PARTE PRIMA Zona dei cani solari

1

Zaibatsu Circumlunare
del Popolo del Mare della Tranquillità
27-12-’15

Spedirono Lindsay in esilio a bordo del tipo più economico possibile di tinozza. Per due giorni rimase cieco e sordo, stordito dalle droghe, il suo corpo impacchettato in una spessa matrice di pasta da decelerazione.

Lanciata dal condotto adibito a carico e scarico delle merci della Repubblica, la tinozza si portò con cibernetica precisione nell’orbita polare di un altro circumlunare. Ce n’erano dieci, di questi mondi artificiali. Era stato dato loro il nome dei mari e dei crateri lunari che avevano fornito il materiale grezzo per la loro costruzione. Erano state le prime nazioni-stato a rompere ogni rapporto con la Terra esausta. Per un secolo la loro alleanza lunare era stata il nesso della civiltà, e il traffico commerciale fra quei “Mondi Concatenati” aveva conosciuto punte di estrema intensità.

Ma da quei giorni gloriosi, i progressi compiuti nello spazio profondo avevano eclissato la Concatenazione, e il circondario lunare era diventato fuorimano. La loro alleanza si era sfasciata, cedendo il posto a uno stizzito isolamento e a un declino tecnico. I circumlunari erano caduti in basso, e nessuno era caduto più in basso di quelli del luogo dove Lindsay era stato esiliato.

Le telecamere osservarono il suo arrivo. Espulso dal portello di attracco della tinozza, galleggiò nudo nella camera doganale a caduta libera dello Zaibatsu Circumlunare del Popolo del Mare della Tranquillità. La camera esibiva l’opaco acciaio lunare, con strisce sbrindellate di resine epossidiche là dove i pannelli di rivestimento erano stati strappati via. Un tempo quella era stata una stanza per le coppie in luna di miele, dove i novelli sposi potevano folleggiare in caduta libera. Adesso era stata squallidamente trasformata in una burocratica area di controllo per la dogana.

Lindsay era ancora sotto l’effetto delle droghe, a causa della brevità del viaggio. Un cavo ad alimentazione a goccia venne inserito nella piegatura del suo braccio destro, rianimandolo. Neri dischi adesivi, biomonitori, gli punteggiavano la pelle nuda. Condivideva la stanza con una telecamera per il controllo a distanza. Il videosistema da caduta libera aveva due braccia cibernetiche mosse da pistoni.

Gli occhi grigi di Lindsay si aprirono. Erano velati. Il suo bel viso, con la pelle chiara e le sopracciglia arcuate dal disegno elegante, aveva l’espressione molle dello stordimento. I capelli scuri, scarmigliati, gli ricadevano sugli alti zigomi dove c’erano ancora alcune tracce di belletto vecchie di tre giorni.

Le braccia gli tremarono quando gli stimolanti cominciarono a fare effetto. Poi, d’un tratto, tornò in sé. Il suo addestramento lo travolse come un’ondata fisica, con una tale repentinità che i denti sbatterono per lo spasimo. Il suo sguardo spazzò l’intera stanza, vivido di un allarme innaturale. I muscoli del suo viso si mossero in un modo che avrebbe dovuto risultare impossibile per qualunque volto umano, e d’un tratto sorrise. Si esaminò e, rivolto alla telecamera, tornò a sorridere con aria tranquilla e tollerante urbanità.

L’aria stessa parve riscaldarsi per l’improvvisa radiosità del suo bonario cameratismo.

Il cavo infilato nel suo braccio si disimpegnò e, con un guizzo da serpente, rientrò nella parete. La telecamera parlò.

— Sei Abelard Malcolm Tyler Lindsay. Dalla Repubblica Corporativa Circumlunare del Mare della Serenità. Cerchi asilo politico. Non hai materiali biologici attivi nel tuo bagaglio o impiantati sulla tua persona. Non porti esplosivi o sistemi software da attacco. La tua flora intestinale è stata sterilizzata e sostituita da microbi standard zaibatsu.

— Sì, giusto così — rispose Lindsay alla telecamera, nel suo stesso giapponese. — Non ho bagaglio. — Si trovava a proprio agio con la forma moderna della lingua: un patois commerciale semplificato, privo degli inserti onorifici. La rapidità nell’assimilare le lingue era stata parte del suo addestramento.

— Presto sarai liberato in un’area che è stata ideologicamente decriminalizzata — proseguì la telecamera. — Prima che tu lasci la dogana ci sono certi limiti alla tua attività, che devi capire. Ti è familiare il concetto di diritti civili?

Lindsay fu cauto. — In quale contesto?

— Lo Zaibatsu riconosce un singolo diritto civile: quello della morte. Puoi rivendicare questo tuo diritto in qualsiasi momento, in qualsiasi circostanza. Tutto quello che devi fare è richiederlo. I nostri radiomonitor sono sparsi per tutto lo Zaibatsu. Se rivendicherai il tuo diritto, verrai subito terminato in maniera indolore. Hai capito?

— Ho capito — rispose Lindsay.

— La terminazione viene inoltre imposta nel caso di certi specifici comportamenti — continuò la telecamera. — Se minacci fisicamente l’habitat, verrai ucciso. Se interferirai con i nostri congegni di monitoraggio, verrai ucciso. Se attraverserai la zona sterilizzata, verrai ucciso. Verrai inoltre ucciso per crimini contro l’umanità.

— Crimini contro l’umanità? — fece Lindsay. — Questi come vengono definiti?

— Si tratta dei tentativi biologici e prostetici che noi dichiariamo aberranti. Le informazioni tecniche riguardanti i limiti della nostra tolleranza devono rimanere segrete.

— Capisco — annuì Lindsay. Si rese conto che ciò significava carta bianca. Lo potevano uccidere in qualunque momento, per qualsiasi ragione. Se l’era aspettato. Quel mondo era un porto per cani solari sciolti, disertori, traditori, esiliati, fuorilegge d’ogni tipo. Lindsay dubitava che un mondo pieno di cani solari sciolti potesse venir governato in qualunque altra maniera. C’erano, semplicemente, troppe strane tecnologie a spasso per lo spazio circumsolare. Centinaia di azioni all’apparenza innocue, perfino l’allevamento delle farfalle, potevano essere potenzialmente letali.

Siamo tutti criminali, pensò.

— Desideri rivendicare il tuo diritto civile?

— No, grazie tante — rispose Lindsay. — Ma è una grande gioia sapere che il governo Zaibatsu mi concede questa grande cortesia. Mi ricorderò di questa gentilezza.

— Devi soltanto chiamare — replicò la telecamera in tono soddisfatto.

L’intervista era terminata. Traballando in caduta libera, Lindsay si sbarazzò dei biomonitor. La telecamera gli porse una carta di credito e un paio di tute zaibatsu del modello standard.

Lindsay s’infilò quegli indumenti flosci. In esilio era venuto da solo. Anche Constantine era stato indiziato, ma come al solito Constantine era stato troppo intelligente.

Da quindici anni Constantine era stato il suo amico più intimo. La famiglia di Lindsay aveva disapprovato la sua amicizia con un membro della plebe, ma Lindsay li aveva sfidati.

A quei tempi gli anziani avevano sperato di riuscire a mantenersi in equilibrio fra le superpotenze. La loro tendenza era stata quella di fidarsi dei Plasmatori, e avevano spedito Lindsay al Consiglio dell’Anello perché si perfezionasse nell’arte della diplomazia. Due anni dopo avevano spedito anche Constantine, perché si perfezionasse in biotecnologia.

Ma i Mechanist avevano sopraffatto la Repubblica, e Lindsay e Constantine erano caduti in disgrazia, imbarazzanti ricordi di un fallimento della politica estera. Ma ciò era soltanto servito a unirli, la loro duplice influenza si era diffusa in maniera contagiosa fra la plebe e i giovani aristocratici.

Uniti, si erano dimostrati formidabili: Constantine con i suoi sottili piani a lungo termine e la ferrea determinazione; Lindsay come uomo di prima linea con la sua persuasiva eloquenza e la teatrale eleganza.

Ma poi Vera Kelland si era interposta fra loro. Vera: artista, attrice e aristocratica, la prima martire preservazionista. Vera credeva nella loro causa, era la loro musa, era convinta di quanto faceva con uno zelo che loro non erano in grado di eguagliare. Anche lei era sposata, con un uomo di sessant’anni più vecchio di lei, ma l’adulterio non aveva fatto altro che aggiungere spezia alla lunga seduzione. Finalmente Lindsay l’aveva conquistata. Ma con il possesso di Vera era giunta anche la sua letale decisione.

Loro tre avevano saputo che un suicidio avrebbe cambiato la Repubblica, là dove qualunque altra cosa sarebbe stata inutile. Si erano accordati: Philip sarebbe sopravvissuto per portare avanti la loro opera. Questa era la consolazione per la perdita di Vera e per la solitudine che ne sarebbe seguita. E loro tre avevano lavorato per la morte in febbrile intimità, fino a quando la morte di lei era giunta davvero, trasformando i loro puri ideali in una appiccicosa sgradevolezza.

La telecamera aprì il portello della dogana, con un cigolio di ingranaggi idraulici male lubrificati. Lindsay si scrollò di dosso il passato. Fluttuò lungo un corridoio dai pannelli divelti verso il debole bagliore della luce diurna.

Emerse su una piattaforma d’atterraggio per aerei, intasata di sudici macchinari.

La piattaforma era al centro della zona di caduta libera dell’asse centrale della colonia. Da lì Lindsay poteva guardare lo Zaibatsu per tutta la lunghezza, attraverso cinque lunghi chilometri di aria cupa e puzzolente.

La prima cosa a colpirlo fu la vista e la forma delle nubi. Erano malformate, gonfie, con una brutta tinta giallastra. S’increspavano e si distorcevano sotto l’effetto delle fetide correnti ascensionali che si levavano dai pannelli di terra dello Zaibatsu.

L’afrore era disgustoso. Ognuno dei tre mondi circumlunari della Concatenazione aveva il proprio odore indigeno. Lindsay ricordava che la sua Repubblica gli era parsa puzzare la prima volta che si era trovato a farvi ritorno dopo aver frequentato l’accademia dei Plasmatori. Ma qui l’aria pareva tanto immonda da essere in grado di uccidere. Il suo naso cominciò a colare.

Ognuno dei mondi della Concatenazione si era trovato a dover risolvere problemi biologici a mano a mano che l’habitat invecchiava.

Il suolo fertile richiedeva un minimo di dieci milioni di cellule batteriche per centimetro cubo. Questo sciame invisibile costituiva la base di qualunque creatura fruttificante. Era stata l’umanità a portarlo nello spazio.

Ma l’umanità e i suoi simbionti avevano buttato via la coltre dell’atmosfera. I livelli delle radiazioni erano aumentati. I mondi circumlunari avevano schermi fatti di detriti lunari importati, profondi parecchi metri, ma non potevano evitare le raffiche delle esplosioni solari e gli impatti casuali delle radiazioni cosmiche.

Senza batteri, il suolo sarebbe stato un mucchio senza vita di polvere lunare importata. Ma, con essi, rischiava costantemente un evento mutazionale.

La Repubblica lottava per tenere sotto controllo i suoi Agri. Nello Zaibatsu, l’acidificazione era diventata epidemica. I funghi mutanti si erano diffusi a macchia d’olio, formando una crosta miceliale sotto la superficie esposta del terreno. Questa crosta gommosa respingeva l’acqua, soffocando gli alberi e l’erba. La vegetazione morta veniva attaccata dalla putrescenza. Il terreno si era inaridito, l’aria era diventata eccessivamente umida, e la muffa fioriva sui campi e i frutteti morenti, grige capocchie di spillo che si coagulavano a sciami formando chiazze di corruzione, pelose come licheni…

Quando le cose raggiungevano questo stadio, soltanto sforzi disperati potevano rimettere in sesto un mondo. Zaibatsu avrebbe dovuto esser evacuato, tutta la sua aria decompressa nello spazio, e l’intera superficie interna avrebbe dovuto esser ripulita carbonizzandola nel vuoto, e poi riseminata da zero. Ma la spesa per tutto questo era rovinosa.

Le colonie che si erano trovate davanti a prospettive del genere avevano sofferto scissioni e defezioni di massa, durante le quali a migliaia gli abitanti erano fuggiti verso le frontiere dello spazio più profondo. Con il passare del tempo, questi profughi avevano formato delle società proprie. Si erano uniti in Consorzio politico economico, i cartelli Mechanist della Cintura degli Asteroidi, oppure al Consiglio dell’Anello dei Plasmatori, in orbita intorno a Saturno.

Nel caso dello Zaibatsu del Popolo, la maggior parte della popolazione se n’era andata, ma una cocciuta minoranza aveva rifiutato la sconfitta.

Lindsay capiva. C’era grandezza in quella scontrosa e marcia desolazione.

I lenti turbini del vento erodevano il suolo gommoso, riversando lunghe appendici di terriccio marcio nell’aria crepuscolare. I pannelli di vetro illuminati dal sole erano rivestiti di sudiciume, un amalgama colloso di polvere e di muffa. In certi punti i pannelli erano stati spazzati via e sostituiti con tamponi improvvisati.

Faceva freddo. Con il vetro così sporco, così costellato di crepature, con la luce del giorno ridotta a una macchia crepuscolare, avrebbero dovuto energizzare quel posto ventiquattr’ore su ventiquattro unicamente per evitare che gelasse. La notte era troppo pericolosa; non si poteva rischiare: la notte non era permessa.

Senza peso, Lindsay fluttuò attraverso il ponte di atterraggio, raschiandolo. I velivoli erano ormeggiati al metallo graffiato con delle ventose. C’erano una dozzina di modelli a propulsione umana, in cattivo stato di manutenzione, e qualche ammaccato modello a propulsione elettrica.

Lindsay controllò i montanti di un antico apparecchio elettrico le cui ali di tessuto erano stampate con il disegno di una carpa giapponese. Possedeva dei pattini infangati per atterraggi in un campo gravitazionale. Lindsay raggiunse fluttuando la sella scheletrica dell’apparecchio, infilò nelle staffe le scarpe di tessuto e plastica.

Tirò fuori la carta di credito da una delle tasche che la sua tuta aveva sul petto. Il rettangolo di plastica nera bordato d’oro aveva un display delle ore di credito, a simboli rossi. La inserì in una fessura e il minuscolo motore cominciò a ronzare. Il velivolo decollò, e fu afferrato da una corrente discendente fino a quando non avvertì l’attrazione della forza di gravità. Lindsay si orientò sul terreno sottostante.

Alla sua sinistra, il pannello illuminato dalla luce del sole era stato ripulito a tratti. Una squadra di robot grumosi stava raschiando e lavando il vetro corroso. Lindsay diresse il muso dell’ultraleggero verso il basso per dare un’occhiata più da vicino. I robot erano bipodali e rozzamente progettati. D’un tratto Lindsay si rese conto che erano, in realtà, esseri umani con indosso tute e maschere antigas.

Colonne di luce solare penetravano attraverso le porzioni pulite del vetro, trafiggendo la penombra come tanti riflettori. Lindsay volò dentro una di queste, piroettò, e cavalcò la corrente ascensionale.

La luce illuminava il pannello di terreno sul lato opposto. Vicino al suo centro un grappolo di serbatoi punteggiava il paesaggio. I serbatoi traboccavano di un infuso verdastro limaccioso: alghe. L’ultima traccia di agricoltura che ancora rimaneva nello Zaibatsu era una fabbrica di ossigeno.

Scese ancora più in basso sopra i serbatoi. Grato, respirò quell’atmosfera arricchita. L’ombra del suo velivolo svolazzava sopra una giungla di condotti di raffinazione.

Quando tornò a guardare giù, scorse una seconda ombra dietro la sua. Svoltò bruscamente a destra.

L’ombra seguì il suo movimento con precisione cibernetica. Lindsay eseguì una rapida cabrata e si torse sul sedile per guardare dietro di sé.

Quando riuscì finalmente a vedere il suo inseguitore, rimase scosso nello scoprire quant’era vicino. Il suo camuffamento a chiazze grige e brune lo nascondeva perfettamente contro lo sfondo del cielo interiore fatto di grandi riquadri di terra in totale disfacimento. Era un velivolo addetto alla sorveglianza, un aereo senza pilota controllato a distanza.

Aveva ali piatte e quadrate e un propulsore posteriore insonorizzato dentro una cappottatura per i condotti di scarico.

Un bitorzoluto dispiegamento si sporgeva dal torso del velivolo robotico. I due tubi puntati contro di lui potevano essere telecamere con teleobbiettivi. Oppure potevano essere laser a raggi X. Regolato sull’alta frequenza, un laser a raggi X poteva carbonizzare l’interno di un corpo umano senza lasciare un solo segno sulla pelle. E i raggi X erano invisibili.

Questo pensiero lo riempì di paura e di un profondo disgusto. I mondi erano luoghi fragili, i quali contenevano aria e calore preziosi contro il nulla ostile dello spazio. La sicurezza dei mondi era la base universale della moralità. Le armi erano pericolose e ciò le rendeva spregevoli. In quel mondo di cani sciolti solari soltanto le armi potevano mantenere l’ordine, ma tuttavia lui provava un profondo e istintivo senso d’indignazione.

Lindsay volò dentro ad una nebbia giallastra che ribolliva e turbinava vicino all’asse dello Zaibatsu. Quando ne emerse, l’altro aereo era scomparso.

Non avrebbe mai saputo quando lo stavano sorvegliando. In qualunque momento dita invisibili potevano far scattare un interruttore e lui sarebbe precipitato.

La violenza dei suoi sentimenti lo sorprendeva. L’addestramento era filtrato via da lui a poco a poco. Dietro ai suoi occhi balenava l’incontrollabile immagine di Vera Kelland, che precipitava verso il basso, fracassandosi al suolo, le ali risplendenti del suo apparecchio che si accartocciavano all’istante dell’impatto…

Virò in direzione sud. Al di là dei pannelli in rovina vide un ampio anello d’un bianco puro, che cingeva il mondo. Poggiava contro la parete meridionale dello Zaibatsu.

Guardò dietro di sé. La parete settentrionale era concava, affollata di fabbriche e di depositi abbandonati. La spoglia parete meridionale era a strapiombo. Pareva fatta di mattoni.

Il terreno sotto di essa era un anello di bianche rocce cangianti che parevano essere state ammucchiate con un rastrello. Qua e là in mezzo a quel mare di sassi, simili ad isole buie, si elevavano macigni dalla forma enigmatica.

Lindsay eseguì una picchiata verso il basso per dare un’occhiata più da vicino. Una fila di tozzi bunker irti di armi nere ruotò visibilmente, seguendo i suoi movimenti con i sensibili musi bluastri. Si trovava ancora sopra la zona sterilizzata.

Si affrettò a riprender quota.

Un buco spiccava inequivocabile al centro della parete meridionale. Gli apparecchi di sorveglianza sciamavano come calabroni dentro e intorno ad esso. I suoi orli, dai quali si dipartivano cavi corazzati, erano irti di antenne per le microonde.

Non riusciva a vedere attraverso quel buco. C’era la metà del mondo al di là di quel buco, ma ai cani sciolti solari non era permesso neppure intravederla.

Lindsay planò verso il basso. I cavi dei montanti dell’ultra-leggero vibrarono rumorosamente per la tensione.

A nord, sulla seconda delle tre piattaforme di atterraggio dello Zaibatsu, vide il lavoro dei cani solari. I profughi avevano spogliato e demolito ampie fasce del settore industriale ed eretto rozze cupole a tenuta stagna, utilizzandone i rottami.

Le cupole andavano da piccole bolle di plastica gonfiata, a geodetiche multicolori calafatate, fino a un singolo, enorme emisfero isolato.

Lindsay girò in cerchio a distanza ravvicinata intorno alla cupola più grande. Una nera schiuma isolante copriva la sua superficie. Pietra lunare screziata corazzava il suo orlo inferiore. A differenza della maggior parte delle altre cupole non aveva antenne.

Lo riconobbe. Sapeva che sarebbe stato là.

Lindsay aveva paura. Chiuse gli occhi e fece appello al suo addestramento plasmico, la forza radicata in lui da dieci anni di disciplina psicotecnica.

Sentì la propria mente scivolare sottilmente nel suo secondo modo di essere consapevole. Il suo portamento si alterò, i movimenti divennero più fluidi, il cuore prese a battere più in fretta. Acquisì fiducia e sorrise. Sentì che la sua mente era più pronta, pulita, libera da inibizioni, pronta a guizzare e a manipolare. La paura e il senso di colpa oscillarono, esitanti, si deformarono e si dispersero, in un groviglio di cose irrilevanti.

Come sempre gli accadeva in quel suo secondo stato, provò disprezzo per le precedenti debolezze: questo era il vero se stesso, pragmatico, rapido nell’agire, libero dal fardello emotivo. Quello non era il momento per le mezze misure. Aveva i suoi piani. Se voleva sopravvivere in quel luogo, doveva ghermire la situazione.

Lindsay individuò il portello della camera di equilibrio dell’edificio. Diresse l’ultraleggero verso il basso, preparandosi ad un atterraggio scivolato. Sfilò la carta di credito dalla fessura e smontò. Il velivolo schizzò via nel cielo fangoso.

Lindsay salì una serie di gradini di pietra che conducevano a una rientranza nella parete della cupola. Dentro la nicchia, un pannello si accese di una luce brillante. Alla sua sinistra, nella parete della rientranza, la lente di una telecamera fiancheggiava uno schermo blindato. Sotto lo schermo una luce baluginava da una fessura per carte di credito al centro d’un rettangolo d’acciaio a prova di effrazione.

Una porta scorrevole di grandi dimensioni spiccava nella parete interna, a proteggere la camera d’equilibrio. Uno spesso strato di terriccio che mostrava di non essere stato smosso da molto tempo riempiva i solchi, in basso. I Medici Neri Nefrini non sembravano troppo ben disposti verso i visitatori.

Lindsay aspettò pazientemente, ripassando fra sé le bugie. Trascorsero dieci minuti. Lindsay cercò d’impedire che il naso gli colasse. D’un tratto lo schermo si illuminò, animandosi. Comparve il volto di una donna.

— Metti la tua carta di credito nella fessura — gli disse la donna, in giapponese.

Lindsay la guardò, valutando le sue capacità di reazione. Era una donna magra, dagli occhi scuri, di età indeterminata, i capelli castani tagliati corti. I suoi occhi parevano dilatati. Indossava una tunica bianca, di tipo medico, con un’insegna metallica al colletto: un bastone d’oro con due serpenti intrecciati. I serpenti erano di smalto nero con pietre rosse al posto degli occhi. Le mascelle spalancate mostravano zanne ipodermiche.

Lindsay disse: — Non sono venuto a comperare niente.

— Stai comperando il mio tempo, no? Infila la carta.

— Non ti ho chiesto io di comparire sullo schermo — ribatté Lindsay in inglese. — Sei libera di spegnerlo in qualunque momento.

La donna lo fissò infastidita. — Certo che sono libera — replicò in inglese. — Sono libera di farti trascinare qui dentro, e di farti fare a pezzi. Sai dove ti trovi? Questa non è un’operazione da cani solari da quattro soldi. Noi siamo i Medici Neri Nefrini.

Nella Repubblica erano sconosciuti. Ma Lindsay sapeva di loro dai tempi che aveva trascorso al Consiglio dell’Anello: biochimici criminali ai confini della malavita del Plasmatore. Però conducevano un’esistenza da reclusi, ed erano immorali. Lui sapeva che avevano delle roccaforti, laboratori neri sparsi per tutto il sistema. E questo era uno.

Sorrise adulante: — Vorrei entrare, sai. Soltanto… non a pezzi.

— Tu stai scherzando — replicò la donna. — Non vali i crediti che ci costeresti per disinfettarti.

Lindsay la guardò: — Ho i microbi standard.

— Questo è un ambiente sterile. I nefrini vivono puliti.

— Così, voi non potete entrare e uscire liberamente? — domandò Lindsay fingendosi sorpreso da quella notizia. — Siete intrappolati là dentro?

— È qui che viviamo - disse la donna. — Sei tu che ti trovi intrappolato fuori.

— È un peccato — sospirò Lindsay. — Ero venuto qui sperando di poter reclutare qualcuno. Stavo cercando di essere equo. — Scrollò le spalle. — Questa chiacchierata mi ha fatto piacere, ma il tempo stringe. Devo andare.

— Fermo! — esclamò la donna. — Tu non te ne andrai fino a quando non ti dirò che puoi andare.

Lui si finse allarmato. — Ascolta — disse. — Nessuno mette in dubbio la vostra reputazione. Ma siete intrappolati qui dentro. Non mi servite. — Mosse le lunghe dita attraverso l’aria. — Non vale neanche la pena di pensarci.

— Cosa intendi dire? Chi sei, comunque?

— Lindsay.

— Lin Dze. Non sei di ceppo orientale.

Lindsay guardò dentro la lente della telecamera, incrociando il suo sguardo. Era difficile simulare l’impressione attraverso il video, ma il suo atto fu abbastanza inaspettato da risultare assai efficace a livello subconscio. — E tu come ti chiami?

— Cory Prager — sbottò lei. — Dottor Prager.

— Cory, io rappresento la Kabuki Intrasolar. Siamo un’impresa teatrale commerciale. — Lindsay stava mentendo con entusiasmo crescente. — Sto preparando una produzione e reclutando un cast. Paghiamo generosamente. Ma, come hai detto, dal momento che non puoi uscire, in tutta franchezza, mi stai facendo perdere tempo. Non potete neppure assistere allo spettacolo. — Sospirò. — Ovviamente, questa non è colpa mia. Non sono io il responsabile.

La donna se ne uscì in una risata sgradevole. Comunque, Lindsay aveva intuito il suo modo di reagire, e il suo senso di disagio gli pareva ovvio. — Credi che c’importi quello che fanno all’esterno? Qui ci siamo accaparrati un mercato. Tutto quello che c’interessa sono i loro crediti. Il resto non ha importanza.

— Sono contento di sentirtelo dire. Vorrei che altri gruppi condividessero il vostro atteggiamento. Io sono un artista, non un uomo politico. Vorrei poter evitare le complicazioni con la stessa facilità con cui lo fate voi. — Allargò le braccia. — Dal momento che adesso ci capiamo, continuo per la mia strada.

— Aspetta. Quali complicazioni?

— Non sono opera mia — rispose Lindsay, mettendo le mani avanti. — Sono le altre fazioni. Non ho neppure finito di mettere insieme il cast, e già stanno complottando fra loro. La recita gli dà una possibilità di negoziare.

— Possiamo mandar fuori i nostri monitor. Possiamo seguire la vostra produzione.

— Oh, mi spiace — replicò Lindsay, rigido. — Noi non permettiamo che le nostre recite vengano registrate o trasmesse. Farebbe diminuire il numero degli spettatori. — Si mostrò molto addolorato. — Non posso rischiare di deludere il mio cast. Chiunque può fare l’attore, oggigiorno. Le droghe mnemoniche lo rendono facile.

— Noi vendiamo droghe mnemoniche — disse la donna. — Vasopressina, carboline, endorfine. Stimolanti e tranquillanti. Ilarizzanti, urlizzanti, gridizzanti… chiedi quello che vuoi e noi l’abbiamo. Se c’è un mercato per qualcosa, i chimici neri nefrini possono produrlo. Se non possiamo sintetizzarlo, lo filtriamo dai tessuti. Qualunque cosa tu voglia. Qualunque cosa ti riesca di pensare. — Abbassò la voce. — Siamo loro amici, sai. Di quelli dietro il Muro. Hanno di noi la migliore opinione di questo mondo.

Lindsay roteò gli occhi… naturalmente! Lei guardò qualcosa fuori dell’area visibile nello schermo. Si udì il rapido battito di una tastiera. La donna tornò a sollevare lo sguardo. — Hai parlato con le puttane, non è vero? La Banca Geisha?

Lindsay si mostrò cauto. La Banca Geisha era una novità per lui. — Preferirei tenere riservate le mie trattative.

— Sei uno sciocco se credi alle loro promesse.

Lindsay esibì un sorriso incerto. — Che razza di scelta ho? Esiste una naturale alleanza fra gli attori e le puttane.

— Devono averti messo in guardia contro di noi. — La donna si appoggiò un paio di auricolari contro l’orecchio sinistro, e ascoltò distrattamente.

— Te l’ho detto che cercavo di essere equo — disse Lindsay. Lo schermo si azzittì tutt’a un tratto, e la donna parlò rapidamente in un microfono grande quanto la capocchia di uno spillo. Il suo volto sparì dallo schermo, e fu sostituito dalla faccia incisa da profonde rughe di un vecchio. I indsay intravide solo per un istante il vero aspetto dell’uomo (capelli bianchi irti e scarmigliati, occhi cerchiati di rosso) prima che il programma di videocosmesi venisse inserito in linea. Il programma si precipitò nello schermo ad una linea di scansione per volta, sottilmente lisciando, cancellando e colorando.

— Tutto questo è inutile — esplose Lindsay. — Non cercate di convincermi a far qualcosa di cui mi pentirò. Io ho uno spettacolo da metter su, non ho tempo per queste…

— Chiudi il becco, tu — ribatté l’uomo. La porta d’acciaio scivolò, aprendosi in parte, e rivelando un pacchetto ripiegato di vinile trasparente. — Mettitelo — gli ingiunse l’uomo. — Puoi entrare.

Lindsay dispiegò il fagotto e lo svuotò. Dentro c’era una tuta per decontaminazione a tutta lunghezza — Su, fai presto — lo sollecitò il medico nero. — Potresti essere sotto sorveglianza.

— Non me n’ero reso conto — rispose Lindsay. Lottò per infilarsi i calzoni con gli stivali incorporati. — Questo è un grande onore. — Si addentrò nella metà superiore, che comprendeva guanti e casco, infine strinse la cintura.

La porta della camera di equilibrio si aprì del tutto con un crepitio. — Entra — disse l’uomo. Lindsay entrò e la porta tornò a chiudersi alle sue spalle. Il vento agitò la polvere, una pioggia leggera e sudicia cominciò a cadere. Una scheletrica telecamera robot si avvicinò a brevi passi sulle quattro gambe tubolari e puntò le lenti sulla porta.

Passò un’ora. La pioggia cessò e un paio di congegni addetti alla sorveglianza si librarono là sopra, silenziosi come aquiloni. Una violenta tempesta di sabbia si levò a nord, nella zona industriale abbandonata. La telecamera continuò ad osservare.

Lindsay riemerse dalla camera di equilibrio ondeggiando un po’. Appoggiò una valigetta diplomatica nera sul pavimento accanto a sé e prese a contorcersi per uscire dalla tuta decontaminante. Ricacciò la tuta nella nicchia. Poi ridiscese con grazia esagerata i gradini di pietra.

L’aria puzzava. Lindsay si fermò e sternuti. — Ehi — disse la telecamera. — Signor Dze, vorrei scambiare una parola con lei… signor Dze.

— Se vuoi una parte in questa recita dovrai comparire di persona — rispose Lindsay.

— Mi stupisci — osservò la telecamera. Parlava in giapponese commerciale. — Devo ammirare il tuo coraggio, signor Dze. I Medici Neri hanno il più immondo tipo di reputazione che si possa immaginare. Avrebbero potuto farla a pezzi per recuperare le sostanze chimiche del suo corpo.

Lindsay s’incamminò verso nord con le scarpe sottili che si trascinavano nel fango. La telecamera si mise a seguirlo. La sua gamba posteriore sinistra cigolava.

Lindsay scese una bassa collina addentrandosi in un frutteto dove gli alberi caduti, coperti da un denso strato di fuliggine nera, formavano un lungo boschetto scheletrico. Più in basso rispetto al frutteto c’era uno stagno coperto di sudicia schiuma con una fatiscente casa da tè sulla sua riva. L’edificio di legno e ceramica, un tempo elegante, era crollato, ridotto ormai a un mucchio di legname secco e marcio. Lindsay tirò un calcio a una delle assi e scoppiò in una tosse convulsa all’esplosione del legno sbriciolato. — Qualcuno dovrebbe gettar via questa roba — borbottò.

— E dove potrebbe metterla? — chiese la telecamera.

Lindsay gettò in fretta un’occhiata tutt’intorno a sé. Gli alberi lo nascondevano alla vista di eventuali osservatori. Fissò la macchina. — La tua telecamera ha bisogno di una revisione — dichiarò.

— Era il meglio che potessi permettermi — disse la telecamera.

Lindsay fece oscillare avanti e indietro la sua valigetta nera. — Pare piuttosto lenta e debole.

Il robot arretrò prudentemente di un passo. — Hai un posto dove alloggiare, signor Dze?

Lindsay si sfregò il mento. — Me ne stai forse offrendo uno?

— Non dovresti rimanere all’aperto. Non porti neppure una maschera.

Lindsay sorrise. — Ho detto ai medici che ero protetto da antisettici molto progrediti. Questo li ha molto colpiti.

— Devono essere stati colpiti per forza. Nessuno qui respira l’aria grezza. A meno che tu non voglia che i tuoi polmoni finiscano per assomigliare a questo boschetto. — La telecamera esitò. — Mi chiamo Fyodor Ryumin.

— Lieto di fare la tua conoscenza — rispose Lindsay in russo. Gli avevano iniettato la vasopressina attraverso la tuta e il suo cervello gli dava una sensazione d’impossibile acutezza. Si sentiva intollerabilmente intelligente. Passare dal giapponese al suo russo, di cui aveva scarsa dimestichezza, gli parve facile come cabiare nastro.

— Ancora una volta mi stupisci — gli disse la telecamera in russo. — Stimoli la mia curiosità. Capisci il termine “stimolare”? Non è molto comune nel russo commerciale. Per favore, segui il robot. La mia abitazione non è lontana. Cerca di respirare poco.

L’abitazione di Ryumin era una piccola cupola rigonfia di plastica grigioverde vicino al vetro macchiato e rotto di uno dei pannelli-finestra. Lindsay abbassò la chiusura-lampo della camera d’equilibrio in tessuto, ed entrò.

L’aria pura all’interno gli provocò un accesso di tosse. La cupola era piccola, con un diametro di circa dieci passi. Un groviglio di cavi occupava il pavimento, collegando cataste di apparecchiature video a un’ammaccata galleria tenuta sollevata da terra da uno strato di tegole di ceramica. Un palo centrale, anch’esso avvolto da cavi elettrici, sorreggeva un filtro dell’aria, una lampadina, e la base d’un complesso di antenne.

Ryumin sedeva a gambe incrociate su un tatami, con le mani su dei joystick portatili. — Lascia che prima mi occupi del robot — disse. — Sarò da te fra un momento.

Il largo volto di Ryumin aveva un’impronta vagamente asiatica, ma i suoi capelli, che si andavano rarefacendo, erano biondi. Le macchie dell’età gli chiazzavano le guance. Le sue nocche avevano le rughe massicce comuni ai molto anziani. C’era qualcosa di sbagliato nelle sue ossa. I polsi erano troppo sottili per il suo corpo tozzo, e il cranio appariva stranamente delicato. Due dischi adesivi neri erano attaccati alle tempie. Un filo sottile si dipartiva da ognuno di essi, gli scendeva dietro la schiena e si perdeva in mezzo alla giungla dei cavi.

Gli occhi di Ryumin erano chiusi. Allungò la mano alla cieca e batté un dito su un interruttore accanto al suo ginocchio. Si staccò i dischi dalle tempie e aprì gli occhi. Erano di un azzurro vivo.

— C’è abbastanza luce qua dentro? — chiese.

Lindsay lanciò un’occhiata alla lampadina sopra di loro. — Credo di sì.

Ryumin si batté la mano sulla tempia. — Innesto di chip lungo i nervi ottici — spiegò. — Soffro un po’ di bruciatura da video. Ho difficoltà a vedere qualunque cosa che non sia sulle linee di scansione.

— Sei un mechanist?

— Si vede? — chiese Ryumin, con tono ironico.

— Quanti anni hai?

— Centoquaranta. No, centoquarantadue. — Sorrise. — Non allarmarti.

— Non ho pregiudizi — lo rassicurò falsamente Lindsay. Provava confusione, e con questa gli effetti del suo addestramento scivolavano via. Ricordava il Consiglio dell’Anello e le lunghe, odiate sedute anti-Mech. Il senso di ribellione lo richiamava a se stesso.

Scavalcò un groviglio di cavi e appoggiò la sua valigetta diplomatica su un basso tavolino. — Per favore, cerca di capirmi, signor Ryumin. Se questo è un ricatto, mi hai giudicato male. Non collaborerò. Se intendi farmi del male, allora fallo. Uccidimi adesso.

— Io non lo direi a voce troppo alta — lo ammonì Ryumin. — Gli aerei nel cielo possono bruciarti là dove ti trovi, dritto attraverso la parete della cupola.

Lindsay sussultò.

Ryumin sorrise cupo. — L’ho visto accadere altre volte. Inoltre, se dobbiamo assassinarci a vicenda, allora dovresti essere tu ad uccidermi. Sono io che corro dei rischi, qui, giacché ho qualcosa da perdere. Tu sei soltanto un cane solare che ha la lingua lunga. — Riavvolse il cordone del suo joystick. — Potremmo blaterare reciproche assicurazioni fino a quando il sole esploderà in una nova, senza mai convincerci l’un l’altro. O ci fidiamo l’uno dell’altro, oppure no.

— Mi fido di te — decise Lindsay. Si sfilò con un calcio le scarpe infangate.

Ryumin si alzò in piedi. Si chinò per raccogliere le scarpe di Lindsay, e la sua spina dorsale produsse un sonoro schiocco. — Queste le metterò nel forno a microonde — disse. — Quando vivi qui, non devi mai fidarti del fango.

— Me ne ricorderò — promise Lindsay.

Il suo cervello stava nuotando in mezzo ai chemiomnemonici. La droga l’aveva tuffato in una specie di epifania nella quale ogni singolo filo aggrovigliato e ogni matassa di nastri gli pareva di vitale importanza. — Bruciale pure se vuoi — disse.

Aprì la sua valigetta nuova e ne tirò fuori un’elegante giacca medica color crema.

— Queste sono ottime scarpe — dichiarò Ryumin. — Valgono almeno tre o quattro minuti.

Lindsay si sfilò la tuta. Un paio di lividi dovuti alle iniezioni gli chiazzavano il gluteo destro.

Ryumin strizzò gli occhi. — Vedo che non ne sei uscito illeso.

Lindsay tirò fuori un paio di calzoncini bianchi spiegazzati. — Vasopressina — disse.

— Vasopressina — rifletté Ryumin. — Mi pareva che tu avessi qualcosa del plasmatore. Da dove vieni, signor Dze? E quanti anni hai?

— Tre ore — disse Lindsay. — Dze non ha passato.

Ryumin deviò lo sguardo su qualche punto imprecisato. — Non posso biasimare un plasmatore se cerca di nascondere il suo passato. Il Sistema pullula di tuoi nemici. — Sbirciò di traverso Lindsay. — Credo d’indovinare che eri un diplomatico.

— Cosa te lo fa pensare?

— Il tuo successo con i Medici Neri. La tua abilità è impressionante. Inoltre capita spesso che i diplomatici diventino cani solari. — Ryumin lo studiò. — Il Consiglio dell’Anello aveva un programma segreto per i diplomatici di un tipo speciale. La percentuale d’insuccessi è stata alta. Metà degli allievi erano ribelli o disertori.

Lindsay tirò su la chiusura lampo della giubba.

— È quello che è successo a te?

— Qualcosa del genere.

— Affascinante. Ho incontrato molti post-umani marginali ai miei tempi, ma mai uno come te. È vero che impongono un completo secondo stato di consapevolezza? È vero che quando sei completamente operativo, tu stesso non sai se dici o no la verità? Che usano le psicodroghe per distruggere la tua capacità di essere sincero?

— La sincerità… — ribatté Lindsay — è un concetto molto sfuggente.

Ryumin esitò. — Sei consapevole che la tua classe è braccata da assassini plasmatori?

— No — rispose Lindsay, in tono amaro. Così, si era arrivati a questo, pensò. Tutti quegli anni, mentre i gangli spinali incidevano a fuoco le conoscenze dentro ogni singolo nervo. Gli indottrinamenti sotto l’effetto delle droghe e dei cortocircuiti cerebrali. Aveva lasciato la Repubblica a sedici anni, e per dieci anni gli psicotecnici avevano riversato l’indottrinamento dentro di lui. Era tornato alla Repubblica come una bomba innescata, pronto a servire a qualunque scopo. Ma là, le sue capacità avevano scatenato il timor panico e una completa diffidenza da parte di coloro che detenevano il potere. E adesso gli stessi Plasmatori gli stavano dando la caccia. — Grazie per avermelo detto — disse.

— Io non mi preoccuperei — replicò Ryumin. — I Plasmatori sono assediati. Hanno cose più importanti a cui pensare che la sorte di qualche cane solare. — Sorrise. — Se hai davvero ricevuto quel trattamento, allora devi avere almeno quarant’anni.

— Ne ho trenta. Tu sei un vecchio bastardo sempre sulla difensiva, Ryumin.

Ryumin tirò fuori dal forno a microonde le scarpe ben cotte di Lindsay, le studiò, e le infilò ai propri piedi nudi.

— Quante lingue parli?

— Quattro, normalmente. Con l’esaltazione della memoria arrivo a sette. E conosco la lingua standard di programmazione dei Plasmatori.

— Io ne parlo quattro — disse Ryumin. — Ma non intaso la mia mente con le loro forme scritte.

— Non leggi per niente?

— Le mie macchine possono farlo per me.

— Allora sei cieco all’eredità culturale dell’umanità.

Ryumin parve sorpreso. — Strano discorso da parte di un plasmatore. Sei un antiquario, eh? Vuoi rompere l’interdetto con la Terra, studiare le cosiddette materie umanistiche, quel genere di cose? Questo spiega perché hai usato l’espediente del teatro. Ho dovuto pescare a fondo nel mio lessico per scoprire cosa fosse una “recita”. Una tradizione stupefacente. Hai davvero intenzione di farlo?

— Sì. E i Medici Neri mi finanzieranno.

— Capisco. Alla Banca Geisha non piacerà. I prestiti e i finanziamenti sono il loro campo.

Lindsay si sedette sul pavimento accanto al groviglio dei cavi. Si staccò dal colletto il distintivo dei Medici Neri e lo rigirò fra le dita. — Parlami di loro.

— Le geishe sono puttane e finanziatori. Avrai notato che la tua carta di credito è registrata in ore.

