TRA TERRA E MARE.

Durante la guerra dei Duecento Anni, molti abitanti del Mondo Emerso, stanchi dei combattimenti, abbandonarono le loro Terre per andare a vivere in mare. L’ultimo contatto con loro risale a centocinquanta anni addietro, quando i regni congiunti della Terra dell’Acqua e del Vento tentarono di invadere il Mondo Sommerso grazie a una mappa, ottenuta da un abitante di quel regno tornato sulla terraferma. La spedizione finì tragicamente: nessun superstite tornò a raccontare cosa accadde. Da allora, di quel continente non si sa più nulla e si è persa memoria di come raggiungerlo.

Annali del Consiglio dei Maghi, frammento

Si sancisce pertanto il diritto del re della Terra del Vento di custodire copia della carta nautica con cui (...) La mappa originale verrà impiegata (...) spedizione militare contro il Mondo Sommerso.

Pergamena recante il sigillo della Terra dell’Acqua,

dalla Biblioteca Reale della città di Makrat, frammento

1 Prima di partire.

Una sacca con qualche libro e pochi abiti era tutto il suo bagaglio. Sennar se la caricò sulle spalle e uscì all’aria aperta.

Sotto il mantello indossava una tunica nera lunga fino ai piedi, ornata da intricati fregi rossi che culminavano in un grande occhio spalancato sul ventre. Non si era ancora abituato al clima di Makrat. Quando abitava nella Terra del Mare le primavere erano miti e nella Terra del Vento faceva sempre caldo. Nella Terra del Sole, invece, sede del Consiglio dei Maghi per quell’anno, la primavera era gelida quasi quanto l’inverno e il caldo torrido e soffocante dell’estate arrivava all’improvviso. Sennar rabbrividì e si coprì i lunghi capelli rossi con il cappuccio del mantello.

Aveva diciannove anni ed era un mago. Un ottimo mago. Ma non un eroe. Era Nihal quella che si gettava incontro alla morte senza esitazione. Lui elaborava strategie dietro le linee. E ora che aveva la possibilità di fare qualcosa per il popolo di quel loro mondo martoriato, aveva paura. Dopo mesi di assemblee con i maghi del Consiglio e riunioni con i vertici militari, il momento era arrivato. Sarebbe partito e avrebbe solcato i mari alla volta di un continente che, per quanto ne sapeva, poteva anche non esistere più.

Da solo, così aveva deliberato il Consiglio.

Sono un codardo.

Da centocinquanta anni non si avevano notizie del Mondo Sommerso. La sua missione era trovarlo e convincere il re ad aiutare il Mondo Emerso in una guerra di cui non si vedeva la fine: quella contro il Tiranno. Alla luce dell’alba, gli sembrò una missione senza speranza.


Il suo cavallo era già pronto. Sennar esitò prima di montare in sella. Sono ancora in tempo. Posso tornare al Consiglio. Dire che mi sono sbagliato, che ho cambiato idea.

Si guardò intorno. Non c’era anima viva. Tutto addormentato. Doveva partire così, senza un saluto. D’istinto si portò la mano alla cicatrice sulla guancia. Poi spronò il cavallo e si mise in cammino.

La prima tappa sarebbe stata la Terra del Mare, dove avrebbe cercato qualcuno disposto ad affrontare l’oceano con lui.

Era la Terra in cui era nato. L’aveva lasciata a otto anni per seguire Soana, la sua maestra, nella Terra del Vento e ci era tornato di rado, perché il viaggio era lungo e pericoloso.

Sennar mancava da casa da due anni.

Ora che si trovava a un nuovo bivio della sua vita, sentiva il bisogno di rivedere la madre.


Arrivò al suo villaggio, Phelta, che era mattina inoltrata. Il cielo era nero e gonfio di pioggia, un cielo da tempesta che incombeva come una cappa sulle poche case del suo paese natale. Non c’era in giro nessuno, dovevano essersi tutti rintanati in previsione della mareggiata. C’era umidità nell’aria e Sennar inspirò il profumo del mare, forte, penetrante, che arrivava fin nell’entroterra.

Il villaggio era un agglomerato di casette in muratura con il tetto di paglia, le abitazioni tipiche di quelle terre, circondato da una robusta palizzata di legno. Era un paese piccolo, non più di duecento abitanti in tutto, e aveva un aspetto modesto. Le case erano ammassate le une sulle altre, come un gruppo di bimbi spauriti in territorio straniero. Sennar non aveva molti ricordi di quel posto. Era nato lì, ma lui e la sua famiglia avevano dovuto abbandonare presto il villaggio per i campi di battaglia. Vi tornava poche volte l’anno, in coincidenza con le licenze di suo padre, e solo in quelle occasioni poteva riallacciare i rapporti interrotti, ritrovare gli amici. Ma quella era casa sua. La sua patria, la sua Terra.

Prima di andare dalla madre, volle fare un giro; sentiva il bisogno di riappropriarsi di quei luoghi, calpestare la pietra del selciato, sentire i profumi, sfiorare l’intonaco delle case corroso dal mare. Si perse a vagabondare per i vicoli stretti e tortuosi, si attardò nella minuscola piazza centrale, dove nei giorni di festa si teneva il mercato, indugiò sul molo, un’esile lingua di legno sospesa sull’oceano.

D’un tratto vide tutto con gli occhi di quando era bambino e fu travolto da una moltitudine di ricordi sopiti: immagini fugaci di giochi tra le case, di amici perduti, di piccole gioie. Cose dimenticate, forse troppo in fretta.


L’idea di rincontrare sua madre lo emozionava. Quando fu davanti alla porta, Sennar sentì provenire dall’interno rumore di stoviglie. Esitò per qualche istante, poi bussò.

Gli aprì una donna minuta e lentigginosa, invecchiata dall’ultima volta che Sennar l’aveva vista. Portava un semplice vestito nero, da povera gente che rammenda all’infinito l’unico abito che possiede, ma ingentilito da un colletto di pizzo. Un tempo anche lei aveva gli stessi capelli rosso fuoco del figlio, ma ora la sua chioma, raccolta in una morbida crocchia, era striata da ciocche bianche. Però gli occhi erano ancora quelli di quando era ragazza, di un verde allegro e vivo, e si accesero appena videro Sennar. «Sei tornato.» Lo abbracciò forte.


I fiori freschi sul tavolo, i centrini ricamati sui mobili, la pulizia impeccabile: Sennar riconobbe la cura e le piccole attenzioni della madre.

La donna si precipitò subito ai fornelli e caricò la stufa a legna. «Perché non mi hai avvertita che saresti venuto? Non ho niente da darti, solo quel poco che ho in dispensa. È un’occasione speciale, bisognerebbe festeggiare.» Intanto andava avanti e indietro per la cucina, apriva credenze e prendeva pentole.

«Non ti preoccupare, mamma» cercò di rassicurarla Sennar.

Era un piacere vederla affaccendata ai fornelli e lui finse di essere tornato bambino, quando suo padre era ancora vivo e la loro famiglia unita.

Mentre cucinava, la donna non smise di parlare, gli chiese della sua vita e gli raccontò la propria, ma chiacchierarono anche di cose futili di tutti i giorni, esattamente quello di cui Sennar sentiva la mancanza.

Quando il pranzo fu pronto, si sedettero a tavola. Sua madre era sempre stata un’ottima cuoca, anche con pochi ingredienti sapeva imbastire pietanze da re. Aveva preparato una zuppa di pesce e verdure in cui intingere pane alle noci.

Davanti ai piatti fumanti, nella quiete raccolta della casa, la donna poté finalmente guardare il figlio con calma. «Come sei cresciuto...»

Sennar arrossì.

«Sei proprio un uomo... un consigliere...» Gli occhi della donna si colmarono d’orgoglio. «Non mi sono ancora abituata all’idea, sai? Raccontami. Dimmi come vivi, come te la cavi.»

Sennar la accontentò, sebbene il rimorso gli stringesse la gola come un cappio. Nonostante fossero passati anni, nonostante mai la madre gli avesse fatto pesare la sua scelta, Sennar era ancora convinto fin nel profondo di averla abbandonata, lei e sua sorella. Del resto, non aveva lasciato quella casa per seguire i suoi sogni, permettendo che Soana lo conducesse lontano, in una terra non toccata dalla guerra? La sua era sempre somigliata troppo a una fuga. Quando ebbe terminato, le strinse una mano. «E tu, mamma? Come va?»

«Tutto come al solito. I ricami si vendono bene, anche se non tanto quanto una volta. La guerra si fa sentire fino a qui. Però non mi lamento, guadagno abbastanza da sopravvivere e me la cavo meglio di molta altra gente. Ho una vita piena, sai? La casa è sempre affollata di amiche che mi vengono a trovare.»

Sennar abbassò gli occhi. «E Kala?»

«Kala sta bene. Certo, mi manca, ma la vedo spesso.» La donna prese il volto del figlio tra le mani. «Sennar, guardami. Checché ne dica tua sorella, hai fatto la scelta giusta. Io sono contenta dell’uomo che sei diventato.»

«Devo vederla» disse Sennar.

La madre lo guardò seria. «Che cosa c’è, figlio mio? Mi sembri... non so... strano, inquieto.»

«Non ho niente, è solo che... devo fare un viaggio, in una terra lontana da qui. È per questo che sono venuto. Starò via per un po’.»

Non voleva dirle la verità. L’importante era averla vista un’ultima volta, il resto non contava.

Sua madre lo scrutò a lungo e cercò di leggergli in viso che cosa lo tormentasse. Poi abbassò gli occhi. «Ora abita in una casa dall’altro lato del paese, in riva al mare» mormorò.


Sennar si avviò a piedi. Il cielo era livido di nuvole e non ci volle molto perché iniziasse a piovere. Il mare si stagliò immenso davanti a lui.

Le onde si infrangevano sulla banchina con violenza e sommergevano tutto ciò che incontravano. Era il mare possente della sua infanzia, lo stesso mare dal cui ventre lui e il padre strappavano i pesci nei giorni di festa. Lo stesso mare in cui si tuffava felice. Ora sembrava adirato con lui.

Sennar si incamminò sul pontile. I cavalloni gli parvero montagne, ma non aveva paura. Si lasciò sommergere da un’onda e ne uscì indenne, avvolto da un campo azzurrino: una barriera magica, un semplice incantesimo difensivo. «Ti ho battuto» disse ridacchiando. Poi vide in lontananza la casa. Rabbrividì, completamente fradicio, e sentì il coraggio venirgli meno.

Si fermò e si guardò intorno. Forse poteva prima fare un salto alla locanda. Era poco distante da lì e doveva andarci comunque, prima o poi. Rimandò l’incontro con la sorella e deviò dalla strada.

Un uomo anziano, con la barba bianca e il viso scurito dal sole, spingeva a fatica una botte verso l’ingresso della locanda e imprecava contro la pioggia.

Sennar lo riconobbe subito: solo Faraq conosceva tanti modi per maledire qualcosa. Quando gli fu vicino, esclamò: «Hai bisogno di una mano?». L’uomo sussultò e si voltò di scatto. «Sei impazzito? Vuoi farmi prendere un accidente? Chi diavolo sei?»

Sennar represse un sorriso. Il locandiere era rimasto il solito vecchio burbero. «Non ti ricordi di me?»

Faraq lo squadrò con occhio critico, quindi si colpì la fronte con la mano. «Ma certo! Sei Sennar, il mago. Accidenti, sto proprio invecchiando. L’ultima volta che ti ho visto eri un ragazzino e ora sei più alto di me.» Rise e gli assestò un paio di forti pacche sulle spalle. «Perché stiamo qui fuori a bagnarci come pesci? Vieni dentro.»

La locanda era completamente diversa da come la ricordava Sennar, sembrava rimpicciolita. Il mago si sedette a uno dei tavoli in legno massiccio mentre Faraq spariva dietro al bancone.

«Bisogna festeggiare. Con questo tempaccio ci vuole qualcosa di forte» disse il vecchio, poi portò al tavolo una bottiglia piena di liquido violaceo e due bicchieri. «Bentornato, ragazzo.»

Faraq alzò il bicchiere e lo svuotò in un colpo solo. Sennar lo guardò. L’ultima volta che era passato alla locanda aveva i capelli appena ingrigiti e, quando rideva, il reticolo di rughe intorno agli occhi era solo accennato. Per gli dèi, quanto tempo è passato? Il ragazzo buttò giù un sorso. Fu sufficiente a farlo tossire, la gola in fiamme.

«Ma come, un uomo come te non regge lo Squalo?» rise Faraq.

«È la prima volta che lo bevo. Dove vivo ora non esiste.»

Era un liquore forte, lo Squalo. La tradizione voleva che quando un ragazzo compiva sedici anni, per festeggiare il suo passaggio all’età adulta gli uomini del villaggio lo portassero alla locanda e lo facessero ubriacare.

«Ne hai perse di cose andandotene» scherzò Faraq. «Però ho sentito che hai fatto carriera. Consigliere, giusto?»

Sennar annuì.

«E bravo il nostro mago!» Faraq gli diede una violenta pacca sulla schiena.

Sennar era contento di ritrovare la schiettezza della sua gente, la sua rudezza, il suo spirito. Amava la Terra che l’aveva fatto nascere.

Dopo un numero di bicchieri che il ragazzo non fu in grado di calcolare, Faraq gli chiese il motivo del suo ritorno. Sennar, il viso rosso per l’alcol, gli raccontò tutto.

Faraq restò di stucco. «È una follia, Sennar. Ci hanno provato in tanti a raggiungerlo, il Mondo Sommerso. E sai cosa ti dico? Non sono mai tornati.»

«Lo so. Ma è la mia missione, non posso tirarmi indietro. Mi serve qualcuno abbastanza folle da portarmici. Vorrei che tu mi aiutassi a trovarlo.»

«Non ci sarà nessuno disposto a farlo.»

«Vorrà dire che ci andrò da solo.»

Faraq lo guardò con attenzione. «Non riesco a capire se sei un pazzo o un eroe.»

Sennar rise. «Sono pazzo. L’eroismo non so cosa sia. Non ho avuto nemmeno la forza di confessare a mia madre quello che sto per fare. Anzi, ti prego, non dirle nulla. Non voglio che si preoccupi.»

Faraq scosse la testa. «Come vuoi.»

Sennar si alzò. «Mi aiuterai?»

Il vecchio trangugiò l’ultimo sorso e lo accompagnò alla porta. «Non ti garantisco niente, però. Torna domani.»


La pioggia cadeva incessante. Sennar si avviò verso la casa di Kala senza più esitare. Bussò. Nessuna risposta. Bussò ancora. La porta si aprì di scatto.

«Chi diavolo è?»

Era Kala, senza dubbio. Sennar ricordava una ventenne ancora acerba, ma ora sulla soglia si stagliava una donna formosa, con un viso tondo incorniciato da una cascata di riccioli color rame. Per una frazione di secondo restarono a guardarsi, immobili. Sennar vide l’ira montare a poco a poco negli occhi chiarissimi della sorella, azzurri come i suoi. Poi la porta gli sbatté in faccia.

«Kala. Kala, aprimi.» Sennar iniziò a tempestare di pugni l’uscio, mentre i suoi vestiti grondavano acqua. «Ho bisogno di parlarti, in nome degli dèi! Potrebbe essere l’ultima volta che ci vediamo!»

«Volesse il cielo che non ti vedessi mai più!» urlò Kala dall’interno.

«Va bene. Vorrà dire che resterò qui finché non mi aprirai.»

La porta si spalancò all’improvviso.

«Se non te ne vai, giuro che chiamo le guardie.»

«Fallo, non ho niente da perdere.»

Kala fece per sbattere nuovamente la porta, ma Sennar la bloccò con un braccio.

«Leva questo dannato braccio o te lo taglio.»

«Voglio solo parlare.»

Da dietro la gonna di Kala spuntò la testa riccia di una bimba. «Chi è, mamma?»

«Tu va’ dentro» ordinò Kala. «Vattene, qui non c’è posto per te» sibilò al fratello.

Sennar era rimasto a bocca aperta. «Ho una nipote. Ho una nipote e non me lo avete detto!»

«Dannazione» sbottò Kala esasperata. «Entra, avanti.»

Sennar entrò in casa, sgocciolando sul pavimento di legno dell’ampia stanza centrale. Si guardò intorno. Un camino acceso scaldava l’ambiente e sul tavolo c’era un mazzo di fiori bianchi. La bambina, ferma di fronte a lui, lo fissava con gli occhi sgranati.

«Man, ti ho detto di andare via! Sei sorda?» la rimproverò la madre.

La piccola sparì trotterellando.

«Quanti anni ha?» mormorò Sennar.

«Che te ne importa?» rispose Kala con rabbia.

Ora che aveva di fronte la sorella e poteva parlarle, si sentiva sfiancato.

«Allora? Cosa vuoi, Sennar?»

«Non lo so.» Dopo tanti anni di silenzio, che cosa poteva dirle? Fece un profondo respiro.

«Ero un bambino quando me ne sono andato, Kala. Poi papà è morto e Soana mi ripeteva che se volevo combattere contro il Tiranno dovevo continuare sulla mia strada, diventare un mago.»

Kala lo guardò con disprezzo. «Sei tale e quale papà.»

Quelle parole lo ferirono. «Papà voleva dare il suo contributo alla lotta per la libertà. Era solo da ammirare.»

«Il suo contributo, eh? Ha costretto la mamma a vivere su un campo di battaglia e a crescere dei bambini in guerra. Ha sacrificato la felicità di tre persone pur di continuare a fare lo scudiero del suo amato cavaliere. Tu sei come lui, te ne sei andato per fare l’eroe, per salvare chissà chi. Ma non sei un eroe, Sennar. Saresti dovuto rimanere con noi, avevamo bisogno di te. Mamma ha sgobbato tutta la vita come un mulo perché i soldi non bastavano mai. E io mi sono sposata senza neppure una dote.» Kala abbassò la voce. «Ti volevo bene, Sennar. Quando sei partito con quella strega eri piccolo, non sapevi quello che facevi. Ma sono undici anni che te ne stai rintanato chissà dove a studiare. Cosa credevi, che una visita ogni tanto potesse ripagarci della tua assenza?»

«Anche voi mi siete mancate, molto.»

«Sta’ zitto! Ogni volta che venivi, mamma era felice come una bambina davanti a un regalo. Poi, quando andavi via, la sentivo piangere. Mi faceva una rabbia. Perché non ti costringeva a tornare? Perché non ti diceva in faccia che eri un egoista? Ma no, lei ti ha sempre ammirato, ti ha sempre sostenuto.» Gli occhi di Kala si riempirono di lacrime. «Io non sono come lei. Ora vattene, per favore, e non tornare mai più.»

Sennar aveva la gola stretta da un groppo. «Io ti voglio bene quanto te ne volevo da piccolo, Kala. E tua figlia è bellissima, davvero.»

Si avvicinò alla sorella per baciarle la guancia, ma lei si scansò.

«Perché sei venuto?» chiese.

«Sto per partire. Non so se e quando tornerò. Volevo solo salutarti.»

Kala guardò il fratello in silenzio.

«Ho paura di questo viaggio» disse Sennar, quasi parlando a se stesso. «Se dessi retta alle mie gambe, scapperei. Ma allo stesso tempo sento che devo partire. È buffo, vero? Sembra che tutta la mia vita funzioni così.»

Due lacrime scivolarono lungo le guance di Kala.

«Posso salutare mia nipote?» chiese Sennar.

Kala annuì e si asciugò rapidamente il viso. «Man!»

La bambina arrivò di corsa e si fermò intimidita al centro della stanza.

«Ha quattro anni» sussurrò Kala.

Sennar le accarezzò la testa, quindi aprì la porta e se la richiuse alle spalle.


Il pomeriggio del giorno dopo, la taverna era gremita di gente. Sennar passò tra i tavoli e si diresse spedito verso Faraq.

«Hai trovato?» chiese sottovoce.

Faraq si guardò in giro e lo attirò a sé. «La cosa non è semplice...»

«Se non c’è nessuno, mi basta un peschereccio, una barca, qualunque cosa galleggi e ci vado da solo» lo interruppe Sennar.

«Calma, calma! Non hai neanche vent’anni e sei già così ansioso di morire? Mio figlio ha un contatto, ma ci vogliono parecchi soldi.»

«Quelli non mi mancano.»

«Stanotte, al molo occidentale.»

«Ci sarò.»


Sennar uscì furtivo dalla casa della madre, imbacuccato in una palandrana nera che lo copriva dalla testa ai piedi. La notte era limpida e il mare liscio come l’olio. Sul molo non c’era nessuno. Si sedette con i piedi che penzolavano nel vuoto. La falce sottile della luna proiettava sullo specchio dell’acqua sotto di lui una luce spettrale.

«Sei tu?» chiese una voce femminile. Aveva un timbro basso, quasi roco.

Sennar si girò. Alle sue spalle c’era una figura affusolata, avvolta in un lungo mantello. Non si era accorto del suo arrivo. «In che senso?»

«Cos’è, sei tonto?» chiese lei infastidita. «Sei quello che vuole andare nel Mondo Sommerso?»

«Sì, sono io.»

La donna si sedette senza togliersi il cappuccio. «Un milione di dinar» disse con flemma.

Sennar ebbe un attimo di esitazione. «Come?»

«Hai capito benissimo. Ce li hai?»

Sennar fece un rapido calcolo; se ci metteva anche del suo, ce l’avrebbe fatta. «Mi sembra un po’ alto, come prezzo.»

La donna rise. «Ti sembra male. L’ultimo che ha tentato l’impresa è scomparso in mare senza lasciare traccia. Della sua nave è tornato solo l’albero. Due anni dopo.»

«Quando si potrà partire?» chiese Sennar.

«Dipende. Mi hanno detto che hai una mappa.»

Sennar si diede dello stupido. «Non l’ho con me» rispose imbarazzato. Come cospiratore era un disastro.

La donna si alzò e fece per andarsene. «Domani, qui, alla stessa ora.»

«Non ci potremmo vedere di giorno? Vorrei conoscere il resto dell’equipaggio, vedere la nave.»

Lei si sporse finché il suo viso non fu vicinissimo a quello del ragazzo. Alla luce della luna, Sennar intravide due occhi neri come la pece. Quando la donna parlò, sentì sul volto il suo respiro.

«Quante pretese. Cerca di non farmi cambiare idea. A domani, angioletto.»

Lo fissò ancora per un istante, poi si voltò e scomparve nella notte.


Quando, la sera seguente, Sennar arrivò sul molo, trovò la donna ad aspettarlo. Indossava di nuovo il lungo mantello.

«Vieni, non è prudente stare all’aperto.»

Lui la seguì piuttosto inquieto. Sentiva che stava per ficcarsi in un guaio. Percorsero tutta la spiaggia mantenendo una certa distanza l’uno dall’altra. Lei gli ordinò di camminare nell’acqua e lui obbedì, nonostante il gelido mare invernale. Camminarono a lungo, finché non raggiunsero una piccola insenatura nascosta tra gli scogli.

Sennar ricordò che da piccolo gli proibivano di andarci. Era pericoloso, dicevano. Si infilarono a fatica in una fenditura nella roccia, che presto si allargò in una grotta illuminata da candele.

«Qui staremo tranquilli» disse lei.

Sennar si guardò in giro. La grotta sembrava un luogo abitato. Al centro c’era un grosso tavolaccio ingombro di bicchieri e bottiglie di Squalo, mentre tutto intorno si apriva una serie di corridoi che presumibilmente conducevano ad altre stanze.

«Siediti.»

Sennar eseguì senza fiatare, gli occhi fissi su di lei.

Poi finalmente la donna si slacciò il mantello e lo lasciò cadere alle sue spalle con un gesto teatrale.

Era più vicina ai trent’anni che ai venti. Aveva lunghi capelli neri e lisci che le arrivavano fino alla vita, fianchi sinuosi e un seno morbido, stretto in una sorta di corpetto in velluto. Tranne che per la generosa scollatura, era vestita come un uomo: pantaloni di cuoio, stivali e un pugnale fissato alla cintura. Sennar rimase a bocca aperta.

