I sogni erano piacevoli: sogni di calore e di luce, la vita di un animale, un eterno presente.
La coscienza tornò, accompagnata da un formicolante dolore, come del sangue che affluisse dentro una gamba da tempo intorpidita. Lottò per riunificare se stesso, per assumersi il fardello di essere di nuovo Lindsay, e il dolore del procedimento lo spinse ad artigliare l’erba, schizzando di terriccio la sua pelle nuda.
Il caos ruggiva tutt’intorno a lui: la realtà nella sua forma più grezza, una confusione ronzante, accecante. Giacque supino sull’erba, ansando. Sopra di lui il mondo tornò a fuoco: una luce verde e bianca, una bruna cornice di rami. La concretezza si riappropriò del mondo. Vide un virgulto vivo di foglie intrecciate e ramoscelli: una forma d’una bellezza talmente fantastica che fu sopraffatto dalla meraviglia. Si sollevò e scivolò verso il tronco ruvido dell’albero, trascinando le sue carni nude in mezzo all’erba liscia. Buttò le braccia intorno all’albero e appoggiò la guancia barbuta contro la corteccia.
Fu colto dall’estasi. Premette il viso contro l’albero, singhiozzando in preda al delirio, lacerato da una profonda trance visionaria.
A mano a mano che la sua mente si riorganizzava, cominciò a essere assalito da intuizioni, entrando lentamente in simbiosi con quell’essere vivente.
Una gioia inarrestabile lo pervase quando si unì alla sua serena integrazione.
Quando gridò per chiedere aiuto, due giovani plasmatori che indossavano la bianca uniforme ospedaliera risposero alle sue grida. Prendendolo per le braccia, lo aiutarono ad attraversare barcollando il prato e a superare l’ingresso di pietra della clinica.
Lindsay aveva la lingua bloccata. I suoi pensieri erano limpidi, ma le parole non volevano venire. Riconobbe l’edificio: era la dimora dei Tyler. Era di nuovo nella Repubblica. Avrebbe voluto parlare agli infermieri, chieder loro come aveva fatto a tornarci, ma il cervello non riusciva a rimescolare ordinatamente il suo vocabolario. Sulla punta della sua lingua le parole aspettavano angosciosamente di venir pronunciate.
Lo condussero attraverso un atrio pieno di modelli e di reperti racchiusi nel vetro. L’ala sinistra della dimora con la sua serie di camere da letto, era stata spogliata, ridotta al puro legno lucido, e poi riempita di attrezzature mediche. Lindsay fissò impotente il volto dell’uomo alla sua sinistra. Aveva la grazia sciolta di un plasmatore e gli occhi concentrati e attenti di un superintelligente.
— Lei è… — esplose d’un tratto Lindsay.
— Rilassati, amico. Sei al sicuro. Il dottore sta per arrivare. — Sorridendo, vestì Lindsay d’un camice dalle ampie maniche, allacciandoglielo dietro le spalle in un tranquillo agitare di nodi. Lo fecero sedere sotto un analizzatore cerebrale. Il secondo infermiere gli porse un inalatore.
— Annusa questo, cugino. È glucosio tracciante. Radioattivo. Per l’analizzatore. — Il superintelligente diede un affettuoso buffetto alla cupola del macchinario. — Dobbiamo esaminarti. Voglio dire, dritto fin nel nucleo.
Obbediente, Lindsay inspirò l’aerosol. Aveva, appunto, un odore dolce. L’analizzatore si calò ronzando lungo il binario del suo supporto verticale, sistemandoglisi intorno alla sommità del cranio.
Una donna entrò nella stanza. Aveva con sé uno strumento racchiuso in un astuccio di legno e indossava un ampio camice medico, una gonna corta e stivali di plastica infangati.
— Ha parlato? — chiese la donna.
Lindsay riconobbe la linea genetica. — Juliano — compitò con difficoltà.
Lei gli sorrise, aprì l’astuccio di legno con un cigolio di antichi cardini. — Sì, Abelard — annuì. Gli rivolse un’occhiata.
— Margaret Juliano — disse Lindsay. Non era riuscito a interpretare l’occhiata, e quell’incapacità fece rinascere in lui, all’improvviso, un ricordo di energia e di paura. — I cataclisti, Margaret. Ti avevano messo sotto ghiaccio.
— Proprio così. — La donna infilò la mano dentro l’astuccio e tirò fuori un dolce bruno scuro in un piccolo involucro di carta pieghettata. — Vuoi un cioccolatino?
La bocca di Lindsay si riempì di saliva. — Per favore — lui disse di riflesso. Lei gli cacciò il dolcetto in bocca. Era di un dolce nauseante. Lo masticò con riluttanza.
— Andate via — ordinò Margaret, rivolta ai due tecnici. — Me ne occupo io. — I due superintelligenti se ne andarono sogghignando.
Lindsay inghiottì.
— Un altro? — lei gli chiese.
— Non ho mai avuto una gran passione per i dolciumi — rispose Lindsay.
— È un buon segno — annuì lei, chiudendo l’astuccio. Poi esaminò lo schermo dell’analizzatore e tirò fuori una penna-luce dal folto della sua bionda capigliatura, che le ricadeva sciolta sulle orecchie. — Questi cioccolatini sono stati al centro della tua vita per gli ultimi cinque anni.
Lo shock fu brutto, ma lui sapeva che sarebbe venuto. Si sentì la gola secca. — Cinque anni?
— Sei fortunato che te ne siano rimasti — proseguì Margaret. — È stata una lunga cura: restaurare un cervello alterato da dosi massicce di PDKL-95. Il tutto complicato da mutamenti nella tua percezione spaziale, causati dal manufatto Arena. È stata una vera sfida. E costosa, per giunta. — Studiò lo schermo mordicchiando l’estremità della sua penna-luce. — Ma non ci sono problemi per questo. Il tuo amico Wellspring ha pagato il conto.
Lei era talmente cambiata da fargli quasi provare una sensazione di vertigine. Era difficile riconciliare la disciplinata pacifista della Congrega di Mezzanotte, Margaret Juliano, di Goldreich-Tremaine, con questa donna calma, trasandata, con chiazze d’erba sulle ginocchia e i capelli lunghi e incolti.
— Non sforzarti di parlare troppo — gli disse. — Il tuo emisfero destro si sta occupando delle funzioni del linguaggio attraverso le associazioni successive. Possiamo aspettarci neologismi, idiotismi, povertà intrinseca del lessico… non allarmarti. — Cerchiò qualcosa sullo schermo con la penna-luce e premette un tasto di controllo: sezioni trasversali del suo cervello scivolarono sullo schermo nei toni falsi di un azzurro e un arancione molto vividi.
— Quanta gente c’è in questa stanza? — gli chiese.
— Tu ed io — rispose Lindsay.
— Nessuna sensazione di qualcuno dietro di te, sulla sinistra?
Lindsay si torse per guardare, raschiandosi dolorosamente la testa su una prominenza interna dell’apparecchiatura. — No.
— Bene, vuol dire che l’approccio dell’associazione era quello giusto. Talvolta nei casi di dicotomia del cervello ci ritroviamo con una frammentazione della coscienza, un’immagine fantasma che guarda dall’alto l’io percettivo. Fammi sapere se avverti qualcosa del genere.
— No. Ma all’esterno ho sentito… — Avrebbe voluto dirle dell’istante in cui il risveglio era arrivato improvviso, della sua lunga introspezione epifanica nell’io e nella vita. La visione avvampava ancora dentro di lui, ma il vocabolario per descriverla era completamente al di fuori delle sue possibilità. Seppe d’un tratto che non sarebbe mai stato capace di raccontare a nessuno tutta la verità. Era qualcosa che non avrebbe mai potuto essere racchiuso in parole.
— Non lottare — intervenne Margaret. — Lascia che venga da solo. C’è tempo in abbondanza.
— Il mio braccio — disse Lindsay, tutt’a un tratto. Si rese conto, in preda alla confusione, che il suo braccio destro, quello metallico, era diventato di carne. Sollevò quello sinistro. Era metallico. L’orrore ebbe il sopravvento su di lui. Si era rovesciato come un guanto!
— Attento — disse Margaret. — Potresti avere qualche problema con le percezioni spaziali, la sinistra e la destra. È un effetto della dominanza associativa. E hai avuto un ringiovanimento. Abbiamo fatto un sacco di lavoro su di te durante gli ultimi cinque anni. Giusto per segnare il passo.
La noncurante facilità con cui lo disse lasciò stupefatto Lindsay. — Sei Dio? — le chiese.
Margaret scrollò le spalle. — Ci sono stati dei successi, Abelard. Molte cose sono cambiate. Socialmente, politicamente, in campo medico… Oggi è tutta la stessa cosa, lo so, ma considerala come un’autorganizzazione spontanea, un balzo prigoginico verso un nuovo livello di complessità…
— Oh, no — disse Lindsay.
Lei batté la mano sull’analizzatore, e questo si sfilò dalla sua testa muovendosi verso l’alto, ronzando. Margaret prese posto davanti a lui su un’antica sedia da ufficio di legno, piegando una gamba sotto di sé. — Proprio sicuro di non volere un cioccolatino?
— No!
— Ne prendo uno io, allora. — Ne tirò fuori uno dall’astuccio e gli diede un morso, masticando poi felice. — Sono buoni. — Parlava senza affettazione, con la bocca piena. — Questo è uno dei buoni periodi, Abelard. È per questo che mi hanno scongelato, credo.
— Sei cambiata.
— L’assassinio del ghiaccio produce questo effetto. Avevano ragione i cataclisti, ragione a mettermi in conserva. Mi stavo calcificando. Un momento prima stavo fluttuando attraverso la sala della matematica a Kosmosity, con dei tabulati in mano, diretta verso il mio ufficio, la mente piena di tanti piccoli problemi, preoccupazioni, programmi… Per un attimo mi sono sentita stordita. Mi sono guardata intorno e ogni cosa non c’era più. Deserto. Devastazione. I tabulati si stavano sbriciolando fra le mie dita, i miei vestiti erano pieni di polvere. Goldreich-Tremaine in rovina, i computer inoperanti, le classi tutte scomparse… in un attimo il mondo aveva compiuto un salto di trent’anni: era il cataclisma totale. Per tre giorni ho dato la caccia alle notizie, cercando di trovare la nostra congrega, apprendendo che ormai facevo parte della storia, e poi mi ha travolto come un’onda. Mi ha sbigottito, sconvolto, Abelard. Ogni mio preconcetto è andato in frantumi, il mondo non aveva bisogno di me, ed ogni cosa che ritenevo importante non c’era più. La mia vita era totalmente futile. E totalmente libera.
— Libera. — Lindsay assaporò la parola. — E Constatine? — chiese a un tratto. — Il mio nemico?
— È morto, in un certo senso — disse Margaret Juliano — ma tutto sta a intendersi sulle definizioni. Ho ricevuto le analisi della sua condizione dai suoi congenetici. Il danno è molto grave. È precipitato in uno stato di fuga protratta e ha patito d’una consapevolezza accelerata che dev’essere durata per molti secoli soggettivi, e non ha potuto sostentarsi con i dati ricevuti dal congegno conosciuto come Arena. È durata così a lungo che la sua personalità è stata raschiata via. Parlando metaforicamente, si potrebbe dire che abbia dimenticato se stesso un pezzo dopo l’altro.
— Ti hanno detto questo, i suoi germani?
— I tempi sono cambiati, Abelard. È tornata la distensione. La linea genetica di Constantine è nei guai, e noi li abbiamo pagati bene per avere questa informazione. La Skimmers Union ha una posizione centrale, e Jastrow Station è la capitale, ed è piena di Zen Serotonisti. Loro odiano l’eccitazione.
La notizia fece provare un brivido di eccitazione a Lindsay.
— Cinque anni — disse. Si alzò, agitato. — Be’, cosa sono cinque anni per me? — Cercò di camminare su e giù per la stanza, pur barcollando, in preda alle vertigini. La confusione fra l’emisfero sinistro e il destro lo rendeva impacciato. Si raddrizzò e cercò di assumere il controllo dei propri muscoli. Non ci riuscì.
Si rivolse a Margaret: — Il mio addestramento, i muscoli… i movimenti…
Margaret Juliano annuì: — Sì, quando siamo intervenuti ne abbiamo osservato i resti. Condizionamento psicotecnico dei Plasmatori dei primissimi tempi. Molto grezzo a paragone dei livelli d’oggi. Così, nel corso degli anni, l’abbiamo braccato, estinguendolo a poco a poco.
— Vuoi dire, l’addestramento… non c’è più?
— Oh, sì. Abbiamo avuto già abbastanza da fare a districarci con la tua dicotomia cerebrale senza dover affrontare anche il duplice modo di pensare dovuto al tuo addestramento: “L’ipocrisia come secondo stato di coscienza”… e tutto il resto. — Inspirò rumorosamente col naso. — È stata una cattiva idea sin dall’inizio.
Lindsay tornò ad accasciarsi sul sedile sotto l’analizzatore. — Ma per tutta la mia vita… E adesso me l’hai tolto. Con la fec… — Chiuse gli occhi, lottando per afferrare la pronuncia giusta. — Con la tecnologia.
Margaret prese un altro cioccolatino. — E allora? — chiese con voce quasi incomprensibile, ruminando. — È stata la tecnologia a metterlo là, per cominciare. Hai riavuto te stesso… cos’altro vuoi?
Alexandrina Tyler arrivò attraverso la porta aperta con un frusciare di pesante tessuto. Ostentava gli addobbi della sua adolescenza: una gonna rigonfia lunga fino al pavimento, e una giacca rigida color crema con spinotti e prese ricamati e una gorgiera rotonda che le cerchiava il collo. Guardò il pavimento.
— Margaret — disse. — I tuoi piedi.
Margaret Juliano guardò con aria distratta il fango secco che si scrostava dai suoi stivali. — Oh, cielo. Scusa.
L’improvvisa contrapposizione delle due donne colmò Lindsay d’una sensazione di vertigine. Un’ondata confusa d’un dejà vu scalibrato emerse gorgogliando da qualche drogato recesso cerebrale, e per qualche istante pensò che sarebbe svenuto. Quando si riprese, sentì di aver migliorato le sue condizioni, come se una melma paralizzante fosse sgocciolata fuori dalla sua testa, lasciandovi luce e spazio. — Alexandria — disse, sentendosi più debole ma per qualche motivo più reale. — Sei stata tempo. Tutto questo qui.
— Abelard — esclamò lei sorpresa. — Tu parli.
— Cercando di…
— Ho sentito che stai meglio — lei proseguì — così ti ho portato degli indumenti. Dal guardaroba del Museo. — Gli mostrò un vestito avvolto nella plastica, un campione di antichità. — Vedi? Questo è proprio uno dei tuoi vestiti di settantacinque anni fa. Uno dei predatori l’ha messo in salvo quando la dimora dei Lindsay è stata saccheggiata. Provalo, tesoro.
Lindsay toccò il tessuto rigido, logorato dal tempo, del vestito. — Un pezzo da museo — ripeté.
— Be’, naturalmente.
Margaret Juliano guardò Alexandrina. — Forse starebbe più comodo vestito da infermiere. Si fonderebbe con il paesaggio. Assumerebbe una colorazione locale.
— No — l’interruppe Lindsay. — Va bene. Lo indosserò.
— Alexandrina aspettava questo momento — gli confidò Margaret, mentre lui lottava per infilarsi i calzoni, spingendo a forza i piedi nudi oltre i ginocchi a fisarmonica irrigiditi dal filo metallico. — Ogni giorno è venuta a darti da mangiare le mele dei Tyler.
— Ti ho portato qui dopo il duello — disse Alexandrina. — Il nostro matrimonio è scaduto, ma adesso io dirigo il Museo. Ho un posto qui. — Sorrise. — Hanno saccheggiato i palazzi, ma i frutteti di famiglia sono ancora in piedi. La tua prozia Marietta ha sempre giurato sulla bontà delle mele di famiglia.
Quando Lindsay s’infilò la camicia, una cucitura sulla spalla cedette.
— Hai divorato quelle mele, buccia e tutto — aggiunse Margaret Juliano. — È stata una cosa meravigliosa.
— Sei a casa, Alexa. — disse Lindsay.
Era ciò che lei voleva sentire. Era contento per lei.
— Questa era la casa dei Tyler. L’ala sinistra e i terreni sono per la clinica, è opera di Margaret. Io sono il Curatore, io dirigo il resto. Ho raccolto tutti i ricordi del nostro vecchio modo di vita… tutto quello che è stato risparmiato dalle squadre di rieducazione di Constantine. — Lo aiutò a infilarsi da sopra la testa la giacca da cerimonia con il collo da tuta spaziale. — Vieni, ti faccio vedere.
Margaret Juliano scalciò via gli stivali e rimase con i suoi calzini spiegazzati. — Vengo anch’io. Voglio giudicare le sue reazioni.
La sala da ballo principale era diventata una sala per esposizioni, con bacheche e ritratti dei primi fondatori del clan. Un antico ultraleggero a pedali era appeso al soffitto. Cinque plasmatori contemplavano ammirati una bacheca piena di rozzi utensili da assemblaggio risalenti all’epoca della costruzione dei circumlunari. Gli indumenti chic dei plasmatori, concepiti per la bassa gravità, cadevano in modo grottesco a causa della forza centrifuga prodotta dalla rotazione della Repubblica. Alexandrina lo prese per un braccio e gli bisbigliò: — Il pavimento è carino, non è vero? L’ho rifinito io stessa, personalmente. Qui non ammettiamo robot.
Lindsay alzò gli occhi su una parete e rimase paralizzato alla vista del fondatore del suo clan, Malcolm Lindsay. Quand’era stato bambino, il volto del defunto pioniere, sogghignante con la sua ancestrale saggezza da sopra le cassepanche e gli scaffali, l’aveva sempre riempito di paura. Adesso si rese conto, con un doloroso tuffo introspettivo, di quanto giovane fosse stato quell’uomo. Morto a settant’anni. L’intero habitat era stato messo assieme, in fretta e furia, freneticamente, da persone che erano poco più che bambini. Cominciò a ridere istericamente. — È una barzelletta! — urlò. La risata gli stava sciogliendo la testa, frantumando un grosso ingorgo di pensieri in tanti piccoli spasimi insopportabilmente acuti.
Alexandrina fissò ansiosa gli sconcertati plasmatori: — Forse era troppo presto per lui, Margaret.
Margaret Juliano rise.
— Ha ragione, è una barzelletta. Chiedilo ai catastrofisti. — Afferrò il braccio di Lindsay. — Vieni, Abelard. Andiamo fuori.
— È una barzelletta — ripeté Lindsay. Adesso la sua lingua si era sciolta e le parole gli sgorgavano liberamente. — Questo è incredibile. Quei poveri sciocchi non avevano nessuna idea. Come potevano averne? Erano morti prima di avere la possibilità di vedere! Cosa sono per noi cinque anni, dieci, cento…
— Stai farneticando, tesoro. — Margaret Juliano lo condusse lungo il corridoio e attraverso l’arco di pietre cementate, fuori in mezzo all’erba e alla luce chiazzata del sole. — Attento a dove metti i piedi — gli disse ancora. — Abbiamo altri pazienti. Non abituati a vivere in casa.
Accanto agli alti muri incrostati di muschio una giovane donna nuda stava strappando l’erba con brevi gesti decisi, soffermandosi di tanto in tanto per succhiarsi il terriccio dalle dita.
Lindsay inorridì. Gli parve di sentire il sapore del terriccio sulla propria lingua. — Andremo fuori dai terreni della clinica — disse Margaret. — Pongpianskul non avrà niente da ridire.
— Ti lascia rimanere qui, vero? Quella donna è una plasmatrice. Una cataclista. Pongpianskul aveva un debito verso i cataclisti. Ti prendi cura di loro per suo conto?
— Cerca di non parlare troppo, caro. Potresti danneggiare qualcosa. — Aprì il cancello di ferro. — Ai cataclisti piace star qui. C’è qualcosa nella vista che si gode.
— Oh, mio Dio — fece Lindsay.
La Repubblica era impazzita. Gli alberi sui terreni del Museo erano cresciuti formando degli archi che nascondevano tutto il panorama. Adesso incombeva tutt’intorno a lui, per un tratto di ben cinque chilometri, una sbalorditiva distesa di verdi e aggrovigliati crinali, tre lunghi pannelli, che ardevano di raggi generati dalla luce del sole che pareva riflessa da specchi.
— Gli alberi — rantolò. — Mio Dio, guardali!
— Sono cresciuti, da quando te ne sei andato — disse Margaret Juliano. — Vieni con me. Voglio mostrarti un altro progetto.
Lindsay sollevò lo sguardo attraverso il riflesso verso la sua casa di un tempo. Visti dall’alto, gli ampi terreni della casa confinavano con quello che un tempo era stato un animato complesso di ristoranti da poco prezzo e d’infima classe. Questi erano da tempo in declino e la casa dei Lindsay era in rovina. Poteva vedere gli squarci nei tetti di tegole rosse fatte con l’ardesia lunare fusa. La piattaforma d’atterraggio privata in cima alla torre di quattro piani era sepolta dall’edera.
All’estremità nord del mondo, su, lungo le pareti inclinate, una squadra di operai piccoli come formiche demoliva, lentamente, gli scheletrici resti di uno degli ospedali delle teste-di-cavo. Banchi di nuvole nascondevano la vecchia griglia energetica e l’area che un tempo avevano occupato gli agri. — Ha un odore diverso — constatò Lindsay. Inciampò sulla pista per le biciclette accanto alle mura del Museo e fu costretto a guardarsi i piedi. Erano sporchi. — Ho urgente bisogno d’un bagno — dichiarò.
— Striscia pure quanto vuoi e non pensarci. Se hai i batteri sulla pelle, cosa vuoi che sia un po’ di terra? A me piace. — Margaret sorrise. — È grande qui, vero? Certo, Goldreich-Tremaine è dieci volte più grande, ma non c’è niente di così aperto. È un grande mondo rischioso.
— Sono lieto che Alexandrina abbia trovato la strada del ritorno — disse Lindsay. Il loro matrimonio si era rivelato un successo, perché grazie ad esso era riuscita a ottenere ciò che voleva di più. Alla fine, lui aveva fatto ammenda. Era sempre stato motivo di tensione. Adesso lui era libero.
La Repubblica l’aveva talmente cambiato da riempirlo d’un senso di esaltazione, una curiosa sensazione. Sì, grande, ma neanche alla lontana grande abbastanza. La cosa gli faceva provare il pungolo dell’impazienza, un feroce desiderio di afferrare qualcosa, qualcosa di gigantesco e fondamentale. Aveva dormito per cinque anni. Adesso sentiva ogni ora di quel lungo riposo premere su di lui con incontenibile, vivificante energia. I ginocchi gli si piegarono, e Margaret Juliano lo sorresse con le sue braccia rinforzate da plasmatore.
— Calma — gli disse.
— Sto benissimo. — Attraversarono il ponte scoperto che varcava l’avvampante distesa di metalvetro che separava due pannelli di terra. Lindsay vide l’ex sito degli agri sotto un denso banco di nuvole. Quell’acquitrino un tempo immondo era diventato un’oasi di vegetazione d’un verde così accecante che pareva splendere persino all’ombra delle nuvole. Un ragazzo dinoccolato, di alta statura, con un abito a sacco, stava precipitandosi di corsa lungo il recinto fatto di fil di ferro intrecciato che circondava gli agri, trascinandosi dietro un grande aquilone a forma di scatola.
— Tu non sei il primo che ho curato — gli disse Margaret, mentre si avviavano in quella direzione. — Ho sempre detto che i miei studenti superintelligenti promettevano molto. Alcuni di loro lavorano qui. Un progetto-pilota. Voglio farti vedere quello che hanno realizzato. Hanno affrontato la botanica sotto l’ottica della teoria prigoginica della complessità. Nuove specie, clorofilla potenziata, un buon, solido lavoro costruttivo.
