PARTE SECONDA Comunità Anarchia

5

A scatti il mondo entrò in una nuova era. Benignamente gli alieni avevano accettato una mistica semi-divina. Un fervore millenario spazzò il sistema. La distensione divenne di moda. La gente cominciò a parlare, per la prima volta, della Matrice Spezzata, di un sistema solare post-umano, diverso eppure unificato, in cui la tolleranza avrebbe dominato e ogni fazione avrebbe ricevuto una fetta della torta.

Gli alieni, da parte loro, si definivano gli “investitori”. Parevano disporre d’un illimitato potere. Erano antichi, talmente antichi da non ricordare nessuna tradizione precedente al volo stellare. Le loro poderose navi interstellari spaziavano su un vasto dominio economico, comprando e vendendo fra altre diciannove razze intelligenti. Era ovvio che possedevano tecnologie così potenti che, se avessero scelto di farlo, avrebbero potuto distruggere quel mondo angusto cento e più volte. L’umanità si rallegrava che gli alieni sembrassero così serenamente affabili. Le merci che offrivano erano quasi sempre innocue, molto spesso opere d’arte di enorme interesse accademico, e d’una utilità pratica sorprendentemente limitata.

Le ricchezze umane si riversarono nelle casse degli alieni. Minuscole ambasciate viaggiavano fino alle stelle a bordo delle navi degli investitori. Non riuscirono a combinare molto, e rimasero minuscole, poiché gli investitori facevano pagare tariffe astronomiche. Gli investitori riciclavano le ricchezze che spillavano all’economia umana. Comperavano azioni delle imprese umane. Con una singola novità tecnologica tirata fuori da una delle loro stive stracolme, gli alieni potevano rilanciare un’industria in crisi, portandone le quotazioni alle stelle. Le diverse fazioni si battevano sfrenatamente per assicurarsene i favori. E i mondi che non erano disposti a collaborare imparavano ben presto a loro spese con quanta facilità potevano venir superati ed essere resi obsoleti.

Il commercio fiorì nella nuova pace degli investitori. La guerra aperta divenne sinonimo di volgarità, sostituita dalla cortese clandestinità del dilagante spionaggio industriale. All’alba di ogni nuovo anno, l’età dell’oro pareva appena fuori dalla portata dell’umanità. E gli anni passarono e passarono.


Consiglio di Stato
di Goldreich-Tremaine
3-4-’37

La folla piaceva a Lindsay. La gente riempiva l’aria intorno a lui: giacche colorate con uno spumeggiare di merletti, gambe avvolte da calze sagomate con morbidi piede-guanti a cinque dita. L’aria, lì nell’atrio del teatro, odorava dei profumi dei Plasmatori.

Lindsay era disteso contro una parete di velluto sagomata, il suo gomito avvolto nella manica della giacca era infilato attraverso un cappio da ormeggio. Era vestito secondo la moda più in voga: una giacca di broccato verde-mare, con calze di raso verdi, lunghe fino al ginocchio, striate da punteggiature gialle. I suoi piedi erano elegantemente guantati per la caduta libera. Un videomonocolo trattenuto da una catena d’oro luccicava nel taschino del suo panciotto. Trecce intercalate da un cordoncino giallo gli legavano i lunghi capelli ingrigiti.

Lindsay aveva cinquantun anni. Tra i Plasmatori passava per un uomo di età assai più vetusta: un genetico che risaliva all’alba della storia dei Plasmatori. Ce n’erano molti come lui nel Goldreich-Tremaine, una delle più vecchie città dei Plasmatori negli Anelli di Saturno.

Un mechanist emerse nell’atrio uscendo dal teatro. Indossava un vestito monopezzo a costine d’una sfumatura moganoscuro d’un assoluto buongusto. Notò Lindsay e si allontanò dalla porta, fluttuando verso di lui.

Lindsay allungò la mano in gesto amichevole e arrestò lo slancio di quell’uomo. Sotto la manica, il braccio prostetico di Lindsay produsse un lieve gemito per quel movimento. — Buonasera, signor Beyer.

L’aitante mechanist annuì, e si attaccò anche lui a un cappio d’ormeggio. — Buonasera, dottor Mavrides. È sempre un piacere.

Beyer era con la delegazione di Cerere. Era sottosegretario per gli Affari Culturali, un titolo anodino inteso a camuffare la sua sostanziale appartenenza al servizio segreto dei Mech.

— Non la vedo spesso durante questo turno della giornata, signor Beyer.

— Faccio economia — rispose Beyer, a suo agio. La vita, a Goldreich-Tremaine non si fermava mai; il turno del cimitero, da mezzanotte alle otto, era quello più svincolato e meno sorvegliato dalla polizia. Un mechanist poteva mescolarsi alla folla durante il turno del cimitero senza attirare sguardi indiscreti.

— Le piace la commedia, signore?

— Un trionfo. Buona quanto Ryumin, direi. Questo autore, Fernand Vetterling… il suo lavoro mi riesce del tutto nuovo.

— È un giovane di qui. Uno dei nostri migliori autori.

— Ah, uno dei suoi protetti. Apprezzo questi sentimenti autoespansivi. Daremo una piccola serata all’ambasciata verso questa fine settimana. Vorrei davvero incontrare il signor Vetterling. Per esprimergli la mia ammirazione.

Lindsay ebbe un vago sorriso. — Lei è sempre benvenuto a casa mia, signor Beyer. Nora parla spesso di lei.

— Molto lusinghiero. Il colonnello-dottor Mavrides è una padrona di casa affascinante. — Beyer dissimulò il suo disappunto, ma i movimenti dei suoi muscoli dell’espressione tradivano l’impazienza. Beyer voleva andarsene, intrattenersi con qualche decano dell’alta società. Lindsay non se ne risentì: era il lavoro di quell’uomo.

Lindsay stesso aveva un grado nella Sicurezza. Era il capitano-dottor Abelard Mavrides, un istruttore nella sociologia degli investitori al Kosmosity di Goldreich-Tremaine. Perfino di quei tempi, in cui regnava la Pace degli Investitori, un grado nella Sicurezza era obbligatorio per quelli che appartenevano al complesso accademico-militare dei Plasmatori. Lindsay faceva la sua parte, come la facevano tutti.

Nel suo ruolo di direttore teatrale, Lindsay non alludeva mai al suo rango. Ma Beyer ne era ben conscio, e soltanto il lubrificante della cortesia diplomatica consentiva loro di essere amici.

Gli occhi azzurro chiaro di Beyer esaminarono l’atrio affollato e il suo volto s’irrigidì. Lindsay seguì il suo sguardo.

Beyer aveva individuato qualcuno. Lindsay colse subito la persona in questione: microfono a grano da labbro, audiofoni con fermaglio da orecchio, indumenti che mancavano di finezza. Una guardia del corpo. E non un plasmatore: i capelli dell’uomo erano lisciati all’indietro con olii antisettici, e al suo volto mancava la simmetria dei Plasmatori.

Lindsay tirò fuori il videomonocolo, se lo portò all’occhio destro, e cominciò a filmare.

Beyer notò quel gesto e sorrise con una punta di amarezza. — Sono in quattro — disse. — La sua produzione ha attirato un uomo importante.

— Sembrano dei concatenati — osservò Lindsay.

— Una visita di stato — aggiunse Beyer. — Lui è qui in incognito. È il capo di stato della Repubblica del Mare della Serenità. Il Presidente Philip Khouri Constantine.

Lindsay si girò di lato. — Non conosco il gentiluomo.

— Non è un amico della Distensione — disse Beyer. — Lo conosco soltanto per la sua reputazione. Non posso presentarglielo.

Lindsay si mosse lungo la parete, tenendo la schiena rivolta alla folla. — Devo andare nel mio ufficio. Vuole accompagnarmi per una fumatina?

— Fumare con i polmoni? — fece Beyer. — Non ho mai preso quell’abitudine.

— Allora mi deve scusare. — Lindsay scappò.


— Dopo vent’anni — disse Nora Mavrides. Sedeva davanti alla sua consolle, con la giacca dell’uniforme della Sicurezza buttata con noncuranza sulle spalle, un mantello nero sopra la sua camicetta color ambra.

— Cosa gli ha preso? — chiese Lindsay. — Non gli basta la Repubblica?

Nora pensò ad alta voce: — Devono essere stati i militanti a condurlo qui. Hanno bisogno di lui perché appoggi la loro causa qui nella capitale. Gode di grande prestigio e non è un detentista.

— È plausibile — annuì Lindsay. — Ma soltanto se la giri dall’altra parte. I militari pensano che Constantine sia il loro aiutante imprevisto, il loro generale leale… ma non conoscono le sue ambizioni. O il suo potenziale. Constantine li sta manipolando.

— Ti ha visto?

— Non credo. Non credo che mi avrebbe riconosciuto se mi avesse visto. — Di malumore, Lindsay affondò il cucchiaio in un vasetto di cartone di yoghurt medicinale. — La mia età mi ha mascherato.

— Ho provato un tuffo al cuore quando ho visto il film nel tuo monocolo, Abelard. Questi anni sono stati così buoni per noi. Se sapesse chi sei, potrebbe rovinarci.

— Non completamente. — Lindsay si costrinse a mangiare, pur facendo delle smorfie. Lo yoghurt era un preparato speciale per i non Plasmatori il cui intestino era stato reso antisettico. Era amaro a causa degli enzimi digestivi. — Constantine mi denuncerebbe. Ma se anche lo facesse? Abbiamo sempre gli alieni. Agli investitori non importa un fico secco del mio addestramento, della mia genetica. Gli alieni potrebbero essere il nostro rifugio.

— Dovremmo attaccare Constantine. È un assassino.

— Non dovremmo certo essere noi a dirlo, tesoro. — Lindsay strinse il vasetto di cartone con la mano meccanica; le sue sottili pareti cedettero. — È sempre stata mia intenzione evitarlo, se avessi potuto. È qualcosa in cui sono caduto, un lancio di dadi…

— Non parlare così. Come se fosse qualcosa per cui non possiamo far nulla.

Lindsay tamburellò con le dita metalliche. Perfino il braccio faceva parte del suo travestimento. Quell’antica protesi era appartenuta un tempo al Supremo Magistrato, e il modo in cui Lindsay la ostentava indicava un’età molto avanzata.

Sulla parete dell’ufficio di Nora, una gigantesca telefoto della superficie di Saturno presa da un satellite lentamente strisciava, con venti rossastri che s’intrecciavano con torrenti d’oro fangoso. — Potremmo andarcene — disse Lindsay. — Ci sono altri Stati Consiliari. Kirkwood Gap’s potrebbe andar bene… o Cassini-Kluster.

— Rinunciando a tutto quello che abbiamo costruito qui?

Lindsay osservò lo schermo con aria assorta. — Tu sei tutto ciò che voglio.

— E io voglio questo titolo, Abelard. Il professorato di colonnello. Se ce ne andremo, cosa sarà dei bambini? E la nostra congrega? Dipendono da noi.

— Hai ragione. Questa è la nostra casa.

— Ne stai facendo una cosa più grossa di quanto sia in realtà — riprese Nora. — Lui tornerà ben presto alla Repubblica. Se adesso Goldreich-Tremaine non fosse la capitale, non sarebbe qui.

Nella stanza accanto, i bambini ridevano; dalla sua consolle, Nora abbassò l’audio. Lindsay disse: — C’è un orrore fra me e Philip. Sappiamo troppo l’uno dell’altro.

— Non essere un fatalista, tesoro. Non ho intenzione di restarmene seduta a braccia incrociate mentre qualche imprevisto aggredisce mio marito.

Nora lasciò la consolle e gli si avvicinò. Una mezza gravità centrifugale le tirava la gonna e i merletti delle maniche. Lindsay se l’attirò sulle ginocchia e passò la mano di carne fra i riccioli serpentini dei suoi capelli. — Lascialo stare, Nora. Altrimenti arriveremo di nuovo a uccidere.

Lei lo baciò. — Nel passato, eri solo. Adesso sei in grado di tenergli testa. Abbiamo la nostra Congrega di Mezzanotte. Abbiamo le linee dei Mavrides, gli investitori, il mio rango nella Sicurezza. Abbiamo la nostra buona fiducia. Questa vita ci appartiene.


Consiglio di Stato
di Goldreich-Tremaine
13-4-’37

Philip Constantine seguì la partenza della propria nave attraverso il suo videomonocolo. Il monocolo gli piaceva per la sua eleganza. Constantine si dava molta pena per tenersi aggiornato con quegli sviluppi. Le mode erano dei potenti manipolatori.

Specialmente fra i riplasmati. Dietro la sua nave, la Friendship Serene (la “Serena Amicizia”) il complesso di Goldreich-Tremaine ruotava in giroscopico senso antiorario. Constantine stava studiando l’immagine della città, trasmessa sul suo monocolo da una telecamera montata sullo scafo della nave.

La città orbitante impartiva una lezione obiettiva nella storia dei Plasmatori.

Il suo nucleo era il cilindro scuro, pesantemente schermato, che aveva dato rifugio ai primi coloni: pionieri disperati spinti a estrarre minerali dagli anelli di Saturno malgrado le piogge radioattive e le violente, complesse tempeste elettriche. Il nucleo centrale di Goldreich-Tremaine era buio come una noce, una ghianda cocciuta che aveva resistito, e alla fine era sbocciata in un fantastico sviluppo. Sfere imperniate ruotavano intorno ad esso, installazioni radar scivolavano con levigata precisione lungo binari esterni, due giganteschi sobborghi intubati ruotavano in assetto controbilanciato su bianchi steli di ceramica. E tutt’intorno al complesso interno, c’era una rete di habitat in caduta libera simili a un merletto. Al di fuori dei sobborghi in bolla, le cosiddette “sobolle”, incombevano le pareti immateriali della Bottiglia.

La Friendship Serene toccò la falla nella Bottiglia. Statiche colorate attraversarono il monocolo di Constantine, e Goldreich-Tremaine scomparve. Adesso era visibile soltanto per la sua assenza: una losanga di nebbia scura fra i bianchi detriti di ghiaccio dell’anello. La nebbia scura era la Bottiglia stessa: un campo magnetico a ciambella lungo otto chilometri, che schermava la città-stato dei Plasmatori all’interno di una ragnatela alimentata dalla fusione.

A quella distanza dal sole i kilowatt solari erano inutili. I riplasmati avevano i propri soli, luminosi nuclei di fusione in ogni Stato del Consiglio: Goldreich-Tremaine, Dermott-Gold-Murray, Tauri-Phase, Kirkwood Gap, Synchronis, Cassini-Kluster, Encke-Kluster, Skimmers-Union, Arsenal… Constantine li conosceva tutti.

L’accelerazione fantasma lo attraversò come una zaffata quando i motori entrarono in azione. La stazione meteorologica di Goldreich-Tremaine aveva autorizzato il loro lancio. Non c’era rischio che venissero paralizzati da una delle folgori che scoccavano dall’anello. La radiazione di fondo era leggera. Con ì nuovi motori dei Plasmatori aveva davanti soltanto qualche settimana di viaggio.

Il commediografo Zeuner entrò nella cabina e si sedette accanto a Constantine. — È scomparsa — disse.

— Già nostalgia di casa, Carl? — Constantine sollevò lo sguardo su quell’uomo più grosso di lui.

— Per Goldreich-Tremaine? Sì. Per la gente? Quella è un’altra faccenda.

— Un giorno tornerai trionfante.

— Molto gentile da parte vostra dire questo, Vostra Eccellenza. — Zeuner si passò un guanto color fulvo sul mento. Constantine notò che i batteri standard della Repubblica stavano già chiazzando il collo dell’uomo.

— Dimentica i titoli di stato — disse Constantine. — Nel Consiglio dell’Anello è considerata cortesia. Nella Repubblica, puzza di aristocrazia. La nostra forma locale di cattiva ideologia.

— Capisco, dottor Constantine. In futuro farò più attenzione. — Il volto rasato di fresco di Zeuner aveva la bellezza anonima dei riplasmati. Indossava con pignola precisione un completo giocato sulle tonalità del beige.

Constantine ficcò il monocolo nel taschino del panciotto di velluto decorato con fili di rame. Sotto la sua giacca di lino ricamato la schiena aveva cominciato a sudare. La pelle della sua schiena si stava squamando là dove il virus del ringiovanimento divorava le cellule che invecchiavano. Per vent’anni l’infestazione aveva vagato sopra il suo corpo, la prima ricompensa della sua fedeltà alla causa dei Plasmatori. Là dove il virus aveva funzionato la sua pelle olivastra aveva la levigatezza di quella di un bambino.

Zeuner esaminò le pareti della cabina. La pesante rivestitura isolante era ricoperta di arazzi che raffiguravano la Repubblica in stile “pointillista”. I frutteti si stendevano sotto nubi luminose, la luce del sole pioveva con una solennità da cattedrale su dorati campi di grano, aerei ultraleggeri scendevano in picchiata passando sopra palazzi dalle mura di pietra con i tetti di tegole rosse. Il panorama era pulito come il pieghevole d’una agenzia di viaggio. Zeuner disse: — Com’è veramente la Repubblica?

— Un buco fuori mano — rispose Constantine. — Un’anticaglia. Prima della nostra rivoluzione, la Repubblica stava marcendo. E non soltanto socialmente. Fisicamente. Un ecosistema di quelle dimensioni necessita di un totale controllo genetico. Ma ai costruttori non importava niente dei tempi lunghi. Sui tempi lunghi tutti muoiono.

Constantine formò una cuspide con le dita delle mani. — Ora noi abbiamo ereditato il loro pasticcio. La Concatenazione ha esiliato i suoi visionari. I loro teorici genetici, per esempio, che hanno formato il Consiglio dell’Anello. La Concatenazione era troppo schizzinosa. Adesso hanno perso tutto il loro potere. Sono diventati stati clientelali.

— Pensa che vinceremo noi, dottore? I Plasmatori?

— Sì. — Constantine rivolse all’uomo uno dei suoi rari sorrisi. — Perché noi comprendiamo lo scopo di questa lotta. La Vita. Non intendo dire che i Mech verranno annientati. Potrebbero continuare a tirare avanti seppur traballando per interi secoli. Ma verranno tagliati fuori. Saranno dei cibernetici, non carne vivente. È un vicolo cieco perché, dietro, non esiste alcuna volontà. Soltanto la programmazione. Nessuna immaginazione.

Il commediografo annuì. — Una valida ideologia. Non come ciò che si sente dire oggigiorno a Goldreich-Tremaine. Sono gli slogan dei detentisti. Unità nella diversità, dove tutte le fazioni formano una vasta matrice spezzata. L’umanità riunita quando deve affrontare gli alieni.

Constantine si mosse sulla sua seggiola, sfregandosi di nascosto la schiena sui cuscini. — Ho sentito quella retorica. Sul palcoscenico. Questo produttore di cui tu parlavi…

— Mavrides. — Zeuner era ansioso di parlarne. — Sono un clan molto potente. Goldreich-Tremaine, Jastrow Station, Kirkwood Gap. Non hanno mai avuto un genetico vero e proprio, ma hanno geni in comune con i Garza e i Draper e i Vetterling. I Vetterling hanno l’autorità.

— Hai detto che quest’uomo è un Mavrides per matrimonio, un nongenetico?

— Un eunico, vuol dire? Sì. Non gli è consentito contribuire con i suoi geni alla stirpe. — Zeuner era compiaciuto di poter riferire di quello scandalo. — È anche un prediletto degli investitori. Un cefeide.

— Cefeide? Vuoi dire che ha un rango nella Sicurezza?

— È il capitano-dottore Abelard Mavrides, CD. È un rango molto basso per una persona così anziana. Un tempo era un cane solare, un minatore cometario, dicono. Gli investitori erano qui soltanto da pochi mesi, quando hanno portato Mavrides e sua moglie fino a Goldreich-Tremaine a bordo di una delle loro navi interstellari. Da allora, è passato di successo in successo. Le Corporazioni lo assumono come mediatore con gli alieni. Tiene corsi di studio sugli investitori e parla correntemente la loro lingua. È ricco quanto basta per mantenere il mistero sul suo passato.

— I Plasmatori della vecchia guardia custodiscono la loro privacy con grande cura.

Zeuner rifletté tra sé: — È il mio nemico. Ha rovinato la mia carriera.

Constantine ci pensò su. Sui Mavrides, lui ne sapeva più di Zeuner. Aveva reclutato Zeuner deliberatamente, sapendo che i Mavrides dovevano avere dei nemici, e trovare quelli già esistenti era più facile che crearli.

Zeuner era un frustrato. Il suo primo lavoro teatrale era stato un insuccesso; il secondo non era mai arrivato al palcoscenico. Non era al corrente delle macchinazioni dietro le quinte dei Mavrides e della sua Congrega di Mezzanotte. Zeuner era aspramente antimeccanicista. La sua linea genetica aveva sofferto crudelmente durante la guerra. I detentisti l’avevano respinto.

Così Constantine l’aveva affascinato. Questi aveva attirato Zeuner convincendolo a venire nella Repubblica, promettendogli l’accesso agli archivi teatrali, una viva tradizione del dramma che Zeuner avrebbe potuto studiare e sfruttare. Il plasmatore gli era grato, e a causa di quella gratitudine era diventato una pedina di Constantine.

Constantine era rimasto silenzioso. Mavrides lo inquietava. I tentacoli dell’influenza di quell’uomo si erano diffusi su tutto Goldreich-Tremaine.

E le coincidenze andavano al di là del caso. Indicavano una congiura deliberata.

Un uomo che aveva scelto di chiamarsi Abelard. Un impresario teatrale. Che metteva in scena lavori politici. E sua moglie era una diplomatica.

Per lo meno, Constantine sapeva che Abelard Lindsay era morto. I suoi agenti nello Zaibatsu avevano registrato la morte di Lindsay per mano della Banca Geisha. Constantine aveva perfino parlato alla donna che aveva fatto uccidere Lindsay, una plasmatrice rinnegata chiamata Kitsune. Aveva saputo tutta la triste storia: il coinvolgimento di Lindsay con i pirati, il suo disperato assassinio del precedente capo della Banca Geisha. Lindsay era morto in maniera orribile.

Ma perché mai il primo assassino di Constantine non si era più presentato a rapporto, tornando dallo Zaibatsu? Non che lui pensasse che fosse diventato un cane solare. Gli assassini avevano impiantati nel corpo dei meccanismi a prova di tradimento: pochi voltagabbana sopravvivevano.

Per anni Constantine era vissuto nella paura del suo assassino perduto. La élite della Sicurezza del Consiglio dell’Anello gli aveva assicurato che Lindsay era morto. Constantine non gli aveva creduto e non si era mai più fidato di loro.

Per anni aveva lavorato per scavarsi una strada nell’ingannevole sottomondo delle azioni clandestine dei Plasmatori. Assassini e guardie del corpo (un tizio era spesso l’una e l’altra cosa insieme, poiché si specializzavano reciprocamente in ambedue i mestieri) erano diventati i suoi più intimi alleati.

Conosceva i loro sotterfugi, la loro fanatica lealtà. Lottava costantemente per guadagnarsi la loro fiducia. Offriva loro rifugio nella sua Repubblica, nascondendoli alle persecuzioni dei pacifisti. Usava liberamente il suo prestigio per portare avanti le loro persecuzioni militariste.

Alcuni plasmatori lo disprezzavano per i suoi geni non programmati; di molti altri si era guadagnato il rispetto. Gli odii personali non lo preoccupavano. Ma lo preoccupava la possibilità di venir tagliato fuori prima di essersi misurato contro il mondo. Prima di aver soddisfatto la smisurata ambizione che lo aveva spinto sin dall’infanzia.

Chi sapeva di Lindsay, il solo uomo che gli fosse mai stato amico? Quand’era stato più giovane e debole, prima che la blindatura della diffidenza si chiudesse ermeticamente intorno a lui, Lindsay era stato suo intimo amico. Chi aveva scatenato il suo fantasma, e a quale scopo?


Consiglio di Stato
di Goldreich-Tremaine
26-12-’46

Gli ospiti venuti al matrimonio circondavano il giardino. Dal suo nascondiglio dietro i rami d’una magnolia nana, Lindsay vide sua moglie che stava dirigendosi verso di lui con leggeri saltelli nella semigravità. Le fronde verdi sfiorarono le falde allargate della sua acconciatura. L’abito ufficiale di Nora era di un tessuto ocra con grani d’argento, le maniche aperte color ambra. — Stai bene, tesoro?

— Oh, dannazione! gli orli della mia manica… Stavo ballando e mi si è smagliata un’intera manica.

— Ho visto che ti allontanavi. Hai bisogno di aiuto?

— Posso farcela. — Lindsay stava lottando con la complessa trama. — Sono lento ma posso riuscirci.

— Lascia che ti aiuti. — Nora si portò al suo fianco, tirò fuori dei ferri da maglia incorporati nella sua acconciatura e smerlettò le sue maniche con una fluida destrezza che lui non avrebbe mai potuto sperare d’eguagliare.

Sospirò e, facendo attenzione, tornò a infilarsi i ferri fra le trecce. — Il Reggente ha chiesto di te — disse. — I genetici anziani sono qui. Nella barcaccia. Ho dovuto buttar fuori un’abbondante manciata di ragazzini. — Terminò di sistemare la manica. — Ecco fatto — disse. — Ti va bene?

— Sei meravigliosa.

— Niente baci, Abelard. Mi macchieresti il trucco. A festa finita… — Sorrise. — Hai un aspetto splendido.

Lindsay si passò la mano meccanica sopra i riccioli grigi. Le nocche d’acciaio scintillarono dei semi di gemma che vi erano incassati. I tendini di filo metallico sfavillavano dei fili di fibre ottiche ad essi intrecciati. Indossava un molto ufficiale soprapanciotto accademico della Kosmosity di Goldreich-Tremaine, il bavero era costellato di minuscole capocchie di spillo che indicavano il suo rango. I calzoncini lunghi fino al ginocchio erano d’un sontuoso bruno-caffè. Delle calze anch’esse brune alleggerivano la dignità dell’abito con un tocco d’iridescenza.

— Ho ballato con la sposa — disse. — Credo di averli un po’ sorpresi.

— Ho sentito le grida, caro. — Sorrise e gli prese il braccio, mettendogli la mano sulla spalla sopra l’acciaio del suo omero artificiale. Lasciarono il giardino.

Fuori, nel patio, lo sposo e la sposa stavano danzando sul soffitto, a testa in giù. I loro piedi sfrecciavano agili dentro e fuori della pista da ballo, un ampio complesso di cappi da piede imbottiti da usare in bassa gravità. Lindsay osservò la sposa, provando un impeto di felicità assai prossimo al dolore.

Kleo Mavrides: la giovane sposa era il clone della donna morta. Aveva in comune con lei il nome e i geni. C’erano momenti in cui Lindsay aveva l’impressione che dietro gli occhi allegri della Kleo più giovane si celasse uno spirito assai più vecchio, proprio come un suono poteva vibrare ancora in un cristallo quando la sorgente del suono si era immobilizzata. Lindsay aveva fatto tutto quello che poteva. Sin da quando la giovane Kleo era stata prodotta, si era preso cura di lei in maniera tutta speciale. Lui e Nora avevano trovato soddisfazione nel fare ammenda in quel modo. Era più di una semplice penitenza. E si erano dati troppa pena per chiamarla semplicemente una ricompensa. Era amore.

Lo sposo danzava con poderoso vigore. Aveva la corporatura da orso di tutti i genetici dei Vetterling. Fernand Vetterling era un uomo dotato, il quale risaltava perfino in una società di geni. Erano vent’anni che Lindsay conosceva quell’uomo, come commediografo, architetto, e membro della Congrega. Ancora oggi l’energia creativa dei Vetterling riempiva Lindsay d’una specie di meraviglia, perfino d’una sorta di ottusa paura. Quanto tempo sarebbe durato quel matrimonio, si chiese, fra Kleo, con le sue agili grazie, e il sobrio Vetterling, con una mente simile a un’ascia d’acciaio affilato? Era un matrimonio di stato, oltre che un accoppiamento d’amore. Molto capitale era stato investito in quell’operazione, economico e genetico.

Nora gli fece strada in mezzo a una folla di bambini che stavano sferzando dei vorticanti giroscopi per aumentarne la velocità con dei delicati frustini a treccia. Come al solito, Paolo Mavrides stava vincendo. Il suo volto di ragazzino di nove anni era illuminato da una concentrazione quasi soprannaturale. — Non toccare la mia ruota, Nora — disse.

— Paolo ha giocato d’azzardo — s’intromise Randa Vetterling, una muscolosa ragazzina di sei anni. Sorrise maliziosamente mostrando che le mancavano i denti davanti.

— Giocate bene — commentò Nora. — Non disturbate gli adulti.

Nel palco di Lindsay gli adulti genetici sedevano intorno a un tavolo intarsiato con al centro un oggetto d’arte degli investitori. Stavano conversando esclusivamente in Sguardi, una lingua che all’occhio non addestrato sarebbe parsa consistere interamente in occhiate in tralice. Lindsay, annuendo, lanciò un’occhiata sotto il tavolo. Due bambini erano accucciati là sotto, intenti a giocare in coppia con un lungo cappio di corda. Usando tutte e quattro le mani e le dita più grandi dei piedi, avevano formato un complicato intreccio di angoli. — Molto bello — commentò Lindsay. — Ma andate a giocare a ragnatela da qualche altra parte.

— D’accordo — replicò imbronciato il ragazzino più grande. Facendo attenzione a non guastare la loro struttura, raggiunsero strisciando sui calcagni e sulle dita dei piedi la porta aperta, tenendo allargate le dita delle mani avvolte nei fili.

— Gli ho dato delle caramelle — disse Dietrich Ross, quando i due bambini se ne furono andati. — Hanno detto che le avrebbero messe da parte per dopo. Hai mai sentito parlare di ragazzini di quell’età che mettono da parte le caramelle per dopo? Cosa diavolo sta succedendo a questo mondo?

Lindsay si sedette, aprendo uno specchio tascabile. Tirò fuori un cuscinetto da cipria dal taschino del panciotto.

— Sudi come un maiale — osservò Ross. — Non sei più l’uomo di un tempo, Mavrides.

— Avrai diritto di parlare quando ti sarai fatto quattro misure di ballo, Ross, vecchio imbroglione — fu pronto a replicare Lindsay.

— Margaret ha una nuova opinione sul tuo centrotavola — interloquì Charles Vetterling. L’ex reggente era proprio ridotto male, da quando aveva perso il posto: aveva un aspetto obeso e collerico, i suoi capelli tagliati secondo una foggia fuori moda erano chiazzati di bianco.

Lindsay provò un genuino interesse. — E qual è Cancelliere?

— Erotica. — Il cancelliere-generale Margaret Juliano si sporse sopra il tavolo intarsiato e indicò l’interno della cupola a pressione di perspex. Sotto la cupola c’era una complessa struttura. Le ipotesi avevano abbondato, sin dal primo momento in cui gli investitori l’avevano data a Lindsay.