«Che c’è? Non hai mai visto una donna in vita tua?» chiese lei.

Poi, senza togliergli gli occhi di dosso, scostò una sedia dal tavolo e si sedette accavallando le gambe. Quindi prese una bottiglia e riempì due bicchieri. Uno lo porse a Sennar, l’altro lo vuotò come fosse acqua. «Allora? Come ti chiami?»

Sennar rispose con un filo di voce. «E tu?»

«Te lo dirò alla fine di questa chiacchierata. Se mi andrà, naturalmente. Tira fuori la mappa.»

Sennar si frugò nelle tasche. Quella donna lo confondeva. Rovistò nervoso fra le sue cose, finché la mano di lei non gli sfiorò un fianco.

«Può essere che sia questo fogliaccio?» disse con voce suadente.

Lui abbassò lo sguardo. «Scusami, sono un po’ confuso. Sì, è questa.»

La donna gli sfilò la pergamena dalla tunica e le diede solo un’occhiata. Poi la ributtò sul tavolo. «Ne ho viste decine di mappe così. Non serve a niente.»

«Perché?» chiese Sennar, sulla difensiva.

«Cosa credi, ragazzo, di essere il primo che cerca di raggiungere il Mondo Sommerso?» lo canzonò lei. «Hai idea di quanti ci hanno provato prima di te? Di mappe ne circolano tante: vaghi scarabocchi, rotte tracciate con la mannaia. E tutti giurano che la loro è quella giusta. Chissà come mai, però, alla fine nessuno se la sente di partire. Quei pochi che l’hanno fatto ormai sono stati belli che digeriti dai pesci.»

Sennar trangugiò il suo Squalo, riprese la pergamena e si fece coraggio. «Invece ti dico che questa è la mappa che indica la rotta per raggiungere il Mondo Sommerso» disse. Si sforzò di guardarla in viso. Era bella da mozzare il fiato.


La donna gli scoccò un’occhiata sarcastica. «Ma certo! Lasciami indovinare: te l’ha venduta un mercante che ti ha assicurato di esserci andato almeno una volta all’anno per un paio di lustri.»

Sennar bevve un altro sorso di Squalo. «No, nessun mercante. Non so come ci sia arrivata, ma l’ho trovata sepolta nella Biblioteca Reale di Makrat. C’era una pergamena allegata, con il sigillo della Terra dell’Acqua. Un documento, insomma, che certificava che questa mappa è la copia di quella utilizzata per il tentativo di invasione da parte del Mondo Emerso.»

«E con questo? Per quel che ne sappiamo, quel tentativo potrebbe anche non esserci mai stato» ribatté lei con aria di sfida.

Sennar scosse la testa. «Sì che c’è stato. Ne sono sicuro. Subito dopo, un ambasciatore del Mondo Sommerso si presentò al Consiglio dei Re e intimò di non osare più avvicinarsi al loro regno, se non volevano attirare su di sé terribili catastrofi. È riportato in tutti gli annali storici che ho consultato, e sempre nello stesso modo. Se gli invasori sono arrivati fin là, significa che la mappa originale era giusta. Quindi questa, che ne è la copia, indica con esattezza l’ubicazione del Mondo Sommerso.» Aveva parlato tutto d’un fiato. Si riappoggiò allo schienale della sedia con aria soddisfatta.

La donna alzò gli occhi al cielo. «Ma cosa vuoi che indichi?» sbuffò. «È illeggibile.»

Sennar non si diede per vinto. «L’ho studiata a lungo. Dimmi che cosa non capisci.»

Lei accostò la sedia a quella di Sennar e si avvicinò tanto che le loro spalle si sfiorarono. Indicò alcuni punti sulla mappa. «Questi confini non assomigliano a nessuna costa che io conosca. Qui c’è una macchia indefinita. Queste isole non esistono. E poi, che cos’è questo sgorbio?»

Sennar era confuso. La vicinanza di quella donna lo distraeva e al solo contatto della sua spalla sentiva un brivido corrergli lungo la schiena. Allontanò un po’ la sedia. «La costa è quella occidentale della Terra del Mare, l’ho riconosciuta confrontandola con altre cartine. La macchia è un’isola sconosciuta, mentre l’arcipelago che vedi è quello di Ooren, le Isole Invernali. Quello che tu chiami “sgorbio” è l’ingresso del Mondo Sommerso.» Esitò. «È un gorgo, per la precisione.»

La donna scoppiò a ridere. «Tu sei pazzo! E io dovrei buttarmi in un gorgo con la mia nave?»

«No, tu devi solo portarmi nei dintorni e darmi una barca. Io andrò nel gorgo e tu te ne potrai tornare a casa con un milione di dinar in tasca» disse Sennar, poi inghiottì un ultimo sorso di Squalo.

La donna lo guardò. Negli occhi neri brillava un lampo di ironia. «Mi pagherai un milione di dinar per suicidarti, insomma. Originale. Impiccarti a un albero ti sembrava troppo facile?»

Sennar ripiegò la mappa e se la mise in tasca senza una parola. Ha ragione. È un suicidio.

«Toglimi una curiosità: perché lo fai?» chiese lei.

Sennar pensò che non fosse prudente dirle la verità. Si tenne sul vago. «Sono un mago. Ho una missione da compiere laggiù.»

La donna tacque per qualche istante. Poi si alzò dalla sedia e si appoggiò al tavolo. «Partiamo domani notte. La nave sarà ormeggiata nell’insenatura oltre questo promontorio.»

Anche Sennar si alzò, incredulo. È fatta! Le porse la mano. «Io mi chiamo Sennar. Ora mi puoi dire il tuo nome, non credi?»

Lei sorrise e lo guardò fisso negli occhi. «Il mio nome costa un milione di dinar.»

2 Pirati.

Non c’era luna quella sera. Era una notte perfetta per salpare in segreto. Mentre i suoi passi affondavano nella sabbia della spiaggia buia, Sennar sentì che all’ansia per la partenza si sommava un’altra sensazione: il desiderio di rivedere quegli straordinari occhi neri.

Per tutto il giorno non era riuscito a togliersi dalla mente la donna misteriosa. Quando la vide in lontananza, il suo cuore ebbe un sussulto. Dannazione, Sennar! Vuoi darti una calmata?

Lei lo aspettava davanti all’imboccatura della grotta. Lo illuminò in pieno volto con una lanterna, accecandolo. «Possiamo andare.»

Si incamminarono verso la caletta dove era ormeggiata la nave. Sennar al buio non riuscì a scorgere molto. Doveva essere un’imbarcazione veloce, perché la chiglia era lunga e affusolata, e fendeva appuntita l’acqua. La prua era decorata con qualcosa che non era facile distinguere, una figura umanoide dalla cui bocca sporgeva una chiostra di denti appuntiti.

«Sai nuotare, vero?» chiese la donna.

Sennar la guardò perplesso. «Nuotare?» Ma lei si era già tuffata in mare e avanzava a grandi bracciate verso l’imbarcazione.

Sennar rimase sulla riva, attonito. E va bene, se la metti così... Un istante dopo, sul mare si disegnò una via luminosa che congiungeva la spiaggia alla fiancata della nave.

Sennar ci camminò sopra con aria trionfante, fino a raggiungere la donna. «Fa freschino, stasera. Vuoi unirti a me?»

Lei gli indirizzò un sorriso sprezzante. «Ci vediamo a bordo.»


Sennar arrivò sulla nave a fatica. A un paio di braccia dalla fiancata, la passerella luminosa aveva iniziato a dare segni di cedimento e c’era voluta una notevole concentrazione per giungere a destinazione senza fare il bagno. A un profano forse non sarebbe sembrato, ma era una magia difficile e piuttosto impegnativa.

La donna era ferma sul ponte, avvolta in un mantello. Quando vide che Sennar aveva il fiatone, gli rivolse un sorriso sprezzante. Ma è mai possibile che l’abbia sempre vinta lei? Si chiese il mago con stizza.

Al suo fianco c’era un vecchio imponente, dall’aria fiera, i capelli grigi raccolti in una treccia e due occhi fiammeggianti.

«E così sei tu il matto» lo apostrofò.

Nel silenzio della notte risuonarono le risate di scherno dei componenti della ciurma. Sennar si guardò intorno. Era circondato da un colorito campionario di pendagli da forca. Si chiese se non sarebbe stato più al sicuro da solo, piuttosto che nelle mani di quella gente.

«Mia figlia Aires non mi aveva detto che eri un ragazzino.»

Sennar si schiarì la voce e tese la mano. «Piacere, capitano. Mi chiamo Sennar e...»

«Prima i soldi» tagliò corto il vecchio in tono minaccioso «poi i convenevoli.»

Sennar estrasse dalla bisaccia un voluminoso sacchetto. «Ci sono tutti, controllate pure.»

«Ci puoi giurare» sghignazzò il comandante, poi si diresse verso la cabina. «Ragazzi, tenetelo d’occhio.»

Sennar ne approfittò per esaminare la Demone Nero . Sembrava tenuta bene e dall’odore acre si capiva che era stata impeciata di recente. Il ponte era lungo e spazioso e il castello di poppa si armonizzava bene con la linea leggera dello scafo. Le tre vele erano rosse, un colore insolito. Sennar non riuscì a distinguere altro. I membri dell’equipaggio non erano molti e non avevano l’aspetto della gente della Terra del Mare. C’erano anche uno gnomo e un folletto. E un ragazzo biondo abbronzatissimo che, dopo averlo guardato con insistenza, gli si avvicinò. Sennar per un istante temette che volesse fargli male.

«Senti un po’, come l’hai fatto quel giochino sull’acqua, prima?»

Sennar tirò un sospiro di sollievo. «È un incantesimo. Sono un mago.»

«E cosa ci va a fare un mago nel Mondo Sommerso?» chiese un altro della ciurma, ma non ebbe il tempo di rispondere. Il capitano era tornato sul ponte.

«A quanto pare, i soldi di questo furfante ci sono tutti e sono buoni. Benvenuto sulla mia nave, ragazzino. Io sono Rool, il capitano, e per ora ti basti questo. Gli altri li conoscerai durante la traversata.»

Sennar iniziò a rilassarsi. «Dove posso mettere la mia roba?»

«C’è bisogno di chiederlo? Nella stiva, ovvio. Forza, ragazzi, si parte!» urlò Rool.

Aveva già dimenticato il suo passeggero, che restò imbambolato in mezzo al ponte, mentre i marinai si animavano e prendevano i propri posti.

Sennar fermò Aires agguantandola per un braccio. «Un milione di dinar e mi sbattete nella stiva?»

Aires afferrò la mano che la stringeva, torse il braccio di Sennar e glielo inchiodò dietro la schiena. «Questo non è un viaggio di piacere» gli sussurrò in un orecchio, poi lo lasciò andare. «I tuoi soldi pagano il nostro rischio, non il posto a bordo. Pensavi di dormire nella mia cabina?»

Sennar si massaggiò il polso dolorante.

Aires lo guardò beffarda. «Comunque non abbiamo cabine libere. L’unico posto è nella stiva. Se vuoi partire, ti conviene fare buon viso a cattivo gioco.»

Sennar le lanciò un’occhiata furente. Quel demonio di donna aveva ragione.


Non appena ebbe sceso le scale, Sennar sentì un fuggi fuggi di zampette sulle assi del pavimento. A quanto pareva, la classe economica era già abitata. Vide che in un angolo c’era un cassone con un giaciglio. Si sdraiò mesto su quel letto di fortuna, si coprì fino agli occhi con il lenzuolo e cercò di dormire.

Finalmente la nave si mosse. Sennar sentiva le onde che sbattevano ritmicamente sulle fiancate del veliero. Sperava che quel suono lo avrebbe aiutato a addormentarsi, ma si sbagliava. La nausea montò lentamente, finché non si sentì davvero male. Chiudere gli occhi non fece che peggiorare la situazione. C’erano momenti in cui gli sembrava di cadere all’indietro, altri in cui era certo di essere a testa in giù. Tra i topi e il mal di mare, fu una delle notti più brutte della sua vita.

Sennar non ci mise molto a capire che c’era ben altro da temere. Era chiaro che si trovava su una nave di pirati. Ora che avevano i suoi soldi, cosa impediva a quella gentaglia di tagliargli la gola e gettarlo a mare?

Prese a guardarsi alle spalle. Vedeva ovunque occhiate assassine e gli sembrava che ogni membro dell’equipaggio fosse sul punto di aggredirlo.

Finì per starsene chiuso nella stiva per la maggior parte del tempo, seppellito nei libri che aveva portato con sé e che credeva potessero essergli utili una volta arrivato nel Mondo Sommerso. Tra una lettura e l’altra, si concedeva il tempo di riflettere su ciò che aveva lasciato a terra. Pensava anche a Nihal. Fantasticava di tornare dalla missione, di rincontrarla, di trovarla cambiata. Rivedeva i suoi occhi, il suo sorriso. Poi scuoteva il capo e si sfiorava la cicatrice sulla guancia. Era stata Nihal a lasciargliela, in uno scatto d’ira, il giorno del loro ultimo incontro. Il suo regalo d’addio.


I timori di Sennar presero corpo una sera, nel peggiore dei modi.

Si era coricato presto, come sempre. Cenava insieme all’equipaggio, ma si defilava subito dopo e andava a letto che gli ultimi raggi di sole s’erano spenti da poco sul mare. Non si fidava dei suoi compagni di viaggio, perciò si costringeva a lunghi dormiveglia, finché dal ponte non giungevano più rumori. Quella sera però la nave scivolava placida su un mare liscio come l’olio e Sennar si era assopito prima del solito.

I passi furtivi lungo le scale si confusero con lo sciabordio dell’acqua. Gli scricchiolii del legno si persero tra lo zampettio dei topi.

Non vi fu alcun rumore quando il pugnale venne estratto.

La lama scintillò alla luce della lampada a olio.

Fu allora che Sennar si svegliò di soprassalto. Era abituato a dormire sui campi di battaglia e i suoi sensi erano diventati vigili. Vide solo un bagliore e un ghigno beffardo a un soffio dal suo volto. Scartò di lato e si buttò giù dal cassone. La lama fendette il cuscino.

Il pirata non riuscì a tentare un secondo assalto. All’improvviso il pugnale si fece incandescente tra le sue mani e lui fu costretto a lasciarlo cadere con un urlo.

Sennar era in piedi accanto alle scale. Aveva gli occhi chiusi e recitava una lenta litania.

«Che cosa diavolo...» Mormorò l’uomo tra i denti, ma non ebbe il tempo di finire la frase. Cadde a terra, muto e rigido come un’aringa affumicata e iniziò a roteare gli occhi terrorizzati.

Il mago dischiuse le palpebre, prese fiato, cercò di controllare il tremito alle mani. Aveva avuto paura, inutile negarlo, ma era anche furibondo. «Tutti qua!» urlò a pieni polmoni. «Tutti qua!»

Dal boccaporto spuntarono facce insonnolite. Aires scese le scale, a piedi nudi e fasciata in una lunga camicia bianca che lasciava poco all’immaginazione. Gettò un’occhiata al pirata steso a terra e quello ricambiò con uno sguardo supplice.

«Che cosa succede qui?» chiese minacciosa.

Sennar non si lasciò intimidire. «Nulla, a parte il fatto che mi avete sottovalutato.»

«Qualsiasi cosa tu gli abbia fatto, liberalo subito» sibilò la donna tra i denti.

«Con calma, Aires. Prima ci tengo a chiarire un paio di cose. Punto numero uno: se credevate di aver trovato un pollo da spennare, avete sbagliato i conti. Punto numero due» Sennar indicò il pirata immobilizzato «questo è ciò che capita a chi si mette in testa di farmi del male. E stasera sono stato clemente.»

Nella stiva scese il silenzio. Aires rimase al suo posto, con un’espressione indecifrabile. Poi le sue labbra si piegarono in un sorriso sardonico. «E bravo il nostro mago. Allora c’è dell’altro, sotto quel bel faccino.» Si avvicinò a Sennar e gli accostò la bocca all’orecchio. «Facciamo un patto. Io tengo a freno le intemperanze dei miei, ma tu toccane ancora uno e ti giuro che mi occuperò personalmente di fartene pentire.»

«Affare fatto» sussurrò il mago, sudando freddo.

Aires si voltò verso gli uomini affacciati al boccaporto. «Lo spettacolino è finito, gente. Torniamocene a dormire.» Quindi risalì con tutta calma in coperta e scomparve.

Rimasto solo nella stiva, Sennar tirò un sospiro di sollievo. Poi gli cadde l’occhio sul pirata a terra. Sbuffò, pronunciò una breve formula e sciolse l’incantesimo.

L’uomo imboccò le scale di corsa, senza voltarsi indietro.


Il giorno seguente, Sennar venne accolto sul ponte con sguardi a metà tra l’ammirazione e il timore. Lo “spettacolino”, come l’aveva chiamato Aires, aveva fatto effetto. Nessuno provò più a intrufolarsi nella stiva e il mago, seppur tenendosi in disparte, iniziò a godersi il viaggio.

La nave era bellissima, di un legno scuro che Sennar non conosceva e che la rendeva minacciosa e maestosa al tempo stesso. Il suo colore metteva in risalto le vele sanguigne che garrivano al vento. La chiglia affusolata non misurava più di una trentina di braccia da poppa a prua e la murata non era molto alta. Era un’imbarcazione fatta per volare sui flutti e ghermire le prede, rapida e imprendibile. Esclusi il capitano e la bella Aires, i marinai erano circa una ventina.

La figura che aveva scorto sulla prua la notte della partenza era un demone: il busto partiva dal legno della nave e vi si fondeva come se emergesse dalla chiglia stessa. Sul petto scolpito si innestava un collo taurino, che sosteneva una testa mostruosa; al posto dei capelli aveva lunghi serpenti ritorti e le fauci spalancate mostravano denti simili ad aculei. Quando il veliero filava sulle onde, sembrava che la polena si facesse beffe dell’oceano, irridendolo con il suo sorriso mostruoso. Sennar non capiva molto di imbarcazioni, ma trovava che quella nave fosse magnifica.

Ogni mattina, il mago vedeva il capitano ritto a prua, a godere della brezza e a contemplare la sua creatura che scivolava sull’acqua come una piuma. Era affascinato da quell’uomo. Tutta la ciurma aveva qualcosa che lo attirava.


Il primo con cui fece amicizia fu il ragazzo biondo. Si chiamava Dodi, era il mozzo di bordo. Aveva quindici anni e si era imbarcato quando ne aveva dieci. Era figlio illegittimo di uno della ciurma; il padre non aveva voluto saperne di lui, ma alla morte della madre aveva deciso di portarlo con sé.

Visto che Sennar non riusciva ad abituarsi al movimento della nave e continuava a soffrire di mal di mare, Dodi si era eletto a suo guaritore. «Anch’io stavo così, all’inizio. Ma non ti preoccupare: una bella aringa sotto sale e ti passa tutto.»

Il mago però si dimostrò refrattario a ogni tipo di rimedio. Gallette del marinaio, pane raffermo, acciughe, carne essiccata: niente sembrava placare la nausea.

Una sera Dodi gettò la spugna. «Per gli dèi dell’oceano! Con te è proprio tutto inutile. Insomma, se sei un mago, perché non ti curi da solo?»

Sennar spostò la testa giusto quel tanto da guardarlo di sbieco. Di più il mal di mare non gli permetteva. «Credi che se potessi non lo farei?»

Dodi strabuzzò gli occhi. «Fammi capire, un mago non sa risolvere un problema così semplice?»

Suo malgrado, Sennar fu costretto a proseguire la conversazione. «Non è che non ne sia capace. È un po’ più complicato. Compiere magie fa perdere parecchie energie.» Sennar trattene un conato e maledisse tra sé tutte le onde dell’oceano, a una a una. «Se fai un incantesimo quando stai bene e sei riposato, il peggio che può succederti è di stancarti. Un po’ come dopo una corsa, hai presente?»

«O dopo aver lavato da cima a fondo il ponte» ridacchiò il mozzo.

«Esatto.» Sennar sorrise e fece un’altra pausa, per cercare di calmare i sussulti dello stomaco. «Ma se stai male, una magia ti fa solo stare peggio. Al massimo puoi cercare di accelerare la guarigione di una ferita mezzo rimarginata, ma di più non è possibile. Insomma, come mago al momento sono fuori combattimento.»

«Me li immaginavo più robusti, i maghi.»

Sennar scosse la testa. «Ma scusa, i guerrieri non si stancano forse a combattere? E i maghi si stancano a fare magie. E poi dipende dagli incantesimi. La levitazione è molto faticosa, ma potrei tenere acceso un fuocherello tutta la notte e al mattino avere solo un po’ di affanno. Ovviamente, più il mago è bravo e potente, meno le sue energie si esauriscono, ma tutti abbiamo dei limiti. Le magie impegnative richiedono enormi sforzi anche ai maghi più...» Sennar si interruppe di colpo e chiuse gli occhi. Un’altra parola e avrebbe vomitato quel poco che aveva mangiato.

«Mago... ci sei?» chiese Dodi.

«Sì, sì. Va tutto bene.»

«Ma per il resto» insistette il ragazzino «a parte la stanchezza, fate quel che vi pare, no?»

«Non proprio. Conosci la differenza tra la magia del Consiglio e quella del Tiranno?»

Dodi fece cenno di no.

«La magia del Consiglio, che è l’unica permessa, si basa sulla capacità di piegare la natura al proprio volere. Per questo i maghi sono sapienti: devono conoscere le leggi del mondo per poterle assecondare e guidarle con i propri incantesimi. Un mago non sovverte la natura, la indirizza verso i propri fini. È un’arte complessa.»

«Cos’è che non puoi fare, per esempio?» domandò Dodi, interessato.

Sennar rifletté. Il mal di mare gli annebbiava anche il cervello. «Non posso creare le cose dal nulla, né modificare l’essenza di una creatura, tipo trasformare un maiale in un uccello. Al massimo posso trasfigurarlo, fargli assumere solo l’aspetto di un uccello. Non posso forzare gli elementi: niente pioggia quando c’è siccità o sole estivo in pieno inverno. Però posso prolungare la pioggia per un certo periodo di tempo, rafforzare l’intensità del vento e così via.»

«E quello che hai paralizzato l’altro giorno? Non mi sembra tanto una cosa naturale...»

«Ha cercato di aggredirmi e ho rivolto contro di lui la sua violenza. Niente di più.»

Dodi aveva un’espressione assorta. «È complicato.»

«Infatti non tutti sono maghi» chiosò Sennar. «E poi, la cosa più importante:

Non posso uccidere con la magia. Togliere la vita è il sovvertimento massimo della natura. Tanto è vero che molte Formule Oscure del Tiranno si basano su quello. Ecco perché sono proibite.»

«Spiegati meglio. Questo sì che mi interessa» disse Dodi.

Sennar gli rivolse uno sguardo serio. «Non dovrebbe, invece. La magia del Tiranno ha come unico scopo lo stravolgimento delle leggi naturali. Prendi i fammin. Sono creature nate dall’unione di più specie diverse, forzate insieme da un incantesimo proibito: esseri sanguinari dediti solo alla morte. Le formule proibite portano sempre con sé morte e distruzione, non si viola impunemente l’ordine delle cose. Inoltre, il mago che le pronuncia, incantesimo dopo incantesimo, corrompe il proprio spirito e porta il male nel mondo.»

Dodi sembrava colpito. «Ma tu come fai a sapere tutte queste cose?» chiese dopo un po’. «Sì, insomma, il Consiglio, il Tiranno... cosa c’entrano con te?»

«Niente, non c’entrano niente. Ho studiato, tutto qui» tagliò corto Sennar.

Il mozzo rimase in silenzio per qualche istante. «Comunque, mi devi cinque dinar, mago.»

«Cinque dinar? E perché?»