— Aspetta — l’interruppe Lindsay. — Voglio parlare con questo giovanotto.
Aveva notato l’aquilone del ragazzo. L’elaborato disegno dipintovi sopra mostrava un uomo nudo racchiuso in maniera soffocante dentro i piani rigidi della superficie della grande scatola che volteggiava nell’aria.
Una donna con un paio di pantaloni inzaccherati si sporse da sopra il recinto di filo metallico intrecciato, agitando un paio di cesoie. — Margaret, vieni a vedere!
— Torno subito — lo rassicurò Margaret Juliano. — Non allontanarti.
Con passo lento e incerto, Lindsay raggiunse il ragazzo che continuava a manovrare con mano esperta il suo aquilone. — Ehi, vecchio cugino — l’interpellò il ragazzo. — Hai qualche nastro?
— Di che tipo?
— Video, audio, qualunque cosa dal Consiglio dell’Anello. È da lì che vieni, giusto?
Lindsay fece istintivamente ricorso al suo addestramento, per la comoda rete di spontanee menzogne che avrebbe mostrato al ragazzo un’immagine plausibile di lui stesso. Ma… la sua mente era vuota. Restò lì, a bocca spalancata. Il tempo passò. Farfugliò la prima cosa che gli venne in mente. — Sono un cane solare. Da Czarina-Kluster.
— Davvero? Postumanismo! Livelli di complessità prigoginica! Strutture frattali, spaziotempo quantizzato, spazio primordiale del precontinuum! Ho detto giusto?
— Mi piace il tuo aquilone — dichiarò Lindsay, eludendo la domanda.
— Lo stemma dei vecchi cataclisti — disse il ragazzo. — Arrivano un sacco di cataclisti da queste parti. L’aquilone li attira. È la prima volta che prendo una cicada, comunque.
Cicada, pensò Lindsay. Un cittadino di C-K. A Wellspring era sempre piaciuto lo slang. — Sei un indigeno?
— Proprio così. Mi chiamo Abelard. Abelard Gomez.
— Abelard. Non è molto comune, come nome.
Il ragazzo scoppiò a ridere. — Forse non a Czarina-Kluster. Ma nella Repubblica un ragazzo su cinque si chiama Abelard. Da Abelard Lindsay, lo storico pezzo grosso. Devi aver sentito parlare di lui. — Il ragazzo esitò. — Aveva l’abitudine di vestirsi come te. Ho visto delle fotografie.
Lindsay guardò gli indumenti del ragazzo. Il giovane Gomez indossava un qualcosa più o meno contraffatto da bassa gravità, che gli cascava orribilmente addosso. — Capisco che sono fuori moda — disse Lindsay. — Fanno un gran can-can su questo Lindsay, non è vero?
— Non ne sai neanche la metà — rispose Gomez. — Prendi per esempio esempio la scuola… La scuola, qui, è una completa anticaglia. Ci fanno leggere il libro di Lindsay, Shakespeare lo chiamano. Tradotto in inglese moderno da Abelard Lindsay.
— È così brutto? — chiese Lindsay, avvertendo un vago prurito di déjà vu.
— Sei fortunato, vecchio. Non c’è bisogno che tu lo legga. Io, me lo son dovuto scolare tutto. Non c’è una sola parola, là dentro, sull’organizzazione spontanea.
Lindsay annuì. — È un vero peccato.
— Tutti sono vecchi, in quel libro. Non intendo falsovecchio come i preservazionisti di qui. O strambo-vecchio come il vecchio Pong.
— Vuoi dire Pongpianskul? — domandò Lindsay.
— Il Custode, sì. No, voglio dire, tutti vengono usati troppo in fretta. Tutti bruciati, paralizzati e malati. È deprimente.
Lindsay annuì. Decise che le cose avevano completato il cerchio. — Ti risenti per il controllo che viene esercitato sulla tua vita — azzardò. — Tu e i tuoi amici siete radicali. Tu vuoi cambiare le cose.
— No davvero — replicò il ragazzo. — Qui mi avranno solo per sessant’anni. E poi io ne avrò centinaia a disposizione, cugino. Voglio dire… per fare grandi cose. Ci vorrà un sacco di tempo, sì. Voglio dire, grandi cose. Gigantesche. Non come quella gente disidratata del passato.
— Che genere di cose?
— Spargere la vita sui pianeti, grandi raccolti. Edificare mondi. Terraformarli.
— Capisco — annuì Lindsay. Era sorpreso di trovare tanta determinazione in un individuo così giovane. Doveva essere l’influenza dei cataclisti. Avevano sempre favorito progetti inverosimili, pazzie che alla fine si erano risolte in una bolla di sapone. — E questo ti farà felice?
Il ragazzo lo fissò insospettito. — Sei uno di quegli Zen Serotonisti? Felice? Che razza d’imbroglio sarebbe! Che la felicità bruci, cugino. È il cosmo che parla. Sei dalla parte della vita oppure no?
Lindsay sorrise. — È politica. Non mi fido della politica.
— Politica? Sto parlando di biologia. Creature che vivono e crescono, organismi. Forme integrate.
— E dove entra in scena la gente?
Il ragazzo agitò la mano irritato e agguantò al volo l’aquilone quando scese in picchiata.
— Quella lasciala perdere. Adesso sto parlando di lealtà fondamentali. Come quell’albero. Sei dalla sua parte, contro gli inorganici?
Lindsay aveva ancora fresca in mente la propria epifania. — Sì — replicò. — Lo sono.
— Allora capisci qual è il motivo per terraformare.
— Ter-ra-for-ma-re? — Lindsay scandì le sillabe. — Ho ascoltato le teorie. Le ipotesi. E suppongo sia possibile. Ma cosa ha a che fare con noi?
— Un autentico impegno al fianco della Vita esige l’atto morale della creazione — dichiarò Gomez, pronto.
— Qualcuno ti ha insegnato degli slogan — commentò Lindsay. Sorrise. — I pianeti sono luoghi veri e propri, non soltanto dei grafici su un tavolo da disegno. Lo sforzo sarebbe titanico. Completamente al di fuori della scala delle misure umane.
Il ragazzo mostrò impazienza. — Tu, quanto sei grande? Sei più grande di qualcosa di inerte.
— Ma ci vorrebbero secoli…
— Pensi che quell’albero esiterebbe? Comunque, tu, quanto tempo hai?
Lindsay non riuscì a trattenere una risata.
— Bene, allora. Hai intenzione di vivere una piccola vita umana striminzita, oppure intendi aggredirne il potenziale?
— Alla mia età — rispose Lindsay — se fossi umano sarei già morto.
— Adesso sì che parli sul serio. Tu sei grande quanto i tuoi sogni. È quello che dicono a Czarina-Kluster, non è vero? Nessuna regola, nessun limite. Guarda i Mech e i Plasmatori. — Il tono del ragazzo era sprezzante. — Hanno tutto il potere che c’è al mondo, e si braccano fra loro. Che brucino le loro guerre e la loro ideologia da nanerottoli! La postumanità è più grande di questo! Chiedilo alla gente là dentro. — Il ragazzo agitò la mano verso il recinto. — Progettare l’ecosistema. Ricostruire la vita per le nuove condizioni. Un po’ di biochimica, un po’ di fisica dei grandi numeri… puoi coglierne un po’ qua, un po’ là, è questo che è eccitante. È il genere di cose sulle quali lavorerebbe oggi Abelard Lindsay se fosse vivo.
L’ironia della cosa punse Lindsay sul vivo. Anche lui all’età di Gomez non aveva mai avuto un briciolo di buon senso. Provò un improvviso allarme per il ragazzo, un impulso a proteggerlo dal disastro che la sua retorica gli avrebbe sicuramente causato. — Lo pensi?
— Sicuro. Dicono che fosse il tipico preservazionista focoso, ma si fece cane solare quando le cose andavano bene, no? Non lo si è visto bighellonare qui intorno per “morire di vecchiaia”. Ma, comunque, non lo fa nessuno.
— Neppure qui? Nella dimora dei preservazionisti?
— Naturalmente no. Qui, tutti quelli che hanno più di quarant’anni si sono assicurati il prolungamento della vita al mercato nero. Quando arriveranno ai sessanta, fuggiranno da Czarina-Kluster. Ai cicada non gliene importa niente della tua storia e dei tuoi geni. Prendono ogni genere di clade. I sogni hanno più importanza.
I sogni, pensò Lindsay. I sogni del preservazionismo trasformati in una corsa al mercato nero dell’immortalità. Il sogno della Pace degli Investitori si era arrugginito e sfasciato. Il sogno del “terraforming” aveva ancora un suo splendore. Il giovane Gomez non poteva sapere che anch’esso si sarebbe certamente ossidato.
Ma, pensò Lindsay, in qualche modo bisognava sognare, o morire. E con la nuova vita che si stava riversando nel suo corpo, sapeva qual era la sua scelta.
Margaret Juliano si sporse sopra il recinto. — Abelard! Abelard, da questa parte! Devi dare un’occhiata qui.
Il ragazzo, colto di sorpresa, quasi inciampò cadendo a terra. — Adesso, questa sì che è una fortuna! Quella vecchia psicotech vuol farmi vedere qualcosa nel recinto.
— Vai a vedere — lo sollecitò Lindsay. — Dille che ho detto che ti mostri qualunque cosa tu voglia, capito? E dille anche che sono andato a fare una chiacchieratina con Pongpianskul. Va bene, cugino?
Il ragazzo annuì lentamente. — Grazie, vecchio cicada. Sei uno di noi.
L’ufficio di Pongpianskul era una desolazione cartacea. Volumi muffiti rilegati in tela che contenevano tutte le leggi della Concatenazione erano ammucchiati accanto alla sua scrivania di legno. Programmi e grafici sulla produttività erano attaccati a casaccio con puntine agli antichi pannelli della stanza.
Un gatto dalla pelliccia che pareva il guscio d’una tartaruga sbadigliava in un angolo, affilandosi gli unghioli sul tappeto. Lindsay, che aveva una limitata esperienza con i gatti, l’osservò diffidente.
Pongpianskul indossava un vestito simile a quello di Lindsay, ma nuovo, ed era ovvio che era stato cucito a mano. Aveva perso parecchi capelli (ma già cominciava a perderli nei lontani giorni di Goldreich-Tremaine) e la luce illuminava, opaca, il suo scuro e glabro cuoio capelluto.
Raccolse un fascio di documenti dalla scrivania e li chiuse in un gancio con le dita scarne e rugose.
— Carte — borbottò. — Al giorno d’oggi cercano di togliere tutto ai computer. Non si fidano dei computer. Tu li usi, e c’è sempre qualche mech pronto a intervenire con del nuovo software. Trascurabile oggi, importantissimo domani. Mavrides… Lindsay, voglio dire.
— Lindsay è meglio.
— Devi ammettere che è difficile seguirti. È stato un bell’imbroglio il tuo. Farti passare per un genetico anziano là negli Anelli. — Sbirciò Lindsay. Lindsay colse parte di quell’occhiata. L’esperienza dell’età compensava in qualche modo la sua perdita dell’addestramento muscolare.
Pongpianskul disse ancora: — Quanto tempo è passato dall’ultima volta che abbiamo parlato?
— Uhmm… in che anno siamo?
Pongpianskul corrugò la fronte. — Non ha importanza. Comunque, a quell’epoca si era a Dembowska. Le cose non sono così male qui, sotto l’egida neotecnica, eh, Mavrides? Lo ammetti? È andato tutto un po’ in malora, ma è ancora meglio per il mercato turistico; quelli del Consiglio dell’Anello se l’inghiottono tutto. A dire il vero, abbiamo dovuto entrare nell’antica dimora dei Lindsay e sconquassare un po’ le cose per renderla più romantica. Ci abbiamo piazzato dei topi. Conosci i topi? Da esemplari di laboratorio sono ritornati allo stato brado. Sai che i loro occhi non sono più rossi? Una strana espressione in quegli occhi… mi ricorda una delle mie mogli.
Pongpianskul aprì uno dei cassetti della sua cavernosa scrivania e ci buttò dentro il mucchio di carte graffate. Tirò fuori un fascio di grafici in decomposizione e riprese: — Che cosa sono? Avrebbero dovuto essere stati fatti già da settimane. Non ha importanza. Dov’eravamo? Oh, sì, la moglie. Ho sposato Alexandrine, a proposito. Alexa è una perfetta preservazionista. Non potevo rischiare che mi scappasse.
— Hai fatto bene — replicò Lindsay. Il suo contratto di matrimonio era scaduto; il suo nuovo matrimonio sarebbe stato una profittevole mossa politica. Non gli venne neanche in mente di sentirsi geloso: quello non era stabilito dal contratto. Era lieto che Alexandrina avesse garantito la propria posizione.
— Non si possono avere molte mogli — proseguì Pongpianskul. — È la vita. Prendi Georgiana, per esempio, la prima moglie di Constantine. L’ho convinta a farsi un pizzico di sconnessione, non più di venti micrometri, lo giuro, e ha migliorato moltissimo la sua indole. Adesso è dolce per tutta la lunghezza della giornata. — Fissò Lindsay, serio. — Non posso permettere che ci siano troppi vegliardi in giro, però. Turba l’ideologia. È già abbastanza brutta con quei pestiferi cataclisti e i loro progetti post-umani. Bisogna tenerli dietro il reticolato, in quarantena. Perfino i ragazzini continuano a intrufolarsi dentro.
— È gentile da parte tua permettere che rimangano qui.
— Mi serve la valuta estera… Czarina-Kluster finanzia le loro ricerche. Ma non sono un granché. Quei superintelligenti non riescono a concentrarsi su niente per un tempo decente. — Sbuffò, poi prese una fattura di carico. — Ho bisogno di soldi. Da’ un’occhiata a queste importazioni di anidride carbonica. Sono quei dannati alberi che se la divorano tutta. — Sospirò. — Ho bisogno di quegli alberi, comunque. La loro massa contribuisce alla dinamica orbitale. Queste orbite circumlunari sono un inferno.
— Sono contento che le cose siano in buone mani.
Pongpianskul sorrise tristemente. — Suppongo che le cose non funzionino mai come le progetti. Una buona cosa, comunque, altrimenti i Mech avrebbero preso il potere già molto tempo fa. — Il gatto saltò sulle ginocchia di Pongpianskul e lui lo grattò sotto il mento. Il gatto produsse un sordo borbottio che Lindsay trovò stranamente calmante. — Questo è il mio gatto, Saturno — disse il vecchio plasmatore. — Di’ ciao a Lindsay, Saturno.
Il gatto lo ignorò.
— Non avrei assolutamente immaginato che ti piacessero gli animali.
— Sulle prime non lo potevo sopportare. I peli cadono come pioggia da questa bestiolina, finendo dappertutto. Ed è sporco come un maiale, per giunta. Mai visto un maiale, a proposito? Ne ho fatto importare qualcuno, creature incredibili. I turisti vanno in visibilio.
— Devo darci un’occhiata prima di andar via.
— Ci sono animali per aria, in questi giorni. Non alla lettera, voglio dire, anche se abbiamo avuto qualche problema con dei maiali che sono scappati nella zona di caduta libera. No, voglio dire, questa moralità che arriva da Czarina-Kluster. Un’altra moda cataclista.
— Lo pensi?
— Be’ — rifletté il custode — potrebbe non esserlo. Cominci a baloccarti con l’ecologia ed è difficile trovare il punto dove fermarsi. Ho fatto mandare una strisciolina della pelle di questo gatto al Consiglio dell’Anello. Ho dovuto farne clonare un’intera linea genetica, a causa dei topi, capisci. Quelle piccole pesti si stanno diffondendo dappertutto.
— Un pianeta potrebbe esser meglio — osservò Lindsay. — C’è più spazio.
— Non mi piace pasticciare con i pozzi gravitazionali — replicò Pongpianskul. — Servono soltanto a far aumentare le possibilità di errore. Non dirmi che te ne sei innamorato, Mavrides.
— Il mondo ha bisogno di sogni — disse Lindsay.
— Non comincerai a menarla con i livelli di complessità… spero.
Lindsay sorrise. — No.
— Bene, quando sei arrivato qui, sporco e senza scarpe addosso, ho pensato al peggio.
— Dicono che i maiali ed io avevamo molto in comune.
Pongpianskul lo fissò, e poi scoppiò a ridere. — Ah, ah! Lieto di vedere che non ti ergi sul piedestallo della tua dignità. La troppa dignità azzoppa un uomo. I fanatici non ridono mai. Spero che riderai ancora quando cercherai di mettere il guinzaglio ai mondi.
— Certamente qualcuno si farà una bella risata.
— Bene, avrai bisogno di tutto il tuo umorismo, amico, poiché queste cose non vanno mai come uno le progetta. La realtà è un’orda di topi che a poco a poco rode le fondamenta dei tuoi sogni…
“Sai cosa volevo che fosse questo posto, non è vero? Una riserva per l’umanità e il modo di vivere umano, ecco cosa. Invece, ho finito per avere un colossale teatro di posa pieno di turisti fracassoni e di quei friggi-cervelli dei cataclisti.”
— Valeva la pena di tentare — disse Lindsay.
— Ecco, spezza il cuore a un vecchio — dichiarò Pongpianskul. — Una bugia consolatrice non avrebbe fatto male a nessuno.
— Mi spiace. Ne ho perso la capacità.
— Allora farai meglio a recuperarla in fretta. Là fuori, distensione o non distensione, c’è sempre una vasta e maligna Matrice Disaggregata. — Pongpianskul rifletté, poi proseguì: — Quei pazzi di Czarina-Kluster. Vendersi agli alieni! Cosa accadrà al mondo? Ho sentito dire che qualche idiota vuol vendere Giove.
— Cosa, scusa?
— Sì, venderlo a un gruppo di sacchi di gas intelligenti. Uno scandalo, no? C’è gente che farebbe qualunque cosa pur di leccare i piedi agli alieni. Oh, scusa, non volevo offenderti. — Guardò Lindsay, e vide che non si era offeso. — Non se ne farà nulla. Le ambasciate aliene non lo fanno mai. Per fortuna, gli alieni sembrano avere molto più buon senso di noi, con la possibile eccezione degli investitori. Investitori del cavolo. Soltanto un branco di pesti interstellari e di parcheggiatori ficcanaso… Se gli alieni dovessero farsi vivi in forze, giuro che qui nella Repubblica dichiarerò una quarantena così rigida quale non si è mai vista su questo lato di una sessione del Consiglio dell’Anello. Aspetterò fino a quando la società non si sarà completamente disintegrata. A quel punto io mi sarò già dissolto, ma gli indigeni potranno uscire a raccogliere i pezzi. Allora capiranno che, dopo tutto, c’era del buonsenso nel mio giochetto della riserva.
— Capisco. Così eludi le scommesse dell’umanità. Sei sempre stato un abile giocatore, Neville.
Il plasmatore era soddisfatto. Starnutì all’improvviso e il gatto, sorpreso, balzò dalle sue ginocchia attraverso la scrivania, artigliando documenti al suo passaggio. — Scusa — disse Pongpianskul. — Batteri e peli di gatto. Non mi ci sono mai abituato.
— Ho un favore da chiederti — disse Lindsay. — Parto per Czarina-Kluster e vorrei portare con me uno degli indigeni.
— Qualcuno che “muore dentro il mondo”? In questo caso hai sempre saputo fare bene le cose, a Dembowska. Certo che puoi.
— No, un giovane.
— È fuori questione. Sarebbe un precedente tremendo. Aspetta un momento, si tratta di Abelard Gomez?
— Proprio lui.
— Capisco. Quel ragazzo m’inquieta. Ha il sangue di Constantine, lo sapevi? Ho tenuto sotto osservazione i genetici locali. In quella linea, i geni saltano fuori come in un lancio sfortunato di dadi.
— Allora ti faccio un favore.
— Suppongo di sì. Mi dispiace vederti andar via, Abelard, ma con la tua attuale impronta ideologica eserciti una cattiva influenza. Qui sei un eroe di questa cultura, sai.
— Ho finito con i vecchi sogni. Ho riavuto la mia energia e c’è un nuovo sogno di libertà a Czarina-Kluster. Anche se non posso crederci, posso sempre aiutare quelli che ci credono. — Si alzò in piedi, tirandosi prudentemente indietro mentre il gatto gli ispezionava le caviglie. — Buona fortuna con i topi, Neville.
— Anche a te, Abelard.
I motori della ricchezza giravano a pieno regime. Un torrente di opulenza stava affogando il mondo. Le curve d’una crescita esponenziale colpivano con la loro velocità sempre ingannevole, una rapidità controintuitiva che stordiva gli inconsci e abbagliava anche chi stava costantemente sul chi vive.
La popolazione circumsolare aveva raggiunto la cifra di 3,2 miliardi. Era raddoppiata ogni vent’anni e sarebbe raddoppiata di nuovo. I quattrocento più importanti asteroidi mechanist erano presi dal vortice d’una marea produttiva causata da circa 8 miliardi di robot minatori autoriproducentisi e da quarantamila fabbriche automatiche in grandezza naturale. I mondi dei Plasmatori misuravano la ricchezza in maniera diversa, soffocati e sminuiti da venti sbalorditivi miliardi di tonnellate di biomassa produttiva.
La misura primaria per i kilobyte circumsolari era salita a una cifra astronomica, la cui migliore stima era dell’ordine di 9,45 x 1018. Le informazioni del mondo, valutando soltanto quelle nelle banche dati completamente accessibili e senza contare l’immenso dominio dei dati riservati, assommavano a 2,3 x 1027 bit, l’equivalente di 150 libri di formato normale per ogni stella d’ogni singola galassia dell’universo visibile.
Era stato necessario adottare severe misure sociali per impedire che intere popolazioni si disintegrassero nell’orgia dell’abbondanza.
Megawatt di energia sufficienti a far andare avanti interi stati del Consiglio venivano giocondamente sprecati dai vascelli transorbitali ad alta velocità. Queste navi spaziali, grandi abbastanza da offrire tutte le comodità a centinaia di passeggeri, avevano assunto la dignità di nazioni-stato partendo dai rispettivi boom demografici.
Nessuno di questi progressi sociali era comunque paragonabile all’impatto sociale dei progressi delle scienze. I successi nel campo della fisica statistica avevano dimostrato l’oggettiva esistenza di quattro livelli prigoginici di complessità, postulando l’esistenza anche di un quinto livello. L’età del cosmo era stata calcolata con un’accuratezza di più o meno quattro anni, e tentativi alquanto esoterici erano in corso per valutare il “quasi tempo” consumato dallo spazio primigenio del precontinuum.
I viaggi interstellari più-lenti-della-luce erano diventati fisicamente possibili, e quattro spedizioni erano state lanciate, guidate da teste-di-cavo-analizza-stelle, e dotate d’un basso rapporto di massa per il propellente. L’interferometria su linee di base ultralunghe, realizzata grazie ai radiotelescopi a bordo delle navi interstellari delle teste-di-cavo, aveva consentito di stabilire delle attendibili parallassi per la maggior parte delle stelle del braccio di Orione della Galassia. L’esame dei bracci di Perseo e del Centauro mostrava delle zone inquietanti in cui lo schema delle stelle sembrava possedere una sinistra regolarità.
Nuovi studi delle galassie del superammasso locale avevano portato a migliorare di qualche altro decimale la costante di Hubble. Discrepanze minori avevano portato alcuni visionari a concludere che l’espansione dell’universo aveva subito cospicue manomissioni.
Il sapere era più che mai potere. E nell’impadronirsi del sapere l’umanità aveva ghermito un potere vivace e rabbioso come un filo elettrico scoperto. In gioco c’erano questioni più vaste di qualunque altra l’umanità avesse conosciuto in precedenza: le prospettive erano più abbaglianti, le potenzialità più chiare, e le implicazioni più sbalorditive di qualunque cosa che l’umanità o i suoi successori si fossero trovati a fronteggiare.