Il dono era scolpito nell’acqua ghiacciata e placcato di ammoniaca congelata. Alcuni particolari congegni piazzati sotto la cupola lo mantenevano a 40° Kelvin di temperatura. La scultura consisteva di due grumi schiacciati ai poli, coperti da aghi finissimi e filigrane fatte di delicati ghiaccioli cristallini. Il tutto era sistemato su una superficie increspata, che forse intendeva rappresentare qualche limaccioso oceano inimmaginabilmente freddo. Su un lato, spuntando dalla superficie, c’era un piccolo grumo snodato che avrebbe potuto essere un gomito.

— Noterai che ce ne sono due — disse la plasmatrice accademica. — Ritengo che ciò che avviene su un piano fisico sia elegantemente nascosto sotto l’acqua. O meglio, il fluido.

— Non sembrano molto uguali — replicò Lindsay. — Sembra molto più probabile che uno dei due stia mangiando l’altro. Sempre che siano vivi.

— È quello che ho detto anch’io — intervenne Sigmund Fetzko con voce raschiante. Il mechanist rinnegato, di gran lunga il più vecchio di loro sei, si era abbandonato esausto sullo schienale della sua sedia. Le parole gli uscivano con difficoltà, propulse da tiranti flessibili applicati alle costole sotto la pesante giubba. — Il secondo ha delle fossette. Il guscio sta collassando. La linfa gli viene succhiata fuori.

Un bambino dei Vetterling entrò nel palco, lanciato all’inseguimento di un giroscopio che era schizzato via per proprio conto. Vetterling guardò Neville Pongpianskul, cambiando argomento. Il bambino se ne andò, dopo aver riacchiappato il giroscopio fuggiasco. — È un buon matrimonio — rispose Pongpianskul. — La grazia dei Mavrides con la tenacia e la decisione dei Vetterling. Un’accoppiata formidabile. Mikhail Vetterling mostra molte promesse, credo; com’era la sua combinazione?

Vetterling era compiaciuto: — Sessanta di Vetterling, trenta di Mavrides, e dieci per cento di Garza con un accordo generale di reciprocità. Ma ho fatto in modo che i geni dei Garza fossero prossimi a quelli della prima linea dei Vetterling. Niente di tutte quelle interferenze della nuova linea dei Garza. Non fino a quando non ci saranno state delle prove concrete.

— La giovane Adelaide Garza è brillante — osservò Margaret Juliano. — È uno dei miei studenti più evoluti. I superintelligenti sono stupefacenti, Reggente. Un balzo quantico. — Si lisciò il bavero del sovrapanciotto costellato di medaglie con le aggraziate mani rugose.

— Davvero — disse Ross. — Un tempo sono stato sposato alla vecchia Adelaide.

— Cos’è successo ad Adelaide? — chiese Pongpianskul.

Ross scrollò le spalle. — Svanita.

Un lieve brivido attraversò il palco, Lindsay si affrettò a cambiare argomento. — Abbiamo progettato una nuova barcaccia. Nora ha bisogno di questa per farne il suo ufficio.

— Ha bisogno di un posto più grande? — chiese Pongpianskul.

Lindsay annuì. — Il suo incarico. E questo è il nostro miglior ambiente. Wakefield Zaibatsu ha provveduto alla disinfestazione. Altrimenti avremmo dovuto far venire di nuovo la squadra e finirebbero per ribaltare tutto.

— Costruite a credito? — chiese Ross.

— Naturalmente. — Lindsay sorrise.

— Qui, oggi, ci si sta bruciando troppo con tutto questo credito incontrollato nella Goldreich-Tremaine — continuò Ross. — Non sono d’accordo.

— Ah, Ross — intervenne Vetterling — sono ottant’anni che non cambi quel buco dove abiti. Un uomo non riesce neppure a girarsi di fianco in quella tana da topi nel nucleo. Adesso, prendi noi Vetterling. La sposa ci ha appena consegnato le specificazioni per un nuovo complesso di gonfiabili.

— Porcherie costruite con lo sputo, soltanto per farci i soldi — dichiarò Ross. — Goldreich-Tremaine comunque è già troppo affollata oggi. Troppi giovani pescecani. Adesso le cose hanno un buon odore, ma nell’aria c’è già lo schianto in arrivo, lo sento. E quando arriverà, toglierete le tende e punterete verso i cometari. È passato troppo tempo da quando ho messo alla prova la mia fortuna, l’ultima volta.

Pongpianskul fissò Lindsay, comunicandogli con la posizione delle sue palpebre corrugate il divertito disprezzo per le incessanti vanterie di Ross sulla propria fortuna. Ross aveva scoperto un grosso giacimento un secolo prima, e da allora non aveva mai permesso a nessuno di scordarlo. Malgrado pungolasse senza sosta gli altri, l’unico rischio che Ross era disposto a correre era limitato quasi interamente alla scelta dei suoi bizzarri panciotti.

— Ho un candidato per la Congrega — annunciò Vetterling. — Molto cortese e forbito nel parlare: Carl Zeuner.

— Il commediografo — disse Margaret Juliano. — I suoi lavori non mi interessano.

— Vuoi dire che non è un detentista — replicò Vetterling. — Non coincide con il tuo pacifismo, Margaret. Mavrides, credo che tu conosca quell’uomo.

— Ci siamo incontrati — annuì Lindsay.

— Zeuner è un fascista — ribatté Pongpianskul. L’argomento galvanizzava l’anziano dottore. Si sporse in avanti, concitato, annodandosi le mani. — È l’uomo di Philip Constantine. Ha passato anni nella Repubblica. Un terreno di addestramento per Plasmatori imperialisti.

Vetterling alzò le sopracciglia. — Calmati, Neville. Conosco la Concatenazione. Ci sono nato. Il lavoro che ha fatto Constantine in quel posto avrebbe dovuto essere fatto già cento anni fa.

— Vuoi dire, riempire il suo mondo-giardino di assassini inservibili?

— Per portare un nuovo mondo nella Comunità Plasmatrice…

— Niente, se non un genocidio culturale. — Pongpianskul era stato appena ringiovanito; il suo corpo magro fremeva d’innaturale energia. Lindsay non aveva mai chiesto che tecnica avesse usato. Questa aveva lasciato la sua pelle liscia ma coriacea, e di un caratteristico colore scuro che non si trovava in natura. Le sue nocche erano talmente rugose da sembrare tante piccole rosette. — La Repubblica Circumlunare dovrebbe venir lasciata come museo culturale. È una buona politica. Ci serve la varietà. Non ogni società che formiamo può rimanere in piedi.

— Neville. — Sigmund Fetzko fece udire la sua voce greve. — Parli come se tu fossi un ragazzo.

Pongpianskul si lasciò andare contro lo schienale. — Confesso di aver letto i miei vecchi discorsi dopo il mio ultimo ringiovanimento.

— Sono quelli che hanno portato alla tua epurazione — gli ricordò Vetterling.

— Il mio gusto per le cose antiche. I miei stessi discorsi a quest’ora sono delle antichità. Ma i problemi sono ancora con noi, amici. La comunità e l’anarchia. La politica attrae le cose; la tecnologia le separa e le scaglia lontano. Piccole nicchie come la Repubblica dovrebbero venir conservate intatte. Così, se i nostri stessi intrighi dovessero distruggerci, ci sarà ancora qualcuno in grado di raccogliere i pezzi.

— C’è la terra — disse Fetzko.

— Quando si arriva ai barbari, io traccio una linea — dichiarò Pongpianskul. Sorseggiò la sua bevanda: un frappè tranquillante.

— Se tu avessi un minimo di fegato, Pongpianskul — replicò Ross — andresti nella Repubblica e affronteresti le cose di petto.

Pongpianskul annusò l’aria. — Scommetto che potrei raccogliere prove a sufficienza per una condanna, laggiù.

— Sciocchezze — disse Vetterling.

— Una scommessa? — Ross guardò dall’uno all’altro. — Allora lascia che sia io l’arbitro, dottore. Se tu dovessi trovare delle prove in grado di offendere la mia sensibilità indurita, noi saremmo tutti d’accordo che la ragione sta dalla tua parte.

Pongpianskul esitò. — È passato talmente tanto tempo da quando…

Ross scoppiò a ridere. — Paura? Allora farai meglio a restare qui a coltivare la tua mistica. A te serve una facciata di mistero. Altrimenti i giovani pescecani ti mangeranno a colazione.

— Dopo l’epurazione c’era già gente che faceva la prima colazione. Non sono riusciti a digerirmi.

— Questo è accaduto due secoli fa — continuò a canzonarlo Ross. — Ricordo un certo episodio… cos’era? L’immortalità dal Kelp?

— Cosa? — Pongpianskul batté le palpebre. Poi il ricordo parve emergere in lui, sepolto sotto decenni. — Kelp — ripeté. — La pianta delle meraviglie terra-oceano. — Stava citando se stesso.

— “Vi meravigliate, amici, per quale motivo variino gli equilibri catalitici… La risposta è: Kelp, la pianta delle meraviglie nata dal mare, adesso geneticamente modificata per permetterle di crescere e fiorire nel mare primordiale dal quale il sangue stesso deriva…” Mio Dio, me n’ero completamente scordato…

— Vendeva pillole di Kelp — confidò loro Ross. — Aveva un piccolo buco in qualche slum gonfiabile, le radiazioni erano così forti che ci si sarebbe potuto fare un uovo in camicia contro la paratia.

— Placebo — disse Pongpianskul. — Goldreich-Tremaine era piena di vecchi tipi non programmati, allora. Minatori e profughi, cotti dalle radiazioni. È stato prima che la Bottiglia ci schermasse. Se sembrava che per loro non ci fosse più speranza, aggiungevo di nascosto un analgesico nel miscuglio.

— Non si diventa vecchi come noi senza l’artificio — dichiarò Lindsay.

Vetterling sorrise. — Non cominciamo a rivangare, Mavrides. Voglio sapere qual è il mio angolo, Ross. Cosa sarà la mia vincita una volta che Pongpianskul avrà fallito?

— Il mio domicilio — rispose Pongpianskul. — Nella Ruota di Fitzgerald.

Gli occhi di Vetterling si spalancarono. — Contro?

— Contro la tua pubblica denuncia di Constantine e Zeuner. E le spese del viaggio.

— La tua bella dimora — disse Margaret a Pongpianskul. — Come puoi separarti da essa, Neville?

Pongpianskul scrollò le spalle. — Se il futuro dovesse appartenere agli amici di Constantine, allora non me ne importerebbe niente di vivere qui.

— Non dimenticarti che hai appena subito un trattamento — gli disse Vetterling, a disagio. — Stai agendo affrettatamente. Odio dover cacciare un uomo dalla sua abitazione. Possiamo rimandare la scommessa fino a…

— Rimandare — disse Pongpianskul. — È la nostra maledizione. C’è sempre tempo per tutto. Mentre tutti quelli più giovani di noi si lanciano dentro ogni nuovo anno come se non ci fosse uno ieri… No, ho deciso, Reggente. — Porse a Vetterling la mano coriacea.

— Fuoco! — esclamò Vetterling. Prese la mano sottile di Pongpianskul tra le sue dita massicce. — Siglato, allora. Voi quattro siete testimoni.

— Prenderò la prossima nave in partenza — annunciò Pongpianskul. Si alzò in piedi. I suoi occhi azzurro-verdi luccicarono febbrili. — Devo andare a prepararmi. Una festicciola deliziosa, Mavrides.

Lindsay era sorpreso. — Oh, grazie, signore. Il robot ha il tuo cappello, credo.

— Devo ringraziare la mia ospite. — Pongpianskul se ne andò.

— È impazzito — commentò Vetterling. — Quel nuovo trattamento gli ha squinternato il cervello. Il povero Pongpianskul non è mai stato molto stabile.

— Che trattamento usa? — chiese Fetzko. — Sembra così energico.

Ross sorrise. — Un trattamento non dimostrato. Non può permettersi uno di quelli registrati. Ho sentito dire che ha preso accordi con un uomo più ricco di lui per fungere da soggetto sperimentale. Hanno diviso i costi.

Lindsay guardò Ross. Ross nascose la sua espressione dando un morso ad un tramezzino.

— Un rischio — commentò Fetzko. — È per questo che i giovani ci sopportano. Perché noi possiamo correre i rischi. Ed estirparli. I cattivi trattamenti. Con le nostre perdite.

— Avrebbe potuto andargli peggio — ribadì Ross. — Avrebbe potuto cader vittima di quei pasticci di virus cutanei. Adesso si squamerebbe come un serpente, ah!

Il giovane Paolo Mavrides attraversò il campo insonorizzante della porta. — Nora dice di andare a salutare Kleo e il signor Vetterling.

— Grazie, Paolo. — Margaret Juliano e il Reggente Vetterling si diressero verso la porta, scambiando quattro parole sui costi di costruzione. Fetzko li seguì con passo barcollante, le gambe che ronzavano udibilmente. Ross prese Lindsay per il braccio.

— Un momento, Abelard.

— Sì, Tenente-alle-Arti?

— Non riguarda la Sicurezza, Abelard. Non dirai a Margaret Juliano che sono stato io a proporlo a Pongpianskul?

— Il trattamento non provato, vuoi dire? No. È stato crudele, però.

Ross se ne uscì in una risatina sciocca e compiaciuta.

— Senti, qualche decennio fa sono stato sul punto di sposare Margaret, e a quanto Neville mi dice i miei giorni matrimoniali adesso potrebbero tornare da un momento all’altro… Ascolta, Mavrides. Non mi è sfuggito il tuo aspetto durante questi ultimi anni. A esser franco, sei in decadimento.

Lindsay si toccò i capelli ingrigiti. — Non sei il primo a dirlo.

— Non è un problema di soldi, vero?

— No. — Lindsay sospirò. — Non voglio che i miei genetici vengano esaminati. Ci sono troppi gruppi della Sicurezza che sorvegliano, e ad esser sincero non sono tutto quello che sembro…

— Ma chi diavolo non lo è a questa età? Ascolta, Mavrides: ho pensato che fosse qualcosa del genere, siccome sei eunico. Questo è il mio punto di vista: ho saputo qualcosa, molto tranquillo, molto confidenziale. Costa, ma non vengono fatte domande, non ci sono registrazioni: le operazioni hanno luogo in un ambiente molto privato. Fuori, in una delle città dei cani. — Scrollò lievemente le spalle. — Tu sai che non vado d’accordo con il resto della mia linea genetica. Non vogliono darmi la loro documentazione; devo portare avanti le mie ricerche da solo. Non potremmo combinare qualcosa noi?

— Forse. Mia moglie non ha segreti per me. Pensi che lei sappia?

— Sicuro, sicuro… Allora, lo farai?

— Ti farò sapere. — Lindsay appoggiò il braccio prostetico sulla spalla di Ross. Ross rabbrividì, solo un po’.

La coppia di sposi era arrivata fino a una nicchia dove erano rimasti bloccati in mezzo a una folla di beneauguranti genetici cadetti, che si scappellavano a tutto spiano. Lindsay abbracciò Kleo, e strinse il braccio di Fernand Vetterling con la sinistra.

— Ti prenderai cura della mia sorella germana, Fernand? Tu sai che è molto giovane.

Fernand incontrò i suoi occhi. — È la vita e il respiro per me, amico.

— Bravo, è questo lo spirito giusto. Rimanderemo per un po’ il nuovo lavoro. L’amore è più importante.

Nora baciò Fernand, guastandosi il trucco. Intanto, all’interno della dimora, i più giovani si stavano scatenando. La danza in mezzo ai cappi per i piedi sul soffitto era quasi degenerata in una rissa, dove i giovani plasmatori, ridendo e urlando, lottavano per spingersi fuori dall’affollata pista da ballo.

Parecchi erano già caduti e si tenevano aggrappati ad altri, penzolando sgraziati nella mezza gravità.

Sono su di giri, pensò Lindsay. Presto, molti di quelli si sarebbero ugualmente sposati, ma pochi avrebbero trovato una combinazione di amore e politica conveniente quanto quella che era capitata a Fernand. Erano pedine del gioco dinastico dei loro vecchi, in cui i soldi e la genetica stabilivano le regole.

Lindsay osservò la folla con l’intima capacità di giudizio che trent’anni di pubblico di Plasmatori gli avevano insegnato. Alcuni erano nascosti dagli alberi del giardino, un rettangolo centrale di verde lussureggiante circondato dai pavimenti a mosaico del patio. Quattro bambini Mavrides stavano tormentando uno dei robot di servizio, che non voleva versare le sue bevande malgrado lo tirassero e gli facessero gli sgambetti. Lindsay balzò verso l’alto nella mezza gravità per guardare al di là del giardino. Una discussione stava maturando sull’altro lato: una mezza dozzina di plasmatori avevano circondato un uomo in tuta nera. Guai in vista. Lindsay raggiunse il vialetto sul tetto del giardino e balzò sul soffitto. Si tirò su di traverso al viottolo con una facilità frutto di un’antica abitudine, tenendosi aggrappato con destrezza alle sporgenze e alle nicchie per i piedi. Fu costretto a fermarsi un attimo quando un gruppetto di tre bambini lo oltrepassò di corsa passandogli sopra la testa, ridacchiando tutti eccitati. I lacci della sua manica tornarono a sciogliersi.

Lindsay si lasciò cadere sul pavimento dall’altra parte.

— Mi si brucino le maniche — borbottò. A quel punto tutti avevano un’aria un po’ disfatta. Si diresse verso il capannello degli altercanti.

Il giovane mechanist era bloccato al centro del cerchio. Indossava un completo di raso dal taglio impeccabile con alamari neri e un accenno di merletto alla plasmatore intorno alla gola. Lindsay lo riconobbe per un discepolo di Ryumin, arrivato con l’ultima tournèe della Kabuki Intrasolar. Si faceva chiamare Wells.

Wells aveva l’aspetto impertinente dei cani solari: capelli corti e opacizzati, occhi scaltri, una sciolta posizione del corpo, da caduta libera. Aveva la sigla del Kabuki, la maschera, sulla spalla del suo completo. Pareva ubriaco.

— È un caso aperto e chiuso — insisteva Wells a voce alta. — Quando hanno usato gli investitori come pretesto per far cessare la guerra, quella era una cosa. Ma quelli di noi che hanno conosciuto gli alieni da quando eravamo bambini, sanno riconoscere la verità. Non sono santi. Ci hanno manipolati per ricavarne profitto.

Il gruppo non si era ancora accorto della presenza di Lindsay. Lui si era tenuto indietro, valutando le loro reazioni muscolari. La faccenda era spiacevole, greve: i plasmatori erano Afriel, Besetzny, Wardan, Parr e Leng, la sua classe di laureati in linguistica aliena. Ascoltavano il mechanist con cortese disprezzo, non si erano premurati di dirgli chi erano malgrado i loro sovrapanciotti predottorali indicassero con chiarezza il loro rango.

— Non ti sembra che meritino qualche credito per la distensione? — Era stato Simon Afriel a parlare, un freddo ed esperto giovane militante, che si stava già distinguendo nel complesso accademico militare dei Plasmatori. Una volta aveva confessato a Lindsay di aver messo l’occhio su un incarico diplomatico presso gli alieni. Così avevano fatto loro tutti: certamente fra diciannove razze aliene ce ne doveva essere una con cui i Plasmatori avrebbero potuto stabilire un concreto rapporto. E il diplomatico che fosse tornato sano di mente da quella missione avrebbe avuto il mondo ai suoi piedi.

— Sono un ardente detentista — ammise Wells. — Voglio soltanto che l’umanità ne condivida il profitto. Per trent’anni gli investitori ci hanno comperato e venduto. Possediamo i loro segreti? Il loro motore stellare? Conosciamo la loro storia? No. Invece loro ci rifilano giocattoli e costosi voli di puro divertimento fino alle stelle. Questi artisti dell’imbroglio coperti di scaglie hanno approfittato delle debolezze e delle divisioni umane. Non sono il solo a pensarlo. C’è una nuova generazione di neocartelli oggigiorno, che…

— A che serve? — era stata Besetzny a parlare, una giovane donna benestante che già parlava otto lingue oltre all’investitore. Era l’immagine vivente del fascino d’una giovane plasmatrice, con le sue maniche aperte e senza lacci e l’alato copricapo di velluto. — Nei cartelli sei soverchiato dal numero dei tuoi vecchi. Loro ci tratteranno come hanno sempre fatto: è la loro routine. Senza gli investitori a farci da scudo…

— È proprio questo il fatto, dottore-designato. — Wells non era così ubriaco come sembrava. — Ce ne sono centinaia di noi che ardono dalla voglia di vedere gli Anelli per quello che sono. Voi non siete senza ammiratori, sapete. Abbiamo mode dell’Anello di terza mano, arte dell’Anello di quarta mano, fatte circolare in segreto. È patetico. Ci sono tante cose che potremmo offrire l’uno all’altro… Ma gli investitori hanno spremuto tutto quello che volevano dallo status quo. Hanno già cominciato ad aiutare i guerrafondai, riducendo gli intervoli Anello-Cartello, incoraggiando le guerre sui prezzi… Sapete, il solo fatto che io sia venuto qui basta a marchiarmi per tutta la vita, forse perfino come agente della Sicurezza dell’Anello: un bacillo, non è così che li chiamate? Non metterò mai più piede in un cartello senza occhi che mi osservino…

Afriel alzò la voce. — Buonasera, capitano-dottore. — Si era accorto di Lindsay.

Cercando di sfruttare al meglio la situazione, Lindsay avanzò con passo tranquillo. — Buonasera, dottore-designato. Signor Wells… Confido che non vi stiate amareggiando con del giovanile cinismo. Questo è un momento felice…

Ma adesso Wells era nervoso. Tutti i Mechanist avevano terrore degli agenti della Sicurezza dell’Anello, senza rendersi conto che il complesso accademico-militare permeava la vita dei Plasmatori in maniera così totalizzante che un buon quarto apparteneva alla Sicurezza in una maniera o nell’altra. Besetzny, Afriel, e Parr, per esempio, tutti capi focosi della gioventù paramilitare di Goldreich-Tremaine, costituivano una minaccia assai maggiore per Wells di quanto poteva costituirla lui stesso, Lindsay, con il suo riluttante capitanato. Wells, però, era galvanizzato dalla diffidenza. Borbottò facezie fino a quando Lindsay non si fu allontanato.

La cosa peggiore era che Wells aveva ragione. Gli studenti plasmatori lo sapevano. Ma non avevano nessuna intenzione di mettere in pericolo il loro dottorato conquistato a fatica mostrandosi pubblicamente d’accordo con un mech ingenuo. Nessuno avrebbe mai ricevuto dal Consiglio dell’Anello l’autorizzazione a visitare altre stelle, senza un’ideologia impeccabile.

Naturalmente gli investitori erano dei profittatori. Il loro arrivo non aveva portato il millennio che l’umanità si era aspettata. Gli investitori non erano neppure particolarmente intelligenti. Compensavano questa loro lacuna con una faccia tosta inflessibile e una bramosia da ladruncoli per ogni bottino luccicante. Erano semplicemente troppo avidi per diventare confusi. Sapevano quello che volevano, e questo era il loro vantaggio topico.

Erano stati dipinti molto più grandi della vita. Lindsay stesso l’aveva fatto in buona misura, quando lui e Nora avevano barattato la trappola mortale dell’asteroide con tre mesi di lezioni di lingua e un passaggio gratis fino al Consiglio dell’Anello. Con la sua improvvisa notorietà come amico degli alieni, Lindsay aveva fatto del suo meglio per gonfiare la mistica degli investitori. Era colpevole di frode come chiunque altro.

Aveva perfino defraudato gli investitori. Il nome con cui questi lo chiamavano era ancora un raschiamento e un fischio che significavano “artista”. Lindsay aveva ancora degli amici fra gli investitori, o per lo meno esseri che si sentiva sicuro di poter divertire.

Gli investitori avevano un senso che in qualche modo si avvicinava all’umorismo, un certo sadico godimento quando concludevano un affare con accorta perspicacia. Quella scultura che gli avevano dato, e che occupava il posto d’onore in casa sua, poteva benissimo essere costituita, in realtà, da due frammenti d’escrementi alieni corrosi dal gelo.

Dio soltanto sapeva a quale stordito alieno avevano venduto il suo pezzo artistico. C’era da aspettarselo che un giovane come Wells esigesse di sapere la verità, per poi diffonderla. Senza conoscere le conseguenze della sua azione, o senza che neppure gliene importasse; semplicemente troppo giovane per vivere nella menzogna. Bene, le falsità avrebbero retto ancora per un po’. Malgrado la nuova generazione, nata e allevata durante la Pace degli Investitori, lottasse per lacerare il velo, senza sapere che era proprio questa la tela sulla quale il loro mondo era dipinto.

Lindsay cercò sua moglie. Lei era nel suo ufficio, appartata con la sua banda di cospiratori fatta di diplomatici addestrati. Il colonnello-professore Nora Mavrides proiettava una lunga ombra in Goldreich-Tremaine. Presto o tardi ogni diplomatico della capitale c’era finito dentro. Era la più conosciuta lealista della sua classe e fungeva loro da campione.

Lindsay si nascondeva dietro il conforto della propria mistica. Per quello che ne sapeva, era l’ultimo sopravvissuto della sezione straniera. Se altri diplomatici non Plasmatori erano sopravvissuti, ciò non era avvenuto perché avevano reclamizzato se stessi.

Entrò per qualche istante nella stanza, soltanto per una questione di cortesia, ma come al solito quei levigati movimenti muscolari lo rendevano nervoso. Li lasciò quasi subito, per passare nella saletta dei fumatori, nella quale due che gironzolavano intorno alla porta di servizio venivano iniziati a quel vizio alla moda dal cast di Sheperd Moons di Vetterling.

Qui Lindsay passò subito al suo ruolo d’impresario. Essi credevano in ciò che vedevano di lui: un vecchio, un po’ lento, forse senza il fuoco del genio che altri avevano, ma generoso e con una punta di mistero. Questo mistero si accompagnava al fascino; il dottor Abelard Mavrides aveva imposto la sua parte di tendenza.

Passò da una conversazione all’altra: la politica dei matrimoni genetici, gli intrighi della Sicurezza dell’Anello, le rivalità fra le città, le dottrine accademiche, i conflitti sui turni di lavoro giornalieri, le congreghe artistiche; tutti fili di un singolo tessuto. Il luccichio della cosa in sé, il levigato splendore del suo disegno sociale, l’avevano cullato inducendolo alla routine. A volte si meravigliava della placidità che provava. Quanto di essa era l’età, la dolcezza del decadimento? Lindsay aveva sessantun anni.

La festa del matrimonio era alla fine; gli attori se ne stavano andando per ripassare le parti, gli anziani strisciavano verso le loro antiche tane, le orde dei bambini sgambettavano verso gli asili delle loro rispettive linee genetiche. Lindsay e Nora si ritirarono finalmente nella loro camera da letto. Nora aveva gli occhi che le brillavano, era un po’ ebbra. Si sedette sull’orlo del loro letto, aprendo il fermaglio del suo indumento ufficiale, in alto sulle spalle. Lo tirò in avanti, e tutto quel complicato lavoro di traforo sgusciò sciogliendosi sulla sua schiena, in una ragnatela di fili.

Nora aveva avuto il suo primo ringiovanimento vent’anni prima, quando ne aveva trentotto, e il secondo a cinquanta. La pelle delle sue spalle era liscia come il vetro alla luce rosata della lampada sul comodino. Lindsay allungò la mano dentro il cassetto superiore del comodino, e tirò fuori il suo vecchio videomonocolo dalla scatoletta imbottita. Nora sfilò le sue esili braccia dalle maniche a grani dell’abito e sollevò la mano per togliersi il cappello. Lindsay cominciò a filmare.

— Non ti spogli? — Nora si girò. — Abelard, cosa stai facendo?

— Voglio ricordarti così — lui rispose. — Questo momento perfetto.

Lei scoppiò a ridere e buttò da parte il copricapo. Con pochi, agili movimenti sfilò gli spilloni ingioiellati dai capelli e liberò con una scrollata del capo una cascata di trecce scure. Lindsay si sentì eccitato. Mise da parte il proprio monocolo e sgusciò fuori a sua volta dai propri indumenti.

Fecero l’amore in modo lento e confortevole. Quella notte, però, Lindsay aveva sentito la puntura della mortalità, e ciò l’aveva spronato; la passione lo colse. Fece l’amore con ardente impazienza, e lei lo assecondò. Raggiunse l’apice con violenza, guardando durante tutti i battiti del suo cuore la propria mano di ferro sulla spalla liscia di lei. Giacque alla fine rantolante, con gli orecchi rimbombanti al ritmo delle pulsazioni cardiache. Un attimo dopo si spostò. Lei sospirò, si stiracchiò e rise.

— Meraviglioso — disse. — Sono felice, Abelard.

— Ti amo, tesoro — lui replicò. — Sei la mia vita.

Lei si sollevò su un gomito. — Stai bene, tesoro?

Lindsay si sentiva pungere gli occhi. — Ho parlato con Dietrich Ross, stasera — disse con cautela. — Ha un programma di ringiovanimento che vorrebbe che provassi.

— Oh — fece lei, deliziata. — Una buona notizia.

— È rischioso.

— Ascolta, tesoro, essere vecchi è rischioso. Il resto è soltanto questione di tattica. Tutto quello che ti serve è un po’ di catabolismo di minore intensità. Qualunque laboratorio può farlo. Non hai bisogno di niente di più ambizioso. Quello può aspettare altri vent’anni.

— Significherebbe lasciar cadere la mia maschera davanti a qualcuno. Ross dice che questo gruppo è discreto, ma io non mi fido di Ross. Vetterling e Pongpianskul hanno fatto una scena alquanto strana, stasera, e Ross li ha assecondati.

Nora disfece una delle sue trecce. — Tu non sei vecchio, tesoro, e hai finto troppo a lungo, ormai. La tua storia non sarà più un problema fra non molto. I diplomatici stanno riconquistando i propri diritti, e adesso tu sei un Mavrides. Il reggente Vetterling non è programmato, eppure nessuno pensa male di lui.

— Certo che lo pensano.

— Forse un po’. Ma non è questo il problema, comunque. Non è per questo che hai rimandato la cosa. Hai gli occhi gonfi, Abelard. Hai preso i tuoi antiossidanti?

Lindsay rimase silenzioso per qualche istante. Si rizzò a sedere sul letto, tenendosi sollevato con il suo infaticabile braccio prostetico.

— È la mia mortalità — disse. — Un tempo significava tanto per me. È tutto quello che mi rimane della mia vecchia vita, le mie vecchie convinzioni…

— Ma non rimani lo stesso lasciandoti invecchiare. Potresti restare giovane proprio per conservare i tuoi vecchi sentimenti.

— Ce un modo soltanto di farlo. Il modo di Vera Kelland.