Dodi sfoggiò un sorriso smagliante. «Perché a furia di farti parlare, ti è passato il mal di mare!»

Sennar scoppiò a ridere e gli mollò uno scappellotto.


Dodi era un gran chiacchierone e a Sennar piaceva ascoltare; in breve tempo conobbe la storia di ogni pirata dell’equipaggio. Alcuni si erano imbarcati per sfuggire a una condanna a morte, altri per spirito di avventura, altri ancora perché avevano perso tutti i soldi al gioco. Su quella nave c’era un mondo di storie e di aneddoti.

A Sennar interessava soprattutto il capitano. Intorno a lui e al suo passato c’era un alone di mistero. Dodi riportò versioni contraddittorie e tinte di leggenda: c’era chi sosteneva che fosse nato in mare e che solcasse l’oceano da sempre, chi raccontava che si era imbarcato per una delusione d’amore, chi giurava che aveva abbandonato la terraferma perché nauseato dai suoi simili.

L’unica che avrebbe potuto dirgli la verità era Aires, ma quella donna era ancor meno avvicinabile del padre. La mattina si aggirava sul ponte coperta solo da una vestaglia leggera, da cui a ogni passo scivolavano fuori le lunghe gambe. Quando si imbatteva nel mago, gli rivolgeva uno dei suoi sorrisi, maliziosi e ironici al tempo stesso, e lui non capiva più nulla. Non aveva mai conosciuto una donna come lei: era l’incarnazione della sensualità, eppure era forte come un uomo. Per certi versi gli ricordava Nihal. Ma se Nihal era ancora un frutto acerbo, Aires era matura e sicura di sé.


Per molti giorni navigarono in vista della costa. Sennar non ne capiva il motivo, ma evitò di fare domande.

Una mattina, però, mentre usciva dalla stiva, notò una certa agitazione a bordo. Non fece in tempo a chiedersi che cosa significasse quel trambusto, che vide Aires avanzare in una sorta di alta uniforme: giubba di velluto amaranto, stivali calzati su pantaloni attillati e cinturone borchiato da cui pendeva una spada.

Quando gli fu vicina, gli diede un buffetto sul viso. «Pronto per il rifornimento?» chiese con il solito sorriso.

Il mago arrossì, ma tentò di darsi un contegno. «Certo. Anzi, ti dirò, sentivo la mancanza della terraferma.»

Aires scoppiò a ridere. «Terraferma! Questa sì che è buona» disse, poi si allontanò.


Il vascello da assalire era stato individuato all’alba, ma era probabile che la navigazione sottocosta degli ultimi giorni fosse servita proprio a intercettarlo. Dopo l’avvistamento, la nave pirata aveva virato bruscamente verso il mare aperto, in modo da poter prendere la preda alle spalle, confidando nella velocità dell’attacco e nella sorpresa.

A Sennar tutta quella storia non piaceva neanche un po’. Era reduce dai campi di battaglia e di guerre ne aveva fin sopra i capelli, ma soprattutto era preoccupato: che cosa sarebbe successo se qualcuno dell’equipaggio del vascello lo avesse riconosciuto come membro del Consiglio dei Maghi? Scese nella stiva e si immerse nei libri, cercando di non pensare a quel che stava per accadere.

La sua pace non durò molto. La nave invertì rotta all’improvviso e Sennar fu sbalzato giù dal sacco sul quale si era sistemato. L’attacco era iniziato. Sentì i passi dei pirati tempestare il ponte, poi grida d’eccitazione e clangore d’armi. Si tappò le orecchie. Non mi riguarda , si ripeté, non devo entrarci, ma non riuscì a resistere a lungo. Non poteva permettere che i pirati assaltassero una nave sotto i suoi occhi. Era un consigliere, dopotutto.


La nave pirata scivolava sui flutti, le vele rosse spiegate, e divorava un miglio marino dopo l’altro. Rool dominava la scena dalla prua.

Quando vide Sennar precipitarsi sul ponte, lo accolse con una violenta pacca sulla spalla. «Bene, sono arrivati i rinforzi» sghignazzò.

«Devo parlarvi, capitano» disse Sennar con decisione.

«Magari in un altro momento, eh?»

Sennar mantenne la calma. «Vi chiedo di invertire la rotta. Immediatamente.»

«È fuori discussione» disse Rool senza scomporsi.

Il mago insistette. «Non voglio spargimenti di sangue finché sono a bordo.»

«Avete sentito? Non vuole spargimenti di sangue!» urlò Rool alla ciurma. Poi fissò Sennar con occhi gelidi. «Se sei debole di stomaco, tornatene in cabina.»

«Capitano, ve lo chiedo per l’ultima...»

Non fece in tempo a finire la frase. Aires lo agguantò per la tunica e lo costrinse a sporgersi oltre la murata. Sennar vide il mare scorrere rapido sotto la chiglia, mentre il legno si librava sulle onde come un gabbiano.

«Ascoltami bene, ragazzino. Abbiamo bisogno di provviste. Con la cambusa vuota non si va da nessuna parte. Ti è più chiara la situazione, adesso?»

Cielo e acqua si confusero nella corsa. All’improvviso il vascello fu vicinissimo.

«Ognuno ai propri posti!» ordinò Rool. «Pronti all’arrembaggio!»


Quando i rostri trafissero la preda, Sennar cadde in avanti. Il contraccolpo lo spinse indietro e lo fece crollare di schiena sul ponte. Si rialzò in tempo per vedere Aires che avanzava rapida con la spada sguainata e incitava gli altri ad andarle dietro.

Il mago seguì la sua corsa con lo sguardo e rimase abbagliato dal luccicare delle spade levate al sole. Poi gli apparve la ciurma dell’altro vascello: tutti uomini, tutti armati.

Per un istante fu come se il tempo si fosse fermato. Ghigni truci da un lato e dall’altro, spade strette in pugno, muscoli pronti allo scatto. Infine, all’improvviso, un fracasso assordante; urla, clangore di armi e lo scintillio di decine di lame che si incrociavano.

Sennar restò inchiodato al suo posto. Quello non era un semplice arrembaggio, era un regolamento di conti tra pirati. Avevano attaccato un’altra nave di bucanieri.

Nel giro di pochi minuti, il ponte fu viscido per il sangue, molti corpi caddero a terra e altri furono scaraventati fuori dalla murata.

Sennar ebbe un moto di disgusto e decise che aveva visto fin troppo. Riprese con rabbia la via della stiva e si andò a rincantucciare in un angolo, al riparo dalla battaglia. Sono tagliagole che regolano i loro conti, non ti riguarda , si ripeteva. Ma dall’alto continuavano ad arrivare urla, gemiti e i lugubri tonfi dei corpi che cadevano a terra. Sennar si premette le mani sulle orecchie.

Lo scontro non durò più di mezz’ora.

Quando i passi sul ponte si fecero meno frenetici e le grida si spensero del tutto, Sennar, ancora adirato, si azzardò a risalire.

Solo un paio di uomini della ciurma erano feriti gravemente e, se non fosse stato per le macchie di sangue sull’impiantito, non si sarebbe detto che si era appena concluso un duro combattimento. Evidentemente i corpi dei caduti giacevano già tutti sul fondo dell’oceano.

Sotto gli occhi soddisfatti di Aires, alcuni pirati portavano a spalla pesanti bauli, orci e barili, che scaricavano sul ponte.

Quando anche l’ultima cassa fu caricata e furono pronti a partire, la donna si avvicinò a Sennar. «Impressionato?»

Il mago non rispose.

Lei ridacchiò. «Come immaginavo. Non avevi mai visto ammazzare nessuno, vero, bel bimbo?»

Sennar sentì il sangue corrergli al viso. «Di morti ne ho visti fin troppi, credimi» rispose con voce dura.

Aires alzò le spalle, poi si voltò verso i suoi. «È a bordo il pezzo forte?»

Si fecero avanti due uomini, che ne portavano a braccia un terzo; non si reggeva in piedi e la barba e i capelli lunghi gli coprivano il volto.

Aires gli si avvicinò e sorrise. «Ben ritrovato, amore mio.»

Quando lo baciò, l’intera ciurma levò un grido di trionfo.

3 Un prodigio.

Nihal e Ido erano nell’arena, come quasi sempre di mattina presto. Costituivano uno spettacolo quanto meno insolito per la base in cui vivevano: lei, aspirante Cavaliere di Drago, era l’unica donna dell’accampamento, anzi, di tutto l’esercito delle Terre Libere, lui, il suo maestro, l’unico gnomo che fosse mai riuscito a diventare Cavaliere di Drago. Per questo parecchia gente assisteva ai loro scontri mattutini. Del resto, guardarli era un piacere. Fraseggiavano con le lame, intrecciavano duelli che sembravano danze, si battevano ritmi forsennati. Bisognava poi ammettere che Nihal era un bel guardare, nonostante fosse un guerriero decisamente truce e nascondesse le sue forme sotto panni militari: lunghe gambe affusolate, un addome scolpito da anni di addestramento, un seno florido e ben disegnato. Per non parlare dei suoi esotici capelli blu o dei profondi occhi viola, tipici della sua stirpe. In molti ne erano attratti, ma era una preda del tutto fuori portata: Nihal era assai poco socievole e per nulla interessata alle questioni sentimentali.

Quella mattina il pubblico era piuttosto scarso, forse perché l’aria era davvero gelida, forse perché minacciava pioggia. Nihal e Ido non si facevano scoraggiare da così poco; come al solito si battevano senza sosta, e il soldato dovette chiamarli più volte prima che si decidessero finalmente a calare le spade.

«Siete attesi entrambi da Nelgar, ora.»

Nihal si recò nel suo alloggio stupita. Non le capitava spesso di avere a che fare con il responsabile della base in persona. Non che fosse il tipo che incutesse timori reverenziali. Bassetto e piuttosto robusto, aveva più l’aria di un pacifico oste che del comandante di una delle più grandi basi delle Terre libere. Non era neppure uno di quelli fissati coi gradi e la disciplina a tutti i costi, eppure sapeva come farsi obbedire, e dai suoi era ammirato e rispettato.

Nihal entrò nella tenda di Nelgar timidamente, Ido si andò subito a stravaccare senza problemi sulla sedia più vicina.

«Siediti pure» le disse Nelgar in tono cortese. «Ti ho chiamata perché ho una missione da affidarti.»

Il cuore di Nihal ebbe un sobbalzo. Non le era mai stato assegnato un compito. Fino a quel giorno aveva sempre agito insieme a Ido.

«Si tratta di portare un messaggio al di là del confine, in un campo nella Terra del Mare. Ci servono rinforzi per un attacco. Porterai la nostra richiesta e tornerai con la loro risposta.»

Tutto qua? Nihal fu delusa.

Nelgar le spiegò i particolari e le diede una mappa per orientarsi nella foresta. «Partirai domani. Puoi andare.»

Nihal si congedò con un inchino, seguita da Ido.

«Cos’è, sono stata retrocessa? Da aspirante Cavaliere a semplice attendente?» chiese imbronciata al suo maestro. «Mi pare che per un lavoro del genere gli scudieri non manchino.»

«Ti ho proposta io» rispose calmo Ido.

«Grazie tante. Non vedevo l’ora di farmi quattro passi nei boschi.»

«Non prenderla alla leggera. È ora che inizi a muoverti da sola. L’addestramento procede bene, entro l’anno potresti essere Cavaliere.»

Nihal si voltò di scatto. Le brillavano gli occhi.

Ido non si scompose. «Finora sei stata appiccicata a me come un pulcino alla chioccia, stavolta invece dovrai contare solo sulle tue forze. La missione in sé non è complicata, ma ti muoverai lungo confini che non sono affatto sicuri. Sarà un buon allenamento.»

Nihal aveva sempre combattuto sul campo, non aveva mai avuto a che fare con la guerriglia. Alla peggio, si disse, sarebbe stata un’esperienza nuova.

«E poi sono mesi che te ne stai rintanata nella Terra del Sole. Un po’ d’aria di mare ti farà bene» concluse lo gnomo.

«Aria di mare? Ma l’accampamento è all’interno.»

«Vedrai...» Ido sorrise. «Vedrai.»


Nihal lasciò la base alle prime luci dell’alba. Niente Oarf per quel viaggio, la missione richiedeva un certo grado di segretezza e un drago non passava certo inosservato. Così montò a cavallo e partì con scarso entusiasmo.

C’era stato un tempo, prima che Salazar venisse distrutta, in cui viaggiare le piaceva. Ricordava con quanta eccitazione, da bambina, accompagnava Livon dai fornitori. E come le era piaciuto galoppare con Soana e Sennar verso la Terra dell’Acqua, dove il suo amico aveva ricevuto l’investitura a mago. Era stata la prima volta che Nihal aveva lasciato la Terra del Vento e il tragitto le era sembrato pieno di meraviglie. Le pareva che fossero trascorsi secoli, da allora.

Se almeno ci fosse stato Sennar. Era bello bivaccare con lui accanto al fuoco, guardare le stelle e parlare di tutto e di niente. Chissà dov’è, ora.

Forse anche con Ido sarebbe stato piacevole viaggiare. Così invece si sentiva indifesa contro i fantasmi del passato. Si allontanò dalla base di pessimo umore.


La Terra del Sole e la Terra del Mare condividevano un unico grande bosco, il più esteso di tutto il Mondo Emerso: la Foresta Interna.

Quando Nihal passò il confine, dopo due giorni di viaggio, il paesaggio restò identico. La foresta continuava a essere fitta e intricata, ma l’odore di salsedine arrivava fin lì.

Nihal non aveva mai visto il mare. Quel profumo le fece venire voglia di spingersi fino alla costa. Le tornarono in mente i racconti di Sennar sulla sua Terra. Il Piccolo Mare poco distante dal confine con la Terra dell’Acqua. Il Faro di Dessa, ultima propaggine del Mondo Emerso. La vastità dell’oceano. E forse, ancora più lontano, il Mondo Sommerso. Provò una fitta di nostalgia.


Durante il tragitto, soprattutto di notte, non era tranquilla. Il confine con la Grande Terra, regno incontrastato del Tiranno, era vicino e i boschi pullulavano di spie. Si trattava più che altro di uomini, perché i fammin non erano certo adatti a lavori tanto delicati. Quelli erano piuttosto inclini a massacrare: lunghi arti potenti ottimi per stritolare, mani e piedi corazzati di artigli affilati per ghermire la vittima, grugni truci con bocche fitte di denti buoni solo a straziare le carni. Massicci e del tutto ricoperti da un disgustoso vello rossiccio e riccioluto, sapevano solo incutere orrore.

Il Tiranno mandava piuttosto uomini e gnomi a controllare i confini con la Grande Terra, a cercare di carpire eventuali strategie di avvicinamento da parte dell’esercito delle Terre libere e a uccidere chiunque si inoltrasse nei suoi territori. Nihal non li vide, ma più di una volta ebbe la sensazione dei loro occhi vigili incollati addosso. Il viaggio, tuttavia, fu breve e solitario. In quattro giorni Nihal giunse a destinazione.

Le guardie si meravigliarono di veder arrivare una donna con i capelli blu e le orecchie a punta, vestita da soldato.

«Sono un apprendista Cavaliere» si presentò Nihal. Arrossì. «Devo consegnare un messaggio al sovrintendente.»

L’accampamento assomigliava alla sua base: un’ampia cittadella fortificata che ospitava non solo guerrieri, ma anche donne e bambini. Lì però le cose sembravano andare meglio che alla Terra del Sole. La Terra del Mare aveva confini sicuri ed era esposta a possibili attacchi solo verso sud, dove incombeva la Grande Terra. La figura oscura della Rocca del Tiranno si ergeva ostile al di sopra degli alberi, grande come Nihal non l’aveva mai vista.

A parte quella tenebrosa minaccia, nell’accampamento si respirava un’atmosfera serena e i vettovagliamenti non mancavano. Il pranzo fu lauto e gustoso. Nihal mangiò nella mensa comune, dove i bambini scorrazzavano allegri e gli uomini scherzavano con le proprie donne. Sembrava quasi di essere in pace. Nihal sorrise tra sé, mentre tagliava un pezzo di carne. Quando alzò lo sguardo dal piatto, la forchetta le si fermò a mezz’aria.


Parsel era stato il suo primo maestro di spada all’Accademia e, in un certo senso, il suo unico amico per mesi. Il loro era stato un legame particolare, fatto di poche parole e lunghi combattimenti.

Nihal era contenta di rivederlo e lui la abbracciò come avrebbe fatto con un vecchio commilitone. Era un uomo alto e massiccio, dalla carnagione scura, con gli occhi di una strana sfumatura grigioverde. I capelli neri e cortissimi iniziavano a imbiancarsi sulle tempie.

«Che cosa ci fai qua?» chiese Nihal.

«Una licenza. Prima di diventare maestro dell’Accademia, quando ancora combattevo, vivevo qui. Faccio un salto da queste parti appena posso.» Parsel le strizzò l’occhio. «Tanto per non dimenticare l’odore del campo di battaglia. E tu? Ti vedo in forma.»

«Me la cavo» si schermì lei.

«Bisogna festeggiare questo incontro. Che ne dici di un duello, come ai vecchi tempi?»

La ragazza non se lo fece ripetere due volte.


Per Nihal, quel tuffo nel passato fu inaspettatamente piacevole. Non aveva dimenticato la tristezza e la solitudine dell’anno trascorso all’Accademia, ma anche lì le era capitato qualcosa di buono. Parsel glielo ricordava a ogni affondo. Fu tutto come un tempo, tranne l’abilità del mezzelfo. In pochi assalti, Nihal riuscì a imporsi senza fatica.

«Sei diventata brava» disse Parsel, mentre si tergeva la fronte.

«È anche merito tuo.»

Trascorsero insieme il resto della giornata. Parsel le raccontò dei suoi nuovi allievi e Nihal sentì una punta di nostalgia. Il tempo cambia il volto delle cose, anche dei ricordi.

«Indovina chi ho visto di recente?» disse all’improvviso Parsel. «Quel tuo compagno d’Accademia, il biondino... Laio, ecco come si chiama.»

Una ridda di ricordi assalì Nihal a sorpresa. Laio, il ragazzo gracilino con la faccia da bambino, l’allievo più debole dell’Accademia. Erano stati molto insieme, e lui, che l’adorava come si fa con gli eroi, era stato il suo unico vero amico in quei giorni di solitudine. Laio...

Nihal si fece più attenta. «Davvero?»

«Sì. Vive qui, nella foresta. Mi ha detto che ha abbandonato l’idea di diventare guerriero. Non mi è sembrato che stesse molto bene.»

Nihal cercò di farsi raccontare tutto il possibile. Parsel non sapeva granché, ma le spiegò dove l’aveva incontrato.

Quella sera, nella tenda che le avevano assegnato, Nihal non riuscì a prendere sonno. Non aveva notizie di Laio dalla notte della sua prima battaglia. Dalla morte di Fen. Da un’eternità. All’improvviso, ebbe una gran voglia di rivederlo.

L’indomani mattina le diedero la risposta che aspettavano alla base. Avrebbero partecipato all’attacco con un contributo di trecento uomini. Quando Nihal si apprestò a ripartire, il sovrintendente la mise in guardia. «Sappiamo di movimenti di truppe lungo il confine. Stai attenta.»

Nihal non diede peso a quelle parole. Fino a quel momento era stato un viaggio anche troppo tranquillo per i suoi gusti.


Lungo la via del ritorno seguì le indicazioni di Parsel e deviò verso nord. Il cambiamento di tragitto la portò a inoltrarsi per un buon tratto nella Foresta Interna. Nihal aveva sempre amato i boschi. Il ricordo della sua iniziazione alla magia era ancora vivo e da allora le piaceva stare a contatto con la natura.

Con il calare della sera, il tempo peggiorò. Nihal udì il brontolio cupo dei tuoni in avvicinamento e il cielo fu squarciato dalla luce improvvisa di un lampo. Fu allora che vide in lontananza la sagoma di una casupola. Corrispondeva perfettamente alla descrizione che le aveva fatto Parsel: una casa semidiroccata, con il tetto di paglia e i muri anneriti dal fumo. Nihal però non immaginava che il posto dove viveva Laio fosse così malmesso. Il tetto era sfondato in più punti e parte della paglia era caduta a terra, dove si imputridiva; le finestre erano orbite vuote, illuminate in modo sinistro da un vago chiarore. Dentro doveva esserci qualcuno.

Nihal scese da cavallo e si avvicinò alla costruzione con prudenza. Era pur sempre vicina al confine e non aveva la certezza che quella fosse davvero la casa di Laio.

Si accostò furtiva alla parete e sguainò piano la spada. In alcuni punti le pietre del muro erano sconnesse e Nihal gettò un rapido sguardo all’interno. Scorse il bagliore di un fuoco e qualcuno seduto di spalle. Riuscì a intravederne solo la testa, bionda e ricciuta. Ebbe un tuffo al cuore. Si avvicinò alla porta e bussò.

«Chi è là?» urlò una voce acuta dall’interno.

«Sono io, Nihal» rispose lei, mentre socchiudeva l’uscio.

Rannicchiato contro una parete c’era un ragazzo dall’aria stanca e malata, con una spada mezzo arrugginita tra le mani tremanti. Nihal riconobbe gli innocenti occhi grigi e i riccioli biondi, ma le guance, che ricordava paffute e rosee, erano smagrite e sporche di fuliggine. Indossava una casacca marrone che doveva aver visto giorni migliori e brache stinte e coperte di polvere. Laio la guardò per un istante, incredulo, poi lasciò cadere la spada e le corse incontro.


Fuori si era scatenata la tempesta.

Si trovavano nell’unica stanza dove il tetto era ancora intero, ma goccioloni di pioggia cadevano qua e là sul pavimento. Il fuoco scoppiettava gagliardo. Nihal tirò fuori un po’ di provviste e, tra le sue e quelle di Laio, prepararono una cena abbondante.

Nihal raccontò al ragazzo tutto ciò che le era accaduto in quei mesi. Parlò senza troppe remore del comportamento avventato che aveva tenuto fin da quando era arrivata da Ido per essere addestrata, di come aveva messo a repentaglio la sua vita pur di fare di testa sua. Si dilungò con una certa nostalgia a rievocare i giorni passati con la contadina Eleusi e con suo figlio Jona, i giorni in cui si era illusa di poter fare una vita normale, lontana dai campi di battaglia.

«Accipicchia» commentò il ragazzo.

Nihal sorrise. «Già. La vita a volte ti stupisce.» Addentò un pezzo di carne arrostita. «E tu, che cosa ci fai qui?»

Laio abbassò gli occhi. Nella stanza scese un silenzio imbarazzato. Si sentivano solo il rombo dei tuoni e lo scoppiettio della legna.

«Che c’è? Hai perso la lingua?» insistette Nihal.

Il ragazzo tacque a lungo, poi prese un respiro profondo e si decise a parlare.

Subito dopo avere fallito la prova di iniziazione all’addestramento a Cavaliere di Drago, durante la battaglia di Therorn, aveva lasciato l’Accademia con l’intenzione di tornare da suo padre, determinato a dirgli che non ne voleva sapere di combattere e che aveva deciso di diventare uno scudiero. Era partito baldanzoso, pieno di coraggio, ma nel corso del viaggio tutta la sua sicurezza era venuta meno.

«Nella mia famiglia gli uomini sono sempre stati Cavalieri. Tutti, capisci? E tutti valorosi. Mio padre aveva progettato per me un futuro da eroe prima ancora che nascessi. Come potevo dirgli che avevo fallito la prova più semplice, quella della prima battaglia? Che la spada non faceva per me, che non volevo sentir parlare di soldati e di morte? Mi sembrava già di vederlo, di sentire le sue urla. Non avrebbe mai accettato la mia scelta.» Laio guardò Nihal di sottecchi. «Ho avuto paura di lui. Ho avuto paura che, con il potere che ha nell’Ordine, avrebbe costretto Raven a riprendermi all’Accademia.»