Comunque, la mente umana aveva ancora le proprie risorse. Il dono della sopravvivenza non era stato trovato soltanto nell’acuta percezione dei Plasmatori, con il loro arsenale di sostanze biochimiche, o nei progressi cibernetici dei Mechanist e l’implacabile logica delle loro intelligenze artificiali. Il mondo era stato conservato intatto per merito della fantastica predilezione della mente umana per la noia.
L’umanità era sempre stata circondata dal meraviglioso. Non ne era mai risultato, comunque, niente di davvero straordinario. Sotto l’ombra delle rivelazioni cosmiche, la vita si crogiolava ancora in una comoda routine. Le fazioni dissidenti erano molto più bizzarre di quanto lo fossero mai state prima, ma la gente si era abituata a questo, e l’orrore che ciò provocava era molto diminuito. Clade quali le Intelligenze Spettrali, le Aragoste, e i Bagnanti del Sangue, erano state incorporate nel repertorio delle possibilità e perfino trasformate in barzellette.
Eppure la tensione era presente dovunque. Le nuove umanità multiple si lanciavano alla cieca verso le loro sconosciute destinazioni, e la vertigine dell’accelerazione aveva colpito in profondità. Gli antichi preconcetti erano ridotti a brandelli, le antiche fedeltà erano ormai fuori uso. Intere società erano rimaste paralizzate da immensi panorami di possibilità assolute in grado di fulminare i cervelli.
La tensione aveva assunto forme diverse. Per i cataclisti, quei superintelligenti che erano stati i primi ad avvertirlo, incuranti delle conseguenze, era un frenetico abbraccio dell’Infinito. Perfino l’autodistruzione alleviava il dolore taciuto. Gli Zen serotonisti avevano abbandonato la potenzialità in cambio della pallida beatitudine della calma e della quiete. Per altri, la tensione non era mai stata esplicita: soltanto un pizzicore d’inquietudine ai confini del sonno, o di lacrime improvvise e convulse quando le inibizioni della mente si sgretolavano per il bere e le droghe.
Per Abelard Lindsay, l’usuale manifestazione comportava sedersi, assicurati da cinghie, a un tavolo del Bistrò Marineris, un bar di Czarina-Kluster. Il Bistrò Marineris era una sfera gonfiabile in caduta libera nel nodo che congiungeva quattro tubovie, una stazione di transito per il vasto e ramificato nesso di habitat che formava il campus dei metasistemi kosmositici di Czarina-Kluster.
Lindsay stava aspettando Wellspring. Era appoggiato al tavolo dal profilo arrotondato, premendo le “toppe” di adesite applicate ai gomiti della sua giacca accademica sulla superficie di velcro.
Lindsay aveva centosei anni. Il suo più recente ringiovanimento non aveva cancellato tutti i segni esteriori dell’età. Le zampe di gallina formavano una fitta ragnatela intorno ai suoi occhi grigi e le rughe si diramavano dal naso fino agli angoli della bocca. Dei muscoli facciali supersviluppati increspavano le sue scure e mobili sopracciglia. Aveva una corta barba e degli spilloni dalla capocchia ingioiellata trattenevano i suoi lunghi capelli striati di bianco. Una delle mani era molto grinzosa, la sua pallida pelle era come pergamena incerata. La mano metallica era trivellata da griglie sensorie.
Lindsay osservò le pareti. Il proprietario del Marineris aveva opacizzato la superficie interna del bistrò, trasformandolo in un planetario. Tutt’intorno a Lindsay, e ad un’altra dozzina di clienti, si stendeva il paesaggio desolato e torturato di Marte, ritrasmesso dal vivo dalla superficie marziana, a colori dolorosamente intensi su un’angolazione di 360°.
Per mesi il robusto robot ricognitore aveva continuato ad avanzare lungo l’orlo della Valle Marineris, trasmettendo le sue immagini. Lindsay sedeva con la schiena rivolta al poderoso abisso: le sue titaniche dimensioni e l’atmosfera desolata e senza vita destavano in lui dolorose associazioni. I detriti e le colline erose venivano proiettati sulla parete curva davanti a lui, giganteschi blocchi strapiombanti e precipizi corrosi dal vento gli diedero l’impressione d’un sottinteso rimprovero. Era cosa nuova, per lui, provare un senso di responsabilità per un pianeta. Dopo tre mesi a Czarina-Kluster, stava ancora cercando d’immaginare dimensioni come quelle.
Tre accademici di Kosmosity si tolsero le cinture di sicurezza e scalciando si allontanarono da un tavolo vicino. Mentre se ne andavano, uno di loro si accorse di Lindsay, trasalì e venne verso di lui. — Mi scusi, signore. Credo di conoscerla. Il professor Bela Milosz, giusto?
Lo sconosciuto aveva quell’aria arrogante comune a molti plasmatori disertori, una vaga sensazione di fanatismo, per giunta mal indirizzato, che poteva risultare indisponente. — Sì, sono stato conosciuto con quel nome.
— Sono Yevgeny Navarre.
Quel nome risvegliò una lontana eco. — Lo specialista della chimica delle membrane? Questo è un piacere inaspettato. — Lindsay aveva conosciuto Navarre a Dembowska, ma soltanto attraverso la corrispondenza video. Visto di persona, Navarre appariva arido e incolore. Quale fastidioso corollario, Lindsay si rese conto che lui stesso era stato arido e incolore, durante quegli anni. — Prego, sieda con me, professor Navarre.
Navarre si affibbiò la cinghia. — È gentile da parte sua ricordare il mio articolo per il suo Giornale - disse. — “L’Agente Superficiale Attivo Vescicale nella Catalisi Colloidale degli Exoadcosauri”, uno dei primi che ho scritto.
Navarre irradiava un’educata soddisfazione e fece segno al servo del bistrò, il quale si avvicinò con passo tranquillo sulle sue multiple gambe di plastica. Quel servo, in accordo con la moda del momento, era una fedele miniatura del robot da ricognizione in azione su Marte. Lindsay ordinò un liquore per non apparire scortese.
— Da quanto tempo si trova su Czarina-Kluster, professor Milosz? La sua muscolatura mi dice che lei è stato in un ambiente ad alta gravità. Lavora con gli investitori?
La rapida rotazione della Repubblica aveva marchiato Lindsay. Sorrise: — Non sono libero di parlare.
— Capisco. — Navarre lo gratificò dell’espressione grave e confidenziale di un uomo di mondo suo pari. — Mi fa piacere averla trovata qui nel circondario di Kosmosity. Ha in mente di aderire alla nostra facoltà?
— Sì.
— Un’aggiunta stellare alle nostre ricerche sugli investitori!
— A essere franco, professor Navarre, gli studi sugli investitori hanno perso la loro novità per me. Ho in progetto di specializzarmi negli studi sulla terraformazione.
Navarre sorrise incredulo. — Oh, cielo, sono sicuro che potrebbe fare assai di meglio.
— Davvero? — Lindsay si sporse in avanti in una breve esplosione di movimenti muscolari rozzamente imitati. Tutta la sua agilità d’un tempo nel simulare le più differenti espressioni non c’era più. Quel riflesso l’imbarazzò, e per la centesima volta decise di rinunciarvi.
Navarre proseguì: — La sezione di terraformazione brulica di pazzoidi postcataclisti. Lei è sempre stato un uomo in gamba. Meticoloso. Un buon organizzatore. Odierei vederla finire nella cerchia sbagliata.
— Capisco. Cosa l’ha condotta a Czarina-Kluster?
— Be’ — disse Navarre — i medici dei laboratori della Jastrow Station ed io avevamo delle divergenze a proposito di brevetti. Nel campo della tecnologia delle membrane, capisce. Una tecnica per riprodurre artificialmente la pelle degli investitori, un articolo molto alla moda da queste parti: osservi per esempio gli stivali di quella giovane signora… — Una studentessa cicada con gonna a perline decorata da una vivace pittura spaziale stava sorseggiando una tazza di caffè contro il desolato fondale d’un terreno rosso frantumato. I suoi stivali erano una miniatura di piedi, dita, artigli e tutto il resto degli investitori. Dietro di lei il paesaggio ebbe un improvviso sussulto quando il servo-robot vi passò davanti. Lindsay si aggrappò al tavolo colto da un’improvvisa vertigine.
Navarre barcollò leggermente e disse: — Czarina-Kluster è più amichevole verso gli investitori. Mi hanno tolto dai cani dopo otto mesi soltanto.
— Congratulazioni — disse Lindsay.
I consiglieri della Regina tenevano sotto la sorveglianza dei cani la maggior parte degli immigranti per più di due anni. Fuori delle città, ai loro margini, c’erano interi ambienti in cui la realtà veniva inchiodata dalle telecamere, e tutti erano controllati senza sosta dai videocani. Le intercettazioni elettroniche e i controlli su vasta scala facevano parte della vita pubblica su Czarina-Kluster. Ma i cittadini a pieno titolo potevano sfuggire alla sorveglianza nei “discreti”, le lussuose cittadelle della privacy di Czarina-Kluster.
Lindsay sorseggiò la sua bevanda. — Per prevenire eventuali confusioni, devo dirle che attualmente uso il nome di Lindsay.
— Cosa? Come Wellspring?
— Scusi?
— Lei sapeva della vera identità di Wellspring?
— Ebbene, no — disse Lindsay. — A quanto mi è stato possibile capire, i suoi dati erano andati persi sulla Terra dov’era nato.
Navarre rise deliziato. — La verità è un segreto aperto nei circoli cicada più ristretti. Ne parlano tutti nei discreti. Wellspring è un concatenato. Il suo vero nome è Abelard Malcolm Tyler Lindsay.
— Lei mi lascia esterrefatto.
— Wells gioca molto in profondità. Quella storia della Terra è soltanto un mascheramento.
— Com’è strano.
— Parla del diavolo… — fece Navarre. Una folla fracassona sbucò dall’ingresso della tubovia alla sinistra di Lindsay. Wellspring era arrivato con una congrega di discepoli cicada, una dozzina di studenti usciti di fresco da qualche festa, rossi in faccia, i quali gridavano e ridevano. I giovani cicada erano un turbinio di azzurri e di verdi con lunghi e ondeggianti soprabiti, calzoni con lo specchietto alla caviglia, e luccicanti panciotti a squame di rettile.
Wellspring scorse Lindsay e si avvicinò in caduta libera. I suoi capelli d’un nero opaco erano trattenuti da una coroncina di rame e platino. Sopra la sua giacca verde stampata a fogliami portava un bracciale con un registratore incorporato, il quale irradiava una forte quasi-musica di ramoscelli fruscianti e grida di animali.
— Lindsay! — urlò. — Lindsay! È bello riaverti. — Abbracciò Lindsay con rude vigore e si assicurò a una sedia. Wellspring aveva l’aria di essersi ubriacato. Aveva il volto arrossato, il colletto della camicia aperto, e qualcosa gli stava strisciando nella barba, una piccola popolazione di quelle che sembravano mosche del ferro.
— Com’è andato il tuo viaggio? — gli chiese Lindsay.
— Il Consiglio dell’Anello è una gran noia! Mi spiace non essere stato qui ad accoglierti. — Fece segno a un robot-servo. — Cosa bevi? Che fantastico abisso il Marineris, non è vero? Perfino i tributari hanno le dimensioni del Gran Canyon in Arizona. — Indicò al di là della spalla di Lindsay uno squarcio fra le torreggianti pareti del canyon, dove gelidi venti sollevavano sottili sbuffi color ocra. — Immagina che lì ci sia una cateratta che si sta spelando in un tuonare di arcobaleni! Una vista capace di scuotere l’anima fino alle radici della sua complessità.
— Sicuro — annuì Navarre, con un lieve sorriso.
Wellspring si rivolse a Lindsay. — Ho un piccolo esercizio spirituale per gente dubbiosa come Yevgeny. Ogni giorno dovrebbe recitare fra sé: “Secoli, secoli, secoli”. Gli entusiasmi non durano così a lungo. La carne e il sangue non lo sopportano. — Si rivolse a Navarre: — Le tue ambizioni sono più grandi della vita.
— Naturalmente. Devono esserlo. La comprendono.
— I consiglieri della Regina sono più pratici. — Navarre fissò Wellspring con occhi sospettosi e una punta di disprezzo.
I consiglieri della Regina avevano assunto una posizione di tutta autorità fin dagli albori di Czarina-Kluster. Piuttosto che combatterli per la conquista del potere, Wellspring si era fatto da parte. Adesso, mentre i consiglieri della Regina si arrabattavano per governare giorno dopo giorno nel Palazzo di Czarina, Wellspring aveva scelto di frequentare le città dei cani e i discreti. Spesso spariva per mesi interi, ricomparendo poi con loschi post-umani e altre bizzarre reclute pescate ai margini della società. Era chiaro che queste azioni sconcertavano Navarre.
— Voglio un titolo — disse Wellspring a Lindsay. — Niente di politico.
— Sono sicuro che potremo occuparcene.
Lindsay si guardò intorno. Gli venne da dire, in un accesso di sincerità: — Non mi piace Marte.
Wellspring lo fissò con aria grave. — Ti rendi conto che il destino d’un intero futuro potrebbe aggregarsi intorno a questa frase fugace? È proprio da nuclei di libera volontà come questo che cresce il futuro, con fluido determinismo.
Lindsay sorrise. — È troppo asciutto — dichiarò. La folla urlò, quando il robot scese rapidamente lungo un impervio pendio, facendo barcollare il mondo. — E si muove troppo.
Wellspring era turbato. Mentre si aggiustava il colletto, Lindsay notò il leggero livido lasciato da un’impronta di denti sulla pelle del suo collo. — Un mondo per volta sembra la cosa più saggia da fare, non credi?
Navarre rise incredulo.
Lindsay lo ignorò, guardando dietro le spalle di Wellspring in direzione della sua congrega di seguaci. Un giovane plasmatore con indosso una giacca accademica dai gomiti di stoppa lanuginosa, stava affondando il suo volto dai tratti eleganti nei fluttuanti riccioli biondo-fulvi d’una giovane donna dall’aria felina. Questa reclinò la testa all’indietro, ridendo deliziata, e Lindsay vide, mezzo eclissata dietro di lei, la faccia affranta di Abelard Gomez. C’erano due cani da sorveglianza con Gomez, rannicchiati sulla parete dietro di lui, con le loro costole metalliche che luccicavano, i loro volti di vetro a telecamera che stavano registrando la sua vita. Una sensazione di pietà colse Lindsay, e anche di tristezza per la transitorietà delle eterne verità umane.
Wellspring si lanciò in una discussione appassionata, spazzando via i commenti contrariati di Navarre con un torrente di retorica. Wellspring si profuse con intelligenza sugli asteroidi; sui frammenti di ghiaccio grandi come città che sarebbero stati sganciati lungo archi ardenti sulla superficie di Marte e avrebbero aperto umide oasi con il loro megatonnellaggio capace di squarciare la crosta del pianeta. Prima sarebbero comparsi dei fiumiciattoli, poi dei laghi, a mano a mano che il vapore e altre sostanze volatili si fossero diffusi nell’aria, e le calotte polari si fossero dissolte in anidride carbonica vaporizzata. Le oasicrateri sarebbero state occupate da squadre di scienziati che avrebbero bioscolpito dal nulla interi ecosistemi. Per la prima volta l’umanità sarebbe stata più grande della vita: un mondo vivente avrebbe dovuto la sua esistenza all’umanità, e non viceversa. Wellspring lo vedeva come un obbligo morale, il saldo di un debito. Il costo era irrilevante. Il denaro era simbolico. La vita era la cosa reale.
Navarre intervenne: — Ma è l’elemento umano che finirà per sconfiggerti. Dov’è l’attrazione della cupidigia? È là che ti sei sbagliato altre volte. Avresti potuto governare Czarina-Kluster. Invece hai lasciato che il controllo ti sfuggisse di mano, e adesso i consiglieri della Regina, quei mechanist — Navarre s’interruppe di colpo, guardando i cani che accompagnavano Gomez — quei gentiluomini, dunque, dirigono le cose con la loro abituale efficienza. Ma, politica a parte, questa sciocchezza sta guastando la capacità di Czarina-Kluster di avere una scienza decente! La vera ricerca, voglio dire; del genere che porta nuovi brevetti per corazzare Czarina-Kluster contro i suoi nemici. La terraformazione rappresenta uno spreco delle nostre risorse, mentre i Mech e i Plasmatori complottano in permanenza contro di noi. Sì, ammetto che i tuoi sogni sono belli, sì, hanno perfino un uso sociale come ideologia di stato relativamente innocua. Ma alla fine crolleranno, trascinando con sé Czarina-Kluster.
Gli occhi di Wellspring luccicarono. — Tu lavori troppo, Yevgeny. Ti serve una nuova prospettiva. Prenditi dieci anni di vacanza, e vedi se il tempo non ti farà cambiare idea.
Navarre s’imporporò per la collera. Si rivolse a Lindsay:
— Vede? Cataclisma! Quel suggerimento significa in realtà assassinio da ghiaccio, ha capito la sua allusione? Suvvia, Milosz, lei non può schierarsi con quei perdigiorno!
Lindsay non disse niente. C’era stata un’epoca in cui avrebbe potuto girare la conversazione a suo vantaggio. Ma adesso questa sua capacità era sparita. E lui non la voleva più.
Le parole erano inutili. Avevano finito per spazientirlo. Non riuscivano più a incantarlo.
D’un tratto seppe che doveva uscire dalle regole.
Galleggiò fuori dalla seggiola e cominciò a spogliarsi.
Navarre se ne andò subito, offeso e agitato. Gli indumenti di Lindsay si allontanarono alla deriva in caduta libera, la sua giacca e i suoi calzoni roteavano lentamente sopra gli altri tavoli. I clienti li schivarono, ridendo. Ben presto fu nudo. Le risate nervose della folla si spensero, diventarono perplessa inquietudine. Si allontanarono dai cani di Gomez e borbottarono fra loro con sgomentato sconcerto.
Lindsay li ignorò. Incrociò le gambe a mezz’aria e fissò la parete. Gli studenti di Wellspring abbandonarono il bar, mormorando scuse e sbirciando dietro le loro spalle. Perfino Wellspring era sconcertato. Quando Wellspring se ne andò, portò con sé l’ultimo dei presenti.
Lindsay venne lasciato solo insieme al robot-servo del bar, al giovane Gomez e i suoi cani.
Gomez si avvicinò di più. — Czarina-Kluster non è come pensavo quand’ero nella Repubblica.
Lindsay meditò sul paesaggio.
— Mi hanno appiccicato questi cani perché presumevano che fossi pericoloso. Non ti danno fastidio i cani, vero… No, vedo che non ti danno fastidio. — Gomez esalò un tremulo sospiro. — Dopo tre mesi, gli altri mi tengono ancora a distanza. Non mi vogliono iniziare alla loro congrega. Hai visto la ragazza, vero? Melanie Omaha, il dottor Omaha di Kosmosity. Per il fuoco, è fantastica, non è vero? Ma non gliene importa niente degli uomini che sono sotto i cani. E chi mai potrebbe interessarsene, vista la sorveglianza della Sicurezza? Darei il mio braccio per passare dieci minuti con lei in un discreto… Oh, mi spiace. — Fissò imbarazzato il braccio meccanico di Lindsay.
Gomez si ripulì dalle guance le strisce rosse di pittura facciale. — Ricordi che ti ho parlato di Abelard Lindsay. Bene, corre voce che tu sia Lindsay. E penso proprio di essere disposto a crederci. Tu sei Lindsay? Sei lui?
Lindsay tirò un profondo respiro.
— Capisco — continuò Gomez. — Mi stai dicendo che non ha importanza. L’unica cosa che ha importanza è la Causa. Ma ascolta qui! — Tirò fuori un quaderno di appunti dal soprabito stampato a fronde di salice. E lesse ad alta voce, in tono disperato: — “Un sistema dissipativo in grado di autorganizzarsi si evolve lungo una struttura coerente di strutture spaziotemporali. Possiamo distinguere quattro diverse architetture: autopoiesi, ontogenia, filogenia, anagenesi”. — Appallottolò il foglio in preda all’angoscia. — E questo viene dal mio corso di poesia!
Qualche istante di silenzio, poi Gomez esplose di nuovo: — Forse è il segreto della vita! Ma se lo è possiamo sopportarlo. Possiamo raggiungere gli obiettivi che ci sono stati posti. Nel corso dei secoli. E le cose semplici. Come posso provare una qualunque gioia anche per un solo giorno quando lo spettro di tutti questi secoli incombe su di me… È tutto troppo grande, sì, perfino tu… Tu! Tu che mi hai portato qui. Perché non mi hai detto che eri amico di Wellspring? Era modestia? Ma tu sei Lindsay! Lindsay in persona! A tutta prima non ci ho creduto. Quando ho deciso che era vero, sono rimasto terrorizzato. Era come sentire la propria ombra che ti parlava.
Ebbe un’altra breve esitazione, poi riprese: — Tutti questi anni che sei rimasto nascosto… Ma adesso entri apertamente nella Matrice Disaggregata, non è vero? Sei uscito fuori per fare cose grandiose, per abbagliare il mondo… Fa paura vederti all’aperto. Ma anche se i princìpi sono veri, allora che ne è della carne? Noi siamo la carne! Che ne è della carne?
Lindsay non aveva niente da dirgli.
— So quello che stai pensando — disse Gomez. — “L’amore ha spezzato il suo cuore; è una vecchia storia. Solo il tempo potrà condurlo ad avere una miglior percezione di se stesso”. È questo che stai pensando, vero? Certo che lo è.
Quando Gomez tornò a parlare, era più calmo e riflessivo. — Adesso comincio a capire. Non è qualcosa che le parole possano catturare, vero? Può venir afferrato soltanto tutt’insieme. Un giorno lo capirò per intero. Un giorno, quando questi cani non ci saranno più. Un giorno, quando perfino Melanie Omaha sarà soltanto un ricordo per me. — Era triste ma esaltato. — Li ho sentiti parlare quando hai fatto il tuo… uhm, gesto. I cosiddetti sofisticati, questi orgogliosi cicada. Loro possono anche avere il gergo, ma la saggezza è tua. — Gomez era raggiante. — Grazie, signore.
Lindsay aspettò fino a quando Gomez non se ne fu andato. Poi non ce la fece più a trattenersi. Pensò che non avrebbe mai più smesso di ridere.
Malgrado il ruolo avuto nella sua fondazione, Kitsune non aveva mai visitato Czarina-Kluster. Come Wellspring, Kitsune aveva detenuto un grande potere nei giorni pionieristici di Czarina-Kluster; ma a differenza di Wellspring, Kitsune non aveva abbandonato il posto con grazia. Kitsune aveva sfidato apertamente i consiglieri della Regina.
Negli anni durante i quali Lindsay recuperava se stesso, lei aveva avuto un certo successo. Aveva annunciato l’intenzione di trasferirsi a Czarina-Kluster, ma a mano a mano che gli anni passavano, si era rifiutata di sconvolgere le proprie abitudini, e il suo potere si era deteriorato. Ciò aveva portato ad una rottura, e i destini di Czarina-Kluster e Dembowska erano radicalmente cambiati.
Storie inquietanti sulle sue trasformazioni erano arrivate alle orecchie di Lindsay. Stando alle voci correnti, aveva abbracciato nuove tecnologie, sfruttando il lassismo che aveva accompagnato la distensione. Dembowska era ancora un membro dell’Unione dei Cartelli Mechanist, ma era costantemente sull’orlo dell’espulsione, tollerata soltanto come camera di compensazione per i disertori del Consiglio dell’Anello.
Perfino il Consiglio dell’Anello era rimasto sgomento davanti all’emergente tecnologia della carne di Dembowska. Nelle mani degli zen serotonisti il Consiglio dell’Anello lottava per raggiungere la stabilità. Come risultato, era rimasto indietro. Il vantaggio nel campo della tecnologia genetica era passato ai chirurghi neri dagli occhi spiritati dei cometari e degli anelli di Urano, dove spuntavano come funghi clade post-umane quali la Metropolarità, i Bagnanti del Sangue, e gli Endosimbiotici. Questi avevano rifiutato l’umanità come se fosse un amnio. Microfazioni in disgregazione circondavano la Matrice Disaggregata come una nebbia di plasma surriscaldato.
