Jennings e Lee aspettavano sotto il grande eucalipto. «Hai un socio formato ridotto» disse scherzosamente Jennings a Tom; ma mi parve che Lee mi guardasse con aria accigliata.
«È buono come chiunque altro» gridò Pa’ dalla soglia. Pareva seccato.
«Su, andiamo» disse Lee, brusco.
Scendemmo all’autostrada e puntammo a sud. Presto oltrepassammo la ripida scarpata dietro Concrete Bay e uscimmo dalla valle, sulla costa ai piedi dei monti Pendleton. L’autostrada era in ottimo stato: presentava qua e là delle crepe, ma non vi crescevano alberi e arbusti, a parte una fila di tanto in tanto, che, simile a una staccionata, riempiva una crepa più grossa. Ma per gran parte del percorso la strada era uno stretto squarcio nella foresta scura. Attraversava un tratto piano, una striscia non molto larga fra le ripide montagne e le scogliere sul mare, tagliata spesso da gole profonde. In genere l’autostrada passava sopra questi burroni, ma due volte vi precipitava e fummo costretti a scenderne i fianchi ripidi e a guadare torrenti scuri e gorgoglianti su grossi blocchi di cemento. In silenzio Lee ci aiutò a superare queste interruzioni. Sembrava che non vedesse l’ora di tornare a San Diego.
Poco dopo la seconda interruzione, Lee si fermò. Più avanti, fra gli alberi, c’era un gruppo di edifici in rovina. Lee si portò la mano alla bocca e per tre volte di fila emise una passabile imitazione del verso dei gabbiani. La ripeté altre tre volte; dalle rovine giunse un trillo acuto di risposta. Ci avvicinammo all’edificio più grande; a metà strada fummo accolti da un gruppo di uomini che ci salutarono rumorosamente e allegramente. Ci condussero dentro l’edificio, dove un piccolo fuoco mandava poca luce e un mucchio di fumo. Gli uomini di San Diego, sette in tutto, esaminarono Tom e me.
«Avete impiegato un bel po’ di tempo a trovare due esemplari solo di questa forza» disse un bassotto tutto pancia. Si tirò la barba e rise, ma nei suoi occhi un po’ arrossati non c’era luce di divertimento.
«San Onofre vuole davvero parlare al Sindaco?» chiese l’uomo accanto al bassotto. Era la prima volta che udivo San davanti a Onofre; la gente ai raduni di scambio diceva solo Onofre, come noi.
«Piantatela» disse Jennings. «Lui è Tom Barnard, uno dei più vecchi americani viventi…»
«Si vede!» commentò il bassotto.
«E uno dei capi di Onofre. Il ragazzo è il suo assistente più in gamba.»
Tom non aveva battuto ciglio; fissava con calma il bassotto, la testa leggermente piegata, come se contemplasse una nuova specie d’insetto. Lee non si era fermato a sentire. Faceva una matassa di corda e s’interruppe solo per dire: «Spegnete il fuoco e salite sui carrelli. All’alba voglio essere a San Diego.»
Gli uomini non sollevarono obiezioni; raccolsero l’equipaggiamento e spensero il fuoco. Lasciammo l’edificio e l’autostrada, inoltrandoci nella foresta, dietro Lee, in direzione dell’oceano. Avevamo percorso solo una trentina di passi, quando Lee si fermò ad accendere una lanterna.
Nella fioca luce vidi il loro treno: una piattaforma su ruote di ferro, con una lunga asta fissata a un blocco centrale. Gli uomini gettarono la loro roba sul treno; dietro il primo, ce n’era un altro. Mi avvicinai scavalcando i binari. Erano uguali a quelli che attraversavano la nostra valle… gibbosi e arrugginiti, collegati a intervalli di circa un metro da traversine di legno spugnoso. Tom e io rimanemmo a guardare; gli altri caricarono sulle piattaforme mazze da fabbro e asce, matasse di corda e sacchetti di pioli metallici.
Ben presto tutto fu a bordo; salimmo sul primo carrello, dietro Lee e Jennings. Due uomini si piazzarono ai capi opposti della sbarra; uno, assistito da Lee, spinse in basso l’estremità alta; con uno scricchiolio la piattaforma prese a muoversi sulle rotaie arrugginite. Quando quella metà dell’asta era in basso, il bassotto panciuto trascinava giù con tutto il suo peso la metà opposta. I due spingevano a turno e il carrello andava avanti, seguito dall’altro.
Usciti dal folto d’alberi che aveva nascosto i treni, sbucammo in un tratto piano coperto di boscaglia. Le montagne s’alzavano qualche chilometro più all’interno, anziché direttamente dalla costa; gli alberi crescevano per lo più nelle gole. I binari correvano lungo il bordo dell’autostrada rivolto al mare; di tanto in tanto, quando risalivamo un’altura, scorgevo l’oceano, grigio argento sotto le nubi basse. Oltrepassammo un promontorio; una volta, per arrivare fin lì, Steve e io avevamo camminato mezza giornata. Non ero mai stato più a sud di quel punto: da lì in avanti, ero in territorio nuovo.
Le ruote del carrello macinavano le rotaie, con rumore di raspa che tagliava il metallo. Acquistammo velocità, fino a correre più rapidamente di un uomo. I quattro non impegnati sedevano intorno al blocco centrale del carrello o stavano distesi bocconi a guardare avanti. In un tratto in discesa andammo ancora più velocemente: pensai che, per provare davvero l’ebbrezza della velocità, dovevo mettermi in piedi. Non riuscivo a stare seduto e basta. Subito fui colpito da un vento freddo; le traversine marce passavano sotto il carrello in un lampo, tanto da sembrare un tavolato continuo. Gli uomini mi guardarono come se fossi pazzo, ma me ne fregai. La barba di Tom gli svolazzava sulla spalla come una bandiera. Il vecchio sogghignò. «L’unico modo di viaggiare, eh?» disse. Annuii vigorosamente, troppo emozionato per parlare. Mi sembrava di volare, nonostante il rumore di ferraglia. «A c-che v-velocità andiamo?» balbettai.
Tom guardò di lato, alzò la mano controvento. «Circa quarantacinque chilometri all’ora» rispose. «Forse cinquanta. È da tanto che non andavo così veloce, credimi!»
«Cinquanta all’ora!» gridai. «Yu-huuu!»
Gli altri si misero a ridere, ma non m’importava. Per me, erano loro i pazzi; andavamo a cinquanta all’ora e rimanevano seduti cercando di evitare il vento!
«Vuoi spingere?» disse Jennings, dall’estremità della sbarra. Tutti risero di nuovo.
«Ma certo!» dissi. Jennings si spostò. Afferrai l’estremità a T della sbarra, mentre risaliva. Quando spinsi giù, sentii il carrello schizzare avanti, in modo sproporzionato alla forza esercitata. Lanciai ancora un grido di gioia. Spinsi con forza e vidi il bianco del sogghigno dell’uomo che azionava la sbarra dall’altra parte. Spingeva forte quanto me e grazie a noi il carrello volava giù dai Pendleton come in sogno. Con le lacrime agli occhi per il vento, guardai le traversine passare in un lampo sotto di noi; all’improvviso seppi cosa significava vivere nei vecchi tempi, il potere di una volta, la meravigliosa estensione delle capacità naturali dell’uomo. Le storie di Tom e tutti i suoi libri me ne avevano parlato, ma adesso lo sentivo nei muscoli e nella pelle, mi volava intorno, era esilarante. Stavamo veramente pompando il carrello sulle rotaie!
Alle nostre spalle, gli uomini del secondo carrello chiamarono a gran voce: «Ehi, lassù! Chi avete messo alla sbarra?»
E poi: «Sappiamo benissimo che non è Jennings!»
Tutti, sui due carrelli, scoppiarono a ridere. «È davvero Jennings!» disse uno.
«Non sapevo che tua moglie ti mancasse tanto!»
«Cosa ti preoccupi che faccia?»
«Cerca di non consumare qui tutte le pompate!»
«Prendici a rimorchio, se ti senti così in forma!»
Dopo un poco, Lee intervenne. «Rallentate» disse. «Abbiamo da fare un bel pezzo di strada e non voglio stancare quei poveracci dietro di noi.»
Allora rallentammo un poco. Anche così, quando mi diedero il cambio, ero tutto sudato per la fatica; presto, a stare in piedi, sentii freddo. Mi sedetti, stringendomi nella giacca. Le estremità biancastre di rametti tagliati da poco passavano come un lampo, illuminate dalle scintille provocate di tanto in tanto dalle ruote. Il territorio divenne più ondulato. Quando c’era una salita, dovevamo collaborare tutti a manovrare la sbarra; in discesa, andavamo così forte che non mi sarei alzato nemmeno se m’avessero pagato.
Passammo davanti a uno straccio bianco appeso a un palo infisso a lato del terrapieno su cui correvano le rotaie. Lee si alzò e tirò la leva del freno; ci fermammo con una pioggia di scintille e con uno stridio che mi diede i brividi, tanto faceva male alle orecchie.
«Adesso arriva la parte complicata» disse Jennings e saltò giù dal carrello. Nel silenzio improvviso si udì davanti a noi un rumore d’acqua corrente. Tom e io scendemmo dal treno e seguimmo gli altri lungo i binari. In un avvallamento c’era un corso d’acqua di considerevoli dimensioni, largo circa la metà del fiume della nostra valle. Dall’acqua emergeva una doppia fila di pali neri, da una riva all’altra. Travetti e tavole univano alcuni pali e si estendevano su entrambe le rive, ma non mancavano larghi spazi vuoti; nell’insieme, il ponte era un disastro. Ogni palo era circondato da un cerchio di spuma, chiaro segno che si trattava di un torrente assai rapido.
«Le fondamenta del nostro ponte» disse Jennings a Tom e a me, mentre Lee dava ordini agli uomini sulla riva. «Tutto quello che resta del vecchio; l’avranno bruciato quando l’acqua era alta.»
«Più facile che sia stato distrutto dalla bomba nei Pendleton» suggerì Tom. «Non credo che l’acqua fosse più alta di adesso.»
«Forse hai ragione» ammise Jennings. «Comunque, i pali sono in buono stato. Li abbiamo livellati e vi abbiamo messo sopra dei travi laterali di collegamento. Ora posiamo le rotaie sui travi, alla distanza giusta, facciamo passare i carrelli e portiamo travi e rotaie sull’altra riva. Un mucchio di lavoro, ma una volta nascosto il materiale, nessuno capirà che abbiamo attraversato il ponte.»
«Davvero ingegnoso» disse Tom.
Intanto gli uomini avevano acceso altre lanterne e illuminavano i pali con riflettori metallici. Si davano da fare nel buio, imprecando contro manzanita e rovi, mentre “tiravano fuori i travi nascosti fra i cespugli della riva. Agganciarono i travi a una spessa fune ripescata dal basso fondale a monte del ponte. La fune andava sott’acqua fino alla riva opposta, passava da una grossa carrucola e tornava dalla nostra parte. Jennings continuò a descriverci il sistema, con l’orgoglio di un ingegnere; i dieci travi, o traversine, furono spinti nel fiume a monte dei pali; poi la fune fu allentata, finché le traversine galleggiarono fra i pali. Uomini in equilibrio sui pali (vi camminavano sopra grazie alle strette tavole lasciate stabilmente in posizione) ripescavano allora le traversine e le fissavano.
Mentre Jennings concludeva la spiegazione, sulla riva si alzò un coro d’imprecazioni. La fune si era impigliata e non passava dalla carrucola. Tutti discutevano su cosa fare, ma Lee tagliò corto.
«Uno di noi deve attraversare il fiume a nuoto e liberare la carrucola. Non possiamo portare i travi a mano, sono troppo pesanti.»
Gli uomini non apprezzarono la decisione. Uno del secondo carrello soffocò una risatina e mosse il pollice nella mia direzione. «Perché non mandiamo il giovane tutto muscoli?»
Il pancione sbuffò, divertito. Tom cominciò a protestare al posto mio. Lo interruppi. «Certo che ci vado» dissi. «Tanto sono quello che nuota meglio.»
«Ha ragione» ammise Tom. «Lui e i suoi amici fanno surf su onde più alte della vostra testa.»
«Bravo ragazzo» disse Jennings, con entusiasmo. «Vedi, Henry, abbiamo attraversato a nuoto questo fiume varie volte, ma non è facile. Farai meglio a tirarti a braccia lungo la corda, così la corrente non ti trascinerà a valle. Ti basta arrivare sulla riva e disincagliare la carrucola. Sistemeremo il ponte in un attimo.»
Mi spogliai, mi tuffai prima di gelare e mi aggrappai alla fune scivolosa. L’acqua era più fredda di quella dell’oceano nell’ultima settimana e il cuore mi batteva al punto da rendermi difficile il respiro. Reggendomi alla fune in realtà non nuotavo; ma la fune era così scivolosa che dovevo stare attento a non farmela scappare a ogni bracciata. La corrente impetuosa mi trascinava le gambe a valle, per cui i colpi di tallone erano inefficaci. La traversata richiese molto più tempo di quanto non pensassi, ma alla fine urtai le ginocchia nel fango cedevole e uscii dall’acqua sull’altra riva. In piedi su fango più solido, gridai agli uomini che la nuotata non era stata difficile; seguii la fune fino alla carrucola.
Sulla corsa si era formato un groviglio di alghe. Bastò strapparlo e la carrucola tornò a funzionare senza intoppi. Ne fui compiaciuto; dall’altra riva gli uomini mi gridarono complimenti. Ma nel guardare le loro sagome muoversi con cautela sulle assi incurvate, mi resi conto che il lavoro non sarebbe stato ultimato tanto presto. Intanto ero bagnato e infreddolito, con il fiume tra me e i vestiti. Probabilmente Jennings sapeva che sarei dovuto tornare a nuoto, ma era stato tanto gentile da non farmelo capire. L’unica soluzione era tornare in acqua e ripetere la traversata. Maledissi Jennings, gridai le mie intenzioni agli uomini, sguazzai nel fango fino ad avere l’acqua al petto e ricominciai a procedere a forza di braccia.
Ma non avevo fatto i conti con le dieci traversine ormai in mezzo al fiume, che galleggiavano a valle della fune, proprio sul mio percorso. Per girare intorno a ogni traversina dovevo spostarmi a monte o tuffarmi sotto, senza lasciare la presa sulla fune. Anche così, sarebbe andata liscia; ma dal buio vidi spuntare a mezz’acqua un pino di Torrey, tronco e tutto. L’albero avanzò dritto su di me e s’impigliò nella fune: di colpo fui trascinato sott’acqua, intrappolato in un intrico di rami contorti e di aghi pungenti. Riuscii a stento a tenermi aggrappato, ma non ebbi il tempo di riempirmi d’aria i polmoni; l’acqua gelida mi entrò in bocca e nel naso. Cercai con la mano libera di strappare via il ramo sopra di me; pensai di lasciare la presa, tuffarmi e passare sotto il tronco, ma avevo paura di andare a sbattere contro uno dei pali. L’albero non mi lasciava tornare a galla. La corda si piegava sotto il nuovo peso. Disperatamente sporsi il viso fra due rami e inspirai una rapida boccata d’aria. Cambiai mano sulla corda e con la sinistra afferrai il tronco, spingendo l’albero verso l’alto e la fune verso il basso. L’albero passò oltre. Ero ancora aggrappato alla fune, ma adesso potevo muovermi lungo di essa, continuando a reggermi. «Chinga!» ansimai. «Merda! Pinché buey!»
Dalla riva giunse un richiamo: «Ehi! Ci sono guai?» E Tom gridava: «Henry!»
«Tutto bene!» risposi. «Sono a posto!»
Ma ora gli uomini tiravano la fune e mi trascinavano. Per me andava benissimo. Capii perché nessuno era entusiasta di attraversare a nuoto il fiume. Se il ramo mi avesse colpito facendomi mollare la presa sulla fune, avrei potuto senz’altro raggiungere a nuoto la riva, più a valle; ma passare fra i piloni sarebbe stato pericoloso, e tornare a piedi fino al ponte una vera sofferenza. Provai qualche bracciata, ma gli uomini tiravano più in fretta e presto sguazzai nel fango. Due erano entrati in acqua fino al ginocchio per tirarmi fuori; sulla riva, mi avvolsero in una coperta di lana; quando mi fui asciugato, me ne diedero un altra su cui starmene seduto. Mi rincantucciai accanto alle lanterne e dissi che non era stato difficile. Loro non seppero che cosa rispondere. Tom mi lanciò un’occhiata sospettosa.
Mentre mi scaldavo, gli uomini montarono il ponte. Sistemarono sui pali le traversine, vi posarono le rotaie, collegarono con pioli le flange delle rotaie alle traversine, usando appositi fori già praticati. I binari erano più ravvicinati delle due file di pali, ma non di molto. Sagome nere strisciarono avanti e indietro sulla costruzione, stagliate contro la luce delle lanterne in una varietà di posizioni precarie; vidi una figura in piedi lasciar cadere la tavola che avrebbe dovuto calare sopra un trave isolato e buttarsi a quattro zampe per non finire in acqua. La tavola fu portata via dalla corrente. Le grida di Lee punteggiavano il rumore di martellate.
«La prima volta dev’essere stata dura» disse Tom, accoccolato accanto a me, le mani attorno al vetro della lanterna. «Penso che le traversine reggeranno il peso di un carrello, ma non vorrei essere stato il primo a portarne uno dall’altra parte.»
«Sembra che sappiano quel che fanno» dissi.
«Già. Lavoro duro, nel buio. Peccato che non possano costruire un ponte e lasciarlo lì.»
«Pensavo proprio a questo. Non riesco a credere che i…» Non sapevo come chiamarli. «Non credo che abbiano davvero bombardato un ponte così piccolo.»
«Capisco.» Nella luce fioca, l’espressione di Tom era cupa. «Ma secondo me questa gente non conta balle e non si dà tanto da fare senza motivo. Ritengo che chiunque sia lassù voglia tenere separate le piccole comunità, come ha detto Jennings. Ma non me ne rendevo conto. Brutto segno.»
Jennings camminò con noncuranza lungo una rotaia e saltò sulla riva per venire accanto a noi. «Quasi finito» annunciò. «Dovreste attraversare a piedi. Cerchiamo di caricare i carrelli il meno possibile, anche se è solo una precauzione, capite.»
«Andiamo subito» disse Tom. Mi aiutò ad alzarmi. Indossai i vestiti e mi strinsi sulle spalle le coperte, perché avevo ancora freddo. Seguimmo la rotaia a valle, in piedi, con grande precauzione, pronti ogni momento a lasciarci cadere sulla rotaia e ad aggrapparci ad essa. Le traversine mi parvero solide quando vi misi sopra il piede, ma erano un po’ deformate e su alcune di esse le rotaie non posavano in piano. Ne accennai a Jennings, che pareva del tutto a suo agio.
«È vero. Non riusciamo a mantenerle perfettamente piatte. Cedono leggermente quando si attraversa, ma niente di grave. Almeno finora. Vedremo se Lee dovrà farsi una nuotata come la tua, quando porterà dall’altra parte il primo carrello. Mi auguro di no… c’è ancora una bella camminata, prima di San Diego.»
Sulla riva meridionale ci radunammo attorno alle lanterne; gli uomini ne diressero la luce sul primo carrello. Lee e un altro lo spinsero lentamente dalla nostra parte. Le rotaie mandavano scricchiolii e gemiti, quando il carrello passava sopra una traversina; altrimenti, in un silenzio funesto, cedevano un poco sotto il peso del carrello. Era uno spettacolo bizzarro, la grossa massa nera che sporgeva dalle rotaie nel mezzo del fiume sopra due strisce sottili, simile a un ragno su due fili di ragnatela. Raggiunta la riva, gli uomini dissero: «Tutto a posto» e: «Una buona traversata», a voce bassa e compiaciuta.
Trasportarono a piedi le attrezzature, spinsero il secondo carrello, poi tolsero i pioli e portarono le rotaie sulla riva sud. Lee fu assai puntiglioso nel far rispettare l’ordine, in modo che fosse più facile rimettere tutto in posizione la volta dopo.
