Fuori era buio, il vento ululava. Mi fermai accanto alla panca di tronchi nell’orto: il vento frustava la cima delle piante di patata, mi sferzava. A ovest il Cuchillo sporgeva nell’ultimo azzurro del cielo prima del nero della notte. Tutto sembrava diverso: quasi che, uscendo dalla casa di bidoni, fossi entrato in un altro tempo, dove il vento dilaniava la terra come le bombe. Le raffiche mi strapparono il respiro, me lo ricacciarono in gola. Cercai di riprendermi.
«Sei pronto?» disse bruscamente Steve. Sobbalzai. Lui, Mando e Gabby erano dietro di me. Impossibile, nel vento, udire chi si avvicinava.
«Bello scherzo!» mi lamentai.
«Andiamo.»
Mando disse: «Devo vedere che papà sia sveglio per badare a Tom.»
«Tom è sveglio» dissi. «Lo chiamerà lui, se ne avrà bisogno. Se svegli tuo padre, dove gli dici che vai?»
Nel buio, il viso indistinto, a disagio, di Mando.
«Andiamo» insistette Steve. «Se vuoi venire, cioè.»
Senza una parola, Mando si avviò per il sentiero verso la valle. Lo seguimmo. Nei boschi il vento si ridusse a una raffica qua e là. Gli alberi scricchiolavano, gemevano, brontolavano. Salimmo sul Basilone, girando alla larga della casa degli Shanks. Attraversammo le fondamenta coperte d’erbacce, arrivammo all’autostrada, allungammo il passo. Abbastanza rapidamente ci trovammo nella valle San Mateo e al di là del posto dove avevo affrontato Add. Steve si fermò; aspettammo che decidesse cosa fare.
«In teoria dovremmo incontrarli dove l’autostrada attraversa il fiume» disse Steve.
«Meglio continuare, allora» rispose Gabby. «È abbastanza lontano.»
«Lo so, però… ho l’impressione che non dovremmo andare dritti lì. Non mi sembra il modo giusto di procedere.»
«Scendiamo qui» intervenni. «Può darsi che ci aspettino e abbiamo un bel pezzo da percorrere.»
«D’accordo…»
Ci tenemmo vicini, in modo che ciascuno udisse gli altri nonostante il vento. Una palla d’erba mobile rimbalzò lungo l’autostrada; Mando fece uno scarto. Steve e Gabby risero.
«Pericoloso, quel cespuglio» disse Gabby.
Mando non rispose e passò avanti. Lo seguimmo fino al San Mateo. Sulla riva del fiume non c’era nessuno.
«Ci vedranno e ci segnaleranno dove si trovano» ipotizzai. «Hanno bisogno di noi e sanno che saremo sull’autostrada. Forse si nascondono.»
«Vero» concesse Steve. «Forse bisognerebbe attraversare…»
Una vivida luce ci illuminò, da sotto il terrapieno dell’autostrada. Dagli alberi provenne una voce: «Non muovetevi!»
A occhi socchiusi fissammo la luce intensa. Mi ricordava quando i giapponesi ci avevano sorpresi, in mare; sentivo il cuore martellare, come se volesse saltare via per conto suo.
«Siamo noi!» gridò Steve. Gabby ridacchiò sotto i baffi. «Da Onofre.»
La luce si spense, lasciandomi cieco. Fra il rumore del vento, un mormorio.
«Bene.» Una sagoma si stagliò contro l’autostrada, dalla parte del mare. «Scendete qui.»
A tentoni scendemmo la scarpata, finimmo tutti insieme contro un fitto cespuglio. Intorno a noi c’erano parecchi uomini. Alla base del pendio ci tirammo in piedi, in mezzo agli arbusti alti fino alla cintola. Dieci e più uomini ci attorniarono. Uno di loro si piegò ad aprire lo schermo di una lanterna a gas; gran parte della luce fu catturata dai rami più bassi della boscaglia, ma in piedi davanti alla lanterna, illuminato da un fioco raggio, c’era Timothy Danforth, sindaco di San Diego. Aveva i calzoni infangati.
«Siete in quattro?» disse, con quel suo vocione rauco e forte. Mi riportò alla mente tutti i particolari della serata trascorsa in casa sua sull’autostrada isola.
«Sì, signore» rispose Steve Nicolin.
Altri uomini si unirono a noi, sagome scure che emergevano dalla boscaglia lungo il fiume.
«Non ce ne sono altri?» chiese il Sindaco.
«No, signore» rispose Steve.
«Benissimo. Jennings, dai una pistola a questi uomini.»
Uno degli uomini, riconoscibile come Jennings solo adesso che era stato chiamato per nome, si piegò sui talloni accanto a un grosso sacco di tela.
«C’è Lee?» chiesi.
«Lee non ama questo genere di cose» rispose Danforth. «E neppure è buono a farle. Perché lo chiedi?»
«Lo conosco.»
«Conosci anche me, giusto? E Jennings, lì.»
«Certo. Semplice curiosità, tutto qui.»
Jennings diede una rivoltella a ciascuno di noi. La mia era grossa e pesante. Mi piegai a esaminarla alla luce della lanterna, reggendola a due mani. Canna di metallo nero, calcio di plastica nera. Raduni a parte, era la prima volta che impugnavo una rivoltella. Jennings mi porse un sacchetto di pelle pieno di proiettili e s’inginocchiò accanto a me. «Questa è la sicura; devi spostare la levetta in questa posizione, prima di sparare. Si ricarica così.» Girò il tamburo, per mostrarmi dove inserire i proiettili. Anche gli altri ricevevano istruzioni analoghe. Mi raddrizzai, battendo le palpebre per adattare la vista all’oscurità. Soppesai la rivoltella.
«Hai una tasca in cui entri bene?» disse Jennings.
«Non mi pare. Be’…»
«Allora, uomini!» Senza il vento, la voce del Sindaco si sarebbe udita fino a Onofre. Danforth mi venne vicino zoppicando e fui costretto a guardarlo. I capelli gli sventolavano intorno al viso in ombra. «Diteci dove sbarcano, che partiamo.»
Rispose Steve. «Non possiamo dirvelo finché non saremo sul posto.»
«Niente storie!» replicò il Sindaco. Steve guardò me. Il Sindaco continuò: «Dobbiamo sapere quant’è lontano, per decidere se prendere o no le barche.» Allora, pensai, avevano oltrepassato Onofre risalendo in barca la costa. «Voi uomini siete armati e fate parte della spedizione. Capisco la vostra prudenza, ma qui siamo tutti dalla stessa parte. Vi do la mia parola. Quindi, parlate.»
Gli uomini, in piedi intorno a noi, rimasero in silenzio.
«Sbarcano a Dana Point» dissi.
Ormai era fatta. Se avessero voluto lasciarci lì, non avremmo potuto farci niente. Restammo a guardare il Sindaco. Nessuno parlò. Sentivo lo sguardo accusatore di Steve, ma continuai a fissare il viso in ombra del Sindaco, che mi restituì lo sguardo, senza espressione.
«Sai a che ora sbarcheranno?»
«Mezzanotte, ho sentito.»
«E da chi l’hai sentito?»
«Sciacalli a cui non piacciono i giapponesi.»
Seguì un altro silenzio. Danforth diede un’occhiata a uno che conoscevo: Ben, il suo assistente.
«Meglio avviarci» disse, dopo quella muta consultazione. «Andremo a piedi.»
«Occorrono un paio d’ore per arrivare a Dana Point» disse Steve.
Danforth annuì. «L’autostrada è il percorso migliore?»
«Fino al centro di San Clemente, sì. Da lì c’è una strada costiera più rapida e meno esposta agli sciacalli.» Ormai sicuro che saremmo andati anche noi, Steve vibrava d’entusiasmo.
«Stanotte non abbiamo niente da temere dagli sciacalli» disse Danforth. «Non attaccheranno un gruppo così numeroso.»
Risalimmo il terrapieno dell’autostrada, di nuovo esposti alle raffiche calde e secche del vento. Come me, Mando portava in mano la rivoltella; Steve e Gab se l’erano infilata nella tasca della giacca. Quando fummo tutti sulla carreggiata, quelli di San Diego s’avviarono in direzione nord e noi li seguimmo. Alcuni uomini si dileguarono nel buio, davanti e dietro di noi. Avevano armi da fuoco d’ogni tipo: carabine, pistole lunghe come il mio braccio, piccole mitragliatrici su treppiede.
Ai lati della strada gli alberi ondeggiavano, sbattevano nell’aria i rami, come uccelli notturni feriti. Le stelle ammiccavano vivide nel cielo nero e sereno; alla loro luce, vedevo un mucchio di cose: sagome nella foresta, lo squarcio biancastro dell’autostrada che si allungava avanti a noi fra gli alberi, uno degli uomini mandati in ricognizione che tornava a fare rapporto. Noi quattro ci tenevamo subito dietro il Sindaco; l’ascoltavamo in silenzio discutere e dare ordini, con voce calcolata per mettere in guardia qualsiasi sciacallo dell’Orange County. Camminando a centro strada, arrivammo in cima alla salita dove muri di mattoni erano crollati sulla carreggiata; scavalcammo le macerie e ci trovammo nella San Clemente vera e propria.
«Mi aspetto che il vento rallenti il loro avvicinamento a terra» disse Danforth a Ben, senza accorgersi del confine appena attraversato, un confine che avevo promesso a Tom di non varcare mai… «Chissà quanto pagano perché le pattuglie chiudano un occhio. Secondo te, qual è la tariffa corrente di una gita nell’entroterra? Gli diranno che potrebbe costargli la vita?»
Steve si teneva proprio alle calcagna del Sindaco, si beava di ogni sua parola. Rimasi sempre più indietro, ma udivo ancora la sua voce, quando tre uomini della retroguardia emersero dai cumuli di mattoni; uno di loro mi disse: «O stai là avanti con gli altri oppure ti togli dalla strada con noi.» Allungai il passo e raggiunsi il gruppo del Sindaco.
Su e giù, su e giù, un’altura dopo l’altra. Gli alberi erano piegati dalla mano pesante del vento e i cavi elettrici ancora in aria oscillavano come corde per saltare. A un certo punto arrivammo alla strada di cui Steve aveva parlato: ci avrebbe portati, attraverso San Clemente, alla spiaggia di Capistrano e a Dana Point. Lasciata l’autostrada, fra le vie ingombre di macerie, fui ossessionato dal pensiero di un’imboscata. Rami sporgevano dalle pareti in rovina, assi sbattevano l’una contro l’altra, erba mobile ci correva incontro o fuggiva via… facevo scattare di continuo la sicura della rivoltella, pronto a tuffarmi al riparo e a sparare. Il Sindaco scavalcò con la massima tranquillità le macerie al centro della via.
«Ecco la nostra avanguardia» ci gridò, indicando con la pistola una sagoma che faceva civetta nella via davanti a noi. «C’è anche una coda, un isolato dietro di noi.» Ci spiegò la strategia delle nostre posizioni nella via, che sembravano solo casuali. Gli uomini tenevano pronti i fucili e si erano sparpagliati bene. «I frugamacerie non ci daranno fastidio, stanotte. Non credo.» Con la punta del piede colpì un mattone, incespicando. «Maledetta strada!» Già tre volte aveva rischiato di cadere. Fra tutte quelle macerie bisognava stare attenti a dove si mettevano i piedi, ma lui era superiore a queste stupidaggini. «L’autostrada non arriva più a Dana Point?» chiese a Steve. «Era segnato così, sulle cartine.»
«Devia verso l’interno a un chilometro e mezzo dal porto» rispose Steve, alzando la voce per superare il frastuono del vento. Sembrava ancora debole, paragonata a quella del Sindaco, che parlava con il suo tono normale.
«È già sufficiente» dichiarò Danforth. «Non mi piace calpestare questi rifiuti.» Chiamò gli uomini in avanscoperta, con una voce che mi fece sobbalzare. «Torniamo sull’autostrada» ordinò. «È più importante andare in fretta che non farci scorgere.» Svoltammo in una via che puntava all’interno; scavalcate le macerie di un edificio, incontrammo l’autostrada. Da quel momento marciammo a buona velocità verso nord, per tutta San Clemente, fino al vasto acquitrino che la separa da Dana Point.
Dal margine meridionale dell’acquitrino, Dana Point era chiaramente visibile: un tratto curvo di scogliera a picco, meno alta di quelle di San Diego, ma notevole per la nostra zona, che sporgeva dalla linea costiera generalmente dritta. Adesso era una massa scura contro le stelle, non mostrava il minimo punto luminoso. Sotto la parte a picco della scogliera, c’era un miscuglio di acquitrino e terraferma, di alberi e macerie, tenuto insieme da una banchina di pietra che proteggeva una stretta striscia d’acqua. Un paio di volte, durante battute di pesca a nord, ci era servita da rifugio durante le tempeste. Dalla nostra posizione, la banchina non era visibile, ma Steve la descrisse al Sindaco nei minimi particolari.
«Quindi è probabile che sbarchino lì» concluse il Sindaco.
«Sì, signore.»
«E l’acquitrino? Sembra un fiume di una certa ampiezza. C’è un punto per attraversarlo?»
«La strada della spiaggia ha retto» rispose Steve. «Costituisce un ponte assai rialzato sulla foce, per cui l’acqua drena bene e non l’ha mai spazzata via nemmeno in parte.» Lo disse con orgoglio, come se fosse lui il costruttore del ponte. «L’ho attraversato.»
«Eccellente, eccellente. Andiamoci, allora.»
Tuttavia la strada che portava al ponte era scomparsa da un pezzo; fummo costretti a scendere in un burrone, guadare il torrente sul fondo, arrampicarci sull’altra scarpata. La rivoltella mi dava fastidio, con tutte quelle arrampicate; mi accorsi che lo stesso valeva per Mando. Danforth continuava a sollecitarci. Raggiunta la strada della riva, avanzammo rapidamente sulla sabbia che la ricopriva e arrivammo all’estuario. Come Steve aveva detto, il ponte era ancora lì, in buone condizioni. Sottovoce, Gabby mi chiese: «E lui come lo sapeva?» Scrollai le spalle e scossi la testa. Steve aveva fatto escursioni notturne per conto suo, lo sapevo… e adesso sapevo pure che era arrivato fin quassù, da solo, e che non me ne aveva mai parlato. Sul ponte, per la prima volta dall’ingresso in San Clemente, sentimmo tutta la forza del vento. Spazzava il ponte con una forza che ci faceva barcollare e spingeva l’acqua del fiume a frangersi contro i piloni. Le onde si coprivano di spuma, rimbalzavano nel canale, venivano trascinate al mare, tra gorgoglii e sibili e risucchi. Non perdemmo tempo, lassù; attraversammo rapidamente il ponte e ci fermammo sotto le scogliere di Dana Point, al riparo del vento.
Rimboccata sotto le scogliere c’era la spianata acquitrinosa che un tempo era il porto. Solo il canale lungo la banchina di pietra era libero della sabbia e degli arbusti trasportati dalla corrente che intasavano la piccola baia. Attraversammo a fatica ortiche e arbusti alti quanto un uomo, fino alla spiaggia di fronte alla banchina, a meno d’un tiro di sasso. Marosi si frangevano contro la parte sommersa della linea di massi, conferendole un contorno bianco e rendendola visibile al chiarore delle stelle. Deboli onde residue spazzavano avanti e indietro la spiaggia ghiaiosa. La banchina terminava quasi direttamente dall’altra parte rispetto a noi; ci fermammo all’imboccatura dei resti del porto.
«Se sbarcano qui, devono attraversare l’acquitrino da questa parte» disse Jennings al Sindaco.
«Pensi che arriveranno in barca fin qui?» replicò il Sindaco, indicando il canale, nel punto dove toccava la curva della scogliera.
«Può darsi; ma quando il mare è calmo come stanotte, non vedo perché non debbano risparmiarsi la fatica e toccare terra sulla spiaggia laggiù.» Jennings indicò la parte da dove eravamo giunti e l’ampia spiaggia che dal porto si estendeva a sud del ponte.
«Ma se ci piazziamo là e sbarcano qui?» obiettò Ben.
«Anche se sbarcano qui da qualche parte» replicò Jennings «sono costretti a passarci davanti lassù, ammesso che risalgano la valle per visitare la missione, come pensiamo vogliano fare.»
«Come tu pensi vogliano fare» rettificò Danforth.
«Non sei d’accordo?»
«Forse.»
«In un modo o nell’altro» riprese Jennings «se ci appostiamo là, li abbiamo in pugno. In qualsiasi punto sbarchino, ci passeranno vicino. Non scaleranno certo la scogliera.» Mosse la mano verso l’estremità nord del canale. «Se restiamo qui, e loro sbarcano su quella spiaggia, possono scappare all’interno. Dobbiamo chiuderli in trappola contro l’acqua.»
«Vero» disse Ben.
Danforth annuì. «Torniamo lì, allora.» Tutti lo udirono, ovviamente; tornammo indietro fra i cespugli folti, imprecando per la fatica. Quando fummo di nuovo sulla strada che portava al ponte, il Sindaco ci radunò.
«Dobbiamo nasconderci bene; può darsi che gli sciacalli vengano ad accogliere i turisti e in questo caso arriverebbero dalle nostre spalle. Voglio quindi che siate tutti dentro edifici, macchie d’alberi, rifugi del genere. Riteniamo che sbarcheranno su questa spiaggia, ma il tratto è lungo, per cui è possibile che ci tocchi muoverci, quando li avremo visti. Se sulla spiaggia c’è un gruppo ad accoglierli, avremo il tempo di cambiare posizione, ma dovremo agire nel massimo silenzio.» Dalla strada ci precedette alla spiaggia. «Non camminate dove c’è rischio di lasciare impronte fresche! Allora, il gruppo principale dietro questo muro.» Parecchi uomini seguirono il suo dito e scavalcarono le basse macerie di un muro di mattoni. «Nascondetevi bene.» Camminò verso sud, sulla spiaggia. «Un altro gruppo in quel folto d’alberi. Così avremo un buon fuoco incrociato. E voi uomini di Onofre…» Tornò a nord, passò davanti al primo muro, si accostò a una pila di blocchi di cemento. «Qui dentro. Vedete, era una latrina. Togliete via qualche blocco e riparatevi all’interno. Se cercano di svignarsela nella palude del porto, sarete qui a fermarli.»
Mando e io posammo la rivoltella, ci arrampicammo sui blocchi coperti di erbacce, ne spostammo alcuni per farci posto.
«Così va bene» disse Danforth. «Meglio non cambiare troppo le cose: se sono sbarcati qui già altre volte, se ne accorgerebbero. Entrate lì dentro, vediamo se siete ben nascosti.» Ci arrampicammo sulle macerie e varcammo il vano della porta. Due pareti non erano più a contatto; la fessura ci consentiva una buona visuale della spiaggia e dell’acqua. «Bene. Uno si piazzi dove può tenere d’occhio la spiaggia.»
«La vediamo da questa breccia» disse Steve.
«Magnifico. Potrebbe diventare anche un’ottima feritoia. Ricordate di non farvi vedere. Avranno binocoli notturni e daranno una buona occhiata in giro, prima di sbarcare.»
Gli altri erano scomparsi nei diversi nascondigli. Il Sindaco controllò che nessuno fosse visibile; guardò l’ora e disse: «Bene. Manca ancora un paio d’ore alla mezzanotte, ma può darsi che gli sciacalli giungano in anticipo a riceverli, oppure che lo sbarco avvenga prima del previsto. Quando li vedete arrivare, state giù. Non togliete nemmeno la sicura, finché non avremo aperto il fuoco. È molto importante. I nostri spari saranno il vostro segnale di aprire il fuoco. Non sprecate proiettili. Ultima cosa: se per qualche imprevisto durante il combattimento rimaniamo separati, ci incontriamo al ponte e attraversiamo insieme San Clemente. Avete capito di quale punto parlo?»
«Certo» disse Steve. «Il ponte grande.»
«Bravi. Vado a unirmi al gruppo principale. State in silenzio e tenete un uomo di guardia.» Si sporse nella latrina e strinse la mano a ognuno di noi. Per la seconda volta me la stritolò. «Ancora una cosa… non apriremo il fuoco finché non saranno tutti sulla spiaggia. Ricordatevene, chiaro? Bene, allora.» Strinse il pugno, lo agitò sopra la testa. «Questa è la nostra occasione!» E si allontanò, zoppicando sulla sabbia soffice fino al muro crollato, giù alla spiaggia.
Nessuno in vista. Steve, appostato alla grossa fenditura di fronte al mare, disse: «Faccio io il primo turno di guardia.»
Ci sedemmo come meglio potevamo e iniziammo l’attesa. Gabby si sistemò sopra una pila di blocchi di cemento ormai quasi sgretolati. Mando e io ci arrangiammo, seduti ai suoi lati. Non c’era niente da fare, se non ascoltare il vento che infuriava contro le rovine. Una volta mi alzai a guardare, da sopra la spalla di Steve, la fetta di mare visibile dalla spaccatura. Il vento di terra sollevava piccoli spruzzi in ampi archi bianchi appena illuminati dal cielo punteggiato di stelle. Più lontano, sul mare, creste bianche chiazzavano l’acqua. Nient’altro. Tornai a sedermi. Contai i proiettili nel sacchetto di pelle. Dodici. La rivoltella era carica, quindi in teoria avrei potuto uccidere diciotto giapponesi. Mi domandai in quanti sarebbero stati. Con le unghie potevo estrarre i proiettili carichi e rimetterli a posto: non avrei avuto difficoltà a ricaricare. Mando mi vide; cominciò anche lui a gingillarsi con la rivoltella.
«Spareranno dritto, questi affari?» chiese.
«Sono precise, da vicino» rispose Gabby.
Aspettammo ancora. Appoggiato contro la parete di cemento, sonnecchiai perfino; ma ebbi uno di quei sogni da dormiveglia, una rapida visione di una bottiglia verde che cadeva dalla mia parte; con un sobbalzo mi svegliai: il cuore mi batteva forte. Tuttavia ancora non accadeva niente e quasi tornai ad appisolarmi, pensando in modo sconnesso e sognante ai mattoni della latrina. Chi aveva fabbricato quei mattoni un tempo perfetti?