La marcia della scienza era diventata una disordinata e precipitosa fuga in avanti. I Mechanist e i Plasmatori erano diventati come due eserciti contrapposti, le cui truppe, sparpagliandosi in mezzo alle paludi e agli alberi, ignorassero gli ordini dei loro ormai vetusti generali. Le emergenti filosofie di quell’epoca, il postumanismo, la Zen Serotonina, il Galatticismo, erano come falò accesi a mo’ di segnale per attirare gli sbandati. Filosofie per i disertori.
Il fuoco di Lindsay ardeva vivido e molti si lasciavano attirare dal suo bagliore. La Congrega dei Vitalateralisti, così veniva chiamato il gruppo di Lindsay.
Le congreghe di Czarina-Kluster detenevano di diritto il potere delle fazioni minori. A Czarina-Kluster, le congreghe formavano un governo ombra, un parallelo morale al distratto governo ufficiale dei consiglieri della Regina. Le élites delle congreghe si muovevano dietro le quinte, imitando il loro modello, Wellspring, in deliberate, fitte trame di dissimulazione autointessuta. Le forme del potere e le sue realtà erano state delicatamente districate. Gli arbitri sociali della Congrega del Policarbonio, di quella dei Vitalateralisti o della Camarilla Verde potevano far meraviglie con una semplice allusione o il sollevarsi di un sopracciglio.
Allora, ne conseguì che i gruppi che prendevano in considerazione la possibilità di disertare, cercando rifugio su Czarina-Kluster, consultavano le congreghe cicada prima di chiedere asilo. Di solito, questo era un lavoro che toccava a Wellspring.
In quest’ultimissimo caso, però, Wellspring era assente, impegnato in uno dei suoi molti viaggi di reclutamento. Lindsay, conoscendo la natura del caso, aveva acconsentito ad incontrare i rappresentanti dei gruppi dissidenti a Dembowska, su un terreno neutrale.
Il suo seguito consisteva nel suo vice, Gomez, in tre dei suoi studenti che stavano facendo il postdottorato, più un osservatore diplomatico in rappresentanza dei consiglieri della Regina.
Dembowska era cambiata. Quando sbarcarono alla dogana fra gli scarsi passeggeri del transpaziale, Lindsay rimase colpito dal calore. L’aria aveva la temperatura del sangue ed era impregnata dal sottile odore della pelle di Kitsune. Insieme all’odore, altri ricordi filtrarono nella sua mente. Il sorriso di Lindsay era malinconico. I ricordi erano vecchi di ottantacinque anni, sottili come un foglio di carta. Parevano essere i ricordi di qualcun altro.
I vitalateralisti di Lindsay controllarono i loro bagagli. Due degli studenti laureati, il tipo dei mechanist, mormorarono le prime impressioni nei loro microfoni da labbra. Altri passeggeri erano in attesa alle cabine del controllo a raggi.
Due agenti di Dembowska si avvicinarono al loro gruppo. Lindsay si fece avanti nella debole gravità. — Polizia dell’Harem? — chiese.
— Murofigli — rispose il primo dei due, un maschio. Indossava un leggero kimono senza maniche; le sue braccia nude erano coperte di tatuaggi che indicavano la sua autorità. Il suo volto pareva familiare, Lindsay riconobbe i genetici di Michael Carnassus. Si girò verso l’altro agente, una donna, e vide Kitsune, più giovane, i capelli tagliati, le braccia scure stampate d’inchiostro bianco.
— Sono il colonnello Martin Dembowska, e questa è la mia murosorella, capitano Murasaki Dembowska.
— Io sono il cancelliere Lindsay, questi sono i congrega-membri Abelard Gomez, Jane Murray, Glen Szilard, Colin Szilard, Emma Meyer e il sottosegretario Fidel Nakamura, il nostro osservatore diplomatico. — A turno, i cicada rivolsero un inchino all’uno e all’altro agente.
— Mi auguro che non vi abbia causato troppa scomodità il cambiamento batterico a bordo della nave — disse Murasaki. Aveva la voce di Kitsune.
— Un inconveniente di poco conto.
— Siamo costretti a fare molta attenzione ai batteri epidermici della Muromadre — spiegò il colonnello. — La superficie in gioco è considerevole. Sono certo che capirete.
— Saprebbe dirci le cifre esatte? — chiese uno dei fratelli Szilard, rivelando un’avida bramosia mechanist per i dati nudi e crudi. — I rapporti su questo argomento a Czarina-Kluster sono nebulosi.
— Stando all’ultimo rapporto, la Muromadre ammontava a quattrocentomilaottocentododici tonnellate. — Il colonnello era orgoglioso. — Avete niente da dichiarare? No? Allora seguitemi.
Seguirono il dembowskiano in un ufficio privato di compensazione, dove lasciarono le proprie valige, e vennero dati loro dei kimono sterilizzati per ospiti. Fluttuarono a piedi nudi nell’aria calda nella principale arteria di Dembowska.
Pavimento, soffitto e pareti della cavernosa area del duty-free shop erano fatti di carne. I cicada camminavano con riluttanza, sfiorando appena con le dita dei piedi la pelle elastica. Guardavano con malcelato desiderio i negozi, le isole-salvagente di pietra e metallo. Lindsay li aveva istruiti perché mostrassero il massimo tatto ed era orgoglioso del modo in cui nascondevano le proprie reazioni istintive.
Perfino Lindsay avvertì una certa titubanza quando entrarono nella prima, lunga galleria; la sua struttura rotonda, simile a un esofago, risvegliava inquietudini sepolte in un pozzo profondo.
Il gruppo salì su un trasporto a slitta aperto, mosso dalle contrazioni peristaltiche dei tendini disposti a binario sotto di esso.
La liscia parete era costellata a intervalli da tappi sfinterici per la pasta nutriente predigerita. La luce s’irradiava, morbida, da vesciche translucide, gonfie d’una bianca fosforescenza.
Gomez, al fianco di Lindsay, studiava l’architettura con un’intensità assai simile a uno stato di trance. La sua attenzione era ancora più acuita da una droga conosciuta nei circoli cicada come “Delirio Verde”.
— Si sono rovinati — disse Gomez, a bassa voce. — Possibile che ci sia una personalità dietro a tutto questo? Deve volerci una mezza tonnellata di cervello posteriore per governare tutta questa carne. — I suoi occhi si restrinsero. — Immagina come si deve sentire.
Il clone di Carnassus, nel primo scomparto della slitta, toccò i comandi. Una giuntura umida si dischiuse nel pavimento, facendo precipitare la slitta in caduta libera verticale. Vennero catapultati giù lungo la tromba multibinario di un ascensore, interrotta qua e là da vertiginose prospettive di piazze e sobborghi.
Negozi e uffici scorrevano via fulminei, incassati in un’ondeggiante, scura pelle satinata. Il calore e l’odore della pelle profumata erano dappertutto: intimità su scala industriale. La folla era scarsa. Per la maggior parte si trattava di bambini, che correvano in giro nudi.
La slitta si arrestò con una brusca frenata. Il gruppo sbarcò su una piattaforma pelosa. Gomez diede di gomito a Lindsay quando la slitta vuota tornò indietro scivolando verso l’alto lungo i binari. — Le pareti hanno orecchie, Cancelliere.
Sì, li avevano. E anche occhi.
C’era qualcosa nell’aria di quel livello. Il profumo era particolarmente inebriante. D’un tratto Gomez sentì le palpebre pesanti, e i fratelli Szilard che avevano inforcato le telecamere a benda, se le sfilarono dalla fronte per asciugarsi il sudore. Jane Murray ed Emma Meyer, sconcertate da qualcosa che non riuscivano a definire, si guardavano intorno sospettose. Mentre i due dembowskiani li conducevano giù dalla piattaforma addestrandosi nelle cavernose profondità, Lindsay identificò d’un tratto la causa: feromoni sessuali. L’architettura era eccitata.
Il gruppo seguì un sentiero a bassa gravità: pelle indurita segnata dagli interminabili solchi d’innumerevoli impronte digitali. Il soffitto sovrastante era un tappeto ondulato di lucidi capelli neri, per spostarsi, una mano dopo l’altra.
Era chiaro che quel livello era una mostra: gli edifici preesistenti erano stati spogliati, ridotti a pure intelaiature, tralicci per la carne. Voluttuosi profili organici s’innalzavano da ogni lato, angoli euclidei erosi e smussati per ottenere morbide linee materne. Le strutture fluivano su dal pavimento per fondersi in archi a collo di cigno con il lucido soffitto. Gli edifici erano infossati, scavati, il liscio color rosa degli sfinteri a guisa di porte sfumava impercettibilmente nella pelle punteggiata di peluria.
Si fermarono sul prato peloso davanti a un enorme ed elaborato edificio, le sue scure pareti ostentavano lucidi mosaici di avorio. — Il vostro ostello — annunciò il colonnello. La doppia porta dell’edificio si spalancò, ruotando su cardini muscolari simili a fauci.
Jane Murray esitò mentre gli altri entravano; prese Lindsay per il braccio. — Quell’avorio nelle pareti sono denti. — Era diventata pallida sotto i gelidi azzurri e acquamarina della sua tintura facciale cicada.
— Feromoni femminili nell’aria — disse Lindsay. — La rendono nervosa. È la reazione del retrocervello, dottore.
— Gelosa delle pareti? — La postantropologa sorrise. — Questo posto dà la sensazione di essere un gigantesco discreto.
Malgrado questa spacconata, Lindsay vide la sua paura. Lei avrebbe preferito trovarsi perfino nei più famigerati discreti della cicada, con i loro giochi clandestini, piuttosto che in quell’alloggio di dubbia natura. Entrarono.
Murasaki si rivolse al gruppo: — Dividerete l’ostello con due gruppi di agenti di commercio, uno di Diotima e l’altra di Themis, ma avrete un’ala tutta per voi. Da questa parte, per favore.
La seguirono lungo una passerella d’innesti di avorio piatto. Uno della miriade di cuori che pullulavano su Dembowska pulsava dietro le costole del soffitto. Il suo doppio battito dava il ritmo al lieve gorgheggio musicale che proveniva da una laringe incassata nella parete.
Il loro alloggio era un miscuglio biomeccanico. Degli schermi collegati con la Borsa ardevano sulle pareti, seguendo l’ascesa e la caduta dei più importanti titoli mechanist. La mobilia era costituita da grumi e da montagnole di gusto raffinato: letti di carne ricurvi, pudicamente ammantati di lenzuola e coperte stampate con disegni di giaggioli. L’ampio appartamento era diviso da membrane tatuate a mo’ di paraventi, Il colonnello batté una mano su una delle membrane divisorie. Questa s’increspò ritraendosi dentro il soffitto come una palpebra. Il colonnello indicò con un gesto cortese uno dei letti. — Questi mobili sono un esempio dell’erotecnologia della nostra Muromadre. Esistono per vostro conforto e piacere. Devo informarvi, però, che la nostra Muromadre si riserva il diritto della fecondità.
Emma Meyer, che si era accomodata con cautela su uno dei letti, balzò di scatto in piedi. — Scusi?
Il colonnello corrugò la fronte. — Le eiaculazioni maschili diventano proprietà del ricevente. Questo è un antico principio femminile.
— Oh, capisco.
Murasaki contrasse le labbra. — Lo considera strano, dottore?
— Niente affatto — replicò Emma Meyer, in tono convinto. — Ha perfettamente senso.
La ragazza dembowskiana proseguì: — Qualunque bambino generato dagli uomini del vostro gruppo avrà la completa cittadinanza. Tutti i murofigli sono ugualmente amati. Si dà il caso che io sia un clone perfetto, ma mi sono guadagnata il mio posto per i miei meriti, nell’amore della Madre. Non è così, Martin?
Il colonnello aveva una maggior comprensione per quelle che erano le finezze diplomatiche. Annuì brevemente. — L’acqua dei bagni è sterile e contiene soltanto un minimo di sostanze organiche disciolte. Può essere bevuta tranquillamente. L’impianto idraulico è modellato sulla tecnologìa genitourinaria, ma non vi sono liquami di scarto.
Gomez trasudava un affascinato entusiasmo. — Come progettista biologico, la vostra ingegnosa architettura m’incanta. Non soltanto per l’abilità tecnica ma anche per la sua raffinata estetica. — Esitò. — C’è tempo per un bagno prima dell’arrivo dei bagagli?
I cicada avevano bisogno di fare un bagno. Il cambiamento batterico non era ancora insediato del tutto, e la temperatura del sangue dell’aria dembowskiana causava loro un continuo prurito.
Lindsay si ritirò in un angolo dell’appartamento e abbassò la membrana.
Subito cambiò il proprio comportamento. Non più in presenza dei suoi giovani seguaci, prese a muoversi secondo la propria velocità. Non aveva bisogno di un bagno. La sua pelle invecchiata non era più in grado di sostentare una fitta popolazione di batteri.
Si sedette sul bordo del letto. Era stanco. Senza che lui lo volesse, i suoi occhi si appannarono. Trascorse un lungo istante, durante il quale fu semplicemente vuoto, senza pensare a niente.
Alla fine, ammiccando più volte, tornò in sé. Di riflesso, portò la mano alla tasca della giacca, e tirò fuori un inalatore smaltato. Due lunghe spruzzate di Delirio Verde ridestarono in lui l’interesse per il mondo esterno. Si guardò lentamente intorno, e fu sorpreso di vedere un kimono azzurro contro la parete. Era Murasaki a indossarlo. Il suo corpo era dissimulato quasi perfettamente contro la pelle dello sfondo.
— Capitano Murasaki — disse Lindsay. — Non l’avevo notata. Mi perdoni.
— Ero… — Se n’era rimasta là in cortese silenzio. Era innervosita dalla sua reputazione. — Mi è stato ordinato di… — Indicò la porta, una piega nella parete.
— Vuole condurmi da qualche parte? — chiese Lindsay. — I miei compagni possono cavarsela anche senza di me. Sono a sua disposizione.
Seguì la ragazza nel corridoio.
Giunta nell’atrio, la ragazza si fermò e passò la mano lungo la carne liscia della parete. Un foro si aprì come uno sfintere accanto ai suoi piedi, ed entrambi, lentamente, caddero giù di un piano.
Il livello immediatamente inferiore all’ostello ospitava un’area dedicata alla manutenzione. Lindsay percepì lo scorrere costante del sangue nelle arterie e un occasionale gorgoglio simile a quello delle budella provenire dalle nude pareti. C’era un tremolio di bioschermi incassati nei bordi corrugati della carne.
— Questo è il centro sanitario. Per la salute della Muromadre, intendo. — gli spiegò Murasaki. — Qui lei ha un collegamento mentale. Qui può parlarle per mio tramite. Non deve allarmarsi. — Gli voltò la schiena e sollevò una frangia di capelli scuri dalla propria nuca, mostrandogli l’intercollegamento innestato alla base del cranio.
Lentamente, il Delirio Verde aveva invaso Lindsay, una pizzicante ondata di curiosità. Delirio Verde era la suprema droga antinoia, le basi biochimiche della sensazione di meraviglia ridotte alla loro essenzialità. Con una quantità sufficiente di Delirio Verde un uomo poteva trovare enormemente interessanti le linee dei palmi delle proprie mani. Lindsay sorrise con non simulata delizia. — Meraviglioso — disse.
Murasaki esitò, e lo guardò perplessa.
— Non deve allarmarsi se la fisso — la rassicurò Lindsay. — Lei mi ricorda tanto sua madre.
— Lei è davvero… lui, Cancelliere? Abelard Lindsay, l’amante di mia madre?
— Kitsune ed io siamo sempre stati amici.
— Le assomiglio molto?
— I cloni appartengono a se stessi. — Parlò con voce calma, tranquillizzante. — Un tempo, nel Consiglio dell’Anello, avevo una famiglia. I miei congenetici: i miei figli, erano cloni. E io li amavo.
— Non deve pensare che io sia soltanto un pezzo del Muro — replicò Murasaki. — Le cellule del Muro sono cromosomicamente depauperate. Blastomi chimerici. Il Muro non è completamente umano come la carne originaria di Kitsune. O la mia. — Lo fissò negli occhi, indagatrice. — Non le dispiace parlare prima con me, vero? Non la sto annoiando?
— Impossibile — dichiarò Lindsay.
— Noi Murofigli abbiamo avuto problemi, in altre occasioni. Alcuni stranieri ci trattano come mostri. — Sospirò, rilassandosi. — La verità è che siamo piuttosto noiosi.
Lindsay si mostrò comprensivo. — Lo pensa proprio?
— Non come su Czarina-Kluster. Là le cose sono eccitanti, no? Succede sempre qualcosa. Pirati. Postumanisti. Disertori. Investitori. A volte visiono dei nastri che vengono da lì. Mi piacerebbe avere dei vestiti come quelli.
Lindsay sorrise. — I vestiti sembrano più belli visti da lontano, mia cara. I cicada si vestono per fare sfoggio della propria posizione sociale. Possono volerci delle ore per farlo.
— Lei… soffre soltanto di pregiudizi, cancelliere Lindsay. È stato lei ad inventare lo spogliarello sociale!
Lindsay sussultò. Doveva essere sempre perseguitato da quel cliché?
— L’ho visto in una commedia — disse la ragazza. — La Goldreich Intrasolar è passata qui, durante una tournée. Hanno messo in scena Pietà per i Parassiti di Fernand Vetterling. Nel momento culminante, l’eroe si denuda.
Lindsay si sentì mortificato. I lavori di Vetterling avevano perso tutto il loro impatto da quando lui era diventato uno zen serotonista. Lindsay l’avrebbe anche detto alla ragazza, ma avvertiva troppo l’ombra di una propria colpa per il tragico corso assunto dalla carriera di Vetterling. A causa della politica, Vetterling aveva passato degli anni come non-persona. Lindsay non poteva biasimare il drammaturgo per aver scelto la pace a tutti i costi.
— Lo spogliarello è una forma del tutto decente al giorno d’oggi — replicò. — Ha perso tutto il suo significato. La gente lo fa soltanto per dare enfasi a una conversazione.
— Io pensavo fosse meraviglioso. Anche se la nudità non significa molto su Dembowska… Ma non dovrei proprio io starle qui a parlare di lavori teatrali. Non è stato lei a fondare la Kabuki Intrasolar?
— È stato Fyodor Ryumin — precisò Lindsay.
— Chi è?
— Un brillante commediografo. È morto alcuni anni fa.
— Era molto vecchio.
— Molto. Perfino più di me.
— Oh, mi spiace. — L’aveva imbarazzata. — Adesso me ne vado. Lei e la Muromadre dovete avere molto da discutere. — Premette la mano contro la parete dietro di sé, poi tornò a girarsi una volta ancora verso di lui. — Grazie per essersi mostrato tanto indulgente. È stato un grande privilegio. — Un tentacolo di carne uscì dalla parete alle sue spalle. Il grumo svasato all’estremità del tentacolo si chiuse dietro al suo collo. La ragazza scostò i capelli e sistemò la presa. Il suo volto divenne molle. Le sue ginocchia cedettero e si accasciò lentamente nella debole gravità. Kitsune arrivò in linea e la colse prima che toccasse il pavimento. Il corpo ebbe un breve tremito nella paralisi del feedback; poi Kitsune fece in modo che che si stiracchiasse, e si passò le mani lungo le braccia. Il volto si riassestò. Il corpo era tutta grazia, adesso, fremente d’una antica e feroce vitalità elettrica. Soltanto gli occhi erano morti.
— Ciao, Kitsune.
— Ti piace questo corpo, tesoro? — Tornò a stiracchiarsi. — Niente fa rivivere i ricordi come trovarsi in una giovane donna… Come ti fai chiamare, oggi?
— Abelard Lindsay, cancelliere dei Metasistemi-Kosmosity di Czarina-Kluster, Sezione Sistemi Giovani.
— E Arbitro della Congrega dei Vitalateralisti.
Lindsay sorrise. — Le cariche nei club sociali non hanno validità legale, Kitsune.
— È una carica abbastanza forte da condurre qui un disertore, direttamente dalla Skimmers Union… Lei dice che il suo nome è Vera Constantine. E quel nome significa abbastanza per te da farti venire fin qui.
Lindsay scrollò le spalle: — Tu mi vedi, Kitsune.
— La figlia del tuo vecchio nemico. E la congenetica di una donna morta da tempo il cui nome mi sfugge.
— Vera Kelland.
— Come te lo ricordi bene! Meglio di quanto ricordi il nostro rapporto.
— Ne abbiamo avuto più di uno, Kitsune. Ricordo la nostra giovinezza nello Zaibatsu, anche se non così bene come vorrei. E ricordo i miei trent’anni qui a Dembowska, quando ti ho tenuta lontana perché la tua forma mi ripugnava e sentivo la mancanza di mia moglie.
— Non avresti potuto resistermi in nessuna forma, se ti avessi incalzato. In quegli anni ti ho soltanto stuzzicato.
— Da allora sono cambiato. Oggi, altre sono le cose che m’incalzano.
— Ma adesso ho una forma migliore. Come quella vecchia. — Scrollò giù il kimono dal corpo della ragazza.
Lindsay si avvicinò e passò la mano raggrinzita sul lungo fianco arcuato. — È molto bello — commentò.
— È tuo — gli disse Kitsune. — Divertiti.
Lindsay sospirò. Passò le dita sopra il grumo svasato sulla nuca della giovane. — Nel mio duello con Constantine, mi ero fatto installare qualcosa del genere. I fili perdono molto nella trasduzione. Così, non puoi provare la stessa cosa, Kitsune. Non come la provavi allora.
— E con ciò? — Lei se ne uscì in una sonora risata. La bocca si aprì, ma il volto si mosse appena. — Quei limiti me li sono lasciati alle spalle tanto tempo fa che me li sono dimenticati.
— Fa lo stesso, Kitsune. Neppure io posso più percepire allo stesso modo. — Fece un passo indietro e si sedette sul pavimento. — Se ti può essere di consolazione, provo ancora qualcosa per te. Ma d’altro canto quello che c’era fra noi non ha mai avuto un nome.
Lei raccolse il kimono senza maniche. — La gente che perde tempo a dare dei nomi alle cose non ha mai il tempo per viverle.
Passarono alcuni istanti in amichevole silenzio. Lei tornò a infilarsi l’indumento e si sedette davanti a lui. — Come sta Michael Carnassus? — chiese lui alla fine.
— Michael sta bene. Ad ogni ringiovanimento, ripariamo un po’ più dei danni causati dalla frammentazione. Lascia il suo extraterrario per periodi di tempo sempre più lunghi, oggi. Si sente al sicuro nei miei corridoi. Adesso può parlare.
— Ne sono lieto.
— Mi ama, credo.
— Be’, il fatto non va disprezzato.
— Talvolta, quando penso a tutti i guadagni che ho realizzato grazie a lui, provo una curiosa sensazione di calore. Non ho mai fatto un affare migliore. Lui era così meravigliosamente malleabile… Anche se adesso è inutile, provo ancora un’autentica soddisfazione quando lo guardo. Ho deciso che non lo butterò mai via.
— Molto bene.
— Per essere un mechanist, era molto brillante, ai suoi tempi. Come ambasciatore presso gli alieni, doveva essere uno dei migliori. Ha molti figli qui da noi, congenetici, e sono tutti molto soddisfacenti.
— L’ho notato quando ho incontrato il colonnello Martin Dembowska. Un ufficiale molto capace.
— Lo pensi davvero?
Lindsay si mostrò giudizioso. — Be’, è giovane, naturalmente. Ma non possiamo farci niente.
— No. E questa… questa scatola parlante è ancora più giovane. Ha soltanto diciannove anni. Ma i miei murofigli devono crescere in fretta. Intendo fare di Dembowska il mio nido genetico. Tutti gli altri dovranno andarsene. E questo comprende la tua amica plasmatrice arrivata dalla Skimmers Union.
