabbia che cresceva. Non le risultava che le ninfe avessero senso dell’umorismo, ma sospettava che quella creatura si fosse burlata di lei.

Poi, tutto a un tratto, quando il primo raggio di luna ne sfiorò la superficie, la roccia davanti a cui si era acciambellata sembrò vibrare impercettibilmente. La ragazza sbatté le palpebre e pensò che gli occhi la stessero ingannando, ma proprio in quel momento, a poco a poco e silenziosamente, sulla pietra si disegnarono un volto, un busto, gli arti e infine la figura di un uomo.

Quando la luce argentea l’ebbe completamente illuminata, la roccia finì la sua metamorfosi e si trasformò in un vecchio malconcio, con la faccia scolpita dalle rughe, una barba canuta di straordinaria lunghezza e pesanti catene strette intorno ai polsi e alle caviglie. Nihal trattenne il respiro. Conosceva quell’uomo, perché l’aveva salvata e curata dai briganti. Il vecchio della grotta era Megisto.

20 Discesa agli inferi.

Il vecchio sorrise a Nihal. «Complimenti per le trappole, non ti credevo capace di tanto. Suppongo che tu sia riuscita a liberare il tuo amico...»

Nihal rimase senza fiato: l’idea di essere stata per giorni nelle mani di un uomo del Tiranno le fece accapponare la pelle. «Megisto...» mormorò.

Il vecchio non smise di sorridere. «Già, Megisto. Il rinnegato, il maledetto, l’antico sterminatore di ninfe...» La ragazza continuava a guardarlo, ammutolita.

Megisto si sedette con calma sull’erba. «Non so come, ma sentivo che ci saremmo rivisti. Ebbene? Sei forse venuta a sdebitarti perché ti ho salvato la vita?» disse con ironia.

Nihal scosse il capo in segno di diniego.

«Già, lo immaginavo. E allora, a che cosa debbo l’onore della tua visita?»

Nihal era ancora turbata, ma si sforzò di assumere un’espressione sicura. «So che conosci la magia del Tiranno» disse, guardando il vecchio in volto. «Ho bisogno del tuo aiuto per contrastare un suo incantesimo.»

A quelle parole Megisto cambiò espressione e i suoi occhi divennero da benevoli a severi. «E perché?»

Nihal esitò. «Perché... perché sono un Cavaliere di Drago e combatto contro il suo esercito.»

Il vecchio gettò una rapida occhiata a Oarf. «Se sei venuta per questo, puoi anche andartene. Non ho intenzione di rivelare nulla di ciò che mi ha condotto a un destino simile.»

Nihal si tolse il mantello e restò con gli abiti da battaglia, il corpetto nero e i pantaloni di cuoio. La spada le pendeva al fianco e scintillava nel buio. «Lascia almeno che ti racconti tutta la storia.»

Il vecchio la scrutò. Nihal odiava quando qualcuno la guardava così. Dopo qualche interminabile istante, lo vide scrollare le spalle. «E sia, starti a sentire non mi costa niente» sospirò Megisto, poi incrociò le gambe sotto di sé. Ora la guardava con aria assorta, in attesa.

Nihal gli parlò a lungo di Dola, dell’armatura che si riparava da sola, della lancia che aveva trapassato la sua corazza di cristallo nero. «Mi ha quasi uccisa, Megisto» concluse. Si aspettava che il vecchio dicesse qualcosa, ma lui continuò a guardarla senza espressione. «Insomma, voglio sapere come posso batterlo.»

Il vecchio trasse un respiro profondo. «Mi dispiace. Non posso aiutarti.»

«Non puoi o non vuoi?»

«Perché desideri sconfiggere quell’uomo?» chiese Megisto.

«Che domanda! Perché è un nemico. È il capo dell’esercito contro cui combatto.»

«Perché desideri sconfiggere quell’uomo?» chiese di nuovo Megisto, incurante della risposta.

La ragazza perse le staffe. «Te l’ho appena detto! Perché sono un Cavaliere di Drago!»

«Quello che ti spinge è un altro sentimento» disse Megisto. Scosse la testa. «Tu ti vuoi vendicare, Nihal.»

«Per me è un nemico come tutti gli altri! Io...»

«Vuoi vederlo implorare pietà» la interruppe il vecchio.

«Non è vero!»

«E quando sarà ferito ai tuoi piedi...»

«No!»

«Vuoi tagliargli la gola e guardare il suo sangue inzuppare il terreno. E quando sarà morto riderai e sentirai che la tua vendetta è compiuta.»

«Non è come dici!» urlò Nihal.

«Non mentire!» tuonò il vecchio.

Nihal lo guardò con gli occhi spalancati, persi.

Quando il vecchio riprese a parlare, aveva un tono grave e solenne. «So che sei in buona fede, Nihal, lo so. Ma nel tuo cuore c’è una bestia appena assopita. Il suo sonno è leggero, credimi. Quando quell’uomo sarà a terra davanti a te, la bestia si desterà e ti mangerà il cuore.»

«Io non sono più quella di prima...» mormorò Nihal, quasi parlasse a se stessa.

«Non credere che io non sappia» riprese il vecchio. «Conosco il tuo tormento. Quella stessa bestia che vive dentro di te mi ha trascinato in questo bosco e mi ha messo le catene ai polsi.» Alzò le mani e i pesanti anelli di ferro tintinnarono. «Ero un mago, anni addietro. Un mago mediocre che si occupava soprattutto di storia. Un giorno un uomo ebbe il torto di farmi del male. La vendetta diventò la mia unica ragione di vita. Non era per me che la volevo, ma per coloro che quell’uomo mi aveva portato via. Mi avvicinai alle formule proibite e mi unii al Tiranno. Egli mi diede grandi poteri e io studiai, Nihal, studiai con lo stesso impegno con cui un tempo avevo studiato la storia di questo mondo, e il potere oscuro mi fu interamente svelato. Poi venne l’attesa. Aspettai il giorno in cui mi sarei vendicato, pregustavo l’attimo in cui avrei visto quell’uomo morire per mia mano. Oh, quanto lo aspettai! Alla fine quel giorno arrivò. Quando lo uccisi sentii il mio cuore cantare, ma fu una melodia breve. La mia ira non si placò e non si sarebbe mai più placata. Il sangue è come ambrosia, Nihal, e tu lo sai: quando lo hai assaggiato una volta, ne sei schiavo per sempre. Continuai a uccidere e ogni volta che usavo la magia per distruggere una vita, il potere oscuro sembrava crescere in me, perché è questa la sua natura. Uccisi per il Tiranno e per me. Alla fine furono le ninfe a fermarmi.» Il vecchio rivolse gli occhi al cielo e per un attimo il riflesso della luna li rese bianchi. «Fu un mago del Consiglio a mettermi questo sigillo. Mi destinò a essere roccia e a poter tornare uomo solo nottetempo.»

Nihal non capiva. «Perché di notte non sei mai scappato?»

«Ci ho provato. Ci ho provato per anni. Ogni volta che ho oltrepassato i confini del bosco, ai primi raggi dell’alba mi sono ritrovato di nuovo in questa radura, pietrificato.» Il vecchio fece un sorriso amaro. «Poi il tempo è trascorso, la giovinezza è volata. Oggi ringrazio chi mi ha dato questo tormento, perché mi ha liberato dalla schiavitù della morte e mi ha restituito a me stesso.» Megisto guardò Nihal negli occhi. «Ma quelli che ho ucciso non torneranno, Nihal, e non c’è pena che io possa pagare per riscattare la loro vita.»

Nihal sostenne il suo sguardo per qualche istante, poi abbassò la testa. «Io sento che Dola non potrà cadere per altra mano che la mia. Lo sento, capisci?»

«Continua a cercare te stessa, Cavaliere. Hai percorso solo un breve tratto della strada che dovrai fare per giungere alla verità.»

«Io continuo a cercare me stessa! Non è per vendetta che voglio fermare Dola!» ribatté Nihal, alterata. «In passato ho combattuto per i morti, Megisto. Ora combatto solo per me. Ma Dola voglio batterlo per chi vive sotto il suo giogo.»

Il vecchio la guardò. «Continua.»

«Ti giuro che non lo ucciderò, Megisto» disse Nihal, con più calma. «Non cercherò vendetta nel sangue. Lo porterò vivo all’accampamento e da quel momento la sua sorte non sarà più affar mio. Però ti prego: aiutami.»

Megisto rimase chiuso nei propri pensieri per un tempo che a Nihal sembrò eterno.

«Vieni qui domani notte» disse infine, mentre l’aurora iniziava a colorare il cielo di un azzurro intenso.

La ragazza si alzò in piedi e si rimise il mantello. «Grazie» disse alla pietra che poco prima era stata il vecchio.


Dopo la notte insonne, Nihal dormì fino all’ora di pranzo.

Quando uscì dalla capanna, Laio la squadrò da capo a piedi. «Be’, che succede? Abbiamo cambiato abitudini, Cavaliere?»

«Ero stanca» rispose vaga. Laio aveva sempre appoggiato le sue scelte, ma Nihal aveva ragione di credere che quella non sarebbe stata di suo gradimento.

Attese la notte con impazienza e appena calarono le tenebre cavalcò Oarf fino al bosco.

«Avevo sperato che non saresti venuta» disse Megisto quando la vide avanzare nella radura.

«Non rinuncio facilmente» rispose Nihal.

«Me ne ero accorto» commentò il vecchio, accennando un sorriso. «Ora ascolta.»

Nihal si sedette di fronte a Megisto, come aveva fatto la notte precedente.

«La magia che ti insegnerò è frutto dell’oscurità.» Il vecchio rivolse a Nihal uno sguardo severo. «È basata sull’odio e in esso ha la sua forza. Per riuscire a formularla dovrai fare leva sull’odio e sulla disperazione che sono in te. Dovrai ricordare tutto ciò che hai dimenticato, disseppellire le ombre che hai rinchiuso in fondo al cuore, abbandonarti a quella parte di te che stai cercando di strapparti via dall’anima.» Megisto fece una pausa. «Ora sai, Nihal. Vuoi ancora conoscere la formula proibita?»

«Sì» fu la risposta decisa di Nihal. «Cominciamo.»

«Non ho finito» continuò il vecchio. «Ieri hai fatto un giuramento. Io voglio credere alla tua parola, ma so anche che il tuo cuore è fragile. Non voglio altre morti a gravare sulla mia anima. Quando avrai finito di imparare, ti imporrò un sigillo: se tenterai di usare questo incantesimo più di una volta, morirai.»

«Accetto» disse Nihal senza esitazione.

«E sia» sospirò Megisto. «Sappi che sarà come sprofondare in un abisso. Spero che sarai abbastanza forte da sopportarlo.»

Un brivido percorse la schiena di Nihal. L’idea di tornare a essere quel che era qualche mese prima la terrorizzava, ma dai suoi occhi non trasparì alcun tentennamento.

Il vecchio incrociò le gambe e le catene tintinnarono. «La magia che rende Dola tanto forte è una potente formula proibita. Il suo nome è Fiamma Nera. Con questo incantesimo si dà vita a ciò che non ne ha. Una vita forte e possente, temprata dall’odio che il creatore sa infondervi. Ecco perché lo gnomo sembra immortale.»

«Non capisco» disse la ragazza, confusa.

«L’armatura di Dola, Nihal. È come un essere vivente invulnerabile. Non viene danneggiata neanche dai colpi più potenti ed è in grado di ripararsi da sola. La formula che ti insegnerò si chiama Ombra Inestinguibile e permette di penetrare ogni tipo di barriera difensiva e di infliggere ferite insanabili. Se la applicherai alla tua spada, sarai in grado di scalfire l’armatura di Dola. Però ti avviso: l’incantesimo non ti sarà sufficiente a batterlo. Se lo provassi su un uomo, o uno gnomo, o un fammin, morirebbero all’istante. Ma l’armatura di Dola non verrà uccisa dai tuoi colpi, semplicemente non sarà più inviolabile...»

«Quindi l’Ombra Inestinguibile ci metterà ad armi pari» lo interruppe Nihal.

«Non sarai mai ad armi pari con quell’essere, la sua forza è frutto della magia del Tiranno. Però anche il suo è un corpo fatto di carne, e con questo incantesimo potrai ferirlo.»

Nihal annuì. «Continua.»

«L’odio è in ognuno di noi, sepolto nel nostro animo, Nihal. Tu lo sai bene. Per evocare l’Ombra Inestinguibile devi fare appello alla sua forza. Quando l’avrai richiamato alla vita, sarai invasa da tutto il dolore che hai provato. Se saprai controllarne la potenza, allora padroneggerai l’incantesimo.»

Nihal non era sicura di aver capito. «Ma come funziona? Come mi devo comportare?»

«Non c’è altro che io possa spiegarti con le parole. Ora sta a te decidere se vuoi provare.»

«Che cosa succederà se fallisco?» chiese Nihal. Adesso aveva la voce incrinata dalla paura.

«Morirai» disse il vecchio in tono piatto.


Per prima cosa, Megisto fece evocare a Nihal la Lama di Luce, un incantesimo semplice che anche lei era in grado di fare con poco sforzo. Nella mano le apparve un fuocherello azzurrino.

«Bene» mormorò il vecchio. «Ora possiamo cominciare.»

Nihal sentì il cuore accelerare i battiti. Giunta al momento cruciale aveva paura, una paura fredda e autentica.

«Ripeti con me: Vrašta Anekhter Tanhiro.»

« Vrašta Anekhter Tanhiro » mormorò Nihal.

«Ancora: Vrašta Anekhter Tanhiro» ripeté Megisto. « Vrašta Anekhter Tanhiro. Continua, non smettere.»

« Vrašta Anekhter Tanhiro » gli fece eco lei.

«Concentrati sulla disperazione che hai provato nella tua vita. Ma attenta! Non perderti in essa, cerca di dominarla.»

Nihal vide lo sguardo cupo del vecchio fisso su di lei, poi chiuse gli occhi. Ripeteva quelle parole senza senso e pensava al passato. Era fin troppo vivo il ricordo di ciò che l’aveva fatta soffrire. Richiamò alla mente la morte di Livon, mentre la litania le affiorava sulle labbra come un canto ipnotico. Prima vide la fucina del padre, vuota e silenziosa. Poi vennero i rumori, il suono terribile della battaglia di quel giorno: le grida, il fischio delle asce che si abbattevano sulla gente di Salazar, il tonfo dei corpi che cadevano al suolo. Vrašta Anekhter Tanhiro. Vrašta Anekhter Tanhiro . Si sentì fluttuare. Il mondo scomparve e rimase solo un senso di calore alla mano.

La voce di Megisto le giunse come un’eco: «Immergiti, Nihal, immergiti...». All’improvviso la fucina si popolò. Da un lato c’era Livon, intento a frugare in una cassapanca. Poi apparve una ragazzina, le orecchie appuntite e spropositate, gli occhi grandi e languidi, una spada nera al fianco. Vrašta Anekhter Tanhiro, Vrašta Anekhter Tanhiro, Vrašta Anekhter Tanhiro...

Eccoli. Due fammin, armati d’ascia e spada. Irrompono, la guardano, ridono. Suoni di lame che si incontrano. Livon che le urla di andarsene. Vrašta Anekhter Tanhiro, Vrašta Anekhter Tanhiro. Livon combatte. Perché non fugge? Vai via! Scappa! Vrašta Anekhter Tanhiro, Vrašta Anekhter Tanhiro.

«Scendi ancora, Cavaliere. Controlla quello che senti e scendi...»

Nihal sa che non può finire bene, sa quel che sta per accadere e non vuole, non vuole! Basta, basta! Ma non può muoversi, non può fare nulla e allora strilla, lo chiama, gli grida di andare via. Vrašta Anekhter Tanhiro, Vrašta Anekhter Tanhiro, Vrašta Anekhter Tanhiro.

«Sì, Nihal, ci sei quasi!»

L’urlo squarcia le tenebre. In un istante di silenzio, vede Livon voltarsi verso di lei: la guarda e tutto si ferma. Non voltarti, Livon! Scappa! Non guardarmi! Ed ecco la spada che lo trapassa, lui continua a guardarla, la guarda come sempre, cade senza un lamento e Nihal vorrebbe urlare ma non può, perché non ha voce...

All’improvviso, quella scena si trasformò in una voragine.

Nihal vide migliaia di volti urlanti, neri, deformi, correrle incontro contorti, e udì un rumore assordante di risa. Per un istante riebbe coscienza. Di fronte all’orrore che la travolgeva pensò che doveva fermarsi, che era troppo, che voleva smettere. Ma la sua lingua continuava da sola la litania, le parole che le uscivano dalla bocca attiravano nuovi demoni, che la avvolgevano e la trascinavano con sé, tirandola per le braccia, le gambe, i capelli.

«Dominali, dominali!» bisbigliava una voce lontana, mostruosa.

Dominare cosa? Come si può dominare il regno dei morti? Mille mani su di lei, mille occhi piantati nei suoi occhi e l’odio che montava come una marea. Era terrorizzata come mai in vita sua, la gola chiusa non le permetteva di gridare ma solo di salmodiare ancora quella maledetta cantilena: Vrašta Anekhter Tanhiro, Vrašta Anekhter Tanhiro, Vrašta Anekhter Tanhiro...

«Basta! Ritorna in te!» ripeteva la voce distorta.

Come? Si poteva davvero riemergere da quell’incubo? Che qualcuno l’aiutasse!

«Chiudi la mano! Ferma la magia!» disse la voce.

Nihal non sentiva più nessuna parte del corpo. Dov’era la sua mano? C’era una mano da stringere? Cercò di frenare il panico che la attanagliava ma non ci riuscì. Spalancò gli occhi più che poteva, ma al buio non c’era fine. Poi sentì qualcosa e vi si aggrappò: la freschezza dell’aria, il tocco di due mani sul viso...

I volti scomparvero, il buio si dissolse.

La luna, di un candore gelido, la guardava dall’alto. Megisto era chino su di lei.

Nihal non riusciva a rallentare il respiro, le sembrava che non ci fosse aria abbastanza per riempirle i polmoni.

«Sei di nuovo tra i vivi» ripeteva il vecchio.

Nihal giacque a lungo, con il cuore che faticava a ritrovare il suo ritmo.

Quando riuscì a mettersi a sedere, ansimava ancora.

«Questo è ciò che devi affrontare» disse Megisto senza emozione. «Domani notte sarò ancora qui, se vorrai ritentare.»

Nihal annuì, si alzò in piedi e si allontanò senza una parola, con le gambe che le tremavano e una sensazione di freddo in tutto il corpo.

Raggiunse Oarf nel folto del bosco e appoggiò il viso sul petto del suo drago.


Il giorno dopo, Nihal si disse che non sarebbe tornata da Megisto. Perché doveva ripetere quella terribile esperienza? Si sforzava di tornare alla vita, ed era già abbastanza difficile così. Il vecchio aveva ragione: lei stava cercando la sua strada, si doveva concentrare su quello, non su Dola. Eppure...

Era la sola ad avere un mezzo per batterlo. E poi non poteva fuggire per sempre. Era arrivato il momento di fare i conti con i suoi incubi. Coraggio, ci voleva coraggio.

Fu così che decise di continuare, e lo fece col cuore in gola. Ma la sconfitta di Dola era tutto quello che importava, era la sua sfida contro il passato.

La seconda sera credette di morire. Tra i volti dei fantasmi si insinuarono anche gli spiriti del suo popolo e i vecchi incubi si mescolarono ai nuovi. Resistette, ma non riuscì a fare sua l’Ombra Inestinguibile perché l’aldilà la trascinava in basso, sempre più giù, e lei non riusciva a tirarsene fuori.

«La determinazione è tutto quello che hai, Nihal. La volontà di non cadere di nuovo nell’abisso. È questa la tua ancora di salvezza» le diceva Megisto.

Notte dopo notte, Nihal tornò alla radura, anche se il suo corpo si ribellava. Quando il sole calava fino a scomparire oltre la cima degli alberi, sentiva lo stomaco stringersi, veniva attanagliata dalla nausea e le tempie prendevano a pulsarle con violenza. Notte dopo notte, guadagnò terreno su quelle visioni mostruose. A poco a poco riuscì a restare cosciente, mentre la fiamma nella sua mano si faceva sempre più nera.

«Sei vicina, Nihal» ripeteva Megisto e Nihal resisteva all’assedio dell’odio e del dolore.

Quel viaggio atroce terminò la sera prima della fine della sua licenza. Quando aprì gli occhi e riemerse dalle tenebre con le sue sole forze, un globo nero le brillava sulla mano: era grande poco più di una mela e levitava sopra la sua palma sinistra lanciando bagliori cupi. Nihal lo guardò meravigliata. Ce l’aveva fatta.

«Questa è l’Ombra Inestinguibile» disse Megisto a bassa voce. «Prima della battaglia contro Dola, applica questo incantesimo alla tua spada e sarà in grado di fendere la sua armatura. Quando chiudi la palma, il globo scompare e la magia è infranta.»

Nihal serrò le dita e la luce si dissolse.

«Grazie, Megisto» mormorò.

«Non mi ringraziare, perché ti ho fatto un dono letale. E rammenta: se tenterai di recitare questa formula due volte, morirai. Ora china la testa.»

Nihal obbedì e il vecchio le impose le mani sulla nuca, poi recitò a bassa voce una formula. Quando ebbe terminato, le sollevò il mento con una mano e la guardò fisso negli occhi. «La tua ricerca della verità è prossima a una svolta, Nihal. Ma spesso la verità è un bene terribile.»

«Cosa intendi?» chiese lei, perplessa.

«Ogni individuo deve cercare da solo il proprio ideale. Ricordatelo» ribatté il vecchio. Si alzò in piedi. «Ora va’. Il nostro incontro termina qui.»

Mentre volava sulla groppa di Oarf, Nihal ripensò alle parole di Megisto: che cosa poteva esserci di male nella verità? Tutto quello che aveva sempre voluto, dalla distruzione della sua città, era sapere. Profezie da veggente , si disse. Poi spronò il drago in direzione della base.

21 La tentazione della morte.

Nihal aveva sperato che la conquista dell’Ombra Inestinguibile non lasciasse tracce, ma non fu così. Dalla sera in cui aveva affrontato l’abisso era inquieta e spesso le immagini dell’incubo tornavano a tormentarla. Che cosa ho messo in moto?

Mentre volava in groppa a Oarf verso la Terra del Vento e abbandonava il villaggio dove lei e Laio avevano trascorso quelle due settimane, Nihal sperò di essere in grado di portare a termine ciò che si era ripromessa, restando se stessa.


«Ti sei schiarita le idee?» Ido la attendeva sulla soglia della tenda, la pipa in bocca.

«Sì, decisamente» mentì lei.

Lo gnomo la guardò. «Sei pallida.»

«Sono solo un po’ stanca.»

Ido batté la pipa contro la suola dello stivale e fece cadere a terra un mucchietto di cenere. «È ora di pranzo. Andiamo a mangiare qualcosa.»