«Vorrei che venissero» disse Mando.
«Sst» ammonì Steve. «Non parlate. L’ora è vicina.»
Se verranno, pensai. In alto le stelle tremolavano contro il velluto nero del cielo. Spostai il peso del corpo sull’altra natica. Aspettammo. Lontano sulla scogliera una coppia di coyote si scambiò un ululato. Trascorse un mucchio di tempo, battito dopo battito, respiro dopo respiro. A volte il tempo non passa proprio mai.
Steve allungò bruscamente la mano e schioccò le dita. Sibilò: «Sciacalli!» Balzammo in piedi a scrutare dalla spaccatura, raggruppati intorno a lui.
Buio. Poi, contro il balenio biancastro dei frangenti, distinsi le sagome in movimento sulla spiaggia. Per un po’ gli sciacalli si fermarono vicino al muro dietro il quale erano appostati gli uomini di San Diego, poi si mossero verso nord, fino a trovarsi fra noi e l’acqua. Parlavano a voce abbastanza alta, tanto che quasi riuscivo a distinguere le parole. Si radunarono, si mossero di nuovo verso sud, si fermarono prima di giungere all’altezza degli uomini appostati. Uno si chinò, azionò un accendino, tenendolo poco sopra la sabbia; la fiammella illuminò diverse paia di calzoni. Gli sciacalli indossavano abiti vistosi: nel piccolo cerchio di luce c’erano lampi di stoffa color oro, rosso rubino, azzurro cielo. L’uomo con l’accendino accese cinque o sei lanterne, che lasciò sulla sabbia, insieme con alcuni sacchi scuri e un paio di scatole. Una lanterna aveva vetri verdi. Un altro sciacallo prese due lanterne, proprio quella verde e una chiara; si avvicinò all’acqua, dondolò in alto le lanterne, le incrociò una, due volte. La luce ci mostrò parti dell’intero gruppo, lampi d’argento alle orecchie e alle dita, ai polsi e alla cintola. Comparvero parecchi altri, portando arbusti secchi e rami più grossi; accesero a fatica un fuoco. Dopo qualche istante le fiamme s’alzarono, i rami più grossi scoppiettarono e schizzarono sulla sabbia resina infuocata. Ora, nella luce ondeggiante, erano tutti chiaramente visibili; contai quindici sciacalli, vestiti di giallo, di rosso e viola, di azzurro e verde, appesantiti da anelli e collane d’argento e rame.
«Non vedo barche al largo» bisbigliò Steve. «Se hanno fatto segnali, dovremmo vedere anche noi la barca.»
«Troppo buio» sussurrò Mando. «E il fuoco impedisce di vedere lontano.»
«Sst!» sibilò Steve.
«Guardate!» disse Gabby, in un sussurro pressante. Indicò qualcosa, al di là della spalla di Steve, ma già me n’ero accorto: una massa scura emergeva dall’acqua, proprio all’estremità della banchina. Le onde rotolarono sopra la sagoma scura, la resero riconoscibile.
«Sale da sotto!» esclamò Gabby, teso. «Non navigava in superficie.»
«State giù» disse Steve e noi ci accucciammo ai suoi lati. «Quello è un sottomarino.»
L’uomo sulla riva agitò ora una sola lanterna, quella verde. Il fuoco prese forza nel vento e la luce vivida rimbalzò su giacche gialle, su calzoni smeraldo.
«Ecco come evitano la guardia costiera» disse Gabby.
«Passano sotto» convenne Steve, con tono di stupore reverenziale.
«Quelli di San Diego l’avranno visto?» chiese Mando.
«Sst» sibilò di nuovo Steve.
Una luce del sottomarino illuminò uno stretto ponte nero. Alcune sagome uscirono da un portello e gonfiarono sull’acqua grandi gommoni. Altri uscirono dal sottomarino e presero posto sui canotti di gomma. Il falò degli sciacalli traeva riflessi dai remi, mentre i canotti accostavano. Due sciacalli entrarono in acqua fino alla cintola per afferrare il primo gommone e tirarlo a riva fra la spuma dei frangenti. Parecchi uomini saltarono giù e altri due ne tolsero scatole e casse di legno. Gli sciacalli offrirono bottiglie di liquido ambrato che luccicavano alla luce del fuoco; mentre i giapponesi bevevano, riuscimmo a udire il benvenuto degli sciacalli, voci rauche e gioviali. I giapponesi sembravano tutti rotondetti, come se portassero due giacche ciascuno. Uno assomigliava proprio al mio capitano.
Mi scostai dalla spaccatura. «Saremo troppo lontano, quando scatterà l’imboscata» dissi a Steve.
«No. Guarda, c’è un altro gommone pieno.»
«Dovremmo uscire da qui e prendere posizione fra gli alberi dietro di noi» dissi. «Appena intuiranno da dove arrivano gli spari, saremo bloccati qui dentro.»
«Non lo intuiranno. Come potrebbero, nel buio?»
«Non so. Ma dovremmo essere fuori di qui.»
Un altro gommone fu gonfiato, condotto a riva, tirato sulla spiaggia. I giapponesi scesero a terra, si guardarono intorno. La luce del sottomarino si spense, ma la sagoma scura restò visibile. Dall’ultimo gommone furono scaricate alcune casse; mentre venivano schiodate, diversi sciacalli vi si riunirono intorno. Uno, con la giacca scarlatta, ne trasse un fucile e lo sollevò per mostrarlo ai compagni.
Crack! Crack! Crack! Quelli di San Diego aprirono il fuoco. Risuonò una serie di colpi. Dalla mia posizione acquattata, guardando oltre la gamba di Steve, vedevo solo la reazione delle nostre vittime sulla spiaggia: si buttarono per terra, spensero all’istante le lanterne, presero a calci il falò riducendolo a scintille. Da quel momento non vidi molto, ma già le fiammate mostravano che rispondevano al fuoco. Presi la mira. Nello stesso istante udimmo un secco whoosh-BOOM e ci ritrovammo in una nube di gas oleoso, a tossire mezzo soffocati, boccheggiare, piangere… gli occhi mi bruciavano così intensamente che non riuscivo a pensare ad altro, temevo che il gas me li consumasse. Mentre il vento spazzava verso il mare la nube, ci fu un altro boato e poi un altro; gli schiocchi delle nostre armi furono sopraffatti da lunghe, terribili raffiche di mitragliatrice. A causa delle lacrime che mi bruciavano gli occhi, vidi solo le fiammate biancastre che schizzavano dai fucili giapponesi. Tossii e sputai, in preda alla nausea; alzai la rivoltella per aprire il fuoco (Steve già sparava). Premetti il grilletto, ottenni un click, click, click.
Un faro trafisse l’oscurità, dal sottomarino a un punto a sud di noi, vicino al muro che nascondeva quelli di San Diego. Tutta la zona esplose. Una sparatoria percorse la via alle nostre spalle e un’altra nuvola di gas tossico si alzò sulla spiaggia. I giapponesi e gli sciacalli intrappolati sulla riva si alzarono e marciarono verso di noi in mezzo al gas, muniti d’elmetto e mitragliatrice. Pezzi di muro ci caddero addosso.
«Usciamo di qui!» gridò Steve.
Con un balzo superammo la parete posteriore della latrina e corremmo verso gli alberi in fondo alla spiaggia. Appena fummo sulla via ingombra di rifiuti che costeggiava il lido, ci mettemmo a correre… a spiccare balzi, meglio… sopra mucchi di legno fradicio e di vecchi mattoni, inciampammo, cademmo, ci rialzammo. Il naso mi colava a profusione per colpa del gas; buttai via la rivoltella. In un batter d’occhio l’intera zona fu illuminata a giorno, colpita da un vivido bagliore azzurrino che rendeva le ombre solide come pietre. In cielo, un razzo sputava luce e rivelava il minuscolo paracadute da cui era sorretto. Il congegno si spostò rapidamente verso il mare aperto e illuminò il porto: per un istante, attraverso gli alberi, riuscii a scorgere il sottomarino e gli uomini che azionavano contro di noi un cannoncino.
«Il ponte!» gridava Steve. «Il ponte!»
Glielo lessi sulle labbra, più che udirlo. Era stupefacente quanto fosse rumorosa la sparatoria: avrei voluto lasciarmi cadere a terra e tapparmi le orecchie. Ci arrampicammo sopra macerie, alberi caduti, pezzi di legno lasciati dalle maree più violente; Mando s’impigliò con un piede, lo liberammo a strattoni. I proiettili ci sibilavano intorno, laceravano l’aria, zip, zip; correvo tanto ingobbito da sentire male alla schiena. Un altro bengala si accese, più in alto e più verso l’interno. Si librò sopra di noi come una stella cadente; ci rendeva più facile il percorso, ma ci mostrava a tutti, per cui fummo costretti a strisciare, un palmo alla volta. Dal lato del mare provenivano raffiche di mitragliatrice, dietro di noi risuonavano esplosioni cadenzate; con un lampo accecante e con un boato da rompere i timpani, un edificio in fondo alla strada crollò sulle altre macerie. Il sottomarino. Ci strappammo da un intrico d’assi e riprendemmo a correre, piegati in due. Un altro bengala illuminò il cielo. Ci buttammo a terra e aspettammo che il vento lo trasportasse verso il mare aperto. Sull’altura, un edificio in rovina esplose, poi un terzetto di sequoie fu abbattuto. Il bengala si spense. Inciampammo nelle ombre per un bel pezzo prima che un altro bengala si accendesse; ci stendemmo bocconi in un folto d’eucalipti.
«Chissà» ansimò Gabby «se quelli di San Diego sono riusciti a fuggire.»
Nessuno rispose. Mando reggeva ancora in mano la rivoltella. Eravamo a pochi metri dal ponte; volevo attraversarlo prima che il maledetto sottomarino lo facesse saltare nel fiume. Dana Point risonava ancora per la fucileria, sembrava vi si svolgesse una vera battaglia, ma forse sparavano alle ombre. Pensavo che quelli di San Diego non sarebbero riusciti a scappare come noi. Ci rimettemmo in piedi e zampettammo fra le macerie. Una zaffata del gas venefico. Un altro bengala si accese, ma cadde subito sfrigolando nell’acquitrino. Caddi, mi tagliai la mano, il gomito, il ginocchio. Arrivammo al ponte.
Non c’era nessuno. «Dobbiamo aspettarli!» gridò Steve.
«Attraversiamo» dissi io.
«Non sapranno che siamo qui! Ci aspetteranno…»
«Non ci aspetteranno» intervenne amaramente Gabby. «L’hanno già attraversato, se ne sono andati da un pezzo. Ci hanno detto di aspettare qui per rallentare l’inseguimento.»
A bocca aperta, Steve fissò Gab. Un altro bengala si accese proprio sopra di noi. Mi acquattai contro la ringhiera. Attraverso i montanti di cemento, vidi che parecchi bengala venivano trasportati al largo, formavano una fila sfilacciata che ricadeva più vicino all’acqua, finché quello più lontano illuminò chiazze di mare. L’ultimo veleggiò al largo, sopra il sottomarino.
«Andiamo, prima che ne lancino un altro» disse Gabby, furioso.
Si alzò e corse sul ponte, senza aspettare il nostro parere. Lo seguimmo; ma un altro bengala scoppiò nel cielo, illuminò il ponte nei minimi particolari. Non restava che continuare a correre: e corremmo, perché il sottomarino cominciò a sparare contro di noi. Il parapetto risuonò rumorosamente per i colpi, l’aria si lacerò come stoffa compatta, come il primo brontolio del tuono. Arrivati all’estremità opposta del ponte, ci appiattimmo dietro un tratto di asfalto inclinato. Il sottomarino scaricò una gragnuola di proiettili. Dalle montagne giunse l’ululato di una sirena, basso sulle prime, poi rapidamente più acuto. Sciacalli che suonavano l’allarme. Ma contro chi combattevano? Oscurità, esplosioni remote, ululati di sirena. Il sottomarino smise di sparare. Ero così rintronato da non udire niente. Debole rumore di spari davanti a noi, dentro San Clemente, percepiti più che uditi. Steve mi accostò il viso all’orecchio, disse: «Torniamo per le vie…» e qualcos’altro che non afferrai. La sparatoria a sud significava che quelli di San Diego erano già lì, decisi; li maledissi per averci abbandonati. Scappammo di nuovo, ma certo dal sottomarino ci videro grazie ai binocoli notturni, perché ripresero a sparare. Ci gettammo a terra. Strisciammo e saltammo, corremmo piegati in due tra le macerie sulla strada costiera. Il sottomarino rimase alla foce del fiume a bombardarci. Lasciammo la strada costiera, seguimmo un basso promontorio, passammo in mezzo agli alberi, percorremmo un’altra strada. Fin dentro le rovine di San Clemente, il labirinto di macerie. Mando zoppicava, restava indietro. Pensai che il piede gli facesse male.
«Sbrigati!» gli gridò Steve.
Mando scosse la testa, zoppicò fino a noi. «Non posso» disse. «Mi hanno colpito.»
Lo mettemmo a sedere per terra. Piangeva, con la sinistra si teneva la spalla destra. Gli staccai la mano e sentii il sangue bagnare la mia.
«Perché non ce l’hai detto?» esclamò Steve.
«Ormai è fatta» disse Gabby, brusco, spingendomi via. Mise il braccio intorno a Mando. «Forza, dobbiamo riportarlo a casa il più rapidamente possibile.»
Nel bagliore lontano dell’ultimo bengala, distinti la faccia di Mando. Mi fissava come se avesse qualcosa da dirmi, ma riusciva solo a contrarre le labbra.
«Aiutami a portarlo» disse Gabby, con voce rauca.
Sentivo il sangue inzuppare la schiena della camicia di Mando. Steve gli tolse di mano la pistola e partimmo. Riuscivamo a fare solo qualche passo alla volta, prima che una trave o una parete crollata ci bloccassero.
«Dobbiamo fermare il sangue» osai dire infine. Mi colava dentro la manica e lungo il braccio. Posammo Mando a terra. Ridussi in strisce la mia camicia. Era difficile tamponare il foro del proiettile. Senza volerlo sfiorai con il dito la ferita: una piccola lacerazione sotto la scapola, a destra. Sanguinava meno di prima. Mando mi fissò ancora con un’espressione che non seppi interpretare. Non disse niente. «Ti porteremo a casa in un attimo» lo rincuorai, con voce roca. Mi alzai troppo bruscamente, barcollai, ma Steve ci aiutò a sollevarlo e ripartimmo.
Il centro di San Clemente è un unico mucchio di macerie, senza più traccia di piani urbanistici né tratti sgombri che lo attraversino. Gabby e io portavamo a fatica Mando in mezzo a noi, mentre Steve, rivoltella in mano, andava avanti a cercare la strada migliore. Di tanto in tanto le sirene ululavano al di sopra del vento; più d’una volta fummo costretti a nasconderci per evitare bande vaganti di sciacalli. Colpi d’arma da fuoco echeggiavano nelle via ingombre. Non avevo idea di chi sparasse, né contro chi. Una parete crollò sotto la spinta del vento. Varie volte finimmo in un vicolo cieco. Steve ci gridava istruzioni, ma a volte Gabby e io ci limitavamo a scegliere il percorso meno accidentato e questo provocava altre grida di Steve, acute e disperate. Da dietro giunsero delle voci; Gabby e io posammo a terra Mando, bloccati al centro della via. Tre sciacalli si avvicinarono, pistola in pugno. Steve accorse e sparò, crack crack crack crack! Tutt’e tre gli sciacalli caddero. «Avanti» ci gridò. Sollevammo Mando e proseguimmo barcollando. I vicoli ciechi ci costrinsero a tornare sui nostri passi; perdemmo un bel po’ di tempo a ritrovare la strada; alla fine raggiungemmo Steve fermo nella via… case crollate da tutte le parti, vento e sparatoria al di là, nessun mezzo per avanzare… eravamo bloccati in un gigantesco ossario.
«Non so dove siamo» esclamò Steve. «Non trovo più la strada.»
Gli dissi di prendere il mio posto, gli presi la rivoltella e attraversai di corsa la via. Attraverso gli alberi vidi l’oceano, l’unica indicazione veramente utile.
«Da questa parte!» gridai.
Scavalcai una trave, la trascinai da parte per facilitarli, corsi avanti, mi orizzontai di nuovo con il mare, scelsi una via, cercai per quanto possibile di sgomberarla per loro. E continuò così per un tempo incalcolabile: mi pareva che San Clemente si estendesse fino ai monti Pendleton. E gli sciacalli in cerca di preda, pronti ad azionare sirene e pistole, schiamazzando per l’eccitazione della caccia. Più d’una volta ci bloccarono; non osavo sparare, perché non sapevo quanti fossero, né quanti proiettili rimanessero nella rivoltella di Steve, se ce n’erano ancora.
Mentre ce ne stavamo rincantucciati nel buio di un nascondiglio, cercai di alleviare le sofferenze di Mando. Aveva il respiro soffocato. «Mando, come ti senti?» Nessuna risposta. Steve imprecava in continuazione. Con un cenno a Gabby, sollevammo di nuovo Mando. Lasciai che fosse Steve a portarlo e andai di nuovo in avanscoperta. Gli sciacalli erano spariti, alla vista almeno; non volevo altro. Mi rimisi a cercare una strada.
Bene o male arrivammo alla periferia sud di San Clemente e giù nella foresta sotto l’autostrada. Sciacalli scorrazzavano sul nastro d’asfalto. Sentivo le loro urla; di tanto in tanto scorsi delle sagome. L’autostrada era l’unico modo di superare il fiume San Mateo. Eravamo in trappola. Le sirene ci sfottevano, i colpi di pistola indicavano forse una scaramuccia con quelli di San Diego, ma sospettavo che Gabby avesse ragione, che si fossero allontanati da un pezzo, sulle barche, di nascosto. Non sarebbero tornati ad aiutarci. Gabby teneva Mando in grembo, per farlo riposare. Il respiro di Mando gorgogliava. «Dobbiamo portarlo a casa» disse Gabby, guardandomi.
Presi di tasca i proiettili, cercai di caricare la rivoltella di Steve.
«Dov’è la tua?» disse lui.
I proiettili non andavano bene. Con una bestemmia buttai il sacchetto sulla strada. Per terra, dove sedevamo, c’era un sasso che mi si adattava bene alla mano. Lo raccolsi e mi diressi all’autostrada. Non so cosa avessi in mente.
«Portatelo accanto alla strada e tenetevi pronti ad attraversare in fretta il San Mateo» dissi. «Appena ve lo dico, passate.»
Ma una serie di esplosioni sconvolse l’autostrada sopra di noi; e quando terminò (il vento portò l’odore di polvere da sparo bruciata) non ci furono altri rumori. Non si udiva nemmeno uno sciacallo. Il silenzio fu rotto dal rombo di un veicolo in arrivo da sud. Un vrrr sommesso. Strisciai sul terrapieno per dare un’occhiata. Saltai allo scoperto e agitai la mano. «Rafael! Rafael! Qui, presto!» gridai, forte come mai in vita mia.
Rafael si fermò accanto a me. «Cristo, Hank, a momenti ti sparavo!» disse. Era sul carrello da golf che teneva nel cortile davanti alla casa, il carrello che avrebbe fatto funzionare se solo avesse trovato le batterie, giurava lui.
«Lascia perdere» risposi. «Mando è ferito. L’hanno colpito.»
Comparvero Gabby e Steve, portando Mando.
Rafael risucchiò aria fra i denti. «Mettetelo giù.»
Spari sparsi risuonarono dall’autostrada, un proiettile scheggiò il cemento accanto a noi. Rafael prese dal carrello un tubo metallico sorretto da montanti, inclinato rispetto alla base piatta. Lo sistemò sulla strada, vi lasciò cadere dentro una bomba o una granata grossa quanto un pugno (sembrava una castagnola). Thonk, disse il tubo, con voce sorda. L’attimo dopo ci fu un’esplosione a qualche metro dall’autostrada, all’incirca nel punto dal quale erano giunti gli spari. Mentre Gabby e Steve sistemavano Mando nel carrello, Rafael continuò a lanciare granate, thonk-BOOM, thonk-BOOM, e ben presto più nessuno ci sparò addosso. Dopo un’ultima triplice esplosione, saltammo nel carrello e partimmo.
«In salita, scendete a spingere» disse Rafael. «Questa baracca non ce la fa a portarci tutti. Steve, prendi questo e controlla che non ci seguano.» Gli porse una carabina.
«Proiettili?» chiese Steve.
Rafael indicò per terra, vicino ai suoi piedi. «Nella scatola.»
All’estrema periferia di San Clemente cominciava la montagna. Spingemmo il carrello a bassa velocità. Sirene gemevano in lontananza fra le alture; ne distinsi tre diverse, il cui suono ondeggiava a diverso livello, sotto la spinta del vento. Superammo l’altura, entrammo nella valle San Mateo. Cullai la testa di Mando, gli dissi che eravamo vicini a casa. Alle nostre spalle ci furono deboli rumori, ma ora ci muovevamo a velocità maggiore di un uomo in corsa. Arrivammo alla salita che porta al monte Basilone.
Rafael disse: «Spingete di nuovo.» Era calmo, ma quando mi guardò, aveva negli occhi una luce dura. In cima al Basilone, Steve gridò selvaggiamente: «Torno indietro a fargliela pagare!» e sparì nel buio, carabina in pugno, diretto all’autostrada a nord.
«Aspetta!» gli gridai dietro, ma Rafael mi afferrò il braccio.
«Lascia che vada» disse.