— Te la toglierò dai piedi quando ti farà comodo.
— È una trappola, Abelard. I figli di Constantine non hanno nessuna ragione per amarti. Non fidarti di lei. Come Carnassus, è stata con gli alieni. Hanno lasciato il loro marchio su di lei.
— Devo confessare che sono curioso. — Sorrise. — Suppongo sia dovuto alle droghe.
— Droghe? Non può essere la vasopressina, la tua vecchia preferita. Altrimenti avresti una miglior memoria.
— Delirio Verde, Kitsune. Ho certi progetti a lunga scadenza… Delirio Verde tiene desto il mio interesse.
— La tua terraformazione.
— È un problema di tempo, capisci? Il fanatismo a lungo termine è un duro lavoro. Senza Delirio Verde la mente erode il fantastico fino a ridurlo a un luogo comune.
— Capisco — replicò Kitsune. — Il tuo fantastico e il mio estatico… Il parto è una cosa meravigliosa.
— Mettere una nuova vita al mondo… è il mistero. Davvero un evento prigoginico.
— Devi essere stanco, tesoro. Ti ho ridotto a parlare di banalità cicadiane.
— Mi spiace. — Sorrise. — È in perfetta armonia con lo sfondo.
— Tu e Wellspring avete un’immagine molto abile ed efficace. Siete entrambi grandi oratori. Sono sicura che saresti perfettamente in grado di tener lezione per ore. O per giorni. Ma… secoli?
Lindsay scoppiò a ridere. — Talvolta sembra uno scherzo, vero? Due cani solari che abbracciano il non plus ultra. Wellspring ne è proprio convinto, credo. E in quanto a me, faccio del mio meglio.
— Forse lui pensa che tu ci credi.
— Forse sì. Forse anch’io ci credo. — Lindsay tirò una lunga ciocca di capelli con le dita di ferro. — Come tutti i sogni, il postumanismo ha i suoi meriti. L’esistenza dei quattro livelli di complessità è stata dimostrata matematicamente. Ho visto le equazioni.
— Risparmiami, tesoro. Certamente, noi non siamo vecchi al punto da doverci mettere a discutere equazioni.
Le parole lo attraversarono senza che lui le udisse. Sotto l’influenza del Delirio Verde, il suo cervello soccombette temporaneamente all’attrazione della matematica, il più puro fra i piaceri intellettuali. Nel suo normale stato mentale, malgrado gli anni di studio, trovava fonte di sofferenza le formule, una massa di simboli che gl’intorpidiva il cervello. Sotto l’effetto del Delirio Verde, riusciva a comprenderle, anche se dopo ricordava soltanto la pura gioia della comprensione. La sensazione era qualcosa di prossimo alla fede. Alcuni istanti passarono. Ne uscì fuori di colpo. — Scusa, Kitsune… stavi dicendo?
— Non ti ricordi, Abelard… Una volta ti ho detto che l’estasi era meglio che essere Dio.
— Me ne ricordo.
— Mi sbagliavo, tesoro. Essere Dio è meglio.
L’alloggio di Vera Constantine era una misura della diffidenza di Kitsune. La giovane donna del clan dei Plasmatori era da settimane agli arresti domiciliari. La sua abitazione consisteva in celle di pietra e di ferro, tre locali in tutto, fuori dall’abbraccio di Kitsune che consumava il mondo.
Sedeva davanti a un monitor incassato nella parete, intenta a studiare il flusso delle transazioni su un grafico tridimensionale. Non aveva mai avuto a che fare con il mercato prima di allora, ma Abelard Gomez, un giovane e cortese cicada, le aveva dato una quota finanziaria, così da permetterle di passare in qualche modo il tempo. Non sapendone di più, stava applicando allo scorrere del mercato i princìpi della dinamica atmosferica che aveva imparato su Fomalhaut IV. Stranamente, questi parevano funzionare. Era chiaro che stava realizzando dei guadagni.
La porta si dissigillò, spalancandosi. Un vecchio entrò nella stanza, alto, magro, con addosso un abito cicada poco appariscente: una lunga giacca, calzoni scuri con spacchetto alla caviglia, anelli da portare sopra i guanti bianchi. Il suo volto rugoso era barbuto, e una coroncina argentata adorna di foglie dava rilievo ai capelli striati di bianco che gli arrivavano fino alle spalle. Vera si alzò dalla sedia a staffe e s’inchinò, imitando la riverenza cicada. — Benvenuto, Cancelliere.
Lindsay esplorò a fondo la cella con lo sguardo, le sue sopracciglia irsute si sollevarono per la perplessità. Pareva guardingo, non nei confronti della giovane donna, ma di qualcosa nella stanza. Poi lo sentì anche lei, e seppe che la Presenza era tornata. Suo malgrado, pur sapendo che era inutile, la cercò rapidamente intorno a sé. Qualcosa guizzò all’angolo dei suoi occhi, sfuggendo alla sua vista.
Lindsay le sorrise. Poi continuò a ispezionare la stanza. Lei non voleva dirgli della Presenza. Dopo un po’, lui avrebbe rinunciato a cercarla, proprio come avevano fatto tutti gli altri. — Grazie — disse in ritardo. — Confido che lei stia bene, Capitano-Dottore.
— I suoi amici, il dottor Gomez e il sottosegretario Nakamura, sono stati molto premurosi. Grazie per i nastri e gli altri doni.
— Non erano niente — si schermì Lindsay.
D’un tratto, lei provò il vivo timore di deluderlo. Erano quindici anni, dal giorno del duello, che lei non lo vedeva. Allora, lei era molto giovane, solo vent’anni. Aveva ancora gli zigomi e il mento appuntito dei Kelland, ma il tempo l’aveva cambiata, e il suo genotipo non era puro. Lei non era il clone di Vera Kelland.
Il suo kimono senza maniche mostrava spietatamente i cambiamenti apportati in lei dagli anni trascorsi come emissario presso gli alieni. Due dotti circolatori incavavano la carne del suo collo, e la sua pelle aveva ancora un peculiare colorito cereo. All’interno dell’ambasciata di Fomalhaut, era vissuta nell’acqua per anni.
Gli occhi grigi di Lindsay non avevano smesso di scrutare intorno. Era convinta che lui fosse in grado di sentire la Presenza, di avvertirne l’esistenza che tutto impregnava, arcana e inquietante. Presto o tardi avrebbe attribuito a lei l’origine di quella sensazione, e allora le sue possibilità di conquistare il suo favore sarebbero andate in fumo. Parlò in maniera astratta. — Mi spiace che le faccende non possano venir risolte in fretta… Nel campo delle defezioni è meglio non essere affrettati.
Le parve di aver sentito un velato riferimento al destino di Nora Mavrides. Questo la raggelò. — Capisco il suo punto di vista, Cancelliere. — Vera non aveva nessun appoggio ufficiale da parte del clan di Constantine, poiché non potevano rischiare nessuna denuncia nell’ambito del Consiglio dell’Anello. A quei tempi la vita era dura nella Skimmers Union, alla perdita del ruolo di città capitale si era accompagnata una lotta sorda e rabbiosa per il controllo degli scampoli di potere rimasti e la caccia ai capri espiatori. I membri del clan di Constantine ne erano stati le maggiori vittime.
Un tempo lei era stata la favorita del fondatore del loro clan, coperta di doni e dall’affetto parossistico di Constantine. Ma il suo clan aveva giocato troppe carte sbagliate. Philip Constantine aveva rischiato il loro futuro puntando sulla possibilità di uccidere Lindsay, e aveva fallito. Il clan aveva fatto grandi investimenti sull’incarico di ambasciatore di Vera, ma lei era tornata senza le ricchezze che loro si erano aspettati. Ed era cambiata in maniera tale da allarmarli. Adesso era sacrificabile.
A mano a mano che il potere del clan era diminuito, avevano vissuto nel terrore di Lindsay. Lui era sopravvissuto al duello ed era ritornato più potente che mai. Sembrava inarrestabile, più grande della vita, ma l’attacco che si erano aspettati non era mai venuto, e si erano resi conto che aveva anche lui i suoi punti deboli. Per suo tramite speravano di far leva sulle sue emozioni, contando sull’amore o sul senso di colpa che provava per Vera Kelland. Era l’ultima e la più disperata delle scommesse. Con un po’ di fortuna avrebbero potuto assicurarsi un asilo. O la vendetta. O tutte e due le cose.
— Perché venire da me? — chiese Lindsay. — Ci sono altri luoghi. La vita da mechanist non è così brutta come la dipinge il Consiglio dell’Anello.
— I Mech ci metterebbero contro la nostra stessa gente. Frantumerebbero il nostro clan. No, Czarina-Kluster è il luogo migliore. C’è asilo all’ombra della vostra Regina. Ma non ci sarà, se tu operi contro di noi.
— Capisco — annuì Lindsay. E sorrise. — I miei amici non si fidano di voi. Abbiamo ben poco da guadagnare, capisci. Czarina-Kluster pullula già di disertori. Il tuo clan non condivide la nostra ideologia postumana. Cosa ancora peggiore, ci sono molte persone in Czarina-Kluster che odiano il nome Constantine. Ex detentisti, cataclisti, e così via… Capisci le difficoltà?
— Quei giorni sono alle nostre spalle, Cancelliere. Non intendiamo fare del male a nessuno.
Lindsay chiuse gli occhi. — Potremmo scambiarci assicurazioni fino a quando il sole esploderà — dichiarò, come se citasse qualcuno — e non riuscire mai a convincerci a vicenda. O ci fidiamo l’una dell’altro, oppure no.
La sua franchezza la riempì di timori. Si sentiva smarrita. Il silenzio si prolungò facendola sentire a disagio. — Ho un regalo per te — disse. — Un antico cimelio di famiglia. — Attraversò l’angusta cella per sollevare una gabbia rettangolare, avvolta in un drappo di velluto color pesca. Sollevò il panno della gabbia e gli mostrò il tesoro del clan: un topo albino di laboratorio. Correva su e giù per la gabbia sempre allo stesso modo, con una bizzarra e ripetitiva precisione. — È una delle prime creature ad aver mai raggiunto l’immortalità fisica. Un antico esemplare da laboratorio. Ha più di trecento anni.
Lindsay replicò: — Sei molto generosa. — Sollevò la gabbia e l’esaminò. All’interno di essa il topo, la sua capacità di apprendere completamente esaurita dall’età, era stato ridotto a un assoluto comportamento meccanico. Le contrazioni del suo muso, perfino i movimenti dei suoi occhi, erano totalmente stereotipati.
Lindsay continuò a fissarlo, indagatore. Lei sapeva che non ne avrebbe ricavato nessuna reazione. Non c’era niente nei gelatinosi occhi rossi del topo, neppure il più fioco guizzo di consapevolezza animale. — È mai stato fuori dalla gabbia? — chiese Lindsay.
— Non più da secoli, Cancelliere. È troppo prezioso.
Lindsay aprì la gabbia. Con la sua routine infranta, il topo si rannicchiò accanto al tubo d’acciaio dal quale sgocciolava la sua acqua, con gli arti coperti di pelliccia fibrosa che tremavano.
Lindsay agitò le dita guantate accanto all’ingresso della gabbia. — Non aver paura — disse al topo, con un tono il più serio possibile. — C’è tutto un mondo qua fuori.
Nella testa del topo scattò qualche antico, corroso riflesso. Con uno squittio si lanciò attraverso la gabbia contro la mano di Lindsay, artigliandola e mordendola con furia convulsa.
Vera rantolò e balzò in avanti, scossa dal suo stesso gesto, sgomenta per la reazione del topo. Lindsay le fece cenno di tornare indietro e sollevò la mano, osservando impietosito il topo che lo attaccava. Sotto il guanto destro lacerato, dita dure, prostetiche, luccicavano nella loro intelaiatura a griglia color rame e nero.
Lindsay agguantò con dolce fermezza l’animale che si contorceva, facendo attenzione che non si spezzasse i denti. — La prigione ha compresso e modellato la sua mente in maniera innaturale — disse. — Ci vorrà molto tempo per dileguare le sbarre dietro i suoi occhi. — Sorrise. — Per fortuna, il tempo è una merce abbondante.
Il topo smise di lottare. Ansimava, colto dagli spasimi di qualche epifania roditoria. Lindsay lo mise giù con delicatezza, sulla superficie del tavolo, accanto allo schermo del mercato azionario. L’animaletto si agitò per rimettersi in piedi sulle sue zampette rosa e cominciò ad andare su e giù tutto agitato, voltandosi per tornare indietro tutte le volte che raggiungeva quelli che erano stati i confini della sua gabbia.
— Non può cambiare — gli disse Vera. — Le sue capacità sono esaurite.
— Sciocchezze — ribatté Lindsay. — Ha soltanto bisogno di attuare un balzo prigoginico fino al successivo livello di comportamento. — Questa calma asserzione della sua ideologia la spaventò. Qualcosa, però, doveva essere trasparito sul suo viso. Lindsay sfilò dalla propria mano il guanto lacerato. — La speranza è il nostro dovere — dichiarò. — Devi sempre sperare.
— Per anni abbiamo sperato di poter guarire Philip Constatine — replicò Vera. — Adesso sappiamo che non è possibile. Siamo pronti a dartelo, in cambio d’un salvacondotto.
Lindsay la fissò, serio. — Questa è crudeltà — rispose.
— Era il tuo nemico — lei spiegò. — Volevamo fare ammenda.
— Per me, quella possibilità sei tu.
Funzionava. Ricordava ancora Vera Kelland.
— Non illuderti — disse ancora. — Io non ti offro una vera ricompensa. Un giorno Czarina-Kluster dovrà cadere. Le nazioni non durano, in quest’epoca. Soltanto la gente dura, soltanto i progetti e le speranze… Io posso offrirti soltanto quello che abbiamo. Non la sicurezza, la libertà.
— Il postumanismo — lei citò. — È la vostra ideologia di stato. Naturalmente ci adatteremo.
— Pensavo che tu avessi le tue convinzioni, Vera. Tu sei una galatticista.
Vera si passò leggermente le dita, con fare assente, su una delle cicatrici branchiali sul suo collo. — Ho imparato la mia politica nella sfera di osservazione. A Fomalhaut. L’ambasciata. — Esitò. — Là la vita mi ha cambiato più di quanto tu non possa immaginare. Ci sono delle cose che non riesco a spiegare.
— C’è qualcosa in questa stanza — disse Lindsay.
Lei lo fissò, sbalordita. — Sì — esclamò. — Lo senti? Non molti ci riescono.
— Cos’è? Qualcosa degli alieni di Fomalhaut? I sacchi-di-gas?
— Loro non ne sanno niente.
— Ma tu sì — lui ribadì. — Parlamene.
Ormai, c’era troppo dentro per tirarsi indietro. Parlò con riluttanza. — La prima volta l’ho notato quand’ero all’ambasciata. L’ambasciata galleggia nell’atmosfera di Fomalhaut Quattro, un pianeta gigante, gassoso, simile a Giove… Là, dovevamo vivere nell’acqua per sopravvivere alla gravità. Ci avevano messi insieme, Mechanist e Plasmatori, condividevamo l’ambasciata, non c’era altra scelta. Ogni cosa è stata cambiata; anche noi cambiammo… Gli investitori erano venuti a prelevare un contingente mechanist per riportarlo alla Matrice Disaggregata. Credo che la Presenza fosse a bordo della nave degli investitori. Da allora la Presenza è stata con me.
— È reale? — chiese Lindsay.
— Penso di sì. Talvolta quasi la vedo. Una specie di tremolio. Una cosa che ha il colore di uno specchio.
— Cos’hanno detto gli investitori?
— Hanno negato ogni cosa. Hanno detto che soffrivo di allucinazioni. — Esitò. — E non sono stati gli unici a dirlo. — Le dispiacque di averlo confessato così, subito. Ma il fardello era alleviato. Lo guardò, osando sperare.
— Un alieno, allora — disse Lindsay. — E non uno delle diciannove specie conosciute.
— Tu mi credi. Tu pensi che si trovi davvero qui.
— Dobbiamo credere l’uno nell’altro. Così, la vita è migliore. — disse Lindsay. — Ispezionò con ancor maggiore attenzione l’angusta cella intorno a sé, come per mettere alla prova i propri occhi. — Vorrei attirarlo all’aperto.
— Non verrà fuori — dichiarò la ragazza. — Credimi, l’ho implorato molte volte di farlo.
— Non dobbiamo provarci qui — fece Lindsay. — Qualunque manifestazione allarmerebbe Kitsune. Lei si sente sicura, su questo mondo. Dobbiamo considerare i suoi sentimenti.
La sua sincerità la sbalordì. Non le era mai passato per la mente che la sua catturatrice potesse avere dei sentimenti, o che qualcuno potesse avere un rapporto personale con quella titanica massa di carne.
Lindsay prese su il topo, che cominciò a squittire rumorosamente con disperata energia. Lo esaminò con un tale innocente interesse che, prima di riuscire a evitarlo, lei provò una fitta di pietà, uno stimolo a proteggerlo. La sensazione la sorprese e la riscaldò.
Lindsay disse: — Partiremo tra breve… Verrai con noi. — S’infilò il topo nella tasca della sua lunga giacca. L’animaletto vi rimase tranquillo.
La storia della Matrice Disaggregata era una lunga, tormentosa cronaca di mutamenti. La popolazione aveva raggiunto i nove miliardi. All’interno del Consiglio dell’Anello il potere era scivolato via dalle mani narcotizzate degli zen serotonisti. Dopo quarant’anni del loro regno, nuovi ideologi plasmatori avevano abbracciato il progetto del galatticismo visionario.
Il nuovo credo si era diffuso lentamente. Era nato nelle ambasciate interstellari, dove gli ambasciatori infrangevano i limiti umani nella loro lotta per capire i modi di vita alieni. Adesso i profeti del galatticismo erano pronti ad abbandonare completamente l’umanità, per conseguire una coscienza galattica là dove la pura lealtà verso la specie era obsoleta.
Ancora una volta la distensione era stata infranta. I Mechanist e i Plasmatori lottavano con acerrima rivalità per assicurarsi i favori degli alieni. Su diciannove specie aliene, soltanto cinque avevano mostrato anche soltanto un vago interesse ad un rapporto più stretto con l’umanità. I Processori della Nube di Condruli erano disposti a venire, ma soltanto se fosse stato possibile atomizzare Venere per favorirne la digestione. Gli Acquatici del Corallo Nervoso avevano manifestato un vago interesse ad invadere la Terra, ma ciò avrebbe significato infrangere la sacra tradizione dell’Interdetto. Gli Spettri della Cultura erano disposti a unirsi a chiunque riuscisse a sopportarli, ma i loro orrendi effetti sul corpo diplomatico della Matrice Disaggregata li avevano resi oggetto di genuino terrore.
I sacchi-di-gas di Fomalhaut avevano offerto più di chiunque altro. C’erano voluti parecchi anni per padroneggiare la loro “lingua”, che poteva decriversi, nel migliore dei casi, come un insieme di stati instabili in un’atmosfera in movimento. Ma una volta stabilito un vero contatto, i progressi erano stati rapidi. Fomalhaut era una stella enorme con una sterminata coorte di asteroidi ricchi di metalli pesanti.
La coorte degli asteroidi era inutile per i sacchi-di-gas, ai quali i viaggi spaziali non interessavano. Però gli interessava Giove, e avevano in progetto di disseminarlo di krill aerobico. Gli investitori erano disposti ad occuparsi del trasporto, anche se perfino le loro gigantesche navi potevano trasportare soltanto, ad ogni viaggio, un ridotto manipolo di quei sacchi-di-gas, chirurgicamente sgonfiati. La controversia aveva infuriato per anni. I Mechanist avevano una loro fazione galatticista, la quale lottava per mettere a punto una fisica capace di sconvolgere la mente dei sinistri Dirottatori dei Vettori. I dirottatori, come gli investitori, possedevano una tecnica per costruire astronavi più veloci della luce. Gli investitori sarebbero anche stati disposti a vendere il proprio segreto, ma soltanto a un prezzo astronomico. I dirottatori se ne infischiavano dell’umanità, ma qualche volta mostravano un’attenzione assai indiscreta.
Un’avanzata lungo il braccio galattico pareva inevitabile. Una delle due strategie avrebbe avuto successo: quella dei Plasmatori con i loro negoziati diplomatici, o quella dei Mechanist che aggredivano direttamente il problema del volo stellare. Soltanto una delle fazioni maggiori poteva aver successo. Ai gruppi separatisti minori mancavano la ricchezza, gli specialisti, e l’influenza diplomatica. Era andata prendendo forma una sempre più pronunciata bipolarità.
Nel frattempo le larve dei sacchi-di-gas, nelle loro astronaviuovo ispezionavano minuziosamente lo spazio circumsolare. Piccoli gruppi di rinnegati plasmatori e mechanist tracciavano la mappa delle ricchezze di Fomalhaut. Un singolo sistema solare non sarebbe mai più stato sufficiente.
Il crollo della distensione aveva ridestato i vecchi odii. La guerra era rifiorita come gli incendi della boscaglia, senza che i traballanti investitori potessero porvi un freno. Spuntarono nuove bizzarre fazioni, guidate dai diplomatici tornati a casa. Le loro reclute stazionavano ai margini della società: i carnivori, l’armata virale, i coronasferisti.
Il caleidoscopio della storia attuava le sue permutazioni, con un ritmo sempre più serrato, adeguandosi a qualche mal conosciuto crescendo. I modelli cambiavano e si deformavano e volavano in pezzi, ogni chip di luce una vita umana.
Dopo settant’anni di ricchezza e di stabilità, il disastro investì Czarina-Kluster. L’élite della Congrega dei Vitalateralisti s’incontrò in segreto per districarsi dalla crisi.
Il Discreto Acquamarina era una cittadella dei vitalateralisti, e la sua sicurezza era assoluta. Un mosaico d’ingrandimenti di Europa, la luna di Giove, copriva le pareti del discreto: una superficie brillante solcata d’un bianco-ghiaccio e di arancio scuro, mari interni in indaco e azzurro. Sopra il brunito tavolo delle conferenze era sospesa un planetario meccanico di Europa, dove le navi spaziali ingioiellate che rappresentavano i satelliti dei vitalateralisti si spostavano in silenzio lungo orbite di fili d’argento. Il cancelliere Abelard Gomez, un vigoroso ottantacinquenne, aveva preso la direzione degli affari della congrega. I suoi più importanti compagni erano il professor Glen Szilard, il consigliere della Regina Fidel Nakamura, e l’attuale moglie di Gomez, il direttore ai progetti Jane Murray. All’estremità opposta del tavolo sedeva il Cancelliere Emerito Abelard Lindsay. Il volto solcato da rughe del vecchio visionario mostrava un sorriso canzonatorio associato ad una massiccia dose di Delirio Verde.
Gomez batté le dita sul tavolo, dando inizio all’incontro. Fecero tutti silenzio, salvo per lo strepito del vecchissimo topo sulla spalla di Lindsay. — Scusate — disse Lindsay. Prese il topo e se lo mise in tasca.
Gomez riprese il controllo dell’assemblea. — Fidel, il tuo rapporto.
— È vero, Cancelliere: la Regina è scomparsa.
Gli altri gemettero. Gomez parlò con tono secco: — Ha disertato o è stata rapita?
Nakamura si asciugò la fronte. — Wellspring l’ha portata con sé. Soltanto lui può rispondere a questa domanda. I miei co-consiglieri sono in subbuglio. Il coordinatore sta mandando fuori i cani. Ha perfino tirato fuori le tigri dalla naftalina. Vogliono prendere e processare Wellspring per alto tradimento. Non avranno pace fino a quando non l’avranno preso.