«Molto ingegnoso» disse Tom. «Molto astuto, molto rischioso, molto ben fatto.»
«A me è parso abbastanza semplice» replicai.
In breve rimisero a posto la fune e caricarono sui pianali le attrezzature. Salimmo con altri sul primo carrello e partimmo.
«Il prossimo ponte è molto più facile» disse Jennings, mentre superavamo la salita.
Mi offrii di azionare la sbarra, perché avevo ancora freddo. Questa volta mi misi all’estremità anteriore e con il vento contro la schiena guardai il bizzarro spettacolo delle montagne che fuggivano via. Di nuovo mi sentii inebriare dalla velocità e risi a voce alta.
«Il ragazzo nuota e pompa come un buon uomo della resistenza» disse Jennings. Non capii cosa intendesse, ma gli altri furono d’accordo con lui, almeno quelli che si presero la briga di dirlo.
Quando mi fui riscaldato, sentii la stanchezza. Il bassotto con la pancia mi diede subito il cambio; mi rifilò un’amichevole manata sulla schiena e mi mandò in fondo al pianale. Seduto sotto la coperta, dopo un poco mi appisolai, consapevole in parte del movimento del treno, del vento, dei discorsi a voce bassa.
Mi svegliai quando il carrello si fermò. «Siamo al secondo fiume?»
«No» disse piano Tom. «Guarda là.» Indicò il mare.
La luna completamente nascosta conferiva una debole luminosità alle nuvole; la superficie dell’oceano era una serie di chiazze grigie. Scorsi subito una fioca luce rossa al centro di una massa nera. Una nave. Una nave grande… una nave enorme, così gigantesca che per un attimo pensai che fosse quasi a riva, mentre in realtà si trovava a mezza strada fra la costa e l’orizzonte frangiato di nubi. Era difficile conciliare la distanza della nave con l’enorme stazza: pensai che forse era un sogno.
«Spegnete le lanterne» disse Lee.
L’ordine fu subito eseguito. Nessuno aprì bocca. La nave gigantesca navigò verso sud, simile a un fantasma: il suo moto era anormale, come le dimensioni e la posizione. Era veloce, velocissimo. Ben presto la nave fu nascosta dall’altura che avevamo risalito e sparì alla vista.
«Non vengono mai così vicino a riva, nelle zone abitate» disse Jennings, in tono da spaccone. «Uno spettacolo molto inconsueto.»
Poco dopo riprendemmo il percorso; oltrepassato un altro straccio bianco segnalatore, arrivammo alla riva di un fiume. Era più ampio del primo, ma i piloni arrivavano fin su entrambe le rive e per larghi tratti c’era una piattaforma. Gli uomini di San Diego si misero al lavoro, posando le rotaie sull’antica piattaforma traballante, mentre io e Tom restammo sul carrello accanto alle lanterne. La notte si era fatta più fredda. Ce ne stavamo rannicchiati sotto le coperte e ogni respiro si mutava in piccoli sbuffi di condensa. Alla fine ci alzammo e aiutammo a trasportare le attrezzature, solo per scaldarci. Quando i carrelli attraversarono il fiume e il ponte fu smontato, mi sistemai fra due mucchi di corda, al riparo dal vento, e mi addormentai.
Di tanto in tanto i sobbalzi mi scuotevano; mi svegliavo e imprecavo contro me stesso perché mi perdevo una parte del viaggio. Sporgevo la testa a guardarmi in giro nel buio; ma ero ancora stanchissimo e mi addormentavo di nuovo. Quando mi risvegliai ancora, il cielo si schiariva e tutti collaboravano a muovere la sbarra per superare una salita ripida. Mi costrinsi ad alzarmi, decisi di restare sveglio e di tanto in tanto aiutai a manovrare la sbarra.
Ci trovavamo in mezzo alle rovine. Non come quelle dell’Orange County, dove nella foresta intrichi di legno e di cemento segnavano gli edifici crollati; qui fra gli alberi c’erano fondamenta spoglie e, qua e là, case restaurate o edifici più grandi. Rovine ripulite. Il tappo indicò la zona in cui abitava; vi passammo davanti, dalla parte dell’entroterra. Le ripide scogliere su cui viaggiavamo si alternavano a paludi che si aprivano sulla spiaggia, per cui i binari seguivano con regolarità un percorso a saliscendi. Per attraversare le paludi passavano sopra enormi strade rialzate, sotto le quali si aprivano tunnel che consentivano alle acque di raggiungere il mare. Ma poi arrivammo a una palude priva di strada rialzata. Forse una volta esisteva, ma era scomparsa da tempo. Un ampio fiume ci separava dalla scogliera meridionale e scorreva sinuoso fra una piatta distesa di canne. Sfociava in mare in tre punti, fra le dune della spiaggia.
Gli uomini di San Diego fermarono i carrelli. «San Elijo» disse Jennings a Tom e a me. Il sole sorgeva fra le nuvole; nell’aria densa di salsedine, gli uccelli s’alzavano a centinaia dai canneti scuri e costeggiavano le pozze color bronzo e le anse del fiume. I loro richiami galleggiavano pigramente sul rumore dei frangenti al limitare dell’ampia spiaggia bruna.
«Come fate a passare?» chiese Tom. «Ci vuole un ponte bello lungo.»
Jennings ridacchiò. «Facciamo il giro. Sulle strade abbiamo piazzato binari permanenti. Pare che a loro» con il pollice indicò il cielo «questa zona non interessi.»
Così seguimmo il lato nord della palude e attraversammo il fiume fra le montagne, dov’era soltanto un torrente profondo, passando sopra un ponte fisso come quello nella nostra valle.
«Avete stabilito fino a che distanza da San Diego potete costruire senza disturbarli?» chiese Tom, mentre attraversavamo il ponte.
Lee aprì la bocca per rispondere, ma Jennings lo precedette e Lee strinse le labbra, seccato. «Lee ha una sua teoria, secondo la quale esistono limiti ben precisi prima che intervengano… In modo da isolare ogni singola contea, per quanto è possibile. Non dicevi così, Lee?»
Lee annuì, con un sorriso controvoglia.
«Da parte mia, non la vedo molto diversamente dal nostro Sindaco» continuò Jennings, senza badare all’espressione divertita di Lee. «Il Sindaco dice che non esiste motivo né spiegazione alle loro azioni; i pazzi ci guardano dallo spazio, dice, e controllano quel che possiamo o non possiamo fare. Lui se la prende sul serio. Siamo come mosche di fronte agli dèi, dice.»
«“Come mosche per bambini capricciosi siamo noi di fronte agli dèi”» citò Tom, correggendolo.
«Giusto. Pazzi, che ci guardano dall’alto.»
Lee scosse la testa. «Non è tutto. Si tratta di stabilire quanto vedono. Ma le loro reazioni sono governate da regole. Immagino che una carta delle Nazioni Unite, o qualcosa del genere, dica ai musi gialli cosa fare. In realtà…» Ma a questo punto si bloccò e corrugò la fronte, come se pensasse di essersi spinto troppo oltre.
«Oh, non c’è dubbio che abbiano telecamere in grado di riprendere un uomo» ribatté Jennings. «Quindi il problema non è quanto vedono. È quanto notano. Ora, nella ferrovia nord abbiamo fatto cambiamenti impossibili da nascondere. I ponti sono gli stessi, ma abbiamo tolto i cespugli dai binari, per esempio. A questo punto, forse nascondere il lavoro al ponte è una perdita di tempo. Tanto non siamo invisibili, anche se non diamo troppo nell’occhio, ecco. L’ho detto al Sindaco, ma non sono sicuro che abbia capito. Ora, forse gli osservatori studiano attentamente ogni fotografia, o forse hanno apparecchiature che rilevano eventuali cambiamenti: non lo sappiamo. La linea nord sarà un buon sistema per stabilire quanto sono attenti, secondo me.»
In quel momento attraversavamo un fitto bosco di pini di Torrey. Il sole tagliava le ombre e faceva splendere la rugiada. L’aria si scaldava e mi sentivo riprendere dalla sonnolenza, per quanto fossi affascinato dal territorio nuovo che ci circondava. Fra gli alberi c’erano gruppi di case dei vecchi tempi; parecchi edifici erano ristrutturati e abitati: da molti comignoli si alzava il fumo. Nel vederlo, assai turbato, diedi di gomito a Tom. Quelli di San Diego erano solo altri sciacalli! Tom capì al volo e si limitò a scuotere brevemente la testa. Non era il momento di parlarne, certo. Ma il pensiero mi metteva a disagio.
La ferrovia portava a un villaggio in certo modo simile al nostro, a parte il fatto che c’era un numero maggiore di case, che le abitazioni erano raggruppate e che molte risalivano ai vecchi tempi. Lo stridio del freno provocò schiamazzi di galline e latrati di cani… e mi costrinse a stringere i denti. Parecchi uomini e donne uscirono da un grande edificio nella radura al di là dei binari. I nostri compagni saltarono giù dai carrelli e salutarono la gente del posto. Alla luce del giorno sembravano sporchi, con la barba lunga e gli occhi arrossati, ma nessuno parve farci caso.
«Benvenuti a San Diego!» ci disse Jennings, aiutando Tom a scendere dal carrello. «O meglio, a University City, per esattezza. Possiamo offrirvi la colazione?»
Accettammo con entusiasmo. Ero tanto affamato quanto stanco, se non di più. Fummo presentati al gruppo uscito dal grande edificio ad accoglierci. Entrammo con gli altri.
L’ingresso era un vano alto due piani: tappeto rosso, tappezzeria rossa e oro, candeliere di vetro appeso al soffitto. Anche la scala interna era coperta da un tappeto e aveva la ringhiera di quercia intagliata e lucidata. Rimasi a bocca aperta. «È la casa del Sindaco?» domandai.
Scoppiarono tutti a ridere. Divenni rosso. Jennings mi circondò le spalle. «Stanotte hai dimostrato quanto vali, Henry, ragazzo mio. Non ridevamo di te. Solo… be’, quando vedrai l’abitazione del Sindaco, capirai il motivo. Questa è casa mia. Vieni a darti una ripulita e a conoscere mia moglie; poi faremo un buon pranzo per festeggiare il vostro arrivo.»
Fatta colazione, Tom e io dormimmo per quasi tutto il giorno, sopra due vecchi divani nell’ingresso della casa di Jennings. Sul tardi Jennings venne a svegliarci. «Forza, sbrigatevi» disse. «Sono andato a parlare al Sindaco… vi ha invitati a cena e a una conferenza: aspettare non gli piace.»
«Chiudi il becco e lascia che si preparino» intervenne la moglie di Jennings, guardandoci da sopra la spalla del marito. Gli somigliava moltissimo: bassa, tozza, allegra. «Appena pronti, vi mostrerò il bagno.» Tom e io la seguimmo; facemmo i nostri bisogni in una toilette con acqua corrente. Poi Jennings ci spinse fuori di casa. Lee e il bassotto erano già sopra un carrello. Ci unimmo a loro e ci dirigemmo a sud. Evidentemente alla luce del giorno il bassotto si sentiva più socievole, e si presentò come Abe Tonklin.
Sferragliammo su rotaie stese sul cemento pieno di crepe di un’altra autostrada, sotto un baldacchino di pini di Torrey, eucalipti, sequoie, querce. Fra mille scricchiolii il carrello passava rapidamente dalle zone d’ombra a quelle illuminate dai raggi obliqui del sole; di tanto in tanto attraversava ampie radure coltivate, per la maggior parte a granturco. Una volta agitai la mano verso un uomo fermo in un campo verde giallastro: poi capii che si trattava di uno spaventapasseri.
«Ci siamo quasi» disse Jennings, gridando per superare il frastuono. Arrivammo in cima a un’altura. Davanti a noi, da destra a sinistra, si stendeva uno stretto lago paludoso che sembrava l’inondazione di una palude simile a quelle del nord. Qua e là emergevano dall’acqua edifici altissimi… grattacieli, almeno una decina. Uno di essi, alla nostra sinistra, era una gigantesca muraglia circolare. E in mezzo al lago c’era un tratto d’autostrada, sostenuto da palafitte di cemento. Su questa sorta di piattaforma c’era una casa bianca. Sul tetto della casa riuscivo a distinguere una bandiera americana che si muoveva nella brezza. A bocca aperta per lo stupore, guardai Tom. Anche lui aveva tanto d’occhi. Tornai di nuovo a guardare la scena. Fiancheggiato da montagne coperte di foreste, illuminalo dal sole ormai basso, il lungo lago con la sua fantastica collezione di giganti sommersi e distrutti costituiva il più impressionante residuo dei vecchi tempi che avessi mai visto. Gli edifici erano grandissimi! Provai di nuovo l’impressione… simile a una mano che mi stringesse il cuore… di sapere davvero com’erano stati quei tempi…
«Ecco, quella è la casa del Sindaco» disse Jennings.
«Perdio, è Mission Valley» disse Tom.
«Giusto» rispose Jennings, pieno d’orgoglio, come se fosse opera sua. Tom scosse la testa e rise, confuso. Le rotaie terminavano lì. Lee frenò il carrello, con il solito stridio da far impazzire. Seguimmo quelli di San Diego lungo l’autostrada che portava dritta nel lago e vi scompariva. Il tratto emerso sui piloni in mezzo al lago era la continuazione; in una gola fra le montagne della riva opposta il cemento grigio tornava a spuntare dall’acqua. Il pezzo al centro del lago era il residuo di un ponte che un tempo superava la valle: l’autostrada era stata costruita sopra dei piloni, per quasi due chilometri, da un pendio a quello opposto… solo per evitare la discesa e la salita alle automobili! Ero sbalordito: non riuscivo a concepire il tipo di mente in grado d’immaginare un ponte del genere. Incredibile.
«Stai bene?» mi chiese Lee.
«Eh? Ah, sì. Guardavo il lago.»
«Gran bel panorama. Forse faremo un giro in barca, domattina.» Lee non si era mai mostrato così amichevole: mi accorsi che apprezzava il mio stupore.
Dove la strada si tuffava nel lago, un largo pontile galleggiante serviva da ormeggio a una ventina di barche a remi e piccoli catboat. Lee e Abe ci guidarono a una delle barche più grandi. Salimmo a bordo; Abe remò fino all’isola formata dal tratto di autostrada e intanto Jennings rispose alle domande di Tom a proposito del lago.
«Le piogge hanno scaricato montagne di terriccio alla foce del fiume, inquadrata da due lunghe banchine e attraversata da parecchie strade, in genere ostruite. Così il terriccio si è accumulato e ha formato un tappo. Una grossa diga. Cosa? Sì, c’è ancora un canale che porta all’oceano, ma scorre sopra il tappo: così qui ci siamo ritrovati un lago. Ben sopra il livello del mare. Arriva fino a El Cajon.»
Tom rise. «Ah! Dicevamo sempre che un buon temporale avrebbe sommerso la valle, ma questo… E il sovrappasso?»
«Dicono che la prima alluvione sia stata molto violenta. Ha strappato via i fianchi delle montagne e abbattuto i piloni dell’autostrada. Hanno resistito solo quelli centrali. Abbiamo eliminato le macerie tutt’intorno, perché la zona sembrasse più pulita. Più “progettata”, per così dire.»
«Capisco.»
Mentre vi passavamo sotto, vidi l’estremità mozza dell’autostrada, indorata dal sole al tramonto. Tondini di ferro, contorti e arrugginiti, sporgevano dal cemento segnato di cicatrici. La piattaforma, spessa circa cinque metri, distava dall’acqua almeno sei. Passammo fra gli snelli piloni di cemento schiaffeggiati dai piccoli baffi di prora.
La piattaforma aveva fatto parte di un incrocio; strette rampe si diramavano dal tratto principale disposto lungo l’asse nord-sud e scendevano sul fondo della valle. Adesso questi svincoli laterali fungevano da comode rampe d’approdo. Arrivati alla rampa est, ormeggiammo con l’aiuto di alcuni uomini venuti ad accoglierci. Dalla prua, passammo sopra un piccolo ripiano di legno, e da lì sulla rampa di cemento. Il sole rosso splendeva fra due piloni e il vento ci scompigliava i capelli. Dalle case in alto giungevano risa, voci, acciottolio di stoviglie.
«Siamo in ritardo» disse Lee. «Sbrighiamoci.»
Nel risalire la rampa, notai che era inclinata sul fianco, oltre che verso l’alto. Quando gliene parlai, Tom mi spiegò che era costruita apposta così, per evitare che ad alta velocità le automobili uscissero di strada. Dal bordo guardai l’acqua in basso e pensai che i vecchi americani erano certo degli sciocchi, o dei pazzi, a correre simili rischi.
Sopra l’ampia piattaforma in piano disposta secondo l’asse nord-sud erano state costruite delle case. La più vasta si trovava all’estremità nord; il gruppo di edifici più piccoli, ciascuno grande come casa mia, disposti a ferro di cavallo, si trovava sul lato opposto. La metà della casa più grande era alta solo un piano; sul tetto di questa parte, rivolta verso di noi, c’era una veranda con la ringhiera azzurra, alla quale erano appoggiate varie persone che ci osservavano. Jennings agitò il braccio a salutarle. Camminavo accanto a Tom e all’improvviso mi sentivo nervoso.
Abe ci lasciò per unirsi a un gruppo accanto alla ringhiera ovest della strada, una massiccia protezione metallica. Il sole calava dove le montagne s’incontravano all’estremità del lago. Lee e Jennings condussero Tom e me nella casa grande. Appena dentro, Jennings tolse di tasca un pettine e si ravviò i capelli. Lee sorrise ironicamente e passò davanti a Jennings per guidarci su per l’ampia scala. Al piano superiore percorremmo un corridoio fiocamente illuminato che portava in una stanza con parecchie poltrone e un pianoforte. Ampie porte a vetri, nella parete sud, si aprivano sul tetto a veranda. Uscimmo all’esterno.
Il Sindaco era accanto alla ringhiera, in piedi fra un piccolo gruppo di persone; guardava dalla nostra parte. Era grande e grosso, alto, largo di spalle e di torace. Aveva braccia muscolose e s’intuiva, sotto i calzoni di lana a quadretti, che anche i polpacci lo erano. Un uomo lo aiutò a infilarsi una giacca azzurra a tinta unita. La testa sembrava troppo piccola rispetto al corpo.
«Jennings, chi sono questi signori?» disse il Sindaco, con voce alta” e acuta. Sotto i baffi neri, aveva bocca piccola, mento debole. Ma mentre si sistemava il colletto, ci fissò con occhi celesti che rivelavano un’intelligenza assai acuta.
Jennings presentò Tom e me.
«Timothy Danforth» disse il Sindaco a sua volta. «Sindaco di questa bella città.» Aveva una piccola bandiera americana sul risvolto della giacca. Ci strinse la mano; quando toccò a me, strinsi con tutta la mia forza, ma sembrava di stringere pietra. Avrebbe potuto sbriciolarmi la mano come un pezzo di pane. Sarebbe bastata la stretta a farlo diventare sindaco, come disse in seguito Tom. Il Sindaco si rivolse al vecchio: «Mi dicono che lei non è il capo eletto di San Onofre, giusto?»
«Onofre non ha un capo eletto» rispose Tom.
«Ma lei ha qualche autorità?» suggerì il Sindaco.
Tom si strinse nelle spalle e andò alla ringhiera, passandogli davanti. «Avete un bel panorama da qui» disse con aria assente guardando verso ovest, dove il sole era diviso in due dalle montagne sempre più scure. Ero stupito per la scortesia di Tom. Avrei voluto intervenire, spiegare al Sindaco che Tom aveva la stessa autorità di tutti gli altri, a Onofre… e che non intendeva mostrarsi irrispettoso. Ma tenni la bocca chiusa. Tom continuò a guardare il tramonto. Il Sindaco lo fissò, a occhi socchiusi.
«Fa sempre piacere incontrare nuovi vicini» disse poi, in tono caloroso. «Festeggeremo con una cena all’aperto, se gradisce. La sera sembra abbastanza calda.» Sorrise, facendo tremolare i baffi; ma gli occhi non persero l’espressione penetrante. «Mi dica, lei è vissuto nei vecchi tempi?» Il tono sembrava dire: lei viveva in Paradiso?