Seduto a un tavolaccio di legno del grande padiglione che fungeva da mensa, tra una cucchiaiata di zuppa e l’altra, Ido fece a Nihal il punto della situazione. Durante la sua assenza l’assedio era continuato, ma non erano riusciti ad avanzare di un solo passo. Le battaglie iniziavano al sorgere del sole e si protraevano finché le ombre non si distendevano lunghe sulla prateria. I morti erano numerosi, dall’una e dall’altra parte, ma non si giungeva a una conclusione.

«Al momento» concluse Ido «l’unica speranza è prenderli per fame.»

«E Dola?» chiese Nihal con noncuranza.

Lo gnomo continuò a bere rumorosamente il rancio, mentre gli occhi di Nihal lo fissavano interrogativi. Posò il cucchiaio nella scodella. «Se n’è andato.»

Nihal ebbe un leggero sussulto. «Come, andato? Quando?»

«Ieri notte.»

Per giorni il guerriero aveva spadroneggiato sul campo di battaglia seminando terrore e mietendo vittime. Nessuno era stato in grado di fermarlo. Le spade non riuscivano a scalfire la sua armatura, le lance non potevano nulla contro di lui e quando gli arcieri lo puntavano, sembrava che fosse capace di muoversi tra una freccia e l’altra, per quanto fitte gli piovessero addosso. Poi, all’improvviso, la notte precedente al rientro di Nihal, sull’accampamento era risuonato un grido acuto, disumano, simile a quello di un rapace. Ido, come molti altri, era uscito a guardare. Sulle tende si levava un’ombra nera, altissima. Gridava. Gridava e rideva. Una risata beffarda.

«Io e Ried ci siamo lanciati all’inseguimento, ma lui è stato colpito di striscio da una fiammata...»

Nihal sgranò gli occhi. Ried era uno dei più valorosi Cavalieri di Drago dell’accampamento.

«Poi è rimasto ferito anche Vesa. Insomma, ci siamo dovuti ritirare» tagliò corto Ido.

«Vesa è ferito?» chiese Nihal, incredula. Vesa era sempre uscito illeso da qualsiasi battaglia.

«Già. E non solo lui» rispose Ido. Sollevò la manica della casacca e mostrò una fasciatura. «Niente di grave. Diciamo che mi ha strinato come un pollo» scherzò lo gnomo, ma il tono era amaro.

«E adesso?»

«Adesso niente. L’importante è che se ne sia andato e che non dovremo più avere a che fare con lui. Sei d’accordo, no?» concluse Ido fissandola negli occhi.

Nihal abbassò lo sguardo. No che non era d’accordo. Aveva visto l’inferno per poter affrontare quel maledetto. E lo avrebbe fatto, a costo di inseguirlo fin sulla luna.

Ido dovette intuire qualcosa, perché fece un sonoro sospiro e immerse con rabbia il cucchiaio nella minestra.

«Che cosa c’è?» chiese Nihal.

«Lo chiedo a te» rispose lo gnomo con freddezza. «Mi sembrava di essermi spiegato. Ma ho la sensazione che tu non abbia cambiato atteggiamento.»

Nihal allontanò la ciotola che aveva davanti e si sporse verso Ido. «Perché ti infastidisce tanto il pensiero che possa battermi con lui? Dimmi perché!»

Ido levò su di lei uno sguardo gelido. «Non ti ho addestrata per essere fatta a fette da quel bastardo, Nihal.» Poi si alzò da tavola e si diresse verso l’uscita della mensa senza voltarsi indietro.


Da principio Nihal non partecipò alle battaglie. Preferì allenarsi da sola e cercare di riprendere le forze. Si meravigliava lei stessa della sua pazienza. Solo un anno prima, sarebbe montata in groppa a Oarf e si sarebbe messa sulle tracce di Dola. Ora invece attendeva, covando propositi di riscatto. E alla fine quell’attesa venne premiata.

Un giorno arrivò all’accampamento un capitano, inviato come messo dalle guarnigioni di stanza nel bosco di Herzli, che costeggiava il Saar, il Grande Fiume. A quanto sembrava, Dola aveva raggiunto la regione della Foresta e vi si era acquartierato. Era alla testa di un imponente esercito e aveva attaccato l’avamposto delle Terre libere nella Terra del Vento.

«Sa che quella regione è poco coperta, vista la vicinanza col Saar, e temiamo che voglia attaccare la Terra del Vento da lì, per poi penetrare nella Terra dell’Acqua da oriente» riferì il militare al generale del campo e a tutti i Cavalieri di Drago riunitisi per ascoltarlo.

Non appena aveva sentito pronunciare il nome di Dola, Nihal aveva provato un tuffo al cuore. Il momento era arrivato.

«Occorre rafforzare lo schieramento nella regione della Foresta, non vedo altra via. Potremmo spostare là metà delle nostre truppe» intervenne un Cavaliere.

«Non so se è una buona idea» rispose Ido. «Non possiamo lasciare sguarnito il nostro territorio. Nessuno ci assicura che Dola non attenda proprio questo: Un indebolimento della difesa per attaccare.»

Il capitano lo interruppe. «Cavaliere, stiamo cadendo come mosche laggiù. Non so per quanto potremo resistere.»

«Tu che cosa proponi, Ido?» chiese il generale.

Lo gnomo non si scompose. «La Terra del Vento è la più piccola di tutte le Terre: il suo fronte non è ampio, lo si può percorrere a dorso di drago in due giorni. Credo che potremmo limitarci a mandare rinforzi. Un Cavaliere o due, alla testa di una guarnigione. Nel frattempo distribuiremo meglio le truppe lungo il confine e tenteremo un attacco a occidente, mentre teniamo impegnato Dola nel bosco.»

«Non è facile tenere a bada Dola e credo che tu lo sappia meglio di chiunque altro» osservò il generale.

Fu allora che Nihal si alzò dalla panca di legno dove era seduta. «Me ne occuperò io» disse con calma. Ido le scoccò un’occhiataccia, ma lei rimase impassibile. «Affidatemi una guarnigione e ve lo porterò qui.»

Dal fondo si alzò una risata. «Piantala, Nihal! Non fare la sbruffona. Nessuno finora è stato in grado di tenere testa a Dola.»

«Sbaglio o sei stata ferita proprio da lui, poco tempo fa?» fece un altro cavaliere.

«Ho imparato dal mio errore» rispose Nihal, seria. «Se seguiamo il piano di Ido, ci serve solo qualcuno che lo tenga impegnato, giusto? E forze fresche che diano una mano alle guarnigioni vicino al Saar. Ebbene, per questo credo di essere più che sufficiente.»

Il generale sembrava perplesso.

«Non vorrete mica acconsentire a questa follia?» sbottò Ido.

«Questa follia è stata proposta da te» osservò il superiore.

«Sì, ma... insomma, Nihal è Cavaliere da troppo poco tempo. Non ha l’esperienza necessaria. Vogliamo mettere il destino della Terra del Vento nelle sue mani?»

Nihal sentì il sangue affiorarle alle guance e aprì la bocca per rispondere, ma il generale le fece cenno di tacere. «Il tuo piano mi sembra più che funzionale alle nostre esigenze, Ido. E Nihal ci ha dato prova di essere un valente guerriero. Pertanto sarà lei a partire. Così ho deciso e non voglio discussioni.»

Ido scosse la testa.

Il cuore di Nihal esultò. «Vi ringrazio per la fiducia che mi dimostrate, generale.»

La riunione si sciolse e i cavalieri uscirono alla spicciolata. Nihal invece si fermò nella sala del comando per discutere i particolari della missione. Era la prima volta che le affidavano una guarnigione, ma non era certo quello a eccitarla. Non vedeva l’ora di partire.

Tornò alla sua tenda che era tardi e trovò Ido che fumava nervosamente la pipa seduto davanti all’ingresso. Appena la vide arrivare, lo gnomo scattò in piedi e le puntò contro l’indice. «Ascoltami bene, ragazza. Tu prova a uscire con la tua truppa da questo accampamento e, te lo giuro, non ti permetterò di ritornarci tutta intera!»

«Si può sapere che accidenti ti piglia?» Nihal alzò la voce. «È una missione come le altre!»

Lo gnomo scagliò la pipa a terra, tracciando una scia di brace nel buio. «No, non lo è, e lo sai benissimo!» urlò, rosso in viso.

Nihal rimase impietrita. Avevano discusso molte volte, ma non lo aveva mai visto tanto fuori di sé.

Qualcuno urlò: «Silenzio, maledizione!» e qualche testa fece capolino dalle altre tende.

Ido si chinò a raccogliere la pipa, poi guardò Nihal con freddezza. «Fa’ come ti pare, vai a morire dove vuoi» concluse, quindi si incamminò verso la sua tenda.


Il mattino dopo, Nihal si avvicinò alla tenda di Ido e chiese di entrare, ma non ebbe risposta. Insistette, ma dall’interno provenne solo un ostinato silenzio.

Lei e Laio partirono nel giro di poche ore.

Nihal aveva un centinaio di soldati al seguito, più di quanti immaginasse. Per un istante si sentì sperduta e il compito le sembrò superiore alle sue capacità. Se poi pensava che si era lanciata in quell’impresa per poter ottenere la sua vendetta, si sentiva ancora peggio. Sì, la sua vendetta. D’un tratto Nihal capì fino in fondo la gravità di ciò che stava per accadere. Forse Ido aveva ragione.

«Posso chiederti una cosa?» chiese Laio a un tratto. La sua voce era seria.

La ragazza si mise sulla difensiva. «Che cosa?»

«Perché ti sei voluta mettere in questa situazione?»

«Non capisco cosa intendi» rispose lei con finta noncuranza.

«L’ultima volta che sei partita all’attacco di Dola, ne sei uscita mezzo morta. Che cosa stai cercando? Che cosa vuoi dimostrare?»

«Sei d’accordo con Ido, Laio?» chiese Nihal innervosita.

Laio scrollò le spalle. «No, Nihal. No.»


Quando all’accampamento nel bosco di Herzli videro arrivare una truppa comandata da una donna, qualcuno perse le staffe, qualcuno rise, qualcuno abbandonò ogni speranza.

In giro per l’accampamento si respirava aria di morte. Tutto sembrava stinto, come un cielo lavato da troppa pioggia. C’erano una ventina di tende, tutte dello stesso identico, indefinibile e fangoso colore. C’erano molti feriti, e chi stava bene sembrava mortalmente stanco. Non c’erano né donne né bambini, solo uomini nella solitudine della guerra.

Il generale accompagnò Nihal in un giro di ricognizione. Sembrava uno che avesse visto troppo in vita sua. Era magro, neppure troppo anziano, a giudicare dal corpo atletico. Ma il viso era segnato da molte rughe, le spalle erano sempre curve, gli occhi grigi e spenti. Un uomo stanco della guerra r del sangue, un uomo stanco della vita. Si presentò come Mavern.

La zona non era certo il campo di battaglia ideale. Nihal non aveva mai combattuto nella macchia e il bosco era fitto. Se lo ricordava, quel bosco: lo aveva attraversato quando era fuggita da Salazar in fiamme. Se tendeva l’orecchio, poteva sentire il rombo possente del fiume Saar.

Infine giunsero in cima a una collina, da dove Nihal ebbe un quadro chiaro della situazione: parte del bosco sembrava quasi scorticata e ferite di nuda terra lo segnavano come piaghe. Si dipartivano da un nucleo nero centrale: la base dello schieramento nemico. Era un accampamento ordinato, con una tozza torre al centro. La maggioranza dei fammin stava in quella zona, ma si intuiva che parecchi erano celati nel folto.

«L’accampamento c’era già. Ed era nostro, fino a una settimana fa. La torre l’ha fatta costruire Dola: è la sua residenza, sua e di quell’infernale mostro nero. Sono due giorni che ci si è asserragliato. Non si muove, non attacca, niente. Aspetta» disse il generale.

Dunque era lì. L’uomo che aveva raso al suolo la sua città era lì.

«Vorrà dire che saremo noi a stanarlo» concluse Nihal.


Il generale non acconsentì tanto facilmente. I suoi uomini erano reduci da un duro scontro, le perdite erano state ingenti e c’erano troppi feriti.

«Siamo pochi e sfiniti: non c’è speranza di vittoria.»

«I miei uomini sono freschi» ribatté Nihal.

«È una follia, Cavaliere.»

«Domani notte non c’è luna, li attaccheremo nel sonno. Di Dola non dovete preoccuparvi: non sfiorerà nemmeno uno dei vostri uomini. Pensate solo a calare sul campo e occupatevi dei fammin. Ma dovrete essere fulminei, perché la sorpresa è tutto quel che abbiamo.»

Il generale la guardò scettico.

«Vi giuro che il campo tornerà nostro» disse Nihal.

La giornata seguente trascorse tranquilla, ma Nihal sapeva bene di aver millantato con il generale una sicurezza che non aveva. Se ne andò nel bosco da sola e lasciò a Laio l’incombenza di lucidarle la spada e preparare l’armatura. Si allontanò abbastanza da non sentire più i rumori dell’accampamento e si avvicinò al rombo maestoso del Saar. Si impose di non pensare a nulla, si ripeté che era una missione come le altre, nulla di più.

Ma dentro di sé sapeva che quella che la aspettava non era una battaglia dell’esercito delle Terre libere contro il Tiranno. Né dei morti di Salazar, né del popolo dei mezzelfi. Era la sua battaglia. E lei, il Cavaliere di Drago Nihal, l’avrebbe portata a compimento rimanendo se stessa. A tutti i costi.


La notte le sembrò non scendere mai.

Quando il buio si impadronì del cielo estivo, Nihal si ritirò nella tenda che le era stata assegnata e si sedette a terra con le gambe incrociate. La spada, lucidata da Laio con la solita cura, brillava davanti a lei. Un brivido le percorse la schiena. Il momento di recitare la formula era arrivato. Si terse il sudore dalla fronte e si accorse che le tremavano le mani. Aveva paura.

Ricordò la prima volta che aveva tentato di evocare l’Ombra Inestinguibile. E se non fosse riuscita a controllare l’incantesimo? Se fosse sprofondata nell’abisso e impazzita?

Chiuse gli occhi e cercò di calmarsi. Svuota la tua mente. Il cuore rallentò la corsa. Svuota la tua mente. Il respiro tornò regolare. Solo allora evocò la Lama di Luce. Rimase a osservare quel fuocherello come se lo vedesse per la prima volta: un globo perfetto, di un azzurro tenue, innocente.

Quindi, con la voce roca, iniziò la cantilena.

Le visioni infernali non si fecero attendere. Volti sfigurati e arti deformi balzarono verso di lei, investendola. Vrašta Anekhter Tanhiro. Vrašta Anekhter Tanhiro. Grida mostruose e risate chiocce le esplosero nella testa. Vrašta Anekhter Tanhiro. Vrašta Anekhter Tanhiro. Nihal si sentì avvolgere da un sudario di tenebre. Strizzò più volte le palpebre, ma che avesse gli occhi aperti o chiusi non faceva differenza. Era invasa, posseduta. Il terrore era insopportabile, la follia era lì, a un passo. Cadde all’indietro battendo i denti. Sentì che iniziava a perdere coscienza. Allora gridò, gridò e gridò ancora, e si strappò dal buio con uno sforzo disumano.

Quando aprì gli occhi, madida di un sudore ghiacciato, il globo nero roteava lento sulla sua palma.

«Che cos’è quella cosa?»

La voce di Laio le giunse come un sussurro.

Sulla soglia, il ragazzo la guardava con gli occhi spalancati. Nihal era seduta al centro della tenda, pallida e rigida, il collo piegato all’indietro e gli occhi rovesciati. La luce innaturale scavava ombre sul suo volto. «Ti ho sentita urlare» mormorò. «Allora sono entrato e...»

Era così pallido che quasi risplendeva sul fondo scuro della tenda.

«Va tutto bene, Laio» lo tranquillizzò Nihal a voce bassa, mentre l’Ombra Inestinguibile le bruciava la pelle.

Allungò la mano sulla spada e il globo scomparve nella lama, per fondersi con il nero del cristallo. Poi si alzò in piedi, scossa da un tremito che non riusciva a dominare. Era terrorizzata, sfinita da ciò che aveva sopportato in quei pochi attimi. Ogni volta che risaliva dall’abisso, una parte di lei restava sul fondo. Si avvicinò a Laio e lo abbracciò.

«Che cosa è successo?» chiese lui smarrito.

«Ho recitato una formula. È difficile pronunciarla, è un po’... doloroso.»

Laio rimase in silenzio e le accarezzò goffamente la schiena.

Quando si sentì di nuovo calma, Nihal si staccò da lui cercando di evitare il suo sguardo, ma il ragazzo la trattenne per un braccio. «Che formula, Nihal?»

«Laio, abbi fiducia in me. Questo è l’unico modo per battere Dola. Va tutto bene» rispose lei. Si liberò dalla stretta.

«Come puoi dirmi che va tutto bene? Quando sono entrato avevi un’espressione... non eri tu! Sembravi uno spettro, Nihal!»

Laio continuava a guardarla con gli occhi spalancati.

Nihal si lasciò cadere sulla branda e si passò le mani sul viso. Tremavano ancora. «Ho bisogno del tuo appoggio, Laio. Ho bisogno di sapere che hai fiducia in me e che credi che posso farcela.»

Il ragazzo non disse altro. Le si sedette accanto e le cinse le spalle con un braccio.


Quando le truppe raggiunsero il colle a ridosso dell’accampamento nemico, Nihal si avvicinò al generale. «Tutto procederà come previsto. Vi chiedo solo di coprirmi mentre tengo occupato Dola.»

Mevern annuì.

Allora Nihal abbassò la visiera dell’elmo e tutto si attutì. Era tempo di attaccare. Era tempo di concentrarsi e di scacciare ogni pensiero che non fosse la battaglia. Il generale levò in alto la spada e quando la calò Nihal e Oarf si alzarono in volo veloci.

Nihal si diresse senza indugi verso la torre centrale. Se una parte di lei fremeva per il desiderio di combattere, l’altra nutriva la speranza impossibile di cogliere Dola di sorpresa e catturarlo così, senza duello.

Un colpo di coda di Oarf abbatté parte del torrione, che precipitò sulle tende del campo. Nihal sentì gli urli gutturali dei fammin schiacciati dal crollo e subito dopo le grida dei suoi uomini che avanzavano.

Forse Dola non era nella torre. Nihal si guardò intorno per cercarlo, ma lo gnomo e il drago nero sembravano scomparsi. Oarf ruggì, mentre infuriava su un altro pezzo del torrione. Dov’è quel maledetto, dove? Nihal fece un paio di ampi giri intorno alle rovine senza vedere nulla. Poi sentì muoversi qualcosa. Un ansare lento e possente, come di un enorme mantice, risuonò tra le rovine. Due grumi di brace illuminarono il buio della notte. Una testa nera eruppe dalle macerie. Il drago si liberò con uno scrollone dai pietroni ammassati e rimase a scalpitare su quel che restava della torre. Sul suo dorso svettava Dola, armato di una lunga lancia.

«Sono qui per te, Dola!» gridò Nihal, mentre la rabbia le esplodeva in petto. «Sono venuta a prendere la tua testa!»

Il guerriero restò fermo per un istante, con gli occhi da furetto puntati verso il cielo. Da sotto l’elmo uscì una voce sprezzante: «Sei resistente, ragazzino. E stupido». «Questo lo vedremo, bastardo» mormorò Nihal. Sguainò la lama e quel semplice gesto, che aveva fatto migliaia di volte, scacciò i sussurri maligni che le offuscavano il pensiero, l’esultanza del suo cuore, il desiderio di vendetta, tutto. In lei rimase solo la gelida determinazione del cavaliere.

Il drago si alzò in volo all’improvviso e Dola si gettò lancia in resta contro Nihal. Oarf schivò il colpo e lei fu rapida a colpire la bestia nera, che spalancava le fauci davanti a lei.

Dola ripartì, ma stavolta Nihal era pronta. La battaglia vera e propria poteva cominciare.

Nihal era consapevole che lo gnomo aveva una forza sovrumana e una velocità ben superiore alla sua, ma sperimentarlo di nuovo la lasciò senza fiato. Non poteva fare altro che parare ogni suo attacco e anche quello le richiedeva uno sforzo enorme. Iniziò a usare entrambe le mani, cercando di tenersi in equilibrio su Oarf, che era costretto a continui cambiamenti di direzione per sfuggire ai morsi del drago nero.

Erano passati pochi minuti dall’inizio del duello, quando Nihal non vide arrivare la lancia. Una stoccata penetrò senza sforzo la corazza, incrinò il cristallo e la ferì di striscio sulla spalla. Fu costretta ad allontanarsi, ansimante.

Dola rimase immobile sulla sua cavalcatura. «L’ultima volta sono stato troppo buono con te» urlò, mentre agitava in aria la punta della lancia arrossata. «Per ora mi accontento di assaggiare il tuo sangue, ma giuro che ti staccherò le membra a una a una, ragazzino» concluse ridendo.

A Nihal montò il sangue alla testa. «Sono un Cavaliere! Non chiamarmi ragazzino!» gridò. Poi spronò Oarf.

Ora lo vedeva bene: ogni pezzo della sua armatura, ogni fessura nella quale avrebbe potuto affondare la lama. Impugnò di nuovo la spada a due mani e raddoppiò la velocità dei movimenti, parando con precisione. Ancora non trovava margini per attaccare, ma doveva avere pazienza, solo pazienza. Non sapeva che cosa accadeva a terra. Non sentiva il rumore della battaglia, solo i colpi della sua spada contro la lancia. Di tanto in tanto una stilettata le lacerava la pelle e il sangue le scorreva sotto l’armatura, ma era il dolore di un attimo, non bastava a fermarla. Aveva visto l’inferno, pur di sconfiggere Dola. Schivò l’ennesimo affondo e dovette di nuovo allontanarsi, ma lo gnomo la incalzò. Il drago nero sputò un fiotto di fuoco, poi un altro e un altro ancora, mentre Oarf sbatteva le ali per levarsi più in alto. Ben presto si trovarono a volare veloci verso il cielo. Nihal riprese fiato, ma d’un tratto sentì la lancia di Dola sibilarle vicino. Oarf non scartò abbastanza velocemente e sul fianco gli si disegnò uno squarcio. Il drago ruggì per il dolore e si voltò scalpitando. «Calmo, Oarf, calmo» mormorò Nihal, ma sapeva che non potevano continuare così. Devo affrontarlo. Devo affrontarlo ora!

Erano soli, uno di fronte all’altra. Ai loro piedi la foresta, sulle loro teste il cielo fitto di stelle. Nessun suono turbava la notte, se non il frinire ritmico dei grilli. Nihal si accorse del sangue che le bagnava la pelle: Dola stava mantenendo la promessa, la stava uccidendo pezzo per pezzo.