Le mani di Nora si fermarono sulla treccia semidisfatta. — Mi spiace — disse Lindsay. — Ma è da qualche parte. L’ombra… Mi spiace, Nora, se sarò giovane di nuovo le cose cambieranno. Tutti questi anni, c’è stata tanta gioia per noi… io rimango qui immobile, giacendo nell’ombra, al sicuro con te, e felice. Essere di nuovo giovane, correre questo rischio… sarò di nuovo fuori all’aperto. Degli occhi mi sorveglieranno.

Lei gli accarezzò la guancia. — Tesoro, veglierò su di te, io ti proteggerò. Nessuno ti farà del male senza prima passare sopra il mio corpo.

— Sono felice, lo dico in tutta sincerità, ma non riesco a togliermi di dosso questa sensazione. È soltanto un senso di colpa. Colpa perché la vita è stata troppo buona con noi, perché noi abbiamo avuto l’amore, mentre tutti gli altri sono morti come sorci in un angolo.

La sua voce tremava; lanciò un’occhiata al tessuto color terra di Siena della coperta del letto, al tenue bagliore della lampada. — Quanto tempo può durare ancora, la Pace? I vecchi ci disprezzano, mentre i giovani non ci considerano nemmeno. Le cose devono cambiare, e come potrebbero esser migliori? Per noi possono soltanto peggiorare… tesoro… — Incontrò i suoi occhi. — Ricordo i giorni in cui non avevamo niente, neppure l’aria da respirare, e il putridume strisciava tutt’intorno a noi. Tutto quello che abbiamo guadagnato da allora è stato puro profitto per noi, ma non è stato reale… Quello che c’è fra noi due è reale, è tutto. Dimmi che se tutto questo dovesse sfasciarsi, tu sarai ancora con me…

Lei gli afferrò le mani, appoggiando quella di ferro sopra le sue. — Cos’è che ha causato tutto questo? È Constantine?

— Vetterling vuol portare uno degli uomini di Constantine nella Congrega.

— Che si bruci! Sapevo che quel despota doveva entrarci in qualche modo. È questo che ti spaventa, non è vero? Rimestare antiche tragedie… Ma adesso che ho saputo chi devo affrontare, mi sento meglio!

— Non si tratta soltanto di lui, tesoro. Ascolta: Goldreich Tremaine non può restare al vertice per sempre. La Pace degli Investitori si sta sbriciolando; sarà una lotta aperta fra i Plasmatori e i Mechanist. L’ala militare finirà forzatamente per affermarsi… Perderemo la capitale…

— Questo è allarmismo puro, Abelard. Non abbiamo ancora perso niente. I detentisti a Goldreich-Tremaine non sono mai stati tanto forti. I miei diplomatici…

— So che sei forte. Vincerai, credo, ma se non accadesse, se dovessimo far di nuovo i cani solari…

— Cani solari? Non siamo profughi, tesoro, siamo Mavrides genetici, con uffici, proprietà, degli incarichi! Questa è la nostra fortezza! Non possiamo abbandonarla dopo che ci ha dato tanto… Ti sentirai diverso dopo il trattamento. Quando riavrai la giovinezza, vedrai le cose in maniera diversa.

— Lo so — disse Lindsay — e la cosa mi fa paura.

— Ti amo, Abelard. Dimmi che domani chiamerai Ross.

— Oh, no — disse Lindsay. — Sarebbe un grave errore apparire troppo ansiosi.

— Quando, allora?

— Oh, qualche anno ancora. Non è niente, secondo i criteri di Ross…

— Ma Abelard… mi fa male vedere la vecchiaia che ti erode. È andata anche troppo avanti. Semplicemente, non è ragionevole che… — I suoi occhi si riempirono di lacrime.

Lindsay la fissò sorpreso e allarmato. — Non piangere, Nora. Farai del male a te stessa. — Le mise le braccia al collo.

Lei rispose al suo abbraccio. — Non possiamo tenere quello che abbiamo. Mi hai fatto dubitare di me stessa.

— Sono uno sciocco — replicò Lindsay. — Ma sono in piena forma, non c’è bisogno di affrettarsi. Mi spiace di aver detto tutto questo.

I suoi occhi erano di nuovo asciutti. — Io vincerò. Noi vinceremo. Saremo giovani e forti insieme, vedrai.


Consiglio di Stato
di Goldreich-Tremaine
16-4-’53

Lindsay aveva rimandato quell’incontro il più a lungo possibile. Adesso gli antiossidanti e la sua dieta speciale non erano più sufficienti. Aveva sessantotto anni.

La clinica della demortalizzazione si trovava alla periferia di Goldreich-Tremaine, parte del crescente grappolo di subolle gonfiabili. Le bolle, collegate da tubi, potevano proliferare o svanire in una notte, un perfetto habitat per i Medici Neri e altre nicchie di dubbia natura.

Qui si annidavano i Mechanist, alla caccia del prolungamento della vita dei Plasmatori, evadendo al tempo stesso le loro leggi. L’offerta e la domanda avevano stimolato la corruzione, mentre Goldreich-Tremaine, travolta dal successo, diventava sempre più negligente. La capitale si era ingrandita troppo, e le crepe dell’economia venivano tappate con denaro nero.

La paura aveva spinto Lindsay fino a quel punto. La paura che le cose potessero crollare e lo cogliessero di sorpresa, debole.

Ross gli aveva promesso l’anonimato. Sarebbe entrato e uscito in fretta, due giorni al massimo.

— Non voglio niente d’importante — disse Lindsay alla vecchia. — Solo un decatabolismo.

— Ha portato la documentazione della sua linea genetica?

— No.

— Questo complica le cose. — La demortalista del mercato nero lo fissò tenendo la testa inclinata in una maniera molto simile a quella d’una ragazzina. — I genetici determinano la natura degli effetti collaterali. Si tratta d’invecchiamento naturale o di un danno cumulativo?

— È naturale.

— Allora possiamo tentare qualcosa di meno raffinato. Ormonici, non un lavaggio deossidante per tre gruppi funzionali. Veloce e sporco. Ma le ridarà la scintilla.

Lindsay pensò a Pongpianskul e alla sua pelle coriacea. — Lei che trattamento usa?

— È confidenziale.

— Quanti anni hai?

La donna sorrise a quel “tu” — Non dovresti essere curioso, amico, meno sapremo l’uno dell’altro, meglio sarà. Lindsay si sentiva fremere d’inquietudine.

— Non posso farlo — dichiarò. — Trovo troppo difficile fidarmi di te.

Fluttuò verso l’uscita della bolla, lontana dal suo nucleo in caduta libera fatto di analizzatori e campionatori da ospedale.

— Trovi il nostro prezzo troppo alto, dottor Abelard Mavrides? — gli gridò la donna.

La sua mente partì in un galoppo sfrenato, mentre i suoi peggiori timori si concretizzavano. Si girò deciso ad affrontarla. — Qualcuno ti ha informato male.

— Abbiamo il nostro servizio segreto.

Guardingo, Lindsay studiò i suoi movimenti muscolari. Le rughe del suo viso erano impercettibilmente sbagliate, non si accoppiavano con i muscoli sotto la pelle. — Tu sei giovane — le disse. — Tu sembri vecchia, niente più.

— Allora condividiamo una frode. Per te è soltanto una delle tante.

— Ross mi ha detto che ci si poteva fidare di voi — ribatté Lindsay. — Perché rischiare la vostra posizione infastidendomi?

— Vogliamo la verità.

La fissò. — Molto ambizioso. Prova con il metodo scientifico, e nel frattempo cerchiamo di discutere in maniera sensata.

La giovane donna si lisciò il camice medico con le mani rugose. — Fingi che io sia il pubblico di un teatro, signor Mavrides. Parlami della tua ideologia.

— Non ne ho nessuna.

— Che mi dici, allora, della Pace degli Investitori? Tutti quei lavori teatrali detentisti. Pensavi di poter guarire lo scisma con quest’imbroglio degli investitori?

— Sei più giovane di quanto pensassi — rispose Lindsay. — Se ora mi chiedi questo, significa che non hai mai visto una guerra.

Lei lo fissò furibonda. — Noi siamo stati allevati nella Pace! Bambini ai quali è stato detto sin dall’asilo che l’amore e la ragione avevano spazzato via la guerra. Cosa succede a quei gruppi le cui innovazioni falliscono? Nel migliore dei casi vengono spediti via in qualche sciagurato avamposto. Nel peggiore, vengono braccati, catturati, messi gli uni contro gli altri…

La verità lo punse sul vivo. — Ma qualcuno di loro sopravvive!

La ragazza scoppiò a ridere. — Tu non sei pianificato, allora; perché dovresti preoccuparti per noi? La stupidità è la vita e il respiro insieme per te.

— Tu appartieni al gruppo di Margaret Juliano — replicò Lindsay. — I superintelligenti. — La fissò. Non aveva mai incontrato un superintelligente prima di allora. Avrebbero dovuto trovarsi in un rifugio ben custodito, costantemente studiati.

— Margaret Juliano — ripeté la donna. — Della vostra Congrega di Mezzanotte. È stata lei a contribuire a progettarci. Lei è una detentista! Quando la pace crollerà, noi crolleremo con lei! Ci tengono sempre d’occhio, ci spiano, cercando difetti… — I suoi occhi si erano dilatati sul suo volto rugoso. — Ti rendi conto del nostro potenziale. Non ci sono né regole, né anime, né limiti! Ma i dogmi c’imprigionano. False guerre e stupide lealtà. La spazzatura della Matrice disaggregata che si è andata accumulando. Altri ci sguazzano dentro, voltando il viso alla totale libertà! Ma noi vogliamo tutta la verità, senza condizioni. Noi accettiamo la nostra realtà nuda e cruda. Vogliamo che gli occhi di tutti rimangano aperti, sempre; e se ci dovesse volere un cataclisma, allora ne abbiamo pronti a migliaia.

— No, aspetta — intervenne Lindsay. La ragazza era una superintelligente; non poteva avere, comunque, più di trent’anni. Lo sgomentava vederla così fanatica, così disposta a ripetere i suoi errori: i suoi e quelli di Vera. — Sei troppo giovane per gli assoluti. Per l’amor di Dio, niente puri gesti. Non prima dei cinquant’anni. Dei cento! Hai tutto il tempo che vuoi.

— Noi non pensiamo come vorrebbero loro — dichiarò la ragazza. — E per questo loro ci uccideranno. Ma prima noi spalancheremo il cranio del mondo infilandoci dentro i nostri aghi.

— Aspetta — disse Lindsay. — Forse la Pace è condannata. Ma voi potreste salvarvi. Siete intelligenti. Potreste…

— La vita è un gioco, amico. La morte è il punto culminante. — Sollevò la mano e scomparve.

Lindsay rantolò. — Cos’hai… — D’un tratto cessò di parlare. La propria voce gli suonava strana. L’acustica stessa gli parve diversa. Le macchine, però, producevano gli stessi tranquilli ronzii e sommessi bip.

Si avvicinò. — Ehi! Ragazzina, prima parliamo. Credimi, io posso capire. — La sua voce era cambiata. Aveva perduto il sottile raschiamento dell’età. Si toccò la gola con la sinistra. Il suo mento aveva una folta barba. Scosso, la tirò. Sì, erano peli suoi, non c’era dubbio.

Fluttuò più vicino alle macchine, ne toccò una. Frusciò sotto le sue mani. L’afferrò in preda al furore: subito si accartocciò, mostrando un’esile intelaiatura di cellulosa e di plastica. Affondò la mano nella macchina vicina, lacerandola. Un altro modellino. Al centro del complesso c’era un registratore da bambini, che ronzava e bippava debolmente. Lo sollevò da terra con la sinistra, e divenne d’un tratto conscio del suo braccio sinistro: un dolore gli persisteva ancora nei muscoli.

Si strappò di dosso la camicia e la giacca. Il suo stomaco era teso e piatto; i peli grigi sul suo petto erano stati accuratamente depilati. Ancora una volta si toccò il viso. Lui non si era mai lasciato crescere la barba, ma al tatto quella pareva di due settimane.

La ragazza doveva averlo drogato, lì sul posto. Poi qualcuno gli aveva fatto un lavaggio delle cellule, aveva invertito il suo catabolismo, dando una regolata al limite di Hayflick della sua pelle e degli organi più importanti, esercitando nello stesso tempo il suo corpo inconscio per ristabilire il tono muscolare. Poi, quando tutto era stato completato, l’aveva rimesso nella stessa posizione, riportandolo in qualche modo all’immediata coscienza.

Lo shock ritardato lo colpì: il mondo tremolò davanti ai suoi occhi. Paragonata a questa, quasi qualunque altra cosa poteva essere motivo di dubbio: il suo nome, il suo lavoro in quel luogo, la sua vita. Mi hanno lasciato la barba come calendario, pensò, stordito. A meno che anche quella non fosse falsa.

Tirò un profondo sospiro. Si sentiva i polmoni tirati, tesi. Li avevano ripuliti dal catrame dovuto al fumo.

— Oh, Dio! — esclamò, a voce alta. — Nora. — Ormai doveva aver superato il momento del panico, doveva essere piena di un odio spietato nei confronti di chi l’aveva catturato, chiunque fosse. Si affrettò subito verso l’uscita della bolla.

L’ammasso di gonfiabili economici simile a un grappolo era agganciato ad una tubostrada interurbana. Lindsay subito fluttuò lungo il corridoio laccato ed emerse attraverso una porta a filamenti in un trasparente e rigonfio complesso d’incroci. Sotto, c’era Goldreich-Tremaine, con le sue ruote di Besetzny e di Patterson che ruotavano con lenta maestosità. Con i bitorzoli e gli anelli simili a molecole degli altri sobborghi che risplendevano d’una luce purpurea, dorata oppure verde, circondando la città come una trama imperlata. Per lo meno, lui si trovava ancora a Goldreich-Tremaine. Si diresse subito verso casa.


Consiglio di Stato
di Goldreich-Tremaine
18-9-’53

Il caos ripugnava a Constantine. Le evacuazioni erano una faccenda disordinata. Il porto di ormeggio era cosparso di spazzatura: indumenti, orari delle navi, imballi a iniezione, pieghevoli di propaganda. Il limite dei bagagli diventava sempre più rigoroso al passare di ogni ora. Non lontano da lì, quattro plasmatori stavano tirando fuori degli articoli dalle loro valige troppo pesanti, fracassandoli per dispetto contro le pareti e i banchi di ormeggio.

Lunghe file erano in attesa al terminal interazione. I terminal sovraccarichi si facevano pagare al secondo. Alcuni dei profughi stavano scoprendo che gli costava di più vendere i loro titoli vacillanti, di quanto costassero i titoli stessi.

Una voce sintetica al sistema di altoparlanti per il pubblico annunciò il prossimo volo diretto alla Skimmers Union. Subito, un nuovo pandemonio spazzò il porto. Constantine sorrise. La sua nave, la Friendship Serene, aveva quella destinazione. A differenza degli altri, il suo letto era sicuro. Non soltanto a bordo della nave, ma anche nella nuova capitale.

Goldreich-Tremaine aveva osato più di quanto potesse, e aveva fallito. Si era appoggiata troppo alla mistica della propria posizione di città-capitale. Sparita questa, soppiantata dai militanti di una città rivale, la rete di crediti di Goldreich-Tremaine non aveva avuto più niente in grado di sorreggerla.

A lui piaceva la Skimmers Union. Galleggiava in un’orbita circumtitaniana, sopra il sanguinolento luccichio delle nubi di Titano. Nella Skimmers Union la fonte della ricchezza della città era sempre vicina in maniera rassicurante: l’inesauribile massa di sostanze organiche aveva soffocato il cielo di Titano. Draghe alimentate a fusione nucleare scorrazzavano attraverso la sua atmosfera, raccogliendo centinaia di tonnellate di sostanze organiche. Metano, etano, acetilene, cianogeno: un costante stock planetario per le fabbriche di polimeri dell’Unione,

Dei passeggeri stavano sbarcando. Una manciata al confronto di quelli che se ne stavano andando, e non una manciata piacevole a vedersi. Un gruppo con addosso delle uniformi sformate passò galleggiando davanti ai doganieri. Cani solari, chiaramente, e neppure cani solari plasmatori: la loro pelle luccicava di olii antisettici.

Le guardie del corpo di Constantine mormorarono fra loro, giudicando i nuovi arrivati. Le sentì con il suo auricolare. Le quattro guardie non erano affatto felici, a causa della riluttanza che Constantine mostrava a volersene andare. Molti nemici locali di Constantine erano prossimi alla disperazione con le banche di Goldreich-Tremaine vicine al collasso. Le guardie erano in preda al più febbrile allarme.

Ma Constantine si attardava ancora: aveva sconfitto i Plasmatori sul loro stesso terreno, e il piacere che ne aveva tratto era stato intenso. Lui viveva per momenti come quello. Forse era l’unico uomo calmo in mezzo a una folla di quasi duemila persone. Mai prima di allora si era sentito così completamente padrone della situazione.

I suoi nemici erano stati rovinati dalla loro sottovalutazione. L’avevano valutato in un certo modo, e si erano completamente sbagliati. Constantine stesso non conosceva quella misura: era quello il tormento che lo stimolava a continuare.

Considerò i suoi nemici uno ad uno. I militanti l’avevano scelto per attaccare la Congrega di Mezzanotte, e il suo successo era stato totale e impressionante. Il reggente Charles Vetterling era stato il primo a cadere. A Vetterling piaceva considerarsi un sopravvissuto. Incoraggiato da Charles Zeuner, aveva appoggiato con la sua fazione i militanti. Il potere della Congrega di Mezzanotte era stato infranto dall’interno. Si era frazionato in tanti piccoli campi di battaglia. Quelli che avevano mantenuto le loro posizioni erano stati denunciati da altri più disperati.

Quel disertore mechanist, Sigmund Fetzko, si era “dissolto”. In quei giorni, tutti quelli che si presentavano alla sua residenza ricevevano soltanto ingegnose scuse con la preghiera di ripassare ad altra data, e temporeggiamenti dell’esperto sistema della casa. L’immagine di Fetzko continuava a vivere; l’uomo in quanto persona era morto, ma era troppo cortese per ammetterlo.

Neville Pongpianskul era morto, assassinato nella Repubblica per ordine di Constantine.

Il cancellier-generale Margaret Juliano era semplicemente scomparsa. Alcuni suoi nemici l’avevano finita. Ciò lasciava ancora sconcertato Constantine. Il giorno della sua scomparsa aveva ricevuto una grossa cassa, anonima. Aperta con cautela dalle sue guardie del corpo, aveva esibito un blocco di ghiaccio con un nome elegantemente inciso sulla superficie: Margaret Juliano. Da allora non era stata più vista.

Il colonnello-professore Nora Mavrides aveva tragicamente sopravvalutato le proprie forze. Suo marito, il falso Lindsay, era scomparso, e lei aveva accusato Constantine, di averlo rapito. Quando suo marito era ritornato raccontando un’inverosimile storia di rinnegati superintelligenti e di cliniche clandestine, Nora era stata screditata.

Constantine non era ancora sicuro di cosa fosse successo. La spiegazione più probabile era che Nora Mavrides fosse stata giocata proprio dal suo piccolo quadro di diplomatici ormai indegni di fiducia. Probabilmente avevano visto quello che stava accadendo e avevano teso una trappola alla loro protettrice di un tempo, sperando che il nuovo regime della Skimmers Union li avrebbe ringraziati. Ma se le cose stavano così, si erano grossolanamente sbagliati.

Constantine considerò la cavernosa stazione intorno a sé, regolando i suoi videoschermi sui primi piani. Fra i plasmatori sulle spine nei loro super elaborati abbigliamenti, c’era una crescente minoranza di gente d’altro tipo. Un carico importante di cani solari. Qua e là dei derelitti ideologici sciattamente vestiti stavano misurandosi addosso degli indumenti dalle maniche a lacci trovati per terra, oppure si aggiravano con predatoria noncuranza accanto agli sfollati che stavano alleggerendo il proprio bagaglio.

— Parassiti — commentò Constantine. Quella vista ebbe l’effetto di deprimerlo. — Signori, è giunto il momento di proseguire.

Le guardie lo scortarono attraverso un ingresso sbarrato da una catena che dava accesso ad una rampa privata imbottita di velcro. Gli stivali adesivi di Constantine crepitavano e sfrigolavano sul tessuto.

Constantine fluttuò giù in caduta libera lungo il tubo d’imbarco che portava alla camera d’equilibrio della Friendship Serena, Una volta dentro, prese posto sul suo seggiolino antiaccelerazione favorito e si collegò con il video per godersi il decollo.

All’interno delle scheletriche attrezzature del porto con le loro passerelle di accesso, le navi più piccole facevano la coda ai tubi d’imbarco, rimpicciolite dalla massa stilizzata di una nave stellare degli investitori. Constantine tirò il collo, costringendo le telecamere dello scafo della Friendship Serena a ruotare con servile obbedienza. — Quella nave degli investitori è ancora qui? — commentò a voce alta. Sorrise. — Pensate che siano ancora a caccia di affari?

Sollevò i videoschermi. All’interno della cabina della nave le sue guardie si erano raccolte intorno a un serbatoio sopra di loro, inspirando gas tranquillante attraverso maschere respiratorie. Uno di loro sollevò lo sguardo, gli occhi arrossati. — Possiamo metterci in animazione sospesa adesso, signore?

Constantine annuì acido. Da quando la guerra era ricominciata, le sue guardie avevano perso completamente il loro senso dell’umorismo.


Una nave commerciale
degli investitori
22-9-’53

Nora sollevò lo sguardo su suo marito che se ne stava disteso di traverso sopra di lei, su un sedile torreggiante. Il suo volto era nascosto da una barba scura e da occhiali parasole opachi dal profilo avvolgente. Aveva capelli tagliati a spazzola e indossava una tuta mech. La sua vecchia valigetta diplomatica costellata di cicatrici era appoggiata sulla felpa tutta raschiata del ponte. La portava con sé… aveva intenzione di disertare.

La massiccia gravità della nave degli investitori pesava su entrambi come un carico di ferro. — Smettila di andare su e giù, Nora — lui disse. — Finirai soltanto per affaticarti.

— Mi riposerò più tardi — replicò Nora. La tensione le aggrovigliava il collo e le spalle.

— Riposati ora. Prendi l’altro sedile. Se chiuderai gli occhi e dormirai un poco… qualche istante di distensione…

— Non verrò con te. — Nora si tolse i propri occhiali parasole e si sfregò la sommità del naso. L’illuminazione della cabina era la luce preferita dagli investitori, una vampa ardente bianco-azzurra, sbordante nell’ultravioletto.

Nora odiava quella luce. In qualche modo aveva sempre provato risentimento nei confronti degli investitori, per aver derubato del suo significato la morte della sua famiglia. E i tre mesi che una volta aveva trascorso in una nave come quella erano stati il periodo più alienante della sua vita. Lindsay si era adattato rapidamente, un cane solare consumato, disposto a trattare con gli alieni come sarebbe stato disposto a fare con chiunque altro. Allora Nora si era interrogata su questo fatto. E adesso avevano completato il cerchio.

Lindsay riprese: — Sei arrivata fin qui. Non l’avresti fatto se non avessi voluto venire con me. Io ti conosco, Nora. Sei sempre la stessa, anche se io sono cambiato.

— Sono venuta perché volevo essere con te ogni momento possibile. — Ricacciò indietro le lacrime, il volto immobile. La sensazione era orribile, una nausea nera. Troppe lacrime, rifletté, erano state respinte per troppo tempo. Sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbero finito per soffocarla.

Constantine aveva usato ogni debolezza in Goldreich-Tremaine, pensò Nora. E la mia speciale debolezza è stato quest’uomo. Quando Abelard era tornato dalla clinica del ringiovanimento, tre settimane più tardi, era così cambiato che i robot della loro casa non avevano voluto lasciarlo entrare… Ma anche questo non era stato brutto come i giorni che aveva passato senza di lui, a cercarlo, scoprendo che la subolla del mercato nero dov’era andato era stata sgonfiata e riposta da qualche parte, chiedendosi quale furtiva Camera Stellare lo stesse facendo a pezzi.

— Questa è colpa mia — disse. — Ho accusato Constantine senza nessuna prova, e lui mi ha umiliato. La prossima volta saprò come comportarmi.

— Constantine non ha avuto niente a che fare con tutto questo — replicò Lindsay. — So cos’ho visto in quella clinica. Erano superintelligenti.

— Non riesco a credere nei cataclisti — disse ancora Nora. — Quei superintelligenti vengono sorvegliati come gioielli; non hanno spazio per delle inverosimili cospirazioni. Quello che hai visto era un imbroglio, è stata tutta una messa in scena per farmi uscire allo scoperto. Ed io ci sono cascata.

— Non essere orgogliosa, Nora. L’orgoglio ti acceca. I cataclisti mi hanno rapito, e tu non vuoi neppure ammettere che esistano. Non puoi vincere perché non puoi riportare indietro il passato. Lascia andare, e vieni con me.

— Quando vedo quello che Constantine ha fatto alla Congrega…

— Non è colpa tua! Mio Dio, non ci sono già abbastanza disastri senza che tu stia ad ammucchiarli tutti sopra le tue spalle? Goldreich-Tremaine è finita! Adesso dobbiamo vivere! Anni fa ti avevo già detto che non poteva durare, e adesso è finita! — Spalancò le braccia di scatto. Quello sinistro, attirato dalla gravità, ricadde floscio. L’altro, pieno d’energia, roteò senza sforzo descrivendo un arco.

Avevano discusso la cosa cento volte, e Nora vide che i suoi nervi si erano logorati. Sotto l’influenza del trattamento la sua pazienza, conquistata duramente, era scomparsa nell’avvampare della falsa giovinezza. Ora lui stava urlando: — Non sei Dio! Non sei la storia! Non sei il Consiglio dell’Anello! Non lusingarti! Adesso non sei più niente, sei un bersaglio, un capro espiatorio! Scappa, Nora! Canesolarìzzati!

— Il clan dei Mavrides ha bisogno di me — lei insisté.

— Stanno meglio senza di te. Adesso per loro tu sei un imbarazzo. Lo siamo tutti e due.

— E i bambini?

Lindsay rimase silenzioso per un attimo. — Mi spiace per loro. Mi spiace più di quanto non riesca a dire, ma adesso sono adulti e possono rischiare da soli. Qui non sono loro, il problema. Noi lo siamo! Se renderemo facili le cose per il nemico, sgusciando via, evaporando, verremo dimenticati. E intanto potremo aspettare la nostra occasione.

— Dando ai fascisti la vittoria in tutto? Gli assassini, gli uccisori. Quanto tempo ancora, prima che la Cintura si riempia di nuovo di agenti dei Plasmatori, e le piccole guerre avvampino in ogni angolo?

— E chi lo impedirà? Tu?

— E tu, Abelard? Vestito da puzzolente mechanist, con dati rubati ai Plasmatori in quella valigetta! Non pensi mai alla vita di qualcun altro al di fuori della tua. Ma perché, in nome di Dio, non ti ergi a difesa degli impotenti, invece di tradirli? Pensi che sia più facile per me senza di te. Io continuerò a combattere, ma senza di te non ci sarà più nessun cuore in me.

Lindsay gemette. — Ascolta. Prima che c’incontrassimo, ero un cane solare, sai quanto poco io… Non voglio quel vuoto, nessuno che si cura di me, nessuno che sa… E un altro tradimento sulla mia coscienza… Nora, abbiamo avuto quasi quarant’anni! Questo posto è stato buono per noi, ma sta finendo in pezzi da solo! I bei tempi torneranno di nuovo. Avremo a disposizione tutto il tempo che vogliamo! Volevi dell’altra vita, ed io sono uscito e l’ho ottenuta per te. Adesso, tu vuoi che la butti via. Non ho intenzione di fare il martire, Nora. Per nessuno.

— Hai sempre parlato di mortalità — lei ribatté. — Adesso sei diverso.

— Se sono cambiato, è perché tu volevi che lo facessi.

— Non così. Non col tradimento.

— Moriremo per niente.

— Come gli altri — disse lei, dispiacendosene subito. Ed eccolo là davanti a loro: l’antico senso di colpa in tutta la sua totalizzante intimità. Gli altri per cui il dovere era più della vita. Quelli che avevano abbandonato, quelli che avevano ucciso nell’avamposto dei Plasmatori. Quello era il crimine che loro due avevano lottato per cancellare, il crimine che li aveva legati insieme. — Be’, è quello che mi chiedi di fare, non è vero? Di tradire la mia gente per te!

Ecco. Lo aveva detto. Adesso non c’era nessun modo per tornare indietro. Nora aspettava in preda al dolore le parole che l’avrebbero svincolata da lui.

— Voi eravate la mia gente — lui proseguì. — Avrei dovuto sapere che non ne avrei mai avuta una a lungo. Sono un cane solare ed è il mio modo di vivere, non il tuo. Sapevo che non saresti venuta. — Appoggiò la testa contro le dita nude del suo braccio artificiale. Le luci penetranti si riflessero vivide sull’aspro metallo. — Rimani per lottare, allora. Potresti vincere, credo. — Era la prima volta che le mentiva.

— Ma posso vincere — disse Nora. — Non sarà facile, non avremo tutto quello che abbiamo avuto, ma non siamo ancora battuti. Rimani, Abelard, per favore! Ho bisogno di te. Chiedimi qualunque cosa, salvo che di rinunciare a combattere.

— Non posso chiederti di cambiare — replicò suo marito. — La gente cambia soltanto se gliene dai il tempo. Un giorno questa cosa che ci ha ossessionato si esaurirà, se vivremo entrambi. Credo che l’amore sia più forte della colpa. Se lo è e un giorno sentirai che i tuoi obblighi non hanno più bisogno di te, allora mi verrai dietro. A cercarmi…

— Lo farò, te lo prometto. Abelard… Se verrò uccisa come gli altri, e tu continuerai a vivere al sicuro, allora dimmi che non mi dimenticherai.

— Mai. Lo giuro su tutto ciò che c’è stato fra noi.

— Addio… allora. — Nora si arrampicò sull’enorme sedile degli investitori per baciarlo. Sentì la sua mano d’acciaio che le passava sul polso come una manetta. Nora gli diede un leggero bacio, poi d’impulso accennò ad avvinghiarsi a lui, ma Lindsay la lasciò andare.

6

Una nave commerciale
degli investitori
29-9-’53

Lindsay giaceva sul pavimento della sua cavernosa cabina di lusso, respirando profondamente. L’atmosfera carica di ozono della nave degli investitori gli faceva prudere il naso, che era bruciato dal sole malgrado gli olii impiegati per proteggersi. Le pareti della cabina erano di metallo annerito, costellato di orifizi blindati; da uno di essi sgorgava un rivolo di acqua distillata, che ricadeva mollemente nell’intensa gravità.