Raccontò che, a metà strada, aveva deciso di deviare il cammino. Non sapeva dove andare, né cosa fare per vivere. Quando i soldi per tornare a casa erano finiti, si era improvvisato menestrello.

«Canto bene, sai? Conosco un sacco di storie e di canzoni. E poi, non so, forse ispiro tenerezza alla gente. Comunque, guadagnavo abbastanza.»

Nihal lo squadrò. No, non era vero che guadagnava abbastanza. Era magro e lacero come un mendicante.

E, in effetti, Laio confessò che alla fine aveva scelto di rifugiarsi nei boschi. Aveva intenzione di fare la vita del ramingo e di vivere a contatto con la natura, lontano dalla guerra e dagli uomini. Se la cavava raccogliendo i frutti dagli alberi e scavando radici commestibili. Ogni tanto andava a pescare, con scarsi risultati.

«Qualche volta ce l’ho fatta, però. Erano pesci piccoli, ma gustosi» disse con un sorriso imbarazzato.

I primi tempi aveva dormito all’aperto, sotto gli alberi, ma presto si era reso conto di non poter continuare in quel modo. Si era messo alla ricerca di un capanno da caccia, di una grotta o una tana abbandonata. Invece aveva trovato quella bella casupola.

«Qui sono al sicuro, nessuno mi verrà a cercare. E poi ho con me la spada» aggiunse. «Quando mi sarò stufato di mangiare radici, metterò a frutto i due anni all’Accademia e mi darò alla caccia.»

«Non si caccia con la spada» osservò Nihal.

Laio arrossì. «Magari uno di questi giorni troverò un arco. La guerra non è lontana.»

Nihal scosse la testa. «E ora che farai?»

«Starò qui per un po’, credo.» Laio non aveva il coraggio di guardarla. «Sono cresciuto in questi mesi, sai? Ho visto tante cose. So che posso cavarmela» concluse poco convinto.

«E sarebbe questa la tua massima aspirazione?» chiese Nihal seria. «Startene rintanato nel bosco a vita?»

«Non lo so» sussurrò lui.

«Ma ti sei guardato?» sbottò Nihal. «Sei magro, stanco e sporco. È questa la vita che volevi?»

Gli occhi di Laio si riempirono di lacrime. «No che non è questa.»

«Scappare non serve a niente, Laio» mormorò Nihal. «I tuoi problemi ti seguiranno anche in capo al mondo.»

Nella stanza scese il silenzio. La tempesta sembrava essersi calmata. Non si sentivano più i tuoni, solo la pioggia battente che risuonava sui muri e sul tetto.

Nihal guardò il fuoco. «Perché non vieni con me?» disse.

Laio la fissò, incredulo. «Con te?»

«Sì. La base è un bel posto. E poi, non dicevi di voler fare lo scudiero? Là potresti imparare il mestiere, renderti utile.»

Laio scosse la testa.

«Non sarà per sempre» continuò Nihal. «Il tempo di rimetterti in sesto, di capire cosa vuoi. Insomma, non ti va di stare un po’ con me? Come ai vecchi tempi?»

Laio sorrise. «Fammici pensare.»


Stesa su un po’ di paglia ammassata alla buona, Nihal si svegliò di colpo. Scostò rapida il mantello che la copriva e la sua mano corse alla spada. Pioveva ancora. Insieme al rumore delle gocce sulle pareti udì il suono di passi nel fango. Sembrava che qualcuno si stesse appostando intorno alla casa. Nihal rimase immobile, i sensi tesi, per cercare di capire quanti fossero. Si alzò in silenzio, si avvicinò all’amico e gli scosse una spalla.

«Che ora è?» borbottò Laio, con la voce impastata dal sonno.

Nihal gli fece segno di parlare più piano. «Prendi la spada e mettiti alle mie spalle» sussurrò.

Il ragazzo si svegliò di colpo. «Che cosa succede?»

«Ci attaccano. Siamo circondati» sussurrò Nihal. Si accostò alla porta e si mise in ascolto. «Appena abbiamo via libera, scappiamo. Chiaro?»

Laio annuì.

Ora i passi erano più vicini. Due persone, subito fuori dalla casa. Gli altri dovevano essere almeno una quindicina, ma Nihal non riusciva a capire dove si trovassero. Sono tanti, maledizione. Troppi.

La porta venne sfondata all’improvviso.

Laio urlò, ma Nihal non si lasciò prendere alla sprovvista. Sbatté a terra il primo nemico, un grassone grosso quanto una montagna e armato di una corta daga, non appena ebbe varcato la soglia e lo trafisse senza dargli il tempo di fiatare. Un istante dopo, un tizio truce e nerboruto, del tutto calvo, brandì una scure davanti a lei. Gli altri erano sul retro. Sentiva i loro grugniti concitati. Fammin.

«Fatti sotto, bambina» ringhiò l’uomo con la scure.

Nihal si gettò avanti e lo spinse con violenza. «Scappa!» urlò a Laio.

L’uomo cadde a terra ma si rialzò subito imprecando. Nihal, però, fu più veloce. Con un fendente gli mozzò la mano e lo lasciò a urlare sulla soglia della casa diroccata.

Laio aveva raggiunto il cavallo di Nihal ed era montato in sella. Raccolse al volo l’amica e partirono al galoppo. La corsa non era facile. La pioggia aveva reso viscido il terreno e al buio era quasi impossibile orientarsi.

Un sibilo acuto fendette la cortina d’acqua.

«Hanno gli archi!» urlò Nihal.

Laio incitò il cavallo, ma l’animale incespicava di continuo. Quando una freccia lo raggiunse a una zampa, Laio e Nihal caddero sul terreno fangoso.

Nihal si rialzò subito, Laio restò a terra e iniziò a gemere. I passi degli inseguitori si fecero più rapidi e incalzanti.

«Alzati!» gridò Nihal.

«Non ce la faccio. Il piede...»

Nihal lo sollevò a forza e lo trascinò nel bosco, senza seguire una direzione precisa. Scivolava e la pioggia fitta la accecava. I sibili alle loro spalle ricominciarono, poi li raggiunse una pioggia di frecce. Nihal sentì un forte bruciore alla spalla sinistra e fu costretta a fermarsi.

Laio ansimava, il viso contratto dal dolore. «Ti hanno colpita.»

Una ferita di striscio aveva lacerato il corpetto di pelle. La spalla sanguinava. Nihal riprese ad avanzare, tirando Laio per un braccio. «Non è niente, avanti.»

La foresta sembrava impenetrabile. I fammin erano sempre più vicini.

Nihal procedette tra i rami che le frustavano il corpo, mentre cercava di pensare a una soluzione. Che cosa devo fare? Cosa? Il dolore al braccio era terribile e Laio non era in condizioni di combattere, ma se continuavano a fuggire in quel modo, senza meta e dando le spalle al nemico, non avrebbero avuto scampo. Ormai sentiva i respiri affannati dei loro inseguitori. Che cosa devo fare?

«Eccoli!» urlò una voce disumana.

Una torma di fammin emerse di corsa dalla boscaglia e si abbatté su di loro come una frana.

Nihal cadde in avanti e trascinò con sé anche Laio. Si girò sulla schiena, strinse l’elsa della spada e puntò un gomito a terra per rialzarsi. Non voglio morire! Scivolò, annaspò, ricadde nel fango. Non voglio morire! Mentre la pioggia le sferzava il viso, ebbe il tempo di vedere i grugni deformi dei fammin chini su di loro, le braccia innaturalmente lunghe piegate nell’attacco, le scuri sollevate pronte a massacrarli. I fulmini riverberavano sulle loro lunghe zanne.

Nihal chiuse gli occhi. Non voglio morire! Non ancora!

«No!» urlò Laio tra i singhiozzi.

Dietro le palpebre serrate, Nihal percepì un forte bagliore. L’elsa della spada divenne bollente. Aprì gli occhi. Una barriera argentata circondava lei e Laio.

Le armi dei fammin vi si abbatterono ripetutamente e la barriera prese a vibrare e a emettere un rombo sordo.

«Nihal» gemette Laio.

I fammin continuarono a colpire, ringhiando di rabbia, ma quello scudo trasparente era impenetrabile.

La vibrazione si fece sempre più forte. Il suolo sembrò scosso da un terremoto e il rombo aumentò di volume fino a diventare intollerabile. Nihal e Laio si portarono le mani alle orecchie. Poi la barriera esplose.

L’onda d’urto si propagò verso l’esterno e investì i fammin con la violenza di un uragano. I mostri furono sbalzati all’indietro per parecchie braccia. Alcuni vennero sbattuti contro i tronchi degli alberi e crollarono a terra in modo scomposto, gli arti piegati in posizioni innaturali, i crani sfondati. Altri sparirono nel buio, travolti dallo spostamento d’aria.

Nel bosco tornò il silenzio. La pioggia ora scendeva più fine e imperlava di minuscole gocce le fronde degli alberi e i cespugli. Laio era pallido e respirava a fatica. «Cos’è successo, Nihal?»

La ragazza si passò una mano sul viso. «Non ne ho idea.»

4 Tempesta.

La nave prese il largo. La costa scomparve all’orizzonte e il mare inghiottì il panorama. Sennar sentì che ormai il passo era fatto. Non poteva più tornare indietro.

Nessuno dei libri che aveva portato con sé dava notizie certe sul gorgo. Il testo più attendibile era un resoconto dell’avventura dei conquistatori che un centinaio di anni prima avevano tentato di raggiungere il Mondo Sommerso, ma si trattava di un racconto pieno di imprecisioni, scritto alcuni anni dopo l’impresa, e non era chiaro quanto corrispondesse alla realtà e quanto fosse frutto della fantasia. Sennar non sapeva con esattezza dove si trovasse il gorgo, né quante miglia avrebbero dovuto percorrere per trovarlo. Bisognava procedere dritto verso occidente, questo era tutto.

Più la nave scivolava rapida sul mare, più Sennar sentiva l’ansia stringerlo alla gola.


Il capitano sembrava nutrire per lui una certa stima e accadeva sempre più di frequente che Aires gli rivolgesse la parola in modo quasi affabile. All’improvviso, Sennar riscuoteva le simpatie di tutti, tranne che dell’ospite misterioso.

I primi giorni non lo si vide granché. Stava sempre rintanato nella cabina di Aires, dove lei lo raggiungeva ogni volta che poteva. Quando iniziò a passeggiare sul ponte, sembrava un’altra persona rispetto al prigioniero malmesso che era stato caricato a bordo. Aveva l’aspetto di un damerino, con lunghi capelli castani che portava annodati in una corposa coda, occhi blu assai vivaci e una barba molto curata. Indubbiamente i suoi tratti regolari, ma allo stesso tempo pieni di virilità, erano fatti apposta per piacere alle donne, e in più il nuovo passeggero era sempre assai curato nell’abbigliamento. Portava camicie di raso candide con ampie maniche e preziosi corpetti di broccato pieni di fregi. Gironzolava da un capo all’altro della nave e faceva svolazzare al vento un lungo mantello di broccato nero, la mano sempre appoggiata all’elsa cesellata della spada; di tanto in tanto si fermava a scrutare il mare con sguardo pensoso, tutto preso dal proprio fascino piratesco. Se incontrava Sennar sul ponte, lo guardava di sbieco. Al mago pareva un perfetto idiota, ma sulla nave tutti lo trattavano con deferenza e nessuno si lamentava del fatto che non combinasse niente dalla mattina alla sera. La sera, Rool lo invitava nel castello di poppa a bere e a parlare fino a notte fonda.

Sennar volle saperne di più e Dodi non si fece pregare.

Una sera di burrasca, mentre il mago era squassato dal mal di mare, il ragazzo gli raccontò ogni particolare della vita del nuovo passeggero.

Benares, l’amante di Aires, aveva militato a lungo nelle truppe della Terra del Mare. Il regnante, infatti, stanco delle scorrerie dei pirati, aveva ordinato che venisse creato un reparto scelto che contrastasse i predoni.

Prima di arruolarsi, Benares aveva fatto un po’ di tutto: l’artista, il ladro, il commerciante, il contrabbandiere. Fare il soldato era un modo come un altro per mettersi nei guai e lui non desiderava altro. Grazie alla sua abilità di spadaccino, l’esercito lo aveva accolto a braccia aperte e aveva chiuso tutti e due gli occhi sul suo discutibile passato. Il suo compito era scortare via mare i carichi di gemme dai monti del Promontorio Ultimo, ricchi di giacimenti, alle terre a oriente, dove le pietre venivano raffinate. L’oceano gli piacque subito. Adorava quella vita fatta di traversate e scontri con i pirati. Senza contare il fascino che esercitava sulle donne. Anche se non era un marinaio, aveva un’amante in ogni porto. Vagò sul mare per un anno senza mai perdere una battaglia. Poi incontrò la sua nemesi.

Un giorno il brigantino su cui viaggiava fu attaccato da Rool e dai suoi. Benares si batté con parecchi membri dell’equipaggio e li conciò per le feste, finché non si trovò davanti Aires. Affascinato dalla sua bellezza, commise un errore fatale: peccò di galanteria.

«Io non combatto con le donne» disse con voce impostata. «Io le donne le amo.»

Aires, per tutta risposta, gli squarciò la divisa a colpi di spada e iniziò ad attaccarlo senza sosta. Benares si vide costretto a sguainare l’arma, ma quando, dopo un duello accanito, la donna gli puntò la lama alla gola, l’uomo si vide morto.

Aires lo guardò a lungo, ansimante per la fatica, poi rinfoderò la spada. «Sei troppo carino per farti fuori» disse con naturalezza, quindi gli voltò le spalle e con due balzi risalì sulla nave. Benares guardò le vele rosse allontanarsi e seppe di aver trovato l’unica donna che faceva per lui.


Abbandonò l’esercito e si unì a un gruppo di pirati. Audace e incosciente com’era, si fece conoscere in fretta. Nelle taverne dove si riunivano i bucanieri iniziò a ricorrere il suo nome e la sua fama di spadaccino si diffuse rapidamente.

Aires aveva sempre amato le sfide. Più di una volta aveva convinto il padre ad attaccare navi già adocchiate da altri velieri, solo per la smania di misurarsi con altri pirati. Così accadde anche con Benares. Dopo mesi in cui si erano inseguiti e sfuggiti, si trovarono di nuovo uno di fronte all’altra, sul ponte di un galeone che avevano assaltato entrambi.

Fu un duello bizzarro. Lui usò le tattiche di conquista che aveva messo a punto nella sua vita di seduttore e, tra una parata e una stoccata, le diceva quanto la desiderasse. Lei sfoderò tutto il suo sarcasmo, tagliente più della sua spada, e si fece beffe di quelle romanticherie. Quando Aires finì con le spalle al muro, però, le parole non le vennero in soccorso. Era la prima volta che un uomo riusciva a batterla.

«Dimmi che mi ami e io ti lascio vivere» le sussurrò Benares a un soffio dal viso.

«Piuttosto sgozzami» rispose lei in tono beffardo.

«Come desideri» disse Benares sorridendo. «Ma solo dopo questo.»

La agguantò per la nuca e la baciò con passione. Aires, inaspettatamente, ricambiò il bacio con altrettanto trasporto.

Da allora furono l’uno dell’altra. Se si fossero trovati a disputarsi la stessa preda, non avrebbero esitato a sgozzarsi a vicenda, eppure si amavano. Una passione fatta di incontri fugaci e casuali, in mare o nei porti dove attraccavano.

A Rool quella storia non andava a genio. Il capitano era un pirata feroce e spietato, ma per la sua “bambina”, come si ostinava a chiamarla, voleva il meglio e ripeteva che solo un uomo più forte di lui poteva essere degno della figlia. Benares gli sembrava uno sciocco e quella passione un capriccio infantile.

Dopo qualche tempo, tuttavia, dovette ricredersi, e con lui tutto l’equipaggio.


Da quando il re della Terra del Mare aveva dato inizio alla sua personale lotta alla pirateria, Rool era in cima alla lista nera. Sulla sua testa pendeva una taglia che faceva gola a molti.

Il capitano non se n’era mai preoccupato. Lui era fatto così: sicuro di sé, incurante del pericolo e dimentico di tutto ciò che non fosse il mare, la sua adorata nave e Aires.

Lo catturarono fuori dal suo elemento: a terra, mentre beveva allegro in una taverna. Il suo compagno di baldoria ci rimise le penne e lui fu portato via a fatica, ma in catene. Lo trascinarono in una segreta situata nell’entroterra, dove lo avrebbero tenuto finché non si fossero calmate le acque. Poi il capitano sarebbe stato consegnato direttamente alla milizia del re. Non era difficile immaginare quale sarebbe stata la sua sorte: penzolare con un cappio al collo nella piazza centrale della capitale, come monito per tutta la filibusta.

Quando la notizia arrivò sulla nave, l’imperturbabile Aires ebbe un istante di smarrimento. L’autore della cattura era un famoso cacciatore di taglie, tale Mauthar. Aveva cominciato la carriera come assassino al soldo di chiunque potesse pagarlo. Era stato preso durante una missione e in cambio della salvezza gli avevano proposto di cambiare attività. Non ci aveva pensato due volte. Le più eclatanti catture degli ultimi anni portavano tutte la sua firma. Non si fermava davanti a niente e agiva ovunque, per mare e per terra. Ma era sulla terraferma che aveva la tana ed era lì che bisognava cercarlo. Fu allora che, come nelle migliori storie d’avventura, entrò in gioco l’eroe. Quella notte Benares attraccò nella caletta dove era ormeggiata la nave di Aires. Pregustando una notte di piacere, si precipitò dalla sua amata, ma la trovò in lacrime.

Naturalmente si offrì di guidare il gruppo che avrebbe liberato Rool e scelse gli elementi migliori della sua ciurma e di quella di Aires per organizzare una squadra di salvataggio. Partirono poche ore dopo, a notte inoltrata. Dopo avere raccolto informazioni nei vicoli del porto, assaltarono la segreta dove era rinchiuso il pirata e sgozzarono il cacciatore di taglie e i suoi scagnozzi. Rool era di nuovo libero.

L’impresa fruttò a Benares la stima di Rool e della sua ciurma, nonché l’eterna gratitudine di Aires.

Dodi era davvero un gran narratore. Sennar aveva ascoltato senza fiatare, si era dimenticato persino del mal di mare.

«Come era finito sulla nave dove l’abbiamo trovato?» chiese alla fine.

«Semplice» rispose Dodi, soddisfatto per il successo della sua storia. «Il cacciatore di taglie che Benares ha fatto fuori aveva molti amici, tra la feccia dei porti della Terra del Mare. Dalla liberazione di Rool, non hanno dato tregua a Benares. Lo hanno assalito di notte, mentre era alla fonda in una baia nascosta, uno dei nostri ritrovi. Uno schieramento di forze mai visto, si dice. Quando lo abbiamo ripescato, lo stavano portando a terra per venderlo ai militari.»

«Venderlo?»

«Funziona così, non lo sapevi? Qualcuno fa il lavoro sporco, qualcun altro paga e si prende l’onore della cattura.»

«Dovresti fare lo scrittore, Dodi» disse Sennar alla fine della storia.

Dodi sorrise. «Vedrai, mago. Quando avrò guadagnato abbastanza soldi come pirata, scriverò le mie gesta e diventerò più famoso di Benares.»

L’umidità della notte iniziava a farsi sentire. Sennar diede a Dodi una pacca sulla spalla e si alzò in piedi con uno sbadiglio. «Non so tu, ma io vado a dormire.»

«Aspetta, Sennar» lo fermò il mozzo. «Posso darti un consiglio?»

«Certo.»

«Se fossi in te, mi guarderei le spalle.»

Sennar lo fissò, stupito. «In che senso?»

«Benares non vede di buon occhio le chiacchierate che ti fai con la sua donna» rispose malizioso Dodi. «E poi, per dirla tutta, il fatto che tu abbia convinto Aires a lanciarsi in un’impresa tanto pericolosa lo insospettisce.»

Il mago scoppiò a ridere. «Può dormire tranquillo. Aires non mi vede neanche.»

Dodi gli strizzò l’occhio. «Non è detto, Sennar, non è detto.»


Per un mese la navigazione procedette tranquilla e senza intoppi. C’era vento e il mare alzava la voce solo di tanto in tanto.

Sennar ormai si era abituato al rollio della nave. La mattina, appoggiato al parapetto del ponte, guardava lo spettacolo dell’oceano che restituiva il sole al mondo e provava un senso di consolazione. Quel viaggio in fondo gli piaceva. Forse avrebbe portato a termine la sua missione e ne sarebbe uscito vivo.

Nihal gli mancava. Una sera le scrisse una lettera. Aveva già iniziato a recitare la formula per mandargliela, quando si fermò e la rilesse. Ma che cosa mi è venuto in mente? La strappò e la gettò con rabbia fuori bordo. Guardò i piccoli pezzi di pergamena danzare tra i flutti, quindi se ne tornò nella stiva, solo con i suoi pensieri.

I problemi iniziarono alla quinta settimana di navigazione. Il mare si fece sempre più impetuoso, le tempeste presero a susseguirsi senza sosta. Avevano raggiunto la zona inesplorata. Nessuno era mai arrivato fin là e orientarsi era difficile.

Una sera Rool convocò Sennar nella sua cabina.

«Secondo i miei calcoli, dovremmo essere quasi in vista delle isole sconosciute. Queste.» Indicò la mappa. «Ma per il momento non se ne vede nemmeno l’ombra.»

«Ed è grave?» chiese Sennar preoccupato.

«Sì. Non rimane molto in cambusa. Quando l’abbiamo riempita pensavamo che a questo punto avremmo potuto rifornirci. Se non troviamo in fretta quel dannato arcipelago, saranno guai.»

Più i giorni passavano, più l’equipaggio scrutava la distesa d’acqua con apprensione. Ma l’orizzonte era avaro di novità e tutto quel che proponeva era un blu intenso e crudele.


Sennar decise di rinunciare a metà della sua razione di cibo.

«Sei sempre così giudizioso, Sennar?» chiese Aires, quando venne a saperlo. Erano seduti sul ponte, l’uno accanto all’altra.

«Mi sento responsabile di questa situazione» rispose lui, compunto.

«Che bravo ragazzo» ridacchiò lei. «Sei proprio da sposare.»

Sennar era stupito di vederla così tranquilla. Anche Benares e Rool non sembravano preoccuparsi. Per loro era tutto normale: il rischio, la fame, le incognite del mare.

«Non hai paura di quello che potrebbe succedere?» le chiese.

Aires allungò le gambe e appoggiò i piedi su una botte di rum. «Paura? Perché? Il rischio mi diverte, è il sale della vita. Se non ci si diverte nel poco tempo che ci è dato, che cosa si vive a fare? E poi è una sfida.» Si voltò verso Sennar. «Sai perché ho deciso di accettare questa impresa?»

«Per i soldi?»

«Bravo il mio maghetto. Sei perspicace, quando vuoi» lo canzonò Aires. «Ma i soldi non sono niente senza avventura. Arrivare dove nessuno ha mai messo piede... Ci pensi che pochi prima di noi hanno visto questo blu? E che nessuno è tornato indietro a raccontarlo? Be’, io arriverò fino in fondo. E tornerò indietro. Allora saprò di essere la migliore. Adesso piantala di preoccuparti, non ci avvicinerà di un miglio alla meta.»


Poi arrivò la bonaccia. Il mare era piatto come l’olio, l’orizzonte sempre più blu. Senza acqua piovana da raccogliere, le riserve iniziarono presto a scarseggiare. Furono tagliati i viveri e con la fame crebbe il malcontento. Non tutti avevano la forza d’animo di Rool o l’incoscienza di Aires.

Sennar trascorreva le notti chino sulla mappa, a cercare di capire quanta strada avessero percorso e quanta ne mancasse. Più di una volta usò la magia nella speranza di scoprire se la rotta era corretta, ma il raggio di luce che avrebbe dovuto localizzare le isole si perdeva nella notte verso luoghi sconosciuti.