— Sì.

— Quelle sono ore di servizi sessuali. I Mechanist e i Plasmatori usano i chilowatt come valuta. Ma la componente criminale del Sistema deve disporre di un mercato nero per sopravvivere. Molte differenti valute nere sono state usate. Una volta ho redatto un articolo sull’argomento.

— Davvero?

— Sì. Di professione sono giornalista. Intrattengo quelli della borghesia del Sistema ormai stufi di tutto con stupefacenti descrizioni della criminalità. Le bizzarrie della canaglia costituita dalle forme inferiori di vita dei cani solari. — Annuì guardando la valigetta di Lindsay. — Per un po’ i narcotici hanno costituito lo standard, e questi hanno dato ai chimici neri dei Plasmatori un vantaggio. La vendita delle ore di utilizzazione dei computer ha avuto un buon successo, ma ora toccava ai Mechanist, che avevano i migliori cibernetici. Adesso è venuto di moda il sesso.

— Vuoi dire che c’è gente che viene in questo posto abbandonato da Dio soltanto per il sesso?

— Non è necessario visitare di persona una banca per utilizzarla, signor Dze. La Banca Geisha ha contatti dovunque nei cartelli. I pirati attraccano qui per scambiare il loro bottino con crediti neri, più maneggevoli. E riceviamo esiliati politici anche da altri circumlunari. Se sono sfortunati.

Lindsay non mostrò nessuna reazione: lui era uno degli esiliati.

Adesso il suo problema era semplice: sopravvivere. Fu meraviglioso come questo gli schiarì la mente. Poteva scordarsi della sua vita precedente: la ribellione preservazionista, i drammi politici che aveva messo in scena al Museo. Ormai era soltanto storia…

Che svanisca pure, pensò. Tutto passato, adesso. Tutto un altro mondo. Nel pensarci, provò d’un tratto una sensazione di stordimento. Era vivo. Non come Vera.

Constantine aveva tentato di ucciderlo con quegli insetti modificati. Le falene silenziose e subdole erano una perfetta arma moderna: minacciavano soltanto la carne umana, non il mondo nel suo insieme. Ma lo zio di Lindsay aveva preso il medaglione di Vera, una trappola ai feromoni che spingeva alla frenesia le micidiali falene. E suo zio era morto al suo posto. Lindsay provò un lento e crescente senso di nausea.

— E gli stanchi vengono qui dai cartelli mechanist — proseguì Ryumin — a cercare la morte per estasi. Pagando un certo prezzo, la Banca Geisha offre lo shinju: un doppio suicidio con un compagno scelto fra il personale. Vedi, molti clienti traggono un profondo conforto se non muoiono da soli.

Per un lungo istante Lindsay lottò con se stesso. Un doppio suicidio… le parole lo trafissero. Il volto di Vera gli aleggiò davanti agli occhi, aggravando la sua sensazione di nausea. Nell’esatto punto focale della memoria espansa. Si pizzicò il fianco, fu scosso da conati, e vomitò sul pavimento.

Le droghe lo sopraffecero. Non aveva più mangiato da quando aveva lasciato la Repubblica. L’acido gli raschiava la gola, d’un tratto si sentì soffocare e lottò per respirare.

Ryumin fu al suo fianco con un balzo. Calò con forza le rotule ossute tra le sue costole: l’aria esplose attraverso la trachea intasata di Lindsay come una raffica impetuosa. Lindsay rotolò sulla schiena. Inspirò convulsamente. Una formicolante sensazione di calore gli invase le mani e i piedi. Respirò di nuovo e perse conoscenza.

Ryumin prese il polso di Lindsay e rimase lì immobile per un attimo a contargli i battiti. Adesso che il giovane era crollato, una calma strana e sonnolenta calò sul vecchio mechanist. Si muoveva secondo i propri ritmi. Ryumin era molto vecchio da moltissimo tempo. La sensazione di esserlo cambiava le cose.

Le ossa di Ryumin erano fragili. Con cautela trascinò Lindsay sul tatami e lo coprì con una coperta. Poi si avvicinò lentamente a una cisterna di ceramica piena d’acqua, grande quanto una botte, raccolse un tampone di carta ruvida per filtri e ripulì il pavimento dal vomito di Lindsay. I suoi movimenti decisi nascondevano il fatto che, senza input video, era quasi cieco.

Ryumin s’infilò gli oculari. Meditò sul nastro che aveva fatto su Lindsay.

Le idee e le immagini gli ritornavano più facilmente alla memoria attraverso i cavi.

Analizzò i movimenti del giovane cane solare fotogramma per fotogramma. L’uomo aveva lunghe braccia e stinchi ossuti, mani e piedi grandi, ma gli mancava qualunque movimento impacciato. Studiati da vicino, i suoi movimenti mostravano una sinistra fluidità, il segno sicuro di un sistema nervoso soggetto ad una sottile e prolungata alterazione. Qualcuno aveva dedicato grandi cure e grandi spese per quella contraffazione di scioltezza e di grazia.

Ryumin trattò il nastro con la facilità automatica di un secolo di pratica. Il Sistema era ampio, pensò Ryumin. In esso c’era lo spazio per mille modi diversi di vita, mille mostri speranzosi. Provava tristezza per ciò che era stato fatto all’uomo, ma nessun allarme o paura. Soltanto il tempo avrebbe potuto dire la differenza fra l’aberrazione e il progresso.

Ryumin non esprimeva più giudizi. Quando poteva, porgeva la mano.

I gesti amichevoli erano pericolosi, naturalmente, ma Ryumin non riusciva mai a resistere all’impulso di farli, osservandone poi i risultati. La curiosità aveva fatto di lui un cane solare. Era intelligente; c’era stato un posto per lui nel soviet della sua colonia. Ma si era sentito stimolato a fare domande scomode, a pensare pensieri scomodi.

Un tempo un senso di correttezza morale gli aveva dato la forza. Ma adesso quella giovanile compiacenza era da tempo scomparsa; sapeva però ancora provare pietà ed era disponibile ad aiutare il prossimo. Per Ryumin, da vecchio, la decenza morale era diventata un’abitudine.

Il giovane cane solare si agitò nel sonno. Il suo volto parve incresparsi, torcersi in maniera bizzarra. Ryumin strizzò gli occhi per la sorpresa. Quell’uomo era strano. In questo non c’era niente di straordinario; il Sistema era pieno di stranezze. Era quando sfuggivano al controllo che le cose diventavano interessanti.


Lindsay si svegliò gemendo. — Per quanto tempo sono rimasto privo di sensi? — chiese.

— Tre ore, dodici minuti — l’informò Ryumin. — Ma qui non c’è né giorno né notte, signor Dze. Il tempo non ha importanza.

Lindsay si sollevò su un gomito.

— Affamato? — Ryumin passò a Lindsay una scodella di minestra.

Lindsay fissò con inquietudine quella calda brodaglia. Cerchi d’olio punteggiavano la sua superficie e bianchi grumi galleggiavano dentro di essa. Ne provò un cucchiaio. Era migliore di quanto sembrasse a vederla.

— Grazie — disse. Mangiò in fretta. — Mi spiace darti dei fastidi.

— Non importa — replicò Ryumin. — La nausea è comune, quando i microbi dello Zaibatsu aggrediscono lo stomaco di un nuovo venuto.

— Perché mi hai seguito con quella telecamera? — chiese Lindsay.

Ryumin si versò una scodella di minestra. — Curiosità — spiegò. — Controllo con il radar l’ingresso dello Zaibatsu. La maggior parte dei cani solari viaggiano a gruppi. I passeggeri singoli sono rari. Volevo conoscere la tua storia. Dopotutto, è così che mi guadagno da vivere. — Trangugiò la sua minestra. — Parlami del tuo futuro, signor Dze. Quali sono i tuoi progetti?

— Se te li dirò, mi aiuterai?

— Potrei farlo. Di recente qui le cose sono state piuttosto noiose.

— Ci sono soldi in gioco.

— Di bene in meglio — commentò Ryumin. — Potresti essere più specifico?

Lindsay si alzò in piedi. — Reciteremo un po’ — disse, lisciandosi i polsini. — Prendere gli uccelli con lo specchietto è la trappola ideale… come avevano l’abitudine di dire i miei insegnanti plasmici. Sapevo dei Medici Neri da quand’ero nel Consiglio dell’Anello. Non sono geneticamente alterati. I Plasmatori li disprezzavano, così si sono isolati. È la loro abitudine, perfino qui. Ma smaniano di essere ammirati, così mi sono trasformato in uno specchietto e gli ho esibito davanti al naso i loro stessi desideri. Gli ho promesso prestigio e influenza, come patroni del teatro. — Infilò la mano dentro la giacca. — Ma cosa vuole la Banca Geisha?

— Denaro… potere — rispose Ryumin. — E la rovina dei suoi rivali che, guarda caso, sono per l’appunto i Medici Neri.

— Tre linee di attacco — sorrise Lindsay. — È a questo, appunto, che mi hanno addestrato. — Il suo sorriso esitò, sbiadì un poco, ed egli si portò la mano al ventre. — Quella minestra — fece. — Proteine sintetiche, non è vero? Non credo che andranno d’accordo con me.

Ryumin lo fissò e annuì, rassegnato. — Sono i tuoi nuovi microbi, come ho detto. Farai meglio a cancellare tutto dalla tua agenda degli appuntamenti, per qualche giorno, signor Dze. Hai la dissenteria.

2

Zaibatsu Circumlunare
del Popolo del Mare della Tranquillità
28-12-’15

La notte non scende mai nello Zaibatsu. La cosa diede alle sofferenze di Lindsay un’atmosfera senza tempo: un febbricitante idillio con la nausea.

Gli antibiotici l’avrebbero guarito, ma presto o tardi il suo corpo avrebbe dovuto venire a patti con la nuova flora intestinale. Per fargli passare il tempo fra uno spasimo e l’altro, Ryumin l’intrattenne con aneddoti e pettegolezzi locali. La sua era una storia complessa e deprimente, cosparsa di tradimenti e di inutili giochi di potere.

I coltivatori di alghe erano la fazione più numerosa, cupi fanatici, affetti dallo spirito di clan e ignoranti, i quali, stando alle voci, praticavano il cannibalismo. Poi venivano i matematici, un gruppo di dissidenti protoplasmatori, i quali passavano la maggior parte del loro tempo immersi nelle più astruse congetture sugli insiemi infiniti. Le cupole più piccole dello Zaibatsu erano occupate da una profusione di pirati e corsari: i Dissidenti di Hermes, i Radicali del Torus Grigio, i Grandi Megalici, gli Eclettici della Soyuz, e molti altri ancora, che cambiavano nome e affiliati con la stessa facilità con cui tagliavano la gola alla gente. Le faide tra loro erano una costante, ma nessuno osava sfidare i Medici Neri Nefrini o la Banca Geisha. Tentativi erano stati fatti in passato. In proposito si raccontavano storie orripilanti.

La gente al di là del Muro aveva i propri miti che variavano in maniera incontrollabile. Si diceva che vivessero in una giungla di pini e mimose sovrasviluppati. I continui incroci fra loro avevano dato risultati orrendi. Erano afflitti da doppi pollici e da sordità congenita.

Altri sostenevano che non c’era niente di anche remotamente umano al di là del Muro: soltanto un ammasso di software in proliferazione costante, che aveva acquisito una sinistra autonomia.

Era possibile, naturalmente, che il territorio al di là del Muro fosse stato segretamente invaso e conquistato da… alieni. Un intero folklore postindustriale era sorto intorno a questo affascinante concetto, sostenuto da ingegnose argomentazioni. Tutti si aspettavano gli alieni, presto o tardi. Era la moderna versione del Millennio.

Ryumin si mostrò paziente con lui; mentre Lindsay dormiva in preda alla febbre, lui pattugliava lo Zaibatsu con la sua telecamera robot, alla ricerca di notizie. Lindsay superò la sua malattia. Riuscì infine a trattenere nello stomaco un po’ di minestra e qualche mattoncino fritto di proteine condite.

Uno dei mucchi di apparecchiature di Ryumin cominciò a trillare con uno scandito e penetrante bip elettronico. Ryumin sollevò lo sguardo da dov’era seduto, intento a mettere in ordine delle cassette.

— È il radar — spiegò. — Vuoi porgermi quella cuffia, per favore?

Lindsay strisciò fino al mucchio di cavi del radar e dipanò un gruppo degli oculari adesivi di Ryumin, il quale se li applicò alle tempie. — Non c’è molta risoluzione sul radar — disse, chiudendo gli occhi. — È appena arrivata una folla. Pirati, molto probabilmente. Si stanno aggirando sulla piattaforma di atterraggio.

“C’è qualcosa di molto grande che si muove insieme a loro. Hanno portato qualcosa di gigantesco. Farò meglio a passare alla telefoto.” Tirò il cordone del casco, e la sua spina si staccò con uno schiocco.

— Esco fuori a dare un’occhiata — disse Lindsay. — Sto abbastanza bene.

— Prima collegati — disse Ryumin. — Prendi le cuffie e una delle telecamere.

Lindsay collegò il sistema ausiliario e uscì fuori dalla camera di equilibrio a cerniera nell’aria densa.

Si allontanò dalla cupola di Ryumin andando verso l’orlo del pannello di terra. Si girò e raggiunse trotterellando una vicina scaletta che conduceva sopra la bassa parete metallica, e puntò la telecamera verso l’alto.

— Così va benissimo — gli risuonò la voce di Ryumin nell’orecchio. — Disinserisci il circuito di luminosità, per favore. Quel piccolo pulsante sulla destra. Sì, adesso va meglio. Cosa pensi che sia, signor Dze?

Lindsay strizzò gli occhi attraverso le lenti. Molto più in alto, all’estremità settentrionale dell’asse dello Zaibatsu, una dozzina di cani solari si stavano dibattendo in caduta libera con un gigantesco sacco argentato.

— Sembrerebbe una tenda — riferì Lindsay. — La stanno gonfiando. — La borsa d’argento s’increspò, inturgidendosi d’un tratto, rivelandosi per un cilindro smussato. Sul suo lato c’era un grande marchio rosso alto quanto un uomo. Era un teschio rosso con due saette incrociate.

— Pirati! — esclamò Lindsay.

Ryumin fece udire una risatina. — Anch’io l’avevo pensato.

Una brusca raffica di vento investì Lindsay. Perse l’equilibrio in cima alla scaletta e d’un tratto guardò dietro di sé. La striscia di vetro della finestra formava un sentiero lungo e bianco di fatiscenza. Le greche esagonali di metalvetro erano chiazzate di tamponi scuri, rinforzati qua e là da puntelli di bloccaggio che parevano tanti bastoncini cinesi lasciati cadere a caso. Le falle erano state spruzzate con addensante plastico a garantire la tenuta stagna. La luce del sole filtrava cupa attraverso i tratti translucidi.

— Stai bene? — chiese Ryumin.

— Mi spiace — rispose Lindsay, e tornò a rivolgere la telecamera verso l’alto.

I pirati erano riusciti a far librare in aria il loro pallone di tessuto metallico e avevano acceso i due propulsori a spinta di cui era dotato. Mentre il pallone si allontanava dalla piattaforma di atterraggio, diede un singolo sussulto, poi schizzò in avanti. Trainava qualcosa: un grumo scuro dalla forma strana, più grande di un uomo.

— È un meteorite — l’informò Ryumin. — Un dono per la gente oltre il Muro. Hai visto le rocce scure che si ergono nella Zona Sterilizzata? Sono tutti doni dei pirati. È diventata una tradizione.

— Non sarebbe più facile trasportarlo via terra?

— Stai scherzando? Mettere piede nella Zona Sterilizzata significa la morte.

— Capisco. Così, sono costretti a sganciarlo dall’aria. Riconosci quei pirati?

— No. Sono nuovi di qui. È per questo che gli serve quella roccia.

— Sembra che qualcuno li conosca — disse Lindsay. — Guarda là.

Focalizzò la telecamera su un punto al di là dei pirati aerotrasportati fino alla superficie grigio-bruna in pendio del terzo pannello di terra dello Zaibatsu. La maggior parte di quel terzo pannello era una desolata distesa di fango soffocata dalla lanugine, dalla quale s’innalzavano volute di nebbia giallastra.

Vicino ai sobborghi settentrionali distrutti del terzo pannello c’era una tozza cupola multicolore, costruita con pezzi irregolari di ceramica e plastica di recupero. Una folla di cani solari, simili a formiche, scorciata dalla prospettiva, era emersa dalla camera di equilibrio della cupola. Levarono gli sguardi verso l’alto, i volti nascosti dalle maschere col filtro. Avevano trascinato fuori una grossa, rozza macchina fatta di metallo e di plastica, munita di stantuffi, leve e cavi. Con l’aiuto di un martinetto sollevarono la macchina fino a quando una sua estremità non fu puntata verso il cielo.

— Cosa stanno facendo? — chiese Lindsay.

— Chi lo sa? — rispose Ryumin. — Sono quelli dell’Ottavo Esercito Orbitale, o per lo meno è così che si fanno chiamare. Fino ad oggi sono sempre stati degli eremiti.

La nave volante passò sopra di lui, proiettando ombre sfocate sui tre pannelli di terra. Uno dei cani solari attivò la macchina.

Un lungo arpione metallico schizzò fuori e colpì il bersaglio. Lindsay vide lacerarsi il tessuto metallizzato della sezione di coda dell’aeronave. Il giavellotto mandò scintille come se fosse impazzito mentre roteava su se stesso, il suo volo sconvolto dalla collisione e dall’incurvamento provocato dalla forza di Coriolis. Il proiettile metallico scomparve in mezzo agli alberi smozzicati e contorti d’un frutteto in rovina.

L’aeronave era nei guai. Il suo equipaggio scalciava e si dimenava nell’aria, lottando per allontanare dagli attaccanti al suolo il grosso pallone che si stava sgonfiando.

La massiccia pietra che rimorchiavano aveva continuato la sua traiettoria con imperturbabile inerzia, priva di peso. A mano a mano che il cavo del rimorchio si tendeva, cominciò lentamente a strappare via la coda dell’aeronave.

Con uno swoosh di gas, l’aeronave si accartocciò come un contorto straccio metallico. I propulsori precipitarono giù, trascinando dietro di sé il tessuto metallico come un lungo nastro spiegazzato.

I pirati si dibatterono come se stessero affogando, lottando per tenersi dentro la zona priva di peso. La loro situazione era disperata, giacché la zona era infestata da lente correnti discendenti che potevano far precipitare il relitto, condannando i pirati alla morte certa.

La roccia finì dentro il bordo increspato di un turgido banco di nubi. La massa scura virò maestosamente verso il basso, ondeggiando un po’, e poi sparì in mezzo alla nebbia. Qualche istante dopo ricomparve sotto la nuvola, piombando verso il basso con uno stretto, fulmineo arco imposto dalla forza di Coriolis.

Si schiantò contro il vetro e le rabberciature della striscia della finestra. Lindsay, che seguiva la scena con la sua telecamera, udì l’improvviso scricchiolio dell’impatto. Il vetro e il metallo raschiarono l’uno contro l’altro ed esplosero con un risucchiante ruggito.

Il ventre della nube sovrastante si gonfiò verso il basso e cominciò a contorcersi. Un pennacchio bianco si allargò sopra l’esplosione, con la grazia d’un gelo strisciante. Era il vapore che si condensava nell’aria all’improvviso abbassarsi della pressione.

Lindsay tenne la telecamera sopra la testa e balzò sul pavimento sudicio della finestra. Corse verso l’esterno, ignorando le proteste di Ryumin sorpreso da quella sua mossa.

Un minuto di corsa attraverso la superficie coperta di detriti lo portò quanto più vicino osava andare. Si rannicchiò dietro il puntello d’acciaio arrugginito di un tampone, a dieci metri dal punto dell’impatto. Guardando giù, oltre i suoi piedi, attraverso il vetro sporco, Lindsay vide la scia di un lungo spruzzo aprirsi a ventaglio, formando un arcobaleno di cristalli contro lo splendore degli specchi illuminati dal sole.

All’improvviso nell’aria si generò un violento vortice, sferzando raffiche di pioggia. Lindsay chiuse la mano a coppa intorno alla lente della telecamera.

Un movimento attirò la sua attenzione. Un gruppo di contadini dell’ossigeno, provenienti dal pannello limitrofo, si stava sparpagliando sul vetro con addosso maschere e tute. Stringevano fra le braccia un lungo tubo. Avanzavano con cocciuta decisione barcollando, vacillando sotto la potenza del vento, ondeggiando fra i tamponi e i puntelli.

Ghermito dal vento, un aereo di sorveglianza camuffato si schiantò violentemente accanto al buco. I suoi rottami vi furono subito risucchiati dentro.

Il tubo sussultò e s’impennò per l’effetto d’un getto di fluido che ne zampillò fuori. Un denso getto di plastica grigio-verde ne uscì come un geyser, indurendosi a mezz’aria. Colpì il vetro e vi aderì, tappando la falla.

Sotto la pressione dei venti turbinanti, la plastica si torse e si gonfiò, ma resistette. A mano a mano che altra plastica sgorgava fuori, il vento veniva soffocato e si ridusse a un sibilo acuto.

Anche quando la falla fu sigillata, i contadini continuarono a pompare quella pasta di plastica sopra la zona dell’impatto. Una pioggia continua e insistente aveva cominciato a cadere dalle nubi sconvolte. Un altro gruppo di contadini si trovava lungo la parete-finestra, le teste mascherate sporte le une verso le altre: stavano indicando il cielo.

Lindsay girò la testa e guardò verso l’alto come gli altri.

L’improvviso vortice aveva generato una concentrica risacca di nubi. Attraverso uno squarcio a forma di mezzaluna, Lindsay vide la cupola dell’Ottavo Esercito Orbitale attraverso l’intera ampiezza dello Zaibatsu. Minuscole forme in tuta bianca erano disposte in cerchio intorno alla cupola, distese al suolo. Non si muovevano.

Lindsay mise a fuoco la telefoto attraverso il cielo interno. I fanatici dell’Ottavo Esercito Orbitale giacevano scompostamente sul suolo immondo. Un gruppo d’essi era stato colto nel momento in cui tentavano di fuggire dentro la camera di equilibrio: giacevano in un groviglio di corpi con le braccia allargate.

Non vide nessun segno dell’aeronave dei pirati. Per un attimo pensò che fossero tutti riusciti a fuggire tornando alla piattaforma di atterraggio. Poi individuò uno di essi schiacciato contro un altro pannello della finestra. — È stato un eccellente metraggio — disse Ryumin al suo orecchio. — È stato anche molto stupido.

— Ti dovevo un favore — replicò Lindsay. Studiò il morto. — Vado laggiù — decise.

— Lascia che mandi il robot. Lì fra poco ci saranno dei saccheggiatori.

— Allora voglio che mi conoscano — ribatté Lindsay. — Potrebbero essermi utili.

Salì un’altra scaletta per accedere al pannello di terra. Si sentiva i polmoni scorticati, ma aveva deciso di non infilarsi mai una maschera antigas. La sua reputazione era più importante del rischio.

Aggirò la roccaforte dei Medici Neri e attraversò una seconda striscia-finestra. S’incamminò verso nord raggiungendo la cupola fatta di rottami rabberciati dell’Esercito Orbitale. Era l’unico avamposto su tutto il terzo pannello, il quale era stato abbandonato a causa d’un particolare tipo di pestilenza molto virulento che vi imperversava. Un tempo, questa era stata una zona agricola, e l’elevata fertilità del terreno generava chiazze di muffa alte fino alla caviglia. Gli edifici dei contadini, tutti in ceramica e plastica color pastello, erano stati saccheggiati ma non demoliti, e le loro rigide pareti inorganiche e le bocche spalancate delle finestre parevano ardere dal desiderio di precipitare in un irraggiungibile stato di putrescenza. La cupola dei reclusi era costruita con pannelli di porte in plastica, tagliati fino ad avere la forma giusta e poi calafatati.

I corpi giacevano rigidi, i loro arti stranamente piegati, poiché erano già morti prima di toccare il suolo, e le loro braccia e le gambe erano rimbalzate un po’, disordinatamente, per l’impatto.

C’era una curiosa mancanza di orrore in quella scena. Quelle maschere senza faccia e quelle tute a tenuta stagna dei fanatici morti trasmettevano una sensazione di compassata e incruenta efficienza. Niente indicava in quei morti degli esseri umani, salvo le insegne militari sulle spalle. Ne contò diciotto. Le lenti sui volti dei morti erano annebbiate a causa del vapore interno.

Lindsay udì, nel silenzio, un ronzio di velivoli. Un paio di ultraleggeri girarono una volta sopra di lui e poi atterrarono con una planata. Erano arrivati due dei pirati dell’aeronave.

Lindsay puntò su di loro la sua telecamera. Scesero, sfilando le loro carte di credito, e i due apparecchi tornarono a decollare.

S’incamminarono verso di lui col passo strascicato e il corpo semirannicchiato di gente non abituata alla gravità. Lindsay notò che le loro uniformi ostentavano scheletri d’argento interi, stampati su uno sfondo rosso-sangue.

Il pirata più alto toccò con un piede uno dei cadaveri vicino a lui. — Hai visto questo? — disse in inglese.

— Gli aerei spia li hanno uccisi — replicò Lindsay. — Hanno messo in pericolo l’habitat.

— L’Ottavo Esercito Orbitale — fece, meditabondo, il pirata, esaminando una mostrina sulla spalla del morto. Il secondo pirata borbottò attraverso il filtro della sua maschera: — Fascisti. Feccia antinazionalista.

— Li conoscevate? — chiese Lindsay.

— Avevamo dei rapporti con loro — annuì il primo pirata. — Però non sapevamo che si trovassero qui. — Sospirò. — Che bruciata! Pensi che ce ne siano altri, dentro?

— Soltanto morti — rispose Lindsay. — Gli aerei usano laser a raggi X.

— Davvero? — fece il primo pirata. — Vorrei mettere le mani su uno di quelli.

Lindsay ruotò rapidamente la mano sinistra nella gestualità convenzionale della sorveglianza, indicando che erano osservati. Il pirata più alto sollevò rapidamente lo sguardo. La luce del sole si rifletté vivida sul cranio d’argento stampato sopra la sua testa.

Guardò Lindsay, gli occhi nascosti dietro le scintillanti occhiaie placcate d’argento. — Dov’è la tua maschera, cittadino?

— Qui — rispose Lindsay, toccandosi il viso.

— Un negoziatore, eh? Cerchi lavoro, cittadino? Il nostro ultimo diplomatico ha appena fatto un tuffo. Come te la cavi in caduta libera?

— Fai attenzione, signor Presidente — l’ammonì il secondo pirata. — Ricordati le udienze di conferma.

— Lascia che mi occupi io delle implicazioni legali — ribatté il Presidente in tono impaziente. — Farò io le presentazioni. Io sono il Presidente della Democrazia dei Minatori di Fortuna, e questa è mia moglie, il Presidente della Camera.

— Lin Dze, della Kabuki Intrasolar — disse a sua volta Lindsay. — Sono un impresario teatrale.

— Cos’è… una specie di diplomatico?

— Talvolta, Vostra Eccellenza.

Il Presidente annuì. Il Presidente della Camera tornò ad ammonirlo: — Non fidarti di lui, signor Presidente.

— È il ramo esecutivo ad occuparsi dei rapporti con l’estero, così chiudi quella tua fottuta bocca — ringhiò il Presidente. — Ascolta, cittadino, è stata una giornata dura. In questo momento dovremmo essere nella Banca a darci una lavata, forse a farci una bevuta, ma questi fascisti ci hanno bersagliato con quell’affare terra-aria, un attacco preventivo, capisci? Così, adesso la nostra aeronave è bruciata e abbiamo perso la nostra fottuta roccia.

— Un vero peccato — fu d’accordo Lindsay.

Il Presidente si grattò il collo. — Non si possono proprio fare progetti in questo genere d’affari. Impari a prenderla come viene. — Esitò. — Andiamocene via da questo fetore, comunque. Forse c’è del bottino là dentro.

Il Presidente della Camera tirò fuori una sega portatile elettrica da una sua fondina di rete rossa, e cominciò a segare la parete della cupola. Il calafataggio fra i vari pannelli di plastica andava facilmente in polvere. — Devi entrare dalla parte più inaspettata se vuoi continuare a vivere — gli spiegò il Presidente. — Mai entrare in una camera d’equilibrio del nemico. Non puoi mai sapere cosa c’è dentro. — Poi parlò in un apparecchio collegato al polso; usò un gergo operativo di copertura; Lindsay non riuscì a seguire le parole.

Insieme, i due pirati abbatterono con un calcio un pezzo di parete ormai quasi del tutto reciso dalla sega, ed entrarono. Lindsay li seguì, reggendo la telecamera. Rimisero al suo posto il pannello staccato, e la donna lo spruzzò di un fluido a presa rapida contenuto in una bomboletta.

Il Presidente si sfilò la maschera raffigurante un cranio e annusò l’aria. Aveva un naso rincagnato da pugile, un volto coperto di lentiggini; i capelli corti color zenzero erano radi, e la pelle del suo cranio luccicava stranamente. Erano entrati nella cucina comune dell’Ottavo Esercito Orbitale: c’erano cuscini e bassi tavoli, un forno a microonde, una cassa di proteine imballate nella plastica, una mezza dozzina di alte unità per la fermentazione che gorgogliavano rumorosamente. Una donna morta il cui viso appariva bruciato dal sole giaceva lunga distesa sul pavimento accanto alla porta.

— Bene — disse il Presidente. — Mangiamo. — Il Presidente della Camera si tolse a sua volta la maschera: il suo volto era ossuto, con due occhi obliqui carichi di sospetto. Un’eruzione cutanea, che all’aspetto pareva dolorosa, le punteggiava la mascella e il collo.

I due pirati entrarono furtivi nella stanza accanto. Questa fungeva nello stesso tempo da dormitorio e da centro di comando, con un banco di videoterminali che lampeggiavano ammucchiati al centro della stanza. Uno degli schermi stava seguendo una scena esterna a mezzo telefoto: mostrava un gruppo di nove pirati vestiti di rosso che si avvicinavano a piedi lungo il pendio settentrionale dello Zaibatsu, facendosi strada in mezzo alle rovine.

— Ecco che arrivano gli altri del nostro gruppo — disse il Presidente della Camera.

Il Presidente si guardò intorno. — Non è poi tanto male. Allora rimarremo qui. Per lo meno avremo un posto dove poter tenere dentro l’aria.

Qualcosa frusciò sotto una delle cuccette. Il Presidente della Camera si tuffò a capofitto sotto il letto. Lindsay ruotò la sua telecamera. Vi furono uno strillo acutissimo e una breve lotta; poi la donna emerse trascinando fuori un bambino. Il Presidente della Camera l’aveva immobilizzato con una complicata presa che comportava l’uso di una sola mano. Lo mise in piedi.

Era una creaturina sudicia, dai capelli scuri, lo sguardo furibondo, di sesso indeterminato. Indossava un’uniforme dell’Ottavo Esercito Orbitale adattata alle sue dimensioni. Gli mancava un dente. Pareva avesse circa cinque anni.

— Così, non sono morti tutti! — esclamò il Presidente. Si accovacciò e guardò il bambino negli occhi. — Dove sono gli altri?

Gli mostrò un coltello. La lama, che era parsa comparire dal nulla, lampeggiò nella sua mano. — Parla, cittadino! Altrimenti ti farò vedere le tue budella!

— Suvvia! — intervenne Lindsay. — Non è questo il modo di parlare a un bambino.

— A chi la vuoi dar da bere, cittadino? Ascolta, questo piccioncino potrebbe avere ottant’anni. Ci sono trattamenti endocrini…

Lindsay s’inginocchiò accanto al bimbetto e cercò di parlargli con gentilezza. — Quanti anni hai? Quattro? Cinque? Che lingua parli?

— Dimenticatene — intervenne il Presidente della Camera. — C’è soltanto una cuccetta di piccole dimensioni, la vedi? Immagino che gli aerei-spia l’abbiano mancato.

— O risparmiato — disse Lindsay.

Il Presidente rise scettico. — Sicuro, cittadino. Ascolta. Possiamo vendere quest’affare alla banca delle puttane. Dovrebbe valere qualche ora di attenzione per noi.

— È schiavismo — protestò Lindsay.

— Schiavismo? Di che cosa stai parlando? Non metterti a fare il teologo, cittadino. Io sto parlando di una entità nazionale che consegna un prigioniero di guerra, liberandolo, a un terzo partito. È una transazione commerciale perfettamente legale.

— Non voglio finire dalle puttane — pigolò tutt’a un tratto il bambino. — Voglio andare dai contadini.

— I contadini? — fece il Presidente. — Non vorrai fare il contadino, microcittadino? Hai mai avuto qualche addestramento nell’uso delle armi? Ci servirebbe un piccolo assassino capace di sgusciare attraverso i condotti d’aria…

— Non sottovalutate quei contadini — l’interruppe Lindsay. Indicò con un gesto uno degli schermi. Un gruppo di due dozzine di agricoltori aveva attraversato il pendio interno dello Zaibatsu. Stavano caricando i quattro orbitali morti su quattro slitte piatte, trainate da bardature applicate alle spalle.

— Maledizione! — imprecò il Presidente. — Volevo prendermeli io. — Esibì un sorriso di sciocco compiacimento. — Non posso biasimarli, immagino. C’è un sacco di ottime proteine in un cadavere.

— Voglio andare con i contadini — insistette il piccolo.

— Lasciatelo andare — intervenne Lindsay. — Io ho degli affari con la Banca Geisha. Potrei trattare un periodo di soggiorno per la vostra nazione.

Il Presidente della Camera lasciò andare il braccio del marmocchio. — Puoi farlo.

Lindsay annuì. — Datemi un paio di giorni per negoziare la cosa.

La donna lanciò un’occhiata al marito. — Questo va bene. Facciamolo Segretario di Stato.


Popolo dello Zaibatsu Circumlunare
del Mare della Tranquillità
2-1-’16

La Banca Geisha era un complesso di edifici assai vecchi, resi stagni dalla gommalacca e collegati da un labirinto di corridoi di legno lucidato e camere d’equilibrio fatte con pareti scorrevoli di carta. Quell’area era stata un quartiere a luci rosse perfino prima del crollo dello Zaibatsu. La Banca era orgogliosa della propria eredità, e continuava le raffinate ed eccentriche tradizioni di quell’epoca più gentile.

Lindsay lasciò gli undici cittadini della Democrazia dei Minatori di Fortuna in un’antisettica camera adibita a sauna dove degli impassibili ragazzi-da-bagno provvedevano ai loro lavacri. I loro corpi ossuti erano coperti da grumi di muscoli dovuti al costante allenamento dello jujitsu in caduta libera. La loro pelle sudata era vivacizzata da spaventosi tatuaggi ed eruzioni cutanee infette.

Lindsay non si unì a loro. Entrò in uno spogliatoio rivestito di pannelli e consegnò la sua uniforme dei Medici Nefrini perché gliela lavassero e stirassero. S’infilò un morbido kimono bruno. Una geisha maschio di basso rango in kimono e obi gli si avvicinò. — Posso compiacerla, signore?

— Vorrei parlare alla yarite, per favore.

La geisha lo guardò con beneducato scetticismo. — Un momento, vado a chiedere se il nostro ufficiale capo esecutivo è disposto ad accogliere ospiti.

Scomparve. Mezz’ora dopo comparve una bionda geisha femmina in kimono e obi. — Signor Dze? Da questa parte, prego.

La seguì fino a un ascensore sorvegliato da due uomini armati di manganelli borchiati di elettrodi. Le guardie erano veri giganti; la sua testa arrivava appena ai loro gomiti. I loro lunghi volti impassibili erano acromegalici: mascelle gonfie, zigomi sporgenti simili a dirupi. Erano stati trattati con fattori ormonali di crescita.

L’ascensore salì tre piani. Poi lo sportello si aprì.

Lindsay si trovò davanti ad una fitta cascata di perle dai vivaci colori. Migliaia di fili carichi di perle erano appesi al pavimento ricadendo fino al soffitto. Il minimo movimento li avrebbe disturbati.

— Prenda la mia mano — disse la banchiera.

Lindsay la seguì con passo strascicato, mettendo i piedi qua e là, esitante.

— Stia attento a dove mette i piedi — gli disse lei. — Ci sono delle trappole.

Lindsay chiuse gli occhi e la seguì. La sua guida si fermò. Una porta nascosta si aprì in una parete di specchi. Lindsay entrò nella stanza privata della yarite.

Il pavimento era di legno antico, tirato a cera fino a diventare uno specchio scuro. Per terra erano disseminati piatti cuscini quadrati, con disegni stampati di bambù. Nella lunga parete sulla sinistra di Lindsay, attraverso delle doppie porte di vetro, s’intravedeva una terrazza rivestita di legno illuminata dal sole e uno splendido giardino dove dei pini contorti e degli alti cotogni giapponesi si arcuavano sopra sentieri ricurvi tappezzati di bianchi sassolini ben rastrellati. L’aria della stanza sapeva di sempreverdi. Lui stava vedendo com’era quel mondo prima che cominciasse a imputridire, un’immagine del passato proiettata su delle false porte che non avrebbero mai potuto aprirsi.

La yarite sedeva a gambe incrociate su un cuscino. Era una vecchia mech tutta raggrinzita, con una bocca tiratissima e occhi incappucciati da rettile. La sua testa rugosa era avvolta in una parrucca laccata simile a un casco, infilzata da spilloni. Indossava un angoloso kimono a fiori tenuto su dall’amido e dalle stecche. Dentro il kimono c’era spazio per tre di lei.

Una seconda donna era inginocchiata in silenzio con la schiena rivolta alla parete di destra, davanti all’immagine del giardino. Lindsay seppe subito che era un plasmatore. La sua stupefacente bellezza da sola ne era una prova, ma aveva quella strana e intangibile aria carismatica che si diffondeva da una riplasmata come un campo magnetico. Era un miscuglio di ceppo asiatico-africano: i suoi occhi erano obliqui, ma la pelle era scura. I capelli erano lunghi e riccioluti. Stava inginocchiata davanti a un complesso di bianche tastiere con un’aria di docile devozione.

La yarite parlò senza muovere la testa. — I tuoi doveri, Kitsune. — Le mani della ragazza volarono sopra le tastiere e l’aria si riempì con i toni del più antico degli strumenti giapponesi: il sintetizzatore.

Lindsay s’inginocchiò su un cuscino davanti alla vecchia. Un vassoio da tè gli rullò fino al fianco e versò dell’acqua calda dentro una tazza, con un casto tintinnio. Il vassoio affondò nella tazza un piccolo mescolatore da tè.

— I tuoi amici pirati — disse la donna — sono sul punto di fare bancarotta.

— Sono soltanto soldi — replicò Lindsay.

— Sono il nostro sudore e la nostra sessualità. Pensi che ci faccia piacere sprecarli?

— Mi serviva la vostra attenzione — proseguì Lindsay. Il suo addestramento aveva preso subito il sopravvento su di lui… ma aveva ancora paura della ragazza. Non si era aspettato di trovarsi davanti a una plasmatrice. E c’era qualcosa di drasticamente sbagliato nei movimenti muscolari della vecchia. Pareva si trattasse di droghe oppure di alterazioni mechanist del sistema nervoso.

— Sei venuto qui vestito da Medico Nero Nefrino — disse la vecchia. — La nostra attenzione era garantita. Sì, ora l’hai, tutta. Ti ascoltiamo.

Con l’aiuto di Ryumin, Lindsay aveva ampliato i suoi piani. La Banca Geisha aveva la capacità di distruggere il suo intrigo; perciò doveva essere cooptata. Lui sapeva ciò che la Banca voleva. Era pronto ad agitare davanti ad essa uno specchietto. Se avessero riconosciuto le proprie ambizioni e desideri, avrebbe vinto.

Lindsay si lanciò nel suo gioco. Si fermò a metà per definire un punto essenziale. — Puoi vedere cosa sperano di guadagnare dalla recita i Medici Neri. Dietro al loro muro si sentono isolati, paranoici. Contano di guadagnare prestigio sponsorizzando il nostro spettacolo.

“Ma devo avere un cast. La Banca Geisha è il mio serbatoio naturale di talenti. Posso avere successo senza i Medici Neri. Ma senza di voi questo non è possibile.”

— Capisco — disse la yarite. - Adesso spiegami perché pensi che noi possiamo trarre profitto dalle tue ambizioni.

Lindsay si mostrò addolorato. — Sono venuto qui per organizzare un avvenimento culturale. Non è abbastanza?

Lanciò un’occhiata alla ragazza. Le sue mani guizzavano sulle tastiere. D’un tratto alzò lo sguardo su di lui e gli sorrise: un sorriso astuto, segreto. Vide la punta della sua lingua dietro i denti perfetti. Era un sorriso luminoso, predatorio, pieno di libidine e malizia. In un istante lasciò una traccia bruciante nel suo flusso sanguigno. I capelli gli si rizzarono sulla testa. Stava perdendo il controllo.

Guardò il pavimento. La pelle gli si accapponò. — D’accordo — disse, con voce sorda. — Non basta, e questo non dovrebbe sorprendermi… Ascoltami, madame. Voi e i Medici Neri siete stati rivali per anni. Questa è la vostra possibilità di attirarli all’aperto e di tendergli un’imboscata sul vostro terreno. Sono ingenui nel campo delle finanze. Ingenui, ma avidi. Odiano dover trattare con un sistema finanziario controllato da voi. Se dovessero pensare di aver successo, balzerebbero fulmineamente in sella alla possibilità di creare una propria economia.

“Perciò, lasciate che lo facciano. Lasciate che s’impegnino. Lasciate che ammucchino successi su successi, fino a quando non avranno perso ogni senso delle proporzioni e la cupidigia non li avrà sopraffatti. Poi, farete scoppiare il loro bubbone.”

— Sciocchezze — ribatté la vecchia. — Come può un attore insegnare a un banchiere il suo mestiere?

— Non dovrete trattare con un cartello mech — disse Lindsay, calcando le parole, sporgendosi in avanti. Sapeva che la ragazza lo stava fissando. Lo sentiva. — Qui si tratta di trecento tecnici, annoiati, spaventati, e completamente isolati. Sono la preda perfetta per l’isterismo di massa. La febbre del gioco d’azzardo li colpirà come un’epidemia. — Si lasciò andare contro lo schienale. — Offrimi il tuo sostegno, madame. Sarò il tuo uomo di punta, il tuo agente, il tuo intermediario. Non sapranno mai che c’eri tu dietro alla loro rovina. Anzi, saranno proprio loro a venire da te a chiederti aiuto. — Sorseggiò il suo tè. Aveva un sapore di sintetico.