Quella cabina aveva conosciuto un uso molto frequente. Leggere graffiature riempivano di simboli cuneiformi il pavimento e le pareti, fin quasi al soffitto. Gli umani non erano i soli passeggeri a pagare una tariffa agli investitori.

Secondo la moderna eso-sociologia dei Plasmatori, gli stessi investitori non erano i primi proprietari di quelle navi stellari. Ricoperto da mosaici vanagloriosi e da bassorilievi metallici, ogni apparecchio degli investitori pareva unico. Ma un’analisi accurata mostrava la sottostante struttura basilare: esagoni smussati a prua e a poppa, con sei lunghe facce laterali rettangolari. Era opinione corrente che gli investitori avessero comperato le loro navi, o le avessero trovate. O rubate.

Il guardiamarina gli aveva dato un giaciglio, un ampio materasso piatto con un disegno a esagoni marrone e bianchi, fatto su misura per gli investitori. La sua superficie era ruvida come tela di sacco. Aveva un vago sentore dell’olio-di-squama degli investitori.

Lindsay aveva saggiato la parete metallica della sua cabina, interrogandosi sulla natura dei graffi. Malgrado la parete desse l’impressione di essere leggermente granulosa, le cerniere d’acciaio dei suoi guanti-piede vi scivolavano sopra come se fosse vetro. Comunque, avrebbe potuto ammorbidirsi sotto pressioni e temperature estreme. Una bestia molto grossa fornita di artigli che galleggiasse in una pozza di etano liquido ad alta pressione, per esempio, poteva aver raschiato le pareti nel tentativo di scavare una galleria per scappare.

La gravità era dolorosa, ma le luci della cabina erano state attenuate. La cabina era gigantesca e priva di arredi. I suoi indumenti appesi ai ganci magnetici sparsi qua e là parevano patetici rottami.

Era strano che gli investitori avessero lasciato spoglia una stanza, anche se fungeva da zoo. Lindsay giacque là in silenzio, cercando di riprender fiato, riflettendo sulla cosa.

Il portello blindato risuonò, poi si aprì. Lindsay si rizzò dal pavimento aiutandosi con il braccio artificiale, l’unico arto che non gli facesse male a causa della gravità. Sorrise. — Sì, guardiamarina. Novità?

Il guardiamarina entrò nella stanza. Era piccolo, per un guardiamarina, più alto di Lindsay appena di un avambraccio, e la sua corporatura robusta era accentuata dalla sua abitudine da uccello di tenere la testa abbassata. Pareva più un membro dell’equipaggio che un guardiamarina. Lindsay lo studiò soprappensiero.

Gli accademici stavano ancora elaborando ipotesi sulla struttura gerarchica degli investitori. I comandanti delle navi erano sempre femmine, le uniche femmine a bordo delle navi. Erano il doppio più grandi dei maschi dell’equipaggio, di corporatura massiccia. Alle loro dimensioni si accompagnava una calma pigra, una laconica presunzione di autorità. I guardiamarina erano secondi in comando, una combinazione di diplomatici e ministri. Il resto dell’equipaggio formava un adorante harem maschile. Gli sgattaiolanti maschi dell’equipaggio con i loro occhi luminosi come perle pesavano tre volte più d’un normale maschio umano, ma intorno ai loro mostruosi comandanti parevano fragili creature svolazzanti.

Le frange erano la principale esibizione cinetica. Gli investitori, che assomigliavano a dei rettili, avevano lunghe frange scanalate dietro la testa, una pelle translucida dai colori dell’arcobaleno percorsa da una rete di vasi sanguigni. Le frange si erano evolute per facilitare il controllo della temperatura; potevano venir allargate a ventaglio per assorbire la luce del sole, o aperte all’ombra per restituire il calore in eccesso. Nella vita civilizzata gli investitori erano una reliquia, allo stesso modo delle sopracciglia umane, che si erano evolute per deflettere il sudore dagli occhi. Adesso, come le sopracciglia, il loro uso sociale era diventato predominante.

La frangia del guardiamarina inquietava Lindsay. Tremolava troppo. Un rapido tremolio veniva di solito interpretato come un segno di divertimento. Negli esseri umani i movimenti muscolari relativi a una rauca risata, o a un risolino nervoso, erano un segno di profonda tensione. Lindsay, malgrado il suo interesse professionale, non aveva nessun desiderio di essere il primo ad assistere a una crisi isterica di un investitore. Sperò che si trattasse soltanto d’un istintivo atteggiamento di ripugnanza nei suoi confronti. Quella nave era arrivata di recente nel sistema solare, e il suo equipaggio non era abituato all’umanità.

— Nessuna notizia, Artista — disse il guardiamarina, in un faticoso inglese commerciale. — Soltanto un’ulteriore discussione sul pagamento.

— Un buon affare — replicò Lindsay, in investitore. La gola gli fece male per quell’acuto flautare, ma lo preferiva ai bizzarri tentativi del guardiamarina per padroneggiare la lingua umana.

Quel guardiamarina non era come il primo da lui incontrato. Quell’investitore era stato conciliante e cortese, il suo vocabolario carico di scorrevoli anche se poco convincenti cliché spulciati dalle trasmissioni televisive umane. Quel nuovo guardiamarina stava facendo un evidente sforzo per riuscire a parlare.

Era chiaro che gli investitori avevano mandato i loro elementi migliori per il primo contatto. Ora, dopo trentasette anni, pareva che il sistema solare venisse considerato sicuro anche per gli elementi più scadenti tra gli investitori. — Il nostro comandante ti vuole su nastro — disse il guardiamarina, in inglese.

Lindsay portò automaticamente la mano alla sottile catena che gli avvolgeva il collo. Il suo videomonocolo con il prezioso film di Nora era appeso là. — Ho un nastro per la maggior parte vuoto. Non posso cederlo, ma…

— La nostra comandante è molto legata al suo nastro. Il suo nastro ha moltissime altre immagini ma nessuna della tua specie. Lei lo studierà.

— Vorrei avere un’altra udienza con la comandante — disse Lindsay. — La prima è stata così breve… Mi sottoporrò con gioia alla registrazione. Hai la tua telecamera?

Il guardiamarina sbatté gli occhi, la lucida membrana nittitante tremolò verso l’alto sopra il suo bulbo oculare scuro e sporgente. La penombra della stanza pareva metterlo a disagio. — Ho il nastro. — Aprì la sua valigetta sovraspalla e tirò fuori un contenitore piatto e rotondo. Strinse il contenitore fra due delle sue enormi dita dei piedi e lo appoggiò sul pavimento color grigio metallico. — Aprirai il contenitore. Poi farai dei movimenti divertenti e caratteristici della tua specie che il nastro vedrà. Continua a farlo finché il nastro non ti avrà capito.

Lindsay fece oscillare la mandibola da parte a parte imitando l’annuire degli investitori. Il guardiamarina parve soddisfatto. — Parlare non è necessario. Il nastro non sente il suono. — L’investitore si girò verso la porta. — Tornerò a prendere il nastro fra due delle tue ore.

Rimasto solo, Lindsay studiò il contenitore, il coperchio metallico rugoso e dorato era grande come entrambe le sue mani completamente spalancate. Prima di aprirlo aspettò un attimo, assaporando tutto il proprio disgusto. Era rivolto tanto verso se stesso quanto verso i suoi ospiti.

Gli investitori non avevano chiesto di venir deificati; semplicemente avevano perseguito i propri guadagni. Erano stati per secoli consapevoli dell’esistenza dell’umanità. Del resto, erano assai più vecchi dell’umanità. Ma si erano saggiamente astenuti dall’interferire fino a quando non avevano visto che avrebbero potuto estorcere un decente guadagno dalla specie. Dal punto di vista degli investigatori, le loro azioni erano semplici e chiare.

Lindsay aprì infine il contenitore. All’interno c’era una bobina grigio-ferro con dieci centimetri di nastro-guida biancastro. Lindsay mise da parte il coperchio (il sottile metallo era pesante come il piombo alla gravità degli investitori) e poi s’immobilizzò. Il nastro si era messo a frusciare nella scatola. L’estremità del nastro-guida scattò verso l’alto, torcendosi, e tutto il nastro cominciò a srotolarsi. Si sollevò, sferzando l’aria e increspandosi, deboli barbagli di colore in apparenza casuali si avvolgevano come tante spire per la sua lunghezza. In pochi istanti aveva formato una sorta di nuvola aperta di nastro brillante, sorreggendosi a un reticolo rigido e semiappiattito.

Lindsay, sempre inginocchiato e muovendo solamente gli occhi, osservava guardingo. Si rese conto che l’estremità bianca era la testa della creatura-nastro. La testa si muoveva su un lungo cappio allungato, controllando la stanza in cerca di movimenti.

La creatura-nastro continuò a muoversi incessantemente, allungandosi fino a formare una massa aperta di spirali ed eliche. Allentato al massimo, finì per formare una sorta di gomitolo di spago rigonfio e barcollante, alto quanto un uomo. Le sue volute di sostegno, irrigidite, frusciavano con un sottile raschiamento sul pavimento.

A tutta prima, lui aveva pensato che si trattasse di una macchina. Una macchina pericolosa, poiché gli orli del nastro animati da continue contorsioni erano affilati come rasoi. Ma nel modo in cui si srotolava c’era una fluidità organica non programmata.

Lindsay non si era ancora mosso. Sembrava che la creatura non fosse in grado di vederlo.

Scosse violentemente la testa, e i massicci occhiali parasole sulla sua fronte volarono attraverso la stanza. La testa del nastro volò subito al loro inseguimento.

La mimica cominciò dalla coda. Il nastro si rimpicciolì, accartocciandosi come una palla di carta da imballaggio, abbozzando la forma degli occhiali parasole, ripiegandosi strettamente. Prima di aver completato del tutto l’opera, il nastro parve però perdere interesse. Esitò, osservando gli occhiali parasole che rimanevano inerti, poi si sfaldò in una massa sciolta che sferzava l’aria.

Mimò brevemente la forma accucciata di Lindsay, arrotolandosi in una scultura di nastro frusciante nella dimensione d’un uomo con la bocca spalancata. La colorazione imitò rapidamente quella ruggine su nero della sua tuta. Poi la testa del nastro guardò altrove e l’immagine volò in pezzi, con i colori che cambiavano in una cascata di pulsazioni irregolari.

Il nastro tremolò, mentre Lindsay guardava. La sua testa bianca esaminò lentamente l’intera scena, tutt’intorno, quasi furtivamente. Lampeggiò d’un marrone fangoso, il colore della pelle degli investitori. Lentamente una memoria biologica, o cibernetica, ne prese il controllo. Cominciò ad affardellarsi e a spiegazzarsi in una nuova forma. Prese consistenza l’immagine d’un piccolo investitore. Lindsay era eccitato. Nessun essere umano aveva mai visto un investitore bambino, e si supponeva che fossero molto rari. Ma ben presto Lindsay capì dalle proporzioni che il nastro stava modellando una femmina adulta. Il nastro era troppo piccolo per formare una replica in grandezza naturale, ma l’accuratezza del modello, anche se alto soltanto fino al ginocchio, lo lasciò stupefatto. Minuscole vesciche riproducevano la pelle dura e sassosa del cranio e del collo; i minuscoli occhi, due protuberanze colorate, avevano un’espressione tranquilla.

Lindsay provò un brivido. Riconobbe l’individuo. E l’espressione era d’un ottuso dolore animale. Il nastro stava riproducendo l’immagine del comandante investitore. Ansimava, le sue costole dal profilo d’una botte si alzavano e si abbassavano. Era goffamente accosciata, una mano artigliata allargata sopra ciascuno dei ginocchi spinti verso l’alto. La bocca si apriva come in preda agli spasimi, mostrando dei denti a paletta malamente imitati e le pareti cave, sottili come carta, della riproduzione in scala ridotta della testa del modello. Il comandante della nave stava male. Nessuno aveva mai visto un investitore ammalato. La stranezza della cosa, pensò Lindsay, doveva essere rimasta impressa nella memoria del nastro. Quella era un’occasione da non perdere. Con glaciale lentezza, Lindsay aprì la chiusura-lampo della sua tuta ed espose il videomonocolo appeso alla catenella. Cominciò a filmare.

Il ventre squamoso si rinserrò, e due orli di nastro si aprirono alla base della massiccia coda del modello. Comparve una massa bianca, rotonda, con un luccichio di bagnato, un bolo oblungo di nastro strettamente avvolto: un uovo.

Fu un processo lento, doloroso. L’uovo era coriaceo: le contrazioni dell’ovidotto lo comprimevano, spingendolo in avanti. Finalmente fu libero, anche se era ancora collegato al corpo procreatore da un tratto di nastro trasparente. L’immagine del comandante-investitore ruotò, strascicandosi, poi si chinò ad esaminare l’uovo con un’intensità rapita, nauseata.

Lentamente allungò le enormi mani, raschiò l’uovo, si annusò le dita. La sua frangia cominciò a sollevarsi, irrigidita, inturgidita dal sangue. Le braccia le tremavano. Attaccò l’uovo. Ne morse selvaggiamente l’estremità più appuntita, penetrando come la lama di un coltello nel guscio coriaceo con quei denti malamente imitati. Comparve un nastro giallo, un tuorlo dalla consistenza simile a quella del formaggio fuso.

Il comandante banchettò, le braccia fatte di nastro ingiallirono a causa di quella viscida melma esplosa. La frangia sporse dietro la sua testa, irrigidita dal furore. La furtiva sgradevolezza del suo crimine era inequivocabile: valicava facilmente la barriera fra le specie, tanto quanto la ricchezza.

Lindsay mise via il suo monocolo. Il nastro, attirato dal suo movimento, slacciò la propria testa e si sollevò incerto. Lindsay agitò le braccia verso di lui e il modello si disfece di colpo in un groviglio. Lindsay si alzò in piedi e cominciò a trascinare il suo corpo avanti e indietro nella pesante gravità. Il nastro osservò, arrotolandosi e guizzando.


Cartello Dembowska
10-10-’53

Lindsay discese barcollando la rampa di accesso, i suoi guanti-piede ormai consumati, slittavano. Dopo la luce abbagliante a bordo della nave interstellare, l’area di sbarco gli parve fosca, subacquea. Fu colto da una sensazione di vertigine. Forse avrebbe potuto farcela in caduta libera, ma la debole gravità dell’asteroide di Dembowska gli scombussolava lo stomaco.

L’atrio conteneva un gran numero di viaggiatori provenienti dagli altri cartelli mechanist. Non aveva mai visto tanti Mech in un solo posto, e suo malgrado quello spettacolo lo allarmò. Davanti a lui, bagagli e passeggeri entravano nelle passatoie di controllo della dogana. Più oltre, alle loro spalle, s’intravedevano le vetrine dei duty-free-shop di Dembowska.

D’un tratto Lindsay rabbrividì. Non aveva mai sentito l’aria così fredda. Una corrente gelida filtrava attraverso la sua tuta sottile, e il tessuto flessibile dei suoi guanti-piede. Il suo alito si condensava in nuvole di vapore. Stordito, si diresse verso la dogana.

Una giovane donna lo aspettava subito davanti al posto di dogana, in rilassato equilibrio sulla punta di uno stivale. Indossava una calzamaglia scura e una giacca dal collo di pelliccia. — Capitano-dottore? — gli chiese.

Lindsay si arrestò con difficoltà, stringendo il tappeto con le dita dei piedi.

— La valigia, prego. — Lindsay porse la sua vecchia valigetta diplomatica, imbottita di dati rubacchiati dagli archivi di Kosmosity. La donna lo prese per un braccio con fare amichevole, guidandolo attraverso una porta anonima al di là degli analizzatori della dogana. — Sono la moglie-poliziotta Greta Beatty. Sono il suo ufficiale di collegamento. — Scesero una rampa di scale fino a un ufficio. Greta porse la valigetta a una donna in uniforme e ricevette in cambio una busta affrancata.

Quindi lo condusse fuori su un piano più basso della sezione duty-free, aprendo la busta con le unghie laccate. — Qui ci sono i suoi nuovi documenti — gli disse. Gli porse una carta di credito. — Adesso lei è il revisore Andrew Bela Milosz. Benvenuto al Cartello Dembowska.

— Grazie, moglie-poliziotta.

— Basterà Greta. Posso chiamarti Andrew?

— Chiamami Bela — disse Lindsay. — Chi ha scelto questo nome?

— I tuoi genitori. Andrew Milosz è morto di recente, nel Cartello Bettina. Ma non troverai la sua morte registrata negli archivi. Il suo parente più prossimo ha venduto la sua identità all’Harem della Polizia di Dembowska. Tutti i segni d’identificazione nelle sue registrazioni sono stati cancellati e sostituiti con i tuoi. Ufficialmente, sei immigrato qui. — Sorrise. — E io sono qui per aiutarti nella transazione. Per farti felice.

— Sto gelando — annunciò Lindsay.

— Ci occuperemo subito della cosa. — Lo condusse oltre il vetro smerigliato, dentro uno dei duty-free-shop, un negozio di abbigliamento. Quando riemersero, Lindsay aveva un nuovo completo, d’un tessuto imbottito più spesso, con marezzature verticali in rilievo inserite ai polsi e alle caviglie. Il colore era grigio carbonella e, di ottimo gusto, s’intonava ai suoi nuovi stivali di velcro imbottiti di pelliccia. Sfoggiava un microfono a bottone in uno dei risvolti color crema della giacca.

— Adesso tocca ai tuoi capelli — annunciò Greta Beatty. Portava la sua nuova borsa-guardaroba a cerniera. — Sono in condizioni orrende.

— Erano grigi — disse Lindsay. — Le radici sono cresciute nere, così li ho rasati. Da allora, sono cresciuti come hanno voluto. — La gratificò d’uno sguardo deciso.

— Vuoi conservare la barba?

— Sì.

— Qualunque cosa ti faccia felice.

Dopo dieci minuti sotto le mani del parrucchiere, i capelli di Lindsay erano pettinati all’indietro dalla fronte e dalle tempie in lisce curve brillantinate. La barba era stata leggermente spuntata.

Lindsay aveva osservato i movimenti muscolari della sua compagna. C’era una calma, una quiete nei suoi movimenti che tradiva la sua giovinezza. Lindsay si sentiva teso, ipersensibile, ma la naturale allegria di Greta cominciava ad avere effetto su di lui grazie alla contaminazione cinetica. Si scoprì a esibire un involontario sorriso.

— Hai fame?

— Sì.

— Andremo al Periscopio. Stai benissimo, Bela. Ti abituerai alla gravità di Dembowska in un batter d’occhio. Rimani vicino a me. — Avvolse il braccio intorno al suo. — Mi piace questo tuo vecchio braccio.

— Rimarrai con me?

— Tutto il tempo che vorrai.

— Capisco. E se dovessi suggerirti di andartene?

— Credi proprio che ti troveresti meglio?

Lindsay soppesò la cosa. — No, perdonami, moglie-poliziotta. — Si sentiva irascibile, oscuramente infastidito. La sua nuova identità lo preoccupava. Mai prima di allora gli era capitato che gliene imponessero una. Il suo vecchio addestramento lo spronava a integrarsi nella società locale, ma gli anni l’avevano reso più rigido.

Greta lo condusse giù per due rampe di scale mobili a staffa, che si addentravano nelle profondità dell’asteroide. Le pareti e il pavimento erano di metallo antico, consumato, rivestite di un nuovo strato di velcro. La gente si muoveva a salti che iniziavano maestosi e finivano in penose contorsioni. Sopra le loro teste dei cittadini frettolosi procedevano lanciandosi da un cappio all’altro del soffitto. Seguivano un vetusto dembowskiano che avanzava spedito lungo la parete sulla sua carrozzella da paralitico dalle ruote al velcro. — Mangeremo un boccone — disse Greta Beatty. — Ti sentirai molto meglio. Lindsay considerò la possibilità di imitare i suoi movimenti muscolari dell’espressione; per quanto arrugginito, pensava di poterci riuscire. Forse sarebbe stata la cosa più intelligente, accompagnare la naturale affabilità di Greta con la propria. Ma non voleva farlo. Gli faceva male.

— Greta, questa generosità spontanea mi sorprende. Perché sei così?

— Una moglie-poliziotta? Oh, all’inizio non avevo a che fare con la Sicurezza. Ero una moglie di Carnassus, un rapporto strettamente erotico. La promozione è arrivata più tardi. Non faccio parte dello spionaggio. Faccio soltanto un lavoro di collegamento.

— Molti altri prima di me?

— Qualcuno. Cani solari, per la maggior parte. Nessun accademico plasmatore di rango.

— Hai conosciuto Michael Carnassus?

Lei esibì un remoto sorriso. — Soltanto nella carne… Siamo quasi arrivati. L’Harem della Polizia ha dei tavoli riservati. Sono sicura che ne vuoi uno accanto alle finestre.

La fioca intimità del Periscopio, agli occhi di Lindsay devastati dall’intensità luminosa, pareva impossibilmente tetra. Il vapore si levava dalle pietanze sui tavoli. S’infilò il guanto sinistro. Non era mai stato in un posto così freddo.

Una gelida luce azzurra entrava a fiotti dalle rigonfie finestre concave. Lindsay lanciò una rapida occhiata attraverso il metavetro, vide una caverna rocciosa piena per metà d’acqua. Una sfera di osservazione grande come una casa era ancorata al soffitto della caverna. Accanto ad essa c’era un banco di riflettori azzurri, montati di traverso al soffitto su dei binari arcuati. Lindsay infilò gli stivali nelle staffe d’una seggiola a bassa gravità. Il sedile si riscaldò sotto di lui; la sua sella imbottita era dotata di elementi riscaldanti.

Greta gli sorrise dall’altra parte del tavolo, i suoi occhi azzurri parevano enormi nella penombra. Era un sorriso amichevole, senza nessuna traccia di adescamento; in realtà, senza il minimo sottofondo. Nessuna paura, nessuna timidezza; niente di niente, soltanto un accenno ben equilibrato di pacata benevolenza. I suoi capelli biondi avevano la scriminatura nel mezzo e le ricadevano lungo gli orecchi e gli zigomi con bordi lisci dal taglio smussato, secondo i più recenti dettami della moda di Dembowska. I capelli avevano un aspetto molto pulito. Lindsay provò l’istinto di farvi scorrere in mezzo la mano, così come avrebbe potuto passare le dita sul dorso di cuoio d’un libro.

Le lettere fiammeggianti del menù comparvero sulla superficie del tavolo. Lindsay appoggiò la mano guantata sul ripiano. La superficie era appiccicosa a causa dei polimeri adesivi. Ritrasse le dita; dapprima la colla lo trattenne, poi lasciò di colpo la presa, senza che restasse la minima traccia. Guardò il menù. — Non ci sono i prezzi.

— L’Harem della Polizia salderà il conto. Non vorremmo che ti facessi una cattiva opinione della nostra cucina. — Indicò con un cenno del capo il lato opposto del ristorante. — Quel gentiluomo in biocorazza, al tavolo alla tua destra… quello è Lewis Martinez con sua moglie Lydia. È a capo della Martinez Corp, il suo rango è di controllore. Dicono che sua moglie sia nata sulla Terra.

— Sembra molto ben conservata. — Lindsay fissò con franca curiosità quella coppia sinistra, la cui abilità come spie industriali era diventata proverbiale nei circoli della Sicurezza dei Plasmatori. Parlavano sottovoce fra una portata e l’altra, sorridendosi con un non simulato affetto. Lindsay avvertì una fitta di dolore.

Greta aveva ripreso a parlare. — L’uomo con il servoripiano è il coordinatore Brandt… Il gruppo accanto alla finestra successiva fa parte della Kabuki Intrasolar. Quello con la giacca pacchiana è Wells…

— Ryumin mangia mai qui?

— Oh… no. — Greta lo gratificò d’un fugace sorriso. — Lui trasmette in circoli diversi.

Lindsay si sfregò pensoso il mento barbuto. — Sta bene, spero.

Greta fu cortese. — Non sta a me giudicare. Sembra felice. Lascia che ordini per te. — Digitò degli ordini sulla fascia laterale del tavolo adibita a tastiera.

— Perché fa così fresco?

— Storia. Moda. Dembowska è una vecchia colonia; ha sofferto di un crollo ecologico. Ci sono posti dove potrei mostrarti strati di muffa lampoghiacciati che ancora si staccano dalle pareti. Le peggiori putrescenze si sono adattate alla stretta gamma di temperature. Quando fa così freddo, sono in letargo. Non è la sola ragione, comunque. — Indicò con un gesto la finestra. — Quello ha la sua influenza.

Lindsay guardò fuori. — La piscina?

Greta fece una risatina di cortesia. — L’extraterrario, Bela.

— Che io sia bruciato! — Lindsay aguzzò gli occhi fuori della finestra.

La cavità rozzamente scavata traboccava di un turgido liquido color ruggine. A tutta prima aveva pensato che si trattasse di acqua. — È là che tengono i mostri — commentò. — Quel globo di osservazione è il palazzo di Carnassus, non è vero?

— Naturalmente.

— È molto piccolo.

— È una replica esatta dell’osservatorio della spedizione Chaikin. Naturalmente non è grande. Immagino che gli investitori si siano fatti pagare da loro per trasportarlo fino alle stelle. Carnassus vive molto modestamente, Bela. Non è come la Sicurezza dell’Anello ti ha raccontato.

Tutti gli istinti diplomatici suggerivano a Lindsay di trattenersi. Con uno sforzo, li violò. — Ma ha duecento mogli.

— Pensa a noi come a del personale psichiatrico, revisore. Per Carnassus un matrimonio è una questione di rango. Dembowska dipende da lui, e lui dipende da noi. Lindsay chiese: — Potrei incontrare Carnassus?

— Spetta al capo della polizia decidere questo. Ma a che pro? L’uomo riesce appena appena a parlare. Non è come dicono negli Anelli. Carnassus è molto stordito, anche se è molto gentile… Dicono che è stato ferito. Ma quando la sua ambasciata stava fallendo ha preso una droga sperimentale, PDKL-95. Avrebbe dovuto aiutarlo a capire il modo di pensare degli alieni, ma lo ha distrutto. Era un uomo coraggioso. Noi proviamo pietà per lui. L’aspetto sessuale è una parte molto minore della faccenda.

Lindsay rifletté sulla cosa. — Capisco. Con altre duecento, alcune di esse favorite, c’è da presumere, dev’essere un ruolo piuttosto raro… Una volta all’anno, forse?

Lei lo fissò, calma. — Non così raro, ma hai afferrato la sostanza. Non ti nasconderò la verità, Bela. Carnassus non è il nostro sovrano: è la nostra risorsa. L’Harem governa Dembowska perché noi lo circondiamo e siamo le sole a cui lui è disposto a parlare. — La donna sorrise. — Non è un matriarcato. Noi non siamo madri. Siamo la polizia.

Lindsay guardò fuori della finestra. Una goccia cadde giù e increspò la superficie della piscina. Era etano liquido. Subito al di là del metalvetro, quella pigra pozza era istantaneamente letale, a 180° Celsius sotto lo zero. Un uomo in quella pozza rossastra sarebbe congelato nel giro di pochi istanti, diventando una massa turgida di roccia. D’un tratto Lindsay si rese conto che le pietre grige delle sponde erano acqua ghiacciata.

Qualcosa stava emergendo sulla riva. Alla fioca luce bluastra, la superficie dell’etano venne perforata da quello che pareva un insieme di ramoscelli spezzati. Perfino a quella debole gravità, i movimenti della creatura erano glaciali. Lindsay la indicò.

— Uno scorpione di mare — spiegò Greta. — Un euripteroide, per dargli il suo nome ufficiale. Sta aggredendo quel grumo sulla sponda. Quella melma nera è vegetazione. — Il predatore continuò a uscire con paralitica lentezza dal liquido sottile. Adesso i ramoscelli si rivelarono come lunghi e sottili artigli fra di loro intrecciati, simili a un cesto, con una struttura che ricordava uno schieramento di denti a sciabola. — La sua preda sta raccogliendo energia per balzare. Per questo ci vorrà un po’. Secondo i livelli di questo ecosistema, questo in realtà è un attacco fulmineo. Osserva le dimensioni di quel cefalotorace, Bela.

Lo scorpione di mare aveva sollevato fuori dall’acqua il suo ampio prosoma simile ad una piastra; quell’avancorpo simile a un granchio aveva un diametro di mezzo metro. Dietro gli occhi compositi da singoli elementi a forma di losanga, c’era il lungo addome affusolato, ricoperto da placche sovrapposte disposte secondo creste orizzontali.

— È lungo tre metri — lo informò Greta, mentre un inserviente portava i primi piatti. — Più lungo, se conti anche la coda a pungiglione. Una bella dimensione per un invertebrato. Prendi un po’ di minestra?

— Voglio vedere. — Gli artigli protesi si stavano chiudendo sulla preda con la determinazione di una porta idraulica. D’un tratto la creatura-preda, tremolando, schizzò nell’aria e piombò nella piscina con un tonfo.

— Salta veloce! — osservò Lindsay.

— C’è soltanto una velocità per saltare. — Greta Beatty sorrise. — È una questione di fisica. Mangia qualcosa. Prendi una stecca di pane. — Lindsay non riusciva a staccare gli occhi dall’euripteroide, il quale giaceva con i suoi denti-artigli intrecciati, e all’apparenza esausto. — Provo pietà per quella creatura — dichiarò.

Greta si mostrò paziente. — È arrivato qui sotto forma di uovo. Non ha ricevuto quelle grandi stecche di pane da mangiare. Carnassus si prende cura di loro. Era l’esobiologo dell’ambasciata.

Lindsay assaggiò un po’ di minestra con il cucchiaio da bassa gravità, una sorta di piccola scodella chiusa, dal coperchio scorrevole. — Tu sembri condividere la sua esperienza.

— Tutti a Dembowska sono interessati nell’extraterrario. Orgoglio locale. Naturalmente il commercio turistico non è quello di un tempo, da quando la Pace degli Investitori è finita. Ci rifacciamo con i profughi.

Lindsay fissò di malumore la piscina. Il cibo era eccellente ma l’appetito gli era venuto meno. L’euripteroide fece un debole movimento. Lindsay pensò alla scultura che gli investitori gli avevano dato e si chiese a cosa potessero assomigliare i suoi escrementi.

Uno scroscio di risate arrivò dal tavolo di Wells. — Voglio parlare con Wells — disse Lindsay.

— Lascia che me ne occupi io — replicò Greta. — Wells ha contatti con i Plasmatori. L’informazione potrebbe filtrare fino al Consiglio dell’Anello. — La sua espressione divenne grave. — Non vorrai certo rischiare la tua copertura prima che sia stata ben consolidata.

— Non ti fidi di Wells?

