Decimo anno dalla Discesa, sotto il regno di Teoni.
Nel primo mese dell’anno, innanzi al suo popolo e ai dignitari, Sua Maestà delibera su quelli di Sopra: «Vista la pervicacia dei loro attacchi alla nostra libertà, ordino che chiunque di loro venga trovato a Zalenia, con qualsiasi incarico e sotto qualsivoglia scusa, venga imprigionato e ucciso.
Che per sempre Zalenia sia disgiunta dal loro Regno Empio.
Che l’orrore della loro guerra mai più ci tocchi.
Che possiamo per sempre vivere liberi e in pace.
Questo io ordino».
La luce era abbagliante, terribile. Sennar cercò di muoversi, ma gli pareva di non avere più un corpo. Provò a parlare, ma era come se qualcosa lo soffocasse. Rimase lì, immobile, gli occhi serrati, ad ascoltare due voci infantili. Un ragazzo e una bambina, almeno così sembrava.
«Che cos’è?»
«Stupida, non lo vedi? È un uomo.»
«Ma è... strano!»
Il loro accento ricordò a Sennar quello di Moni, ma in questo caso il senso di alcune parole gli sfuggiva del tutto.
«Forse viene da Sopra.»
«Tu lo sai come sono fatti gli uomini di Sopra?»
«No. Però questo non è come noi.»
«Io ho paura, Cob.» La bambina aveva un tono sempre più spaventato. «Andiamo via.»
«Aspetta, voglio vedere se è morto.»
«No! Non lo toccare. Andiamo a chiamare qualcuno.»
«Oh, insomma, Anfitris! Sei proprio una fifona. E se è vivo?»
«Ti prego, vieni via.»
Adesso era un uomo a parlare.
«Hai fatto bene a venire a chiamarmi, Cob.»
«Pensi che sia uno di Sopra?»
«Non lo so. Comunque sta male, bisogna curarlo.»
«Ma se è uno di Sopra...»
«Se è uno di Sopra, se la vedrà con la legge quando sarà il momento. Ora non possiamo abbandonarlo qui.»
Sennar si sentì sollevare. Riaprì gli occhi e l’unica cosa che distinse furono due figure sfocate.
«Chi sei?» chiese la voce più adulta.
Sennar si sforzò di rispondere, ma dalla sua gola non uscì alcun suono.
«Non ti preoccupare» sentì sussurrare, poi perse conoscenza.
Dormiva quasi sempre. Quando si svegliava, intravedeva una forte luce. Non sapeva più chi era, né da dove veniva.
La coscienza tornò a poco a poco. Ricordò il suo nome, poi ricordò Nihal.
Si sentiva male. Gli occhi non erano più abituati alla luce e solo dopo parecchio tempo riuscì a tenerli aperti abbastanza a lungo da poter distinguere qualcosa. Si trovava in una strana stanza ovale, con il soffitto a volta. Su un lato c’era una cassapanca in legno chiaro. Le pareti erano ruvide e dorate, sembravano fatte di sabbia bagnata. Di fianco al suo letto, largo e basso, si apriva una finestra, anch’essa ovale.
Una donna robusta, con la pelle bianchissima e i capelli candidi, si chinò su di lui e lo guardò con occhio clinico. «Ti senti meglio?»
Era sulla quarantina e aveva un viso largo, con lineamenti marcati. Gli occhi chiarissimi avevano qualcosa di spaventoso; l’iride quasi non si distingueva dal bianco della cornea e la pupilla spiccava nera e profonda. Indossava un camicione azzurro e portava una collana di pietre rosse piccole e irregolari, simili a rametti.
Sennar aprì la bocca per parlare, ma ancora una volta non riuscì a dire nulla.
La donna lo guardò con dolcezza. «Non ti agitare. Fammi dei cenni. Stai meglio?»
Sennar annuì.
«Vieni da su?» La donna alzò il dito al soffitto.
Sennar la guardò senza capire.
«Sei uno del Mondo fuori dall’acqua?»
Sennar non sapeva che cosa rispondere. Sapeva che laggiù gli abitanti del Mondo Emerso non erano ospiti graditi.
La donna dovette intuire il suo dubbio e sorrise. «Puoi dirmelo. Finché sarai mio ospite non ti succederà nulla.»
Sennar annuì di nuovo e cercò di mettersi seduto. Quando si mosse, si rese conto di non avere più i capelli. Si toccò la testa. Erano cortissimi.
«Te li ho tagliati, erano pieni di nodi e di robaccia...» rispose la donna.
Si interruppe quando Sennar iniziò ad agitarsi.
La mia tunica! Dov’è la mia tunica?
In una tasca della tunica teneva la pergamena con le firme di tutti i membri del Consiglio. Era protetta da un incantesimo e l’acqua non poteva averla intaccata, ma se l’aveva persa era stato tutto inutile. Quando fece per alzarsi, lo sforzo gli mozzò il respiro.
«Stai calmo. Sei ancora convalescente.»
Il mago si toccò il petto e le braccia con uno sguardo supplice, nel tentativo di farsi capire.
«I tuoi vestiti?»
Sennar annuì.
«Li abbiamo messi ad asciugare. Non abbiamo toccato niente, stai tranquillo.»
Il mago si lasciò ricadere sul letto con un sospiro di sollievo.
Gli abitanti del Mondo Sommerso erano diversi da qualsiasi razza Sennar avesse mai visto. Avevano la pelle e i capelli di un bianco innaturale, traslucido, e occhi quasi luminescenti. Sennar non aveva mai incontrato nessuno con gli occhi più chiari dei suoi, era una cosa di cui andava abbastanza fiero; gli piaceva l’aspetto inquietante che gli conferiva l’azzurro pallido delle sue iridi. Quella gente, però, lo superava.
Per qualche giorno, Sennar fu ospite della donna pallida e di suo marito. Quando li vedeva girare per casa, gli sembravano presenze demoniache.
La prima parola che disse fu il suo nome, la seconda fu un sincero “grazie” a chi l’aveva salvato.
«Dovere» rispose l’uomo con noncuranza.
Il mago parlava a fatica. «Sono un’autorità del Mondo Emerso. Devo parlare con il re di questa Terra. Se foste così gentili da indicarmi come raggiungerlo...»
La donna sgranò gli occhi. «Vuoi andartene in giro per Zalenia?»
«Zalenia?» ripeté Sennar.
«È il regno in cui ti trovi» disse l’uomo.
«Sono in missione diplomatica. In missione di pace» spiegò il mago.
L’uomo scosse la testa. «Tu sei tutto pazzo.»
La cosa cominciava a diventare noiosa: gli davano tutti del pazzo.
«La legge vieta a quelli di Sopra di entrare a Zalenia» intervenne la donna. «Noi ti abbiamo nascosto perché eri mezzo morto, non ce la siamo sentita di lasciarti lì. Ma adesso...»
Sennar iniziava a perdere la pazienza. «Forse non mi sono spiegato. Sono un ambasciatore...»
«Senti, qui nessuno riconosce le vostre cariche» lo interruppe l’uomo. «L’unica cosa che puoi fare è andartene. E in fretta. Ti spiegheremo noi come fare. Altrimenti sei nei guai, ragazzo.»
«Che genere di guai?» chiese Sennar.
L’uomo esitò e la moglie gli rivolse uno sguardo supplichevole. «Diglielo. Deve sapere.»
«Non ci è mai capitato un caso come il tuo, però...»
«Però?» gli fece eco Sennar.
«Per chi arriva qui dal Mondo Emerso è prevista la pena di morte» rispose l’uomo tutto d’un fiato.
A Sennar venne quasi da ridere. Sono scampato alla tempesta, alle fauci di quello schifosissimo mostro, all’annegamento e ora che sono a un passo dalla meta rischio di essere giustiziato. «Sentite, parlerò con il vostro giudice...»
«Forse non hai capito» lo interruppe l’uomo. «Qui, quelli di Sopra sono considerati criminali. Puoi essere anche il re in persona, per noi sei un invasore.»
Quando capirono che Sennar non si sarebbe lasciato dissuadere, i suoi ospiti gli diedero poche e sbrigative informazioni sulla strada da prendere e lo costrinsero a partire il più presto possibile.
L’indomani mattina, il mago indossò la tunica e il medaglione del Consiglio dei Maghi e raccolse le sue poche cose. Controllò più di una volta di avere ancora con sé tutto ciò che gli occorreva, in particolare la pergamena, poi varcò la soglia di casa con timore.
«Tu non ci conosci, non ci hai mai incontrati. Se sanno che ti abbiamo ospitato, siamo finiti» gli dissero prima di chiudergli la porta alle spalle.
Sennar rimase a bocca aperta nel vedere il Mondo Sommerso, o Zalenia, come aveva scoperto che lo chiamavano i suoi abitanti. Il villaggio in cui si trovava era all’interno di un’immensa ampolla, di un materiale che ricordava il cristallo. Sembrava di essere in una bizzarra cittadina di mare sulla terraferma. Le case erano rotonde, costruite di sabbia e massi e decorate con conchiglie cangianti. L’aria odorava di salsedine come nella sua Terra, ma era un profumo più intenso e vivo. Regnava un ordine esemplare. Le vie erano dritte e spaziose e tutto aveva un aspetto curato.
Sennar si avvicinò incredulo alla parete di vetro e osservò i banchi di pesci multicolori che nuotavano nell’acqua di un blu intenso, a un soffio da lui. Alzò gli occhi. L’ampolla si trovava ad almeno un centinaio di braccia dalla superficie e il sole appariva come un alone indistinto. Sennar si chiese come potesse esserci tanta luce, sebbene fosse di un’insolita tonalità azzurrina che gli feriva gli occhi.
Toccò la parete. Era fredda, proprio come il vetro. Quando ritirò la mano, si accorse con stupore che la palma brillava debolmente. Studiò con più attenzione quello strano materiale. Solo allora si rese conto che era rivestito di una sostanza oleosa fluorescente. Aguzzò la vista e cercò di scorgere il fondo dell’oceano. Vide le alghe che si cullavano pigre al soffio delle correnti. Ce n’erano di vari tipi, ma da quell’altezza era difficile distinguerle. Molte, però, brillavano come la sua palma. Sennar fu stupefatto dall’ingegno degli abitanti di quel luogo: era la stessa ampolla a emanare luce; amplificava i pochi raggi che provenivano dall’esterno grazie alla sostanza oleosa fornita dalle alghe.
In mezzo alla distesa di alghe era sprofondata una massiccia colonna trasparente, la base dell’ampolla, mentre una seconda colonna cava si slanciava dal centro dell’ampolla verso l’alto, probabilmente per prendere aria dalla superficie. Sennar avvistò in lontananza altre ampolle sospese, collegate le une alle altre da lunghe gallerie trasparenti. Scosse la testa. Era quanto di più straordinario avesse mai visto: gli uomini di Zalenia avevano creato una rete sottomarina di villaggi sospesi tra acqua e cielo, piccoli mondi racchiusi nel vetro. Ancora frastornato da tanta meraviglia, ficcò le mani nelle tasche della tunica e si mise in cammino.
Se al di fuori dell’ampolla pullulava la vita, al suo interno tutto era avvolto dal torpore del primo mattino. La cittadina in cui aveva trascorso quei primi giorni era piccola, ma l’ampolla era enorme. Fuori dall’abitato si apriva una distesa ordinata di campi, irrigati da una fitta rete di canali. Le piante coltivate sembravano del tutto simili a quelle del Mondo Emerso, ma quelle asciutte non erano le sole piantagioni del regno. C’erano campi anche sul fondo del mare, più irregolari e rari, ma molto vasti: alghe.
Sennar procedeva come intontito, senza stancarsi di guardare. In alto poteva scorgere il riflesso del sole sull’acqua. Era lontanissimo, eppure non faceva freddo, anzi, c’era un piacevole tepore e dalle colonne proveniva una brezza fresca e costante.
Continuò a camminare senza meta, mentre la gente iniziava a uscire dalle case per recarsi al lavoro nei campi. Tradito dalla bellezza del paesaggio, non si accorse di essere osservato.
Quando sentì una voce prepotente che gli intimava: «Fermo, straniero!» ebbe la spiacevole sensazione di essere svegliato nel mezzo di un bel sogno.
Il mago si arrestò. Un uomo con una lunga lancia e una leggera armatura gli si avvicinò di corsa e gli puntò l’arma alla gola. «Chi sei?» chiese minaccioso.
Una piccola folla si radunò sul ciglio della strada.
«Sono un ambasciatore del Mondo Emerso» rispose Sennar con voce calma.
Dalla folla si alzò un mormorio confuso e si fece avanti una giovane donna. Era agitata. «Lo sapevo! Non ci ho voluto credere e invece...»
«Di cosa stai parlando?» chiese la guardia.
«Mio figlio. Mi ha detto che Anfitris, una sua amica, aveva trovato uno di Sopra. Pensavo che fosse una fantasia da bambini.»
Il mormorio aumentò e il volto della guardia si fece serio. «Andate a chiamare la bambina.»
Anfitris aveva circa sei anni, portava due lunghe trecce bianche ed era molto spaventata.
«Hai già visto quest’uomo?» chiese la guardia.
La bambina sembrò sul punto di mettersi a piangere. «Sì, ma era morto» piagnucolò. Due lacrimoni le scesero lungo le guance.
«Dov’era?» continuò la guardia.
«Sotto il gorgo. Io e mio fratello stavamo giocando, abbiamo sentito un tonfo e siamo andati a vedere» disse, tra i singhiozzi.
La guardia si voltò verso Sennar con lo sguardo truce. «Così sei uno di quei bastardi. Credevamo di avere chiuso con voi da un bel pezzo.» Quindi prese a pungolarlo con la lancia per farlo camminare.
«Aspetta» disse Sennar. «Sono in missione di pace. Devo parlare al più presto con...»
«Taci! Starà al conte decidere della tua sorte.»
Sennar cercò in tutti i modi di convincere il militare. Spiegò, alzò la voce, gli mostrò il medaglione che attestava la sua appartenenza al Consiglio dei Maghi, ma riuscì solo a fargli perdere le staffe. Alla fine decise di seguirlo senza opporre resistenza.
La guardia lo condusse in un edificio basso e lo rinchiuse in una cella. Tornò poco dopo, accompagnata da un vecchio dall’aspetto austero.
«Da questa parte, venerabile Deliah» ripeteva in tono rispettoso.
L’uomo era piegato dagli anni e camminava con il volto rugoso rivolto a terra. I lunghissimi capelli bianchi scendevano sulla veste azzurra fino a scivolare sul pavimento come uno strascico. La mano nodosa stringeva una lunga asta di legno grezzo, che terminava in una grande sfera turchese. Il vecchio avanzò lento, appoggiato al bastone, finché non fu di fronte al prigioniero.
Sennar tese la mano destra. «Il conte, immagino.»
Per tutta risposta, il vecchio gli afferrò il mento e gli esaminò la faccia, girandola in ogni direzione.
«È uno di loro» disse con voce cavernosa.
La guardia assunse un’espressione tronfia. «L’avevo capito subito.»
«Vi prego di ascoltarmi, conte» provò a dire Sennar. «Sono un ambasciatore del Mondo Emerso e...»
La guardia non gli lasciò finire la frase e lo atterrò con un pugno allo stomaco. Sennar si piegò, senza fiato, e cadde a terra. In un attimo il soldato gli fu sopra, gli ficcò qualcosa in gola, gli immobilizzò le braccia.
Il vecchio si avvicinò di nuovo con calma, quindi posò il pomolo del bastone sul capo di Sennar e pronunciò una litania a bassa voce.
Il mago ebbe appena il tempo di capire che cosa stesse accadendo, ma non riuscì a reagire. Si sentì soffocare e a poco a poco perse conoscenza.
La guardia gli strappò di malagrazia il bavaglio.
«Non sono il conte» disse il vecchio con un sorriso gelido prima di uscire.
Quando Sennar si riprese gli girava la testa. Provò a rimettersi in piedi appoggiandosi alla parete della cella. Le forze gli tornarono lentamente e con esse la consapevolezza di quello che era successo.
«Maledizione» imprecò tra i denti. Conosceva quell’incantesimo, lo conosceva fin troppo bene.
Tentò una magia facile. Distese la palma della mano, pronunciò la formula per evocare un fuoco. Nulla. Cercò invano di produrre qualche innocuo lampo colorato. Provò ancora e ancora, sempre con lo stesso risultato. Non faceva altro che ripetere formule inefficaci.
Si lasciò ricadere a terra con rabbia. Quel vecchio gli aveva imposto un sigillo e finché non l’avesse spezzato sarebbe stato privo dei suoi poteri.
Ora non era più un mago, né un consigliere. Era solo un ragazzo chiuso in una cella puzzolente a miglia e miglia da casa.
Tentare la fuga era impossibile. Nella cella c’era una sola feritoia, posta molto in alto, e le sbarre della porta erano robuste. Sennar si sentiva un idiota per il modo in cui si era fatto beffare e un incapace perché non aveva preso abbastanza sul serio l’ostilità della gente del Mondo Sommerso.
Non vide nessuno per tutto il giorno e quando calò la notte dormì poco e male. Fu perseguitato dagli incubi: veniva giudicato dal fantomatico conte e giustiziato, deriso dai Consiglieri, ringraziato dal Tiranno per il suo ottimo lavoro. Sognò anche Nihal. Nihal in battaglia, Nihal in pericolo, Nihal morta.
Quando si svegliò, una luce tenue e lugubre aveva appena iniziato a rischiarare la cella. Il primo suono che sentì fu quello del suo stomaco che reclamava cibo. Chiamò la guardia, ma non ottenne risposta.
Era una situazione assurda. Si trovava in fondo al mare, seduto per terra in una cella umida e circondato da un silenzio ostinato, fatta eccezione per il brontolio del suo stomaco.
Solo quando fu pieno giorno, udì finalmente dei passi che si avvicinavano alla grata. «Dov’eri finito? Cos’è, volete farmi morire di fame?» ringhiò il mago.
I passi si fermarono. «Ti chiedo scusa» disse una voce femminile. «Mi hanno detto solo oggi che c’era un prigioniero.»
Attraverso le sbarre, Sennar vide avvicinarsi una ragazza con in mano un vassoio. Era minuta, non molto alta, e non doveva avere più di sedici anni. Il volto era un ovale perfetto e le guance erano rosee. Fino a quel momento, Sennar aveva visto solo gente con i capelli candidi, ma la ragazza che gli stava davanti aveva numerose ciocche castane.
Fra i due calò un silenzio imbarazzato.
«Scusami, non volevo alzare la voce» mormorò Sennar, a disagio. «Credevo di parlare con la guardia.»
La ragazza gli rivolse un sorriso timido. «Non ti preoccupare. Comunque, eccoti servito, finalmente.» Fece passare il vassoio dalla feritoia alla base della grata.
Sennar lo afferrò subito e cominciò a scoperchiare le ciotole. Una era piena di una specie di brodo in cui galleggiavano strani filamenti neri, in un’altra c’era qualcosa che sembrava pollo ricoperto da una salsa verdognola, nella terza una porzione di molluschi mai visti prima. L’unica cosa riconoscibile era una mela rossa, ma il mago non andò troppo per il sottile. Trangugiò la zuppa con tanta foga che non riuscì quasi a distinguerne il sapore. La ragazza lo guardava in silenzio, con un’ombra di divertimento negli occhi verdi.
Sennar posò la ciotola. «Squisito» disse, mentre passava alla successiva. «Sei tu la cuoca?»
«Sì. Quasi tutta la mia famiglia si occupa di badare ai prigionieri. Sai, è per via dei capelli.» Mostrò una delle ciocche scure.
«In che senso?» chiese Sennar incuriosito.