Lo gnomo sguainò la spada. «Così combattiamo ad armi pari, e ad armi pari ti farò a pezzi.»

Si sentiva tanto sicuro di sé da darle quel vantaggio. Ma se contro una lancia Nihal poteva poco, contro una spada le cose erano più facili. La ragazza spronò Oarf e si scagliò contro lo gnomo. Dola rimase immobile, come se non tenesse in nessun conto quell’attacco. Quando fu a un passo da lui, Nihal si alzò in piedi sulla groppa di Oarf e menò un fendente dall’alto, prendendo Dola di sorpresa. Per quanto frettolosa, la parata dello gnomo fu efficace, ma Nihal non si scompose. Spiccò un salto e atterrò sulla schiena del drago nero. Colpì di taglio il fianco di quel maledetto gnomo con tutta la forza che aveva. Con un lampo di luce bianca, la lama penetrò il primo strato della corazza e infine raggiunse la carne.

Dola reagì con un fendente laterale, ma Nihal fu agile a sottrarsi. Piantò la spada nella spalla del drago nero, strinse l’elsa con entrambe le mani e si lasciò scivolare, fino a pencolare nel vuoto. L’animale lanciò un lamento e Nihal puntò i piedi contro il suo ventre, poi estrasse la spada dalla ferita. Precipitò, ma Oarf fu pronto a intercettare la sua caduta. Era di nuovo in groppa. Ce l’aveva fatta.

Nihal esplose in una risata feroce. «Hai un’armatura scadente, Dola! Il Tiranno non fornisce niente di meglio ai suoi sgherri?» urlò, alzando la spada. Dalla lama il sangue del drago nero le scivolò lungo il braccio, mescolandosi al suo.

«Aspetta a cantare vittoria, moccioso» rispose Dola. Nella sua voce Nihal percepì un fremito di rabbia.

Lo gnomo iniziò a menare un fendente dietro l’altro, ravvicinati e potenti, che Nihal schivò saltando. Ormai aveva capito: doveva giocare d’agilità e mirare a ferire il drago. Una volta a terra avrebbe avuto più probabilità di successo. A un tratto, però, un colpo la raggiunse al costato e le mozzò il fiato. Oarf planò bruscamente di una ventina di braccia per darle il tempo di riprendersi. Nihal era già indebolita per le ferite e il sangue perso, quell’ennesimo taglio le avrebbe tolto anche le ultime energie. Devo fare in fretta. Devo colpirlo di nuovo, adesso! Ripartì all’attacco e iniziò ad attaccare con furia cieca. Urlava e colpiva, colpiva e urlava, e quando la luce bianca la accecava sapeva che il colpo era andato a buon fine. Oarf, per parte sua, stringeva tra le fauci la spalla del drago nero già trafitta dalla spada di Nihal e non mollava la presa, mentre il sangue usciva a fiotti.

Nonostante Dola fosse ferito, la potenza dei colpi non sembrava diminuire. Lo gnomo la centrava di piatto, mirando a disarcionarla, e Nihal sentiva le forze venirle meno. Non capiva più se quello che la copriva era sudore, il suo sangue, quello del drago o quello di Dola. Continuava ad attaccare alla cieca ma era sfinita, le doleva ogni fibra del corpo. Perse il ritmo, allentò la pressione delle ginocchia sul dorso del suo drago. Si sentì mancare.

Oarf se ne accorse e arretrò con due potenti colpi d’ala, portandosi via tra le fauci un brandello di carne del mostro nero.

Nihal riprese fiato e riuscì a mettere a fuoco l’immagine del suo avversario. La corazza di Dola era intaccata in più punti e lasciava vedere la pelle insanguinata dello gnomo. Lei era messa peggio. Le ferite le bruciavano e aveva la vista annebbiata, ma non si sarebbe arresa. Lo avrebbe sconfitto, a costo di morire. Il drago. Devo abbattere il drago.

Non ebbe bisogno di dare alcun comando: con un ringhio, Oarf balzò addosso al drago nero e infuriò su di lui con le zampe e i denti. I ruggiti dei due animali erano assordanti e il calore che si sprigionava a ogni fiammata intontì Nihal e Dola, li ridusse a due guerrieri inermi, in balia della volontà delle loro cavalcature. La ragazza restava aggrappata a Oarf come poteva, mentre lo gnomo cercava di istigare il suo drago a reagire. Poi, repentinamente, proprio quando sembrava avere la meglio, Oarf abbandonò la lotta e si diede alla fuga.

«Fermati! Fermati, Oarf!» gridò Nihal. Si guardò alle spalle. La bestia nera li inseguiva a fatica e perdeva sangue a ogni battito d’ali.

Oarf puntò verso il cielo e solo allora invertì bruscamente direzione, calando dall’alto sul suo nemico. Nihal fu tutt’uno con il pensiero del suo drago. Sì! Sì, Oarf! Ho capito! Sono pronta! Adesso! Strinse le ginocchia e agguantò la spada con entrambe le mani, stringendone l’elsa come fosse quella di un pugnale.

Oarf planò a poca distanza dalla testa nera del drago e Nihal affondò la lama con tutta la forza che le era rimasta.

Dal collo del drago nero sgorgò un violento getto di sangue. L’animale emise un verso spaventoso, di dolore misto a rabbia.

«Maledetto!» urlò lo gnomo e con un fendente squarciò un’ala di Oarf.

Il drago nero perse rapidamente quota e rovinò sulla cima degli alberi, trascinando con sé i rami.

Oarf lo seguì poco dopo e andò a cadere qualche braccio più in là.

Per un attimo Nihal non vide altro che un turbine di foglie e schegge di legno, poi venne sbalzata dalla schiena del suo drago e rimbalzò al suolo.

Fu il sibilo di una lama a riportarla alla realtà.

«Hai osato troppo, ragazzino!» urlò Dola.

La ragazza fece appena in tempo a spostarsi, rotolò su un fianco e sentì la spada dello gnomo configgersi a un soffio dalla sua testa.

Rimase accucciata tra i cespugli, affannata. La spada! Dov’è la mia spada? Non riusciva a contare le ferite dello gnomo, ma erano molte e alcune dovevano essere profonde. Com’è possibile che gli sia rimasta tanta energia? Nihal cominciò ad arretrare, le ginocchia piegate, le mani tra il fogliame alla ricerca della sua spada.

Dola sembrava sicuro della vittoria. «Sei finito, ragazzo. Sei finito» ripeteva mentre avanzava lentamente.

Nihal inciampò su qualcosa di tagliente. Le sfuggì un gemito dalle labbra e cadde all’indietro. Perdeva sangue da una caviglia, ma mai una ferita l’aveva resa tanto felice.

Dola scoppiò a ridere.

«Risparmiami, ti prego» sussurrò Nihal.

«Adesso mi preghi?» sibilò lo gnomo. «Non mi basta, Cavaliere. Riprova, puoi fare di meglio.»

«Ti supplico. Lasciami vivere» lo implorò Nihal. Si spostò impercettibilmente verso di lui.

«E perché dovrei?»

Nihal si prostrò a terra. «Ti servirò per sempre, farò tutto quello che vorrai...» piagnucolò. Protese le braccia sul terreno finché la mano destra non incontrò qualcosa di duro e freddo. Fu allora che si alzò di scatto, la spada di nuovo in pugno.

Si lanciò contro di lui, ma i suoi colpi erano meno precisi, aveva la vista annebbiata e il dolore le toglieva il fiato. Duellarono ancora a lungo, mentre il suono stridulo delle lame che si incrociavano violentava il silenzio della notte.

Anche Dola sembrava accusare la stanchezza. Prese ad arretrare. Sbagliò una parata, poi un’altra ancora. Colpiscilo ora! Colpiscilo!

Lo gnomo non ebbe il tempo di vedere il fendente in arrivo. La lama di cristallo lo centrò al ventre e per un istante il bosco si illuminò di un bagliore bianco.

Dola urlò di dolore e la sua corazza cadde a terra in frantumi. Si appoggiò a un albero gemendo. Nihal rimase in guardia, ma un sorriso le affiorò alle labbra. Ce l’aveva fatta.

La sua soddisfazione durò poco.

Dola le scoccò un’occhiata sprezzante. «Ebbene? È tutto qui quello che sai fare?» disse, poi tese ancora la spada verso di lei.

Dagli occhi di Nihal sgorgarono lacrime di rabbia. Non c’era modo di sconfiggerlo. Non ce la faceva più, non avrebbe retto un altro scontro. Era destinata a morire per mano del mostro che aveva ucciso la sua infanzia.

Poi accadde qualcosa che le mozzò il respiro.

La Lacrima incastonata nell’elsa della sua spada prese a brillare e l’albero a cui Dola si era appoggiato si illuminò di colpo ed emanò un chiarore argenteo e terribile. Le radici uscirono dal terreno, avvolsero il corpo tozzo dello gnomo e lo gettarono a terra. I rami si contorsero fino a toccare il suolo e si avvilupparono intorno ai suoi arti.

Nihal osservò la scena terrorizzata. Lo spettacolo di quell’immenso albero che si muoveva aveva un che di spaventoso, di sovrumano, di potente. Un Padre della Foresta la stava aiutando.

Vide la corteccia brillare minacciosa, le foglie diventare acuminate come lame di coltelli e penetrare sotto la pelle di Dola, i rami scuotere con violenza il loro prigioniero per poi gettarlo lontano.

Dola andò a sbattere contro un altro albero e cadde in modo scomposto sul terreno. La luce svanì a poco a poco e l’alberò tornò immobile e silenzioso.


A Nihal sembrò di avere perso la cognizione del tempo. Non sapeva per quanto era rimasta lì, immobile, a guardare quel corpo steso a terra. Quando si riscosse, si accorse che tremava da capo a piedi e che nella sua testa rimbombava un unico grido: “Uccidilo! Uccidilo! Uccidilo! ”.

Si avvicinò piano a Dola. Era a poche braccia di distanza, ma a lei parvero miglia. Quando gli fu sopra lo guardò. Ansimava in una pozza di sangue, ma la fissava ancora con occhi di fuoco.

Nihal alzò la spada e la conficcò nella spalla dello gnomo, inchiodandolo al suolo. Il suo grido le sembrò un canto melodioso.

Solo allora si tolse l’elmo e lo gettò lontano.

Dola accennò un sorriso beffardo. «Dunque era vero: ce n’è ancora una, di voi bastardi...»

Nihal fu accecata dalla rabbia. «Sì, ce n’è ancora una, Dola» ringhiò. «Si chiama Nihal della Torre di Salazar. Guardala bene in faccia, perché sarà lei a strapparti la vita.» Mentre lo diceva, gli puntò la lama alla gola.

«Me la ricordo bene, Salazar. Bruciava che era una meraviglia...» bisbigliò lo gnomo. «Uccidimi pure, giovane mezzelfo. Ma non illuderti: non servirà a fermare il Tiranno. Non ti basterebbero mille vite per ucciderci tutti.»

“Uccidilo! Uccidilo!” ripetevano le voci.

Ma Nihal esitava.

Basta così poco. Devo solo premere la lama sulla sua gola e poi sarò felice, avrò fatto ciò che devo.

Aveva promesso, non poteva.

Quanti uomini ho finito con un colpo di spada? Quanti fammin ho trucidato? Quante agonie sono passate sulla mia lama? Cosa può significare una morte in più?

La mano che stringeva l’elsa era sudata, la fronte gelida.

Nihal ricordò le parole di Megisto: “Vuoi vederlo implorare pietà. E quando sarà ferito ai tuoi piedi, vuoi tagliargli la gola e guardare il suo sangue inzuppare il terreno. E quando sarà morto riderai e sentirai che la tua vendetta è compiuta”.

No! No! No!

Fece un passo indietro sulle gambe malferme. Rinfoderò la spada. «Saranno altri a decidere la tua sorte, maledetto» disse con un filo di voce.

Dola la guardò tra le palpebre socchiuse. «Stai commettendo un grosso errore, mezzelfo, un grosso errore...» Le sue parole si spensero lentamente, mentre gli si chiudevano gli occhi.

22 Il segreto di Ido.

La scelta di tenere impegnato Dola e dare alle truppe il tempo di attaccare si dimostrò vincente. Lo scontro era stato duro, ma la battaglia si era conclusa con la vittoria dell’esercito delle Terre libere. All’alba, l’accampamento del bosco di Herzli era stato riconquistato.

Mentre a terra infuriavano i combattimenti, Laio aveva assistito al duello tra Nihal e Dola dal colle. Aveva guardato Oarf e l’immenso drago nero agitarsi nel cielo notturno, aveva sentito le grida di Nihal. Aveva chiuso gli occhi a ogni ferita ricevuta dall’amica ed esultato quando la sua spada si era conficcata nell’impenetrabile armatura dello gnomo. Poi aveva visto Nihal precipitare insieme a Dola e ai due draghi ed era corso col cuore in gola dal generale.

Quando la squadra di ricognizione riportò indietro Nihal, coperta di sangue e incosciente, sul campo calò un silenzio attonito. A breve distanza quattro soldati trascinavano Dola, incatenato e ferito.

Il mago dell’accampamento rimase accanto a Nihal per tutto il giorno e solo la sera successiva si azzardò a dire che forse il peggio era passato.

Nihal non avrebbe serbato alcun ricordo del tempo trascorso sulla branda dell’infermeria. Nemmeno i sogni vennero a darle l’impressione di essere viva. Era proprio come la morte: buio e nulla, ovunque.

Alla notizia che Nihal era gravemente ferita, Ido spronò Vesa a volare più veloce del vento. Lui e Laio si diedero il cambio al suo capezzale, la vegliarono notte e giorno, attesero con fiducia il momento in cui avrebbe aperto gli occhi.


«Continua a chiamarti, Ido.»

«Lo so.»

«Ma è vero? Voglio dire, è vero che lui...»

«Sta’ zitto, Laio. Zitto.»

Nihal dischiuse lentamente le palpebre e dal buio emersero due figure indistinte.

Si sentì chiamare. «Nihal! Nihal, sei sveglia?» Laio... Aprì e chiuse gli occhi e i volti chini su di lei si fecero riconoscibili. Laio aveva i capelli arruffati e l’aria stanca. Ido sorrideva. Nihal cercò di rispondere a quel sorriso, ma non fu certa di esserci riuscita.

«Sono orgoglioso di te» mormorò Ido.

All’improvviso Nihal ricordò ogni cosa.

Sì, anche lei era orgogliosa di se stessa.


Per tutto il periodo in cui restò in infermeria, Nihal ricevette un’infinità di visite. Fra i primi ad arrivare vi fu il generale, che si impegnò a farle avere un riconoscimento ufficiale per la sua impresa. Poi iniziò la processione dei soldati e Nihal fu costretta a raccontare fino alla nausea come aveva sconfitto il più temibile guerriero del Tiranno. Non che non fosse lusingata da tutte quelle attenzioni, ma il ruolo di eroina del giorno la metteva a disagio.

Ido invece si faceva vedere di rado e quando andava a trovarla restava sempre poco. Nihal in parte ne era sollevata. Non poteva dimenticare con quale arma aveva battuto Dola, né con quali motivazioni. Certo, non lo aveva ucciso. Aveva tenuto fede al giuramento fatto a Megisto. Aveva raggiunto il suo obiettivo. Ma ora?

Dopo dieci giorni di convalescenza poté muovere i primi passi con le stampelle. Uscì dalla tenda e fece un giro dell’accampamento.

Il sole estivo era caldo e le accarezzava la pelle. Nihal si sentì quasi a casa. Le sembrava di riconoscere quel sole: era lo stesso che l’aveva vista crescere spavalda tra le mura di Salazar.

Per prima cosa volle andare da Oarf. Non appena lo vide, accucciato su un prato ai margini dell’accampamento, con la ferita all’ala non ancora cicatrizzata, le si strinse il cuore.

Gli si avvicinò zoppicando. «Ce l’abbiamo fatta, amico mio, ce l’abbiamo fatta» disse. Gli accarezzò il muso e il drago le leccò la mano.

Più tardi, mentre mangiava nella mensa del campo, Nihal ebbe modo di cogliere uno strano discorso tra un paio di fanti seduti alle sue spalle.

«E ancora insiste?»

«Altroché, se insiste! E pensa che noi non ne sapevamo niente!»

«A me sembra impossibile. Insomma, stiamo parlando di Dola! Se fosse vero ci sarebbe di che preoccuparsi...»

«Chi può saperlo? Resta il fatto che Ido non ha detto una parola sull’argomento.

Ora, se qualcuno mi accusasse di essere stato in combutta col nemico, io mi farei in quattro per smentire...»

Nihal si voltò di scatto. «Di cosa state parlando?» chiese con voce tesa.

«Niente d’importante...» rispose uno dei due fanti, imbarazzato.

«Voglio sapere di cosa state parlando!» ripeté Nihal.

«Parlavamo di Dola» intervenne l’altro. «Da quando è qui, non fa altro che chiedere di Ido. Vuole parlare con lui.»

Nihal sentì il sangue salirle al viso. «Perché?»

«Dice che si conoscono da tanto tempo... che hanno combattuto fianco a fianco» continuò il fante.

«È una menzogna!» urlò Nihal. Una fitta al costato le tolse il respiro, ma non le impedì di agguantare le stampelle e alzarsi in piedi. «Dov’è quel verme?»

«Nella zona occidentale del campo, dove teniamo i prigionieri. Ma il generale ha dato ordine che...»

Le parole del soldato si persero nel nulla. Nihal se n’era già andata, saltellando sulle grucce.

Quando entrò nella sua tenda, Laio era intento a lucidarle la spada.

«Allora, come te la sei cavata con quei trabiccoli?» chiese il ragazzo con un sorriso, che però gli svanì dalle labbra di fronte allo sguardo di Nihal. «Che cosa succede?»

Nihal non rispose. Gli tolse l’arma dalle mani e uscì.

Laio si affacciò fuori dalla tenda. «Nihal, aspetta!» La guardò allontanarsi, poi scosse la testa e rientrò, rassegnato.


«Fammi entrare» ordinò Nihal alla guardia. Era pallida e sudata. Dalla fasciatura che le stringeva il torace affiorava una macchia rossa.

«Veramente ho avuto disposizioni di...»

«Fammi entrare» ripeté lei.

«Va bene, ma io non voglio saperne niente» borbottò il soldato. Scrollò le spalle e le aprì la porta del gabbione di legno che fungeva da cella.

Quando Nihal entrò, fu investita da un odore di muffa e di stantio. La cella era buia e le sottili lame di sole che filtravano tra un’asse e l’altra illuminavano a malapena l’ambiente. La ragazza avanzò di pochi passi, inciampò, cadde in avanti.

Tra le pareti di legno echeggiò una risata. Lentamente, dal buio emerse la figura di uno gnomo tanto muscoloso da parere innaturale. Aveva mani e piedi costretti da pesanti catene, il corpo era ricoperto di ferite, ma non sembrava sofferente. I suoi occhi da furetto guardavano Nihal con disprezzo.

«Non ti reggi nemmeno in piedi, mezzelfo?»

Nihal puntò la spada innanzi a sé, furente. «Taci! Io non mi reggerò in piedi, ma dei due, sei tu quello in catene!»

«Che ferocia» ridacchiò Dola. «Forse il Tiranno non ha tutti i torti a temerti.»

«Il Tiranno non sa chi sono» rispose Nihal.

«Non sa chi sei, ma ti teme ugualmente. Per questo ti sta cercando» sussurrò lo gnomo. «Quanto credi che potrai ancora nasconderti, prima che ti trovi?

Non ti servirà a niente avermi battuto, perché tra breve l’inferno vi sommergerà tutti. E tu andrai a fare compagnia ai tuoi antenati. Siete finiti, mezzelfo.»

Nihal si avvicinò a Dola fino a sfiorargli il petto con la lama. «Cosa vai dicendo del mio maestro?»

«Il tuo maestro?» disse Dola incredulo. «E così è stato Ido a insegnarti... Mi meraviglio, non è mai stato un gran guerriero.»

Nihal fu sopraffatta dalla rabbia. «Come ti permetti di infangare l’onore di Ido, verme?»

Dola rise di gusto. «Onore? Quale onore? Ido è un traditore! Ha combattuto al soldo del Tiranno per anni. Era con il Tiranno durante la strage dei mezzelfi.»

«Che cosa stai dicendo?» urlò Nihal.

«Il tuo maestro ha partecipato allo sterminio della tua gente, mezzelfo. Fattelo raccontare, quando ti capita.»

«Taci! Taci!» gridò Nihal.

Aveva appena alzato la spada, quando la porta si spalancò e la gattabuia fu inondata di luce. Nihal si sentì afferrare il polso. L’arma le scivolò di mano e cadde a terra con fragore.

«Nessuno ti ha autorizzata a venire qui» disse il generale. Alle sue spalle apparvero quattro soldati.

Nihal si accorse che il cuore le batteva all’impazzata. Le gambe non la reggevano. Ebbe un capogiro. Appoggiò la schiena a una parete della cella e scivolò fino a sedersi a terra.

Il generale fece un cenno col capo a uno dei soldati. «Manda a chiamare il suo scudiero.»


Laio arrivò di corsa e la portò fuori, lontana dalla gattabuia. La fece sdraiare sull’erba, all’ombra di un albero.

Nihal non ebbe la forza di opporre resistenza. «È falso» continuava a ripetere mentre le si annebbiava la vista. «Quel che dice è falso...»

Poi abbassò le palpebre. Quando le riaprì, Ido era in piedi accanto a lei e la guardava in silenzio.

«Dimmi che non è vero, dillo a tutti...» mormorò Nihal.

«Dobbiamo parlare, Nihal» rispose lo gnomo.

23 Ido della Terra del Fuoco.

Seduta sulla brandina nella tenda di Ido, Nihal guardava il suo maestro con aria spaesata. Le sembrava che il mondo le si sgretolasse sotto i piedi.

«Perché non l’hai smentito, Ido? Perché non hai detto a tutti che raccontava solo menzogne?» chiese con un filo di voce.

Ido le si sedette accanto e si passò le mani sul viso. Fissò a lungo il pavimento. Sembrava cercasse in terra il coraggio e le parole. Alla fine alzò gli occhi e la guardò in faccia. «Quello che ha detto Dola è vero.»

Niente. Bianco. Nihal non provò nulla. Che cosa doveva provare? Non trovava emozioni con cui esprimere lo stupore, la rabbia, il dolore. Bianco.

«Io vengo dalla Terra del Fuoco, Nihal, ma questo lo sai. Ciò che non sai è che sono l’erede al trono di quella Terra.»

Ido fece un respiro profondo, le si sedette accanto e cominciò a raccontare.

Quando la guerra dei Duecento Anni finì e Nammen, il re dei mezzelfi, prese il potere su tutto il Mondo Emerso, sulla Terra del Fuoco regnava Daeb, un re né migliore né peggiore di tanti altri.