«Come l’ha capito?» rispose Tom.
La decina di persone sulla veranda scoppiò a ridere, ma Danforth si limitò a fissare Tom. «È un onore conoscerla, signore. Non ne sono rimasti molti, come lei; soprattutto in così buona salute. Lei rappresenta uno stimolo per noi tutti.»
Tom sollevò le sopracciglia cespugliose. «Davvero?»
«Uno stimolo» ripeté il Sindaco, con fermezza. «Un monumento, per così dire. Un memento di ciò che ci sforziamo di ottenere, in questi tempi durissimi. Trovo che gli anziani come lei capiscono meglio le nostre aspirazioni.»
«Che sarebbero?» chiese Tom.
Per fortuna, o forse a bella posta, il Sindaco non udì la domanda di Tom, perché sembrava impegnato a ricordare il discorsetto. «Be’, venite a sedervi» disse, come se avessimo rifiutato. Sulla veranda c’erano diversi tavoli rotondi, fra alberelli in grossi vasi. Mentre ci sedevamo accanto alla ringhiera, Danforth puntò su Tom gli occhietti, con uno sguardo di sbieco assai penetrante. Tom, con aria innocente, fissò la bandiera, che si muoveva appena dall’asta sul tetto.
Una trentina di tavoli era sistemata nella strada più sotto; altre barche giungevano, nella fioca luce di prima sera. Le montagne a sud erano di un verde brillante sulla cima, illuminate dall’ultima luce. Da qualche parte, nella casa, un generatore cominciò a ronzare; all’improvviso in tutta l’isola si accesero lampadine elettriche. I piccoli edifici all’estremità sud, le ringhiere dell’autostrada, le stanze della casa: tutto risplendeva di luce bianca. Ragazze della mia età o anche più giovani si aggiravano sulla veranda, portando dall’interno piatti e argenteria. Una di loro mise davanti a me un piatto e mi rivolse un sorriso invitante. Notai ricambiando il sorriso che i capelli le rilucevano d’oro al bagliore delle luci. In cima alla rampa est comparvero uomini e donne vestiti in giacche dai colori vivaci e abiti variopinti, come sciacalli. Ma ovviamente a San Diego le cose erano diverse. Qui, almeno pensavo, la gente univa in sé il meglio degli sciacalli e dei nuovi cittadini. Una luce più brillante centrò la bandiera; tutti si misero sull’attenti, mentre il vessillo rosso, bianco e blu veniva ammainato. Tom e io imitammo gli altri; provai una singolare sensazione che mi arrossò le guance e mi diede i brividi…
Al nostro tavolo, oltre al Sindaco, sedevano Jennings, Lee e altri tre, che ci vennero presentati frettolosamente. Ben fu l’unico nome che afferrai. Jennings raccontò al Sindaco il viaggio a nord e descrisse i due ponti e le interruzioni più importanti della ferrovia. A sentire lui, i lavori di riparazione erano irti di difficoltà; immaginai che fosse in ritardo sui programmi. Ma forse esagerava per abitudine, come esagerò nel raccontare la mia traversata del fiume; divenni tutto rosso, ma notai con piacere che la biondina, servendo a tavola, si manteneva fra il nostro tavolo e quello vicino per non perdersi il racconto. Jennings ne ricavò davvero una storia emozionante; mentre tutti si complimentavano con me, Tom mi diede una gomitata di nascosto.
«Esagerazioni» dissi. «Ero ansioso di visitare la vostra città.»
Il Sindaco annuì con approvazione, affondando il mento nel collo finché non parve che fra la bocca e il pomo d’Adamo ci fossero solo pieghe di pelle.
«Qual è il tempo minimo per arrivare in treno fino a Onofre?» chiese il Sindaco a Lee. Questa volta Tom e io ci sgomitammo a vicenda. Per prima cosa, il Sindaco era passato a chiamare la nostra valle “Onofre”, anziché “San Onofre”, dopo avere sentito Tom una sola volta. In secondo luogo, sapeva a quale dei suoi uomini chiedere, se voleva una risposta diretta. Naturalmente, se non avesse capito Lee e Jennings, non avrebbe fatto il sindaco neppure in un canile. Comunque, era un segno.
Lee si schiarì la gola. «La notte scorsa ci sono volute circa otto ore, dal punto in cui ci siamo fermati fin qui a University City. Credo che sia difficile fare di meglio, a meno di lasciare montati i ponti.»
«Non possiamo» disse Danforth. Il suo viso espressivo divenne torvo.
«Credo anch’io. Comunque, occorrono altri quindici minuti per arrivare a Onofre. Lì le rotaie sono in buone condizioni.»
«E anche più avanti» aggiunse Jennings.
Tom alzò gli occhi a fissarlo. Il Sindaco si accigliò. «Di questo parleremo dopo cena» disse.
Le ragazze avevano terminato di sistemare sui tavoli piatti e bicchieri, tovaglioli di cotone e vasellame d’argento che sembrava proprio vero; portarono grosse scodelle di vetro piene d’insalata di lattuga e gamberetti. Tom esaminò con interesse i gamberi, inforcandone uno per osservarlo più da vicino. «Dove li prendete?» chiese.
Il Sindaco rise. «Dopo la preghiera di ringraziamento Ben glielo dirà.»
Le ragazze di servizio vennero tutte sulla veranda; il Sindaco si alzò e andò alla ringhiera, in modo da essere visibile anche dal basso. Notai che zoppicava: non piegava il piede sinistro. Chinammo tutti la testa. Il Sindaco recitò la preghiera: «Signore, mangiamo il cibo che ci hai procurato per renderci più forti al servizio Tuo e degli Stati Uniti d’America. Amen.» Tutti risposero: «Amen» in coro, coprendo così i colpetti di tosse di Tom. Gli diedi una bella gomitata nelle costole.
Iniziammo a mangiare l’insalata. Da basso giungevano voci acute e acciottolio di piatti. Fra un boccone e l’altro, Ben disse a Tom: «I gamberi ce li procuriamo a sud.»
«Credevo che la frontiera fosse chiusa.»
«Oh, sì, senza dubbio. Ma non la vecchia. Tijuana ormai è solo terreno di battaglia per cani e topi. Circa otto chilometri più a sud, c’è la nuova frontiera: barriere di filo spinato e, di qua è di là, una striscia spoglia di trecento metri, aperta con i bulldozer. E torri di guardia, riflettori di notte. Non ho mai sentito che una sola persona l’abbia varcata.» Addentò un boccone, mentre gli altri annuivano per confermare le sue parole. «C’è anche un pontile, dove la barriera di filo spinato tocca la spiaggia; e, al largo, le motovedette. Ma della marina messicana, capisce? I giapponesi controllano la costa fino alla frontiera, ma da lì il comando passa ai messicani. E loro non fanno un buon lavoro.»
«Neppure i musi gialli» disse Danforth.
«Verissimo. Comunque è facile evitare le motovedette messicane; una volta dall’altra parte, i pescatori vendono qualsiasi cosa abbiano o riescano a procurarsi. Per quel che li riguarda, siamo solo altri clienti. Però sanno di avere il coltello dalla parte del manico e ci spremono a ogni affare. Ma otteniamo quel che vogliamo.»
«Ossia i gamberi?» chiese Tom, sorpreso. Aveva già terminato l’insalata.
«Certo. Non le piacciono?»
«E i messicani cosa vogliono in cambio?»
«Parti di ricambio per armi da fuoco, principalmente. Souvenir. Cianfrusaglie.»
«I messicani vanno pazzi per le cianfrusaglie» disse Danforth e i suoi uomini risero. «Ma venderemo loro qualcosa di diverso, un giorno o l’altro. Li rimetteremo dov’è giusto che stiano, come una volta.» Aveva guardato Tom mangiare avidamente; vedendo che aveva terminato, chiese: «Lei viveva da queste parti, ai vecchi tempi?»
«Su nell’Orange County, in genere. Sono venuto qui a fare scuola.»
«Cambiato, vero?»
«Certo.» Tom si guardò intorno, in cerca della portata seguente. «È cambiato tutto.» Continuava a mostrarsi scortese di proposito; non riuscivo a immaginare cosa avesse in mente.
«Immagino che l’Orange County fosse piena di case, una volta.»
«Come San Diego. O anche di più.»
Il Sindaco emise un fischio sottovoce e parve impressionato.
Quando tutti terminarono l’insalata, le ragazze portarono via le ciotole e le sostituirono con pentole di minestra, piatti di carne, pagnotte, verdure, piramidi di frutta. Le portate continuavano ad arrivare e mi davano l’occasione di sorridere alla biondina. C’erano pollo e coniglio, pasticcio di maiale e zampe di rana, agnello e tacchino, pesce e manzo, vassoi di molluschi… sui tavoli c’era tanta di quella roba che, al confronto, la cena della signora Nicolin sembrava quella che Pa’ e io facevamo tutte le sere. Non sapevo da dove iniziare. Mangiai un po’ di stufato di molluschi con verdure, in attesa di prendere una decisione.
«I giapponesi» disse Danforth, mentre eravamo a metà «sbarcano nel territorio che era casa nostra, di questi tempi.»
«Ah, sì?» rispose Tom, servendosi una porzione di frutti di mare. Non sembrava impressionato dalla quantità di cibo. Sapevo che era interessato a quei discorsi sui giapponesi, ma non voleva darlo a vedere.
«A Onofre non se ne sono mai visti? Nemmeno un segno?»
Tom pareva riluttante a distrarsi dal cibo; si limitò a scuotere la testa, continuando a masticare, e subito dopo a lanciare al Sindaco una rapida occhiata.
«A loro interessa guardare le rovine della vecchia America» disse il Sindaco.
«Loro?» bofonchiò Tom, a bocca piena.
«I giapponesi, per lo più; ma anche individui di altre nazionalità. Però i giapponesi, che hanno avuto l’incarico di sorvegliare la nostra costa occidentale, sono la maggioranza.»
«Chi sorveglia le altre coste?» chiese Tom, come se volesse mettere alla prova quanto sostenevano di sapere.
«La costa orientale, i canadesi. E la costa del golfo, i messicani.»
«In teoria sono potenze neutrali» aggiunse Ben. «Per quanto nel mondo attuale il concetto stesso di potenza neutrale faccia ridere.»
«I giapponesi possiedono le isole lungo la costa e le Hawaii» continuò il Sindaco. «Per i giapponesi ricchi è facilissimo andare nelle Hawaii e da lì raggiungere la nostra costa, ma si dice che turisti di tutte le nazionalità vogliano fare la prova.»
«Come fate a sapere tutte queste cose?» disse Tom, a stento capace di mascherare il suo interesse.
«Abbiamo mandato uomini a Catalina a spiare» disse con orgoglio Danforth.
Tom non riuscì a trattenersi, per quanto mangiasse. «Insomma, cos’è successo? Siamo stati messi in quarantena?»
Con un colpo di forchetta carico di disgusto, il Sindaco rispose: «Sono stati i russi. Così si dice. Ed è ovvio. Chi altri poteva portare qui duemila bombe ai neutroni? Molti paesi non potevano permettersi nemmeno i furgoni in cui le bombe erano nascoste quando sono esplose.»
Tom socchiuse gli occhi. Credetti di sapere perché. Era la stessa spiegazione che lui aveva dato raccontandoci la storia di Johnny “Pigna”, e io ero sicurissimo che Tom quella storia se la fosse inventata. Curioso.
«Ci hanno sconfitti così» disse il Sindaco. «Non lo sapeva? Hanno nascosto le bombe in furgoni Chevvy, hanno portato i furgoni nel centro delle duemila città più grandi e li hanno parcheggiati. Poi le bombe sono esplose tutte insieme. Senza il minimo avvertimento. Sa, niente missili in arrivo, cose del genere.»
Tom annuì, come se finalmente gli avessero chiarito un mistero.
«Dopo il Giorno» intervenne Ben, dato che il Sindaco sembrava troppo sconvolto per continuare «a Ginevra le Nazioni Unite sono tornate a riunirsi. Tutti avevano paura dell’Unione Sovietica, soprattutto i paesi in possesso di armamenti nucleari, è ovvio. La Russia ha suggerito di tenerci in isolamento per un secolo, in modo da evitare che si scatenassero conflitti per impadronirsi delle nostre spoglie. Una riserva mondiale, dicevano. Chiaramente punitiva, ma chi avrebbe protestato? Ed eccoci qua.»
«Interessante» commentò Tom. «Ma negli ultimi cinquant’anni ho sentito un mucchio di ipotesi.» Riprese a lavorare di forchetta. «A me sembra che ci troviamo nella stessa condizione dei giapponesi dopo Hiroshima. Non sapevano neppure cosa li avesse colpiti, lo sa? Credevano che avessimo lasciato cadere manganese sulla ferrovia elettrica, provocando un incendio. Pietosi. E noi non siamo migliori.»
«Cos’è Hiroshima?» chiese il Sindaco.
Tom non rispose. Ben scosse la testa, di fronte ai dubbi di Tom. «Abbiamo avuto nostri uomini a Catalina per mesi interi, a volte. E… be’, domani vi manderò da Wentworth. Lui vi racconterà. Sappiamo cos’è successo, più o meno.»
«Basta con la storia» disse il Sindaco. «Quel che conta sono il momento e il luogo attuali. Ad Avalon i giapponesi diventano sempre più corrotti. I ricchi vogliono venire in America a visitare le rovine: l’ultimo grido dell’avventura. Vengono ad Avalon e si mettono in contatto con individui che li portano sul continente. Alcuni sono addirittura americani, e di notte li trasportano per mare oltre le motovedette di pattuglia e li sbarcano a Newport Beach o a Dana Point. Abbiamo sentito dire che nelle Hawaii ci sono centinaia di turisti in lista d’attesa.»
«Lo dice lei» replicò Tom con una scrollata di spalle.
Una smorfia di esasperazione comparve sul viso del Sindaco e subito svanì. Mentre portavano via i piatti, Danforth si alzò e si chinò sulla ringhiera.
«Dite alla banda di suonare!» gridò, rivolto a quelli in basso. Ci fu un’ovazione; il Sindaco entrò zoppicando in casa. Dall’alto della ringhiera vidi i grossi tavoli coperti di stoffa bianca, sui quali erano ammucchiati piatti e vasellame. Da sopra gli abitanti di San Diego apparivano tutti lustri, con i capelli ben tagliati, camicia e vestito puliti e stirati. Ancora una volta mi parvero sciacalli.
Dalla strada una piccola banda musicale attaccò una polka noiosa; comparve il Sindaco, passò da un tavolo all’altro. Conosceva tutti. Terminata la cena, la gente andò a ballare nello spazio davanti alla banda. Intorno a noi l’acqua e le rive del lago erano buie: eravamo in un’isola di luce, in risalto contro le tenebre. Sotto si divertivano; ma sulla veranda, senza il Sindaco, il gruppo pareva annoiarsi.
Poi Danforth ricomparve, inquadrato fra gli alti battenti di vetro, e rise nel vederci. «Avete terminato di rimpinzarvi? Perché non scendete a fare quattro salti? Questa è una festa! Unitevi alla gente; Ben e io scambieremo ancora quattro chiacchiere con gli ospiti giunti dal nord.»
Uomini e donne dei tavoli vicini si alzarono allegramente e sfilarono dentro la casa. Jennings e Lee andarono con loro; solo Ben rimase al piano di sopra, oltre al Sindaco, per parlare con noi.
«Nel mio studio ho una bottiglia di ottima tequila» disse Danforth. «Andiamo a provarla.»
Lo seguimmo lungo un corridoio fino a una stanza con pannelli di legno alle pareti, dominata da un’enorme scrivania. La finestra era coperta da tendaggi; la parete dietro la scrivania, da scaffali di libri. Ci sedemmo nelle poltroncine imbottite disposte a semicerchio intorno alla scrivania; Tom piegò la testa di lato nel tentativo di leggere il titolo dei libri. Da uno scaffale pieno di liquori Danforth prese una bottiglia lunga e sottile; versò a ciascuno un bicchiere di tequila. Camminò nervosamente dietro la scrivania, su e giù, fissando il tappeto. Accese la lampada da tavolo, che si rifletté sulla superficie lucida e gli illuminò dal basso il viso. La stanza era silenziosa, non si udivano rumori della festa. In tono solenne, Danforth propose un brindisi: «All’amicizia delle nostre due comunità.»
Tom alzò il bicchiere e bevve.
Assaggiai un sorso di tequila. Era fortissima. Mi sembrò di avere nello stomaco una palla di fuoco, tanto avevo mangiato. Posai il bicchiere in equilibrio sul bracciolo della poltrona, mi appoggiai allo schienale e mi preparai a guardare Tom e il Sindaco rimbeccarsi di nuovo… anche se non riuscivo a immaginare di quale disputa si trattasse.
Il Sindaco aveva un’aria pensierosa, meditabonda. Continuò a camminare lentamente avanti e indietro… Sollevò il bicchiere, sogguardò Tom. «E allora, cosa ne pensa?»
«Di cosa?» disse Tom.
«Della situazione mondiale.»
Tom scrollò le spalle. «Ne ho solo sentito parlare. Voi sapete molte più cose di noi. Ammesso che siano tutte vere. Sappiamo che ci sono orientali, a Catalina. Di tanto in tanto il mare getta sulla spiaggia un cadavere. A parte questo, sappiamo solo i pettegolezzi dei raduni di scambio; e queste voci cambiano ogni mese.»
«Avete trovato cadaveri di giapponesi?» chiese Danforth.
«Noi li chiamiamo cinesi.»
Il Sindaco scosse la testa. «Giapponesi.»
«La guardia costiera spara a chi sbarca illegalmente?» azzardò Tom.
Di nuovo il Sindaco scosse la testa. «Le guardie costiere prendono bustarelle. Non è opera loro.» Bevve un sorso. «È opera nostra.»
«Come?»
«Opera nostra!» ripeté il Sindaco, alzando improvvisamente il tono di voce. Zoppicò fino alla finestra, armeggiò con i tendaggi.
«Prendiamo il mare da Newport Beach e Dana Point, nelle notti di nebbia o quando riceviamo la soffiata di uno sbarco; e tendiamo loro un’imboscata. Ne uccidiamo più che possiamo.»
Tom fissò il bicchiere. «Perché?» chiese alla fine.
«Perché?» Il mento del Sindaco si fuse con il collo. «Lei è uno dei vecchi tempi… e chiede perché?»
«Certo.»
«Perché qui non siamo in uno zoo, ecco perché!» Riprese a zoppicare su e giù dietro la scrivania; girò intorno alle nostre poltrone. Senza preavviso, sbatté il palmo della mano sulla scrivania, smack!, facendomi sobbalzare. «Hanno fatto a pezzi il nostro paese» disse, con tono soffocato e furibondo, tutto diverso da quello che usava fino a un momento prima. «L’hanno ucciso.» Si schiarì la gola. «Ormai non possiamo farci niente. Ma loro non devono venire a fare i turisti fra le rovine. No. Finché c’è un americano vivo. Non siamo animali in gabbia. Gli insegneremo che se mettono piede sul nostro suolo, sono morti.» Con mano tremante prese la bottiglia di tequila e tornò a riempirsi il bicchiere. «Non si entra, nelle gabbie di questo zoo. Quando si spargerà la voce che nessuno torna da una visita all’America, smetteranno di venire. Non ci saranno più clienti, per quei farabutti a nord della vostra valle.» Bevve in fretta. «Lei sa che nell’Orange County ci sono sciacalli che fanno fare ai musi gialli escursioni guidate?»
«Non ne sono sorpreso» rispose Tom.
«Io sì. Sono delinquenti. Traditori degli Stati Uniti.» Lo disse come se pronunciasse una sentenza di morte. «Se ogni americano si unisse alla resistenza, nessuno metterebbe piede nel nostro paese. Ci lascerebbero in pace e noi andremmo avanti a ricostruire. Ma tutti dobbiamo fare parte della resistenza.»
«Non sapevo che ci fosse una resistenza» disse Tom, soave.