Per la prima volta pareva arrabbiato. Guidò il carrello a casa sua, balzò giù, entrò in casa, ne uscì portando una barella. Vi stendemmo Mando. Aveva sempre gli occhi aperti, ma non mi udiva. Un filo di sangue gli colava dall’angolo della bocca. Gabby ci seguì, risentito, mentre io e Rafael reggevamo la barella. Tagliammo per la foresta, traversammo il fianco del Cuchillo per arrivare prima a casa dei Costa. Inciampai, mandai un gemito; Gabby prese il mio posto, quando capì che non vedevo più dove mettevo i piedi. Arrivammo alla casa dei Costa, ma non riuscivo a smettere di piangere. Il vento fischiava sopra i bidoni: nessuno ci aveva sentiti arrivare. Rafael puntellò la barella contro la coscia e picchiò alla porta come se volesse sfondarla. Wham. Wham.
«Vieni fuori, Ernest» gridò, senza smettere di bussare. «Vieni fuori a curare tuo figlio.»
Varie volte, in precedenza, Doc aveva certo immaginato il momento in cui avrebbero bussato alla sua porta e sarebbe stato suo figlio, ferito, ad avere bisogno delle sue cure. Quando aprì, non disse una parola; uscì, sollevò Mando dalla barella, attraversò la cucina, lo portò nell’ospedale, senza rivolgerci un’occhiata né una domanda.
Lo seguimmo. Doc distese Mando sul secondo letto, quello più piccolo; lo scostò dalla parete. Al rumore, Tom sbuffò e si girò dalla nostra parte. Socchiuse un occhio, ci vide, si alzò a sedere, si strofinò con le nocche gli occhi, esaminò la scena in silenzio. Doc adoperò le forbici per tagliare la giacca e la camicia di Mando, con un gesto indicò a Gabby di togliere i calzoni al ragazzo. Gabby socchiuse gli occhi, mentre aiutava Doc a staccare la stoffa insanguinata della camicia. Mando tossì, gorgogliò, respirò in fretta, con un rumore basso. Sotto le forti lampade che Rafael portò dalla cucina, il suo corpo sembrava livido e chiazzato. Più giù dell’ascella aveva quel piccolo foro circondato dalla lacerazione. Rafael quasi inciampò in me, andando dentro e fuori. Mi sedetti sui talloni contro la parete, ginocchia sotto le ascelle, braccia intorno alle gambe, dondolando avanti e indietro, leccandomi il moccio dalle labbra, evitando di guardare dalla parte di Tom. Doc non guardava nessuno, tranne Mando.
«Chiamate Kathryn» disse.
Gabby mi lanciò un’occhiata, corse fuori.
Tom disse: «Come sta?»
Doc palpò con cautela le costole di Mando, gli batté sul torace, gli misurò le pulsazioni al polso e al collo. Borbottò, più a se stesso che a Tom: «Calibro medio, polmone intaccato. Pneumotorace… emotorace…»
Sembrava una formula magica. Con uno straccio bagnato pulì il sangue dalle costole. Mando tossì, Doc gli sistemò meglio la testa, gli infilò le dita in bocca, gli tirò di lato la lingua. Un affare di plastica, preso dallo scaffale degli strumenti, servì a tenere ferma la lingua. Un morsetto di plastica, di lato, teneva spalancata la bocca… la spina dorsale mi sfregò su e giù contro il bidone a cui mi appoggiavo. Il vento aumentò: uiiiiiii, uiiiiiiii.
«Dov’è Steve?» mi domandò Tom.
Non alzai lo sguardo da terra. Dalla cucina, rispose Rafael.
«È rimasto su a nord a sparare un paio di caricatori contro gli sciacalli.»
Tom si agitò contro la parete, tossì.
«Smettila di muoverti» disse Doc.
Un ramo portato dal vento urtò la casa, con rumore secco. Il respiro di Mando era rapido, rauco, basso. Doc gli piegò la faccia di lato, gli asciugò dalle labbra un filo di sangue rosso vivo. Sotto di me, il pavimento, la grana liscia delle assi del pavimento. Nodi sollevati sulla superficie consumata, fessure, schegge lucide e nette alla luce delle lampade, sabbia da sfregatura negli angoli, contro le pareti. Il piede del letto più vicino aveva una zeppa. Le lenzuola erano così vecchie che ogni filo del tessuto risaltava; lavoro d’ago, nelle toppe. Fissai il pavimento, non sollevai lo sguardo. Respirare mi faceva male, avrei potuto essere io il ferito. Ma non ero io. Non ero io. Le gambe di Kathryn entrarono nella stanza, piegarono un poco le assi. Le gambe di Gabby seguirono.
«Mi serve aiuto» disse Doc.
«Eccomi» rispose Kathryn, calma.
«Dobbiamo infilare un tubicino fra queste costole e drenare il sangue e l’aria dalla cavità toracica. Prendi in cucina un barattolo pulito, mettici quattro dita d’acqua.» Kathryn uscì, tornò. I loro piedi erano gli uni di fronte agli altri, sotto il letto di Mando. «Temo che l’aria entri e non esca. Tensione pneumotoracica. Qui, posa il tubicino e il cerotto. Tienilo fermo. Inciderò qui.»
Mi tappai le orecchie. Niente suoni. Niente immagini, a parte argentee assi di legno. Niente di reale, tranne legno… Ma no. Colpi di tosse soffocati, dal vecchio. Una rapida occhiata in alto: la schiena di Kathryn, in maglietta e calzoni sorretti da uno spago; il vecchio, che li fissava senza battere ciglio. Per terra il barattolo, con il tubicino di plastica chiara infilato nell’acqua. All’improvviso l’acqua gorgogliò. Del sangue colò lungo il tubicino, macchiò l’acqua. Altre bolle. Lo sguardo inflessibile del vecchio: mi avvolsi le braccia intorno allo stomaco, alzai lo sguardo. L’ampia schiena di Kathryn m’impediva di vedere Mando. Fui scosso da brividi. Spalle ampie, natiche larghe, cosce spesse, caviglie sottili. Gomiti affaccendati, mentre Kathryn strappava dal rotolo un pezzo di cerotto e lo applicava a Mando dove non vedevo.
Kathryn girò la testa, mi diede un’occhiata. «Dov’è Steve?»
«Su a nord.»
Con una smorfia si girò a lavorare.
Tom tossì di nuovo, piano, ma diverse volte. Doc lo guardò. «Stai disteso, tu!» disse, brusco.
«Sto bene, Ernest. Non pensare a me.»
Doc aveva già ripreso. Si chinò sopra Mando, con una luce disperata negli occhi, come se l’arte insegnatagli da suo padre tanto tempo prima stavolta non bastasse. «Serve ossigeno» disse. Batté qualche colpetto sul torace di Mando. Il suono era sordo. Il respiro di Mando divenne più rapido. «Devo fermare l’emorragia» disse Doc. Le raffiche di vento aumentarono al punto da non permettermi di udire le voci a causa dei sibili. «Usiamo la ferita per inserire un altro tubicino…»
Tom chiese a Gabby cos’era accaduto; Gab glielo spiegò in un paio di frasi. Tom non fece commenti. Il vento cadde di nuovo, udii ora il rumore delle forbici. Doc si asciugò fa fronte madida.
«Ferma così. Bene, metti l’altro capo nel barattolo, dammi subito il cerotto.»
«Cerotto.»
Qualcosa, nel modo in cui Kathryn lo disse, indusse Doc a trasalire e a rivolgere a Tom un sorriso amaro. Tom restituì il sorriso, ma poi distolse lo sguardo, con occhi pieni di lacrime. Sentii sulla spalla una mano; alzai gli occhi, guardai Rafael.
«Henry, vieni in cucina con Gabby. Non puoi fare niente, qui.»
Scossi la testa.
«Vieni, Henry.»
Con una scrollata di spalle gli scostai la mano, nascosi il viso nell’incavo del braccio. Uscito Rafael, sollevai di nuovo lo sguardo. Tom si mordicchiava una ciocca e guardava intensamente i tre. Kathryn posò l’orecchio sul petto di Mando. «Il cuore batte pianissimo.»
Mando sobbalzò. Aveva i piedi lividi.
«E le vene» disse Doc, con voce secca come il vento. «Tamponare, ohhh…» Si ritrasse, le mani strette a pugno, ai lati del collo. «Non posso farci niente. Non ho gli aghi.»
Mando smise di respirare.
«No» disse Doc. Con l’aiuto di Kathryn spostò Mando, sulla schiena anziché di fianco. «Reggi i tubi.» Premette bocca e mani sulla bocca di Mando. Soffiò dentro, tenendogli tappate le narici; si raddrizzò, gli premette con forza il torace. Il corpo di Mando si contrasse in uno spasimo.
«Henry, tienilo per le gambe» disse Kathryn, brusca.
Mi alzai rigidamente, afferrai Mando per gli stinchi, li sentii torcersi, lottare, tendersi. Rilasciarsi. Doc gli soffiò in bocca, gli soffiò in bocca, gli premette il torace, finché le pressioni divennero quasi colpi violenti. Nei tubicini colò sangue. Doc smise. Guardammo Mando: occhi chiusi, bocca aperta. Niente respiro. Kathryn gli resse il polso, cercò la pulsazione. Gabby e Rafael erano sulla soglia. Alla fine Kathryn allungò la mano sopra Mando, strinse il braccio di Doc; eravamo rimasti lì in piedi per un tempo lunghissimo. Doc posò i gomiti sul letto, abbassò l’orecchio sul petto di Mando. La testa rotolò finché la fronte posò su Mando.
«È morto» mormorò Doc.
Stringevo ancora i polpacci di Mando, quegli stessi muscoli che si erano appena contorti. Lasciai la presa, atterrito di toccarlo. Ma era Mando, era Armando Costa. Il viso cereo sembrava il viso tormentato di un fratello malato di Mando, non il viso del ragazzo che conoscevo. Ma era lui.
Dalla credenza contro la parete Kathryn prese un lenzuolo e lo distese su di lui, dopo avere scostato con gentilezza Doc. Era sudata, macchiata di sangue. Coprì il viso di Mando. Ricordai l’espressione che aveva avuto, quando lo portavo per San Clemente: perfino quella era preferibile, adesso. Kathryn girò intorno al letto, spinse Doc alla porta.
«Seppelliamolo» disse Doc, assorto. «Facciamolo subito, andiamo.» Kathryn e Rafael cercarono di calmarlo, ma lui insistette. «Voglio farla finita. Prendete la barella e portiamolo al cimitero. Voglio farla finita.»
Tom tossì forte. «Per favore, Ernest. Aspetta almeno fino a domani, amico mio. Devi aspettare la luce. Devi far venire Carmen, e scavare la fossa…»
«Possiamo farlo stanotte!» protestò Doc, petulante. «Voglio farla finita.»
«Possiamo, certo. Ma è tardi. Quando avremo terminato, sarà giorno. Allora lo porteremo lassù, lo seppelliremo davanti alla gente. Aspetta il giorno, per favore.»
Doc si strofinò il viso. «E va bene. Andiamo a scavare la fossa.»
Rafael lo trattenne. «Ci pensiamo Gabby e io» disse. «Resta qui.»
«Voglio farlo. Devo farlo, Rafe.»
Rafael guardò Tom. Poi disse: «D’accordo. Vieni con noi, allora.»
Lui e Gabby fecero indossare a Doc giacca e scarpe, lo seguirono fuori. Mi offrii di andare anch’io, ma videro che non sarei stato di alcuna utilità e mi dissero di restare. Dalla porta di casa li guardai scendere il sentiero fino al fiume. Nel chiarore che precede l’alba, Gabby e Rafael camminavano ai lati di Doc, lo sorreggevano. Tre piccole sagome sotto gli alberi. Quando scomparvero alla vista, mi girai. Kathryn, seduta al tavolo della cucina, piangeva. Andai a sedermi nell’orto.
Il vento calava un po’ d’intensità, con lo spuntare del giorno. Colpiva con violenza solo a tratti. La luce aumentava: distinguevo l’ondeggiare di rami grigiastri. Sotto il cielo pallido le distanze parevano tutte uguali. Le foglie tremolavano e pendevano immobili, tremolavano di nuovo, in ondate che s’ingrossavano lungo la cima degli alberi verso il mare. La volta del cielo divenne più chiara e più lontana, più chiara e più lontana. I grigi presero colore, i colori filtrarono nei grigi e poi il sole, verde foglia e abbagliante, incrinò l’orizzonte. Il vento soffiò una raffica.
Sedevo per terra. Ginocchio, gomito e mani mi pulsavano, dove mi ero tagliato cadendo. Impossibile che Mando fosse morto: questo pensiero mi rassicurò per lunghi tratti. Poi le mie mani sentirono di nuovo i suoi polpacci diventare inerti. Oppure udii dentro casa Kathryn rassettare… e capii che, impossibile o no, era la realtà. Ma non era un pensiero che potessi comprendere a lungo.
Il sole si era alzato più di una spanna sulle montagne, quando Doc e Gabby tornarono su per il sentiero, seguiti da Marvin e Nat Eggloff. Rafael aveva disceso il sentiero del fiume, bussava alle casa, svegliava la gente. Gabby barcollò visibilmente per l’ultimo tratto. Aveva gli occhi cerchiati di rosso, era sporco di terriccio, come Doc e Nat. Doc sollevò lo sguardo sulla casa, si fermò, attese. Marvin mi rivolse un cenno. Entrarono. Li udii parlare con Kathryn. Poi Kathryn cominciò a strillare contro il vecchio. «Sta’ giù! Non fare lo stupido! Ci basta già una sepoltura, per oggi!» Tom doveva dare dentro casa l’addio a Mando. Uscirono. Mando, avvolto nel lenzuolo, sulla barella di Rafael. Mi alzai, barcollando. Prendemmo tutti la barella, tre per parte. Lo portammo giù al fiume, oltre il ponte. Sole brutale riflesso sull’acqua. Prendemmo il sentiero del fiume, fra gli alberi. La gente avvisata da Rafael si unì a noi, una famiglia dopo l’altra, con aria sconvolta, o addolorata, o assente. Una volta, guardando indietro, vidi John Nicolin in testa al resto della famiglia tranne Marie e i bambini piccoli; aveva il viso gonfio per il dispiacere. Mio padre mi venne a fianco e mi circondò le spalle. Quando mi vide in faccia, aumentò la stretta. Per una volta non mi parve svanito di mente. Oh, aveva ancora lo sguardo vago di chi non capisce del tutto. Ma capiva. Non occorre essere intelligenti per capire il dolore. Oltre alla comprensione, nei suoi occhi c’era un leggero rimprovero. Non riuscivo a guardarlo in faccia.
Nella strettoia della valle eravamo all’ombra. Carmen ci venne incontro sulla porta di casa e ci guidò al cimitero. Indossava la tonaca delle prediche e reggeva la Bibbia. Nel cimitero c’era una fossa nuova: da un lato, una montagnola di terra fresca; dall’altro, la tomba della madre di Mando, Elizabeth. Posammo lì la barella. La gente che ci seguiva formò un cerchio. Quasi tutti gli abitanti della valle erano presenti. Nat e Rafael misero il corpo di Mando e il lenzuolo in una bara grande il doppio. Nat tenne fermo il coperchio, mentre Rafael lo inchiodava. Bam, bam, bam, bam. Raggi di sole filtravano tra i rami. Doc guardò con aria desolata i chiodi penetrare nel legno. Sua moglie e Mando erano morti giovanissimi, insieme non arrivavano alla metà dei suoi anni.
Inchiodato il coperchio, John avanzò di un passo e aiutò a sistemare le funi sotto la bara. Lui, Rafael, Nat e mio padre presero le funi e tennero sollevata sopra la fossa la bara. La calarono seguendo le brevi istruzioni sottovoce di John. Sistemata la bara, ritirarono le funi. John le raccolse e le diede a Nat: stringeva le mascelle con tanta forza da sembrare che avesse sassi in bocca.
Carmen avanzò fino all’orlo della fossa. Lesse un brano della Bibbia. Guardai un raggio di sole filtrare di storto fra gli alberi. Carmen ci disse di pregare e nella preghiera disse qualcosa a proposito di Mando, della sua bontà. Aprii gli occhi: Gabby mi fissava, dall’altra parte della fossa, accusatore, atterrito. Richiusi gli occhi, stringendo forte.
«Nelle Tue mani affidiamo la sua anima» disse Carmen. Prese una zolla di terra, la tenne sopra la fossa; nell’altra mano aveva una minuscola croce d’argento. Lasciò cadere nella fossa l’una e l’altra. Rafael e John spalarono la terra umida; le zolle caddero con un rumore sordo. Mando era ancora là sotto, quasi gridai che la smettessero, che lo tirassero fuori. Poi pensai che potevo esserci io, in quella fossa, e fui sconvolto dal terrore. Invece di Mando, il proiettile poteva colpire me, uccidere me. Fu il pensiero più terrificante della mia vita. Gabby s’inginocchiò accanto a Rafael, con le mani spinse giù la terra. Doc si girò dall’altra parte. Kathryn e la signora Nicolin lo condussero verso la casa degli Eggloff. Ma io rimasi lì a guardare; e mi riempie di vergogna scriverlo, ma cominciai a sentirmi felice. Felice di non esserci io, là sotto. Ero così felice di essere vivo, di essere lì a guardare, che ringraziai Iddio perché non era toccato a me! Grazie, Signore, che sia morto Mando e non io! Grazie, Signore. Grazie, Signore!
A volte, dopo un funerale, dagli Eggloff si tiene una sorta di veglia, ma non quel mattino. Quel mattino ciascuno tornò a casa. Pa’ mi condusse giù per il sentiero del fiume. Ero così stanco da inciampare dappertutto. Senza Pa’, sarei caduto più d’una volta.
«Cos’è successo?» mi chiese, di nuovo con espressione di rimprovero. «Perché siete andati lassù?»
C’erano altri, lungo il sentiero: scuotevano la testa, parlavano, guardavano dalla nostra parte.
Arrivati a casa, cercai di spiegare a Pa’ che cos’era accaduto, ma non potevo. L’espressione dei suoi occhi mi bloccava. Mi distesi sul letto e m’addormentai. Vorrei dire che dormii come un morto, ma non è così. Non è mai così.
Il sonno non ricuce la manica sfilacciata dell’affanno, checché abbia detto Macbeth (forse augurandoselo). Sbagliava quella volta, come spesso. Il sonno è solo un periodo di stasi. Si possono fare, nei sogni, tutte le ricuciture che si vogliono; ma quando si richiama il tempo, in un istante esso si dipana; e ci si ritrova al punto di partenza. Né sonno né sogni avrebbero ricucito per me quell’ultimo giorno: era dipanato per sempre. Passato.
Tuttavia dormii l’intera giornata e la sera; e quando la voce di Pa’, o il rumore della macchina per cucire, o un latrato di cani, mi strappava in parte al sonno, capivo di non volermi risvegliare anche se non ricordavo perché e riprendevo a dormire finché non tornavo a scivolare nel pendio dei sogni. Dormii anche per gran parte della serata, lottando sempre più faticosamente, con il passar delle ore, per rimanere addormentato.
Ma non si può dormire per sempre. Il rumore che spezzò il mio ultimo appiglio al sonno tormentato fu il u-uuuu, u-uuuu del gufo di canyon… il segnale di Steve, ripetuto con insistenza. Steve era lì fuori, senz’altro sotto l’eucalipto, e mi chiamava. Mi alzai a sedere, guardai fuori della porta; lo scorsi, un’ombra contro il tronco. Pa’ cuciva. Mi misi le scarpe. «Esco» dissi. Pa’ mi guardò, mi ferì di nuovo con quello sguardo perplesso di rimprovero, quel lieve accenno di condanna. Indossavo ancora i vestiti strappati della notte precedente. Puzzavano di paura. Ero affamato. Nell’uscire mi fermai un attimo a prendere mezza pagnotta. Mi avvicinai a Steve masticando un grosso boccone. Restammo insieme in silenzio sotto l’albero. Lui aveva in spalla una sacca piena.
Finito il pane, dissi: «Dove sei stato?»
«A Clemente, fino al tardo pomeriggio. Dio, che giornata! Ho trovato gli sciacalli che ci avevano inseguito. Cambiavo nascondiglio e sparavo, finché non hanno capito chi dava la caccia a loro! Ne ho anche colpiti alcuni… pensavano di essere assaliti da un’intera banda. Poi sono tornato a Dana Point, ma a quell’ora erano tutti andati via. Così…»
«Mando è morto.»
«… Lo so.»
«Chi te l’ha detto?»
«Mia sorella. Sono entrato di nascosto a prendere un po’ della mia roba; mi ha sorpreso proprio mentre me ne andavo. Mi ha detto tutto.»
Restammo lì a lungo. Steve inspirò a fondo, lasciò uscire l’aria. «Così, penso di dovermene andare.»
«Come sarebbe a dire?»
«… Vieni a darmi una mano.» Gli occhi mi si erano adattati al buio; con il suono esausto della sua voce, all’improvviso riuscii a vedergli il viso, sporco di terra, graffiato, disperato. «Per favore.»
«Come?»
Si avviò verso il fiume.
Andammo dai Mariani, ci fermammo accanto ai forni. Steve emise il richiamo del gufo. Aspettammo a lungo. Steve tamburellò con il pugno sulla parete del forno. Perfino io, che non c’entravo niente, mi sentivo nervoso. Il nervosismo mi portò a ricordare quanto era accaduto la notte precedente.
La porta si aprì, Kathryn scivolò fuori, con gli stessi calzoni che indossava la notte prima, ma con una camicetta diversa. Le unghie di Steve graffiarono i mattoni. Kathryn capì dov’era e venne dritta verso di noi.
«Ah, sei tornato» disse. Lo fissò, tenendo la testa inclinata da un lato.
Steve scosse il capo. «Solo per dirti addio.» Si schiarì la voce. «Ho… ho ucciso alcuni sciacalli, lassù. Vorranno vendicarsi. Se al raduno direte che me ne sono andato, che era solo colpa mia, forse non ci saranno conseguenze.»
Kathryn lo fissò.
«Non posso restare, dopo quel che è accaduto» disse Steve.
«Potresti.»
«No.»