Greta scrollò le spalle. — Non sei tu che devi preoccupartene. — Arrivò una nuova pietanza, portata da un cigolante robot dai piedi in velcro. — Adoro questi antichi servorobot che impiegano qui. E tu? — Spremette una densa salsa cremosa sopra un pasticcio di carne e gli passò il piatto. — Sei sotto pressione, Bela. Ti serve cibo. Sonno. Una sauna. Le buone cose della vita. Sembri nervoso. Rilassati.

— Vivo sull’orlo di un precipizio — dichiarò Lindsay.

— Non adesso. Tu vivi con me. Mangia qualcosa, così saprò che ti senti sicuro.

Per farle piacere Lindsay, sia pure riluttante, diede un morso al pasticcio. Era delizioso. L’appetito gli ritornò come un’onda di marea. — Ho delle cose da fare — disse, soffocando lo stimolo d’inghiottire tutto come un lupo.

— Pensi che riuscirai a farle meglio senza cibo né sonno?

— Suppongo che tu abbia ragione. — Sollevò lo sguardo; lei gli porse la bolla della salsa. Mentre spremeva altra salsa sul suo piatto, lei gli passò un bicchiere di vino munito d’una fessura unidirezionale per bere. — Prova il Chiaretto locale. — Lui l’assaggiò. Era buono almeno quanto il Synchronis d’annata degli Anelli. — Qualcuno ha rubato questa tecnologia — osservò.

— Tu non sei il primo disertore. Adesso qui le cose sono più calme.

Indicò qualcosa fuori della finestra. — Guarda lo xifosurano. — Un granchio grumoso si stava muovendo attraverso la piscina con una pigrizia snervante. — Ha una lezione da darti.

Lindsay fissò la scena in silenzio, riflettendo.

L’alloggio di Greta si trovava sette livelli più in basso. Un servorobot della casa, placcato d’argento, prese la borsa-guardaroba di Lindsay. Il soggiorno di Greta ostentava un divano barocco rivestito di pelliccia con staffe scorrevoli e due poltrone ancorate, rivestite di velluto color borgogna. Su un tavolo da caffè adesivo c’era un inalatore con il coperchio a scatto e una rastrelliera di cassette.

Il bagno aveva uno scomparto adibito a sauna e uno sciacquone ribaltabile a suzione con l’orlo elastico riscaldato. Le lampade sovrastanti ardevano rosate a causa dell’infrarosso generato dal calore. In piedi sulle piastrelle gelide Lindsay lasciò cadere il suo guanto. Cadde lentamente secondo un’inclinazione accentuata. Le verticali della stanza non si accoppiavano con la gravità locale. Quel tocco accentuato di design interno d’avanguardia causò a Lindsay un improvviso attacco di nausea. Balzò in alto e si aggrappò al soffitto, chiudendosi gli occhi fino a quando l’attacco di vertigini non gli passò.

Greta gridò attraverso la porta: — Vuoi una sauna?

— Qualunque cosa pur di riscaldarmi.

— I comandi sono sulla sinistra.

Lindsay si spogliò cacciando un rantolo quando il metallo ghiacciato del braccio artificiale gli sfiorò le costole nude. Tenne il braccio ben lontano dal corpo mentre entrava dentro il vapore turbinante. Nella bassa gravità, l’aria era piena di acqua vorticante. Tossendo, cercò a tentoni la maschera respiratoria. Era ossigeno puro. Nel giro di pochi istanti si sentì un eroe. Girò i comandi avventatamente, ricacciandosi in gola un urlo, mordendosi la lingua, quando venne mitragliato da una raffica improvvisa di neve in polvere. Arretrò con una contorsione e si lasciò cuocere dal calore umido, poi uscì. La sauna continuò il suo ciclo fino al punto d’ebollizione, autosterilizzandosi.

Con l’asciugamano richiuse in un turbante i capelli umidi, annodando le sue estremità con fare assente in uno svolazzo nello stile Goldreich-Tremaine. Nell’armadio trovò un pigiama della sua misura: era d’un sontuoso azzurro con calzari rivestiti di pelliccia.

Fuori, Greta si era tolta la giacca di pelliccia e la calzamaglia, e si era infilata una vestaglia imbottita con un colletto scampanato. Per la prima volta, Lindsay osservò i suoi avambracci, massicciamente ricoperti d’impianti mechanist. Il braccio destro ospitava una specie di arma: una serie di tubi paralleli montati sopra il polso. Non c’era nessun segno di un grilletto. Probabilmente funzionava per interazione nervosa. All’interno dell’altra manica colse il rosso tremolio dei sensori d’un biomonitor.

I Mech coltivavano un fanatico interesse per il biofeedback. Rientrava nella maggior parte dei programmi mech della longevità. Lui non aveva pensato a Greta come a una mechanist. Suo malgrado, quella vista lo scosse.

— Non hai sonno?

Lui sbadigliò. — Un po’.

Lei sollevò il braccio destro sopra la testa, con fare assente. Un comando a distanza schizzò attraverso la stanza finendo nella sua mano e Greta accese la videoparete. Mostrava una veduta dall’alto dell’extraterrario, presa tramite uno dei monitor del palazzo di Carnassus.

Lindsay la raggiunse sul divano ficcando i suoi calzari nelle staffe riscaldate. — Non quello — disse, rabbrividendo. Greta toccò un pulsante. La videoparete divenne confusa, poi si ridefinì nella superficie di Saturno, in un’ampia strisciata rosso e ambra. Fu colto da un’ondata di nostalgia. Girò lo sguardo in un’altra direzione.

Greta cambiò scena. Comparve un paesaggio impervio; enormi crateri accanto ad un’area devastata, scagliosa, tagliata da due giganteschi crepacci. — Questo è erotismo — disse. — La pelle ingrandita ventimila volte. Una delle mie scene preferite. — Toccò nuovamente il pulsante e il video sfrecciò sopra quel sinistro paesaggio, soffermandosi accanto alla radice d’una gigantesca trave squamosa. — Vedi quelle cupole?

— Sì.

— Quelli sono batteri. Questo è un mechanist, capisci?

— Tu?

Greta sorrise. — Spesso questa è la parte più difficile per un plasmatore. Qui non puoi rimanere sterile. Noi dipendiamo da quelle piccole creature. Non abbiamo le vostre alterazioni interne. Non le vogliamo. Dovrete strisciare come il resto di noi. — Gli prese la mano sinistra.

La mano di Greta era calda e lievemente umida. — Questa è una contaminazione. La trovi così brutta?

— No.

— Meglio farlo subito e chiudere la faccenda. Non sei d’accordo?

Lui annuì. Greta gli mise la mano sulla nuca e lo baciò con calore. La sua bocca era aperta. Lindsay si portò la manica di flanella alle labbra. — Questo è assai più di un intervento medico — disse.

Greta gli sfilò dalla testa l’asciugamano annodato e lo gettò al roboservo in attesa. — Le notti sono fredde a Dembowska. In due dentro un letto è più caldo.

— Ho una moglie.

— Monogamo? Com’è strano. — Gli sorrise comprensiva. — Guarda in faccia i fatti, Bela. La diserzione ha rotto il tuo contratto con i Mavrides. Adesso sei una non-persona. Salvo che per noi.

Lindsay rifletté. Un’immagine emerse dentro di lui: Nora, rannicchiata tutta sola nel loro letto, gli occhi spalancati, la sua mente che galoppava mentre il nemico la stringeva sempre più dappresso… Scosse la testa.

Con calma, Greta gli lisciò i capelli. — Se tu tentassi un pochino, recupereresti il tuo appetito. Comunque, è saggio non affrettare le cose.

Greta mostrava il cortese disappunto che una padrona di casa poteva esibire nei confronti di un ospite che avesse rifiutato il dessert.

Si sentiva stanco. Malgrado la rinnovata giovinezza, era tutto dolorante a causa dell’eccessiva gravità degli investitori.

— Ti faccio vedere la camera da letto. — Questa era rivestita di pelliccia scura. Il baldacchino che sovrastava il letto era un videosoffitto. L’enorme capezzale era equipaggiato con le più recenti innovazioni nel campo della tecnologia del sonno. Lindsay riconobbe un encefalografo, spinotti per il monitoraggio, parti artificiali del corpo, fluorografi per il frazionamento del sangue.

Lindsay salì sul letto scalciando via i calzari. Le lenzuola s’incresparono stendendosi sopra di lui. — Dormi bene — disse Greta, congedandosi. Qualcosa gli toccò la sommità del cranio. Sopra di lui il baldacchino si animò silenziosamente, abbozzando i ritmi del cervello. Le onde erano complesse ed enigmaticamente schematizzate. L’onda di una delle funzioni cerebrali era messa in risalto da un rosa intenso. Mentre la fissava, rilassandosi, l’onda cominciò a crescere. Intuì all’improvviso tutto quello che accadeva dentro la sua mente per renderla più grande. Si arrese ad essa, e d’un tratto si addormentò.

Quando si svegliò, la mattina dopo, Greta dormiva pacificamente accanto a lui, aveva applicata alla fronte una tiara-sveglia, collegata al sistema di sicurezza della casa.

Scivolò fuori dal letto. La pelle gli prudeva ferocemente. Si sentiva la lingua impastata. Aveva il corpo tutto informicolato.


Cartello Dembowska
24-10-’53

— Non avrei mai pensato d’incontrarti in questo modo, Fyodor. — Sulla parete del salotto di Greta, sul lato opposto della stanza, di fronte a Lindsay, il volto videomanicurato di Ryumin riluceva d’una salute fasulla. Era una buona riproduzione, ma agli occhi addestrati di Lindsay, la sua origine parlava chiaro: un computer. La sua perfezione era agghiacciante. Le labbra si muovevano con accuratezza sofisticata, accompagnando le parole di Ryumin, ma le piccole idiosincrasie dei suoi movimenti erano bizzarramente stonate. — Per quanto tempo tu sei stato una testa-di-cavo?

— Dieci anni o giù di lì. Il tempo si altera sotto i cavi. Sai, così su due piedi non riesco a ricordare dove ho lasciato il mio cervello. In qualche posto improbabile, ne sono sicuro. — Ryumin sorrise. — Dev’essere nel Cartello Dembowska, altrimenti ci sarebbe un ritardo nella trasmissione.

— Voglio parlare in privato. Quante persone pensi che ci stiano ascoltando?

— Soltanto la polizia — gli assicurò Ryumin. — Sei in una casa-cassaforte dell’Harem; le loro chiamate vengono convogliate direttamente attraverso i banchi-dati del Capo. In Dembowska questo è il massimo del privato. Specialmente per qualcuno il cui passato è dubbio come il tuo, signor Dze.

Lindsay si passò un fazzoletto sul naso. I nuovi batteri avevano colpito brutalmente i suoi seni nasali, anche se erano già stati indeboliti dall’aria carica di ozono degli investitori. — Le cose erano diverse nello Zaibatsu, quand’eravamo faccia a faccia.

— I cavi causano cambiamenti — sentenziò Ryumin. — Diventa tutta una questione di input, capisci? Sistemi. Dati. Tendiamo al solipsismo; si accompagna al territorio. Per favore, non risentirti se dubito di te.

— Da quanto tempo sei a Dembowska?

— Da quando la pace ha cominciato a sbriciolarsi. Avevo bisogno di un paradiso. Questo era il migliore disponibile.

— Così i tuoi viaggi sono finiti, vecchio.

— Sì e no, signor Dze. Alla perdita della mobilità si accompagna l’estensione dei sensi. Se voglio, posso passare ad una sonda in orbita mercuriana. Oppure fra i venti di Giove. In effetti lo faccio spesso. D’un tratto mi trovo là con la stessa completezza con cui sono da qualunque altra parte, oggi. La mente non è quella che pensi tu, signor Dze. Quando l’afferri con dei cavi, tende a scorrere. I dati sembrano emergere come bolle da qualche profondo strato della mente. Questo non significa esattamente vivere, ma ha i suoi vantaggi.

— Hai rinunciato alla Kabuki Intrasolar?

— Con la guerra che si sta scaldando sempre più, i gloriosi giorni del teatro sono finiti, per un po’. La Rete mi impegna per la maggior parte del tempo.

— Giornalismo?

— Sì. Noi teste-di-cavo… o meglio, mechanist anziani, per darci un nome che non sia deturpato dalla propaganda dei Plasmatori, noi abbiamo i nostri modi per lo scorrimento dei dati. Una rete per le notizie. Alla sua massima intensità, si avvicina alla telepatia. Io sono il corrispondente locale per la Rete Datacom di Cerere. Ho la cittadinanza, anche se legalmente parlando è più conveniente venir trattati come hardware deprezzabile posseduto per intero. La nostra vita è informazione. Perfino il denaro è informazione. I soldi e la vita sono un tutt’uno.

La voce sintetizzata del mechanist era calma, spassionata, ma Lindsay provava una sensazione di allarme. — Sei in pericolo, vecchio? C’è niente che possa fare per aiutarti?

— Ragazzo mio — disse Ryumin — esiste un intero mondo dietro a questo schermo. Le linee sono diventate talmente confuse che delle banali questioni di vita o di morte devono accomodarsi in fondo alla sala. Fra noi ci sono quelli il cui cervello è crollato molti anni fa: proseguono traballando, facendo investimenti e seguendo routine programmate. Se i carnosi lo sapessero, li dichiarerebbero legalmente morti. Ma noi non glielo diciamo. — Sorrise. — Consideraci angeli, signor Dze. Spiriti su cavo. Talvolta è più facile così.

— Qui sono un estraneo. Speravo che tu potessi aiutarmi come hai fatto una volta. Ho bisogno di consigli. Ho bisogno della tua saggezza.

Ryumin esibì un perfetto sospiro. — Un tempo, quand’eravamo entrambi dei vagabondi, ho conosciuto un Dze. Mi fidavo di lui; ammiravo il suo coraggio. Eravamo uomini insieme. Il caso non è più quello.

Lindsay si soffiò il naso. Con un brivido di profondo disgusto porse il fazzoletto sporco al servorobot della casa.

— Allora avrei osato qualunque cosa, ero pronto a morire. Ma non l’ho fatto. Ho continuato a cercare. E ho trovato qualcuno. Ho avuto una moglie e non c’è stata nessuna finzione tra noi. Insieme siamo stati felici.

— Ne sono felice per te, signor Dze.

— Quando il pericolo ci ha accerchiati, ho rotto e sono scappato. Adesso, dopo quasi quarant’anni, sono di nuovo un cane solare.

— Quarant’anni sono una vita umana, signor Dze. Non costringerti ad essere umano. Viene il momento in cui devi rinunciarci.

Lindsay guardò il proprio braccio prostetico, flette lentamente le dita. — L’amavo ancora. È stata la guerra a dividerci. Se ci fosse di nuovo la pace…

— Sono sentimenti detentisti. Sono fuori moda.

— Hai rinunciato alla speranza, Ryumin?

— Sono troppo vecchio per le passioni — rispose Ryumin. — Non chiedermi di correre rischi. Lasciami ai miei flussi di dati, signor Dze, o chiunque tu sia. Io sono quello che sono. Non c’è modo di tornare indietro, nessun modo per ricominciare. Quello è un gioco per chi ha ancora carne. Per chi può guarire.

— Mi spiace — disse Lindsay — ma io ho bisogno di alleati. Il sapere è potere, e io so cose che gli altri non sanno. Intendo combattere, non contro i miei nemici ma contro le circostanze. Contro la storia. Voglio riavere mia moglie, Ryumin. Mia moglie plasmatrice. La rivoglio libera e assolta, senza nessuna ombra su di lei. Se non mi vuoi aiutare tu, chi lo farà?

Ruymin esitò. — Ho un amico — disse infine. — Si chiama Wells.


Cartello Dembowska
31-10-’53

Prima dell’avvento dell’umanità, la cintura degli asteroidi si era assestata secondo la fisica dei detriti. I frammenti si erano distribuiti secondo le potenze di dieci. Per ogni singolo asteroide, ce n’erano dieci grandi un terzo, da Cerere (mille chilometri di diametro) giù giù fino, letteralmente, ai mille miliardi di macigni non segnati su nessuna mappa, che seguivano potenziali spaziotemporali a velocità relative di cinque chilometri al secondo.

Dembowska apparteneva alla terza categoria, con un diametro di duecento chilometri. Come altri corpi circumsolari, aveva reso omaggio alle leggi del caso. Ai tempi dei dinosauri, qualcosa di grosso aveva colpito Dembowska. Il visitatore era arrivato e sparito in una frazione di secondo, lasciando pezzi dei suoi pirosseni fusi per l’impatto sepolti nella crosta dell’asteroide mentre si frantumava in un torrente di fuoco. Nel punto dell’impatto la matrice di silicati di Dembowska si era spezzata, aprendo un frastagliato crepaccio verticale che scendeva a venti chilometri di profondità fino al nucleo di ferro e nichel dell’asteroide.

Adesso la maggior parte del nucleo non c’era più, divorata da un’industria sempre avida. Cartello Dembowska viveva dentro quel crepaccio, lunghe terrazze che scendevano livello dopo livello nella gravità sempre più debole, con la pendenza che mutava, finché quelle che erano pareti diventavano pavimenti, fino a quando le pareti e i pavimenti scomparivano completamente in qualcosa che era il più vicino possibile alla caduta libera.

Alla base del crepaccio, il mondo si espandeva in un enorme vano cavernoso, il cuore vuoto di Dembowska, dove generazioni di fuchi comandati a distanza avevano rosicchiato il metallo e il minerale grezzo che lo conteneva.

Il foro era troppo largo per trattenere l’aria. Lo trattavano come se fosse spazio aperto. All’interno del vuoto a caduta libera del nucleo dell’asteroide c’erano le nuove industrie: le fabbriche crioniche, dove indicazioni e ricordi sollecitati dalla mente distrutta di Michael Carnassus venivano tradotti in una crescita costante delle azioni del Cartello Dembowska sul monitor della borsa di cento mondi.

I segreti commerciali erano al sicuro dentro le viscere di Dembowska, al riparo sotto chilometri di roccia. La vita si era imposta a forza come lo stucco dentro la faglia di quel pianeta minore; ne aveva scavato fuori il cuore inerte e l’aveva riempito di macchine.

Visto dal nucleo industriale, il fondo del crepaccio era lo strato più alto del mondo esterno. Qui Wells aveva i suoi uffici, dove le squadre dei suoi impiegati in servizio ventiquattr’ore su ventiquattro monitoravano gli impulsi di dati dell’Unione dei Cartelli, sotto l’egida quasi nazionale della Rete Datacom di Cerere.

Gli uffici avevano le pareti di velcro e di video, pareti baluginanti con il loro incessante mormorio di notizie che scandivano il lavoro. Pezzi di copie-hard, riproduzioni al naturale dei documenti, venivano appesi dovunque, al velcro, sotto (i piedi) o sopra (la testa); i cronisti con le cuffie parlavano alle audiolinee oppure battevano energicamente sulle tastiere. Parevano giovani. C’era una stravaganza calcolata nel loro modo di vestire. Sopra il mormorio dei resoconti, lo scorrevole martellio dei tabulati, il ronzare dei nastri-dati che venivano innescati, si diffondeva una debole musica di fondo: il friabile lamento dei sintetizzatori. L’aria fredda sapeva di rose.

Una segretaria li annunciò. I suoi capelli si arricciavano fuori da un ampio berretto mech. Il suo gonfiore suggeriva possibili microspie craniali. Ostentava un distintivo patriottico sul risvolto della giacca, che mostrava la faccia con gli occhi spalancati di Michael Carnassus.

L’ufficio di Wells era più sicuro di tutto il resto. Le sue videopareti formavano uno straripante mosaico di titoli di testa, rettangoli di dati interconnessi che potevano venir immobilizzati ed espansi a volontà. Indossava un completo imbottito con laccetti alla plasmatore alla gola; il tessuto grigio era stampato in grigio più scuro con disegni stilizzati di euripteroidi. I suoi guanti erano ricoperti di anelli di controllo gonfi di circuiti.

— Benvenuto al RDC, revisore Milosz. Anche a te, moglie-poliziotta. Posso offrirvi un po’ di tè?

Lindsay accettò con gratitudine il caldo bulbo. Il tè era sintetico ma buono. Anche Greta accettò il bulbo, ma non bevve niente. Osservava Wells con tranquilla diffidenza.

Wells toccò un pulsante sull’appiccicosa superficie della sua scrivania a caduta libera. Una grande lampada a collo d’oca ruotò sulla sua spirale con sottile grazia da rettile, e fissò Lindsay. C’erano occhi umani nel cappuccio della lampada, incassati dentro una levigata matrice di carne scura. Gli occhi ammiccarono e si spostarono da Lindsay a Greta Beatty. Greta chinò la testa in segno di riconoscimento.

— Questo è un monitor di uscita per il Capo della Polizia — spiegò Wells. — Lei preferisce vedere con i propri occhi, quando le notizie hanno tanta importanza, quanto quella che tu affermi abbiano le tue. — Si rivolse a Greta. — La situazione è sotto controllo, moglie-poliziotta. — La porta a fisarmonica si aprì dietro di lei.

Con le labbra serrate, Greta fece un altro inchino verso la lampada, lanciò una rapida occhiata a Lindsay, e scalciando contro la parete uscì attraverso la porta. Questa tornò a chiudersi.

— Come ha fatto a impegolarsi con quella monaca? — gli chiese Wells.

— Scusi? — fece Lindsay.

— La Beatty. Non le ha parlato della sua affiliazione al culto Zen Serotonina?

— No. — Lindsay esitò. — Sembra molto padrona di sé.

— Strano. A quanto mi è dato di sapere, il culto è molto radicato nel suo mondo nativo, Bettina, non è vero?

Lindsay incrociò lo sguardo con Wells.

— Lei mi conosce, Wells. Pensi al passato. Goldreich-Tremaine.

Wells se ne uscì in una risatina compiaciuta con un lato della bocca, e spremette il suo bulbo di tè facendosi schizzare un fiotto ambrato fra le labbra. I suoi denti erano forti e quadrati, e l’effetto fu violento in maniera allarmante. — Mi pareva che ci fosse qualcosa del plasmatore in lei. Se lei è un cataclista, non cerchi di fare niente di disperato sotto gli occhi del Capo della Polizia.

— Sono stato una vittima dei cataclisti — replicò Lindsay. — Mi hanno messo sotto ghiaccio per un mese. Questo mi ha tagliato fuori dalle mie routine. E poi ho disertato. — Si sfilò il guanto dalla mano destra.

Wells riconobbe l’antico prostetico. — Capitano-dottore Mavrides. Questo è un piacere inaspettato. Le voci dicevano che lei fosse pazzo incurabile. Ad esser franco, la notizia mi aveva fatto piacere: Abelard Mavrides, l’aiutante degli investitori. Cosa ne è stato dei suoi gioielli e dei suoi cavi, capitano-dottore?

— Oggi come oggi viaggio leggero.

— Niente più teatro? — Wells aprì un cassetto della sua scrivania e tirò fuori un umidificatore. Offrì a Lindsay una sigaretta. Lindsay l’accettò con gratitudine. — Il teatro è fuori moda — dichiarò. Le sigarette si accesero. Lindsay non riuscì a trattenere un accesso di tosse.

— Devo averla infastidita durante quella festa di matrimonio, dottore. Quand’ero venuto per reclutare i suoi studenti.

— Erano loro gli ideologi, Wells, non io. Io avevo paura per lei.

— Non ce n’era bisogno. — Wells soffiò una boccata di fumo e sorrise. — Quello studente, Besetzny… adesso è uno dei nostri.

— Un detentista?

— Da allora il nostro modo di pensare è progredito, dottore. Le vecchie categorie, Mechanist e Plasmatori… sono fuori moda al giorno d’oggi, no? La vita si muove a clade. — Sorrise. — Un clade è una specie di figlia, un discendente imparentato. È accaduto ad altri animali di successo, e adesso è il turno dell’umanità. Le fazioni lottano ancora, ma le categorie si stanno frazionando. Nessuna fazione può rivendicare l’unico vero destino per l’umanità. L’umanità non esiste più.

— Lei sta parlando da cataclismico.

— Ce ne sono altri altrettanto pazzi. Quelli che detengono il potere nei Cartelli, nel Consiglio dell’Anello. Accecare la Matrice Disaggregata con l’odio è più facile che accettare i nostri potenziali. Le nostre missioni diplomatiche presso gli alieni sono fallite poiché non siamo neppure in grado di trattare con gli estranei con cui abbiamo antenati comuni. Ci stiamo frazionando in tanti clade. Dobbiamo lasciar perdere ogni altra cosa e riunirci a un livello più fondamentale.

— Se l’umanità sta andando in pezzi, cosa mai potrà riunirla?

Wells lanciò un’occhiata alla sua videoparete e bloccò un frammento di notizia con l’anello che aveva al dito. — Ha mai sentito parlare dei Livelli Prigoginici di Complessità?

Lindsay provò un tuffo al cuore. — Non sono mai stato forte in metafisica, Wells. Le sue credenze religiose riguardano soltanto lei. Avevo una donna che mi amava e un luogo sicuro dove dormire. Il resto è astrazione.

Wells esaminò la sua parete. I caratteri corsero via in una macchia confusa. Veniva discussa una scandalosa diserzione su Cerere. — Oh, sì, il suo colonnello-professore. Su questo punto non posso aiutarla. Le servirebbe un rapitore per farla uscire di nascosto. Qui non lo troverà di sicuro. Dovrà provare su Cerere o Bettina.

— Mia moglie è una donna testarda. Come lei, ha degli ideali. Soltanto la pace potrà riunirci. Ed esiste soltanto una fonte di pace nel nostro mondo. Quella degli investitori.

Wells scoppiò in una breve risata. — Ancora la stessa linea, capitano-dottore? — D’un tratto si mise a parlare in un esitante investitore. — Il valore della sua argomentazione si è deprezzato.

— Hanno le loro debolezze, Wells. — La sua voce divenne più forte. — Pensa che io sia meno disperato dei cataclisti? Chieda al suo amico Ryumin se so riconoscere le debolezze quando le vedo, o se mi manca la volontà di sfruttarle. La Pace degli Investitori: sì, ci ho messo lo zampino anch’io. Mi ha dato quello che volevo: ero un uomo tutto d’un pezzo. Non può sapere cosa abbia significato per me… — S’interruppe, sudando perfino con quel freddo.

Wells parve scosso. D’un tratto Lindsay si rese conto che quel suo sfogo aveva violato ogni regola diplomatica. Quel pensiero lo riempì d’una selvaggia soddisfazione. — Lei conosce la verità, Wells. Siamo stati pedine degli investitori per anni. È giunto il momento di ribaltare la scacchiera.

— Intende attaccare gli investitori? — chiese Wells.

— E che altro, sciocco? Che scelta abbiamo?

Una voce di donna scaturì dalla base della lampada: — Abelard Mavrides, sei in arresto.


La cabina dell’ascensore si chiuse con un sibilo alle loro spalle. La falsa gravità li colpì quando accelerarono verso l’alto. — Metti le mani contro la parete, per favore — disse Greta, in tono cortese. — Sposta i piedi all’indietro.

Lindsay eseguì senza dir nulla. L’ascensore all’antica schioccò rumorosamente lungo i binari disposti sulla parete verticale del Crepaccio di Dembowska. Scivolarono via due chilometri. Greta sospirò. — Devi aver commesso qualcosa di drastico.

— Non è cosa che debba preoccupare te — rispose Lindsay.

— Stando al regolamento, dovrei tagliare i cavi del tuo braccio di ferro. Ma lascerò perdere. Credo che questa sia anche colpa mia. Se ti avessi fatto sentire più a tuo agio, non saresti stato così fanatico.

— Non ci sono armi nel mio braccio — ribatté Lindsay. — Certamente l’hai esaminato mentre dormivo.

— Non capisco questi tuoi acidi sospetti, Bela. Ti ho forse maltrattato in qualche modo?

— Parlami di Zen Serotonina, Greta.

Lei si raddrizzò leggermente. — Non mi vergogno di appartenere al Nonmovimento. Te l’avrei detto, ma noi non facciamo proseliti. Li conquistiamo con l’esempio.

— Molto lodevole. Ne sono sicuro.

Lei corrugò la fronte. — Nel tuo caso avrei dovuto fare eccezione. Mi spiace per il tuo dolore. Ho conosciuto il dolore, un tempo. — Lindsay non replicò. — Sono nata su Themis — proseguì Greta. — Là ho conosciuto dei cataclisti, una delle fazioni mechanist. Erano assassini del ghiaccio. I militari scoprirono una delle loro criocellule, dove stavano corrompendo uno dei miei insegnanti con un biglietto di sola andata per il futuro. Non ho aspettato l’arresto. Sono fuggita su Dembowska.

“Quando arrivai qui, l’Harem mi arruolò. Scoprii che dovevo prostituirmi a Carnassus. Non mi piacque. Ma poi scoprii Zen Serotonina.”

— La serotonina è una sostanza chimica del cervello — disse Lindsay.

— È una filosofia — lo corresse lei. — I Plasmatori, i Mechanist… quelle non sono certo filosofie, sono tecnologie trasformate in politica. Le tecnologie ne sono sempre il nucleo. La scienza ha ridotto a pezzi la razza umana. Quando l’anarchia ha colpito, la gente ha lottato per formare delle comunità. Gli uomini politici hanno scelto dei nemici così da poter legare a sé i loro seguaci con l’odio e il terrore. La comunità non è sufficiente quando mille nuovi modi di vita ammiccano da ogni circuito e provetta. Senza odio non ci sarebbe il Consiglio dell’Anello, né l’Unione dei Cartelli. Nessun conformismo senza la frusta.

— La vita si muove in clade — mormorò Lindsay.

— Quello è Wells con il suo guazzabuglio di fisica e di etica. Quello che ci serve è il nonmovimento, la calma, la chiarezza. — Greta stese il braccio sinistro. — Questo monitor funziona a impulsi energetici discreti dentro il mio braccio. La paura non significa niente per me. Con questo, non c’è niente che io non possa fronteggiare o analizzare. Con lo Zen Serotonina si vede la vita alla luce della ragione. La gente si rivolge a noi, specialmente nei momenti di crisi. Ogni giorno il Nonmovimento conquista nuovi aderenti.

Lindsay pensò alle onde cerebrali che aveva visto sopra il letto della sua casa-sicura.

— Allora ti trovi in permanenza in uno stato alfa?

— Naturalmente.

— Sogni mai?

— Abbiamo la nostra visione. Possiamo vedere le nuove tecnologie che sconvolgono la vita umana. Ci lanciamo in quelle correnti. Forse ciascuno di noi non è altro che una particella. Ma insieme noi formiamo un sedimento che rallenta il flusso. Molti innovatori sono profondamente infelici. Dopo Zen Serotonina perdono il loro stimolo a intromettersi.

Lindsay sorrise truce. — Non è una coincidenza che ti abbiano assegnato al mio caso.

— Tu sei un uomo profondamente infelice. Ti ho causato questo guaio. Il Nonmovimento ha una forte voce nell’Harem. Unisciti a noi. Possiamo salvarti.