Bang! Il Sindaco tornò a colpire la scrivania. Chinò la testa e gridò: «Proprio per questo vi abbiamo fatti venire qui!» Si raddrizzò, andò a sedersi sulla poltrona, si sostenne con la mano la fronte. A un tratto parve di nuovo calmo e tranquillo. «Ben, diglielo tu.»
Ben si sporse con entusiasmo dalla poltrona. «Quando siamo arrivati al Shalton Sea, abbiamo saputo che esiste. La resistenza americana. Anche se in genere la chiamano solo resistenza. Il quartier generale si trova a Salt Lake City; e ci sono centri militari nel vecchio dislocamento del Comando Strategico dell’Aviazione, sotto Cheyenne, nello Wyoming, e anche sotto il monte Rushmore.»
«Sotto il monte Rushmore?» disse Tom.
Con la testa ancora sostenuta dalla mano e la faccia in ombra, il Sindaco lo scrutò. «Esatto. Dov’è sempre stato il quartier generale del servizio segreto militare degli Stati Uniti.»
«Non lo sapevo» disse Tom, inarcando lievemente le sopracciglia.
Ben continuò: «Ci sono organizzazioni in tutto il paese, ma in pratica si tratta di un gruppo unico, con un identico fine. Ricostruire l’America.» Parve assaporare l’ultima frase.
«Ricostruire l’America» mormorò il Sindaco. Provai di nuovo quel fuoco alle guance e quel brivido lungo la schiena. Perdio, erano in contatto con la costa orientale! New York, la Virgina, il Massachusetts, l’Inghilterra… Il Sindaco allungò la mano verso il bicchiere e bevve un sorso; Ben trangugiò due sorsate, come se facesse un brindisi. Tom e io li imitammo. Per un attimo parve che nella stanza ci fosse una comunione di sentimenti. Sentivo l’alcol andarmi alla testa, insieme con la notizia della resistenza, il sogno mio e di Steve, finalmente realizzato. Una mistura pesante.
Danforth si alzò di nuovo; guardò la carta geografica incorniciata, appesa alla parete laterale dello studio. Con tono appassionato disse: «Rendere di nuovo grande l’America, renderla quel che era prima della guerra: la nazione migliore del mondo. Questa è la nostra meta.» Nell’ombra, puntò il dito contro Tom. «Ci saremmo già riusciti, se avessimo fatto la rappresaglia contro i sovietici. Se il presidente Eliot, quel traditore, quel vigliacco, non si fosse rifiutato di difenderci. Ma possiamo ancora riuscirci. Lavoreremo duramente, pregheremo ferventemente, nasconderemo ai satelliti le nostre armi. Ne inventano di nuove, a Salt Lake e a Cheyenne, a quanto si dice. E un giorno… un giorno balzeremo di nuovo sul mondo, come una tigre. Una tigre uscita dal profondo della fossa…» La sua voce cambiò, divenne un gracchiare soffocato che non riuscivo a capire. Era girato a mezzo verso di noi e rimase in quella posizione per un bel pezzo, parlando fra sé, fra gemiti e sospiri. La luce della lampada da tavolo tremolò, una volta, due. Ben scattò dalla poltrona e andò in un angolo a prendere una lampada a cherosene.
Il Sindaco batté le nocche sulla scrivania, tornò ad alzare la voce. Sembrava rilassato e ragionevole. «Ecco di cosa volevo parlarle, Barbard. Sappiamo che, lungo questa costa, il gruppo di resistenza più numeroso è dislocato intorno a Santa Barbara. Abbiamo incontrato alcuni componenti del gruppo, al Salton Sea. Ci occorre un collegamento con loro, ci occorre presentare un’opposizione unificata contro i giapponesi, nelle isole di Catalina e Santa Barbara. La prima parte del compito consiste nel liberare da tutti i turisti giapponesi, e dai traditori che fanno loro da guida, l’Orange County e Los Angeles. Quindi abbiamo bisogno di voi. Abbiamo bisogno che Onofre si unisca alla resistenza.»
«Non posso parlare a nome degli altri» disse Tom. Quasi protestai e mossi le labbra: Ma certo che ci uniremo a loro! Mi morsicai la lingua e rimasi zitto. Tom aveva ragione: bisognava mettere ai voti la proposta. Tom gesticolò. «Sembra… be’, non so se saremo disposti.»
«Dovrete esserlo!» replicò fieramente il Sindaco, tendendo il pugno sulla scrivania. «I vostri desideri passano in secondo piano. Dica a tutti che possono riportare il loro paese com’era una volta. Possono collaborare. Ma dobbiamo lavorare tutti insieme. E il giorno verrà. Un’altra Pax Americana, automobili e aeroplani, razzi per la Luna, telefoni. Un paese unificato.» Di colpo, senza collera né mormorio appassionato, disse: «Torni lassù e lo dica agli abitanti della valle: o sono con la resistenza, o sono contro.»
«Un modo di esprimersi non molto amichevole» osservò Tom socchiudendo gli occhi.
«Lo esprima come preferisce! Ma glielo dica.»
«Glielo dirò. Ma vorranno sapere esattamente cosa pretendete da loro. E non posso garantire cosa risponderanno.»
«Nessuno le chiede di garantire niente. Sapranno quel che è giusto.» Il Sindaco lanciò a Tom una lunga occhiata, con occhietti ardenti. «Credevo che uno come lei, uno che ha conosciuto i vecchi tempi, avrebbe fatto salti di gioia a sentir parlare di resistenza.»
«Non salto molto, di questi tempi» ribatté Tom. «Male alle ginocchia.»
Il Sindaco girò intorno alla scrivania; si chinò sulla poltrona di Tom, lo fissò. Gli bloccò fra le sue la mano. «Non perda la sensibilità per l’America, vecchio» disse, rauco. «È la parte migliore di lei, quella che l’ha tenuta in vita per tutto questo tempo, che lo sappia o meno. Dovrà lottare per mantenerla, altrimenti è condannato.»
Tom ritrasse la mano. Il Sindaco si raddrizzò, tornò zoppicando dietro la scrivania. «Allora, Ben! Questi signori meritano di approfittare un poco della festa, prima di ritirarsi, non credi?» Ben annuì e ci sorrise. «So che avete passato una notte dura, ieri» continuò Danforth. «Ma mi auguro che abbiate ancora la forza di unirvi alla gente qua fuori, almeno per un poco.»
Assentimmo.
«Prima di uscire, allora, lasciate che vi mostri un piccolo segreto.» Ci alzammo e lo seguimmo fuori della stanza. Danforth zoppicò per il corridoio fino a un’altra porta; estrasse dal taschino una chiave. «La chiave di un mondo nuovo» disse. Aprì la serratura e ci precedette nella stanza, che conteneva solo parti di macchinari disseminate sopra tre tavoli. Sul tavolo più grande c’era una scatola metallica grossa come lo stipetto di una barca, piena di manopole e quadranti e indicatori; cavi elettrici uscivano da due aperture.
«Radio a onde corte?» disse Tom.
«Esatto» rispose Ben, con un sorriso d’approvazione.
«Dal Salton Sea verrà uno ad aggiustarla» mormorò il Sindaco. «Allora saremo in contatto con tutto il paese. Con ogni gruppo della resistenza. Sarà l’inizio di una nuova epoca.»
Restammo a guardare per un poco, poi uscimmo in punta di piedi dalla stanza. Il Sindaco serrò la porta; allora uscimmo sull’autostrada, dove la banda suonava ancora. Subito il Sindaco fu circondato da ragazze che volevano a tutti i costi ballare con lui. Tom si allontanò verso la ringhiera ovest e io mi diressi al tavolo bar. L’uomo al banco mi riconobbe: ci aveva aiutati a ormeggiare la barca, al nostro arrivo sull’isola. «Offre la casa» dichiarò, versandomi una tazza di ponce alla tequila. Lo presi e girai attorno alla pista da ballo. Le donne ballavano con il Sindaco, si tenevano strette a lui; si muovevano lentamente in cerchio, eseguivano passi diversi dalla polka che si ballava intorno a loro. Sentivo l’effetto dell’alcol. La musica, il riflesso di lampadine elettriche sul cemento, i tappeti dai colori vivaci, la brezza fresca, il cielo notturno, i lugubri grattacieli in rovina che si ergevano più neri delle tenebre intorno a noi… l’incredibile notizia della resistenza americana… tutto si combinava per infiammarmi d’eccitazione. Ero davvero sull’orlo di un mondo nuovo. Mi aprii la strada fra la folla, in direzione di Tom che, appoggiato alla massiccia ringhiera, guardava l’acqua più in basso.
«Tom, non è straordinario? Non è meraviglioso?»
«Lasciami riflettere, ragazzo» rispose lui, piano.
Allora tornai accanto alla banda, mogio mogio per un momento. Ma non durò. La ragazza che danzava con il Sindaco era la bionda che aveva servito a tavola durante il banchetto. Quando lasciò posto a un’altra ragazza, mi avvicinai in fretta fra i ballerini e la strinsi in un abbraccio.
«Balla anche con me» le dissi. «Vengo dal nord.»
«Lo so» rispose lei. E rise. «Non sei certo un ragazzo di queste parti, è chiaro.»
«Dal gelido nord» dissi, guidandola goffamente nei passi della polka. Mi sentivo un po’ stordito. «Dai ghiacciai e dai crepacci e dalle grandi distese di neve sono venuto nella vostra magnifica e civile città.»
«Come?»
«Qui, dal barbaro nord, a conoscere il vostro Sindaco, il profeta di un’epoca nuova.»
«Assomiglia a un profeta, vero? Come quelli della chiesa. Mio padre dice che è stato lui a fare di San Diego la città che è.»
«Ci credo. Ha fatto un mucchio di cambiamenti, da quando ha assunto la carica?»
«Oh, è sempre stato sindaco da quando mi ricordo. Da quando avevo due anni, mi pare abbia detto papà.»
«Un mucchio di tempo.»
«Quattordici anni…»
Le diedi un rapido bacio; ballammo tre, quattro volte, finché non mi tornò lo stordimento. Avevo difficoltà a muovermi. Lei mi accompagnò ai tavoli e ci sedemmo a chiacchierare. Chiacchierai come il più fantasioso contaballe della California; lo stesso Steve non sarebbe riuscito a battermi, quella notte. La ragazza rise e rise. Più tardi arrivarono Jennings e Tom; mi dispiacque vederli. Jennings disse che ci avrebbe accompagnati al nostro alloggio per la notte, all’altro capo della piattaforma. A malincuore salutai la ragazza e li seguii a passo da ubriaco giù per l’autostrada, canticchiando fra me: «Um-pap-pà» e salutando quasi tutti quelli che incontravo. Jennings ci sistemò in un bungalow nella parte sud della piattaforma; continuai a parlare a Tom per un paio di minuti, anche se lui stava in silenzio, prima di perdere conoscenza.
«Una nuova epoca, Tom, te lo dico io. Un nuovo mondo.»
La mattina seguente fummo svegliati da colpi di fucile. Ci precipitammo alla porta del bungalow: il Sindaco e alcuni suoi uomini sparavano ai piattelli che uno di loro lanciava sul lago. L’uomo lanciava, il piattello compiva un arco, il tiratore mirava e, bam!, un rumore secco, simile allo sbattere di una tavola bagnata contro un’altra. Circa un piattello su tre si riduceva in schegge biancastre. Gli altri picchiavano sulla superficie scintillante del lago e scomparivano. Nel vedere quell’allenamento, Tom scosse la testa sprezzante. «Hanno certo trovato da qualche parte un mucchio di munizioni» commentò.
Jennings, fermo lì accanto a guardare, si girò. Ci vide sulla soglia, si avvicinò e ci condusse ai tavoli sistemati davanti alla grande casa. Lì, fra l’odore pungente del fumo di polvere da sparo, ci sedemmo a fare colazione a base di pane e latte. Tra uno sparo e l’altro udivo lo sventagliare della bandiera americana nella brezza mattutina. La guardai muoversi al vento sopra la casa. Tornai a guardare l’allenamento: ogni volta che un piattello esplodeva, gli uomini lanciavano un grido di giubilo e facevano commenti. Il Sindaco era un buon tiratore: sbagliava di rado, forse perché era quello che sparava più spesso degli altri. I suoi uomini… tanto valeva che gettassero direttamente i piattelli nel lago.
Terminammo di fare colazione. Il Sindaco passò la doppietta a uno dei suoi e venne con passo pesante dalla nostra parte. Sotto il sole sembrava un poco più piccolo di quanto era parso alla luce delle lanterne e delle lampadine elettriche.
«Vi rimando a casa di Jennings. Ma passerete da La Jolla, così potrete parlare a Wentworth.»
«Chi sarebbe?» chiese Tom, senza neppure fingere buona educazione.
«Il nostro fabbricante di libri. Vi illustrerà meglio la situazione di cui Ben e io vi parlavamo ieri sera. Quando avrete parlato con lui, Jennings, Lee e la loro squadra vi riporteranno a nord in treno.» Sedette di fronte a noi e appoggiò sul tavolo le braccia robuste. «Tornati a casa, direte alla vostra gente quel che ho detto a voi ieri sera.»
«Mi faccia capire bene» disse Tom. «Lei vuole che ci uniamo a questa resistenza di cui ha udito parlare.»
«Di cui facciamo parte. Esatto.»
«Cosa significa, all’atto pratico?»
Danforth fissò Tom dritto negli occhi. «Ogni comunità della resistenza deve fare la sua parte. È l’unico modo per ottenere la vittoria. Certo, qui abbiamo la popolazione maggiore, perciò forniremo gran parte della manodopera su questa costa. Ma abbiamo bisogno di attraversare la vostra valle con la ferrovia, per prima cosa. E la vostra gente potrà fare incursioni lungo la costa con maggiore facilità di noi, visto dove vivete. Oppure stabiliremo noi alla foce del vostro fiume una base per le incursioni, a seconda di come decideremo di operare. Ecco, non esiste un modo prestabilito, dovreste capirlo. Ma abbiamo bisogno che vi uniate a noi.»
«E se non volessimo?»
Il Sindaco serrò le labbra. Lasciò che la domanda di Tom rimanesse nell’aria per un bel pezzo. Gli uomini intorno a noi (per il momento il tiro al piattello era stato interrotto) divennero silenziosi.
«Non capisco dove vuole arrivare, vecchio» protestò Danforth. «Si limiti a portare il mio messaggio alla gente della valle.»
«Dirò quel che mi ha detto e le farò sapere la nostra decisione.»
«È sufficiente. Arrivederci.» Spinse indietro la sedia, si alzò, entrò zoppicando nella luccicante casa bianca.
«Credo che non abbia più niente da dirvi» osservò Jennings, dopo un altro lungo silenzio. «Possiamo andarcene.»
Ci accompagnò di nuovo al bungalow. Tom riprese la sacca a spalla. Scendemmo la rampa inclinata, fino alle barche. Lee e Abe ci aspettavano sul pontile galleggiante. Salimmo tutti a bordo e tagliammo l’acqua azzurra, diretti alla sponda nord del lago. Era una bella giornata, cielo sereno, vento debole. Prendemmo un treno diverso da quello con cui eravamo arrivati, posto su rotaie diverse, che ci portarono a ovest, lungo la riva del lago.
«Avete una vera stazione» notò Tom, rompendo il silenzio.
Jennings cominciò a descrivere ogni chilometro della rete ferroviaria, ma nessuno dei nomi citati aveva significato per me, per cui smisi di ascoltarlo e restai sul chi vive per vedere il mare. Arrivammo a un grande acquitrino proprio quando mi aspettavo di scorgere l’oceano e girammo a nord costeggiando il terreno paludoso. Una collina fittamente alberata segnava l’estremità nord dell’acquitrino; avanzammo sferragliando sopra un’autostrada che serpeggiava in un avvallamento a est della collina. Prima di uscire dall’avvallamento, Lee frenò il carrello (ormai avevo imparato a tapparmi le orecchie, quando lo vedevo sul punto di frenare).
«Da qui a La Jolla non ci sono rotaie» spiegò Jennings. «Dobbiamo andare a piedi.»
«E nemmeno strade» aggiunse Lee.
Scesi dal carrello, imboccammo una pista, l’unico passaggio nella fitta foresta. Sembrava di attraversare quella che Tom chiamava giungla: felci, rampicanti e liane avvolgevano in una ragnatela i fitti alberi; rami macchiati di licheni si aggrovigliavano nella lotta per la luce del sole. Densi gruppi di pini di Torrey gareggiavano con alberi di tipo mai visto. Sulla pista spugnosa aleggiava un odore d’umidità; muffe e felci di un verde brillante crescevano sui tronchi caduti che ingombravano il sentiero. Tom camminava dietro di me, con la sacca che gli sbatteva sulla coscia. A un certo punto brontolò: «Monte Soledad a nord è solo un’altra parete dilavata, adesso. Tutte le case spazzate via. Crollato tutto, crollato tutto.»
Lee, davanti a me, si girò a dargli un’occhiata strana. Capivo il significato di quello sguardo: era difficile credere che Tom fosse vivo al tempo in cui quelle non erano ancora macerie. Tom imprecò, inciampando in una radice; continuò a borbottare, senza accorgersi dello sguardo di Lee: «Acqua e fango, pioggia e pena, fulmini e incendi, tutto crollato. Quegli orribili edifici. Ah, ah, ecco delle fondamenta. Era una casa stile Tudor? Cinese? Una hacienda? Un ranch californiano?»
«Come?» disse Jennings, credendo che fosse una domanda.
Ma Tom continuò a parlare: «Questa città era tutto fuorché se stessa. Nient’altro che soldi. Case di carta. Certo, la montagna ha un aspetto migliore, ripulita di tutta quella merda. Ah, se potessero vederla adesso, eh eh eh!»
Dalla parte dell’oceano, la montagna era tutta diversa. Dove il pendio si livellava a formare una punta che sporgeva dalla costa in entrambe le direzioni, gli alberi erano stati tagliati. Nella radura così ottenuta c’erano alcuni edifici antichi, circondati da case in legno. I muri di cemento erano stati riparati con legno di sequoia; le case nuove erano assemblate con parti delle vecchie: alcune avevano il tetto sostenuto da travi massicce; altre, un ampio camino; altre ancora, il tetto a tegole arancioni. Molte erano tinteggiate in diverse tonalità d’azzurro, giallo, arancione. Attraverso il fogliame scorgevamo la radura, mentre scendevamo il lato occidentale del monte: il piccolo villaggio risplendeva contro lo sfondo dell’oceano blu scuro. Uscimmo da sotto la foresta e la pista si aprì a formare una strada dritta e coperta di folta erba.
«Pittura» osservò Tom. «Buona idea. Ma tutta la pittura che ho visto ultimamente era dura come pietra.»
«Wentworth ha un sistema per liquefarla» disse Jennings. «Lo stesso che usa per l’inchiostro vecchio, dice.»
«Chi è questo Wentworth?» chiesi.
«Vedrai» rispose Jennings.
All’estremità opposta della strada d’erba, proprio sopra una piccola insenatura, c’era un edificio di blocchi di pietra rossiccia. Un muro dello stesso materiale circondava il posto e dei pini di Torrey si ergevano contro il muro su entrambi i lati. Varcammo un ampio portone di legno, nel quale era intagliata una tigre… una tigre verde con le strisce nere. Al di là del muro l’erba si alternava con aiuole fiorite. Jennings guardò dentro la porta aperta dell’edificio e ci fece segno di seguirlo.
La prima stanza aveva in una parete ampie finestre a vetri; a porta spalancala, era soleggiata come il cortile. Cinque o sei ragazzi e tre o quattro adulti erano al lavoro lungo bassi tavoli: impastavano una farina bianchissima che dall’odore non poteva essere di grano. Un uomo con occhiali cerchiati di nero e barba sale e pepe alzò lo sguardo dal tavolo dove dava disposizioni ai lavoranti e si avvicinò a noi.
«Jennings, Lee» disse, asciugandosi le mani nel pezzo di stoffa legato intorno alla cintola. «Come mai siete qui, oggi?»