Le volontà del nuovo sovrano sovvertirono l’ordinamento politico ottenuto con anni di battaglie: Nammen decise che le Terre da lui conquistate fossero restituite ai legittimi popoli, destituì tutti i regnanti e stabilì che ogni Terra eleggesse il proprio re.

Alcune Terre vollero mantenere i propri monarchi, altre ne scelsero di nuovi. Nella Terra del Fuoco, tuttavia, il popolo degli gnomi non ebbe la possibilità di eleggere nessuno. La decisione di Nammen scatenò una guerra intestina tra le famiglie nobili, che portò all’assassinio di Daeb e all’esilio forzato del suo primogenito Moli.

Moli era giovane, ma giurò che non avrebbe mai dimenticato quel che era accaduto e che prima o poi si sarebbe ripreso ciò che gli spettava.

Si stabilì nella Terra delle Rocce e sposò Nar, una ragazza del posto, gnomo anche lei, da cui ebbe due figli: Ido e Dola.

Moli amava i suoi figli, ma la sola cosa che davvero contasse per lui era la vendetta. Aveva un solo pensiero: riprendersi la corona e vendicare il padre.

Ido e Dola impararono a maneggiare la spada fin da piccoli. Quando non era in viaggio per il Mondo Emerso in cerca di alleanze, Moli li addestrava personalmente.

Ido era solo un bambino, ma era bravo con le armi. Il padre gli ripeteva di continuo che sarebbe diventato re. Gli diceva di odiare chi aveva tolto loro il trono e lui odiava. Gli diceva che avrebbe dovuto uccidere il nemico e lui annuiva convinto. Lo mandò all’Accademia dei Cavalieri di Drago che era appena un ragazzino: fu lì che conobbe Vesa, fu lì che imparò tutto.

Dola era diverso; era gracile, non era portato per il combattimento, si ammalava facilmente. E poi era il figlio minore: non doveva ereditare il trono, bastava che al momento giusto fosse capace di lottare. Moli lo tormentava, lo costringeva ad allenarsi sotto la pioggia battente, cercava in tutti i modi di farne un guerriero. Dola si impegnava come può impegnarsi un bambino che vuole compiacere il padre: si allenava da solo, metteva l’anima in quel che faceva, ingoiava insulti e angherie.


Fu subito dopo la nomina di Ido a Cavaliere che avvenne la svolta.

Moli si mise in contatto con un giovane mago molto ambizioso che gli assicurò il suo appoggio per riconquistare il trono usurpato a Daeb. Prese a recarsi sempre più spesso nella Grande Terra e quando tornava da quei viaggi sembrava soddisfatto.

Un giorno dovette partire per la Terra della Notte e volle che Ido e Dola lo accompagnassero. Raggiunsero un luogo sperduto, una sorta di palazzo incuneato tra le montagne, impossibile da trovare per chi non ne conoscesse l’ubicazione.

Là Ido e Dola conobbero per la prima volta l’uomo in cui loro padre credeva ciecamente. O meglio conobbero la sua voce, perché l’uomo si celava dietro un pesante tendaggio nero. Una voce indecifrabile, senza età, non umana.

«Questi sono i miei figli, signore» disse Moli, in un tono servile che colpì Ido.

«Qual è il maggiore?» chiese la voce.

Moli spinse avanti Ido. «È lui, mio Signore.»

“Mio signore”, così disse Moli. Ido non capiva: suo padre era un re e lui un principe, nessuno poteva essere il loro signore. Era a disagio. Non poteva vedere quell’uomo, eppure sentiva il suo sguardo su di sé.

L’uomo dietro la tenda gli chiese se rivoleva il suo trono.

Ido rispose che sì, certo che lo voleva.

L’uomo non disse altro.

Poi fu la volta di Dola. Con lui parlò a lungo e a Ido sembrò che lo avesse preso in simpatia.


Due mesi dopo quell’incontro, Moli disse ai figli che dovevano tornare nella Terra della Notte e pianificare l’attacco alla Terra del Fuoco. Ad attenderli avrebbero trovato un esercito.

Ido e Dola rientrarono nel palazzo dell’uomo senza volto. L’esercito c’era, grande e numeroso, e Ido sentì il sangue scorrere veloce nelle vene: il grande giorno era arrivato! Finalmente, dopo anni di soprusi e di esilio, si sarebbero ripresi ciò che era loro.

C’era molta altra gente dall’uomo velato, gente che Ido non conosceva. Fu quello il giorno in cui il Tiranno ascese al potere e Ido era lì. Non gli interessava sapere che cosa quell’uomo stesse tramando, né perché. Voleva solo la sua corona, e per quella lottò.

Fu la sua prima guerra. La campagna durò tre mesi, fu lunga e faticosa, fu ferito più di una volta e rischiò la vita, ma niente sembrava fermarlo. Combatteva per la sua famiglia, per la sua corona. Quel sogno lo accecava. Dola invece combatté solo all’inizio, poi prese a trascorrere periodi sempre più lunghi nel palazzo dell’uomo velato. Il Tiranno, come si faceva chiamare ora.

Ido giunse in vista di Assa, la capitale della Terra del Fuoco, un giorno di luglio. Aveva attraversato un paese in rovina e la popolazione lo aveva salutato come un salvatore. Era poco più di un ragazzo e tutte quelle braccia tese, la gratitudine della gente, la vittoria gli diedero alla testa. Si sentì un eroe e con quella convinzione raggiunse il palazzo reale, che le truppe comandate da Moli avevano già messo a ferro e fuoco.

Il re usurpatore e tutti i suoi familiari erano stati riuniti nella sala del trono. Il sovrano implorò di avere salva la vita.

Moli ascoltò in silenzio, sorridendo. Poi guardò Ido e gli porse la spada. «A te l’onore» disse.

Ido si avvicinò e lo trafisse senza pietà. Aveva già ucciso, ma sempre in battaglia. Gli piacque togliere la vita a quell’uomo che non conosceva. Gli piacque vedere la disperazione della sua famiglia. Quel giorno diventò un assassino.


I mesi successivi furono dedicati alla vendetta. Moli fece uccidere o imprigionare tutti coloro che avevano appoggiato il vecchio re e inaugurò col sangue la nuova era. Ido invece si dedicò ai piaceri della vita. Divenne uno sfaccendato. Passava le giornate a corte e le notti a fare baldoria tra donne e birra, si disinteressava di quello che accadeva fuori dai confini della sua Terra. Non aveva altro scopo nella vita che godersi quella corona che suo padre gli aveva promesso da sempre. Finché un giorno Moli non lo convocò.

«Il Tiranno vuole che tu vada da lui» disse in tono grave.

«E perché?» sbuffò Ido. «Non ci penso neppure!»

«Ti ricordo che abbiamo un debito con lui, Ido. Tuo fratello lo ha già raggiunto nella Grande Terra. Partirai stasera stessa» ordinò Moli e con questo chiuse la discussione.

Nella Grande Terra Ido trovò enormi cambiamenti: dove un tempo sorgeva il palazzo del Consiglio era in via di costruzione un’immensa torre di cristallo nero. Il Tiranno stava edificando la sua Rocca. Per il momento non era che una massiccia base ottagonale alta non più di quattro piani, ma era maestosa e impressionante. Le pareti mandavano bagliori funebri, le finestre erano alte ogive spalancate come orbite in un cranio. Ai lati della torre centinaia di schiavi lavoravano giorno e notte ad altri otto edifici minori: i tentacoli che in futuro avrebbero insidiato ciascuna delle Terre libere.

Fu Dola ad accogliere il fratello e ad accompagnarlo nel salone delle udienze. Ido quasi non lo riconobbe: non era più il ragazzo gracile e fragile che conosceva. Sembrava cresciuto, aveva un’aria spavalda ed era vestito da guerriero.

Il Tiranno si celava, come sempre, dietro una pesante cortina nera. La sua voce risuonava nel salone come se provenisse dall’aldilà.

«È ora che tuo padre estingua il suo debito. D’ora in poi tu e tuo fratello combatterete per me» disse il Tiranno.

Ido tentò di protestare, ma il Tiranno lo interruppe bruscamente: «Questa è la mia decisione. Ed è anche quella di tuo padre, perché il mio volere e il suo sono tutt’uno, Ido. Ricordatelo». Fu così che Ido entrò nell’esercito del Tiranno. Ebbe un’armatura e una spada sulla cui elsa era inciso il giuramento di fedeltà al Tiranno. All’inizio non aveva molti uomini sotto di sé, perché il Tiranno non disponeva ancora di un esercito vero e proprio: erano i vecchi re destituiti da Nammen a fornirgli uomini e armi.


Ido fu distaccato sul fronte della Terra della Notte. Là imparò davvero il mestiere delle armi. Il Tiranno fece di lui un guerriero. Più passava il tempo, più la guerra gli entrava nell’anima. Amava il combattimento fine a se stesso, amava l’odore del sangue che ritrovava la sera sulla pelle, amava il terrore che incuteva nei nemici.

Il Tiranno diede uno scopo alla sua vita: uccidere. Più uccideva, più era temuto e più era temuto, più si sentiva forte. Quando scendeva sul campo di battaglia, la sua spada non si fermava finché non erano tutti a terra. Non aveva paura del dolore, non aveva paura della morte. Se non combatteva, non si sentiva vivo.

Tornava ad Assa di rado. La vita di palazzo che aveva amato tanto ora gli dava la nausea. Il padre non gli sembrava più lo stesso. Era invecchiato e ai suoi occhi era diventato un piccolo uomo meschino, in ansia per la sorte dei suoi figli e del suo regno, sul quale aveva sempre meno potere. Quando lo andava a trovare, Moli non faceva che piagnucolare, si lamentava delle tasse che doveva al Tiranno, degli uomini che il suo esercito gli strappava. Gli ripeteva che sentiva il fiato del Tiranno sul collo, lo supplicava di non lasciargli prendere la loro Terra.

Invece vedeva spesso Dola e ogni volta non si capacitava che fosse lui. Iniziava a farsi un nome come guerriero e aveva parecchie truppe sotto di sé. I suoi soldati lo temevano e lo rispettavano, e presto la sua fama fu maggiore di quella del fratello.

Ido iniziò a esserne geloso.

Poi il Tiranno lo convocò e gli disse che aveva un regalo per lui. Fu allora che lo mise a capo di una truppa di fammin. Da quel giorno, per dieci anni, Ido non fece altro che combattere.


Il Tiranno aveva fatto dono a Dola di un drago nero, un animale spaventoso che sembrava uscito dalle viscere della terra. In groppa a quella bestia, l’ascesa di Dola come guerriero sembrava giunta al culmine. Più di una volta Ido aveva guardato il drago nero con invidia. Vesa non reggeva il confronto.

«Voglio metterti alla prova, Ido» disse il Tiranno. «Se porterai a termine la prossima missione, avrai anche tu un drago nero e nuove truppe sotto il tuo comando. Soddisfami e ti renderò potente.»

La Terra della Notte era stata conquistata da più di un anno, ma lungo i confini erano ancora insediati numerosi gruppi di ribelli. Ido ricevette un contingente di duecento fammin e un solo ordine: sterminare.


La cittadella gli apparve da lontano, immersa nel buio perenne della Terra della Notte. Era piccola, una trentina di casupole di legno protette da un robusto steccato e neppure una sentinella a presidiarne l’ingresso.

Ido si aspettava che i ribelli stessero all’erta, ma non si fece domande. Anzi, si rallegrò: aveva dalla sua la sorpresa. Lanciò i fammin all’attacco e si alzò in volo con Vesa per tempestare di fuoco le capanne.

Ci mise un po’ a capire. I fammin non incontravano resistenza. Le uniche urla che sentiva erano di donne e bambini. Il Tiranno lo aveva mandato a sterminare un villaggio di mezzelfi. Si erano stabiliti lì dopo essere fuggiti dalla Terra dei Giorni. All’epoca erano già in pochi.

Ido aveva combattuto molto in quei dieci anni. Aveva ucciso senza scrupoli, aveva passato a fil di spada chi implorava pietà. Non aveva alcuna morale, non gli interessavano il bene e il male, degli altri non gli importava niente.

Ma quella volta, quando vide le sue truppe infierire su chi fuggiva, finire i feriti a morsi, gettarsi sui cadaveri, qualcosa in lui si ribellò. Quei nemici non erano soldati: era gente disarmata, che chiedeva solo di vivere in pace.

Planò con Vesa sulla mischia e ordinò la ritirata, ma i fammin non gli obbedirono. Gridò ancora, sempre più forte, senza risultato. Allora si lanciò sui suoi soldati, li finì uno dopo l’altro con la spada, ma fu tutto inutile. I fammin gli si rivoltarono contro e lo ferirono gravemente. Riuscì a salvarsi solo grazie a Vesa. Si mise al riparo in cima a un picco e assistette alla strage dall’alto.

Quando fu tutto finito scese a terra, smontò da Vesa e attraversò il villaggio a piedi. Si sentiva sul punto di impazzire. Era troppo. Era troppo anche per lui. Non voleva più combattere per quell’uomo, mai più.

Decise di tornare ad Assa. Fu costretto a battere strade poco percorse. Era ferito, ma soprattutto era un traditore. Ido non sapeva perché stesse andando da suo padre, non sapeva che cosa lo tenesse ancora in piedi, non sapeva più nulla. Fu un viaggio terribile. Poi raggiunse la Terra del Fuoco e la realtà gli si presentò in tutta la sua crudezza. La popolazione era tenuta in schiavitù, nei villaggi si respirava la disperazione. Le donne erano sole a occuparsi della terra, i bambini erano magri e laceri, gli uomini lavoravano nelle fucine nei pressi dei vulcani del regno per produrre armi.

Quando Ido arrivò al palazzo reale, lo trovò presidiato dalle guardie del Tiranno. Lo fermarono e lo trascinarono in catene nella sala del trono.

Seduto sullo scanno non c’era Moli ma Dola, irriconoscibile. Sul capo aveva la corona che era stata di suo padre. Ai piedi, accucciato, l’immenso drago nero guardava Ido con occhi di brace e sembrava ridere di lui.

«Fratello mio» esordì Dola in tono condiscendente «sai che il Tiranno è adirato con te?»

«Dov’è nostro padre?» chiese Ido, stremato.

Dola alzò le spalle. «Purtroppo è morto qualche settimana fa. Mi dispiace, non avrei voluto che tu lo venissi a sapere in questo modo...»

«Maledetto! L’hai ucciso!» gridò Ido, ma le guardie lo sbatterono a terra.

«È stata la sua stoltezza a ucciderlo» rispose Dola. «Perché fai finta di non capire, Ido? Perché non vuoi che il Nostro Signore si prenda cura di te? Guardami: il Tiranno mi ha reso potente, mi ha dato un corpo e una forza invincibili.»

Ma Ido non capiva, non riusciva a capire. «Tu sei pazzo...»

Dola scoppiò a ridere. «Il pazzo sei tu, se rinunci a questo. Ido, cosa vuoi che sia la vita di nostro padre, la vita degli inetti che ci circondano, di fronte al Potere? Tutto ci sarà permesso, potremo tutto, perché il Tiranno può tutto. Contribuiremo alla creazione di un nuovo ordine. Pensaci, Ido. Torna da lui e prostrati ai suoi piedi: ti perdonerà.»

La rabbia di Ido esplose. «Hai venduto la tua anima, Dola! Hai ucciso nostro padre e venduto la tua anima!» gridò mentre le guardie lo trascinavano via.

«Hai tempo fino a domani per decidere, fratello mio: o torni al servizio del Tiranno o sarai ucciso» concluse Dola.

Ido venne rinchiuso nella fortezza adiacente al palazzo, dove un tempo risiedevano le guardie personali di suo padre.

Era disperato per la morte di Moli e il peso della vita che aveva condotto fino a quel giorno gli franò addosso. Aveva permesso al Tiranno di compiere atti atroci, lo aveva aiutato a ottenere il potere, aveva lasciato che uccidesse suo padre e che distruggesse la vita dei suoi sudditi.

A salvarlo fu Vesa. In dieci uomini provarono a trattenerlo, ci si mise anche un mago, ma la forza di quell’animale sembrava indomabile. Il drago incenerì chiunque si trovasse sulla sua via e scappò dalle scuderie dopo averne sfondato una parete. Sorvolò a lungo la fortezza dove era rinchiuso Ido, levando alto il suo ruggito, incurante delle frecce che gli si incuneavano nella pelle. Poi scese in picchiata, abbatté le mura e trascinò il suo padrone al sicuro, oltre il fronte.

Ido si rifugiò nella Terra del Vento. Non aveva più un posto dove andare, un motivo per cui vivere. Fu allora che decise di consegnarsi all’esercito di quella Terra. Pensava che fosse giusto che a punirlo con la morte fossero coloro che aveva combattuto. Si presentò in un accampamento, gettò a terra la spada e chiese di essere arrestato. Quando i soldati lo riconobbero, sporco, lacero e ferito, restarono impietriti: non era mai capitato che un nemico si consegnasse spontaneamente. Il generale dell’accampamento ordinò che Ido venisse giudicato dal Consiglio dei Maghi.

I giorni prima di comparire di fronte al Consiglio furono i peggiori della sua vita. Era perseguitato dal ricordo del villaggio che aveva distrutto, dalla consapevolezza che quelle donne e quei bambini non sarebbero mai più tornati.

Ido fu condotto in catene al cospetto dei consiglieri. Disse loro tutto ciò che sapeva sull’esercito del Tiranno e sulle sue strategie future. Raccontò loro tutto quello che aveva fatto. Prima di essere riportato in cella, li pregò di ucciderlo.

Quella notte andò a fargli visita un consigliere. Il suo nome era Dagon.

«Con la tua morte non otterrai niente, Ido. La morte non laverà i tuoi peccati, non ti renderà un uomo migliore» gli disse. «Ma se vivi, dalla tua disperazione può nascere qualcosa di buono.»

Ido non capiva il senso delle sue parole.

«Il dolore per le tue azioni sarà sempre con te. La tua espiazione sarà il ricordo» continuò Dagon. Poi lo guardò negli occhi. «Sei un guerriero potente, Ido. Sono venuto a proporti di lottare per abbattere il Tiranno, per impedire che prenda possesso di altre Terre. È una mia iniziativa. Se vorrai morire, il Consiglio non si opporrà e sarai giustiziato. Ma se vorrai combattere nell’esercito delle Terre libere, farò di tutto perché tu possa avere un posto nelle sue file. Ora sta a te scegliere.»

Ido ci pensò a lungo. Era davvero possibile ricominciare? Poteva diventare un’altra persona? Non aveva mai considerato la possibilità di combattere per qualcuno: non per il potere, non per una corona, non per uccidere, ma per qualcuno.

Quando la settimana seguente si presentò al Consiglio, Ido accettò la proposta. Ovviamente non tutti i consiglieri e i vertici militari furono d’accordo. Soprattutto Raven, il Supremo Generale, che fu tra i suoi più accaniti detrattori.

Dagon, però, si assunse la responsabilità delle azioni dello gnomo.


Ido fu messo a fare il fante.

Il giorno della sua prima battaglia, Dagon andò a restituirgli la spada. Quando gliela porse, lo gnomo la guardò inorridito. Non riusciva neppure a toccarla. «Inciso sull’elsa c’è l’atto di obbedienza al Tiranno» mormorò. «Non posso...»

Il consigliere lo interruppe con un gesto e gli mostrò l’impugnatura: le rune del giuramento erano state grattate via; al loro posto c’era solo un’ampia abrasione.

«Non credere di poter ricostruire la tua vita ignorando le macerie, Ido» disse Dagon. «Il dolore svanirà, ma il ricordo no. Quest’arma è la testimonianza di quello che sei stato e il pegno che non sarai mai più come allora.»

Lo gnomo fece una pausa. Si alzò in piedi e bevve un lungo sorso d’acqua da una caraffa. La porse anche a Nihal, ma la ragazza non mosse un muscolo.

Ido appoggiò la caraffa a terra e si risedette sulla branda. «Non mi sono più separato dalla mia spada. Ho fatto altre incisioni, ho scritto sull’elsa il nome dei compagni caduti in battaglia, ma il segno più importante rimane sempre quella cancellatura.» Accese con calma la pipa e aspirò finché il tabacco non ebbe preso. «A quella battaglia ne seguirono altre e altre ancora. Raven mi mise i bastoni fra le ruote in mille modi. Arrivò ad accusarmi di tradimento. Aveva trovato un paio di disperati disposti a giurare di avermi visto complottare con un fammin. Ne uscii bene, ma da allora Raven non è tra le persone che mi piace incontrare. Sono in questo esercito da vent’anni, ho combattuto centinaia di battaglie, sono diventato un altro. Non ho dimenticato il mio passato, però so che ogni palmo di terreno che conquisto, ogni battaglia che vinco è un passo verso la redenzione. La strada del riscatto è infinita, Nihal. Non salderò mai il mio debito con la vita. Ma ho la presunzione di credere che anche il poco che faccio è qualcosa.»

Ido tacque e nella tenda scese un silenzio pesante come una cappa di piombo.

Nihal era ancora seduta sulla branda, immobile. Non riusciva a guardarlo, non riusciva a pensare a niente. «Perché non me l’hai mai detto?» sussurrò.

Ido alzò le sopracciglia. «Secondo te, perché?»

«Lo chiedo a te!» disse Nihal, alzando la voce. Era infuriata e sentì gli occhi riempirsi di lacrime di rabbia. «Io ti ho raccontato tutto di me! Il mio passato, i miei incubi, cose che non ha mai saputo nessuno! E l’ho fatto perché mi fidavo, perché mi stavi insegnando la vita. Mi fidavo, Ido, e tu invece mi tenevi nascosta una cosa simile!»

Lo gnomo si alzò in piedi e iniziò a camminare avanti e indietro per la tenda. Poi anche lui alzò la voce. «Ma cosa volevi che facessi? Quando sei arrivata alla base, con quelle orecchie e quei capelli, ho visto il passato precipitarmi addosso. Sapevo che era stato Raven a mandarti da me, sapevo che era l’ennesimo sgambetto che mi faceva. Per me eri solo una rogna, Nihal. Ma poi ho pensato che addestrarti, mostrarti cosa vuol dire combattere, insegnarti a vivere, fosse un modo per ripagare il tuo popolo di quel che avevo fatto.»

«Tu per me sei stato come un padre, Ido, e per te invece non sono stata niente. Tutto quello che mi hai insegnato è una menzogna! Tu sei una menzogna!» Nihal si alzò di scatto dal letto e cercò di raggiungere le stampelle, ma era ancora debole. Si aggrappò al telone della tenda e cadde in ginocchio.

Ido si avvicinò e le tese una mano, ma Nihal lo allontanò bruscamente. «Non mi toccare» disse, con occhi pieni di risentimento.

Ido si alzò lentamente e uscì.


Nihal si chiuse nella sua tenda e non ne uscì fino al giorno dopo. La ferita al costato si era riaperta. Si lasciò cambiare la medicazione da Laio, ma quasi non gli rivolse la parola.