«I miei antenati sono stati tra gli ultimi a scendere. È per questo che i nostri capelli non sono ancora del tutto bianchi.»
«Quando sono arrivati?»
«Una cinquantina di anni fa. I miei genitori sono nati qui, ma i miei nonni venivano da Sopra e... quelli come noi non godono di grandi privilegi. Questo è uno dei pochi lavori che possiamo fare.»
«Occuparsi dei carcerati non è proprio un compito adatto a una ragazza.»
Lei arrossì. «Di solito è mio fratello che porta il cibo ai prigionieri, io cucino e basta. Solo che... la verità è che ero curiosa di vederti. In città non si parla d’altro. Sono tutti agitatissimi. Io però non ho paura di te, ho dei parenti che sono rimasti Sopra.»
Sennar passò ai molluschi. «Di dove sono i tuoi parenti?»
«Della Terra del Mare.»
«Anch’io vengo da lì. L’hai mai vista?»
La ragazza scoppiò a ridere. «Ovvio che no! A noi non è permesso salire. Solo i maghi possono andare nel Mondo Emerso.»
Sennar alzò finalmente gli occhi dalle ciotole. Non era certo la prima volta che si trovava solo con una donna, ma quella ragazza gentile, in quel momento, gli fece uno strano effetto. È davvero carina.
Lei dovette sentirsi osservata, perché prese a sistemarsi le pieghe della gonna, in imbarazzo.
Sennar guardò il vassoio. Della mela, ormai, era rimasto solo il torsolo. «Grazie, non sai quanto mi abbia fatto bene» disse mentre lo restituiva alla ragazza.
«Di nulla, è il mio lavoro. Tornerò stasera. Puntuale, prometto! Non sia mai che tu muoia di fame» disse ridendo.
Si era già allontanata dalle sbarre, quando il mago la richiamò. «Aspetta! Non ci siamo neanche presentati: io sono Sennar.»
«Io mi chiamo Ondine. Allora a più tardi, Sennar» rispose lei, poi si allontanò.
Ondine andava alla prigione mattina e sera.
Per Sennar era un raggio di sole nel buio. Era premurosa, sempre sorridente e lo distraeva dalla solitudine in cui era sprofondato.
Con il passare dei giorni fecero amicizia. Parlarono dei loro mondi, si raccontarono la propria storia. Lei rimase colpita dall’idea del cielo, non poteva credere che nel Mondo Emerso tutto il blu fosse accumulato in alto. Raccontò a Sennar quanto amasse il mare e come le sarebbe piaciuto essere una sirenide.
«Una sirenide?» chiese lui perplesso.
«Sì, una discendente delle sirene.»
«Pensavo che le sirene non esistessero.»
Ondine rise. «Certo che esistono!» Quindi raccontò a Sennar che Zalenia era stata costruita con l’aiuto dei tritoni e delle sirene e che, dopo qualche tempo dalla fondazione del regno, avevano iniziato a nascere bambini particolari: esserini a metà tra le sirene e gli abitanti della terraferma, senza pinna ma dotati di piccole branchie, che potevano vivere anche sott’acqua. «Sono esseri straordinari. Per loro non c’è un sopra e un sotto, un dentro e un fuori. Quanto vorrei essere libera come loro!»
Dai racconti della ragazza, Sennar capì quanto fosse profondo l’odio per gli abitanti del Mondo Emerso. “Quelli di Sopra”, come li chiamavano a Zalenia, erano considerati gente dedita solo agli omicidi e alla guerra, incapace di vivere in pace con se stessi e con gli altri. Quell’odio si ripercuoteva anche su chi era arrivato più di recente nel Mondo Sommerso, come Ondine e la sua famiglia. Il segno distintivo degli esclusi, “i nuovi”, erano i capelli segnati da ciocche scure. Venivano guardati con sospetto e avevano accesso solo ai lavori più umili. Il padre di Ondine era uno degli addetti alla manutenzione delle colonne che collegavano le ampolle alla superficie. Doveva lavorare sospeso a mezz’aria, per liberarle dai rifiuti che si accumulavano lungo le pareti e ostruivano i condotti.
«In casa ci dobbiamo arrangiare, io non ho neanche la dote. Ma tanto, chi vuoi che mi sposi?»
«Nel mio mondo avresti frotte di corteggiatori» rispose Sennar imbarazzato. Non era abituato a fare complimenti.
Ondine scosse la testa con un sorriso scettico. «Con questi capelli e queste guance rosse?»
Sennar trovava assurda quella situazione. Moni gli aveva detto che i fondatori del Mondo Sommerso volevano un mondo migliore, dove tutti vivessero in pace. Quello che vedeva, invece, era un regno fondato sull’odio e sulla discriminazione.
Sennar si fece spiegare come funzionava l’organizzazione politica di Zalenia. Ogni gruppo di ampolle era retto da un conte, una sorta di sovrano assoluto con tanto di esercito personale. Il conte riscuoteva anche tributi, che in parte era tenuto a versare al re. Quel che restava poteva amministrarlo a suo piacimento. Alcuni fortunati vivevano in ampolle gestite da conti illuminati, che utilizzavano il denaro per migliorare la vita dei propri sudditi, ma molti erano governati da despoti che li vessavano. La massima autorità era il re, che però si interessava poco dei territori più lontani.
In passato le cose andavano diversamente. Non c’era nessun re e la gente si governava da sola. A scadenze fisse, gli abitanti di ogni villaggio si riunivano e prendevano insieme le decisioni più importanti, e lo stesso facevano, per le questioni più generali, gli ambasciatori provenienti da tutte le ampolle. Durò poco. Alcuni tentarono di prendere il potere con la violenza e Zalenia fu sull’orlo della guerra. Per evitare il conflitto, uno degli ambasciatori, il più carismatico, propose di eleggere un re.
«In fondo non ci possiamo lamentare» diceva Ondine. «L’importante è restare in pace. Se capita un conte cattivo, si spera che il suo successore sia migliore. Non può essere sempre tempesta, non credi?»
Il conte si occupava anche della giustizia. Quando le sue guardie catturavano un criminale, lo chiudevano in prigione in attesa del suo giudizio, perché solo lui poteva comminare le pene.
«E se il conte... cosa succede se il conte non arriva?» chiese Sennar preoccupato.
Ondine esitò. «Non credo che questa informazione ti farà piacere.»
«Dimmela lo stesso.»
La ragazza si mordicchiò il labbro. «Se il conte non si fa vivo sono le guardie a decidere della sorte del prigioniero» disse tutto d’un fiato. Subito dopo sorrise a Sennar, per rassicurarlo. «Però non ti devi preoccupare. Sono sicura che il conte ti ascolterà e ti farà parlare con il re. Davvero.»
Sennar sperava che la ragazza avesse ragione. Ma i giorni passavano e del conte non si vedeva neanche l’ombra.
Procedettero al sicuro tra i boschi, lontani dal confine. Nihal non riuscì a ritrovare l’eccitazione e la gioia dei primi viaggi. Tutto ormai aveva il sapore dell’abitudine: le ore a cavallo, i tratti a piedi sui sentieri più impervi dove bisognava condurre l’animale per le redini, i pasti silenziosi consumati senza alzare il capo dalla ciotola. Forse se fosse stata sola con Laio avrebbe chiacchierato, ma con quel soldato al seguito l’atmosfera non era delle più amichevoli.
Mathon doveva avere sei o sette anni più di lei, ma era cupo e taciturno quanto un vecchio burbero. Parlava di rado e non sorrideva mai.
«Ha avuto una vita difficile» le spiegò Laio una sera. «Era il bastardo di una famiglia nobile e da piccolo l’hanno abbandonato vicino a una caserma. È stato l’esercito a prendersi cura di lui, per questo è venuto su selvaggio come un lupo. Ne ha passate proprio tante, poveraccio.»
Dopo quella rivelazione, Nihal provò maggiore simpatia per Mathon, ma il soldato continuò a non rivolgerle la parola e lei non fece nulla per socializzare.
Neppure Laio, comunque, era particolarmente ciarliero. Sembrava concentrato sulla sua missione e più riflessivo del solito. Quando lo guardava in viso, a Nihal sembrava di cogliere lineamenti nuovi e una decisione nello sguardo che non gli aveva mai visto. Per Laio la battaglia era già iniziata e lei sapeva che, prima che con Pewar, doveva vincerla con se stesso.
Non passò molto prima che Nihal cominciasse ad annoiarsi. Le giornate scorrevano lente e la ragazza accoglieva con un sospiro di sollievo l’arrivo della notte, quando almeno le ore sarebbero trascorse rapide nel sonno.
Raggiunsero la Terra dell’Acqua in una decina di giorni. La missione, se così poteva essere chiamata, non imponeva fretta e Laio non sembrava ansioso di giungere alla meta. Appena ebbero varcato il confine, il ragazzo si fece ancora più cupo. A quel punto Nihal si disse che, se il suo compito era quello di assistere moralmente l’amico, forse era ora di iniziare a svolgerlo.
«Non devi aver paura proprio adesso» gli disse una sera, mentre il loro compagno dormiva e il fuoco scoppiettava allegro.
«È che sento già il fiato di mio padre sul collo.»
«Sei arrivato fin qui e non è poco. L’ultima volta non ti eri spinto tanto lontano, no?»
Laio sorrise timidamente.
«Tu credi in quello che stai facendo, Laio, è questo l’importante. Andrà tutto bene.»
Quella stessa notte, però, una notte senza luna e senza stelle, Nihal capì di essersi sbagliata. In quei dieci giorni non aveva notato niente di strano, nessun segno che potesse rivelare un pericolo di qualsiasi genere. Si era sentita sicura e fu quella sicurezza a farli cadere in trappola.
Erano in dieci. I loro passi erano più circospetti di quelli di un normale soldato. Si avvicinarono con cautela al luogo dove erano accampati i tre viaggiatori, le armi alla mano, silenziosi ma pronti ad attaccare. Uomini abituati a vivere e agire nell’ombra, agili come gatti. Una banda di ladri.
Neanche Nihal, che pure aveva i sensi vigili, sulle prime si accorse di nulla. Fu il rumore di un ramoscello spezzato a farla riemergere dal sonno, seguito da un fruscio leggero, come di una veste che si impiglia in un cespuglio. Nihal spalancò gli occhi e li vide: un gruppo di uomini circondava il bivacco. Erano armati e si avvicinavano piano; si guardavano intorno e si dividevano i compiti con cenni delle mani. Un paio si diressero a colpo sicuro verso le bisacce, mentre un terzo si avvicinò a Laio addormentato brandendo un pugnale.
Fu allora che la ragazza scattò in piedi urlando, la spada in pugno, pronta alla lotta. Laio e il soldato si svegliarono di soprassalto e misero mano alle armi, mentre Nihal si gettava con foga sull’uomo più vicino e lo abbatteva con un fendente.
Laio provò a scattare in avanti, ma uno dei briganti non ebbe difficoltà a disarmarlo colpendogli il polso con un bastone. Poi lo atterrò con un calcio in pieno petto e gli fu subito sopra, a cavalcioni.
«Buono. Stai buono e non ti succederà niente» disse, mentre gli puntava un coltellaccio alla gola. «Per ora.»
Nihal si occupò di un altro boscaiolo. Cercò di prenderlo di sorpresa con un attacco violento e fulmineo, ma quello non si lasciò spiazzare. Era un omone, con i muscoli che gli gonfiavano la tela della casacca; parò gli affondi di Nihal senza fatica, contrattaccò con foga e la costrinse ad arretrare di parecchio nel folto.
La mezzelfo si batteva come una furia mentre cercava una via di fuga. Il bosco risuonava di mille fruscii, come se i nemici fossero infiniti. Poi sentì un urlo.
A quel punto fu sopraffatta dall’ira. «No! Laio! Mathon!» gridò. Mozzò di netto un braccio al suo avversario e lo lasciò a dissanguarsi fra i cespugli.
Provò a tornare verso il bivacco, ma aveva perso il senso dell’orientamento. Intravide due ombre avanzare tra gli alberi. Sentì uno scalpiccio di passi che si avvicinavano alle sue spalle. Allungò la spada davanti a sé, fletté le gambe nello slancio, alzò il braccio per colpire.
Poi, all’improvviso, un forte dolore alla testa.
Un fiotto caldo giù per la schiena.
Un’oscurità densa e senza ritorno.
Nihal socchiuse gli occhi. Aveva un feroce mal di testa. Anche il minimo suono le rimbalzava da un lato all’altro del cranio e si trasformava in un rumore insopportabile. La vista era annebbiata e non riusciva a mettere a fuoco nemmeno un particolare del luogo in cui si trovava. Sembrava una grotta, ma non distingueva altro. In sottofondo sentiva lo scoppiettio di un fuoco. Distese le mani e tastò intorno a sé. Era sdraiata su un sacco di paglia, coperta da un telo leggero.
Udì un rumore metallico lancinante e nel suo campo visivo entrò una figura dai contorni indefiniti.
«Evviva» esclamò una voce maschile. «Ben svegliata.»
Nihal si portò una mano alla testa. «Parla più piano, ti prego.»
«Scusa» disse l’uomo in un sussurro. «Con la botta che hai preso...»
Le dita di Nihal sfiorarono una larga fasciatura. Si sforzò di ricordare che cosa fosse successo e non le fu difficile ricostruire l’accaduto. Una botta in testa. L’avevano fregata come un pivellino. Ebbe un moto di stizza dannazione. Aveva ragione Sennar, rischio la vita un giorno sì e l’altro pure. «Non ci vedo» si lamentò.
«È normale» disse l’uomo, mentre si affaccendava intorno al fuoco. «Non preoccuparti, è un disturbo passeggero. Domani sarà di nuovo tutto a posto.»
«Chi sei?»
«Un vecchio.»
Le sembrò piuttosto vaga come risposta. «E non ce l’hai un nome?»
«Ce l’avevo, molto tempo fa, ma l’ho lasciato dietro di me. Non ne ho più bisogno. Sono un vecchio, nient’altro.»
Vecchio. Quella parola le riportò alla mente Livon, suo padre. Lo chiamava così:
Vecchio. Non sarebbe mai riuscita a chiamare nessun altro con quel nome.
«E se volessi chiamarti?»
«Ti ho salvato la vita. Chiamami pure Mio Salvatore.» Il vecchio rise, una risata saggia e antica. Le si avvicinò con una ciotola. «Basta con le domande. È tempo di rimettersi in forze.»
Nihal esitò, poi prese la ciotola e iniziò a mangiare.
Il momento delle domande venne più tardi, verso sera, dopo che Nihal si fu riposata. Quando si svegliò, si accorse che la vista era migliorata, anche se le sembrava di avere gli occhi appannati. La testa continuava a martellare, ma riuscì a tirarsi su senza problemi. Il cuscino era macchiato di sangue.
Si sedette sul pagliericcio con le gambe incrociate e osservò il suo salvatore. Non riusciva ancora a distinguerne con chiarezza i lineamenti, ma le parve davvero molto vecchio. Aveva addosso solo una lunga casacca lacera e sporca che lo copriva fino alle caviglie. Il cranio era quasi del tutto calvo, però aveva una fluente barba candida che sfiorava il pavimento. Era scalzo e quando lo guardò Nihal capì che cos’era quel rumore metallico: il vecchio aveva le mani e i piedi gravati da pesanti catene, che gli si avvolgevano intorno alle membra come le spire di un rettile.
«Perché sei legato?» chiese d’impulso.
Il vecchio si voltò verso di lei e sembrò sorridere. «Per espiare i miei numerosi peccati.»
«Sei un evaso?»
Il vecchio rise, con la sua risata soffocata. «No, Nihal, no. Mi sono messo io stesso queste catene, perché il loro fardello mi ricordi sempre quanto sia pesante il mio animo.»
«Come fai a conoscere il mio nome?» si stupì lei.
«La vecchiaia e la solitudine mi hanno fatto molti doni. La pazienza, innanzitutto, e un certo grado di preveggenza. È stato grazie a questa dote che ti ho trovata.»
La ragazza si fece seria. «Raccontami tutto.»
Il vecchio si acciambellò ai piedi del giaciglio di Nihal. «Ieri sera ho sentito che accadeva qualcosa nei pressi della mia dimora. Sono uscito, mi sono nascosto e ho visto la vostra compagnia in balia dei briganti. Tu eri a terra, non distante da un giovane immerso nel sangue. Più in là c’era un prigioniero.»
Il cuore di Nihal ebbe un sobbalzo. «Descrivimelo.»
«Poco più di un bambino. Biondo. E terrorizzato.»
Il vecchio le raccontò di come i predoni avessero trovato addosso a Laio una lettera che lo identificava come figlio di Pewar e avessero deciso di rapirlo per chiedere un riscatto. «Se lo sono portato via legato e imbavagliato, dopo aver gettato te e l’altro giù da un dirupo.»
«L’altro, il nostro compagno... è...» mormorò Nihal.
«Morto» disse il vecchio con semplicità. «L’ho seppellito nei pressi della forra dove vi ho trovati. I briganti hanno pensato che fossi morta anche tu. Non era difficile crederlo. Eri bianca come un cencio e respiravi appena.»
Nihal non ascoltava più. La vita di Laio era appesa a un filo. C’erano poche speranze che i ladri lo liberassero, anche dopo il pagamento di un eventuale riscatto.
«Sai dirmi dove sono andati?»
Il vecchio sorrise. «Certo. Questo posto è il mio regno. Entro tre leghe da qui non c’è luogo che non conosca.»
«Allora devi portarmi da loro.» Nihal balzò in piedi e afferrò la sua spada, ma le cedettero le gambe.
Il vecchio la afferrò prima che cadesse e la fece distendere sul pagliericcio. «Dove credi di andare? La tua vista è ancora compromessa, sei debole. In queste condizioni non puoi affrontare quegli uomini.»
Nihal si alzò di nuovo in piedi, questa volta con più cautela. «Ma non posso neanche lasciare Laio in balia di quella gentaglia.»
«Non hai di che temere. Per loro il tuo amico è come un sacco di monete d’oro. Almeno finché il padre non avrà pagato. Tu nel frattempo ti rimetterai in sesto.»
Nihal si risedette sconsolata. Il vecchio aveva ragione. In quelle condizioni si sarebbe solo fatta ammazzare.
«Su, non c’è da scoraggiarsi. Sei giovane e forte, ti riprenderai in fretta. Allora sarò io stesso a condurti dove desideri.»
Nihal annuì. Si sentiva scoppiare la testa e aveva il cuore in tumulto. Si distese sul pagliericcio e iniziò a fissare con impazienza le macchie d’umidità sulla volta della caverna.
Nihal si esaminò con attenzione: una ferita superficiale su un braccio, le gambe graffiate dai rami bassi dei cespugli, un livido violaceo su una spalla. Quando si toccò la testa, alla ricerca dell’origine del dolore che la stordiva, le sue dita incontrarono un grosso taglio slabbrato sulla nuca. Proprio quello che mi ci voleva, una nuova cicatrice. Mi toccherà farmi crescere i capelli.
Rimase nella grotta per qualche giorno, stesa sul suo letto di paglia, cercando di elaborare piani per la liberazione di Laio e struggendosi nell’attesa. A poco a poco, la vista tornò normale e il mal di testa si affievolì fino a scomparire.
Quello strano vecchio non era molto di compagnia. Di giorno spariva e faceva ritorno solo a notte fonda. Usciva poco prima dell’alba, dopo aver preparato lauti pasti per la sua ospite, poi si ripresentava con il buio e le chiedeva come fosse andata la giornata.
Ogni volta che Nihal provava a indagare su dove fosse stato, il vecchio dava risposte vaghe oppure cambiava argomento.