«Douglas, questo è Tom Barnard, un… un anziano di Onofre, su lungo la costa. L’abbiamo condotto giù sulla nuova ferrovia. Tom, ti presento Douglas Wentworth, l’uomo che fabbrica i libri di San Diego.»
«L’uomo che fabbrica libri» ripeté Tom. Strinse la mano a Wentworth. «Sono lieto di conoscere uno che fabbrica libri, signore.»
«Lei s’interessa di libri?»
«Certo. Ero avvocato, un tempo; ho dovuto leggere il tipo peggiore di libri. Adesso sono libero di leggere quel che mi piace, quando riesco a trovarlo.»
«Ne possiede una vasta raccolta?» chiese Wentworth, spingendo in su con un dito gli occhiali, per guardare meglio Tom.
«No. Una cinquantina di volumi. Ma continuo a scambiarli con i vicini.»
«Ah. E tu, giovanotto… anche tu leggi?» Dietro le lenti aveva occhi grossi come uova, che ressero il mio sguardo.
«Sì, signore. Tom mi ha insegnato. E mi piace moltissimo.»
Il signor Wentworth sorrise brevemente. «Mi fa piacere che San Onofre sia una comunità istruita. V’interessa fare il giro dello stabilimento? Posso sottrarre qualche minuto al lavoro. Abbiamo un’attrezzatura per la stampa che forse vi sembrerà interessante.»
«Ne saremmo felici» disse Tom.
«Lee e io andiamo a procurarci qualcosa da mangiare» disse Jennings. «Torniamo fra poco.»
«Vi aspettiamo» rispose Tom. «Grazie per averci condotti qui.»
«Ringraziate il Sindaco.»
«Continuate a impastare finché non ottenete una consistenza perfetta» diceva intanto Wentworth ai suoi allievi. «Poi cominciate a eliminare l’acqua. Sarò di ritorno prima della pressatura.»
Ci condusse in un’altra stanza con ampie finestre, piena di piccole scatole metalliche disposte su tavoli. Davanti a una di esse, una donna girava la maniglia posta sul fianco e faceva ruotare un cilindro su cui era steso un foglio di carta scritta. Pagine stampate uscivano dalla base della scatola.
«Ciclostile!» esclamò Tom.
La donna sobbalzò all’esclamazione; guardò Tom, irritata.
«In realtà» disse Wentworth «siamo un’impresa modesta, come ho detto. Qui la nostra forma di stampa principale è il ciclostile. Non sarà il metodo più raffinato, e nemmeno il più duraturo, ma le macchine danno affidamento e poi non abbiamo molto altro.»
«E le matrici?» chiese Tom.
Wentworth, compiaciuto per la domanda, invitò la donna a scostarsi. L’operaia aggrottò le sopracciglia, ma ubbidì. «Abbiamo una buona scorta di matrici e abbiamo imparato a farne altre, usando l’inchiostro da ciclostile e questo tipo di carta. Ma sono sempre l’anello più debole della catena.» Prese una pagina dal cestino sistemato accanto alla macchina e ce la mostrò. «A causa di quel che dobbiamo conservare, con spazio uno e margini ridotti al minimo… Difficile da leggere, piuttosto brutta…»
«A me sembra magnifica» disse Tom, prendendo la pagina per leggerla.
«Sufficiente.»
«Anche l’inchiostro ha un bel colore» intervenni. L’inchiostro era viola bluastro, la pagina si presentava assai inchiostrata.
Wentworth emise una risatina, acuta e breve. «Ah! La pensi cosi? Io preferirei il nero, ma dobbiamo lavorare con quel che abbiamo. Qui c’è la cosa di cui siamo veramente orgogliosi. Un torchio per la stampa a mano.» Indicò un aggeggio formato da sbarre che reggevano una grossa vite: occupava quasi tutta la parete più lontana.
«È davvero quel che sembra?» disse Tom, rimettendo nel cestino il foglio ciclostilato. «Non ne ho mai visti.»
«Ci serve per i lavori eleganti. Ma non c’è carta a sufficienza e nessuno di noi sapeva, all’inizio, come fondere i caratteri. Quindi le operazioni procedono a rilento. Ma abbiamo avuto qualche successo. Sulle orme di Gutenberg, ecco la nostra prima opera.» Dallo scaffale accanto al macchinario tolse un grosso volume rilegato in pelle. «La versione di re Giacomo, naturalmente; ma se avessi trovato una Gerusalemme, la scelta sarebbe stata difficile.»
«Meraviglioso!» disse Tom, prendendo il libro. «Cioè…» Scosse la testa; sorrisi, vedendolo finalmente senza parole… c’era voluto un cumulo di parole scritte per fare il miracolo. «C’è voluto un mucchio di caratteri.»
«Ah!» Wentworth riprese il libro. «Davvero. E tutto per amore di un libro che già abbiamo. Ma il punto non è questo, in realtà.»
«Stampate libri nuovi?»
«Vi dedichiamo almeno la metà del nostro tempo. Ed è la parte alla quale sono maggiormente interessato, lo confesso. Pubblichiamo manuali d’istruzione, almanacchi, diari di viaggio, memorie…» Guardò Tom: gli occhi sembravano galleggiare dietro gli occhiali. «All’atto pratico, invitiamo tutti i sopravvissuti a scrivere la loro storia e a farcela leggere. Quasi certamente finiremo per stamparla. Come contributo alle registrazioni storiche.»
Tom sollevò le sopracciglia ma rimase in silenzio.
«Tu dovresti farlo» lo esortai. «Saresti la persona perfetta, con tutte le tue storie dei vecchi tempi.»
«Ah, un narratore?» disse Wentworth. «Allora dovrebbe farlo davvero. Io la penso così: più documenti di quel periodo abbiamo, meglio è.»
«No, grazie» rispose Tom, a disagio.
Scossi la testa: non capivo perché un vecchio chiacchierone come lui si rifiutasse ostinatamente di parlare della sua vita… che è il massimo di cui molti riescono a parlare.
«Ci rifletta» disse Wentworth. «Posso garantirle che la maggior parte dei residenti di San Diego leggerà il libro. Quelli istruiti, voglio dire. E poiché la gente del Salton Sea ci ha contattati…»
«Vi hanno contattati?» lo interruppe Tom.
«Sì. Due anni fa ne è arrivato un gruppo. Da allora, le vostre guide Lee e Jennings, uomini assai attivi, hanno provveduto alla ricostruzione di una linea ferroviaria fin lì. Abbiamo spedito libri a quella gente, che ci ha detto di averli inviati ancora più a est. Perciò la distribuzione del suo lavoro, per quanto incerta, potrebbe raggiungere tutto il continente.»
«Anche lei pensa che le comunicazioni si estendano così lontano?»
Wentworth si strinse nelle spalle. «Guardiamo attraverso un vetro oscurato, come ben sa. Possiedo un libro stampato a Boston, ben fatto. A parte questo, non posso dire altro. Non ho motivo per non credere alle loro dichiarazioni. In ogni caso, un suo libro potrebbe arrivare facilmente a Boston, come quel libro di Boston è arrivato fino a me.»
«Ci penserò» disse Tom; ma il tono indicava che voleva solo chiudere l’argomento.
«Cambia idea, Tom» lo esortai.
Lui si limitò a guardare il grande torchio.
«Venite a vedere i libri stampati finora» disse Wentworth, a mo’ d’incoraggiamento; ci condusse in una stanza d’angolo, anch’essa assai luminosa, le cui finestre davano sul promontorio sottostante. Era la biblioteca: alte scaffalature si alternavano alle finestre e contenevano libri vecchi e nuovi.
«La nostra biblioteca» disse Wentworth. «Non circolante, purtroppo» aggiunse, interpretando perfettamente lo schiocco voglioso delle labbra di Tom. «In questi scaffali ci sono i libri stampati qui.»
Tom cominciò a esaminare questi ultimi. La maggior parte dei libri consisteva in una cartellina piena di pagine ciclostilate; uno scaffale conteneva libri rilegati in pelle, del formato di quelli di un tempo.
Wentworth e io guardammo Tom estrarre un libro dopo l’altro. «Usi pratici dell’apparecchiatura segnatempo delle lavatrici-asciugatrici Westinghouse, di Bill Dangerfield» lesse Tom ad alta voce. E rise.
«Sembra che il tuo amico ci metterà un bel pezzo» mi disse Wentworth. «Ti piacerebbe vedere la nostra galleria d’illustrazioni?»
A dire il vero, avrei voluto guardare i libri con Tom; ma mi accorsi che Wentworth voleva mostrarsi gentile, per cui risposi di sì. Tornammo nel corridoio e lo percorremmo fino in fondo. Davanti a una lunga finestra composta di varie lastre di vetro, il corridoio si allargava; contro la parete opposta alla finestra c’erano disegni in inchiostro nero, che rappresentavano ogni sorta d’animale.
«Sono le illustrazioni originali di un libro che descrive tutti gli animali osservati nella campagna di San Diego.» Di sicuro mi mostrai sorpreso, perché i disegni raffiguravano anche animali da me visti solo nelle figure della malandata enciclopedia di Tom: scimmie, antilopi, elefanti…
«Prima della guerra» continuò Wentworth «a San Diego c’erano alcuni zoo molto grandi. Presumiamo che tutti gli ospiti dello zoo principale siano rimasti uccisi nell’esplosione del centro cittadino; ma fra le montagne c’era una succursale dello zoo. Da lì gli animali sono fuggiti, oppure sono stati liberati. I sopravvissuti ai cambiamenti climatici successivi… vantaggiosi, immagino, per alcune specie… hanno prosperato. Io stesso ho visto orsi e gnu, babbuini e renne.»
«Mi piace questa tigre» dissi. Sapevo che era una tigre, da uno dei primi libri che Tom mi aveva dato da leggere, quello su Sambo.
«Questo disegno l’ho fatto proprio io, grazie. È stato davvero un incontro fuori del normale. Vuoi che ti racconti?» Pose la domanda in modo buffo, come se la frase fosse priva di punto interrogativo.
«Certo.»
Ci sedemmo su sedie di vimini sistemate davanti alle finestre.
«Facevamo una spedizione al di là di monte Laguna. Lo conosci? È una cima di notevole altezza, una trentina di chilometri nell’interno, coperta di neve quasi tutto l’anno. In primavera i torrenti delle montagne vicine traboccano d’acqua e nei tratti più ripidi sono quasi invalicabili.»
“Il viaggio a Julian era stato perseguitato dalla sfortuna a ogni passo. L’apparecchio radio di cui ci avevano parlato era a pezzi. La biblioteca di letteratura occidentale, che speravo di ritrovare, non esisteva da nessuna parte. Un partecipante alla spedizione si ruppe la caviglia fra le rovine della città. Alla fine, cosa peggiore di tutte, durante il ritorno siamo stati scoperti dagli indiani Cuyamuca. Questa tribù è terribilmente gelosa del suo territorio; gruppi di viaggiatori nella zona raccontano di feroci attacchi notturni, quando gli indiani hanno meno paura delle armi da fuoco. Tutto sommato, era una brutta marcia di una giornata, con il nostro amico ferito da portare a braccia, mentre i Cuyamuca a cavallo ci tenevano d’occhio dalla cima di ogni altura.
“All’approssimarsi della notte, io sono andato avanti a cercare la zona adatta per accamparci. Procedevamo con tale lentezza che era impossibile non trascorrere la notte in territorio indiano. Non ho trovato nessun posto adatto a una difesa notturna, per cui, nell’imminenza del tramonto, sono tornato sui miei passi. Ma non ho ritrovato nessuno nella piccola radura in cui avevo lasciato i miei amici. Le tracce erano confuse, ma sembravano puntare a nord; e sopra il rumore del vicino torrente mi è parso di udire colpi di fucile in quella direzione.
“Mentre seguivo i miei amici, il sole calava; come tutti sanno, nella foresta il buio scende in fretta. Sono arrivato alla riva ripida di un torrente; non avevo la minima idea di dove il mio gruppo fosse finito; ho guardato il torrente senza sapere cosa fare. Fissando nel crepuscolo l’acqua corrente mi sono accorto della presenza di un altro paio d’occhi, sulla riva opposta, di fronte a me. Erano occhi enormi, del colore dei topazi.”
«Cosa sono i topazi?» chiesi.
«Diamanti gialli, avrei dovuto dire. Mentre incrociavo lo sguardo con quegli occhi fissi, la tigre a cui appartenevano è uscita a passo deciso da un folto di pini di Torrey e si è fermata sulla riva del torrente, di fronte a me.»
«Vuole scherzare!» esclamai.
«No. Era una tigre del bengala, adulta, lunga almeno tre metri e mezzo e alta al garrese più di un metro. Nella luce fioca della radura, la sua pelliccia invernale mi sembrava verde, un verde cupo segnato da strisce scure.»
“La tigre è comparsa dal folto così all’improvviso che sulle prime sono rimasto solo atterrito dalle proporzioni catastrofiche raggiunte dalla mia sfortuna. Ero sicuro di essere giunto agli ultimi istanti di vita, eppure non riuscivo a muovermi, nemmeno a distogliere lo sguardo dagli occhi immobili di quella bellissima ma pericolosissima fiera. Non so per quanto tempo siamo rimasti a fissarci. So che sono stati i minuti più importanti della mia vita.
“Poi la tigre ha attraversato il torrente, con un piccolo balzo elegante, con la stessa facilità con cui tu attraverseresti questa crepa del pavimento. Mi sono tenuto pronto, mentre s’avvicinava… la tigre ha sollevato una zampa larga come la mia coscia e me l’ha posata sulla spalla sinistra, proprio qui. Mi ha annusato tanto da vicino che ne vedevo la colorazione cristallina delle iridi e sentivo l’odore del sangue nel suo muso. Poi ha tolto la zampa e con un buffetto della testa possente mi ha spinto a destra, a monte del torrente. Io ho barcollato e poi ripreso l’equilibrio. La tigre mi è passata davanti, si è girata a guardare, come per assicurarsi che la seguissi. Ho sentito un raspare di petto… se erano fusa, somigliavano alle fusa di un gatto come un tuono somiglia allo sbattere di una porta. Ho seguito la tigre. Ero stupito oltre ogni immaginazione, non riuscivo a pensare con coerenza. Tenevo la mano sulla spalla della tigre, dove sentivo i muscoli poderosi tendersi e rilassarsi a ogni passo; e le sono rimasto al suo fianco mentre seguiva un percorso tortuoso fra gli alberi. Ogni paio di minuti girava la testa per guardarmi negli occhi, e ogni volta rimanevo di nuovo ipnotizzato dal suo sguardo calmo.
“Molto più tardi la luna si è levata; e ancora camminavamo insieme nella foresta. Poi ho sentito degli spari, più avanti; la tigre ha smesso di fare le fusa e ha teso i muscoli. In una radura illuminata dalla luna ho visto diversi cavalli e alcuni uomini… indiani, immaginavo, perché il mio gruppo era a piedi. Altri spari sono risuonati dall’altra parte della radura; ne ho dedotto che i miei amici erano lì: infatti, se loro non avevano cavalli, gli indiani Cuyamuca non avevano armi da fuoco. La tigre mi ha scostato la mano, increspando la pelliccia… il movimento con cui di solito scacciava le mosche, senza dubbio… ed è avanzata con decisione davanti a me, dritta nella radura.
«Ehi!» gridò Tom, girando in fretta l’angolo del corridoio. Reggeva in mano un libro stampato da Wentworth e lo agitava in direzione di quest’ultimo.
«Quale ha scoperto?» chiese Wentworth. Non parve seccato per l’interruzione, ma io stavo sulle spine.
«Un americano intorno al mondo» lesse Tom. «Ossia il resoconto della circumnavigazione del globo negli anni 2030-2039, di Glen Baum.»
Wentworth esplose nella sua risatina acuta e spontanea. «Bravo! Ha trovato il capolavoro della casa, direi. E Glen, essendo un intrepido avventuriero, è anche un bravissimo narratore.»
«Ma è vero? Un americano ha fatto il giro del mondo ed è tornato qui, solo otto anni fa?»
Esprimendo il concetto in questo modo, capii anch’io come mai Tom fosse rimasto tanto sconvolto… io ero ancora fermo alla tigre nella foresta. Mi alzai dalla sedia per dare un’occhiata al libro. Certo, il titolo era proprio quello, Un americano intorno al mondo: era stampato lì, sulla copertina.
Wentworth sorrideva a Tom. «Glen si è imbarcato per Catalina nel 2030, questo è certo. Ed è ricomparso a San Diego una notte d’autunno del 2039.» Gli occhi a uovo guizzarono; fra i due uomini passò qualcosa che non colsi, perché Tom rise forte. «Il resto è in queste pagine.»
«Non credevo che scrivessero ancora queste cose» disse Tom. «Stupefacente.»
«Sì, vero?»
«Adesso Glen Baum dov’è?»
«L’autunno scorso è partito per il Salton Sea. Prima di andarsene, mi ha comunicato il titolo del suo prossimo libro: A Boston, via terra. Mi aspetto che sia altrettanto interessante di quello che lei ha in mano.» Si alzò. In fondo al corridoio udivo la voce di Jennings, che scherzava con la donna nella stanza del ciclostile. Wentworth ci condusse di nuovo nella biblioteca.
«Ma cosa è successo a lei e alla tigre?» chiesi.
Wentworth si era messo a frugare in una scatola sull’ultimo scaffale di una libreria. «Abbiamo un mucchio di copie di quel libro» disse. «Ne prenda una e se la porti a San Onofre, con gli omaggi della Nuova Editrice Tigre Verde.» Offrì a Tom un libro rilegato in pelle.
«Grazie, grazie davvero» rispose Tom. «Significa molto, per me.»
«Sono sempre lieto di avere nuovi lettori, le assicuro.»
«Farò in modo che tutti i miei allievi lo leggano» disse Tom, sorridendo come se gli avessero appena dato un pezzo d’argento.
«Lo leggeremo volentieri» dissi. «Ma la tigre, quella volta?»
Jennings e Lee entrarono nella stanza. «È ora di pranzo» disse Jennings. Era chiaro che a San Diego c’era l’abitudine di consumare un pasto a metà giornata. «Vi è piaciuto il giro?» Tom e io rispondemmo di sì e gli mostrammo il libro.
«Un’altra cosa» disse Wentworth, frugando in una scatola diversa. «Eccole un libro bianco, nel caso decida di scrivere le sue memorie.» Fece scorrere le pagine di un libro già rilegato, mostrando che erano bianche. «Ce lo restituisca pieno. Penseremo noi a riprodurlo.»
«Oh, non posso accettare» disse Tom. «Ci ha già dato abbastanza.»
«La prego, lo accetti» disse Wentworth, porgendoglielo. «Di questi ne abbiamo a volontà. Non è obbligato a scrivere… ma se decide di farlo, avrà il materiale a disposizione.»
«Be’, grazie» disse Tom. Dopo un attimo d’esitazione, mise i due volumi nella sacca a spalla.
«Possiamo pranzare sul prato?» chiese Jennings, mostrando una grossa pagnotta.
«Devo tornare a fare lezione» disse Wentworth. «Ma approfittate pure del cortile.» Mentre ci accompagnava alla porta, si rivolse a Tom: «Si ricordi quel che le ho detto a proposito delle sue memorie.»
«Non lo dimenticherò. Lei porta avanti un ottimo lavoro, qui.»
«Grazie. Continui a insegnare alla gente a leggere, così non andrà sprecato. Adesso devo andare. Arrivederci, e grazie della visita. Arrivederci.» Tornò nella stanza dove gli allievi continuavano a impastare la pasta per fabbricare la carta.
Dopo il pranzo in cortile, nell’aria soleggiata e odorosa di salsedine, tornammo su per monte Soledad fino alla ferrovia e spingemmo il carrello verso nord, su e giù per le ripide montagne. Percorsi alcuni chilometri, Tom chiese a Lee di frenare. «Ti spiace se vado fino sulla scogliera a dare un’occhiata?»
Jennings non pareva molto convinto.
«Tom» dissi «guarderemo dalla scogliera quando saremo a casa.»
«Non da questa scogliera» replicò Tom. Guardò Jennings: «Voglio mostrarla al ragazzo.»