— O fino a quando Czarina-Kluster non gli sarà crollata intorno — interloquì Gomez. Un’atmosfera cupa calò nella stanza. — Le tigri — proseguì Gomez. — Le tigri sono gigantesche macchine. Potrebbero lacerare le pareti di questo discreto come se fossero carta. Non dobbiamo incontrarci di nuovo fino a quando non ci saremo armati e avremo stabilito dei perimetri sicuri.
Szilard intervenne: — I nostri cani hanno sotto controllo le uscite di questo sobborgo. Io sono pronto a sottopormi ai test della fedeltà. Possiamo purgare il sobborgo dagli ideologi ostili e farne il nostro bastione, mentre Czarina-Kluster si sfascia.
— È dura — commentò Jane Murray.
— Noi o loro — ribadì Szilard. — Non appena la notizia si diffonderà, le altre fazioni organizzeranno dei tribunali spontanei, insediando le proprie roccaforti, spogliando i dissidenti delle loro proprietà. L’anarchia sta arrivando. Dobbiamo difenderci.
— E i nostri alleati? — chiese Gomez.
Nakamura parlò: — Secondo i nostri contatti con la Congrega del Policarbonio, l’annuncio del colpo di stato di Wellspring coinciderà con il primo impatto asteroidale su Marte, il mattino del 14-4-’54… Czarina-Kluster si disintegrerà nel giro di poche settimane. La maggior parte dei profughi di Czarina-Kluster fuggirà verso un’orbita intorno a Marte. È là che Wellspring tiene la Regina. Sarà lui a governare. La nuova Kluster-Terraformante avrà un’ideologia postumana molto più forte.
— I Mech e i Plasmatori faranno a pezzi Czarina-Kluster — disse Jane Murray. — E la nostra filosofia trarrà vantaggio da quella distruzione… Questo è alto tradimento, amici. Mi sento male.
— La gente sopravvive alle nazioni — dichiarò Lindsay, gentilmente. Stava respirando con inumana regolarità: una biocorazza mechanist controllava i suoi organi interni. — Czarina-Kluster è condannata. Non ci sono né cani né purghe che possano tenerla insieme, senza la Regina. Qui siamo finiti.
— Il Cancelliere Emerito ha ragione — annuì Gomez. — Dove andremo? Dobbiamo decidere. Ci uniamo alla Congrega del Policarbonio intorno a Marte, per vivere all’ombra della Regina? Oppure noi stessi ci spostiamo in orbita circumeuropide e mettiamo in pratica i nostri piani?
— Io dico Marte — dichiarò Nakamura. — Nel clima attuale, il postumanismo ha bisogno di ogni possibile aiuto. La Causa esige solidarietà.
— Solidarietà? Fluidarietà, piuttosto — replicò Lindsay. Si rizzò a sedere con uno sforzo. — Che cos’è una Regina in più o in meno? Ci sono sempre altri alieni. Un giorno il postumanismo dovrà pure trovare la sua orbita… Perché non adesso?
Mentre gli altri discutevano, Gomez guardava di cattivo umore, attraverso gli occhi semichiusi, il suo vecchio mentore. I residui di un antico dolore lo rodevano. Non poteva dimenticare il suo lungo matrimonio con la favorita di Lindsay, Vera Constantine. C’erano state troppe ombre fra lui e Vera.
C’era stata una volta, in cui avevano spinto da parte le ombre. Ed era stato allora che lei aveva confessato a Gomez che aveva avuto l’intenzione di uccidere Lindsay. Lindsay non aveva fatto nessuna mossa per difendersi, e c’erano state molte occasioni favorevoli, ma il momento non era mai stato del tutto giusto. E gli anni erano trascorsi. E le convinzioni avevano cominciato a tentennare, finendo seppellite nella routine e nelle cose pratiche di ogni giorno. Ed era giunto il momento, infine, in cui lei aveva saputo che non avrebbe mai potuto farlo. L’aveva confessato a Gomez, poiché si fidava di lui. E si erano amati.
Gomez l’aveva allontanata dalla vendetta. Lei aveva abbracciato il postumanismo. Perfino il suo clan aveva finito per aderirvi. Il clan di Constantine adesso era quello dei pionieri vitalateralisti, che operavano intorno ad Europa.
Ma lo stesso Gomez non era sfuggito allo scorrere degli anni. Il tempo aveva un suo proprio modo per trasformare le passioni in lavoro. Lui aveva quello che voleva. Aveva il suo sogno. Doveva viverlo, respirarlo, e farne il bilancio. E aveva perso Vera, poiché era rimasta ancora un’ombra.
Vera non era mai stata del tutto sana di mente. Per anni aveva tenacemente e con calma insistito che una Presenza aliena la seguiva e l’osservava. Pareva che andasse e venisse a seconda dell’altalena dei suoi umori; per giorni Vera era allegra, convinta che la Presenza “se ne fosse andata via da qualche altra parte”; poi la trovava di nuovo imbronciata e ritirata in se stessa, convinta che la Presenza fosse tornata.
Lindsay le faceva grazia della malattia e sosteneva di crederle. Anche Gomez credeva nella Presenza: ma era convinto che fosse, in realtà, il riflesso dell’estraniamento di sua moglie dalla realtà. Non per niente l’aveva chiamata “una cosa dal colore dello specchio…”. Qualcosa che non poteva venir determinato, l’incarnazione d’una fluidità inverificabile… Quando Gomez era arrivato al punto, quando lui stesso aveva finito per sentirla, percependo perfino il suo tremolio agli angoli della visione, aveva saputo che le cose erano andate troppo in là. Il loro divorzio era stato amabile, colmo d’una gelida cortesia.
Si chiedeva, a volte, se non fosse stato Lindsay a organizzare tutto. Lindsay conosceva la trappola rappresentata dalla gioia umana, e la forza che derivava dal liberarsene a colpi di artiglio. Scottato dal dolore, Gomez aveva vinto quella forza… Szilard stava snocciolando fatti e cifre sullo stato di Circumeuropa. Il futuro habitat dei vitalateralisti stava venendo gonfiato nella posizione prevista intorno alla luce di Giove, una schiuma orbitante fatta di angoli, pareti e rigide topologie a bolla. Il fiorente clan di Constantine stava già disponendo il serpeggiante impianto idraulico attraverso le pareti e installando il sistema di sopravvivenza. Ma un tentativo da parte dei vitalateralisti di trasferirsi lì in massa, a migliaia, avrebbe impegnato le loro risorse fino all’estremo limite.
I loro rapporti con la colonia dei sacchi-di-gas su Giove erano buoni; avevano l’esperienza di Vera e del suo gruppo di apprendisti. Ma gli alieni gioviani non potevano proteggerli dalle altre fazioni umane. Non avevano una tale ambizione e nessun prestigio paragonabile a quello della Regina Cicada.
Jane Murray presentò le cose dal punto di vista del progetto. La superficie di Europa era la più tetra delle prospettive: una terra desolata di ghiaccio levigato, bruciata dal vuoto, così fredda che il sangue e le ossa si sarebbero frantumati come il vetro. Inondata dalle micidiali radiazioni gioviane. Ma c’erano fessure nel ghiaccio, strisce scure lunghe migliaia di chilometri… Crepe mareali. Giacché sotto la crosta di quella luna c’era del ghiaccio fuso, un oceano lavico costituito da acqua liquida che cingeva l’intero globo. Le continue maree energetiche di Giove e di Ganimede riscaldavano l’oceano di Europa fino a raggiungere la temperatura del sangue. Sotto quella specie di merletto di fratture, un oceano sterile lambiva un letto di roccia geotermica.
Per anni i vitalateralisti avevano progettato una serie di massicci cataclismi per quella distesa inorganica. Avrebbero cominciato con le alghe. Avevano già allevato delle forme che potevano sopravvivere nel peculiare miscuglio di sali e solfuri indigeni dei mari europidi. Le alghe avrebbero potuto ammassarsi intorno a crepe recenti, attraverso le quali filtrava la luce, cibandosi delle molecole filiformi di idrocarburi pesanti che ballonzolavano senza una meta dentro quel mare sterile. I pesci sarebbero stati il passo successivo: piccoli, all’inizio, generati da una mezza dozzina di specie di pesci commerciali che l’umanità aveva portato nello spazio. Artropodi oceanici come i “granchi” e i “gamberetti”, conosciuti soltanto dagli antichi libri di testo, potevano venir imitati attraverso l’abile manipolazione dei geni degli insetti.
Le faglie potevano venir infrante dall’orbita sganciando adeguati proiettili, creando chiazze di pack inondate dalla luce. Potevano fare esperimenti su una dozzina di crepe contemporaneamente, adattando ecosistemi rivali in una successione di tentativi.
Ci sarebbero voluti secoli. Ancora una volta, Gomez prese su di sé il fardello degli anni. — Il bioprogetto è ancora nella sua infanzia — dichiarò. — Dobbiamo guardare in faccia i fatti. Per lo meno con la Regina, la Kluster Marziana ci offrirà ricchezza e sicurezza. Là, per lo meno, i nostri soli nemici saranno gli anni.
All’improvviso Lindsay si fece avanti barcollando e picchiò il pugno metallico sul tavolo. — Dobbiamo agire adesso! È questo il momento cruciale, quando un singolo atto può dare una struttura definitiva al nostro futuro. Abbiamo di fronte la nostra scelta: la routine o il miracolo. Esigiamo il miracolo!
Gomez lo fissò esterrefatto. — È Europa, allora, Cancelliere? — chiese. — I piani di Wellspring sembrano più sicuri.
— Più sicuri? — Lindsay scoppiò a ridere. — Czarina-Kluster sembrava sicura, ma la Causa si è spostata oltre e la Regina si è spostata con essa, quando Wellspring l’ha presa con sé. Il sogno astratto fiorirà, ma la città tangibile, concreta, crollerà. Quelli che non possono sognare moriranno con essa. I discreti traboccheranno del sangue dei suicidi. Wellspring stesso potrebbe venir ucciso. Gli agenti dei Mech si annetteranno interi sobborghi, i Plasmatori assorbiranno intere banche e industrie. Le routine che qui parevano tanto solide fonderanno come lacrime… Se le abbracceremo, noi fonderemo con esse.
— Allora, cosa dobbiamo fare?
— Wellspring non è il solo i cui crimini siano ambiziosi o segreti. E non sarà l’ultimo a scomparire.
— Ci lasci, Cancelliere?
— Dovrete affrontare i disastri e le angosce da soli. Ormai io non dispongo più di capacità del genere.
Gli altri si mostrarono addolorati. Gomez fu il primo a riprendersi. — Il Cancelliere Emerito ha ragione — dichiarò. — Stavo per suggerire qualcosa di simile. I nostri nemici concentreranno l’attacco sull’arbitro della Congrega. Potrebbe esser meglio che se ne stesse nascosto.
Gli altri ripresero istintivamente a protestare, ma Lindsay respinse ogni loro obiezione. — Non possono esserci sempre una Regina e Wellspring. Dovete confidare nella vostra stessa forza. Io confido in essa.
— Dove andrai, Cancelliere?
— Dove meno mi aspettano. — Li fissò sorridendo. — Questa non è la mia prima crisi. Ne ho viste molte. E quando loro colpiscono, io scappo sempre. Vi ho predicato per anni, vi ho chiesto di dedicare la vostra vita… E ho sempre saputo che questo momento sarebbe venuto. Non ho mai saputo quello che avrei dovuto fare quando il sogno si fosse trovato ad affrontare la sua crisi. Sarei diventato un cane solare come avevo sempre fatto, oppure mi sarei impegnato? Il momento è qui. Devo sfidare il mio passato, proprio come dovete fare voi. So come procurarvi il vostro miracolo. E vi giuro che lo farò.
Un improvviso timore colse Gomez. Da anni non aveva più visto Lindsay così deciso. Gli venne in mente d’un tratto che Lindsay aveva intenzione di morire. Non conosceva i piani di Lindsay, ma adesso si rendeva conto che sarebbero stati il punto cruciale della vita del vecchio. Sarebbe stato da lui, uscire nel momento supremo, per dissolversi in mezzo alle ombre, mentre una qualche sconosciuta gloria ardeva ancora. — Cancelliere — disse — quando possiamo aspettarci il suo ritorno?
— Prima che io muoia, noi saremo gli angeli di Europa. E vi rivedrò in paradiso. — Lindsay aprì la porta del discreto; là fuori, i corridoi in caduta libera furono come un’esplosione d’un improvviso rumore di folla. La porta tornò a chiudersi con un tonfo. Se n’era andato. Un fitto silenzio calò sul gruppo.
L’assenza del vecchio lasciò dietro di sé una sensazione di vuoto. Si guardarono. Poi, tutti insieme, fissarono Gomez. Il momento passò. L’inquietudine si dissolse. Gomez sorrise. — Bene — disse. — Vada per i miracoli, dunque.
Il topo di Lindsay balzò vispo sul tavolo. — L’ha lasciato qui! — esclamò Jane Murray. Gli accarezzò la pelliccia, e la creatura se ne uscì in un sonoro squittio.
— Il topo si è già adeguato… — disse Gomez. Batté le mani sul tavolo, e si misero al lavoro.
Tre di loro aspettavano dentro la nave spaziale: Lindsay, Vera Constantine, e il loro navigatore Aragosta che era conosciuto semplicemente come Pilota.
— Approccio finale — disse Pilota. La sua bellissima voce sintetizzata emerse da un’unità vocoder collegata alla sua gola.
Assicurato dalle cinghie davanti al suo quadro di comando, Aragosta era un frammento d’ombra. Era ermeticamente chiuso all’interno d’una tuta spaziale permanente d’un nero opaco, imbozzolato in grumi di macchinari interni e costellato di lucidi spinotti d’oro. Le aragoste erano creature del vuoto, post-umani senza volto, i loro occhi e gli orecchi erano collegati a sensori intessuti nelle loro tute. Pilota non mangiava mai. Non beveva mai. Le routine del suo corpo erano comprese nei ritmi del sistema di sopravvivenza della sua tuta.
A Pilota non piaceva trovarsi all’interno di una nave spaziale; le aragoste avevano orrore degli spazi chiusi. Pilota, però, aveva accettato la scomodità in cambio dell’emozione del crimine.
Adesso si stavano sganciando dall’orbita, la calma drogata di settimane di viaggio era stata spezzata. Lindsay non aveva mai visto Vera così animata. La sua evidente delizia lo riempiva di piacere.
E Vera aveva ragione di essere contenta: la Presenza non c’era più. Non l’aveva più sentita da quando loro tre si erano trovati chiusi dentro la nave spaziale. Era passato tanto tempo che Vera riteneva di essere sfuggita definitivamente alla Presenza. Questo sollievo le faceva provare tanta felicità, almeno quanta le procurava la realizzazione della loro lunga cospirazione.
Lindsay era felice per lei. Non aveva mai avuto una prova obiettiva dell’effettiva esistenza della Presenza, ma aveva acconsentito a crederci per lei. E allo stesso modo lei non aveva mai dubitato di lui. Era un contratto e una fiducia tra loro. Lui sapeva che lei avrebbe potuto ucciderlo, ma quella fiducia gli aveva salvato la vita. I lunghi anni trascorsi da allora avevano contribuito soltanto a rinforzarla.
— Pare vada tutto bene — cantò Aragosta. La nave spaziale cominciò a sgroppare quando colpì la finestra d’ingresso nell’atmosfera della Terra. Aragosta liberò una quantità di statica, poi aggiunse: — L’aria. Io odio l’aria. L’odio già.
— Calmo — intervenne Lindsay. Strinse le cinghie del suo seggiolino e dispiegò i suoi videoschermi.
Stavano passando sopra il continente un tempo conosciuto come Africa. I suoi contorni erano stati radicalmente cambiati dall’aumento di livello delle acque oceaniche: arcipelaghi di colline assediate dalle acque trasparivano negli squarci delle nubi, semiaffogate dalla densa zuppa delle alghe che soffocavano l’oceano. Lungo le scure sponde, i fiumi riversavano nell’acqua del mare flutti grigiastri per il terriccio in sospensione, striati di rosso-bruno dal germogliare delle alghe.
L’accecante bagliore causato dall’intenso calore dell’attrito dell’atmosfera sullo scafo offuscava la loro visione, tremolando sopra le lenti dure come il diamante dell’analizzatore di prua. Lindsay si lasciò andare contro lo schienale del suo seggiolino.
Era una strana nave, scomoda, di costruzione non umana. Il grande guscio d’uovo aveva la lucentezza biancastra dell’idrogeno metallico stabilizzato, che soltanto i sacchi-di-gas erano capaci di produrre. Il pavimento e il soffitto spogli, là dentro, recavano i segni della segmentazione dentellata e arrotondata del precedente pilota, una larva di sacco-di-gas. La larva che viaggiava nello spazio era stata schiacciata dentro lo scafo come una densa pasta in lievitazione.
Uno dei sacchi-di-gas adulto aveva alluso alla morte dell’astronauta in una “conversazione” con Vera Constantine. Con la sua acuta sensibilità ai flussi magnetici, la sventurata larva aveva percepito una macchia solare la cui forma e sostanza aveva trovato per qualche ragione blasfema. L’astronauta era spirato in preda alla disperazione.
Lindsay aveva cercato proprio un’occasione di questo tipo. Quando Vera gli aveva parlato dell’incidente, Lindsay aveva agito subito. Aveva reclutato le aragoste tramite il suo contatto per gli affari a Czarina-Kluster, anch’esso un’aragosta che essi chiamavano “Modem”.
In totale segretezza, era stato elaborato un complesso accordo con le aragoste anarchiche. Una delle loro astronavi senz’aria, simili a un merletto, aveva utilizzato le coordinate fornite da Vera per rintracciare la larva morta. Lindsay aveva loro consentito di smantellarla e di appropriarsi dei motori alieni. In cambio le aragoste avevano attrezzato il guscio vuoto per un furtivo tentativo di violare l’Interdetto della Terra.
L’Interdetto non era mai stato applicato ai sacchi-di-gas. Questi avevano insistito per esplorare l’intero sistema solare, e avevano accordato uguali diritti ai pionieri a Fomalhaut. I loro apparecchi da ricognizione avevano spesso studiato la Terra. Non avevano fatto nessun tentativo di prendere contatto con i primitivi locali. Si erano convinti che il pianeta era innocuo e avevano fatto ritorno dall’esplorazione ostentando il massimo disinteresse.
Insieme ai suoi due compagni, Lindsay aveva assunto il mascheramento supremo. Si faceva passare per alieno, nel tentativo d’ingannare l’intera Matrice Disaggregata.
L’eccitazione e il trionfo avevano spogliato Lindsay di decine d’anni. Aveva dato la massima energia alla corazza sul suo petto, cosicché il suo cuore potesse pompare al ritmo dei sentimenti. Il monitor incassato sul suo avambraccio ardeva d’un bagliore ambrato a causa dell’adrenalina.
La nave spaziale sorvolò il turgido Atlantico del Sud, e affondò in profondità nell’atmosfera una volta giunta alla linea del crepuscolo. La decelerazione schiacciò Lindsay dentro le cinghie del suo scheletrico seggiolino.
Le aragoste avevano fatto un lavoro semplice e rapido: le tre persone dell’equipaggio erano schiacciate dentro una losanga scanalata larga circa quattro metri e dotata di serbatoi d’aria riciclatori, e tre cuccette antiaccelerazione di rete nera, elastica, distesa sopra telai metallici saldati al pavimento. Il resto della nave era occupato dai motori e da una stiva in cui immagazzinare i campioni. Nella stiva era accovacciato un robot da ricognizione, una delle sonde sottomarine europidi.
Gli orifizi del defunto astronauta erano stati spogliati del loro naturale tessuto organico e muniti di telecamere e sistemi di analisi a distanza. Nella stiva era stato realizzato un boccaporto, ma non c’era stato posto per una camera di equilibrio, nello scompartimento dell’equipaggio, per cui loro tre erano stati saldati dentro.
A Pilota la cosa non era piaciuta. Comunque, di Pilota ci si poteva fidare. Non gliene importava niente di Europa e dei loro piani, ma gli piaceva molto la prospettiva di poter vantare tra le sue imprese anche questo antico pozzo gravitazionale. Era stato dappertutto, dalle turbolente frange della corona solare alla nube di Oort brulicante di comete ai confini dello spazio circumsolare ben oltre Plutone. Non era umano, ma per il momento era uno dei loro.
Gli schermi cominciarono a schiarirsi. La decelerazione diminuì fino ad annullarsi sotto l’effetto dell’intensa attrazione gravitazionale della Terra. Lindsay si afflosciò sul sedile, ansimando, mentre la corazza gli pompava aria nei polmoni. — Guardate cosa fa alle stelle questo letamaio — si lamentò Pilota, con un gorgheggio.
Vera allungò la mano sul suo seggiolino, e dispiegò i suoi schermi a fisarmonica impacchettati stretti stretti. Dispiegò un videopannello con uno schiocco e ne lisciò le pieghe.
— Guarda, Abelard! C’è tanta aria sopra di noi da offuscare le stelle. Pensa a quanta aria! È fantastico.
Lindsay si risollevò e guardò lo spettacolo dalla telecamera di poppa. Dietro a loro una muraglia di nuvoloni torreggiava fino ai limiti della troposfera. Nere radici arricciolate di pioggia s’innalzavano fino alle bianche teste d’incudine che ardevano all’ultima luce del crepuscolo. Era uno dei bracci tesi della zona temporalesca dove infuriavano in permanenza le tempeste che cingevano l’equatore del pianeta.
Ampliò la veduta di poppa fino a riempire tutto il videopannello. Ciò che vide lo lasciò sgomento. — Guarda a poppa verso quelle nubi tempestose — disse. — Vedi quelle immense strisce di fuoco che ne schizzano fuori? Cos’è mai che brucia?
— Grumi di vegetazione? — azzardò Vera.
— Aspetta. No, sono fulmini — disse Lindsay. — Come nell’antica frase “tuoni e fulmini”. — Li fissò, totalmente affascinato.
— I fulmini dovrebbero essere rossi con i bordi frastagliati — disse Vera. — Questi sono come ramificazioni bianche…
— Il disastro deve aver cambiato la loro forma — replicò Lindsay.
— La tempesta sta scomparendo sotto l’orizzonte — li informò Pilota. — La costa si sta avvicinando.
Passarono agli infrarossi. — Questa è una parte dell’America — concluse Lindsay. — Veniva chiamata Mexico o forse Texico. La linea costiera aveva un aspetto diverso prima che le calotte polari fondessero. È irriconoscibile.
Pilota lottava con i comandi. Vera disse: — Stiamo andando più veloci delle onde sonore in questa atmosfera. Rallenta, Pilota.
— Letame — si lamentò Pilota. — Volete proprio sprofondare in questa roba? E se gli indigeni dovessero vederci?
— Sono primitivi, non hanno gli infrarossi — ribatté Vera.
— Vuoi dire che usano soltanto lo spettro visibile? — Adesso toccò a Pilota mostrarsi stupefatto.
Studiarono il paesaggio sottostante: macchie di fitta boscaglia, che risplendevano nel falso-nero dell’infrarosso. Di tanto in tanto la selva era striata da occasionali strisce più cupe. — Faglie tettoniche? — fece Vera.
— Strada — disse Lindsay. Le spiegò come funzionassero quelle strisce ad attrito ridotto, concepite per viaggiare al suolo in condizioni di gravità. Finora non avevano visto nessuna città, anche se qua e là erano comparse chiazze allusive, in cui la straripante vegetazione era parsa più rada.
Pilota li portò più in basso. Esaminarono la vegetazione ad alto ingrandimento. — Erbacce — concluse Lindsay. — Da quando c’è stato il disastro, la stabilità ecologica è andata a rotoli… Nuove specie formatesi a caso, in pieno disordine genetico, hanno preso il controllo. Un tempo, probabilmente, questo era tutto terreno coltivato.
— È brutto — osservò Vera.
— I sistemi in collasso molto spesso lo sono.
— Flusso ad alta energia davanti a noi — annunciò Pilota. La nave spaziale scese in picchiata e si librò sopra un crinale.