La vecchia tacque per qualche istante, come se stesse riflettendo. La sua espressione aveva qualcosa di parecchio sbagliato. Non c’era nessuno di quei minuscoli tremolìi subliminali della bocca o delle palpebre, i movimenti della gola che accompagnano i processi mentali umani.

Il suo volto era più calmo. Era inerte.

— Sì, offre delle possibilità — disse infine. — Ma la Banca deve avere il controllo. Clandestino… ma completo. Come puoi garantirci questo?

— Sarà nelle vostre mani — le promise Lindsay. — Useremo la mia compagnia, la Kabuki Intrasolar, come copertura. Tu userai i tuoi contatti fuori dello Zaibatsu per emettere azioni fittizie. Io le offrirò in vendita qui, e la tua Banca sarà ambivalente. Ciò permetterà ai Nefrini di fare un colpo finanziario e d’impadronirsi della compagnia. Gli azionisti fittizi, i tuoi agenti, reagiranno allarmati e invieranno le loro richieste e le offerte gonfiate ai nuovi proprietari. Ciò lusingherà la stima che hanno di se stessi e abbatterà ogni loro dubbio.

“Nello stesso tempo voi collaborerete con me apertamente. Mi fornirete attori e attrici; in effetti lotterete gelosamente per questo privilegio. Le vostre geishe non parleranno di nient’altro con ogni vostro cliente. Diffonderete voci su di me: il mio fascino, la mia arguzia, il mio brio, le mie risorse nascoste. Sottoscriverete tutte le mie stravaganze, e stabilirete un’atmosfera di liberalità spendacciona e di spensierato edonismo. Sarà una gigantesca truffa che turlupinerà tutto il mondo.”

La vecchia rimase seduta in silenzio, i suoi occhi divennero vitrei.

Le note basse e pure del sintetizzatore si arrestarono d’un tratto. Una quiete carica di tensione calò sulla stanza. La ragazza parlò sommessa dietro le sue tastiere. — Funzionerà, vero?

Lindsay la guardò in viso. La sua docilità si sbucciava via come uno strato di cosmetici. I suoi occhi scuri lo scossero. Erano colmi di un esplicito desiderio carnivoro. Seppe subito che non fingeva affatto, poiché la sua espressione era al di là di ogni finzione. Non era umana.

Senza rendersene conto, Lindsay si sollevò su un ginocchio, lo sguardo ancora intrecciato al suo. — Sì — disse. La sua voce era rauca. — Funzionerà, te lo giuro. — Il pavimento era freddo sotto la sua mano. Si rese conto che, senza nessuna decisione da parte sua, aveva cominciato a muoversi, quasi strisciando, verso di lei.

Lei lo guardò vogliosa e stupita. — Dimmi cosa sei, tesoro? Dimmelo davvero.

— Sono quello che sei tu — rispose Lindsay. — Opera dei Plasmatori. — Si costrinse a smettere di muoversi. Le sue braccia cominciarono a tremare.

— Voglio dirti cosa hanno fatto a me — disse la ragazza. — Lascia che ti dica cosa sono io.

Lindsay annuì una volta. La sua bocca era asciutta a causa di quella nauseante eccitazione. — D’accordo — annuì. — Dimmelo, Kitsune.

— Mi hanno consegnato ai chirurghi — lei spiegò. — Mi hanno tolto l’utero, e al suo posto mi hanno inserito tessuto cerebrale. Innesti dei centri del piacere, tesoro. Sono collegati al retto e alla spina dorsale e alla gola, ed è perfino meglio che essere Dio. Quando sono calda, sudo profumo. Sono più pulita di un ago nuovo di zecca, e niente che tu non possa bere come il vino o mangiare come zucchero candito lascia il mio corpo. E mi hanno lasciato l’intelligenza, perché sapessi cos’era la sottomissione. Sai cos’è la sottomissione, tesoro?

— No — replicò Lindsay in tono aspro. — Ma so cosa vuol dire non dare importanza alla morte.

— Non siamo come gli altri — lei proseguì. — Ci hanno messi al di là dei limiti. E adesso possiamo fare a loro qualunque cosa vogliamo, no?

La sua risata gli fece provare un brivido che lo scosse tutto. Con la grazia d’una ballerina balzò oltre il suo gruppo di tastiere.

Colpì con un calcio del piede nudo la spalla della vecchia, e la yarite cadde giù con uno scricchiolio. La sua parrucca si staccò con un rumore simile a un nastro che si lacerasse. Sotto di essa Lindsay intravide il cranio consunto, sforacchiato da spinotti craniali. La fissò. — Le tue tastiere — disse.

— È la mia copertura — replicò Kitsune. — È questo che è la mia vita. Coperture e coperture e coperture. Soltanto il piacere è vero. Il piacere del controllo.

Lindsay si leccò le labbra asciutte.

— Dammi quello che è vero — disse.

Kitsune disfece la cintura del suo obi. Il suo kimono era dipinto con disegni di iris e violette. La pelle sotto di esso era come la pelle sognata da un morente.

— Vieni qui — lei l’invitò. — Metti la tua bocca sulla mia.

Lindsay si trascinò in avanti e le buttò le braccia al collo. Lei gl’infilò la lingua rovente nel profondo della bocca. Sapeva di spezia.

Era come un narcotico. Le ghiandole della bocca di Kitsune trasudavano droga.

Si stesero sul pavimento davanti agli occhi della vecchia con le palpebre semiabbassate.

Le braccia di lei scivolarono sotto il suo kimono allentato. — Plasmatore — disse — voglio i tuoi genetici. Tutto sopra di me.

La sua mano calda l’accarezzò. Fece quello che lei gli aveva detto.


Popolo dello Zaibatsu Circumlunare
del Mare della Tranquillità
16-1-’16

Lindsay giaceva disteso sulla schiena sul pavimento della cupola di Ryumin, si teneva premute le lunghe dita sui lati della testa. La sua mano sinistra ostentava due scintillanti rubini incastonati in fasce d’oro. Indossava un luccicante kimono nero, con un disegno d’iris appena accennato nella trama del tessuto. I suoi calzoni hakama avevano un taglio moderno.

Sulla manica destra del suo kimono c’era l’emblema fittizio corporativo della Kabuki Intrasolar: una maschera bianca stilizzata striata di traverso sugli occhi e sulle guance da fasce avvampanti di nero e rosso. Le maniche gli erano ricadute sui gomiti quando si era preso la testa fra le mani, rivelando il livido d’una iniezione sul suo avambraccio. Si era dato alla vasopressina.

Dettò dentro un microfono: — Va bene. Scena tre: Amijima. Jihei dice: Non importa quanto cammineremo. Non troveremo mai un posto destinato ai suicidi. Ammazziamoci qui.

“Poi, Koharu: Sì, è vero, un posto vale l’altro per morire. Ma ho pensato, se troveranno insieme i nostri cadaveri, la gente dirà che Koharu e Jihei hanno commesso il suicidio degli amanti. Posso immaginare come tua moglie se ne risentirà e m’invidierà. Perciò dovresti uccidermi qui, poi scegliere un altro posto, molto lontano, per te.”

“Poi Jihei dice…” Lindsay si azzittì.

Mentre dettava, Ryumin era impegnato in un’insolita attività. Stava versando quelli che parevano minuscoli frammenti di cartone marrone su un piccolo quadratino di carta bianca.

Arrotolò con cura la cartina, formando un tubo. Poi schiacciò le sue estremità per chiuderle e le umettò con la lingua.

Infilò un’estremità del tubicino di carta fra le labbra, poi sollevò un piccolo marchingegno metallico e schiacciò un interruttore in cima ad esso.

Lindsay fissò la scena, poi cacciò un urlo. — Fuoco! Oh, mio Dio! Fuoco! Fuoco!

Ryumin soffiò fuori del fumo. — Cosa diavolo ti succede? Questa piccola fiamma non può far del male.

— Ma è fuoco! Buon Dio, non ho mai visto una fiamma nuda in vita mia. — Lindsay abbassò la voce. — Sei sicuro di non prendere fuoco, tu? — Fissò Ryumin con sguardo ansioso. — I tuoi polmoni fumano.

— No. No. È soltanto un novità, un nuovo piccolo vizio. — Il vecchio mechanist scrollò le spalle. — Un po’ pericoloso, forse. Ma non lo sono tutti?

— Cos’è?

— Pezzettini di cartone inzuppati di nicotina. Hanno anche una specie di sapore. Non è tanto male. — Diede una tirata alla sigaretta. Lindsay fissò la punta ardente di questa e rabbrividì. — Non preoccuparti — disse ancora Ryumin. — Questo posto non è come le altre colonie. Qui il fuoco non è un pericolo. Il fango non brucia.

Lindsay ripiombò sul pavimento e gemette. Il suo cervello nuotava nelle esaltazioni mnemoniche. La testa gli faceva male e provava un’indicibile sensazione di prurito, come la prima frazione di secondo all’inizio di un dejà vu. Era come aver voglia di sternutire e non riuscirci.

— Mi hai fatto perdere la testa — disse. — A che serve? Quando penso a cosa significava per me! Queste commedie e tragedie che contengono tutto ciò che vale la pena di conservare nella vita umana… Il nostro retaggio, prima dei Mech, prima dei Plasmatori. L’umanità, la mortalità, una vita senza manomissioni.

Ryumin scrollò via le ceneri dentro il nero coperchietto rovesciato di una lente. — Parli come un nativo circumlunare, signor Dze. Come un concatenato. Qual è il tuo mondo nativo? Crisium S.S.R.? Il Commonwealth Copernicano?

Lindsay risucchiò l’aria attraverso i denti.

— Perdona questo vecchio ficcanaso. — Proseguì Ryumin soffiando fuori dell’altro fumo, e si sfregò un segno rosso alla tempia, là dove applicava gli oculari. — Permetti che ti dica quello che penso del tuo problema, signor Dze. Finora hai recitato tre di quelle composizioni, Romeo e Giulietta, La Tragica Storia del dottor Faust, e adesso l’Amore Suicida ad Amijima. A esser franco, ho dei problemi con questi lavori.

— Sì? — fece Lindsay, con voce sempre più fremente.

— Sì. Primo, sono incomprensibili. Secondo, sono di una morbosità impossibile. E, terzo, la cosa peggiore di tutte, sono pre-industriali. E adesso lascia che ti dica quello che penso. Hai lanciato questa audacissima frode, stai creando un colossale trambusto, e hai messo sul chi vive tutto lo Zaibatsu. Per tutti questi guai dovresti per lo meno ripagare la gente con un po’ di divertimento.

— Divertimento? — replicò Lindsay.

— Sì, conosco questi cani solari. Vogliono divertirsi, non venir manganellati da qualche antica reliquia. Vogliono sentir parlare di gente vera, non di selvaggi.

— Ma quella non è cultura umana.

— E allora? — Ryumin diede un’altra tirata alla sua sigaretta. — Ci ho pensato. Ho ascoltato tre “recite” finora, così conosco il mezzo. Non sono un granché. Posso metterne su una per noi in due o tre giorni, credo.

— Lo credi?

Ryumin annuì.

— Dovremmo eliminare alcune cose.

— Per esempio?

— Bene, la gravità, prima di tutto. Non vedo come puoi avere delle buone danze o dei combattimenti accettabili se non in caduta libera.

Lindsay si sedette. — Danze e combattimenti, vero?

— Proprio così. I tuoi spettatori sono puttane, coltivatori d’ossigeno, due dozzine di bande di pirati e cinquanta matematici fuggiaschi. A tutti piacciono molto le danze e i combattimenti, e vorranno vederli. Ci sbarazzeremo del palcoscenico: è troppo piatto. Il sipario è un fastìdio: lo possiamo sostituire con l’illuminazione. Tu potrai anche essere abituato a questi vecchi circumlunari con la loro dannata rotazione centrifuga, ma alla gente moderna piace la caduta libera. Questi poveri cani solari hanno già sofferto abbastanza. Per loro sarà come una vacanza.

— Vuoi dire… salire nella zona della caduta libera?

— Sì, proprio così. Costruiremo un aerostato: una grande bolla geodesica, a tenuta stagna. Lo lanceremo dalla zona di atterraggio e lo terremo fissato lassù con delle corde, o qualcosa del genere. Dovrai costruire un teatro comunque, no? Allora tanto vale che tu lo ponga a mezz’aria dove tutti possano vederlo.

— Naturalmente — rispose Lindsay. Sorrise, mentre l’idea prendeva corpo. — Potremmo metterci sopra la nostra sigla corporativa.

— E potremmo appenderci delle bandierine.

— Vendere i biglietti all’interno. I biglietti e le azioni. — Rise sonoramente. — Conosco anche le persone adatte a costruirlo per me.

— Ha bisogno di un nome — disse Ryumin. — Lo chiameremo… la Bolla Kabuki!

— La Bolla! — esclamò Lindsay, battendo la mano sul pavimento. — Che altro? — Ryumin sorrise e si arrotolò un’altra sigaretta.

— Senti — disse ancora Lindsay. — Lasciami fare qualche prova.


POICHÉ, durante la storia di questa nazione, i suoi cittadini hanno sempre affrontato nuove sfide, e


POICHÉ il Segretario di Stato della Nazione, Lin Dze, ha necessità di esperienza d’ingegneria aeronautica che i nostri cittadini sono unicamente adatti a fornire, e


POICHÉ, il Segretario Dze, che rappresenta la Kabuki Intersolar, un ente autonomo, ha acconsentito a pagare la Nazione per il suo lavoro con una generosa assegnazione di azioni della Kabuki Intersolar;


ADESSO, PERCIÒ, VIENE DECISO dalla Camera dei Rappresentanti della Democrazia dei Minatori di Fortuna, con il consenso del Senato, che la Nazione costruirà l’Auditorium della Bolla Kabuki, fornirà i servizi promozionali per le azioni della Kabuki, ed estenderà la protezione fisica e politica al personale della Kabuki, agli impiegati e alla proprietà.


— Eccellente — commentò Lindsay. Autenticò il documento e rimise il Sigillo di Stato di Fortuna nella valigetta diplomatica. — Mi tranquillizza davvero sapere che la DMF si occuperà delle misure di sicurezza.

— Ehi, ma è un piacere — dichiarò il Presidente. — Qualunque nostro borsaiolo che ne abbia bisogno può contare su una scorta ventiquattr’ore su ventiquattro. Specialmente quando va alla Banca Geisha, se capisci quello che voglio dire.

— Fai copiare questa risoluzione e diffondila in tutto lo Zaibatsu — disse Lindsay. — Dovrebbe andar bene per una crescita di dieci punti del valore delle azioni. — Fissò serio il Presidente. — Ma non lasciatevi prendere dall’avidità. Quando arriveranno a centocinquanta, cominciate a venderle, lentamente. E tenete pronta la vostra nave per una rapida fuga.

Il Presidente gli strizzò l’occhio.

— Non preoccuparti, non ce ne siamo stati con le mani in mano. Ci stiamo assicurando un incarico di prima classe per un cartello Mech. Un lavoretto provvisorio da guardie del corpo non è male, ma una nazione tende a diventare irrequieta. Quando il Red Consensus sarà di nuovo in grado di prendere il largo, allora sarà giunto il momento di mettere a segno il colpo e cominciare a mangiare.


Popolo dello Zaibatsu Circumlunare
del Mare della Tranquillità
13-3-’16

Lindsay dormì, esausto, con la testa appoggiata sulla valigetta diplomatica. Un mattino artificiale risplendeva attraverso le false porte di vetro. Kitsune sedeva pensosa, giocherellando in silenzio con i tasti del suo sintetizzatore.

La sua competenza aveva da tempo travalicato i limiti di una mera capacità tecnica. Era diventata una comunione, un’arte spuntata da una tenebrosa intuizione. Il suo sintetizzatore poteva mimare qualunque strumento e superarlo: lacerare il suo profilo sonico in forme d’onda nude, e ricostruirlo su un piano di più elevata, astratta purezza sterilizzata. La sua musica aveva la dolorosa, friabile chiarezza dell’impeccabilità.

Altri strumenti lottavano per arrivare a quella chiarezza ideale, ma fallivano. L’insuccesso dava umanità al loro suono. Il mondo dell’umanità era un mondo di perdite, di speranze infrante, di peccati originali, un mondo difettoso che agognava sempre la pietà, l’empatia, la compassione… Non era il suo mondo.

Il mondo di Kitsune era il regno fantastico, senza saldature, dell’alta pornografia. La lussuria era sempre presente, amplificata e insaziabile, interrotta soltanto da spasimi di sovrumana intensità, soffocava ogni altro aspetto della vita come lo stridìo del feedback poteva sopraffare un’orchestra. Kitsune era una creatura artificiale e accettava il suo mondo febbrile con la sventatezza di un predatore. La sua era una vita pura e astratta, una calda e distorta parodia della santità.

L’aggressione chirurgica contro il suo corpo avrebbe trasformato una donna umana in un animale erotico dagli occhi vacui. Ma Kitsune era una Plasmatrice, dotata del genio e delle capacità di adattamento innaturali di un plasmatore, appunto. Il suo mondo angusto l’aveva trasformata in qualcosa di affilato e sgusciante, come uno stiletto oliato.

Aveva vissuto otto dei suoi vent’anni dentro la Banca dove trattava con i clienti e i rivali in termini che comprendeva completamente. Sapeva, però, che c’era un regno di esperienze mentali, dato per scontato dall’umanità, che le era familiare.

Vergogna. Orgoglio. Colpa. Amore. Avvertiva quelle emozioni come ombre vaghe, tenebrosa spazzatura ofidica ridotta in cenere in un istante da un’estasi cauterizzante. Non che fosse incapace di sentimenti umani, soltanto che questi erano troppo tenui perché lei riuscisse a notarli. Era diventato un secondo subconscio, uno strato sepolto, intuitivo, al di sotto del suo modo di pensare post-umano. La sua consapevolezza era un amalgama di logica freddamente pragmatica e di convulso piacere.

Kitsune sapeva che Lindsay era handicappato dal suo primitivo modo di pensare. Provava per lui una specie di pietà, un dolore compassionevole che non poteva riconoscere o ammettere a se stessa. Lei credeva che lui fosse molto vecchio, che appartenesse a una delle prime generazioni.di Plasmatori. La loro ingegneria genetica era stata limitata e si distinguevano a malapena dal ceppo umano originario.

Doveva avere quasi cent’anni. Essere così vecchio eppure apparire così giovane, significava che aveva scelto delle tecniche efficaci per l’estensione della vita. Risaliva a un’era prima che il plasmismo raggiungesse la sua piena espressione. I batteri sciamavano ancora attraverso il suo corpo. Kitsune non gli aveva mai parlato delle pillole e delle supposte di antibiotici che prendeva, o delle dolorose docce antisettiche. Non voleva che lui sapesse che la stava contaminando. Voleva che fra loro ogni cosa fosse pulita.

Aveva un gelido riguardo nei confronti di Lindsay. Lui rappresentava per lei una fonte di soddisfazione elevata, platonica. Aveva per lui l’artigianale rispetto che un macellaio poteva avere per un coltello di acciaio affilato. Kitsune traeva un piacere positivo nell’usarlo. Voleva che durasse a lungo, così si prendeva gran cura di lui, e godeva nel dargli ciò che riteneva gli servisse per continuare a funzionare.

Per Lindsay, le sue manifestazioni di affetto erano rovinose. Aprì gli occhi sul tatami e allungò subito la mano verso la valigetta diplomatica dietro la sua testa. Quando le sue dita si serrarono sopra la liscia maniglia di plastica, nella sua mente venne escluso il circuito dell’ansia, ma quel primo sollievo servì soltanto ad attivare altri sistemi e si ridestò completamente in preda ad una nauseante sensazione di allarme, pronto a battersi.

Vide che si trovava nella stanza di Kitsune. Il mattino stava spuntando sull’immagine del giardino morto da lungo tempo. Una falsa luce del giorno entrò obliqua nella stanza, riflettendosi sui comò intarsiati e sulla campana di perspex che proteggeva un bonsai fossilizzato. Una parte di lui, repressa, gli urlava dentro, in preda a una sorta di mite disperazione.

La ignorò. La sua nuova dieta di droghe aveva fatto riemergere col massimo vigore gli insegnamenti dei Plasmatori, e lui non era dell’umore giusto per tollerare le proprie debolezze. Era pieno di quella mistura d’irritabilità che si chiude come una trappola d’acciaio, e di lenta pazienza appagante, che lo conduceva ai più affilati cigli della percezione e della reazione.

Si rizzò a sedere e vide Kitsune alle tastiere. — Buongiorno — la salutò.

— Ciao, tesoro. Hai dormito bene?

Lindsay meditò un attimo. Un antisettico che lei usava gli aveva bruciacchiato la lingua. E aveva la schiena coperta di lividi là dove le dita di lei, plasmicamente rinforzate, gli erano affondate distrattamente nella carne. Avvertiva in gola un malaugurante raschiare: aveva passato troppo tempo all’aria aperta senza una maschera. — Mi sento benissimo — rispose sorridendo. Aprì la complessa serratura della sua valigetta diplomatica.

S’infilò gli anelli alle dita e si mise i calzoni hakama.

— Vuoi qualcosa da mangiare? — lei gli chiese.

— Non prima della mia iniezione.

— Allora dammi una mano a collegare la mia copertura — replicò Kitsune.

Lindsay represse un brivido. Odiava quel corpo rugoso, cyborgato, simile alla cera… in una parola, odiava la yarite, e Kitsune lo sapeva. Lo costringeva ad aiutarla in quell’operazione, poiché ciò rappresentava una misura del suo controllo su di lui.

Lindsay lo capiva, e voleva aiutarla; voleva ripagarla in una maniera che le fosse comprensibile, per il piacere che lei gli aveva dato.

Ma qualcosa in lui si ribellava a questo. Quando il suo addestramento vacillava, come capitava fra un’iniezione e l’altra, le emozioni represse sfociavano all’esterno e lui diveniva conscio della terribile tristezza del loro rapporto. Provava una specie di pietà per lei, un dolore compassionevole che non avrebbe mai confessato, per non insultarla. C’erano cose che avrebbe voluto darle: semplice compagnia, semplici fiducia e rispetto.

Semplice irrilevanza. Kitsune tirò fuori la yarite dalla sua culla biocontrollata, sotto le assi del pavimento. Sotto certi aspetti quella cosa aveva superato i limiti della morte clinica; talvolta dovevano farla entrare in funzione con grandi e reiterati sforzi, come mettere in moto a furia di spinte un motore riluttante.

La tecnologia della sua manutenzione era dello stesso tipo che supportava i cyborg mechanist dei Vecchi Radicali e dei Cartelli Mech: filtri e monitor gestivano il suo flusso sanguigno; le ghiandole e gli organi interni erano sotto il controllo del computer. Degli innesti erano disposti sul suo cuore o sul fegato, stimolandoli con elettrodi o ormoni. Il sistema nervoso autonomo si era da lungo tempo sfasciato e aveva cessato di funzionare.

Kitsune lesse alcune registrazioni e scosse la testa. — I livelli di acidità stanno salendo con la stessa rapidità delle nostre azioni, tesoro. Le spine inserite stanno degradando il suo cervello. È molto vecchio, tenuto insieme da fili e rabberciature.

La mise seduta su un tappeto steso sul pavimento e l’imboccò con cucchiaiate di pappa vitaminizzata.

— Dovresti assumere direttamente il controllo… da sola — lui disse. Inserì uno spinotto gocciolante in un condotto dell’avambraccio della yarite coperto da un groviglio di vene.

— Mi piacerebbe — lei disse. — Ma avrei dei problemi a sbarazzarmi di questa. Mi sarebbe difficile spiegare le prese sulla sua testa. Potrei coprirle con degli innesti di pelle, ma questo certo non ingannerebbe gli incaricati dell’autopsia… Il personale si aspetta che questa carcassa viva in eterno. Hanno speso parecchio per tenerla in piedi. Vorranno sapere perché è morta.

La yarite agitò convulsamente la lingua e lasciò sgocciolare la zuppa fuori dalla bocca. Kitsune sibilò, infastidita: — Schiaffeggiala.

Lindsay si passò una mano fra i capelli ancora scarmigliati dal sonno. — Non così presto — disse, implorante.

Kitsune non disse niente. Si limitò a raddrizzare la schiena e le spalle e atteggiò il suo viso a una maschera compassata. Lindsay fu subito sconfitto. Portò di scatto la mano all’indietro e la calò sul volto della cosa in uno schiaffo violento a dita aperte. Una macchia di colore comparve sulla guancia coriacea.

— Mostrami i suoi occhi — disse Kitsune. Lindsay afferrò le guance scarne della cosa tra il pollice e le altre dita e torse la testa così che incontrasse gli occhi di Kitsune. Con ripugnanza, Lindsay riconobbe un vago balenio di degradata coscienza sulla sua faccia.

Kitsune gli staccò la mano dalla cosa e gli baciò delicatamente il palmo. — Questo sì che è il mio buon tesoro — disse. Infilò il cucchiaio fra le labbra flosce della cosa.


Popolo dello Zaibatsu Circumlunare
del Mare della Tranquillità
21-4-’16

I pirati di Fortuna galleggiavano come figurine rosso-argento ritagliate nella carta sullo sfondo delle pareti interne della Bolla Kabuki. L’aria era tutto un frastuono, per il friggere rabbioso delle saldatrici, il gemito delle levigatrici rotanti, il sibilo dei filtri dell’aria.

Il kimono e gli ampi calzoni di Lindsay s’increspavano nella caduta libera. Ripassò la sceneggiatura insieme a Ryumin.

— Hai rivisto questo? — gli chiese.

— Ma certamente — replicò Ryumin. — Gli piacerà da matti. È fantastico. Non preoccuparti.

Lindsay si grattò sotto i capelli rigonfi che galleggiavano nell’aria. — Non so proprio cosa pensarne.

Un aereo della sorveglianza camuffato si era introdotto a forza nella bolla poco prima che la struttura venisse sigillata. Sullo sfondo dei luminosi pannelli triangolari color pastello, il suo tetro camuffamento lo rendeva ovvio come un pollice reciso. La macchina, dopo un’imbardata, era discesa in picchiata dentro quel vasto locale per una cinquantina di metri, le sue lenti, i microfoni e il cannoncino ruotavano incessantemente. A Lindsay non dispiaceva che fosse lì, anche se la cosa lo preoccupava.

— Ho l’impressione di aver già sentito questa storia — disse. Scorse le pagine del tabulato. I margini erano colmi di figure, semplici vignette tracciate con poche linee, da analfabeti. — Vediamo se ho capito bene. Un gruppo di pirati degli Asteroidi Troiani ha rapito una donna dei Plasmatori. Lei è una specie di specialista di armi, giusto?

Ryumin annuì. Aveva accettato la nuova prosperità senza scomporsi. Indossava una tuta di seta costolata d’una raffinata sfumatura azzurra e un berretto floscio, molto di moda nei cartelli dei Mech. La perla d’argento d’un microfono ornava il suo labbro superiore.

Lindsay proseguì: — I Plasmatori sono terrorizzati al pensiero di ciò che i pirati potrebbero fare con le capacità di quella donna. Così, formano un’alleanza e stringono d’assedio i pirati. Alla fine, riescono a entrare con un espediente e bruciano il posto. — Sollevò lo sguardo. — È veramente successo, oppure no?

— È una vecchia storia — rispose Ryumin. — Una cosa del genere è già successa una volta, ne sono sicuro. Ma ho limato i numeri di serie e ci ho messo i miei…

Lindsay si lisciò il kimono. — Potrei giurare che… diavolo. Dicono che se ti dimentichi qualcosa mentre sei sotto l’effetto della vasopressina, non te la ricorderai mai più. Causa un’estinzione mnemonica irreversibile. — Agitò la sceneggiatura, rassegnato.

— Ce la farai a dirigerla? — chiese Ryumin.

— Volevo farlo, ma forse sarà meglio che lo lasci fare a te. Sai quello che stai facendo, vero?

— No — ribatté Ryumin, con allegria. — E tu?

— No… La situazione mi sta sfuggendo di mano. Investitori esterni stanno tentando di comperare le azioni della Kabuki. La voce si è sparsa attraverso i contatti della Banca Geisha. Temo che i Medici Neri Nefrini venderanno le loro partecipazioni azionarie alla Kabuki a qualche cartello Mech. E poi… non so… significherà che…

— Significherà che la Kabuki Intrasolar è diventata un affare legale.

— Sì. — Lindsay fece una smorfia. — Pare che i Medici Neri ne usciranno illesi. Ne trarranno addirittura un profitto. Non piacerà alla Banca Geisha.

— E con ciò? — replicò Ryumin. — Dobbiamo continuare ad andare avanti, altrimenti tutta la baracca finirà per sfasciarsi. La Banca ha già fatto centro in pieno vendendo le azioni della Kabuki ai Medici Neri. La vecchia megera che dirige la Banca va pazza per te. Le puttane non la smettono più di parlare di te.

Lindsay indicò con un gesto il centro del palcoscenico. Era un’area sferica attraversata da un incrocio di fili imbottiti, dove una dozzina di attori stavano provando la loro parte. Si lanciavano in audaci acrobazie in caduta libera, rimbalzando sui fili, roteando, caprioleggiando.

Due degli attori entrarono in collisione, ammaccandosi, e si dibatterono a mezz’aria alla ricerca di un appiglio. Ryumin disse: — Quegli acrobati sono pirati, capisci? Quattro mesi fa si sarebbero tagliati la gola a vicenda per un kilowatt. Ma non più, adesso, signor Dze. Adesso hanno troppo in gioco. Sono abbagliati dal palcoscenico.

Scoppiò in una risata da cospiratore.

— Per una volta, almeno, sono qualcosa di più di terroristi tascabili. Perfino le puttane sono più che giocattoli sessuali. Sono veri attori, con una vera sceneggiatura e un vero pubblico. Non ha importanza che tu ed io sappiamo che si tratta di una truffa, signor Dze. Un simbolo ha significato se qualcuno gli dà significato. E ci stanno mettendo tutto quello che hanno.

Lindsay osservò gli attori che riprendevano a provare. Volavano da un filo all’altro con febbrile concentrazione.

— È patetico — commentò.

— Una tragedia per quelli che provano sentimenti. Una commedia per quelli che pensano — disse Ryumin.

Lindsay lo fissò insospettito.

— Ma cosa ti ha preso? Cosa stai tramando?

Ryumin increspò le labbra e assunse un’aria di elaborata noncuranza. — Le mie necessità sono semplici. Ogni decennio o giù di lì mi piace ritornare ai cartelli per vedere se non hanno fatto qualche progresso con queste mie ossa. La perdita progressiva di calcio non è cosa da ridere. Ad essere schietto, sto diventando friabile. — Fissò Lindsay. — E tu, signor Dze?

Gli batté una mano sulla spalla.

— Perché non ti aggreghi a me? Ti farebbe bene vedere qualcos’altro del sistema. Ci sono duecento milioni di persone nello spazio. Centinaia di habitat, un’esplosione di culture. E non tutti raschiano il fondo della pentola per mantenersi ai margini della sopravvivenza, come questi poveri bezprizorniki. La maggior parte d’essi sono borghesia. Vivono nelle comodità e nella ricchezza. Forse, alla fine, la tecnologia li fa diventare qualcosa che non definiresti umano. Ma è una scelta che hanno fatto… una scelta razionale. — Ryumin agitò la mano, in un’accesso di cordialità. — Questo Zaibatsu è soltanto una nicchia di criminali. Vieni con me e lascia che ti faccia vedere dove cola il grasso del sistema. Tu hai bisogno di vedere i cartelli.

— I cartelli… — fece Lindsay. Unirsi ai Mechanist avrebbe significato arrendersi agli ideali dei Vecchi Radicali. Si guardò intorno e il suo orgoglio avvampò. — Lascia che siano loro a venire a me!


Popolo dello Zaibatsu Circumlunare
del Mare della Tranquillità
1-6-’16

Per il primo spettacolo, Lindsay rinunciò agli abiti eleganti e si mise una comune tuta. Ricoprì la valigetta diplomatica con tela di sacco per nascondere le decalcomanie della Kabuki.

Pareva che ogni cane solare presente su quel mondo fosse riuscito a infilarsi nella Bolla. Erano più di mille. La Bolla poteva contenerli soltanto in caduta libera. C’erano dei leggeri palchi fatti con rade intelaiature per l’élite della Banca, e un complesso di aste imbottite dove il pubblico si teneva aggrappato come tanti passeri appollaiati.

Ma la maggior parte dei presenti fluttuava libera. La folla formava all’incirca delle sfere concentriche che continuavano a compenetrarsi le une nelle altre. Ampie gallerie si erano aperte spontaneamente in quella massa di corpi, adattandosi alla complessa cinetica del flusso della folla.

C’era un continuo mormorio eccitato in un agitato sovrapporsi dei gerghi più diversi.

Lo spettacolo ebbe inizio. Lindsay osservò la folla. Qua e là la gente si prese a spintoni durante la fanfara iniziale, ma quando il dialogo cominciò, la folla si era già messa tranquilla. Lindsay ringraziò il cielo. Sentiva la mancanza della guardia del corpo costituita dai pirati di Fortuna.

I pirati avevano esaurito i loro obblighi nei suoi confronti e stavano preparando la loro nave per la partenza. Lindsay, comunque, si sentiva sicuro nel suo anonimato. Se lo spettacolo fosse risultato un disastroso insuccesso, sarebbe stato soltanto un cane solare fra tanti altri. Se tutto fosse andato bene, avrebbe potuto cambiarsi in tempo per rispondere agli applausi.

Nella prima scena del ratto, i pirati trafugarono la giovane fanciulla, il genio delle armi, interpretata da una delle più splendide ragazze di Kitsune. Il pubblico lanciò urla di piacere all’apparire delle nuvolette di fumo artificiale e degli sgargianti fiotti di falso sangue in caduta libera.

I lessico-computer sparsi per tutta la Bolla traducevano la sceneggiatura in una dozzina di lingue e dialetti. Pareva improbabile che quella folla poliglotta potesse afferrare il dialogo.

A Lindsay pareva un ingenuo polpettone, per di più maciullato dalla traduzione automatica. Ma loro ascoltavano rapiti.

Dopo un’ora, i primi tre atti erano finiti. Seguì un lungo intervallo, durante il quale il palcoscenico centrale venne oscurato. Delle grossolane quanto chiassose claques si erano formate spontaneamente in onore dei vari membri del cast, quando i diversi gruppi di pirati si erano messi a gridare i nomi degli appartenenti alla loro consorteria.

A Lindsay prudeva il naso. L’aria all’interno della bolla era stata sovraccaricata di ossigeno, per dare alla folla uno slancio superventilato. Suo malgrado, anche Lindsay provava una sensazione di esultanza. Quelle rauche grida di entusiasmo erano contagiose. La situazione si stava muovendo con una propria, autonoma dinamicità. Era sfuggita dalle sue mani.

Lindsay si spostò alla deriva verso la parete della bolla, dove alcuni intraprendenti coltivatori di ossigeno avevano messo su una bancarella in concessione.

I contadini, pur aggrappati con molto impaccio per i piedi agli appositi cappi, al telaio della bolla, stavano facendo affari d’oro. Stavano vendendo le loro delizie indigene: enormi pasticcini verdi appena fritti e croccanti, e degli spiedini di cubetti bianchi e grumosi che uscivano caldi caldi dai forni a microonde. Alla Kabuki Intrasolar andava una fetta degli incassi in quanto l’idea era stata di Lindsay. Ma i contadini erano stati felici di pagare, con azioni della Kabuki.

Lindsay aveva fatto molta attenzione con le azioni. Dapprima aveva avuto intenzione di gonfiare la loro quotazione oltre misura, mandando così in rovina i Medici Neri. Ma il miracoloso potere del denaro cartaceo l’aveva sedotto. Aveva aspettato troppo a lungo, così i Medici avevano venduto il proprio stock a investitori esterni, con un guadagno che si era rivelato irresistibile.

Adesso i Medici Neri erano al sicuro da lui… e gliene erano grati. Lo rispettavano con la più assoluta sincerità, e lo assillavano in continuazione per avere qualche altra soffiata sulla situazione del mercato.

Tutti erano felici. Prevedevano una lunga stagione per quello spettacolo. Dopo di ciò, pensava Lindsay, ci sarebbero stati altri piani, più grossi e migliori. Quel mondo di cani solari senza un proprio scopo preciso era perfetto per lui. Richiedeva soltanto che non si fermasse mai, che non si guardasse mai alle spalle, che non guardasse mai più in là del prossimo imbroglio.

A questo ci avrebbe pensato Kitsune. Gettò un’occhiata verso il palco dove lei si trovava e la vide galleggiare con carnivora mansuetudine dietro i funzionari più anziani della Banca, i suoi babbei.

Lei non gli avrebbe permesso nessun dubbio, nessun rincrescimento. In qualche oscura maniera, la cosa lo allettava. Con la sua illimitata ambizione a guidarlo, avrebbe evitato i propri conflitti interiori.

Aveva quel mondo in tasca. Ma al di sotto di quella inebriante sensazione di trionfo, un dolore debole ma persistente gli turbinava dentro. Sapeva che Kitsune era puramente e semplicemente implacabile. Ma Lindsay era come attraversato da una faglia, una saldatura dolorante là dove il suo addestramento incontrava l’altro se stesso. Adesso, nel suo miglior momento, quando voleva rilassarsi e provare una gioia onesta, ne veniva fuori bacato.

Tutt’intorno a lui la folla esultava. Eppure qualcosa dentro di lui lo tratteneva dall’unirsi a loro. Si sentiva ingannato, intralciato, derubato di qualcosa che non riusciva a stringere.

Tirò fuori il suo inalatore. Una buona zaffata chimica avrebbe dato fiato alla sua disciplina.

Sentì tirare da dietro il tessuto della sua tuta, alla sinistra. Gettò una rapida occhiata dietro la spalla.

Un giovane dinoccolato dai capelli neri gli aveva afferrato la tuta con le dita nude del piede destro. — Ehi, bersaglio — gli disse l’uomo. Aveva un sorriso gradevole. Lindsay osservò il volto dell’uomo, alla ricerca dei movimenti muscolari istintivi, e con un sussulto si rese conto che era il suo volto.

— Stai calmo, bersaglio — disse l’uomo. Lindsay udì la propria voce uscire dalla bocca dell’assassino.

Il volto era sottilmente sbagliato. La pelle era troppo pulita, troppo nuova. Sintetica.

Lindsay si girò di scatto. L’assassino si reggeva a un cavo di sostegno con entrambe le mani, ma allungò il piede sinistro e afferrò il polso di Lindsay fra le due dita più grosse. Il piede era rigonfio d’una anormale muscolatura e anche le articolazioni parevano alterate. La sua stretta era paralizzante.

Lindsay sentì che la mano gli si intorpidiva.

L’uomo colpì Lindsay al petto con l’alluce dell’altro piede. — Rilassati — gli disse. — Parliamo un po’.

L’addestramento di Lindsay riprese il sopravvento. L’ondata di adrenalina suscitata dal terrore si tramutò in un gelido autocontrollo.

— Ti piace lo spettacolo? — chiese.

L’altro scoppiò a ridere. Lindsay si rese conto che ora udiva la vera voce dell’assassino: la sua risata era raggelante. — Questi mondi ormeggiati alla Luna sono pieni di sorprese — disse.

— Avresti dovuto unirti al cast — replicò Lindsay. — Hai un vero talento per l’impersonificazione.

— Va e viene — disse l’assassino. Piegò leggermente la caviglia modificata, e le ossa del polso di Lindsay raschiarono le une sulle altre accompagnate da un improvviso dolore lancinante che gli oscurò la vista. — Cos’hai nella valigia, bersaglio? Qualcosa che vorrebbero conoscere là a casa?

— Al Consiglio dell’Anello?

— Proprio così. Dicono che ci hanno messo sotto assedio, tutte queste teste di cavo Mech, ma non tutti i cartelli sono schietti come l’ultimo. E noi siamo bene addestrati. Possiamo nasconderci sotto il più piccolo foruncolo di coscienza d’un borsaiolo.

— Scaltro — annuì Lindsay. — Ammiro sempre una buona tecnica. Forse possiamo organizzare qualcosa.

— Sarebbe interessante — replicò con cortesia l’assassino. A questo punto, Lindsay si rese conto che nessun tentativo di corruzione avrebbe potuto salvarlo da quell’uomo.

L’assassino lasciò il polso di Lindsay. Raggiunse la tasca della propria tuta con il piede sinistro e ve l’infilò. Il suo ginocchio e il suo fianco girarono in una maniera impossibile. — Questo è per te — disse. Liberò la cartuccia nera d’un videonastro. Questa roteò in caduta libera davanti agli occhi di Lindsay.

Lindsay prese la cartuccia e se la mise in tasca. Chiuse la tasca e sollevò di nuovo lo sguardo. L’assassino era scomparso. Al suo posto c’era un cane solare maschio corpulento, con addosso la stessa comunissima tuta bruno-grigiastra. Era più massiccio dell’assassino e i suoi capelli erano biondi.

L’uomo lo guardò con indifferenza.

Lindsay allungò la mano per toccarlo, poi la tirò indietro di scatto prima che l’uomo potesse notarlo.

Le luci si accesero. I danzatori avanzarono sul palcoscenico. Nella bolla echeggiarono grida di entusiasmo. Lindsay scappò lungo le pareti della bolla attraverso un groviglio di gambe infilate nei cappi e di braccia strette agli appigli. Raggiunse la camera d’equilibrio anteriore.

Noleggiò uno dei velivoli ormeggiati fuori della camera d’equilibrio e volò subito fino alla Banca Geisha.

Il luogo era quasi deserto, ma la sua carta di credito gli permise di entrare. Le gigantesche guardie lo riconobbero e si inchinarono. Lindsay esitò, poi si rese conto che non aveva niente da dire. Cosa mai avrebbe potuto dirgli? “Uccidetemi la prossima volta che mi vedete.” Prendere gli uccelli con uno specchietto era la trappola ideale.

La rete di perle della yarite l’avrebbe protetto. Kitsune gli aveva insegnato come manovrare le perle dall’interno. Anche se l’assassino avesse evitato le trappole, poteva venir abbattuto con l’alto voltaggio e i dardi appuntiti.