Quando qualcuno iniziò ad accusarlo di averli coinvolti in un’impresa disperata, fu Benares a prendere le sue difese: «Siete uomini o cosa? Siamo gente di mare, maledizione. Qualcuno vi ha forse costretti a venire fin qui? Chi vuole tornare indietro, prenda una barca e si metta a remare. E con questo, il discorso è chiuso». Presto gli uccelli scomparvero. Niente più gabbiani, niente albatros, niente stormi che migravano verso terre remote. Anche i pesci iniziarono a scarseggiare. Ogni giorno la pesca era meno ricca, finché il mare non divenne un deserto. La nave scivolava lenta sull’acqua, circondata da un silenzio innaturale. Se non fosse stato per il leggero sciabordio sui fianchi della chiglia, si sarebbe detto che erano ancora in porto.


«Terra! Terra!»

L’urlo squarciò l’alba. Il mare era calmo, il vento aveva ripreso a soffiare e la nave correva veloce.

Sennar si precipitò sul ponte. Un attimo dopo arrivò anche il capitano, cannocchiale alla mano. All’orizzonte si intravedeva una linea scura e indefinita.

«Può essere vero?» chiese Sennar trafelato.

Rool guardò a lungo prima di pronunciarsi. «Non lo so» rispose. Tornò a scrutare nel cannocchiale. «C’è qualcosa che non mi convince.»

Per tutto il giorno la ciurma fissò ansiosa quella sottile striscia nera, mentre la tensione saliva.

A metà pomeriggio, la nave ebbe un forte contraccolpo laterale, come se qualcosa l’avesse urtata, e si piegò pericolosamente su un lato. L’equipaggio perse l’equilibrio, ma l’imbarcazione non tardò a raddrizzarsi, sballottata da un’improvvisa raffica di vento.

Sennar e il capitano raggiunsero il ponte a fatica. Tutto d’un tratto si era alzato un vento fortissimo, che sembrava volerli spazzare via. Eppure il mare era calmo e il sole splendeva. Quel vento proveniva dal nulla.

«Una mano di terzaroli, presto!» gridò Rool, mentre raggiungeva la murata.

Sennar riuscì ad aggrapparsi al parapetto, nonostante le folate che gli frustavano il viso. Alzò gli occhi. Ammutolì.

Un’enorme nube nera avanzava minacciosa dall’orizzonte. Non se ne vedeva la fine, correva verso la nave e cambiava continuamente forma. Sennar cadde al suolo senza fiato. Due mani lo afferrarono per la tunica.

«Che cos’è?» chiese Rool. Gli puntò addosso due occhi di fuoco.

«Non lo so.»

«È magia? Rispondi!»

«È... è probabile» balbettò Sennar.

Rool lasciò la presa e iniziò a impartire ordini, ma l’equipaggio era ancora impietrito per lo spavento.

«È rimasto qualche uomo a bordo o siete tutte femminucce?» ruggì il capitano. «Che ognuno vada subito al proprio posto o lo butto a mare all’istante!»

Nessuno aveva mai visto niente del genere. Sennar si sporse di nuovo ed ebbe solo il tempo di scorgere la nube che avanzava a una velocità spaventosa. Il vento gli mozzò il respiro. Chiuse gli occhi. Quando li riaprì, era calata la notte.

Su un cielo nero come una lastra d’ardesia si disegnavano lampi immensi. Una pioggia scrosciante iniziò a tempestare il ponte. Poi fu l’apocalisse.

Onde gigantesche si abbatterono sulla nave e la fecero inclinare ora su un lato ora sull’altro; ogni volta sembrava che fosse sul punto di sparire tra i flutti. Sennar fu scaraventato attraverso il ponte, finché la mano di Benares non lo agguantò per la collottola.

«Qui sei solo d’impiccio, ragazzino. Vattene nella stiva.»

Sennar non se lo fece ripetere due volte.

Più che andare nella stiva, ci cadde rovinosamente dentro, per poi correre a rannicchiarsi in un angolo. Il legno intorno a lui cigolava paurosamente e il rollio era violentissimo. La nave era in balia di venti che cambiavano di continuo direzione e di onde alte come mura.

Per un po’ Sennar se ne stette immobile, paralizzato dalla paura, ad ascoltare i passi concitati sul ponte, i tonfi dei corpi sbattuti a terra dalla tempesta e lo squittio dei topi, rintanati chissà dove. Poi iniziò a sentirsi un codardo. Non posso restare qui, devo andare a dare una mano. Le sue gambe però si rifiutavano di obbedire. Si costrinse a ragionare. In fin dei conti era un consigliere, negli ultimi tempi si era trovato in parecchie situazioni disperate e ne era uscito solo grazie alla sua lucidità. Provò a ripassare le magie che conosceva, ma nessuna corrispondeva all’apocalisse che si stava scatenando lì fuori. Era opera di un mago, nessun dubbio. Forse una formula creata ex novo, più probabilmente un sigillo. Perfetto. Se è una magia non c’è che da cercare di contrastarla , si disse con decisione.

Aggrappato alle assi della stiva, mentre la barca ondeggiava senza tregua, Sennar si sforzò di pensare. Fu il movimento della nave a dargli l’idea. Era un’impresa piuttosto complessa, ma era l’unica, nella situazione in cui si trovavano. Del resto lì avevano decisamente a che fare con una magia assai simile a quelle proibite. Si trattava dunque di riportare la natura nei suoi binari. Sennar pianificò con esattezza ciò che avrebbe fatto una volta fuori e si decise a uscire.


Le vele sembravano impazzite e Sennar si unì a un gruppo di pirati che cercava di domarle. Intravide tra gli scrosci la figura di Aires, dritta al timone, che si sforzava di mantenere la rotta. Ma non c’era più alcuna rotta da seguire. Il cielo e il mare si mescolavano, indistinguibili nelle tenebre che avvolgevano la nave. Nonostante l’aiuto di Rool, il timone le sfuggì di mano e prese a ruotare come una trottola.

Quando la vela maestra si squarciò, Sennar si attaccò alla murata e iniziò ad attraversare il ponte, mentre l’acqua lo inzuppava da capo a piedi. Dopo molti sforzi riuscì a raggiungere Aires, aggrappata al timone.

«Una corda» urlò Sennar, ma le sue parole furono risucchiate dall’ululato del mare.

«Cosa?» rispose Aires.

«Ho bisogno di una corda.»

Aires gli passò una cima e Sennar se la legò alla vita, quindi si avviò verso l’albero maestro. Alzò gli occhi e lo vide ondeggiare paurosamente. Ce la posso fare. Ce la devo fare.

Provò ad arrampicarsi, ma le mani scivolavano sul legno fradicio. Allora tirò fuori il pugnale di Nihal, quello che le aveva vinto in duello il giorno in cui si erano conosciuti. Lo conficcò in profondità nel palo, si strinse all’albero con la mano libera e iniziò a salire.

Gli sembrava di essere sempre sul punto di cadere e si aggrappava con più forza al legno. Le mani presero a sanguinargli.

Si ricordò che da piccolo i suoi amici si divertivano a salire sugli alberi. A lui non era mai piaciuto, era sempre stato un buono a nulla nei giochi che richiedevano agilità. E ora eccomi qui, appeso come un acrobata all’albero di una nave, nel bel mezzo della peggior tempesta che si sia mai vista. Gli venne quasi da ridere.

Si sforzò di non guardare in basso. Ci sono quasi, manca poco , si ripeteva per farsi coraggio, ma la coffa sembrava irraggiungibile. Quando infine vi si gettò, dalla gola gli uscì un grido di gioia. Era incredibile, ma ce l’aveva fatta.

Si legò all’albero e si alzò in piedi. Lassù il movimento ondulatorio era insopportabile. Sentì lo stomaco rivoltarsi ed ebbe un conato. Non adesso! Chiuse gli occhi e fece il possibile per concentrarsi, quindi alzò le mani sanguinanti al cielo e urlò una formula.

Dalle sue dita partirono dieci raggi d’argento, che fendettero le nubi e si aprirono a cupola, per poi avvolgere la nave in una sfera argentata. Era una formula difensiva piuttosto banale, un semplicissimo scudo. Però era grande come una nave intera ed erano proprio le dimensioni a rendere quell’incantesimo sovrumano.

Sul ponte all’improvviso scese la calma. Gli uomini si alzarono increduli e a uno a uno volsero gli occhi prima alla barriera, poi alla coffa.

Partì una salva di urla entusiaste.

«Sei straordinario, mago!» esclamò Aires.


Incitati da Rool, tutti ripresero i propri posti. Aires si rimise al timone e Dodi, aiutato da altri pirati, ammainò la vela maestra, ormai inservibile. Il resto dell’equipaggio estrasse dai fianchi della nave lunghi remi d’emergenza e prese ad azionarli con foga.

La nave si mosse lenta, come una bestia che si svegli dal letargo.

Al di fuori della barriera, i fulmini solcavano ancora il cielo e illuminavano un mare livido e sciabordante di schiuma grigia. I cavalloni si infrangevano con violenza sulla protezione argentata.

Sennar percepì la potenza dell’oceano che tentava di penetrare le sue difese. Svuotò la mente da tutto ciò che non era l’incantesimo che stava recitando. Non ci volle molto perché le braccia si indolenzissero e le mani iniziassero a formicolare. Presto non le sentì più. Rimase solo la sensazione dell’energia magica che fuoriusciva dalle dita come un fiume in piena.

«Si vede qualche spiraglio?» chiese disperato, nonostante sapesse che, dalla coffa, sarebbe stato lui il primo ad avvistarlo.

«Non ancora!» urlò Aires dal ponte. «Resisti!»

Più il tempo passava, più Sennar sentiva crescere lo sconforto. I contraccolpi delle onde si susseguivano senza sosta e la barriera intorno alla nave iniziava a restringersi. Non sarebbe riuscito a mantenerla ancora a lungo.


Erano tutti sfiniti: Aires e Benares che lottavano con il timone, Rool che scrutava l’oscurità alla ricerca di un segno qualsiasi che gli indicasse dove dirigersi, l’equipaggio che affondava i remi nelle correnti sfrenate dell’oceano.

Sennar si era inginocchiato e aveva appoggiato le braccia sul parapetto della coffa, con le mani aperte.

La barriera si restrinse vistosamente.

Fu Rool il primo ad accorgersene. «Forza, ragazzo! Forza!» urlò.

Ma il mago sembrava incosciente.

«Maledizione! Sta per crollare! Ecco che cosa si ottiene a mettersi nelle mani di un ragazzino» imprecò Benares.

Aires lo fulminò con lo sguardo. «Taci! Se non fosse per lui, saremmo già morti.» Poi alzò la voce. «Continua così, Sennar! Siamo fuori, siamo quasi fuori!»

Dalla coffa non arrivò risposta. Lo scudo argentato si rimpicciolì ancora.

«Voi, là sotto! Aumentate il ritmo!» ordinò Rool, ma si rendeva conto di chiedere troppo ai suoi uomini. «Siamo finiti» mormorò.


«Guardate!» urlò all’improvviso Benares.

Nel nero delle nuvole si era aperto uno squarcio. Una lama di luce tagliava l’oscurità. Aires iniziò a ridere, tanto che il timone quasi le sfuggì di mano.

«Remate più che potete» intimò Rool.

Tra i fulmini si intravide uno spicchio di cielo azzurro e subito dopo un pezzo di terra incorniciata di verde. Viste da quell’inferno, le isole sembravano terre paradisiache. La salvezza era lì, a portata di mano, ma la tempesta non accennava a diminuire. I fulmini e le onde si abbattevano incessanti sulla barriera.

«Resisti, Sennar! Manca poco!» urlava Aires con quanto fiato aveva in corpo, ma ormai la barriera lambiva la polena della nave e continuava a restringersi.

D’un tratto, la polena si frammentò in centinaia di schegge argentate e la figura scolpita nel legno della prua si trovò a fronteggiare la furia degli elementi. La nave iniziò a deviare, mentre la tempesta inghiottiva l’imbarcazione, un’asse dopo l’altra. Ormai buona parte della prua era in balia della burrasca e la barriera era sottile come un velo. La nave continuò a ruotare su se stessa, mutando rotta ogni volta. Dal ponte si alzarono urla, incitamenti confusi, ordini.

Di tutto quel baccano a Sennar non giungevano che suoni ovattati. Sentiva solo che le forze lo abbandonavano e che uno strano languore si impossessava di lui. Sono stanco. Sono tanto stanco . Desiderava soltanto lasciarsi andare, farsi cullare dal nulla che lo avvolgeva, ma qualcosa, in un angolo remoto della coscienza, lo spingeva a non desistere. Un ultimo flusso di energia lo percorse da capo a piedi. I muscoli si tesero allo spasimo, le mani si alzarono vibrando verso il cielo nero e la barriera tornò ad avvolgere tutto lo scafo. Poi chiuse gli occhi e scivolò nell’incoscienza.


Davanti alla nave si dispiegò un arcipelago tranquillo. A poppa, la macchia nera come la pece che aveva quasi inghiottito la Demone Nero si allontanò velocemente. L’equipaggio esplose in un boato di entusiasmo, Rool strinse la figlia tra le braccia, Benares si passò le mani tremanti sul viso. Erano salvi.

Aires si liberò dall’abbraccio del capitano e corse verso l’albero maestro. «Sennar! Sei stato grande, Sennar!» gridò al colmo della gioia.

Nessuna risposta.

«Sennar» chiamò ancora.

Sul ponte scese il silenzio.

«Ci avrà rimesso le penne» commentò Benares.

Aires si voltò di scatto. «Non dire idiozie!» sibilò, quindi dimenticò la stanchezza e prese ad arrampicarsi.

Quando si riaffacciò dalla coffa, gli occhi di tutti i pirati erano puntati su di lei.

«Non ci crederete mai» urlò Aires con un sorriso. «Dorme.»

5 Laio diventa scudiero.

Laio non riusciva ad appoggiare il piede e a Nihal la ferita alla spalla bruciava. Di rimettersi in cammino non se ne parlava proprio, così decisero di attendere le prime luci dell’alba. Si allontanarono il più possibile dal luogo dello scontro e si arrampicarono a fatica su un grande albero. Almeno lassù sarebbero stati al sicuro.

Laio studiò con occhio clinico la ferita dell’amica. «Posso disinfettarla, se vuoi» propose titubante.

Nihal gli rivolse uno sguardo interrogativo. «E come?»

«Ora ti faccio vedere.»

Tirò fuori dalla bisaccia che portava al fianco alcune foglie e iniziò a masticarle. Quindi si tolse il bolo di bocca e lo spalmò sulla spalla di Nihal. «È solo un graffio, ma almeno così non farà infezione. Per un po’ ho lavorato come sguattero in una locanda e la donna che la gestiva conosceva le proprietà delle erbe. Mi ha insegnato qualche segreto.»

Quando ebbe finito, Laio si appoggiò al tronco e chiuse gli occhi, esausto.

Nihal fece altrettanto, ma un pensiero le rimbalzava nella testa.

Prese in mano la spada e la guardò. Il drago scolpito da Livon si avvolgeva sinuoso intorno all’elsa. Sul cristallo nero, la testa dell’animale si stagliava come una stella nel buio della notte; era incisa in una gemma bianca, al cui interno brillavano migliaia di pagliuzze colorate.

La Lacrima.

Era così abituata a vederla che aveva smesso di considerarla altro che un ornamento. Come aveva potuto dimenticarsene?


Nihal ripensò a quando, a tredici anni, aveva deciso di imparare la magia e aveva perseguitato Livon perché le presentasse un mago disposto ad accettarla come allieva. Livon da principio non ne aveva voluto sapere, ma era stata così insistente che alla fine lui aveva ceduto.

Era stato così che Nihal aveva scoperto di avere una zia. La sorella di suo padre si chiamava Soana e viveva ai margini della Foresta; si era allontanata da Salazar perché gli informatori del Tiranno non venissero a sapere che era un membro del Consiglio dei Maghi.

Soana l’aveva accolta senza chiederle nulla, se non di superare una prova: Nihal avrebbe dovuto passare due giorni e due notti da sola nella Foresta e dimostrare di essere stata accettata dagli spiriti della natura.

Là Nihal aveva incontrato per la prima volta una comunità di folletti. Era stato Phos, il loro capo, a darle quella pietra. «È una specie di catalizzatore naturale» le aveva detto. «Potenzia e aumenta la durata delle magie. Ho pensato che fosse un bel regalo da farti, per quando sarai maga.»


Nihal si ricosse dai ricordi.

Maga... Non sono mai diventata una maga.

Ma allora che cosa è successo prima? Da dove sono arrivati quello scudo trasparente e quell’esplosione?

Si ripromise di indagare. Poi la stanchezza ebbe la meglio e lei scivolò in un sonno profondo e senza sogni.


Il viaggio di ritorno alla base fu privo di sorprese. Non incontrarono tracce dei soldati del Tiranno, tuttavia si mossero con circospezione. Laio zoppicava, ma non si lamentò mai. Arrivarono con un giorno di ritardo sulla data prevista. Quando vide che Nihal non era sola, la sentinella ebbe un attimo di esitazione.

«Garantisco io per lui» la anticipò Nihal. «È un mio vecchio compagno d’armi.»

La notizia si diffuse per il campo più rapida della folgore.

«È tornata accompagnata...»

«Un ragazzo, più piccolo di lei...»

«Sarà l’amante...»

«Macché amante! L’hai visto? Uno così Nihal se lo mangia a colazione...»

«Ho sentito dire che è suo fratello...»

«Come no. Lei con i capelli blu e le orecchie a punta, lui biondo e paffuto. Due gocce d’acqua...»

Nihal tirò dritta fino alla capanna di Ido. Laio la seguì, a disagio. Dovunque girasse lo sguardo, c’erano occhi curiosi che lo fissavano.

«Ma cos’hanno da guardare?» sussurrò all’amica.

Nihal alzò le spalle. «Ignorali.»

Ido la aspettava sulla soglia. «Che cosa è successo? Sei tutta intera?» chiese, mentre le andava incontro.

«Tutto a posto. La ferita è una sciocchezza» rispose lei, ma lo gnomo aveva già puntato gli occhi su Laio.

Il ragazzo abbassò la testa e arrossì fino alla radice dei capelli.


Laio fu spedito in infermeria a farsi controllare il piede e Nihal restò sola con Ido.

Lo gnomo le porse in malo modo una sedia. «Che cos’è questa storia? Da dove salta fuori quel bamboccio?»

«Aspetta, Ido. Lascia che ti spieghi. Era con me all’Accademia.»

Nihal raccontò tutto d’un fiato della loro amicizia. Sapeva che alla prima pausa Ido sarebbe esploso. Dalla sua pipa le nuvole di fumo si facevano sempre più nervose e frequenti.

Poi arrivò al punto cruciale del discorso. Forza, diglielo. È inutile che meni il can per l’aia. «Insomma, vuole fare lo scudiero, ma è evidente che suo padre non glielo permetterà mai. Lo devo aiutare, Ido. È stato l’unico a restarmi vicino quando ero all’Accademia, è davvero un amico. Così ho pensato... che potresti prenderlo tu come scudiero. È una buona idea, non trovi?»

Nella capanna scese un silenzio che non prometteva nulla di buono.

«A volte mi chiedo se sei una gran furba o una perfetta idiota, Nihal» disse Ido con calma.

«Non capisco cosa intendi.»

«Oh, insomma» sbottò lo gnomo. «Hai una vaga idea di chi sia figlio questo Laio?»

«E che ne so? Mica conosco tutti i Cavalieri di Drago.»

Lo gnomo si sporse in avanti, le sopracciglia aggrottate. «Allora te lo spiego io. Il padre di Laio si chiama Pewar e discende dalla più antica famiglia di Cavalieri del Mondo Emerso. Non si sa se sia venuto prima il suo capostipite o un uovo di drago! Quella è gente che cavalca draghi dalla notte dei tempi. Al momento, Pewar dirige le operazioni nella Terra dell’Acqua. Ed è amico intimo di Raven.»

Nihal continuò a fare la gnorri. «E allora?»

Ido saltò in piedi. «Se Pewar scopre che il figlio mi fa da scudiero, mi mangia vivo! Già Raven mi detesta, ci manca solo questa per farmi cacciare dall’Ordine.»


La discussione si scaldò. Le voci di Nihal e Ido si sentivano a parecchie braccia di distanza. Tornato dall’infermeria, Laio si era seduto fuori dalla capanna con l’aria preoccupata. Di tanto in tanto, un soldato si fermava ad ascoltare l’alterco e in breve davanti all’alloggio di Ido si formò un capannello di curiosi.

«Tutte queste storie per te?» chiese uno scudiero a Laio.

Lui scrollò le spalle. «Credo di sì.»

«Ma tu chi sei?» intervenne un soldato.

«Un compagno di Accademia di Nihal» mormorò il ragazzo.

Quando Nihal uscì, rossa in viso, il piccolo assembramento si dileguò in un istante.

«Tutto a posto?» chiese Laio.

«Vieni dentro» fu la sola risposta.


Ido era seduto al tavolo e fumava nervosamente.

Nihal lo aveva messo alle strette. Gli aveva ricordato che era stato proprio lui a insegnarle che bisogna combattere per un ideale, che ciascuno deve trovare la propria via per realizzarsi. Gli aveva chiesto come poteva sbattere la porta in faccia a un ragazzo che voleva provarci.

Ido squadrò Laio. Guance rosate, occhi grigi, andatura titubante: che diavolo se ne faceva di uno così?

«Che cosa sai fare?» chiese secco.

«Ho studiato due anni all’Accademia» sussurrò Laio.

«Parla più forte, ragazzino» lo aggredì lo gnomo. Nihal scoccò a Ido un’occhiata di fuoco.

Laio impallidì. «Sì, signore. Scusi, signore. Ho studiato due anni all’Accademia. Sono anche bravo con le erbe. E so tenere in ordine ogni tipo di arma.»

«E con i draghi come te la cavi?»

«Con i draghi, ecco... non ci ho ancora avuto a che fare, signore» rispose Laio a mezza voce.

Ido si strofinò il viso con le mani e sospirò. Poi si alzò e uscì dalla capanna senza dire una parola.

Nihal sorrise con aria furba.


«Uno scudiero?»

Nelgar fu stupito dalla richiesta di Ido. Fino all’arrivo di Nihal, lo gnomo era stato un tipo schivo. Ora tutto d’un tratto sembrava che andasse in cerca di compagnia.

Lo gnomo bofonchiò che presto Nihal sarebbe diventata Cavaliere e che lui non avrebbe più avuto nessuno che gli lucidasse l’armatura.

«Non puoi pensarci da solo, come hai sempre fatto?» chiese Nelgar.

«Oh, insomma. Me lo dai o no questo scudiero?» tagliò corto Ido. «Da regolamento, tutti i Cavalieri ne hanno diritto. Non vedo perché non dovrei averne uno anch’io.»

Nelgar non fece più storie. Il regolamento era il regolamento.


Laio si immerse nel suo nuovo incarico anima e corpo; si occupava delle armi di Ido con una cura maniacale. Una mattina, lo gnomo lo aveva trovato dietro la capanna, seduto a terra a gambe incrociate, con tutto l’arsenale sparso intorno. Lucidava con furia un’ascia che Ido non si era mai sognato di prendere in mano.

«Fai quel che ti pare, ma non ti azzardare a toccare la spada» gli aveva detto. «Di quella mi occupo personalmente.»

Laio aveva alzato la testa dal lavoro per un istante. «Sì, signore. Certo, signore.» Poi si era rimesso all’opera.

Ido dovette ammettere che il ragazzo era solerte. La sua armatura non era mai stata così bella e lucente. Ora si trattava di vedere che cosa ne pensava Vesa.

Affrontò l’argomento con Laio senza preamboli. «Stasera darai da mangiare al mio drago.»

Le guance del ragazzo passarono dal rosa al bianco. «Sta... stasera?»

«Sì, perché? Avevi altri impegni?»