Il pensiero che Ido avesse partecipato al massacro della sua razza la faceva impazzire. Ma non era solo quello. Era delusa. Per lei Ido era un uomo straordinario, aveva piena fiducia in lui, e ora scopriva che non era affatto come aveva sempre creduto.

I giorni passarono e Nihal si rimise in forze, ma non riusciva a perdonare Ido.

Pensava a lui in continuazione, ma ogni volta che lo incontrava alla mensa o in giro per l’accampamento, Nihal voltava la testa.

Una mattina, lo gnomo fece irruzione nella sua tenda in tenuta da battaglia, la spada in pugno.

«Ti sfido, Nihal» disse serio.

Nihal rimase di sasso, senza capire.

«Prendi la tua spada e vieni fuori» continuò Ido. «Ti do l’occasione di vendicare il tuo popolo.»

«Cosa diavolo...»

Ido afferrò la spada di cristallo nero e gliela gettò contro. «Prendi questa maledettissima spada ed esci, dannazione!»

Nihal lo seguì, confusa.

Il sole brillava basso sull’orizzonte e Ido raggiunse un piccolo spiazzo tra le tende, la spada pronta in mano. Non ci volle molto perché si radunasse una piccola folla.

«Sì, avanti, venite!» li incitò Ido. «Venite a vedere il traditore e la ragazzina che si fanno a fette.»

Nihal era disgustata da quella scena. «Ido, smettila» disse piano.

«E perché? Finiamola una volta per tutte. Hai sempre voluto vendetta, no? Bene, eccola: dopo Dola, ora puoi far fuori anche me. Impugna la spada e combatti. E ricorda: stavolta faccio sul serio. Se ti colpisco, ti ammazzo.»

Tutto intorno c’era un silenzio irreale. Nihal sentiva decine di occhi fissi su di loro. Era assurdo. Perché era lì? Perché Ido la fissava con quello sguardo feroce?

«Non fartelo ripetere! Mettiti in guardia!» ruggì Ido.

Nihal però restava imbambolata al centro dello spiazzo. Non era quello che voleva, non era quello...

Ido le si gettò contro e la disarmò in un lampo. «Non ho intenzione di batterti così. Riprendi la spada e combatti.»

«No» disse Nihal.

«Prendi la tua arma.»

«Non voglio battermi con te, Ido.»

«Allora cosa vuoi?» chiese Ido. Abbassò la spada. «Io non posso cancellare quello che sono stato, Nihal. E non voglio. Ora ci sono due vie: o mi ammazzi o accetti la realtà.»

Nihal lo guardò negli occhi. «Perché non mi hai detto la verità?» mormorò. «Perché nella mia vita nessuno ha mai avuto il coraggio di dirmi la verità?»

Lo gnomo si avvicinò, le mise un braccio intorno alle spalle e la portò via, facendosi strada tra i soldati curiosi.

24 Di nuovo insieme.

Quella mattina il risveglio non fu dei migliori. Nihal si sentì arrivare addosso una secchiata di acqua gelida e saltò letteralmente giù dal letto. Accanto alla branda c’era Laio, in piedi, con un secchio in mano.

«Sei impazzito?» strillò la ragazza, bagnata fradicia.

«C’è del fumo! Devi uscire subito dalla tenda!» rispose lui concitato.

Nihal guardò in alto: una piccola nuvola di fumo azzurro le aleggiava sopra la testa. Quando capì di che cosa si trattava, il cuore le balzò in petto.

Laio impallidì. «Oh, dèi del cielo! Sei tu che vai a fuoco!»

Stava già per correre fuori a prendere un altro secchio di acqua, ma Nihal lo fermò. «Calmo, stai calmo. Non sto andando a fuoco! Va’ fuori e cercami cinque pietre, il più possibile uguali tra loro, e un pennino con dell’inchiostro.»

«Ma che cosa...»

«È un incantesimo, muoviti!» urlò Nihal, agitata.

Qualcuno le aveva mandato un messaggio. C’erano solo due persone che potevano averlo fatto: Soana e... Sennar. Nihal non osava neppure pensare che fosse stato lui. Per quel che ne sapeva, Sennar poteva anche essere morto, e se era vivo di certo non voleva più vederla. Si ripeteva di non farsi illusioni, ma sperava con tutte le forze che fosse lui.

Laio tornò con le cinque pietre. «Vanno bene?»

Nihal gliele strappò di mano senza dire una parola e fece lo stesso con la penna e il calamaio. Si sedette a terra e iniziò a frugare nella memoria, per ricordare quali erano le rune che andavano tracciate sulle pietre. Perché non ho studiato di più quando ero con Soana? Rimase lì a lambiccarsi il cervello, mentre il cuore galoppava a briglia sciolta e le mani iniziavano a tremare. Com’erano? Come diavolo erano? Si ricordò le prime due rune e le tracciò con dita incerte, poi si sforzò di rievocare gli altri segni e finì per fare tre scarabocchi di cui non era affatto sicura. Mise le pietre in cerchio, quindi chiuse gli occhi e cercò di concentrarsi, ma in testa aveva un solo pensiero che scacciava tutti gli altri. Quando ebbe il coraggio di socchiudere gli occhi, vide il fumo, che fino allora aveva volteggiato intorno a lei indolente, rapprendersi in una sfera perfetta.

Le lettere presero a delinearsi, emergevano a una a una dal fondo blu con esasperante lentezza, ma apparivano chiare, distinte. Il messaggio era breve. Poche scarne parole che però a Nihal fecero l’effetto di un sorso di acqua fresca in una giornata torrida: “Sono tornato. Sennar”.


Nihal scattò in piedi e corse a dare la notizia a Ido, lasciando Laio a guardare imbambolato e perplesso quella bizzarra sfera di fumo blu. La ragazza non sapeva perché andava a dirlo proprio al suo maestro, ma sentiva che doveva raccontarlo a qualcuno.

«È una splendida notizia!» esclamò Ido.

«Chissà dov’è ora, se è vicino, quando potrò vederlo...» Nihal camminava su e giù, misurando ad ampi passi il poco spazio nella tenda.

Ido la guardò con l’aria di chi inizia ad avere il mal di mare. «Chiediglielo, no?»

Nihal si batté la fronte con la mano. «Hai ragione, che stupida, certo, gli devo chiedere dov’è, certo! Le pietre sono di là. E l’incantesimo? Com’era?» Poi, di corsa com’era venuta, se ne andò.

Nihal dovette ripetere la formula tre volte, perché non le riusciva di ricordarla con esattezza, ma alla fine mandò il messaggio e si mise in trepidante attesa della risposta.

Ci vollero due giorni, e per Nihal furono due giorni di tortura.

«Non pensare sempre e solo a quello, Nihal» le diceva Laio, ma erano parole buttate al vento.

Alla fine la risposta arrivò: Sennar sarebbe giunto al confine con la Terra del Vento nel giro di tre giorni e proponeva a Nihal di incontrarsi lì. Tre giorni. Erano lontani da quasi un anno, ma a Nihal tre giorni sembrarono un’infinità. In quei mesi erano cambiate tante cose. Lei si sentiva un’altra persona. Come sarebbe stato rivedere Sennar? Che impressione avrebbe fatto a lui?

La mattina del fatidico incontro, Nihal si svegliò assillata da un problema che non era ancora riuscita a risolvere. Dalla sera prima, sul tavolo della tenda erano appoggiati l’uno accanto all’altra il vestito verde e l’armatura. Nihal aveva comprato quel vestito per le grandi occasioni, ma sapeva che in fin dei conti non le assomigliava. Allora forse sarebbe stata meglio l’armatura, ma le sembrava fuori luogo andare a riabbracciare il suo migliore amico bardata come per una battaglia.

Era lì che si arrovellava, quando udì la voce di Ido fuori dalla tenda. «Posso entrare?»

Nihal agguantò il vestito, lo buttò sul letto e ci si sedette sopra in fretta e furia. «Sì... vieni pure...»

Ido fece capolino dall’ingresso e la squadrò. «Che cosa succede?»

«Niente, tutto a posto» rispose lei con noncuranza.

Ido vide un pezzo di stoffa colorata spuntare da sotto le gambe di Nihal. «Che cosa ci fai seduta su quell’abito?»

Nihal arrossì. «È che... non so cosa mettermi...» confessò alla fine.

Ido le rivolse un’occhiata divertita. «Fammi capire: non sai se presentarti come un guerriero o come una donna?»

«Più o meno...» Nihal era sempre più rossa.

Ido sorrise e si ficcò la pipa in bocca. «Mi dispiace, Nihal, ma questi sono consigli che esulano dal mio ruolo di maestro. Ti lascio al tuo dilemma.»

Dopo che lo gnomo si fu allontanato, Nihal rimase a contemplare le due possibilità ancora per un po’ e alla fine, esasperata dalla propria indecisione, prese l’armatura.


Prima di partire Nihal dovette chiedere una licenza; il generale fu abbastanza comprensivo e gliela diede senza troppe storie. Però le chiese il motivo.

«Il ritorno di un amico» disse lei vaga.

Uscita dal comando, fu quasi tentata di tornare nella tenda a cambiarsi, ma poi si vergognò di se stessa. Basta, Nihal. Non fare la stupida e parti, una buona volta!

Mentre volava con Oarf sentì la tensione sciogliersi a poco a poco. In groppa al suo drago si sentiva bene e l’emozione di rivedere Sennar ebbe il sopravvento sui dubbi e le insicurezze.

Quando fu in vista del confine, decise di fermarsi in una prateria sterminata. L’erba era grigia e zolle di terra brulla affioravano qua e là. Non sembrava neppure la steppa della sua infanzia, tanto era desolata. Il periodo trascorso in quella Terra ancora non l’aveva abituata a certi panorami.

Nihal si distese a terra e fissò il cielo: c’era qualche nuvola e l’aria era fresca. L’autunno avanzava.

Oarf le si acciambellò accanto e lei posò il capo sulla sua spalla squamosa. Non sapeva da che parte avrebbe visto comparire Sennar, né come, né quando. Le tornò in mente l’ultima immagine che aveva di lui: i suoi occhi tristi, il sangue che colava lento dalla ferita sulla guancia... Con che parole si sarebbe potuta scusare?

Nihal si mise a sedere e scrutò l’orizzonte: nulla, solo prateria. Tornò a sdraiarsi e a osservare la corsa delle nuvole. Il tempo stava cambiando, il vento soffiava veloce. Chissà se a Sennar sarebbe piaciuta la persona che era diventata. Chissà se anche lui era cambiato, se aveva trovato nuovi volti sulla sua strada, nuovi amici, nuove donne...Che razza di pensiero! Che cosa c’entrano le donne?

Si tirò di nuovo su. Non c’era più il sole a illuminare la prateria. Vento, vento, solo vento. La sterpaglia si piegava ora da un lato ora dall’altro e disegnava onde sulla superficie di quel mare d’erba riarsa.

Uno squarcio di cielo si aprì fra le nubi e un raggio di sole fece scintillare l’armatura. All’improvviso si sentì ridicola, tutta in ghingheri come per una parata. Se davvero fosse tutto come prima, non avrei avuto bisogno di mettermi questa roba e sarei corsa da lui con quel che avevo addosso. Non può essere più come prima. Però non voglio perderlo.

Quando furono trascorse due ore, iniziò a pensare che Sennar non sarebbe mai arrivato. L’aria profumava di pioggia, il cielo era livido. Nihal distolse lo sguardo dalle nuvole che si ammassavano sulla sua testa e lo vide, che arrancava all’orizzonte. Era solo un puntino, ma era lui, non poteva sbagliarsi. Il cuore iniziò a batterle forte. Si alzò in piedi per guardare meglio. Aveva una lunga palandrana nera, la solita, quella con l’occhio, quella che le faceva paura.

Rimase immobile a osservarlo avanzare, ad assaporare l’immagine di Sennar che arrivava da lei sano e salvo. Ora lo vedeva bene.

Nihal iniziò a correre a perdifiato, strillando il suo nome. La figura si fermò, appoggiò a terra una grossa bisaccia e guardò nella sua direzione.

Nihal continuò a correre, senza fermarsi, anche se le mancava il fiato, anche se sotto il peso dell’armatura le dolevano i muscoli delle gambe. Quando fu a pochi passi da lui gli saltò letteralmente addosso, travolgendolo. Caddero entrambi a terra, mentre Nihal lo abbracciava con tutta la forza che aveva. Era lui, era proprio lui, e sentire il suo corpo tra le braccia la commosse. «Sennar» mormorò. Continuava a stringerlo come se non potesse credere che fosse davvero lì, davanti a lei. Gli accarezzò la cicatrice. «Perdonami, sono stata una sciocca, perdonami.»

Sennar rise. «Non hai bisogno di scusarti» disse con voce soffocata. «Però ora ti spiacerebbe spostarti? Con quella roba addosso pesi un accidente.»

Scoppiarono a ridere e si rotolarono sull’erba, felici.

«Che fine hanno fatto i tuoi capelli?» chiese Nihal, mentre si asciugava le lacrime col dorso della mano.

Sennar si toccò la zazzera arruffata. «È una storia lunga. Diciamo che l’acqua di mare li aveva un po’ rovinati. Non ti piaccio così?»

Nihal lo squadrò in modo scherzoso. «Non so. Con i capelli lunghi eri più... mistico.» Non è cambiato niente. Siamo noi. Non è cambiato niente.

Sennar guardò Oarf, poi spostò lo sguardo sull’armatura. «Ce l’hai fatta.»

«Cavaliere Nihal, per servirla, consigliere!» La ragazza si alzò in piedi e girò su se stessa. «E tu, ce l’hai fatta? Come è andata la missione?»

«Sono tornato con un ambasciatore. Ha già iniziato a trattare con il Consiglio.» Sennar la guardò negli occhi. «Ho lasciato la riunione per venire da te.»

Tra i due calò un istante di imbarazzo, poi Nihal prese Sennar per mano e lo trascinò verso Oarf. «Salta su, ti faccio fare il tuo primo giro su un drago e ti porto all’accampamento.»

Sennar esitò, sembrava che l’idea di volare non lo entusiasmasse. «Ma... la sella?» chiese titubante.

«Basta che tu ti regga forte a me» rispose Nihal, quindi salì in groppa con un balzo.

Dopo che si furono innalzati iniziarono a cadere i primi goccioloni. Sennar si strinse a Nihal e lei si sentì felice come non le accadeva da tempo. Quel giorno la pioggia le mise allegria.


Giunsero al campo per l’ora di pranzo e Nihal fece fare a Sennar un giro per l’accampamento. Sennar rimase di sasso quando scoprì che l’amica comandava un plotone. «Sapevo che eri brava, ma non ti sembra di aver esagerato?» la prese in giro.

L’impresa con Dola aveva fruttato a Nihal grande considerazione e il generale le aveva affidato delle truppe da comandare in pianta stabile. Dopo un primo momento di entusiasmo, però, la ragazza si era resa conto che quella promozione era più un onere che un onore: ora non doveva più rendere conto solo a se stessa delle sue azioni in battaglia, dai suoi ordini dipendeva la vita di molta gente. No, fare carriera nell’esercito non era davvero tra le sue aspirazioni.

Nihal arrossì. «Poi ti spiegherò tutto. Ora voglio farti conoscere una persona.»

Pranzarono nella mensa del campo insieme a Ido. All’inizio Nihal ebbe l’impressione che lo gnomo, a dispetto di quello che le aveva detto, fosse imbarazzato proprio come un padre alle prese con l’amico del cuore della figlia, ma durò poco. Sennar aveva tante cose da raccontare e il pranzo trascorse in un volo.


Solo nel pomeriggio Nihal e Sennar ebbero modo di parlare davvero, come ai vecchi tempi. Scelsero un posto tranquillo ai margini dell’accampamento, un declivio da cui potevano godersi il panorama della pioggia che scendeva lenta. Si sedettero sotto un albero fronzuto.

Sennar raccontò a Nihal del suo viaggio, della paura della morte, del terrore freddo che aveva provato nel gorgo, dello splendore di Zalenia. Le raccontò del mostro, della tempesta e della fatica che aveva fatto per convincere il conte ad ascoltarlo. Le parlò di come aveva sventato l’attentato al re e della gioia mista a tristezza con cui aveva vissuto la sua vittoria. Nihal lo ascoltava affascinata.

«Insomma, il mio amico è un eroe» disse alla fine.

Sennar alzò le sopracciglia. «Io? Non eri tu quella che voleva sempre per sé la parte dell’eroina?»

Nihal sorrise e gli diede una pacca sul braccio. «Come ti permetti di prendermi in giro, consigliere?»

«Raccontami di te, adesso» disse Sennar.

Nihal guardò le gocce di pioggia che cadevano poco distanti, oltre la tettoia di rami e foglie sotto la quale erano seduti. Erano accadute troppe cose di cui si vergognava, aveva sofferto troppo. Ora che lui era lì, desiderava solo godersi la sua presenza.

«Forza, voglio sapere della tua vittoria» insistette Sennar.

Nihal non incominciò da una vittoria, bensì da una sconfitta. Gli raccontò di quando Ido l’aveva allontanata dall’esercito, dei suoi tentativi di vivere una vita come quella di tutte le altre ragazze, della disillusione e della consapevolezza che la spada la chiamava inesorabilmente. Gli parlò del suo addestramento, del giorno in cui era diventata Cavaliere e di quanto Ido fosse importante per lei. Alla fine gli disse anche di Dola. Però non citò il nome di Megisto, né la formula proibita. Quando Nihal ebbe finito di parlare, iniziava a calare la notte.

«Ti ho pensata molto mentre ero via» disse Sennar, guardandola.

«Non sarò stata un bel ricordo.»

«Non dire idiozie. Sei stata il mio unico legame con il mondo che mi attendeva qui sopra. Mi sono chiesto mille volte dov’eri, come stavi, se eri cambiata. E poi...» Sennar si interruppe.

«E poi?» chiese Nihal.

«E poi sono arrivato e ti ho vista venirmi incontro correndo. Quant’è che ci conosciamo? Quattro anni? Be’, in quattro anni non l’avevi mai fatto.»

Nihal lo guardò interrogativa.

«Insomma, quello che voglio dirti è che... sono fiero di te e di ciò che stai costruendo.» Sennar sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi scosse la testa e sorrise.


Sennar partì qualche giorno dopo, con la solenne promessa che sarebbe tornato presto. Il dovere lo chiamava, la sua presenza era richiesta al Consiglio, per continuare le trattative con Zalenia.

Nihal tornò alla vita di sempre. Mentre l’autunno colorava gli alberi e stingeva il cielo, la guerra diventò una triste abitudine, le battaglie un susseguirsi sempre uguale di stragi e sudore. Nihal sentiva che le mancava uno scopo e iniziava a sospettare che la chiave della sua vita non fosse sui campi di battaglia.

25 La morte del traditore.

Sennar si era buttato a capofitto nelle trattative per gli aiuti militari da Zalenia. C’era bisogno di qualcuno che mediasse tra Pelamas e i consiglieri. Dopo le avventure che aveva vissuto durante il suo viaggio, la cauta diplomazia del Consiglio lo annoiava, ma sapeva che la via della pace passava anche per quel sentiero. Quando vide che i negoziati erano arrivati a un punto morto, decise di portare l’ambasciatore del Mondo Sommerso con sé nella Terra del Vento. Voleva che toccasse con mano cos’era la guerra, che vedesse quanto bisogno avevano del loro aiuto.

Sennar scelse l’accampamento dove si trovava Nihal, così ebbe anche una scusa per andare da lei. Pelamas fu molto colpito: non aveva mai conosciuto altro che la pace dorata del suo mondo e sembrava un bambino messo di fronte a qualcosa che non è in grado di capire.

La mossa di Sennar si rivelò efficace e in poche settimane gli accordi furono finalmente raggiunti: metà dell’esercito di Zalenia sarebbe salita in soccorso del Mondo Emerso prima della fine dell’inverno. La missione di Sennar si era conclusa con successo e il Consiglio lo lasciò tornare al suo incarico nella Terra del Vento.

Di tanto in tanto Sennar ripensava a Ondine e si chiedeva se aveva fatto davvero bene a lasciarla. Ogni volta che rivedeva Nihal, però, i dubbi venivano fugati. Gli piaceva guardarla muoversi per il campo, dare ordini con piglio deciso. Era bello vederla così sicura, così forte. Sennar aveva sempre saputo che lo era, ma ora lo sapeva anche lei. Se pensava agli occhi di Ondine, capiva la distanza tra il suo amore marino e Nihal: Ondine aveva occhi limpidi in cui ogni pensiero si rifletteva come su una lastra d’argento puro. Gli occhi di Nihal erano profondi, imperscrutabili, erano gli occhi di chi non conosce ancora la propria strada. E Sennar ormai sapeva di amare quello sguardo pieno di incognite.


Sul fronte della Terra del Vento le cose erano migliorate. La cattura di Dola aveva gettato nel panico le file nemiche e l’esercito delle Terre libere poté approfittarne e riconquistare parte del territorio perduto. L’impresa di Nihal aveva provato che neppure i migliori guerrieri del Tiranno erano invincibili. Un’ondata di speranza aveva investito le truppe e benché l’inverno fosse alle porte, negli accampamenti sembrava che fosse arrivata la primavera.


Era una giornata di battaglia. Il reparto di Nihal si era spostato in una zona contigua all’accampamento per dare man forte all’esercito che attaccava un contingente nemico isolato. Mentre combatteva a terra, all’improvviso Nihal notò Laio, in piedi sul limitare del campo di battaglia: aveva lo sguardo perso verso un punto nel mezzo della mischia. Che diavolo sta facendo? Vuole lasciarci le penne? La ragazza sferrò un ultimo fendente mortale al fammin con cui stava lottando e corse verso il suo scudiero.

«Laio! Laio, vai via!» gli urlò mentre gli andava incontro.

Il ragazzo si riscosse e cominciò ad arretrare lentamente, senza smettere di fissare il vuoto con occhi allucinati. Nihal seguì il suo sguardo. Per un istante, in mezzo agli altri soldati, intravide un’ombra fugace e una sensazione di paura gelida le strinse le viscere.

La sera, nella sua tenda, Nihal volle tornare su quello strano episodio. Laio era seduto per terra e stava lucidando l’armatura, mentre Nihal puliva la sua spada.

«Che ti ha preso oggi?» chiese diretta.

«Mi sono solo un po’ spaventato, tutto qui» rispose lui con noncuranza.

«Per che cosa?»

Laio tacque.

«Laio, sto parlando con te. Cosa guardavi?»

Laio alzò gli occhi dai gambali e fissò Nihal. Era pallido. «Tu cosa hai visto?»

«Io...» Nihal scrollò le spalle. «Niente, Laio, non ho visto niente.» Non ho visto niente. È stata un’illusione.