Lindsay attraversò lo schema senza errori ed entrò di corsa nell’alloggio della yarìte. Accese uno schermo, lo programmò e caricò il nastro.

Era un volto dal suo passato: il volto del suo migliore amico, il volto di colui che aveva tentato di ucciderlo, Philip Khouri Constantine.

— Ciao, cugino — disse Constantine.

Nella Repubblica, quel termine apparteneva allo slang degli aristocratici. Ma Constantine era un plebeo. E Lindsay non l’aveva mai sentito mettere tanto odio in quella parola.

— Mi sono preso la libertà di mettermi in contatto con te in esilio. — Constantine pareva ubriaco. Parlava con troppa precisione. Il colletto ad anello della sua tuta antiquata mostrava chiazze di sudore sulla pelle olivastra della gola. — Alcuni dei miei amici plasmatori condividono il mio interesse per la tua carriera. Non chiamano assassini questi agenti. Li chiamano “antibiotici”.

“Hanno lavorato qui da noi. L’opposizione è assai meno fastidiosa con tanti morti per ‘cause naturali’. Il mio vecchio espediente con le falene adesso sembra un gioco da bambini. Molto avventato e rischioso.

“Comunque gli insetti hanno funzionato bene lo stesso. Quando i Plasmatori vengono intrappolati e spremuti, tendono a colar fuori con la pressione. Non possono essere battuti. Avevamo l’abitudine di dircelo quando eravamo ragazzi, te ne ricordi, Abelard? Quando il nostro futuro ci pareva così luminoso che a volte ci lasciavamo abbagliare. Ancora prima che sapessimo cos’era una macchia di sangue…

“Questa Repubblica ha bisogno dei Plasmatori. La colonia sta marcendo. Non possono sopravvivere senza le bioscienze. Lo sanno tutti. Perfino i Vecchi Radicali.

“Non abbiamo mai veramente parlato a quelle vecchie teste di cavo, cugino. Tu non volevi lasciarmelo fare: li odiavi troppo. E adesso so perché avevi paura di affrontarli. Sono bacati, Abelard, come lo sei tu. In un certo senso sono la tua immagine speculare. A quest’ora sai già quanto sia sconvolgente vederne uno.” Constantine sorrise e si lisciò i capelli ondulati con una mano piccola e agile.

— Ma io gli ho parlato — proseguì — e sono venuto a patti… C’è stato un colpo di stato qui da noi, Abelard. Il Consiglio Consultivo è stato sciolto. Il potere è nelle mani del Consiglio Esecutivo per la Sopravvivenza Nazionale. Siamo io e pochi altri dei nostri amici preservazionisti. La morte di Vera ha cambiato tutto, come sapevamo che sarebbe stato. Adesso abbiamo il nostro martire. Adesso siamo pieni di furore e di ferrea determinazione.

“I Vecchi Radicali se ne stanno andando. Emigrano verso i cartelli Mech. Gli aristocratici dovranno pagarne il prezzo.

“Ce ne sono altri che stanno seguendo la tua strada, cugino. Tutta la massa degli artisti decaduti e in rovina: i Lindsay, i Tyler, i Kelland, i Morissey. Esiliati politici. Tua moglie è con loro. Sono schiacciati fra i loro figli plasmatori e i loro nonni mechanist, e vengono buttati fuori come spazzatura. Sono tutti tuoi.

“Voglio che tu faccia pulizia dove non l’ho fatta io, che sistemi tutto quello che ho lasciato in sospeso. Se non accetterai di farlo, allora torna dal mio messaggero. Ti sistemerà lui. — Constantine sogghignò, mostrando i suoi denti piccoli e regolari. — Salvo che con la morte, non puoi sfuggire al gioco. Tu e Vera lo sapevate tutti e due. E adesso io sono il tuo re, e tu la pedina.”

Lindsay spense il nastro.

Era rovinato. La Bolla Kabuki aveva assunto una grottesca solidità; erano le sue stesse ambizioni ad essere esplose.

Era in trappola. Sarebbe stato smascherato dai profughi della Repubblica. Il suo sfavillante imbroglio sarebbe volato in pezzi, lasciandolo nudo e indifeso. Kitsune l’avrebbe conosciuto per ciò che era: un umano “arrivato”, non il suo amante plasmatore. La sua mente cominciò a guizzare qua e là come dentro a una gabbia. Vivere lì soggiacendo alle condizioni che Constantine gli avrebbe imposto, sotto il suo controllo, soffrendo il suo disprezzo… quel pensiero gli bruciava.

Doveva scappare. Doveva lasciare subito quel mondo. Non gli rimaneva più tempo di fare dei piani.

Là fuori un assassino era in attesa, con un volto rubato a Lindsay, a lui stesso. Incontrarlo di nuovo avrebbe significato la morte. Ma avrebbe potuto in qualche modo sfuggire a quell’uomo, se fosse scomparso subito. E ciò significava rivolgersi ai pirati.

Lindsay si sfregò il polso dolorante. Un lento furore crebbe dentro di lui: un furore verso i Plasmatori, e l’abilità distruttiva che avevano impiegato per sopravvivere. La loro lotta aveva lasciato un’eredità di mostri, l’assassino, Constantine… lui stesso.

Constantine era più giovane di quanto fosse lui… si era fidato, sì, di Lindsay: l’aveva ammirato. Ma quando lui, Lindsay, era tornato per una licenza dal Consiglio dell’Anello, aveva dolorosamente percepito fin nel profondo come i Plasmatori lo avessero cambiato. E lui aveva deliberatamente mandato Constantine da loro, mettendolo nelle loro mani. Come sempre, aveva fatto sembrare plausibile la cosa, e le nuove capacità di Constantine erano davvero cruciali. Ma Lindsay sapeva di averlo fatto egoisticamente, così da aver compagnia, al di fuori dei confini.

Constantine era sempre stato ambizioso. Ma là dove c’era stata fiducia, Lindsay aveva portato una nuova sofisticazione e disonestà. Là dove lui e Constantine avevano condiviso degli ideali, adesso condividevano l’assassinio.

Lindsay provava una sgradevole affinità con l’assassino. L’addestramento dell’assassino doveva essere stato molto simile al suo. L’odio che provava per se stesso aggiungeva un improvviso veleno al suo timore nei confronti di quell’uomo.

L’assassino aveva il suo stesso volto. Ma Lindsay si era reso conto, con un improvviso lampo d’intuizione, di poter rivolgere il punto di forza di quell’uomo contro lui stesso.

Avrebbe potuto esser lui, Lindsay, a impadronirsi del ruolo dell’assassino, a rovesciare la situazione. Poteva commettere qualche orrendo crimine, e sarebbe stato l’assassino a venirne incolpato.

Kitsune aveva bisogno di un crimine. Sarebbe stato il suo dono di addio per lei, un messaggio che soltanto lei avrebbe capito. Avrebbe potuto liberarla, e il suo nemico ne avrebbe pagato il prezzo.

Aprì la valigetta diplomatica e gettò da parte il mucchio di carta delle sue azioni. Sollevò le assi del pavimento e fissò il corpo della vecchia, che galleggiava nudo sulla superficie del letto ad acqua. Poi perquisì la stanza alla ricerca di qualcosa che tagliasse.

3

A bordo della Red Consensus
2-6-’16

Quando l’ultimo servo-propulsore dello Zaibatsu si fu staccato, e i motori della Red Consensus entrarono in funzione, Lindsay cominciò a pensare di essere al sicuro.

— E allora, cosa mi dici, cittadino? — fece il Presidente. — Ti sei canesolariato con il bottino, giusto? Cosa c’è nella borsa, Segretario di Stato? Droghe congelate? Software che scotta?

— Sei deforme nel cervello? — esclamò uno dei senatori. — Quella roba sugli “antibiotici” è soltanto una balla della propaganda. Non esistono.

— No — ribatté Lindsay, a sua volta. — Può aspettare. Prima dobbiamo controllare la faccia di tutti. Assicuratevi che sia proprio la loro.

— Sei al sicuro — lo rassicurò il Presidente. — Conosciamo ogni singolo ångström di questa nave, credimi. — Spazzò via con la mano un enorme scarafaggio che strisciava sulla tela di sacco che avvolgeva la superficie della valigetta diplomatica di Lindsay. — Hai fatto il pieno, giusto? Vuoi comperarti il controllo di uno dei cartelli? Noi siamo in missione, ma possiamo fare una deviazione su uno degli insediamenti della Cintura: Bettina o Themis, la scelta è tua. — Il Presidente ebbe un sogghigno diabolico. — Ti costerà, però.

— Rimarrò con voi — disse Lindsay.

— Sì? — fece il Presidente. — Allora questo è nostro! — Ghermì di scatto la valigetta diplomatica di Lindsay e la lanciò al Presidente della Camera.

— L’aprirò io per voi — si affrettò a dire Lindsay. — Prima però lasciate che vi spieghi.

— Ma certo — intervenne il Presidente della Camera. — Puoi spiegarci quanto vale. — Premette la sua sega portatile contro la valigetta. Scoccarono delle scintille e il puzzo della plastica fusa riempì la nave spaziale. Lindsay distolse il viso.

Il Presidente della Camera rovistò dentro la valigetta, appoggiandovi contro un ginocchio poiché si trovava in caduta libera. Con uno strappo tirò fuori il bottino di Lindsay. Era la testa recisa della yarite.

La donna lasciò cadere la testa con un soffio improvviso da gatto scottato. — Prendetelo! — urlò il Presidente.

Due dei senatori rimbalzarono dalle pareti della nave spaziale e afferrarono le braccia e le gambe di Lindsay con una dolorosa presa di jujitsu.

— Sei tu l’assassino! — urlò il Presidente. — Tu sei stato assunto da qualcuno per far fuori la mechanist! Non c’è nessun bottino! — Guardò la testa costellata di prese con una smorfia di disgusto. — Mettila nel riciclatore — ordinò a uno dei deputati. — Non voglio avere una cosa del genere dentro questa nave. Aspetta un momento — aggiunse, mentre il deputato chiudeva le dita, esitante, su una ciocca di quei radi capelli. — Prima portala in officina e tirale fuori tutti i circuiti. — Si rivolse a Lindsay: — Così, è questo il tuo gioco, eh, cittadino? Un assassino?

Lindsay si aggrappò a questa nuova possibilità. — Sì — disse istintivamente. — Qualunque cosa vogliate.

Vi fu un silenzio sinistro, al quale si sovrapponevano lontani crepitìi termici provenienti dai motori della Red Consensus.

— Buttiamo fuori dalla camera di equilibrio questo asino — suggerì il Presidente della Camera.

— Non possiamo farlo — intervenne il Supremo Magistrato della Corte Suprema. Era un debole, vecchio mechanist che andava soggetto al sangue dal naso. — È ancora Segretario di Stato e non può venir condannato senza essere stato incriminato dal Senato.

I tre senatori, due uomini e una donna, si mostrarono interessati. Il Senato non svolgeva mai una grande attività nel governo della minuscola Democrazia. Erano i membri meno fidati dell’equipaggio, ed erano superati numericamente dalla Camera.

Lindsay scrollò le spalle, e fu un’eccellente scrollata di spalle. Aveva catturato i moti muscolari istintivi del volto del Presidente, e quella mimica subliminale disinnescò la situazione, procurandogli l’istante cruciale che gli ci voleva per cominciare a parlare. — È stato un lavoro politico. — La sua voce suonò noiosa, il suono greve d’un affaticamento morale. Disinnescò la loro brama di sangue, trasformò la situazione in qualcosa di prevedibile e fastidioso. — Lavoravo per conto della Repubblica Corporativa del Mare della Serenità. C’è stato un colpo di stato, laggiù. Stanno per spedire una grossa porzione della loro popolazione nello Zaibatsu, e volevano che spianassi la strada.

Gli credevano. Aveva infuso un po’ di colore nella propria voce. — Ma sono dei fascisti. Io preferisco servire un governo democratico. Inoltre, mi hanno messo un “antibiotico” alle calcagna… per lo meno, penso che siano stati loro. — Sorrise e allargò le mani con fare innocente, torcendo le braccia nella stretta allentata dei suoi catturatori. — Non vi ho mentito, vero? Non ho mai sostenuto di non essere un assassino. Inoltre, pensate ai soldi che vi ho fatto guadagnare.

— Sì, c’è anche questo, effettivamente — ammise il Presidente, riluttante. — Ma dovevi proprio segarle la testa?

— Eseguivo degli ordini — spiegò Lindsay. — Sono bravo a farlo, signor Presidente. Prova a usarmi.


A bordo della Red Consensus
13-6-’16

Lindsay aveva rubato la testa del cyborg per liberare Kitsune, per garantire che il suo gioco di potere non venisse alla luce. L’aveva ingannata, ma, per scusarsi di questo, l’aveva liberata. L’assassino plasmatore ne sarebbe stato incolpato. Sperò che la Banca Geisha facesse a pezzi quell’uomo.

Accantonò ogni sensazione di orrore. I suoi maestri plasmatori gli avevano insegnato a guardarsi da simili sentimenti. Quando un diplomatico si trovava proiettato in un nuovo ambiente, doveva reprimere tutti i pensieri del passato e assorbire immediatamente quanta più colorazione protettiva possibile.

Lindsay si affidò al suo addestramento. Trovandosi schiacciato in mezzo a un ambiente piccolo come quello, insieme agli undici membri della nazione di Fortuna, avvertiva la sintomatologia di quell’ambiente quasi come una pressione fisica. Sarebbe stato difficile mantenere il senso della prospettiva restando intrappolato in un barattolo come quello, insieme a undici pazzoidi.

Lindsay non si era più trovato dentro una vera nave spaziale fin dai giorni di scuola del Consiglio dell’Anello dei Plasmatori. Il trasporto mech che l’aveva portato in esilio non contava: i suoi passeggeri erano carne drogata. La Red Consensus era una nave vissuta: era in servizio da duecentoquindici anni.

Nel giro di pochi giorni, basandosi su indizi presenti all’interno della nave spaziale, Lindsay imparò di più della sua storia di quanto ne sapessero gli stessi minatori di Fortuna.

I ponti della Red Consensus che fungevano da alloggi erano appartenuti un tempo ad un’entità nazionale terrestre, un gruppo estinto che si faceva chiamare Unione Sovietica, o CCCP. I ponti erano stati lanciati dalla Terra per formare una serie di stazioni difensive orbitali.

La nave era cilindrica, e i suoi alloggi erano costituiti da quattro ponti rotondi interconnessi. Ogni ponte era alto quattro metri e largo dieci. Un tempo erano stati equipaggiati con delle rozze camere d’equilibrio di sicurezza fra un livello e l’altro, ma queste erano state strappate via e sostituite con moderni filamenti a pressione autosigillanti.

Il ponte di poppa era stato ripulito del tutto fino a lasciare le sole pareti imbottite. I pirati l’usavano per fare ginnastica e addestrarsi al combattimento in caduta libera. Lì avrebbero potuto dormire, anche se, non esistendo il giorno e la notte, era probabile che si addormentassero dovunque e in qualunque momento.

Il ponte seguente, più vicino a prua, conteneva la loro angusta sala chirurgica e l’infermeria, oltre alla “scacciasudori”, dove andavano a ripararsi dalle tempeste solari, dietro alcuni schermi di piombo. Nello “sgabuzzino delle scope”, una dozzina di antiquate tute spaziali penzolavano flosce accanto ad una rastrelliera piena di bombole di plastica laccata, maschere antigas, blocchi automatici, morse, e altri arnesi da “esterno”. Quel ponte aveva una sua camera d’equilibrio, una di quelle vecchie, blindate, che si apriva sull’esterno, la quale ostentava ancora una serie di adesivi mezzo staccati con le istruzioni per il funzionamento, in verdi lettere cirilliche maiuscole.

Il ponte successivo era la sezione della sopravvivenza, piena di gorgoglianti contenitori di alghe. Era una lezione oggettiva di riciclaggio, ma non di quelle che Lindsay gradiva molto. Questo ponte disponeva anche di una piccola officina: era minuscola, ma la mancanza di gravità consentiva di usare ogni superficie disponibile per lavorare.

Il ponte di prua conteneva la cabina di comando e i collegamenti con i pannelli solari per la corrente elettrica. Lindsay finì per amare quel ponte più di qualunque altro, soprattutto a causa della musica. La cabina di comando era anch’essa di vecchio tipo, ma neppure lontanamente vecchia come la stessa Red Consensus. Era stata progettata da qualche dimenticato teorico dell’industria il quale credeva che gli strumenti dovessero far uso di segnali acustici. L’ammasso di sistemi sparpagliato lungo un ampio pannello semicircolare aveva pochi rivelatori ottici. I sistemi segnalavano le loro funzioni con borbottii, cigolii e continui bip modulari.

Bizzarri a tutta prima, i suoni erano concepiti per placare il cervello posteriore. Qualunque cambiamento del coro, tuttavia, veniva immediatamente captato. Lindsay trovava calmante quella musica, una combinazione di pulsazioni cardiache e cerebrali.

Il resto del ponte non era così piacevole. L’armeria con le sue sgradevoli rastrelliere di congegni, e il centro di corruzione della nave: il cannone a raggi di particelle. Lindsay evitava quello scompartimento quanto più poteva, e non ne parlava mai.

Non poteva sfuggire in alcun modo alla consapevolezza che la Red Consensus era una nave da guerra.

— Senti — gli disse il Presidente — far fuori qualche debole vecchia mech col cervello escluso è una cosa. Ma far fuori un campo armato plasmico pieno zeppo di roventi tipi genetici è qualcosa di completamente diverso. Non c’è posto per i deboli e i girapollici, nell’Esercito Nazionale di Fortuna.

— Sì, signore — rispose Lindsay. L’Esercito Nazionale di Fortuna era il braccio armato del governo nazionale. Il suo personale era identico al personale civile, ma questo non portava a nessun inconveniente. Aveva un’organizzazione completamente diversa e tutta una serie di sue procedure operative. Fortunatamente il Presidente era il comandante in capo delle forze armate, oltre che il capo dello stato.

Gli addestramenti militari venivano fatti nel quarto ponte, che era stato spogliato fino a ridurlo all’antica e ammuffita imbottitura. Conteneva tre cyclette da esercitazione e qualche coppia di pesi collegati da robuste molle, insieme a una fila di armadietti vicino al portello d’ingresso.

— Dimenticati dell’alto e del basso — gli consigliò il Presidente. — Quando parliamo di combattimento in caduta libera, la regola fondamentale è l’haragei!… Questo. — D’un tratto colpì Lindsay allo stomaco. Questi si piegò in due boccheggiando e le sue pantofole di velcro si staccarono dalla parete, con un suono come di qualcosa che stesse andando a brandelli.

Il Presidente afferrò il polso di Lindsay e con un sinuoso trasferimento di forza torcente appiccicò Lindsay al soffitto con i piedi. — Bene, adesso sei a testa in giù, non è vero? — Lindsay si trovava sul lato rivolto verso l’alto, ossia sul lato rivolto a prua del ponte, mentre il Presidente si era accovacciato sul lato rivolto a poppa, e in questo modo i loro piedi puntavano in direzioni opposte. Il Presidente fissò con uno sguardo ardente e rovesciato Lindsay negli occhi. Il suo alito sapeva di alghe crude.

— È quella che chiamano la verticale locale — spiegò.

“Il nostro corpo è stato progettato per la gravità, e gli occhi cercano la gravità in qualunque situazione; è così che viene circuitato il cervello. Tu devi cercare delle linee diritte che vadano su e giù e ti orienterai secondo queste linee. E finirai per farti uccidere, soldato: capito?”

— Sì, signore! — esclamò Lindsay. Nella Repubblica gli era stato insegnato fin dall’infanzia a disprezzare la violenza. L’unico uso legittimo che sarebbe stato possibile farne, era contro se stesso. Ma la sua scaramuccia con l’“antibiotico” aveva cambiato il suo modo di pensare.

— È a questo che serve l’haragei. - Il Presidente picchiò il proprio ventre. — Questo è il tuo centro di gravità, il tuo centro della torsione. Incontri un nemico in caduta libera e lotti con lui, bene. La tua testa è come uno stelo, vedi? Ciò che accade dipende dal tuo centro di massa. Il tuo haragei. Le tue azioni, i luoghi dove puoi colpire con i pugni delle mani e dei piedi formano una sfera. E quella sfera trova il suo centro nel tuo stomaco. Tu devi pensare in continuazione a quella sfera intorno a te.

— Sì, signore — disse Lindsay. La sua attenzione era totale.

— Questa è la regola numero uno — proseguì il Presidente. — Adesso parleremo della regola numero due. Paratie. Controllare le paratie significa controllare il combattimento. Se adesso staccassi i piedi da questa paratia, con quanta forza credi che potrei colpirti?

Lindsay fu prudente. — Con la forza sufficiente a spaccarmi il naso, signore.

— D’accordo. Ma se ho i piedi ben piantati cosicché è il mio stesso corpo che mi trattiene saldamente contro il rinculo?

— Mi romperebbe il collo, signore.

— Ben pensato, soldato. Un uomo privo di sostegno è un uomo impotente. Se non hai nient’altro, usa il corpo del tuo nemico come sostegno. Il rinculo è il nemico dell’impatto. L’impatto è danno. Il danno è vittoria. Capito?

— Il rinculo è nemico dell’impatto. L’impatto è danno. Il danno è vittoria — si affrettò a ripetere Lindsay. — Signore.

— Molto bene — commentò il Presidente. Poi allungò una mano e, con un fulmineo movimento, come se avesse ruotato su un perno, ruppe l’avambraccio di Lindsay sopra il proprio ginocchio con uno schiocco umido. — Questa è la numero tre — disse, sovrapponendo la propria voce all’improvviso urlo di Lindsay. — Il dolore.

— Bene — commentò il Secondo Magistrato. — Vedo che ti ha mostrato la vecchia numero tre.

— Sì, Signore — disse Lindsay.

Il Secondo Magistrato gli infilò un ago nel braccio. — Dimenticatene — disse, con voce gentile. — Questo non è l’esercito, è l’infermeria. Basterà che mi chiami Giudice Due.

Un torpore gommoso si diffuse nel suo avambraccio fratturato.

— Grazie, Giudice. — Il Secondo Magistrato era una donna più anziana, forse prossima al secolo. Era difficile dirlo; il suo costante abuso di trattamenti ormonali aveva fatto del suo metabolismo un complicato rattoppo di anomalie. La sua mascella era punteggiata dall’acne, ma i polsi e i polpacci erano scagliosi e segnati dalle vene varicose.

— Tutto a posto, Segretario di Stato, così va bene — disse. Ficcò il braccio anestetizzato di Lindsay nell’ampio orifizio di gomma di un TAC di vecchio tipo. Raggi X multipli emanarono ronzando dal suo anello e un’immagine tre-D rotante del braccio di Lindsay comparve sullo schermo dell’analizzatore.

— Una bella frattura netta, niente di grave — disse il Secondo Magistrato, in tono competente. — Cose come queste le abbiamo avute tutti. Adesso sei quasi uno di noi. Vuoi che ti pergameni un po’ mentre il braccio è ancora intorpidito?

— Cosa?

— Tatuaggio, cittadino.

Il pensiero lo sgomentò. — Benissimo — si affrettò a dire. Procedi pure.

— Sapevo fin dall’inizio che eri un tipo a posto — disse la donna, dandogli una gomitata nelle costole. — Ti farò un favore: ti schioccherò nelle vene alcuni di quegli steroidi anabolici. Ti verranno i muscoli in men che non si dica; il Presidente penserà che sei un naturale. — Gli tirò con delicatezza l’avambraccio; l’improvviso raschiare delle estremità frastagliate delle ossa fu come qualcosa che stesse accadendo all’altra estremità di un telescopio.

La donna staccò dalla parete, alla quale era fissata con un pezzo di velcro, un’apparecchiatura per tatuaggi munita di ago. — Hai qualche preferenza?

— Voglio qualche falena — disse Lindsay.

La storia della Democrazia dei Minatori di Fortuna era molto semplice. Fortuna era uno degli asteroidi più grossi, più di duecento chilometri di diametro. Dopo i primi bagliori del successo, i minatori originari avevano dichiarato la propria indipendenza. Fintanto che il minerale grezzo era durato, se l’erano cavata benissimo. Potevano tirarsi fuori dai guai politici a suon di bustarelle, e potevano pagarsi le cure per il prolungamento della vita su altri mondi più progrediti.

Ma quando il minerale grezzo si esaurì e Fortuna divenne soltanto un mucchio di detriti completamente sfruttato, scoprirono di aver commesso un errore fatale. La loro ricchezza era svanita e, persi com’erano a far soldi, non erano riusciti a sviluppare nuove tecnologie. Non potevano sopravvivere con la loro esperienza ormai superata o sostentare un’economia d’informazioni. I loro tentativi di farlo servirono soltanto ad accelerare la loro bancarotta.

Cominciarono le defezioni. La fuga di cervelli verso mondi più ricchi era cominciato partendo dal personale migliore e più ambizioso della nazione. Fortuna perse le sue navi spaziali, a mano a mano che i disertori se la svignavano portando con sé qualunque cosa che non fosse inchiodata al suolo.

Il collasso assunse un andamento esponenziale, e il governo si ridusse a poco a poco a un numero sempre più piccolo di duri a morire. Finirono per indebitarsi fino al collo e dovettero vendere le proprie infrastrutture ai cartelli mech; dovettero perfino mettere all’asta la loro aria. La popolazione si ridusse a una manciata di farabutti errabondi, per la maggior parte cani solari che erano finiti su Fortuna per mancanza di altre alternative.

Questi, però, avevano il completo controllo legale del governo nazionale, con tutto il suo apparato di relazioni con l’estero e il protocollo diplomatico. Potevano concedere la cittadinanza, battere moneta, dare il permesso di armare delle navi, firmare trattati, negoziare accordi sul controllo degli armamenti. Potevano essere, in tutto, soltanto una dozzina, ma questo era irrilevante. Avevano pur sempre la loro Camera, il loro Senato, i loro precedenti legali e la loro ideologia.

Di conseguenza avevano ridefinito il territorio nazionale di Fortuna come quello racchiuso entro i confini della loro ultima astronave sopravvissuta, la Red Consensus. Così equipaggiati, con una nazione mobile, erano in grado di annettersi la proprietà di chiunque si trovasse entro i loro confini nazionali. Questo non era un furto. Le nazioni non sono capaci di furto, un fatto legale di grande convenienza per gli ideologi della DMF. Le proteste dovevano venir presentate al sistema legale di Fortuna, che era computerizzato, e d’una complessità formidabile.

I processi erano la fonte principale di reddito per la nazione pirata. La maggior parte delle cause veniva sistemata fuori dell’aula del tribunale. In pratica si trattava di un semplice procedimento per indurre i pirati ad andarsene. Ma i pirati erano molto puntigliosi in quanto a formalità e andavano molto orgogliosi della loro insistenza nel rispettare le sottigliezze.


A bordo della Red Consensus
29-9-’16

— Cosa stai facendo in questa cassa-sudori, Segretario di Stato?

Lindsay sorrise a disagio. — Il discorso sullo stato della Nazione — rispose. — Preferisco evitarlo. — La retorica del Presidente riempiva la nave spaziale, filtrando oltre l’esile figura del Primo Deputato. La ragazza sgusciò dentro il riparo antiradiazioni e ruotò il massiccio portello chiudendoselo alle spalle.

— Questo non è patriottico, Segretario di Stato. Sei tu il nuovo, qui. Dovresti ascoltare.

— Gliel’ho scritto io — ribatté Lindsay. Sapeva che doveva trattare con cautela quella donna. Lo rendeva nervoso. I suoi movimenti sinuosi, la sinistra perfezione dei suoi lineamenti, e l’acuta, in qualche modo eccessivamente attenta intensità del suo sguardo, tutto gli diceva che era una riplasmata.

— Voi Plasmatori — disse la ragazza. — Siete lisci come il vetro.

— Davvero? — fece lui.

— Io non sono una plasmatrice — replicò lei. — Guarda questi denti. — Aprì la bocca e gli mostrò un incisivo e un canino, storti e sovrapposti. — Visto? Brutti denti, brutta genetica.

Lindsay era scettico. — Te lo sei fatta da sola.

— Sono nata così — insistette lei. — Non sono stata decantata.

Lindsay si sfregò un livido che andava svanendo, in alto sullo zigomo: se l’era procurato durante una seduta di addestramento al combattimento. Là, dentro quella scatola, faceva caldo e si avvertiva odore di chiuso. Poteva sentire il profumo di lei.

— Sono stata un riscatto — ammise la ragazza. — Un ovulo fertilizzato. Ma una cittadina di Fortuna mi ha dato alla luce. — Scrollò le spalle. — I denti me li sono ridotti così io, è vero.

— Sei una plasmatrice solitaria allora. Siete rari. Ti sei mai fatta fare il quoziente?

— Il mio QI? No. Non so leggere — rispose con orgoglio. — Ma sono il Primo Deputato, la capogruppo dei deputati alla Camera. E sono sposata al Primo Senatore.

— Davvero? Non me l’aveva mai detto.

La giovane plasmatrice si aggiustò la fascia nera che le stringeva la fronte. Sotto di essa i suoi capelli rosso-biondi erano lunghi e tenuti a posto con delle mollette rosa a forma di alligatore. — L’abbiamo fatto per motivi di tassazione. Altrimenti, chissà, forse ci starei anche con te. Hai un bell’aspetto, Segretario di Stato. — Gli si avvicinò di più. — Meglio ancora adesso che il braccio è guarito.

Gli passò la punta di un dito lungo la pelle tatuata del polso.

— C’è sempre Carnevale — commentò Lindsay.

— Carnevale non conta — disse lei. — Non puoi dire che sono stata io in preda agli afrodisiaci.

— Mancano tre mesi al rendez-vous - aggiunse Lindsay. — Questo mi dà altre tre possibilità d’indovinare.

— Sei stato al Carnevale — lei disse. — Sai com’è, iniettato di afrodisiaci. Dopo, non sei più tu, cittadino. Sei soltanto carne da muro contro muro.

— Potrei sorprenderti — fece Lindsay, incrociando il suo sguardo.

— Se lo farai, ti ucciderò, Segretario di Stato. L’adulterio è un crimine.


A bordo della Red Consensus

13-10-’16

Uno degli scarafaggi di bordo svegliò Lindsay mordicchiandogli le sopracciglia. Con un sussulto di disgusto Lindsay gli tirò un pugno e l’insetto zampettò via.

Lindsay dormiva completamente nudo salvo per la coppa all’inguine. Tutti gli uomini la portavano: li proteggeva dai pericoli della caduta libera. Lindsay scrollò fuori un altro scarafaggio dalla sua tuta rosso e argento, dove stava banchettando con le scaglie di pelle morta.

S’infilò gli indumenti e lanciò un’occhiata tutt’intorno. Là nella palestra, due dei senatori erano ancora addormentati, le loro scarpe dalle suole di velcro erano appiccicate alle pareti, i loro corpi tatuati erano acciambellati in posizione fetale. Uno scarafaggio stava sorseggiando il sudore dal collo della senatrice.

Se non fosse stato per gli scarafaggi, la Red Consensus avrebbe finito per soffocare in un muffoso detrito di pelle squamata e strati sopra strati di effluvi di sudore e simili esalazioni. Lisina, alanina, metionina, composti dell’acido carbammico, lattico, feromoni sessuali: un costante flusso di vapori organici si riversava invisibile, giorno e notte, dai corpi umani. Gli scarafaggi erano una parte vitale dell’ecosistema della nave spaziale, ripulivano via le briciole del cibo, leccavano l’unto.

Gli scarafaggi avevano infestato le navi spaziali fin dagli inizi. Erano troppo coriacei e adattabili perché si riuscisse a eliminarli. Adesso, almeno, erano bene addestrati. Erano perfino casalinghi, obbedienti agli allettamenti chimici ed ai controlli del Secondo Deputato. Comunque, Lindsay li odiava ancora, e non resisteva a guardare il loro macabro sciamare e i balzi in caduta libera e i voli sghembi… senza la profonda sensazione che lui avrebbe dovuto trovarsi da qualche altra parte. Qualsiasi altra parte.

Vestito, Lindsay si mise a vagare in caduta libera attraverso le porte a filamenti tra un ponte e l’altro. Le porte plasticizzate si sdipanavano in tanti fili quando lui si avvicinava, e tornavano a chiudersi intrecciandoli da sole dietro di lui. Erano sottili, ma a tenuta stagna, e dure come l’acciaio quando le si premeva. Erano opera dei Plasmatori. Probabilmente rubate, pensò Lindsay.

Entrò nella cabina di comando attirato dalla musica degli strumenti. La maggior parte dell’equipaggio si trovava là. Il Presidente, i due Deputati e il Terzo Magistrato stavano seguendo una trasmissione plasmatrice agit con i video-occhialoni infilati.

Il Supremo Magistrato era avvinghiato alla consolle che gli arrivava alla cintura, intento a controllare le trasmissioni che giungevano dallo spazio profondo. Il Supremo Magistrato era di gran lunga il più vecchio membro dell’equipaggio. Non partecipava mai al Carnevale. Questo, la sua età e il suo ufficio facevano di lui l’arbitro imparziale dell’equipaggio.

Lindsay parlò ad alta voce accanto agli auricolari dell’uomo. — Nessuna notizia?

— L’assedio è ancora in corso — disse il mech, senza nessuna accentuata soddisfazione. — I Plasmatori resistono. — Fissò con sguardo vacuo i quadri di comando. — Continuano a vantarsi della loro vittoria nella Concatenazione.

Il Secondo Magistrato entrò nella cabina di comando.

— Chi vuole un po’ di ketamina?

Il Primo Deputato si tolse i video-occhialoni.

— È buona?

— Freschissima, appena uscita dal cromatografo. L’ho appena fatta io.

— Ai miei tempi la Concatenazione era una vera potenza — dichiarò il Supremo Magistrato. Con gli auricolari infilati e i video-occhialoni, non aveva né visto né sentito le due donne. Qualcosa nella trasmissione che aveva seguito aveva smosso qualche strato profondo di antica indignazione. — Ai miei tempi la Concatenazione era l’intero mondo civilizzato.

Per lunga e acquisita abitudine le due donne lo ignorarono, alzando le loro voci. — Insomma, quanto? — domandò il Primo Deputato.

— Quarantamila al grammo? — propose il Giudice.

— Quarantamila? Te ne darò venti.

— Suvvia, ragazza, mi hai fatto pagare ventimila soltanto per farmi le unghie.

Lindsay ascoltava con mezzo orecchio, chiedendosi se avrebbe potuto inserirsi anche lui in quel genere di affari. La DMF aveva ancora le proprie banche, e malgrado la sua valuta fosse enormemente inflazionata, era ancora in circolazione come valuta legale esclusiva di undici miliardari. Lindsay, sfortunatamente, come membro cadetto dell’equipaggio, era già sprofondato nei debiti. — Mare della Serenità — disse il vecchio. — La Repubblica Corporativa. — D’un tratto fissò Lindsay con occhi grigi come la cenere. — Mi dicono che tu hai lavorato per loro.

Lindsay fu colto di sorpresa. I tabù non scritti della Red Consensus cancellavano ogni discussione sul passato. Il volto del vecchio mech si era illuminato d’uno sconsiderato riflusso di ricordi. Decenni di quella medesima espressione avevano scavato solchi profondi nei suoi antichi muscoli facciali e nella sua pelle altrettanto antica. Il suo volto era una maschera impenetrabile.

— Sono stato laggiù soltanto per un breve periodo — mentì Lindsay. — Non conosco bene gli ormeggi lunari.

— Io ci sono nato.

Il Primo Deputato lanciò un’occhiata allarmata in direzione del vecchio. — D’accordo per i quarantamila — si affrettò a concludere. Le due donne se ne andarono dirette al laboratorio. Il Presidente sollevò sulla fronte i suoi video-occhialoni. Fissò sardonicamente Lindsay, poi alzò deliberatamente il volume della cuffia. Gli altri due, il Secondo Deputato e il brizzolato Terzo Magistrato, ignorarono l’intera situazione.

— Ai miei tempi la Repubblica aveva un sistema — proseguì il vecchio mech. — Famiglie politiche. I Tyler, i Kelland, i Lindsay. Poi c’era una sottoclasse di profughi che avevano accolto, subito prima dell’Interdetto con la Terra. I plebei, li chiamavano. Sono stati gli ultimi a lasciare il pianeta, subito prima che le cose andassero a rotoli. Così, loro non avevano niente. Noi avevamo i kilowatt in tasca, e le grandi dimore. E loro soltanto piccole catapecchie di plastica.

— Eri un aristocratico? — chiese Lindsay. Non poteva trattenere la sua interessata curiosità.

— Mele — disse il vecchio Mech con voce triste. La parola suonò carica di nostalgia. — Mai mangiato una mela? Sono una specie di tumore vegetale.

— Credo di sì.

— Uccelli. Parchi. Erba. Nuvole. Alberi. — Il braccio destro del vecchio mech, un lavoro di protesi, ronzò sommessamente quando colpì uno scarafaggio sbalzandolo via dalla consolle con un dito dai tendini di cavo metallico. — Sapevo che ci avrebbe causato dei guai quella faccenda con la plebe… una volta ho perfino scritto un dramma sull’argomento.

— Un dramma? Per il teatro? Come si chiamava?

Una vaga sorpresa trasparì negli occhi del vecchio. — La Conflagrazione.

— Tu sei Evan James Tyler Kelland! — sbottò Lindsay. — Io… ah… ho notato il tuo dramma. Negli archivi. — Evan Kelland era il pro-prozio di Lindsay. Un oscuro radicale. Il suo dramma di protesta sociale era rimasto nel dimenticatoio per anni fino a quando Lindsay, alla ricerca di armi, l’aveva trovato nel Museo e riportato alla luce, mettendolo in scena per infastidire i Vecchi Radicali. Gli uomini che avevano esiliato Kelland erano ancora al potere, dopo cento anni, sostenuti dalle tecnologie mech. E quand’era arrivato il momento giusto, avevano esiliato anche lui, Lindsay.

D’un tratto si ricordò che adesso erano nei cartelli. Constantine, il discendente della plebe, aveva fatto un patto con le teste di cavo. E alla fine l’aristocrazia l’aveva pagata, come Kelland aveva profetizzato. Lindsay, ed Evan Kelland, avevano soltanto pagato in anticipo.

— Ti è capitato di vedere il mio lavoro — disse Kelland. Il sospetto aveva trasformato le rughe del suo viso in profondi crepacci. Guardò altrove: i suoi occhi grigio-cenere erano pieni di dolore e di oscure umiliazioni. — Non avresti dovuto fare supposizioni.

— Mi spiace — disse Lindsay. Fissò con rinnovato timore il braccio meccanico del suo vecchio consanguineo. — Non parleremo più di questa faccenda.

— Sarà meglio. — Kelland alzò il volume degli auricolari e il suo furore parve perdere slancio. I suoi occhi tornarono ad essere pacati e incolori. Lindsay guardò gli altri deliberatamente ciechi dietro ai loro video-occhiali. Niente di tutto quello che aveva appena vissuto era successo.


A bordo della Red Consensus
27-10-’16

— Problemi di sonno, cittadino? — chiese il Secondo Magistrato. — Quegli steroidi si muovono sotto la tua pelle, calpestano il tuo periodo dei sogni. Posso rimediare? — La donna sorrise, esibendo tre antichi denti scoloriti in mezzo ad una rastrelliera di lucida porcellana.

— Lo apprezzerei molto — rispose Lindsay, in preda a una lotta interiore per mostrarsi cortese. Gli steroidi avevano rivestito le sue braccia di corde di muscoli, avevano rimarginato la costellazione di lividi causata dalle continue esercitazioni allo jujitsu e l’avevano riempito di lampi incandescenti di furore aggressivo. Ma l’avevano derubato del suo sonno, consentendogli soltanto dei febbrili pisolini.

Mentre guardava il medico di Fortuna con gli occhi arrossati, questi gli ricordò la sua ex moglie. Alexandrina Lindsay aveva avuto proprio la stessa precisione in quei movimenti da bambola di porcellana, la stessa pelle simile alla pergamena, le stesse rughe rivelatrici dell’età sulle nocche delle dita. Sua moglie aveva avuto ottant’anni. E, nell’osservare il Giudice, Lindsay si sentì soffocare da un’attrazione sessuale di seconda mano.

— Questo andrà bene — disse il Secondo Magistrato, aspirando una siringa di fluido fangoso da una fiala dal coperchietto di plastica. — È un promotore REM, serotonina agonista, muscolo-rilassante, e giusto un spruzzo di mnemonici per sbarazzarsi dei ricordi inquietanti. L’uso sempre anch’io; è favolosa. Mentre sei privo di sensi, ti pergameno l’altro braccio?

— Non ancora — fece Lindsay, digrignando i denti. — Non ho ancora deciso cosa ci voglio sopra.

Il Secondo Magistrato mise via la sua apparecchiatura per il tatuaggio con una piccola smorfia di disappunto. Pareva vivere, mangiare e respirare aghi, pensò Lindsay. — Non ti piace il mio lavoro? — gli chiese la donna.

Lindsay esaminò il suo braccio destro. L’osso si era saldato bene, ma aveva messo su tanti muscoli che i disegni erano distorti. Serpenti grossi come cavi coassiali con occhi grandi come schermi televisivi, bianche teste di morto con ali piatte simili a pannelli solari, pugnali con serti di folgori, e dovunque, svolazzanti lungo di essi e fra essi, un’orda di bianche falene. La pelle del suo braccio dal polso ai bicipiti era così carica d’inchiostro che non sudava più e risultava fredda al tocco.

— È stato fatto molto bene — disse, mentre l’ago gli affondava nel braccio attraverso l’occhiaia vuota di un teschio. — Ma aspetta fino a quando non avrò finito di metter su muscoli anche da tutte le altre parti, d’accordo?

— Sogni d’oro — rispose la donna.

Di notte la Repubblica era veramente se stessa. I preservazionisti preferivano la notte, quando i vigili occhi dei vecchi erano chiusi nel sonno.

Le verità nascoste alla luce del giorno si palesavano alle avvampanti luci notturne. L’energia solare dei pannelli energetici era la valuta della Repubblica. Solo i più ricchi potevano permettersi di sperperare il potere finanziario.