Un incendio spazzava i fianchi della collina, interi chilometri d’un vivido bagliore arancione nel buio. Ruggenti correnti ascensionali scagliavano in alto lapilli e ceneri incandescenti, cascate alla rovescia di foglie e di rami divelti dai tronchi. Dietro al muro di fuoco, le distese contorte e ardenti delle erbacce, cresciute fino a diventare grandi come alberi, i loro tronchi fumanti ridotti a spessi fasci di filamenti legnosi. Non dissero niente, toccati fin nel profondo dell’animo dalla meraviglia di quanto vedevano. — Piante cani solari — disse infine Lindsay.
— Cosa?
— Le erbacce sono come cani solari. Prosperano sui disastri. Si trasferiscono dovunque i sistemi si sfascino. Dopo questo disastro, le piante che crescono più in fretta sulla Terra brulicheranno…
— Altre erbacce — concluse Vera.
— Sì. — Si lasciarono l’incendio alle spalle, e proseguirono oltre le colline. Lindsay allungò la mano verso uno dei serbatoi delle alghe e inghiottì un po’ di pasta verde.
— Un velivolo — annunciò Pilota.
Per un istante Lindsay credette di vedere un sacco-di-gas mutante, un qualche bizzarro esempio di evoluzione parallela. Poi si rese conto che era una macchina volante, una specie di aerostato o di zeppelin. Una specie di pallone formato da pelli cucite insieme con lunghe e rozze giunture sorreggeva una gondola a traliccio. La superficie della macchina volante era punteggiata da un gran numero di dischi flessibili alimentati ad energia solare, rarefacendosi via via che dalla sommità si scendeva verso il suo bianco ventre. Lunghe gomene d’attracco pendevano dal suo muso, come antenne cadenti.
Si avvicinarono con cautela, e videro più in basso dov’era ormeggiato: una città.
Una rete di strade divideva a scacchiera una distesa di ripari in pietra bianca. Le case erano disposte in ordine intorno a un nucleo centrale che incombeva su di esse: una piramide di mattoni, quadrangolare; lo zeppelin era ormeggiato alla sommità della piramide. L’intera città era cintata da un alto muro, lungo il perimetro di un’area rettangolare; all’esterno, i campi coltivati ardevano di un bianco spettrale, concimati con ceneri.
Una cerimonia era in corso. Una pira avvampava nella piazza di mattoni antistante la piramide. La popolazione della città era schierata in file. Erano meno di duemila. I loro indumenti apparivano sbiancati dall’infrarosso generato dal calore dei loro corpi. — Cosa succede? — chiese Vera. — Perché non si muovono?
— È un funerale, credo — disse Lindsay.
— Cos’è la piramide, allora? Un mausoleo? Un centro d’indottrinamento?
— Tutte e due le cose, forse… Vedi il sistema di cavi? Il mausoleo ha una linea d’informazione, l’unica del villaggio. Chiunque viva lì, ha in mano tutti i collegamenti col mondo esterno. — D’un tratto Lindsay andò col pensiero alla roccaforte a cupola dei Medici Neri Nefrini nello Zaibatsu circumlunare. Da anni non ci pensava, ma ricordava l’atmosfera psichica al suo interno, quella paranoica sensazione d’isolamento, d’un fanatismo che lentamente travalicava i propri limiti a causa della mancanza di variazioni. Un mondo diventato stantio. — La stabilità — disse — i terrestri volevano la stabilità, è per questo che hanno instaurato l’Interdetto. Non volevano che la tecnologia li riducesse in pezzi, come è accaduto a noi. Hanno attribuito alla tecnologia la colpa di tutti i disastri. Le pestilenze durante la guerra, l’anidride carbonica che ha fatto sciogliere le calotte polari… Non possono dimenticare i loro morti.
— Certamente tutto il loro mondo non è così — replicò Vera.
— Dev’esserlo. Dovunque ci sia varietà, esiste il pericolo del cambiamento. Un cambiamento che non può venir tollerato.
— Ma hanno i telefoni, le macchine volanti.
— Tecnologia imposta dall’ambiente — dichiarò Lindsay. — Non una libera scelta.
Mentre proseguivano verso il Pacifico, videro altri due insediamenti, separati da molte miglia di selva suppurante. Gli insediamenti erano identici fra loro come i chip d’un circuito.
Giacevano rannicchiati in maniera innaturale in mezzo al paesaggio; avrebbero potuto benissimo essere stati stampati da qualche pressa idraulica e sganciati dal cielo.
Pilota indicò altre due di quelle turgide macchine volanti. Il loro significato divenne completamente chiaro a Lindsay. Quelle macchine volanti erano come i vettori della peste, trasportavano i virus ideologici di qualche malattia culturale calcificata. Le piramidi torreggiavano nel cuore di ogni abitato, enormi, rimpicciolendo ogni speranza, i soffocanti monumenti delle legioni dei morti.
Le lacrime gli salirono agli occhi. Pianse in silenzio, senza trattenere nulla. Piangeva l’umanità e la cecità degli uomini, i quali pensavano che il cosmo avesse regole e limiti che li avrebbero riparati dalla loro stessa libertà. Non c’erano ripari. Non c’erano scopi finali. La futilità e la libertà erano l’Assoluto.
A sud della catena di isole rocciose della Bassa California, s’infilarono sotto l’oceano. Pilota aprì il portello, inondando d’acqua la stiva, e cominciarono subito ad affondare.
Stavano cercando il più grande, singolo ecosistema del mondo, l’unico bioma che l’uomo non aveva mai toccato.
Le acque di superficie non erano sfuggite al contagio. Sopra le terre allagate sui bordi dei continenti, zattere di muschio e di alghe in decomposizione, l’equivalente oceanico delle erbacce, suppuravano in soffocante profusione. Ma le profondità abissali erano indisturbate. Nella schiacciante tenebra degli abissi, più grande, come estensione, di tutti i continenti messi insieme, le condizioni variavano appena da un polo all’altro. Gli abitanti di questo immenso reame erano scarsamente conosciuti. Nessun essere umano era mai riuscito a inventare un modo per estorcergli dei vantaggi.
Ma nella Matrice Disaggregata i successori degli uomini erano più scaltri. La rassomiglianza di quel regno con i bui oceani di Europa non era sfuggita a Lindsay. Per decenni aveva frugato negli antichi banchi dati alla ricerca di frammenti d’informazione. La documentazione sopravvissuta sulla vita abissale era praticamente inutile, giacché risaliva all’alba della biologia. Ma perfino quei crudi accenni avevano attirato Lindsay, per la loro potenzialità che avrebbe potuto condurre a un improvviso miracolo. Anche su Europa c’erano tenebra e profondità. E le vaste catene sommerse, tagliate da fenditure vulcaniche, che trasudavano energia geotermica.
Gli abissi avevano oasi. Le avevano sempre avute. Quella conoscenza aveva acceso nella sua immaginazione un lento fuoco sotterraneo. La vita, incontaminata, primeva, brulicava di un ribollente splendore ai bordi delle placche tettoniche della Terra.
Un intero ecosistema, più antico dell’umanità, era ammassato in quei luoghi, con tutta la sua miracolosa ricchezza. Una vita che poteva venir catturata, che poteva essere di Europa.
Dapprima, lui aveva respinto quell’idea: l’Interdetto era sacro. Antico come la colpa taciuta degli ancestrali viaggiatori spaziali, i quali avevano disertato la Terra quando si era profilato il disastro. Con la loro diserzione avevano derubato il pianeta proprio di quell’esperienza che avrebbe potuto salvarlo. Nel corso di secoli di vita nello spazio quella colpa era affondata nella buia regione della coscienza culturale, emergendo soltanto come una caricatura, come un rituale diniego e una deliberata ignoranza.
Il commiato era avvenuto nell’odio: con quelli nello spazio bollati come ladri antiumani, e il governo di emergenza della Terra denunciato come una barbarie fascista. L’odio aveva reso le cose più semplici… più semplici poiché aveva permesso a quelli nello spazio di scrollarsi di dosso ogni responsabilità, più semplici poiché aveva permesso alla Terra di affamare la miriade delle proprie culture riducendole a un unico grigio regime di penitenza e inutile stabilità.
Ma la vita si muoveva in clade. Lindsay lo sapeva come dato di fatto. Una specie che avesse avuto successo esplodeva sempre in un’ondata gioiosa di specie discendenti, di mostri che rendevano inefficienti e superati i loro antenati. Negare il mutamento significava negare la vita.
Da quel segno, lui sapeva che l’umanità sulla Terra era diventata un relitto.
A lungo termine, il vasto panorama biologico era diventato l’ossessione di Lindsay, la ruggine che avrebbe divorato qualunque cosa che non fosse stata capace di muoversi. Il futuro della Terra non apparteneva all’umanità ma alle erbe mostruose, divenute strane e legnose, e a qualunque piccola creatura veloce che saltasse e crescesse fra esse. E Lindsay sentiva che c’era giustizia in questo.
Sprofondarono nel buio.
La pressione non significava niente per il loro scafo alieno. I sacchi-di-gas prosperavano in pressioni estreme che facevano sembrare quelle degli oceani della Terra esili come il plasma. Pilota passò ai propulsori ad acqua aderenti all’esterno dello scafo. Attivò il radar ad ampia apertura, e i loro videopannelli s’illuminarono mostrando i contorni verdi e nitidi del fondo abissale.
Il cuore di Lindsay fece un balzo quando vide la familiare geologia.
— Proprio come Europa — mormorò Vera. Stavano fluttuando sopra un’estesa faglia in tensione, dove il basalto vulcanico si era spezzato e squarciato con blocchi impervi che sporgevano verso l’alto, quella fessurata violenza primeva incontaminata dal vento o dalla pioggia. Montagne rettilinee, appena spolverate da trasudazioni organiche, strapiombavano in precipitosi dirupi mozzafiato, dove le linee dei contorni si affollavano come i denti di un pettine.
Ma qui la spaccatura era morta. Non videro nessun segno di energia termale.
— Segui la faglia — disse Lindsay. — Cerca dei punti caldi. — Era vissuto troppo a lungo per essere impaziente, perfino in un momento come quello.
— Devo attivare i motori principali? — chiese Pilota.
— Facendo ribollire l’acqua per molte miglia intorno? Siamo in profondità, Pilota. Quell’acqua è come acciaio.
— Davvero? — Pilota produsse una ronzante vibrazione elettronica. — Bene, preferisco non avere stelle, piuttosto che averle offuscate.
Seguirono la spaccatura per ore, senza trovare un’infiltrazione lavica. Vera dormiva; Lindsay sonnecchiò brevemente, il sonno da gatto di un vecchio. Pilota, che dormiva soltanto in occasioni ufficiali e ben definite, li svegliò.
— Un punto caldo — annunciò.
Lindsay esaminò il suo pannello. Gli infrarossi mostravano una pigra fonte di calore che saliva dalle profondità di una roccia sporgente: questa era estremamente bizzarra, un lungo piano inclinato di levigatezza euclidea, il quale emergeva improvviso da una distesa trasudante di terre marce di composizione mista. Una collina angolosa alla base del dirupo giaceva stranamente distorta, quasi accartocciata, in cima ad una elevazione lavica a forma di cupola. — Manda fuori il fuoco — disse Lindsay.
Vera estrasse i comandi del robot da sotto il suo seggiolino e s’infilò un paio di teleoculari.
Con i fari sfavillanti, il robot tornò facilmente verso l’anomalo dirupo. Lindsay sintonizzò i comandi del suo pannello sugli ottici del robot.
Il dirupo inclinato era dipinto. C’erano strisce bianche su di esso, lunghe pennellate che si stavano staccando, una specie di linea divisoria. — È un relitto — esclamò Lindsay, a un tratto. — Costruito dall’uomo.
— Non può essere — replicò Vera. — Ha le dimensioni d’una grande nave spaziale. Dentro, ci sarebbe posto per migliaia di persone.
Ma poi comparve qualcosa che risolse la questione. Una macchina era attaccata a una liscia superficie sporgente simile a un ponte su quel simulacro di nave. I secoli avevano corroso il manufatto, ma i suoi contorni erano chiari. — È un aereo — disse Pilota. — Aveva getti. Questo era una specie di spazioporto acquatico. Un aeroporto piuttosto.
Una chimera, un pesce abissale dalla lunga coda e dalla testa ottusa, grosso quanto l’avambraccio di un uomo, schizzò via lungo l’ampio ponte della portaerei, alla ricerca di un rifugio. Scomparve attraverso uno squarcio del relitto dai molteplici piani della torre di comando. Il robot si arrestò di botto. — Aspetta — disse Vera. — Se questa è una nave, da dove viene il calore?
Pilota esaminò gli strumenti. — È calore radioattivo — rispose. — È insolito.
— Energia da fissione — spiegò Lindsay. — Dev’essere affondata con una pila nucleare a bordo. — Seppe frenarsi e non aggiungere che, forse, dentro lo scafo avrebbero potuto esserci anche armi atomiche.
Vera disse: — La mia strumentazione indica la presenza di sostanze organiche disciolte. Delle creature sono raccolte intorno alla pila nucleare per goderne il calore. — Azionò le braccia rinforzate del robot, facendogli lacerare una paratia. La lega corrosa cedette facilmente, sollevando un fiotto di ruggine. — Devo inseguirle?
— No — rispose Lindsay. — Voglio il primordiale.
Vera riportò il fuoco nella stiva del loro vascello. Proseguirono a balzi e a scosse. Il tempo passò, il terreno scivolava sotto di loro… uno spettacolo che fino a poco tempo prima avrebbero giudicato orribile. Lindsay si scoprì a pensare di nuovo a Czarina-Kluster. Talvolta lo turbava il fatto che la disperazione, le sofferenze, che venivano patite laggiù, significassero così poco per lui. Czarina-Kluster stava morendo, la sua eleganza si stava dissolvendo nello squallore, il suo delicato, raffinato equilibrio veniva lacerato, i frammenti venivano scagliati come semi attraverso la Matrice Disaggregata. Era malvagio da parte sua accettare il fiore della morte, nella speranza che vi fossero dei semi.
No, non riusciva a convincersi che lo fosse. Il tempo umano non significava più niente per lui. Voleva soltanto che la sua volontà lasciasse il segno, che proiettasse la sua luce lungo quegli sterminati eoni, in un mondo risvegliato, in un pianeta ricondotto irrevocabilmente alla vita. E poi… poi avrebbe potuto mollar tutto, per sempre.
— Ecco — disse Pilota.
L’avevano trovato. L’apparecchio discese.
La vita sorgeva tutt’intorno a loro: una giungla che proliferava anche nell’assenza completa del sole. Alle luci del robot, le ripide e abrasive pareti della valle avvampavano d’una vivida panoplia di colori: scarlatto, bianco-gesso, oro-zolfo, verde ossidiana. Come macchie di bambù, i vermi ondeggiavano sui fianchi delle colline, più alti di un uomo. Le rocce erano ricoperte da un fitto strato di bivalvi, i gusci bianchi spalancati che mostravano carni rosse come il sangue. Spugne purpuree pulsavano, coralli abissali si stendevano in neri boschetti ramificati, le loro braccia sottili ingioiellate di polpi.
L’acqua della vita sgorgava dalle profondità della valle. Camini coperti da un viscidume di ossidi metallici vomitavano nubi roventi di zolfo ricco d’energia. Il fondo del mare ribolliva, bolle ondeggianti di vapore fluttuavano in mezzo a una nebbia di batteri. I batteri erano i più importanti, rappresentavano l’anello fondamentale della catena alimentare. Tramite la chemiosintesi, estraevano energia dallo zolfo stesso, ripudiando la luce del sole per prosperare a spese del calore stesso della Terra.
Nel calore e nel buio la valle ribolliva di vita. La roccia stessa pareva vivere, decorata da protuberanze porose e crepacci limacciosi, tubi rosso-neri di pietra lavica fredda, avvolti come serpenti, camini fallici di minerali precipitati che luccicavano d’un verde ramato a causa della patina prodotta dal contatto con acidi organici solubili, pallidi granchi con chele lunghe come un braccio d’un uomo che scalciavano graziosamente lungo i pendii. Pesci abissali, neri come giaietto, ingrassati dall’inaspettato bottino, che si muovevano con agile languore in mezzo agli steli ammassati degli anellidi. Creature gelatinose d’un giallo vivace, simili a infiorescenze recise, che galleggiavano nei densi mulinelli di zuppa batterica.
— Tutto — mormorò Lindsay. — Voglio tutto.
Vera si sfilò gli oculari; i suoi occhi erano inondati di lacrime. Si accasciò contro lo schienale del suo seggiolino, tremando. — Non riesco a vedere — constatò, con voce rauca. Gli porse la scatola dei comandi. — Per favore… spetterebbe a te, Abelard.
Lindsay si applicò gli oculari, infilò le dita nelle fessure dei comandi, e d’un tratto si trovò in mezzo, gli analizzatori ruotavano in sincronia con i movimenti della sua testa. Protese le braccia per la raccolta dei campioni, estrudendo i delicati meccanismi degli aghi genetici. Avanzò verso il più vicino viluppo di anemoni. Sopra le compatte colonne bianche dei loro tronchi spessi come il polso di un uomo, il loro fogliame era un succedersi di file ondeggianti di rosse fronde piumate lunghe quanto un braccio, che si muovevano con femminea eleganza, rastrellando la vita dall’acqua. I loro bianchi steli erano affollati di grappoli di creature che vi avevano trovato riparo: cirripedi, minuscoli granchi, vermi frangiati d’un azzurro e un verde-mare elettrici, creature gelatinose a forma di pettine che rilucevano di tenui tinte pastello.
Un predatore emerse dalla giungla, spostandosi lentamente intorno ai tronchi: un pesce abissale nero come giaietto, grosso quanto una gamba umana e sfilato come un’anguilla, i suoi fianchi costellati da file serrate di punti fosforescenti. Si avvicinò impavido, affascinato dalla luce. Le branchie pulsavano dietro i suoi occhi enormi: aprì una bocca pallida e luminescente irta di denti. — Così — disse Lindsay — tu sei stato costretto a superare i limiti, spinto a forza nell’abisso dove niente cresce. Ma guarda cos’hai trovato. Il grasso del sistema, cane solare. Benvenuto in Paradiso. — Mentre parlava, mosse il braccio verso il pesce: il lungo ago schizzò fuori, lo toccò e si ritrasse. Il pesce risplendette d’un improvviso oro e verde e saettò via.
Lindsay si spostò verso la foresta, toccando tutto quello che riusciva a vedere, raccogliendo campioni di batteri con i delicati filtri a risucchio. Nel giro di mezz’ora aveva riempito tutte le sue capsule per la raccolta dei campioni ed era tornato alla nave per prenderne altre.
Poi scorse qualcosa che si staccava dallo scafo della nave. A tutta prima pensò che fosse un effetto di luce, una pura increspatura dei riflessi. Poi vide che si muoveva verso di lui, ondeggiando, svolazzando, informe, una massa di gelatina fluida in un sacco argentato a specchio. Sentì Vera che urlava.
Staccò le mani dai comandi e si strappò di dosso gli oculari. Lei era china sopra il videopannello, gli occhi sbarrati. — La Presenza! L’hai vista? La Presenza!
Stava nuotando con un incresparsi e un distendersi simile a quello di un’ameba, inoltrandosi sempre più in profondità nella faglia.
Lindsay tornò a infilarsi gli oculari e riprese in mano i comandi, seguendo l’essere con i fari del robot. La sua superficie informe lanciava sciabolate di splendore riflesso sulle bivalve e sul corallo. Lindsay chiese: — La vedi, Pilota?
Pilota fece fluttuare la nave spaziale per seguire la creatura grazie ai sistemi di puntamento. — Vedo qualcosa… Riflette tutte le lunghezze d’onda. Che strana creatura! Prendine un campione, Lindsay.
— Non è nativa. È venuta fin qui con noi. L’ho vista attaccata allo scafo.
— Allo scafo? È sopravvissuta al vuoto e al gelo dello spazio? E al calore del rientro nell’atmosfera? E alla pressione di questo oceano? Non può essere.
— No?
— No — disse l’aragosta. — Perché, se fosse reale, non sopporterei l’idea di non essere essa.
— Si sta facendo vedere — esultò Vera. — A causa del luogo in cui ci troviamo! Vedi? — Scoppiò a ridere. — Sta danzando!
La creatura stava galleggiando fluidamente sopra uno dei camini fumanti, appiattendosi per irrorarsi di quella corrente ascensionale cauterizzante d’una pressione e d’un calore inimmaginabili. Bolle roventi ballavano sotto di essa scivolando via con facilità dal suo ventre a specchio privo di attrito.
Mentre guardavano, la creatura si raccolse su se stessa, formando un globo increspato. Poi, liquefacendosi all’improvviso, si riversò dentro un crepaccio dello spessore di un pollice, nel cuore stesso di quello sfiatatoio termico. Scomparve all’istante.
— Non l’ho vista — insistette l’aragosta. — No, non l’ho vista scomparire nelle budella della Terra. Possiamo andarcene, adesso? Voglio dire, forse dovremmo cercare di allontanarci da essa.
— No — disse Vera.
— Hai ragione — disse Pilota con voce trepida. — Questo potrebbe farla impazzire.
Vera si meravigliò. — L’hai vista? Si stava godendo tutto questo! Perfino lei lo sa. Sa che questo è il paradiso! — Stava tremando. — Abelard, un giorno, su Europa, tutto questo sarà nostro, potremo toccarlo, sentirlo, respirare l’acqua, odorarla, assaporarla! Lo voglio! Voglio essere là fuori come la Presenza lo è in questo momento… — Stava respirando affannosamente, il suo volto era radioso. — Abelard, se non fosse per te, non avrei mai conosciuto questo… Grazie. Grazie anche a te, Pilota.
— Giusto, sicuro — rispose Pilota, a disagio, con voce flautata. — Lindsay, il fuco? Non dovresti farlo rientrare?
Lindsay sorrise. — Non aver timore, Pilota. Ti ha fatto un favore. Hai visto la potenzialità? Adesso hai qualcosa a cui mirare.
— Ma pensa al potere che deve avere. È come un dio…
— Allora è in buona compagnia, con noi.
Lindsay guidò il fuco dentro la stiva dei campioni e scaricò le capsule genetiche, deponendole nelle rastrelliere a pressione. Ricaricò le sue braccia e tornò al lavoro.
La Presenza emerse, spuntando all’improvviso da un secondo camino, accanto al fuco. Andò alla deriva verso questo, osservandolo. Lindsay agitò un artiglio, ma la creatura non rispose e ben presto si allontanò dai fari del fuco scomparendo nel buio e nell’invisibilità.
La creatura non mostrava nessuna paura del fuco. Vera diede il cambio a Lindsay ai comandi, scostando con delicatezza gli steli elastici degli anemoni per raccogliere tutto quello che riusciva a trovare. Il fuco percorse per l’intera lunghezza il fondo della valle, ficcando il naso nei crepacci, analizzando ogni essudazione.
Ebbero un colpo di fortuna là dove una nuova sorgente calda si aprì all’improvviso bollendo un grappolo di creature ammassate sopra di essa su una sporgenza. Usarono i morti per attirare i predatori, e ne sezionarono qualcuno per studiare la composizione batterica nei visceri e gli agenti della decomposizione.
Il loro campionamento non poteva venir completato, l’oasi era troppo ricca per consentirlo. Ma il loro successo era comunque completo. Nessuna creatura nata nei mari della Terra avrebbe potuto vivere, inalterata, nelle acque aliene di Europa. Quello sarebbe stato il compito degli Angeli di Europa, i vitalateralisti, che avrebbero ereditato questo tesoro genetico. L’avrebbero setacciato, e avrebbero ricostruito nuove creature per le nuove condizioni. Qui gli esseri viventi sarebbero stati modelli, archetipi per una nuova creazione, in cui l’arte e le intenzioni avrebbero preso il posto di un miliardo di anni di evoluzione.