Dal modo in cui lo disse, capii che stava per andarsene davvero. Anche Kathryn lo capì. Piegò le braccia sul petto, si strinse come se avesse freddo. Guardò dalla mia parte. Abbassai gli occhi.
«Lasciaci parlare un momento, Henry.»
Risposi con un cenno, gironzolai fino al fiume. L’acqua ticchettava sopra sporgenze simili a vetro nero. Mi domandai che cosa Steve le dicesse, che cosa Kathryn gli dicesse. Avrebbe provato a fargli cambiare idea, pur sapendo che lui non l’avrebbe cambiata?
Ero lieto di non sapere. Faceva male pensarci. Rividi la faccia di Doc, mentre guardava suo figlio «la parte ancora viva di sua moglie» calato nella fossa accanto a lei. Incapace di fermarmi, pensai: “Cosa succede se il vecchio muore stanotte, proprio lì in casa di Doc? E Doc, allora?… E Tom?”
Mi sedetti, mi strinsi tra le mani la testa, ma non riuscii a smettere di pensare. A volte sarebbe una grande benedizione, spegnere i pensieri. Mi alzai, tirai sassi in acqua. Tornai a sedermi, quando i sassi affondarono: avrei voluto poter gettare via con la stessa facilità i pensieri o gli avvenimenti del passato.
Comparve Steve. Si fermò a guardare il fiume. Mi alzai.
«Andiamo» disse lui, con voce rauca. Discese il sentiero del fiume verso il mare, tagliò per la foresta. Non scambiammo parola, camminammo solo insieme, fianco a fianco; in un breve istante ricordai com’era stato per tanto tempo, per tutta la nostra vita, quando camminavamo in silenzio di notte nei boschi, come fratelli. Passato.
Steve discese senza guardare il sentiero della scogliera, passando da un gradino all’altro con abilità e noncuranza. C’era uno spicchio di luna, quasi sull’acqua. Io discesi con maggior prudenza la scogliera buia. Spezzammo la crosta di sabbia, lasciando grandi impronte.
Un paio di barche da pesca aveva nella chiglia l’alveolo in cui inserire un piccolo albero per spiegare una vela. Steve si accostò a una di queste barche. Senza una parola l’afferrammo da prua e da poppa e la spingemmo a zigzag sulla sabbia. In genere quattro o cinque uomini spingono in acqua un’imbarcazione, ma solo per comodità: Steve e io riuscivamo a smuoverla assai facilmente. Raggiunta l’acqua bassa al di là della secca, ci fermammo. Steve salì a bordo per fissare l’albero e io tenni ferma sulla sabbia del fondo la chiglia della barca.
Dissi: «Vai a Catalina, come quel tale che ha scritto il libro.»
«Giusto.»
«Sai che il libro è solo un mucchio di fandonie.»
Non smise di svolgere la vela. «Non me ne importa. Se il libro è una menzogna, lo farò diventare verità.»
«Non è il tipo di menzogna che puoi far avverare.»
«Come lo sai?»
Non lo sapevo, ma non potevo ammetterlo. Sistemato l’albero nella scassa, Steve lo fissò con la coppiglia. Non volevo chiedergli di brutto di restare. «Pensavo che avresti dedicato la vita a combattere per l’America.»
Interruppe il lavoro. «Non credere che non lo faccia» disse con amarezza. «Hai visto cos’è successo, quando abbiamo provato a combattere qui. È impossibile. Ma a Catalina si può fare qualcosa. Scommetto che là c’è un mucchio di americani che condivide la mia idea.»
Era chiaro che per ogni obiezione avrebbe avuto pronta una risposta. Passai a poppa, pronto a spingere.
«Sono sicuro che laggiù la resistenza è più valida che altrove» disse. «Più efficace. Non credi? Voglio dire… Non vieni con me?»
«No.»
«Ma dovresti venire. Te ne pentirai. Questa è una piccola valle fuori del mondo.» Mosse la mano verso occidente. «E laggiù c’è il mondo, Henry!»
«No.» Mi chinai sulla poppa. «Deciditi! Vuoi aiuto con la barca o no?»
Mise il broncio, scrollò le spalle. Da come poi le lasciò ricadere, vidi quanto fosse stanco. Ed era una lunga traversata. Ma non sarei andato con lui, né intendevo spiegargli i miei motivi. Comunque, non si aspettava che dicessi di sì, giusto?
Si scosse, scese a spingere. In breve la barca fu a galla. Da sopra, ci guardammo. Mi tese la mano. Gliela strinsi. Non sapevo cosa dire. Steve balzò a bordo, tirò fuori i remi mentre da poppa tenevo ferma la barca. Quando la spinsi nella corrente, cominciò a remare. Con la falce di luna alle sue spalle, non riuscivo a distinguere la sua espressione. Non ci scambiammo parola. Superò a forza di remi un’ondata che risaliva il fiume. Presto sarebbe stato al largo, dove gli ultimi refoli del Santa Ana avrebbero superato la scogliera e gonfiato la vela.
«Buona fortuna!» gridai.
Continuò a remare.
L’onda successiva nascose per un momento la barca. Uscii infreddolito dal fiume. Sulla riva, guardai Steve superare la foce. La vela, debole chiazza contro il nero, sbatté e si gonfiò. Ben presto Steve fu al di là dei frangenti. Da lì non mi avrebbe udito, a meno che non avessi urlato.
«Fai qualcosa di buono per noi, laggiù» dissi. Ma parlavo a me stesso.
Risalii il sentiero della scogliera, gocciolando acqua dai calzoni. Arrivato in cima, mi ero già scaldato un poco. Camminai lungo la scogliera. Era un’altra notte serena; la luna calante splendeva sull’acqua, segnava la distanza dell’orizzonte. Era una notte di quelle che ti fanno capire quant’è vasto il mondo: l’oceano, il cielo stellato, la scogliera, la valle, le montagne più all’interno, tutto era così gigantesco che al confronto sarei potuto essere una formica. Là fuori, sotto un pallido fazzoletto di stoffa, c’era un’altra formica, in una barca da formiche.
La vedevo all’orizzonte: mare scuro sotto, cielo scuro sopra e, fra i due, la massa scura di Catalina, ingemmata da bianchi puntini luminosi, fissi e mobili, da luci rosse che segnavano le cime più alte, da poche luci gialle e verdi qua e là. Sembrava una costellazione vivida, la costellazione più bella, sempre sul punto di tramontare. Per anni l’avevo considerata lo spettacolo più bello che avessi mai visto. C’era un grappolo di luci sull’acqua all’estremità meridionale, invisibile dalla scogliera… il porto degli stranieri… ma visibilissimo dall’alto, dalla casa di Tom, in una notte serena come quella. Non avevo alcuna voglia di salire fin lassù per guardare. La chiazza confusa della vela di Steve si mosse fuori dello stretto raggio di luna e scomparve. Steve era una delle ombre fra gli scarsi scintillii del mare buio; ma, pur aguzzando la vista, non riuscivo a distinguerla. Per quel che ne sapevo, l’oceano poteva anche averlo inghiottito. Ma no, la piccola barca era ancora là fuori, chissà dove, e navigava a ovest verso Avalon.
Rimasi parecchio tempo sulla scogliera a fissare l’oceano. Poi non riuscii più a sopportarlo e mi allontanai nella foresta. Le foglie stormivano, gli aghi di pino tremolavano. Mai, come in quel momento, la valle m’era parsa così grande e così vuota. In una radura mi girai a guardare; le luci di Catalina ammiccavano e danzavano. Voltai loro le spalle e continuai. Non mi fregava un accidente, anche se non avessi più visto Catalina.
Di notte, la foresta è un luogo bizzarro. Gli alberi diventano più grandi e sembrano tornare alla vita, come se per tutto la giornata avessero dormito o abbandonato il proprio corpo; e solo di notte si animano e vivono, forse ritirano le radici e camminano per la valle. Se ti trovi nella foresta, a volte quasi li sorprendi, proprio con la coda dell’occhio. Naturalmente, in una notte senza luna, basta un leggero venticello a dare quest’impressione. I rami si piegano ad accarezzare i capelli, gli sgocciolii delle foglie sembrano voci fioche che chiamino in lontananza. Due buchi diventano occhi; una freccia incisa sul tronco è una bocca sorridente; i rami sono braccia; le foglie, mani. Facile. Penso ancora che forse siano davvero una specie d’animale notturno. Sono vivi, in fin dei conti. Tendiamo a scordarcene. In primavera germogliano gioiosamente; in estate, si crogiolano al sole; in inverno, soffrono la nudità e il freddo. Proprio come noi. Quindi, se si vuole avere a che fare con gli alberi, la notte è il momento giusto per starci in mezzo.
I diversi alberi si svegliano in maniere diverse e ti trattano in modi diversi. Gli eucalipti sono amichevoli e chiacchieroni. I loro rami tendono a crescere gli uni di traverso agli altri e nel vento scricchiolano in continuazione. E le foglie pendenti si agitano e si urtano, con un rumore d’acqua cadente, una voce che si alza e si abbassa, che accarezza come un abbraccio o un lieve tocco sulla fronte. L’eucalipto ha una grande voce. Ma non viene voglia di toccarlo o di abbracciarlo, a meno di vederlo con chiarezza per evitare la resina. La corteccia liscia e fresca, che emana come il resto dell’albero il tipico aroma acuto e vago, non cresce con la stessa velocità del legno interno, almeno immagino, e presenta quindi un mucchio di screpolature e ferite che la lacerano completamente. Le screpolature trasudano resina con la facilità con cui i cani sbavano, e nel buio non si può evitare di toccarle con le mani o con le braccia, che poi restano tutte appiccicose.
I pini sono conversatori più arcigni. Nella brezza, il loro calmo uuuuuu ha del soprannaturale e, sotto un forte vento, il loro frenetico ohhhhhhh fa rizzare i capelli in testa. Ma i pini sono piacevoli al tocco e non ci si stanca mai d’ammirare il loro profilo scuro contro il cielo. I pini di Torrey hanno aghi più lunghi di tutti e rametti piccoli, arricciati, che si dipartono a spirale da quelli più grossi, sembrano pezzi delle molle che Rafael tiene in bottega, e formano graziosi disegni. E la corteccia scabra e friabile procura una sensazione piacevole contro la pelle, come la lingua di un enorme gatto. La corteccia delle sequoie è anche migliore, crepata e lanosa; si possono infilare le dita nelle crepe e reggersi come se ne andasse della vita: sembra quasi di abbracciare un orso, o di stringersi alla propria madre e piangerle fra i capelli. Amici fantastici, i pini; anche se per scoprirlo tocca ignorare la loro voce severa e toccarli.
Naturalmente ci sono vere creature viventi, nella foresta, di notte; creature mobili, voglio dire, animali come noi. Ce n’è un mucchio, in realtà: coyote e donnole, moffette e procioni, daini e felini selvatici, conigli e opossum, orsi e chissà cos’altro. Ma figuriamoci se ci si accorge della loro presenza solo a camminare fra gli alberi. Anche un essere umano seduto tutto solo nella foresta per ore potrebbe non scorgere neppure di sfuggita una singola creatura… a maggior ragione uno che cammina con fracasso rasentando alberi e simili. Un tipo del genere non vedrà mai un solo animale, né lo sentirà, a parte le rane. Le rane non si spaventano facilmente, hanno il fiume in cui saltare e se ne fregano. Solo perché tacciano, bisogna rischiare di pestarle, altrimenti nemmeno si muovono. Tutti gli altri animali però ti sentono arrivare o ti fiutano da lontano; si tolgono di mezzo e non saprai mai che c’erano, a meno di non udire un fruscio in lontananza. Certo i grossi felini possono decidere di mangiarti, ma ti auguri che siano abbastanza prudenti da starsene lontano dalla valle. In genere evitano la gente e in autunno non sono molto affamati. Perciò, se vai in giro, non vedi animali; ed è questo lo strano, perché sai che sono dappertutto, a bere, a mangiare germogli o prede morte, a cacciare o a nascondersi l’uno dall’altro.
Ma ho scordato gli uccelli. Di tanto in tanto si scorge di sfuggita la sagoma nera di un gufo in volo senza il minimo rumore. Oppure, più in alto, anatre e aironi in migrazione, con la testa spinta avanti su quel collo lunghissimo, in una formazione a V che si modifica di continuo. A volte sembra che giochino a “cambia il capofila”, facendo a turno. (I corvi invece giocano a “segui il capofila”, quasi ogni bella serata, al tramonto.)
Quella notte vidi uno stormo di anatre diretto a sud: due paia di ampie V sopra la valle nell’ora che precede l’alba, quando il cielo si schiariva e riuscivo a distinguerle con buona chiarezza. Lenti e decisi colpi d’ala e una vispa conversazione a base di richiami striduli e rauchi…
Ovviamente non fanno parte della foresta vera e propria, ma li si vede lo stesso, se si è fra gli alberi. E io li vidi, quella notte. All’inizio dormii contro una sequoia; poi, per un poco, rannicchiato fra due radici nodose. Ma per lo più andai in giro. Avevo trascorso un mucchio di tempo nella foresta, di giorno e di notte, senza badarle minimamente. Era una casa, niente di speciale. Ma quella notte non volevo pensare a niente. Ero fermamente deciso a non pensare a niente; e per lunghi tratti ci riuscii. Studiai un albero dopo l’altro, vissi con loro e imparai davvero a conoscerli, li toccai, mi arrampicai su qualcuno… cercai anche gli animali che sapevo in giro lì attorno; ma, come ho detto, non amano che la gente li guardi. Udii rumori di baruffa, alcune volte, ma non vidi neppure uno scoiattolo.
Nel punto in cui il torrente dello Swing Canyon si unisce al fiume, c’è un piccolo prato sul quale non mancano mai orme d’animali. Quando mi svegliai e vidi in alto le anatre, girellai da quelle parti con la speranza di scorgere un fratello peloso farsi una bevuta. E infatti, dopo essere rimasto disteso un bel pezzo fra le felci dietro un tronco coperto di licheni a guardare un ragno tessere la tela del mattino, una famiglia di daini venne ad abbeverarsi. Maschio, femmina e cerbiatto. Il maschio si guardò intorno e annusò l’aria; capì che ero lì, ma non se ne preoccupò, mostrandosi buon giudice. La femmina faceva la schizzinosa nel fango lungo il torrente, ma il cerbiatto vi si muoveva a passo incerto. Aveva circa tre mesi, quindi avrebbe dovuto camminare perfettamente, ma sembrava voler infastidire la madre. Terminato di bere, la famiglia si allontanò nel prato e poi fuori vista.
Mi alzai, tutto irrigidito; andai al torrente e bevvi anch’io. Avevo ancora i calzoni umidi e le gambe infreddolite; ero indolenzito, sporco, pieno di tagli, affamato, sfinito… ma in linea di massima mi sentivo bene. Camminai lungo la riva occidentale, deserta come una tazza vuota. Ormai non avrei ricominciato a piangere neanche se avessi pensato a Mando e Steve. Era finita così, e non sentivo quasi niente. Se n’erano andati. E mi sentivo vuoto.
Ma poi, superala la curva sopra il ponte, scorsi una figura più a valle, sulla mia stessa riva, in fondo ai campi di granturco. Era ancora primo mattino, quando il mondo è fatto solo di sfumature di grigio… mille sfumature di grigio, ma non un filo di colore. La rugiada inzuppava ogni foglia grigia, ogni stelo, ogni felce, segno che il Santa Ana stava per terminare. Un topolino squittì, quando passai accanto alla sua tana. Mi bloccai, ma non a causa del topo.
La figura a valle era una donna. (Se una persona è visibile, per quanto lontano sia ne capiamo subito il sesso… a volte non sono sicuro di come accada, ma è così.) E la scura sfumatura grigia dei capelli di quella donna sarebbe stata castana al sole, castana con sfumature rosse. Già in quel mondo di grigi distinguevo il tocco di rosso. Si trattava di Kathryn, in fondo ai suoi campi. Dal ginocchio in giù, i calzoni erano più scuri… bagnati, quindi: significava che anche lei era stata fuori a gironzolare per un poco. Forse tutta la notte pure lei. “Ecco un altro animale che non ho visto nella foresta di notte” pensai. Mi voltava le spalle. Avrei potuto avvicinarmi, ma un impulso mi trattenne. Ci sono volte in cui una schiena a cento metri è altrettanto espressiva di un viso a un palmo. Kathryn cominciò a camminare lungo il fiume, verso il ponte. Al termine del campo, girò all’improvviso a destra e diede un calcio violento all’ultima pianta di granturco. Kathryn porta stivali grossi: la pianta si piegò, rimase inclinata. Kathryn non fu soddisfatta. Continuò a prenderla a calci finché non l’appiattì a terra. La vista mi si annebbiò, incespicando mi rifugiai fra i boschi: tutte le nostre catastrofi erano di nuovo reali, per me.
Quindi non ero così svuotato come credevo. La mia capacità di sentirmi sconvolto era superiore a quella che avevo immaginato, molto superiore. Scoprii che potevo sentirmi infelice per giorni interi; che l’infelicità e il senso di vuoto potevano occupare ogni ora di ogni giorno. E così fu, giorno dopo giorno. Era una sorpresa, per me, e nemmeno piacevole: ma non potevo farci niente. Il nostro stato d’animo non dipende da noi.
Cominciai a trascorrere sulla spiaggia un mucchio di tempo. Non sopportavo la compagnia. Un giorno tentai di unirmi di nuovo ai pescatori, ma fu un errore: erano troppo duri. Un’altra volta girellai dalle parti dei forni, ma andai via subito: la povera Kristen aveva un aspetto che mi trafisse. Anche a mangiare con Pa’ mi sentivo male. E non potevo fare visita al vecchio, era troppo malato, perdevo ogni speranza. Gli occhi di tutti m’interrogavano, o mi condannavano, o mi fissavano, quando la gente non pensava che me ne sarei accorto. Cercavano di consolarmi, o di fingere che niente fosse cambiato, e questa era una menzogna. Era cambiato tutto. Così non volevo avere niente a che fare con loro. La spiaggia era un buon posto per starmene da solo. La nostra spiaggia è così ampia, dalla scogliera all’acqua, e così lunga, dalla sabbia grossolana della foce alla confusione di massi bianchi alla rinfusa di Concrete Bay, che ci si può girare per giorni senza mai calpestare le proprie tracce. Lunghi solchi lasciati da vecchie maree, pieni d’acqua salmastra; grovigli di legna gettata a riva dal mare, compresi vecchi tronchi che puntano in ogni direzione radici da piovra; alghe infestate di pulci marine, simili a montagnole di concime nero; conchiglie intere e a pezzi; granchi della sabbia e le loro bollicine rivelatrici nella rena bagnata; piccoli e tondi piovanelli bianchi, con le zampe articolate al contrario, che vanno alla carica su e giù per i ciottoli per evitare tutti insieme l’acqua torbida; ogni cosa meritava di essere studiata per ore, per giorni. Così gironzolai avanti e indietro sulla spiaggia; ed ero infelice, o vuoto come una zucca secca.
Capite, avrei potuto non dire niente. Certo, avrei anche potuto rifiutare fin dall’inizio di partecipare al piano. Anzi, avrei dovuto fare proprio questo. Ma, anche partecipando al progetto, avrei potuto tenere per me la scoperta del luogo dello sbarco: e non sarebbe accaduto niente. Invece no. Avevo preso la decisione; e tutto quel che era accaduto in seguito… la morte di Mando, la fuga di Steve… era solo la conseguenza. Perciò era tutta colpa mia. Ero io da biasimare, per la fuga di un amico, per la morte di un altro amico. E per chissà quante altre morti di quella notte, gente che mi era sconosciuta, ma che senza dubbio aveva famiglia e amici che piangevano per loro come noi per Mando. Tutto derivava dalla mia testa, dalla mia decisione. Quanto ne soffrivo! Quanto rimpiangevo di non avere preso una decisione migliore, contraria! Avrei dato qualsiasi cosa per cambiarla. Ma niente è immutabile quanto il passato. Nel percorrere verso casa il sentiero del fiume, ricordai le parole del vecchio: siamo come cunei infilati dalla storia in una spaccatura, per cui le decisioni ci sono imposte. Ma ora sapevo che, a confronto di come è fisso il passato, il presente è libero come l’aria. Nel presente hai possibilità di scelta, ma nel passato hai fatto una sola cosa; per quanto la rimpiangi, non cambierà mai. Lo sapevo, o iniziavo a impararlo, ma questo non m’impediva di rimpiangere il passato, né di desiderare che fosse diverso.
Se fossi stato più intelligente, Mando non sarebbe morto. Non solo più intelligente: più onesto, anche. Avevo mentito, avevo tradito Kathryn, Tom, Pa’… tutta la valle, a causa del voto. Tutti, tranne Steve: e lui era a Catalina. Che stupido ero stato! Avevo creduto d’essere furbo, a farmi dire da Add l’ora e il luogo dello sbarco, e avevo guidato quelli di San Diego a tendere l’imboscata.
Ma eravamo stati noi a caderci. Bastava pensarci, era evidente. Quelli non avevano improvvisato la difesa: erano pronti ad accoglierci. E chi li aveva avvertiti, se non Addison Shanks? Lui sapeva che eravamo a conoscenza dello sbarco, doveva solo dire agli sciacalli che sapevamo e loro avrebbero potuto prepararsi. Tenderci un’imboscata.
Bastava pensarci, era chiaro come il sole nel cielo, ma non mi era proprio venuto in mente, fino a ora, mentre risalivo il sentiero del fiume e riflettevo sull’accaduto. Avevamo teso la rete e ci eravamo finiti dentro noi.
E quelli di San Diego ci avevano assegnato una posizione più a nord della loro, perché se qualcosa fosse andato storto, saremmo stati gli ultimi a traversare il ponte e avremmo attirato l’attenzione, mentre loro fuggivano. Ci avevano gettati fra i piedi del nemico per farlo inciampare.
Eravamo stati traditi due volte. E io mi ero dimostrato d’una stupidità incredibile.