Ora Nihal poteva guardarlo meglio. Il suo volto era una ragnatela di rughe, ma non doveva essere anziano come sembrava. Aveva occhi vivaci e la presa delle sue mani era salda e forte. Sulla palma destra c’erano calli vistosi, tipici di chi ha impugnato a lungo un’arma; in gioventù doveva aver combattuto.
«Hai visto molte battaglie?»
«Troppe. Ho ucciso molte persone. Ho combattuto su molti fronti. Eppure è sempre la solita guerra, che si trascina ormai da tempo immemore.»
«Ed eri un bravo guerriero?»
«Uno fra tanti, né migliore né peggiore degli altri.»
Rispondeva sempre così, a mezze parole, in modo sfuggente. Aveva il sorriso perennemente stampato sulla faccia, sebbene dovesse soffrire. I polsi e le caviglie erano ulcerati per le catene e spesso sanguinavano. Nihal capì che il vecchio aveva vissuto intensamente e di certo non solo belle esperienze. Sembrava un naufrago che avesse visto molte tempeste e trovato infine la pace.
L’ultima sera, Nihal si fece spiegare con precisione dove fosse il covo dei briganti. Il vecchio fu prodigo di informazioni preziose. Non solo sapeva dove si trovavano, ma sembrava conoscere molto bene le loro abitudini.
La ragazza iniziò a oliare la spada e il vecchio si sedette davanti a lei e la osservò. Lo faceva spesso; sembrava particolarmente interessato a Nihal.
«Vedo che conosci il popolo dei folletti» disse il vecchio di punto in bianco.
«Da cosa l’hai capito?» chiese Nihal, cercando di dissimulare lo stupore.
Il vecchio levò un dito verso l’elsa. «Dalla pietra che hai incastonata nella spada. Non avevo mai incontrato un umano che la possedesse, tanto meno un mezzelfo.»
«Mi è stata regalata da un folletto, molto tempo fa» rispose Nihal. Poi sentì la vecchia curiosità fare capolino. «Che cosa sai di questa pietra? La conosci? Sai che poteri ha?»
Il vecchio sorrise. «Sarebbe davvero strano se uno come me, che ha vissuto tanto nel bosco, non conoscesse le Lacrime. Sono pietre fatte con la resina essiccata dei Padri della Foresta e sono il simbolo del popolo dei folletti.»
«Sì, questo lo so» disse Nihal impaziente. «Quello che vorrei capire, però...» Si morse le labbra, indecisa. Non sapeva se poteva fidarsi di quell’uomo.
Alla fine gli raccontò l’avventura che aveva vissuto con Laio nella Terra del Mare e di come la Lacrima li avesse salvati dall’attacco dei fammin.
Il vecchio ascoltò, assorto ma per nulla stupito. Quando parlò, la sua voce era calma e pacata come sempre. «Le Lacrime sono in grado di assorbire la forza vitale della natura e di amplificarla. I folletti però non sfruttano questa prerogativa, usano le pietre come ornamenti e le venerano, perché sono il frutto del pianto dei loro alberi protettori. Forse non ne sei consapevole, ma quello che hai ricevuto è un dono importante. Certo, in mani umane la Lacrima è del tutto inerte.»
Nihal restò interdetta. «In che senso?»
«Nessuna delle stirpi che calcano questa terra è in grado di sprigionare il potere della Lacrima.»
«Allora perché in mano mia si è... risvegliata?»
Il vecchio sorrise. «Siamo abituati a considerare solo la storia più recente di questo mondo martoriato, ma le razze che popolano ora il Mondo Emerso non sono le uniche a essere esistite su questa terra. Prima di noi vi furono altri.»
«Gli elfi» sussurrò Nihal.
«Già. Gli elfi non concepivano la magia come la intendiamo noi. Erano più simili alle ninfe che agli uomini: esseri così vicini alla natura da saperne cogliere ogni sfumatura. Alle altre creature la loro capacità di guidare il corso della natura sembrava magia. Sì, gli elfi erano in grado di utilizzare appieno i poteri della Lacrima. Era un tramite tra loro e i segreti più nascosti del mondo, e grazie a quella pietra la loro comunione con gli spiriti diventava ancora più profonda.» Il vecchio si interruppe e scosse la testa. «Poi il loro popolo si indebolì. Gli elfi emigrarono verso terre lontane, abbandonarono il Mondo Emerso e l’unica traccia del loro passaggio fu la tua stirpe. Voi mezzelfi, nati dall’unione tra elfi e uomini, avete perso parte della vicinanza con gli spiriti primigeni. Per i tuoi avi, i poteri più profondi della Lacrima divennero inaccessibili, ma impararono comunque a sfruttare quelli più blandi. I mezzelfi usavano la pietra per aiutarsi nella magia, così per voi la resina dei Tomren divenne una sorta di catalizzatore.»
Catalizzatore. Anche Phos l’aveva chiamata così.
Nihal rifletté in silenzio per qualche istante. «Ma io non ho pronunciato nessuna formula. La pietra ha agito da sola, come di sua volontà.»
«Non devi stupirti, Nihal. Nelle tue vene scorre sangue elfico e ciò fa sì che la Lacrima possa svegliarsi in tutta la sua potenza. Quella sera nel bosco è accaduto proprio questo. Il tuo desiderio di vivere ha attivato la pietra ed essa ti ha protetta, ha reagito contro creature nate dalla violenza sulla natura: i fammin.»
Nihal guardò con stupore la sua spada. «Come si fa ad attivarla?»
«Questa è una domanda difficile. Forse un giorno imparerai, ma dovrai farlo da sola. Sei tu il mezzelfo, non io.»
Nihal fece una smorfia di disappunto. Un potere così grande ed era inutilizzabile. Chissà perché Phos le aveva fatto quel regalo. «Non sai dirmi altro?» chiese con un pizzico di speranza.
«Forse» rispose il vecchio. «Hai mai sentito una sensazione strana, come se sentimenti non tuoi si impadronissero della tua anima?»
Le parve che nella mente le si fosse accesa una fiammella. «Sì, certo, mi è capitato più di una volta.»
«È una facoltà che solo quelli della tua razza possedevano. I mezzelfi hanno percezioni più ampie di quelle delle altre creature di questo mondo e sentono con più forza lo spirito della natura e degli esseri viventi. In te si riduce a una vaga sensazione, ma la tua gente sapeva affinare queste capacità con lo studio. I mezzelfi esercitavano tale facoltà fin da piccoli. È per questo che erano imbattibili in guerra: leggevano i pensieri dell’avversario e ne anticipavano le mosse.»
Nihal lo guardava con stupore. «Quindi anch’io, se volessi...»
Il vecchio scosse la testa. «Non è rimasta alcuna traccia dell’addestramento che seguivano i tuoi simili, dunque non c’è modo che tu possa coltivare questa dote. Certo, forse col tempo imparerai a farne buon uso, ma non sarai mai in grado di leggere nella mente altrui. Però puoi metterti in contatto con gli spiriti naturali, avere accesso a certe formule...»
Il vecchio si interruppe di colpo e Nihal ebbe la sensazione che volesse cambiare discorso.
«Quali formule?»
«Niente. Nulla che ti possa essere utile» rispose lui con un cenno vago della mano. «Ma tornando alla Lacrima, non è stato un caso che ti abbia aiutata.» Chiuse gli occhi, come se cercasse di riportare qualcosa alla mente. «Non vedo con chiarezza, ma sento che sei legata a quella pietra, che è nel tuo destino. È come l’ombra di qualcosa di più grande. Un fine che ti attende nel futuro.» Poi tacque e riaprì gli occhi.
«Che cosa vuoi dire?» chiese Nihal.
«Chissà.» Il vecchio scrollò le spalle. «I miei occhi vedono, ma non sempre la mia mente capisce. Capire sta a te.» Sorrise. «Be’, che fine ha fatto tutto il tuo ardore? Non avevi un amico da salvare?»
Nihal scattò in piedi. «Portami da loro» disse decisa.
Il vecchio si diresse verso l’uscita della grotta. Prima di rinfoderare la spada e seguirlo, Nihal guardò ancora una volta il candido lucore della pietra. Le parve che la chiamasse.
Ondine arrivò trafelata davanti alla cella.
Sennar si avvicinò alle sbarre, preoccupato. «Che cosa succede?»
«Hanno deciso di giustiziarti!» Gli occhi della ragazza si riempirono di lacrime. «La gente ha paura e le guardie vogliono sbarazzarsi di te.»
«Non è possibile» mormorò Sennar. «Non ha senso.»
Ondine scoppiò a piangere. «La data dell’esecuzione verrà annunciata domani.»
Sennar allungò una mano fuori dall’inferriata e le toccò una spalla. «Non piangere. Ascoltami. C’è un modo per fermare l’esecuzione?»
La ragazza si asciugò le guance e annuì.
La piazza era gremita. Quando il conte Varen riceveva era giorno di festa e nel capoluogo della contea si riversava gente da tutti i paesi vicini.
Il conte era un uomo imponente, sulla cinquantina. Tutto in lui sembrava grande e minaccioso: un ampio petto, mani grosse e tozze, un collo taurino. La parte superiore del capo era calva e lucente, e i pochi capelli che gli restavano erano legati con un nastro di seta in un sottile codino, alla moda della sua gente. I tratti decisi del volto lo facevano rassomigliare a una statua che fosse stata sbozzata dalla pietra con pochi colpi vigorosi. Sedeva su un seggio rialzato e appariva annoiato. Il suo sguardo spento vagava sulla folla ai suoi piedi: un’altra noiosa seduta, un’altra giornata di lamentele e beghe di paese.
C’era stato un tempo, quando era giovane e fiducioso, in cui aveva creduto nel suo compito, in cui era stato certo di poter cambiare qualcosa con il suo operato. Sognava di fare dei suoi sudditi individui consapevoli, pronti a prendere decisioni e magari anche ad autogovernarsi, come era stato in passato. Aveva cercato di fare di quelle udienze un’occasione di crescita, ma i suoi tentativi si erano scontrati con l’indifferenza del popolo, che si chiedeva perché lui la facesse tanto lunga e non si limitasse a dispensare grazie e punizioni come i suoi predecessori. Quella gente non voleva la libertà. Voleva essere comandata, voleva qualcuno davanti a cui inginocchiarsi. Qualcuno che li sollevasse dal peso di pensare con la propria testa. Alla fine aveva ceduto. Era diventato quello che i suoi sudditi volevano: un despota.
Quel pomeriggio aveva già dovuto dirimere un paio di questioni di confine e un litigio familiare a causa di una misera eredità, e ascoltare una sfilza di mogli che peroravano per i mariti.
Il conte fece un cenno al banditore, che avanzò e declamò: «L’udienza è finita! Disperdetevi! L’udienza è finita!». «Aspettate! Aspettate, vi supplico! Datemi ascolto!» strillò una voce femminile e continuò a farlo finché non giunse alle orecchie del conte.
Qualcuno cercava di farsi largo nella calca, avanzava poco alla volta, si intrufolava fra petti e schiene.
La folla si aprì lentamente e all’uomo apparve una ragazzina minuta. Al suo incedere la gente si scostava con ripugnanza: era una nuova.
«Vieni avanti» disse il conte.
Era la prima volta che gli chiedeva udienza una persona così giovane. Avrebbe potuto essere sua figlia. La fanciulla giunse fin sotto il blocco di marmo su cui poggiava lo scanno, mentre un silenzio di piombo scendeva sull’uditorio.
«Il mio nome è Ondine, conte» disse ansimando «arrivo da Eressea, il villaggio nei pressi del gorgo. Vengo a implorarvi di risparmiare la vita di una persona.»
Il conte vide che tremava. «Un tuo familiare?»
«No, signore. È un prigioniero.»
«E qual è il suo reato?»
La fanciulla esitò. Ai piedi del trono sembrava ancora più piccola. «È... è uno di Sopra, signore» disse a mezza voce.
La folla si allontanò da lei ancora di più e iniziò a mormorare. Il conte assunse un’espressione accigliata.
«Ha rischiato la vita per arrivare quaggiù» continuò lei. «È un giovane ambasciatore.»
«Ti ha detto perché è venuto?»
«Sì, signore. Un tiranno sta cercando di conquistare il Mondo Emerso. Il ragazzo dice che potrebbe estendere il suo dominio fin qui.»
Il conte sorrise. «Mia cara fanciulla, sai bene quanto siano infidi quelli di Sopra.»
«No, conte» sbottò la ragazza. «So cosa state pensando: che sono solo una ragazzina ingenua. Ma quel ragazzo non ha fatto niente di male. Tutto quello che chiede è di poter parlare con voi. Mi ha detto di mostrarvi questo.»
Estrasse da sotto il corpetto un medaglione, che il banditore le strappò dalle mani per passarlo al conte.
Su una faccia era inciso un grande occhio, sull’altra un simbolo che il conte riconobbe subito come quello della Terra del Vento. Non l’aveva dimenticato, i suoi antenati provenivano da lì.
Era la prima volta che Varen metteva piede in una prigione. Di solito i carcerati venivano condotti al suo cospetto durante le udienze, all’aperto. L’odore di muffa che stagnava tra quelle pareti lo prese alla gola.
Al suo arrivo la guardia si inchinò rispettosamente.
«Mi spiace che vi siate dovuto scomodare, conte. Non credevamo di contrariarvi, condannando a morte quell’infiltrato...»
Varen interruppe il soldato con un cenno infastidito. «Ebbene? Di che si tratta?»
La guardia fece rapporto. «L’hanno trovato due bambini nei pressi del gorgo, signore. Io l’ho sorpreso a girovagare per Eressea e appena l’ho riconosciuto come uno di Sopra l’ho sbattuto in cella. Credo che qualcuno l’abbia ospitato per qualche tempo; nessuno attraversa illeso il gorgo. Sto indagando. I colpevoli verranno presto assicurati alla giustizia.»
Il conte annuì, annoiato. «Sì, sì. Portami da lui.»
Davanti alla cella li attendeva un vecchissimo mago con lunghi capelli bianchi. Il conte lo conosceva, si chiamava Deliah.
«Il prigioniero è un mago, signore, ma non ho avuto modo di saggiarne i poteri» disse il vecchio con voce roca. «Ho preferito imporgli la formula di privazione prima che potesse nuocere. Adesso la formula è ancora attiva, ma tra qualche giorno egli riacquisterà i poteri. Suggerisco che venga giustiziato prima che ciò accada.»
«Questo sta a me deciderlo» tagliò corto il conte Varen. «Ora voglio conoscerlo.»
La guardia aprì le sbarre della cella buia e il conte intravide una figura seminascosta nell’oscurità.
«Che cosa fai lì impalato, bastardo? Prostrati!» urlò il soldato.
Il conte lo fulminò con lo sguardo. «Non osare mai più trattare così un prigioniero, o dovrai trovarti un altro lavoro» disse in tono fermo. «Andate pure, voglio parlargli da solo.»
«Ma, conte...» iniziò la guardia.
«Andate» ripeté, in un tono che non ammetteva repliche.
La guardia si dileguò, seguita dal venerabile Deliah.
Il conte osservò con attenzione il prigioniero, ritto al centro della cella. La fanciulla gli aveva detto che era giovane, ma quello che si trovava davanti era un ragazzino. Represse un moto di istintivo ribrezzo per la sua pelle scura, i capelli rosso fuoco e la lunga tunica sdrucita. «Parlate. Vi ascolto.»
«Vi ringrazio per avermi concesso udienza, conte» esordì il ragazzo con voce sicura. «Il mio nome è Sennar e rappresento la Terra del Vento all’interno del Consiglio dei Maghi. Devo raccontarvi una storia lunga e dolorosa. Spero di non tediarvi, ma è indispensabile perché possiate capire la situazione in cui versa il mio mondo...»
Dopo che Sennar ebbe finito di parlare, il conte si lasciò andare a una risata di scherno. «Mi state dicendo che dovremmo dare aiuto militare a chi ha cercato di conquistarci?»
«Ascoltate, vi prego. Per un anno ho lottato al fianco dell’esercito nella Terra del Vento. Ho visto morire migliaia di giovani che combattevano per un futuro migliore. Negli accampamenti la situazione peggiora di giorno in giorno. Non sono solo il sangue, le perdite, le sconfitte. È la sensazione di impotenza, lo scoraggiamento. Siamo allo stremo, conte. E ho capito che non ce la faremo mai a vincere. Per questo sono qui. Il Tiranno è più forte, ha più uomini e il suo esercito è pronto a tutto. Noi abbiamo solo la volontà di non soccombere e di tornare a vivere in pace.»
«In pace!» ripeté il conte in tono sarcastico. «Voi non siete capaci di vivere in pace. Avete sempre anteposto i vostri interessi personali al bene collettivo. Questa è la vostra ennesima, assurda guerra. Ed è affar vostro.»
«La gente che ho visto morire non pensava al proprio interesse: lottava per tutto il Mondo Emerso, per i vivi e per i morti, per chi era indifeso e per chi era armato. Questa non è una guerra come le altre. È l’attacco di un uomo solo contro tutte le Terre. I nostri popoli sono fratelli, conte. Le nostre Terre sono le Terre in cui sono nati i vostri avi, e i loro desideri di allora sono i nostri di oggi: pace e libertà.» Sennar era rosso in volto e teso verso il suo interlocutore. «Il Tiranno non si accontenterà del Mondo Emerso, credetemi. Se io sono riuscito ad arrivare fin qui, perché non potrebbe farcela anche il suo esercito?» Sennar fece una pausa e riprese fiato. «Vi chiedo solo di poter parlare con il re» mormorò.
Il conte rimase pensieroso per qualche istante, poi si avvicinò alla porta della cella. «Guardia!»
«Pensateci!» urlò Sennar, mentre le sbarre si richiudevano sul suo viso.
Seduto sulla branda, Sennar ripensava all’incontro con il conte. Aveva avuto l’occasione di salvare il suo mondo e l’aveva persa. A che cosa era servito tutto ciò che aveva fatto? I rischi, la speranza, il dolore...
Le sbarre si aprirono piano e Ondine entrò nella cella. La porta sbatté con violenza alle sue spalle e lei restò in piedi, il vassoio tra le mani.
«Ho chiesto alla guardia di farmi entrare.» Arrossì. «Ho pensato che magari... ecco, che stasera ti facesse piacere cenare in compagnia.»
«Scusami, Ondine. Stasera non ho voglia di mangiare» disse il ragazzo con una smorfia.
«Non ti abbattere, Sennar» esclamò lei con slancio. «Hai convinto me, perché le tue parole non possono aver toccato anche il conte?»
Il mago sorrise. In fin dei conti era felice che Ondine fosse lì, davanti a lui, e non dietro le pesanti sbarre della cella. Le si avvicinò. «Grazie per tutto quello che fai per me» disse, poi le sfiorò i capelli.
Ondine reagì con un sussulto, ma non si spostò.
Nonostante avesse lo stomaco serrato, Sennar mangiò. Era grato a Ondine, perché lo aveva aiutato, perché gli aveva dato fiducia, perché era lì a fargli compagnia nello squallore di quella cella.
Parlarono a lungo, come sempre, accoccolati sulla branda. Le loro parole salutarono gli ultimi raggi di luce e inaugurarono la notte degli abissi.
Quando si fece buio, Ondine si alzò. «È tardi, devo andare.»
Sennar rimase seduto. Non voleva restare solo, non quella notte.
Ondine si chinò su di lui in modo da poterlo guardare negli occhi. «Hai fatto del tuo meglio. Gli dèi ascolteranno le tue preghiere e le esaudiranno» disse. Gli diede un bacio sulla guancia.
Sennar le afferrò una mano e la trattenne.