Mentre per l’ultima volta facevano rientrare il robot nella stiva e riportavano la nave in superficie, non videro nessun segno della Presenza. Ma Lindsay non aveva nessun dubbio che fosse con loro.
Mentre lentamente riemergevano, Lindsay cominciò a provare una sensazione di stanchezza. Assai più della sua plasmatrice favorita e del suo mechanist blindato, sentiva il fardello dell’orgoglio gravare su di lui. Chi era lui per aver fatto queste cose? La luce l’aveva attirato, e lui era cresciuto verso di essa come poteva crescere un albero, protendendo le proprie foglie cieche verso una radiosità sconosciuta. Adesso aveva realizzato lo scopo della sua vita, e ne era lieto. Ma un albero muore quando le radici vengono recise, e Lindsay sapeva che le sue radici erano l’umanità. Lui era una creatura di carne e di ossa, di vita e di morte, non una Volontà Immanente.
Un albero traeva la propria forza dalla luce, ma non era la luce stessa. E la vita era un processo di cambiamento, ma non era il cambiamento. Per questo c’era la morte.
Quando, giunti appena sotto la superficie, videro la luce del sole inondare l’oceano, Pilota lanciò un ululato elettronico di gioia e attivò i motori principali. Il vapore esplose fuori dall’acqua formando un cratere a forma di rosetta, mentre il mare si ritraeva tutt’intorno. In un secondo superarono Mach 1. Mentre l’accelerazione li schiacciava contro i loro seggiolini, Vera girò la testa con uno sforzo per guardare il suo videopannello, e urlò: — Il cielo! Il cielo azzurro! Un muro sopra il mondo! Pilota, dacci lo spazio!
Sotto di loro, l’oceano assorbì lo shock, come assorbiva ogni altra cosa. E lasciarono la Terra.
La vita si muoveva in clade.
Kluster-Terraformante incombeva sopra Marte, infrangendo la rossa monotonia col bianco del vapore, il verde della vegetazione, l’azzurro dei mari nascenti.
Su Venere era stata spezzata la schiena alla morte, mentre oneste nubi merlettavano, ora, il cielo bruciante morso dall’acido.
Navi di ghiaccio con a bordo creature coniate di fresco dai laboratori si tuffavano dentro Europa, fondendo in profondità dentro abissi caldi come il sangue.
Su Giove la grande macchia rossa si stava sgretolando, liberando strane nubi in fiore di rosso krill, minuscole creature raccolte in banchi e mandrie più grandi della Terra.
Sulla Repubblica Culturale Neotecnica, Abelard Lindsay discese furtivo da una mostruosa nave spaziale.
Nella zona di caduta libera si muoveva con facilità, con la grazia inconsapevole dell’estrema età.
Ma mentre scendeva lungo il pendìo all’interno di quel mondo cilindrico, passando davanti agli alberghi e ai negozi per turisti a bassa gravità, si appoggiò con sempre maggior forza alla testa tozza del robot che lo accompagnava. I due raggiunsero infine il livello del suolo, una selva fertile, costellata di antiche file d’alberi solenni. Il robot infermiere a forma di tinozza prelevò rapidamente, alla chetichella, un campione di sangue dalla carne priva di nervi della gamba di Lindsay. Mentre avanzavano con passo strascicato lungo il sentiero cosparso di foglie, la macchina frazionava il suo sangue e borbottava i relativi dati.
La Repubblica era diventata un luogo torreggiante e cupo, il silenzio era interrotto dai richiami degli uccelli, un baldacchino di foglie spezzava la luce del sole riflessa dagli specchi in tanti frammenti screziati. Dei neotecnici locali, abbigliati con antichi paramenti volutamente studiati, oziavano sulle panche di pietra erose dai licheni, mentre i loro venerandi pupilli, plasmatori senili e mech obsoleti, camminavano con passo malfermo e lo sguardo colmo di meraviglia in mezzo al bosco.
Lindsay si fermò ansimando, mentre la corazza gli pompava il torace sotto la giubba azzurro scuro. Le gambe a sacco dei suoi calzoni e le sue robuste scarpe ortopediche nascondevano il telaio prostetico fissato con cinghie alle sue gambe distrutte. In alto, nel cuore del mondo, un apparecchio ultraleggero vomitava una lunga scia di cenere grigia, seminandola sopra le rigogliose cime verdi degli alberi.
Nessuno si avvicinò a lui. I calamari e la rana pescatrice ricamati sulle maniche della sua giacca lo identificavano per un circumeuropide… ma era venuto in incognito.
Riprendendo fiato, Lindsay proseguì verso il palazzo dei Tyler per il suo incontro con Constantine.
La dimora era stata ampliata. Al di là delle sue pareti ricoperte di edera, erano sorte altre proprietà, un complesso d’istituti di ricovero e di pensionati. Nel corso degli anni, malgrado i preservazionisti, il mondo esterno era filtrato dentro in maniera irresistibile. Le industrie più importanti della Repubblica erano gli ospedali e i funerali; la riabilitazione per quelli che potevano farcela, un tranquillo decesso per quelli che non ce la facevano.
Lindsay attraversò il cortile del primo ospedale. Un gruppo di Bagnanti del Sangue si crogiolava al sole, aspettando con pazienza animale che la pelle gli ricrescesse. Al di là di questa proprietà, ce n’era una seconda in cui un gruppo di giovani modellisti erano circondati dalle guardie. Stavano raschiando il terreno con dei ramoscelli, le loro teste sbilenche quasi si toccavano. Uno di loro sollevò lo sguardo per un attimo. Lindsay colse lo sguardo: gli occhi gelidi del ragazzo avevano la fredda logica della paranoia totale.
Degli inservienti neotecnici impeccabilmente abbigliati fecero passare Lindsay attraverso l’ingresso della proprietà dei Tyler. Margaret Juliano era morta da anni. Lindsay riconobbe nel nuovo direttore uno dei suoi studenti superintelligenti. Il superintelligente gli venne incontro sul prato. Il volto dell’uomo irradiava il tranquillo autopossesso dello zen serotonista. — Ho ottenuto l’autorizzazione per la sua visita dal Custode Pongpianskul — l’informò.
— È stato molto previdente — commentò Lindsay. Neville Pongpianskul era morto, ma non era cortese far riferimento a quel fatto. Seguendo il rituale del Consiglio dell’Anello, Pongpianskul si era “dissolto”, lasciandosi alle spalle una rete programmata di discorsi, annunci, apparizioni registrate e telefonate casuali. I neotecnici non si erano mai preoccupati di sostituirlo con qualcun altro nella carica di Custode. Ciò risparmiava un sacco di fastidi a tutti.
— Posso farle visitare il museo, signore? — gli chiese il superintelligente. — Il nostro defunto Curatore, Alexandrina Tyler, ci ha lasciato un’impareggiabile collezione lindsaiana.
— Più tardi, forse… Il cancelliere-generale Constantine riceve visite?
Constantine si trovava nel giardino delle rose, disteso su una sdraio accanto a un alveare e intento a fissare il sole con i suoi piatti occhi di plastica. Malgrado le migliori cure, gli anni non erano stati indulgenti con lui. Il molto tempo trascorso in condizioni di gravità naturale aveva ridotto il suo corpo a un groviglio nodoso di muscoli, strani bitorzoli e gonfiori sopra le ossa sottili.
Non c’era nessun ultravioletto nella luce del sole riflessa dagli specchi della Repubblica, tuttavia Constantine si era abbronzato, la sua antica pelle nuda era segnata da voglie azzurre e porpora screziate. Aveva perso la maggior parte dei capelli, e c’erano increspature callose nei punti strategici del suo cranio. Le cure erano state complete ed esaurienti. E alla fine avevano avuto successo.
Constantine si girò quando Lindsay, cigolando, avanzò con cautela verso di lui. Le pupille dei suoi occhi di plastica avevano dimensioni diverse; si dilatavano e contraevano visibilmente, sforzandosi di mettere a fuoco le immagini. — Abelard. Sei tu?
— Sì, Philip. — Il robot si accovacciò accanto alla sdraio; Lindsay si accomodò sulla sua morbida testa polposa.
— Allora, com’è andato il tuo viaggio?
— È una vecchia nave — commentò Lindsay. — Un po’ come un padiglione geriatrico volante. C’era un rifacimento di La Bianca Periapsi di Vetterling.
— Uhm, non il suo lavoro migliore.
— Hai sempre avuto buon gusto, Philip.
Constantine si rizzò a sedere sulla sua sdraio. — Devo dire che mi portino una vestaglia. So che avrei un aspetto migliore.
Lindsay allargò le braccia.
— Se tu potessi vedere sotto questo vestito… Non ho sprecato molti soldi nei ringiovanimenti, di recente. Al mio ritorno procederò ad una trasformazione totale. Per me è Europa, Philip. I mari.
— Ti fai cane solare per sfuggire alle limitazioni umane?
— Sì, potresti anche dire questo… Ho portato i piani con me. — Lindsay infilò la mano dentro la giubba e tirò fuori un pieghevole. — Voglio che tu ci dia un’occhiata insieme a me.
— D’accordo. Per farti piacere. — Constantine accettò l’opuscolo.
La pagina centrale mostrava l’immagine di un Angelo: un post-umano acquatico. La pelle era nera, liscia e lucida. Le gambe e la cinta pelvica non c’erano più; la colonna vertebrale si estendeva in una robusta coda pinnata. Branchie scarlatte si dipartivano dal collo. La cassa toracica era un apparato nero, aperto, dal quale uscivano bianche reti piumate piene zeppe di batteri simbiotici.
Le lunghe braccia nere erano punteggiate da chiazze fosforescenti, rosse, azzurre e verdi, collegate con il sistema nervoso. Lungo le costole e la coda pinnata si stendevano due linee laterali: quelle strisce dense di nervi ospitavano un nuovo senso acquatico che riusciva a percepire il tremito dell’acqua, come un tocco a distanza. Il naso conduceva a sacchi simili a polmoni pieni zeppi di cellule chemiosensitive.
Gli occhi senza palpebre erano enormi, e il cranio era stato rimodellato per accoglierli.
Constantine spostò il pieghevole davanti ai propri occhi, sforzandosi di metterlo a fuoco. — Molto elegante — disse alla fine. — Niente intestini?
— Sì. Le reti bianche filtrano lo zolfo per i batteri. Ciascun angelo è autosufficiente, ricava vita, calore, ogni cosa dall’acqua.
— Capisco — disse Constantine. — La comunità con l’anarchia… Parlano?
Lindsay si sporse in avanti, indicandogli le luci fosforescenti. — Ardono.
— E si riproducono?
— Sono laboratori genetici. I bambini possono essere creati. Ma queste creature possono durare per secoli.
— Ma dov’è il peccato, Abelard? Le menzogne, la gelosia, la lotta per il potere? — Constantine sorrise. — Suppongo che possano commettere qualche atto illecito insito nell’ecosistema.
— Non gli manca l’ingegno, Philip. Sono sicuro che troveranno il modo di commettere dei crimini, se ci si metteranno di buona volontà. Ma non sono come eravamo noi. Non sono costretti a farlo.
— Costretti… — Un’ape atterrò sul viso di Constantine, il quale la scostò con delicatezza. Disse: — Il mese scorso sono andato a visitare il luogo dell’impatto. — Intendeva dire, il punto dove Vera Kelland era precipitata. — Là ci sono alberi che sembrano vecchi come il mondo.
— È passato moltissimo tempo.
— Non so cosa mi aspettassi… Una specie di bagliore dorato, forse. Un luccichio che indicasse dov’era sepolto il mio cuore. Ma noi siamo ben piccole creature, e al cosmo non interessa. Non c’era nessuna traccia. — Sospirò. — Volevo misurarmi contro il mondo. Così, ho ucciso ciò che avrebbe potuto trattenermi.
— Eravamo gente diversa, allora.
— No. Pensavo di poter cambiare me stesso… pensavo che con te morto, oltre a Vera, sarei stato una lavagna pulita, una macchina per l’ambizione pura… Ho tentato di conquistare il potere sopra l’amore. Volevo ogni cosa in ceppi. Ho cercato, infatti, di mettere tutto in ceppi… ma i ceppi si sono rotti per primi.
— Capisco — annuì Lindsay. — Anch’io ho imparato il potere dei progetti, dei piani. L’ambizione della mia vita mi attende su Europa. — Riprese il pieghevole. — Potrebbe essere anche la tua. Se la vuoi.
— Ti ho detto nel mio messaggio che ero pronto a morire — replicò Constantine. — Tu vuoi sempre schivare le cose, Abelard. Noi risaliamo indietro di molto, di troppo… perché parole come “amico” o “nemico” possano avere significato… Non so come chiamarti, ma ti conosco. Ti conosco meglio di chiunque altro, meglio di quanto tu conosca te stesso. Quando ti troverai a dover affrontare la consumazione, ti farai da parte. So che lo farai. Non vedrai mai Europa.
Lindsay chinò la testa.
— Deve finire, Abelard. Io mi sono misurato contro il mondo, è per questo che sono vissuto. E ho proiettato una grande ombra. Vero?
— Sì, Philip. — La voce di Lindsay suonò soffocata. — Anche quando ti ho odiato maggiormente, ero orgoglioso di te.
— Ma misurare me stesso contro la vita e la morte, come se potessi andare avanti per sempre… Non ce dignità in questo. Cosa siamo noi per la vita? Siamo soltanto scintille.
— Scintille che danno inizio a un falò, forse.
— Sì. Europa è il tuo falò, ed io te lo invidio. Ma se andrai su Europa, tu finirai per smarrirtici. E non potresti sopportarlo.
— Ma tu potresti farlo, Philip. Potrebbe essere tua. La tua gente sarà là. Il clan dei Constantine.
— La mia gente… sì. Tu li hai cooptati.
— Avevo bisogno di loro. Mi serviva il tuo genio… E loro sono venuti da me spontaneamente.
— Sì… Alla fine la morte ci sconfigge. Ma i nostri figli sono la nostra vendetta contro di essa. — Sorrise. — Ho cercato di non amarli, volevo che fossero come me, tutto acciaio e bordi affilati. Ma li ho amati lo stesso… non perché erano come me, ma perché erano diversi. E quelli più diversi di tutti li amavo di più.
— Vera?
— Sì. L’ho creata dai campioni che ho rubato qui, nella Repubblica. Squame di pelle. Genetici di coloro che amavo… — Fissò Lindsay con aria implorante. — Cosa puoi dirmi di lei, Abelard? Come sta tua figlia?
— Mia figlia…
— Sì. Tu e Vera eravate una coppia splendida… Pareva un peccato che la morte dovesse inaridirvi. Anch’io amavo Vera; volevo proteggere il suo bambino, e il bambino dell’uomo scelto da lei. Così, ho creato tua figlia. Ho sbagliato a farlo?
— No — rispose Lindsay. — La vita è comunque migliore.
— Le ho dato tutto quello che potevo. Come sta?
Lindsay provò una sensazione di vertigine. Sotto di lui, il robot infilò un ago nella gamba insensibile. — Adesso è nei laboratori. Sta subendo la trasformazione.
— Ah, bene. Fa le sue scelte. Come tutti dobbiamo farle. — Constantine allungò la mano sotto la sua sdraio. — Qui ho del veleno. Me lo hanno dato gli inservienti. Ci concedono il diritto di morire.
Lindsay annuì distratto, mentre i farmaci calmavano le pulsazioni del suo cuore. — Sì — disse. — Ci meritiamo tutti quel diritto.
— Potremmo fare una passeggiata fino al punto dell’impatto, tu ed io. E bere il veleno. Ce n’è abbastanza per due. — Sorrise. — Sarebbe bello avere compagnia.
— No, Philip, non ancora. Mi spiace.
— Ancora nessun impegno, Abelard? — Constantine gli mostrò una fiala di vetro piena d’un liquido brunastro. — Fa lo stesso. Ho problemi di deambulazione. Ho problemi con le dimensioni, fin dai… dai tempi dell’Arena. È per questo che mi hanno dato dei nuovi occhi. Gli occhi vedono le dimensioni per me. — Svitò il tappo della fiala con le dita nodose. — Adesso vedo la vita per quello che è. È per questo che devo farlo. — Si portò il veleno alle labbra e lo inghiottì. — Dammi le mani.
Lindsay protese le mani. Constantine gliele afferrò. — Ora sono metalliche tutte e due?
— Mi spiace, Philip.
— Non importa. Tutte le nostre belle macchine… — Constantine ebbe un breve fremito. — Porta pazienza, non ci vorrà molto.
— Sono qui, Philip.
— Abelard… Mi spiace. Per Nora. Per la crudeltà…
— Philip, non… Ti perdono. — Ma era troppo tardi. Constatine era morto.
Ciò che rimaneva della vita su Circumeuropa era ammassato nei laboratori. Quando Lindsay sbarcò, trovò la dogana deserta. Circumeuropa era finita; tutte le importazioni non avevano più importanza.
Seguì un corridoio serpeggiante attraverso le translucide pareti membranacee. I corridoi luccicavano, dipinti di tutte le sfumature verdeazzurre dell’acqua del mare. Erano quasi del tutto deserti.
Lindsay intravide di tanto in tanto cani solari e abusivi, venuti per il bottino e le cianfrusaglie. Un gruppo di loro lo salutò con un cenno cortese della mano mentre segavano rumorosamente una parete indurita. Anche una nave degli investitori aveva attraccato, ma non c’era segno del suo equipaggio.
Il traffico era tutto verso l’esterno. Gigantesche navi di ghiaccio, racchiuse in scafi di cristallo, scendevano verso la superficie del pianeta in ampi archi, per sprofondare lentamente attraverso nuovi crepacci. Vera, sua figlia, era a bordo di una di esse. Se n’era già andata.
La popolazione si era ridotta a una sparuta manciata, l’ultima per la trasformazione. Circumeuropa era ridotta a una serie di laboratori, dove gli ultimi trasformati galleggiavano nella fumosa acqua marina di Europa.
Lindsay si soffermò fuori da una camera di equilibrio, osservando l’attività all’interno, attraverso uno schermo montato nel corridoio. Chirurghi trasformati assistevano alla nascita degli Angeli, seguendo la crescita dei nuovi nervi attraverso la carne alterata. Le loro braccia ardenti erano agitate da un rapido tremolio, il loro modo di conversare.
Lui doveva indossare soltanto un’acqualungo, varcare quella camera di equilibrio e accedere all’acqua calda come il sangue, e raggiungere gli altri. L’aveva fatto Vera. E così Gomez e gli altri. Lo avrebbero accolto con gioia. Non ci sarebbe stato nessun dolore. Sarebbe stato utile.
Il passato rimase sospeso in bilico in quel momento.
Non poteva farlo.
Si voltò.
Poi la sentì. — Sei qui — disse. — Mostrati.
La Presenza fluì giù dalla membrana della parete color verde-mare. Una pozza lucida come uno specchio sgocciolò attraverso il pavimento, filtrando giù a poco a poco e assumendo una forma.
Lindsay l’osservò meravigliato. La Presenza aveva una propria gravità; aderiva al pavimento come se vi fosse attirata. Si contorceva e s’increspava, prendeva forma per fargli piacere. Divenne una creatura piccola e furtiva, sospesa su quattro gambe, rannicchiata come un animale. Come una donnola, pensò Lindsay. Come una volpe.
— Se n’è andata — le disse Lindsay. — E tu l’hai lasciata andare.
— Rilassati, cittadino — gli disse la volpe. La sua voce non creava nessuna eco, poiché non produceva nessun suono. — Non è il mio lavoro quello di tenermi aggrappata alle cose.
— Europa non è di tuo gusto?
— Ah, diavolo — replicò la Presenza. — Sono sicura che è favoloso, laggiù, ma io ho visto la cosa vera, ricordi? Sulla Terra. E tu, cane solare? Non mi pare che ci sia molto entusiasmo neppure da parte tua.
— Sono vecchio — disse Lindsay. — Loro sono giovani. Dovrebbe essere il loro mondo. Non hanno bisogno di me.
La creatura si stiracchiò, increspandosi. — Pensavo che tu avresti detto proprio questo. Cosa ne dici, allora? Adesso che hai la possibilità di riflettere.
Lindsay sorrise, vedendo il proprio volto distorto riflesso dalla lucida superficie della Presenza. — Non ho niente da fare.
— Oh, molto bene. — C’era una risata in quella voce inaudibile. — Suppongo che adesso morirai.
— Pensi che dovrei farlo? — Esitò. — Potrebbe essere prematuro.
— Potrebbe — fu d’accordo la Presenza. — Allora rimarrai qui qualche altro secolo. E aspetterai la trascendenza finale.
— Il Quinto Livello Prigoginico di Complessità.
— Se vuoi chiamarlo così. Le parole non hanno importanza. È tanto al di là della vita almeno quanto la vita lo è dalla materia inerte. L’ho visto accadere molte altre volte. Posso sentire il suo movimento anche qui, lo posso annusare nell’aria. La gente… le creature… gli esseri, per me sono tutta gente… Loro fanno le Domande Finali. E ottengono le risposte finali, e poi è l’addio. È la Divinità, o talmente vicino ad essa che non fa nessuna differenza per quelli come te e me. Forse è quello che vuoi, cane solare? L’Assoluto?
— L’Assoluto — rifletté Lindsay. — Le Risposte Finali… Quali sono le tue risposte, allora, amica?
— Le mie risposte? Non ne ho. Non m’importa di ciò che accade sotto questa pelle, voglio soltanto vedere, percepire. Le origini e i destini, le predizioni e i ricordi, le vite e le morti, io li schivo. Sono troppo liscia perché il tempo riesca ad afferrarmi, mi capisci, cane solare?
— Cos’è che vuoi allora, Presenza?
— Voglio ciò che già possiedo! L’eterna meraviglia, eternamente soddisfatta… Neppure l’Eterno, in effetti, soltanto l’Indefinito, è là che sta tutta la bellezza… Aspetterò la morte termica dell’universo per vedere ciò che accadrà poi! E nel frattempo, non è forse qualcosa, il tutto?
— Sì — fu d’accordo Lindsay. Il cuore gli martellava nel petto. Il suo robot-infermiere si protese verso di lui con un ago pieno di sostanze chimiche calmanti; ma Lindsay spense il robot, si stiracchiò e rise. — È tantissimo, il tutto di qualcosa.
— Me la sono passata benissimo, qui — dichiarò la Presenza. — È un posto notevole, quello che avete qui intorno a questo piccolo sole.
— Grazie.
— Ehi, i ringraziamenti vanno tutti a te, cittadino. Ma ci sono altri posti che aspettano. — La Presenza esitò. — Vuoi venire anche tu?
— Sì.
— Allora aggrappati a me.
Lindsay tese le braccia verso di essa, che lo avvolse come un’onda argentea. Un gelo stellare, uno sciogliersi, una liberazione.
E ogni cosa divenne fresca e nuova.
Vide i suoi indumenti galleggiare dentro il corridoio. Le sue braccia metalliche uscirono dalle maniche, dalle protesi penzolavano fili di costosi circuiti. In cima alla scala bianca e pulita delle sue vertebre, il suo cranio vuoto affondò sogghignante dentro il colletto della sua giubba.
Un investitore comparve in fondo al corridoio. Avanzava a saltelli in caduta libera. Di riflesso Lindsay si schiacciò contro la parete, assottigliandosi a poco più d’una macchia, per sfuggire alla sua vista. L’investitore sollevò la frangia: rovistò, affascinato come una gazza, nel groviglio d’ossa, ficcando tutti gli oggetti che l’interessavano nella borsa rigonfia.
— Sono sempre qui intorno a raccogliere i pezzi — commentò la Presenza. — Ci sono utili, vedrai.
Lindsay percepì il suo nuovo se stesso.
— Non ho mani — disse.
— Non ne avrai bisogno — rise la Presenza. — Su, vieni, lo seguiremo. Tra breve andranno da qualche altra parte.
Pedinarono l’investitore lungo il corridoio.
— Dove? — chiese Lindsay.
— Non ha importanza. In qualche posto meraviglioso.