E la mia stupidità era costata a Mando la vita. Rimpiansi ferocemente (ora che il funerale era passato) di non essere morto io al posto suo. Ma sapevo che rimpiangere il passato è come tirare sassi alla luna (così ero salvo).
Un paio di giorni più tardi, girando sulla spiaggia e continuando a riflettere, divenni curioso e risalii il Basilone fino alla casa degli Shanks. Non volevo parlare con loro, volevo solo vederli. Se li avessi visti in faccia, avrei capito subito se avevo torto o ragione a pensare che fosse stato Add a mettere in guardia gli sciacalli; e allora li avrei lasciati perdere per sempre.
La casa era bruciata. Non c’era nessuno, lì intorno. Scavalcai le assi carbonizzate, i soli resti della parete meridionale; per un po’ presi a calci il mucchio di tizzoni, sollevando cenere e polvere. Erano andati via da un pezzo. Mi fermai al centro di quello che era stato il magazzino, a guardare i mucchietti neri per terra. Nessun oggetto metallico. A quanto sembrava, avevano svuotato il locale di ogni cosa utile, prima di dargli fuoco. Senza dubbio erano stati aiutati a trasferirsi a nord. Visto che avevo scoperto i suoi traffici e che ero sopravvissuto, Add aveva certo preferito trasferirsi a nord e unirsi totalmente agli sciacalli. Ed era logico che non ci lasciasse una casa come la sua.
La parete nord esisteva ancora: assi annerite e consunte dal fuoco, pronte a crollare; il resto era cenere, o tizzoni sparsi qua e là. I pali metallici del traliccio elettrico, di nuovo visibili, sporchi di nero, si alzavano fino alla piattaforma metallica che un tempo sorreggeva i cavi. Mi sentii vuoto come sempre. Era stata una buona casa. Loro non erano brave persone, ma la casa era buona. E in qualche modo, fermo fra i resti carbonizzati, non riuscivo a provare risentimento contro Add e Melissa, anche se un attimo prima ci sarei riuscito facilmente. Non era divertente appiccare il fuoco a una buona casa come quella e fuggire. Erano davvero in una situazione così brutta? Lavoravano con gli sciacalli, certo. Ma tutti noi, in un modo o nell’altro, facevamo affari con loro. Anche aiutare i giapponesi a sbarcare era poi una cosa così brutta? Glen Baum l’aveva fatto, in quel suo libro (se c’era qualcosa di vero); e nessuno gli aveva dato del traditore. Add e Melissa volevano solo qualcosa di diverso da quel che volevo io. Per certi aspetti, erano migliori di me. Almeno, mantenevano le promesse; conservavano intatta la lealtà.
Tornai nella valle, più depresso che mai. Mi fermai da Doc: Tom dormiva, aveva l’aspetto di un morto; Doc, con gli occhi infossati, seduto da solo al tavolo della cucina, fissava la parete. Mi affrettai a scendere al fiume, attraversai il ponte, mi fermai alla latrina dei bagni, mi liberai. Mentre uscivo, entrò John Nicolin. Mi lanciò un’occhiata astiosa e mi sfiorò senza dire una parola.
Così andai alla spiaggia. E il giorno dopo vi tornai. Cominciavo a conoscere l’esercito di piovanelli: quello con una zampa sola, quello nero, quello con il becco rotto. La marea venne avanti, sommerse il tavolo da pranzo delle mosche. Si ritirò, scoprì di nuovo le alghe bagnate. I gabbiani volteggiavano e stridevano. Un pellicano atterrò sulla sabbia bagnala e rimase a guardarsi intorno con riserbo. Ma i frangenti erano grossi, quel giorno; e il pellicano fu lento a sottrarsi all’onda in arrivo; fu colpito, s’allontanò in fretta, cadde, agitò le lunghe ali, il becco, il collo, le zampe, in una complicata capriola. Risi, mentre si rialzava, bagnato, scarmigliato, arruffato; ma lui zampettò con aria buffa, corse per prendere lo slancio e planò giù sulla spiaggia; dopo le risa, piansi.
Tornarono le nubi. Una muraglia grigia era ferma all’orizzonte; il vento ne staccava dei pezzi e li spingeva verso terra. Finalmente era cambiato. Il Santa Ana aveva tenuto al largo le nubi per più di una settimana; ora quelle tornavano a reclamare il loro territorio. All’inizio erano in poche, sfrangiate e trasparenti, tranne al centro. Le nuvole generano nuvole, però; nel pomeriggio avanzarono, più scure e più basse, finché tutta la muraglia non prese velocità e avanzò dall’orizzonte, acquistando un colore azzurro cupo e coprendo il cielo, come un lenzuolo. L’aria divenne fredda, i gabbiani sparirono, il vento di mare crebbe d’intensità. Le nubi divennero tempestose, sputarono fulmini in mare e poi sulla terraferma, facendo sfrigolare le onde e abbattendo alberi sui costoni. Seduto sopra un tronco grigio e consunto, guardai le prime gocce butterare la sabbia. Sotto la pioggia, la superficie color ferro dell’oceano perdette lucentezza. Mi strinsi nella giacca e testardamente rimasi lì seduto. La pioggia si mutò in grandine. I chicchi caddero fino a formare uno strato chiaro sopra i granelli rossicci: una spiaggia di sabbia, coperta da una sabbia di vetro.
Abbandonai la spiaggia, risalii il sentiero della scogliera. La grandine si mutò in pioggia. Mani in tasca, percorsi il sentiero del fiume e lasciai che la pioggia mi colpisse in faccia. Mi scorreva dentro la giacca, ma non importava. Rimasi all’aperto, camminai di proposito nelle radure e nei tratti privi d’alberi, ricavandone piacere proprio per la stupidità di quel comportamento.
Continuai a risalire la valle finché non mi trovai ai margini della piccola radura adibita a cimitero. La pioggia ruscellava da nuvole ferme proprio lì sopra; nella fioca luce grigia, gli alberi sgocciolavano rumorosamente. Attraversai la piccola sezione accanto al fiume, dove erano sepolti i giapponesi gettati a riva dal mare. Le croci di legno dicevano: Cinese ignoto. Morto nel 2045, o quale che fosse la data. Nat aveva fatto un buon lavoro, a intagliare lettere e numeri.
Nella radura vera e propria c’erano i nostri morti. Camminai nel fango appiccicoso, da tomba a tomba, e contemplai i nomi. Vincent Mariani, 1992-2038. Un cancro se l’era portato via. Ricordavo che giocava a nascondino con Kathryn, Steve e me, quando Kathryn era piccolissima. Arnold Kalinski, 1970-2026. Era giunto nella valle già malato, diceva Tom; Doc aveva temuto che ci contagiasse tutti, ma non era successo. Jane Howard Fletcher, 2002-2030. Mia madre, proprio qui. Polmonite. Strappai qualche erbaccia alla base della croce, passai avanti. John Manley Morris, 1975-2029; Eveline Morris, 1989-2033. Cancro, per lui; lei era morta d’infezione a seguito di un taglio al palmo. John Nicolin Junior, 2016-2022. Caduto nel fiume. Matthew Hamish, 2034. Deforme. Mark Hamish, 2036. Luke Hamish, 2039. Deformi entrambi. Francesca Hamish, 2044. Idem. E Jo era di nuovo incinta. Geoffrey Jones, 1995-2040; Ann Jones, morta nel 2040. Morti entrambi nell’incendio della casa. Endeavor Simpson, 2039. Deforme. Defiance Simpson, 2043. Deforme. Elizabeth Costa, 2000-2035. Malattia imprecisata: Doc non era mai riuscito a scoprire quale. Armando Thomas Costa, 2033-2047.
Ce n’erano altri, ma mi fermai ai piedi della tomba di Mando, guardai la croce intagliata di recente. Anche la Bibbia dice che all’uomo tocca una vita di tre ventine e dieci; eppure era tanto tempo fa. Invece eccoci qui, a morire in anticipo, come rane nel ghiaccio.
Il terriccio nella fossa di Mando si era assestato e si abbassava di più sotto la pioggia. Andai alla buca aperta in fondo alla radura, presi la pala che Nat lascia sempre lì; cominciai a portare terra sulla tomba, una palata dopo l’altra. Il fango si appiccicava alla pala, il terriccio si spargeva malamente, non compattava bene. Pessima idea. Gettai la pala nella buca, sedetti sull’erba accanto alla tomba, dove potevo stringere l’asta orizzontale della croce. Rane nel ghiaccio. La pioggia diluiva il fango, creava pozze. Guardai in giro la nostra messe di croci, tutte sgocciolanti nella grigia luce del pomeriggio. Non è giusto, pensai. Non dovrebbe essere così. Mando era lì sotto di me, eppure non c’era; era morto, svanito, non esisteva più. Non sarebbe tornato. Presi una manciata di fango, lo strizzai fra le dita. Mando era cambiato, da persona viva a niente più che fango nel mio pugno. E la stessa cosa sarebbe accaduta a tutti quelli che conoscevo. E a me. Ogni nostra azione non avrebbe fatto differenza; niente sarebbe durato, qualsiasi cosa dicessimo. Non capivo il punto. Era troppo strano che vivessi e lavorassi sulla terra finché non mi spezzavo, e poi diventassi semplice fango. Rimasi lì, sotto la pioggia, a strizzare fango fra le dita. Squish squish. Squish, squish.
Ma il vecchio sopravvisse.
Il vecchio sopravvisse. Non l’avrei mai creduto. Penso che tutti siano rimasti sorpresi, perfino Tom. So che Doc rimase stupito. «Non l’avrei mai creduto» mi disse, allegro, quando andai a trovarli, un mattino nuvoloso. «Ho dovuto strofinarmi gli occhi e darmi pizzicotti. Ieri mi sono alzato e lui era seduto qui al tavolo della cucina, lamentandosi: «Dov’è la colazione? Dov’è la colazione?» Certo, per tutta la settimana i polmoni gli si erano ripuliti; ma a dire la verità non ero sicuro che bastasse. Eppure era lì a tormentarmi.»
«A proposito» disse Tom, dalla stanza da letto «dov’è il tè? Non rispetti più le misere richieste di un paziente?»
«Se lo vuoi caldo, chiudi il becco e sii paziente!» lo rimbeccò Doc, con un sogghigno nella mia direzione. «Cosa ne dici di un po’ di pane per accompagnarlo?»
«Logico, no?»
Entrai nell’ospedale. Tom, seduto sul letto, batteva le palpebre come un passerotto. «Come ti senti?» chiesi timidamente.
«Affamato.»
«Buon segno» disse Doc, dietro di me. «Ritorno dell’appetito, buon segno davvero.»
«A meno d’avere un cuoco come il mio» replicò Tom.
Doc sbuffò. «Non farti fregare, divora proprio come prima. Gli piace, è evidente. Prima o poi vorrà fermarsi qui solo per come cucino.»
«Sì, quando gli asini voleranno!»
«Oh, che ingratitudine!» esclamò Doc. «E pensare che ho dovuto quasi sempre cacciargli il cibo in gola. Sembravo mamma passerotto. Forse dovevo predigerirglielo…»
«Ah, sai che gioia» gracchiò Tom. «Mangiare il vomito, puah! Porta via, ho perso l’appetito.» Bevve rumorosamente un poco di tè, imprecò perché era troppo caldo.
«Be’, è stata dura farlo mangiare, te lo dico io. Ma guardalo, ora!» Doc guardò con soddisfazione Tom divorare pezzi di pane, nel suo solito modo da morto di fame. Alla fine Tom mi sorrise, mettendo in mostra i denti mancanti. Le sue povere gengive avevano patito, durante la malattia, ma gli occhi castani mi guardarono con lo stesso sguardo chiaro d’una volta. Sentii che la faccia mi si allargava in un sorriso.
«Ah, sì» disse Tom «non c’è niente di meglio di un sistema immunitario mutazionale anomalo, te lo garantisco. Sono robusto come una tigre. Robustissimo! Comunque, scusatemi se schiaccio un pisolino.» Tossì un paio di volte, scivolò sotto le lenzuola e si addormentò, con la rapidità con cui si spegnevano i suoi accendini.
Questa era finita bene. Tom restò a casa di Doc un altro paio di settimane, più che altro per tenergli compagnia, immagino, visto che ogni giorno riacquistava le forze e certo non amava molto l’ospedale. E un giorno Rebel bussò alla porta e mi chiese se volevo dare una mano a riportare a casa Tom e la sua roba. Volentieri, risposi; attraversammo il ponte, chiacchierando e scherzando. Il sole giocava a nascondino fra le nuvole alte; dal sentiero dalla casa di Doc scendevano Kathryn e Gabby, Kristen e Del e Doc, ridendo ai saltelli di Tom in testa alla fila.
«Unitevi alla folla» ci gridò Tom. «Giovani e vecchi, un’alleanza naturale per una festa, statene certi.»
Kathryn mi diede i libri del vecchio, pesanti nella sacca di tela; minacciai di gettarli dal ponte mentre passavamo. Tom agitò verso di me il bastone da passeggio. Facemmo una bella camminata su per l’altro pendio della valle. Non avevo mai osato pensare a un giorno come questo: eppure era arrivato, proprio qui a portata di mano, dove potevo afferrarlo.
Arrivati in casa, il vecchio divenne davvero allegro e chiassoso. Con un gesto teatrale, diede un calcio alla porta, che rimase chiusa.
«Gran bella serratura, vedete come tiene?»
Soffiò via la polvere dal tavolo e dalle poltrone, fino a riempire l’aria. Sul pavimento c’era una pozza, che indicava dove il tetto perdeva di nuovo. Tom si accigliò e mise il broncio.
«La casa è stata trattata male, malissimo. Voi della manutenzione siete tutti licenziati.»
«Oh-ho» disse Kathryn. «Adesso dovrai riassumerci e pagarci, se vuoi che ti aiutiamo a fare le pulizie.»
Aprimmo tutte le finestre, lasciammo entrare la brezza. Gabby e Del strapparono un po’ d’erbacce; Tom, Doc e io risalimmo la pista del costone per dare un’occhiata agli alveari. Nel vederli, Tom imprecò: ma non erano poi in cattivo stato. Per un po’ restammo a dare una pulita, ma all’ordine di Doc tornammo a casa. Dal camino uscivano ondate di fumo bianco come le nuvole; l’ampia finestra sul davanti era stata lavata; Gabby, in equilibrio sul tetto, con martello chiodi e scandole, dava la caccia alla fessura e gridava perché da sotto gli dessero indicazioni. Dentro, in piedi sopra uno sgabello, Kathryn batteva il tetto servendosi di un manico di scopa.
«Ecco» disse Tom «come spuntano le fessure!»
Kathryn cercò di colpirlo con il manico di scopa, perse l’equilibrio e saltò a terra, mentre lo sgabello cadeva. Con uno strillo Kristen la scansò e smise di spolverare. Rebel tolse il bricco dal fornello. Ci riunimmo nel soggiorno a bere un po’ del tè aromatico di Tom.
«Salute!» brindò Tom, sollevando in alto il boccale fumante; lo imitammo e brindammo con lui.
Quella sera, quando tornai a casa, Pa’ mi disse che John Nicolin era venuto a chiedere come mai non andavo più a pesca. La mia parte di pesce era la nostra principale fonte di sostentamento e Pa’ era turbato. Così dalla mattina seguente ripresi a uscire a pesca, un giorno dopo l’altro, se il tempo lo permetteva. Sulle barche era evidente che l’anno continuava. Il sole tagliava il cielo in un arco sempre più basso; venne la corrente fredda e si fermò. Spesso, di pomeriggio, grosse nubi scure rotolavano dal mare sopra di noi. Le mani bagnate dolevano per il freddo e si arrossavano per la fatica di tirare le reti; i denti battevano, la pelle si screpolava per i geloni. Ci scambiavamo solo grida rauche riguardanti la pesca, perché ciascuno cercava di risparmiare energie. La mancanza di chiacchiere mi andava bene. Venti di burrasca ci logoravano, mentre remavamo per tornare a riva, nel crepuscolo precoce. Sotto le nubi livide le scogliere assumevano una sfumatura marrone, i pendii montuosi mostravano il verde nerastro dei pini più scuri, l’oceano era grigio come il ferro. In quella desolazione, i falò giallastri sulla spianata del fiume brillavano come fari, ed era un piacere vederli, oltrepassata la prima curva. Dopo avere tirato le barche contro la scogliera, mi rannicchiavo con gli altri attorno ai fuochi, finché non mi ero riscaldato abbastanza da far ritorno a casa. Mentre si scaldavano (mani praticamente sulle fiamme), gli uomini scambiavano le solite chiacchiere, ma io non vi prendevo parte. Ero contento che il vecchio stesse bene e fosse tornato a casa; ma la verità è che fino a quel momento la cosa non mi rallegrò poi tanto la vita d’ogni giorno. Mi sentivo male gran parte del tempo e vuoto sempre. Quando ero fuori a pesca e lottavo per obbligare le dita gelate e disobbedienti a tenere strette le reti, pensavo alle imprecazioni di Steve in simili occasioni e desideravo ardentemente che fosse con noi. E poi, al termine della pesca, sulla scogliera non c’era nessuna banda ad aspettarmi. Per evitare d’arrampicarmi e di sentire l’assenza degli amici, spesso giravo attorno al promontorio, fino alla spiaggia, e vagavo su quella distesa ben nota. Il giorno dopo respiravo a fondo, m’infilavo gli stivali, andavo ancora a pesca. Ma erano solo azioni automatiche.
E neppure posso dire che i pescatori si mostrassero poco amichevoli nei miei confronti. Anzi, al contrario: Marvin mi dava da portare a casa il pesce migliore e Rafael parlava con me più di quanto non avesse mai fatto, scherzava sui pesci, descriveva i suoi ultimi progetti (che erano interessanti, lo ammetto), m’invitava a vederli… Si comportavano tutti così, perfino John, di tanto in tanto. Ma niente aveva significato, per me. Ero vuoto. Il mio cuore era nello stesso stato delle dita al termine della pesca: freddo e disubbidiente, intirizzito anche accanto al fuoco.
Tom in qualche modo lo intuì. Forse Rafael gliene parlò, forse se ne accorse da solo. Un giorno, dopo la pesca, risalivo a fatica il sentiero della scogliera, con l’impressione di trascinare sulle gambe un peso tre volte superiore: in cima c’era Tom.
«Giri parecchio, di questi tempi» dissi.
Lui ignorò le mie parole e agitò un dito nodoso verso di me. «Cosa ti rode, ragazzo?»
Mi ritrassi. «Niente, cosa vuoi dire?» Abbassai lo sguardo sulla bisaccia di pesce; ma lui m’afferrò per il braccio e mi strattonò.
«Cosa ti tormenta?»
«Ah, Tom.» Che cosa potevo rispondergli? Sapeva anche lui cos’era. Dissi: «Lo sai. Ti avevo promesso di non andare lassù, e invece ci sono andato.»
«E chi se ne frega.»
«Ma guarda cos’è successo! Avevi ragione. Se non ci fossi andato, non sarebbe successo niente.»
«Come lo sai? Sarebbero andati senza di te, ecco.»
«No. Potevo fermarli.» Gli spiegai cos’era accaduto, la parte che avevo recitato… tutto, fino all’ultimo. A ogni frase, annuiva.
Al termine, disse: «Be’, è un guaio.» Avevo i brividi. S’incamminò con me su per il sentiero del fiume. «Ma è facile sputare sentenze a cose fatte. Il senno di poi, eccetera. Non potevi prevedere cosa sarebbe avvenuto.»
«Sì, invece. Me l’hai detto tu. E poi, me lo sentivo.»
«Be’, ascolta, ragazzo…» Lo guardai; si bloccò. Corrugò la fronte, annuì una volta per riconoscere che era giusto da parte mia rigettare una così facile negazione delle mie responsabilità. Per un poco camminammo, poi lui schioccò le dita. «Hai già iniziato a scrivere il libro?»
«Per l’amor di Dio, Tom!»
Mi diede una spinta in pieno petto, con forza, tanto da farmi barcollare fuori del sentiero. «Ehi!»
«Forse stavolta proverai a darmi retta.»
Era un colpo basso. Spalancai gli occhi, mentre lui continuava: «Non so ancora per quanto riuscirò a sopportare i tuoi piagnistei. Mando è morto, la colpa è in parte tua, d’accordo. Ma ti avvelenerà il sangue e ti farà stare male, finché non metterai tutto per iscritto, come t’ho detto.»
«Ah, Tom…»
E mi assalì, mi spinse di nuovo! Era un atteggiamento in cui indulgeva solo con Steve; mi veniva voglia di dargli un pugno, ma nello stesso tempo mi sentivo lusingato.
«Ascoltami, per una volta!» gridò. D’un tratto mi resi conto che era turbato.
«Ti ascolto, lo sai.»
«Allora fa’ come t’ho detto. Scrivi la tua storia. Tutto quel che ricordi. Scriverla t’aiuterà a capire. E al termine avrai anche la storia di Mando. La cosa migliore che puoi fare per lui, ora. Capisci?»
Annuii, con un groppo in gola. Mi schiarii la voce. «Ci proverò.»
«Non provarci: scrivi e basta!» Mi scostai, per impedirgli di darmi un’altra spinta. «Ah! Fai bene: scrivi, oppure te le suono. Sarà il tuo compito di scuola. Non ti darò più lezioni, finché non l’avrai terminato.»
Agitò il pugno contro di me. Il braccio era un fascio di tendini a fior di pelle, magro come una fune. A momenti mi mettevo a ridere.
Così ci pensai. Tolsi il libro dallo scaffale su cui era rimasto appoggiato per sostenere una vaschetta per la cote con due sole gambe. Sfogliai le pagine bianche. Ce n’era un mucchio. Era chiaro quant’è brutto uno scorfano che non sarei mai riuscito a riempire tutte quelle pagine. Per dirne una, ci sarebbe voluto troppo tempo.