«Certo» rispose Jennings. «Ho detto a mia moglie che saremmo tornati per cena, ma tanto non sarà pronta prima di sera.»
Così scendemmo di nuovo dal carrello e ci dirigemmo alla costa, attraverso una fitta foresta di pini di Torrey e roveti. Ben presto arrivammo a un affioramento di alti macigni. Inoltrandomi fra di essi, vidi che erano di cemento. Edifici. I muri ancora in piedi, alcuni alti quanto la nostra scogliera, erano circondati da mucchi di detriti di cemento. Blocchi grossi come la mia casa si alzavano fra le felci e i rovi. Jennings continuava a parlare di quel luogo; Tom mi tenne per il braccio e disse ai due di San Diego di andare avanti fino alla scogliera. «Non ha capito niente» commentò in tono acido, quando Jennings fu fuori portata d’orecchio.
Spariti i due, vagai fra le rovine. Una bomba era esplosa nelle vicinanze, pareva; il lato nord di ogni muro ancora in piedi era annerito, tenero e friabile come arenaria. Fra i detriti e le erbacce vidi schegge di vetro, pezzi contorti di metallo, alcuni arrugginiti, altri ancora lucidi, strisce di plastica, la cassa toracica di uno scheletro, tubi di vetro fuso, scatole metalliche, lastre di ardesia… a Rafael sarebbe piaciuto. Ma dopo un certo tempo, provai un senso di oppressione, lo stesso che avevo provato a San Clemente. Queste rovine non erano diverse da quelle: i resti di un tempo ormai trascorso, i segni di un passato gigantesco ridotto ormai a pezzi di pietra sgretolata coperta d’erbacce; un passato così enorme che tutti i nostri sforzi non avrebbero potuto riportare alla vita nemmeno in parte. Rovine come quelle dicevano quanto poco contasse la nostra esistenza: e le odiai. Vidi Tom fra l’eruzione di spuntoni di cemento sul lato nord: vagava senza meta da rovina a rovina, incespicando nei blocchi di pietra e poi fissandoli come se gli fossero saltati all’improvviso tra i piedi. Si tirava la barba come se volesse strapparsela. Inconsapevole della mia presenza, parlava da solo: frasi brevi e violente che terminavano con un forte strattone alla barba. Aveva tutte le rughe del viso piegate verso il basso. Non l’avevo mai visto con un’aria così desolata.
«Che posto era, Tom?»
Pensai che non avrebbe risposto. Guardò dall’altra parte, si tirò la barba. Poi emise un sospiro. «Una scuola. La mia scuola.»
Una volta, un paio d’estati prima, ci eravamo radunati tutti sotto il pino di Torrey nel cortile di Tom: Steve e Kathryn, Gabby e Mando, e Kristen, Del e il piccolo Teddy Nicolin; parlavamo tutti insieme sotto cieli felici, litigavamo per stabilire a chi dopo toccava di leggere Le avventure di Tom Sawyer e tramavamo di solleticare Kristen fino a farla piangere… e il vecchio sedeva con la schiena contro il tronco, e rideva e rideva. «Va bene, fate silenzio, ragazzi, il professore è in riunione.»
Lasciai in pace Tom e mi diressi a ovest, fra i resti appena visibili di una strada, in mezzo agli alberi dove piccoli cumuli di travi marce segnavano la posizione di antichi edifici. Edifici che sembravano davvero costruiti dagli uomini, un tempo, e abitati. Mi sedetti sul limitare di un canyon che scendeva ripidamente al mare. Sapevo già che le scogliere sarebbero state enormi, perché mi trovavo ancora molto al di sopra dell’acqua e il canyon era corto. Il sole si abbassò. Mi asciugai una lacrima e desiderai di essere a casa, o almeno lontano da quel posto.
Tom girava fra gli alberi, a una certa distanza da me, cercandomi. Mi alzai e lo chiamai; lo raggiunsi.
«Andiamo sul margine della scogliera a trovare quei due» disse. Sembrava ancora di malumore; lo seguii senza aprire bocca.
«Qui, da questa parte.» Mi guidò verso l’orlo meridionale del canyon.
Gli alberi lasciarono posto agli arbusti, e questi a erbacce alte fino a mezza gamba. Arrivammo all’orlo della scogliera. Molto più in basso c’era l’oceano, piatto e inargentato. L’orizzonte era davvero lontano, visto da lì: di sicuro, almeno centocinquanta chilometri. Quanta acqua! Un vento sostenuto mi colpì in faccia, mentre guardavo giù dalla scogliera rossiccia e butterata che scendeva e scendeva e scendeva in una serie di gole quasi verticali, fino a una vasta spiaggia disseminata di alghe. Jennings e Lee erano un centinaio di metri più in basso, minuscole sagome sull’orlo del dirupo; gettavano sassi sulla spiaggia, ma colpivano invece la parete a picco. Guardando i sassi cadere capii all’improvviso quel che vedono i gabbiani e mi sentii come se veleggiassi nel cielo, alto sopra il mondo.
A sinistra, monte Soledad e La Jolla sporgevano nel mare e bloccavano il panorama più a sud. A nord la scogliera curvava e si allontanava, finché in lontananza piccole scogliere simili a zolle di terriccio spaccate in due si alternavano alle chiazze azzurrastre e vuote degli acquitrini. Le piccole scogliere e le paludi descrivevano una curva su fino ai verdeggianti monti Pendleton; ancora più avanti, dove le montagne si univano a cielo e mare, c’era la nostra valle, la nostra casa. Non riuscivo a credere di arrivare fin lì con la vista. Sotto di me, le onde si spezzavano in lunghe curve e lasciavano sull’acqua una traccia bianca, con un semplice sussurro, un debole kkkkkkkkkkk, kkkkkkkkkkk. Tom si era seduto sull’orlo, dondolava i piedi nel vuoto.
«La spiaggia è larga almeno il doppio» disse, con voce soffocata. Parlava da solo. «Non avrebbero dovuto permettere che il mondo cambiasse così tanto nell’arco di una sola vita. È troppo duro da sopportare.» Mi mossi per allontanarmi e lasciarlo parlare senza nessuno a portata d’orecchio. Ma lui alzò gli occhi: parlava a me. «Ho trascorso ore intere quaggiù, quando non m’importava niente se il tempo si fosse anche fermato.» Si tirò la barba. «Le scogliere sono tutte diverse, adesso.»
Non sapevo cosa rispondere. Illuminate dal sole al tramonto, le scogliere riflettevano una luce arancione che riempiva l’aria. La nostra ombra si allungava lontano nel campo alle nostre spalle. Il vento era freddo. Il mondo sembrava un luogo smisurato, un luogo enorme, ventoso, crepuscolare. A disagio, camminai avanti e indietro sull’orlo della scogliera, guardando, guardando. Il vecchio rimase lì seduto, piccola gibbosità sulla scogliera. Il sole sprofondò nell’acqua, annegò un pezzetto alla volta, si ridusse, finché non rimase solo un ammiccare luminoso color smeraldo. Il vento si rinforzò. Jennings e Lee vennero verso di noi, lungo la scogliera, figure minuscole che agitavano il braccio.
«Meglio tornare» disse Jennings quando fu più vicino. «Elma avrà già messo in tavola la cena.»
«Lascia al vecchio ancora un minuto» intervenni.
«Si arrabbierà, se la faremo aspettare troppo» disse Jennings a voce più bassa, guardando in basso gli arazzi disegnati dalle onde che si frangevano contro gli scogli.
Alla fine Tom si mosse e venne verso di noi come se si fosse appena svegliato. La stella della sera brillava come una lanterna nell’oceano del cielo.
«Grazie d’averci condotti qui» disse Tom.
«Niente» rispose Jennings. «Ma adesso è meglio tornare. Sarà una camminata dura, fra le rovine nel buio.»
«Possiamo evitarle piegando a sud» suggerì Lee «e prendendo quella strada che…» si bloccò, con un ansito profondo.
«Cosa succede?» esclamò Jennings.
Lee indicò il nord, verso i monti Pendleton.
Guardammo tutti da quella parte, scorgemmo solo la curva scura della costa, le prime, fioche stelle più in alto…
Una scia bianca segnò il cielo, si tuffò fra le montagne molto più a nord, scomparve.
«Oh, no!» mormorò Jennings.
Un’altra scia nel cielo: precipitò proprio come una stella cadente, ma non rallentò, né si frammentò in mille pezzi; cadde in linea retta, come un fulmine che seguisse un righello; non passarono più di tre battiti di ciglio, dal momento in cui comparve, altissima, a quello in cui sparì silenziosamente nella linea costiera.
«Nei Pendleton» disse Lee. «Fanno saltare la nostra ferrovia.» Cominciò a imprecare, a voce bassa, con furia a stento repressa.
Jennings prese a calci un alberello, fino a romperne il tronco. «Merda!» gridò. «Merda! Dio maledica quei bastardi, Dio li maledica! Perché non ci lasciano in pace…»
Tre nuove scie caddero dal cielo, una dopo l’altra; colpirono terra ancora più a nord, e più a nord, definendo la curva della costa. Chiusi gli occhi: lineette luminose, rosse, sciamarono nel buio. Li riaprii, in tempo per vedere fra le stelle un’altra scia sbocciare sul mondo e cadere all’istante sulla terra.
«Da dove provengono?» chiesi; e fui sorpreso nell’udire che la voce mi tremava. Temevo, credo, che fossero bombe come quelle del Giorno.
«Da un aereo» disse Jennings, torvo. «O da un satellite. O da Catalina. O dall’altra parte del mondo. Come cazzo facciamo a saperlo?»
«Bombardano i Pendleton dappertutto» disse Lee, in tono amaro. Jennings cominciò a sradicare a calci i cespugli e a gettarli giù dalla scogliera, senza smettere un attimo d’imprecare.
«Hanno smesso» disse Tom. Nel buio non riuscivo a vedere la sua espressione; dopo le grida di Jennings e di Lee, la sua voce era calma. Scrutammo il cielo, per vedere se comparissero altre scie. Niente.
«Andiamo» disse infine Lee, con voce rauca. Lentamente, in fila indiana, attraversammo il campo d’erbacce sul margine della scogliera. Entrammo nella foresta. A metà strada dal treno, Jennings, che camminava davanti a me, disse: «Al Sindaco non piacerà proprio per niente.»
Jennings aveva ragione. Al Sindaco non piacque affatto. Lui stesso andò a nord a ispezionare i danni; quando tornò alla casa di Jennings, a capo del suo gruppo d’assistenti, ci disse fino a che punto non gli fosse piaciuto. «Le rotaie colpite dalle bombe sono fuse» gridò, tendendo le cuciture della stretta giacca blu per battere il pugno sul tavolo da pranzo. Girò zoppicando per la stanza, si fermò a gridare sul muso degli impassibili Lee e Jennings, agitò in alto il pugno imprecando contro i giapponesi… oh, era davvero fuori della grazia di Dio. Me ne restai dietro Tom, badando bene a non aprire bocca. «Pozzanghere di ferro! E il terreno tutt’intorno è ridotto a mattonelle annerite. Alberi bruciati completamente.» Si avvicinò a Lee, gli agitò il dito sotto il naso. «I tuoi uomini devono avere lasciato qualche segno che lavoravano su quelle rotaie, tracce visibili nelle fotografie dei satelliti. Ti ritengo responsabile dell’accaduto.»
Lee rimase in piedi, a labbra serrate, lo sguardo fisso con rabbia al di là del Sindaco. Alcuni assistenti di Danforth (a cominciare da Ben) sembravano compiaciuti per la strigliata a Lee e si scambiavano occhiate ironiche. Jennings, audace a casa sua, avanzò di un passo a protestare.
«Quella ferrovia corre per la maggior parte nella foresta, Sindaco, e fra gli alberi non è visibile dall’alto. L’ha visto anche lei. Nei tratti scoperti non abbiamo toccato niente, nemmeno se i carrelli passavano in mezzo ai cespugli. E i ponti sono esattamente uguali a prima. Niente è stato cambiato, a parte le rotaie; ma non potevamo fare a meno, per renderle utilizzabili. Non c’era niente che si potesse scorgere dall’alto, lo garantisco.»
Jennings continuò per un pezzo a dire bugie e contraddizioni come queste; quando riuscì a convincere il Sindaco, questi divenne ancora più furibondo. «Spie» sibilò. «Qualcuno, a Onofre, ha certo parlato con gli sciacalli dell’Orange County, che hanno riferito tutto ai musi gialli.» Di nuovo mise alla prova la robustezza del tavolo di Jennings, bam! «Non possiamo permetterlo. Cose del genere devono cessare!»
«Come fa a sapere che le spie non sono qui a San Diego?» disse Tom.
Danforth, Ben e gli altri uomini del Sindaco lanciarono a Tom occhiate velenose. Perfino Jennings e Lee parvero sorpresi.
«Non ci sono spie, a San Diego» disse Danforth, il mento rimboccato nel collo. La sua voce ebbe su di me lo stesso effetto dei freni sulle rotaie. «Jennings, mettiti in contatto con Thompson; digli di prendere la barca e di portare a nord te, Lee e questi due. Sbarcateli a Onofre e tornate a piedi lungo le rotaie per controllare i danni. Voglio sapere quanto ci vuole per riaprire la ferrovia.»
«Le rotaie fuse saranno un guaio» replicò Jennings. «Bisognerà sostituirle, come abbiamo fatto nella ferrovia per il Salton Sea; sarà impossibile non lasciare tracce. Forse potremmo seguire la 395 su fino a Riverside e poi girare indietro verso la costa…»
Bam! «Voglio in funzione la ferrovia costiera! Prendi Thompson e fa’ come ho detto.»
«Sissignore.»
Poco dopo, il Sindaco e i suoi assistenti lasciarono la casa, senza un saluto a Tom e a me. Jennings sospirò; con aria di scusa guardò la moglie, che era ferma sulla soglia della cucina con un’espressione scoraggiata. «Lee» disse «vorrei che tu gli rispondessi, qualche volta. Se te ne stai zitto, s’infuria ancora di più.» Ma Lee era ancora arrabbiato e non disse a Jennings più di quanto avesse detto a Danforth. Tom mi rivolse un cenno; lo seguii fuori. «Sembra che si torni a viaggiare via mare» disse, con una scrollata di spalle.
Il giorno dopo, una densa muraglia di nubi avanzò verso riva. Jennings e Lee si erano già messi d’accordo con Thompson; riempimmo in fretta le sacche da viaggio e salutammo la signora Jennings. Manovrammo il carrello su per le ripide alture fino alla costa e poi a nord del fiume Del Mar. Dal promontorio a picco che costeggiava la parte sud dell’acquitrino si scorgevano le centinaia di rivoli in cui il fiume si divideva attraverso l’erba e le tife, segni color ferro nel verde uniforme. Il corso d’acqua principale curvava su se stesso formando una grande S e sfiorava uno stretto altopiano sotto il promontorio a picco su cui ci trovavamo. Lì, contro la riva, seguendone la curva, c’era un lungo pontile di legno al quale erano ormeggiate diverse barche a vela e un certo numero di barche a remi. Cominciammo a correre più rapidamente sulle rotaie, che ci portarono sulla spiaggia del mare prima di compiere un semicerchio e tornare al pontile. Anche così la pendenza era notevole; scendemmo a rompicollo e curvammo lungo la spiaggia con uno stridio maligno, come se strangolassimo mille gabbiani in una volta sola. Poi seguimmo un pendio meno accentuato, fino al pontile, dove Lee fermò il carrello con gran stridore di freni.
Per un attimo il sole al tramonto sbucò dalla nera muraglia di nubi e mandò una linea sottile di luce su per l’acquitrino, schiarendo l’oscurità del crepuscolo. Nella soffusa luce verde vidi un paio d’uomini che lavoravano attorno a un grosso sloop ormeggiato all’estremità del pontile, a valle del fiume, e attaccavano un fiocco alla drizza del bompresso. Lo sloop era di notevoli dimensioni, quasi nove metri di lunghezza, largo e basso di chiglia, con un telone davanti all’albero e sedili di legno a poppa. Mentre percorrevamo il pontile, una zaffata di pesce nell’aria salmastra mi ricordò intensamente casa mia. Le nubi si richiusero e ci riportarono nell’oscurità.
«Minaccia tempesta» osservai; infatti il vento aumentava e le nubi erano gonfie di pioggia.
«Proprio come vogliamo» disse Jennings.
«Se la tempesta sarà forte, ci troveremo nei guai.»
«Può darsi. Ma abbiamo ancoraggi sicuri lungo la costa e Thompson ha già fatto un mucchio di volte questo percorso. A dire il vero, dovrebbe essere più facile del solito, visto che non dobbiamo intercettare uno sbarco di musi gialli. Sarete a casa nello stesso tempo che ci andrebbe per ferrovia. Be’, non proprio; ma se becchiamo un forte vento da sud all’andata, e poi da nord al…»
Dallo sloop, un uomo gridò: «Sbrighiamoci. La marea cambia!»
L’uomo era Thompson. Jennings ci presentò a lui e ai suoi due marinai, Handy e Gilmour. Salimmo a bordo. Tom e io ci sistemammo sul primo banco a poppa della scassa d’albero e ci appoggiammo contro i supporti incrociati, montanti che andavano fino alle due falchette e sorreggevano anche il ponte di tela. Riponemmo le sacche sotto il telone, mentre Jennings e Lee sedevano sul banco accanto. I due marinai presero dal fondo della barca due corti remi e li fissarono agli scalmi. Gli uomini sul pontile ci sciolsero dall’ormeggio e ci spinsero in mezzo al fiume. I marmai remavano pigramente, badando solo a tenere la prua verso il mare e sfruttando la spinta della corrente. Un canotto, legato a poppa dello sloop, ci seguiva dondolando. Attraversammo a grandi anse l’acquitrino; sulle rive l’erba arrivava a metà dell’albero; decine di anatre zampettarono via fra i giunchi al nostro passaggio. Dopo una montagnola di detriti di cemento, compimmo un’ultima curva verso sinistra, dove il fiume superava un basso frangiflutti sulla spiaggia, accanto al promontorio a picco a nord dell’acquitrino. Passati sopra questo sbarramento, i marinai remarono come matti per portarci oltre la zona torbida e tumultuosa, dove c’erano anche grosse ondate. Una volta al largo, tirarono a bordo i remi e alzarono le due vele. Jennings si spostò sul lato sopravvento, in modo da non trovarsi proprio sotto la boma. Thompson, seduto alla barra del timone, orientò le vele; la barca sbandò e risalì la costa, parallela alle ondate, per cui il rollio era forte. Il vento soffiava da sudovest, permettendoci di proseguire a buona velocità.
Ci fermammo circa un chilometro e mezzo al largo. Prima che scendesse l’oscurità, fu possibile avere una bella vista delle scogliere e delle montagne coperte di foreste, più all’interno. Ma presto, tramontato il sole, il crepuscolo si mutò nel buio della notte e la massa scura della terra fu a stento visibile sotto l’orlo delle nubi. Superando lo sciaguattio delle onde e il fruscio della boma contro l’albero, Jennings raccontò a Thompson, Handy e Gilmour che avevamo visto il bombardamento della ferrovia. Tom e io restammo seduti contro l’albero, rannicchiati in ogni pezzo di stoffa disponibile. Le ondate sotto di noi fumavano un poco e le nubi si facevano sempre più basse; alla fine procedevamo in uno strato sottile di aria chiara e ventosa, presi in mezzo fra acqua e nuvole. Tom sonnecchiò di tanto in tanto, con la testa ciondoloni sul ponte di tela.