«C’era qualcosa» disse Laio. Gli tremava la voce. «C’era qualcosa in mezzo alla mischia, qualcosa che... Oh, forse sto diventando matto! Lasciamo perdere.»

«Che cosa hai visto?» insistette Nihal, ma non era sicura di voler sentire la risposta.

Laio deglutì. «C’era un uomo in mezzo alla mischia. Era un soldato, ma sembrava... non so come spiegarti, diverso. E io mi sono sentito come catturato, ecco. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso. Allora ho continuato a guardarlo e... lo so che può sembrare assurdo, probabilmente mi sono sbagliato, ma in quel momento ero sicuro... insomma, ti ricordi Mathon?»

Nihal cercò di fare mente locale. Quel nome le diceva qualcosa. «Il soldato che ci ha accompagnato da tuo padre?»

«Proprio lui, ero sicuro che te lo ricordassi» continuò Laio.

Nihal sentì il sangue fermarsi nelle vene. Sì, se lo ricordava bene, e ancor meglio rammentava la sua fine per mano dei briganti. Uno spirito. Un morto. Come nei suoi incubi.

«Era lui, Nihal. Quando mi ha visto ha sorriso, ed era proprio lui, giuro. Ma poi quel sorriso è diventato un ghigno e io...» Laio si interruppe.

Non è possibile. Stai calma, non è possibile. Nihal chiuse gli occhi e fece un profondo respiro. Poi guardò il ragazzo. «Si chiama suggestione, Laio. Per quel che ne so, i morti stanno sotto terra.»

Laio sembrò sollevato. «Sì, lo credo anch’io» rispose con un sorriso.

Dopo quella sera non tornarono più sull’argomento.


Dola venne interrogato a lungo, ma a ogni domanda, a ogni intimidazione, opponeva sempre lo stesso sorriso: un sorriso da vincitore. «Siete già morti» ripeteva. «Siete tutti morti.»

Quando il Consiglio dei Maghi decise che fosse giustiziato, Sennar fu l’unico a votare contro, ma inviò comunque un messaggio a Nihal: Dola sarebbe stato decapitato pubblicamente a Laodamea, la capitale della Terra dell’Acqua, sede del Consiglio per quell’anno. Al campo Nihal fu la prima a saperlo e non poté impedire al suo cuore di esultare. Poi pensò a Ido. Non poteva fare finta di niente con il suo maestro. Doveva essere lei a dirglielo.

Lo raggiunse nella sua tenda al tramonto.

Lo gnomo era sdraiato sulla branda, immerso nella lettura di una relazione. Quando Nihal entrò, si alzò a sedere e si stirò sbadigliando rumorosamente. «Guarda chi si vede. Da quando hai le tue truppe fare due chiacchiere con te è impossibile. Questi novellini, appena fanno carriera non ti degnano più di uno sguardo» scherzò.

Nihal si guardò la punta degli stivali con un sorriso forzato.

Ido la squadrò. «Che cosa succede, Nihal?»

«Dola è stato condannato a morte» disse tutto d’un fiato.

Lo gnomo non mosse un muscolo. «Sei venuta per dirmi questo?»

«Non volevo che lo venissi a sapere da qualcun altro.»

«Lo apprezzo.»

«Ido, io...»

«Puoi andare.»

«Mi dispiace.»

«Puoi andare.»

Nihal uscì in silenzio e lasciò Ido da solo. Anche in quel momento era la gioia a prevalere: Dola avrebbe pagato col sangue, avrebbe scontato tutte le morti di cui era responsabile. Mi dispiace solo di non poter essere io a calare la scure. Mentre tornava alla sua tenda si ripeté che il suo atteggiamento era spregevole, ma la gioia non accennò a svanire.


Sennar non la lasciò neppure finire il discorso. «Non sono d’accordo» disse subito.

«Ho bisogno di andarci.»

«E allora vacci, ma non sperare che io ti accompagni.»

«Sennar, ti prego...»

Sennar alzò lo sguardo su Nihal. «Ma perché, perché vuoi farti del male?»

«Non voglio farmi del male» ribatté lei. «Ma devo essere lì, capisci? Lui era presente alla morte di Livon e ora io voglio essere presente alla sua. La tua vicinanza mi aiuterà a capire. Ho bisogno di averti al mio fianco.»

Alla fine Sennar dovette capitolare: avrebbe accompagnato Nihal all’esecuzione di Dola.

Laodamea non era lontana. Sul dorso di Oarf ci misero mezza giornata, ma solo perché la linea del fronte era avanzata.

A Nihal sembravano passati secoli da quando c’era stata la prima volta. La capitale della Terra dell’Acqua era una specie di grande villaggio popolato da ninfe e umani: le case degli uomini si addossavano le une alle altre come in una qualsiasi città, ma tra un quartiere e l’altro gli alberi, ovvero le abitazioni delle ninfe, crescevano liberi e rigogliosi.

L’esecuzione si sarebbe svolta nella piazza centrale.

Quando Nihal e Sennar la raggiunsero, la piazza era già gremita di persone, assiepate ai piedi della pedana rialzata su cui svettava il ceppo per il boia.

Nihal si accontentò di stare in mezzo alla folla invece che in prima fila. Sennar invece si sistemò con le spalle al palco.

«Non sei proprio d’accordo, eh?» chiese la ragazza.

«No, Nihal. Non ho mai assistito a un’esecuzione e non voglio farlo ora. Una decapitazione non è un intrattenimento» rispose lui in tono duro.

In quel momento due guardie nerborute condussero Dola sul palco. Lo gnomo era incatenato, aveva patito giorni e giorni di prigione e interrogatori, ma dal suo viso non traspariva neppure un’ombra di paura. Avanzava dritto, a fronte alta, con dignità. Quando fu di fronte al ceppo, gettò sulla folla uno sguardo carico di disprezzo e Nihal dentro di sé ritrovò intatto l’odio che l’aveva portata a imparare una formula proibita.

Il banditore lesse la condanna: «Il Consiglio dei Maghi, riunito nella Terra dell’Acqua, ha deliberato di giustiziare per decapitazione Dola della Terra del Fuoco, traditore delle Terre libere, per i molti innocenti che ha ucciso, per il dolore che ha causato e per aver attentato alla libertà». Sulla piazza scese un silenzio carico di tensione, di soddisfazione, di odio, di gioia. Nel vedere il boia avvicinarsi al ceppo con la scure in mano, Nihal sentì il cuore accelerare. Contò i passi che separavano la scure dalla testa di Dola come se la sua morte potesse cambiare qualcosa, come se gli uomini, le donne e i bambini che Dola aveva ucciso potessero rinascere dal suo sangue.

La mano di Sennar le strinse un braccio. «Guardalo, Nihal. Guardalo bene. Davvero toglie qualcosa al tuo dolore questo spettacolo meschino?» le sussurrò in un orecchio.

Poi la scure calò, a suggellare l’ultimo sorriso beffardo di Dola in quel mondo.


Nel pomeriggio, Sennar ricevette un messaggio da parte di Dagon: era una chiamata per il Consiglio. L’assemblea era stata fissata per il giorno successivo e il fatto che fosse stata anticipata non lo stupì. Da quando era tornato, le riunioni si erano susseguite a ritmo serrato. Con l’imminente arrivo delle truppe da Zalenia, le questioni da pianificare sembravano non finire mai.

Ciò che invece lo stupì fu che Dagon chiedesse espressamente che anche Nihal fosse presente.

«Io? E che cosa ci vengo a fare io? Non so un accidente né di politica né di strategia» commentò Nihal.

«A dire il vero, non ne ho idea» rispose Sennar pensoso.

Al calar del sole si recarono al palazzo reale, dove aveva sede la sala del Consiglio. Nihal c’era già stata una volta, quando Sennar aveva sostenuto la prova per diventare mago, ma aveva visto la sala solo di sfuggita. Il palazzo sorgeva sul ciglio di una cascata e il rumore dell’acqua che si gettava nel lago sottostante riportò alla memoria di Nihal immagini dolci e dolorose. Ricordava con spietata nitidezza ogni momento passato con Fen, ogni sua espressione, ogni mossa dei loro duelli d’allenamento.

Fu Dagon in persona ad accoglierli. «Benarrivato, Sennar. E salute anche a te, Cavaliere. Le tue gesta ti hanno preceduta.»

Nihal era confusa. Non era abituata a tutti quei convenevoli e si limitò ad arrossire e ad abbassare il capo.

«Sua maestà Astrea vi prega di perdonarla se non è qui a darvi il benvenuto, ma la difesa della sua Terra la impegna ogni notte» disse Dagon, mentre li precedeva lungo il salone vetrato dell’ingresso.

Nihal sgranò gli occhi. «Anche la regina mantiene la barriera magica?» sussurrò a Sennar. Il mago annuì.

Il palazzo sembrava disabitato. Camminarono a lungo, percorsero corridoi dalle volte altissime e saloni silenziosi. Infine imboccarono una scala e scesero un’infinità di gradini.

Quando Dagon si fermò di fronte a un grosso portone di bronzo, Sennar gli rivolse un’occhiata interrogativa. «Questa non è la sala del Consiglio.»

Dagon socchiuse la porta e fece loro cenno di seguirlo.

Sennar e Nihal entrarono, esitanti.

La stanza era grande e spoglia. Al centro c’era un tavolo di pietra.

La donna che vi era seduta si alzò lentamente. Era alta e armoniosa e indossava una semplice tunica di lana nera che sfiorava il pavimento. I capelli corvini erano raccolti in una treccia che le lasciava scoperto il viso e metteva in risalto gli occhi scuri. Sorrise. «Ne è passato di tempo, vero?» disse Soana.


Soana era stata la maestra di Sennar, e per un po’ aveva addestrato alla magia anche Nihal, di cui era zia. Erano trascorsi più di due anni da quando aveva lasciato il Consiglio. Da allora, Sennar e Nihal non avevano avuto sue notizie. Durante la sua assenza erano accadute un’infinità di cose. Ma ora era lì e non sembrava cambiata di molto. Aveva il viso tirato e qualche capello bianco, ma la maestosità dei tratti, la soggezione che ispirava a Nihal erano le stesse di prima.

Mentre Sennar le correva incontro, Nihal rimase ferma sulla soglia, incredula.

Soana tese una mano verso di lei. «Non vieni a salutarmi?»

Solo allora Nihal si avvicinò e la abbracciò.

Esaurita la commozione, Nihal e Sennar ebbero un momento di imbarazzo.

«Non temete» disse Soana con un sorriso triste. «So che cosa è accaduto a Fen. L’ho saputo prima dal mio cuore e in seguito da chi ho incontrato...»

Soana tacque per un istante, poi scosse la testa e riprese la sua espressione serena, ma Nihal percepì che soffriva ancora e che forse non avrebbe mai smesso.

«Dove sei stata in tutto questo tempo?» chiese Sennar.

«Ho viaggiato. Ho cercato persone, luoghi, certezze...» La maga guardò Nihal. «E risposte.»

«Le hai trovate?» chiese la ragazza.

«Sì, Nihal, e ne parleremo. Ma non ora. Adesso voglio godermi il piacere di avervi di nuovo con me. E sapere tutto di voi» disse con un sorriso.

Parlarono per tutta la sera. Nihal raccontò di Oarf e delle sue battaglie, Sennar dell’interminabile viaggio a Zalenia, ma le molte cose non dette aleggiavano tra loro. A Nihal continuavano a risuonare in testa le parole pronunciate da Megisto l’ultima volta che si erano visti: “La tua ricerca della verità è prossima a una svolta, Nihal. Ma spesso la verità è un bene terribile”.

Si ritirarono nelle stanze che erano state preparate per loro solo molto tardi. Nihal stava per chiudere la porta, quando incrociò lo sguardo dubbioso di Sennar.

«C’è qualcosa che non va?» chiese il mago.

«Sì» ammise lei.

«Non sei contenta che Soana sia tornata?»

«Sì, però...» Nihal esitò. Come faccio a dirglielo?

«È per il palazzo? Ti risveglia ricordi tristi?»

Nihal sospirò. Aveva sbagliato a tacere fino a quel momento. «Vieni dentro, Sennar.»

Gli raccontò tutto: di Megisto, della formula proibita, di quella specie di profezia. Nihal non aveva mai visto Sennar così infuriato.

«Sei ammattita? Ti rendi conto di quello che hai fatto?»

«Sennar, ti prego, non metterti a farmi la morale.»

«Non ti faccio la morale, maledizione!» inveì lui. «Le formule proibite sono pericolose. Per te come per chiunque altro! Hai corso un grosso rischio, Nihal. E per cosa?»

«Non voglio discutere di questo, ora» disse Nihal.

«Ah, no? E di che cosa vuoi discutere, di grazia?» Era davvero infuriato. «Parliamo un po’ dei tuoi sogni, allora!»

Nihal scosse la testa.

«Invece sì, Nihal!» insistette il mago a voce più alta. «Raccontami come vanno i tuoi sogni.»

Nihal dovette ammettere che, da quando aveva appreso la formula dell’Ombra Inestinguibile, gli incubi si erano fatti più insistenti. «Ma non è questo il punto, Sennar, è un’altra la cosa che mi preoccupa. Che cosa intendeva dire Megisto? Perché la verità dovrebbe essere terribile? È tutta la vita che mi chiedo qual è il senso della mia sopravvivenza...»

Sennar si diresse alla porta senza rispondere. Prima di uscire la guardò con occhi severi. «Non puoi far dipendere la tua vita da verità che sono in mano ad altri, Nihal. Sei tu che devi trovare la via. Credevo che lo avessi imparato.»


Il giorno dopo, Nihal bussò alla stanza di Soana molto presto. Il sole non era ancora sorto e una bruma d’inizio inverno avvolgeva il palazzo.

«Ho bisogno di sapere» le disse semplicemente.

Soana annuì e prese il mantello. «Vieni, usciamo.»

Il giardino pensile si trovava esattamente sopra la cascata. Soana si appoggiò al parapetto e osservò l’acqua che scrosciava. «Mi hai perdonata?»

Non era facile rispondere: la scoperta che Ido e Dola erano fratelli aveva costretto Nihal a ripensare a tutto quello che Soana le aveva taciuto. Aveva sempre saputo delle sue origini e dello sterminio dei mezzelfi, ma non le aveva mai raccontato niente. Aveva atteso così a lungo, che alla fine Nihal aveva scoperto tutto nel peggiore dei modi, alla morte di Livon. Ma ora era passato così tanto tempo...

Nihal si rese conto in quel momento che sì, l’aveva perdonata. La guardò negli occhi e annuì.

Soana rispose con un sorriso. «Sono fiera di quel che sei diventata, Nihal. Sei una donna forte, te lo leggo in viso. Sei un bravo guerriero. È per questo che sono tentata di tacere.»

Nihal non capiva: Soana aveva lasciato l’incarico di consigliere per ritrovare Reis, la sua antica maestra, l’unica che sapesse la verità sulle origini di Nihal. «Perché? Io non...»

«Aspetta. Lascia che ti racconti» la interruppe Soana. «Il mio è stato un lungo viaggio. Reis non aveva lasciato alcuna traccia dietro di sé e ho creduto a lungo che fosse morta. Per più di un anno non ho fatto altro che cercare indizi, ma sembrava non ci fosse nulla. Poi ho incontrato qualcuno che sosteneva di averla vista. La notte ho iniziato a fare strani sogni: immagini confuse, panorami sconosciuti. E una specie di richiamo, come un lamento...»

Nihal ebbe un sussulto: era esattamente quello che capitava a lei.

«Più trovavo notizie sul suo conto, più sentivo quel richiamo nella mia mente.

Ho vagato per tutto il Mondo Emerso, ho parlato con centinaia di persone, ho attraversato luoghi di cui ignoravo l’esistenza.» Soana tacque per un istante e il sole le salutò con i primi raggi. «L’ho trovata tre mesi fa.»

A Nihal tremò la voce. «Ti ha detto qualcosa?»

«Vuole che tu vada da lei.»

«Dimmi dov’è» disse Nihal decisa.

Soana sospirò. «Non voglio che tu lo faccia. Non andare.»

Quelle parole caddero come pietre nella quiete dell’alba. Nihal sentì il sangue affiorarle al viso. «Ma perché? Tu non sai quello che ho passato, quante domande mi rimbalzano nel cervello!» Era agitata, Soana invece manteneva la solita calma ieratica.

«Reis è cambiata, Nihal. Quando era la mia maestra era una donna sicura, forte, ma ora... In lei c’è qualcosa di malvagio. Temo per te.»

Nihal ebbe un moto di ribellione. «Ho il diritto di sapere la verità.»

«Ci sono verità che è meglio non conoscere» disse Soana in tono grave.

Quelle parole colpirono Nihal. Perché tutti mi ripetono la stessa cosa?

«Non posso impedirti di andare» continuò Soana. «Sei tu che devi decidere. Ricordati solo che io non mi fido più di Reis.»

«Me ne ricorderò» tagliò corto Nihal. «Ora dimmi dov’è.»


Nihal si scapicollò fuori dal palazzo, non voleva attendere un minuto di più. Aveva già raggiunto la scuderia, quando si sentì chiamare.

Sennar la raggiunse col fiato corto. «Dove vai?»

«Da Reis.»

Sennar ci pensò un attimo, poi la guardò negli occhi. «Vengo con te.»

Nihal sorrise. «Mi sembrava che non ti piacesse viaggiare sul dorso di Oarf.»

«Me lo farò piacere» rispose Sennar, quindi salì sul drago ostentando disinvoltura.

26 Reis.

Reis viveva nella parte occidentale della Terra dell’Acqua, una zona disabitata e montagnosa. Là si trovavano le imponenti cascate di Naël e, stando alle parole di Soana, la casa della maga sorgeva su una roccia affacciata sull’acqua.

Nihal e Sennar volarono su Laodamea, sulla sua piana e sulla Foresta Occidentale, dove Megisto era pietra di giorno e uomo di notte, e ammirarono dall’alto la traccia degli innumerevoli fiumi che rigavano la Terra dell’Acqua. Nihal indossava l’armatura. Non sapeva perché se l’era messa, ma le dava sicurezza. Sennar era dietro di lei e le cingeva la vita con le braccia, tenendosi stretto.

Nihal ritrovò la gioia di avere di nuovo Sennar al suo fianco. Qualunque fosse la verità che Reis custodiva, non avrebbe affrontato da sola quell’ultima prova.

Verso mezzogiorno si fermarono in un villaggio e chiesero indicazioni a una giovane donna con un bambino in braccio.

«Le cascate sono ancora lontane» rispose la donna. «Dovete risalire il corso del fiume, ma ci vogliono almeno due giorni di viaggio.»

Nihal fu presa dello sconforto. Quanto avrebbe dovuto aspettare ancora?

Volarono tutto il pomeriggio, seguendo una delle tante diramazioni che il Saar creava con il suo delta: gettandosi nel mare, il Grande Fiume si separava nei mille corsi d’acqua che solcavano quella Terra. A essi si univano altri piccoli rivi, che nascevano dalle basse montagne della zona meridionale. Il ramo che sorvolavano era uno dei più grandi e si snodava placido ai loro piedi.

Quando scese la notte si fermarono al limitare dei boschi, sempre in vista del fiume, e lì si accamparono. Nihal era partita in fretta e furia, senza pensare che il viaggio potesse essere lungo. Sennar però aveva comprato qualche provvista al villaggio in cui si erano fermati la mattina e allestì una cena a base di carne arrostita.

«Come viaggiatrice sei un disastro» la prese in giro Sennar. «Se non fosse per me, a quest’ora staremmo mangiando ghiande, come i cinghiali.»

Nihal era contenta di essere lì, con lui. Addentò un pezzo di carne e le sembrò che fosse squisita, come quella che aveva mangiato con lui anni addietro, quando si trovava nella Foresta per superare la prova di iniziazione alla magia, terrorizzata, e Sennar le aveva portato del cibo e aveva vegliato su di lei tutta la notte.

«Ti ricordi la sera nel bosco, poco dopo esserci conosciuti?» chiese Nihal.

«Certo che me la ricordo. Anche quella volta ho provveduto a sfamarti, se non sbaglio. Ah, se non ci fossi io!» sospirò Sennar.

Nihal scoppiò a ridere. «Già. Chissà come ho fatto a sopravvivere mentre eri via... Mi hai raccontato la tua vita, ricordi?» Nihal prese un altro pezzo di carne. «A volte penso che mi piacerebbe davvero viaggiare, come hai fatto tu. Ho passato tanto di quel tempo a sperare di poter volare via...»

«Non è così bello, sai?» rispose Sennar. «Il più delle volte ti senti sperduto e vorresti non essere mai partito. L’ignoto è molto più affascinante quando ti limiti a immaginarlo. La verità è che io sto meglio qui, con i piedi per terra, a fare il mio lavoro.»

Nihal scrollò le spalle. «Io sento di non stare bene da nessuna parte. Non so neanche più perché combatto... Tu sai cosa vuoi, Sennar?»

«C’è qualcuno al mondo che lo sa? Io credo in quello che faccio e per ora mi basta. Adesso basta filosofeggiare. Domattina ci aspetta ancora un bel tratto di strada, è meglio dormire. Te lo dice un viaggiatore esperto.»

Nihal si allontanò dal fuoco e si sedette in modo da guardare il folto, la spada al fianco. «Tu dormi pure, io faccio il primo turno di guardia. È meglio che almeno uno di noi stia sveglio. Te lo dice un guerriero esperto.»


La mattina del terzo giorno di volo, Nihal e Sennar capirono di essere quasi arrivati. Prima ancora di riuscire a scorgere le cascate, ne sentirono il rombo cupo. Poi videro un’enorme nube d’acqua sovrastata dall’arcobaleno. A mano a mano che si avvicinavano, la sagoma delle cascate di Naël si stagliò nell’aria umida in tutta la sua maestosità. Il salto era di almeno un centinaio di braccia e l’acqua si divideva in tre getti principali che, infrangendosi sulle rocce, si dividevano ancora e ancora, in una rete che sembrava non avere fine. Quando le sorvolarono, Nihal ebbe un istante di vertigine. Si chiese com’era possibile che Reis abitasse lì. E, soprattutto, dove poteva essere la sua casa. Soana aveva parlato di una roccia in mezzo alla cascata, ma il vapore acqueo era talmente fitto che non si vedeva nulla. Per un po’ girarono a vuoto alla ricerca di un segno di vita, ma in quel posto non c’era niente di umano. Era il regno incontrastato della natura.

«Ma certo!» urlò all’improvviso Nihal. Si voltò verso Sennar. «Deve essere dietro!»

«Cosa?» gridò lui di rimando.

«Ho detto che la casa deve essere dietro il getto! Non c’è altra spiegazione!»

Sennar fece appena in tempo a dire: «Non vorrai mica...» che Nihal spronò Oarf a tutta forza verso l’acqua. Il drago pareva divertirsi e anche Nihal strillava contenta. L’urlo di Sennar, invece, fu di puro terrore.