«No, signore. È che... non ho mai dato da mangiare a un drago.»

«C’è sempre una prima volta. Ti spiegherà tutto Nihal.»


Nihal impiegò l’intera serata per riuscire a convincere l’amico a entrare nella scuderia, l’imponente edificio che troneggiava al centro della cittadella. Una volta dentro, la ragazza si mosse sicura verso il fondo, dove si trovava la nicchia di Vesa, Laio invece rimase paralizzato al solo sentire il respiro dei draghi.

La sera successiva andò meglio. Laio si aggrappò a un braccio dell’amica e, con gli occhi fissi a terra, percorse il lungo corridoio su cui si affacciavano le grotte degli animali.

«Eccoci.» Nihal si fermò.

In un’enorme cavità scavata nella roccia c’era un animale che a Laio parve immenso. Da sola, la sua testa era grande quasi quanto lui. Era rosso come un tizzone ardente e se ne stava acciambellato, le grandi ali membranose ripiegate sui fianchi. La testa crestata era appoggiata quasi con grazia sulle due zampe anteriori, più piccole di quelle posteriori.

«Vesa, questo è Laio, vedi di trattarlo bene.»

Per tutta risposta, il drago emise un grugnito perplesso.

«E questo, caro il mio scudiero, è Vesa» continuò Nihal, mentre cercava di staccarsi l’amico di dosso. «Dovresti almeno aprire gli occhi, Laio.»

Il ragazzo socchiuse le palpebre, giusto il tempo di intravedere un grande drago rosso che lo guardava con evidente disprezzo.

Da allora Nihal portò Laio nella scuderia ogni sera. L’aspirante scudiero cercava di farsi coraggio e seguiva i consigli di Nihal come meglio poteva.

Dopo una settimana, allungò una mano per toccare la pelle squamosa di Vesa. Dopo due, riuscì finalmente a portargli la carriola colma di carne fin sotto il muso.

Da quel momento in poi, fu tutto più facile. Superata la paura, Laio sembrava nato per trattare con i draghi. Vesa lo prese in simpatia e il ragazzo si innamorò di quella bestia enorme.

Oarf era più scorbutico di Vesa, ma Laio riuscì a farsi accettare anche da lui. Quanto a dimensioni era assai simile a Vesa, ma era più anziano, un veterano della guerra. Era del tutto verde, sebbene il suo colore assumesse miriadi di sfumature diverse sulle varie parti del corpo, tranne per le braci rosse delle sue pupille penetranti.

Se non lo avesse visto con i suoi occhi, Nihal non ci avrebbe creduto. Oarf, il suo Oarf, il drago che l’aveva fatta tanto penare, si lasciava accarezzare da Laio come un gattino.

Ma non erano solo i draghi ad avere una predilezione per quel ragazzo con il viso da angioletto. Forse fu per la sua innocenza, forse per la passione con cui si buttava in ogni compito che gli veniva affidato, ma nel giro di un mese Laio divenne il beniamino di tutto l’accampamento. Correva indaffarato da un lato all’altro del campo, con l’espressione seria, come se gli fosse stata affidata chissà quale terribile missione, e chiunque lo vedesse passare non poteva fare a meno di sorridere.

Persino Ido dovette ricredersi sul suo nuovo scudiero, che moriva dalla voglia di rendersi utile e non si tirava mai indietro.

6 Il segreto della lacrima.

Da quando era tornata alla base, spesso Nihal si sorprendeva a guardare la Lacrima incastonata nella spada di cristallo e a domandarsi da dove fosse uscita la forza sconosciuta che aveva sgominato un’intera orda di fammin.

Decise di indagare presso uno dei maghi della cittadella, un giovane emissario del Consiglio che coadiuvava nelle strategie militari.

Nihal gli raccontò quello che era accaduto nel bosco.

Il mago la ascoltò scettico, poi osservò la Lacrima con occhio esperto. «Sì, è ambrosia, la resina del Padre della Foresta, cristallizzata, però non mi risulta che possa essere utilizzata per scopi magici.»

«Ma il folletto che me l’ha data ha detto che...»

«I folletti sono dei gran chiacchieroni» la interruppe il mago con sufficienza «ma di magia non capiscono niente, credimi.»

«Allora che cosa è successo, secondo te?» insistette Nihal. Quel mago iniziava a darle sui nervi.

«Con ogni probabilità, nulla. Forse tu e il tuo amico avete avuto un’allucinazione. O forse vi eravate scolati un sidro di troppo» ridacchiò il mago.

Nihal uscì dal suo alloggio per non rischiare di mettergli le mani addosso. Alla prima occasione avrebbe cercato le risposte che voleva alla biblioteca di Makrat.


Ebbe modo di andarci un mese dopo. A Makrat era stato ordinato un consiglio di guerra, a cui erano tenuti a partecipare tutti i Cavalieri di Drago schierati nella lotta contro il Tiranno.

Ido odiava quel genere di riunioni, ma dovette fare buon viso a cattivo gioco e portò con sé sia Nihal sia Laio.

Makrat era la capitale della Terra del Sole, una città piena di confusione e caotica perfino nel modo in cui le case si ammassavano le une sulle altre. Era sede dell’Accademia, nonché del Palazzo Reale. Per finire, ospitava la più grande biblioteca del Mondo Emerso. Si trovava all’interno del Palazzo Reale e per accedervi era sufficiente l’autorizzazione di un Cavaliere. Come Nihal immaginava, Ido non si fece pregare. Lo gnomo considerava la lettura fondamentale per la formazione di un Cavaliere e non dovette sembrargli vero che quella zuccona della sua allieva si fosse decisa a farsi un po’ di cultura.

La grande biblioteca di Makrat non smentiva la sua fama. Era la più completa raccolta di libri del Mondo Emerso, seconda solo alla mitica Biblioteca perduta della città di Enawar. Si trovava in una delle quattro torri del Palazzo Reale e si sviluppava lungo l’imponente scalinata che si avvolgeva a spirale su per il torrione. I gradini erano larghi e bassi, tanto che non si aveva quasi la sensazione di salire, ma quando si arrivava in cima e si guardava in basso, si restava senza fiato nel vedere la vertiginosa infilata di piani che scendevano a precipizio. Sul tetto, una cupola di cristallo provvedeva a dare luce all’interno.

Ogni piano era dedicato a una materia differente. C’era la sezione dell’astronomia, quella della storia, quella della poesia e naturalmente anche quella della botanica e dell’erboristeria. Più di cento scaffali stipati di tomi.

Gli occhi di Laio, che l’aveva accompagnata, brillarono. «Ci vediamo dopo» disse con voce sognante. Poi si diresse verso gli erbari.

La biblioteca era molto frequentata e Nihal si sentì subito fuori posto. Di guerrieri, ovviamente, non c’era neppure l’ombra. Maghi, invece, in abbondanza. Seduti ai tavoli e chini su enormi volumi polverosi, fermi e pensosi accanto agli scaffali, arrampicati sulle scale che portavano alle sezioni più alte delle librerie. Maghi ovunque, e tutti che si voltavano quando Nihal passava. Il tintinnio della spada, in genere così familiare, le parve all’improvviso un rumore insopportabile. C’era anche qualche giovane rampollo di famiglia nobile e pure loro la guardavano con sdegno. Certo, la conoscenza è roba da ricchi , pensò lei. Mica da morti di fame che devono difendersi dalla guerra. Nihal si sentì a disagio. In momenti come quello avrebbe voluto essere un po’ più femminile e non destare tanta curiosità. Si impose di ignorarli. Non era arrivata fin lì per fare bella figura, ma per cercare notizie sulla Lacrima.

Proseguì lungo le scale finché non trovò quello che cercava: i tre piani dedicati alla magia. Si avvicinò a un bibliotecario e gli spiegò di cosa aveva bisogno. L’uomo, che indossava una casacca di velluto grigio su cui spiccava lo stemma dorato della Terra del Sole, squadrò prima gli abiti della ragazza, poi la spada. «Vogliate seguirmi» disse con sufficienza, quindi la guidò fino all’ultimo piano e le indicò un ampio tavolo di marmo.

Tornò poco dopo con una pila di tomi voluminosi. «La biblioteca chiude alla sesta ora» disse lapidario mentre si allontanava.

Nihal guardò sconsolata il mucchio di libri. Sarebbe stato un lavoro lungo e noioso.

Scovò notizie su ogni artefatto magico esistente, lesse antiche leggende sui folletti, imparò tutto il necessario sui Padri della Foresta, ma nessun libro riportava una sola parola sulla Lacrima.

Trovò soltanto qualche riga sulla resina:

La resina dei Tomren, conosciuti dal volgo come Padri della Foresta, viene spesso usata come palliativo per le lievi sofferenze. Essa inoltre permette di ristabilirsi rapidamente dalle grandi fatiche. Quando essiccata, la resina assume una forma cristallizzata assai gradevole.

Seguiva una pagina di descrizione dettagliata. Alla fine, poche laconiche righe:

Le concrezioni di resina essiccata, da alcuni indicate con il nome di Lacrime, vengono talvolta utilizzate come pietre non preziose nell’arte orafa.

Nihal restò con il naso incollato ai libri fino a sera, ma non trovò nulla. Quando, scoraggiata e con la testa che le doleva, alzò gli occhi dall’ultimo volume, si rese conto che fuori era calato il buio. La vasta biblioteca era illuminata da massicci bracieri in bronzo e da grandi torce alle pareti. Si alzò in piedi, si stiracchiò e si guardò intorno alla ricerca del bibliotecario. Non lo vide, così scorse le ultime righe del tomo che aveva sottomano, senza la minima speranza di trovarci qualcosa di interessante: la solita descrizione circostanziata e una sfilza di cenni storici dell’uso della Lacrima nelle epoche passate. Nihal sbadigliò.

Poi però, sull’ultima pagina, notò uno strano simbolo, un timbro nero. Solo allora si accorse che era riportato identico anche sulla copertina. Cercò ancora il bibliotecario e finalmente lo vide seduto a un tavolo lontano. Si avviò verso di lui con il tomo in mano.

«Che cosa vuol dire questo?» Gli mostrò il simbolo.

Il bibliotecario fece una faccia strana e le tolse il libro di mano. «Che non avrei dovuto darvelo.»

«Peccato» rispose Nihal in tono sarcastico «l’ho già letto tutto. Allora, che cosa vuol dire?»

Il bibliotecario alzò gli occhi al cielo, ma Nihal non fece una piega e rimase lì, in attesa di una risposta.

«Vuol dire che l’autore del libro è stato condannato dal Consiglio. Libri del genere vengono dati in lettura con una certa cautela.» L’uomo guardò il nome sulla copertina. «Megisto. Certo, lo storico. Niente di troppo pericoloso. Si può leggere senza problemi.»

«E perché sarebbe stato condannato dal Consiglio?» insistette Nihal.

Il bibliotecario sospirò, rassegnato. «Era un mago mediocre, si dedicava più che altro a studi storici. Poi divenne un collaboratore del Tiranno, ma grazie agli dèi fu catturato e punito.»

Esattamente il genere di cose che eccitava la curiosità di Nihal. «Potete darmi qualche libro sulla storia di questo Megisto?»

«Non ha nulla a che fare con la vostra ricerca, mi sembra.»

Quel mago le dava sui nervi. Nihal gli rivolse un sorriso gelido. «Ho cambiato argomento di studio proprio adesso. Qualche problema?» Appoggiò con noncuranza la mano sull’elsa della spada.

L’uomo le scoccò un’occhiata infastidita e si incamminò verso una serie di scaffali neri.

Nihal non li aveva notati prima e il cuore le balzò in gola. Erano quattro, alti fino al soffitto e chiusi da una robusta grata in ferro battuto, a proteggere centinaia di volumi, anch’essi neri. Sul dorso di ciascuna copertina spiccava solo una runa scarlatta. Nihal sapeva di cosa si trattava, gliene aveva parlato Sennar: erano i Libri Proibiti. Vi era racchiusa la magia oscura, frutto del male. Sennar era stato vago sull’argomento e Soana era stata altrettanto evasiva, ma Nihal era al corrente che quella magia era proibita dal Consiglio. Era volta al sovvertimento malefico della natura e per ogni incantesimo richiedeva in pegno l’anima del mago. In quei libri erano celati i peggiori incantesimi di offesa, quelli che il Tiranno aveva perfezionato e portato alla forma più evoluta.

Il bibliotecario però non era diretto a quella sezione, bensì a quella successiva, dove si trovavano libri rilegati in cuoio scuro con pesanti borchie di metallo, ma dall’aspetto assai più innocuo degli altri. L’uomo prese un volume in fondo allo scaffale, accanto alla sezione protetta dalle grate, e lo porse a Nihal con malagrazia. «Qui dovrebbe esserci tutto quello che cercate.»

Nihal lesse il titolo. Annali della lotta al Tiranno.

Incuriosita, tornò al tavolo e si immerse nella lettura. Era una raccolta di tutti i frammenti degli Annali del Consiglio dei Maghi che parlavano della lotta al Tiranno.

La storia cominciava cinque anni dopo lo scioglimento del Consiglio dei Re e dei Maghi. Tanto c’era voluto perché il Consiglio dei Maghi riuscisse a riorganizzarsi.

Nihal spulciò il volume finché non si imbatté nella parola “mezzelfo”. Il suo cuore quasi cessò di battere. In un tono distaccato e burocratico, molti frammenti raccontavano della distruzione di Seferdi, la capitale della Terra dei Giorni “rasa al suolo in una sola notte”, e dell’odissea del suo popolo. Nihal lesse dei villaggi di profughi distrutti dai fammin, della difesa disperata dei suoi simili, del susseguirsi di stragi e uccisioni. Non riusciva a staccare gli occhi da quelle parole. All’improvviso la pagina prese vita. Dai segni neri vergati sulla pergamena emersero figure umane, fammin, mezzelfi. E poi corpi riversi a terra, arti mozzati, sangue. Nella sua mente si levarono grida di disperazione e infine il canto feroce dei guerrieri.

No!

Nihal spinse indietro la sedia e si allontanò dal tavolo. Respirava affannosamente. Cercò di scacciare quelle immagini di morte, così simili ai suoi sogni. Chiuse gli occhi. Pensò alla base, a Laio, a Sennar, alla sua nuova vita.

Quando fu più calma, si riavvicinò al libro e sfogliò rapidamente le parti dedicate ai suoi simili. Ancora guerre, ancora stragi. Poi, alcune pagine scritte con una calligrafia diversa. Nihal riprese a leggere.

Oggi, decimo giorno del quarto mese, anno settantesimo dal Tempo di Nammen, è caduto nelle nostre mani un terribile nemico.

Finalmente trovò notizie di Megisto.

Per anni era stato al fianco del Tiranno, che lo aveva reso un mago potente. Non disdegnava l’uso della spada, in cui era assai abile, e aveva fatto della Terra dei Giorni il suo regno. Da lì sferrava terribili attacchi alla Terra del Sole e lottava in prima linea insieme ai suoi uomini. Sembrava assetato di sangue. Alcuni credevano fosse immortale.

A Nihal ricordò la descrizione che Sennar aveva fatto di Dola, il terribile guerriero che aveva messo a ferro e fuoco la Terra del Vento.

Dopo aver seminato il terrore nella Terra dei Giorni, Megisto si era spostato nella Terra dell’Acqua e si era accanito sul popolo delle ninfe.

Era stata la sua stessa crudeltà a condannarlo: affamato di morte, si era spinto con un piccolo contingente nella parte più interna e rigogliosa della Terra dell’Acqua, una zona di cui non esistevano mappe e dove nessun essere umano aveva mai pensato di insediarsi. Quei boschi erano il regno incontrastato delle ninfe ed era impossibile orientarsi senza la loro collaborazione. Là Megisto era stato accerchiato da un distaccamento dell’esercito delle Terre libere. Aveva combattuto a lungo e ucciso non pochi nemici. A renderlo inoffensivo non furono i soldati né i Cavalieri di Drago. Furono le ninfe. Memori dei lutti che quell’uomo aveva inflitto al loro popolo, tutte le ninfe della Terra dell’Acqua erano accorse sul luogo dello scontro e avevano lanciato uno dei loro incantesimi più potenti: il bosco si era chiuso su Megisto come una morsa verde e lo aveva imprigionato tra viluppi di rami, fronde e rampicanti.

L’uomo era stato condotto a Makrat e sottoposto a giudizio dal Consiglio dei Maghi, ma il frammento relativo alla sua condanna era incompleto. Riportava solo alcuni stralci della requisitoria di Dagon, il Membro Anziano del Consiglio.

Molto sangue è stato versato in questi anni, aggiungere quello di quest’uomo non ristabilirà la giustizia. Propongo dunque che venga imposto (...) giacerà in eterno nella Terra su cui tanto ha infierito (...) Che rifletta su quanto ha fatto nella solitudine della sua prigionia e che gli anni possano portargli saggezza e pentimento.

«Allora è vivo» mormorò Nihal. Era incredibile. C’era un nemico così potente imprigionato nella Terra dell’Acqua.

Il tocco di una mano la riscosse dai suoi pensieri. Di fianco al tavolo si erano materializzati Laio e il bibliotecario. Era ora di andarsene.


Durante tutto il tragitto di ritorno, Ido si lamentò e ripeté che la riunione era stata una scocciatura. Nihal, ancora preda dei dubbi sulla Lacrima, lo ascoltava distrattamente e Laio, carico com’era delle boccette e delle erbe che aveva comprato al mercato, era troppo impegnato a cercare di non cadere da cavallo.

Quando arrivarono, la base era tranquilla come sempre. Nulla sembrava essere cambiato durante la loro breve assenza. Non fecero però in tempo a oltrepassare il cancello, che una sentinella li chiamò. «Fermatevi! C’è un messaggio per lo scudiero.»

Laio, incredulo, prese il rotolo che la guardia gli porgeva. Quando vide il sigillo impresso sulla pergamena, impallidì e si lasciò sfuggire un gemito.

«Che cosa succede?» chiese Nihal.

«Mio padre» rispose il ragazzo con un filo di voce.

7 Le vanerie.

Sennar percepiva solo la morbidezza delle coltri. Era come essere avvolti nella bambagia e quel tepore gli ricordò la sua infanzia. Socchiuse gli occhi. Si aspettava di vedere sua madre china su di lui, pronta a svegliarlo con un bacio sulla fronte, come faceva quando era piccolo. Ma l’immagine che si insinuò tra le sue ciglia fu ben diversa: una profonda scollatura, l’incavo di un seno bianco come il latte e un paio di occhi scuri.

Il mago si svegliò del tutto con un sobbalzo e si alzò a sedere.

«Era ora» disse Aires con un sorriso.

Mentre lei andava a scostare le tende, Sennar si rese conto di trovarsi niente meno che nella cabina del capitano.

«Due giorni interi a dormire.» Tornò verso di lui e si sedette sul letto. «Non ti vergogni?»

Sennar si stropicciò gli occhi. «Dove siamo?» chiese con voce roca.

Aires si esibì in un inchino. «Benvenuto alle Vanerie, signor mago.»

«Le Vanerie?» ripeté Sennar confuso.

«Sì, le isole sconosciute segnate sulla mappa. Gli abitanti le chiamano così. Sono in tutto quattro; una più grande abitata, che per inciso è quella in cui ci troviamo, e tre isolotti che sono poco più di meri scogli. Dovresti vedere come ci guardano. Non hanno mai incontrato gente del Mondo Emerso, siamo i primi» disse Aires con orgoglio.

Sennar si lasciò ricadere sul cuscino.

«A pezzi, eh?» Lei ridacchiò.

Sennar annuì. «È sempre così quando un mago compie una magia molto faticosa.»

«Ci hai fatto spaventare, sai? Quando sono salita in coffa eri bianco come un cadavere. Poi ho capito che dormivi e mi è quasi venuta voglia di prenderti a schiaffi.»

«Proprio quello che mi mancava...» Sennar sospirò.

Aires gli scostò i capelli dal viso. Ora aveva uno sguardo serio. «Devo ringraziarti. Tutti dobbiamo ringraziarti. Se non fosse stato per te saremmo morti, Sennar. Certo, se non fosse stato per te non saremmo neanche partiti...»

Il mago si accorse di essere arrossito.

«Ora pensa solo a riposarti» disse Aires mentre si alzava. «La nave è piuttosto malconcia, ci vorrà qualche giorno per ripararla. Poi faremo il punto della situazione.» Quando fu sulla porta, però, si fermò e tornò indietro. «Ah, dimenticavo» disse, con uno strano sorriso stampato sul volto. «È bella?»

Sennar rimase spiazzato. «Chi?»

«Non fare il finto tonto.»

«Non capisco cosa intendi» balbettò lui.

Aires scoppiò a ridere. «Mago e bugiardo! Per due giorni hai ripetuto sempre lo stesso nome. Allora, chi è questa Nihal?»

Sennar ebbe un tuffo al cuore.

«Avanti, non farti pregare» insistette Aires. «Se un uomo chiama una donna nel sonno, vuol dire solo una cosa: che ne è innamorato.»

Sennar era sempre più imbarazzato. «Io... cioè, non è...»

Lei si risedette sulla sponda del letto e lo guardò maliziosa. «Guarda che non sono mica gelosa.»

«È un’amica» capitolò Sennar.

Aires sollevò un sopracciglio. «Amica come?»

«Amica e basta» rispose lui in un tono che voleva essere neutro.

Aires non si lasciò ingannare «Sbaglio o in quel “e basta” c’è una punta di rammarico?»

«È un’amica d’infanzia» sbottò Sennar. «Abbiamo avuto la stessa maestra di magia. Tutto qui.»

«È una maga?»

«No. Sta per diventare Cavaliere di Drago.»

«Un Cavaliere donna» disse Aires interessata. «Mi piace questa ragazza. Ed è bella?»

Sennar abbassò lo sguardo. «Non so. Credo che sia bella. Sì, è bella. Possiamo finirla con questo interrogatorio, ora?»

Aires non gli diede retta. «E lei ti ama? Perché è evidente che tu la ami.»

Sennar alzò gli occhi al cielo. «Aires, ti prego...»

«Allora?»

«No, non mi ama. Ama un altro, un Cavaliere morto in battaglia. Contenta?»

«Un morto non è granché come rivale in amore» rispose Aires ironica. «Sai qual è il tuo problema, Sennar? Che ti sottovaluti.» Quindi si alzò e gli diede un buffetto sulla guancia. «Pensaci.»


Nei giorni seguenti, la cabina del capitano fu meta di pellegrinaggio. Un pirata dopo l’altro, tutta la ciurma andò a far visita a Sennar per ringraziarlo di persona. Il più prodigo di attenzioni e complimenti fu Dodi, che ormai lo considerava il suo eroe. Gli portava pranzo e cena a letto, lo guardava con occhi adoranti, lo serviva come un signore.

L’unico che non si fece vedere fu Benares. Dodi disse che aveva fatto più di una sfuriata ad Aires, ma Sennar non ci badò. Aveva superato una tempesta terribile, poteva tener testa a un fidanzato geloso.

Quando si sentì più in forze, il mago decise che era ora di riprendere quel che aveva interrotto. Si alzò e si affacciò sul ponte. Le Vanerie lo aspettavano.


L’isola dove avevano attraccato era ammantata da foreste rigogliose. C’era un unico grande villaggio, abbarbicato sulle pendici del vulcano spento che si ergeva al centro dell’isola. Sennar aveva viaggiato molto, ma non aveva mai visto un luogo simile. Al centro dell’abitato c’era una torre che assomigliava a quelle della Terra del Vento, mentre il palazzo del governatore era massiccio e decorato come si usava nella Terra del Sole. Una parte del villaggio, inoltre, si allungava fino a un piccolo lago, dal quale spuntavano le stesse palafitte dei paesi della Terra dell’Acqua. Verso la cima del vulcano, invece, si apriva una serie di costruzioni scavate nella roccia.