«Ti prego, Sennar...» sussurrò la ragazza, ma il mago la attirò a sé, la strinse come se non avesse altro al mondo.
Ondine ricadde sulla branda e si lasciò andare a quell’abbraccio. Sennar ne sentì il profumo, il corpo tiepido. La baciò con forza e lei rispose, lo seguì come se non attendesse altro che quel momento. Sennar non pensò più a nulla. La bocca si fece avida, le mani corsero al corpetto.
Che cosa sto facendo? Si staccò di scatto, rosso in volto, e Ondine saltò giù dalla branda e si guardò intorno per accertarsi che nessuno li avesse visti, mentre si aggiustava il vestito stropicciato.
«Perdonami» mormorò Sennar.
La ragazza prese in fretta il vassoio e chiamò la guardia. Poi le sbarre si aprirono e lei scomparve nell’oscurità.
Quella notte Sennar non dormì molto e quel poco fu tormentato dai sogni: scene di guerra, suo padre, Nihal ferita. Poi Ondine che gli sorrideva, la sua bocca, la morbidezza del suo corpo.
Quando il soldato lo svegliò, gliene fu quasi grato.
«Preparati, partiamo» intimò la guardia.
Il mago si alzò di scatto. Era già arrivata l’ora dell’esecuzione? «Dove andiamo?» chiese con voce tesa.
«Dal conte. Vuole vederti.»
Forse da qualche parte c’erano davvero degli dèi che vegliavano sulle loro creature. Sennar fu pronto in pochi minuti. La guardia gli assicurò pesanti ceppi ai polsi e lo trascinò fuori dalla prigione.
La via era affollata. Tutto il villaggio si era radunato per vedere lo straniero venuto da lontano.
Dopo tanti giorni in cella, Sennar non era più abituato alla luce. Gli bruciavano gli occhi, i polsi incatenati gli dolevano, eppure si sentì rinascere.
Avevano appena lasciato il villaggio, quando udirono una voce femminile che li chiamava.
Sennar ebbe un sussulto. «Ondine...»
La ragazza correva verso di loro a perdifiato.
La guardia, lancia in resta, la obbligò a fermarsi. «Cosa vuoi?»
«Dove lo stai portando?»
«Non sono affari tuoi, sgualdrinella.»
A quelle parole, Sennar sentì montare la rabbia. Si trattenne a stento; non era il momento di ficcarsi nei guai. «Vado dal conte, non preoccuparti...»
La guardia gli diede un violento strattone e lo costrinse a riprendere il cammino.
Ondine gli si affiancò. «Come, dal conte?» chiese preoccupata. Il suo petto minuto si alzava e si abbassava per la fatica della corsa.
«Non preoccuparti» ripeté Sennar.
Il soldato si fermò bruscamente e le puntò la lancia al ventre. «Ora basta! Torna indietro o ti arresto!»
Sennar la guardò con dolcezza. «Ti prego, fa’ come dice, vai a casa.»
«Ma io voglio sapere...»
«Saprai tutto, te lo prometto» fece in tempo a dire Sennar, prima che la guardia lo trascinasse via.
La residenza del conte si trovava in un’altra ampolla e per raggiungerla dovettero attraversare uno di quei lunghi corridoi che il mago aveva intravisto. Il mare era ovunque: sopra la loro testa, sotto i loro piedi, di fianco a loro. Sennar non riusciva a smettere di guardarsi intorno. Camminava sul vetro spesso del condotto, circondato dal blu profondo delle acque, e gli sembrava di nuotare e volare allo stesso tempo. Per farlo procedere, di tanto in tanto la guardia doveva strattonarlo.
Arrivarono a destinazione dopo mezza giornata di cammino. La villa era un edificio dall’aspetto sobrio, rialzato rispetto al livello della strada. Vi si accedeva tramite una lunga scalinata e a Sennar ricordò l’Accademia dell’Ordine dei Cavalieri di Drago, a Makrat.
La guardia accompagnò il mago in una sala spoglia. Il conte fece il suo ingresso poco dopo e andò a sedersi su un massiccio scanno di pietra.
«Togligli le catene e vai» disse alla guardia.
Quando Sennar fu di nuovo libero, il conte gli fece segno di avanzare.
Sennar obbedì, mentre si massaggiava i polsi cerchiati di viola. L’attimo di silenzio che seguì gli parve durare un’eternità. La sua vita e quella di tutti gli abitanti del Mondo Emerso erano nelle mani di quell’uomo.
Il conte gli si rivolse con schiettezza. «Grazie a voi ho passato una notte infernale, consigliere. Le vostre parole mi hanno colpito. E ancora di più mi ha colpito che siate venuto solo e disarmato.»
«La mia è stata fin dall’inizio una missione di pace, conte.»
«Non posso dubitarne, è evidente. Tuttavia, chi mi assicura che i vostri compatrioti non siano animati da altri intenti?»
«La mia parola. E questa.» Sennar estrasse dalla tunica la pergamena e la porse all’uomo. «Qui trovate la proposta di alleanza del Consiglio. Come vedete, il documento attesta esplicitamente l’assenza di qualsiasi intento di conquista. In ogni caso, credetemi: le nostre forze militari sono già abbastanza provate dalla guerra perché possano essere impiegate in un attacco al Mondo Sommerso.»
Il conte si alzò e iniziò a passeggiare avanti e indietro per la sala. Sennar lo seguì con gli occhi, in attesa di una decisione definitiva.
L’uomo finalmente si fermò davanti a lui. «E sia. Vi accompagnerò personalmente dal re. Sarà Sua Maestà a decidere se darvi ascolto o no.»
Sennar avrebbe voluto urlare di gioia. Riuscì a malapena a darsi un contegno. «Voi non sapete quanto la vostra decisione mi rallegri.»
Il conte lo guardò con simpatia, poi tornò serio. «Non crediate che sarà facile convincerlo. Il primo pensiero del re saranno i suoi sudditi.»
«Cosa intendete dire?» chiese Sennar.
«Nelle nostre favole i cattivi sono uomini del Mondo Emerso, capite? La gente di Zalenia cresce nell’odio per quelli di Sopra. È contro questo che dovrete lottare.»
«Io voglio confidare che il vostro sovrano deciderà secondo giustizia.»
«La politica non si fa con la giustizia, consigliere» ribatté il conte. «Spesso chi governa è costretto a piegarsi al volere di chi è meno lungimirante. Credetemi. Lo so bene.»
«Dite? Io invece credo che, disgiunta dalla giustizia, la politica cessi di avere significato.»
Il conte scosse la testa. «Spero che la vita non debba mai deludervi o spegnere il vostro entusiasmo» disse mentre si congedava. «Il viaggio sarà lungo. Partiamo domattina stessa.»
Sennar percorse il lungo corridoio che conduceva all’uscita della villa con un sorriso stampato in faccia. Gli sembrava di camminare a un palmo da terra. Non era certo arrivato in fondo alla sua missione, ma la decisione del conte era un significativo passo avanti.
Aveva appena varcato il portone, quando la vide. Era seduta su un gradino, in attesa, con un cestino in grembo. Sennar scese la scalinata a precipizio. «Ondine!»
La ragazza si voltò, lasciò cadere il paniere e gli corse incontro. Gli gettò le braccia al collo e Sennar provò le stesse emozioni della sera prima.
«Ero così preoccupata» sussurrò Ondine. Poi si staccò da lui. «Che cosa ha detto il conte?»
Sennar tacque un istante, divertito dal modo in cui Ondine studiava la sua espressione. Infine la sollevò da terra e la strinse a sé. «È fatta! Mi accompagna dal re.»
Volteggiarono abbracciati, poi si lasciarono cadere sul prato che fronteggiava la villa. Sopra di loro, banchi di pesci volavano nell’acqua. Vivere sempre così: ecco cosa vorrei , pensò Sennar.
Ondine lo guardò negli occhi. «Vengo con te.»
Sennar rimase interdetto. «Con me? E i tuoi genitori?»
«Ho detto che forse sarei stata via per un po’» rispose lei con un’alzata di spalle.
«Ascolta, Ondine. Non credo che sia il...»
La ragazza lo interruppe posandogli un dito sulle labbra. «Ti ho salvato la vita, consigliere. Ho qualche diritto su di te.»
Dopo aver mangiato ciò che Ondine aveva portato nel cestino, si misero in cerca di un posto dove dormire. La ragazza cedette a Sennar il suo mantello e lo aiutò a coprire il più possibile il viso e i capelli, quindi si avviarono verso una locanda.
L’uomo che li accolse fece loro mille domande e trattò Ondine con scortesia, ma lei non sembrò farci caso.
«Abbiamo solo una stanza libera» disse infine il locandiere.
Ondine non si scompose. «Va bene, la prendiamo.»
A Sennar l’idea di passare la notte con Ondine risvegliò pensieri poco consoni alla situazione. Si rimproverò tra sé. Che razza di consigliere sei? Questa è una missione diplomatica. Non è il momento di lasciarti andare alle passioni.
Quando varcarono la soglia, però, a Sennar prese un colpo: nella stanza troneggiava un unico grande letto. «Non ti preoccupare» balbettò. «Io starò per terra.»
La ragazza lo guardò di sottecchi. «Sì, certo. Come vuoi.»
Si mossero con il buio. A Nihal non parve una scelta saggia. Certo, così erano protetti dall’oscurità, però la notte è un’arma a doppio taglio. Non ti possono vedere, ma neppure tu puoi distinguere con chiarezza il nemico. Tutti gli attacchi che Nihal aveva subito erano avvenuti di notte.
«Non era meglio aspettare l’alba?» chiese alla schiena del vecchio che, davanti a lei, sgusciava rapida tra cespugli e alberi.
«No, è meglio così» sussurrò lui.
I suoi piedi nudi non facevano rumore sull’erba. Si sentiva solo, di tanto in tanto, il tintinnare lento e inquietante delle catene. Sembrava che quel bosco gli appartenesse. Per muoversi con tanta sicurezza doveva conoscerne ogni palmo.
Nihal invece procedeva a fatica. I suoi occhi erano allenati all’oscurità, ma la macchia era fitta e quell’intrico di piante metteva a dura prova la sua agilità.
Non impiegarono molto a raggiungere il luogo che cercavano. Sbucarono dal folto e davanti a loro, in lontananza, apparve un alto costone di roccia punteggiato qua e là dai ricami dell’edera. La base della parete sprofondava fra cespugli e alberelli. Sembrava completamente liscia.
Sulle prime Nihal non vide nulla. «Allora?»
«Là.» Il dito rinsecchito del vecchio indicò un punto.
Alla luce della luna si intravedeva una minuscola apertura dietro uno dei tanti arbusti. Il covo dei briganti. Neppure un occhio attento sarebbe riuscito a distinguerne l’ingresso.
«Non sembra, ma la caverna è molto grande, due ambienti spaziosi collegati tra loro» bisbigliò il vecchio. «Nascosta tra le frasche c’è una sentinella. Di notte fanno turni di due ore, di giorno invece l’entrata è quasi sempre sguarnita.»
Nihal fu stupita dalla quantità di informazioni di cui disponeva il vecchio.
Doveva conoscere bene i briganti. Quell’uomo era davvero un mistero.
«Quanti sono?» chiese la ragazza.
«Erano in dieci, ma due sono morti; un altro è ferito e non esce mai.»
Restarono in silenzio per qualche minuto, poi il vecchio contemplò il cielo e si alzò. Sembrava aver fretta di andarsene. «Questo è tutto» disse. «Non c’è altro che possa fare per te.»
Anche Nihal si alzò. «Grazie. Per avermi salvata e per i tuoi consigli. Spero di potermi sdebitare, un giorno.»
Il vecchio scrollò le spalle. «Chissà. Forse quando le nostre strade si incroceranno di nuovo. Fino allora, buona fortuna.» Un attimo dopo era scomparso tra i cespugli.
Nihal osservò l’apertura del covo, la mano stretta sull’elsa della spada. I giorni di attesa nella caverna l’avevano sfibrata. Era preoccupata per Laio e si ripeteva che doveva agire il più presto possibile, ma la superiorità numerica dei briganti la frenava.
La lama nera stridette mentre usciva piano dal fodero. Il rumore incrinò la quiete della notte e Nihal si bloccò. Nessun movimento, né nelle sue vicinanze né dinanzi alla caverna. Ma lì c’era qualcuno in attesa, la ragazza lo sentiva: un uomo all’erta e pronto a combattere. Restò immobile per qualche istante, la spada ancora a metà nel fodero. Pazienta, Nihal, pazienta. Questo è uno di quei momenti in cui bisogna essere lucidi e ragionare. Non farti prendere come al solito dalla smania. Trasse un respiro profondo e rinfoderò l’arma il più delicatamente possibile. No, non poteva attaccare il covo dei ladri così. La sentinella non era un problema, ma non appena avesse messo piede lì dentro, si sarebbe trovata di fronte sette uomini, ben armati e abituati alla battaglia. Aveva bisogno di un piano.
Nihal si strofinò il viso con le mani. Detestava l’attesa e più ancora la tattica.
La luna era scomparsa e a oriente il cielo iniziava a tingersi di un vago chiarore. L’alba non era lontana. Nihal arretrò verso il folto, alla ricerca di un nascondiglio sicuro dove poter riflettere con calma sulla situazione.
Vagò senza una meta precisa finché non vide un ruscello che si incuneava in un canalone. Scese fino in fondo e si chinò a bere. All’inizio si bagnò solo le labbra, poi tuffò nell’acqua tutta la testa.
Sentiva il bisogno di schiarirsi le idee. Stette per qualche tempo seduta sulla riva, a guardare il cielo che prima impallidiva, poi virava verso un azzurro intenso. L’estate si approssimava, solo con la bella stagione il cielo acquisiva quella tinta così cupa.
Nihal cercò di concentrarsi, di placare l’agitazione, di trovare la calma necessaria a escogitare una strategia. Era la prima volta che provava quell’esercizio lontana dai campi di battaglia. Di solito lo faceva prima di iniziare a combattere: si sedeva in un angolo e restava in silenzio, sforzandosi di ascoltare solo i battiti del suo cuore. Teneva a bada la bestia che viveva dentro di lei, metteva a tacere le voci che le vibravano nella testa. Rincorreva la calma, la lucidità di cui un bravo cavaliere ha sempre bisogno.
Quella volta però era diverso. Non era in guerra, non sarebbe scesa su un campo di battaglia. Non c’erano file di fammin urlanti ad attenderla, né guerrieri da sconfiggere. Non c’era neppure l’ombra minacciosa del Tiranno. Quella nuova battaglia non aveva nulla a che fare con la vendetta. Era la prima volta che Nihal si preparava a battersi per qualcuno.
Quando ebbe messo a punto il piano, Nihal si diede da fare. Innanzitutto occorreva perlustrare la zona e cercare di capire la conformazione del territorio e della tana dei briganti. Il vecchio le aveva parlato di una grotta con due ambienti, ma non bastava. Doveva scoprire qualche dettaglio in più.
Per prima cosa si dedicò allo studio dell’ingresso. Le sembrò di essere tornata bambina. Strisciò silenziosa tra le felci e si avvicinò abbastanza da poter vedere con chiarezza il passaggio, ma non troppo per evitare che potessero sentirla. Mentre giaceva a terra, con le mani sul tappeto di foglie secche, si ricordò dei giochi nella steppa ai piedi di Salazar. Anche allora strisciava a terra con il cuore in subbuglio, eccitata e spaventata, cauta come un gatto. Quei giochi erano presto diventati una cruda realtà.
Come aveva detto il vecchio, c’era un uomo di guardia. Si trovava all’imboccatura della caverna, nascosto nella penombra. Nihal rimase a osservarlo a lungo. Sapeva fare bene il suo mestiere. Ad averne di sentinelle così, nell’esercito. Sembrava rilassato – evidentemente la banda non si aspettava attacchi –ma manteneva i sensi vigili e si metteva sul chi va là a ogni minimo rumore.
Nihal attese il cambio di guardia. La nuova sentinella era di tutt’altra pasta. Se ne stava appoggiata con aria indolente a una spada infissa a terra. Di tanto in tanto sonnecchiava.
La ragazza si stampò bene in mente i connotati di quel tizio. Un uomo basso e tarchiato, con lunghi ricci neri e untuosi che gli scendevano sulle spalle. Meglio attaccare quando c’era lui di guardia. Sarebbe stato tutto più semplice.
Nel pomeriggio si diede all’esplorazione dell’ambiente esterno. Esaminò con attenzione l’erta rocciosa nella cui parete era scavata la caverna. Era una lunga faglia e Nihal dovette camminare un bel po’ prima di trovare un punto da cui riuscire ad arrampicarsi. Poi salì fino alla parte superiore dello strapiombo. La roccia era friabile, stratificata, e quando giunse in cima si accorse che la parete doveva essere un colabrodo. Il terreno sovrastante era punteggiato di avvallamenti più o meno profondi.
Li analizzò a uno a uno. Un canale che conduceva alla grotta dei ladri le avrebbe fatto comodo. Quasi tutte le buche, però, finivano in vicoli ciechi e sulle prime l’esplorazione non le portò altro che un gran numero di lividi e graffi. Un lavoro da gnomi. Ci vorrebbe Ido , si disse con stizza, mentre si ripuliva dalla terra.
Ci mise un po’ a trovare quello che cercava: un grosso buco dal quale si accedeva a una sorta di galleria. Nihal si inginocchio e cercò di vederne il fondo. Il cunicolo scorreva quasi parallelo al terreno, ma a un’occhiata più attenta notò che scendeva verso il basso. Non sarà un po’ di terra in più a rovinarmi i vestiti. Nihal diede un’ultima occhiata al cielo, fece un respiro profondo e si infilò di testa nel condotto.
Il passaggio era stretto e, nonostante la ragazza fosse di corporatura minuta, in molti punti ebbe difficoltà a procedere. Mancava l’aria e quella poca che c’era puzzava di muffa e di marcio. Nihal continuò ad avanzare alla cieca, le mani che scivolavano sul muschio, tra le pareti infestate da insetti e lombrichi. Si aspettava da un momento all’altro uno sbarramento di roccia che la costringesse a tornare in superficie, ma non lo trovò. La discesa proseguì, lunga e disagevole. Nihal seguitò a strisciare sul ventre, aiutandosi con le ginocchia e i gomiti, finché non vide in lontananza un vago chiarore. Procedette con più cautela. Se davvero il cunicolo conduceva al covo, doveva assolutamente evitare di farsi scoprire.
In fondo al pozzo trovò una stretta fessura da cui filtrava una lama di luce, che tagliava l’oscurità. Si avvicinò. La parete era sottile. Probabilmente sarebbe bastata una spallata a farla crollare.
Nihal sbirciò attraverso il buco e il suo cuore ebbe un tuffo. Poche braccia sotto di lei c’era Laio, legato, seduto sopra un pagliericcio di fortuna. Era lacero e sporco, ma sui suoi abiti non si vedevano macchie di sangue. Nonostante il pallore e il viso tirato, sembrava stesse bene. Nihal ebbe l’impulso di buttare giù quella maledetta parete e correre a salvarlo, infischiandosene della strategia e dei piani. Strinse gli occhi. Non mandare tutto all’aria come al solito! Quando fu più calma, guardò di nuovo.
La caverna era un ambiente piuttosto vasto, delimitato da alte pareti di roccia. Era una cavità pressappoco circolare, con un diametro di almeno una ventina di braccia. Quattro torce incuneate in altrettante nicchie mandavano riverberi rossastri. C’erano giacigli improvvisati lungo le pareti e in un angolo la roccia era stata scavata per far posto a un rudimentale focolare. Vide anche il ladro ferito; era steso su una branda e aveva una gamba fasciata. Oltre a lui c’erano cinque uomini, gli altri dovevano essere nell’ambiente accanto. A meno che non ci fosse una seconda entrata che le era sfuggita. Nihal imprecò tra sé. Una volta risalita, le sarebbe toccato continuare a strisciare come un verme in tutti i pertugi che non aveva ancora perlustrato.