Per un istante sembrò che tutte le acque del mondo si gettassero sulle loro spalle, ma subito dopo si trovarono in una sorta di enorme grotta scavata nel fianco della montagna. Oarf si spinse in profondità, finché non atterrò su una roccia piatta.

Nihal e Sennar, fradici e col cuore che batteva all’impazzata, smontarono e cominciarono a guardarsi intorno, aguzzando la vista nella penombra. Erano nel ventre della montagna e il muro di acqua corrente era così lontano che il tuono della cascata arrivava attutito.

Fu Sennar a vederla per primo. «Come accidenti hanno fatto a costruirla?» mormorò, mentre indicava una catapecchia di legno scuro abbarbicata su uno spuntone roccioso, una decina di braccia sopra di loro. «E come ci andiamo fin lì?»

«Un modo ci sarebbe...» rispose Nihal. «Ma non devi fare tante storie.»

Nihal si avvicinò a Oarf, gli bisbigliò qualcosa e il drago si rizzò sulle zampe posteriori, levandosi in tutta la sua altezza. Nihal gli si arrampicò sul dorso, poi sul collo. Quindi raggiunse la testa dell’animale da dove, sotto gli occhi esterrefatti di Sennar, spiccò un balzo e atterrò sulla roccia.

«Visto?» disse la ragazza con un sorriso soddisfatto.

«Complimenti. Ma se tu credi che io faccia la stessa cosa...»

«Non ce n’è bisogno» rispose Nihal. «Tu chiudi gli occhi e fidati.»

Sennar obbedì con un sospiro. Solo allora Oarf prese tra i denti con delicatezza parte della tunica di Sennar e lo sollevò nel vuoto.

«Ehi!»

«Non aprire gli occhi» gridò Nihal, divertita. «È meglio così, credimi.»

Quando il drago lo depose a terra, Sennar le lanciò un’occhiataccia, ma Nihal si era già voltata a guardare la casupola.


L’interno era buio e l’olfatto reagì prima della vista. La capanna traboccava di odori: erbe, fumo, muffa, carta consumata dagli anni. L’insieme di aromi investì Nihal e le diede un’indefinita sensazione di sgradevolezza. Poi, a poco a poco, gli occhi si abituarono all’oscurità. Nihal e Sennar si trovavano in un ambiente unico traboccante di oggetti. Alle pareti c’erano scaffali ingombri di libri, tutti dello stesso colore ammuffito. C’erano piccoli libri con rilegature leggere ma anche tomi enormi, con i bordi rinforzati da placche metalliche divorate dalla ruggine. Alcuni scaffali erano rotti e il loro contenuto era piombato a terra, dove mucchi di libri giacevano nelle posizioni in cui erano caduti, con la rilegatura verso l’alto o con le pagine spalancate. Il pavimento era sommerso da decine di pergamene impolverate, ricoperte da disegni inquietanti. Qua e là, sugli scaffali, i libri erano intercalati da vasi con i contenuti più disparati: erbe disidratate, polveri, fumi di ogni colore, piccoli animali deformi o parti di essi. Dal soffitto pendevano mazzi di fiori marci o essiccati, che appestavano l’aria del tugurio.

Sennar si chinò a guardare le pergamene, mentre Nihal procedeva decisa nella speranza di trovare la proprietaria di quel luogo.

«Sheireen... finalmente sei arrivata, Sheireen...»

Sul fondo della capanna, da dietro un lacero tendaggio amaranto, era echeggiata una voce simile a un gemito.

Nonostante le facesse accapponare la pelle, Nihal scostò la tenda. Seduta a un tavolo ingombro di scartoffie e amuleti, sprofondata in un seggio di cuoio c’era una donna gnomo.

Qualcosa, in quella figura, fece fremere Nihal di ribrezzo. Anche per essere una gnoma, Reis era piccolissima, rinsecchita come un fiore avvizzito, e aveva il volto segnato da rughe profonde. Sotto le palpebre pesanti gli occhi sembravano non avere sguardo: al posto dell’iride c’era un cerchio biancastro, privo di espressione. Il viso era incorniciato da capelli di un grigio ingiallito, che scendevano dritti fino al suolo, serpeggiando per un tratto del pavimento. Eppure si intuiva che doveva essere stata molto bella in passato: nei tratti traspariva ancora una delicatezza dolente, ma il tempo era stato impietoso.

Quanti anni poteva avere? Sembravano centinaia, ma a detta di Soana non doveva averne più di una settantina.

«Fatti toccare, Sheireen» gemette Reis. Allungò verso Nihal una mano raggrinzita.

La ragazza rimase ferma a guardarla, impietrita, finché non si sentì afferrare il polso e tirare verso il basso.

Gli occhi velati di Reis le scrutarono il viso, mentre le sue dita le sfioravano gli zigomi e le guance. «Sei proprio tu, giovane Sheireen.»

«Non mi chiamo Sheireen» disse Nihal. «Io sono Nihal della Torre di Salazar.»

La vecchia annuì e sorrise. «Certo, certo, Nihal... Ma il tuo vero nome è Sheireen, la Consacrata, ultima dei mezzelfi, unica speranza di questo mondo.»

Nihal d’istinto si voltò e cercò Sennar. Il mago si fece avanti, silenzioso.

Reis spostò di scatto la testa. «Chi è il giovane con te?» Sembrava preoccupata.

«Mi chiamo Sennar, sono...»

«Oh, Sennar... il consigliere della Terra del Vento, l’allievo della mia amata Soana» cantilenò la vecchia, poi tornò a rivolgere lo sguardo su Nihal.

«Soana ha detto che volevi vedermi» mormorò Nihal.

«Ti ho attesa a lungo, Sheireen, ma sapevo che un giorno saresti venuta da me. Non potevi fare altrimenti» chiocciò la vecchia.

Nihal ebbe un brivido lungo la schiena. Che cosa significava quell’ultima frase?

«Siediti, mezzelfo» disse Reis. «Sono tante le cose che ti devo rivelare.»

Nihal si sedette su uno sgabello di legno e Sennar le rimase a fianco, una mano sulla spalla.

La vecchia si alzò a fatica e si trascinò verso uno scaffale, da dove prese un piccolo braciere che posò in mezzo al tavolo. Dopo che l’ebbe riempito con una manciata di erbe sconosciute, recitò una breve formula.

Sul fondo del braciere si accese un piccolo falò e si alzò un fumo denso, che Reis sembrava guidare con le mani. Dalle volute iniziarono a emergere immagini confuse, che a poco a poco si fecero sempre più precise e dettagliate. Nihal sgranò gli occhi: davanti a lei stava prendendo forma una cittadina. Le case erano costruite per lo più in legno. C’era un via vai di persone, bambini che giocavano per le strade, donne che facevano acquisti al mercato della piazza centrale. Una cittadina come tante. Una cittadina di mezzelfi.

Nihal rimase incantata. Non aveva mai visto altri mezzelfi e ora li guardava muoversi, parlare, vivere. La sua attenzione si spostò su una ragazza. Era molto giovane, lunghi capelli blu, occhi viola. Sembrava allegra e piena di vita.

«Tua madre era nata nella Terra dei Giorni» iniziò a narrare Reis. «Non erano bei tempi, quelli, ma a lei non importava. Quando la sua gente dovette fuggire per scampare alla persecuzione del Tiranno, lei partì senza voltarsi indietro. Aveva tutto ciò che desiderava: la sua famiglia e il suo compagno.»

Un secondo mezzelfo si avvicinò alla ragazza e sorrise. Era un ragazzo, poco più grande di lei.

Mia madre. Mio padre.

«I tuoi genitori si sposarono appena giunsero nella Terra del Mare, con la benedizione del capo del villaggio e il favore delle stelle» continuò la vecchia.

La quiete di quelle immagini fu interrotta dall’irruzione di un contingente di fammin. Il fumo che usciva dal braciere si scurì e sul villaggio sembrò essere calata la notte.

«Ma la sciagura li seguì fin là. Mentre le creature maledette del Tiranno seminavano morte e disperazione, tua madre si nascose e pregò. Pregò perché il suo giovane sposo fosse risparmiato, perché lei non fosse uccisa. Quel giorno giurò che se fossero sopravvissuti avrebbe consacrato il frutto del suo grembo a Shevrar, dio del Fuoco e della Guerra.»

Il fumo si dissolse e Nihal tese la mano come per afferrarlo. Avrebbe desiderato poter continuare a vedere il viso di sua madre.

Reis aggiunse una manciata di erbe al braciere e dalle fiamme emerse l’immagine di una famiglia: la ragazza, il giovane e, tra loro, una bimba.

«Shevrar ebbe pietà e salvò entrambi. Tua madre rimase incinta poco dopo e tuo padre insistette perché si spostassero in un villaggio più piccolo e più sicuro. Ripartirono, di nuovo profughi ma felici di essere ancora insieme. Nacque loro una bambina: le misero nome Sheireen, la Consacrata, e decisero che avrebbe dedicato la propria vita alla spada e alla battaglia, perché lodasse il nome di Shevrar e vendicasse i morti della sua Terra. La divinità accettò l’offerta. Sheireen sarebbe stata la sua sacerdotessa e non le sarebbe mai successo nulla di male.»

All’improvviso il fumo si animò di immagini di guerra. Nihal le riconobbe, erano le stesse che vedeva nei suoi incubi. Osservò la strage e il sangue, sentì le urla e la disperazione. Quando il villaggio fu silenzioso e punteggiato di cadaveri, Nihal distolse lo sguardo. Tremava.

«Adesso basta.» La voce di Sennar era perentoria. Il mago si accucciò di fianco a Nihal e le prese le mani. «Andiamo via...»

Nihal scosse la testa. «Va tutto bene, Sennar. Lasciala continuare.»

«È stato Shevrar a salvarti, Sheireen» riprese Reis. «Di tutti i mezzelfi, decise di salvare solo te. Perché tu vendicassi la tua stirpe.»

Nihal vide se stessa neonata piangere accanto al corpo insanguinato di sua madre. Poi vide due donne camminare tra i cadaveri: una gnoma bellissima e una giovane dai capelli scuri.

«All’epoca ero consigliere, proprio come il tuo amico Sennar. Eravamo in missione diplomatica nella Terra del Mare, quando io e Soana decidemmo di far visita a quello che rimaneva della comunità dei mezzelfi. E ti trovammo: una bambina viva tra decine di corpi straziati, ultima sopravvissuta di un intero popolo. Eri un segno, Sheireen.» Reis fece una pausa e il fumo prese a muoversi in modo indistinto, creando strani vortici colorati. «Tornata al Consiglio, indagai sul tuo passato e sul tuo futuro. Inizialmente le carte non mi dissero nulla di chiaro: impressioni, contorni sfocati di una storia che non riuscivo a dipanare. Infine vidi splendere questo...»

La figura di un medaglione circolare si stagliò netta sul fumo: al centro troneggiava un occhio allungato, la cui iride era costituita da una pietra iridescente dai riflessi bianchi; tutto intorno, otto zone vuote che sembravano aver ospitato altrettante pietre, ciascuna di uguale dimensione. Sul bordo c’era un fregio complesso.

«Non sapevo che cosa fosse. Consultai a lungo i miei libri, ma il talismano rimase un mistero e a poco a poco svanì dai miei pensieri.» Reis si passò le dita adunche sul volto. «Tre anni dopo, quando non riuscii più a tollerare il rimorso, abbandonai il Consiglio. Fu allora che decisi di rimettermi sulle tracce di quel medaglione. E del tuo destino.»

«Di che cosa stai parlando?» chiese Sennar. «Rimorso per cosa?»

«Al momento questo non ha importanza. Altro devi ancora sapere.» Reis si alzò e frugò nel cassetto. Quando si risedette, aveva in mano un amuleto. La gemma centrale rifulgeva debolmente nel buio della catapecchia. «Molti secoli fa, questa terra era popolata solo dagli elfi, creature perfette care agli dèi. La purezza della loro esistenza fu turbata dall’arrivo di uomini e gnomi, che invasero il Mondo Emerso. Gli elfi scomparvero rapidamente; in molti lasciarono il Mondo Emerso, ma altri si mescolarono con le nuove razze. Tutto quel che restava del loro sangue scorreva nelle vene dei mezzelfi come te, Sheireen. Essi vivevano in comunione con le forze che animano il mondo e la loro unica forma di magia era la vicinanza con gli spiriti della natura. Questo medaglione, a cui tu sei destinata, è la chiave di quella magia.»

Reis porse l’amuleto a Nihal, che lo prese in mano e lo esaminò.

«In ognuna delle Otto Terre c’è un santuario, dedicato a ciascuno degli Otto Spiriti della natura: Acqua, Luce, Mare, Tempo, Fuoco, Terra, Oscurità, Aria. E poi c’è la Grande Terra, la Madre, che li accoglie e li contiene tutti. In ciascun santuario è custodita una pietra. In passato, chi aveva un desiderio andava nel santuario e chiedeva allo spirito di concedergli il potere. Se il cuore di chi pregava era sincero, la pietra si caricava e il potere veniva concesso. Quando il desiderio era realizzato, la pietra tornava al santuario. Così gli elfi impetravano i favori agli spiriti. Ma le pietre hanno un potere ancora più grande. Quando incombe un pericolo imminente e incontrollabile, è possibile chiedere l’aiuto di tutti gli spiriti, chiamandoli a raccolta. Per farlo occorre riunire le otto pietre e porle nel talismano. Infine, giunti nella Grande Terra, pregare la Madre perché esaudisca i suoi figli; allora gli spiriti naturali vengono evocati e rispondono al volere del possessore dell’amuleto. Gli elfi usarono l’amuleto una sola volta, quando un conquistatore giunto dal Grande Deserto tentò la distruzione del loro mondo. Poi, con l’estinzione del loro popolo, i santuari vennero dimenticati, perché solo gli elfi potevano varcarne la sacra soglia.» Reis si interruppe e piantò le vecchie pupille opache negli occhi spalancati di Nihal. «Gli elfi, o chi ne possiede il sangue.»

«Stai dicendo che...» iniziò la ragazza.

«Sì, Sheireen. Solo tu puoi ancora chiedere aiuto agli spiriti. Il Tiranno domina con la magia. Con la magia ha creato i fammin, con la magia ha eretto la sua Rocca, con la magia soggioga i suoi sottoposti. Ma tu puoi rompere questo dominio: raccoglierai tutte le pietre, gli spiriti naturali saranno evocati e la magia del Tiranno scomparirà.»

«Sono passati secoli, Reis» intervenne Sennar. «Le pietre possono essere state trafugate o disperse, i santuari distrutti...»

La vecchia alzò il viso sul ragazzo. «Non mi hai ascoltato, consigliere? Solo chi ha sangue elfico può toccare le pietre, gli altri sono destinati alla morte. E la distruzione di un santuario non significa nulla: è il luogo in cui sorge a conferire sacralità, non l’edificio.»

Nihal scosse la testa. «Ma io sono elfo solo a metà.»

«Gli spiriti ti esaudiranno lo stesso, Sheireen. Però dovrai stare attenta, perché l’amuleto succhierà la tua linfa vitale...»

«Cosa?» la interruppe Sennar. «Tu sei pazza, vecchia!»

«Un consigliere dovrebbe essere capace di ascoltare, ragazzo» disse Reis in tono severo. «Sheireen vivrà, se sarà abbastanza forte, ma ricordatevi che il potere del medaglione dura un giorno: per un giorno, dopo che Sheireen avrà evocato gli spiriti, il Tiranno non potrà usare la sua magia. In quel tempo occorrerà batterlo.»

Nihal si rigirò l’amuleto tra le mani. «È per questo che sono viva, Reis?»

La vecchia annuì. «Sì, Sheireen. Lo scopo della tua esistenza è liberare il Mondo Emerso dal Tiranno.»

«Dove si trovano i santuari?» chiese Nihal.

«Sarà l’amuleto a indicarteli. Il tuo cuore saprà dove cercare.»

Sennar fremeva a fianco di Nihal. «No. No, è impossibile» sbottò il mago. «La maggior parte dei santuari è in territorio nemico. Bisognerà attraversare il fronte, viaggiare in tutto il Mondo Emerso...»

La vecchia lo ignorò e si concentrò sulla ragazza. «Questo è il tuo destino, Sheireen, non puoi sottrarti. Tutto ciò che ti è avvenuto, dalla tua nascita fino a oggi, è servito perché tu arrivassi a questo. Non vuoi la vendetta, Sheireen? Non vuoi la distruzione del Tiranno? Sì, le vuoi. Sento il tuo cuore traboccare d’odio.»

Nihal guardava la vecchia con timore. Le sue parole la confondevano e neppure la vicinanza di Sennar riusciva a rassicurarla.

«Accogli il tuo odio, Sheireen! Nutrilo, seguilo, perché ci libererà dal male! Ti sto offrendo la possibilità di annientare chi ha sterminato il tuo popolo! Pensa a tutte le notti insonni, ai volti contratti dal dolore che affollano i tuoi sogni...»

Il medaglione sfuggì dalle dita di Nihal e rimbalzò tintinnando sul tavolo. «Come sai dei miei sogni?» chiese alzandosi. Lo sgabello su cui era seduta cadde a terra.

«Dovresti ringraziarmi, Sheireen...» mormorò Reis.

Nihal sguainò la spada e gliela puntò alla gola. «Dimmelo!» urlò.

Reis sospirò e fece cenno di sì con il capo. «Quando conobbi la verità su di te, capii che dovevo trovare un modo perché tu non potessi sottrarti al tuo compito...»

La voce di Nihal era un sussurro. «Non è possibile...»

«Fu allora che recitai l’incantesimo: vi profusi tutte le mie capacità, perché era una formula proibita, difficile da evocare. Ma dovresti ringraziarmi, Sheireen» ripeté. «Senza il mio intervento non avresti mai impugnato la spada, non avresti mai scoperto la tua forza...»

«Non è possibile» continuava a ripetere Nihal. «Non è possibile...»

«Sì, Sheireen. Fui io ad aprire la tua mente ai sogni.»

Nella stanza calò il gelo. Non si sentiva alcun rumore, se non il debole scroscio della cascata in lontananza. La spada nera tremava nelle mani di Nihal.

«Sapevo che Soana non avrebbe mai avuto il coraggio di fare di te la vendicatrice di cui avevamo bisogno. Ma se tu avessi saputo, se avessi visto con i tuoi occhi...»

Il viso di Nihal era terreo. «Ero solo una bambina» disse, scandendo le parole «e tu hai mandato legioni di spiriti a tormentarmi. Ora sono una donna e non c’è stata notte in cui...»

«Quando avrai portato a termine la tua missione i sogni svaniranno, Sheireen. Ma finché non avrai fatto quel che devi, i morti ti perseguiteranno. Per sempre.»

«Maledetta!» urlò Nihal. Con un fendente spaccò il tavolo davanti a Reis.

La vecchia rimase immobile. «La tua forza è nell’odio» disse con un sorriso. «Sono io che ti ho dato quella forza, sono io che ho fatto di te quello che sei.»

«Io non sono una tua creatura!»

«Oh, sì che lo sei...» sogghignò Reis.

Nihal aveva già alzato il braccio per colpire, quando sentì il tocco caldo di una mano, una mano che si avvolgeva intorno alla sua.

Sennar la costrinse a girarsi. «Rinfodera la spada e andiamocene» disse con voce calma. «Adesso.»

Nihal rimase lì, indecisa, i battiti del cuore che le rimbombavano in testa. Abbassò piano la spada finché non le pendette inerte lungo il fianco. Quindi si diresse verso la porta della capanna senza una parola. Il medaglione giaceva a terra, tra i pezzi del tavolo fracassato.

«Sheireen!» la chiamò Reis. «Non puoi voltare le spalle al tuo destino!»

Prima di uscire, Sennar guardò la vecchia con durezza. «Ti ho appena salvato la vita, Reis. Taci, se non vuoi che cambi idea.»


Nihal si era raggomitolata su una piccola sporgenza di roccia sotto la casa della vecchia. Sennar si calò giù fino a raggiungerla, le si sedette accanto e le sfiorò un braccio.

«Vieni via» le sussurrò, ma non ricevette risposta. Allora si accovacciò e la costrinse a guardarlo. «Qui non c’è niente di quello che cercavi, Nihal.»

Il volto della ragazza era rigato dalle lacrime. «Quante volte mi sono ripetuta che non potevo vivere solo per vendicarmi, Sennar? Tu lo sai quanto ho lottato... E per cosa?»

«Ti sbagli» disse Sennar.

Nihal continuò a guardare davanti a sé, con lo sguardo perso. «Non lo vedi, Sennar? La mia vita è un disegno perfetto. Combatto perché un giorno i miei genitori mi consacrarono a un dio di cui non conoscevo neppure il nome. Gli incubi mi perseguitano per indurmi a raccogliere otto maledette pietre in giro per il mondo. È già tutto scritto, tutto deciso. Sono un’arma nelle mani di qualcuno, non ho il diritto di essere una persona.»

Sennar la costrinse ad alzarsi e la prese tra le braccia, poi la strinse. «La tua vita è solo tua, Nihal, è questa l’unica cosa che conta. Ora andiamocene e dimentichiamo tutta questa storia.»

27 Un esercito di morti.

Sul finire del viaggio di ritorno, Nihal e Sennar notarono che qualcosa non andava. A mano a mano che si avvicinavano a Laodamea, l’aria sembrava sempre più carica di elettricità e i villaggi che sorvolavano erano percorsi da una strana agitazione.

D’un tratto videro un puntino nero volare loro incontro nell’aria. Nihal temette che potesse essere un nemico e sguainò la spada, ma si accorsero presto che era Ido in groppa a Vesa.

Lo gnomo fece loro segno di atterrare su una bassa collina.

«Come mai da queste parti? Vieni a scortarci?» scherzò Sennar, mentre gli andava incontro. Poi vide il viso dello gnomo, serio e tirato.

«Cosa è successo?» chiese Nihal preoccupata.

«In vostra assenza le cose sono precipitate. È scattata un’offensiva senza precedenti contro la Terra dell’Acqua: l’esercito del Tiranno sta per raggiungere la barriera eretta dalle ninfe. La battaglia è imminente, Nihal. C’è bisogno di te sul campo.» Ido rimontò in sella. «Seguitemi.»

La testa di Nihal si svuotò in un istante di tutti i pensieri che l’avevano accompagnata fino a quel momento. Risalì sulla groppa di Oarf e lo incitò a volare il più veloce possibile, mentre Sennar si stringeva a lei.


Ido li condusse al vasto altopiano della Terra dell’Acqua che si affacciava sul confine con quella del Vento. Appena arrivarono, Laio corse incontro a Nihal, pallido e spaventato.

«Sta succedendo qualcosa... qualcosa di strano...» disse mentre la accompagnava allo schieramento delle sue truppe.

«Che cosa intendi dire?» chiese lei, affrettando il passo.

«Io... ho paura di quello che ho visto, Nihal.»