Ma continuai a pensarci. Il senso di vuoto non smetteva di tormentarmi. E con l’accorciarsi delle giornate, nella baracca le notti diventavano sempre più lunghe; i ricordi li avevo già in mente, scoprii. E il vecchio era stato davvero veemente, al proposito…
Prima che alzassi anche solo una matita, tuttavia, Kathryn dichiarò che era tempo di raccogliere il granturco. Quando lei decideva, tutti noi che lavoravamo per lei c’impegnavamo dall’alba al tramonto, ogni giorno. All’alba ero già fuori con gli altri a recidere con la falce i gambi, a portare le piante ai carri, a tirare i carri al di là del ponte fino alle alture e ai magazzini dietro la casa dei Mariani, a strappare le foglie, a staccare le pannocchie scartocciate.
A causa dei violenti temporali estivi, il raccolto fu misero e terminò in fretta. E fu la volta delle patate. Kathryn e io ce ne occupammo insieme. Non ci eravamo visti spesso, da quella notte in casa di Doc; sulle prime ero a disagio, ma sembrava che Kathryn non avesse niente da rimproverarmi. Ci limitammo a lavorare, a parlare di patate. Aiutare Kathryn era estenuante. La mattina sembrava che tutto andasse bene, perché lei lavorava con tanto accanimento da fare più della sua parte; ma il guaio era che continuava con quel ritmo per tutta la giornata, per cui ero costretto ogni giorno a fare più del normale lavoro, per quanto ne lasciassi a lei. E raccogliere patate è un lavoro che sporca, che spezza la schiena, in qualsiasi modo si proceda.
Festeggiammo la conclusione del raccolto con una piccola bevuta allo stabilimento dei bagni. Nessuno era particolarmente felice, perché era stato un raccolto scarso; ma almeno era in magazzino. Kathryn sedette accanto a me sulle seggiole nel prato dello stabilimento, a guardare il tramonto; Rebel e Kristen si unirono a noi. Dall’altra parte del cortile, Del e Gabby si lanciavano un pallone. Le fiamme del falò erano a malapena visibili contro lo sfondo del cielo color salmone. Rebel era sconvolta dalla raccolta di patate, quasi piangeva; Kathryn parlava parecchio, per tirarla su di morale.
«I parassiti sono una maledizione che bisogna sopportare. L’anno prossimo proveremo un po’ di quella roba che ho avuto dagli sciacalli. Non preoccuparti, ci vuole un bel po’ di tempo per imparare a coltivare la terra. I germogli non crescono come i figli, sai.»
A queste parole, Kristen sorrise: il primo sorriso che le vedevo dalla morte di Mando.
«Nessuno patirà la fame» dissi.
«Ma sono già stufa di mangiare pesce» protestò Rebel. Le ragazze risero di lei.
«Non si direbbe, da quanto ne mangi» replicò Kristen.
Kathryn sorseggiò pigramente il whisky. «Cos’hai fatto ultimamente, Hank?»
«Mi sono messo a scrivere quel libro che Tom m’ha dato» mentii, per vedere l’effetto della notizia.
«Ah, sì? Scrivi della valle?»
«Certo.»
Kathryn inarcò le sopracciglia. «Della…»
«Già.»
«Uhm.» Fissò il fuoco. «Be’, è una buona idea. Forse da questa estate nascerà qualcosa di buono, dopotutto. Ma scrivere un intero libro? Sarà dura davvero.»
«Oh, sì» le assicurai. «Quasi impossibile, a essere sinceri. Comunque, m’impegno.»
Tutt’e tre le ragazze parvero impressionate.
Allora ci pensai ancora un poco. Tolsi di nuovo il libro dallo scaffale e lo misi sul ripiano accanto al letto, vicino alla lampada, alla tazza e al libro delle tragedie di Shakespeare che Tom mi aveva regalato per Natale. E pensai. A quando la storia era iniziata, molto tempo fa… le riunioni con gli altri della banda, i progetti per l’estate. Non si tratta proprio di saccheggiare una tomba, aveva detto Steve, e mi svegliai di scatto…
Così cominciai a scrivere.
Era un lavoro lento. Cercare di scrivere era per me come cercare di parlare per Roger lo Strambo. Ogni notte giuravo di smettere per sempre. Ma la notte seguente, o quella dopo ancora, ricominciavo. È incredibile quanti ricordi tornino alla mente, se strizzi la memoria. Certe notti, terminato di scrivere, tornavo di nuovo in me ed ero sorpreso di essere nella nostra baracca, con il sudore che mi colava lungo le costole, le mani irrigidite, le dita doloranti, il cuore che batteva per emozioni di giorni passati. E lontano dal lavoro, in una barca sollevata dai marosi violenti, mi ritrovavo a pensare a quel che era avvenuto, al modo di raccontarlo. Capivo che avrei terminato il libro, senza badare al tempo necessario. Ero preso all’amo.
Le serate d’autunno assunsero uno schema. Quando i pesci erano sui banchi di pulitura, mi arrampicavo sulla scogliera. Nessuna banda ad accogliermi. Con fermezza ignoravo i fantasmi che vi si radunavano e andavo a casa, in genere durante il primo buio della sera. A casa, Pa’ metteva l’olio nella casseruola e friggeva un po’ di pesce e cipolle, mentre io accendevo la lampada, preparavo la tavola e parlavo come al solito degli avvenimenti della giornata. Fritto il pesce, ci sedevamo a tavola; Pa’ diceva la preghiera di ringraziamento, poi mangiavamo pesce e pane, o patate. Dopo cena, lavavamo i piatti, sparecchiavamo, bevevamo il resto dell’acqua della cena, ci pulivamo i denti servendoci di uno spazzolino recuperato dagli sciacalli.
Poi Pa’ sedeva al tavolo da cucito e io a quello da pranzo; lui cuciva stoffa, io cucivo parole, finché eravamo d’accordo che era l’ora d’andare a letto.
Non so quante serate siano trascorse in questo modo. Nei giorni di pioggia era la stessa cosa, solo durava per tutta la giornata. Circa una volta alla settimana andavo da Tom. Poiché gli avevo promesso che avrei scritto il libro, aveva acconsentito a darmi ancora lezioni. Mi faceva studiare l’Otello. Ero sicuro di sapere perché. Credevo d’avere molto da rimproverarmi, ma Otello! L’unico personaggio di Shakespeare più stolto di me.
… O stolto! stolto! stolto!
Quando riferirai queste imprese sfortunate,
parla di me come sono. Non attenuare nulla,
non scrivere nulla in malizia. Allora devi parlare
di uno che amò non saggiamente, ma troppo bene;
di uno non facile alla gelosia, ma, manipolato,
confuso all’estremo; di uno le cui dita
(come il misero indiano) gettarono una perla
più preziosa della sua tribù; di uno i cui occhi sottomessi,
per quanto non adusi a sciogliersi,
lascian cadere lacrime, veloci come gli alberi d’Arabia
la resina medicinale. Scrivi di questo…
«Allora c’erano alberi d’eucalipto, nell’Arabia» dissi a Tom, al termine.
Lui rise. E quando, prima d’andarmene, gli chiesi altre matite, sghignazzò follemente e andò a recuperarmele.
Trascorsero i giorni. Più m’inoltravo nella storia dell’estate, più questa era lontana nel tempo e meno la capivo. Confuso all’estremo. Un giorno di pioggia, Pa’ e io lavoravamo di pomeriggio e cercavamo di tenere aperta la porta per avere luce; ma faceva troppo freddo, anche con la stufa accesa, e la pioggia continuava a entrare quando il vento cambiava direzione. Fummo costretti a chiudere la porta e ad accendere le lampade. Pa’ era chino sulla giacca che confezionava in quel momento. Muoveva le mani con la rapidità di uno schiocco delle dita, mentre faceva le asole; eppure le asole, perfettamente spaziate, seguivano una linea che pareva quasi tracciata con il righello. Pa’ s’infilò il ditale e prese a cucire. Infilava l’ago e tirava, infilava e tirava… i punti a croce comparivano come X perfette, il filo si muoveva sotto una tensione costante… non avevo mai fatto attenzione al lavoro di cucito. Le dita callose si muovevano con la leggerezza di ballerine. Sembrava quasi che fossero più intelligenti di lui… e mi dispiacque pensare una cosa del genere. E poi, era sbagliata. Pa’, non un altro, diceva alle dita cosa fare. Da sole, non avrebbero fatto niente. Era più giusto dire che l’intelligenza di Pa’ stava nel modo in cui cuciva, o qualcosa di simile. Da quel punto di vista, Pa’ era intelligente davvero. Mi piacque quel modo di esprimere il concetto e lo misi per iscritto. Punti di pensiero. Intanto le sue abili dita dominavano l’ago e lo spingevano a scivolare fra i pezzi di stoffa e a tenerli insieme, a tendere il filo, girare, forare di nuovo.
Pa’ sospirò. «Non ci vedo più bene come una volta» disse. «Vorrei che fosse una giornata di sole. L’estate mi manca moltissimo.»
Schioccai la lingua. Era irritante sedere in una scatola buia in pieno giorno, sprecando del buon olio di lampada. Più che irritante, in verità. Mi sentii cadere le braccia, mentre facevo l’inventario delle pareti spoglie della baracca.
«Merda» borbottai, disgustato.
«Cosa?»
«Ho detto: Merda.»
«Perché?»
«Ah…» Come potevo spiegarglielo, senza che ci restasse male anche lui? Aveva sempre accettato senza un lamento la nostra misera condizione. Scossi la testa. Mi scrutò curiosamente.
D’un tratto mi venne un’idea. Balzai sulla sedia.
«Che c’è?» disse Pa’, guardandomi.
«Ho un’idea.» M’infilai gli stivali e la giacca.
«Piove che Dio la manda» disse Pa’, dubbioso.
«Non vado lontano.»
«Va bene. Stai attento.»
Ero già alla porta. Tornai indietro, gli diedi un colpetto sul braccio. «Sì. Non sto via molto, continua a cucire.»
Attraversai il ponte e risalii il Basilone fino alla casa degli Shanks. Presi a calci i mucchi di legno bruciato. Avevo ragione: sotto la cenere zuppa d’acqua, contro la parete nord, c’era un pezzo rettangolare di vetro, lungo un paio di metri e quasi altrettanto largo. Una delle loro numerose finestre. Un angolo era ondulato ai bordi e un po’ butterato — pareva che si fosse fuso un poco nell’incendio — ma non m’importava. Lanciai al cielo un grido di gioia, leccai le gocce di pioggia e con grande cautela tornai nella valle, reggendo davanti a me il vetro gocciolante. Come il parabrezza di un’automobile, eh? Mi fermai a bussare alla porta della bottega di Rafael. Lui era dentro, nero di grasso, intento a martellare come Vulcano.
«Rafe, ti dispiace aiutarmi a mettere questo vetro alla nostra baracca?»
«Figuriamoci» rispose, guardando la pioggia. «Vuoi metterlo subito?»
«Be’…»
«Aspettiamo una bella giornata. Dovremo andare dentro e fuori parecchio.»
Con una certa riluttanza acconsentii.
«Mi sono sempre chiesto perché non hai mai fatto una finestra a quella casa» disse.
«Non ho mai avuto il vetro!» risposi allegramente. E me ne andai.
Due giorni dopo avevamo una finestra alla parete sud; la luce entrava a illuminare ogni cosa, a inargentare la polvere nell’aria. Ce n’era un mucchio, di polvere.
Grazie a Rafael, avevamo anche un bel davanzale. Rafael scrutò l’angolo ondulato del vetro. «Ehi, pare quasi che si sia fuso» disse. Annuì d’approvazione e se ne andò fischiettando, arnesi in spalla. Pa’ e io girammo per la casa, facendo pulizia e guardando fuori, uscendo fuori per guardare dentro.
«È fantastico» disse Pa’, con un sorriso beato. «Henry, hai avuto davvero una bella idea. Posso sempre contare su di te, per le belle idee.»
Celebrammo con una stretta di mano. Sentii la forza della sua destra, mi diede un senso di calore. Bisogna avere l’approvazione del proprio padre. Continuai a muovere la mano su e giù, finché lui non scoppiò a ridere.
Mi ricordò Steve. Lui non aveva mai avuto l’approvazione di suo padre e non l’avrebbe avuta mai. Doveva essere come andare in giro con una spina nella scarpa. Lo sento nel piede della mia mente, Horatio. Cominciai a credere di capirlo meglio, e nello stesso tempo sentivo di non capirlo affatto… il vero, autentico Steve, voglio dire. Riesco a ricordarne bene il viso solo nei sogni, quando mi ritorna perfettamente. Ed era dura descriverlo esattamente nel libro; il modo come riusciva a farti ridere, a farti sentire sicuro di vivere davvero. Mi sedetti a lavorarci, alla luce della nostra finestra nuova.
«Dovrò cucire un bel paio di tendine» disse Pa’; guardò assorto la finestra, prendendo nella mente le misure.
Qualche tempo dopo mi unii al piccolo gruppo che andava all’ultimo raduno di scambio dell’anno. I raduni invernali erano assai diversi da quelli estivi; c’era meno gente e si concludeva un numero minore di scambi. Stavolta c’era una pioggerella continua; tutti non vedevano l’ora di scambiare quel che avevano portato e di andarsene. Le discussioni sui prezzi si mutarono rapidamente in litigi e a volte in zuffe. Gli sceriffi avevano il loro bel da fare. Parecchie volte udii uno di loro gridare: «Fate lo scambio e sloggiate! Allora, cosa c’è da litigare?»
Passai frettolosamente da un tendone all’altro; al riparo della pioggia, cercai di fare del mio meglio per scambiare stoffa o abiti vecchi per Pa’. Potevo offrire solo alcune orecchie di mare e un paio di canestri: era dura.
In un campo di sciacalli avevano acceso un falò versando benzina sopra la legna umida; sotto quel tendone si era riunita parecchia gente. Mi unii alla piccola folla; dopo un poco, trovai finalmente una donna disposta a cedere un mucchio di abiti strappati in cambio delle mie cose.
Contato tutto pezzo per pezzo, lei disse: «Ho sentito che voi di Onofre avete fatto davvero un bello scherzo, a quella gente del sud.»
«Come sarebbe?» chiesi, con un lieve sobbalzo.
Lei rise, mettendo in mostra i denti rotti e scuri; bevve un sorso da una bottiglia. «Non fare il furbo con me, zappaterra.»
«No, certo» dissi. Mi offrì la bottiglia, ma scossi la testa. «Che cosa avremmo fatto a quelli di San Diego?»
«Ah! Avremmo fatto. Vedremo come ve la caverete, quando verranno a chiedervi perché avete ucciso il loro sindaco.»
Il gelo di quel fosco pomeriggio mi penetrò nelle ossa. Mi sedetti per terra. Presi dalla donna la bottiglia e bevvi qualche sorso di aspra acquavite di granturco. «Su, raccontami cos’hai sentito» dissi.
«Be’» attaccò lei, felice di spettegolare «la gente dell’interno dice che avete portato il sindaco e i suoi uomini dritti in un’imboscata dei musi gialli.»
Annuii, perché continuasse.
«Ah-ha! Ora lo ammette, il furbastro. Così la maggior parte è rimasta uccisa, compreso quel loro sindaco. E sono furiosi, per questo. Se non si fossero messi a combattere aspramente fra loro per stabilire chi ne prenderà il posto, ve la farebbero pagare cara. Ma ora ogni uomo di San Diego vuole diventare sindaco, almeno così dice la gente dell’interno, e io ci credo. A quanto pare, laggiù tira aria di burrasca, in questo periodo.»
Bevvi un altro sorso del terribile liquore: mi colò nello stomaco come un grosso piombo da lenza. Intorno a noi la pioggerella si condensò in nebbia fra gli alberi; gocce più grosse caddero dal bordo del tendone.
«Ehi, zappaterra, stai bene?»
«Sì, sì.» Raccolsi in un pacco gli stracci, la ringraziai e me ne andai. Avevo fretta di tornare a Onofre per dare a Tom la notizia.
Durante un altro pomeriggio piovoso, mi rilassavo, seduto nell’officina di Rafael. Avevo riferito a Tom le notizie apprese al raduno; lui ne aveva parlato a John Nicolin e a Rafael, ma nessuno dei due pareva essersene preoccupato, e questo mi sollevava il morale. Ora la faccenda non era più nelle mie mani e mi limitavo a passare il tempo. Kristen e Rebel sedevano a gambe incrociate davanti alla doppia fila di finestre; facevano cestini e spettegolavano. Rafael, seduto su uno sgabello basso, armeggiava con una batteria. Utensili e pezzi di macchinario erano disseminati sul pavimento tutto macchie; intorno a noi c’erano i prodotti dell’inventiva e dell’operosità di Rafael: tubi per portare nella stanza vicina il calore della stufa, una piccola fornace, un generatore elettrico posto su ceppi e collegato a una bicicletta, e così via.
«Il liquido si rovina» disse Rafael, in risposta a una mia domanda. «Tutte le batterie che quel Giorno erano piene, ormai sono scomparse da tempo. Corrose. Ma per nostra fortuna nei magazzini ce n’erano alcune vuote. Non servono a niente, quindi è facile procurarsele con uno scambio. Alcuni sciacalli di mia conoscenza usano batterie; se glielo chiedo, portano gli acidi ai raduni. Poca gente ne fa richiesta, perciò faccio scambi vantaggiosi.»
«Ed è così che fai funzionare il carrello lì fuori?»
«Infatti. Ma non serve a niente. Di solito.»
Per un poco restammo in silenzio a ricordare. «Così quella notte ci hai uditi?» chiesi.
«Sulle prime, no. Ero sul Basilone, ho visto le luci. Poi ho udito la sparatoria.»
Dopo un poco scossi la testa per schiarirmi le idee e cambiai argomento. «Non hai mai pensato a una radio, Rafael? Non hai mai provato a ripararne una?»
«No.»
«Come mai?»
«Non so. Troppo complicate, immagino. E gli sciacalli chiedono un mucchio di roba per una radio. Che sembra sempre un rottame.»
«Come gran parte della roba che prendi.»
«Be’, sì.»
«Potresti imparare da un manuale come funzionano, no?»
«Non sono molto bravo a leggere, Hank, lo sai.»
«Ma ti aiuteremmo noi. Io leggerei le parole e tu ne troveresti il significato.»
«Può darsi. Ma dovremmo avere una radio e un mucchio di ricambi; anche così, niente garantisce che riuscirei a ripararla.»
«Però ci proveresti?»
«Oh, certo, certo.» Rise. «Sei incappato in una miniera d’argento, giù alla spiaggia che ispezionavi con tanta attenzione?»
Diventai rosso. «Ma va’.»
Rafael si alzò e andò a frugare nella grossa credenza contro la parete. Tornai a sedermi pigramente per terra, contro il cuscino. Sotto la finestra, Kristen e Rebel lavoravano. Confezionavano cestini con aghi secchi di pino di Torrey, macerati nell’acqua perché tornassero flessibili. Rebel prese un ago e con cura riunì le cinque lamine, in modo da formare un cilindretto. Poi piegò l’ago in modo da renderlo una piccola ruota piatta e vi legò vari pezzi di lenza da pesca, allargandoli come raggi di una ruota. Un altro ago di pino fu sottoposto allo stesso trattamento e legato all’esterno del primo. E così via, fino a formare un fondo piatto. Ben presto gli aghi furono messi direttamente uno sull’altro e cominciarono a formare i lati del cestino.
Ne raccolsi uno già terminato e lo esaminai, mentre Rebel continuava a legare il filo attorno agli aghi. Il cestino era solido, ogni ago sembrava un pezzetto di fune in miniatura, tanto le cinque lamine combaciavano per bene. Le quattro file di protuberanze che ornavano quel particolare cestino si alzavano a forma di S, mostrando solo quanto il cesto sporgeva e s’incavava. Che pazienza, a sistemare tutti quegli aghi! Che abilità, a legarli al posto giusto! Picchiai il cestino per terra ed esso rimbalzò elegantemente, mostrando flessibilità e robustezza. Guardando Rebel spingere il filo a passare fra due aghi e in un complicato piccolo occhiello, mi venne in mente che avevo un compito in un certo senso simile al suo. Quando scrivevo il libro, legavo insieme le parole come lei legava gli aghi di pino e speravo di disporle secondo un certo disegno. Per un attimo desiderai di fare un libro preciso, solido, bello come i cestini che Rebel intrecciava. Ma era un’impresa più grande di me e lo sapevo.
Rebel alzò gli occhi, vide che la guardavo e rise, imbarazzata. «Certo che è una noia» disse. Kristen annuì, un ago di pino fra i denti.
Un altro giorno, le nuvole ci avrebbero concesso qualche ora di pesca, ma il mare era talmente alto da non permetterci di portare fuori le barche. Terminato di scrivere, andai alle scogliere e vi trovai il vecchio, seduto sopra una sporgenza alla base della scogliera, al riparo dal vento.
«Ehi!» lo salutai. «Cosa ci fai quaggiù?»
«Guardo le onde, ovviamente. Come qualunque persona assennata.»
«Secondo te bisogna essere assennati per scendere quaggiù a guardare a bocca aperta le onde, eh?» Mi sedetti accanto a lui.
«Buon senso o sensibilità, eh, eh!»
«Non capisco.»
«Lascia perdere. Guarda quella!»
Le onde avanzavano da sud, si frangevano in muraglie enormi che andavano da un capo all’altro della spiaggia. Erano già visibili molto al largo; potevo sceglierne una a metà strada fra la riva e l’orizzonte, e seguirla per tutto il percorso. Verso la fine, diventavano sempre più alte, fino a sembrare dirupi grigi che si precipitavano a incontrare la nostra scogliera rossiccia. Un uomo in piedi alla base di un’onda del genere sarebbe sembrato una bambola. Quando la cima torreggiante dell’onda cadeva in avanti e tutta la massa d’acqua le rotolava dietro, gli spruzzi esplodevano nell’aria, più in alto ancora, con un rombo e un brontolio che faceva vibrare distintamente la scogliera sotto di noi. L’acqua torturata si lanciava su se stessa in una corsa ribollente fino alla spiaggia. Qui ondate d’acqua bianca spazzavano la sabbia ed erano risucchiate indietro a sbattere contro l’onda successiva. Solo una striscia di sabbia, alla base della scogliera, restava asciutta; ne andava della vita, camminare sulla spiaggia quel giorno. Tom e io sedemmo in una nebbiolina di spruzzi bianchi e salati; per parlare, dovevamo superare l’intenso fragore dei frangenti.