Alla sua destra, all’estremità nord del cilindro del mondo, le luci si riversavano fuori dagli ospedali. Nelle loro cliniche intorno all’asse del cilindro, le fragili ossa dei Vecchi Radicali riposavano comode, quasi in caduta libera. Una striscia di luce filtrava dalle lontane finestre e dalle piattaforme di atterraggio, una Via Lattea di ricchezza, imbrattata e fasulla.

D’un tratto Lindsay, sollevando lo sguardo, si trovò dietro a quelle finestre. Era l’alloggio del suo bisnonno. Il vecchio mechanist galleggiava in una matrice di tubi per la sopravvivenza, le sue occhiaie collegate con un input video, in un appartamento sterile inondato di ossigeno.

— Nonno, me ne vado — disse Lindsay. Il vecchio sollevò una mano, talmente paralizzata dall’artrite che le sue nocche si gonfiarono e s’incresparono, ed esplosero d’un tratto in una rete sibilante di tubi con alle estremità tanti aghi. Penetrarono nella pelle di Lindsay come tante scudisciate, aderendovi, scavando, succhiando. Lindsay aprì la bocca per urlare…

Le luci erano distanti. Stava camminando sul pannello della finestra dal vetro corroso. Emerse sul pannello dell’agricoltura. Un debole sentore di coagulo putrescente gli arrivò con il vento. Era vicino agli Agri.

Le scarpe di Lindsay frusciarono acute attraverso l’erbavetro geneticamente alterata ai bordi della palude. Le cavallette frinivano nel sottobosco, e una creatura chitinosa grande come un ratto fuggì davanti a lui. Philip Constantine aveva posto l’assedio al putridume.

Il vento soffiava a raffiche. La tenda di Constantine sbatteva sonoramente in mezzo alla tenebra. Accanto ai lembi della tenda due globi piantati su dei pali brillavano d’una bioluminescenza gialla.

L’ampia tenda di Constantine dominava le zone di confine coperte d’erba di filo elettrico con gli Agri a nord e i fertili campi di grano protetti dietro di essi. La terra di nessuno, dove lui combatteva contro il contagio, ticchettava e frusciava di pestilenze appena coniate nei suoi laboratori.

Dall’interno udì la voce di Constantine, soffocata dai singhiozzi.

— Philip! — diceva. Lindsay entrò.

Constantine sedeva su una panca di legno davanti ad un lungo banco metallico da laboratorio, intasato fino all’inverosimile degli oggetti di vetro dei Plasmatori. Rastrelliere colme di recipienti per campioni si ergevano come gli scaffali d’una biblioteca. Erano pieni di insetti da analizzare. Dei globi su sostegni sottili e flessibili diffondevano una fangosa luce gialla.

Constantine pareva più piccolo che mai, le sue spalle da ragazzino erano ingobbite sotto il camice da laboratorio. Aveva gli occhi rotondi iniettati di sangue e i capelli scarmigliati.

— Vera è bruciata — disse Constantine. Tremava in silenzio; si prese il viso tra le mani guantate. Lindsay si sedette sulla panca accanto a lui e gli posò le lunghe braccia ossute sul dorso.

Sedevano insieme come avevano avuto l’abitudine di fare così spesso, tanto tempo addietro. Fianco a fianco, come al solito, scherzando insieme nel gergo del Consiglio dell’Anello, passandosi e ripassandosi un inalatore speziato. Ridevano insieme, la tranquilla risata di una cospirazione condivisa da entrambi. Erano giovani e violavano tutte le regole, e dopo poche, lunghe tirate dall’inalatore, erano intelligenti più di quanto qualunque altro umano avrebbe avuto il diritto di essere.

Constantine rideva felice e la sua bocca era piena di sangue.

Lindsay si svegliò con un sussulto, aprì gli occhi e vide l’infermeria della Red Consensus. Chiuse gli occhi e subito si riaddormentò.

Le sue guance erano umide di lacrime. Non era sicuro di quanto fossero rimasti seduti insieme, singhiozzando. Pareva un periodo di tempo lunghissimo. — Possiamo parlare liberamente qui, Philip?

— Qui non hanno bisogno di spie della polizia — disse Constantine. — È per questo che abbiamo una moglie.

— Mi spiace per quello che si è interposto fra noi, Philip.

— Vera è morta — disse Constantine. — Tu ed io abbiamo fatto questo. Abbiamo congegnato la sua morte. Condividiamo quella colpa. Adesso conosciamo il nostro potere. E abbiamo scoperto le nostre differenze. — Si asciugò gli occhi con un disco rotondo di carta da filtro.

— Gli ho mentito — disse Lindsay. — Gli ho detto che mio zio è morto per arresto cardiaco. L’inchiesta l’ha confermato. Ho lasciato che lo credessero, così da poterti proteggere. Sei stato tu a ucciderlo, Philip. Ma ero io quello che avevi intenzione di uccidere. Solo che è stato mio zio a inciampare nella trappola.

— Vera ed io ne avevamo discusso — replicò Constantine. — Lei pensava che tu avresti fallito, che tu non avresti rispettato il patto. Conosceva le tue debolezze. Io le conoscevo. Ho allevato quelle falene per ottenere i pungiglioni e il veleno. La rivoluzione ha bisogno delle sue armi. E gli ho dato i feromoni per farle impazzire dalla frenesia. Lei le ha accettate con gioia.

— Non ti fidavi di me — disse Lindsay.

— E tu non sei morto.

Lindsay non disse niente.

— Guarda qua! — Constantine si sfilò uno dei suoi guanti da laboratorio. Sotto, la sua pelle olivastra si stava squamando come quella di un rettile. — È un virus — disse. — È l’immortalità. Del genere dei Plasmatori, prodotto dalle cellule stesse, non quelle protesi dei Mech. Sono impegnato, cugino.

Prese su un lembo di pelle elastica. — Vera ha scelto te, non me. Io vivrò per sempre, e all’inferno tu e le dottrine umanistiche. Adesso l’umanità è un argomento morto, cugino. Non ci sono più anime. Solo stati della mente. Se pensi di poterlo negare, allora, ecco qua. — Porse a Lindsay un bisturi per la dissezione. — Metti te stesso alla prova. Dimostra che le tue parole non erano vuote. Dimostra che sei migliore morto e umano.

Il coltello era nelle mani di Lindsay. Fissò la carne del suo polso. Fissò la gola di Constantine. Sollevò la lama sopra la propria testa, la tenne sospesa in quella posizione, e lanciò un urlo.

Quell’urlo lo svegliò, e si trovò nell’infermeria, inzuppato di sudore, mentre il Secondo Magistrato, con occhi appesantiti dagli intossicanti, gli passava una mano segnata dalle vene lungo l’interno della coscia.


A bordo della Red Consensus
20-11-’16

Il Terzo Deputato, o Dep Tre, come veniva comunemente chiamato, era un giovane tarchiato, che sorrideva in continuazione, con un naso segnato da cicatrici e capelli corti, color sabbia, tagliati a spazzola.

Come molti esperti di attività extraveicolare, era un fanatico dello spazio e passava la maggior parte del tempo fuori della nave, rimorchiato da lunghi chilometri di cavo. Le stelle gli parlavano, e il Sole era suo amico. Indossava sempre la sua tuta spaziale, perfino dentro la nave, e le zaffate degli odori corporei a lungo fermentati uscivano dal collare aperto del suo casco con un’asprezza che faceva lacrimare gli occhi.

— Mando fuori il “fuco” — disse, rivolto a Lindsay, mentre mangiavano insieme nella cabina di comando. — Puoi collegarti con esso da qui. È quasi come essere all’esterno.

Lindsay mise da parte il suo barattolo vuoto di pasta verde. Il fuco era un’antica sonda planetaria, trovata in un’orbita da qualche equipaggio da lungo tempo dimenticato, ma i suoi telescopi e le antenne a microonde erano ancora utili, e potevano anche trasmettere. A centinaia di klick fuori, attraverso il suo cavo a fibre ottiche, il fuco senza equipaggio poteva captare le trasmissioni dallo spazio profondo e ingannare i radar nemici con contromisure elettroniche.

— Ma sicuro, cittadino — disse Lindsay. — Diavolo!

Dep Tre annuì con passione. — Sarà bellissimo, Segretario di Stato. Il tuo cervello si diffonderà così in fretta e così sottilmente che per te sarà una seconda pelle.

— Non intendo prendere nessuna droga — obiettò Lindsay, guardingo.

— Non puoi prendere delle droghe — disse Dep Tre. — Se prendi delle droghe, il Sole non ti parlerà. — Prese su dalla consolle un paio di video-occhialoni e li infilò sulla testa di Lindsay. All’interno degli occhialoni un minuscolo sistema video proiettava le immagini direttamente sui bulbi oculari. In quel momento il fuco era disattivato. Lindsay vide soltanto una sequenza di azzurri ed enigmatici segnali alfanumerici posti di traverso in fondo al suo campo visivo. Non provava nessuna sensazione di trovarsi davanti a uno schermo. — Finora tutto bene — disse.

Udì una serie di scatti provenienti dalla tastiera quando il Dep Tre attivò il fuco. Poi l’intera nave subì una leggera scossa quando la sonda robot si staccò. Lindsay sentì la sua guida che indossava un altro paio di video-occhialoni, poi, attraverso le telecamere del fuco, vide per la prima volta l’esterno della Consensus.

Faceva pena vedere l’aspetto sudicio e sciatto della loro nave. I vecchi motori erano stati strappati via dalla poppa e sostituiti con un’improvvisata galleria ad aggancio, un tubo a fisarmonica lungo e flessibile, con i denti frastagliati di una trivella mineraria a una sua estremità. Un nuovo motore, uno dei SEPS elettromagnetici di vecchio tipo dei Plasmatori, era stato saldato alle estremità di quattro lunghi supporti.

Il motore globulare rappresentava un rischio a causa delle microonde, e veniva tenuto il più possibile lontano dagli alloggiamenti dell’equipaggio. I cavi per la trasmissione dei comandi avvolti in lamina metallica s’inerpicavano come serpenti su per i sostegni, che erano stati goffamente imbullonati al ponte di poppa.

Accanto ai sostegni si trovava, come rannicchiata, la massa inerte di un robot minerario. Nel vederlo là in attesa, privo di alimentazione, Lindsay si rese conto di quale poderosa arma rappresentasse: le sue fauci spalancate, affilate come rasoi, potevano lacerare una nave come se fosse fatta di carta stagnola.

Un altro meccanismo aderiva allo scafo: un razzo parassita. Il vecchio scafo corrugato, dipinto con un verde d’una brutta, indisponente sfumatura, era coperto di raschiature e graffi dovuti alle zampe magnetiche del piccolo razzo. Essendo mobile, il parassita svolgeva tutto il lavoro dei retrorazzi.

Il terzo ponte, con il suo sistema di sopravvivenza, era un groviglio disordinato, un impasto di spropositate apparecchiature per la ventilazione e tubi idraulici, alcuni così vecchi che i loro isolanti erano scoppiati, rimanendo sospesi in caduta libera come tante tumide stelle filanti. — Non ti preoccupare, quelli non li usiamo — lo rassicurò, con insolita loquacità, Dep Tre.

I quattro pannelli solari congiunti si estendevano lateralmente dal quarto ponte, una luccicante croce di silicone nero intersecato da una griglia di rame. Il brutto muso del cannone a raggi di particelle era appena visibile dietro la curva dello scafo.

— Una piccola stella-nazione sotto l’occhio del Sole — disse il Dep Tre. Fece descrivere una virata al fuco. Lindsay vide il cavo che teneva impastoiato il fuco. Poi le sue telecamere misero a fuoco il sartiame della vela solare dell’astronave. Nella prua c’era una cavità d’immagazzinamento per il tessuto ripiegato a fisarmonica, che adesso era vuota; le diciannove tonnellate di pellicola metallica erano distese grazie alla leggera pressione lungo un arco d’argento largo due chilometri. La telecamera avvicinò la scena con una zoomata e Lindsay vide, quando l’immagine s’ingrandì, che anche la vela era vecchia: increspata qua e là, e impallinata dai numerosi fori dovuti alle micrometeore.

— Il Presidente dice che la prossima volta che potremo permettercelo compreremo uno spruzzatore monostrato e stamperemo un grosso teschio di mamma-brucia e le folgori incrociate sul lato esterno di quella — l’informò il Terzo Deputato.

— Buona idea — annuì Lindsay. Udì altri ticchettii, e d’un tratto il fuco dipanò il proprio cavo addentrandosi nello spazio profondo ad una velocità terrificante. Nel giro di pochi istanti la Red Consensus si ridusse alle dimensioni di un ditale accanto all’ampia chiazza della sua vela che si era ridotta alle dimensioni di un tavolo. Lindsay fu preso allo stomaco da una sensazione di vertigine e cercò, alla cieca, di aggrapparsi alla consolle. Serrò gli occhi dentro gli occhialoni, poi li riaprì al cosmico panorama dello spazio profondo.

— La Via Lattea — disse il Terzo Deputato. Un immenso arco bianco si allargava attraverso una buona metà della realtà. Lindsay perse il controllo della prospettiva. Per un attimo ebbe l’impressione che quel miliardo di puntolini bianchi dell’orlo galattico premessero impietosamente sui suoi bulbi oculari. Chiuse un’altra volta gli occhi, profondamente grato di non trovarsi effettivamente là fuori.

— È da lì che arrivano gli alieni — lo informò il Dep Tre.

Lindsay aprì gli occhi. Era soltanto una bolla, si disse, con delle macchioline bianche schizzettate su di essa. Una bolla con lui stesso al centro… ecco, adesso si era stabilizzata. — Quali alieni? — chiese.

Gli alieni, Segretario di Stato. — Il Terzo Deputato era genuinamente sorpreso. — Non sai che sono là fuori?

— Sicuro — annuì Lindsay.

— Vuoi guardare il Sole per un po’? Forse ti dirà qualcosa.

— Che ne dici di Marte? — suggerì Lindsay.

— Non va bene. È in opposizione. Però possiamo provare con gli asteroidi. Controlliamo l’eclittica. — Vi fu un attimo di silenzio, riempito dalla musica in sordina della cabina di comando, mentre le stelle ruotavano. Lindsay usò l’haragei e avvertì la rotazione del fuco come un movimento uniforme intorno al proprio centro di gravità. Il costante addestramento dava i suoi frutti. Si sentiva solido, sicuro, fiducioso. Respirava dalle profondità dello stomaco.

— Là ce n’è uno — disse il Deputato. Un lontano puntolino luminoso centrò il suo campo visivo, gonfiandosi poi fino a diventare una chiazza. Quando parve aver assunto all’incirca le dimensioni di un dito, i suoi bordi divennero sfumati e persero definizione. Il Terzo Deputato inserì la risoluzione computerizzata, e l’immagine crebbe ancora fino a diventare un cilindro dalle punte arrotondate, che brillava con i falsi colori d’una scala cromatica convenzionale.

— È un’esca — disse il Dep Tre.

— Lo credi?

— Proprio così. Ne ho viste altre. Opera dei Plasmatori. È solo un guscio di altopolimeri, un pallone cavo a tenuta stagna. Potrebbe esserci qualcuno dentro.

— Non ne avevo mai visto uno — disse Lindsay.

— Ce ne sono a migliaia. — Ed era vero. Gli arraffa-concessioni della Cintura da anni ormai producevano quelle esche. I gusci di polimero erano grandi abbastanza da ospitare un piccolo avamposto di spie di dati, dirottatori di fuchi, o disertori. I potenziali cani solari potevano nascondervisi dalle squadre di polizia, oppure gli esperti plasmatori di cifrari potevano rimanere in agguato dentro di essi, intercettando le trasmissioni intercartello. La strategia consisteva nel sovaccaricare i sistemi di braccaggio dei Mech con uno sciame di potenziali nascondigli. I Plasmatori si erano attivati in modo massiccio per ottenere il controllo della Cintura e c’erano ancora gruppi isolati di agenti dei Plasmatori che si spostavano da cellula a cellula dietro le linee dei Mech mentre il Consiglio dell’Anello era assediato. Molte esche erano attrezzate con sistemi di trasmissioni propagandistiche oppure con congegni per il rilevamento dei venti solari che erano in grado di deviare le loro orbite; alcuni potevano ripetutamente espandersi e restringersi, scomparendo dai radar dei Mech. Costava assai meno produrli di quanto si doveva spendere per rintracciarli e distruggerli, dando così ai Plasmatori un vantaggio economico.

La Red Consensus era stata affittata per distruggere un avamposto in cui si trovava uno di quei centri di produzione.

— Quando ci sarà la pace — disse il Dep Tre — potrai comperarti una dozzina di quei cosi, unirli con delle tubovie, e avrai un’ottima nazione-stazione a poco prezzo.

— Ci sarà mai pace? — chiese Lindsay.

Le pareti ronzarono quando la Red Consensus barcollò per rimettersi in linea. — Quando arriveranno gli alieni — rispose il Dep Tre.


A bordo della Red Consensus
30-11-’16

Si stavano addestrando in palestra. — Basta per oggi — disse il Presidente. — Avete tutti un ottimo aspetto. Perfino il Segretario di Stato ha capito i fondamentali.

I tre deputati risero, togliendosi il casco. Lindsay fece schioccare il sigillo e a sua volta si sfilò il casco da sopra la testa. La sessione di combattimento era durata più a lungo di quanto si fosse aspettato. Aveva nascosto dentro la tuta il tampone preso da un inalatore; l’aveva inzuppato di vasopressina. Sapeva quello che sarebbe venuto dopo, e sapeva che avrebbe avuto bisogno di tutte le risorse del suo addestramento. Ma le esalazioni erano state più intense di quanto si fosse reso conto; si sentiva stordito, e la vescica gli faceva male.

— Sei rosso, Segretario di Stato — gli disse il Presidente. — Ti manca il fiato?

— È l’aria dentro la tuta, signore — mentì Lindsay, le parole echeggiarono forti ai suoi orecchi. — L’ossigeno, signore. — La vasopressina aveva dilatato i vasi sanguigni sotto la sua pelle.

Il Primo Deputato scoppiò a ridere, con una smorfia. — ’Stato è moscio.

— Riposo, il resto di voi, cittadini. Il Segretario di Stato e io dobbiamo discutere di affari.

Le tute venivano infilate attraverso una lunga giunzione interna a forma di ferro di cavallo, disposta lungo l’inguine e le cosce. Gli altri, salvo il Terzo Deputato, uscirono dalle rispettive tute nel giro di pochi secondi. Lindsay aprì la cerniera della giunzione e scalciò le gambe fuori dai pesanti stivali magnetici.

Gli altri se ne andarono, lasciando soli Lindsay e il Presidente. Lindsay si scrollò la tuta da sopra la testa, e mentre lo faceva serrò la mano destra all’interno del voluminoso braccio della tuta, affondando un ago ipodermico in profondità dentro la base del palmo della mano. Poi strappò fuori l’ago e lo lasciò galleggiare giù, dentro le dita guantate.

Lasciò la tuta aperta perché si arieggiasse, e se la cacciò sotto il braccio. Adesso nessuno l’avrebbe toccata; adesso apparteneva a lui, Lindsay, con lo stemma diplomatico della DMF su entrambe le spalle. Lindsay seguì il Presidente fino al ponte soprastante e depositò la tuta sulla sua rastrelliera.

Lui e l’altro erano soli nello “sgabuzzino delle scope”. Il volto del Presidente tradiva l’ansia. — Sei pronto, soldato? Ti senti pronto? Ideologicamente, voglio dire.

— Sì, signore — rispose Lindsay. — Ho deciso, signore.

— Allora, seguimi. — Salirono altri due ponti, fino alla cabina di comando. Il Presidente si tirò su, entrando prima con la testa, dentro l’angusta armeria e quindi dentro lo scomparto del cannone.

Lindsay lo seguì. La testa gli pulsava, i vasi sanguigni dilatati gli martellavano ritmicamente. Si sentiva più affilato d’una scheggia di vetro. Tirò un profondo respiro, quindi si issò, entrando per i piedi, dentro lo scomparto del cannone. Piombò subito in una sorta d’universo paranoico.

— Sei pronto?

— Sì, signore — dichiarò Lindsay. Lentamente, si assicurò con le cinghie allo scheletrico seggiolino dei comandi. L’antico cannone appariva sinistro, impressionante. D’un tratto provò un lampo d’intuizione, una certezza gelida come l’acciaio, che in realtà il cannone fosse puntato contro le sue budella. Tirare il grilletto avrebbe significato ridurre a brandelli se stesso.

Lindsay ricordava le procedure. Nello stato in cui si trovava, era come se fossero state stampate nel suo cervello. Passò la mano sulla superficie nero-opaca del quadro di comando e diede energia con un colpetto dell’interruttore a scatto. Dietro di lui la musica ovattata della cabina di comando scese di un’ottava quando iniziò il prelievo di energia. Un’intera fila di maligni blip rossi e di altre spie si accese di colpo sotto l’arcano azzurro dello schermo del bersaglio.

Lindsay guardò oltre lo schermo. Lo sguardo gli si offuscò. C’era una lieve iridescenza, come quella d’un sottile strato d’olio, sui sostegni innervati lungo la canna del cannone. Costolature spesse e nere, dagli orli duri: magneti a superconduttori, dai quali parevano colare spire simili a budella fatte di cavi elettrici coperti di sottili fogli metallici.

Era una pornografia di morte. Una degradazione del genio umano alla più abbietta prostituzione che sarebbe sfociata nel suicidio razziale.

Lindsay attivò l’interruttore che armava il cannone, e sollevò la prima leva di sicurezza. Infilò la mano dentro la cavità dietro il dispositivo di blocco. Le sue dita presero posizione intorno alle zigrinature d’una impugnatura di plastica. Spostò lateralmente con il pollice un altro arresto di sicurezza. La macchina cominciò ad emettere un ronzio lamentoso.

— Tutti noi dobbiamo farlo — disse il Presidente. — Non può essere affidato ad uno di noi soltanto.

— Capisco, signore — annuì Lindsay. Aveva ripassato fra sé quelle parole. Il cannone non prendeva di mira niente, era puntato fuori dall’eclittica, verso il vuoto spazio galattico. Nessuno sarebbe stato danneggiato. Tutto quello che doveva fare era tirare il grilletto… Non sarebbe stato capace di farlo.

— Tutti noi l’odiamo — dichiarò il Presidente. — Il cannone rimane chiuso per tutto il tempo, lo giuro. Ma dobbiamo averlo. Non puoi mai sapere cosa ti troverai ad affrontare nel corso della prossima azione. Forse il colpo grosso. Il colpo che ci permetterà di comperarci la strada dentro un cartello, di far di noi, nuovamente, una nazione. Poi potremo buttare nella spazzatura questo mostro.

— Sì, signore. — Non era qualcosa che riuscisse ad affrontare direttamente, né qualcosa a cui riuscisse a pensare con freddezza. Era troppo profondo… era la base dell’universo.

I mondi potevano esplodere. Le paratie contenevano la vita stessa, e fuori da quelle paratie e da quelle camere di equilibrio incombeva un’oscurità totalmente spietata, il nulla letale del nudo spazio. Nei vecchi circumlunari, nei moderni cartelli mech, nel Consiglio dell’Anello dei Plasmatori, perfino nei remotissimi avamposti dei minatori cometari e nelle avvampanti fonderie dell’orbita intra-mercuriana, ogni singolo essere pensante portava in sé questa consapevolezza. Troppe generazioni erano vissute e morte sotto l’ombra della catastrofe. Ognuno ne era rimasto impregnato sin dall’infanzia.

Gli habitat erano sacri: sacri perché erano deboli. La fragilità era universale. Una volta che un singolo mondo veniva deliberatamente distrutto, non poteva più esserci nessuna sicurezza da nessuna parte, per nessuno. Ogni singolo mondo sarebbe esploso in mille inferni di guerra totale.

Non c’era nessuna vera sicurezza. Non ce n’era mai stata nessuna. C’erano cento modi per uccidere un mondo: fuoco, esplosioni, veleno, sabotaggi. La costante vigilanza esercitata da tutte le diverse società poteva soltanto ridurre il rischio. Il potere di distruggere era nelle mani di tutti. Tutti condividevano il fardello della responsabilità. Lo spettro della distruzione aveva spezzato il paradigma morale di ciascun pianeta e di ciascuna ideologia.

I destini dell’uomo nello spazio non erano stati facili, e l’universo di Lindsay non era di quelli semplici. C’erano epidemie di suicidi, acerrime lotte di potere, rabbiosi pregiudizi tecnorazziali, la rovinosa soppressione di intere società.

Eppure la follia suprema era stata evitata. C’era la guerra, certo; imboscate su piccola scala, navi spaziali distrutte, minuscole concessioni minerarie sottratte ai loro abitanti con l’assassinio degli stessi: tutti i feroci e oscuri conflitti che esplodevano come scintille dal macinante impatto delle superpotenze dei Mech e dei Plasmatori. Ma l’umanità era sopravvissuta, anzi, era fiorita.

Era un trionfo fondamentale e profondo. Insieme alla paura che albergava nel profondo della sua mente c’erano anche una speranza e una fiducia più forti. Era una vittoria che apparteneva a tutti: una vittoria così completa e profonda che era scomparsa alla vista, e apparteneva a quel segreto regno della mente nel quale ogni altra cosa trova la sua origine.

Eppure quei pirati, come dovevano fare i pirati, controllavano un’arma di distruzione di massa. Era un’antica macchina, la reliquia di un’era di follia, quando gli uomini per la prima volta avevano aperto il vaso di Pandora della fisica. Un’era in cui gli esplosivi cosmici si erano diffusi sulla superficie della Terra a macchia d’olio.

— L’ho sparato io stesso la settimana scorsa — disse il Presidente — perciò so che i servizi di sicurezza dello Zaibatsu non hanno minato il bastardo. Alcuni dei cartelli mech lo farebbero. Ti arrestano con i vascelli doganali a quattromila klick di distanza, ti chiudono l’armamentario, poi mettono un chip ritardante nei circuiti… tu tiri il grilletto, il chip si vaporizza, gas nervino… Non fa nessuna differenza. Tira quel grilletto da combattimento, e sei morto lo stesso, al novantanove per cento. Anche i plasmatori che stiamo per attaccare hanno roba da Armageddon. Noi dobbiamo avere tutto quello che hanno loro. Dobbiamo poter fare qualunque cosa che possono fare loro. È la guerra nucleare, soldato, altrimenti non potremmo parlarci… Adesso, fuoco!

— Fuoco! — gridò Lindsay. Non accadde nulla. Il cannone rimase silenzioso.

— Qualcosa non va — disse Lindsay.

— Il cannone?

— No, il mio braccio. Il mio braccio. Non riesco a staccarlo dall’impugnatura della pistola. I muscoli si sono annodati.

— I muscoli… cosa? — esclamò il Presidente. Strinse l’avambraccio di Lindsay. I muscoli sporgevano come cavi, serrati nella rigidità d’una paralisi.

— Oh, Dio — fece Lindsay, con una punta d’isterismo nella voce ben esercitata. — Non riesco a sentire la tua mano. Stringimi il braccio.

Il Presidente gli stritolò il braccio con la sua tremenda forza. — Niente — disse Lindsay. Quand’era ancora nella tuta spaziale, aveva riempito il braccio di anestetico. Il crampo era un espediente diplomatico. Non era un espediente facile. Non aveva avuto l’intenzione che le sue dita venissero sorprese intorno all’impugnatura.

Il Presidente affondò la punta callosa delle sue dita dentro il solco esterno del gomito di Lindsay. Malgrado l’anestetico, il dolore trafisse i suoi nervi schiacciati. La sua mano sussultò leggermente, lasciando la presa. — L’ho sentito soltanto un po’ — annunciò, calmo. C’era qualcosa che poteva fare con il dolore, se la vasopressina l’avesse aiutato a ricordare… Ecco. Il dolore si trasformò, perse la sua colorazione, divenne qualcosa di perversamente simile al piacere.

— Potrei provare con la sinistra — disse Lindsay sportivamente. — Naturalmente, se anche il braccio sinistro dovesse partire, allora…

— Cos’è che non va con te, Segretario di Stato? — Il Presidente affondò con crudeltà il pollice dentro il complesso dei nervi del polso di Lindsay. Lindsay avvertì quell’angosciante dolore come un fresco lenzuolo nero drappeggiato attraverso il suo cervello. Quasi perse conoscenza; i suoi occhi ammiccarono, ed ebbe un pallido sorriso.

— Dev’essere qualcosa che mi hanno fatto i Plasmatori. Programmazione neurale. Hanno sistemato le cose in modo che non mi riuscisse mai di farlo. — Deglutì a fatica. — È come se non fosse il mio braccio. — Il sudore gl’imperlava la fronte. Era talmente legato alla vasopressina da riuscire a sentire ogni muscolo del suo viso come un’entità separata, proprio come gli avevano insegnato all’accademia.

— Questo non lo posso accettare — ribatté il Presidente. — Se non puoi tirare quel grilletto, allora non puoi essere uno di noi.

— Potrebbe essere possibile improvvisare una specie di marchingegno meccanico — si affrettò a dire Lindsay, in tono perspicace. — Una specie di guanto mosso da pistoni che potrei infilarci sopra. Io sono disposto, signore. È questo che non lo è. — Sollevò rigidamente il braccio, poi lo abbatté sul durissimo spigolo del cannone. Lo colpì di nuovo. — Non riesco a sentirlo. — La pelle si sbucciò sopra il muscolo. Piccole, brillanti gocce di sangue schizzarono in alto, galleggiando a mezz’aria. Il braccio rimase rigido. Un tentacolo increspato di sangue simile a un’ameba colò fuori dal lungo graffio.

— Non possiamo processare un braccio per alto tradimento — disse il Presidente.

Lindsay scrollò una sola spalla. — Sto facendo del mio meglio, signore. — Sapeva che non avrebbe mai tirato quel grilletto. Pensava che avrebbero potuto ucciderlo per questo, anche se sperava di riuscire a scamparla. La vita era importante, ma non così cruciale quanto il grilletto.

— Vedremo cosa dirà il Giudice Due.

Lindsay era disponibile. Quel tanto, era andato secondo il suo piano.

Il Giudice Due dormiva in infermeria. La donna si svegliò con un sussulto, gli occhi spiritati. Vide il sangue, poi fissò il Presidente. — All’anima della bruciatura, l’hai ferito di nuovo.

— Non io — replicò il Presidente, con un fremito di confusione e un senso di colpa. Quindi le spiegò la situazione, mentre il Giudice Due esaminava il braccio di Lindsay e lo bendava. — Potrebbe essere psicosomatico.

— Voglio che quel braccio si muova — intimò il Presidente. — Fallo, soldato.

— Sì, signore — rispose il Giudice, sorpreso. La donna non si era resa conto che ora si trovavano sotto il regolamento militare. Si grattò la testa. — Sono fuori dal mio campo. Sono soltanto un meccanico, non un plasmatore psicotecnico. — Lanciò un’occhiata in tralice al Presidente. Questi appariva irremovibile. — Lasciami pensare… questo dovrebbe andare. — Tirò fuori un’altra fiala, etichettata con un’illeggibile scribacchiatura. — Un convulsivo. Cinque volte più potente del segnale d’azione dei nervi. Se questo gli entrerà nel sangue, lo scuoterà sul serio. — Fissò Lindsay con aria colpevole. — Questo ti farà un po’ male… parecchio.

Lindsay intuì la sua possibilità. Il suo braccio era pieno di anestetico, ma avrebbe potuto simulare il dolore. Se avesse dato l’impressione di soffrire quel tanto che bastava, forse si sarebbero scordati del test. Avrebbero ritenuto che fosse stato punito abbastanza per qualcosa che non era colpa sua. Il Giudice era solidale. Avrebbe potuto far leva su di lei contro il Presidente. Il loro senso di colpa avrebbe fatto il resto.

Parlò con voce severa: — Il Presidente sa meglio di tutti ciò che va fatto. Dovresti eseguire i suoi ordini. Non preoccuparti per il mio braccio. È comunque intorpidito.

— Questo lo sentirai, ’Stato. Se non sei morto. — L’ago gli penetrò nella pelle. La donna gli strinse con forza il laccio emostatico intorno al bicipite. I tatuaggi s’incresparono quando le sue vene cominciarono a gonfiarsi.

Quando quell’agonia di dolore lo colpì, seppe che l’anestetico era inutile. Il convulsivo lo ustionò come se fosse un acido.

— Brucia! — urlò. — Brucia! — Il suo braccio s’increspò, i muscoli si contrassero in modo bizzarro. Cominciò a dibattersi in preda agli spasimi, strappando un’estremità del laccio dalla stretta del Giudice.

Il sangue congestionato filtrò oltre il laccio, invadendo il torace di Lindsay. Lanciò un grido soffocato e si piegò in due, il volto grigio-cenere. La droga strisciava intorno al suo cuore come un filo rovente. Inghiottì la lingua e fu colto dalle convulsioni. Per due giorni fu vicino alla morte. Quando si fu ripreso, gli altri avevano raggiunto una decisione. Nessuno parlò mai più del test. Non era mai successo.


A bordo della Red Consensus
19-12-’16

— È soltanto una roccia — disse il Secondo Deputato. Spazzò via uno scarafaggio dallo schermo.

— È il bersaglio — disse il Presidente della Camera. La cabina di comando era alimentata al minimo, e il familiare coro di schiocchi, cigolii e rombi si era ridotto a un debole e fremente raschiare. Il volto del Presidente della Camera era verdastro, a causa della luce dello schermo. — Se la sono svignata… Non ci sono infrarossi.

Lindsay si lasciò andare alla deriva in silenzio fino a un angolo della cabina di comando, senza guardare lo schermo. Si stava sfregando la pelle tatuata del braccio destro, lentamente, lo sguardo assente, fisso sul niente. La pelle si era rimarginata, ma la combinazione dei farmaci aveva bruciato i nervi schiacciati. La pelle gli pareva gommosa sotto il freddo inchiostro dei suoi tatuaggi. La punta delle dita della mano destra era intorpidita.

Non aveva nessuna fiducia nella capacità dei Plasmatori di trattenersi. La vela solare rigonfia della Red Consensus avrebbe dovuto nascondere la nave stessa al radar, impedendo un attacco preventivo da parte dell’asteroide. Ma si aspettava di sentire da un momento all’altro l’ultimo mezzo secondo d’impatto quando le armi dei Plasmatori avessero ridotto a brandelli la nave.

Udì provenire dall’interno della cabina del cannone il ronzio del seggiolino del cannoniere quando il Terzo Magistrato lo spostò, innervosito.

— Stanno aspettando che passiamo — disse il Presidente. — Stanno aspettando che spariamo da dietro la vela.

— Non possono spazzarci via così semplicemente — interloquì il Secondo Senatore con voce lamentevole. — Potremmo essere cani solari. Disertori mech.

— Rimani su quel fuco, Dep Tre! — ordinò il Presidente.

Esibendo un radioso sorriso, il Dep Tre si tolse gli auricolari e girò il viso coperto dagli occhialoni verso gli altri. — Cos’ha detto, signor Presidente?

— Ho detto di rimanere su quelle frequenze! — urlò il Presidente in risposta.

— Oh, quello — disse il Dep Tre. Si grattò dentro il collare della tuta spaziale, tenendo i doppi auricolari vicini a un orecchio. — Lo stavo già facendo. E… oh, sì. — Fece una pausa mentre l’equipaggio tratteneva il respiro. Gli occhialoni gli impedivano di vedere, ma allungò una mano senza sbagliare e sfiorò gli interruttori sul pannello davanti a lui. La cabina di comando si riempì di un ronzio staccato, acuto e lamentoso.

— Innesto il visivo — spiegò il Dep Tre, battendo sulla tastiera. L’asteroide svanì, sostituito sullo schermo da colonne e colonne d’insensatezze alfanumeriche:


TCGAGGCTATCGTAGCTAAAGCTCTCCCGATCGATATCGTCTCGAGATCGATCGATCGTTAGCTAGTTGTCGATCG TAAGGGTCAGCTA …


— È il codice genetico dei Plasmatori — disse il Presidente della Camera. — Te l’ho detto.

— Il loro ultimo segnale prima che li facciamo fuori — esclamò il Presidente, baldanzoso. — Da questo istante proclamo la legge marziale. Voglio tutti in assetto da combattimento, salvo te, Segretario di Stato. Scattare.

L’equipaggio corse via. I loro nervi si stavano sdipanando in quella confusione di azione. Lindsay li osservò mentre si allontanavano, pensando al flusso di dati diretti al Consiglio dell’Anello che aveva tradito l’avamposto.

Forse i Plasmatori avevano buttato via la loro vita con quell’ultimo grido, ma il nemico, almeno, aveva qualcuno che avrebbe saputo della loro morte e li avrebbe pianti.

4

ESAIRS XII
21-12-’16

Chiamarono l’asteroide ESAIRS XII, l’unico nome che avesse mai avuto, tirato fuori da qualche antico catalogo. ESAIRS XII era un grumo di scoria a forma di patata, lungo mezzo chilometro.

La Red Consensus era sospesa sopra il suo equatore rigonfio, ancorata ad esso. Lindsay discese lungo il cavo aiutandosi con una mano sola. Visto attraverso la visiera del suo casco, l’asteroide era scuro, con lunghe strisce di polvere di minerale grezzo carbonifero. Un grigio gelido e delle macchie bianche confuse contrassegnavano i punti d’impatto carbonizzati delle collisioni primeve. I crateri più grandi avevano un diametro di ottanta metri, enormi pozzi neri lavici di loppa venata di crepe e schizzi di vetro fuso solidificato.

Lindsay toccò il suolo. La distesa sotto i suoi stivali era come pomice, una statica superficie biancastra di bolle pietrificate. Riusciva a vedere l’asteroide in tutta la sua lunghezza, ma in direzione dell’ampiezza questo s’incurvava scomparendo alla vista dietro all’orizzonte a una dozzina di passi di distanza. Si chinò e iniziò ad avanzare, afferrandosi a sporgenze e a cavità con le dita ruvide dei suoi guanti, trainando se stesso. La mano destra era in cattivo stato. Il duro tessuto interno del guanto sembrava morbido come il cotone alle sue dita dai nervi bruciati.

Strisciò, con le gambe che gli ballonzolavano senza una meta, sopra l’orlo d’un cratere oblungo, la scalfittura cicatrizzata di qualche collisione quasi mancata. Era profondo circa nove metri, e il suo fondo era un’ampia vescica lisciata dal gas di basalto verdastro. Un lungo crinale tumido di roccia fusa era quasi decollato nello spazio ma era rimasto congelato conservando fino all’ultima increspatura e deformazione…

Slittò di lato. Il crinale roccioso si rattrappiva, spiegazzandosi come la seta, le sue deformazioni e le sue gobbe si rivelavano come una sorta di camuffamento ombreggiato su una pellicola di plastica.

Una caverna si spalancava di sotto. Era una galleria che s’incurvava subito sotto la superficie.

Lindsay discese con estrema cautela il pendio e si lanciò dentro la galleria. Si aggrappò alle sue pareti. Allungandosi verso l’alto, si spinse contro il soffitto della galleria per piantarvi i piedi.

La luce del sole albeggiava sopra il minuscolo orizzonte, piovendo dentro la galleria.

Questa, era esattamente circolare e inumanamente liscia. Sei tracce di sottile nastro metallico vi erano state incollate con resina epossidica. Correvano lungo il corridoio nel senso della sua lunghezza. Alla cruda luce del sole, le tracce avevano il luccichio del rame.

All’apparenza, la galleria cingeva completamente l’asteroide, incurvandosi rapidamente come l’orizzonte. Davanti a lui, quasi nascosto dalla curvatura della galleria, intravide il vago luccichio della plastica marrone. Saltando e spingendosi lungo le pareti, rimbalzò verso di essa in caduta libera.

Era una pellicola di plastica con incorporata una camera d’equilibrio di tessuto. Lindsay aprì la cerniera lampo della camera di equilibrio ed entrò. La chiuse nuovamente dietro di sé. Aprì una seconda cerniera sulla parete interna della camera, e vi si arrampicò dentro.

Si trovò in un cavernoso pallone nero e ocra. Era stato gonfiato all’interno della galleria in modo che vi aderisse alla perfezione.

Una figura con indosso una tuta di plastica per la decontaminazione galleggiava a testa in giù sotto il soffitto, una sagoma d’un verde brillante contro degli arabeschi neri spruzzati a mano su uno sfondo ocra. La tuta di Lindsay si era appiattita, indicando la presenza della pressione atmosferica. Lindsay si tolse il casco e inspirò con cautela. Era un miscuglio di ossigeno e azoto, aria standard.

Lindsay tenne il braccio destro appoggiato al petto, di traverso, mostrandosi deliberatamente impacciato. — Io, uh, ho una dichiarazione già pronta da leggere. Se non ha obiezioni.

— Prego, proceda. — La voce della donna era sottile, semiovattata. Intravide il suo viso dietro la visiera: occhi freddi, pelle brunastra, capelli scuri racchiusi in una retina verde.

Lindsay lesse le parole lentamente:


Saluti da parte della Democrazia dei Minatori di Fortuna. Siamo una nazione indipendente che opera secondo le norme della legge fermamente basate sui diritti civili del singolo cittadino. Come emigranti nel nostro territorio nazionale, i nuovi membri del corpo politico vengono assoggettati ad un breve processo di naturalizzazione prima di assumere la completa cittadinanza. Ci rincresce di qualunque inconveniente causato dall’imposizione di un nuovo ordine politico.

È nostra politica che le differenze ideologiche vengano appianate da una negoziazione. A questo fine abbiamo dato incarico al nostro Segretario di Stato di stabilire i termini preliminari soggetti alla ratifica del Senato. È desiderio della Democrazia dei Minatori di Fortuna, come è stato espresso nella Sedicesima Risoluzione Congiunta della Camera, Sessantasettesima Seduta, che voi cominciate il negoziato senza ulteriori ritardi sotto l’egida del Segretario, cosicché il periodo interinale possa essere quanto più breve e sicuro possibile.

Porgiamo ai nostri futuri concittadini la mano dell’amicizia e le più calorose congratulazioni.

Firmato

il Presidente


Lindsay sollevò lo sguardo.

— Gliene servirà una copia — disse porgendola.

La plasmatrice gli galleggiò più vicino. Lindsay vide che era molto bella. Ma non significava niente, o quasi: la bellezza costava molto poco fra i Plasmatori.

La donna prese il documento. Lindsay tirò fuori altre carte da una valigetta all’altezza del fianco, con la mano sinistra. — Queste sono le mie credenziali. — Le consegnò un mazzo di tabulati riciclati, resi vistosi dagli stemmi metallizzati di Fortuna.