— Io ho conosciuto la felicità una volta, Greta. Tu non la conoscerai mai.

— Le emozioni violente non sono il nostro forte, Bela. Noi stiamo cercando di salvare la razza umana.

— Buona fortuna — disse Lindsay. Avevano raggiunto la fine del percorso.


Il vecchio acromegalico fece un passo indietro per ammirare la propria opera. — La cinghia va bene, cane solare? Puoi respirare?

Lindsay annuì.

La morsa-assassina scavava dolorosamente nella base del suo cranio.

— Legge il retrocervello — spiegò il gigante. Gli ormoni della crescita avevano distorto la sua mascella. Aveva un volto da bulldog e la sua voce era impastata. — Ricordati di strisciare i piedi. Niente movimenti improvvisi. Non tentare di muoverti in fretta, e la tua testa rimarrà intera.

— Da quanto tempo fai questo lavoro? — gli chiese Lindsay.

— Quel che basta.

— Fai parte dell’Harem?

Il gigante lo fissò. — Sicuro. — La sua enorme mano avvolse in una stretta l’intero viso di Lindsay. — Hai mai visto uno dei tuoi bulbi oculari? Forse te ne tiro fuori uno. Il Capo potrà fartene innestare un altro.

Lindsay sussultò. Il gigante sogghignò, rivelando dei denti irregolarmente distanziati. — Ho visto altre volte il tuo tipo. Sei un antibiotico plasmatore. Una volta i tipi come te mi hanno imbrogliato. Forse pensi di poter imbrogliare la morsa? Forse pensi di poter uccidere il Capo senza muoverti? Tienti bene a mente che devi passare davanti a me prima di uscire. — Strinse la sommità della testa di Lindsay e lo sollevò staccandolo dal velcro. — O forse pensi che io sia stupido?

Lindsay rispose in giapponese commerciale: — Risparmialo per le puttane, yazuka. O forse a Sua Eccellenza piacerebbe togliermi questa morsa e venire con me mano nella mano.

Il gigante rise, sorpreso, e mise giù Lindsay con cautela. — Mi spiace, amico. Non sapevo che eri uno dei nostri.

Lindsay entrò nella camera di equilibrio. All’interno l’aria aveva il calore del sangue. Sapeva di sudore profumato e dell’odore delle violette. L’incostante gemere d’un sintetizzatore s’interruppe all’improvviso.

La stanza era piena di carne. Era fatta di carne, carne abbronzata e satinata, interrotta qua e là da tappeti di lucidi capelli neri e lampi malva di membrane delle mucose. Ogni cosa era involuta, curva: poltrone da soggiorno, una massa arrotondata simile a un letto di carne, costellata di fori color malva. Il sangue pulsava attraverso un’arteria grossa come un tubo, sotto i suoi piedi.

Un altro congegno incappucciato a forma di lampada si alzò ruotando su un cardine a gomito, dalla pelle liscia. Degli occhi scuri lo osservavano. Una bocca si aprì sulla groppa morbida di uno sgabello accanto a lui. — Togliti quegli stivali di velcro, tesoro: mi fanno il solletico.

Lindsay si sedette. — Sei tu, Kitsune?

— Lo sapevi, quando hai visto i miei occhi nell’ufficio di Wells. — La voce sinuosa usciva dalla parete.

— Non fino a quando non ho visto la tua guardia del corpo, a dire il vero. È passato molto tempo. Mi spiace per gli stivali. — Si sedette e se li tolse, facendo attenzione, nascondendo il suo brivido al sensuale calore della poltrona di carne. — Dove sei?

— Tutt’intorno a te. Ho occhi e orecchi dappertutto.

— Dov’è il tuo corpo?

— L’ho fatto eliminare.

Lindsay sudava. Dopo quattro settimane al freddo di Dembowska, quell’aria riscaldata era soffocante. — Sapevi che ero io?

— Sei il solo che mi abbia lasciato e che m’interessava tenere, tesoro. Era molto improbabile che me ne dimenticassi.

— Te la sei cavata bene, Kitsune — commentò Lindsay, nascondendo il suo terrore sotto un improvviso assalto di discipline semidimenticate. — Grazie per aver ucciso l’antibiotico.

— È stato facile — rispose. — Ho finto che fossi tu. — Esitò. — La Banca Geisha ha creduto al tuo inganno. Sei stato premuroso a portar via la testa della yarite.

— Volevo farti un regalo di commiato — replicò Lindsay, cauto. — Di un potere assoluto. — Fissò le lisce masse di carne. Non c’era un viso da nessuna parte. Dal pavimento e dalle pareti giungeva l’ovattato tambureggiare sincopato d’una mezza dozzina di cuori.

— Eri sconvolto perché volevo più potere di te.

La sua mente partì al galoppo. — Hai guadagnato in saggezza da quei tempi. Sì, lo ammetto. Sarebbe venuto il giorno in cui avresti scelto fra me e le mie ambizioni. E sapevo cosa avresti scelto. Ho sbagliato ad andarmene.

Vi fu silenzio per qualche istante. Poi parecchie delle bocche della stanza si misero a ridere. — Tu sapresti rendere plausibile qualunque cosa, tesoro. Quello era il tuo dono. No, ho avuto molti favoriti da allora. Tu sei stato una buona arma, ma ne ho avute altre. Ti perdono.

— Grazie, Kitsune.

— Puoi considerarti non più in stato di arresto.

— Sei molto generosa.

— Adesso, cos’è questa follia circa gli investitori? Non sai che il sistema adesso dipende da loro? Qualunque fazione che si opponga agli investitori non farebbe altro che tagliarsi la gola da sola.

— Io avevo in mente qualcosa di molto più subdolo. Ho pensato che potremmo convincerli a mettersi gli uni contro gli altri.

— Cosa vorrebbe dire?

— Ricatto.

Alcune delle bocche emisero risatine incerte. — In che forma, tesoro?

— Perversione sessuale.

Gli occhi rotearono sulla loro montatura organica. Lindsay colse l’ampiezza delle loro pupille, il primo indizio cinetico, e seppe di aver colpito nel segno. — Hai le prove?

— Te le consegnerei subito — disse Lindsay — ma questa morsa mi ostacola.

— Toglitela. L’ho neutralizzata.

Lindsay si sfibbiò la morsa-assassina, appoggiandola delicatamente sul bracciolo fremente della poltrona. Poi si diresse, camminando sui calzini, verso il letto. Tirò fuori il videomonocolo da dentro la camicia.

Occhi scuri si aprirono dentro la testiera del letto. Un paio di braccia lisce emersero attraverso morbide fessure pelose. Un braccio prese il monocolo e lo piazzò sopra un occhio. Lindsay disse: — L’ho regolato sull’inizio della sequenza.

— Ma non è l’inizio del nastro.

— La prima parte è…

— Sì — disse lei, glaciale. — Capisco. Tua moglie.

— Sì.

— Non importa. Se fosse venuta con te, le cose avrebbero potuto essere diverse. Ma adesso si è messa contro Constantine.

— Lo conosci?

— Certo. Ha affollato lo Zaibatsu con le vittime delle sue purghe. Nel Consiglio dell’Anello i Plasmatori sono orgogliosi. Non saranno mai disposti a credere che un non pianificato possa far loro fronte, congiura per congiura. Tua moglie è una donna morta.

— Potrebbe esserci…

— Dimenticatene. Hai avuto i tuoi anni di pace. I prossimi appartengono a lui. Ah. — Lei esitò. — Questo è stato girato a bordo di una nave spaziale degli investigatori. Quella che ti ha condotto qui?

— Sì. L’ho filmato io stesso.

— Ahhh. — Il gemito echeggiò di pura sensualità. Uno dei giganteschi cuori della stanza si trovava sotto il letto; le sue pulsazioni accelerarono. — È la loro regina, il loro capitano. Oh, queste femmine degli investitori e le loro regole dell’Harem… che piacere batterne una. Creatura sporcacciona. Oh, che gioia sei, Lin Dze, Mavrides, Milosz.

Lindsay disse: — Il mio nome è Abelard Malcolm Tyler Lindsay.

— Lo so. Constantine me l’ha detto. Ed io l’ho convinto che eri morto.

— Grazie, Kitsune.

— Che significato hanno i nomi per noi? Mi chiamano il Capo della Polizia. È il controllo quello che conta, tesoro, non la facciata. Tu hai ingannato i Plasmatori del Consiglio dell’Anello. I Mechanist sono stati la mia preda. Mi sono trasferita ai Cartelli. Ho osservato, ho aspettato. Poi un giorno ho trovato Carnassus, l’ultimo sopravvissuto della sua missione.

Fece una lieve risata, la risata acuta, saltellante, che un tempo aveva conosciuto così bene. — I Mechanist hanno mandato fuori quanto di meglio avevano. Ma erano troppo forti, troppo rigidi, troppo fragili. La stranezza della cosa li ha infranti, e anche l’isolamento. Carnassus ha dovuto uccidere gli altri due, e si sveglia ancora gridando a causa di questo. Sì. Perfino in questa stanza. La sua compagnia aveva fatto bancarotta. Io ho comperato lui e tutto il suo strano bottino, pescando nel relitto.

— Negli Anelli dicono che è lui, a governare qui.

— Certo che lo dicono: è quello che gli ho detto io. Carnassus appartiene a me. I miei chirurghi ci hanno lavorato sopra. Non c’è un solo neurone in lui che non sia stato distrutto dal piacere. Per lui la vita è semplice: un costante sogno di carne.

Lindsay si guardò attorno. — E tu sei la sua favorita.

— Pensi che tollererei qualcos’altro, tesoro?

— Non t’importa che le altre mogli pratichino lo Zen Serotonina?

— Non m’importa quello che pensano o sostengono di pensare. Obbediscono a me. Non m’interessa l’ideologia. Quello che m’interessa è il futuro.

— Oh.

— Verrà il giorno, quando avremo spremuto tutto quello che potevamo da Carnassus. E i prodotti crionici perderanno la loro patina di novità a mano a mano che la tecnologia si diffonderà.

— Potrebbero volerci molti anni.

— Per ogni cosa ci vogliono anni — replicò lei. — Ed è una questione di anni. La nave con la quale sei arrivato ha lasciato lo spazio circumsolare.

— Ne sei sicura? — chiese Lindsay, afflitto.

— È quello che mi dicono i miei banchi-dati. Chissà quando ritorneranno.

— Non ha importanza. Posso aspettare.

— Vent’anni? Trenta?

— Qualunque tempo ci voglia — disse Lindsay, anche se si sentiva soffocare da questo pensiero.

— A quel punto, Carnassus sarà diventato inutile. Avrò bisogno di una nuova facciata. E cosa potrebbe esserci di meglio di una Regina degli Investitori? È un rischio che vale la pena di correre. Ci lavorerete per me, tu e Wells.

— Naturalmente, Kitsune.

— Avrai tutto l’appoggio che ti serve, ma non sprecare un solo kilowatt cercando di salvare quella donna.

— Cercherò di pensare soltanto al futuro.

— Carnassus ed io avremo bisogno d’una casa-sicura. Quella sarà la nostra priorità.

— Contaci — fece Lindsay. “Carnassus e io” pensò


Cartello Dembowska
14-2-’58

Lindsay studiò gli ultimi documenti comparsi sulla rivista del comitato dei pari. Scorse le pagine dei dati con occhio esperto, divorando gli estratti, schermo-scansionando i singoli paragrafi, mettendo in risalto i peggiori eccessi del gergo tecnico. Lavorava con efficienza, spinto dall’entusiasmo.

Il merito andava a Wells. Wells l’aveva piazzato nel dipartimento della presidenza della Kosmosity. Wells gli aveva affidato la redazione del Giornale degli Studi Exoarcosauriani. La routine si era impadronita di Lindsay. Aveva accolto con piacere le distrazioni dell’amministrazione e della ricerca, che lo derubavano degli agi necessari per soffrire. Dentro il suo ufficio nel Crepaccio, in un exborgo della Kosmosity completato di recente, si spostava sulla sua sedia girevole a bassa gravità, dando la caccia alle voci, adulando, corrompendo, scambiando informazioni. Già il Giornale era diventato la più grande banca-dati sugli investitori non coperta da segreto, e intorno ai suoi “file” riservati crescevano come funghi le congetture e lo spionaggio. Lindsay era al centro, lavorando con l’energia di un giovane e la pazienza dell’età.

Nei cinque anni trascorsi dall’arrivo di Lindsay su Dembowska, aveva visto Wells diventare sempre più forte. In assenza di una ideologia di stato, l’influenza di Wells e della sua Congrega del Carbonio si era diffusa a tutta la colonia, inglobando l’arte, i media e la vita accademica.

L’ambizione era un vizio endemico fra Wells e quelli del suo gruppo. Lindsay si era unito alla Congrega senza troppo entusiasmo. Vicino a loro, comunque, era rimasto contagiato dai loro progetti come se fossero batteri locali. E anche dalla loro moda: i suoi capelli erano lisci e brillantinati, e i suoi baffi intagliati così da far posto a un microfono adesivo da labbro grande come un chicco. Portava anelli per il controllo video alle dita raggrinzite della mano sinistra.

Il lavoro divorava gli anni. Una volta il tempo gli era parso concreto, denso come il piombo. Adesso, scivolava via tra le sue mani. Lindsay si accorgeva che la sua percezione del tempo stava lentamente arrivando a uguagliare quella dei plasmatori anziani che aveva conosciuto a Goldreich-Tremaine. Per quelli davvero vecchi, il tempo era sottile come l’aria, un vento tagliente e distruttivo che cancellava il loro passato e aggrediva i loro ricordi. Il tempo stava accelerando. Per lui, niente avrebbe potuto rallentarlo se non la morte. Sentiva il sapore della verità, ed era amaro come l’anfetamina.

Riportò la sua attenzione sul documento. La rivalutazione d’un celebrato frammento di squama d’investitore trovato fra i resti d’una fallita ambasciata mechanist interstellare. Pochi frammenti di materia erano mai stati esaminati in maniera tanto esauriente. Il documento, “Gradienti Prossimi e Remoti nell’Adesività Epidermica della CeUula”, veniva da un plasmatore disertore nel Cartello Diotima.

La sua scrivania suonò. Il suo visitatore era arrivato.

I discreti servizi di sorveglianza nell’ufficio di Lindsay mostravano il tocco caratteristico di Wells. Al visitatore era stata data un’elegante coroncina, evolutasi dalla assai più sgraziata morsa-assassina. Una minuscola luce rossa, non visibile all’ospite stesso, brillava sulla fronte dell’uomo. Indicava un punto potenziale d’impatto per le armi opportunamente nascoste nel soffitto.

— Professor Milosz? — L’abito del visitatore era strano: indossava un bianco vestito di foggia ufficiale, con un colletto aperto a forma di anello e gomiti e ginocchi a fisarmonica.

— Lei è il dottor Morrissey? Della Concatenazione?

— Della Repubblica del Mare della Serenità — rispose l’uomo. — Mi manda il dottor Pongpianskul.

— Pongpianskul è morto — disse Lìndsay.

— Così dicono. — Morrissey annuì. — Ucciso per ordine del Presidente Constantine. Ma il dottore aveva amici nella Repubblica: tanti amici che ora è lui a controllare la nazione. Il suo titolo è Custode, e la nazione è rinata come Repubblica Culturale Neotecnica. Io sono l’Araldo della Rivoluzione. — Esitò. — Forse dovrei lasciare che sia il dottor Pongpianskul a raccontarlo.

Lindsay era stupefatto. — Forse dovrebbe farlo.

L’uomo esibì una videotavoletta e la collegò alla sua valigetta. Porse a Lindsay la tavoletta, che si animò con un guizzo. Mostrava un volto: quello di Pongpianskul. Pongpianskul si spazzolò le trecce, scarmigliandole con le mani coriacee e rugose. — Abelard, come stai?

— Neville! Sei vivo.

— Sono ancora un inquilino della carne, sì. La valigetta di Morrissey è programmata con un sistema specialistico interattivo. Dovrebbe poter condurre un’accettabile conversazione con te, in mia assenza.

Morrissey si schiarì la gola. — Queste macchine sono nuove per me. Penso, comunque, che dovrei lasciare che voi due parliate in privato.

— Forse sarebbe meglio.

— Aspetterò nell’atrio.

Lindsay seguì con lo sguardo l’uomo mentre si ritirava. I vestiti di Morrissey lo sbalordivano. Lindsay non ricordava di essersi mai vestito in quel modo nella Repubblica.

Studiò lo schermo sulla tavoletta. — Sembri proprio in forma, Neville.

— Grazie. Ross ha arrangiato il mio ultimo ringiovanimento. Fatto dai cataclisti. Lo stesso gruppo che ha trattato te, Mavrides.

— Trattato me? Mi hanno messo sotto ghiaccio.

— Sotto ghiaccio? È strano. I cataclisti mi hanno svegliato. Non mi sono mai sentito tanto vivo come quand’ero nella Repubblica, fingendo di essere morto. Sono stati dieci lunghi anni, Abelard. Undici, forse. — Pongpianskul scrollò le spalle.

Lindsay sbirciò la tavoletta. L’immagine non reagì, e il fascino sfumò. Lindsay riprese, lentamente: — Così, hai attaccato la Repubblica. Tramite la rete del terrore dei cataclisti.

La tavoletta esibì il sorriso di Pongpianskul. — I cataclisti hanno avuto la loro parte nella faccenda, lo ammetto. Tu avresti saputo apprezzarlo, Mavrides. Ho giocato sull’elemento giovanile. C’era un gruppo politico chiamato dei preservazionisti, che risaliva a… sì… quaranta o cinquanta anni prima. Constantine li aveva usati per conquistare il potere, ma essi detestavano i Plasmatori con la stessa intensità con cui detestavano i Mech. Quello che volevano, in sostanza, per quanto buffo possa sembrare, era una vita umana. Adesso c’è una nuova generazione di loro allevata sotto l’influenza dei Plasmatori che loro odiano. Ma grazie alla politica procreativa dei Plasmatori, i giovani hanno la maggioranza.

Pongpianskul rise. — Constantine ha usato la Repubblica come un deposito per i Plasmatori militanti. Qui ha trasformato le cose in una confusione di sotterfugi. Quando la guerra si è surriscaldata, i militanti sono tornati di corsa al Consiglio dell’Anello e, al loro posto, i cataclisti superintelligenti si sono nascosti qui. Constantine aveva trascorso troppo tempo negli anelli, e ha perso il contatto… Ai cataclisti piace il mio concetto di riserva culturale. È tutto scritto nella nuova costituzione. Il mio messaggero te ne darà una copia.

— Grazie.

— Le cose non sono andate troppo bene per il resto della Congrega di Mezzanotte. È passato troppo tempo da quando abbiamo parlato l’ultima volta. Ti ho rintracciato tramite la tua ex moglie.

— Alexandrina?

— Cosa? — Il sistema programmato era confuso. L’immagine tremolò per una frazione di secondo. — C’è voluto non poco per riuscirci. Nora è sotto stretta sorveglianza.

— Un momento. — Lindsay si alzò dalla sedia e si versò da bere. Una cascata di ricordi della Repubblica lo aveva investito, e aveva pensato automaticamente alla sua prima moglie, Alexandrina Tyler. Ma naturalmente lei non si trovava nella Repubblica. Era stata vittima della purga di Constantine, spedita nello Zaibatsu.

Tornò allo schermo. Questo disse: — Ross se n’è partito con i cometari quando Goldreich-Tremaine è crollata. Sigmund Fetzko si è dissolto. Vetterling si trova nella Skimmers Union, a leccare i piedi ai fascisti. Gli assassini del ghiaccio hanno preso Margaret Juliano. Sta ancora aspettando di venir scongelata. Io qui detengo il potere, Mavrides. Ma questo non può compensare quello che abbiamo perduto.

— Come sta Nora? — chiese Lindsay.

Il facsimile di Pongpianskul assunse un’aria grave. — Combatte Constantine là dove è più forte. Se non fosse per lei, il mio colpo qui sarebbe fallito; lei lo ha distratto… Avevo sperato di riuscire ad attirarla qui, e anche te. È sempre stata così brava con noi. La nostra ospite di prima grandezza.

— Non è voluta venire.

— Si è risposata.

Il bicchiere a fessura si ruppe nella mano di ferro di Lindsay. Globi di liquore andarono alla deriva verso il pavimento.

— Per ragioni politiche — continuò lo schermo. — Ha bisogno di qualunque alleato riesca a trovare. Che tu ti unissi a me sarebbe stato comunque difficile. A nessuno più vecchio dei sessanta è permesso di vivere nella Repubblica Culturale Neotecnica. Salvo per me e i miei ufficiali.

Lindsay strappò il cavo dalla tavoletta. Aiutò il piccolo servo-robot dell’ufficio a raccogliere i frammenti di vetro.

Quando tornò a chiamare Morrissey, molto più tardi, l’uomo era esitante. — Ha finito completamente, signore? Mi è stato detto di cancellare la tavoletta.

— È stato gentile da parte sua portarla. — Lindsay indicò una poltrona. — Grazie per aver aspettato così a lungo.

Morrissey cancellò il ricordo del costrutto e mise la tavoletta nella sua valigetta. Studiò il volto di Lindsay. — Spero di non averle portato cattive notizie.

— È stupefacente — replicò Lindsay. — Forse dovremmo bere qualcosa per celebrare.

Un’ombra attraversò il volto di Morrissey.

— Mi perdoni — si corresse Lindsay. — Forse non ho dato una gran prova di tatto. — Mise via la bottiglia. Non ne restava molto.

— Ho sessant’anni — disse Morrissey. Si sedette, a disagio. — Così, mi hanno estromesso. Oh, sono stati molto gentili. — Ebbe un sorriso sofferente. — Un tempo ero un preservazionista. Avevo diciotto anni all’atto della prima rivoluzione. È ironico, non è vero? Adesso sono un cane solare.

Lindsay replicò, cauto: — Non sono senza potere, qui. E non sono senza fondi. Dembowska accoglie molti profughi. Posso trovarle una stanza.

— Lei è molto gentile. — Il volto di Morrissey si era irrigidito. — Ho lavorato come biologo, ai guai ecologici della nazione. Il dottor Constantine mi ha addestrato. Ma temo di essere parecchio indietro rispetto ai tempi.

— A questo si può rimediare.

— Ho portato un articolo per il suo Giornale.

— Ah. È interessato agli investitori, dottor Morrissey?

— Sì. Spero che il mio articolo sia all’altezza dei vostri standard.

Lindsay si costrinse a sorridere. — Ci lavoreremo sopra insieme.

7

Consiglio di Stato
della Skimmers Union
13-5-’75

Lo sentiva arrivare, sentiva che gli strisciava sulla nuca in una zona di tremolante tensione subepidermica. Una condizione simile a una fuga di Bach. La scena davanti a lui tremò leggermente. La folla sotto il palco privato divenne un fregio confuso di teste compatte sullo sfondo degli addobbi scuri, il palcoscenico incurvato con gli attori in costume, rosso scuro, vivido, un gesto. Rallentò… s’immobilizzò.

Paura… no, neppure quella, esattamente… una certa tristezza, adesso che il dado era stato lanciato. L’inferno era l’attesa… Aveva aspettato sessant’anni per riprendere i suoi vecchi contatti. I vecchi radicali testa-di-cavo della Repubblica… Adesso capi dei testa-di-cavo come lui, si erano fatti strada fino al potere nei mondi esterni. Sessant’anni non erano niente per una mente sui cavi… il tempo non significava niente… stati di fuga… Lo ricordavano ancora molto bene, il loro amico, Philip Khouri Constantine…

Era stato lui a scatenarli, epurando gli aristocratici di mezza età per finanziare la diserzione dei testa-di-cavo… I ricordi risalirono al passato; erano dati, questo era tutto, da qualche parte, altrettanto freschi sulle bobine quanto lo era il nemico. Margaret Juliano sul suo letto di ghiaccio cataclista… Perfino nel mezzo della fuga l’impeto della soddisfazione era abbastanza veloce e acuto da penetrargli nella coscienza dal cervello posteriore… Quella sensazione di calore assolutamente unica che proveniva soltanto dalla caduta di un rivale…

Adesso, trascinandosi pigramente dietro ai suoi galoppanti pensieri, il lento sbocciare d’un prurito di paura… Nora Everett, la moglie di Abelard Mavrides… L’aveva danneggiato diciassette anni prima con il colpo di stato nella Repubblica, malgrado lui fosse riuscito a invischiarla nelle accuse di tradimento… Adesso quella Repubblica di latta non lo riguardava più. I suoi cittadini bambini, ostinatamente ignoranti, facevano volare gli aquiloni e mangiavano mele sotto lo sguardo folle, da ciarlatano, del dottor Pongpianskul… Là non c’era nessun problema, il futuro li avrebbe ignorati, erano fossili viventi, di per sé innocui…

Ma i cataclisti… adesso la paura stava prendendo forma, cominciava a fiorire, le prime forme vaghe d’inquietudine che si erano manifestate adesso assumevano una sostanza emotiva, srotolandosi attraverso la sua consapevolezza come una goccia d’inchiostro che fluisse dentro un bicchier d’acqua… Si sarebbe preoccupato delle sue emozioni più tardi, una volta che la fuga fosse finita; adesso lottava per chiudere gli occhi… aveva perso la messa a fuoco, la macchia confusa d’una lacrima rendeva indistinti gli attori immobilizzati; le sue palpebre si stavano chiudendo con una lentezza da incubo, gli impulsi nervosi venivano confusi dalla galoppante fuga della coscienza… I cataclisti, però… Loro lo consideravano tutto come un immenso scherzo, si divertivano a nascondersi nella Repubblica travestiti da plebei e contadini, l’immenso panorama interno di quel mondo cilindrico era bizzarro per loro come una dose residua della loro droga favorita, PDKL-95… La tipica mente di un assassino del ghiaccio, con il suo biglietto di sola andata per il futuro…

La fuga stava per interrompersi. Avvertì una strana sensazione di sconvolgimento fisico, come di qualcosa che s’incrinava, con la crosta mentale che cedeva davanti all’ondata. Negli ultimi microsecondi della fuga, un lampo eidetico s’impadronì di lui, fotografie della superficie di Titano fatte dai ricognitori, rosse piattaforme vulcaniche d’idrocarburi pesanti fratturate dalla lava di ammoniaca, che eruttavano dalle viscere del suolo… da Titano, molto al di sotto della loro orbita, la principale decorazione delle pareti della Skimmers Union.

Finito. Constantine si sporse in avanti sul sedile del suo palco, schiarendosi la gola. La paura ritardata lo investì; la spinse via, bruscamente, prese una leggera sniffata di acetaminofene per evitare l’emicrania. Lanciò un’occhiata al proprio orologio da polso attraverso le ciglia umide. Quattro secondi di fuga.

Si sfregò gli occhi, divenne conscio di sua moglie seduta accanto a lui, il suo volto da plasmatrice, finemente cesellato, era uno studio di espressione sorpresa. Era consapevole che lui era rimasto seduto, rapito, per quattro secondi, con gli occhi che mostravano soltanto un orlo di bianco. No. Pensava che fosse rimasto colpito dalla recita, ed era sorpresa di vedere quell’eccesso di emozione nel suo ferreo marito. Constatine la gratificò d’un sorriso. Il suo colorito si accentuò; si sporse in avanti sulla sedia, con le mani ingioiellate in grembo, mettendosi a studiare con attenzione la recita. Più tardi avrebbe cercato di discuterne con lui. Natalie Constantine era giovane e intelligente, la rampolla di una linea genetica militare. Si era abituata alle sue esigenze.

Non come la sua prima moglie, quella cagna traditrice… Aveva lasciato la vecchia aristocratica nella Repubblica, avendo nutrito con pazienza la sua viziosa tendenza, fino a quando il suo colpo di stato gli aveva permesso di rivolgerle contro i suoi pari. Adesso correva voce che fosse l’amante di Pongpianskul, conquistata dal fraudolento fascino plasmatore e dalla degradata intimità senile. Non aveva importanza, non aveva importanza. I lunghi anni trascorsi avevano smorzato il dolore; il colpo di stanotte, se ci fosse stato, era più importante di qualunque banchina circumlunare.

Vera, sua figlia di nove anni, si sporse dal suo sedile per bisbigliare qualcosa a Natalie. Constantine fissò la bambina da lui modellata. La metà dei suoi genetici erano di Vera Kelland, estratti da squame della pelle che lui le aveva prelevato prima che si suicidasse. Per anni aveva conservato quei geni rubati, e quando il tempo era stato maturo, li aveva fatti germogliare in quella bambina. Lei era la sua favorita, la prima della sua progenie. Quando pensava a come il proprio fallimento avrebbe potuto condannarla, avvertiva di nuovo la paura più forte di prima, poiché adesso non riguardava lui.

Un gesto stravagante dal palcoscenico attirò la sua attenzione, il breve turbinio d’una azione artificiosa, quando il demente superintelligente che faceva la parte del cattivo si strinse la testa e crollò al suolo. Constantine si grattò furtivamente la caviglia con la suola del suo guanto-piede. Nel corso degli anni i virus della sua pelle erano migliorati, limitandosi a sfoghi secchi di fuoco di Sant’Antonio alle estremità.

Veniva rappresentato uno dei lavori di Zeuner, e lui lo trovava noioso. La Skimmers Union aveva preso l’abitudine di Goldreich-Tremaine, alimentata da drammaturghi fuggiti dall’azzoppata ex capitale. Ma il teatro moderno era senza vita. Fernand Vetterling, per esempio, autore di La Periapsi Bianca e del Consigliere Tecnico, languiva in un arcigno silenzio con la moglie Mavrides caduta in disgrazia. Altri artisti con tendenze detentiste adesso pagavano le loro indiscrezioni con multe o arresti domiciliari. Alcuni avevano disertato, altri erano “passati al lavoro ridotto” per unirsi alle brigate di azioni catacliste durante i turni di lavoro nel cimitero.

Ma i cataclisti stavano perdendo la loro coesione, diventando puri e semplici terroristi. La loro élite superintelligente soffriva di pesanti attacchi. Il pogrom dei superintelligenti diventava sempre più capillare a mano a mano che cresceva l’isterismo. I loro promotori ed educatori erano adesso nonpersone politiche, molti caduti vittime della contorta vendetta degli stessi superintelligenti.

I superintelligenti erano troppo brillanti per la comunità; esigevano l’anarchia dei superuomini capace di squassare un mondo. Ciò non poteva essere tollerato. E Constantine aveva servito quell’intolleranza. Ma la vita si era prospettata migliore per lui: un alto incarico, una propria linea genetica, mano libera per l’avventurismo anti-mech, e le proprie reti spinate pronte a scattare in caso di slealtà.