Dopo un paio d’ore, mi allungai sopra una matassa di corda fra due banchi, cercando d’imitare Tom; ma non riuscivo ad appisolarmi. Disteso sulla schiena, osservai la vela grigia, quasi dello stesso colore delle nuvole, gonfiarsi e sgonfiarsi in modo imprevedibile. Ascoltavo le voci di Jennings e degli altri a poppa, senza capire nemmeno la metà delle parole. Chiusi gli occhi e ripensai alle cose che avevo visto nel viaggio a sud: il Sindaco che batteva pugni sul tavolo di Jennings fino a far sobbalzare la saliera; la parte anteriore, coperta di manopole e di quadranti, dell’apparecchio radio guasto; il viso della graziosa ragazza con cui avevo ballato. Adesso eravamo in un mondo nuovo, mi dissi; un mondo in cui gli americani potevano liberamente seguire il proprio destino, o combattere per raggiungerlo, se erano contrastati… un inondo del tutto diverso da quello della nostra piccola valle, dove le notizie provenivano solo dai raduni di scambio. Steve sarebbe andato in estasi a sentire il racconto, a leggere il libro datoci da Wentworth… a sapere che un americano aveva fatto un viaggio intorno al mondo… a unirsi, con il resto della valle, alla resistenza, per combattere i nemici nascosti a Catalina… Oh, avevo un mucchio di novità da riferire alla nostra banda, d’accordo; e storie da far restare tutti con tanto d’occhi. Come avrei potuto descrivere la casa del Sindaco, così diversa da qualsiasi cosa di Onofre? Il riflesso di tutte quelle lampadine elettriche sul lago nero con le sue torri in rovina…
Di sicuro riuscii a prendere sonno per un poco: infatti, quando riaprii gli occhi, procedevamo nella nebbia. Non fittissima, ma quel tipo che si dirada e s’infittisce a chiazze. A volte c’era aria limpida per due metri d’altezza sull’acqua; e subito dopo, un bianco soffitto di nuvole. Altre volte le nubi toccavano il mare, si mischiavano alla superficie fumante dell’acqua. Sporsi la mano dalla murata: l’acqua era notevolmente più calda dell’aria. Infilai i piedi infreddoliti sotto la matassa di corda. Tom sedeva ancora al mio fianco; sveglio, ora, guardava a dritta.
«Come fanno a sapere dove siamo?» chiesi, succhiandomi la salsedine dalle dita gelate.
«Jennings dice che Thompson si mantiene abbastanza vicino a riva da udire il frangersi delle onde.»
Tesi l’orecchio verso terra e udii un debole rombo. «Mare grosso.»
«Già. Lui dice che il rumore cambia, quando passiamo davanti alla foce di un fiume; e che Thompson sa di quale fiume si tratta.»
«Deve avere percorso questo tratto di mare un mucchio di volte, per saperlo.»
«Infatti.»
«Speriamo che non si perda e che non ci porti nel delta del Pulgas.»
«L’abbiamo già oltrepassato, dice. Secondo me, siamo una ventina di chilometri a sud di Onofre.»
Quindi avevo dormito parecchio; una fortuna, cosi per qualche ora non avevo sentito il freddo. Gli uomini a poppa parlavano ancora sottovoce, ben svegli, appoggiati alla murata, la giacca abbottonata fino al collo avvolto in sciarpa di lana. Entrammo in una chiazza biancastra e Thompson, attento alla sbarra del timone, raddrizzò la barca verso il largo, in modo da schiaffeggiare i marosi mentre aumentava lo scarroccio. Non riuscivo a riprendere sonno; per un bel pezzo ogni cosa rimase inalterata: la nebbia, il sibilo dei marosi che scivolavano sotto la barca, lo scricchiolio della boma, il freddo. Il vento soffiava a raffiche; Thompson e Lee discussero se non fosse opportuno risalire una foce e trascorrervi la giornata.
«Impresa difficile» disse Thompson, in tono distaccato. «Troppo, con questa nebbia e con il vento che muore. I marosi aumentano, capisci cosa voglio dire? Fra poco avremo delle onde belle grosse, direi.»
L’albero mandò uno scricchiolio, quasi a dichiararsi d’accordo; il modo in cui le onde fumanti si alzavano e ricadevano, si alzavano e ricadevano, senza che le vedessimo con chiarezza, le faceva sembrare particolarmente grosse. Una dopo l’altra, sollevavano la barca e scivolavano via, con un ritmo che era quasi riuscito a farmi addormentare, quando Tom si alzò a sedere di scatto.
«Cos’è questo rumore?» esclamò bruscamente.
Non udivo niente d’insolito, ma Thompson spalancò la bocca per udire meglio e annuì. «Motovedetta giapponese. Si avvicina.»
Trascorsero lunghi istanti in cui anche noi udimmo il basso e soffocato brontolio di un motore. Thompson spostò la barra del timone…
Un’onda bianca e arricciata si riversò sulla prua e ci bloccò. La vela di maestra sbatté, poi brandeggiò. Acqua spumosa mi gocciolò in grembo dal ponte di tela; Tom afferrò la sacca per impedire che s’inzuppasse. Un cono di luce bianca comparve nella nebbia. La barca traballò alla base del cono accecante; l’orlo della nebbia illuminata rivelò la mole di un’alta nave, una sagoma nera che rombava accanto a noi, quasi immobile sulle onde. Il cuore mi batteva all’impazzata, mentre in un attimo mi rendevo conto della situazione e mi alzavo; mi afferrai a Tom, lo guardai spaventato. Eravamo in trappola!
«Radar» mormorò Tom.
«Abbassate la vela» gridò una voce. «Tutti in piedi, mani sulla testa.» La voce era amplificata meccanicamente (come venni a sapere in seguito) e aveva un suono metallico che mi diede un brivido. «Siete in arresto.»
Guardai a poppa. Lee, tutto chiaro e scuro nel bagliore accecante del faro, puntava il fucile contro la punta del cono. Crack! Con un tintinnio di vetri rotti, il faro si spense. Subito la poppa della nostra barca sputò fuoco, perché tutti sparavano contro la nave giapponese. Tom mi tirò giù, gli spari erano un rimbombo continuo, sorpassato da un gigantesco BUM e all’improvviso la parte frontale dello sloop non c’era più. Tavole rotte e acqua gelida si riversarono su di noi. «Aiuto!» gridai, liberandomi i piedi dall’intrico di corda. Scavalcavo la falchetta inclinata, quando l’albero mi crollò addosso.
Da quel momento in poi non ricordo molto. Fari accesi dentro le palpebre. Soffocanti boccate di salmastro. Confusione di grida, mani rudi che mi tiravano e mi facevano male alle ascelle. Scalini ripidi e urti dolorosi alle ginocchia. Ansiti soffocati, vomito. Un ponte di metallo, una ruvida coperta asciutta.
Ero sulla nave giapponese.
Quando me ne resi conto… fu il mio primo pensiero coerente, mentre riprendevo conoscenza e vedevo sotto il naso il ponte di metallo grigio imbullonato… mi dibattei per liberarmi. Niente da fare. Le mani mi bloccavano, delle voci mi rivolgevano parole senza senso: mishi kawa tonatu ka e cose simili, ripetute. «Aiuto!» gridai. Ma il cervello mi si schiariva, capivo di non potermi aspettare aiuto, lì. La subitaneità dell’accaduto m’impediva d’averne la sensazione esatta. Battevo i denti, soffocavo come se avessi preso un colpo allo stomaco; ma la portata reale del disastro cominciava appena a manifestarsi, mentre i marinai giapponesi mi toglievano gli abiti bagnati e mi avvolgevano in coperte. Uno mi tirava la manica della camicia dal braccio; liberai la mano dalla stoffa e con il pugno lo colpii sul naso. Lui mandò un gemito di sorpresa. Con una bella sventola ne colpii un altro alla tempia e iniziai a scalciare come un pazzo. Alcuni calci giunsero a bersaglio. Si precipitarono tutti su di me e mi portarono di peso in una cabina dalle pareti di vetro, in fondo al ponte di prua. Mi posarono sopra una panca che seguiva la curvatura dello scafo. Mi tirai a sedere contro la fiancata e piansi.
Su a prua i marinai frugavano ancora il mare, muovevano qua e là un nuovo riflettore e gridavano nell’altoparlante. Due erano dietro un grosso cannone su una torretta, senza dubbio l’arma che aveva demolito il nostro sloop. La nave vibrava per il ronzio dei motori, ma galleggiava sulle onde, senza andare da nessuna parte. Alla nostra altezza sull’acqua, la nebbia era impenetrabile. I giapponesi avevano messo in mare piccoli canotti a motore, per continuare le ricerche; i motori scoppiettavano nel buio, ma dalle voci capivo che i marinai non trovavano niente.
Avevano ucciso il mio vecchio amico Tom. Il pensiero mi spinse a piangere; una volta iniziato, continuai a singhiozzare e singhiozzare. Per tutti quegli anni Tom era sopravvissuto a ogni calamità, a ogni pericolo immaginabile, solo per finire annegato a causa di una miserabile motovedetta. Nel giro di pochi secondi.
Dopo un tempo che a me parve lunghissimo, i marinai abbandonarono le ricerche. Mi ero ripreso abbastanza e mi ero riscaldato, perché le coperte erano spesse. Sentivo freddo dentro, però, freddo nel cuore. Quella gente avrebbero pagato la morte di Tom. Il vecchio non era sembrato molto convinto della resistenza americana, ma adesso sentivo di farne parte… da quel momento e per tutta la vita. Avevo fatto un voto, nel gelo del mio cuore.
Nella parete posteriore della stanza a vetri si aprì una porta: entrò il capitano della nave. Forse lo era, forse no; ma aveva spalline dorate sulla giacca marrone, e bottoni d’oro sul davanti. Per cui lo chiamerò capitano, dal momento che era di sicuro una persona importante. Viso e mani erano di colore un po’ più scuro della giacca; la faccia sembrava quella dei cadaveri che il mare gettava sulla nostra spiaggia. Giapponese, avevo imparato a chiamarlo. Altri due ufficiali, in abito scuro ma senza spalline né bottoni dorati, stavano dietro di lui e mantenevano il viso impassibile come una maschera.
Assassini, tutti quanti. Guardai fieramente il capitano e lui mi restituì lo sguardo, con occhi privi d’espressione, sotto le palpebre pendenti. La stanza ondeggiava un poco e la nebbia premeva contro i vetri incrostati di salsedine: nebbia che pareva rossa, per il riflesso della spia luminosa sopra la porta.
«Come ti senti?» disse il capitano, in un inglese chiaro, ma cadenzato in modo per me completamente nuovo.
Lo fissai.
«Ti sei ripreso dal colpo in testa?»
Lo fissai ancora.
Dopo un poco, lui annuì. Da allora ho rivisto la sua faccia parecchie volte, in sogno: occhi marrone scuro, quasi neri; rughe profonde, dall’angolo degli occhi, a ventaglio verso le tempie; capelli neri, tagliati tanto corti da sembrare una spazzola; labbra sottili e scure, piegate in quel momento in una smorfia di disapprovazione. Aveva un’aria crudele, nell’insieme; mi sforzai di mostrarmi indifferente, fissandolo, proprio perché mi faceva paura.
«Sembri esserti ripreso.» Un ufficiale gli passò una tavoletta alla quale erano pinzati alcuni fogli di carta. Il capitano prese dal fermaglio una matita. «Dimmi, giovanotto, come ti chiami?»
«Henry. Henry Aaron Fletcher.»
«Da dove vieni?»
«America» risposi, con un’occhiata d’odio a tutti, uno dopo l’altro. «Stati Uniti d’America.»
Il capitano diede un’occhiata ai suoi ufficiali. «Ottima scena» disse, rivolto a me.
Una squadra di marinai comuni, in giacca azzurra, entrò da prua e borbottò un rapporto. Il capitano rimandò i marinai a prua e si rivolse di nuovo a me.
«Vieni da San Diego? San Clemente? Newport Beach?» Non risposi e lui continuò: «San Pedro? Santa Barbara?»
«Troppo a nord» dissi, sprezzante. Non avrei dovuto aprire bocca, mi rimproverai. Ma avevo talmente voglia di assalirlo che tremavo tutto, di paura anche, e non riuscivo a stare zitto.
«Infatti. Ma questo tratto di costa è disabitato, per cui devi venire per forza o da nord o da sud.»
«Come fa a sapere che la costa è disabitata?»
Lui sorrise, proprio come noi, anche se il risultato era sgradevole. «L’abbiamo tenuta d’occhio.»
«Spie» dissi. «Spie furtive. Si vergogni! Lei è un marinaio, signore. Non ha vergogna ad assalire naviganti disarmati in una notte di nebbia e a ucciderli tutti… marinai che non le facevano alcun male?» Dovevo fare attenzione, o mi sarei messo a piangere di nuovo. Ci mancava pochissimo, ma resistevo aggrappandomi alla rabbia.
Il capitano sporse le labbra, come se avesse addentato un boccone acido. «Non si può dire che foste disarmati. Avete sparato parecchi colpi e ferito un nostro marinaio.»
«Bene.»
«Nient’affatto.» Scosse la testa. «Inoltre… sospetto che i tuoi compagni abbiano raggiunto a nuoto la riva. Altrimenti li avremmo trovati.»
Pensai al canotto che avevamo a rimorchio e rivolsi al cielo una preghiera.
«Devo avere una risposta, prego. Vieni da San Diego?»
Scossi la testa. «Newport Beach.»
«Ah.» Lo scrisse sul blocco. «Ma ritornavi da San Diego?»
Finché mentivo, non importava se parlavo. «Andavamo a San Clemente e ci siamo persi nella nebbia.»
«Non avete trovato San Clemente? Oh, andiamo, la città è parecchi chilometri più a sud di qui.»
«Gliel’ho detto, l’abbiamo oltrepassata senza vederla.»
«Ma puntavate a nord per qualche tempo.»
«Sapevamo d’essere andati troppo avanti e tornavamo indietro. Difficile stabilire dove ci si trova, nella nebbia.»
«In questo caso, perché eravate in mare?»
«Lei cosa pensa?»
«Ah… per evitare le nostre pattuglie, vuoi dire. Ma noi non interferiamo con il traffico costiero. Per quale motivo andavate a San Clemente?»
Riflettei in fretta, a occhi bassi, per non farlo capire al capitano. «Be’… portavamo laggiù alcuni giapponesi, per una visita all’antica missione.»
«I giapponesi non sbarcano sul continente» replicò il capitano, brusco.
L’avevo fatto trasalire! «Certo che sbarcano» dissi. «Lei nega, perché ha il compito d’impedire che sbarchino. Ma lo fanno lo stesso, e lei lo sa.»
Mi fissò, poi conferì in giapponese con gli ufficiali. Era la prima volta che udivo una lingua straniera. Una lingua bizzarra. Sembrava che ripetessero di continuo quattro o cinque suoni, troppo in fretta per formare vere parole. Ma ovviamente erano discorsi: infatti gli ufficiali fecero dei gesti e assentirono, il capitano diede degli ordini, sempre in quel rapido berciare. Più del colore della pelle e del taglio degli occhi, fu il linguaggio privo di significato a dirmi che avevo a che fare con uomini venuti dall’altra parte della terra… uomini molto diversi da me rispetto a quelli di San Diego. L’idea mi atterrì. Quando il capitano si girò dalla mia parte e mi parlò in inglese, mi parve irreale, come se si limitasse a emettere suoni che non capiva.
Prendendo appunti sul blocco, disse: «Quanti anni hai?»
«Non lo so. Pa’ non ricorda.»
«Tua madre non ricorda?»
«Mio padre.» Capii che la cosa gli pareva bizzarra.
«Nessun altro lo sa?»
«Tom ritiene che abbia sedici anni, o diciassette.» Tom…
«Quante persone c’erano, sulla barca?»
«Dieci.»
«Quante persone vivono nella tua comunità?»
«Sessanta.»
«Sessanta individui a Newport Beach?» si meravigliò lui.
«Centosessanta, voglio dire.» Cominciavo a restare invischiato nelle mie stesse bugie.
«Quante persone vivono nella tua casa, o abitazione?»
«Dieci.»
Storse il naso e abbassò il blocco. «Sai descrivere i giapponesi che hai incontrato a Newport Beach?»
«Assomigliavano tutti a lei» risposi, in tono bellicoso.
Increspò le labbra. «Ed erano con voi stanotte, sulla barca colata a fondo?»
«Esatto. Sono arrivati con una nave grande come questa, perciò perché non li ha fermati lei? Non è compito suo?»
Mosse la mano, spazientito. «Non è possibile bloccare tutti gli sbarchi.»
«Soprattutto quando si è pagati per non provarci nemmeno, eh?»
Increspò ancora le labbra, mostrando di nuovo un’espressione di disgusto.
Sempre più scosso, gridai: «Dite di essere qui per sorvegliare la costa, ma non fate altro che bombardare le nostre ferrovie e ucciderci se solo andiamo in mare… se solo torniamo a casa…» E all’improvviso piangevo di nuovo, singhiozzavo e gemevo. Non potevo evitarlo. Avevo freddo, Tom era morto, sentivo un dolore profondo nell’animo, non potevo più sopportare quello straniero e le sue domande.
«La testa ti duole ancora?» Mi tenevo la testa fra le braccia. «Su, sdraiati qui sulla panca e riposa. Dobbiamo portarti all’ospedale.» Mi prese per la spalla e mi aiutò a distendermi contro il metallo ricurvo dell’alta murata della nave. Gli ufficiali mi sollevarono le gambe e le avvolsero nelle coperte. Ero troppo depresso per prenderli a calci. Le mani del capitano erano piccole e forti; mi ricordarono, bizzarramente, quelle di Carmen Eggloff e di nuovo fui sul punto di scoppiare in singhiozzi, quando notai l’anello all’anulare sinistro del capitano. Era un grosso cerchietto d’oro scuro, con sopra una pietra rossa. Intorno alla pietra erano incise alcune lettere, difficili da leggere, da dove mi trovavo. Ma la mano con l’anello rimase ferma per un attimo proprio sotto il mio naso; riuscii a decifrare la scritta: Scuola superiore di Anaheim — 1976.
Mi scostai di scatto e urtai la testa contro la paratia.
«Stai tranquillo, giovanotto. Non agitarti. Parleremo ancora di queste cose, ad Avalon.»
Portava un anello americano. L’anello di una scuola, come quelli che molti sciacalli mettevano al dito nelle serate ai raduni di scambio, per far vedere da quali rovine provenivano. Rabbrividii nelle coperte ruvide, pensando al significato della scoperta. Se il capitano della nave incaricata di tenere lontani i forestieri dalla nostra costa visitava anche lui regolarmente l’Orange County e portava un anello ottenuto senza dubbio da uno sciacallo, allora nessuno sorvegliava la costa sul serio. Era un colossale inganno, la quarantena… un inganno che era costato la vita a Tom. Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Le ricacciai indietro, furioso per l’ingiustizia, la corruzione… furioso e confuso. Accadeva tutto troppo in fretta. Mi sembrava che fosse trascorso solo un attimo da quando sonnecchiavo a occhi chiusi nello sloop di San Diego. E ora… cos’aveva detto ancora? «Parleremo ancora di queste cose, ad Avalon.»
Mi alzai a sedere. Mi portavano a Catalina per interrogarmi. Torturarmi, forse. Sbattermi in prigione, o in schiavitù… tenermi lontano da Onofre per il resto della vita. Più ci pensavo, più ne ero atterrito. Fino a quel momento non avevo pensato a che cosa mi avrebbero fatto… ero intontito, certo… ma adesso era ovvio: non mi avrebbero riportato al fiume Onofre e scaricato lì. Nossignore. Mi avrebbero portato con loro. L’idea mi fece battere il cuore all’impazzata, tanto da farmi credere che mi sarebbe scoppiato, tanto le costole mi dolevano. Il sangue mi scorreva nelle vene come acqua nel letto di un torrente dopo l’alluvione; mi sentivo gonfiare le mani. Anche i piedi mi si scaldarono; avevo il respiro così rapido e irregolare che temetti di svenire. Catalina! Ero terrorizzato dì andare a Catalina… non avrei più rivisto casa mia! Anche se era un pensiero egoista (e il resto della storia vi dirà quanto sia stato egoista, a volte), mi faceva stare più male della morte di Tom.
Il capitano e i due ufficiali erano fermi sotto la luce rossa della porta nella parete posteriore. Incrostazioni saline macchiavano il loro riflesso sulle vetrate. L’immagine del viso del capitano era rivolta dalla mia parte: guardava il mio riflesso. Mi teneva d’occhio.