Studiò i ladri. Nulla di particolare: un gruppo di persone nerborute e con le facce truci. Non sono soldati addestrati. Ce la posso fare.
Il ritorno in superficie richiese tempo e pazienza. Non c’era spazio a sufficienza per girarsi e Nihal fu costretta a rifare il percorso strisciando all’indietro. Si sbucciò le ginocchia e i gomiti e quando infine rivide la luce, le sembrò di nascere di nuovo. L’aria le parve quasi profumata.
Fino al calare del sole non fece altro che scendere e salire per cunicoli più o meno stretti, finché non fu certa che non vi fossero altri ingressi alla caverna.
Quando finalmente tornò ai piedi dell’erta, la notte era calata da un pezzo. Era esausta. Divorò con avidità le provviste che il vecchio le aveva lasciato e si stese a riposare tra le fronde di un’ampia quercia. Si sforzò di pensare alla strategia migliore per salvare Laio, ma la stanchezza ebbe il sopravvento, i pensieri si ingarbugliarono per sentieri sempre più astrusi e il sonno la avvolse.
Si svegliò e il primo sole del mattino le ferì gli occhi.
Scese rapida dall’albero e, come il giorno precedente, tuffò la testa nell’acqua. Era gelida ma piacevole. Niente di meglio per svegliarsi.
Passò l’intera giornata a preparare trappole. Non era una cosa che le avessero insegnato all’Accademia; là si parlava solo di guerra e tattiche così vili, da ladri, non venivano nemmeno contemplate. Aveva imparato quell’arte da piccola. Era stato Barod, un ragazzo della sua banda, a insegnargliela; avevano catturato parecchi uccelli con le loro trappole. In seguito Ido le aveva spiegato come applicare quelle tecniche alla guerriglia. Da vero guerriero, lo gnomo non trascurava alcun mezzo per giungere alla vittoria. “L’onore sta altrove, non nelle tattiche che si adottano” diceva.
Fu un lavoro lento e faticoso, soprattutto perché le mancavano gli strumenti adatti. Aveva solo una corda e il suo coltello e dovette arrangiarsi. Con la corda ottenne una serie di cappi, che nascose sotto strati di foglie secche. Poi si cimentò con qualcosa di più complicato. Scavò un fossato lungo circa quindici braccia, appena dopo la prima fila di alberi del bosco, proprio davanti all’entrata del covo dei briganti. Fu una faticaccia, poteva scavare solo con la spada e con le mani, ma per fortuna le bastò arrivare a una profondità di un paio di spanne. In mezzo pomeriggio completò l’opera. Quindi passò ad appuntire un gran numero di rami secchi per trasformarli in paletti aguzzi, che poi infisse nel fossato in modo che fossero abbastanza fitti. Coprì il dislivello del terreno con mucchi di frasche e infine legò l’ultimo pezzo di corda ad altezza di caviglia lungo il fossato. Chi fosse passato di lì, e presto qualcuno ci sarebbe passato, avrebbe avuto una brutta sorpresa.
Quando ebbe finito, il sole era quasi tramontato. Nihal sbuffò spazientita. C’era voluto più del previsto.
Si impose di riposare. Tornò sull’albero e si coprì il volto con il mantello. Avrebbe dormito fino al calare delle tenebre. Poi sarebbe passata all’azione.
I grilli avevano da poco iniziato a cantare. Era una serata limpida e fresca. Dopo l’afa del giorno, il freddo le pizzicò la pelle. Sotto il mantello aveva avuto caldo e il sudore che le si ghiacciava addosso la svegliò del tutto.
Scivolò lenta fino all’imboccatura del covo, prese una pietra ed estrasse il coltello che teneva nello stivale. Osservò da lontano la sentinella. Era la guardia sonnacchiosa del giorno prima. Era tranquilla, gli occhi socchiusi per la stanchezza, non l’aveva neppure sentita avvicinarsi. Non è sempre così? La tragedia arriva inaspettata, nel momento di massima calma. E quando si muore non è mai come lo si era immaginato. Come è stato quel giorno a Salazar.
Le sue dita si serrarono sull’elsa del pugnale, ma non provò rabbia. Quella che stava per fare era un’esperienza nuova, qualcosa di molto diverso dal combattimento. Avrebbe dovuto uccidere un uomo a sangue freddo, un uomo che non la minacciava in alcun modo, un uomo che non si aspettava di vedere sbucare la morte da un cespuglio. Nihal non aveva mai avuto remore a uccidere; la prima volta era accaduto tutto troppo in fretta anche solo per rendersene conto e in seguito ogni sentimento era stato cancellato dalla guerra. Uccidere era diventato normale, una consuetudine. Ma lì, stesa a terra, senza il rombo assordante del campo di battaglia, sgozzare un uomo tornava a essere un omicidio.
Nihal tirò con rabbia il sasso fra le felci. È per Laio, è per lui che lo faccio. La vegetazione era folta e il colpo fu rumoroso. La sentinella si riscosse e aguzzò la vista, poi scrutò nell’oscurità.
Nihal si alzò e avanzò verso di lui, lenta e vigile.
La guardia fece qualche timido passo avanti, trascinandosi dietro la spada. Nihal gli fu subito addosso. Con una mano gli coprì la bocca, con l’altra gli passò il coltello sulla gola. L’uomo non emise neppure un lamento. Si afflosciò lentamente tra le braccia della ragazza. Lei lo lasciò cadere a terra e distolse lo sguardo dal suo volto.
Scosse la testa. Non è tempo per i sentimentalismi.
Tornò nella boscaglia a prendere i legni che aveva tagliato durante il giorno e li ammucchiò a lato dell’ingresso. Appiccò il fuoco con l’acciarino, quindi iniziò a correre a perdifiato. La legna era abbastanza verde da non prendere fuoco troppo in fretta, ma occorreva comunque essere rapidi.
Si arrampicò su per l’erta, individuò la buca e vi si calò. I gomiti e le ginocchia le dolevano ancora per la discesa del giorno prima, ma non ci fece caso. Tese allo spasimo le orecchie a punta, per cercare di percepire i rumori provenienti dalla grotta. Per un bel pezzo tutto ciò che sentì fu il rumore del suo corpo che scivolava a fatica giù per il terreno.
Poi, verso la fine del condotto, udì un vociare confuso, sommesso e per nulla preoccupato.
Stai calma. Il fumo ci metterà un po’. L’avevi previsto.
Come il giorno prima, la lama di luce la ferì nel buio compatto del cunicolo. Nihal si sporse a guardare attraverso la crepa. All’interno della caverna l’aria era ancora limpida, tuttavia un penetrante odore di fumo filtrava fin lì. Gli uomini erano in piedi, a fiutare l’aria. Uno, due, tre, quattro, cinque. Mancavano due uomini, probabilmente erano nell’altra sala. Un paio andarono in avanscoperta, ma c’era poco da scoprire; l’aria iniziava a farsi densa e velata. Nihal li vide agitarsi a poco a poco, innervosirsi, muoversi inquieti per la grotta. Poi una voce gridò: «Al fuoco!» e tutti furono presi dal panico e si diedero a una fuga precipitosa, abbandonando Laio e il ferito al loro destino.
Nihal non indugiò oltre. Diede una violenta spallata contro il diaframma di roccia che, come previsto, franò al primo colpo. Cadde dentro la caverna e con una capriola fu in piedi, la spada in mano. Questa volta non ebbe tempo per gli scrupoli, fu il suo corpo a ragionare per lei. Abbatté il ferito con un unico fendente.
Non era però l’unico brigante rimasto dentro. Poco lontano, due uomini si accingevano a uscire dall’ambiente accanto. Non appena il primo la vide, fece per dare l’allarme, ma Nihal si gettò su di lui. Era disarmato e lo uccise senza difficoltà. Il secondo sfoderò un coltello da caccia e cercò di prenderla alle spalle. Nihal fece appena in tempo a scartare di lato, mentre la lama affilata le recideva una ciocca di capelli. Il brigante le andò incontro urlando, ma la ragazza parò il colpo con prontezza e si lanciò in un assalto furioso. La gola iniziava a bruciarle per il fumo, doveva farla finita il prima possibile. Continuò ad attaccare finché non mise il nemico spalle al muro, quindi lo trapassò da parte a parte. L’uomo vomitò un fiotto di sangue e si accasciò a terra, senza vita. Nella caverna scese il silenzio.
Laio la guardava con gli occhi spalancati. «Nihal! Come hai fatto a...»
La ragazza corse verso di lui. «Dopo, ora non c’è tempo.» Tranciò di netto la corda che lo legava e lo aiutò ad alzarsi.
Il ragazzo si reggeva in piedi con difficoltà. «Non mi muovo da giorni. Mi hanno sempre tenuto legato» provò a scusarsi, ma le sue parole si persero in un attacco di tosse.
La volta della grotta ormai era piena di fumo bianco.
«Sta’ giù» ordinò Nihal, poi si accovacciò anche lei.
Ora non c’era che da uscire. E da sperare nell’efficacia delle trappole.
I due strisciarono verso l’uscita il più rapidamente possibile. Non trovarono nessuno a sbarrare loro il passo. Un palmo dopo l’altro guadagnavano la salvezza. Lei davanti, la testa svuotata e il corpo teso e all’erta, Laio ad arrancare alle sue spalle, indolenzito. Quando arrivarono in vista dell’ingresso del covo, furono investiti da un calore inaspettato. Nihal si bloccò, attonita. Non aveva previsto che il fuoco attecchisse così in fretta. All’esterno risplendeva l’accecante bagliore delle fiamme.
«E ora?» chiese Laio con voce insicura.
Già, e ora? «Indietro! Torniamo indietro» urlò Nihal.
Tornarono rapidi sui loro passi. Il fuoco schioccava minaccioso mentre il fumo scendeva sempre più verso il terreno.
Furono di nuovo nell’ambiente principale. La cortina lì era più alta e si inginocchiarono. Nihal guardò il foro nella parete; era a più di due braccia dalle loro teste, un budello stretto e pieno di fumo. Si guardò attorno. Qualcosa per salire fin lassù, qualcosa per poter respirare!
Vide un orcio d’acqua, in un angolo. Nihal corse fin lì, strappò con la spada due ampi lembi dal proprio mantello e li immerse nell’acqua. Laio tossiva in modo convulso.
«Mettiti questo sulla bocca» disse all’amico mentre gli porgeva un pezzo di stoffa bagnata.
Doveva trovare qualcosa per arrampicarsi. Cercò ovunque, ma nella stanza non c’erano che due pagliericci e la nuda roccia priva d’appigli. I suoi occhi scrutavano ogni angolo, la sua mente si affannava a caccia di un’idea. In trappola, siamo in trappola! Ed è solo colpa mia se siamo finiti in questa situazione!
Nihal girava per la stanza come una fiera in gabbia, mentre il fuoco avvampava a poca distanza da loro. Si infilò nel secondo locale della grotta. Una dispensa, certo! Come aveva fatto a non pensarci? Tesori, bauli, ma anche botti e ogni bendidio in cibo. Tutto il necessario per rendere quel luogo un rifugio sicuro.
«Laio, vieni!»
Il ragazzo accorse con tutta la velocità che le gambe intorpidite gli permettevano.
«Devi aiutarmi a spostare una di queste.» Nihal indicò una grossa botte.
Si misero di buona lena a cercare di muoverla, ma a entrambi mancava il fiato.
Nihal fece appello a tutte le sue energie. «Ancora un po’ e ce la facciamo, avanti!» urlò, mentre il fumo le spegneva la voce in gola.
Fu la forza della disperazione ad aiutarli a portare la botte sotto il pertugio. Tossivano entrambi, senza riuscire a fermarsi. Nihal prese l’orcio con l’acqua, lo svuotò per metà addosso all’amico e il resto su se stessa. Laio aveva gli occhi rossi e respirava a fatica.
«Premiti quel fazzoletto sulla bocca e non ti muovere. Hai capito?»
Laio annuì.
Nihal tornò nella dispensa e svuotò un grosso forziere. Gettò a terra candelabri, pile di piatti d’oro, bracciate di monili, finché non vi rimase nulla. Quindi lo trascinò nell’altra sala. Fece cenno a Laio di aiutarla a issarlo sopra la botte.
Ora non restava che la parte più complicata.
Nihal si voltò verso Laio. «Dobbiamo uscire da dove sono entrata. È stretto e non ci sarà molta aria, ma non spaventarti, d’accordo? Possiamo farcela. Tu vai avanti, io ti seguo. Tira dritto e non voltarti indietro, chiaro?»
Laio annuì, il petto che si alzava e si abbassava alla ricerca d’aria; si arrampicò su quel rialzo improvvisato.
Era un’impresa disperata. Il cunicolo era lungo e sarebbe stato soffocante. Le possibilità di arrivare all’estremità opposta sani e salvi erano poche.
«Prendi un bel respiro e vai verso l’alto più rapido che puoi!» urlò Nihal, quando vide che Laio era arrivato all’imboccatura.
Il ragazzo obbedì e in un lampo fu inghiottito dalle tenebre.
Nihal si inerpicò su per la botte e si infilò a sua volta nel condotto.
Appena entrata le mancò il fiato. All’odore di muffa si era aggiunta la puzza acre del fumo. Le pareti erano bollenti e sembravano stringersi sui due fuggiaschi come una membrana molle e viva. I loro corpi impedivano al fumo di uscire e dall’alto filtrava poca aria pulita.
Laio avanzava lento.
«C’è aria fresca, la senti? Non manca tanto» cercava di spronarlo Nihal, ma la verità era che erano circondati da un lezzo di morte e da tenebre impenetrabili.
Schiacciata dal corpo di Laio, Nihal si sentiva soffocare. Il fumo filtrava attraverso ogni interstizio, saliva avvolto in spire, in cerca come loro di una via di fuga.
«Non ce la faccio» ansimò Laio. Si fermò.
«Sì che ce la fai!» urlò Nihal, con una voce così roca che non la riconobbe. Tossì. Un sudore appiccicoso e rovente la ricopriva da capo a piedi. «Avanti!» disse ancora. «Ci sono io qui sotto a sorreggerti, appoggiati a me se sei stanco, ma non ti fermare!»
Laio si fece forza e riprese a strisciare. Nihal sentiva il suo respiro affannoso e lo sospingeva in avanti con una mano. Aveva i polmoni in fiamme, le girava la testa e la voce dell’amico le risuonava nelle orecchie come una nenia: «Non ce la faccio... non ce la faccio...». Nihal sentì esplodere la rabbia. «Smettila con questa lagna!» sbottò. «Hai fatto tutta questa strada per morire come un sorcio? Muoviti!»
Laio accelerò il passo e le sue parole si spensero nel ritmo sempre più affannato del suo respiro. Nihal, dietro di lui, perse lentamente coscienza di sé e continuò a issarsi senza più capire dove fosse.
L’aria arrivò improvvisa. Fresca, tanta. Troppa.
Nihal si sentì cadere. Una mano esile l’afferrò.
Entrambi ci misero un po’ a riprendersi. Rimasero a lungo ad ansimare stesi sulla roccia, tremando nella brezza della notte, che dopo l’inferno del cunicolo era fredda come il gelo dell’inverno.
Fu Laio a riaversi per primo. Si voltò piano verso l’amica e allungò un braccio fino a toccarle la mano.
«Credevo che fossi morta» mormorò.
Nihal socchiuse gli occhi. Sopra di lei il cielo estivo era pieno di stelle. Strinse forte la mano di Laio.
I giorni volarono. Dopo i pericoli corsi per mare, a Sennar quel viaggio sembrò una passeggiata. Il paesaggio era incantevole, il cavallo docile e il vitto quanto di meglio potessero avere. E c’era Ondine al suo fianco.
Le donne con cui aveva avuto a che fare fino allora erano state molto diverse da lei. La prima era stata Soana, la sua maestra di magia, bella e altera. In seguito aveva conosciuto altre giovani maghe, ma le aveva trovate tutte fredde e presuntuose; con quella zazzera spettinata e l’aria svagata, Sennar non poteva certo aspirare alla loro amicizia. E poi c’era stata Nihal. Ma Nihal era un’altra cosa. E Sennar non ci voleva pensare.
Da quando aveva dato a Ondine quell’unico bacio, Sennar era confuso. Non era riuscito a impedirle di accompagnarlo nel viaggio, ma dentro di sé sapeva di non averci davvero provato. La sua compagnia era così piacevole, i suoi sorrisi così spensierati, che il mago aveva rinunciato a porsi troppe domande. Dopo diciannove anni di seriosità, gli sembrava di avere diritto a un po’ di leggerezza. Voleva prendersi il tempo di capire che cosa provava per lei. Chissà, forse alla fine di quell’avventura si sarebbe reso conto di esserne innamorato.
Le cose andavano per il meglio, la sua missione era su una buona strada, il Mondo Sommerso era pieno di meraviglie. Perché preoccuparsi?
Erano una lunga carovana. Apriva la colonna la portantina del conte, preceduta da due guardie a cavallo e seguita dal corteo degli inservienti e dei portatori, che conducevano sui muli vettovagliamenti e quant’altro potesse servire. Sennar e Ondine chiudevano la fila, controllati a vista da due guardie dietro di loro.
Camminavano per tutto il giorno e si fermavano solo dopo il tramonto. Nella zona di sua giurisdizione, il conte aveva varie residenze; vi trascorreva i periodi di vacanza e le utilizzava come basi una volta all’anno, quando era tenuto a visitare tutti i villaggi sotto il suo controllo.
Usciti dalla contea, invece, alloggiarono in locande lungo la strada o presso le residenze di altri conti. Ovunque si fermassero, ricevevano un trattamento principesco. Il conte godeva di buona fama e veniva ossequiato anche da chi non era suo suddito. Non mancavano tuttavia gli sguardi maligni. In molti si domandavano che cosa ci facessero una nuova e uno di Sopra con il conte Varen, di cui si diceva tanto bene.
La sede del palazzo del re era nella capitale del regno, Zirea, una città enorme e tentacolare, che occupava un’intera ampolla. La capitale era diversa da qualsiasi altra città del Mondo Sommerso. Tutto era di vetro: case, palazzi, botteghe, piazze, monumenti. Vetro opaco, per nascondere da sguardi indiscreti ciò che avveniva nelle abitazioni. Vetro colorato, che formava giochi di luce sulle strade. Vetro scabro, per deformare in modo magico i contorni delle cose.
A Zirea, Sennar vide per la prima volta le sirenidi. Erano simili agli altri abitanti di Zalenia, ma avevano due vistose branchie alla base del collo e talvolta li si scorgeva sfrecciare fuori, in mare aperto.
La capitale pullulava di vita, ma non aveva nulla a che fare con il caos che regnava in una grande città del Mondo Emerso come Makrat. Le attività quotidiane venivano svolte con una calma esemplare, niente urla, strepiti o confusione. I cittadini, tutti in abiti bianchi o grigi, si aggiravano per le vie della metropoli con aria compassata.
Anche dove la luce è più fulgida, però, non mancano le ombre. La città era circondata da miseri sobborghi, che sembravano cingerla d’assedio. Erano i quartieri destinati ai poveri, per lo più nuovi o gente malata: per legge, non potevano varcare le porte della candida Zirea. Mentre li attraversava, Sennar si chiese per l’ennesima volta se un mondo in cui regnasse la fratellanza fosse possibile.