La donna disse: — Mi chiamo Nora Mavrides. Il resto della famiglia ha chiesto di trasmetterle la nostra impressione sulla situazione. Riteniamo di potervi convincere che le azioni che avete intrapreso sono affrettate e che potreste trarre miglior profitto rivolgendo altrove le vostre attenzioni. Non vi chiediamo nulla se non il tempo di convincervi. Abbiamo perfino disattivato il nostro cannone principale.

Lindsay annuì: — Molto bene. Piacevole a sapersi. Dovrebbe far parecchio colpo sul mio governo. Vorrei vedere questo cannone.

— Ci siamo dentro — disse Nora Mavrides.


A bordo della Red Consensus
22-12-’16

Lindsay disse: — Ho fatto il tonto. Ma non credo che ci abbia creduto. — Stava parlando a una sessione a Camere riunite, Camera e Senato insieme, condotta dal Presidente della Camera. Il Presidente sedeva fra il pubblico. I Magistrati della Corte Suprema presidiavano il cannone e la cabina di comando ascoltando all’intercom.

Il Presidente scosse la testa. — Ci ha creduto. I Plasmatori pensano che noi siamo stupidi. Per l’inferno, per i Plasmatori noi siamo stupidi!

Lindsay proseguì: — Ci siamo ancorati appena fuori del loro anello di lancio. È un lungo tunnel circolare; un anello intorno al centro di gravità della roccia, aperto subito sotto la superficie. Ha una striscia magnetica per l’accelerazione e una specie di secchio magnetico per il lancio.

— Ne ho sentito parlare — disse il Terzo Magistrato all’intercom. Era il loro cannoniere specialista, un ex minatore, ormai prossimo al secolo. — Comincia con una piccola spinta, porta su quel secchio, si magnetizza, corre su un cuscino magnetico, accelerando continuamente, e dopo che ha girato in tondo per un po’, lo si frena di colpo subito dietro l’uscita. Il secchio si blocca, ma il suo contenuto viene sparato fuori a un bel po’ di klick al secondo.

— Klick al secondo? — disse il Presidente della Camera. — Potrebbe spazzarci via.

— No — replicò il Presidente. — Dovrebbe usare una quantità enorme di energia per effettuare un lancio. A una distanza così ravvicinata rileveremmo le emanazioni magnetiche.

— Non ci lasceranno entrare — riprese Lindsay. — La loro famiglia vive pulita. Niente microbi, oppure soltanto quelli tagliati su misura. E noi abbiamo roba dello Zaibatsu in ogni singolo poro. Ci offriranno del bottino, pur di vederci andar via.

— Non è questa la nostra missione — disse il Presidente della Camera.

— Non possiamo giudicare il loro bottino se non vediamo i loro alloggi — s’intromise il Primo Deputato. La plasmatrice rinnegata si spazzolò i capelli con le punte smaltate delle dita. Ultimamente, aveva preso a vestirsi bene.

— Possiamo aprirci la strada con la scavatrice — disse il Presidente. — Useremo le letture sonar che abbiamo fatto. Abbiamo una buona idea di dove si trovino le gallerie più vicine alla superficie. Potremmo scavare ed entrare in quattro o cinque minuti mentre il Segretario di Stato procede con i negoziati. — Esitò. — Potrebbero ucciderci per questo.

La voce del Presidente della Camera era carica di una gelida certezza. — Siamo morti comunque, se continueranno a tenerci a distanza di un braccio. Il nostro cannone ha la gittata corta. Quell’anello di lancio potrebbe ridurci in polvere molte ore dopo che ce ne siamo andati.

— Non lo hanno fatto prima — replicò il Primo Deputato.

— Adesso sanno chi siamo.

— Ci rimane soltanto una cosa da fare — disse il Presidente. — Metterlo ai voti.


ESAIRS XII
23-12-’16

— Dopotutto, siamo una democrazia di minatori — disse Lindsay a Nora Mavrides. — Secondo l’ideologia di Fortuna, avevamo tutto il diritto di trivellare il terreno. Se aveste tracciato per noi una mappa della vostra rete di gallerie, questo non sarebbe successo.

— Avete rischiato tutto — replicò Nora Mavrides.

— Deve ammettere che ci sono stati dei benefici — disse Lindsay. — Adesso che la vostra rete è stata, per così dire, “contaminata”, possiamo per lo meno incontrarci faccia a faccia senza le tute spaziali.

— È stato sconsiderato, Segretario.

Lindsay si toccò il petto con la mano sinistra. — Consideri la cosa secondo la nostra prospettiva, dottor Mavrides. La DMF non è disposta ad aspettare a tempo indeterminato per prendere possesso della sua proprietà. Credo che siamo stati molto ragionevoli.

— Voi continuate a supporre che abbiamo intenzione di andarcene. Siamo coloni, non briganti. Non ci lasceremo dissuadere da nebulose promesse e da propaganda anti-mechanist. Siamo minatori.

— Pirati. Mercenari mechanist.

Lindsay scrollò una spalla soltanto.

— Il suo braccio — disse la donna. — È davvero ferito? Oppure finge, per farmi credere d’essere innocuo?

Lindsay non disse niente.

— Capisco il suo punto di vista — proseguì la donna. — Non può esserci un vero negoziato senza fiducia. Da qualche parte dobbiamo avere un terreno in comune. Troviamolo.

Lindsay raddrizzò il braccio. — D’accordo, Nora. Se la cosa è fra noi due, lasciando da parte i nostri ruoli, sentiamo cos’hai da dire. Posso sopportare qualunque livello di franchezza che tu sia disposta a proporre.

— Allora dimmi il tuo nome.

— Non significherebbe niente per te. Abelard — proseguì — Chiamami Abelard.

— Qual è la tua linea genetica, Abelard?

— Non sono un plasmatore.

— Tu menti, Abelard. Ti muovi come uno di noi. La faccenda del braccio l’ha mimetizzato, ma la tua goffaggine è troppo deliberata. Quanti anni hai? Cento? Di meno? Da quanto tempo stai canesolariandoti?

— Ha importanza? — chiese Lindsay.

— Puoi tornare. Credimi, adesso è diverso. Il Consiglio ha bisogno di gente come te. Ti appoggerò io. Unisciti a noi, Abelard. Siamo noi la tua gente, non quei rinnegati pieni di germi.

Lindsay allungò una mano. Nora si tirò indietro, i lunghi legacci delle sue maniche sussultarono in caduta libera.

— Vedi — disse Lindsay — sono sudicio come loro. — L’osservò con molta attenzione.

Era bellissima. Il clan dei Mavrides era una linea genetica che non aveva mai incontrato prima. Spalle ampie, occhi nocciola, con una traccia di piega epicantica, più amerinda che orientale. Zigomi alti, un naso dritto e aquilino, sopracciglia nere soffici come piume, che in caduta libera formavano una massa cespugliosa di viticci arricciati. I capelli di Nora erano racchiusi in una morbida cuffia da caduta libera, un turbante di plastica verde giada trattenuto dietro da una stringa cremisi e da un bordo ben stretto color verde foresta sopra la frangetta di capelli che le contornava la fronte. La sua pelle ramata era chiara e inumanamente liscia, con una spruzzata di rosso.

Erano sei. Si somigliavano tra loro, ma non erano cloni identici. Quei sei erano una minuscola percentuale della linea genetica dei Mavrides: Kleo, Paolo, Fazil, Ian, Agnes e Nora Mavrides. Kleo era il loro capo. Aveva quarant’anni. Nora ne aveva ventotto. Gli altri avevano tutti diciassette anni.

Lindsay li aveva visti. Provava pietà per loro. Il Consiglio dell’Anello non sperperava i propri investimenti. Un genio di diciassette anni era più che sufficiente per la missione, e costava poco. Loro l’avevano guardato con i gelidi occhi color nocciola, lo sguardo disgustato e guardingo che si riservava ai parassiti. Ardevano dal desiderio di ucciderlo, con un’ingordigia temperata soltanto dalla ripugnanza.

Adesso era troppo tardi per farlo. Avrebbero dovuto ucciderlo a grande distanza, quando ancora potevano tenersi puliti. Ora era troppo vicino. La sua pelle, il suo alito, i suoi denti, perfino il suo sangue ribolliva di corruzione.

— Non abbiamo antisettici — disse Nora. — Non abbiamo mai pensato che ne avremmo avuto bisogno. Non sarà piacevole per noi, Abelard. Vesciche, foruncoli, eruzioni cutanee. Dissenteria. Non c’è niente che possa aiutarci. Anche se ve ne andaste domani, l’aria della vostra nave… ha già strisciato dappertutto. — Allargò le mani. La sua camicetta aveva dei lacci scarlatti ai polsi, con maniche a sbuffo tagliate che mostravano la pelle dei suoi avambracci. La camicetta era un indumento awolgitutto, legata in basso con corti lacci a ciascun fianco e stretta alla vita da una cintura. L’aveva cucita lei stessa, ricamando i risvolti con un lavoro a griglia rosa e bianco. Sotto, portava un paio di calzoncini corti chiusi al ginocchio, e sandali rossi con lacci.

— Mi spiace — disse Lindsay — ma è meglio che morire. I Plasmatori sono bruciati, ormai, Nora. Finiti. Non ho nessun amore per i Mech, credimi. — Per la prima volta fece un gesto col braccio destro. — Lascia che ti dica qualcosa che negherò, se lo ripeterai. I Mech non esisterebbero, se non fosse per voi. La loro Unione di Cartelli è una farsa. È tenuta insieme soltanto dalla paura e dall’odio per i riplasmati. Una volta che avranno distrutto il Consiglio dell’Anello, cosa che devono fare, i Mech stessi andranno in pezzi.

“Per favore, Nora. Cerca di vedere la cosa dal mio punto di vista, almeno per un momento, soltanto per amor di discussione. So che sei impegnata, so che sei fedele alla tua linea genetica, alla tua gente che si trova a casa. Ma la tua morte non li salverà. Sono bruciati, condannati. Adesso siamo soltanto noi e voi. Diciotto persone. Sono vissuto con questi fortuniani. Sappiamo quello che sono. Sono canaglie, pirati, predoni. Falliti. Vittime, Nora. Vivono nel varco tra ciò che è giusto e ciò che è possibile.

“Ma se verrete non vi uccideranno. È la vostra occasione. Una occasione per i sei che si trovano qui… Una volta che vi avranno messo a tacere, torneranno ai cartelli. Se vi arrendete, vi porteranno con sé. Siete tutti giovani. Mascherate il vostro passato e fra un secolo potreste essere voi a dirigere quei cartelli. Mech, Plasmatori, queste sono soltanto etichette. Il punto è che viviamo.”

— Siete strumenti — ribatté la donna. — Vittime, certo, questo lo accetto. Noi stessi siamo vittime. Ma vittime per una causa migliore della vostra. Siamo venuti qui nudi, Abelard. Siamo stati spediti fin qui a bordo d’una tinozza a senso unico, e il solo motivo per cui non siamo stati distrutti durante il volo è che il Consiglio lancia cinquanta esche per ogni vera missione. Ai cartelli, ucciderci costerebbe più di quanto valiamo.

“È per questo che hanno assunto voi. I ricchi mech, quelli al potere, vi hanno rivolto contro di noi. E noi sopravviviamo. Abbiamo costruito questa base dal nulla, con le nostre mani, il nostro cervello, la nostra intrinseca sostanza organica. Siete stati voi a venire fin qui a ucciderci.”

— Ma adesso siamo qui — ribadì Lindsay. — A ciò che è ormai passato non si può porre rimedio. Ti sto pregando di lasciarmi vivere, e tu mi rispondi con dell’ideologia. Per favore, Nora, cedi un pochino, non ucciderci tutti.

— Voglio vivere — disse la donna. — Sei tu che dovresti unirti a noi, qui. Gli altri della vostra banda non ci servirebbero a molto, ma potremmo tollerare te. Non sarai mai un vero plasmatore, ma c’è spazio per l’imprevisto sotto la nostra egida. In un modo o nell’altro, siamo in grado di aggirare qualunque mossa i cartelli possano fare contro di noi.

— Siete assediati — disse Lindsay.

— Romperemo l’assedio. Non l’hai saputo? La Concatenazione si schiererà con noi. Abbiamo già un circumlunare dalla nostra: la Repubblica Corporativa Circumlunare del Mare della Serenità.

Perfino qui era toccato dall’ombra di Constantine. — E questo lo chiami un trionfo? — chiese. — Quei piccoli mondi decadenti. Quelle reliquie in rovina.

— Noi le ricostruiremo — disse la donna con raggelante fiducia. — Noi possediamo i loro giovani.


A bordo della Red Consensus
1-1-’17

— Benvenuta a bordo, dottor Mavrides — disse il Presidente. Le porse la mano. Nora la strinse senza esitazione. La sua pelle era protetta sotto la sottile plastica della tuta spaziale.

— Un ottimo inizio per un nuovo anno — commentò Lindsay. Si trovavano sul ponte di comando della Red Consensus. Lindsay si rese conto di quanto gli fossero mancati i familiari schiocchi e blip e cigolii degli strumenti. I suoni subito s’insediarono dentro di lui, allentando una tensione che non sapeva di aver avuto.

I negoziati erano vecchi di dodici giorni. Si era dimenticato del bruttissimo aspetto dei pirati, come apparissero degli inveterati sporcaccioni. Avevano i pori ostruiti, i capelli puzzolenti e unti, i denti bordati dalla placca batterica. Agli occhi di un plasmatore, erano animali selvaggi.

— Questo è il nostro terzo accordo — disse il Presidente in tono molto formale. — Prima l’Atto dei Canali Aperti, poi la Valutazione Tecnologica e il Consenso al Commercio, e adesso un autentico successo nella politica della giustizia sociale, l’Atto dell’Integrazione. Benvenuta sulla Red Consensus, dottore. Speriamo che vogliate considerare ogni singolo angstrom del vascello come parte del vostro retaggio nazionale.

Il Presidente fissò con una puntina il tabulato del trattato ad una paratia, e lo firmò con uno svolazzo. Lindsay v’impresse il sigillo del Segretario di Stato con la mano sinistra. La carta sottile s’increspò leggermente.

— Siamo tutti connazionali, qua dentro — dichiarò il Presidente. — Rilassiamoci un po’. Impariamo, uhm, a conoscerci.

Tirò a sé un inalatore di bronzo indurito, e inspirò da esso ostentatamente.

— Ti sei cucita quella tuta spaziale da sola? — chiese il Presidente della Camera.

— Sì, Presidente. Le cuciture sono di filo metallico e resine epossidiche estratte dalle nostre banche dati organiche.

— Intelligente.

— Mi piacciono i vostri scarafaggi — dichiarò il Secondo Deputato. — Rosa, oro e verde. Non sembrano affatto scarafaggi. Mi piacerebbe averne qualcuno.

— Sono sicura che potremo metterci d’accordo — disse Nora.

— Vi posso dare in cambio un po’ di rilassanti. Ne ho parecchi.

— Grazie — annuì Nora. Se la stava cavando benissimo. Lindsay, in qualche modo, si sentiva orgoglioso di lei.

Nora aprì la chiusura lampo della propria tuta spaziale e ne uscì fuori. Sotto, indossava un poncho triangolare che le passava sopra le spalle, geometricamente ricamato in bianco e azzurro-ghiaccio. Le estremità affusolate del poncho erano tenute assieme da lacci che passavano sopra i fianchi, lasciando nude le gambe salvo per i sandali di velcro con spighette.

Con molto tatto i pirati avevano rinunciato alle proprie tute con sopra disegnato lo scheletro rosso e argento. Indossavano invece dei copritutto marrone grigiastro dello Zaibatsu. Parevano tanti selvaggi.

— Mi piacerebbe una di queste — disse il Dep Tre. Avvicinò il braccio a fisarmonica della sua antica tuta spaziale a quello di plastica sottile della tuta di Nora. — Come fai a respirare in quella ventosa?

— Non è per lo spazio profondo. La riempiamo di ossigeno e respiriamo fino a quando possiamo. Dieci minuti.

— Potrei collegarci una bombola. Sarebbe più adatta allo spazio, cittadina. Al Sole piacerebbe.

— Potremmo insegnarti a cucirtene una. È un’arte che vale la pena di conoscere. — Sorrise al Dep Tre, e Lindsay rabbrividì dentro di sé. Sapeva come il fetore del sudore che usciva dalla tuta del Dep dovesse rivoltarle lo stomaco.

Si mosse fra loro due, sospingendo senza troppa cura il Dep Tre. E, per la prima volta, toccò Nora Mavrides. Appoggiò delicatamente la mano sulla morbida spalla azzurra e bianca del suo poncho. Ma il muscolo sotto la sua mano era rigido come fil di ferro.

La ragazza ebbe un nuovo, fugace sorriso. — Sono sicura che gli altri troveranno affascinante questa nave. Siamo arrivati qui in una specie di tinozza. Il nostro carico era costituito per i nove decimi da ghiaccio, per i serbatoi del “ware” organico. Eravamo immersi nella pasta antiaccelerazione, prossimi alla morte. Avevamo i nostri robot e i nostri tokamak. Il resto era una sorta di miscuglio di questo e di quello. Filo elettrico, una manciata di microchip, sali e tracce di minerali. E poi avevamo tutta roba genetica: uova, semi, batteri. Siamo arrivati qui nudi, per risparmiare peso al momento del lancio. Tutto il resto l’abbiamo fatto con le nostre mani, amici. La carne contro la roccia. E la carne vince, se è abbastanza furba.

Lindsay annuì. Non aveva citato la loro arma a pulsazioni elettromagnetiche. Nessuno parlava dei cannoni.

Lei si sforzava di incantare i pirati, il suo orgoglio li pungolava. L’orgoglio della Famiglia era giustificato. Erano riusciti a destreggiarsi, arrivando alla prosperità, partendo da un “ware” organico batterico contenuto in capsule di gelatina non più grandi di capocchie di spillo. Erano diventati maestri nell’uso delle plastiche, le avevano sintetizzate dalla roccia. I loro manufatti erano economici quanto la vita stessa.

Erano cresciuti dentro la roccia, vi erano penetrati con l’implacabile persistenza dei loro corpi morbidi. ESAIRS XII era traforato dovunque di gallerie. I loro cerchi dai denti aguzzi scavavano senza sosta nuove gallerie. Avevano costruito dei ventilatori con sacchi di vinile e nervature di plastica mnemonica. Le nervature respiravano. Erano collegati al tokamak dell’impianto a fusione, e un piccolo cambiamento di voltaggio li faceva piegare e flettere, succhiando dentro l’aria con uno schiocco dei polmoni di plastica e un ansito animalesco all’espirazione. Era il suono della vita all’interno della roccia, il raschiare dei cerchi, i ventilatori che respiravano, l’improvviso gorgogliare dei fermentatori.

Avevano delle piante. Non soltanto alghe e glutine, ma anche fiori: rose, phlox, margherite, o meglio piante che avevano conosciuto quei nomi prima che il loro DNA avesse assaggiato il bisturi. Sedano, lattuga, frumento nano, spinaci, alfalfa. Bambù: con dei fili di ferro sottili e infinita pazienza, riuscivano a torcere il bambù facendone bottiglie e complessi intrichi di tubi. Uova: avevano perfino dei polli, o creature che un tempo lo erano stati, prima che le giuntatrici genetiche dei Plasmatori le trasformassero in utensili generici da caduta libera.

Erano potenti, subdoli e colmi di un odio disperato. Lindsay sapeva che stavano aspettando la loro occasione, soppesando le probabilità, calcolandole. Avrebbero attaccato per uccidere, se avessero potuto farlo, ma soltanto quando avessero potuto massimizzare le loro possibilità di sopravvivenza.

Ma sapeva anche che, al passare di ogni giorno, con ogni accordo o concessione minore, un altro sottile strato di lacca coprente si stendeva sopra la breccia che si spalancava fra loro. Giorno dopo giorno un nuovo status quo lottava per affermarsi, una fragile distensione sostenuta soltanto dall’abitudine.


ESAIRS XII
3-2-’17

— Ehi, Segretario di Stato.

Lindsay si svegliò. Nella gravità fantasma dell’asteroide aveva finito in maniera impercettibile per adagiarsi sul fondo della sua caverna. Chiamavano quella sua tana l’“Ambasciata”. Con l’approvazione dell’Atto d’Integrazione, Lindsay si era trasferito all’interno della roccia insieme al resto della DMF.

Era stato Paolo a parlare. Fazil era con lui. I due giovani indossavano dei poncho ricamati e delle rigide corone di plastica che trattenevano le loro fluttuanti criniere, le quali ricadevano fino alle spalle.

I batteri cutanei li avevano colpiti duramente. Ogni giorno avevano un aspetto peggiore. Il collo di Paolo era talmente infiammato che la sua gola pareva tagliata. L’orecchio sinistro di Fazil era pure infettato: teneva la testa inclinata su un lato.

— Vogliamo farti vedere qualcosa — disse Paolo. — Puoi venire con noi, signor Segretario? In silenzio. — La sua voce era gentile, i suoi occhi color nocciola tanto limpidi e innocenti che Lindsay seppe subito che aveva in mente qualcosa. L’avrebbero ucciso? Non ancora. Lindsay si allacciò un poncho e lottò con i nodi complicati dei suoi sandali. — Sono a vostra disposizione — disse infine.

Entrarono galleggiando nel corridoio. I corridoi fra le cavità scavate nella roccia erano soltanto dei lunghi budelli di un metro di diametro. Gli uomini del clan dei Mavrides si proiettavano lungo questi passaggi con rapidi scatti da un lato all’altro, simili a quelli delle lucertole. Lindsay era il più lento. Il braccio ferito gli faceva particolarmente male, e la mano gli pesava come una mazza.

Planarono in silenzio attraverso la morbida luminosità gialla di una delle camere di fermentazione. Le estremità smussate, simili a capezzoli, di tre sacchi di “ware” organico sporgevano dentro alla stanza. Erano simili a cordoni di salsicce ficcati dentro a gallerie di pietra. Ogni galleria conteneva una serie di sacchi, collegati da filtri. Ogni sacco passava la sua emissione a quello successivo. L’ultimo sacco aveva in funzione una filiera, un motore a memoria-plastica, che ticchettava lentamente. Un tubo cavo di perfetta e limpida resina acrilica si arricciava in caduta libera, fumando mentre si essiccava.

Entrarono in un’altra nera galleria. Le gallerie erano tutte identiche, tutte perfettamente lisce. Non c’era bisogno di luce. Qualunque genio avrebbe potuto facilmente mandare a memoria il labirinto.

Alla sua sinistra Lindsay udì il lento clack-rasp clack-rasp di un cerchio dentato che stava scavando una galleria. I cerchi erano fabbricati a mano, i loro denti lavorati pure a mano nella plastica, e ognuno aveva un suono leggermente diverso. A lui erano utili: gli davano l’orientamento. In due anni avevano eroso più di ventimila tonnellate di minerale grezzo.

Dopo che il minerale era stato raffinato, gli scarti venivano sparati nello spazio. Tutto ciò che veniva lanciato via si lasciava un foro alle spalle. Un foro lungo dieci chilometri, nero come la pece, e pieno di nodi come una lenza ingarbugliata imperlata di caverne viventi, serre, stanze per il “ware” organico, e nascondigli privati.

Fecero una curva imboccando un budello che Linsday non aveva mai usato prima. Lindsay sentì il suono raschiante d’un tappo di pietra che veniva trascinato via.

Percorsero una breve distanza, riuscendo a passare a stento e contorcendosi davanti alla massa floscia d’un ventilatore disattivato. Mentre Lindsay ci passava davanti, strisciando nel buio, il ventilatore si animò con un rantolo.

— Questo è il nostro luogo segreto — disse Paolo. — Mio e di Fazil. — La sua voce echeggiò nel buio.

Qualcosa sfrigolò rumorosamente con uno schizzare di scintille roventi. Sorpreso, Lindsay si tese, preparandosi a combattere. Paolo impugnava un corto bastone bianco arso da una fiamma all’estremità. — Una candela — disse.

— Ah, sì, capisco — annuì Lindsay.

— Giochiamo col fuoco — spiegò Paolo. — Fazil ed io.

Si trovavano in una caverna-laboratorio, scavata dentro una delle grandi vene di pietra, all’interno di ESAIRS XII. Le pareti parevano di granito agli occhi non allenati di Lindsay: una roccia grigio-rosata punteggiata di minuscoli luccichii.

— Qui c’era quarzo — disse Paolo. — Biossidi di silicio. L’abbiamo estratto per ricavarne l’ossigeno, poi Kleo se n’è dimenticata. Così abbiamo perforato questa stanza noi stessi. Giusto, Fazil?

Fazil interloquì con passione: — Proprio così, signor Segretario. Abbiamo usato perforatrici portatili e plastica a espansione. Vedi dove la roccia si è infranta e si è staccata? Abbiamo nascosto i frammenti fra i detriti destinati al lancio, e così nessuno se n’è accorto. Abbiamo lavorato per giorni e giorni, mettendo da parte i pezzi più grossi.

— Guarda — disse Paolo. Toccò la parete, la pietra s’increspò nella sua mano e venne via. In una cavità scavata nella ruvida roccia e grande quanto un armadio, galleggiava un macigno oblungo, che era sorretto da un cavo. Paolo ruppe il cavo e tirò fuori il macigno. Si muoveva con la lentezza di una lumaca. Paolo lo aiutò a frenare la sua inerzia.

Era una scultura da due tonnellate: rappresentava la testa di Paolo. — Un lavoro molto bello — disse Lindsay. — Posso? — Fece scorrere la punta delle dita sullo zigomo estremamente liscio e lucido. Gli occhi, ampi e vigili, che avevano un incavo per raffigurare le pupille, erano grandi quanto le sue mani tese. C’era un debole sorriso su quelle enormi labbra.

— Quando ci hanno mandato qui fuori, sapevamo che non saremmo mai più tornati indietro — disse Paolo. — Noi saremmo morti quaggiù, e perché? Non perché la nostra genetica fosse difettosa. Noi siamo una buona schiatta. I Mavrides dominano… - Adesso parlava più in fretta, scivolando nello slang del Consiglio dell’Anello.

Fazil annuì in silenzio.

— È soltanto una cattiva percentuale. Il caso. Siamo stati bruciati dal caso prima ancora di avere vent’anni. Non è possibile eliminare il caso. Alcune delle linee genetiche sono destinate a cadere, cosicché le altre possano sopravvivere. Se non fossimo stati Fazil ed io, sarebbe toccato a qualche altro nostro compagno di culla.

— Capisco — annuì Lindsay.

— Siamo giovani e costiamo poco. Ci buttano in mezzo alle fauci del nemico, cosicché l’inchiostro rimanga nero e non diventi rosso, il credito non diventi debito. Ma siamo vivi, io e Fazil. C’è qualcosa dentro di noi. Non vedremo mai il dieci per cento della vita che vedranno gli altri, lì a casa. Ma siamo stati qui. Esistiamo veramente.

— Vivere è meglio — disse Lindsay.

— Tu sei un traditore — aggiunse Paolo, senza alcun risentimento. — Senza una linea genetica, sei senza sangue. Sei soltanto un sistema.

— Ci sono cose più importanti del vivere — disse Fazil.

— Se aveste abbastanza tempo, potreste vivere più a lungo di questa guerra — rispose Lindsay.

Paolo sorrise. — Questa non è una guerra. Questa è evoluzione. Credi di poter sopravvivere a questo?

Lindsay scrollò le spalle. — Forse. E se dovessero arrivare gli alieni?

Paolo lo fissò sgranando gli occhi. — Tu ci credi, agli alieni?

— Forse.

— Tu sei un tipo a posto — disse Paolo.

— Come posso aiutarvi? — domandò Lindsay.

— Si tratta dell’anello di lancio. Abbiamo in programma di lanciare questa testa. Un lancio obliquo, velocità massima, massima potenza, fuori dal piano dell’eclittica. Forse un giorno qualcuno la vedrà. Forse qualcosa, fra cinquecento milioni di anni, quando non ci sarà più alcuna traccia di vita umana, la raccoglierà, la mia faccia. Non ci sono detriti fuori del piano dell’eclittica, nessuna possibilità di collisione, soltanto il morto vuoto dello spazio. Ed è buona, solida, dura roccia. A questa distanza, il Sole potrebbe diventare una gigante rossa, e riscaldarla appena. Potrebbe rimanere in orbita fino a quando il Sole avrà raggiunto lo stadio di nana bianca, forse fino a quando sarà ridotto a un ammasso di cenere nera, fino a quando la Galassia non sarà esplosa oppure il cosmo non si sarà divorato tutto. La mia immagine, per sempre.

— Soltanto che, prima, dobbiamo lanciarla — concluse Fazil.

— Al Presidente non piacerà — obiettò Lindsay. — Il primo trattato che abbiamo firmato dice: niente più lanci per tutta la sua durata. Forse più tardi, quando la nostra reciproca fiducia si sarà rafforzata.

Paolo e Fazil si scambiarono un’occhiata. Lindsay seppe subito che la cosa gli era sfuggita di mano.

— Sentite — disse. — Voi due avete parecchio talento. Dal momento che l’anello di lancio non è in funzione, avete un sacco di tempo a disposizione. Potreste scolpire le teste di tutti noi.

— No! — urlò Paolo. — È fra noi due, e basta.

— E tu, Fazil? Non ne vorresti una?

— Siamo morti — rispose Fazil. — Per fare questa abbiamo impiegato due anni. C’era soltanto il tempo di farne una. Il caso ci ha bruciati entrambi. Uno di noi due ha dovuto dare tutto per niente. Così, abbiamo deciso. Fagli vedere, Paolo.

— Non dovrebbe guardare — ribatté Paolo, risentito. — Lui non capisce.

— Voglio che lui lo sappia, Paolo — ribadì Fazil in tono severo. — Perché io devo eseguire e tu guidare. Mostraglielo, Paolo.

Paolo portò la mano sotto il suo poncho e tirò fuori una scatola di acrilico trasparente con il coperchio incernierato. Dentro si vedevano due cubi di pietra, cubi neri con dei punti bianchi sulle superna. Dadi.

Lindsay si umettò le labbra. Li aveva visti nel Consiglio dell’Anello: azzardo endemico. Non soltanto per i soldi, ma per il nocciolo stesso della personalità. Accordi segreti. Giochi di dominio. Sesso. Le lotte all’interno delle linee genetiche, fra gente che sapeva con assoluta certezza di essere alla pari. I dadi erano veloci e definitivi.

— Posso aiutarvi — disse Lindsay. — Negoziamo.

— Dovremmo essere in servizio. A monitorare la radio. Noi ce ne andiamo, signor Segretario.

— Vengo con voi — fece Lindsay.

I due plasmatori tornarono a sigillare il coperchio di pietra del loro laboratorio segreto, allontanandosi in fretta nel buio. Lindsay li seguì meglio che poteva.

I Plasmatori avevano piazzato dischi di ascolto dappertutto nell’asteroide. I crateri da impatto a forma di scodella erano fatti su misura per la loro rete camuffata. Tutte le antenne facevano capo a un processore centrale, i cui delicati semiconduttori erano ospitati in una robusta consolle di acrilico. Fessure aperte nella consolle contenevano cassette di nastro da registrazione confezionate in casa, che scorrevano in continuazione davanti a una dozzina di testine diverse. Un’altra apertura sul banco di acrilico ospitava un display a cristalli liquidi per la registrazione video, e c’era anche una tastiera con le lettere scritte a mano.

I due genetici passavano al vaglio le bande d’onda, esaminando lo spettro generale delle trasmissioni del cartello. La maggior parte delle bande possedevano sistemi automatici di cancellazione della statica, impulsi anonimi che inquinavano gli impulsi significativi. — Qui c’è qualcosa — annunciò Paolo. — Triangolalo, Fazil.

— È vicino — disse Fazil. — Oh… soltanto il pazzo.

— Cosa? — intervenne Lindsay. Un enorme scarafaggio verde chiazzato d’un vivido violetto passò davanti a loro con uno sbattere d’ali.

— Quello che indossa sempre la tuta spaziale. — I due si guardarono. Lindsay lesse il loro sguardo. Stavano pensando alla puzza di quell’uomo.

— Sta parlando? — chiese Lindsay. — Inserisciti, per favore.

— Quello parla sempre — replicò Paolo. — Canta per la maggior parte del tempo. Delira dentro un canale aperto.

— Ha addosso la nuova tuta spaziale — si affrettò a informarli Lindsay. — Fatemelo ascoltare.

Udì il Dep Tre: — … granulato come il viso di mia madre. E mi spiace di non aver salutato il mio amico Marte. Mi spiace anche per il Carnevale. Sono a chilometri di distanza, e quel sibilo… Pensavo che fosse un nuovo amico che cercava di parlare. Ma non lo è. È un piccolo foro sulla mia schiena, dove ho incollato le bombole. Le bombole funzionano bene, il buco funziona meglio. Sono io e le mie due pelli, tra poco entrambe belle gelide…

— Cerca di chiamarlo! — esclamò Lindsay.

— Ti ho detto che tiene il canale aperto. Quell’unità è vecchia di duecento anni e forse più. Non può sentirci mentre sta parlando.

— Non ho intenzione di riarrotolarmi, me ne rimarrò qui fuori. — La sua voce era più debole. — Non c’è aria per parlare. Non c’è aria per ascoltare. Così, cercherò di uscir fuori. C’è soltanto una chiusura-lampo. Con un po’ di fortuna riuscirò a sgusciar fuori completamente. — Vi fu un leggero crepitio di statica. — Addio, Sole. Addio, Stelle. Grazie per…

Le parole andarono perdute nel sibilo della decompressione. Poi il crepitio della statica riprese. Continuò molto a lungo.

Lindsay rifletté. Poi parlò con calma. — Ero io il vostro alibi, Paolo?

— Cosa? — Paolo era scosso.

— Avete sabotato la sua tuta. E poi avete fatto attenzione a non trovarvi qui quando avreste potuto aiutarlo.

Paolo era pallido. — Non ci siamo mai avvicinati alla sua tuta, lo giuro!

— Allora perché non eravate qui al vostro posto?

— È stata Kleo a predispormi! — urlò Paolo. — Ian arriva, lo dicono i dadi, dice! Io dovrei essere pulito!

— Chiudi il becco, Paolo. — Fazil lo afferrò per un braccio.

Paolo cercò d’imporgli silenzio con un’occhiataccia, poi si rivolse a Lindsay: — Sono stati Kleo e Ian. Odiano la mia fortuna… — Fazil gli diede uno scrollone.

Paolo gli tirò una sberla di traverso alla faccia.

Fazil cacciò un urlo e gettò le braccia intorno a Paolo, tenendolo stretto a sé. Paolo parve afflitto. — Ero scombussolato — disse. — Ho mentito su Kleo: lei ci ama tutti. È stato un incidente. Un incidente.

Lindsay se ne andò. Si precipitò lungo le gallerie, passando davanti ad altro “ware” organico e ad una serra dove un ventilatore soffiava via con forza l’odore di fieno appena tagliato.

Entrò in una caverna dove dei genera-luce risplendevano di un rosso cupo attraverso una membrana permeabile ai gas. La stanza di Nora si trovava su una laterale della caverna, bloccata dalla massa ansimante del suo ventilatore privato. Lindsay l’oltrepassò sul lato dell’esalatore, schiacciando il corpo contro la parete, e accese le luci.

Degli arabeschi viola ricoprivano le pareti della stanza. Nora stava dormendo.

Le sue braccia e le sue gambe erano strette dai cavi. Dei sostegni le circondavano i polsi e i gomiti, le caviglie e i ginocchi. Dei mioelettrodi costellavano i gruppi di muscoli sotto la sua pelle nuda. Le braccia e le gambe si muovevano calme, all’unisono, su un lato e sull’altro, avanti e indietro. Un lungo carapace le creava una protuberanza sulla schiena, sopra i gangli nervosi che si diramavano dalla sua spina dorsale.

Era un congegno diplomatico da addestramento, un granchio spinale. I ricordi balenarono dietro gli occhi di Lindsay: si sentì cogliere da un furore folle. Balzò via dalla parete e schizzò verso di lei come un razzo. Gli occhi velati di Nora si aprirono di scatto mentre lui gridava la sua furia.

L’afferrò per il collo e la tirò in avanti con uno strappo, affondando le unghie dentro l’orlo gommoso là dove il granchio spinale incontrava la pelle. Lo strappò via con selvaggia violenza. Una parte si staccò. Sotto, la pelle luccicava rossa, resa liscia dal sudore. Lindsay afferrò il cavo collegato con il braccio sinistro e lo staccò con un colpo secco. Tirò con più forza. Nora ansimò mentre una cinghia affondava sotto le sue costole.

Il granchio si stava sbucciando. Il suo ventre era orrendo, una massa frastagliata di umidi tubi translucidi, traforati da tanti piccolissimi pori dai quali uscivano innumerevoli fili sottili come capelli. Lindsay tirò un’altra volta. L’innesto di un cavo si tese e si spezzò, facendo schizzar fuori dei cavetti più piccoli, colorati.

Lindsay appoggiò i piedi contro la schiena di Nora, e tirò ancora; la donna soffocò e artigliò la fibbia della cinghia. La cintura venne via di scatto con la forza d’una frustata, e Lindsay ebbe in pugno il congegno. Con il suo programma sconvolto, questo si dibatté e si arricciò come una cosa viva. Lindsay lo fece roteare tenendolo per la cinghia e lo sbatté contro la parete con tutte le sue forze. I segmenti sovrapposti sul dorso del congegno si spaccarono, con un crepitio di plastica. Lindsay tornò a scagliarlo contro la parete di pietra con la forza di una scudisciata. Liquidi lubrificanti brunastri colarono fuori, poi si dispersero in tante gocce in caduta libera quando lo fracassò una volta ancora. Per concludere l’opera, lo schiacciò sotto i piedi, tirando la cinghia fino a quando non cedette. Le sue budella comparvero sotto le piastre: biochip a forma di losanga annidate dentro fibre ottiche multicolori.

Lindsay lo sbatté una volta ancora contro la roccia, con maggior lentezza e determinazione. Lo schiacciò nuovamente con movimenti deliberati, triturandolo. Adesso il furore lo stava lasciando. Provava una sensazione di freddo. Il braccio destro gli tremava incontrollabilmente.

Nora era addossata alla parete, si teneva aggrappata ad una rastrelliera per indumenti. L’improvviso distacco dalla programmazione nervosa aveva indotto in lei un tremito continuo dovuto alla paralisi.

— Dov’è l’altro? — volle sapere Lindsay. — Quello per la tua faccia?

I suoi denti battevano. — Non l’ho portato con me — rispose la donna.

Lindsay sbatté via il granchio con un calcio. — Da quanto tempo, Nora? Da quanto tempo sei sotto a quell’affare?

— Lo indosso ogni notte.

— Ogni notte? Mio Dio!

— Devo essere la migliore — disse Nora, tremando. Cercò a tastoni un poncho dalla rastrelliera e infilò la testa attraverso il foro.

— Ma il dolore… — insisté Lindsay. — Il modo in cui brucia!

Nora lisciò il tessuto brillante dalle spalle ai fianchi. — Tu sei uno di loro — disse. — Uno dei primi allievi. Gli insuccessi. I disertori.

— Qual era la tua classe? — le chiese Lindsay.

— La quinta: l’ultima.

— La mia è stata la prima — disse Lindsay. — La sezione straniera.

— Allora non sei neppure un plasmatore.

— Sono un concatenato.

— Voi dovreste essere tutti morti. — Si staccò dai ginocchi e dalle caviglie le giunzioni spezzate. — Dovrei ucciderti. Mi hai attaccato. Sei un traditore.

— Quando ho fracassato quell’affare ho provato una genuina sensazione di libertà. — Si sfregò il braccio con fare distratto, stupefatto. Aveva veramente perso il controllo. Il senso di ribellione l’aveva sopraffatto. Per un momento, una sincera rabbia umana aveva bruciato come una torcia attraverso il suo addestramento, toccando un nucleo rovente di autentico furore. Si sentiva scosso, ma più completo, più sinceramente se stesso, di quanto non lo era più stato da molti anni ormai.

— Quelli della tua specie hanno rovinato il resto di noi. Noi diplomatici dovremmo essere al vertice, a coordinare ogni cosa, a perorare la pace. Ma loro hanno bloccato l’intero programma. Siamo inaffidabili, hanno detto. Una cattiva ideologia.

— Ci vogliono morti — ribatté Lindsay. — È per questo che siete stati arruolati.

— Non sono stata arruolata. Sono volontaria. — Legò l’ultimo laccio del poncho all’altezza del fianco. — Mi verrebbe riservata un’accoglienza degna di un eroe, se ritornassi. È l’unica possibilità che mi si offra di conquistare potere negli Anelli.

— Ci sono altri luoghi di potere.

— Nessuno che conti.

— Dep Tre è morto — le disse Lindsay. — Perché lo avete ucciso?

— Tre ragioni — spiegò la donna. Ormai, ogni finzione era stata abbandonata. — Era facile. Aumenta le probabilità che abbiamo contro di voi. E, terzo, era pazzo. Ancora peggio del resto del vostro equipaggio. Troppo imprevedibile. E troppo pericoloso per lasciarlo vivere.

— Era innocuo — ribatté Lindsay. — Non come noi due. — I suoi occhi si riempirono di lacrime.

— Se tu avessi il mio controllo non piangeresti. Neppure se ti strappassero fuori il cuore.

— Lo hanno già fatto. E anche il tuo.

— Abelard — disse la donna. — Era un pirata.

— E gli altri?

— Pensi che piangerebbero per noi?

— No — disse Lindsay. — E neanche tanto per i loro. Quella che vorranno, sarà la vendetta. Cosa proveresti se Ian dovesse scomparire domani? E fra un paio di mesi ti capitasse di trovare le sue ossa nello scolo della feccia di qualche fermentatore? O, meglio ancora, se i tuoi nervi sono così saldi, cosa faresti se si trattasse di te? Che sapore avrebbe il potere se ti trovassi a vomitare schiuma insanguinata fuori di qualche camera di equilibrio?

— È nelle tue mani — lei replicò. — Ti ho detto la verità, come abbiamo concordato di fare tra noi. Sta a te controllare la tua fazione.

— Non intendo farmi mettere in questa posizione — ribatté Lindsay. — Mi era parso che ci fosse un patto fra noi.