Nel complesso il villaggio sembrava un mosaico, eppure aveva una sua grazia. Girare per le sue stradine era come fare un rapidissimo viaggio attraverso il Mondo Emerso. La popolazione era eterogenea quanto le abitazioni, le razze più svariate convivevano senza alcun problema. L’equilibrio raggiunto dalle varie etnie pareva perfetto e imperturbabile.

Sennar era in cerca di notizie. Aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile per terminare il suo viaggio.

Fu Rool a indirizzarlo verso una persona che potesse dargli le risposte che voleva. Lo portò in una locanda e l’oste indicò loro la casa di Moni, la donna più anziana delle Vanerie.

Sennar si aspettava una vecchietta decrepita e con la mente offuscata, invece si trovò di fronte una donna con la pelle dorata e liscia come quella di un bambino, e perfettamente in sé. Solo una larga striatura di capelli bianchi denunciava l’età avanzata.

La donna li fece accomodare a un tavolo all’ombra di un pergolato, sul retro della piccola casa di pietra. La sua espressione dolce piacque subito a Sennar.

«E così è questo il giovane che vuole morire» esordì Moni, mentre prendeva una mano di Sennar tra le proprie.

Parlava una lingua comprensibile al mago, ma con un accento che apparteneva al passato. Il modo in cui pronunciava le parole e il ritmo che imprimeva alle frasi ricordarono a Sennar le antiche ballate che i cantastorie intonavano nei giorni di festa. Era la lingua del Mondo Emerso, ma di due secoli prima.

«Io non voglio morire. Ho solo una missione da compiere» rispose Sennar imbarazzato.

La donna sorrise. «Lo so. Lo vedo. Il tuo cuore è limpido, giovane mago.»

«Come sai che sono un mago?»

La donna gli lasciò la mano. «Ho il dono della veggenza. O forse dovrei dire la condanna. Da che ho memoria, mi dischiude le porte del tempo e dello spazio, mi svela a suo piacimento brandelli del futuro e del passato.» Moni si sporse verso Sennar e lo guardò intensamente. «Quando arrivammo qui, trecento anni fa, i nostri occhi erano ancora pieni degli orrori a cui avevamo dovuto assistere. Ma ci guidava la speranza.»

«Eravate tra quelli che abbandonarono il Mondo Emerso?» chiese Sennar stupito.

«Noi siamo quelli che abbandonarono il Mondo Emerso. Sei giovane, non puoi sapere com’era in quegli anni: un inferno dove la brama di potere divorava le Terre. Noi eravamo ragazzi. La guerra prosciugava la nostra voglia di vivere, la nostra giovinezza. Il potere ci nauseava, non volevamo più combattere, non volevamo più vedere morire nessuno. Provenivamo da Terre diverse, ci dividevano la razza e la guerra, eppure ci univa un desiderio profondo: volevamo la pace. Eravamo convinti che il Mondo Emerso fosse destinato a sprofondare in un abisso di dolore e di morte. Desideravamo un altro mondo.» La donna si interruppe e Sennar annuì, pensieroso. «Lasciammo le nostre Terre, i nostri affetti, e attraversammo il Mondo Emerso squassato dalla guerra. Fu un viaggio terribile, molti di noi morirono lungo la strada, ma ci spronava la certezza che esistesse un mondo migliore e che noi potessimo abitarlo. Poi raggiungemmo la Terra del Mare e partimmo verso l’ignoto.»

Moni fece una lunga pausa. Nei suoi occhi, grigi come la pietra della casa in cui viveva, brillavano pagliuzze dorate. Sennar e Rool attesero in silenzio che ricominciasse.

«Le navi erano piccole, le provviste poche. Non sapevamo se davvero vi fosse qualcosa al di là dell’oceano, se avremmo trovato una terra da abitare, ma partimmo ugualmente. Per arrivare fin qui, voi avete rischiato la vita. Per noi non fu così, il mare ci accolse paterno e si mantenne calmo per tutto il tragitto. Ma passammo comunque momenti difficili. Chissà, forse gli dèi ci misero alla prova per vedere se il nostro spirito era abbastanza saldo, se eravamo degni di costruire il mondo nuovo. Quando giungemmo qui, eravamo allo stremo delle forze. Le isole ci parvero meravigliose, la natura sembrava invitarci a restare. Ci fermammo e iniziammo una nuova vita. Per molti anni vivemmo tranquilli, costruimmo la nostra città, crescemmo i nostri figli e coltivammo i nostri sogni. Poi iniziarono ad arrivare le navi.»

«Le navi?» ripeté Sennar.

«Sì. Navi armate, piene di uomini avidi e violenti, intenzionati a rubarci ciò che avevamo costruito con tanta fatica. Ci difendemmo. Combattemmo duramente. Sporcammo di sangue le nostre mani. Rivivemmo ciò da cui eravamo fuggiti. Fu allora che creammo la tempesta.»

«Allora avevi ragione, era opera di un mago» bisbigliò Rool a Sennar.

«Esatto, capitano. Un mago potente ci aiutò a proteggerci dai possibili invasori. Ci aiutò a non riprendere le armi.» Moni chiuse gli occhi, come se quel ricordo fosse troppo doloroso. «Ma ormai l’odio si era insinuato tra di noi. In molti dissero che queste isole non bastavano più, che bisognava creare un impero lontano dagli occhi famelici del Mondo Emerso. Un impero con un esercito, in grado di difendersi. Così nacque il regno che voi chiamate Mondo Sommerso.»

Sennar scosse la testa. «Non capisco. Come fecero a costruirlo? Come riuscirono a...»

Moni lo interruppe con un gesto della mano. «Lasciami proseguire, giovane mago» mormorò la donna. «I nostri compagni ripresero la via del mare, non più animati dalla speranza di tanti anni prima, ma colmi d’odio e di risentimento. Una tempesta li sorprese nel bel mezzo del viaggio e una delle loro navi colò a picco. Fu così che conobbero il popolo del mare, che da secoli abitava le profondità dell’oceano. Furono loro a salvarli dalla furia dei flutti e a mostrare ai nostri antichi compagni nuove isole da abitare. Per qualche tempo la soluzione sembrò accontentare i profughi, ma presto iniziarono a temere di nuovo gli assalti del Mondo Emerso. Nessun luogo sembrava loro abbastanza remoto da essere sicuro. Allora pensarono al mare. Se avessero vissuto sott’acqua, nessuno avrebbe più potuto insidiarli. L’oceano, ecco un luogo davvero sicuro. Fu il popolo del mare ad aiutarli a costruire il loro regno, ma quanto al come, io non ne sono a conoscenza. Qui arrivarono solo vaghe leggende, notizie confuse. Ormai abbiamo smesso di curarci di loro. Il Mondo Sommerso rappresenta il nostro fallimento. Un episodio buio del nostro passato che non amiamo ricordare.»

«Che cosa mi dici del tentativo di conquista da parte del Mondo Emerso?» chiese Sennar.

La vecchia sorrise. «Che cosa posso dirti, se non che neppure le profondità marine si dimostrarono sicure? Tutto quello che so è che fu allora che gli abitanti del mare scatenarono la loro ira. Resero la tempesta ancora più fatale e crearono un enorme gorgo per proteggere l’ingresso del loro regno. Poi...» Moni si interruppe.

«Poi?» chiese Sennar.

«Si dice che esista un guardiano, qualcosa di oscuro che vive sulla rotta del gorgo. Ma non posso dirti altro, la mia vista non arriva a tanto, non so chi o che cosa sia. Tutto quello che so è che da allora, e sono passati più di centocinquanta anni, nessuno di voi è mai riuscito a raggiungere vivo il Mondo Sommerso o le Vanerie. Per anni il mare ci ha portato in dono i cadaveri di uomini che avevano creduto di poterci conquistare.»

La vecchia guardò Sennar. «Voi non avete mai trovato la pace. Noi abbiamo dovuto costruirla sul sangue. Il nostro sogno non si è mai avverato. Questo è quanto, giovane mago.»

«Il Mondo Emerso non è più quello che conoscevate» mormorò Sennar. «Quando la guerra dei Duecento Anni finì, un re grande e magnanimo, Nammen, inaugurò un lungo periodo di pace. È a causa del Tiranno che...»

Moni lo interruppe di nuovo. «Sono tante le cose che non sai, Sennar, ma non sta a me rivelartele. Torna indietro.»

Sennar scosse la testa. «Non posso.»

«Ascoltami. So bene perché sei giunto fin qui. Ma nessuno ha mai violato le porte del Mondo Sommerso e nemmeno tu ci riuscirai.»

A Sennar parve che il proprio cuore avesse smesso di battere. «Hai... hai letto nel futuro la mia morte?» chiese in un soffio.

Persino Rool trattenne il fiato.

«No» rispose la donna «ma ho visto con chiarezza il gorgo inghiottire la tua barca e ridurla in pezzi.»

Quando Sennar si alzò, gli tremavano le gambe. Rool gli strinse un braccio.

«Che tu possa attraversare sano e salvo le più spietate delle acque, giovane mago, e tornare dai tuoi foriero di buone notizie» sussurrò Moni mentre si allontanavano.


Seduto sulla spiaggia, Sennar guardava il tramonto. Un sole che pareva immenso imporporava il mare e il cielo e li univa in un unico manto scarlatto. Proprio come a Salazar, quando lui e Nihal salivano sulla terrazza della torre e guardavano il sole che incendiava la steppa. Chissà dov’era ora Nihal, che cosa faceva. Sennar avrebbe voluto averla vicina, sentire la sua voce, chiederle consiglio.

Un fruscio lo distolse dai suoi pensieri. Aires si sedette al suo fianco.

«Mio padre mi ha raccontato tutto» disse.

Sennar restò in silenzio. Non voleva rovinare con le parole quel tramonto e la quiete della natura.

«Chi sei, Sennar?» chiese Aires.

Il mago si voltò verso di lei. «Come, chi sono?»

«Chi sei davvero?» insistette Aires. «Perché vuoi andare nel Mondo Sommerso?»

Che cos’ho da perdere, a questo punto? Sennar estrasse da sotto la tunica il medaglione che aveva ricevuto il giorno della sua investitura a consigliere. «Faccio parte del Consiglio dei Maghi. Sono il consigliere della Terra del Vento.»

Aires prese in mano il ciondolo e se lo rigirò tra le dita. «Perché non ce l’hai detto subito?»

«Credi che mi avreste voluto a bordo?»

«Cos’è, sei venuto a spiarci? Ti manda il re della Terra del Vento?»

Sennar scoppiò a ridere. «Certo. E per spiarvi meglio mi sono arrampicato sulla coffa della vostra nave e ho fatto il possibile per lasciarci le penne.»

Aires rise.

Sennar tornò serio. «Sono qui perché la guerra va male, Aires. L’esercito delle Terre libere perde posizioni su posizioni, mai che riesca a conquistare terreno. Al Tiranno i soldati non mancano, li crea lui stesso. I nostri uomini, invece, cadono come mosche. È da quando ero bambino che vedo gente morire. Volevo fare qualcosa. Qualcosa che non fossero incantesimi alle armi o assemblee interminabili. Poi ho trovato la mappa.» Si voltò verso Aires e fece una pausa. «È stato allora che mi è venuta l’idea di chiedere rinforzi al Mondo Sommerso.»

Sennar cercò di capire che effetto le avesse fatto quella rivelazione, ma Aires lo osservava con uno sguardo indecifrabile. Poi comparve il solito guizzo di ironia sul fondo degli occhi neri. «E tu rischi la vita per un motivo tanto idiota?»

Sennar rimase di sasso. Di tutte le reazioni possibili, quella era la più inaspettata. «Non... non capisco» balbettò.

«Svegliati, mago! Se morirai, la gente per cui ti stai sacrificando non ti dirà neppure grazie.»

«Non è per questo che...» cercò di intervenire Sennar.

Aires però era un torrente in piena e non lo lasciò proseguire. «La vita è una sola ed è breve. Non ha senso sprecarla per gli altri. Io faccio solo quello che voglio. Desidero gioie, dolori, passione, disperazione... ogni cosa. Perché quando la morte mi prenderà con sé, tutto quello che avrò sarà la vita che ho vissuto.» Parlava con foga e le guance le si imporporarono. «Posso capire chi dedica la vita a un amante, a un figlio, a un amico. Ma chi spreca il proprio tempo per cercare di “fare del bene” è uno stupido. La maggior parte della gente pensa solo a tirare avanti e sopravvivere. Per quanto mi riguarda, gli abitanti del Mondo Emerso possono finire tutti sottoterra. Se ne stanno lì, ad aspettare che la morte se li vada a prendere. Che crepino, si sono condannati da soli. Tu ovviamente» concluse «non sarai d’accordo. A te piace fare l’eroe.»

Sennar tacque per un po’, aveva bisogno di pensare. Poi si schiarì la voce. «Lascia che ti racconti una cosa. Quando due anni fa scappai dalla Terra del Vento, all’arrivo del Tiranno, lungo la strada mi imbattei in una casa distrutta. Ci viveva una famiglia di contadini, padre, madre e figlia. Erano tutti morti, compresa la bambina: un soldato l’aveva trapassata con la spada e l’aveva lasciata a marcire sulla soglia di casa. Fummo io e i miei compagni a seppellire i cadaveri. Come avrebbe potuto difendersi quella bambina, Aires? Perché i deboli devono soccombere? Non tutti sono forti come te. Chi non ha forza può avere coraggio, ma il coraggio non basta.» Sennar si passò le mani sul viso, poi guardò Aires negli occhi. «Io ho paura, non voglio morire, ma so che devo andare avanti. E non perché mi piace fare l’eroe. Ho preso una barca e sono andato per mare. Non credo che basti per definirmi un eroe. L’ho fatto perché non tolleravo più la morte intorno a me. L’ho fatto per paura. Paura del rimorso.»

Il sole era scomparso sotto l’orizzonte. Aires rimase seduta con le gambe incrociate sulla sabbia, il viso rivolto al mare. Sorrise. «In fin dei conti mi piaci, mago. Sì, sei un bel tipo, potresti realizzare grandi cose. Ma ho capito che non riuscirò a farti cambiare idea.»

Sennar sentì che la malinconia era svanita. Era calmo. Per la prima volta, la vicinanza di Aires non lo metteva a disagio. Non importava più che lui fosse un uomo e lei una splendida donna. Erano quasi amici.

I suoi pensieri furono interrotti da un calcio alla nuca. Cadde su un fianco, intontito.

Aires scattò in piedi, furiosa. «Sei diventato matto?»

Benares era dietro di loro, paonazzo di rabbia. «Cosa credi, che sia cieco? Ora anche l’appuntamento romantico al tramonto. Ma bene...»

Aires scoppiò in una risata sguaiata. «Non mi ero mai accorta di quanto fossi idiota, Benares.»

«E io di quanto tu fossi una sgualdrina» ringhiò lui.

«Attento, Benares, stai giocando col fuoco.»

Sennar era ancora steso a terra. Sentiva le voci smorzate dei due amanti, vedeva la sabbia bianca a un palmo dal naso. Quando cercò di alzarsi ebbe un capogiro.

Appena fu in piedi, Benares lo colpì di nuovo. Sennar crollò lungo disteso. Forse affrontare un fidanzato geloso non era facile come aveva creduto. Aires e il pirata continuavano a urlarsi insulti, i loro nasi quasi si sfioravano. Quella situazione gli sembrava ridicola. Adesso basta. Si sollevò a sedere e tese una mano verso Benares.

L’uomo si bloccò, incapace di muoversi. Non riusciva neppure a parlare. Ora sì che si ragiona , si disse il mago mentre si alzava in piedi.

Aires spostò lo sguardo dall’amante a Sennar e da Sennar all’amante, perplessa. «Che cosa...»

Sennar le fece segno di tacere e si avvicinò al pirata pietrificato. «Devo farti una confessione, Benares. La prima volta che ti ho visto ho pensato che tu fossi un imbecille. Poi, quando mi hanno raccontato della liberazione di Rool, mi sono ricreduto. A quanto pare, però, è vero che è la prima impressione quella che conta.»

Gli occhi del pirata si accesero come due tizzoni ardenti.

Il mago schioccò le dita e a Benares fu restituita la voce.

«Giurami che non le ronzerai più intorno» rantolò.

«Non le ho mai ronzato intorno.»

«Giuralo, o quanto è vero che esisto, appena sono libero ti ammazzo con le mie mani. Il tuo incantesimo non potrà durare in eterno.»

«Chi lo sa? Vogliamo provare?» lo provocò Sennar. Un incantesimo offensivo di quel tipo richiedeva una certa fatica e non poteva essere mantenuto a lungo, ma Benares di certo non lo sapeva.

Infatti ci cascò come un frutto maturo. «Voglio la tua parola!» ruggì.

Sennar sbuffò. «Ti hanno mai detto che sei noioso? Non ho cercato di sedurre la tua donna e non lo farò in futuro. Contento ora?»

Benares mosse gli occhi in direzione di Aires, che aveva assistito alla scena con un ghigno soddisfatto. «Va bene, per questa volta sono disposto a passarci sopra, donna. Però ricordati: la mia pazienza ha un limite» borbottò.

Aires gli si accostò ancheggiando. Lo guardò a lungo, gli sorrise, gli accarezzò il viso con dolcezza. Poi avvicinò le labbra come per baciarlo.

Lo sputo colpì Benares in un occhio. Aires gli voltò le spalle e si allontanò a testa alta.

L’incantesimo era ormai agli sgoccioli. Sennar lo sciolse e il pirata si lanciò all’inseguimento, ma non prima di aver sibilato: «Con te i conti non sono chiusi, mago».

8 La battaglia di Laio.

La lettera era chiara e lapidaria.

Laio, la tua condotta fin qui è stata disdicevole. Non solo hai infangato l’onore della tua famiglia fallendo la prova della prima battaglia, ma sei anche fuggito e ti sei dato alla vita del vagabondo. Ora scopro che ti sei rintanato in un accampamento a fare un lavoro indegno delle tue capacità e della tua posizione.

Esigo che tu cambi immediatamente questo tuo assurdo comportamento. Sei nato per combattere e combatterai. Opporti alla mia volontà è sciocco, oltre che inutile. Ti ordino dunque di raggiungermi nell’abitazione della Terra dell’Acqua, dove sotto la mia diretta supervisione continuerai l’addestramento per diventare Cavaliere. Se entro venti giorni non ti vedrò varcare la soglia di casa, verrò io stesso a prenderti, che tu lo voglia o no.

Seguiva un elaborato sigillo di ceralacca che raffigurava un drago con le fauci spalancate. L’animale era sovrastato da una sottile falce di luna e da tre stelle, a ricordare che la stirpe di Laio proveniva dalla Terra della Notte. La firma, vergata con un inchiostro rosso cupo, recitava enfatica: “Generale Pewar, dell’Ordine dei Cavalieri di Drago della Terra del Sole”.

Quando Nihal la lesse, si sentì montare il sangue alla testa. «Tuo padre non può trattarti così» disse, trattenendo a stento l’ira.

Laio sorrise amaro. «Mi ha sempre trattato così.»

«E glielo permetti ancora? Non sei più un bambino. Devi dirgli quello che vuoi fare della tua vita. Tua, hai capito? Se non è d’accordo, che se ne vada al diavolo!»

Il ragazzo non rispose. Stringeva la pergamena tra le mani e aveva le lacrime agli occhi.

Nihal non si capacitava. Perché Laio non la faceva finita e non si opponeva alle assurde imposizioni del padre? «Che cosa pensi di fare, startene qui ad aspettare che venga a prenderti per un orecchio come un bambino disobbediente?»

«Non lo so, va bene? Non lo so!» urlò Laio all’improvviso. «Per ora voglio restare solo, nient’altro» aggiunse in un sussurro.


Nihal si catapultò nella capanna di Ido.

«Devi fare qualcosa! Dobbiamo aiutarlo!» esclamò, rossa in viso.

Ido non si scompose. «Invece non farò proprio niente.»

Nihal rimase impietrita. Dopo tutto l’aiuto che Laio aveva dato a lei e a Ido in quei mesi, il suo maestro non poteva tirarsi indietro. «Stai scherzando, vero?»

Lo gnomo scosse la testa.

«Forse non ti rendi conto della situazione» continuò Nihal, ancora più arrabbiata. «Laio non è fatto per la guerra e quel pazzo di suo padre vuole gettarlo nella mischia. Il giorno della sua prima battaglia, se non fosse stato per me, sarebbe morto.»

«Non è affar mio, Nihal.»

«Però era affar tuo quando ti lucidava le armi e ti serviva. Cos’è, hai paura di quel pallone gonfiato del padre?»

Ido strinse la mano sulla pipa e Nihal percepì la sua irritazione. «Per tua norma e regola, non mi preoccupo né di Pewar né di Raven. Ho tenuto testa a gente del genere da molto prima che tu nascessi. Chiaro?»

Nihal abbassò gli occhi. «D’accordo» mormorò. «Ma allora perché non vuoi dargli una mano?»

Ido trasse un respiro profondo. «Ascolta, Nihal. Quante volte ancora bisognerà salvare Laio, da se stesso o da qualcuno che lo minaccia? Hai impedito che ci lasciasse le penne in battaglia, lo hai recuperato da una catapecchia sperduta nel profondo della foresta, me l’hai portato qui... È ora che impari a cavarsela da solo. Un uomo deve sapersi tirare fuori dai guai. E anche una donna.»

«Ma tu ci sei sempre stato quando ho avuto bisogno di una mano.»

«Però sei stata tu, non io, a decidere di cambiare. Ci sono cose che dobbiamo fare da soli.»

Nihal restò in silenzio per qualche istante. «Ma lui non è in grado di cavarsela. È come mandare un bambino da solo in giro per il mondo.»

«Non fare la mamma apprensiva, adesso. Primo, non ti si addice, secondo, Laio ha bisogno di tutto tranne che di questo. Se davvero vuole fare lo scudiero, deve dirlo al padre e lottare per la propria indipendenza. Punto.»

«E il mio compito quale sarebbe? Stare a guardare?»

«Sì, Nihal. Nei tre mesi in cui hai provato a vivere lontana dal campo di battaglia, io ho aspettato. A volte non si può fare altro.»


Laio restò solo nella sua stanza. Immaginò Nihal che andava da Ido e faceva il diavolo a quattro. E lui? Che cosa avrebbe fatto? Guardò la lettera e non intravide neppure un briciolo di speranza. Conosceva bene suo padre: era un uomo severo, un soldato fino al midollo, abituato a farsi obbedire. Se fosse venuto a prenderlo, l’unica strada possibile sarebbe stata lo scontro. Forse doveva fuggire di nuovo, darsi alla macchia. Il Mondo Emerso era vasto, suo padre avrebbe impiegato anni a trovarlo, se mai ci fosse riuscito. Così, però, che vita lo attendeva? Un eterno vagare da un posto all’altro, costretto a guardarsi sempre le spalle.

Nel poco tempo trascorso alla base, aveva capito che voler fare lo scudiero non era un capriccio. Quel lavoro gli piaceva. Non era portato per le armi, però sapeva prendersi cura di quelle degli altri. In guerra non sarebbe mai stato utile, ma poteva dare il suo contributo all’abbattimento del Tiranno aiutando i guerrieri. Non ci vedeva niente di disonorevole.

Guardò la spada che l’aveva accompagnato in tutti quei mesi di vagabondaggio, abbandonata in un angolo della stanza. Fissò la lama. Non era ben affilata e iniziava ad arrugginirsi. Aveva lucidato con amore la spada di Ido, ma non gli era mai piaciuto occuparsi della propria. Ora invece avrebbe dovuto riprenderla in mano.

In un lampo gli apparve la sua vita futura. Una vita breve. Al primo combattimento, durante una missione qualsiasi, sarebbe morto. Una fine sciocca per una vita inutile. Qualcosa in lui si smosse. No, non andrà così! In quei mesi aveva scoperto che c’era un’alternativa. Poteva aspirare a qualcos’altro.

Era deciso. Non avrebbe rinunciato senza lottare a tutto ciò che aveva conquistato. Questa volta per niente al mondo sarebbe scappato.