Il castello del re era un’enorme costruzione al centro della città. Si sviluppava attraverso una teoria infinita di pinnacoli e guglie, bianchi, trasparenti o opalescenti, che si innalzavano al cielo. Non c’erano finestre vere e proprie: l’aria entrava direttamente dalla colonna portante dell’ampolla e la luce era fornita da piccoli oblò ogivali. Solo a una seconda occhiata si notava la cosa più straordinaria: parte dell’edificio era sott’acqua. Il castello era diviso in due ali, di cui una immersa nelle profondità marine. L’ala sommersa era la residenza dei regnanti di sirene e tritoni ed era stata costruita ai tempi della fondazione di Zalenia, in segno di eterna gratitudine da parte degli abitanti verso coloro che li avevano aiutati nella realizzazione del loro sogno.
I governi erano totalmente disgiunti. Tritoni e sirene si erano semplicemente comportati da buoni ospiti. D’altra parte, i nuovi arrivati non avevano mai dato segni di ostilità verso il popolo sottomarino, né avevano insistito per un’impossibile fusione. Anche se le relazioni tra i due popoli erano strette e di buon vicinato, insomma, la logica che regnava era quella di un’assoluta indipendenza.
«Credo sia meglio che parli prima io con Sua Maestà. Stasera verrò a riferirvi l’esito del colloquio» disse il conte e Sennar pensò che fosse una saggia decisione.
Il mago e la ragazza, seguiti dalla scorta, vagarono tutto il giorno, osservarono i maestosi palazzi governativi e gli altissimi templi delle divinità di quel regno, girovagarono per i mercatini che animavano le vie fuori mano. Ondine non era mai stata in città ed era attratta da tutto. Sennar invece era inspiegabilmente a disagio; non ne capiva il motivo, ma aveva una sensazione di pericolo incombente. La gente intorno a lui camminava senza fretta, per le strade e le piazze risuonava un mormorio discreto, eppure il mago non era tranquillo.
«C’è qualcosa che non va?» gli chiese a un tratto Ondine, distogliendolo dai suoi pensieri.
«No, tutto bene.» Sennar le sorrise. «Vieni, andiamo a vedere quella bancarella.»
Sul banco era esposta una serie di disegni che sembravano rappresentare luoghi immaginari: paesaggi idilliaci, campagne fertili, boschi selvaggi. All’improvviso il mago capì perché quella bancarella l’aveva attirato: in bella mostra c’era un dipinto con una specie di osservatorio e tanti omini intenti a scrivere e a guardare attraverso un enorme cannocchiale. Sennar si avvicinò alla tela e osservò con più attenzione. Ebbe un tuffo al cuore: le figure del quadro erano slanciate, avevano i capelli blu e le orecchie a punta. Mezzelfi.
In quello strano avventore incappucciato il mercante vide profilarsi un affare. «Benvenuto, straniero» disse con voce melliflua. «Ti piace? Sono gli astronomi della Terra dei Giorni. Te lo vendo per poco.»
Sennar non rispose. I suoi pensieri erano lontani mille miglia, persi dietro l’immagine di Nihal. Dov’era? Come stava? Pensava ancora a lui?
«Sennar» mormorò Ondine, sfiorandogli un braccio.
Il mago tornò in sé. «Dove l’hai preso?» chiese al venditore.
Il mercante strizzò l’occhio a Ondine. «Si vede che viene da lontano. L’ho fatto io, straniero! Pelavudd in persona, per servirti.»
«Conosci i mezzelfi?» insistette Sennar.
«E chi non li conosce?»
«Intendo dire, li hai visti?»
«E come? È gente di Sopra. Questo quadro l’ho fatto pensando alle ballate dell’esodo. È un bel dipinto, lo vuoi?» tornò alla carica il mercante, ma Sennar aveva già preso Ondine sottobraccio e si era allontanato.
«Ti piaceva?» chiese la ragazza.
«No, ero solo curioso.»
Nihal. Già, Nihal... Come aveva potuto illudersi?
La sera attesero il conte nella taverna della locanda dove alloggiavano.
«È tardi, Ondine» disse Sennar, quando ebbero finito di cenare. «È meglio che tu vada a dormire.»
«Veramente pensavo di aspettare insieme a te.»
Il mago la guardò con dolcezza. «Non è necessario, davvero. E poi si vede che sei stanca. Vai nella tua stanza, forza.»
Ondine obbedì senza protestare.
Sennar voleva stare solo. Ora tutto gli appariva spietatamente chiaro. Che cosa aveva creduto di fare con Ondine? Non era lei che voleva. Non era lei che popolava i suoi sogni.
Si stava dibattendo tra i sensi di colpa, quando percepì di nuovo la sensazione di minaccia che aveva avuto nel pomeriggio. Si sforzò di non pensare e chiuse gli occhi, poi li riaprì e si concentrò sulle persone che lo circondavano. Iniziò a scartarle a una a una: l’uomo seduto in fondo no, la donna al banco neppure, l’uomo ubriaco al tavolo... D’un tratto la sensazione scomparve. Sennar scattò in piedi, in tempo per vedere il lembo di un mantello nero che scivolava oltre la porta. Si gettò all’inseguimento, ma quando varcò la soglia andò a sbattere contro il conte Varen.
«Avete visto chi è uscito prima di me?» chiese agitato.
«Non ci ho fatto caso» rispose Varen. «Che cosa succede?»
Sennar scosse la testa. «Niente. Venite, rientriamo, ditemi del re.»
Seduto al tavolo più in disparte della taverna, Sennar ascoltava il conte con attenzione.
«Ho parlato con Sua Maestà. È stata una discussione lunga e difficile. Voglio parlarvi in tutta franchezza, consigliere: il re non è ben disposto verso di voi.»
«Non mi aspettavo che lo fosse» disse Sennar. In quel momento gli avrebbe fatto bene un bello Squalo. Ordinò da bere. «Insomma, non vuole vedermi.»
«No, sono riuscito a farvi ottenere un incontro. Sarà domani, nella piazza d’armi del palazzo reale, alla presenza del popolo. Dovrete essere incatenato, perché il re vi teme. E poi...» Il conte esitò. «Se le vostre parole non lo convinceranno, vi mozzerà la testa seduta stante. E lo stesso farà con me.»
Sennar si irrigidì, con il bicchiere a mezz’aria. «Volete dire... che avete messo in gioco la vostra vita per me?»
Varen guardò il mago negli occhi. «Ascoltatemi, Sennar. Quando fui nominato conte ero pieno di sogni. Voi siete come ero io allora. Io non sono riuscito a realizzare i miei. Se riuscirete nel vostro intento, sarà il mio riscatto. Altrimenti... be’, ho vissuto a sufficienza. E nessuno sentirà la mia mancanza.»
Sennar tacque a lungo, confuso. «Io... sono contento che crediate in me. Ma avete una contea da governare, gente la cui vita dipende da voi. Non posso permettere che facciate questo sacrificio.»
«Non lo faccio per voi, consigliere. Lo faccio per me» mormorò il conte. Poi prese il bicchiere di Sennar e lo bevve tutto d’un fiato.
Sennar entrò nella sua stanza e si avvicinò alla finestra. La città di vetro sembrava immobile, avvolta da un blu profondo che al mago parve improvvisamente minaccioso. Che cosa sta succedendo? Chi c’è là fuori?
Si sedette a terra con le gambe incrociate e rifletté. Una delle prime cose che si insegnavano a un mago era percepire la presenza di altri maghi. Non si trattava di un vero e proprio incantesimo, era piuttosto una tecnica di individuazione. A lui avrebbe dovuto essere preclusa, a causa dell’incantesimo del vecchio Deliah, ma quella sensazione di pericolo non poteva essere interpretata in altro modo: avvertiva la presenza di un mago.
Gli tornarono in mente le parole di Deliah a Varen, fuori dalla cella: «Tra qualche giorno riacquisterà i poteri». Sennar aprì la palma. Chiuse gli occhi e recitò a mezza voce una formula. Un istante dopo, sulla sua mano brillava un fuocherello azzurro. Gli sfuggì un sorriso di soddisfazione. Sei tornato quello di prima. Ora datti da fare.
Estrasse dalla tunica un piccolo sacchetto di cuoio. Ne vuotò il contenuto sulla palma della mano: dieci piccoli dischi d’argento tintinnarono nel silenzio della stanza. Ondine sospirò e si rigirò nel letto. Il mago li distribuì a terra e iniziò a sussurrare una litania lenta e solenne. I dischi si mossero uno dopo l’altro, andando a formare un cerchio. Sennar li guardava concentrato. Niente. Possibile che mi sia sbagliato? Continuò a recitare l’incantesimo, finché il cerchio non prese a girare accelerando sempre di più. Ci siamo. Uno dei dischi si sollevò in aria. La superficie si tinse lentamente di nero e al centro emerse una runa scarlatta, fiammeggiante: due incisioni a formare una croce, una lunga barra verticale a intersecarle.
Sennar smise all’improvviso. Il disco tornò d’argento e cadde a terra, gli altri si fermarono di colpo.
Il mago rimase immobile nel buio, trattenendo il fiato. Si prese la testa tra le mani.
Il Tiranno. Era arrivato.
Ondine dormiva profondamente, rannicchiata sotto le coperte come una bambina. Sennar, pallido e con gli occhi cerchiati, si chinò su di lei e le scosse con dolcezza una spalla.
La ragazza si stirò e sbatté le palpebre per abituarsi alla luce della lanterna. Quando lo mise a fuoco, si alzò di scatto, preoccupata. «Che cosa è successo?»
Sennar si sedette sulla sponda del letto. «Ondine, voglio che tu mi ascolti attentamente.»
«Che cosa ha detto il conte?»
«Ascoltami. Tra poco verranno a prendermi per portarmi dal re...»
«Allora hai ottenuto il colloquio!»
Sennar le mise le mani sulle spalle. «Voglio che tu non ti muova dalla tua stanza, oggi. Per nessun motivo. Mi hai capito?»
Ondine lo guardò spaventata. «Che cosa succede, Sennar?»
Il mago scandì le parole: «Fa’ quello che ti ho detto e aspettami. Andrà tutto bene».
Dopo averlo incatenato, le guardie lo sospinsero tra due ali di folla: uomini, donne, bambini, volti curiosi e volti intimoriti. Sennar si guardò intorno e scrutò fra tutta quella gente, ma non riuscì a vedere nulla.
Varcò la soglia del palazzo ed entrò in un lunghissimo corridoio inondato di luce turchina. Lungo le pareti, sovrastate da una volta di altezza vertiginosa, erano disposte due schiere di lancieri.
Sennar era teso. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte e si sentiva la bocca completamente asciutta. Una goccia cadde sull’elegante tappeto e disegnò un piccolo punto scuro. Stai calmo, calmo e concentrato. Da una parte doveva convincere il re, dall’altra tenere la situazione sotto controllo. Non era in gioco solo la sua vita, ma quella di tutto il mondo conosciuto.
Il corridoio si aprì su un’immensa sala scarlatta. Le pareti erano rosse come il sangue e la luce filtrava attraverso piccole ogive trasparenti. In fondo al salone c’era una grande porta smerigliata. Le guardie la spalancarono e Sennar si trovò catapultato nella piazza in cui si tenevano le udienze. Era una sorta di anfiteatro, sconfinato e gremito di gente. Una passerella di vetro attraversava tutta l’arena fino a un palco, che si alzava ad almeno sei braccia da terra. Vi si accedeva tramite una scalinata che poi proseguiva e si inerpicava ancora più in alto, dove spiccava un trono di cristallo blu.
Le guardie si fermarono a metà della passerella. Sennar sentì le gambe cedergli. I suoi pensieri si fecero via via più confusi. Cercava disperatamente di percepire qualcosa dalla folla, ma l’agitazione, la paura e l’immensità del luogo lo confondevano. Gli girava la testa.
Poco più avanti c’era il conte.
«C’è qualcosa che non va, Varen!» urlò.
«Zitto!» gli intimò una guardia, poi lo strattonò.
Il conte non lo aveva sentito. Voltati, voltati, ti prego!
Sennar fece per avvicinarsi, ma i soldati lo bloccarono.
Poi nella piazza risuonarono squilli di tromba e avanzò un corteo di guardie armate di spade, seguite da un uomo massiccio, a torso nudo. Aveva il volto coperto da una maschera di cristallo nero. I muscoli delle braccia sembravano sul punto di scoppiare sotto la pelle candida. Impugnava una scure. Il boia.
Sennar era ormai abituato a rischiare la pelle, ma la consapevolezza che la distanza tra la vita e la morte era solo nel labile confine delle sue parole lo colpì con violenza.
Il mago e il conte vennero condotti ai piedi del palco.
Fu allora che il re fece il suo ingresso. Lo precedette una corte numerosa e sfarzosa. C’erano donne bellissime e sottili come giunchi, vestite di semplici veli azzurrini che ne svelavano le forme a ogni passo, e cortigiani impomatati, abbigliati con pesanti vesti di broccato, d’un blu vivissimo. Nereo veniva per ultimo.
Sennar rimase allibito. Il sovrano del Mondo Sommerso era un ragazzino dall’aria efebica. Recava con sé uno scettro più alto di lui e avanzava maestoso, guardandosi intorno con aria di sfida.
Alla sua apparizione, un mormorio percorse la folla come un brivido, seguito da alte grida di giubilo che scandivano il nome del sovrano: «Nereo! Nereo!». Il conte si prostrò a terra e Sennar lo imitò.
Il sovrano fece un vago gesto con la mano e zittì in un istante l’uditorio. «Conte Varen...»
Varen si fece avanti. «Sì, Vostra Maestà.»
«Nella mia clemenza, voglio chiedervi ancora una volta se siete sicuro di quel che state facendo» disse serio.
Varen non rispose subito e Sennar trattenne il fiato. «Sì, mio sovrano» disse infine il conte a mezza voce.
«E sia.» Nereo fece un cenno al banditore che attendeva al suo fianco e l’uditorio fu messo a conoscenza dei fatti.
«Udite, udite! Oggi il nostro Splendido Sovrano darà udienza a uno di Sopra, il consigliere Sennar. Se egli lo saprà convincere delle ragioni che lo hanno spinto fin quaggiù, esaudirà le sue preghiere. Altrimenti il consigliere verrà decapitato per aver violato la legge che impedisce a quelli come lui di scendere a Zalenia. Insieme a lui verrà giustiziato il conte Varen della contea di Sakana, per aver messo in pericolo Sua Maestà Nereo.»
Il re fece un cenno e le guardie lasciarono Sennar, che si avvicinò al trono.
Nereo, dall’alto del suo scanno, non chinò neppure il capo per posare lo sguardo su di lui. «Puoi parlare, uomo di Sopra» disse in tono di sfida.
Sennar percepiva l’ostilità degli astanti, ma si fece coraggio e prese la parola: «Maestà, sono un consigliere...». «Alza la voce. Non riesco a sentirti» lo interruppe il sovrano.
Sennar capì che doveva provare a quel ragazzino di che pasta era fatto. «Sono Sennar, membro del Consiglio dei Maghi. Nel Mondo Emerso i consiglieri sono autorità politiche e rappresentano ciascuno una Terra. Io arrivo da quella del Vento ma sono qui a nome di tutto il mio popolo, inviato ufficialmente per cercare di interrompere l’isolamento che affligge i nostri mondi. Conosco bene la vostra storia, so che fuggiste dalla superficie e che scendeste fin qui per edificare un nuovo regno dove la guerra non esistesse. E ci siete riusciti, lo vedo» mentì. Il re continuava a guardarlo con sufficienza. «Però, su una cosa sbagliavate: il nostro mondo non era senza speranza. Con tenacia e volontà, siamo riusciti anche noi a conquistare la pace. Abbiamo vissuto in armonia a lungo, abbiamo costruito un futuro in cui nessuno conoscesse più il significato della parola guerra. E quel sogno si sarebbe realizzato, se qualcuno non avesse interrotto con la violenza il nostro cammino. Cinquant’anni fa un uomo, un mago, iniziò la conquista del nostro mondo. Si impadronì di una Terra dopo l’altra e oggi regna incontrastato su cinque delle otto Terre.» Nell’arena non si udiva un brusio, erano tutti impassibili. «Nessuno lo ha mai visto, non si serba memoria del suo nome, ma le sue azioni gli hanno meritato il titolo di Tiranno. Anche i suoi scopi sono oscuri, ma egli continua a lottare con le Terre ancora indipendenti e ha creato una razza di mostri, i fammin, che spargono morte e terrore.»
Il re fece un ghigno ironico. «Sicché siete di nuovo in guerra» disse divertito. Dai suoi cortigiani si levò un coro di risatine irritanti.
Sennar scosse la testa. «Non per nostra volontà, Sire.»
«La guerra, se non la si vuole, la si evita» disse Nereo con un sorriso di sufficienza.
«Quella in corso è la guerra di un singolo uomo contro la libertà del Mondo Emerso. È un’invasione, l’invasione di un essere che intende...» Sennar si interruppe all’improvviso, pervaso da una sensazione di disagio strisciante, appena percettibile. «Ci ha attaccati a tradimento, Maestà» riprese. «Ha fatto strage dei regnanti, ha inviato le sue truppe contro la nostra gente, ha voluto questo conflitto e l’ha ottenuto. Il Tiranno ha sterminato un intero popolo. I mezzelfi, vi ricordate di loro? Ne ha trucidati quasi la metà in una notte sola, poi li ha perseguitati ovunque fossero, uccidendo donne, bambini, guerrieri, vecchi.» Il sorriso morì sulle labbra di Nereo e uno strano silenzio scese sull’uditorio. Sennar cercava di ricordare il modo in cui Nihal gli aveva parlato di quella strage; voleva che le immagini di morte che popolavano la mente della sua amica rivivessero, perché il re percepisse tutto l’orrore di ciò che accadeva nel Mondo Emerso. «Di loro non è rimasto nulla, quasi neppure il ricordo. In pochi ancora sanno che calcarono la nostra terra. Eppure condividevano il vostro sogno, aspiravano come voi alla pace, erano vostri fratelli.»
Il silenzio si fece pesante. Le parole di Sennar avevano colto nel segno.
«Perché ci racconti questa storia?» chiese Nereo infastidito.
Ancora quel presagio indistinto. Il mago cercò di allentare a poco a poco le catene.
«Sono stato mandato dal Consiglio per chiedere rinforzi. Le nostre truppe sono allo stremo e presto soccomberemo. Il Mondo Emerso sarà un unico immenso deserto abitato dagli schiavi del Tiranno. Ma il Tiranno rappresenta un pericolo anche per Zalenia: quando avrà finito di conquistare la nostra terra, poserà il suo sguardo su di voi.»
Il disagio cresceva. Chiunque fosse, era tra la folla.
Nereo sembrava avere cambiato atteggiamento. Era più attento, e meno beffardo. L’accenno ai mezzelfi sembrava avere avuto effetto. «Io sono disgustato dagli orrori che costui ha compiuto, anche se non mi stupiscono, degni come sono del retaggio del popolo di superficie. Ma noi siamo assai lontani. E la divisione tra i nostri mondi è molto profonda e radicata nel tempo. Perché dovrebbe riguardarci?»
Uno spiraglio di dubbio si era aperto nell’alterigia del re. Per quanto i suoi modi fossero indisponenti e freddi, Sennar capiva che il suo interlocutore era tutt’altro che uno sciocco. E che davvero aveva a cuore la sua terra. Sennar decise che era il momento dell’affondo finale. «La guerra potrebbe già essere qui, Maestà» disse, scandendo le parole «senza che voi ve ne siate accorti. Quell’uomo potrebbe già tramare contro di voi, e i suoi piani potrebbero essere a un punto assai avanzato.»