«Guarda quella!» continuava a gridare Tom. «Guarda quella! Sarà alta dieci metri, scommetto.»
Al di là dei marosi, l’oceano si estendeva all’orizzonte nella foschia confusa. Una bassa coltre di nubi irregolari, bianche e grigie, ricopriva il cielo, schivando a malapena le montagne alle nostre spalle. Agli squarci delle nubi corrispondevano chiazze più vivide sulla superficie plumbea dell’acqua; e queste chiazze formavano una linea irregolare fino all’orizzonte. Sembravano la pista di uno sciacallo ubriaco con un buco in tasca, che seminava monete d’argento da lì al confine del mondo. Qualcosa, in quello spettacolo… la presenza di quella distesa d’acqua, la dimensione, la potenza delle onde… m’indusse ad alzarmi e a percorrere avanti e indietro la scogliera, alle spalle di Tom; a fermarmi a fissare il crollo di una montagna d’acqua particolarmente mostruosa; a scuotere la testa per lo stupore o per la disperazione; ad andare avanti e indietro e a darmi manate sulle cosce, cercando il modo di dirlo, a Tom o a qualsiasi altro. Inutilmente. Il mondo si riversa e trabocca dal cuore, finché la parola diventa inutile, è un fatto. Vorrei sapermi esprimere meglio. Cominciai a dire cose… pronunciai parole e le troncai a mezzo… andai avanti e indietro, sempre più agitato, mentre cercavo di pensare con esattezza cosa sentivo e come esprimerlo.
Era impossibile. E se avessi cercato davvero la precisione, sarei rimasto lì tutto il giorno a guardare quelle valanghe d’acqua, muto e stupefatto. Ma la mia mente passò a un altro mistero. Posai la mano sul fianco. Tom mi guardò curiosamente. Sbottai: «Tom, perché ci hai raccontato tutte quelle menzogne sull’America?»
Si schiarì la gola. «Ehm. Chi ha detto che sono menzogne?»
Mi fermai davanti a lui, lo fissai.
«E va bene.» Tom batté la mano sulla sabbia, accanto a sé: ma rifiutai di sedermi. «Facevano parte delle lezioni di storia» disse. «Se la tua generazione dimentica la storia di questo paese, non avrete alcuna direttiva. Non avrete niente a cui riferirvi. Capisci, c’era un mucchio di cose dei vecchi tempi che ci serve ricordare, che dobbiamo riavere.»
«L’avevi fatta sembrare l’età dell’oro. Come se ci limitassimo a esistere fra le rovine.»
«Be’, in un mucchio di sensi è vero. Meglio saperlo…»
Schioccai le dita. «Ma no! No! Hai anche detto che i vecchi tempi erano orribili. Che viviamo una vita migliore adesso. Hai detto proprio questo, quando discutevi con Doc e con Leonard, ai raduni, e a volte anche quando parlavi con noi. Ce l’hai detto tu.»
«Be’» ammise a disagio «anche in questo c’è del vero. Cercavo di dirvi com’era. Non ho mentito… non molto, voglio dire; e mai su cose importanti. Solo di tanto in tanto, per darvi l’idea di come fossero, di quali sentimenti provocassero.»
«Ma ci hai detto due cose differenti» replicai. «Due cose contraddittorie. Onofre era primitivo e degradato, ma non dovevamo neppure augurarci che tornassero i vecchi tempi, perché erano male. Non ci resta niente che sia nostro, niente di cui essere orgogliosi, ci hai confusi!»
All’improvviso guardò al di là di me, il mare. «D’accordo» disse. «Forse hai ragione. Forse ho fatto un errore.» Divenne querulo. «Non sono poi quel gran saggio d’un uomo, ragazzo. Sono solo un altro stolto come te.»
Goffamente mi girai e ripresi per un poco a camminare avanti e indietro. Non aveva nessun buon motivo per mentirci in quel modo. L’aveva fatto per divertimento. Perché le sue storie sembrassero più belle. Per divertire se stesso.
Tornai a sedermi accanto a lui. Guardammo le secche ridurre in fanghiglia altre onde. Sembrava che l’oceano volesse spazzare via l’intera valle. Tom tirò dei ciottoli sulla spiaggia. Sospirò con aria cupa.
«Sai dove vorrei essere, quando morirò?»
«No.»
«Sulla cima di monte Whitney.»
«Eh?»
«Sì. Quando sentirò arrivare la fine, vorrei tornare verso l’interno, percorrere la 395 e poi salire in cima a monte Whitney. È solo una passeggiata, arrivare in cima; ma è la montagna più alta degli Stati Uniti. Scusa, la seconda, in ordine d’altezza. C’è una piccola capanna di pietra, lassù; potrei starmene lì a guardare il mondo fino alla morte. Come facevano gli antichi pellirosse.»
«Ah. Sembra un bel modo d’andarsene.»
Non sapevo cos’altro dire. Lo guardai… lo guardai sul serio, intendo. Buffo: ora che aveva ammesso di avere ottant’anni e non centocinque, mi pareva più vecchio. Certo, la malattia l’aveva sciupato non poco. Ma credo che il motivo fosse un altro: vivere fino a centocinque anni era una sorta di miracolo che poteva prolungarsi all’infinito, mentre arrivare all’ottantina rientrava nel normale ordine delle cose. Tom era solo un vecchio, un vecchio bizzarro, ecco tutto; e ora me ne accorgevo. Ero più colpito adesso che fosse arrivato agli ottanta, di quando pensavo che ne avesse centocinque. E sembrava giusto.
Quindi era vecchio, sarebbe morto presto. Oppure avrebbe fatto il tentativo di andare sul Whitney. Un giorno sarei salito sul costone e avrei trovato vuota la casa. Forse sul tavolo ci sarebbe stato un biglietto con una frase: “Sono andato sul Whitney”; ma era più facile che non ci fosse niente. Però io avrei capito lo stesso. Avrei immaginato il suo viaggio da lì. Sarebbe riuscito a percorrere sessanta chilometri verso nord, fino alla natia Orange?
«Non puoi partire in questo periodo dell’anno» dissi. «Ci sarà neve, ghiaccio, eccetera. Dovrai aspettare.»
«Non ho nessuna fretta.»
Ci mettemmo a ridere e il momento passò. Cominciai a pensare al nostro viaggio disastroso nell’Orange County. «Non riesco a capacitarmi di come abbiamo potuto agire così stupidamente» dissi, con voce scossa per la rabbia e per il dolore.
«Una vera stupidata» convenne. «Voi ragazzi avete la scusa della giovinezza e del cattivo insegnamento; ma il Sindaco e i suoi uomini… loro sì che sono stati maledettamente stupidi.»
«Ma non possiamo cedere» dissi, battendo il pugno sull’arenaria. «Non possiamo girarci dall’altra parte e fare il morto.»
«È vero.» Rifletté per qualche momento. «E forse impedire le intrusioni nel paese è il primo passo.»
«Non ce la faremo mai. Non con quello che hanno loro e con quel poco che abbiamo noi.»
«E allora? M’è sembrato di sentirti dire che non dobbiamo fare il morto.»
«Già.» Sollevai i piedi da terra, mi dondolai avanti e indietro. «Dobbiamo escogitare un altro sistema di resistenza, un sistema che funzioni. O facciamo qualcosa che funziona, o aspettiamo finché non sia possibile farlo. Senza simili stronzate nel frattempo. Tutti i villaggi che vengono ai raduni, se agissero di comune accordo, potrebbero imbarcarsi e assalire di sorpresa Catalina. Impadronirsene per un certo periodo.»
Tom mandò un fischio, debole e sdentato.
«Per un breve periodo, voglio dire» continuai. L’idea m’era venuta di recente e mi entusiasmava. «Con le attrezzature radio dell’isola, diremmo al mondo intero che siamo qui, che non ci piace essere tenuti in quarantena.»
«Pensi in grande.»
«Ma non è impossibile. In un prossimo futuro, comunque, quando ne sapremo di più su Catalina.»
«Forse non farebbe differenza, sai? Comunicarlo al mondo, intendo. Il mondo potrebbe essere ormai una sola, enorme Finlandia; e in questo caso al massimo potrebbe rispondere: «Vi sentiamo, fratelli. Siamo nella stessa barca». E poi i russi sciamerebbero su di noi.»
«Ma vale la pena fare il tentativo» insistetti. «Come hai detto tu, in realtà non sappiamo cosa succede nel mondo. E non lo sapremo mai, finché non tenteremo una cosa del genere.»
Scosse la testa, mi guardò. «Costerebbe un mucchio di vite umane, sai. Vite come quella di Mando… persone che avrebbero vissuto la loro parte, per rendere migliori le cose nelle nostre nuove città.»
«La loro parte!» replicai, sprezzante. Però mi aveva scosso. Mi aveva fatto ricordare che piani militari grandiosi come il mio si riducevano in caos e sofferenza e morti insensate. In un attimo tornai nell’incertezza completa e l’idea ardita mi parve solo stupidità all’ennesima potenza. Certo Tom me lo lesse in faccia, perché ridacchiò e con il braccio mi circondò le spalle.
«Non crucciarti, Henry. Siamo americani: per molto, molto tempo non è mai stato chiaro cosa ci si aspetta da noi.»
Un’altra bianca montagna d’acqua, scagliandosi contro di noi, si frantumò in una miriade di spruzzi. Un altro progetto si sbriciolava, era spazzato via. «Immagino di no» replicai, scontroso. «Fin dai tempi di Shakespeare, eh?»
«Ehm!» Tom si schiarì la gola un paio di volte, ritrasse il braccio, si scostò un briciolo da me. «Uh, a proposito» disse, guardandomi con ansia «mentre parliamo di storia e, uh, di menzogne, dovrei fare una rettifica. Be’, ah… Shakespeare non era americano.»
«Oh, no» mormorai. «Vuoi scherzare.»
«No. Eh…»
«E l’Inghilterra, allora?»
«Be’, non era lo stato guida dei primi tredici.»
«Ma me l’hai mostrata sulla carta geografica!»
«Quella era solo l’isola Martha’s Vineyard, purtroppo.»
Ero rimasto a bocca aperta. Me ne accorsi, la chiusi di scatto. Tom batteva i talloni, a disagio. Non gli avevo mai visto un’aria così infelice. Evitava di guardarmi negli occhi. Poi indicò qualcuno e disse, con sollievo: «Sembra John, no?»
Mi girai a guardare. Lungo la cresta della scogliera, dalle parti di Concrete Bay, scorsi una sagoma tozza che camminava mani in tasca. Era proprio John Nicolin: per quanto lontano, lo si riconosceva subito. Veniva rapidamente nella nostra direzione e guardava il mare. Nei giorni in cui non era possibile uscire a pesca, quando non lavorava alle barche, stava quasi sempre sulla scogliera, in particolare se il tempo era buono ma il mare grosso ci bloccava. In queste occasioni sembrava vittima di un grave affronto personale: andava avanti e indietro per la scogliera, cupo in volto, e guardava le onde; trattava scorbuticamente chiunque fosse tanto sfortunato da avere a che fare con lui. Il mare grosso ci avrebbe tenuti a riva per due giorni almeno, forse quattro; ma lui fissava le muraglie bianche e fumanti, come se cercasse un segno di giunzione o una corrente di risucchio che offrissero una via per uscire in mare. Mentre veniva vicino, le gambe dei calzoni gli sbattevano e i riccioli sale e pepe gli sventolavano sulle spalle come una criniera. Guardò dalla nostra parte; nel vederci, esitò; poi proseguì con il suo solito passo. Tom agitò la mano a salutarlo, gli impedì di fingere di non averci visti.
John si fermò a qualche metro da noi, le mani sempre in tasca; ci scambiammo un cenno e un borbottio di saluto. Venne più vicino. «Sono contendo di vedere che ti sei ripreso» disse a Tom, in tono spiccio.
«Grazie. Mi sento benissimo. Fa piacere essere in piedi e muoversi.» Tom sembrava a disagio quanto John. «Bella giornata, vero?»
John alzò le spalle. «Il mare grosso non mi va.»
Una lunga pausa. John strisciò il piede come se stesse per andarsene.
«Non ti ho visto, negli ultimi due giorni» disse Tom. «Sono passato da casa tua a salutare; la signora N. mi ha detto che eri via.»
«Infatti» rispose John. Sedette sui talloni accanto a noi, gomito sul ginocchio. «Volevo parlartene. Anche a te, Henry. Sono andato a dare un’occhiata alla ferrovia che usano quelli di San Diego.»
Le ispide sopracciglia di Tom parvero arrampicarglisi sulla fronte. «Come mai?»
«Be’, da quanto dice Gabby Mendez, pare che abbiano usato i nostri ragazzi come copertura, dopo l’imboscata. E adesso salta fuori che il sindaco è rimasto ucciso. Sono andato a chiedere conferma ad alcuni amici sui Pendleton, dicono che è vero. Dicono che laggiù c’è una guerra vera e propria, fra tre o quattro gruppi che vogliono il potere del defunto sindaco. Già questa storia suona male; e se vince il gruppo sbagliato, forse saremo nei guai. Così Rafe e io ci siamo detti che bisognerebbe distruggere le rotaie una volta per tutte. Sono andato a esaminare il primo attraversamento su ponte: Rafe potrebbe far saltare i piloni, con i suoi esplosivi. E dice pure che è facile far saltare le rotaie ogni centinaio di metri.»
«Caspita!» disse Tom.
John annuì. «Una mossa drastica, d’accordo, ma penso che sia quella giusta. Se vuoi il mio parere, quella gente giù a San Diego è pazza! Comunque, volevo chiederti cosa ne pensi. Stavo già per dire a Rafe di procedere, ma…»
Ma sarebbe stata un’azione assai simile a quella fatta da Steve e da me. Tom si schiarì la voce. «Non vuoi indire una riunione a questo proposito?» chiese.
«Be’, sì. Ma prima vorrei conoscere il parere di alcuni di voi.»
«Per me è una buona idea» disse Tom. «Se ci ritengono colpevoli dell’imboscata, e se la spunta il gruppo di super-patrioti… sì, è una buona idea.»
John annuì, parve soddisfatto. «E tu, Henry?»
Mi colse di sorpresa. «Direi di sì. Forse un giorno o l’altro vorremo utilizzare anche noi quelle rotaie. Ma non accadrà tanto presto» aggiunsi (John aveva socchiuso gli occhi) «e per prima cosa dobbiamo preoccuparci di tenerli lontano. Sono d’accordo.»
«Bene. Probabilmente dovremmo cercare di discutere con loro, al raduno di scambio, se ce ne sarà l’occasione. E mettere in guardia gli altri, anche.»
«Un momento» disse Tom. «Devi ancora indire la riunione e ottenere voto favorevole. Se cominciamo a fare di testa nostra, come i ragazzi qui, diventeremo della forza di quelli di San Diego.»
«Giusto.»
Mi sentii arrossire. John mi lanciò un’occhiata. «Non intendo fartene una colpa.»
Con un ciottolo graffiai l’arenaria. «La colpa ce l’ho anch’io come qualunque altro.»
«No.» Si alzò, si morse il labbro. «Era un piano di Steve, c’è il suo segno dappertutto.» La voce gli divenne più tesa, salì di tono.
«Quel ragazzo ha sempre voluto tutto alla sua maniera, fin dall’inizio. Come strillava, se la madre non scattava a ogni suo capriccio!» Con una scrollata lasciò perdere i ricordi, mi guardò di traverso. «Ma secondo te, sono io quello da biasimare, immagino. Sono stato io a spingerlo via.»
Scossi la testa, anche se una parte di me pensava proprio quello. Ed era vero, in un certo senso. Ma non del tutto. Non riuscivo a rendere chiaro il concetto neppure a me stesso.
John spostò lo sguardo su Tom, ma il vecchio si limitò a stringersi nelle spalle. «Non so, John, non so proprio. Ognuno ha il suo carattere, no? Chi ha spinto Henry a desiderare tanto di leggere i libri? Nessuno di noi. E chi ha spinto Kathryn a coltivare il grano e a farne pane? Nessuno di noi. E chi ha spinto Steve a voler vedere il mondo? Nessuno. L’avevano dentro dalla nascita.»
«Mmm» disse John, serrando le labbra. Non era convinto, anche se restava assolto, anche se un attimo prima aveva detto le stesse cose. John credeva sempre che le sue azioni avessero un effetto. E con suo figlio, che per una vita era stato sotto le sue cure… gli leggevo in viso che pensava proprio questo, con la stessa chiarezza con cui si interpreta la faccia di un bambino. Fu attraversato da un’ondata di dolore, ma si scosse subito e con un cupo schiocco di lingua contro i denti ricordò a se stesso che eravamo lì. Si richiuse in sé.
«Be’, ormai è passato» disse. «Non sono capace di filosofare, sai.»
Così la faccenda fu chiusa. Ai forni, pensai, una conversazione del genere fra le donne si sarebbe svolta in ben altro modo: rimuginiò su ogni particolare degli eventi e delle motivazioni, discussioni, strilli, lacrime e via di seguito; mi veniva da ridere. Noi uomini siamo gente parca di parole, quando si tratta di cose importanti. John si era messo a camminare in cerchio, come avevo fatto io poco prima; ben presto il suo nervosismo ci contagiò, tanto da farci alzare a sgranchirci. Dopo un poco giravamo tutt’e tre come gabbiani, mani in tasca, guardando i marosi e segnando a dito le onde particolarmente alte.
Nel guardare indietro verso la valle, ora piena di alberi gialli fra i sempreverdi, mi fermai. «Ci serve una radio» dissi. «Come quella di San Diego. Una radio funzionante. Riescono a captare trasmissioni da centinaia di chilometri di distanza, giusto?»
«Alcune, sì» disse Tom. Anche lui e John si fermarono.
«Se ne avessimo una, potremmo captare le navi giapponesi. Anche senza capire la lingua, sapremmo dove si trovano. E ascolteremmo Catalina, forse, o anche altre parti del paese, altre città.»
«Le radio più potenti ricevono e trasmettono a mezzo mondo» commentò Tom.
«Lontano, comunque» lo corressi; e Tom sogghignò. «Avremmo orecchie, capite: così scopriremmo cosa succede là fuori.»
«Mi piacerebbe avere una radio del genere» ammise John. «Però non vedo come procurarcela.»
«Ne ho parlato a Rafael. Gli sciacalli, dice lui, portano sempre ai raduni radio e parti di ricambio. Al momento lui non sa niente di radio, ma pensa di riuscire a produrre l’energia necessaria a farne funzionare una.»
«Sicuro?» chiese Tom.
«Già. Lavora un mucchio sulle batterie. Gli ho detto che gli avremmo procurato un manuale e l’avremmo aiutato a leggerlo; e che gli avremmo dato roba da scambiare con parti di radio, ai raduni di questa estate; era entusiasta dell’idea.»
John e Tom si scambiarono un’occhiata, come se condividessero un pensiero che non seppi interpretare. John annuì. «Dovremmo farlo. Non possiamo scambiare pesce per questo genere di roba, naturalmente, però troveremo altro… crostacei, forse, o i cestini.»
Un’altra serie di onde gigantesche rotolò verso di noi, inondò la spiaggia fino alla base della scogliera, riportò la nostra attenzione sui marosi.
«Saranno alte almeno dieci metri» ripeté Tom.
«Credi?» disse John. «Pensavo che questa scogliera fosse alta solo dodici.»
«Dodici rispetto alla spiaggia. Ma il cavo dell’onda è più basso. E la cresta è alta quasi quanto noi!» Era vero.
John disse che voleva far uscire le barche anche in giornate così.
«Allora pensavi a questo, mentre camminavi qua sotto» dissi.
«Certo. Vedi, seguendo la corrente del fiume durante l’alta marea…»
«Niente da fare!» esclamò Tom.
«Guarda la turbolenza alla foce» obiettai. «Anche le onde morte saranno alte quattro metri.»
«Basterebbe la prima a rovesciarti e sommergerti» disse Tom.
«Mmm.» John era riluttante… forse aveva negli occhi un bagliore ironico. «Può darsi che tu abbia ragione.»
Girammo ancora intorno alla sporgenza, parlammo delle correnti e della possibilità di un inverno più mite. Al largo, raggi di luce trafiggevano ancora le nubi e indoravano la superficie ondulata dell’oceano. Tom indicò l’orizzonte. «Dovresti invece ritentare la pesca delle balene. Fra poco cominceranno a passare.»
John e io mandammo un gemito.
«No, sul serio, avete rinunciato troppo presto. O ne avevate arpionata una fuori del comune, oppure Rafael l’ha colpita in un punto non vitale.»
«Facile a dirsi» obiettò John. «Ma tanto non sarà mai in grado di piazzare l’arpione dove vorrebbe.»
«No, non intendo questo; solo, la maggior parte delle volte l’arpione farebbe più danno e non le lascerebbe andare tanto a fondo.»
«Se è vero» intervenni «e se aumentassimo la lunghezza della fune…»
«Non c’è spazio sufficiente, sulle barche» disse John.
Ma io pensavo a quando ne avevo discusso con Steve. «Potremmo legare il capo a una fune che corra sopra un verricello posto in un’altra barca, così ne avremmo il doppio.»
«Già» disse John, piegando di lato la testa.
«Se entrassimo nel giro delle balene, avremmo davvero un successone, al raduno» disse Tom. «Offriremmo olio, cibo per animali, tonnellate di carne.»