La ragazza si fermò a guardarlo negli occhi e per un istante ebbe un oscuro presentimento. Nihal non aveva mai avuto paura in battaglia, ma nell’espressione di Laio c’era qualcosa che la raggelò.

«Va’ nella tenda e non uscire, la situazione è grave» tagliò corto, poi si allontanò.

Tutti erano al proprio posto. Nihal cercò con gli occhi Sennar e lo vide accanto a Mavern. Con lui c’era anche Soana. Che cosa sta succedendo, maledizione? Scosse la testa, non era il momento di farsi prendere dalla preoccupazione. Doveva essere lucida e concentrata.

Si calò l’elmo sulla fronte e avanzò con Oarf fino alla prima linea. In lontananza, davanti a sé, vide le ninfe intente a erigere la barriera. Erano disposte su più file, l’una accanto all’altra, le mani tese verso l’alto. Con stupore, Nihal riconobbe Astrea. Dritta in tutta la sua altezza, la regina pregava per la sua Terra al fianco delle altre ninfe. Era cambiata rispetto alla prima volta che Nihal l’aveva vista. La sua bellezza diafana era quasi opaca, appesantita da un dolore che doveva averla lacerata a lungo.

Tutto taceva. Di solito i fammin avanzavano levando grida belluine che gelavano il sangue nelle vene. Ma ora niente, solo silenzio. Nihal aveva paura e non sapeva di cosa. Non della morte, quella non l’aveva mai temuta. Una paura più profonda, sottile e terribile.

Poi dalla Terra del Vento comparve il nemico. I combattenti del Tiranno non erano fammin. Sembravano uomini e avanzavano muti, ordinati, quasi con calma. Al posto delle solite armature nere indossavano corazze cineree. Quando videro la barriera non batterono ciglio. Le preghiere delle ninfe aumentarono di volume, il loro canto si fece più melodioso.

Nihal sentì il cuore batterle con forza. Due guerrieri in groppa ad altrettanti draghi apparvero nel cielo plumbeo. Uno aveva una corazza scarlatta e cavalcava un drago nero, simile a quello di Dola. L’altro era grigio e il suo drago mandava bagliori lattescenti.

Un mormorio percorse le truppe.

«Pronti all’attacco!» urlò il generale.

Nihal si chinò su Oarf e gli parlò con dolcezza: «Sta’ buono, andrà tutto bene». Anche il drago aveva iniziato ad agitarsi. Le sue ali fremevano, ma non era desiderio di battaglia.

Le truppe si avvicinarono sempre di più, marciavano senza timore verso la barriera. Molti dei fanti sembravano feriti. Sulle loro armature ferrigne spiccavano larghe macchie di sangue rappreso, eppure avanzavano imperterriti. Quando la prima linea fu a un passo dalla barriera, si fermarono.

Il guerriero sul drago nero si fece avanti, volando a mezz’aria.

«Oggi è un grande giorno!» urlò rivolto all’esercito delle Terre libere. «Un grande giorno davvero! Oggi è il giorno in cui i fratelli si leveranno gli uni contro gli altri, in cui il padre ucciderà il figlio. La mano destra lotterà con la sinistra ed entrambe infieriranno sul corpo a cui appartengono. Oggi sarete voi stessi a uccidervi!»

Il guerriero sguainò una sorta di lancia a tridente: era blu e splendeva di riflessi bui e profondi. L’uomo la brandì verso il cielo e la lancia fu avvolta da una ragnatela di sottili lampi azzurri. «Mio Signore, il tuo servo ti chiede la forza!» gridò, quindi scagliò la lancia sulla barriera.

Gli occhi di tutto l’esercito la guardarono penetrare la barriera senza difficoltà e infiggersi nel terreno, a poche braccia dalle spalle delle ninfe. Appena toccò il suolo, la lancia fu avvolta da un globo di luce scura che iniziò a pulsare, a espandersi con un tuono sordo.

La barriera s’infranse in un’esplosione di lampi verdi. Le ninfe e la loro regina furono spazzate via, poi il globo nero le avvolse e parvero dissolversi in una nube di vapore.

Un silenzio di orrore calò tra i soldati. Nulla separava più le truppe nemiche dall’esercito delle Terre libere.

«Che la strage si compia!» urlò il guerriero e le sue truppe si lanciarono all’attacco senza emettere un suono.

Lo scontro ebbe inizio.

I fanti di prima linea presero a menare fendenti su quei misteriosi soldati grigi, ma quando le spade li trapassavano da parte a parte era come se attraversassero l’aria.

All’improvviso ogni soldato, ogni fante, ogni guerriero dell’esercito delle Terre libere riconobbe qualcuno tra le file nemiche. Chi vedeva un vecchio compagno d’armi, chi il proprio comandante deceduto in battaglia, chi il fratello ferito a morte. Lo stupore cedette il passo al dubbio, il dubbio divenne certezza e la certezza sfociò nell’orrore: era un esercito di morti.

I morti delle proprie file, gli amici di un tempo. Il Tiranno aveva trovato il modo per riportare in vita i caduti di quella guerra infinita.

Il campo di battaglia echeggiò di grida di terrore e l’esercito delle Terre libere si sparpagliò in una ritirata senza quartiere.

Nihal si sforzava di dominare il terrore e faceva il possibile per tenere insieme le truppe. Andava avanti e indietro per il campo cavalcando un Oarf recalcitrante, incitava gli uomini, cercava di evitare che si disperdessero. Ma non serviva a nulla. Quello era il momento della rovina: se anche i soldati fossero riusciti a superare l’orrore di dover combattere contro i propri compagni morti, non c’erano armi che potessero uccidere quei nemici.

Nihal si sentì disperata, impotente.

«Maledetto!» urlò. Poi spronò Oarf a raggiungere il guerriero dall’armatura rossa, ma tra lei e il suo obiettivo si frapponevano schiere e schiere di fantasmi. Un soldato che era stato sotto il suo comando le si parò davanti e la guardò con occhi spenti.


Nel frattempo, Sennar e Soana avevano lasciato le retrovie e raggiunto il generale.

«Fate radunare tutti quelli che non hanno ancora iniziato a combattere, generale!» disse il mago sbrigativo. «Forse so come sconfiggerli.»

Il militare scosse la testa. «No, consigliere. Ho intenzione di ordinare la ritirata. Non voglio altre perdite.»

Le frecce gli fischiavano intorno, ma Sennar quasi non se ne accorgeva. «Se ci ritiriamo in queste condizioni sarà un massacro. E inoltre non possiamo cedere così la Terra dell’Acqua.»

«Cosa avete in mente?» chiese il generale.

«Esiste una formula» disse Soana «ma occorre recitarla sulle armi. Ascoltate il consigliere Sennar, generale. Del resto ci occuperemo noi.»

L’idea l’aveva avuta Sennar. Gli spiriti partecipano dell’essenza del fuoco, per questo solo una magia che avesse a che fare con le fiamme poteva disperderli e ridar pace a quelle anime. Non restava che imporre l’incantesimo alle armi.

I soldati che non si erano ancora gettati nella mischia furono chiamati a raccolta sull’altopiano da dove avevano aspettato l’attacco. Ido e Nihal atterrarono poco distante, sollevando nuvole di polvere. Smontarono dai draghi e si avvicinarono a grandi passi, per poi mescolarsi alla folla.

Sennar guardò lo schieramento: fanti, soldati semplici e guerrieri stavano immobili, i visi stravolti, ad ascoltare le urla dei loro compagni. Erano meno della metà dell’intero esercito, ma bisognava tentare. Si arrampicò su uno dei carri che trasportavano le armi, in modo che tutti potessero vederlo, e tese una mano a Soana perché salisse anche lei.

«Ascoltatemi!» urlò, mentre il rumore della battaglia copriva la sua voce. «Ascoltatemi! Dobbiamo resistere!»

«Ci stanno massacrando!» gridò qualcuno e molti altri gli fecero eco.

«Abbiate fiducia in me! Faremo un incantesimo sulle vostre armi!» insistette Sennar. «Dovete soltanto levare in alto le spade!»

Solo una lama di cristallo nero e una lunga spada sottile svettarono su quella selva di elmi e armature. Nessun altro si mosse.

Sennar riconobbe la voce di Ido: «I vostri compagni stanno morendo, dannazione! Non c’è tempo! Alzate quelle maledette armi!». Qualcuno obbedì e a poco a poco l’altopiano fu irto di lame e lance, frecce e scuri.

Sennar e Soana rivolsero le palme delle mani verso il cielo e iniziarono a recitare una formula. Dai loro polsi uscì un raggio purpureo che si innalzò, per poi ridiscendere in centinaia di rivoli di luce che inondarono ciascuno un’arma.

Quando le truppe si mossero, Sennar si appoggiò alla sponda del carro, sfinito. Soana scivolò sull’assito.


Nihal si alzò in volo con Oarf e spronò i suoi uomini. I soldati presero a calare le spade sui nemici. Ora i colpi andavano a segno e i fantasmi si dissolvevano come fumo, ma era comunque terribile. Tra le file degli spettri Nihal riconobbe molti commilitoni e colpirli, dopo aver visto i loro occhi e i loro sguardi, era quasi impossibile. Avanzò ancora, piena di rabbia, finché non scorse in lontananza la sagoma vermiglia che montava il drago nero. Sarebbe stato lui quello che avrebbe ucciso per primo.

Prese a inseguirlo senza chiedersi perché si allontanasse tanto, gli occhi fissi su quell’armatura rossa come il fuoco.

Il drago nero rallentò la corsa all’improvviso e virò bruscamente. Oarf si trovò a fronteggiarlo. Nihal era pronta a scagliarsi all’attacco quando vide avanzare un’enorme figura alata, grigia come il soldato che la montava. Nella postura, negli occhi che intravedeva sotto l’elmo, Nihal trovò qualcosa di familiare. Rabbrividì.

«Questo è il tuo nemico» le urlò il guerriero scarlatto. Subito dopo il suo drago cabrò e puntò verso le nuvole.

«Aspetta!» gridò lei, mentre si gettava all’inseguimento, ma il soldato grigio le si parò davanti e le ferì un braccio con la spada.

Nihal si allontanò velocemente e spostò la spada nella mano sinistra. Sopra di lei, il guerriero con l’armatura rossa volteggiava avanti e indietro, osservando la scena.

Il drago grigio spalancò le fauci in un ruggito silenzioso e sbatté lentamente le ali, avvicinandosi ancora. Quando Nihal sollevò la visiera dell’elmo per guardarlo meglio, fu presa da un senso di vertigine.

No. Non è possibile. Gaart è morto. È morto per salvare il suo cavaliere.

«Chi sei?» strillò Nihal al soldato, ma non ebbe risposta. «Chi sei, chi sei?»

La lama nemica la raggiunse a una gamba. Nihal non sentì il dolore. Era intontita, tremava. Non è lui, non può essere lui.

Poi, a un cenno del guerriero scarlatto, il soldato si tolse meccanicamente l’elmo e non ci fu più possibilità di dubbio. I riccioli castani ora erano del colore della cenere, il sorriso spavaldo era sparito dalle labbra per lasciare spazio a una piega inespressiva, ma davanti a lei c’era Fen: il suo maestro, il suo amico, il suo amore.

Nihal rimase paralizzata.

Quante volte aveva desiderato rivederlo? Quante volte le era sembrato di risentire la sua risata? Ora era lì. Negli occhi verdi non aveva più sguardo, eppure era lui.

Fen si scagliò contro Nihal e la spada con cui l’aveva allenata tante volte andò a conficcarsi con precisione nella sua spalla.

Nihal sentì il dolore, il sangue uscire dalla ferita, ma non riuscì a reagire. «Fen» disse con un filo di voce.

Il volto del cavaliere fantasma rimase indifferente, la bocca muta.

«Fen... Sono io, Fen...» mormorò Nihal.

Un nuovo colpo la raggiunse a un fianco e scalfì l’armatura.

«Hai deciso di morire, Cavaliere?» la schernì il guerriero dall’alto.

I fendenti si abbattevano sull’armatura di Nihal e lei li riceveva tutti senza un lamento, senza muoversi.

Poi, d’un tratto, Nihal si rese conto che Oarf la stava portando via.

Un muro di fiamme li bloccò: il drago nero. «Uccidere o essere uccisi, Cavaliere» urlò il guerriero scarlatto.

Colpiscilo, Nihal.

Nihal scosse il capo. «Non posso...»

Tu non vuoi morire.

Una seconda fiammata investì il petto di Oarf e Nihal sentì rimbombare dentro di sé il grido di dolore del suo drago ferito. Perché, perché era costretta ad affrontare quella prova?

«Nihal! Combatti, maledizione!» La voce di Ido la riportò bruscamente alla realtà.

Nihal si riscosse. Vide Ido con la spada sguainata e Vesa che si scagliava sul drago nero.

La rabbia montò come un’onda. Rabbia e disperazione. Nihal strinse la mano intorno all’elsa e si lanciò urlando contro Fen.


Lottava con la forza della disperazione, colpiva a caso, cercava di sfuggire lo sguardo gelido dell’uomo che aveva amato.

«Sono io, Fen» continuava a ripetere, ma Fen attaccava e parava, attaccava e parava, impassibile.

Non lo fece volontariamente: fu come se la sua mano si fosse mossa da sola, o forse le piacque pensare così. La spada di cristallo nero si frappose tra lei e Fen e la punta si conficcò nel ventre del cavaliere, passandolo da parte a parte. Per un istante gli occhi di Nihal incrociarono quelli del fantasma. Non vi videro nulla. Fen svanì a poco a poco e diventò fumo, come la sera in cui il fuoco della pira funebre aveva consumato il suo corpo.


Le truppe delle Terre libere furono costrette a ritirarsi. Grazie alla magia di Sennar e Soana erano riuscite a contenere le perdite, ma non ad avere la meglio. Alla fine della giornata, l’entità della disfatta fu chiara: gran parte della steppa meridionale, che congiungeva la Terra del Vento con quella dell’Acqua, era in mano al Tiranno.

I superstiti della battaglia si rifugiarono a Laodamea. Nella piazza principale fu allestito un ospedale da campo per i feriti e nelle vie contigue venne improvvisato un accampamento. I cittadini della capitale si strinsero intorno ai soldati e collaborarono come potevano: i locandieri usarono i loro locali per organizzare piccole mense, le donne si prodigarono per non far mancare ai militari acqua, legna per scaldarsi e abiti puliti e furono in molti a offrir loro ospitalità. Galla, il re della Terra dell’Acqua, mise il suo palazzo a disposizione di generali e Cavalieri.

Il morale dell’esercito era a pezzi, la situazione disperata. La Terra dell’Acqua era assediata dalle truppe nemiche, accampate ad alcune leghe di distanza.

Se fosse caduta, le Terre libere si sarebbero ridotte a due: quella del Mare e quella del Sole.


Nihal venne portata al palazzo reale. La ferita alla spalla appariva piuttosto grave, ma soprattutto la ragazza sembrava caduta in stato confusionale. Anche quando fu nella sua stanza, lontana dai lamenti dei feriti e dallo scoramento dei sopravvissuti, continuò a guardarsi intorno con aria assente.

Laio le teneva la mano e le parlava a bassa voce, cercando di rassicurarla, ma non otteneva da lei alcuna reazione.

Sennar si avvicinò e lo scostò con dolcezza. «Per prima cosa bisogna occuparsi della ferita» disse. «Nihal?» chiamò Sennar. «Rispondi, Nihal.»

Ma Nihal non rispose. Sennar le pulì il viso sporco di fuliggine con una pezzuola bagnata. Poi, con l’aiuto di Laio, le tolse la corazza. Quindi esaminò la ferita alla spalla e iniziò a praticarle un incantesimo di guarigione.

Laio rimase al fianco del suo Cavaliere e ne vegliò il sonno agitato, mentre Sennar passò il resto della nottata a curare i feriti, aiutato da Ganna e da Soana.

All’alba, mentre rientravano al palazzo reale, incontrarono Ido.

«È stata la rovina, Sennar...» disse lo gnomo.

«Lo so. Ma al momento sembra che l’esercito del Tiranno si sia fermato. Per ora siamo al sicuro.»

«Non lo saremo per molto» rispose Ido.


Il giorno seguente l’esercito nemico non avanzò né arretrò di un passo.

I vertici militari cercarono di riorganizzare le forze a disposizione, ma la consapevolezza che il Tiranno poteva evocare gli spiriti dei defunti non lasciava alcun margine di speranza nella vittoria.

Erano in trappola. Certo, i maghi del Consiglio avrebbero potuto unirsi e continuare a imporre incantesimi su tutte le spade. Ma a ogni nuova battaglia il numero dei soldati sarebbe diminuito, andando a ingrossare le forze nemiche. Quanto avrebbero potuto resistere?

Una seduta speciale del Consiglio, alla presenza di re Galla, venne fissata per quella sera stessa. Tutti i Cavalieri di Drago furono invitati a partecipare.


Nel palazzo reale regnava il silenzio. Da quando era morta Astrea, i cortigiani quasi non si vedevano e i servitori si aggiravano come ombre. Il dolore di Galla permeava l’intero palazzo.

Sennar uscì dalla sua stanza e imboccò il corridoio. Quando si sentì chiamare da una voce afona, sobbalzò e si voltò di scatto.

Nihal avanzava verso di lui. Aveva una spalla avvolta da una spessa fasciatura bianca ed era pallida come un cencio. Sembrava lei stessa uno spettro.

«Che cosa ci fai in giro?» disse il mago, mentre le andava incontro.

«Vengo alla riunione» rispose Nihal.

«Non puoi. Sei debole, la tua ferita è ancora...»

«Non ha importanza.»

Sennar la guardò. Il viso di Nihal era privo di espressione. Nei suoi occhi non si leggevano né tristezza né sofferenza. Stava lì, dritta davanti a lui, immobile e fredda come una lapide.

Le prese una mano tra le sue e la strinse. «So che cosa è successo ieri in battaglia. Un giorno finirà, Nihal.»

«Non riesco più a crederci» mormorò lei.

«Invece devi, perché la speranza è tutto quello che abbiamo.»


La grande stanza ovale era buia come se l’oscurità fuori dalle mura avesse trovato la via per insinuarsi dentro il palazzo. Un candeliere illuminava fiocamente i volti tesi, provati dalle ferite, spossati dalla stanchezza e dall’inquietudine.

Nella sala sotterranea erano riuniti gli otto consiglieri, i Cavalieri di Drago, il generale, re Galla e Soana.

«Le truppe sono esauste e siamo in netta inferiorità numerica rispetto ai nemici» disse il generale con voce spenta. «I rinforzi dalla Terra del Sole non arriveranno prima di dieci giorni. Non vi mentirò: siamo in una situazione senza via d’uscita.»

Galla era un uomo giovane e dai lineamenti delicati, con i capelli biondi e gli occhi di un blu cupo. Il suo matrimonio con Astrea era stato il primo misto della regione e aveva inaugurato una nuova era nei rapporti tra gli umani e le ninfe. Rivolse il viso addolorato verso Sennar: «Quando arriverà l’esercito di Zalenia?». «L’arrivo è previsto per la fine del mese, Maestà. Il viaggio è lungo...»

Galla scrollò le spalle. Era visibilmente prostrato dalla perdita della compagna e preoccupato per le sorti della sua Terra. «Voglio essere franco con voi, consiglieri: la Terra dell’Acqua non è più in grado di offrirvi alcuna protezione. Il nostro non è un popolo pronto alla battaglia. Le ninfe non sono certo in grado di combattere e gli uomini non sono mai stati addestrati alla guerra. Siamo in balia del nemico, temo.»

«Maestà, generale...» disse Sennar. «Abbiamo fatto l’incantesimo su tutte le armi, ora siamo in grado di ferirli. Certo, è poco, ma è pur sempre qualcosa. Non dobbiamo lasciarci prendere dallo sconforto.»

Theris, la ninfa che rappresentava la Terra dell’Acqua, prese la parola: «Ciò che dici è coraggioso, Sennar. Ma come possiamo illuderci? Dopo quarant’anni di guerra non abbiamo le forze per contrastare questo nuovo attacco». Dall’angolo in cui era seduta, Nihal ascoltava. Ascoltava e sapeva che non poteva più tentennare. Eppure, anche se voleva alzarsi e parlare, le gambe non le obbedivano.

«Il Consiglio va preservato a ogni costo, Sennar. E con esso tutti coloro che contrastano il Tiranno» intervenne il consigliere Sate, uno gnomo della Terra del Sole. «Per questo credo che non ci resti che la fuga. La Terra dell’Acqua ormai è perduta.»

Galla lo guardò con durezza. «Astrea è morta per la salvezza di questa Terra e voi mi proponete di fuggire? No, consigliere. Il mio posto è qui, tra la mia gente. Il mio destino sarà quello della Terra dell’Acqua.»

«Comprendiamo le vostre ragioni, Maestà» disse un Cavaliere «ma la salvezza del Consiglio è fondamentale. È soprattutto grazie al Consiglio che siamo sopravvissuti in questi anni. La sua fine significa la fine delle Terre libere. Sate ha ragione: il Consiglio deve lasciare la regione. L’esercito invece resterà qui, al vostro fianco.»

«Poniamo che questa sia la decisione giusta» intervenne Ido. «Resta il fatto che là fuori è pieno di quei maledetti fantasmi.»

Dagon si alzò in piedi. «Un modo ci sarebbe, Ido. Un rito che è stato usato pochissime volte. Unendo la magia di tutti i consiglieri, è possibile recitare un incantesimo che permette di spostarsi in luoghi lontani.»

«La mia regina è morta, Dagon» disse Theris. «Io resterò qui. Non posso fare altrimenti.»

Il rappresentante della Terra del Mare chiese la parola. «Un momento, consiglieri. Va bene, lasciamo pure che il Consiglio si salvi. E poi? Qui non è in gioco solo la salvezza del Consiglio. Questo è un attacco a tutte le Terre libere: se non troviamo un modo per contrastare il Tiranno, saremo comunque inghiottiti dalle tenebre. Qui o ovunque saremo.»

Nella sala scese il silenzio.

Nihal fissava la fiamma tremula delle candele. Non c’è altro modo, Nihal, non c’è altra scelta. La strada è già tracciata, devi solo percorrerla. Quando si alzò in piedi, sentì gli occhi di tutti puntati addosso. Uscì senza voltarsi indietro.

Quando varcò la soglia, Nihal venne assalita dal puzzo di marcio e di erbe aromatiche. Debole com’era, l’odore le diede il voltastomaco. Si fece forza e avanzò tra i mazzi di fiori secchi che pendevano dal soffitto, finché vide la figura curva e infagottata, china su una pergamena.

La vecchia alzò la testa con un movimento brusco. Un sorriso ambiguo le si dipinse sul volto incartapecorito.

Nihal la guardò per qualche istante. Poi, con voce ferma, disse:

«Sono pronta a partire, Reis».

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