Sennar sudava freddo, i sensi tesi al massimo. È qui, lo sento. Si sta preparando ad agire. Iniziò a guardarsi intorno, concentrato.
Nereo si mosse infastidito sul suo trono. «Se esiste anche una sola possibilità che quello che dici sia vero, sono costretto a tenerla in considerazione. Fisserò con te un’udienza riservata per...»
Fu allora che una sensazione vivissima di pericolo colpì Sennar come un colpo di spada. Si voltò e lo vide: sulle gradinate più basse, un uomo ammantato di nero si era alzato in piedi e puntava la mano verso il sovrano. Sennar non ebbe il tempo di riflettere, scattò in avanti e si preparò a recitare la formula di difesa. Il colpo partì e fu preciso, ma Sennar non sbagliò: un lampo verde andò a morire con fragore su una pallida barriera argentata.
Per un attimo sembrò che il tempo si fosse fermato: la folla, il re, le guardie, Varen, lui stesso, disteso a terra. Tutto era fermo, congelato. Sennar sentì un forte dolore a una gamba. Era stato colpito. Cercò di alzarsi, mentre un altro lampo si infrangeva sulla barriera che aveva eretto. Prima di ricadere, il mago vide l’emissario del Tiranno che scappava e si confondeva fra la folla terrorizzata. Dalle gradinate iniziarono a levarsi grida isteriche, la gente fuggiva, spintonata dalle guardie lanciate all’inseguimento.
Sennar si alzò e iniziò a correre. Ogni volta che poggiava il piede a terra, una fitta lancinante gli mozzava il fiato, ma non si arrese. Il mago nero filava dritto come una scheggia, il mantello al vento, e abbatteva una dopo l’altra le guardie che cercavano di fermarlo.
Sennar continuò a tallonarlo. Ormai zoppicava e rischiava di cadere a ogni passo. Vedeva quel maledetto davanti a sé, avvolto da una strana cupola color porpora. Sennar non aveva mai incontrato una barriera come quella, ma decise di tentare ugualmente. Valutò la distanza che lo separava dal nemico e gli parve sufficiente. Stese le mani e urlò una formula con quanto fiato aveva in corpo.
La cupola purpurea si infranse in una pioggia di schegge e l’uomo cadde sul selciato.
Sennar raccolse da terra la spada di una delle guardie uccise e si avvicinò, trascinando la gamba ferita. L’incantesimo di pietrificazione era una formula da principianti, su un vero mago non sarebbe durato a lungo. Doveva renderlo inoffensivo al più presto. Ma quando fu finalmente a un passo dal nemico e gli scoprì il capo, Sennar ebbe un istante di vertigine.
«Chi non muore si rivede, eh, consigliere?»
Ai suoi piedi c’era un ragazzo di una ventina d’anni, con un ciuffo di capelli corvini che gli ricadeva sulla fronte e beffardi occhi verdi.
Sennar lo aveva conosciuto a Makrat, mentre perfezionava con Flogisto l’addestramento per diventare consigliere. Avevano anche parlato, qualche volta. Rodhan, ecco come si chiamava. Era un giovane e promettente mago della Terra del Sole. Era uno di loro.
«E bravo Sennar» sogghignò Rodhan. «Chi se lo sarebbe immaginato? Il Tiranno non avrebbe scommesso su di te nemmeno mezzo dinar e invece guarda cosa sei stato capace di fare. Complimenti per il discorsetto, sei proprio bravo a parlare. Ma sappi che né tu né nessun altro potrete mai fermare il Mio Signore.»
Sennar ansimava e la gamba non gli dava tregua. «Ti ha addestrato Flogisto, il mio maestro... Perché?»
«Perché il Tiranno è grande, perché voi non siete che formiche al suo cospetto.» Il ragazzo si rivolse alla piccola folla che osservava la scena, ammutolita: «E questo vale anche per voi! Ora il Tiranno sa dove siete, ricordatevelo sempre!». L’incantesimo stava per svanire, presto l’emissario del Tiranno sarebbe stato di nuovo in grado di nuocere. Sennar sentì tra le mani l’elsa della spada e un pensiero repentino gli attraversò la mente.
Rodhan se ne accorse. «Ti consiglio di uccidermi, o sarò io a farlo» sussurrò con un sorriso assurdo, del tutto inadeguato alla situazione.
Sennar strinse la presa, esitante. Non aveva mai ucciso nessuno. Poi sentì uno scalpiccio alle spalle e un sibilo poco sopra la testa.
Un istante dopo, una lancia infisse al suolo Rodhan, quel ghigno insensato ancora dipinto sulle labbra.
Sennar si voltò di scatto.
Un soldato lo sovrastava. «La guerra è guerra» disse cupo.
Le trappole avevano funzionato. Dei briganti non c’era traccia, ma Nihal e Laio furono ugualmente guardinghi e per riprendere il viaggio che avevano interrotto scelsero una strada più lunga.
La paura a poco a poco passò e Laio raccontò a Nihal della sua prigionia.
«Non mi hanno trattato male. Mi tenevano legato, ma per gran parte del tempo mi hanno ignorato. Mangiavo lo stesso cibo che mangiavano loro. No, la cosa peggiore non era essere lì. Era che ti credevo morta, Nihal» disse, guardandola negli occhi.
«Anch’io sono stata in pena per te» ammise lei, senza imbarazzo.
Quei pochi giorni trascorsi nella paura che potesse accadere qualcosa a Laio avevano fatto capire a Nihal quanto avesse bisogno di lui. Ido era il suo maestro, ma ora che Sennar era lontano, Laio era l’unico vero amico che avesse.
Nihal e Laio si erano inoltrati nella Terra dell’Acqua e i ruscelli che accompagnavano il loro cammino glielo ricordavano a ogni istante.
Giunsero in vista di Laodamea, la capitale, con quattro giorni di ritardo sulla tabella di marcia. La vista di quella splendida città risvegliò in Nihal ricordi dolorosi. Era stato lì che aveva duellato con Fen e che si era innamorata di lui.
«Dov’è la casa di tuo padre?» chiese a Laio, per scacciare quel pensiero.
«Fuori dalla città» rispose cupo Laio e Nihal tirò un sospiro di sollievo.
Le mura sparirono presto all’orizzonte, per far posto a boschi rigogliosi che risuonavano del canto allegro degli uccelli. Non c’era altro luogo in tutto il Mondo Emerso in cui il verde fosse brillante come nella Terra dell’Acqua. Le foglie degli alberi erano grasse e lucide, l’erba compatta e profumata, la natura ricca e generosa.
Nihal conosceva quella Terra, ma ogni volta la riempiva di stupore. Camminava senza smettere di guardarsi intorno e di tanto in tanto sbirciava di sottecchi Laio, che marciava a testa bassa, concentrato come un guerriero prima della battaglia.
«Quando saremo lì, non voglio nessun aiuto da te» disse a un tratto il ragazzo.
«Lo so» ribatté Nihal. «Sono qui per accompagnarti, nient’altro.»
«Lui ti irriterà, è bravissimo a farlo, ma mi devi promettere di non rispondere alle sue provocazioni.»
«Non lo farò.»
Per un po’ sentirono solo il fruscio dei loro passi tra le felci.
«Comunque» borbottò Laio «grazie per essere qui.»
Nihal sorrise.
Il bosco si fece più cupo. Le chiome degli alberi si intrecciavano e nascondevano la luce del sole, l’erba era scomparsa e i loro piedi calpestavano solo foglie secche e marce. Era giorno, ma si muovevano nella penombra. Persino l’aria si era fatta più fredda, notò Nihal mentre si stringeva nel mantello.
La casa emerse all’improvviso dal folto.
Era una grande magione, stretta d’assedio dalla vegetazione. Nonostante le dimensioni della costruzione, non c’erano decorazioni inutili né pacchiane esibizioni di ricchezza. Era una dimora sobria e spartana. Questo Pewar dev’essere un soldato fino al midollo, rifletté Nihal.
Fu Laio, taciturno e silenzioso, a guidarla per i meandri del bosco fino all’ingresso.
A mano a mano che si avvicinavano, Nihal ebbe modo di osservare la casa con più attenzione. Tutte le finestre erano sbarrate. Non fosse stato per la tinteggiatura fresca sui muri e il legno fiammante delle imposte, sarebbe sembrata abbandonata.
Laio bussò timidamente e la pesante porta d’ingresso si aprì.
«Bentornato, signore, vi aspettavamo. Se volete seguirmi» disse un servitore impettito.
Laio entrò a capo chino e Nihal lo imitò. All’improvviso piombarono nel buio più fitto. La casa era immersa nell’oscurità, rischiarata solo dalla debole luce di alcune fiaccole appese alle pareti.
Laio si muoveva con disinvoltura, ma Nihal riusciva a malapena a distinguere la mobilia. Finì per urtare una credenza in un angolo.
«Dammi la mano, ti guido io» disse il ragazzo.
Nihal non se lo fece ripetere.
«Capita spesso che le case della mia gente in esilio siano così, sai? Chi viene dalla Terra della Notte non ama la luce. Nella mia famiglia le finestre sono sempre state tenute chiuse. A parte di notte, naturalmente. Mio padre sostiene che è un modo per ricordarsi delle proprie radici.»
Nihal si fece guidare come una cieca, finché gli occhi non si abituarono alle tenebre e poterono distinguere il profilo delle cose.
Attraversarono lunghi corridoi, che collegavano stanze spaziose, tutte arredate con il minimo indispensabile. Un tavolo al centro, una cassapanca contro una parete e poco altro. Quasi in ogni stanza c’erano camini così ampi che Nihal sarebbe potuta entrarci. Le pareti erano fitte di spade, lance e armi di ogni genere.
Regnava un silenzio perfetto, rotto solo dall’eco dei loro passi sul pavimento di pietra. C’era odore di chiuso. Sembrava di essere scesi nelle viscere della terra. Nihal iniziò a sentirsi oppressa da quel luogo.
Finalmente giunsero davanti a una porta massiccia e il servitore si fece da parte. Laio prese un profondo respiro, quindi aprì il doppio battente.
Il salone in cui entrarono era molto più grande dei precedenti e meglio illuminato. Al centro c’era un lunghissimo tavolo, a un capo del quale era seduto Pewar.
Assomigliava molto al figlio: capelli biondi e ricci e occhi grigio chiaro, ma al suo volto mancava la vivacità di Laio. Aveva i lineamenti duri e lo sguardo severo di chi impone a sé e agli altri una rigida disciplina. Benché si trovasse a casa propria, vestiva con l’uniforme che adottavano i generali durante i consigli di guerra. Al fianco aveva la spada.
Non si alzò neppure. Fu Laio a farsi avanti, per poi salutarlo con un inchino rispettoso. Pewar rispose ponendogli rigidamente una mano sulla spalla. «Ti aspettavo giorni fa.»
«Io e la mia compagna abbiamo avuto problemi durante il viaggio.» La voce di Laio tremava.
L’uomo volse gli occhi verso Nihal e la squadrò da capo a piedi. Il mezzelfo chinò il capo.
«È lei la causa della tua permanenza in quell’accampamento?» chiese.
«È lei che mi ha salvato dai nemici nei quali mi ero imbattuto. Ero ferito, quindi mi ha portato alla base. È anche merito suo se ora sono qui. Mi ha salvato da una banda di briganti» disse Laio tutto d’un fiato.
Pewar scrutò Nihal a lungo e lei sostenne il suo sguardo. «Avrò modo di discutere con te in seguito. Ora lasciami solo con mio figlio. Un servitore ti condurrà alla stanza che ti è stata riservata.»
Il servo comparve silenzioso alle spalle di Nihal e lei non poté fare altro che seguirlo.
Nihal restò nel buio umido della sua stanza per un tempo che non seppe calcolare. L’oscurità la soffocava e si costrinse a fissare la fiamma guizzante dell’unica candela che rischiarava l’ambiente.
Finalmente sentì bussare alla porta e Laio entrò con aria mesta. Aveva gli occhi lucidi.
Nihal non ci mise molto a capire. «Non è andata bene, vero?»
Laio si limitò a scuotere il capo.
«Sapevi che non sarebbe stato facile.»
«Non sembrava neppure contento di vedermi sano e salvo» mormorò il ragazzo, mentre si torceva le mani. «Per quanto lo riguarda, potevo anche essere morto. Almeno non avrei infangato il buon nome del casato.»
«Non dire sciocchezze, Laio. Certo che era contento di vederti...» provò a consolarlo Nihal.
«Sai che cosa ha detto?» la interruppe lui. «Che solo i figli di nessuno fanno gli scudieri. Che è un lavoro indegno e che io appartengo a una famiglia di grandi guerrieri e non posso essere da meno dei miei antenati.» Nihal vide lacrime di rabbia inumidirgli gli occhi. «Comunque non mi interessa. Non ho passato tutto quello che ho passato per tirarmi indietro proprio ora. Stavolta non mi farò piegare. Stavolta farò di testa mia.»
Per quel giorno Pewar non si degnò di convocare Nihal. A quanto sembrava, i vertici dell’Accademia avevano tutti lo stesso modo di fare. Anche Raven si divertiva a lasciare attendere oltre i limiti del ragionevole coloro che si recavano da lui per un’udienza. Palloni gonfiati , si sfogò tra sé Nihal.
Fino all’ora di cena la casa fu silenziosa come un cimitero, poi un campanello annunciò che il pasto stava per essere servito. Mangiarono nella stessa sala dove Laio e suo padre avevano discusso: una zuppa frugale, pane nero e acqua. Si mangia meglio alla mensa della base , pensò Nihal.
Pewar evitò gli sguardi dei suoi ospiti per quasi tutto il tempo. Il rumore più vivace era il cozzare dei cucchiai nelle scodelle.
Solo verso la fine della cena il generale ritenne di poter rivolgere la parola a Nihal. «Laio mi ha raccontato dell’imboscata. Ti sono grato per il servigio che mi hai reso salvando mio figlio» disse serio.
«Laio è un amico. Non c’è bisogno che mi ringraziate» rispose Nihal compita.
«La riconoscenza e l’esaltazione del coraggio sono due capisaldi dell’esercito» ribatté Pewar rigido. «Come ricompensa, desidero che tu scelga una qualunque delle armi nella sala grande. Dopo ti ci condurrò io stesso.»
Nihal provò a declinare l’offerta. «Vi prego, non mettetemi in imbarazzo» mormorò.
«Insisto perché accetti il mio dono. Un tuo rifiuto sarà per me un’offesa.»
Un uomo abituato a farsi obbedire. Laio aveva proprio ragione. «Come desiderate, allora. Sarò lieta di ricevere il vostro omaggio» rispose Nihal.
Cacciò indietro la stizza. Era lì per aiutare Laio, non per litigare con suo padre. Ma avrebbe fatto volentieri a meno di dover leccare i piedi anche a lui, oltre che a quel damerino di Raven.
Come promesso, dopo cena Pewar accompagnò personalmente Nihal nella sala di cui aveva parlato. Armi di ogni tipo ricoprivano le pareti: balestre, spade, archi, pugnali, mazze ferrate. Nihal non dubitava che quell’uomo sapesse maneggiarle tutte alla perfezione.
La ragazza prese un pugnale semplice e anonimo e Pewar dimostrò di apprezzare la scelta, segno evidente che quell’inutile cerimonia era dettata solo dal formalismo.
«L’ora è tarda, sarete stanchi per il viaggio» disse il generale alla fine.
Nihal fece un rapido calcolo. Tarda? Il sole era calato da neppure due ore!
«Che ognuno si ritiri nella propria stanza» concluse l’uomo, poi rivolse loro un secco saluto e se ne andò.
Nihal fu presa in consegna dal solito servitore taciturno, mentre Laio si diresse verso la sua vecchia stanza con la stessa attitudine dell’agnello che va incontro al lupo.
Il sole era sorto da poco, quando Laio andò a svegliare Nihal.
La ragazza si stropicciò gli occhi. «Sempre così mattinieri, voi della Terra della Notte?»
Laio rispose con un sorriso tirato.
Pewar li attendeva già nella sala da pranzo, seduto all’estremità del lungo tavolo. Era impeccabile, esattamente come il giorno prima, e abbigliato nello stesso identico modo. Non sembrava neppure che fosse andato a dormire.
A tavola c’erano tre scodelle colme di latte di capra e l’immancabile pane nero. Un vassoio di mele piccole e asprigne costrinse Nihal a chiedersi dove accidenti avessero trovato della frutta così in una terra florida come quella dell’Acqua. Quest’uomo si è proprio portato il campo di battaglia a casa.
Mangiarono in silenzio, poi Pewar si alzò. «A metà mattinata ti aspetta un duello, Laio. Fa’ in modo di essere pronto tra due ore esatte» disse con voce marziale.
Laio alzò la testa dalla scodella vuota. «Che duello?» chiese spaesato.
«Il primo di una lunga serie» rispose secco Pewar. «Stando a quel che mi hai detto, non prendi in mano una spada da parecchi mesi. È tempo di ricominciare a fare pratica. Il tuo addestramento inizia oggi.» Poi il generale si rivolse a Nihal. «Per quanto ti riguarda, puoi tornare al campo di battaglia. Ritieniti congedata da questa casa a partire da domani.»
«Io non ho intenzione di combattere» disse Laio.
«Tra due ore. Puntuale» ripeté Pewar, poi si allontanò.
«Io non voglio combattere!» urlò Laio, ma suo padre stava già per infilare la porta.
Nihal sentì il sangue salirle alle guance e, nonostante tutti gli inviti alla calma che si era ripetuta, si alzò di scatto. «Avete sentito o no vostro figlio?»
Laio la guardò. Nei suoi occhi vi era una tacita supplica, ma Nihal la ignorò.
Pewar si bloccò sulla porta e si voltò lentamente. «Io sono un tuo superiore e tu sei nella mia casa. Chi ti ha autorizzata ad alzarti e a rivolgermi la parola?»
Il cuore di Nihal tambureggiava sotto il corpetto di pelle, le mani che stringevano il bordo del tavolo erano sbiancate. «Vostro figlio non vuole combattere.»
«Nihal...» sussurrò Laio.
Pewar le scoccò un’occhiata gelida. «Ti voglio fuori di qui entro stasera» scandì, prima di uscire sbattendo la porta.
«Mi avevi promesso che saresti stata zitta, maledizione!» la aggredì Laio.
«Sì, ma lui...»
«Questa è la mia battaglia, lo capisci? La mia!»
Nihal sentì l’ira sbollire. «Volevo solo...»
«Giurami che non farai più niente, giuralo.»
Nihal annuì, costernata. Restò in silenzio per qualche istante, a maledire tra sé il proprio caratteraccio. «Andrai?» chiese infine a Laio.
«Non ho altra scelta.»
L’arena interna in cui si sarebbe svolto il duello era l’unica zona della casa di Pewar a essere illuminata. Era un cortile quadrato, posto esattamente al centro della dimora, essenziale come tutto il resto. Il pavimento era in terra battuta, circondato da un porticato. Lì sotto, al riparo dal sole violento d’inizio estate, c’era un seggio di legno massiccio. Pewar vi sedeva tronfio.
Nihal si mise in un angolo, all’ombra. Sperava di non essere notata. Dopo la sua alzata di testa, Pewar non avrebbe certo apprezzato la sua presenza, ma non poteva mancare. Lì, in quel quadrato polveroso, Laio stava per giocarsi il futuro.
L’avversario che avrebbe dovuto affrontare era un ragazzo poco più grande di lui, ma con l’aria del guerriero fatto e finito; probabilmente un soldato semplice costretto dal generale a quella farsa.