E stasera aveva rischiato tutto. La sua notizia sarebbe mai arrivata? Come l’avrebbe sentita? Dalle sue guardie del corpo, attraverso l’auricolare. Attraverso l’impianto mech rubato che aveva nel cervello, il quale apriva dei canali interni sintonizzati sul sottile bisbiglio di dati delle teste-di-cavo. Oppure…

Stava accadendo qualcosa. Lo striscione coreografico che ondeggiava sul palcoscenico ricurvo si disintegrò in una improvvisa confusione, lo stemma colorato corporativo e l’insegna della linea genetica rallentarono e si aggrovigliarono. I danzatori si ritrassero in un moto caotico in risposta agli ordini che gli venivano urlati. Qualcuno stava galleggiando fino all’orlo del podio. Era l’infelice Charles Vetterling, il suo volto invecchiato gonfio del trionfo e della boria di un lacché.

Ecco. Era questo che aspettava. Vetterling stava urlando. Il primo attore della commedia gli porse un microfono da gola. La voce di Vetterling ruggì d’un tratto in un sordo rumore di feedback:

— … della Guerra! I mercati mech sono in preda al panico. L’asteroide Nysa si è schierato con il Consiglio dell’Anello! Ripeto: il cartello Nysa ha abbandonato l’Unione Mechanist! Hanno chiesto di essere ammessi come uno Stato del Consiglio dell’Anello, secondo il Trattato! Il Consiglio è in riunione… — Le sue parole vennero soffocate dal fragore del pubblico, lo sferragliare delle fibbie mentre si disimpegnavano dai loro sedili e si alzavano in preda alla confusione. Vetterling lottò con il microfono. Scampoli delle sue parole irruppero sopra il baccano: — … Capitolazione tramite le banche della Skimmers Union… industriale… nuova vittoria!

Cominciò fra gli attori. Il primo attore indicava, sopra le teste del pubblico, il palco di Constantine, gridando con forza verso il resto del cast. Una delle donne cominciò ad applaudire. Poi l’applauso si diffuse: tutto il cast stava applaudendo, i loro volti erano illuminati. Vetterling li sentì alle sue spalle e si voltò a guardare. Afferrò subito la situazione, e un rigido sorriso si allargò sul suo volto. Puntò il dito in un gesto drammatico. — Constantine! — urlò. — Signori e Signore, il Cancelliere Generale!

Constantine si alzò in piedi, stringendo la balaustra di ferro dietro allo scudo trasparente. Quando lo videro, la folla esplose, un maelstrom in caduta libera di grida e applausi. Sapevano che era il suo trionfo. La gioia della cosa li sopraffaceva, la breve brillante liberazione dalla buia tensione della guerra. Se lui avesse fallito, l’avrebbero cacciato e ucciso con la stessa passione. Ma quella oscura cognizione era stata infranta dalla vittoria. Giacché aveva vinto, adesso il rischio che aveva corso serviva soltanto ad acuire la sua delizia.

Si girò verso sua moglie. I suoi occhi traboccavano di lacrime d’orgoglio. Lentamente, senza lasciare la balaustra, tese le mani verso di lei. Quando le loro dita si toccarono, lesse sul suo viso e vide la verità. Da quella sera in avanti il suo dominio su di lei sarebbe stato totale.

Lei prese posto accanto a lui. Vera lo tirò per la manica, gli occhi spalancati. La sollevò cullandola nel braccio sinistro. Le sfiorò le orecchie con le labbra.

— Ricordalo — le bisbigliò con forza.

Le grida anarchiche si spensero mentre un altro ritmo si diffondeva… era il ritmo dell’applauso, il lungo, rituale applauso cadenzato che seguiva ogni sessione dello stesso Consiglio dell’Anello, un applauso senza tempo, solenne, avvolgente, che non tollerava nessun dissenso. La musica del potere. Constantine sollevò la mano della propria moglie sopra le loro teste e chiuse gli occhi.

Era il momento più felice di tutta la sua vita.


Cartello Dembowska
15-5-’75

Lindsay stava suonando le tastiere per esercitare il suo nuovo braccio. Questo era assai più progredito di quello vecchio, e la sottile discriminazione dei suoi segnali nervosi lo confondeva. Mentre suonava la composizione, una di quelle di Kitsune, sentì ciascun tasto ticchettare verso il basso con una breve sensazione ovattata d’intenso calore.

Si riposò, sfregandosi le mani. Una sensazione di prurito, come quello prodotto da tante punte di spillo, gli correva lungo i cavi. La nuova mano era crivellata di sensori uso-polpastrelli. Reagivano in maniera assai più efficace dei cuscinetti a retroazione del suo vecchio braccio.

Il cambiamento l’aveva irritato. Guardò intorno a sé il suo appartamento desolato. In ventidue anni era stato per lui soltanto un posto in cui accamparsi. Lo stile dell’appartamento, con la carta da parati a coste e le seggiole scheletriche, era datato di almeno vent’anni. Soltanto i sistemi di sicurezza, gli ultimissimi di Wells, avevano un tocco alla moda.

Lindsay stesso era diventato stantio. A novant’anni i solchi segnavano i suoi occhi e la sua bocca, a causa di decenni di espressione abituale. I capelli e la barba erano spruzzati di grigio.

Stava improvvisando, alla tastiera. Aveva affrontato il problema della musica nella sua solita inumana fermezza. Per anni aveva lavorato duramente per uccidersi, ma le moderne tecniche di biomonitoraggio prevedevano ogni singolo guasto imminente, prevenendolo molto prima del tempo. Il letto si occupava di ciò, alimentandolo con lampeggiamenti sotterranei di sogni intensi che ogni mattina lo lasciavano svuotato, ma in perfetta salute mentale.

Erano passati diciotto anni da quando sua moglie si era risposata. Il dolore di questo evento non l’aveva mai completamente lasciato. Aveva conosciuto brevemente, nel Consiglio, il suo attuale marito, Graham Everett, uno sbiadito detentista con importanti collegamenti di clan. Nora aveva usato l’influenza di Everett per parare gli attacchi dei militanti. Era triste: Lindsay non ricordava abbastanza bene quell’uomo da riuscire a odiarlo.

I segnali di allarme interruppero la sua suonata. Qualcuno era arrivato nel suo atrio d’ingresso. I sensori gli assicuravano che il visitatore, una donna, portava addosso soltanto degli innocui impianti mechanist: microrobot arteriali raschiaplacche, rotule in teflon di vecchio tipo, nocche di plastica, un dotto poroso per la droga nel cavo del gomito sinistro. La maggior parte dei suoi capelli erano artificiali, fili impiantati di lucide fibre ottiche.

Fece scortare la donna fin dentro la sua stanza dal servorobot della sua casa. La donna aveva la strana carnagione comune a molte altre donne mechanist: una pelle liscia, senza difetti come una maschera di carta perfettamente sagomata. I suoi capelli rossi erano venati di sprazzi ramati di luce che scaturivano dalle fibre ottiche. Indossava un vestito grigio, senza maniche, un panciotto di pelliccia, e guanti termici bianchi lunghi fino al gomito. — Revisore Milosz?

Aveva un accento della Concatenazione. La fece accomodare sul divano. Si sedette con grazia. Ogni suo movimento era affinato dall’età fino ad arrivare a un’assoluta precisione. — Sì, Madame. Cosa posso fare per lei?

— Mi perdoni l’intrusione, Revisore. Mi chiamo Tyler, sono impiegata alla Limonov Crionici. Ma il motivo per cui sono venuta qui è personale. Sono venuta a chiedere il suo aiuto. Ho sentito parlare della sua amicizia con Neville Pongpianskul.

— Lei è Alexandrina Tyler. — Lindsay se n’era reso conto a voce alta. — Dal Mare della Serenità. La Repubblica.

Lei parve sorpresa e sollevò le sopracciglia sottili, arcuate. — Lei conosce già il mio caso, Revisore?

— Lei… — Lindsay si sedette sulla poltrona a staffe — … forse gradisce qualcosa da bere. — Era la sua prima moglie. Da qualche livello profondamente sepolto sentì agitarsi, di riflesso, una persona morta da lungo tempo, lo strato friabile di falsi movimenti istintivi che aveva posto fra loro durante il matrimonio. Alexandrina Tyler, sua moglie, la cugina di sua madre.

— No, grazie — lei disse. Si aggiustò il tessuto sopra il ginocchio; si era fatta inserire il teflon quand’era ancora nella Repubblica.

Quel gesto familiare portò a galla i ricordi: la politica matrimoniale degli aristocratici della Repubblica. Era stata più vecchia di lui di cinquant’anni, il loro matrimonio una rete soffocante di cortesia piena di tensione e cupa ribellione. Adesso Lindsay aveva novant’anni, più vecchio di quanto fosse stata lei al momento del loro matrimonio. Da una nuova prospettiva che si abbatté su di lui come un’ondata, poteva assaporare il dolore da lungo tempo dimenticato che le aveva causato.

— Sono nata nella Repubblica — lei riprese. — Ho perso la mia cittadinanza durante le epurazioni dei Plasmatori, quasi cinquant’anni fa. Amavo la Repubblica, Revisore. Non l’ho mai dimenticata… Io, venivo da una delle famiglie privilegiate, ma ho pensato, forse adesso, dal momento che il nuovo regime instaurato laggiù si è stabilizzato, certamente tutta quella è acqua passata, no?

— Lei era la moglie di Abelard Lindsay.

I suoi occhi si spalancarono. — Dunque lei conosce il mio caso. Sa che ho fatto domanda di emigrare. Non ho ricevuto nessuna risposta dal governo di Pongpianskul. Sono venuta a chiedere il suo aiuto, Revisore. Non sono un membro della sua Congrega del Carbonio, ma conosco il suo potere. Avete un’influenza che aggira le leggi.

— La vita dev’essere stata difficile per lei, Madame. Buttata fuori, senza risorse, nella Matrice Disaggregata.

Lei ammiccò più volte, le palpebre bianche come porcellana le scesero sugli occhi come tapparelle di carta. — Le cose non sono poi andate tanto male da quando ho raggiunto i cartelli. Ma non posso fingere di aver conosciuto la felicità. Non ho dimenticato la mia casa, gli alberi, i giardini.

Lindsay intrecciò le dita ignorando la confusa sensazione di prurito che gli veniva dalla mano destra. — Non posso incoraggiare false speranze, Madame. La legge neotecnica è molto rigorosa. La Repubblica non ha nessun interesse in quelli della nostra età, quelli che in qualunque maniera si siano estraniati, allo stato brado, dall’umanità. È vero che ho trattato alcune faccende per il governo neotecnico. Queste riguardavano il reinsediamento di cittadini neotecnici che avevano raggiunto l’età di sessant’anni. “Morire dentro il mondo” lo chiamano loro. Il flusso dell’emigrazione è rigorosamente a senso unico, mi spiace molto.

Lei rimase silenziosa per un momento. — Conosce bene la Repubblica, Revisore? — Il tono con cui aveva parlato gli disse che aveva accettato la sconfitta. Adesso stava dando la caccia ai ricordi.

— Quel tanto per sapere che la moglie di Abelard Lindsay è stata diffamata. Là, il suo defunto marito è considerato un martire preservazionista. Lei invece viene descritta come una collaboratrice dei Mechanist, che ha spinto Lindsay all’esilio e alla morte.

— È terribile. — I suoi occhi si riempirono di lacrime. Si alzò in piedi tutta agitata. — Mi spiace moltissimo. Posso usare il suo biomonitor?

— Le lacrime non mi allarmano, Madame — le disse Lindsay, con voce gentile. — Io non sono uno Zen Serotonista.

— Mio marito… — lei proseguì. — Era un ragazzo così intelligente! Pensavamo di far bene, quando l’abbiamo mandato dai Plasmatori con una borsa di studio. Non ho mai capito quello che gli hanno fatto, ma è stato orribile. Ho cercato di fare in modo che il nostro matrimonio funzionasse. Ma lui era così abile, così conciliante e plausibile, da riuscire ad alterare qualunque cosa io dicessi o facessi, per usarla a qualche altro scopo. Terrorizzava gli altri. Loro giuravano che avrebbe lacerato il nostro mondo. Non avremmo mai dovuto mandarlo dai Plasmatori.

— Sono certo che a quell’epoca è parsa una decisione giusta — disse Lindsay. — La Repubblica era già nell’orbita dei Mechanist, e loro volevano ristabilire l’equilibrio.

— Allora non avrebbero dovuto farlo al figlio di mia cugina. C’era plebe in abbondanza da mandare, gente come Constantine. — Portò una nocca alle labbra. — Sono spiacente. È un pregiudizio aristocratico. Mi perdoni, Revisore, sono sconvolta.

— Capisco — replicò Lindsay. — Per quelli della nostra età, i vecchi ricordi possono arrivare con intensità insospettata. Sono molto spiacente, Madame. Lei è stata trattata ingiustamente.

— Grazie, signore. — Accettò un fazzoletto di carta dal servorobot. — La sua comprensione mi tocca profondamente. — Si asciugò gli occhi con movimenti precisi, simili a quelli d’un uccello. — Mi pare quasi di conoscerla.

— Uno scherzo della memoria — disse Lindsay. — Un tempo sono stato sposato a una donna molto simile a lei.

I loro sguardi s’intrecciarono lentamente. Molto venne detto al di sotto del livello delle parole. La verità emerse fugacemente, venne ammessa, e poi sparì sotto la necessità del sotterfugio.

— Questa moglie — lei disse, il volto arrossato. — Non l’ha accompagnato nel suo viaggio fin qui?

— Il matrimonio a Dembowska è una situazione diversa — rispose Lindsay.

— Io sono stata sposata qui. Un contratto matrimoniale di cinque anni. Poligamo. È scaduto lo scorso anno.

— Attualmente è disimpegnata?

Lei annuì. Lindsay indicò la stanza con un ronzio della mano destra. — Anch’io. Può vedere lo stato della mia vita domestica. La mia carriera ha reso la mia vita piuttosto arida.

Lei sorrise titubante.

— Sarebbe interessata alla direzione della mia casa? Un posto di assistente-revisore le renderebbe assai più della sua posizione attuale, credo.

— Sono sicura di sì.

— Diciamo sei mesi come periodo di prova per un contratto di cinque anni di direzione congiunta, termini standard, monogamo? Posso far stampare un contratto al mio ufficio entro domattina.

— Questo è piuttosto improvviso.

— Sciocchezze, Alexandrina. Alla nostra età, se rimandiamo le cose, non concluderemo mai niente. Cosa sono cinque anni per noi? Abbiamo raggiunto l’età della discrezione.

— Posso avere quel bicchierino? — lei chiese. — Non fa bene al mio programma di manutenzione, ma penso di averne bisogno. — Lo guardò nervosa, il fantasma d’una forzata intimità si stava svegliando dietro i suoi occhi.

Lindsay fissò la sua pelle, liscia come la carta, la friabile precisione della sua capigliatura. Si rese conto che il suo atto di espiazione avrebbe aggiunto un altro gesto meccanico alla sua vita, una nuova forma di routine. Trattenne un sospiro. — Lascio a te stabilire la nostra causa della sessualità.


Consiglio di Stato
della Skimmers Union
26-3-’83

Constantine guardò dentro il serbatoio. Dietro la finestra di vetro, sotto la superficie dell’acqua, c’era la testa impregnata di Paolo Mavrides. I capelli scuri e ricci, uno dei tratti maggiormente caratteristici della linea genetica dei Mavrides, gli galleggiavano inzuppati intorno alle spalle e al collo. Gli occhi erano aperti, verdastri e iniettati di sangue. Le iniezioni gli avevano paralizzato il nervo ottico. Una morsa spinale gli permetteva di percepire ma non di muoversi. Cieco e sordo, intorpidito dall’acqua riscaldata dal sangue, Paolo Mavrides si trovava in isolamento sensorio da due settimane.

Veniva alimentato a ossigeno grazie a un’inserzione tracheale. Delle flebo gli impedivano di morire di fame.

Constantine toccò un interruttore nero sul serbatoio saldato e gli improvvisati altoparlanti entrarono in funzione. Il giovane assassino stava parlando fra sé, una litania borbottata con voci diverse. Constantine parlò nel microfono: — Paolo.

— Ho da fare — disse Paolo. — Torno dopo.

Constantine ridacchiò. — Molto bene. — Batté sul microfono per riprodurre il rumore d’un interruttore che scattava.

— No, aspetta! — disse subito Paolo. Constantine sorrise a quella traccia di panico. — Non importa. La recita è comunque rovinata. Le Lune del Pastore di Vetterling.

— Sono anni che non c’è una recita — replicò Constantine. — Allora dovevi essere soltanto un bambino.

— L’ho memorizzata quando avevo nove anni.

— Sono molto impressionato dalle tue risorse. Comunque i cataclisti ci credono, no? Saggiare il mondo interiore della volontà… Sei là dentro da un bel po’. Da un bel po’.

Vi fu silenzio. Constantine aspettò.

— Da quanto tempo? — sbottò infine Mavrides.

— Quasi quarantott’ore.

Mavrides esplose in una breve risata.

Constantine si unì alla risata. — Naturalmente noi sappiamo che non è così. No, è passato quasi un anno. Ti sorprenderebbe vedere quanto sei magro.

— Dovresti provarci una volta o l’altra. Potrebbe aiutare i tuoi problemi di pelle.

— Quella è la minore delle mie difficoltà, giovanotto. Ho commesso un errore tattico quando ho scelto la miglior sicurezza possibile. Ha rappresentato una sfida per me. Ti sorprenderebbe sapere quanti sciocchi si sono trovati in questo serbatoio prima di te. Hai commesso uno sbaglio, giovane Paolo.

— Dimmi una cosa — chiese Paolo. — Perché sembri Dio?

— È un manufatto tecnico. La mia voce viene indirizzata direttamente al tuo orecchio interno. È per questo che non posso sentire la tua voce reale. Io la leggo direttamente dai nervi che portano alla tua laringe.

— Capisco — rispose Paolo. — Un lavoretto da testa-di-cavo.

— Niente di irreversibile. Parlami di te, Paolo. Cos’era la vostra brigata?

— Non sono un cataclista.

— Ho qui la tua arma. — Constantine tirò fuori una piccola fiala a tempo dalla sua giacca di lino confezionata su misura e la fece rotolare fra le dita. — Produzione standard cataclista. Che cos’è? PDKL-95?

Paolo non disse niente.

— Forse conosci la droga dal nome “Infrangi” — continuò Constantine.

Paolo rise: — So bene quanto sia inutile tentare di riformare la tua mente. Se avessi potuto entrare nella stessa stanza con te, l’avrei regolata sui cinque secondi e saremmo morti tutti e due.

— Una tossina aerosol, vero? Che fretta.

— Ci sono cose più importanti della vita, plebeo.

— Che strano insulto. Vedo che hai sondato il mio passato. Sono anni che non ne sentivo uno del genere. Adesso mi dirai che non sono stato pianificato.

— Non ce n’è bisogno. Ce lo dice già tua moglie.

— Scusa?

— Natalie Constantine, tua moglie. Mai sentito parlare di lei? Non accetta facilmente l’abbandono. È diventata la prima puttana della Skimmers Union.

— Ciò mi affligge.

— Come pensi che abbia progettato di entrare a casa tua? Tua moglie è una baldracca. Mi ha pregato di farlo.

Constantine scoppiò a ridere. — lì piacerebbe che ti colpissi, non è vero? Il dolore ti darebbe qualcosa a cui aggrapparti. No, avresti dovuto rimanere a Goldreich-Tremaine, giovanotto. In quei corridoi vuoti e in quegli uffici in rovina. Tu cominci ad annoiarmi, temo.

— Lascia che ti dica che cosa mi rincresce prima che tu te ne vada. Mi rincresce di aver mirato così in basso. Di recente ho avuto tempo di pensare. — Una risata vacua. — Mi sono lasciato attirare dalla tua immagine, dalla tua linea propagandistica. L’asteroide Nysa, per esempio. A tutta prima pareva una cosa così splendida! Il Consiglio dell’Anello non sapeva che il Cartello Nysa era una discarica per i testa-di-cavo bruciati provenienti dai moli lunari. Tu facevi ancora il leccapiedi con gli aristocratici provenienti dalla Repubblica. Malgrado tutto il tuo rango, tu sei ancora un informatore da quattro soldi, Constantine, e un dannato tirapiedi.

Constantine si sentì attraversare la nuca da un familiare fremito di tensione. Sfiorò il tappo che si trovava là e infilò la mano in tasca per prendere l’inalatore. Non serviva darsi alla fuga quando il ragazzo cominciava a farfugliare ed era sul punto di cedere. — Prosegui pure — disse.

— Le grandi cose che sostieni di aver fatto sono tutte pure facciate e falsità. Non hai mai edificato niente da solo. Sei piccolo, Constantine. Molto piccolo. Conosco un uomo che potrebbe nascondere dieci individui come te sotto l’unghia del suo pollice.

— Chi? — chiese Constantine. — Il tuo amico Vetterling?

— Povero Fernand, una tua vittima? Sì, naturalmente, è mille volte più grande di te, ma non è affatto un paragone giusto, non è vero? Tu non hai mai avuto un solo atomo di talento artistico. No, intendo nella tua specialità. La politica. Lo spionaggio.

— Qualche cataclista, allora? — Constantine era annoiato.

— No. Abelard Lindsay.

Ne fu colpito. Un improvviso accesso di emicrania galoppò attraverso il suo lobo frontale sinistro. La superficie del serbatoio venne verso di lui con un lento movimento mentre cadeva. Un paesaggio pietrificato di ghiaccio d’un opaco luccichio metallico, e lui lottò per sollevare le mani, gli impulsi nervosi imprigionati in una fuga ad alta velocità che parve durare un mese.

Quando rinvenne, aveva la guancia premuta contro il gelido metallo, Mavrides stava ancora farfugliando: è … tutta la storia di Nora. Mentre tu eri qui a processare per tradimento gli artisti, Lindsay metteva a segno il più grande colpo della storia. Un disertore degli investitori… Ha un disertore degli investitori, la regina di una nave stellare, nel palmo della mano.

Constantine si schiarì la gola. — Ho sentito la notizia. Propaganda mech. È una farsa.

Mavrides se ne uscì in una risata isterica. — Sei bruciato. Sei solo una nota a pie’ di pagina. Lindsay ha guidato la rivoluzione nella tua nazione quando tu stavi ancora schiacciando le cimici nei germi e nel fango e tracciando le dimensioni del suo credito. Sei microscopico. Avrei voluto darmi da fare per ucciderti ma mi è sempre mancata del tutto la fortuna.

— Lindsay è morto. È morto da sessant’anni.

— Ma certamente, plebeo. Era quello che voleva che tu pensassi. — La risata che uscì dagli altoparlanti suonò metallica, era estratta direttamente dai nervi. — Sono vissuto nella sua casa, sciocco. Mi amava.

Constantine aprì il serbatoio. Girò il timer sulla fiala e la lasciò cadere nell’acqua, poi tornò a chiudere il serbatoio con un colpo secco. Si voltò e si allontanò. Quando raggiunse la porta, udì un improvviso frenetico sciacquio, nell’istante in cui la tossina colpì.


Repubblica Corporativa Popolare
di Czarina-Kluster
3-1-’84

La lunga linea brillante della saldatura incandescente era la cosa più pulita che avesse mai visto. Lindsay entrò galleggiando in una bolla di osservazione, fissando i robot da costruzione che strisciavano nel vuoto. Le macchine mechanist avevano lunghi musi aguzzi da curculionidi, le loro punte saldatrici d’un bianco incandescente proiettavano lunghe ombre sullo scafo annerito del palazzo di Czarina.

Stavano costruendo una replica in dimensioni naturali di una nave stellare degli investitori, una nave stellare senza motori, una carcassa che non si sarebbe mai mossa da sola. Era nera, senza nessuna traccia dei sontuosi arabeschi e degli intarsi di un genuino vascello degli investitori. Gli investitori avevano insistito su questo punto: avevano condannato la loro perversa regina a quella prigione buia e beffarda.

Dopo anni di ricerche, Lindsay aveva ricostruito la verità del crimine del comandante.

Le regine inserivano le loro uova in tasche simili a uteri dei loro maschi. I maschi fecondavano queste uova e le portavano a maturazione nelle tasche. I guardiamarina neutri controllavano l’ovulazione tramite una complessa pseudoovulazione ormonale.

La regina criminale aveva ucciso il suo guardiamarina in un parossismo di passione e aveva insediato un maschio comune al suo posto. Ma senza un vero guardiamarina, i cicli della sessualità si erano distorti. La prova di Lindsay la mostrava nell’atto di distruggere una delle sue uova malformate. Per un investitore, questa era la peggiore delle perversioni, peggiore ancora dell’assassinio: danneggiava gli affari.

Lindsay aveva presentato la sua prova in una maniera che penetrava fino al cuore dell’etica degli investitori. L’imbarazzo non era un’emozione originaria, presso gli investitori. Ma Lindsay era stato veloce con il suo rimedio: l’esilio. Dietro, c’era l’implicita minaccia di rendere nota quella prova a tutti, di palesare i dettagli dello scandalo ad ogni nave degli investitori e ad ogni fazione umana.

Era già abbastanza grave il fatto che un gruppo accuratamente selezionato di ricche regine e guardiamarina fosse stato informato di quella sconvolgente notizia. Era impensabile che i veri maschi, altamente impressionabili, venissero a saperlo. Avevano concluso un patto.

La regina non seppe mai cosa l’avesse tradita. L’approccio che Lindsay aveva adottato con lei era stato ancora più subdolo, impegnando al massimo le sue capacità. Un dono di gioielli, fatto al momento opportuno, aveva contribuito, distraendola da quella sopraffacente avidità che per gli investitori era l’alito stesso della vita. Gli affari erano stati scarsi sulla nave, con il suo equipaggio degradato, e il disgraziato guardiamarina eunuco.

Lindsay era arrivato armato di grafici fornitigli da Wells, statistiche relative alla ricchezza che si poteva strizzare ad una città-stato indipendente dalle fazioni. Le loro curve esponenziali arrivavano ad una quantità complessiva di ricchezze semplicemente mozzafiato. Lui le aveva detto di non saper niente della sua disgrazia; soltanto che la sua stessa specie era smaniosa di condannarla. Con un gruzzolo abbastanza sostanzioso, le aveva fatto capire, avrebbe potuto ritornare nelle loro buone grazie.

Con pazienza, con un linguaggio sciolto, l’aveva aiutata a capire che quella era la sua migliore possibilità. Cosa avrebbe potuto fare da sola, senza equipaggio, senza guardiamarina? Perché non accettare l’aiuto industrioso dei piccoli e cortesi stranieri? L’istinto sociale dei minuscoli mammiferi gregari li aveva spinti a considerarla la loro regina, in realtà, e loro stessi i suoi sudditi. Già un Comitato di Consiglieri, ognuno che riconosceva per suo padrone l’investitore, provvedeva a soddisfare i suoi capricci, pregandola di permetter loro di coprirla di ricchezze.

La cupidigia l’avrebbe spinta soltanto fino a un certo punto. Era stata la paura a farla cedere alla sua volontà: la paura del piccolo alieno dalla pelle morbida con la plastica scura sopra gli occhi polposi, e le risposte che aveva per ogni cosa. Quell’alieno pareva conoscere la sua gente meglio di quanto la conoscesse lei.

L’annuncio era giunto una settimana dopo, e con esso un’improvvisa emorragia di capitale verso il luogo dell’esilio sorto da zero. Avevano chiamato la regina “Czarina”, un soprannome datole da Ryumin. E la sua città era la Repubblica Popolare Corporativa di Czarina-Kluster: in quattro mesi era già diventata una città in rapida espansione, crescendo dal nulla sul bordo interno della Cintura. La Repubblica Popolare Corporativa di Czarina-Kluster era balzata a un’improvvisa esistenza concreta sorgendo da un potenziale grezzo, con quello che Wells definiva un “Balzo Prigoginico”, una “fusione a un superiore livello di complessità”. Adesso il Comitato dei Consiglieri era inondato dagli affari, le linee di comunicazione erano in frenetica attività a causa dei potenziali disertori che manovravano per assicurarsi un asilo sicuro e un nuovo inizio. La presenza di un investitore proiettava un’ombra enorme, una muraglia di prestigio che nessun mechanist o plasmatore osava sfidare.

Improvvisate abitazioni abusive affollavano il rozzo Palazzo della Regina: reti di robusti sobborghi a bolla dei Plasmatori, i “sobolli”; sudici vascelli pirata copulavano formando una sorta d’immensa corolla floreale, con gallerie a fisarmonica, ad aggancio automatico; masse di ferro-nichel soffiate e crivellate, rimorchiate ai loro posti in una sorta di immenso favo, i cui fori fungevano da abitazione; capanne prefabbricate che si avvinghiavano come l’edera alle travi scheletriche di un complesso urbano che aveva appena lasciato il tavolo dei progettisti. Quella città sarebbe stata una metropoli, un porto franco circumsolare, la suprema, ultima zona per i cani solari. Lui l’aveva creata. Ma non era per lui.

— Uno spettacolo da far bollire il sangue, amico. — Lindsay guardò alla sua destra: l’uomo un tempo chiamato Wells era arrivato nella bolla da osservazione. Durante le settimane dei preparativi, Wells era svanito in una falsa identità accuratamente preparata. Adesso era Wellspring, duecento anni di età, nato sulla Terra, un uomo misterioso, un manovratore per eccellenza, un visionario… addirittura un profeta. Niente di meno sarebbe andato bene. Un colpo di quelle dimensioni esigeva una leggenda. Esigeva una frode.

Lindsay annuì: — Le cose progrediscono.

— È qui che comincia il vero lavoro. Non sono troppo felice con quel Comitato di Consiglieri. Sembrano un po’ troppo rigidi, troppo mechanist. Alcuni di loro hanno ambizioni. Bisognerà sorvegliarli.

— Naturalmente.

— Non è che vorresti prendere in considerazione il lavoro? Il posto di coordinatore è aperto per te. Tu sei l’uomo adatto.

— Mi piacciono le ombre, Wellspring. Un ruolo della grandezza del tuo è troppo vicino alle luci della ribalta per me.

Wellspring esitò. — Ho già abbastanza problemi con la filosofia. Il mito potrebbe essere troppo per me. Ho bisogno di te e delle tue ombre.

Lindsay guardò altrove, osservando due robot costruttori che eseguivano una giuntura facendo incontrare in un bacio bianco-incandescente i rispettivi becchi saldatori, — Mia moglie è morta — disse.

— Alexandrina? Mi dispiace. È uno shock.

Lindsay ebbe un sussulto. — No — replicò. — Non lei. Nora. Nora Mavrides. Nora Everett.

— Ah — fu la replica di Wellspring. — Quand’è che hai ricevuto la notizia?

— Le avevo detto — proseguì Lindsay — che avevo un posto per noi. Ricordi che ti avevo accennato che poteva esserci la possibilità di una scissione del Consiglio dell’Anello?

— Sì.