Quando l’indomani Nihal mise piede nella stanza di Laio, rimase di stucco. Il suo amico stava preparando i bagagli.

«Non intendo sottostare agli ordini di mio padre» le disse. «È vero, non sono ancora un uomo, ma non sono neppure un ragazzino e voglio fare lo scudiero. Andrò da lui e gli spiegherò le mie ragioni.»

Nihal sorrise. «E come farai?» chiese, mentre lo guardava ammassare roba sulla branda.

«Semplice: parto, vado da lui e gli dico quel penso.»

«Parlavo del viaggio.»

Laio si fermò, pensieroso. «Si tratta di andare nella Terra dell’Acqua. Con un buon cavallo non ci vorranno più di due settimane.»

Nihal scosse la testa. «Ti sei già dimenticato la nostra bella notte nella Terra del Mare? Ti muoverai lungo i confini. Non è un viaggio sicuro.»

«Vorrà dire che starò attento» rispose Laio.

«Ti ci vuole una scorta. Ne parlerò con Nelgar» tagliò corto lei, poi raggiunse la porta a grandi passi.

Quando fu nell’alloggio del responsabile della base, però, Nihal non chiese una guida qualunque per il suo amico. Chiese una licenza per poterlo accompagnare.

«Non sta a me decidere» rispose il comandante. «Al momento sei ancora allieva di Ido. Se lui sarà d’accordo, io non avrò nulla da obiettare.»

Nihal si lasciò sfuggire un sospiro. Proprio quello che voleva evitare.


«Mi sembrava di essere stato più che chiaro» esordì Ido.

«Non è come pensi.»

«No, certo che no.» Ido si ficcò in bocca la pipa. «Non stai facendo un favore al tuo amico, Nihal. Laio se la deve cavare da solo, o non sarà mai un uomo. E tu non sei sua madre, né sua sorella, non sei nessuno.»

«Il viaggio è pericoloso, su questo almeno sarai d’accordo.»

Ido annuì controvoglia.

«Quindi, se qualcuno deve accompagnarlo, non vedo perché non posso essere io. So badare a me stessa e mi sembra di averlo anche dimostrato.»

Ido levò gli occhi al cielo.

Nihal perse la pazienza. «D’accordo, non ho la forza che hai tu, va bene? Non tutti sono capaci di lasciar andare le persone a cui tengono senza dire una parola, pregando solo che prendano la decisione giusta. Ho già lasciato andar via troppa gente che amavo.» Pensò a Sennar, sperduto chissà dove in mezzo al mare. Scosse la testa. «Non vado con lui per risolvere i suoi guai con il padre. Vado solo per stargli vicino, perché è quello che vorrei io se fossi nei suoi panni. Lui mi ha aiutata, mi ha assistita ogni volta che ne ho avuto bisogno, è stato con me la notte in cui Fen è morto. Ora è il mio turno, starò al suo fianco nella decisione più importante della sua vita. Non farò altro, e se deciderà di rinunciare ai suoi sogni, te lo giuro, non interverrò. Il mio è solo un sostegno... spirituale, ecco.»

«Sai come la penso. Se sei convinta di quello che dici, fa’ pure. Personalmente, non credo che resisterai alla tentazione di dirne quattro a Pewar.»

Nihal si scostò i capelli dalla fronte con un gesto stizzito e Ido scoppiò in una risata inaspettata. «Ti sto prendendo in giro! Possibile che tu debba avere sempre quel muso lungo? Non hai un briciolo di senso dell’umorismo.»

Lei arrossì, imbarazzata. «Allora... per te va bene se mi assento per qualche tempo?»

Ido sospirò. «E sia. Parti, vai, fai quello che vuoi. Tanto lo so che devi sempre fare di testa tua. È giusto così, no? I giovani non vogliono consigli dai vecchi, e io comincio ad avere una certa età.»

«Ma se sei un giovincello» scherzò Nihal.

Lo gnomo le diede uno scappellotto affettuoso. «Sì, sì, fai la spiritosa.»

Nihal sorrise. Ido era scorbutico e brusco, ma sapeva capirla come pochi altri al mondo.


Nelgar aveva deciso di distaccare un altro uomo insieme a Nihal e a Laio, un soldato semplice di nome Mathon con il quale Nihal aveva scambiato al massimo un paio di parole. Laio invece lo conosceva abbastanza bene ed era felice che si fosse unito a loro.

La piccola compagnia si mosse all’alba. Partirono a cavallo ai primi raggi di un tiepido sole primaverile. L’estate era alle porte e l’aria era dolce.

Presero la strada che portava al bosco e costeggiarono la Grande Terra diretti verso sud. Laio guardò la base scomparire a poco a poco, inghiottita dagli alberi. Quando il folto si chiuse del tutto dietro di loro, si chiese se avrebbe mai rivisto quel luogo, ma non si concesse tentennamenti o rimpianti inutili. Volse lo sguardo al sentiero davanti a sé e si preparò alla prima grande battaglia della sua vita.

9 Nel gorgo.

Alla partenza dei pirati erano presenti quasi tutti gli abitanti dell’isola. Erano assiepati sul minuscolo molo, poco più di quattro assi di legno timidamente protese sul mare increspato dalle onde.

Moni si fece avanti tra la folla e raggiunse Sennar. «Sono venuta a portare la mia benedizione alla spedizione, giovane mago. Spero di vederti tornare vittorioso» disse. Gli posò una mano sulla spalla.

La giornata era soleggiata e le vele della nave garrivano rosse come il sangue. Sennar guardò il capitano a prua e Aires al timone, i capelli al vento. Sorrise.

Non ci volle molto perché il profilo delle Vanerie sparisse all’orizzonte.


Il mare tornò a essere il padrone incontrastato del panorama. Per giorni e giorni non si vide una nuvola, né un cambiamento nel paesaggio. Non c’era scampo da quel trionfo di luce e da quel blu opprimente.

Le giornate scorrevano lente e il tempo per riflettere era troppo. A Sennar sembrava di essere chiuso in una gabbia di acqua e cielo. Ormai sapeva cosa serbava l’oceano per loro e la paura divenne una fedele compagna di viaggio. Si trovava spesso a immaginare la morte alla quale poteva andare incontro: l’acqua che invadeva i polmoni, il sale che bruciava la gola e le narici, il senso di soffocamento e di impotenza, l’aria che mancava, minuti interminabili di agonia e infine l’incoscienza, come una liberazione. Poi il suo corpo mangiato dai pesci, consumato dalle correnti, sfigurato dalle onde. Si imponeva di non pensarci, ma quelle immagini lo tormentavano.


L’atmosfera non era pesante solo per Sennar. Il timore che aleggiava sulla nave non risparmiava nemmeno Rool e Aires.

Più di un pirata aveva cercato di convincere il capitano a lasciar perdere. «Il milione di dinar lo abbiamo intascato, che ragione c’è di andare avanti? Buttiamo in mare il mago e torniamocene a casa.»

Rool però li aveva rimessi al loro posto. «Sennar ci ha salvato la vita e noi lo porteremo fino al gorgo. Così mi sono impegnato a fare e così farò.»

Una mattina, dopo due settimane di navigazione, la superficie dell’acqua si fece stranamente densa e il mare iniziò a essere percorso da venature violette, prima evanescenti, poi sempre più definite e compatte. Nonostante il forte vento, la nave rallentò fino ad arrestarsi quasi del tutto.

«Ritirate le vele, maledizione!» gridò Rool. «E chiamatemi il mago.»

A bordo tutto parve fermarsi. L’intero equipaggio era affacciato alle murate, gli occhi fissi su quel magma bluastro.

«Che cos’è?» chiese Rool, quando Sennar lo ebbe raggiunto.

«Non lo so, capitano» mormorò lui.

«Pensaci! Dev’essere una diavoleria magica.»

Sennar scosse la testa. «Nessuna magia può creare una cosa del genere» rispose calmo.

«Che facciamo?»

Se anche Sennar avesse avuto la risposta, non avrebbe avuto il tempo di darla. All’improvviso la nave cominciò a muoversi da sola. Un mormorio percorse la ciurma. Uno strattone in avanti, poi un altro. Nonostante le vele ammainate, la nave accelerò come se avesse il vento in poppa. Il mare si trasformò in un’unica massa viscida e pulsante.

Sotto la chiglia, la melma aveva preso consistenza e ora si mostrava per ciò che era: una pelle coriacea.

Sennar ricordò le parole di Moni: un guardiano oscuro sulla rotta del gorgo. E capì. Un mostro marino. Aveva letto qualcosa in proposito, ma aveva sempre creduto che si trattasse di leggende: strane creature che popolavano gli abissi, esseri immani che attaccavano le navi. Si erano imbattuti in una di quelle bestie. Forse un mago del Mondo Sommerso l’aveva vincolata alla protezione del regno con qualche incantesimo.

Il mostro, o almeno una parte di esso, si manifestò in tutto il suo orrore. Era una massa informe grande quattro volte la nave, diversa da qualunque essere vivente avessero mai visto: un’immensa coltre di carne circolare, al centro della quale si apriva una voragine putrescente. Stavano navigando sul suo corpo e ovunque volgessero lo sguardo non vedevano altro.

Intorno alle fauci della creatura, il viola del corpo virava al nero: una bocca enorme, irta di denti, dalla quale si levavano miasmi di putrefazione. Al suo interno si intravedevano pesci semidigeriti, tronchi d’albero, resti di imbarcazioni. E poi cadaveri e teschi, umani e non, trascinati fin lì dalla corrente. Ecco la fine di chi naufragava durante la tempesta che proteggeva le Vanerie.

Non esistevano più né mare né onde. Non c’era via di fuga.

Un mugghiare cupo invase l’aria e giganteschi tentacoli coperti di ventose si alzarono e si contorsero contro il cielo. Per un istante sembrarono oscurare il sole, poi si abbatterono sulla nave.

Fu il panico. Un alberò si spezzò e crollò fragorosamente sul ponte. I lamenti dei pirati travolti si aggiunsero ai comandi di Rool, alle urla di terrore di Aires, agli incitamenti di Benares.

«Fai qualcosa! Fai qualcosa!» gridò Dodi a Sennar.

Sennar non era meno spaventato degli altri. Cercava di ragionare, ma il filo dei suoi pensieri gli sfuggiva di continuo. Tutto quello che riusciva a fare era erigere la sua barriera a ogni colpo.

L’imbarcazione filava ormai a una velocità innaturale. Sotto la pelle coriacea e viola cupo del mostro, le contrazioni dei muscoli erano sempre più potenti e ravvicinate.

A mano a mano che la nave correva verso la gola del mostro, il mugolio affamato della creatura aumentava di volume. Era un suono spaventoso e raccapricciante, che si univa alle grida dell’equipaggio in una melodia grottesca.


Sennar era attaccato all’albero maestro. Si imponeva di restare calmo, ma senza successo. Il suo cuore sembrava impazzito. Cercò il capitano e sua figlia, ma invano.

Benares gli si parò davanti all’improvviso. «Datti una mossa, mago!»

Sennar lo guardò stralunato. «Non so cosa fare.»

Il ceffone lo centrò in pieno volto. «Allora inventa qualcosa!» gli gridò in faccia il pirata. Poi lo agguantò per i capelli e lo trascinò a prua. «È per questo che siamo venuti fin qua? Per riempire la pancia di questo mostro? Dove sono ora tutte le tue belle chiacchiere?»

«Io...»

Benares era fuori di sé. «Sta’ zitto! Dimostrami che sei pronto a tutto pur di portare a termine la tua missione.»

Sennar annuì. Ha ragione lui. Non può finire così.

«Allora?» urlò Benares. «Che cosa hai intenzione di fare?»

Sennar prese coscienza dell’unica soluzione possibile. Non pensare a quello che potrebbe succedere. Non pensare a niente. Fallo e basta. «Ho bisogno del tuo aiuto, Benares.»

«D’accordo, ma vediamo di sbrigarci» rispose il pirata.


All’inizio fu impercettibile. La nave si alzò piano, come tirata da gomene invisibili. Poi la chiglia si staccò di poche braccia dalla pelle del mostro, insicura, finché con un strattone non si sollevò del tutto. Il pennone puntò verso il cielo e la nave salì sempre più rapida, le vele stranamente rigonfie verso il basso. Sotto di lei, il mostro si contraeva in maniera convulsa alla ricerca della preda.

«Stiamo volando» mormorò stupefatto Dodi, mentre i pirati si sporgevano dalle murate per guardare quel prodigio.

A prua, Sennar era affacciato oltre il parapetto, gli occhi serrati, e gridava parole incomprensibili. Al suo fianco, Benares lo guidava nella giusta direzione. Sotto di loro, il demone scolpito nel legno sembrava irridere le fauci della bestia, che si aprivano e si richiudevano spasmodicamente.

Sennar strinse i pugni e si sforzò di proseguire. Era l’incantesimo più faticoso che avesse mai fatto. Aveva il corpo contratto dallo sforzo e il dolore invadeva ogni singola fibra dei suoi muscoli.

La chiglia cozzò un paio di volte sulla superficie coriacea.

«Concentrati! Stiamo calando di quota» ringhiò Benares.

La nave accelerò di colpo e fece perdere l’equilibrio all’equipaggio. Lo scafo riprese a sollevarsi poco alla volta, finché non si alzò di nuovo.

«Issare le vele!» gridò allora Benares. «Issare le vele, subito!»


La nave continuava a volare a poche braccia dal mostro, cercando una via d’uscita tra la selva dei tentacoli.

Il mago era allo stremo delle forze, non avrebbe retto ancora a lungo; era come se le sue energie venissero risucchiate fuori a una velocità vertiginosa. Accennò a cadere, ma Benares lo sorresse. «Forza! Ti tengo io, tu pensa a farci volare.»

Sennar sentì solo le braccia del pirata strette intorno al petto e la sua voce che urlava: «Ciurma! Mano agli arpioni!». Guidato da Rool, l’equipaggio riprese coraggio e iniziò a infierire contro il mostro. Su entrambi i fianchi della nave, un gruppo di pirati agganciò i tentacoli con i rampini e un altro si lanciò all’attacco con spade e scuri.

Dalle ferite schizzò un liquido giallastro e maleodorante. Nell’aria rimbombarono gli ululati agghiaccianti della bestia.


La voce di Benares arrivò a Sennar distante e attutita. «Scendi! Scendi, maledizione!»

Sennar si sentì scuotere.

«Ti ho detto scendi. Ce l’abbiamo fatta!»

Quando riaprì gli occhi, il mago vide davanti a sé il mare aperto. Il disco rosso del sole che tramontava gli ferì le pupille, il vento fresco della sera gli frustò il viso.

La nave ammarò dolcemente, mentre a un centinaio di braccia dalla poppa l’ultima propaggine del mostro si inabissava. Sul ponte si levarono grida di trionfo. L’incubo era finito.

Sennar tremava da capo a piedi. Benares non disse una parola. Lo allontanò dalla prua e lo affidò in modo brusco a Dodi, poi si mise a correre lungo il ponte.

«Aires!» urlò il pirata. «Aires!»

«Figlia! Rispondi!» gli fece eco Rool.

Per qualche istante, sulla nave scese un silenzio di tomba.

Poi sul ponte risuonò una debole voce. «Sono... sono qui.»

Aires giaceva miracolosamente incolume tra quel che restava del castello di poppa.


Si trovavano in mezzo al mare, lontani dalle Vanerie e dal Mondo Sommerso. Ma erano vivi e fuori dalla portata del mostro.

«Bisogna proseguire» disse Rool all’equipaggio radunato sul ponte.

«E come?» fece un pirata. «Siamo rimasti in pochi. La maggior parte delle vele è inutilizzabile e un albero è distrutto.»

Aires prese la parola. «Le vele si possono riparare. Quanto all’albero, ce ne sono altri due. Cos’è, avete paura di non farcela?»

Tra i pirati si levò un brusio di protesta.

«Quel moccioso le ha fatto perdere la testa» bisbigliò una voce.

«Silenzio!» tuonò il capitano. «Vi ricordo che chi decide sono io. Ora rimbocchiamoci le maniche e togliamoci di qui. C’è puzza di morte.»

L’equipaggio fece del suo meglio per aggiustare le vele e ricucire la tela come possibile. Con scarsi risultati, però. Ciò che ottennero furono vele piccole e piene di rammendi, con una portata molto inferiore alle precedenti. Se il vento aumentava, bisognava ammainarle; se invece diminuiva, la nave procedeva lenta.

Sennar era esausto per l’incantesimo. Non appena riuscì a lasciare la stiva, salì sottocoperta e raggiunse la cabina di Rool. Trovò il capitano e la figlia che consultavano la mappa.

«Bisogna cambiare rotta» disse Rool quando lo vide entrare.

Sennar corrugò la fronte e si avvicinò al tavolo. «Abbiamo sbagliato direzione?»

Il capitano gli indicò un piccolo arcipelago. «No. Ma la nostra unica speranza di uscire vivi da questa situazione è arrivare qui. Le isole non sono lontane, una, massimo due settimane di viaggio. Dovrebbero essere a distanza di sicurezza dal gorgo.»

Sennar tacque, pensieroso, poi annuì. «Va bene, capitano. Avete ragione. Ci fermeremo lì, mi darete una barca e i nostri destini si separeranno.»

Un istante di silenzio accolse le sue parole.

«Sennar, ripensaci...» iniziò Aires.

Il mago la interruppe. «Quando ho accettato questa missione, sapevo che mi aspettava una prova difficile.»

La donna si alzò, spazientita. «Non è difficile, è impossibile! Lo è stata fin dall’inizio. Non ne uscirai vivo. Che senso ha?»

Risuonò un pugno sul tavolo. «Smettila con questa lagna, Aires» tuonò Rool. «È una sua scelta. L’argomento è chiuso.»


All’inizio della seconda settimana di navigazione dopo lo scontro con il mostro, il mare diventò bianco come il latte. L’acqua si riempì di detriti che vorticavano e la corrente si fece sempre più violenta.

Era l’alba e Sennar si trovava sul ponte. Guardò la schiuma delle onde sfilare lungo i fianchi della nave. Si sentì sgravato da un peso. Sono arrivato. La potenza del gorgo si spingeva fin lì. L’attesa era finita.

A poco a poco, l’equipaggio si radunò sul ponte e iniziarono i preparativi per calare la barca di Sennar. Mentre i marinai caricavano la scialuppa con acqua e cibo, Sennar sentì il sangue defluirgli dal viso. Gli formicolavano le labbra, aveva la bocca asciutta e non riusciva a controllare il tremito delle mani.

Aires restò al suo fianco, in silenzio, finché la scialuppa non fu pronta.

I pirati si schierarono sul ponte, in attesa.

Sennar li guardò a uno a uno: i suoi compagni di viaggio. Quando parlò, aveva la voce incrinata dall’emozione. «Mi dispiace per tutto quello che vi ho fatto passare. Siete... sì, siete uomini straordinari. Vi ringrazio. Davvero.» Si rivolse a Rool. «Vorrei potervi aiutare a tornare indietro, capitano.»

Rool avanzò verso di lui e gli diede una pacca sulla spalla. «Non ti preoccupare. Siamo gente di mare, no? Pensa solo a portare a casa la pelle, ora.»

Poi fu la volta di Dodi. «Buon viaggio, mago. Ci rivedremo presto» disse con un sorriso fiducioso.

Qualcuno lo salutò con dispiacere e qualcuno con malcelata soddisfazione: finalmente quel portatore di disgrazie si levava dai piedi. Persino Benares gli strinse la mano con un sorriso gelido.

Aires si avvicinò per ultima e lo abbracciò a lungo. Poi lo staccò da sé e lo guardò negli occhi. «Non partire» disse sottovoce «unisciti a noi.»

Sennar le rivolse un mezzo sorriso. «Sono un bravo ragazzo, Aires, lo sai. La vita di mare non fa per me.»


Il rumore delle onde che si infrangevano sulla chiglia lo fece rabbrividire. Guardò in basso. La scialuppa oscillava su un mare in ebollizione. «Potete calare» disse con un filo di voce.

Rool, Aires, Dodi e tutti gli altri scomparvero dietro la murata e Sennar fu solo con l’oceano.

La barca venne catturata dalla corrente non appena toccò l’acqua. Era la fine di quel lungo viaggio. Sennar aveva le mani ghiacciate e il cuore gli batteva tanto forte che sembrava voler sfondare il petto. Qualche volta, in sogno, aveva provato la stessa sensazione: sentiva che stava per morire e non poteva fare nulla per salvarsi. Poi si svegliava, ritrovava la pace della sua stanza e capiva che non c’era nulla da temere. Ma ora non ci sarebbe stato alcun risveglio. Poteva solo restare lì, seduto sul fondo della scialuppa, ad attendere la propria fine. Era terrorizzato. Perché devo morire così? Strinse gli scalmi vuoti dei remi fino a quando le nocche non divennero bianche. Che senso ha?

La barca correva inesorabile, veloce come il vento. Sennar dovette aggrapparsi ai bordi per non cadere. Poi alzò lo sguardo e lo vide: il gorgo.

Era inimmaginabile, maestoso, terribile. Si estendeva per leghe; le correnti che provocava sembravano lambire l’orizzonte e inghiottire anche quello. Era bello come solo le cose terribili possono essere: un cerchio perfetto circondato da un’infinita danza di onde. Il bianco della spuma si scuriva verso il centro del gorgo, fino a tingersi di un nero minaccioso nel punto esatto in cui le acque si tuffavano nell’abisso. Sui flutti il sole creava riverberi accecanti e il vortice era così precipitoso da sembrare immoto. Solo il frenetico girotondo dei detriti che trascinava con sé ne rivelava la potenza.

La barca iniziò a girare in tondo. Prima lentamente, poi con impeto sempre maggiore. Sennar urlò con quanto fiato aveva in gola, nella speranza di sfogare il terrore che lo attanagliava, ma il fragore dell’acqua sovrastava qualsiasi altro suono. Devo ragionare! Si appiattì sul fondo della barca. Se voglio salvarmi devo rimanere lucido!

Continuò a girare per un tempo che gli parve infinito. Poi, dopo un’ora, un anno o forse tutta una vita, la corsa della scialuppa si fece inarrestabile. Sennar la sentì inclinarsi. Si affacciò e vide la bocca del vortice che si spalancava sotto di lui.

Fu allora che innalzò la barriera. Il rombo delle onde cessò, i battiti del suo cuore iniziarono a rallentare. Sì, il gorgo era terrificante, ma lui poteva mantenere la barriera almeno per un paio d’ore.

La barca scendeva rapidissima. Va tutto bene. Continuava a scendere. È tutto sotto controllo. Ben presto la luce del sole si ridusse a un bagliore lontano. Ogni cosa si tinse di azzurro. Era nel ventre del mare.

A un tratto Sennar sentì di avere i piedi bagnati. Ebbe un tuffo al cuore. Come era possibile? La cupola della barriera circondava intatta i fianchi della barca, ma sotto di lui l’acqua gorgogliava. Guardò con più attenzione. Una falla! La barca aveva una falla! Sennar ebbe appena il tempo di ripensare alle parole di Benares, quella sera, sulla spiaggia delle Vanerie: “Con te i conti non sono chiusi, mago”. Poi il mare spinse con prepotenza contro la chiglia, la falla si allargò e il fondo della scialuppa si aprì come un guscio di noce.

Sennar fu investito dalla violenza delle onde. Il colpo lo stordì e, quando si riprese, tutto ciò che vide furono i suoi capelli volteggiare nell’acqua.

Sentì l’irrefrenabile impulso di respirare.

Spalancò la bocca.

Acqua. Sale.

Sto annegando.

L’acqua gli invase i polmoni.

Il sale gli bruciò la gola e le narici.

È proprio come avevo immaginato.

Un istante prima di perdere i sensi, vide Nihal. Era bella. Sorrideva. Era libera.

Poi si sentì soffocare e sprofondò nel buio.

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