Nora indicò il relitto sgocciolante del suo granchio spinale. — Non mi hai chiesto il permesso, per attaccarmi. Hai visto qualcosa che non potevi sopportare e l’hai distrutto. Noi abbiamo fatto la stessa cosa.

— Voglio parlare a Kleo — lui disse.

Lei parve offesa. — È contrario al nostro patto. Devi parlarle per mio tramite.

— Questo è un assassinio, Nora… Devo vederla.

Nora sospirò. — È nel suo giardino. Dovrai infilarti una tuta.

— La mia è a bordo della Consensus.

— Allora useremo una di quelle di Ian. Vieni. — Lo ricondusse dentro la caverna luminescente, poi lungo una vena mineraria fessa, fino alla stanza di Ian Mavrides.

Il fabbricante di tute e artista grafico era sveglio e al lavoro. Si era rifiutato di togliersi la tuta per la decontaminazione e l’indossava in continuazione, un ambiente sterile per un singolo individuo.

Ian era l’uomo di punta della famiglia Mavrides, un punto focale per le minacce e i risentimenti. Paolo l’aveva più o meno farfugliato, ma Lindsay lo sapeva già.

Le pareti arrotondate della cavità di Ian erano stampate con un ben rifinito lavoro a griglia. Per settimane le aveva decorate con un mosaico di elaborate forme geometriche a L intrecciate fra loro. Con lo scorrere del tempo le forme si erano fatte più piccole, più dense, affollate insieme con un ossessivo, strisciante rigore. La complessità della decorazione era claustrofobica, soffocante; i minuscoli quadrati parevano tremolare e contorcersi.

Quando entrarono, Ian si girò di scatto, portando la mano a una tasca rigonfia della manica. — Siamo noi — disse Nora.

Gli occhi di Ian erano spiritati. — Oh — rispose. — Andate a farvi bruciare.

— Risparmiatelo per gli altri — disse Lindsay. — Sarei più impressionato se ti prendessi un po’ di sonno, Ian.

— Sicuro — disse Ian. — Così potresti entrare qua dentro, tirarmi via la tuta. E contaminarmi.

Nora intervenne: — Ci serve una tuta, Ian. ’Stato va in giardino.

— Che vada al diavolo! Non lascerò che infetidisca una delle mie tute! Può cucirsene una da solo, come ha fatto il Dep Tre.

— Tu sei in gamba con le tute, Ian. — Lindsay si chiese se non fosse stato Ian ad assassinare il Dep Tre. Probabilmente si erano giocati ai dadi quel privilegio. Tirò fuori una tuta dalla rastrelliera. — Se ti toglierai la tuta, potrei non mettermi addosso questa. Cosa ne dici? Ti deruberò.

Ian premette un pallone d’ossigeno contro il boccaglio d’immissione della sua tuta. — Non mettere alla prova la tua fortuna, paralitico.

Kleo viveva nella serra più grande. Era ornamentale. Cresceva più lentamente dei giardini industriali traforati nella roccia, dove la vegetazione proliferava sotto i genera-luci in un’atmosfera di anidride carbonica pura. La stanza era oblunga, e le sue lunghe pareti avevano l’aspetto costolato di una conchiglia. Una vivida luce sgorgava da tubi fluorescenti lungo ciascun crinale.

Il terreno era composto da scarti e residui, trattenuti dall’umidità e da una sottile maglia di plastica. Come gli stessi Plasmatori, le piante erano state alterate per consentir loro di vivere senza batteri. Per la maggior parte si trattava di fiori: rose, margherite, ranuncoli grossi come pugni.

Il letto di Kleo era un intreccio di bambù fatti crescere curvi a bella posta. Kleo era sveglia, intenta a lavorare a un cerchietto per ricami. La sua pelle era più scura di quella degli altri, i genera-luci l’avevano abbronzata. Indossava una blusa bianca senza maniche stretta alla cintura, che ricadeva in multiple pieghe sottili. Le sue gambe e i suoi piedi erano nudi. Sopra il cuore c’era la sigla ricamata del suo rango.

— Ciao, cara — disse.

— Kleo? — Nora raggiunse fluttuando la struttura intrecciata e baciò Kleo lievemente, sulla guancia. — Dietro sua insistenza, io…

Kleo annuì una volta. — Spero che sarai breve — disse a Lindsay. — Il mio giardino non è per i non pianificati.

— Voglio discutere l’assassinio del Terzo Deputato.

Kleo ricacciò una ciocca dei capelli ricci sotto la retina che le tratteneva la treccia. Le proporzioni del suo polso, palmo e avambraccio dimostravano che era più vecchia degli altri, che era uscita da una linea di produzione anteriore. — Sciocchezze — replicò. — Un’insinuazione assurda.

— So che l’hai fatto uccidere, Kleo. Forse l’hai fatto tu stessa. Sii franca con me.

— La morte di quell’uomo è stata un incidente. Non esiste nessuna prova del contrario. Perciò non abbiamo nessuna colpa.

— Sto cercando di salvare le nostre vite, Kleo. Per favore, risparmiami la versione ufficiale. Se Nora ammette la verità, perché non puoi farlo tu?

— Quello che discuti col nostro negoziatore in sessione segreta non ci riguarda, signor Segretario. La Famiglia Mavrides non può riconoscere niente che non sia stato provato.

— È così, allora? — disse Lindsay. — I crimini non esistono al di fuori della vostra ideologia. Vi aspettate che anch’io mi aggreghi a questa finzione, che menta per voi, che vi protegga.

— Noi siamo la tua gente — replicò Kleo, fissandolo con i suoi occhi color nocciola chiaro.

— Ma avete ucciso il mio amico.

— Non è un’incriminazione valida, signor Segretario.

— È inutile — disse Lindsay. Si chinò, afferrò una rosa senza spine e la strappò via con tutte le radici. La scosse: globuli di terriccio umido volarono per la stanza, Kleo sussultò. — Guarda! — esclamò Lindsay. — Non capisci?

— Capisco che sei un barbaro — disse Kleo. — Hai distrutto una cosa bella per far valere un punto in una argomentazione che non posso accettare.

— Cedi un poco — l’implorò Lindsay. — Abbi misericordia.

— Non è questa la nostra missione — gli disse Kleo.

Lindsay si voltò e se ne andò, togliendosi l’appiccicosa tuta spaziale appena oltre la camera di equilibrio.

— Te l’avevo detto di non provarci — disse Nora.

— Ha voglia di suicidarsi — replicò Lindsay. — Perché? Perché la segui?

— Perché ci ama.


ESAIRS XII
23-2-’17

— Lascia che ti parli del sesso — disse Nora. — Dammi la mano.

Lindsay le porse la sinistra. Nora gli strinse il polso, lo tirò in avanti, e infilò il pollice in profondità nella propria bocca.

— Dimmi quello che hai provato.

— Era caldo — rispose Lindsay. — Umido. E così intimo da farmi sentire a disagio.

— È così che si vive il sesso sotto l’effetto dei soppressivi — lei disse. — Noi della Famiglia abbiamo l’amore, ma non l’erotismo. Siamo soldati.

— Allora siete chimicamente castrati.

— Tu hai dei pregiudizi — lei ribatté. — Non l’hai vissuto. È per questo che l’orgia che ci proponi è fuori questione.

— Il Carnevale non è un’orgia — replicò Lindsay. — È una cerimonia. È fiducia, è comunione. Tiene insieme il gruppo, come gli animali che si addossano gli uni agli altri per riscaldarsi.

— È chiedere troppo — lei disse.

— Non vi rendete conto di ciò che è ora in gioco? Non è il vostro corpo che vogliono. Vogliono uccidervi. Odiano le vostre budella sterili. Non sai quanto ho parlato, quanto li ho blanditi per convincerli… Ascolta, loro usano allucinogeni. Durante il Carnevale, il tuo cervello diventa un budino. Non sai cosa sono le tue mani, ancora meno i genitali di qualcun altro… Sei impotente. Tutti sono impotenti, questo è il punto. Niente più giochi, niente più politica, o rango, o rancori. Niente io. Quando esci dal Carnevale, è come il primo giorno della Creazione: tutti sorridono. — Lindsay guardò altrove. — È una cosa autentica, Nora. Non è il loro governo a sostenerli, è solo il cervello. Il Carnevale è il sangue, la colonna vertebrale, l’inguine.

— Non è il nostro mondo, Abelard.

— Ma se poteste unirvi a noi, anche soltanto una volta, per poche ore! Dissolveremmo queste tensioni, ci fideremmo veramente gli uni degli altri. Ascolta, Nora, il sesso non è una specie di manufatto. È vero, è umano, è una delle ultime cose che ci rimangono. Oh, che possiate bruciare tutti! Cosa avete da perdere?

— Potrebbe essere un’imboscata — insistette lei. — Potreste deformare la nostra mente con le droghe e ucciderci. È un rischio.

— Certo che lo è. Ma c’è il modo per aggirarlo. — Incrociò lo sguardo con il suo. — Te lo dico sulla base di tutta la fiducia che c’è fra noi. Per lo meno possiamo provare.

— Non mi piace — disse Nora. — Non mi piace il sesso. Specialmente con quelli che non sono stati pianificati.

— Questo, oppure rinvigorire la vostra linea genetica — disse Lindsay. Tirò fuori un’ipodermica piena da dietro il risvolto della giacca e vi applicò l’ago. — Io ho il mio già pronto.

Nora guardò in tralice la siringa, poi tirò fuori la propria. — Potrebbe non avere un effetto troppo piacevole su di te, Abelard.

— Che cos’è?

— Un soppressivo. Con della fenilxantina per esaltare il tuo QI. Così capirai quello che proviamo.

— Questa non è la completa mistura del Carnevale. Soltanto l’afrodisiaco, a metà potenza, e un rilassante muscolare. Penso che tu ne abbia bisogno, da quando ho fracassato il granchio spinale. Mi sembri nervosa.

— Sai anche troppo bene quello che mi serve.

— Così siamo in due. — Lindsay tirò su la manica floscia della propria giubba. — Ecco, Nora: adesso potresti uccidermi e chiamarla reazione allergica, stress, qualsiasi cosa. — Fissò gli sgargianti tatuaggi sulla pelle del suo braccio. — Non farlo.

Lei condivideva i suoi sospetti. — Stai registrando?

— Non permetto che ci siano nastri nella mia stanza. — Tirò fuori un paio di lacci emostatici da un armadietto in styrene e ne passò uno a Nora.

Strinse il laccio intorno al proprio bicipite, e lei fece lo stesso. Con le maniche arrotolate all’insù, aspettarono con calma che le loro vene si gonfiassero. Era il momento più intimo che avessero mai avuto insieme. Questo pensiero lo eccitò.

Lei gli fece scivolare la propria ipodermica nel cavo del gomito, e trovò la vena grazie all’improvvisa rosetta di sangue alla radice dell’ago. Lui fece la stessa cosa. Si guardarono negli occhi e premettero gli stantuffi.

Il momento passò. Lindsay ritirò l’ago e premette un tamponcino di plastica sterile contro la puntura di lei. Poi lo fece sulla propria. Allentarono i lacci.

— Pare che nessuno di noi due stia morendo.

— È un buon segno — annuì Lindsay. Buttò da parte i lacci. — Finora tutto bene.

— Oh. — Lei socchiuse gli occhi. — Mi sta facendo effetto. Oh, Abelard.

— Come ti senti? — Le prese la spalla fra le mani. Il legamento tra l’osso e il muscolo parve ammorbidirsi a quel contatto. Lei stava respirando affannosamente, le labbra dischiuse, gli occhi incupiti.

— Mi pare di fondermi — disse.

La fenilxantina colpì lui per primo. Si sentiva come un re. — Non mi faresti mai dal male — dichiarò. — Siamo due dello stesso genere, tu ed io.

Disfece i lacci e le sfilò la camicetta, poi le fece sgusciar via i calzoni dalla parte dei piedi. Le lasciò i sandali. I suoi indumenti sbatterono in aria quando li buttò via. Rotearono lentamente, a mezz’aria.

L’attirò a sé con occhi avvampanti.

— Aiutami a respirare — lei bisbigliò. Il rilassante le era arrivato ai polmoni. Lindsay le prese il mento fra le mani, le aprì la bocca, e chiuse le proprie labbra intorno ad essa. Soffiò con delicatezza e sentì le costole di lei che si espandevano contro il suo petto. La testa di Nora ciondolò all’indietro; i muscoli del suo collo erano come cera. Agganciò le proprie gambe intorno a quelle di lei, dall’interno, e respirò per lei.

Nora lasciò che le proprie braccia andassero pigramente alla deriva intorno al suo collo. Tirò indietro la bocca di una frazione di centimetro. — Prova adesso.

Tentò di penetrarla. Malgrado la propria eccitazione, fu inutile; gli afrodisiaci non avevano ancora fatto effetto su di lei. — Non farmi male — disse.

— Ti voglio — disse Lindsay. — Appartieni a me, non a quegli altri.

— Non dire questo — replicò lei. — Questo è un esperimento.

— Per loro, forse. Non per noi. — La fenilxantina l’aveva reso certo, e spericolato nella sua certezza. — Il resto non ha importanza. Ucciderò chiunque di loro, basterà che tu mi dica di farlo. Ti amo, Nora. Dimmi che mi ami.

— Non posso dirlo. — Nora sussultò. — Mi stai facendo male.

— Allora di’ che ti fidi di me.

— Mi fido di te. Ecco, è fatto. Rimani fermo un momento. È questo, dunque, il sesso?

— Non l’hai mai avuto prima?

— All’accademia una volta, per una scommessa. Non era così.

— Ti senti bene?

— Sono comoda. Procedi pure, Abelard.

Ma adesso la sua curiosità si era destata. — Ti hanno fatto anche l’analisi del piacere? Io l’ho avuta una volta. Un esercizio d’interrogatorio.

— Certo che l’hanno fatto. Ma non era niente di umano, solo pura estasi. — Stava sudando. — Su, tesoro, dài.

— No, aspetta un momento. — Ammiccò più volte, mentre lo stringeva alla vita. — Capisco cosa vuoi dire. Questo è stupido, vero? Siamo già amici.

— Ti voglio, Abelard!

— Abbiamo dimostrato quello che volevamo. Inoltre, io sono sudicio.

— Non me ne frega niente di quanto tu sia sporco! Per l’amor di Dio, spicciati!

Allora cercò di favorirla e proseguì con movimenti meccanici per circa un minuto. Lei si morse il labbro e gemette per l’anticipazione del culmine, gettando la testa all’indietro. Ma ormai, per lui tutto il significato se n’era sgusciato fuori.

— Non posso continuare — disse. — Non vedo proprio perché dovremmo darci tanto da fare.

Cercò di pensare a qualcosa di eccitante. Il solito umido turbinio d’immagini erotiche della sua mente gli pareva astratto e remoto, come qualcosa fatto da un’altra specie. Pensò alla sua ex moglie. Il sesso con Alexandrina era stato qualcosa del genere, un atto di cortesia, un obbligo.

Lindsay rimase immobile, lasciando che lei sbattesse contro di lui. Finalmente, un grido di disperato piacere le sfuggì dalle labbra.

Lui si scostò, asciugando il sudore sul collo e sul viso di Nora con la manica della camicetta. Lei gli sorrise timidamente,

Lindsay scrollò le spalle. — Capisco il tuo punto di vista. È uno spreco di tempo. Potrei avere dei problemi a convincere gli altri, ma se riuscirò a ragionare con loro…

Lei lo fissò famelica. — Ho commesso un errore. Non avrebbe dovuto essere così orribile per noi. Adesso mi sento egoista, dal momento che non hai avuto niente.

— Mi sento benissimo — insisté Lindsay.

— Hai detto che mi amavi.

— Quando l’ho detto erano soltanto gli ormoni a parlare. Naturalmente ho un profondo rispetto per te, un sentimento di cameratismo… Mi spiace di avertelo detto. Perdonami. Non lo intendevo, naturalmente.

— Naturalmente — lei gli fece eco, infilandosi la camicetta.

— Non essere amareggiata — disse ancora Lindsay. — Io sono contento che sia accaduto. Adesso lo vedo in un modo in cui non l’avevo mai visto prima. L’amore… non ha sostanza. Potrebbe essere giusto per altra gente, altri posti, un altro tempo.

— Non per noi.

— No. Adesso mi fa sentire a disagio, l’aver ridotto i nostri negoziati ad uno stereotipo sessuale. Devi averlo trovato insultante. E scomodo.

— Mi sento male — lei disse.


ESAIRS XII
24-2-’17

— Adesso stai bene, eh? — disse il Presidente, arricciando il suo naso da pugile. — Non più quelle fesserie sul fatto che noi avremmo essiccato la nostra virilità.

— No, signore, no. — Lindsay scosse il capo, rabbrividendo. — Adesso sto meglio.

— Basta così. Slegalo, Secondo Deputato.

La donna disfece le corde di Lindsay, staccandolo dalla parete della caverna.

— Ora ne sono uscito — disse Lindsay. — Adesso lo capisco, ma quando quei sopprimenti mi hanno colpito, ogni cosa è diventata limpida come il cristallo. Senza giunture.

— Va bene per te, ma noi qui abbiamo dei matrimoni — dichiarò il Primo Senatore in tono severo. Strinse la mano del Primo Deputato.

— Mi spiace — dichiarò Lindsay, sfregandosi il braccio. — Sono tutti sotto l’effetto di quella roba… qui. Salvo Nora, adesso. Non mi ero mai reso conto di quanto arrivasse in profondità. Questa gente è inflessibile, non hanno quella confusione e quella torbidezza che si accompagnano al sesso. Si adattano gli uni agli altri con la stessa precisione delle ruote dentate. Dovremo sedurli. — Li guardò: il Terzo Senatore con la testa a forma di zucca e i capelli tagliati a spazzola. Il Terzo Magistrato che si curava con calma i denti con l’unghia del pollice scheggiata. — Non sarà facile.

— Rilassati, Segretario di Stato. — Il Presidente lisciò uno dei nastri di plastica rossa della sua manica aperta. — Hai pasticciato già da troppo tempo… e quei fottuti hanno fatto fuori il Dep Tre.

— Non c’è nessuna prova.

— Tu sai che l’hanno ucciso loro. E lo sappiamo anche noi. Tu li hai coperti, ’Stato, e forse questo era giusto, ma significa che tu ci sei dentro fin troppo. Non spetta a noi uccidere tutta questa gente. Se avessimo voluto ucciderli, avremmo tirato fuori dalla Consensus il nostro cannone piazzandolo dentro questa roccia.

— Ma questo è stato il nostro trionfo, il trionfo di tutti. Abbiamo messo a tacere i cannoni dell’Armageddon, no? Dopo questo, qualunque cosa è possibile.

— Dobbiamo eliminare la minaccia, è la nostra missione. È per questo che ci pagheranno i Mech. Abbiamo esplorato, durante tutto il tempo che parlavi. Abbiamo tracciato una mappa delle gallerie. Conosciamo i macchinari quel tanto che basta per distruggerli. Vandalizzeremo questo posto. E poi, via verso i cartelli e la bella vita.

— Li lascerete qui in mezzo alle rovine?

Il Presidente della Camera sogghignò a denti stretti. — Possono avere il nostro cannone. Non ne avremo bisogno dove stiamo andando. — Il Secondo Magistrato toccò il sandalo di Lindsay. — È facile, Segretario di Stato. Saremo nel cartello di Themis ancora prima che tu te ne accorga, a spassarcela in qualche città per i cani solari. Lasceremo stupefatti i Mech con questa operazione. — Tirò la spalla del suo vestito di plastica con una mano coperta da un reticolato di vene. Due dei senatori ridacchiarono.

— Quando? — chiese Lindsay.

— Lo saprai. Nel frattempo basterà che tu tenga giù il coperchio.

— E se uno volesse disertare e venire con noi? — chiese Lindsay.

— Portatela dietro — rispose il Presidente.


ESAIRS XII
1-3-’17

Lindsay si spinse in mezzo al buio, trascinando dietro di sé la cassa da imballaggio. Mentre procedeva, batté contro la roccia. — Paolo! Fazil!

Un tappo di pietra si scostò raschiando, e Paolo comparve nell’arcano bagliore di una candela. Si tirò fuori spingendo con i gomiti, e si sporse verso Lindsay. — Sì. Cosa possiamo fare per te?

— Parliamo dei termini, Paolo.

— È di nuovo la storia di quell’orgia?

— Stiamo per fare un lancio — disse Lindsay. — Indicò con un rapido gesto del pollice la cassa dietro di sé. — Potremmo fare due lanci, se arriviamo a un accordo. — Lindsay sorrise. — Favore per favore, d’accordo? Io vi farò avere il vostro lancio. In cambio voi mi appoggerete nella proposta del Carnevale.

Il volto di Paolo si arricciò in una smorfia. Sfregò delicatamente le pieghe trasudanti sotto il suo mento. — Mercanteggiare il nostro corpo con la nostra arte. Dimenticatene, ’Stato. Gli altri non ci starebbero mai. Riesci a immaginare Kleo… — La voce gli venne meno. — … fra le braccia del capitano di quel rimorchiatore?

— Non ho detto che debba accadere per davvero — replicò Lindsay. — Voglio soltanto che voi acconsentiate ad appoggiarmi. Volete che la testa venga lanciata, oppure no?

Paolo lanciò un’occhiata dietro di sé nella galleria. — Io dico di sì — gli giunse la voce di Fazil.

— Allora voglio che uno di voi vada nella camera del lancio e dia una mano a predisporre i parametri — proseguì Lindsay. — E che l’altro venga con me e mi aiuti a caricare l’anello di lancio. E non una sola parola con nessuno sul nostro accordo, capito?

— Tu facci fare il nostro lancio, e noi ti faremo apparire a posto con gli altri. Come se tu ci avessi convinti unicamente grazie al tuo carisma, d’accordo?

— Queste sono le mie condizioni — disse Lindsay. — Voi rispettate i miei segreti, ed io rispetterò i vostri. Adesso, chi di voi due andrà a predisporre il lancio?

— Lo farò io — disse Paolo. Si contorse per passare davanti a Lindsay nell’angusta galleria, e scomparve al buio, diretto alla cabina di comando del lancio.

Fazil sbirciò fuori. — Cosa c’è nella cassa? — chiese.

— Le prove — disse Lindsay. — Souvenirs di passate scorrerie e cose del genere. Cose che potrebbero imbarazzarci ora che ci siamo insediati qui una volta per tutte. — Era metà della verità, come la concepiva Lindsay. L’imbarazzo non si sarebbe manifestato su ESAIRS XII ma al cartello Mech, quando i pirati avrebbero dovuto comportarsi nella miglior maniera possibile. Cartelli importanti come Themis erano molto pignoli: perfino nelle loro città destinate ai cani solari, l’aperta pirateria veniva condannata.

I pirati avevano riempito la cassa a sua insaputa e gli avevano detto di lanciarla. Da quel gesto, lui aveva saputo che il loro colpo era concluso.

Fazil avanzò nella galleria con la sua candela. — Posso dare un’occhiata? — Allungò una mano verso la cassa, facendo passare il braccio davanti a Lindsay. Uno scarafaggio nero come la pece spuntò con la testa dalle assicelle di plastica, facendo osciUare le antenne sottili come fruste e lunghe quanto un avambraccio. Fazil tirò indietro la mano con un fischio di disgusto. Lindsay cercò di agguantare lo scarafaggio, ma lo mancò.

— Sudicio — borbottò Fazil. — Aiutami con la testa.

Lindsay lo seguì nel laboratorio. Insieme sollevarono l’enorme testa e con non poche contorsioni la portarono fuori nel corridoio. Nell’angusta galleria, quasi aderiva alle pareti. — Forse dovremmo ungerla — suggerì Lindsay.

— Il volto di Paolo non partirà per l’eternità con il moccio al naso — dichiarò Fazil. Spense la candela con un soffio e tornò a chiudere il laboratorio. Spinse la scultura davanti a sé, in direzione dell’anello di lancio. Lindsay lo seguì, con la cassa a rimorchio.

Il percorso era tortuoso, attraversava vene di roccia completamente esaurite, nelle quali l’aria ristagnava. Il molo di carico dell’anello era vicino alla superficie dell’asteroide, situato nella parete di uno dei maggiori centri industriali di ESAIRS XII. Qui, vicino all’anello di lancio, venivano fabbricate le esche. Il complesso delle esche sembrava un grappolo d’uva, costituito di sacchi per la fermentazione, collegati da tubi idraulici flosci, ancorati con cavi e circondati da banchi di genera-luce che irradiavano una luminosità di un aspro colore bluastro. Il grappolo era appeso a mezz’aria, nelle sue camere translucide la sostanza veniva sbattuta con grande lentezza.

Il complesso non era stato chiuso del tutto: ciò avrebbe ucciso il “ware” organico. Ma la sua produzione era stata ridotta quasi a niente. I tubi di uscita erano stati staccati dai loro sbocchi nel condotto dell’anello di lancio. Invece della sottile pellicola delle esche, producevano una spessa schiuma incolore. L’aria era satura del pungente puzzo febbricitante della plastica rovente.

Il robot della Famiglia era in servizio. Si fermò a metà del programma quando Fazil gli fluttuò davanti, stringendo la grande testa. Quando passò Lindsay, il robot si rannicchiò in silenzio: stringeva un soffiapolvere nei suoi manipolatori anteriori. Il suo unico gigantesco occhio s’inclinò per seguire i suoi movimenti, con uno sferragliare di ruote dentate.

Il robot era un insieme di cavi e di snodi, i suoi sei arti scheletrici erano fatti di leggera schiuma metallica. Era più grande di Lindsay. Il cervello e il motore si trovavano nel suo tronco, debitamente schermati, dietro a costole simili a sbarre. L’estremità anteriore conteneva i sensori e due lunghe braccia snodate a forma di tenaglia. Quattro arti rotanti disposti in croce sporgevano dalla sua estremità di poppa, sistemati in quel modo per lavorare in caduta libera. Disponeva di una coda a mandrino per la perforazione.

Al robot mancava la scioltezza di una unità mech, ma mostrava un’allarmante vitalità. Era come uno scheletro animato, un animale vivisezionato, ridotto al riflesso nervoso d’un ginocchio sussultante.

Quando Lindsay uscì dal raggio d’azione del robot, questi si rimise in movimento con un clic, si allontanò dalla parete con un calcio, e impiantò il suo soffiapolvere nel condotto umido di un sacco di fermentazione.

Fazil strisciò sopra la testa e l’afferrò a ridosso della parete.

L’anello di lancio aveva una camera d’equilibrio di plastica translucida. Fazil staccò dalla parete una tuta spaziale verde imballata strettamente e scuotendola la fece uscire dall’involucro. Se l’infilò, chiudendo la chiusura lampo, e aprì la cerniera sulla parete della camera di equilibrio. Entrò.

Lindsay gli passò la cassa.

Fazil richiuse la cerniera della camera di equilibrio, e aprì la camera di carico. Una sezione rettangolare della parete ricurva scivolò verso l’alto, azionata da perni esterni caricati a molla. L’aria, con la forza di una raffica, si proiettò fuori nel vuoto dell’anello di lancio.

Le sottili pareti della camera di equilibrio vennero risucchiate verso l’interno, appiccicandosi come la pellicola d’una bolla di sapone a un traliccio interno di sostegno.

Cinque giganteschi scarafaggi e una folla di altri più piccoli schizzarono fuori dall’interno della cassa, zampettando disperatamente nel vuoto. Fazil strillò dietro la visiera trasparente. Agitò da ogni lato la testa mentre gli scarafaggi davano in convulsioni, sbattendo freneticamente le ali sottili come la carta. La decompressione fece gonfiare il loro addome. Una schiuma cominciò a trasudare dalle giunture e dal dorso. Uno scarafaggio si aggrappò, vomitando, alla plastica accanto al viso di Lindsay. Aveva mangiato qualcosa all’interno della cassa: qualcosa di rosso e vischioso.

Esili fili di vapore uscivano dalla cassa. Fazil non se ne accorse: stava sbattendo gli scarafaggi fuori, nell’anello di lancio.

A sua volta, Fazil attraversò il portello ed entrò nell’anello, tirando la cassa dietro di sé. Con un certo sforzo riuscì a piazzarla dentro la gabbia di lancio.

Ne emerse. Poi sbatté fuori dal portello della camera l’ultimo degli insetti morti, e lo chiuse. Una luce verde, che segnalava via libera, si accese, quando il portello chiuse automaticamente il circuito. Un LED esibì a grande velocità una sfilza di numeri quando l’energia per il lancio investì i magneti.

Fazil aprì la cerniera dell’ingresso, e l’aria si precipitò dentro. La camera di equilibrio di plastica sbatté come una vela. Fazil si arrampicò fuori tremando. Le sue grida erano attutite dalla tuta.

— Hai visto? — Aprì la propria chiusura lampo fino a metà torace. — Cosa c’era là dentro? Cos’è che stavano mangiando?

— Non li ho visti quando hanno imballato la cassa. Poteva essere qualunque cosa.

Fazil esaminò la manica macchiata della sua tuta. — Sembra sangue.

Lindsay si fece più vicino. — Non ha l’odore del sangue.

— Questa è una prova — dichiarò Fazil, battendo la mano sulla propria tuta.

Lindsay era pensieroso. I pirati gli avevano mentito. Avevano tentato di essere scaltri. Scaltri come i Plasmatori. Avevano tentato di far sparire qualcuno. — Sarebbe meglio, Fazil, se lanciassimo quella tuta.

— Hai visto Ian, oggi? — chiese Fazil.

— Non l’ho cercato.

Si guardarono. Lindsay non disse niente. Da sopra la spalla Fazil lanciò un’occhiata rapida e guardinga verso il LED. — È stata lanciata — annunciò.

— Se lancerai la tuta — disse Lindsay — io pulirò l’interno della camera di equilibrio.

— Non ho intenzione di lanciare questa tuta con la testa — dichiarò Fazil.

— Potresti metterla dentro una camera — disse Lindsay, indicandogliela. — Le vasche di fermentazione. — Pensò in fretta. — Se lo farai, ti aiuterò a far funzionare questo complesso alla massima capacità. Potrete produrre di nuovo le esche.

Lindsay staccò un’altra tuta dalla parete e ne scosse l’involucro per farla uscire. — Lanceremo la testa. Butteremo via la tuta. Prima faremo queste due cose, e poi parleremo. Va bene?

Il momento per attaccare era quando Lindsay aveva entrambe le gambe mezzo intrappolate nella tuta. Ma quel momento passò, e ancora una volta Lindsay seppe di aver guadagnato tempo. Lui e Fazil spinsero con le mani la testa dentro la camera di equilibrio. Fazil chiuse la cerniera della camera di equilibrio dietro di loro. Lindsay aprì il portello rettangolare.

La luce si riversò dentro l’interno vetroso dell’anello di lancio, riflettendosi sulle tracce di rame incassate lungo l’anello. Le sbarre d’acciaio della gabbia di lancio luccicavano di un sottile strato di vapore condensato, emanato dal corpo che si era trovato dentro la cassa.

Lindsay entrò nell’anello di lancio, spinse la testa dentro la gabbia e chiuse i ganci.

L’ombra di Fazil passò davanti alla luce. Aveva dato una spinta al portello per chiuderlo. Lindsay si girò di scatto e balzò in quella direzione.

Riuscì a far passare il braccio destro. Il portello rimbalzò sulla carne e sull’osso e la sua tuta cominciò subito a riempirsi di sangue.

Lindsay digrignò i denti quando incastrò la testa e le spalle oltre il portello. Ghermì la gamba di Fazil con la mano sinistra. Le punte delle sue dita affondarono nella cavità della caviglia del plasmatore, sbattendo lo stinco contro il bordo tagliente del portello. Vi fu un raschiare di ossa e Fazil, strappato all’indietro, perse la presa.

Lindsay scivolò dentro la camera di equilibrio, ancora stringendo la caviglia dell’altro. E conficcò il piede nell’inguine di Fazil. Mentre Fazil veniva colto dalle convulsioni, Lindsay gli afferrava la gamba e la piegava in due, incastrandogli un braccio dietro al ginocchio. Si sorresse appoggiandosi al corpo del plasmatore e diede uno strattone verso l’alto, torcendo fuori dal suo alveo il femore.

In preda all’agonia, Fazil si dibatté per trovare un appiglio. La sua mano colpì l’orlo del portello, chiudendolo del tutto. Il circuito dell’anello scattò, e la luce di via libera si accese.

Lindsay continuò a stringere la gamba e a torcerla. Due globi del suo stesso sangue gli galleggiarono davanti, all’interno della visiera. Sternuti, accecato, e Fazil gli tirò un calcio sul collo. Perse la presa e il plasmatore lo attaccò.

Buttò le braccia intorno al petto di Lindsay con la forza indotta dal panico e dalla disperazione. Lindsay ansimò, e una nera incoscienza gravò su di lui per quattro lunghi battiti cardiaci. Poi scalciò e il suo piede colse l’orlo del traliccio di sostegno della camera di equilibrio. Rotearono, aggrappati l’uno all’altro, Lindsay sbatté con forza il gomito sul lato della testa del plasmatore. La stretta si allentò, Lindsay ruotò il braccio libero sopra la testa di Fazil e gli afferrò il collo in una morsa a martello. Fazil strinse di nuovo le costole di Lindsay, che si piegarono sotto la forza delle sue braccia plasmorinforzate.

Lindsay incrociò lo sguardo di Fazil attraverso la visiera schizzata di sangue. Il suo volto s’increspò orridamente, e gli occhi di Fazil divennero vitrei per il terrore, mentre cercava di liberarsi a unghiate. Lindsay gli spezzò il collo.

A Lindsay parve di soffocare. La sua tuta non aveva un serbatoio dell’aria: era concepita soltanto per brevi permanenze. Doveva uscire fuori, all’aria.

Si girò in direzione dell’uscita dalla camera di equilibrio. Kleo era là. I suoi occhi erano scuri, affascinati e terrorizzati insieme. Stringeva la linguetta della chiusura lampo esterna.

Lindsay la fissò, ammiccando più volte quando una microgoccia di sangue gli si appiccicò alle sopracciglia. Kleo tirò fuori la sua arma favorita: un ago e il filo.

Lindsay si allontanò con un calcio dal corpo di Fazil. Cercò di afferrare la linguetta della chiusura lampo. Ma, con poche, agili mosse, Kleo la cucì.

Lindsay la tirò freneticamente. Il sottile filo aveva la consistenza dell’acciaio. Scrollò la testa. — No! — Il vuoto lo circondava. Era tagliato fuori. Le parole, che l’avevano sempre salvato, non potevano valicare quello spazio.

Lei si fermò lì, per vederlo morire. Sopra di lui, il LED continuava a palpitare. Le luci si stavano oscurando. Un lancio fuori dall’eclittica richiedeva la massima potenza.

Lindsay tirò con la sinistra il portello. Avvertì una debole vibrazione percorrergli le dita. Prese a calci il portello, selvaggiamente, per due, tre volte, e qualcosa cedette. Tirò con tutta la sua forza. Il portello si aprì, ma soltanto per l’ampiezza di un dito.

Le valvole di sicurezza saltarono. E tutte le luci si spensero. Poi il portello si aprì facilmente. L’oscurità era totale. Lindsay non sapeva quanto avrebbe impiegato la gabbia per il lancio, che stava girando in tondo, a fermarsi con una brusca frenata all’interno dell’anello. Se stava ancora vorticando a molti klick al secondo, gli avrebbe reciso il braccio o la gamba con la precisione di un laser.

Non poteva aspettare a lungo. L’aria all’interno della tuta era terribilmente densa del suo alito e del puzzo di sangue.

Si decise e spinse la testa fuori, nell’anello.

Sopravvisse.

Adesso doveva affrontare un altro problema. La gabbia era ferma in qualche punto all’interno dell’anello, bloccandolo. Se l’avesse raggiunta mentre cercava di arrivare all’esterno, avrebbe dovuto tornare indietro, sprecando aria. Sinistra o destra?

Sinistra. Senza respirare profondamente, cercando di favorire il braccio ferito, cominciò a procedere a balzi all’interno dell’anello. Serrò le braccia intorno al petto, usando solo le gambe, rimbalzando, slittando, facendo le capriole.

Trecento metri. Quella era la metà della lunghezza dell’anello. Tutto quello che avrebbe dovuto percorrere. Ma se avesse trovato l’uscita dell’anello di lancio bloccata dalla plastica mimetizzante? E se avesse già oltrepassato l’uscita nel buio senza accorgersi di niente?

La luce delle stelle. Lindsay balzò freneticamente verso l’alto, ricordandosi solo all’ultimo momento di afferrarsi all’orlo. La gravità di ESAIRS XII era così debole che il suo balzo l’avrebbe posto in orbita circumsolare.

Ancora una volta era fuori dall’asteroide, fra strisce d’un nero carbonizzato e le scorie biancastre delle esplosioni.

Balzò attraverso un cratere, mancando quasi il bordo opposto.

Quando avanzò, afferrandosi a un tratto di pietra pomice, la roccia si sbriciolò sotto le sue dita, e lui fu trascinato in una lenta orbita appena sopra la superficie.

Stava già rantolando quando trovò la seconda camera di equilibrio. Una pellicola di plastica incassata nella superficie di ESAIRS XII dove la Famiglia aveva per la prima volta trivellato la superficie. Scostò la pellicola e azionò i comandi del portello. Il braccio destro continuava a sanguinargli. Se lo sentiva rotto un’altra volta.

Il portello si aprì con uno schiocco. Lindsay scivolò dentro la camera di equilibrio e chiuse il portello esterno dietro di sé. Poi, ce n’era un secondo. Lindsay continuava ad ansimare: ogni respiro gli offriva meno aria respirabile, e sentiva in bocca il sapore del sangue.

Il secondo portello si aprì. Lindsay si tirò dentro, e vi fu un improvviso, rapido movimento nel buio. Lindsay sentì la sua tuta lacerarsi. Il gelido acciaio gli scalfì la gola, le sue gambe vennero afferrate, e urlò quando delle mani nel buio gli ghermirono il braccio, torcendoglielo.

— Parla!

— Signor Presidente! — subito rantolò Lindsay. — Signor Presidente!

Il coltello premuto contro la sua gola fu tirato indietro. Sentì l’assordante raschiare d’una sega e volarono scintille. In quell’improvvisa, vivida luce, Lindsay vide il Presidente, il Presidente della Camera, il Supremo Magistrato e il Terzo Senatore.

Le scintille si spensero. Il Presidente della Camera aveva usato la lama della sua piccola sega portatile contro un pezzo di tubo.

Il Presidente strappò via la testa della tuta di Lindsay.

— Il braccio, il braccio — guaì Lindsay.

Il Supremo Magistrato lo lasciò andare; il Terzo Senatore gli lasciò libere le gambe. Lindsay respirò profondamente, riempiendosi i polmoni d’aria.

— Fottuto attacco preventivo — disse il Presidente. — Li odio.

— Hanno cercato di uccidermi — disse Lindsay. — L’equipaggiamento… l’avete distrutto? Adesso possiamo andarcene.

— Qualcosa li ha messi in guardia — ringhiò il Presidente. — Eravamo al centro lanci con Paolo. Per imparare come fracassare i comandi del lancio. Poi sono arrivate Agnes e Nora. In quel momento avrebbero dovuto dormire… e tutt’a un tratto, nero come il carbone.

— È mancata la corrente — spiegò il Presidente della Camera.

— Io grido all’imboscata — proseguì il Presidente. — Soltanto che è tutto nero intorno. Il vantaggio ce l’hanno loro. Sono meno di noi, meno possibilità di colpire i propri compagni. Così mi dedico ai macchinari: infilo il coltello nei circuiti. Sentiamo ululare il Secondo Senatore, la carne si squarcia.

— Qualcosa di umido mi ha toccato la faccia — disse il Supremo Magistrato. La sua voce antica era greve d’una soddisfazione da giorno del giudizio. — L’aria era piena di sangue.

— Erano armati — riprese il Presidente. — Durante lo scontro ho preso questo. Toccalo, ’Stato.

Nel buio il Presidente premette qualcosa dentro la mano destra di Lindsay. Era delle dimensioni del suo palmo: un disco appiattito di pietra compatta, avvolto in un filo intrecciato. In certi punti era appiccicoso.

— Credo che li avessero fissati alle costole con nastro adesivo. Armi da far roteare. Bolas. Buone per strangolare. Questi fili sono abbastanza sottili da tagliare. Uno mi ha aperto il pollice fino all’osso quando l’ho agguantato.

— Dove sono gli altri del nostro gruppo? — domandò Lindsay.

— Avevamo un piano d’emergenza. I due deputati stavano pulendo, dopo Ian. Adesso sono a bordo della Consensus, stanno preparando il decollo.

— Perché avete ucciso Ian?

— Ucciso? — fece il Presidente della Camera. — Non c’è nessuna prova. È evaporato.

— La DMF non accetta una ferita senza restituirla — dichiarò il Presidente. — Pensavamo che ce ne saremmo andati entro la mattina, e abbiamo pensato, ah, lasciamogli credere che abbia disertato con noi! Carino, vero? — Sbuffò. — Il Senatore è con noi, ma due si sono smarriti. Comunque, si faranno vedere quassù, perché questo è il luogo dell’appuntamento. Il Secondo e il Terzo Magistrato stanno provvedendo al saccheggio, portando fuori un po’ di quel “ware” organico che scotta… quell’asso nella manica dei Plasmatori. Buon bottino per noi. Avevamo pensato di prendere il controllo dell’uscita. Se fosse necessario, potremmo saltare fino alla Consensus nudi. Potremmo farcela con soltanto un po’ di sangue dal naso e mal di pancia: vuoto spinto per trenta secondi.

L’eco di un picchiettio in fondo al corridoio si era impercettibilmente avvicinato come sottofondo delle loro voci. Continuò con una debole, ritmica precisione, il morbido ticchettio della plastica contro la pietra.

— Oh, dannazione! — esclamò il Presidente.

— Vado io — si fece avanti il Supremo Magistrato.

— Non è niente — intervenne il Terzo Senatore. — Un ventilatore che si sta assestando.

Lindsay sentì lo sferragliare della cintura degli arnesi del Terzo Senatore.

— Sono partito — annunciò il Supremo Magistrato. Lindsay avvertì un leggero spostamento d’aria quando il vecchio mechanist gli passò accanto fluttuando.

Quindici secondi nel buio… — Ci serve luce — sibilò il Presidente della Camera. — Userò la sega e…

Il picchiettio cessò. Il Supremo Magistrato gridò: — Ce l’ho! È un pezzo di…

Il rumore improvviso e sgradevole di qualcosa che veniva schiacciato lo interruppe.