— L’ho tenuto nascosto quanto più potevo, ma non abbastanza. In qualche modo Constantine l’ha saputo, e ha denunciato la scissione. Lei è stata accusata di tradimento. Il processo avrebbe coinvolto il resto del suo clan. Così, ha scelto il suicidio. È stata coraggiosa.

— Era la sola cosa da fare.

— Suppongo di sì.

— Nora mi amava, Wellspring. Mi avrebbe raggiunto quaggiù. Stava tentando di farlo quando lui l’ha uccisa.

— Capisco il tuo dolore — dichiarò Wellspring. — Ma la vita è lunga. Non devi lasciarti accecare, distogliere dai tuoi fini ultimi.

Lindsay replicò, torvo: — Sai che non seguo quella linea post-cataclistica.

— Postumanista — insisté Wellspring. — Sei dalla parte della vita oppure no? Se non lo sei, allora lascia che il dolore ti sottometta. Ti metterai contro Constantine e morirai come ha fatto Nora. Accetta la sua morte e rimani con noi. Il futuro appartiene al postumanismo, Lindsay. Non alle nazioni-stato, non alle fazioni. Appartiene alla vita, e la vita si muove in clade.

— Ho sentito altre volte la tua musica, Wellspring. Se abbracceremo la perdita della nostra umanità, allora significherà disaccordi peggiori, lotte peggiori, guerre peggiori.

— No, se i nuovi clade potranno raggiungere un accordo come sistemi cognitivi del quarto livello prigoginico di complessità.

Lindsay, disperato, restò in silenzio. Infine replicò: — Qui, ti auguro sinceramente la miglior fortuna possibile. Proteggi i danneggiati, se potrai farlo. Forse, quel tuo quarto livello potrà dare qualche risultato.

— C’è un universo di potenzialità, Lindsay. Pensaci. Nessuna regola, nessun limite.

— No, fintanto che lui è vivo. Scusami.

— Questo dovrai farlo da solo.


Una nave commerciale
degli investitori
14-2-’86

— Questo non è il tipo di transizione commerciale che preferiamo — dichiarò l’investitore.

— Ci siamo già incontrati altre volte, guardiamarina — disse Lindsay.

— No. Una volta ho conosciuto uno dei tuoi studenti, il capitano-dottore Simon Afriel. Un gentiluomo molto raffinato.

— Ricordo bene Simon.

— È morto mentre lavorava all’ambasciata. — L’investitore lo fissò, i suoi bulbi oculari scuri luccicavano di ostilità sopra gli orli bianchi delle sue membrane nittitanti. — Peccato. Mi era sempre piaciuto conversare con lui. Però aveva quell’impulso irrefrenabile a immischiarsi, a interferire. Voi lo chiamate curiosità. Uno stimolo a dar valore a dati inutili. Un essere con un tale handicap corre un gran numero di rischi non necessari.

— Senza alcun dubbio — ammise Lindsay. Non aveva saputo della morte di Afriel. Quella consapevolezza lo riempì d’una sorta di amaro piacere: un altro fanatico sparito, un’altra vita ricca di doti finita sprecata…

— L’odio è una motivazione più facile da esplorare. Strano che tu debba caderne preda, Artista. Mi fai dubitare del mio giudizio sulla tua specie.

— Mi dispiace di essere una fonte di confusione. Il cancelliere-generale Constantine potrebbe spiegarlo meglio.

— Gli parlerò. Lui e il suo gruppo sono appena saliti a bordo. Però non è un modello adatto a esprimere un giudizio sulla natura umana. La nostra analisi rivela che è a favore di drastiche alterazioni.

Molti lo sono al giorno d’oggi, pensò Lindsay. Perfino i giovanissimi. Come se l’esistenza della Repubblica Neotecnica, con la sua forzata umanità, liberasse le altre fazioni da una soffocante finzione. — Lo trovi strano in una razza che viaggia nello spazio?

— No. Niente affatto. È per questo che ne sono rimaste così poche.

— Diciannove — disse Lindsay

— Sì. Il numero delle razze scomparse all’interno del nostro regno commerciale è più grande d’un intero ordine di magnitudine. Però i loro manufatti persistono, come quello che abbiamo in mente di affittarvi adesso. — L’investitore mostrò i suoi denti striati, simili a paletti, un segno di disgusto e di riluttanza. — Avevamo sperato di poter stabilire un commercio davvero a lungo termine con la tua specie, ma non possiamo dissuadervi dal mirare a nuove, clamorose scoperte nell’ambito dei problemi della metafisica. Ben presto saremo costretti a porre in quarantena il vostro sistema solare, per timore di venir invischiati nelle vostre transazioni. Nel frattempo dobbiamo abbandonare alcuni scrupoli per rendere redditizi certi nostri investimenti locali.

— Mi allarmi — replicò Lindsay. Aveva già sentito altre volte questo discorso. Vaghi ammonimenti da parte degli investitori, intesi a congelare l’umanità nel proprio attuale livello di sviluppo. Lo divertiva pensare che gli investitori dovessero predicare il preservazionismo. — La guerra è certamente una minaccia molto maggiore.

— No — disse l’investitore. — Noi stessi vi abbiamo presentato delle prove. Il nostro motore interstellare vi ha dimostrato che lo spazio-tempo non è quello che pensavate. Ne devi essere conscio, Artista. Considera le recenti scoperte nella trattazione matematica di quello che voi chiamate lo spazio di Hilbert e lo spazio primigenio del pre-continuum. Non possono essere sfuggite alla tua attenzione.

— La matematica non è il mio forte — dichiarò Lindsay.

— Neppure il nostro. Sappiamo soltanto che queste scoperte sono segni di pericolo che indicano un’imminente transizione ad un altro modo di essere.

— Imminente?

— Sì. Questione soltanto di pochi secoli.

Secoli, pensò Lindsay. Era facile dimenticarsi di quanto fossero vecchi gli investitori. Il loro profondo disinteresse per i cambiamenti offriva loro una visuale ampia ma poco profonda. Non avevano nessun interesse per la loro stessa storia, nessuna urgenza di mettere a confronto la propria vita con quella dei loro morti, poiché non c’era nessuna convinzione che la loro vita e le loro motivazioni potessero variare anche soltanto lievemente. Avevano qualche vaga leggenda e intricate descrizioni tecniche riguardanti particolari oggetti pregiati appartenenti al loro bottino, ma anche quei frammenti di storia andavano perduti nella corsa all’accaparramento del bottino, una corsa che ricordava molto quella di una taccola.

— Non tutte le razze estinte hanno attuato la transizione — dichiarò il guardiamarina. — Ed è probabile che quelli che hanno inventato l’Arena siano morti di morte violenta. Su questo non abbiamo nessun dato: soltanto informazioni tecniche sui loro modi di percezione, che ci permettono di rendere l’Arena comprensibile al sistema nervoso umano. In ciò abbiamo avuto l’assistenza del Dipartimento di Neurologia della Kosmosity dello Stato Corporativo di Nysa.

Le reclute di Constantine, pensò Lindsay. Le teste-di-cavo erranti di Nysa, Mechanist che avevano disertato passando alla causa dei Plasmatori, combinando le tecniche mech con la struttura fascista del complesso accademico-militare dei Plasmatori. — Proprio gli uomini, o meglio proprio gli esseri adatti a quel lavoro.

— Così ha detto il Cancelliere-Generale. Adesso il gruppo si è radunato. Vogliamo raggiungerli?

Il gruppo di Constantine si mescolò a quello di Lindsay in una delle sale cavernose della nave degli investitori. La sala era ingombra di torreggiante mobilia rococò: divani decorati in maniera strabiliante e tavoli simili a lastre di pietra, sostenuti da gambe ricurve incrostate di rigonfiamenti costolati e cartigli stilizzati. Era tutto troppo grande per avere un qualche uso convenzionale per quella ventina di visitatori umani che si rannicchiavano guardinghi sotto i mobili, facendo attenzione a non toccare niente. Quando entrò nella sala, Lindsay vide che i mobili alieni erano stati spruzzati con una spessa lacca per proteggerli dall’ossigeno.

Non aveva mai visto nessuno dei giovani genetici di Constantine. Ne aveva portati dieci con sé: cinque donne e cinque uomini. I germani di Constantine erano più alti di Constantine stesso e avevano i capelli più chiari, ovviamente una piccola spruzzata da qualche altra linea genetica.

Possedevano quel peculiare magnetismo dei Plasmatori, un’acrobatica fluida scioltezza. Eppure, qualcosa nell’impostazione delle loro spalle, delle loro mani agili e capaci, mostrava, nei movimenti espressivi, l’eredità genetica di Constantine. Indossavano dei paramenti esotici: rotondi cappelli di velluto, orecchini di rubino, e giacche di broccato con guarnizioni d’oro. Si erano vestiti così per far colpo sugli investitori, i quali apprezzavano un aspetto prospero nei loro clienti.

Una delle donne voltava le spalle a Lindsay, intenta ad esaminare le torreggiami gambe dei mobili. Gli altri se ne stavano tranquilli, scambiando facezie senza significato con la gente di Lindsay, un gruppo assai vario di accademici e di specialisti sugli investitori in permesso da Czarina-Kluster. Sua moglie Alexandrina si trovava fra loro; stava anzi parlando con lo stesso Constantine, con la sua solita, perfetta, buona educazione. Niente stava a indicare che tutti erano i secondi in un duello, presenti come testimoni per garantire che tutto si svolgesse con imparzialità.

Erano stati due anni di lotta, un negoziato prolungato e delicato, per organizzare un incontro fra lui stesso e Constantine. Alla fine si erano accordati sulla nave interstellare degli investitori come il più adatto campo di battaglia, dove il tradimento sarebbe stato controproducente. L’Arena stessa era rimasta nelle mani degli investitori; i tecnici di Nysa avevano lavorato sui dati liberamente disponibili ad entrambe le parti in causa. I costi erano stati divisi in maniera equa: la maggior parte del finanziamento se l’era assunta Constantine, con un’opzione sui possibili vantaggi tecnologici. Lindsay aveva ricevuto i dati da Dembowska e da Czarina-Kluster con un duplice sotterfugio, per confondere eventuali assassini. Constantine, andava detto a suo credito, non ne aveva mandato nessuno.

La meccanica del loro duello era stata irta di difficoltà. Le proposte più svariate erano state dibattute da una cerchia sempre più ampia di coloro che sapevano. Il combattimento fisico era stato subito respinto come al di sotto della dignità delle due parti avverse. Gli appassionati del gioco d’azzardo sociale della malavita dei Plasmatori, favorivano una forma di tale gioco che avesse come posta il suicidio. Un ricorso al caso, però, presumeva uguaglianza fra le due parti, cosa che nessuno dei due era disposto a concedere.

Un duello vero e proprio avrebbe dovuto garantire il trionfo del migliore. Ma si era argomentato che ciò avrebbe richiesto un test per valutare la prontezza, la volontà e la flessibilità mentale, qualità che si trovavano al centro della vita moderna. Dei test oggettivi erano, sì, possibili, ma era difficile assicurarsi che uno dei contendenti non si preparasse anzitempo o influenzasse i giudici. Esistevano diverse forme di lotta diretta, mente contro mente, nella comunità delle teste-di-cavo, ma queste molto spesso duravano decenni e richiedevano una radicale modifica delle facoltà mentali. Si era deciso perciò di consultare gli investitori.

Dapprima gli investitori avevano avuto difficoltà ad afferrare il concetto. Poi, cosa in loro caratteristica, avevano suggerito una guerra economica, dove a ciascun contendente sarebbe stata data una posta e offerta la possibilità di aumentarla. Dopo un periodo di tempo prestabilito, l’uomo più povero sarebbe stato giustiziato.

Ma questo non era soddisfacente. Un altro suggerimento degli investitori comportava tentativi da parte di entrambi i contendenti di leggere la “letteratura degli ‘intraducibili’ ”. Ma era stato anche detto che il sopravvissuto avrebbe potuto ripetere qualcosa di ciò che aveva letto e diventare un pericolo per il resto dell’umanità. A questo punto l’Arena era stata riscoperta in una delle stive stracolme di bottino d’un vascello degli investitori presente nello spazio circumsolare.

Un rapido esame aveva subito mostrato i vantaggi dell’Arena. Le forme di esperienza aliena rappresentavano una sfida perfino per i migliori membri della società: gli emissari inviati sui mondi alieni. L’indice delle perdite, estremamente elevato fra gli appartenenti a questo gruppo, dimostrava che l’Arena sarebbe stata un test già in sé. Entro l’ambiente simulato dell’Arena, i duellanti si sarebbero battuti dentro due corpi alieni dei quali era garantita l’assoluta parità, assicurando così che la vittoria sarebbe senz’altro andata allo stratega di livello superiore.

Constantine era in piedi sopra una delle torreggianti tavole, intento a sorseggiare un calice d’argento auto-raffreddantesi d’acqua distillata. Come i suoi pacchiani congenetici, indossava calzoni morbidi con piccoli risvolti di pizzo e una giacca con cordoncini dorati, il suo alto colletto era tappezzato delle insegne del suo rango. Gli occhi rotondi e delicati luccicavano scuri a causa delle morbide lenti antiabbaglianti. Il suo volto, come quello di Lindsay, era scavato da rughe là dove gli anni della sua abituale espressione avevano tracciato la propria strada dentro i muscoli.

Lindsay indossava una tuta grigiobruna senza contrassegni. Il suo volto era unto d’olio per proteggersi dal bagliore azzurrobianco, e portava schermi solari scuri.

Attraversò la stanza per raggiungere Constantine. Calò il silenzio, ma Constantine fece un gesto educato ed i suoi compagni genetici ripresero il filo della conversazione.

— Ciao, cugino — disse Constantine.

Lindsay annuì. — Un bel gruppo di congenetici, Philip. Mi congratulo per i tuoi germani.

— Un buon ceppo, sano — fu d’accordo Constantine. — Se la cavano bene con la gravità. — Guardò deliberatamente la moglie di Lindsay, la quale, dando prova di tatto, si era spostata verso un altro gruppo, visibilmente afflitta da un dolore ai ginocchi.

— Ho passato molto tempo a occuparmi di politica genetica — disse Lindsay. — In retrospettiva, mi sembra un feticcio dell’aristocrazia.

Le palpebre di Constantine si strinsero sopra le nere lenti a contatto. — Un po’ di lavoro in più alla linea di produzione dei Mavrides non avrebbe fatto male.

Lindsay fu colto da un impeto di gelido furore. — È stata la loro lealtà a tradirli.

Constantine sospirò. — L’ironia non mi è sfuggita, Abelard. Se soltanto tu avessi conservato la fede che avevi giurato a Vera Kelland molti anni fa, non ci sarebbe stata nessuna di queste aberrazioni.

— Aberrazioni? — Lindsay sorrise acido. — Decente da parte tua aver fatto le pulizie dopo di me, cugino. Aver sistemato le cose che avevo lasciato in sospeso.

— Nessuna meraviglia, visto che ne avevi lasciate tante di perniciose in giro. — Constantine sorseggiò la sua acqua. — La politica della pacificazione, per esempio. La distensione. È stato tipico da parte tua portare una popolazione al disastro per canesolararti quand e arrivato il punto critico.

Lindsay si mostrò interessato.

— È questa, dunque, la nuova linea del partito? Incolparmi della Pace degli Investitori? Davvero lusinghiero. Ma è saggio far riaffiorare il passato? Perché ricordar loro che hai perso la Repubblica?

Le nocche di Constantine si sbiancarono sul calice.

— Vedo che sei ancora un antiquario. Strano che tu debba aver abbracciato Wellspring e il suo quadro di anarchici.

Lindsay annuì. — So che attaccheresti Czarina-Kluster, se ne avessi la possibilità. La tua ipocrisia mi stupisce. Non sei un plasmatore. Non soltanto non sei programmato, ma il tuo uso delle tecniche mech è tristemente famoso. Tu sei la dimostrazione vivente del potere della distensione. Ti appropri del vantaggio dovunque lo trovi, ma lo neghi a chiunque altro.

Constantine sorrise. — Io non sono un plasmatore. Sono il loro guardiano. È stato il mio destino, e io l’ho accettato. Sono stato solo per tutta la mia vita, tranne per te e Vera. Allora eravamo sciocchi.

— Lo sciocco ero io — ribatté Lindsay. — Ho ucciso Vera per niente. Tu l’hai uccisa per dimostrare il tuo potere.

— Il prezzo è stato amaro, ma la prova ne valeva la pena. Da allora ho fatto ammenda. — Svuotò del tutto il bicchiere e tese il braccio.

Vera Kelland prese il calice. Portava intorno al collo il medaglione in filigrana d’oro che aveva su di sé quand’era precipitata, il medaglione che avrebbe dovuto garantirla dalla morte.

Lindsay rimase senza parole. Non aveva visto il volto della ragazza, che prima gli voltava la schiena.

Lei non lo guardò negli occhi.

Lindsay continuò a fissarla affascinato e raggelato. La somiglianza era forte, ma non perfetta. La ragazza si girò e si allontanò. Lindsay si costrinse a scandire le parole: — Non è un clone completo.

— Certo che no. Vera Kelland non era programmata.

— Hai usato i suoi genetici.

— Sento echeggiare l’invidia nelle tue parole, cugino. Sostieni forse che le cellule amavano te e non me? — Constantine scoppiò a ridere.

Lindsay staccò lo sguardo dalla ragazza. La sua grazia e la sua bellezza lo ferivano. Si sentiva sconvolto, in preda al panico.

— Cosa accadrà qui, quando morirai?

Constantine sorrise senza scomporsi: — Perché non rimuginarci sopra, mentre combattiamo?

— Prenderò un impegno con te — disse Lindsay. — Giuro che se vincerò, risparmierò i tuoi congenetici, negli anni futuri.

— Il mio popolo è fedele al Consiglio dell’Anello. La tua marmaglia di Czarina-Kluster sono i loro nemici. È inevitabile che entrino in conflitto.

— Sicuramente la cosa è già abbastanza cupa senza che contribuiamo anche noi.

— Sei ingenuo, Abelard. Czarina-Kluster deve cadere.

Lindsay guardò altrove, studiando il gruppo di Constantine. — Non sembrano stupidi, Philip. Mi chiedo se non gioirebbero alla tua morte. Potrebbero venir spazzati via durante i festeggiamenti generali.

— Le ipotesi oziose mi hanno sempre annoiato — dichiarò Constantine.

Lindsay lo fissò furente. — Allora è giunto il momento che mettiamo la questione alla prova.

Delle pesanti tende furono stese sopra uno dei giganteschi tavoli alieni, ricadendo fino al pavimento. Sotto la distesa riparata dal tavolo, la luce abbagliante era più fioca, e vennero portati un paio di letti ad acqua come supporto per combattere la forza di gravità degli investitori.

L’Arena stessa era un minuscolo dodecaedro grosso come un pugno, i suoi lati triangolari erano di un nero così lucido da irradiare deboli sfumature pastello. Dei fili uscivano da prese incassate nel metallo, ai due poli opposti della struttura. I fili conducevano a due caschi muniti di grossi occhiali con estensioni flessibili per il collo. I caschi avevano l’aspetto schematico e pratico dei manufatti mechanist.

Constantine vinse il sorteggio e scelse il casco di destra. Tirò fuori una losanga piatta e curva di plastica beige dalla sua giacca ornata di fili dorati e agganciò una fibbia elastica ai suoi cappi d’ancoraggio. — Un analizzatore spaziale — spiegò. — Una delle mie routine operative. Permesso?

— Sì. — Lindsay tirò fuori dal taschino una striscia color carne coperta di dischi adesivi uncinati. — PDKL-95 — disse. — A dosi di duecento microgrammi.

Constantine lo fissò. — Un dissociatore. Dei cataclisti?

— No — disse Lindsay. — Questo faceva parte dello stock di Michael Carnassus. È una produzione originale mechanist, destinata alle ambasciate. Interessato?

— No — replicò Constantine. Pareva scosso. — Protesto. Sono venuto qui per combattere Abelard Lindsay, non una personalità dissociata.

— Questo ha ben poca importanza adesso, vero? Questo duello è all’ultimo sangue, Constantine. La mia umanità finirebbe soltanto per intralciarmi.

Constantine scrollò le spalle. — Allora vincerò io, non importa cosa userai.

Constantine agganciò l’analizzatore spaziale, adattando le sue curve fatte su misura alla propria nuca. I suoi microstimolatori scivolarono senza difficoltà dentro le prese collegate con il suo emisfero destro. Usandolo, lo spazio avrebbe assunto una concretezza fantastica, i movimenti si sarebbero manifestati con sovrumana chiarezza. Constantine sollevò il casco e intravide per un attimo la propria manica. Lindsay lo vide esitare, studiare la complessa topologia dell’intreccio del tessuto. Parve affascinato. Poi ebbe un breve brivido e infilò la testa dentro il casco.

Lindsay premette la prima microdose dentro il proprio polso e s’infilò a sua volta il casco. Sentì le cuspidi oculari adesive stringersi alle sue occhiaie, poi un’ondata di torpore mentre l’anestesia locale faceva effetto e dei filamenti irrigiditi di biogel scivolavano sopra i suoi bulbi oculari per penetrargli i nervi ottici.

Sentì un debole echeggiare. Mentre altri filamenti, strisciando, gli superavano i timpani entrando in contatto chemiotattico predeterminato con i suoi neuroni.

Giacquero entrambi, distesi, sui rispettivi letti d’acqua, aspettando che le unità disposte intorno al collo del casco filtrassero attraverso i microfori pretrapanati fin dentro la settima vertebra cervicale.

I microfili crebbero, allungandosi, senza causare danni, aprendosi la strada attraverso i rivestimenti mielinici degli assoni spinali, formando un reticolo gelatinoso capace di auto-replicarsi.

Lindsay galleggiò tranquillo. Il PDKL stava prendendo il sopravvento.

Mentre l’interruzione spinale procedeva, sentì il suo corpo dissolversi come cera, ogni gruppo sensorio muscolare trasmetteva un ultimo, caldo bagliore di sensazioni, a mano a mano che l’unità applicata al collo l’interrompeva, un ultimo palpito di umanità, troppo sottile per poterlo definire dolore. Il dissociatore lo aiutava a dimenticare. Trasformando ogni cosa in una novità, intendeva derubare ogni cosa della novità. Frantumando i preconcetti, esaltava la capacità di comprensione in maniera così drastica che intere filosofie intuitive emergevano in superficie ribollendo da un singolo attimo d’introspezione.

Faceva buio. Aveva in bocca un sapore di ragnatele. Avvertì una breve ondata di vertigine e terrore prima che il dissociatore la facesse abortire, lasciandolo improvvisamente arenato in un’emotiva terra di nessuno dove la sua paura si trasmutava bizzarramente in una schiacciante sensazione di peso fisico.

Era rannicchiato alla base di un muro titanico. Davanti a lui, un fioco bagliore s’irradiava da un arco colossale. Accanto a lui delle balaustre sporgenti di gelida pietra erano avvolte in sottili ragnatele di cavi afflosciati ricoperti di polvere. Allungò la mano per toccare il muro e osservò con apatica sorpresa che il suo braccio si era trasmutato in un artiglio. Il braccio era articolato in una pallida armatura dotata di due gomiti.

Cominciò a strisciare su per il muro. La gravità lo accompagnava. Guardando intorno a sé in quella nuova prospettiva vide che i ponti si erano trasformati in colonne ricurve, i cappi di cavi cascanti adesso erano diventati rigidi archi maligni. Ogni cosa era vecchia. Qualcosa dietro i suoi occhi si stava aprendo. Poteva vedere il tempo stendersi sul mondo come un luccichio, una macchia confusa di movimento congelato tagliata fuori dal contesto e dipinta sulla superficie della fredda pietra come gommalacca aliena. I muri divennero pavimenti, le balaustre gelide barricate. Allora si rese conto di avere troppe gambe. C’erano gambe là dove avrebbero dovuto esserci le costole e la sensazione formicolante che avvertiva nello stomaco era qualcosa di fin troppo concreto: la sensazione che le sue budella venissero trasmutate nel movimento d’un ulteriore paio di arti.

Lottò per guardare se stesso: non riusciva a flettersi in avanti, ma la sua schiena s’inarcò con fantastica facilità e i suoi occhi privi di palpebre fissarono le piastre corazzate coperte da uno spesso strato di pelliccia intersegmentale. Un paio di organi rugosi si sporgevano all’infuori dalla sua schiena all’estremità di peduncoli. Sfregò il proprio muso contro di essi, e d’un tratto, con una sensazione di vertigine, sentì l’odore del giallo. Allora tentò di urlare. Ma non aveva niente con cui urlare.

Ripiombò pesantemente all’indietro contro la fredda roccia. L’istinto ebbe il sopravvento, e attraversò di corsa, a capofitto, acri di pietra porosa e granulosa, verso la sicurezza dell’oscurità di un cornicione sporgente e una scacchiera di sbarre rose dalla ruggine, simile a una rastrelliera. Perse il senso delle proporzioni mentre se ne stava lì rannicchiato, vacillando sotto un’improvvisa, angosciante intuizione, e si rese conto di essere minuscolo, infinitesimale, rimpicciolito da quei titanici blocchi di pietra, ma dovevano anch’essi essere piccoli, talmente piccoli che…

Saggiò la pietra porosa raschiandovi sopra con l’estremità del suo artiglio anteriore flessibile. Era solida, d’una massiccia durevolezza che era sopravvissuta agli eoni indifferenti, tinta dalla sottile polvere di giganteschi, gementi macchinari, i quali avevano superato il punto di utilità con lo stesso esaurirsi degli ultimi granelli.

Poteva sentire l’odore dell’età, perfino percepirla come una specie di pressione, una sorta di paura. Era enorme, inamovibile, e lui d’un tratto pensò all’acqua. L’acqua che si muoveva ad alta velocità era dura come l’acciaio. Allora la sua mente partì a razzo, e pensò a questa reciproca identificazione di velocità e sostanza, all’energia cinetica degli atomi che dava forma alla pietra dura, una pietra che in realtà era spazio vuoto, vibrazioni, quanti. Divenne conscio dei più piccoli dettagli dentro la pietra, d’un tratto quella superficie non fu altro che fumo ghiacciato, una dura nebbia pietrificata da eoni imprigionati. Al di sotto della superficie, un livello ancora più sottile, un succedersi di dettagli in altri dettagli, via via, in un’ossessiva ragnatela in continua recessione.

Venne attaccato. Il nemico gli fu sopra. Sentì un’improvvisa, orrenda lacerazione quando gli artigli gli si conficcarono addosso dall’alto, il dolore alieno s’ingarbugliò nella traduzione da un sensorio all’altro, intasando il suo cervello di nera nausea e paura. Stramazzò pesantemente, in preda ad una mortale convulsione, il suo volto… il suo volto si spaccò in un’estrusione da incubo di mandibole affilate come rasoi, colse una gamba e la troncò all’articolazione; sentì l’odore di una rabbia e di un dolore roventi e la fulgida, incandescente radiosità dei propri succhi che esplodeva, e poi il gelo, lo sgocciolio, la scintilla luminosa che si spegneva per diventare un tutt’uno con l’antica pietra e l’età e il buio…

I microfoni esterni del suo casco colsero la voce di Constantine e la trasmisero ai suoi nervi: — Abelard.

La gola di Lindsay era piena di ruggine. — Ti ascolto.

— Sei vivo?

Il blocco nervoso del suo collo si era semidissolto, e sentì il proprio corpo privo di sostanza come gas caldo. Cercò a tentoni la striscia di dischi dermici accanto alla sua mano: al tatto la plastica perforata sembrò sottile come un nastro. Staccò un altro disco con le dita e lo premette in maniera scoordinata contro la base del suo pollice. — Dobbiamo provare di nuovo.

— Cos’hai visto, Abelard? Devo saperlo.

— Corridoi. Muri. Pietre scure.

— E abissi? Abissi neri di niente, più grandi di Dio?

— Non posso parlare. — La nuova dose stava facendo effetto, la lingua si stava sfaldando, un groviglio di supposizioni irrilevanti infrante da un dubbio improvviso, fasci di grammatica ridotti in polpa vischiosa sotto l’impatto della droga. — Di nuovo.

Era tornato, adesso poteva sentire il nemico, avvertire la sua presenza come un debole e lontano prurito. La luce era più chiara, enormi sciabolate radiose filtravano attraverso i massi di pietra talmente marciti per l’età da essere sottili come un tessuto. Si passò meticolosamente l’estremità degli artigli sui palpi intorno alla sua bocca, ripulendoli dall’umido sudiciume. Provò una sensazione di fame così intensa che le squame parvero saldarsi le une alle altre, e si rese conto che lo stimolo a vivere e a uccidere era enorme almeno quanto le volte di pietra intorno a lui.

Trovò il nemico accosciato dentro un cul-de-sac fra un ponte impietosamente fatiscente e le sue travature di sostegno. Sentì l’odore della paura.

La posizione del nemico era sbagliata. Si teneva aggrappato alla parete in una falsa prospettiva, poiché percepiva l’interminabile orizzonte come un abisso di frantumazione. L’abisso sottostante era eterno, un caos di pareti, camere, pianerottoli, che si autoreplicavano, costruiti dal nulla, una terrificante ramificazione dell’infinito.

Attaccò, mordendo in profondità le placche dorsali. Il sapore di quella calda trasudazione lo mandò in delirio. Il nemico colpì a sua volta, affondando, spingendo, pallidi artigli graffiavano la roccia. Le sue fauci si staccarono dal dorso del nemico, strappando e lacerando. Il nemico lottò per spingerlo via, per ricacciarlo indietro dentro l’orizzonte. Per un momento fu colto dalla prospettiva stessa del nemico. Seppe d’un tratto che, se fosse caduto, sarebbe caduto per sempre. Nell’abisso, precipitando dentro il proprio terrore e la propria sconfitta, senza fine, attraverso quel labirinto autorotante, la mente pietrificata in un’angoscia senza confini, un dedalo d’interminabile esperienza, interminabile paura, d’implacabili muri, corridoi, gradini, rampe, cripte, volte, passaggi, sempre gelidi, sempre fuori della sua portata.

Scivolò indietro. Il nemico era disperato, cercava convulsamente di riprendersi, galvanizzato dal dolore. I suoi stessi artigli stavano scivolando. La pietra lo respingeva, diventava più liscia. D’un tratto ci fu uno spiraglio, e vide il mondo per quello che era. Allora i suoi artigli scivolarono dentro, con una facilità da fantasma, e la pietra slittò da parte come fumo.

Poi si trovò ancorato. Il nemico lo spingeva impotente, inutilmente. Assaporò l’improvviso fiotto di disperazione quando il nemico si voltò per fuggire.

Subito l’agguantò e lo bloccò, lacerandolo. Un miasma di polvere e di terrore esplose dalle carni del nemico. Lo strappò dal muro, lo serrò fra gli artigli in preda ad un orgasmo di odio e di vittoria… e lo scagliò dentro l’abisso.

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