«Ammesso di riuscire a conservarla» disse John. Ma l’idea gli piaceva: in fin dei conti, era solo un altro tipo di pesca, no? «Sarebbe davvero possibile fare in modo che la fune dell’arpione passi da barca a barca?»
«Facile!» disse Tom. S’inginocchiò, raccolse un ciottolo, si mise a disegnare sulla sabbia. John si accucciò accanto a lui. Guardai l’orizzonte ed ecco che cosa vidi: tre raggi di sole, simili a enormi colonne bianche, ciascuno inclinato da una parte, misuravano la distanza fra le nubi grigie e il mare grigio.
Mentre l’anno s’avvicinava alla fine, le tempeste divennero più frequenti, al punto che più o meno ogni settimana ce n’era una a spingere a riva le onde e a devastarci, lasciando la valle a brandelli e rendendo il mare di un marrone pallido e spumoso per tutto il terriccio che vi si riversava. Quando facevamo uscire le barche, si moriva di freddo e la pesca era scarsa. Trascorsi molte giornate seduto al tavolo sotto la finestra, a leggere, o a scrivere, o a guardare l’arrivo minaccioso di nubi nere. Erano l’avanguardia: dopo, uno schiaffo di vento, a volte un basso brontolio di tuono, annunciava il grosso della tempesta. Le gocce di pioggia scivolavano sul vetro della finestra in mille rivoli che si univano e tornavano a dividersi lungo il vetro. Il tetto ticchettava o picchiettava o tamburellava sotto l’assalto. Dietro di me, Pa’ lavorava alla nuova macchina per cucire: il rn, rn, rn rn rnnnnn! rimproverava la mia pigrizia, a volte con tanto successo da spingermi a scrivere un paio di frasi. Ma era un progresso difficile; e c’erano mucchi di ore in cui mi accontentavo di masticare la matita (scrivendo sui denti poemi epici), di riflettere e guardare la pioggia, cullato dal vento e dal rumore ritmato sul tetto, dal fischio del bricco e dal rn rn, snip snip di Pa’.
La prima tempesta di dicembre portò la neve. Era un piacere starsene seduti nel tepore di casa a guardare dalla finestra i fiocchi che planavano in silenzio fra gli alberi. Pa’ guardò da sopra la mia spalla.
«Sarà un inverno duro» disse.
Non ero d’accordo. Avevamo cibo a sufficienza, anche se si trattava solo di pesce; e ogni giorno, nello stabilimento, asciugavano sempre più legna da ardere. Dopo tutta quella pioggia ero felice di vedere la neve, anche solo per il modo in cui cadeva… lentamente, sulle prime, tanto da non sembrare nemmeno vera. E poi di correre fuori, ad ammucchiarla e a fare palle di neve da tirare ai vicini… mi piaceva, la neve.
Il giorno seguente, il sole spuntò sotto un cielo azzurro chiaro (nubi a spina di pesce nella parte più alta) e la neve si sciolse prima di mezzogiorno. Ma la tempesta successiva portò altra neve, aria più gelida, una coda più lunga di nubi alte; ci vollero quattro giorni prima che il sole aspro spuntasse e la spolverata di bianco si sciogliesse e scorresse nel fiume. Diventava uno schema: valle prima biancoverde sotto cielo nero, poi neroverde sotto cielo bianco. Di settimana in settimana il freddo aumentò.
Di settimana in settimana la mia storia divenne più penosa da scrivere. Mi ci persi… smisi di crederci… scrissi dei capitoli e fui costretto a fare una passeggiata nei boschi, sul tappeto di foglie zuppo d’acqua, addolorato e irritato con me stesso. Eppure, scrissi. Passò il solstizio, passò Natale, passò Capodanno; e andai a tutte le feste, ma mi sembrava di essere nella nebbia e dopo non ricordavo con chi avessi parlato né di che cosa. Per me esisteva solo il libro… eppure era così difficile! A volte consumavo la matita più a morderla che a usarla per scrivere.
Ma venne il giorno il cui il racconto fu sulla pagina, in gran parte. Tutta l’azione conclusa, Mando e Steve scomparsi. Allora mi fermai e mi presi un giorno di riposo per leggere quanto avevo scritto. Ne rimasi così insoddisfatto che a momenti davo fuoco a quelle maledette pagine. Qui tutte quelle cose erano accadute davvero, ci avevano cambiati per tutta la vita, tuttavia quella miserabile stringa di parole non conteneva neppure metà degli eventi… come erano sembrati, quali pensieri avevano generato, come avevo reagito io. Come pisciare per far vedere com’è fatta una tempesta. Non c’era, nel libro, una parte maggiore dell’estate precedente di quanta non ce ne sia, di un albero, in una vecchia scheggia di legno gettata a riva dalla marea. E il lavoro che ci avevo messo… be’, era scoraggiante.
Uscii a fare due passi per riprendermi. In alto, alcune nubi bianche veleggiavano come galeoni, ma la giornata era in gran parte assolata, per quanto l’aria fosse fresca. Dappertutto c’era neve marcia. Pani di neve stavano in equilibrio su ogni ramo, gocciolavano e risplendevano dei colori dell’arcobaleno. Per terra, la neve si frantumava in grossi grani chiari sotto il bagliore del sole; e i grani si mutavano in gocce d’acqua che imperlavano la coperta bianca. Coni di sole si scioglievano in ciuffi d’erba; sui ruscelli che riempivano i sentieri, ponticelli di neve crollavano e lasciavano nel fango pezzi di ghiaccio sporco e ai lati creste di neve nera per gli aghi di pino. Camminai fra queste creste e scavalcai i ponti residui (quelli in ombra), fino alla scogliera; battevo gli stivali nelle pozze, facevo cadere dai rami i pani di neve e li riducevo in schizzi e poltiglia.
Mi sedetti sulla punta della scogliera che sporge sul fiume. Niente marosi; solo minuscole onde lambivano la riva, come se l’intero oceano si movesse su e giù di una spanna. Sulla spiaggia la neve era scomparsa del tutto, ma la sabbia era umida e sconvolta; dappertutto c’erano pozze blu e bianche. Le sparse nubi simili a galeoni non ostacolavano molto il sole, ma conferivano alla sua luce una sfumatura, tanto che lunghi tratti della scogliera erano del colore della corteccia del legno del ferro. Niente marosi, aria immobile, oceano simile a una lastra di vetro azzurro, i galeoni librati in alto senza cambiare posizione.
Notai una cosa mai vista prima. Nel mare azzurro e piatto c’era il riflesso perfetto delle nubi alte, chiaramente contornato, tanto da pensare che fossero sempre quelle, capovolte. Sembrava che galleggiassero sott’acqua, in un cielo azzurro cupo. «Guarda quelle!» dissi ad alta voce, alzandomi. Le nuvole scarrocciavano lentamente a riva sopra la valle e le loro gemelle capovolte scomparivano sotto la spiaggia. Mi fermai a guardare tutta la giornata, sentendomi come riempito da oceani di nuvole. Più tardi nel pomeriggio la brezza da terra scompigliò le nubi specchiate e il sole scese troppo in basso e si rifletté sull’acqua. Ma tornai a casa soddisfatto.
Durante l’inverno, gli sciacalli si rintanano in qualche vecchia casa in rovina, una decina e più per casa, come volpi nel covo. Di notte usano le case vicine come legna da ardere e accendono grossi falò nel cortile anteriore, bevono, ballano al ritmo della vecchia musica, s’azzuffano, ululano, scagliano monili alle stelle e nella neve. Un uomo solo, scivolando su lunghe racchette sopra i mucchi di neve, può spostarsi senza difficoltà fra questi rumorosi insediamenti. Può acquattarsi fra gli alberi come un lupo e guardare indisturbato, finché ne ha voglia, gli sciacalli saltellare nelle loro vesti sgargianti. I loro ritrovi estivi sono aperti alla sua ispezione. E lassù ci sono libri, sì, mucchi di libri. Agli sciacalli piace quel libro piccolo e spesso con il sole arancione sulla copertina, ma nelle rovine ne esistono molti altri a cui nessuno fa caso, intere biblioteche, a volte. Uno può caricarsi di libri finché con le racchette non affonda nella neve fino alla caviglia, e poi tornare, sciacallo di diversa natura, nel suo villaggio, nella sua tana invernale.
Alla fine di gennaio, una tempesta particolarmente violenta scalzò un lato della tettoia nel giardino dei Mendez (loro la chiamavano rimessa); appena spiovuto, tutti i vicini — i Mariani, i Simpson, Pa’ e io, più Rafael chiamato come consulente — uscirono a dare una mano per puntellare la parete pericolante. L’orto dei Mendez era gelido e fangoso come il fondo dell’oceano; non c’era un tratto di terreno solido su cui sistemare i travi per tenere sollevata la parete mentre ci lavoravamo sotto. Alla fine Rafael ci suggerì di legare la tettoia alla grossa quercia che cresceva sul lato opposto.
«Mi auguro che l’intelaiatura sia stata inchiodata bene» scherzò Rafael, mentre eravamo tutti sotto la parete inclinata. Kathryn e io lavoravamo da un lato, Gabby e Del scavavano l’altro, in pratica eravamo tutti sommersi dal fango. Quando infine mettemmo sotto la parete i travi incrociati perché facessero da fondamenta, tutt’e quattro le famiglie erano pronte per i bagni. Rafael ci aveva preceduti, quindi trovammo il fuoco acceso e l’acqua fumante. Ci spogliammo e ci tuffammo nel bagno “sporco”, lanciando grida di gioia.
«Secondo me, ti conviene lasciare la fune lì dov’è» disse Rafael al vecchio Mendez. «Così non ti toccherà mai scoprire se i travi reggono o no.» Mendez non si divertì molto all’idea.
Rotolai nel bagno “pulito” e galleggiai con lui e la signora Mariani e gli altri. Kathryn e io ci sedemmo su una delle isole di legno a chiacchierare. Lei mi chiese se continuavo a scrivere. Avevo quasi terminato, risposi, ma poi avevo piantato lì perché il libro era brutto.
«Non sta a te giudicare» disse lei. «Finiscilo.»
«Prima o poi.»
Parlammo delle tempeste, della neve, delle condizioni dei campi (protetti da teloni per l’inverno), dei marosi che battevano la spiaggia, del cibo.
«Chissà Doc come se la passa» dissi.
«Tom va spesso da lui. Ormai sembrano fratelli.»
«Bene.»
Kathryn scosse la testa. «Anche così… Doc è saltato, sai.» Mi fissò. «Non durerà a lungo.»
«Ah.» Non sapevo che cosa dire. Per un bel pezzo rimasi a guardare i mulinelli d’acqua. «Pensi mai a Steve?» chiesi poi.
«Certo.» Mi guardò negli occhi. «E tu no?»
«Già. Ma ci sono costretto, con il libro.»
Sotto il mio sguardo di rimprovero, lei scrollò le spalle: i capezzoli ballonzolarono sulla superficie piena di bolle. «Ci penseresti, anche senza libro. Se mi assomigli. Ma ormai è il passato, Henry. Ecco cos’è: il passato.»
Le parlai del giorno in cui il mare era così piatto da riflettere le nuvole; lei si appoggiò allo schienale e rise. «Sembra fantastico.»
«Non ho mai visto uno spettacolo più bello.»
Lei allungò la mano sopra l’isola di legno, mi passò il dito lungo la piega dei muscoli nella parte posteriore del braccio. Inarcai le sopracciglia, con un sogghigno mi lasciai scivolare dal sedile e cominciai a stuzzicarla. Mi afferrò per i capelli.
«Henry!» disse ridendo; mi tenne con la testa sott’acqua, dandomi problemi più immediati a cui pensare, tipo soffocare e annegare. Riemersi sputacchiando. Kathryn rise di nuovo e indicò gli amici intorno.
«E allora?» dissi; tornai sotto per un approccio subacqueo, ma lei si mise in piedi e si allontanò spruzzandomi e guidandomi verso i sedili contro la parete, dove c’erano gli altri. Chiacchierammo con Gabby e con Kristen, e più tardi con il vecchio Mendez, che ci ringraziò per l’aiuto.
Ma quando Rafael dichiarò che la razione quotidiana di legna era ormai bruciata tutta, uscimmo dal bagno, ci asciugammo e ci rivestimmo; allora mi guardai intorno: Kathryn, sulla soglia, guardava me. La seguii fuori. All’istante l’aria fredda mi gelò la testa e le mani. Kathryn era lì, nel sentiero fra due alberi. La raggiunsi e la strinsi in un abbraccio. Ci baciammo. Ci sono baci che hanno in sé un intero futuro: lo imparai quella volta. Quando ci staccammo, la madre e le sorelle di Kathryn uscivano chiacchierando dallo stabilimento. La lasciai. Parve sorpresa, pensierosa, compiaciuta. Se fosse stata estate… ma era inverno, c’era neve dappertutto. E l’estate era in arrivo. Kathryn mi sorrise; con una carezza si allontanò a raggiungere la famiglia, girandosi una volta a incrociare il mio sguardo. Quando fu fuori vista, tornai a casa nel crepuscolo (neve bianca, alberi neri) con in mente un’idea del tutto nuova.
Certi pomeriggi mi limitavo a stare seduto alla finestra e a guardare il libro, chiuso, al centro della tavola. Un pomeriggio di quelli, i fiocchi di neve volteggiavano fra gli alberi e cadevano a terra lentamente come pappi di soffione; ogni ramo, ogni ago, avevano la punta di un bianco nuovo. In questo scenario avanzò una figura in racchette da neve, vestita di pelliccia. L’uomo aveva un bastone per mano, per tenersi meglio in equilibrio; quando sfiorava gli alberi, faceva precipitare piccole valanghe, sulla sua testa e lungo la schiena. Il vecchio va in giro a tendere trappole, pensai. Ma lui venne dritto alla finestra e gesticolò.
M’infilai gli stivali e uscii. Faceva freddo.
«Henry!» chiamò Tom.
«Che succede?» dissi, girando l’angolo.
«Ero fuori a controllare le trappole, quando mi sono imbattuto in Neville Cranston, un mio vecchio amico. Lui passa l’estate a San Diego e l’inverno a Hemet; era appunto diretto a Hemet, perché quest’anno è partito in ritardo.»
«Peccato» commentai cortesemente.
«No, stammi a sentire! Ha lasciato da poco San Diego, non mi ascolti? E sai cosa mi ha detto? Che il nuovo sindaco è Frederick Lee!»
«Cosa?»
«Il nuovo sindaco di San Diego è Lee. Neville dice che Lee non è mai andato d’accordo con quel Danforth, perché non approvava i suoi piani bellicosi, capisci.»
«Ecco perché non l’avevamo più visto.»
«Infatti. Be’, è chiaro che c’era un mucchio di gente che appoggiava Lee, ma che non poteva fare niente, finché Danforth e i suoi avevano il controllo delle armi. Neville dice che laggiù si sono azzuffati per tutto l’autunno; ma un paio di mesi fa i sostenitori di Lee hanno organizzato libere elezioni e Lee ha vinto.»
«Be’, immagina un po’.» Ci fissammo e mi trovai a sorridere. «È una buona notizia, no?»
«Buona davvero.»
«Peccato che ormai abbiamo fatto saltare le rotaie.»
«Non so se arriverei a quel punto, ma è una buona notizia, non c’è dubbio. Bene» agitò in alto un bastone «è un tempo schifoso per stare fuori a chiacchierare. Me ne vado.» Con un lieve fischio s’inoltrò fra gli alberi, lasciando una pista di orme profonde. Capii che potevo terminare il libro.
Il libro era posato sul tavolo. Una notte (il 23 febbraio) si era alzata la luna piena. Andai a letto senza guardare il libro, ma non riuscivo a dormire. Continuavo a pensarci, a parlare dentro di me alle pagine. Una voce, dentro di me, diceva tutto perfettamente, molto meglio di quanto non avrei mai potuto fare io: questa voce declamava lunghi brani immaginari, narrandoli con i massimi particolari e con la massima eloquenza, facendoli rivivere. Ne udivo i ritmi, con la stessa chiarezza del russare di Pa’ (anche se il significato era assai meno chiaro) e mi faceva male tanto era bella. Pensai, è il fantasma di un ignoto poeta venuto a farmi visita, forse a mostrarmi come raccontarlo.
A lungo andare la voce m’indusse ad alzarmi e a terminare il libro. La casa era fredda, nella stufa il fuoco si era ridotto a un velo di braci grigie. Indossai calzoni e calze, una camicia spessa, una coperta sulle spalle. Dalla finestra entrava il chiaro di luna, simile a una barra d’argento, e mutava i mobili di legno nudo in oggetti finemente intagliati, quasi vivi. Era una luce così chiara da permettermi di scrivere. Sedetti al tavolo sotto la finestra e scrissi con tutta la velocità che la mano mi consentiva, anche se le frasi non sembravano affatto quella della voce udita mentre ero disteso a letto. Neppure per sbaglio.
Trascorse la maggior parte della notte. La sinistra mi doleva per il troppo scrivere ed ero irrequieto. La luna si tuffava fra gli alberi, togliendomi la luce. Decisi di uscire a fare due passi. M’infilai gli stivali e la giacca pesante, cacciai nell’ampia tasca il libro e alcune matite.
Fuori faceva ancora più freddo. Sull’erba la rugiada scintillava sotto i raggi della luna. Sul sentiero del fiume mi fermai a guardare su per la valle, che s’allontanava nell’aria densa, a chiazze di nero e di bianco. Non c’era traccia di vento. Tutto era calmo e immobile, tanto che udivo la neve sciogliersi intorno, gocciolare con una musica liquida, plink plonk, pip pip pip pip, gurgle gorgle plop tik tik plop, plop plop plink plop pip pip pip… Un coro acquatico della foresta, sì, che mi accompagnava mentre sciaguattavo lungo il sentiero, mani in tasca. Fiume nero fra alberi sale e pepe.
Sul sentiero della scogliera fui costretto a procedere con cautela, perché i gradini erano per metà neve marcia, per metà fanghiglia. Giù sulla spiaggia il frangersi di ogni singola onda risuonava chiaro e netto. Nell’aria brillava la nebbiolina salata: per gli spruzzi e per il chiaro di luna non si vedeva nemmeno una stella, solo un confuso cielo nero, bianco intorno alla luna. Camminai fino al promontorio accanto alla foce, dove si era formata una graziosa collina di sabbia, tagliata ai lati dal fiume e dall’oceano. Mi sedetti nel punto in cui quei due piccoli promontori di sabbia s’incontravano, attento a non far crollare la montagnola. Presi di tasca il libro, lo aprii; e lì sono seduto proprio in questo momento, catturato infine, a scribacchiare alla luce della vecchia, grassa luna.
So bene che questa è la parte della storia in cui l’autore tira le fila in un elegante svolazzo che spiega il significato; ma per fortuna qui nel libro resta solo un paio di pagine bianche, quindi non ho spazio. Ne sono lieto. Ho fatto bene a prendermi la briga di copiare quei capitoli di Un americano intorno al mondo, visto il risultato. Il vecchio mi disse che, terminato di scrivere, avrei capito che cos’era accaduto, ma sbagliava di nuovo, il bugiardo. Ho fatto la fatica di mettere tutto per iscritto; ora che ho finito, non ho la minima idea del significato. A parte il fatto che quasi tutto quel che conosco è sbagliato, soprattutto quel che ho appreso da Tom. Devo ripassare quel che so e indovinare dove ha mentito e dove ha detto la verità. Ho già cominciato, con i libri trovati e con quelli che ho preso in prestito da lui di nascosto; ho scoperto un mucchio di cose. Ho scoperto che l’impero americano non ha mai incluso l’Europa, come diceva lui… che non seppellivano i morti in un’armatura d’oro… che non siamo stati la prima e unica nazione ad andare nello spazio… che non abbiamo costruito automobili che volavano e che galleggiavano sull’acqua… che non ci sono mai stati draghi da queste parti (non credo, almeno, anche se forse non sarebbero citati in un manuale d’ornitologia). Tutte menzogne… queste, e cento altri fatti ancora che Tom mi ha raccontato. Tutte bugie.
Vi dirò che cosa so davvero: la marea è cessata e le onde rotolano su per la foce. Sulle prime sembra che ogni onda spinga verso terra tutta l’acqua del fiume, perché qualsiasi movimento visibile avviene in questa direzione. Piccoli rimorchi d’onda rotolano sulla riva, s’infrangono sulla sabbia dura e aggiungono il loro morso al tratteggio incrociato e puntinato della spianata. Per un po’ sembra che l’onda debba spingere a monte fino alla prima curva. Ma sotto il suo rimescolio bianco, il fiume continua ugualmente a scorrere verso il mare; e alla fine l’onda si ferma all’apice della spinta, si spezza in una confusione di frammenti, di colpo l’intera turbolenza è riportata al mare… finché non viene spazzata dall’onda successiva e il movimento su per il fiume riprende. Ogni onda ha diverso formato e incontra una diversa resistenza; ne risulta un’infinita varietà d’increspature, di frangenti, di spezzettamenti, di scivolate… Lo schema non è mai uguale. Capite che cosa voglio dire? Mi capisci, Steve Nicolin? Dovresti piuttosto attenerti a quel che si può fare perché duri, che non andare a caccia di novità. Ma buona fortuna a te, fratello. Cerca di fare qualcosa di buono per noi, là fuori.
In quanto a me, la luna distende una strada di scaglie a specchio fino all’orizzonte. La neve sulla spiaggia si è sciolta ieri; ma questa potrebbe essere ugualmente una spiaggia di neve, da come appare sotto questa luce, contro il bordo del mare nero. Sopra le scogliere s’alzano le montagne scure della valle, strette a coppa, inclinate per riversare nell’oceano. Onofre. Quest’ultima, umida pagina è quasi piena. E la mano sente freddo… diventa così rigida che non riesco a tracciare le lettere, le parole sono grosse e incerte, occupano l’ultima parte della pagina, grazie a Dio. Per fortuna ho terminato. C’è un gufo che svolazza sul fiume. Resterò qui e riempirò un altro libro.