— Magistrato! — gridò il Presidente. Si lanciarono di corsa lungo il corridoio, urtando contro le pareti ed entrando in collisione fra loro, alla cieca.

Quando raggiunsero il punto, il Presidente della Camera tirò fuori la sega, e scoccarono scintille. L’oggetto che aveva prodotto quel rumore era un semplice lembo di plastica rigida incollato all’imboccatura della biforcazione d’una galleria e tirato da un lungo filo. L’assassino, Paolo, aveva aspettato nella galleria. Quando aveva udito la voce del vecchio mechanist, aveva usato la sua arma: una fionda. Un massiccio dado di pietra a sei facce, era semiaffondato nel cranio fratturato del vecchio pirata morto.

Agli sprazzi di luce della sega, Lindsay vide la testa del morto coperta da un viluppo appiattito di sangue, trattenuto dalla tensione superficiale sulla pelle tutt’intorno alla ferita.

— Potremmo partire… — disse Lindsay.

— Non senza i nostri — replicò il Presidente. — E non lasciando in vita colui che ha fatto questo. Sono rimasti soltanto in cinque.

— Quattro — disse Lindsay. — Ho ucciso Fazil. Tre, se riuscirò a parlare con Nora.

— Non c’è tempo di parlare — ribatté il Presidente. — Sei ferito, Segretario. Rimani qui a sorvegliare la camera di equilibrio. Quando vedrai gli altri, digli che siamo andati a uccidere quei quattro.

Lindsay si costrinse a parlare. — Se Nora si arrendesse, signor Presidente, vorrei sperare che…

— La misericordia era il suo lavoro — disse il Presidente. Lindsay lo sentì trascinare il cadavere del giudice. — Hai un’arma, ’Stato?

— No.

— Prendi questa, allora. — Porse a Lindsay il braccio meccanico del morto. — Se uno di loro dovesse capitare qua dentro, uccidilo col pugno del vecchio.

Lindsay strinse le protuberanze costituite dai cavi del rigido polso prostetico. Gli altri si allontanarono in fretta, con un ticchettio, un fruscio e un sussurro di pelle callosa contro la pietra. Lindsay risalì fluttuando la galleria fino alla camera di equilibrio, rimbalzando lungo la pietra liscia con le ginocchia e le spalle, pensando a Nora.

La vecchia non voleva morire, era questo l’orrore della cosa. Se soltanto fosse stato rapido e pulito come Kleo aveva promesso, Nora sarebbe anche riuscita a sopportarlo, così come sopportava qualunque altra cosa. Ma nell’oscurità, quando aveva sferzato con la sciarpa appesantita il collo della donna pirata, e aveva tirato, non era stato né silenzioso né pulito.

La vecchia Giudice Due, come la chiamavano i pirati, aveva una gola che era una massa di cartilagini, dura come l’acciaio sotto la falsa levigatezza della pelle. Per due volte, quando Nora aveva pensato che fosse finalmente morta, la donna pirata era rimbalzata alla vita in maniera agghiacciante, là nel buio, con un tormentoso rantolo raschiante. I polsi di Nora sanguinavano copiosamente a causa delle unghie scheggiate della vecchia. Il suo corpo puzzava.

Nora sentiva l’odore del proprio sudore. Le sue ascelle erano una tormentosa massa di eruzioni cutanee. Galleggiava in silenzio nel buio pesto della cabina di comando dei lanci, i suoi piedi nudi appollaiati sulle spalle della morta, con un’estremità della sciarpa in ciascuna mano.

Non aveva combattuto bene quando i pirati avevano lanciato il loro attacco, all’improvvisa mancanza di corrente. Aveva colpito qualcuno, facendo roteare la sua “bola” di pietra, ma poi l’aveva persa durante il combattimento. Agnes aveva lottato duramente ed era rimasta ferita dalla sega portatile del Presidente della Camera. Paolo aveva lottato come un campione.

Kleo mormorò una parola d’ordine dalla porta, e dopo qualche istante vi fu luce nella stanza. — Te l’ho detto che funzionavano — disse Paolo.

Kleo teneva scostata da sé la candela di plastica. Il sodio in cima allo stoppino sputacchiava ancora nel punto in cui era stato acceso. La plastica cerosa emanava un puzzo intenso a mano a mano che lo stoppino si consumava.

— Ho portato tutte quelle che hai fatto — disse Kleo a Paolo. — Sei un ragazzo intelligente, tesoro.

Paolo annuì orgoglioso. — La mia fortuna ha fatto fronte a questa situazione e ne ho uccisi due.

— Sei stato tu a produrre le candele — disse Agnes. — E io ho detto che non avrebbero funzionato. — Lo gratificò d’uno sguardo adorante. — Sei proprio tu, Paolo? Dammi gli ordini.

Nora vide il volto della donna pirata morta, al lume della candela. Disfece la sciarpa che l’aveva strangolata e se la legò intorno alla vita.

Ebbe un altro attacco di debolezza. I suoi occhi si riempirono di lacrime e provò un improvviso senso di rincrescimento e di orrore per la donna che aveva ucciso.

Erano le droghe che Abelard le aveva dato. Era stata pazza ad accettare quella prima iniezione. Riempirsi di afrodisiaci era stata una resa, non soltanto al nemico ma anche a quei frammenti grandi e piccoli di tentazione che erano in agguato dentro di lei. Durante tutta la vita, più era stato luminoso il fuoco delle sue convinzioni, più buie erano state quelle ombre, fugaci e striscianti.

Da sola avrebbe anche potuto resistere. Ma c’era l’esempio fatale di altri diplomatici. I traditori. L’Accademia non aveva mai parlato di loro apertamente, lasciando l’argomento al sottobosco dei pettegolezzi e delle chiacchiere che ribollivano incessantemente in ogni colonia di Plasmatori. Le chiacchiere suppuravano nel buio, assumendo tutte le forme distorte del proibito.

Nella propria mente, Nora era diventata una criminale: sessuale, ideologica, professionale. Le erano accadute cose delle quali non osava parlare, neppure a Kleo. La sua Famiglia non sapeva niente dell’addestramento diplomatico, il bagliore bruciante in ogni muscolo, l’attacco al volto e al cervello che aveva trasformato il suo corpo in un oggetto alieno prima ancora che arrivasse a sedici anni.

Se fosse stata un altro diplomatico, e non lei, avrebbe potuto combattere e morire con la serenità e la convinzione che Kleo mostrava. Ma adesso lei l’aveva affrontato e capito. Abelard non era intelligente quanto lei, ma era veloce e adattabile. Lei poteva diventare ciò che era lui. Era la prima vera alternativa che avesse mai conosciuto.

— Io vi ho dato la luce — disse Paolo. Fece roteare la sua bola formando nell’aria un otto distorto, agguantando il filo con gli avambracci imbottiti. — Ho rischiato, il massimo immaginabile. Ho battuto Ian. Ho battuto Fazil, e ne ho uccisi due. — I legacci delle maniche gli sbatterono sui gomiti quando si schiaffeggiò il petto. — Io dico, imboscata, imboscata, imboscata! — Dopo aver fatto roteare un’ultima volta la bola, si fermò, facendola avvolgere intorno al braccio. Quindi tirò fuori la fionda dalla cintura.

— Non devono fuggire — disse Kleo. Il suo volto era calmo e caldo alla luce della candela, incorniciato dalla corona dorata della sua retina per capelli. — Se i sopravvissuti dovessero rimanere in vita, condurranno qui altra gente. Noi possiamo vivere, tesori miei. Loro sono stupidi. E sono divisi. Noi ne abbiamo persi due, loro sette. — Un guizzo di dolore le attraversò il viso. — Il diplomatico era veloce, ma le probabilità dicono che è morto nell’anello di lancio. Gli altri possiamo aggirarli, come abbiamo fatto con i Giudici.

— Dove sono i due deputati? — chiese Agnes. La sega portatile del Presidente della Camera l’aveva tagliata sopra il ginocchio sinistro: era pallida ma ancora piena di bramosia di combattere. — Dobbiamo far fuori quella genetica aberrante. È pericolosa.

— E il “ware” organico? — chiese Nora. — S’irrancidirà se continueremo a restare senza corrente. Dobbiamo ridare la corrente.

— Allora saprebbero che ci troviamo nella centrale elettrica! — esclamò Paolo. — Uno di noi potrebbe riattivare la centrale, gli altri tendere loro un’imboscata! Colpirli e poi ritirarci, colpirli e poi ritirarci!

— Per prima cosa dobbiamo nascondere i cadaveri — disse Kleo. Si girò, appoggiando i piedi vicino alla porta, e tirò a sé un cavo. Comparve il Terzo Giudice, il suo collo rugoso era stato quasi completamente reciso dal filo sottile della garrota di Kleo. Le siringhe alla sua cintura erano colme di “ware” organico rubato. Come il Secondo Giudice, era stato sorpreso al momento del furto.

Paolo staccò una pellicola di plastica che nascondeva l’accesso alla nicchia segreta nella camera di lancio. I corpi del Primo e del Secondo Senatore già galleggiavano dentro di essa, uccisi da Agnes e Paolo. Spinsero dentro l’altro cadavere, riluttanti a toccarlo.

— Sapranno che si trovano qui! — esclamò Agnes. — Ne sentiranno il puzzo. — Sternuti violentemente.

— Penseranno che è la loro stessa puzza — disse Paolo, lisciando la sottile parete per rimetterla al suo posto.

— Al tokamak — disse Kleo. — Io prenderò le candele. Agnes, tu precedici.

— D’accordo. — Agnes si tolse la camicetta e la pesante retina per i capelli. Le attaccò insieme con pochi rapidi punti. Gonfiandosi in caduta libera, nell’oscurità parevano una forma umana. Agnes sgusciò dentro lo stretto corridoio, spingendo l’esca davanti a sé con il braccio teso.

Gli altri la seguirono, Nora chiudeva la fila.

Si fermarono a ciascun incrocio, ascoltando, annusando l’aria. Agnes spingeva avanti i suoi indumenti, per poi sbirciare in fretta dietro l’orlo dell’apertura. Kleo le passava la candela, cosicché potesse controllare l’eventuale presenza di nemici in agguato. Quando giunsero nei pressi della centrale tokamak, Agnes sternuti sonoramente. Un istante dopo, anche Nora sentì l’odore: un orrendo puzzo alieno. — Cos’è? — bisbigliò rivolta a Kleo, più avanti.

— Fuoco, credo. Fumo — rispose Kleo, cupa. — La riplasmata è scaltra. Credo sia andata al tokamak.

— Guardate! — esclamò Agnes. Dal corridoio che si biforcava alla loro sinistra, un sottile flusso grigiastro fluttuava alla luce della candela. Agnes passò il dito in mezzo al grigiume, e il fumo si sfilacciò, dissipandosi. Agnes tossì con la gola escoriata, e si sorresse alla parete, le sue costole nude si alzavano e si abbassavano in silenzio.

Kleo soffiò sulla candela, spegnendola. Nel buio videro un lieve luccichio riflesso lungo le curve e le svolte della liscia pietra della galleria.

— Fuoco — disse Kleo. Per la prima volta, Nora sentì la paura nella voce del proprio capo. — Vado io per prima.

— No! — Agnes sfiorò con le labbra l’orecchio di Kleo e bisbigliò qualcosa in fretta. Le due donne si abbracciarono, e Agnes proseguì furtiva lungo la galleria, lasciandosi alle spalle gli indumenti e appiattendosi contro la parete. Quando Nora seguì gli altri, sentì il sudore freddo e macchiato di fuliggine di Agnes contro la pietra.

Nora sbirciò dietro di sé, per proteggere loro le spalle. Dov’era Abelard? Era convinta che non fosse morto. Se soltanto fosse stato qui adesso, con la sua incessante loquela, e i suoi occhi grigi, luccicanti di animalesca determinazione di sopravvivere…

Un clac secco echeggiò all’improvviso in fondo alla galleria. Passò un secondo. Agnes urlò, e l’aria si riempì del pungente puzzo metallico dell’acido. Risuonarono ululati di dolore e d’odio, lo schiocco della fionda di Paolo. La schiena e le spalle di Nora si restrinsero, così all’improvviso da raggrinzirsi per il lancinante dolore, e si lanciò a capofitto lungo la galleria, assordata dalle proprie urla.

La genetica errante turbinava in mezzo al bagliore rosso del fuoco, sferzando il volto di Agnes col getto della sua arma, un mantice. L’aria era piena di globi volanti di acido corrosivo, risucchiato da un serbatoio del “ware” organico. Fili di vapore si levavano, arricciandosi, dal petto nudo di Agnes.

Su un lato, Kleo stava lottando, scalciando e sferzando, avvinghiata alla tarchiata Secondo Deputato, il cui braccio venne spezzato da un colpo di Paolo. Quest’ultimo stava tirando fuori un’altra pesante pietra dalla borsa che aveva legata in vita.

Nora si strappò la sciarpa dalla cintura con un sibilo serico, e si lanciò contro la plasmatrice nemica. La donna la vide arrivare. Serrò una gamba contro la gola di Agnes, fracassandogliela, e si lanciò in avanti con le braccia allargate per abbrancare l’avversaria.

Nora fece roteare la sciarpa appesantita in direzione del viso della donna. Questa l’afferrò, sogghignò con i denti storti, e portò un colpo fulmineo con la mano verso il viso di Nora, due dita allargate per trafiggere gli occhi. Nora si girò e le unghie le incisero le guance facendole sanguinare. Scalciò, mancò il colpo, scalciò con l’altra gamba, sentì un improvviso dolore lancinante quando la donna pirata addestrata al combattimento le affondò le dita nella giuntura del ginocchio. Era forte, d’una forza genetica fluida e ingannevole. Nora armeggiò con l’altra estremità della sciarpa e con tutto il suo peso colpì con violenza la guancia della donna pirata. Il Primo Deputato sogghignò, e Nora sentì qualcosa che si spezzava quando la sua rotula cedette. D’un tratto il sangue le schizzò su tutto il corpo, allorché un colpo della fionda di Paolo fracassò la mascella della donna.

La sua bocca penzolò aperta, insanguinata, alla luce dell’incendio, mentre la donna pirata combatteva con l’improvvisa forza selvaggia della disperazione. Il dorso del suo tallone si abbatté come un maglio sul plesso solare di Nora, mentre allo stesso tempo si scagliava con furia estrema addosso a Paolo. Paolo era pronto: la sua bola parve sbucargli dal nulla sopra la mano, sibilando come una sferza, con l’impeto d’una accetta, troncando l’orecchio della donna e penetrando in profondità nella clavicola. La donna vacillò, e Paolo schiacciò il suo corpo contro la parete.

La testa della donna pirata si ruppe come la pietra e Paolo le fu subito sopra, squarciandole la gola con la corda della boia. Dietro di lui Kleo e l’altra donna si azzuffavano a mezz’aria. La donna pirata sferzava l’aria con le gambe e il braccio fratturato, mentre i pollici di Kleo premevano implacabilmente sulla gola dell’avversaria, affondandovi a poco a poco.

Nora, senza fiato per il calcio, lottava per riuscire a respirare. Tutta la sua gabbia toracica d’un tratto era serrata da un crampo improvviso che pareva irradiarsi dovunque. In qualche modo, con uno sforzo immane, riuscì a introdurre nei polmoni un’esile boccata di aria fumosa. Sternuti, poi respirò di nuovo, provando la sensazione che il suo petto fosse colmo di piombo fuso. Agnes morì davanti ai suoi occhi, con la pelle che si disfaceva sotto l’effetto degli spruzzi d’acido.

Paolo finì la plasmatrice. Kleo era ancora intenta a strangolare la seconda donna, che era già morta; Paolo vibrò un violentissimo colpo di bola contro la testa della morta e Kleo la lasciò, staccando dal suo collo le mani irrigidite. Se le sfregò insieme, come se le stesse cospargendo di lozione, e respirò a fatica. — Spegnete quell’incendio — ordinò.

Con estrema cautela, Paolo si avvicinò alla massa glutinosa e fiammeggiante di fieno e di plastica. Si scrollò di dosso la pesante giubba che era tutta chiazzata dai fori provocati dall’acido, e la gettò sopra il fuoco come se stesse intrappolando un animale. Lo pestò vendicativamente sotto i piedi, e fece buio. Kleo sputò sulla punta al sodio di un’altra candela, che si accese crepitando.

— Per niente bene — commentò. — Sei ferita, Nora?

Nora abbassò lo sguardo sulla sua gamba, la tastò. La rotula era sconnessa, sotto la pelle. Non c’era ancora dolore, soltanto un intorpidimento da shock. — Il mio ginocchio — disse, e tossì. — Ha ucciso Agnes.

— Ne rimangono soltanto tre — disse Kleo. — Il Presidente della Camera, il suo uomo, e il Terzo Senatore. Li abbiamo in pugno. Miei poveri amati tesori. — Buttò le braccia intorno a Paolo, il quale s’irrigidì per quel gesto improvviso, ma subito si rilassò posando la testa nel cavo fra il collo e la spalla di Kleo.

— Metto in funzione la centrale elettrica — disse Nora. Si spostò fino al pannello alla parete e attivò gli interruttori per la sequenza preliminare.

— Paolo e io copriremo gli ingressi e li aspetteremo — disse Kleo. — Nora, tu vai in sala radio. Chiama il Consiglio e fai rapporto. Ci ritroveremo qui. — Porse a Nora la candela e se ne andò.

Nora conficcò la candela sopra il pannello di controllo del tokamak, e attivò la centrale fino al primo stadio. Un bagliore bluastro filtrò attraverso lo schermo polarizzato antiesplosioni quando i campi magnetici cominciarono a dipanarsi all’interno della camera. Il tokamak produsse un tremito incerto mentre si autoinnescava raggiungendo la velocità della fusione. Una falsa luce solare avvampò giallastra mentre i flussi ionici entravano in collisione e bruciavano. Il campo si stabilizzò e d’un tratto tutte le luci si accesero.

Prendendola in mano con cautela, Nora spense la candela sfregandola contro la parete.

Paolo si strofinò irritato le vesciche causate dall’acido sulle mani. — Sono io quello, Nora — disse. — L’uno per cento destinato alla sopravvivenza.

— Lo so, Paolo.

— Mi ricorderò di voi, comunque. Di voi tutti, lì ho amato, Nora. Volevo dirtelo una volta ancora.

— È un privilegio e un onore sopravvivere nei tuoi ricordi, Paolo.

— Addio, Nora.

— Se mai ho avuto un po’ di fortuna — disse Nora — ora la do a te.

Lui sorrise, sollevando la fionda.

Nora se ne andò. Slittò rapidamente attraverso le gallerie tenendo una gamba rigida. Ondate di dolore la scavavano dentro, aggrovigliandole il corpo. Senza il granchio spinale non era più in grado di bloccare i crampi.

I pirati erano stati nella sala radio. Avevano fracassato tutto ciò che si trovava intorno a loro alla cieca, nel buio, all’impazzata. I trasmettitori erano un relitto tagliato a colpi di sega, contorto e sbriciolato; la consolle era stata strappata via e scaraventata da parte.

Il fluido colava fuori dal display a cristalli liquidi. Nora tirò fuori l’ago e il filo dalla retina per i capelli e ricucì lo squarcio dello schermo. La CPU funzionava ancora; c’erano dei segnali che arrivavano dalle antenne paraboliche esterne. Ma i programmi per la decrittazione erano distrutti. Le trasmissioni del Consiglio dell’Anello erano soltanto una raccolta di farfugliamenti senza senso.

Si sintonizzò su una trasmissione propagandistica su una frequenza generale. Il televisore squarciato funzionava ancora, anche se perdeva risoluzione intorno ai bordi.

Ed eccolo là, il mondo esterno. Non c’era molto: parole e immagini, linee su uno schermo. Si passò con cautela la punta delle dita sopra il dolore bruciante al ginocchio.

Non riusciva a credere a ciò che le dicevano le facce sullo schermo, quello che le immagini mostravano. Era come se quel piccolo schermo durante i giorni del buio avesse in qualche modo fermentato, e il mondo dietro di esso stesse traboccando come una massa schiumeggiante, con tutti i suoi veleni “ware” organicizzati trasformati in vino. I volti degli uomini politici plasmatori erano illuminati da una luce stupefatta di trionfo.

Nora rimase a fissare lo schermo, come pietrificata. Le traumatizzate dichiarazioni dei capi dei Mechanist: uomini distrutti, donne spaventate, spogliati delle loro routines e dei loro sistemi. L’armamentario dei piani e delle contingenze dei Mech era stato eliminato come la rogna, mostrando la carne viva della loro umanità. Parlottavano, lottavano per assumere il controllo, ognuno contraddicendo il precedente. Alcuni con dei sorrisi stretti stretti che pareva gli fossero stati cuciti addosso con un intervento chirurgico, altri con gli occhi velati dalle nebbie d’una stupefazione religiosa di seconda mano, gesticolando vagamente, i loro volti luminosi come quelli dei bambini.

E i decani del complesso dell’accademia militare dei Plasmatori: i volti lisci tipici della Sicurezza, accomodanti, trionfanti, ancora troppo compiaciuti per quel colpo stupefacente per far trasparire il sospetto che era innato in loro. E l’intellighenzia, abbacinata, che faceva spericolate congetture, la loro obiettività ridotta a brandelli.

Poi ne vide uno. No, ce n’erano di più. Una dozzina. Erano giganteschi. Le loro gambe, da sole, erano alte come uomini, enormi masse di muscoli nodosi, ossa e tendini sotto la pelle tesa, lucida fino ad apparire levigata artificialmente. Indossavano delle gonne, grani luccicanti infilati su fili. Il loro petto possente era nudo, con uno sterno così smisurato da parere la carena di una nave. Confrontate con le gambe simili a tronchi d’albero e le massicce code sporgenti, le loro braccia erano lunghe e sottili, con delle dita agili dalle punte rigonfie e pollici curiosamente incavati. La loro testa era immensa, grossa quanto il tronco d’un uomo, spezzata da un grande sorriso cavernoso pieno di denti tozzi, squadrati, grossi come pollici. Pareva che non avessero orecchi, e i loro bulbi oculari neri, grandi come pugni, erano schermati da scabre palpebre e da membrane nittitanti grigiastre. Frange costolate, iridescenti, drappeggiavano le loro teste.

C’era gente che stava parlando con loro, impugnando telecamere. Plasmatori. Pareva quasi che si tenessero rannicchiati per paura degli alieni; avevano la schiena curva, si spostavano servilmente dall’uno all’altro strascicando i piedi. Nora si rese conto che ciò era dovuto alla gravità. Gli alieni usavano una gravità molto più intensa.

Erano veri! Si muovevano con grazia massiccia e rilassata insieme. Alcuni di loro tenevano in mano un blocco per appunti. Altri parlavano con una lingua stretta simile a quella degli uccelli, lunga quanto un avambraccio.

Le loro dimensioni da sole bastavano a dominare l’incontro. Non c’era niente di formale o di teatrale nel loro modo di agire; neppure la solennità riusciva a nascondere la natura quintessenziale di quell’incontro. Gli alieni non erano spaventati e neppure molto colpiti. Non c’erano guasconate, iattanza, e neppure mistica. Badavano al sodo. Come gli esattori delle tasse.

Paolo piombò dentro all’improvviso, gli occhi spiritati, i lunghi capelli intrisi di sangue. — Presto! Mi sono alle spalle! — Gettò un’occhiata tutt’intorno. — Dammi il coperchio di quel pannello!

— È finita, Paolo!

— Non ancora! — Paolo afferrò a mezz’aria l’ampio coperchio della consolle. I fili gli penzolarono dietro come una scia. Paolo si catapultò attraverso la stanza e sbatté la consolle di traverso all’ingresso della galleria. Posta di piatto contro di essa, formava una rozza barricata. Paolo tirò fuori con uno scatto un tubo di resina epossidica dalla cintura e incollò il coperchio della consolle contro la pietra.

Su un lato era rimasto aperto un varco; Paolo tirò fuori la sua fionda e scagliò un proiettile in fondo al corridoio. Udirono, lontano, un ululato. Paolo incastrò il viso nel varco e lanciò in risposta una ululante risata.

— La televisione, Paolo! Notizie dal Consiglio! L’assedio è finito!

— L’assedio? - fece Paolo, voltandosi a lanciarle un’occhiata. — Che cosa diavolo ha a che fare con noi?

— L’assedio, la guerra — spiegò Nora. — Non c’è mai stata nessuna guerra, è la nuova linea del partito. Ci sono stati soltanto degli… equivoci. Strettoie. — Paolo la ignorò, fissando la lontana estremità della galleria e preparando un altro colpo con la fionda. — Non siamo mai stati soldati. Nessuno di noi ha mai cercato di uccidere nessun altro. La razza umana è pacifica, Paolo. Siamo soltanto… buoni partner commerciali… Gli alieni sono qui, Paolo. Gli alieni.

— Oh, Dio — gemette Paolo. — Devo soltanto ucciderne altri due, ed è tutto, e ho già ferito un braccio alla donna. Prima aiutami ad ucciderli, e poi potrai raccontarmi tutto quello che vuoi. — Premette la spalla contro la barricata, aspettando che la colla epossidica si stabilizzasse.

Nora gridò attraverso uno dei fori degli strumenti della consolle, in direzione del buio: — Signor Presidente! Sono il diplomatico… voglio parlamentare!

Vi fu un attimo di silenzio, poi: — Pazza di una puttana! Vieni fuori e crepa!

— È finita, signor Presidente! L’assedio è stato tolto! Il sistema è in pace, ha capito? Gli alieni, signor Presidente. Sono arrivati gli alieni, sono qui già da giorni!

Il Presidente scoppiò in una risata. — Sicuro. Esci fuori, bimba. Prima manda fuori quel piccolo fottuto con la fionda. — Udì l’improvviso gemito della sega a mano.

Paolo la spinse da parte con un ringhio e scagliò un proiettile in fondo al corridoio. Udirono una mezza dozzina di clic secchi, quando il proiettile rimbalzò più volte laggiù. Il Presidente gracchiò trionfalmente: — Stiamo per mangiarvi — disse, in tono estremamente serio. — Mangeremo il vostro fegato. — Abbassò la voce. — Falli fuori, Segretario.

Nora balzò davanti a Paolo, afferrandolo con una mano, e urlò: — Abelard! Abelard, è vero! Lo giuro su tutto quello che c’è stato fra noi! Abelard, non sei stupido, lasciaci vivere, voglio vivere…

Paolo le serrò le mani sulla bocca e la tirò indietro. Lei si tenne aggrappata alla barricata, adesso saldamente incollata, guardando in fondo al corridoio. Là, una forma bianca stava venendo avanti fluttuando. Una tuta spaziale. Non una di quelle dei Mavrides, ma una di quelle rigonfie e corazzate della Red Consensus.

La fionda di Paolo era inutile contro la tuta. — Ci siamo — borbottò Paolo. — Le punte. — Lasciò Nora e tirò fuori una candela e una vescica piatta di liquido dall’interno della giubba. Avvolse la vescica intorno alla candela, legandola con un laccio della manica. Sollevò la bomba. — Adesso bruceranno.

Nora lanciò la sciarpa intorno al collo di Paolo. Gli piantò il ginocchio ancora sano sulla schiena e tirò con forza selvaggia. Paolo produsse un suono come quello d’una cornamusa rotta e si allontanò dall’ingresso con un calcio. Artigliò la sciarpa. Era forte. Era quello che aveva la fortuna dalla sua.

Nora tirò con maggiore forza. Paolo tirava con altrettanta energia. I suoi pugni erano talmente serrati intorno al tessuto grigio della cintura che il sangue colava fuori dalle lacerazioni a forma di mezzaluna incise sui palmi dalle sue stesse unghie.

Si udirono delle grida in fondo al corridoio. Delle grida e il rumore della sega portatile.

E adesso il nodo che non aveva mai lasciato le sue spalle si era diffuso nelle sue braccia, e Paolo stava tirando, contrastandola con muscoli che parevano modellati nel ferro. Non respirava, nell’improvviso silenzio che seguì. Il bordo ruvido della sciarpa era scomparso dentro il suo collo. Era morto. Ma tirava ancora.

Nora lasciò che le estremità della sciarpa scivolassero fuori dalle sue dita rattrappite. Paolo cominciò a ruotare lentamente in caduta libera, il volto annerito, le braccia serrate là dove si trovavano bloccate. Pareva che si stesse strangolando da sé.

Una mano guantata intrisa di sangue spuntò dal foro a forma di mezzaluna sul suo lato della barricata. Un ronzio ovattato arrivò dall’interno della tuta spaziale. Stava cercando di parlare.

Lei corse al suo fianco. Lui appoggiò la testa contro il lato esterno della barricata, gridando dall’interno del casco: — Morti! — e aggiunse: — Sono morti!

— Togliti il casco! — disse Nora.

Lui scrollò la spalla destra all’interno della tuta. — Il mio braccio — disse.

Nora infilò una mano attraverso la fessura e l’aiutò a svitarsi il casco. Questo si staccò con uno schiocco e un risucchio d’aria e il familiare puzzo del suo corpo. Sotto le sue narici c’erano delle croste di sangue mezze disseccate e una nell’orecchio destro. Era stato decompresso.

Facendo molta attenzione, Nora gli passò la mano sulla guancia sudata. — Siamo vivi, no?

— Volevano ucciderti — lui spiegò. — Non potevo lasciarglielo fare.

— Lo stesso per me. — Nora si voltò e guardò in direzione di Paolo. — È stato come un suicidio, ucciderlo. Credo di essere morta.

— No. Noi apparteniamo l’uno all’altro. Dillo, Nora.

— Sì, è vero — lei annuì, e schiacciò il volto alla cieca contro il varco che li separava. Lui la baciò con l’intenso sapore salato del sangue.

La demolizione era stata completa. Kleo aveva finito il lavoro, era strisciata fuori con addosso una tuta spaziale e aveva inzuppato l’interno della Red Consensus con un appiccicoso veleno a contatto.

Ma Lindsay era arrivato là prima che lei se ne andasse. Aveva saltato il varco dello spazio vuoto, decomprimendosi, per prelevare una delle tute spaziali corazzate. Aveva sorpreso Kleo nella cabina di comando. Con la sua tuta sottile non era stata assolutamente in grado di tenergli testa; lui aveva lacerato la tuta, e lei era morta per il suo stesso veleno.

Perfino il robot di famiglia aveva sofferto danni. I due deputati l’avevano lobotomizzato quand’erano passati attraverso la stanza delle esche. Le operazioni accanto all’anello di lancio si svolgevano ad una velocità frenetica. Il robot, spogliato del cervello, caricava una tonnellata dopo l’altra di carbone grezzo dentro il già stracolmo ed eruttante “ware” organico, una schiumante massa di plastica veniva emessa a fiotti dentro l’anello di lancio, che era stato anch’esso rovinato dalla slittata della gabbia di lancio. Ma questo era il minore dei loro problemi.

Il peggiore, era la sepsi. I microrganismi portati dallo Zaibatsu stavano seminando la distruzione fra i delicati biosistemi di ESAIRS XII. Cinque settimane dopo il massacro, il giardino di Kleo era ridotto a una lebbrosa parodia.

Le creature rimodellate del giardino della plasmatrice ammuffivano e si sbriciolavano al crudo tocco dell’umanità. La vegetazione assumeva strane forme mentre soffriva e si deformava, i suoi steli si arricciavano come tanti cavaturaccioli in una perversione della crescita che li vedeva imputridire e ridursi in polvere. Lindsay visitava tutti i giorni il giardino e proprio la sua presenza contribuiva ad accelerare la corruzione. Quel posto aveva ormai l’odore dello Zaibatsu, e i polmoni gli facevano male a causa della nostalgia che provava per quell’amato olezzo.

Se l’era portato dietro. Non importava quanto velocemente si spostasse, si trascinava dietro la fatale scia del passato.

Lui e Nora non se ne sarebbero mai liberati. Non era soltanto il contagio o il suo braccio inutilizzabile. E neppure la galassia delle eruzioni cutanee che avevano sfigurato Nora per giorni e giorni, incrostando la sua pelle perfetta e riempiendo i suoi occhi di siliceo stoicismo. Risaliva ai tempi dell’addestramento che avevano condiviso, al danno che gli era stato fatto. Li rendeva solidali, partner, e Lindsay si era reso conto che quella era la cosa più bella che la vita gli avesse mai offerto.

Pensò alla morte mentre guardava il robot plasmatore intento al suo lavoro. Incessantemente, instancabilmente, questo caricava il minerale grezzo dentro le budella tese dal “ware” organico delle esche. Dopo che loro due fossero morti soffocati, quella macchina avrebbe continuato indefinitamente nella sua iperattiva parodia della vita. Avrebbe potuto spegnerlo, sì, ma provava una certa affinità con esso. In qualche modo quella sua cieca ed entusiastica persistenza lo incoraggiava. E il fatto che stesse pompando tonnellate di plastica schiumeggiante nell’anello di lancio, rovinandolo, significava che i pirati avevano vinto. Lui non poteva sopportare l’idea di derubarli di quell’inutile vittoria.

A mano a mano che la loro aria diventava più fetida, furono costretti a ritirarsi, chiudendo ermeticamente le gallerie alle loro spalle. Rimasero vicino agli ultimi giardini industriali ancora funzionanti, respirando quanto meno possibile per non consumare l’aria che profumava di fieno, facendo l’amore e cercando di guarirsi a vicenda.

Con Nora, Lindsay rientrò nella vita dei Plasmatori, con le sue sottigliezze, le sue allusioni, il suo brio doloroso. E, a poco a poco, lentamente, insieme a lui, i lati più taglienti di Nora vennero smussati. Lei perse le sue peggiori stranezze, i nodi più duri da sciogliere, i più insopportabili livelli di tensione.

Abbassarono la corrente, cosicché le gallerie divennero più fredde, ritardando il diffondersi del contagio. Durante la notte si stringevano l’uno all’altro per scaldarsi, avvolti in un sudario grande come un tappeto che Nora aveva intessuto.

Nora non era disposta ad arrendersi. Aveva un nucleo d’energia innaturale che Lindsay non era in grado di eguagliare. Per giorni aveva lavorato alle riparazioni in sala radio, anche se sapeva che era inutile.

Il Servizio di Sicurezza dell’Anello dei Plasmatori aveva smesso di trasmettere. I loro avamposti militari erano diventati una fonte d’imbarazzo. I Mechanist li stavano evacuando, e rimpatriavano gli equipaggi dei Plasmatori riportandoli al Consiglio dell’Anello con squisita cortesia diplomatica. Non c’era mai stata nessuna guerra. Nessuno combatteva. I cartelli si stavano garantendo il controllo dei loro clienti pirati rappacificandoli in tutta fretta.

Tutto questo li stava aspettando, se soltanto fossero riusciti a far sentire la loro voce. Ma le loro trasmittenti erano rovinate; i circuiti non erano sostituibili e nessuno di loro due era un tecnico. Lindsay aveva accettato la morte. Nessuno sarebbe venuto a salvarli: avrebbero certamente pensato che l’avamposto fosse stato spazzato via. Alla fine, pensò Lindsay, qualcuno sarebbe venuto a controllare, ma non prima di molti anni ancora.

Una notte, dopo aver fatto l’amore, Lindsay rimase sveglio, gingillandosi con il braccio meccanico del pirata morto. L’affascinava, ed era fonte di appagamento: morendo giovane, pensava Lindsay, era per lo meno sfuggito a quello. Il suo braccio destro aveva quasi completamente perduto ogni sensibilità, i nervi avevano continuato a deteriorarsi da quando c’era stato l’incidente con la pistola, e le ferite che si era fatto in battaglia erano servite soltanto ad accelerare il deterioramento.

— Quei dannati cannoni — disse ad alta voce. — Un giorno, qualcuno troverà questo posto. Dovremmo fare a pezzi quei fottuti cannoni, mostrare al mondo che avevamo un po’ di decenza. Lo farei io, ma non sopporto l’idea neppure di toccarli.

Nora era insonnolita. — E allora? Non funzionerebbero lo stesso.

— Certo… sono disarmati. — Quello era stato uno dei suoi trionfi. — Ma potrebbero venir riarmati. Sono il male, tesoro. Dovremmo fracassarli.

— Se te ne importa così tanto… — Gli occhi di Nora si aprirono. — Abelard, e se ne facessimo sparare uno?

— No — lui ribatté prontamente.

— E se facessimo saltare la Consensus con il raggio a particelle? Qualcuno la vedrebbe.

— Vedrebbe cosa? Che siamo criminali?

— Nel passato si sarebbe trattato soltanto di pirati morti. La solita faccenda. Ma oggi, adesso, sarebbe uno scandalo. Qualcuno dovrebbe comunque venirci a cercare. Per assicurarsi che non succeda mai più.

— Rischieresti questa facciata di pace che stanno mostrando agli alieni? Soltanto per la vaga probabilità che qualcuno ci salvi? Sparare? Immagina quello che ci farebbero se dovessero arrivare!

— Che cosa mai? Ucciderci? Siamo già morti. Io voglio che viviamo.

— Come criminali? Disprezzati da tutti?

Nora sorrise amaramente. — Oh… non è niente di nuovo per me.

— No, Nora. Ci sono dei limiti.

Lei lo accarezzò. — Capisco.

Due notti più tardi si svegliò in preda al terrore. L’asteroide vibrava tutto. Nora non c’era. Dapprima pensò che fosse l’urto di un meteorite, un avvenimento raro ma terrificante. Tese l’orecchio per riuscire a sentire l’eventuale sibilo della fuoriuscita dell’aria, ma le gallerie erano ancora intatte. Quando vide il volto di Nora, si rese conto della verità. — Hai sparato con il cannone!

Nora era scossa. — Ho mollato la Consensus prima di colpirla. Sono uscita in superficie. C’è qualcosa di strano, lassù, Abelard. La plastica è colata fuori dell’anello di lancio, nello spazio.

— Non voglio ascoltare.

— Ho dovuto farlo. Per noi. Perdonami, tesoro. Giuro che non ti ingannerò mai più.

Lindsay rimuginò tra sé.

— Pensi che verranno?

— È una probabilità. Volevo una probabilità per noi. — Era distratta. — Tonnellate di plastica spremute fuori come il dentifricio. Come un verme gigantesco.

— Un incidente — disse Lindsay. — Dovremo dir loro che si è trattato di un incidente.

— Adesso distruggerò il cannone. — Nora lo guardò con aria colpevole.

— Quello che è fatto è fatto. — Sorrise tristemente e allungò la mano verso di lei. — Aspettiamo.


ESAIRS XII
17-7-’17

Da qualche parte nei suoi sogni, Lindsay udiva un insistente martellio. Come sempre, Nora si svegliò per prima e fu subito sul chi vive. — Rumore, Abelard.

Lindsay si svegliò con gran pena, con le palpebre appiccicate. — Cos’è? Una fuoriuscita?

Nora scivolò fuori dalle lenzuola, proiettandosi lontano dal suo fianco con un piede nudo. Accese le luci. — Alzati, tesoro. Qualunque cosa sia, l’affronteremo di petto.

Non era la maniera con cui Lindsay avrebbe preferito incontrare la morte, ma era disposto ad assecondarla. S’infilò calzoni e poncho muniti di lacci.

— Non c’è nessuna brezza — osservò Nora, mentre lui lottava per rifare un complicato nodo da riplasmatore. — Non si tratta di decompressione.

— Allora è una spedizione di salvataggio… i Mech!

Si affrettarono a raggiungere la camera di equilibrio attraverso le gallerie buie.

Uno dei soccorritori, doveva trattarsi di un tipo coraggioso, era riuscito a far passare la sua enorme mole attraverso la camera di equilibrio e ad entrare nella camera di carico. Si stava ripulendo con grande pignoleria le enormi dita, simili agli artigli di un uccello, della sua tuta spaziale, quando Lindsay sbirciò fuori dalla galleria di accesso, socchiudendo gli occhi e proteggendoseli con una mano.

L’alieno aveva un potente riflettore montato sul ponte del naso del cavernoso casco della sua tuta spaziale. La luce che scaturiva dal riflettore era vivida come quella di una fiamma ossidrica, un aspro azzurro elettrico fortemente colorato dall’ultravioletto. La tuta spaziale era bruna e grigia, punteggiata da prese per le più varie spine e costolata a fisarmonica intorno alle giunture.

Il raggio luminoso passò sopra di loro e Lindsay strizzò gli occhi, girando il viso dall’altra parte. — Mi potete chiamare Guardiamarina — disse l’alieno, in inglese commerciale.

Con grande cortesia si allineò sul loro asse verticale, allungandosi sopra di sé per spingersi con le dita lungo la parete.

Lindsay appoggiò la mano sull’avambraccio di Nora. — Io sono Abelard — disse. — Questa è Nora.

— Come state? Vogliamo discutere di questa proprietà. — L’alieno affondò la mano nella tasca laterale e tirò fuori un tampone di tessuto. Lo scosse, aprendolo con un rapido movimento da uccello, e divenne un televisore. L’alieno appoggiò lo schermo a ridosso della parete. Lindsay, guardando con attenzione, vide che il televisore non aveva linee di scansione. L’immagine era formata da milioni di minuscoli esagoni colorati.

L’immagine era quella di ESAIRS XII. Dal foro di uscita dell’anello di lancio usciva un tubo di schiuma di plastica lungo quasi mezzo chilometro. Sulla punta di quella spira simile a un verme c’era un rozzo bitorzolo. Lindsay si rese conto con un immediato e soffocato shock che si trattava della testa di pietra di Paolo, chiaramente incorniciata dentro il relitto simile a un fiore della gabbia di lancio. L’intera massa era stata incorporata senza nessuno sforzo nella fuoriuscita della plastica dall’impianto di produzione delle esche, poi era stata spremuta fuori dalla pressione dentro quel grande arco spiraleggiante.

— Vedo — disse Lindsay.

— Sei tu l’artista?

— Sì — disse Lindsay. Indicò lo schermo. — Ha notato il sottile effetto di quella sfumatura, dove il nostro ultimo colpo ha annerito la scultura?

— Abbiamo notato l’esplosione — disse l’alieno. — Un’insolita tecnica artistica.

— Noi siamo insoliti — annuì Lindsay. — Siamo unici.

— Sono d’accordo — replicò il guardiamarina, con cortesia. — Di rado vediamo un’opera su una simile scala. Accettate di trattarne l’acquisto?

Lindsay sorrise. — Parliamone.

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