Laio apparve dopo un po’. I panni del guerriero non gli si addicevano. Indossava una giubba in pelle e stivali di cuoio che arrivavano a mezza coscia. In mano aveva una lunga spada dall’elsa elaborata. Nihal se la ricordava; era in bella vista nel salone dove aveva scelto il pugnale.
Laio aveva la fronte corrugata e gli occhi stretti in una fessura. Forse suo padre lo credette concentrato, ma Nihal conosceva quell’espressione: era triste perché doveva impugnare la spada e combattere, perché doveva rivivere il terrore della battaglia, perché quello non era il suo posto.
Il ragazzo prese posizione nell’arena e il suo contendente lo salutò con la spada. Laio non rispose e si voltò verso il padre. «Non è così che mi piegherai.»
«Taci e combatti» rispose Pewar, in tono quasi annoiato.
«Te lo ripeto ancora, non voglio.»
La voce di Pewar fu un tuono che squarciò la cappa di tensione che aleggiava sull’arena: «Mettiti in guardia e battiti da uomo!». Laio rimase al suo posto.
«Attaccalo» ordinò Pewar al soldato.
«Ma generale... non è in guardia...»
«C’è qualcuno che obbedisce ai miei ordini qui dentro? Ho detto attaccalo!»
Il giovane sobbalzò, quindi obbedì e sferrò un fendente dall’alto.
Laio non si mosse e il soldato fu costretto ad arrestare il colpo.
«Chi ti ha detto di fermarti?» Pewar saltò in piedi.
Il soldato era confuso. «Signore, è vostro figlio. Come posso colpirlo?»
«Se non ha il coraggio di battersi non è mio figlio» replicò il generale. «Ricomincia.»
Nihal, dal suo angolo, stringeva i pugni. Non devo intervenire. Laio sa quello che fa e questa è la sua battaglia , si ripeteva, ma sentiva in cuore una furia cieca.
Il soldato riprese l’attacco e colpì Laio di striscio, disegnandogli un taglio rosso sul braccio sinistro.
Laio urlò. Parò di scatto il colpo successivo e iniziò a battersi con foga.
Non era il Laio che conosceva Nihal. I suoi colpi erano precisi e violenti, sembrava un vero soldato.
Le spade si incrociarono a lungo, in un arabesco di parate e attacchi. Nessuno dei due sembrava prevalere. Un paio di fendenti del soldato andarono a segno, ma senza lasciare più che lievi graffi. Anche Laio riuscì a colpire l’avversario un paio di volte, sempre di striscio. La situazione era di assoluto equilibrio.
Dal suo scanno, Pewar osservava soddisfatto. Nel suo sguardo Nihal lesse l’eccitazione della lotta e del sangue, qualcosa che conosceva fin troppo bene e che ora vedeva riflessa negli occhi di quell’uomo spietato. Pewar non ama la battaglia: ama uccidere.
Laio continuava a combattere. I suoi assalti erano sempre più accaniti, i colpi più furiosi. A mano a mano che l’ira gli offuscava la mente, il suo corpo si risvegliava e riportava a galla tutti gli insegnamenti ricevuti all’Accademia. Attaccò più da vicino, cambiando ritmo di continuo, e costrinse il giovane soldato a indietreggiare. Quando lo vide abbastanza in difficoltà, Laio menò un deciso fendente laterale e lo ferì a una gamba. Il ragazzo cadde a terra urlando, mentre un’ampia macchia di sangue imbeveva la terra battuta.
Laio si arrestò all’improvviso e rimase al centro dell’arena, la spada penzoloni in mano. Nello spiazzo risuonò l’applauso del generale.
«Bravo! Bravo!» Pewar si avvicinò al figlio e gli strinse una spalla. «Lo vedi che sai combattere? Lo vedi che sei forte e non lo sai? E ora, uccidilo!»
Il soldato a terra non riusciva a muoversi, la ferita era profonda. Spalancò gli occhi terrorizzato. «Generale...» mormorò.
Laio si sottrasse alla presa del padre e lo guardò, sconvolto. «Che cosa stai dicendo?»
«Che devi finirlo» rispose tranquillo Pewar.
«Ma è a terra! L’ho già sconfitto. Non puoi chiedermi...»
Pewar scosse la testa. «Ti sei mai domandato perché hai tanta paura della battaglia? Eppure sai combattere, l’hai appena dimostrato. Allora?»
Laio non aveva una risposta da dare al padre, non riusciva a pensare a niente. Sentiva solo il respiro affannoso del ragazzo, il rumore delle sue mani che arrancavano nella polvere alla ricerca di una via di fuga.
«Tu hai paura di uccidere, Laio. Ed è una paura normale.» D’un tratto il tono di Pewar si era addolcito, era agghiacciante nella sua pacatezza. «Ma è una paura contro la quale bisogna lottare. Anch’io l’ho provata, ma l’ho scacciata affondando la lama nel petto del primo nemico che ho abbattuto. Così devi fare anche tu. Ammazza questo verme. Solo allora sarai davvero un guerriero. È questo l’unico confine che ti separa dal tuo destino: l’uccisione dell’avversario.»
Laio guardò il ragazzo, il suo volto terreo che gli implorava pietà, il sangue che gli zampillava dalla coscia e si allargava in una pozza. Era stato lui a spargere quel sangue. Lui a infliggere quel dolore.
«No!» urlò, poi gettò la spada a terra, lontano. Quindi spinse via suo padre e gridò ancora: «No!» a voce alta, tonante, tanto forte da farsi male alla gola.
Pewar lo guardò allibito.
«Ammazza me, piuttosto» gridò Laio. Corse a raccogliere la spada e la prese per la lama, ferendosi le dita. La porse al padre. «Se davvero uccidere ti sembra poca cosa, ammazzami. Ma io non diventerò un assassino. Io non sono come te, lo capisci? Io non ucciderò questo soldato, né tornerò a combattere. Io farò lo scudiero, che tu lo voglia o no.»
Laio tacque, il respiro affannato. Il sangue gocciolava lento a terra dalle mani serrate intorno alla lama.
Il generale restò inchiodato al suo posto e Nihal strinse l’elsa della spada, pronta a intervenire.
Il tempo parve fermarsi, poi Laio gettò l’arma a terra. Si diresse a grandi falcate verso il porticato e raggiunse Nihal.
«Andiamo via» disse «riportami alla base.»
Non passò neppure a prendere la sua roba.
Infilò la porta di casa seguito da Nihal e non volle mai più vedere suo padre.
Potete andare.» Nereo era entrato nella stanza seguito da un nugolo di guardie e da un codazzo di ministri dalle facce tese. I suoi accompagnatori si guardarono perplessi. «Fuori, ho detto!» urlò.
Rimasto solo con Sennar, il re ragazzo si parò davanti a lui, pallido, lo scettro in mano.
Dopo lo scontro con Rodhan, Sennar era stato portato da un mago del posto, ma la sua ferita non si poteva curare con un semplice incantesimo di guarigione.
«È un incantesimo superiore» aveva detto Sennar, con le ultime forze che gli rimanevano. «Un sacerdote dovrebbe essere in grado di...»
Una fitta gli aveva mozzato le parole in bocca. Era come se un fuoco interno gli divorasse le carni. La piaga si estendeva e si irradiava lungo tutta la gamba. Era un sortilegio terribile, frutto della magia proibita. Lo avevano condotto nel palazzo reale, dove il guaritore di corte aveva impiegato una notte intera di preghiere e impacchi per liberarlo dalla maledizione che gli consumava la gamba. Il dolore aveva dato tregua a Sennar solo alle prime luci dell’alba e il mago era finalmente scivolato nel sonno.
Si era svegliato il giorno dopo, in un letto con baldacchino, sotto una coperta di broccato. Si trovava in un’ampia stanza le cui pareti erano ricoperte da un mosaico: piccole conchiglie perlacee di tutte le sfumature del rosa irradiavano una luce tenue e riposante. Da un oblò ogivale si intravedevano le guglie più basse del palazzo.
Sennar aveva passato molte ore in uno stato di semincoscienza. Il volto sorridente di Rodhan lo tormentava, poi vedeva la lancia che lo uccideva e sentiva le parole del soldato: «La guerra è guerra». Era trascorsa così un’altra giornata e ora il re gli stava di fronte.
«Vi devo ringraziare, consigliere.»
«Non ho fatto niente di straordinario» disse Sennar a fatica, ma Nereo lo interruppe con un cenno.
«Vi devo ringraziare e devo scusarmi con voi. Avevate ragione: un pericolo incombeva e non ce ne eravamo accorti.»
Il re iniziò a camminare pensieroso avanti e indietro, mentre il suo scettro batteva ritmicamente al suolo. «Quante forze ha in campo il Tiranno?»
«Molte, Maestà. Centinaia di migliaia di guerrieri. Sembrano inesauribili.» Sennar parlava con voce stanca.
«E le armi?» chiese Nereo, sempre più scuro in volto.
«Tutte quelle note. I guerrieri usano per lo più la spada o la lancia, i fammin danno il meglio di sé con l’ascia.»
Il re si fermò davanti alla finestra. «Credete che verranno?» chiese alla fine.
Sennar guardò la sua figura stagliarsi contro il blu. «Non lo so, Vostra Maestà. Anche per il Tiranno battersi su due fronti sarebbe impegnativo, ma questo non significa che non potrebbe decidere di provarci.»
Il re si voltò e si rivolse a Sennar con voce solenne: «Basta così. Ho deciso di farvi accompagnare in superficie da un ambasciatore. Parteciperà alle sedute del vostro Consiglio e avrà pieni poteri: le sue decisioni saranno le mie decisioni. Sarà lui a stabilire quanta parte del nostro esercito verrà impiegata. Non siete più soli, consigliere». Diede a Sennar un’ultima occhiata decisa, poi uscì dalla stanza senza aggiungere altro.
Sennar avrebbe voluto sentirsi meglio, avrebbe voluto godere di quel momento. Ma non ci riusciva. Non era la gamba, e nemmeno la stanchezza che si sentiva addosso. «La guerra è guerra» aveva detto il soldato. L’aiuto che gli veniva offerto non significava la vittoria della pace, ma il trionfo della guerra. E Sennar non poteva fare a meno di pensare che aveva contribuito a far entrare la guerra a Zalenia.
Quando Ondine fece ingresso nella stanza di Sennar, aveva gli occhi rossi e il viso tirato di chi non ha dormito. Aveva dovuto aspettare tre giorni prima di ottenere il permesso di incontrarlo. Ora le guardie erano diventate sospettose e Sennar era considerato un facile obiettivo.
Si sedette sul letto, agitata. «Che cosa ti hanno fatto?»
«È tutto passato» la rassicurò Sennar.
«Le notizie che mi arrivavano erano così confuse! C’era chi diceva che eri morto, chi sosteneva che ti avrebbero tagliato una gamba... È stato terribile, Sennar. Ho creduto di impazzire.»
Lui la lasciò sfogare. «Ora sto bene, vedi? E presto potrò alzarmi» disse. Già, si sarebbe alzato di nuovo.
Ondine lo guardò negli occhi. «Che cosa ha detto il re?»
«Che avremo il vostro aiuto.»
Ondine gli buttò le braccia al collo. «Allora ce l’hai fatta!» esclamò entusiasta. «Hai visto che avevo ragione?»
«Sì, avevi ragione» mormorò Sennar.
Lei si staccò e gli accarezzò il viso, sorridendo. Sennar abbassò lo sguardo. Ondine, potrai mai perdonarmi?
Rimase a letto per una settimana. Dopo tanta immobilità, la gamba gli obbediva poco e spesso si divertiva a cedere sotto il peso del corpo. Per fortuna c’era sempre Ondine, pronta al suo fianco, che lo sorreggeva e lo aiutava, lo assisteva con assoluta dedizione. Sennar non riusciva a scacciare la sensazione di benessere che provava quando stava con lei, tanto che pensò di essersi sbagliato. Forse la sua felicità era legata a quella ragazza, forse non era impossibile pensare a una vita con lei. Ma erano solo momenti e Sennar lo sapeva bene. Ciò che voleva davvero era lontano da quegli abissi, la persona che amava era alla luce del sole e non serviva a niente ingannarsi come aveva fatto in quelle settimane. Era stato sciocco. Sciocco e superficiale. E ora doveva pagarne il conto.
La data della partenza fu stabilita e i giorni che mancavano trascorsero tra colloqui con il re e i suoi dignitari. Sennar li mise al corrente di tutti i dettagli della guerra e delle condizioni dell’esercito delle Terre libere, poi passarono a pianificare un’ipotesi di alleanza tra Zalenia e il Mondo Emerso.
Conobbe anche Pelamas, l’ambasciatore che lo avrebbe accompagnato. Era un uomo di mezza età, flemmatico e dall’espressione imperscrutabile, che parlava poco e solo di questioni diplomatiche. Guardava Sennar con una certa ammirazione e lo trattava con rispetto, ma sembrava continuamente in lotta contro il disgusto per la pelle scura e i capelli rossi del giovane consigliere.
Sennar trascorreva tutto il suo tempo libero con Ondine. Avrebbe voluto spezzare lentamente il filo che lo legava a lei, ma non ci riusciva. Cercò di essere più freddo, anche se gli costava fatica, ma Ondine accettava la sua distanza senza fare domande.
Quando arrivò l’ultima sera a palazzo, Sennar volle passarla in uno dei giardini che punteggiavano la reggia, quello che si trovava proprio sotto la colonna, dove si sentiva fischiare il vento che saliva lungo il condotto. Quel rumore solenne e quasi lugubre si mescolava al sommesso chiocciare di una piccola fontana. Era un luogo malinconico e Sennar pensò che fosse il più adeguato per dire addio al Mondo Sommerso. Seduto di fronte alla fontanella, fissò lo scorrere lento e regolare del sottile getto d’acqua. Pensò a tutto quello che era accaduto, alla paura che l’aveva accompagnato per l’intero viaggio, al terrore cieco che aveva provato nel gorgo, ai pirati, ad Aires, alla dolcezza di Ondine, che quella sera avrebbe visto per l’ultima volta.
La ragazza lo raggiunse poco dopo e Sennar fu contento di interrompere quell’attesa, quel susseguirsi di pensieri. Ondine si fermò davanti a lui, immobile, controluce. A Sennar parve identica al giorno in cui l’aveva conosciuta, quando si era avvicinata alle sbarre della cella con il vassoio tra le mani. Ma ora il suo volto era serio.
«Domani parti» disse lei.
«Già, pare che io sia guarito» mormorò Sennar.
Ondine tacque a lungo. Poi si schiarì la voce e fece un profondo respiro. «In questi giorni ho riflettuto molto, Sennar.» Alzò la testa, l’espressione determinata. «Voglio venire con te nel Mondo Emerso.»
Sennar la guardò negli occhi. «Ondine, io...» Lei sostenne il suo sguardo. «Vivo in un paese in guerra, lo sai. Devo controllare l’esercito della Terra del Vento, è questo il mio compito. Non voglio che tu veda quello che accade laggiù, non voglio che...»
All’improvviso Ondine alzò la voce. «Piantala di dire sciocchezze. Non trattarmi da stupida, Sennar!»
Ha ragione lei. Mi ha salvato la vita, mi è stata accanto. Merita la verità, non queste pietose bugie. Ma Sennar non ce la faceva. Era paralizzato. Guardava il viso dolce di Ondine e la voce gli moriva in gola.
Lei gli prese le mani. «Tu mi vuoi, Sennar? Devo saperlo. Vuoi che venga con te?»
L’acqua scendeva lenta dalla fontana e il vento continuava il suo lamento.
Sennar chiuse gli occhi. «No, Ondine» disse in un sussurro. «Domani partirò da solo.»
La stretta di Ondine si allentò a poco a poco, le mani le ricaddero lungo i fianchi. Restò in piedi, senza dire una parola.
«Ondine, ascoltami, ti prego. Io ti voglio bene, sei una ragazza stupenda. Mi hai aiutato, sei stata la mia compagna in questa avventura. In tanti momenti ho pensato che restare insieme a te sarebbe stato bello. Perché con te stavo bene... sto bene. Ma dentro di me so che non posso.»
«Ti ricordi quella sera nella tua cella?» disse lei con un filo di voce. «Quando un uomo bacia una donna vuol dire che la ama. Perché mi hai baciata, Sennar?»
Sennar sentì un nodo alla gola. «Perché sei bella come poche altre. E speciale. Dopo tanti morti, tanta sofferenza, avevo bisogno...» Si interruppe. «C’è qualcuno nel Mondo Emerso, da cui voglio tornare, Ondine.»
Lei rimase immobile, gli occhi piantati in quelli di Sennar.
«Non so come spiegarti, non so dirti se ne sono innamorato. Quando stavo con te credevo di averla dimenticata. Poi un giorno, all’improvviso, ho capito che non volevo più pensarci perché mi faceva male. Ho capito che mi stavo illudendo. Che ti stavo illudendo.»
La ragazza strinse i pugni. Le lacrime iniziarono a scenderle piano lungo le guance. Non le sfuggì nemmeno un singhiozzo.
Sennar allungò le dita verso il suo viso, ma Ondine arretrò di qualche passo. L’uscita del giardino era vicina.
«Addio, Sennar» disse sottovoce, poi si allontanò senza voltarsi indietro.
La luce era di nuovo limpida, il giorno seguente. Sennar raggiunse l’arena con la testa ancora piena dei pensieri che lo avevano tenuto sveglio tutta la notte e l’immagine di Ondine che piangeva in silenzio impressa negli occhi.
Quando il conte Varen gli andò incontro, Sennar non gli diede neppure il tempo di parlare: «Vorrei che vi prendeste cura di Ondine nel viaggio di ritorno, conte». Varen annuì e Sennar seppe che aveva capito.
«Grazie per aver creduto in me, Varen» disse, mentre gli tendeva la mano.
Il conte ricambiò la stretta e si sforzò di sorridere. «Sono io a doverti ringraziare, mi hai fatto ricordare cose che avevo perduto. E poi» disse, in un tentativo di essere allegro «non è detto che questo sia un addio. Ormai siamo alleati, chissà che non ci si riveda, prima o poi.»
«Già, chissà» rispose Sennar, poi raggiunse la carovana con cui era in procinto di lasciare Zalenia per sempre.
Il viaggio ebbe inizio. Sennar aveva il cuore pesante. Partiva dalle profondità marine e portava con sé il ricordo di molti momenti indimenticabili, ma che cosa si lasciava alle spalle? Il viso triste di Ondine. E uno strascico di morte.
Quando la vide sul ciglio della strada, in attesa, il cuore ebbe un sobbalzo.
«Fermiamoci un istante, vi prego» disse all’ambasciatore Pelamas che cavalcava al suo fianco. Tutto il loro seguito si arrestò.
Il mago scese da cavallo e la raggiunse. Si guardarono a lungo.
Fu lei a parlare. «Come si chiama la tua donna?»
«Non è la mia donna...»
«Voglio sapere come si chiama.»
«Nihal.»
«Devi giurarmi una cosa» disse lei con voce seria.
«Che cosa?»
«Se è tanto importante per te, se per lei rinunci a me... devi giurarmi che farai di tutto per essere felice con lei. Se scoprirò che non lo hai fatto, non ti perdonerò mai. Io ho qualche diritto su di te, Sennar, ricordi? Ti ho salvato la vita. Adesso giura.»
Sennar sorrise. «Te lo giuro.»
Ondine gli fece un cenno col capo, quindi voltò le spalle e si allontanò, tagliando per il campo che costeggiava la strada.
Sennar la vide diventare sempre più piccola, finché non fu una minuscola figura che spariva all’orizzonte.
Risalì a cavallo. «Possiamo andare» disse all’ambasciatore.
La carovana si rimise in movimento. Sennar chiuse gli occhi per non guardare oltre quella terra.