Fuori, sul ponte di prua, un paio di marinai sostava ancora accanto al riflettore. Per ripararlo, sembrava. Altrimenti, il ponte era deserto. La nebbia scorreva su di noi, gelida e bianca. Il mare era invisibile, ma dal rumore calcolai che la nave emergeva di circa cinque metri: vibrava leggermente, ma non si era ancora mossa.
Per asciugarmi mi avevano spogliato. Meglio così.
Il capitano tornò accanto a me. «Ti senti meglio?»
«Sì. Però mi viene sonno.»
«Ah. Ti faccio portare in una cuccetta.»
«No! Ancora no. Mi viene la nausea, se mi muovo. Voglio solo restare qui e riposarmi ancora un minuto.» Mi lasciai ricadere, sforzandomi di sembrare esausto.
Il capitano mi osservò. «Hai detto qualcosa a proposito di ferrovie bombardate?»
«Chi, io? Mai parlato di ferrovie.»
Annuì, con aria poco convinta.
«Perché lo fate?» chiesi, nonostante tutto. «Perché fate il giro di mezzo mondo per sorvegliare la nostra costa?»
«Per incarico delle Nazioni Unite. Non credo che comprenderesti i particolari.»
Allora era vero quel che ci avevano detto a San Diego. Una parte, comunque. «So che esistono le Nazioni Unite» dissi. «Ma non c’è nessun americano che prenda le nostre parti. Tutto ciò che fanno è illegale.» Parlai in tono assonnato, per fargli abbassare la guardia. Non avrei dovuto parlare affatto, ma la curiosità aveva preso il sopravvento.
«Non abbiamo altro, giovanotto. Senza le Nazioni Unite, forse la guerra e la distruzione ci coinvolgerebbero tutti.»
«Allora fate male a noi per aiutare voi stessi.»
«Può darsi.» Mi fissò, sorpreso che avessi la forza di discutere. «Ma può darsi anche che questa sia la politica migliore per voi.»
«Non lo è. Io vivo qui. Io lo so. Ci tenete bloccati.»
Annuì brevemente. «Ma da cosa vi blocchiamo? È proprio questa la parte di cui non hai esperienza diretta, mio giovane e coraggioso amico.»
Finsi di addormentarmi. Lui tornò accanto agli ufficiali, sotto la luce rossa. Disse qualcosa e i due risero.
Su e giù la cabina ondeggiava, su e giù, su e giù, piano piano, dolcemente. Balzai da sotto le coperte e schizzai nel vano aperto sul ponte di prua. Il capitano si aspettava una mossa del genere.
«Ah!» esclamò, correndomi dietro. Ma aveva sbagliato i conti. Colsi al volo la sua aria stupita, mentre attraversavo in un lampo la porta, prima di lui… ero troppo veloce. Appena fuori, mi precipitai alla murata e mi tuffai nella nebbia, davanti ai marinai stupiti.
Dopo un lungo volo colpii violentemente l’acqua. Il mare era freddissimo. Mi convinsi subito di avere commesso un errore fatale. Tre metri sotto la superficie, senza aria nei polmoni, avevo un terribile bisogno di respirare. Venni a galla per prendere fiato, la cresta di un’onda rotolò su di me e respirai acqua. Ero sicuro che gli ansiti e i colpi di tosse avrebbero rivelato la mia posizione ai giapponesi. Udivo le loro grida: senza dubbio calavano i canotti per cercarmi. L’acqua mi gelava; tutto il corpo protestava per il bisogno d’aria.
Mi misi a nuotare lontano dalle grida e dal bagliore confuso del riflettore; fui travolto da un maroso. Maledizione, mi ero tuffato proprio dal lato rivolto al mare aperto. Ero costretto a girare intorno alla nave. Eppure ero convinto di tuffarmi dal lato verso terra: come avevo fatto a sbagliare? La fiducia nel mio senso dell’orientamento scomparve; per un minuto fui preso dal panico: ero atterrito di non riuscire a trovare la riva. Non pensavo certo di scorgerla. Ma il moto ondoso era una guida attendibile, come capii subito, quando mi spinse sempre nella stessa direzione. Proveniva un poco da sud, l’avevo notato sullo sloop; non mi restava che seguirlo a nuoto, magari deviando un poco sulla destra, e mi sarei trovato nella direzione giusta per la riva.
Questo era sistemato. Ma il freddo mi sconvolgeva. L’acqua forse era ancora quella della corrente calda di cui avevamo goduto la settimana prima, ma ora, con il vento di tempesta che frustava la superficie e mi gelava testa e braccia, non sembrava affatto tiepida. Già il freddo mi mordeva, e quasi gridai ai giapponesi di venirmi a recuperare. Ma non volevo più vedere il viso del capitano. Immaginavo la scena, lo vedevo, mentre gli spiegavo: Sì, signore, volevo fuggire davvero, ma capisce, l’acqua è troppo fredda. Non avrei gridato. Se mi avessero ripescato, pazienza: una parte di me se l’augurava… e facessero in fretta, anche. Altrimenti, avrei tirato dritto.
Per combattere il freddo nuotai a tutta forza, confidando di girare intorno alla prua della nave e mettere una certa distanza fra me e i giapponesi. Sarebbe stata una terribile sorpresa, andare a sbattere all’improvviso contro lo scafo; eppure non era impossibile, perché la nebbia non mi permetteva di vedere a tre metri dal naso. Tuttavia, mentre un’onda dopo l’altra passava sotto di me, la prospettiva divenne meno probabile. Peccato, pensò una parte di me, ora non hai alternative. Ma il resto si dedicò al compito di arrivare a riva, al più presto possibile.
Solo una volta vidi o udii ancora la nave, subito dopo aver preso la decisione finale di raggiungere la riva a nuoto. Di solito la nebbia non trasmette i suoni come l’aria normale, qualsiasi cosa la gente voglia farvi credere. Tende a soffocarli, come limita la vista, anche se in misura meno drastica. Ma è un fenomeno buffo: alcune volte, sorpresi dalla nebbia durante la pesca, Steve e io abbiamo udito la voce di altri pescatori che conversavano sottovoce e sembravano sul punto di urtarci, pur essendo a mezzo chilometro da noi. Tom non l’ha saputo spiegare, e neppure Rafael.
Quella notte il fenomeno si ripeté. A un certo punto fui spaventato da voci giapponesi, dietro di me e più in alto, tanto da farmi pensare che provenissero dalla nave. Mandai un gemito, convinto di essermi confuso e di nuotare ancora in prossimità della nave; ma poi una raffica di vento gelido afferrò le voci a metà frase e le portò via per sempre. C’ero solo io… e la nebbia e l’oceano e il freddo.
Conosco solo tre modi di nuotare. Diciamo quattro. Crawl, dorso, di fianco, a rana. Il crawl era il modo di gran lunga più rapido e riusciva meglio a non farmi gelare: tuffai il viso in acqua… cosa che in un certo modo mi spaventava, ma era troppo faticoso tenere la testa fuor d’acqua… e nuotai. Le onde mi sollevavano a partire dai piedi, mi davano una piacevole spinta, passavano oltre, mi lasciavano a galla nel cavo d’onda. A parte questo, sentivo solo il vento tagliarmi le braccia a ogni battuta. La sensazione divenne così intensa da costringermi a passare al nuoto a rana solo per tenere sott’acqua le braccia. Il mare era sempre freddo, ma mi ero un poco abituato; era meglio tenere le braccia in acque che esporle al vento, bagnate. Nuotare a tutta forza era la soluzione migliore; così, dopo un breve tratto a rana, tornai al crawl. Quando ero stanco, o quando avevo troppo freddo alle braccia, passavo al nuoto a rana o di fianco e mi lasciavo trasportare dai colpi di tallone e dal moto ondoso. Si trattava solo di trasferire la sofferenza da una parte del corpo all’altra e poi sopportarla più a lungo possibile.
Il guaio del nuoto è che ti lascia un mucchio di tempo per pensare. A dire il vero, c’è ben poco da fare, tranne riflettere, a differenza per esempio delle camminate fra i boschi, quando bisogna stare attenti alle pietre e cercare il percorso meno faticoso. Nel mare tutti i percorsi sono uguali e di notte nella nebbia non c’è molto da vedere. Vedevo solo le onde nere sollevarsi e abbassarsi sotto di me, la nebbia bianca che diventava di nuovo nuvolaglia bassa all’aumentare del vento, e il mio stesso corpo. E anche questo, solo quando tenevo la testa sopra l’acqua e gli occhi aperti, cosa che non accadeva spesso. Per la maggior parte del tempo nuotavo con la testa sulla superficie e gli occhi chiusi, sentendo la crescente stanchezza dei muscoli e il dolore alle giunture causato dal freddo. Anche se i pensieri correvano all’impazzata, non si allontanavano mai troppo da quella sensazione vitale che determinava lo stile di nuoto usato di volta in volta.
Se nuotavo con forza sul dorso, mi scaldavo un poco i piedi. E ne avevo bisogno. Li sentivo a malapena. Ma procedevo lentamente, e anche con un certo sforzo. Mi sarebbe proprio piaciuto avere un paio delle pinne che Tom ci prestava per fare surf. Mi piacevano, quelle pinne: vecchie cose azzurre o verdi o nere, che ci facevano camminare come papere e nuotare come delfini. Cosa non avrei dato per averne un paio in quel momento! Il pensiero mi faceva quasi piangere. E una volta che le avevo in mente, non riuscivo a togliermele di testa. Adesso al mio piccolo assortimento di pensieri se ne aggiungeva un altro: se solo avessi avuto quelle pinne!
Mi rigirai sullo stomaco e ricominciai a battere il crawl. La parte posteriore delle braccia cominciava a irrigidirsi e a farmi male. Non sapevo da quanto tempo nuotassi e per quanto ancora ne avrei avuto. Cercai di calcolare la distanza. Grosso modo, la nave si trovava a un chilometro e mezzo dalla riva. Circa la metà della lunghezza della nostra valle. Se avessi cominciato a nuotare da monte Basilone, a quest’ora sarei stato all’altezza di… be’, non so. Non potevo fare raffronti. Però ero sicuro d’avere nuotato per un buon tratto, dal modo in cui le braccia mi dolevano.
Bracciata, bracciata, bracciata, bracciata. A volte era più semplice svuotarsi la mente e nuotare. Contavo cento bracciate e cambiavo stile. Le centinaia scivolarono via una dopo l’altra. Un mucchio di tempo. Mentre nuotavo a rana, notai che la nebbia si alzava, diventava la stessa nuvolaglia bassa che ci correva sulla testa quando, ancora sullo sloop, andavamo a nord. Forse mi avvicinavo alla terraferma. Le nubi erano bianchissime contro il nero del mare; forse la luna si era levata. La superficie dell’acqua era un’ondulata pianura d’ossidiana, sulla quale roteavano piccoli fiocchi di neve. Quando colpivano l’acqua, scomparivano all’istante, senza alcun rumore. Vedendoli, sentii ancora più freddo e quasi ricominciai a piangere, ma non avevo forze da sprecare. Ero in uno stato pietoso. Se solo avessi avuto quelle pinne!
Abbassai la testa e ostinatamente continuai a battere il crawl, ordinando a me stesso di pensare ad altro e non solo al freddo. Per esempio, alle volte in cui avevo guardato il mare calmo e tiepido. Ricordai una volta in cui Steve, Tom e io poltrivamo nel cortile del vecchio e cercavamo di scorgere Catalina. «Chissà come sarebbe, se non ci fosse l’acqua» aveva detto Steve. Tom si era buttato a pesce sull’argomento. «Crederemmo di essere sopra una montagna gigantesca. Al largo si estenderebbe un altopiano in pendenza, tagliato da canyon così profondi che non riusciremmo a vederne il fondo. Poi l’altopiano scenderebbe a picco, tanto da non permetterci di vedere le pianure lontane. Sarebbe lo zoccolo continentale di cui vi ho parlato. Le pianure si alzerebbero di nuovo a formare i primi contrafforti delle isole Catalina e San Clemente, che sarebbero montagne altissime, come la nostra.» Aveva continuato a parlare, fingendo d’infilarsi immaginari stivali da pescatore per guidarci a esplorare la nuova terra, una distesa di fanghiglia coperta di ciuffi d’alghe e di pesci dall’aria stupita, e a cercare relitti di navi e i loro cofani pieni di tesori…
Era il momento meno adatto a ricordare quella discussione. Nel pensare a quant’acqua c’era sotto di me, a quanto era lontano il fondo, mi spaventai e tirai i piedi più vicino alla superficie. E tutti quei pesci, poi… l’oceano brulicava di pesci, come ben sapevo; e alcuni di essi avevano denti acuminati e appetito insaziabile. E non dormivano, la notte. Forse in quello stesso momento uno di quelli brutti, con fauci tutte denti, si avvicinava per addentarmi. Oppure potevo incappare in un banco intero di quei pesci e quasi sentivo il loro corpo scivoloso urtare il mio… la pelle dura e granulosa di uno squalo, o gli aculei di uno scorfano… Ma era ancora peggio pensare a tutta quell’acqua sotto, giù, giù, più fredda e più buia, giù fino al fondo limaccioso così lontano. Per qualche istante mi dibattei in preda al panico, terrorizzato al pensiero di nuotare sopra un mare così profondo.
I momenti di panico si susseguirono, passarono; e io ero ancora lì, a galla. Non potevo fare niente per cambiare la situazione. E intanto il vero pericolo, il freddo, si manifestava e mi faceva dimenticare le paure nate dall’immaginazione. Al freddo non potevo sfuggire, ormai non avevo più la forza di nuotare vigorosamente per scacciarlo; e l’acqua gelida non era più rifugio dal vento e dal nevischio. Presto il freddo mi avrebbe ucciso, lo sentivo nei muscoli; e mi atterriva molto di più delle dimensioni del mare.
Anche i pensieri parvero gelarsi, divennero pigri, stupidi. Le braccia mi dolevano, riuscivo appena a muoverle. Nuotare sul dorso era faticoso, il crawl era faticoso, la rana era faticoso. Stare a galla era faticoso. Se solo avessi avuto quelle pinne! Tanta di quell’acqua, fino al fondo. Le braccia erano rigide e pesanti come rami d’albero del ferro; i muscoli addominali avevano bisogno di riposo. Un crampo e sarei annegato. Eppure non avevo scelta, dovevo tenerli in tensione e continuare a nuotare. Misi la faccia intirizzita nell’acqua e battei un crawl doloroso, cercando di accelerare.
Potevo mantenere un certo ritmo, se non badavo al dolore. Perdetti il senso del tempo. E anche la nozione della meta. Non si trattava più di andare da qualche parte, ma di evitare la morte, lì e subito. Sinistra, destra, respiro; sinistra, destra, respiro. E così via. Ogni movimento era una lotta contro il freddo. Le rare volte in cui mi preoccupai di guardare in alto, niente era cambiato: nubi basse e bianche, fiocchi di neve che mulinavano e scomparivano in mare, con un fievole, ssss, ssss, ssss. Non sentivo più mani e piedi; il freddo avanzava lungo gli arti e li rendeva sempre meno ubbidienti ai miei comandi. A poco a poco diventavo troppo intirizzito per nuotare.
E venne il momento in cui pensai che non ce l’avrei fatta. Tutti i magnifici racconti preparati per il mio gruppo di amici sarebbero andati sprecati, li avrei solo raccontati a me stesso in un ultimo slancio di pensiero, mentre sprofondavo nell’abisso. Uno spreco, ma inevitabile. Non potevo più nuotare. Se solo avessi avuto quelle pinne! Eppure, ogni volta che dicevo a me stesso: «Hanker, ci siamo, è il momento di lasciarti andare a fondo»… trovavo ancora l’energia per un’altra bracciata. Mi sembrava di nuotare nel burro gelato. Non ce la facevo più. Decisi di nuovo di piantarla, di nuovo trovai la forza per alcuni colpi di tallone. La maggior parte delle persone che annega, immagino, non decide mai di cedere: è il corpo che smette di ubbidire, che prende la decisione.
Nuotando sul dorso, potevo muovere i talloni a rana e agitare lungo i fianchi le braccia. Era l’unico modo rimastomi, per cui lo seguii, ansioso di posporre il momento in cui mi sarei lasciato andare, per quanto sapessi che non era molto lontano. Il pensiero fu terrificante, nauseante. Diverso da qualsiasi sensazione mai provata. Essere portato a Catalina non era niente, al confronto! Ora sapevo con certezza di avere fatto un errore fatale, saltando fuori bordo. Le ondate si alzarono dal buio, divennero visibili mentre mi sollevavano. Forse mi avrebbero risparmiato la fatica, se fossi riuscito a tenermi a galla. Non volevo morire. Non volevo cedere. Ma ero troppo intirizzito, troppo debole. In quella posizione, sul dorso, dovevo badare a non inghiottire acqua, quando la cresta delle onde mi passava sopra: una sola boccata mi avrebbe fatto affondare come cinquanta chili di ferro. Solo confusamente, sulle prime, notai che le onde si facevano più alte. Proprio quel che ci vuole, pensai. Un’onda più grossa, magnifico. Però… non significava qualcosa? Ero intirizzito, non pensavo come si fa di solito, parlando in silenzio a se stessi. Avevo solo pensieri molto semplici: sensazioni, il reiterato rifiuto di lasciarmi andare, ordini agli arti indeboliti.
Dita gelide mi strofinarono la schiena e le gambe. Strillai.
Alghe, lisce e frondose. Girai faticosamente attorno al ciuffo galleggiante. Lo spavento mi aveva dato un po’ di forza. Poi, in cima a un’onda, udii il rumore: p-KKkkkkkkkk… p-KKkkkkkkkkk. Frangenti. Ce l’avevo fatta.
Di colpo mi tornò l’energia. Non mi capacitavo di non avere udito prima il rumore, tanto era chiaro. Sulla cresta dell’onda seguente guardai verso terra: certo, la riva era lì, una massa nera e solida sotto le nubi. «Sì!» gridai. «Sì!»
Urtai un altro ciuffo d’alghe, ma non ci badai. Me ne liberai, superai un’altra onda. Dalla cresta, il chiaro rumore di frangenti mi disse che i guai non erano terminati. Anche da dietro, il crack lungo e frammentato delle onde che ricadevano era più intenso del colpi di fucile del Sindaco. E subito dopo c’era un rombo basso, krrkrrhrkrrkrrkrrkrrkrr, che s’indeboliva quanto bastava a rendere percettibile il frangente successivo. Tutti i rumori si mescolavano in un fiero rombo tremulo; difficile credere di non averlo udito prima. Troppo stanco.
Continuai a nuotare. Ora, dalla cresta delle onde, vedevo i marosi frangersi più avanti, venire risucchiati come se fossero sull’orlo del mondo; la spuma bianca esplodeva nella nebbia e la massa d’acqua sconvolta rotolava sulla spiaggia. Sarebbe stato difficile raggiungere la riva.
Le onde continuarono a spingermi finché una, più grossa delle altre, non mi afferrò portandomi via sempre più in alto. Galleggiavo sotto la cresta; quasi subito mi accorsi che l’onda mi avrebbe scagliato da una certa altezza sulla riva. Inspirai a fondo e mi tuffai; sentii la trazione, mentre sprofondavo nell’onda ed emergevo più indietro. Anche così fui quasi trasportato sul retro del frangente e intrappolato nell’acqua torbida e turbinante. L’onda seguente era grossa quasi come l’altra e mi costrinse a nuotare a tutta forza per abbandonarla prima che si frangesse. Mi trovai di petto sulla cresta, con l’onda verticale; guardai l’acqua striata di spuma, quattro metri più in basso. Quella chiazza scura era roccia? C’erano scogli, sotto di me?
Gemendo miseramente, nuotai più al largo per non farmi afferrare da un’onda ancora più grossa delle due precedenti che quasi m’avevano sommerso. Il pensiero degli scogli era spaventoso. Ero troppo stanco per affrontare un’evenienza del genere, volevo solo nuotare dritto fino alla riva. Che era vicinissima. Forse avevo visto solo una chiazza d’acqua scura nella spuma, ma non potevo esserne sicuro; e se mi sbagliavo, ci lasciavo la pelle. Mi tenni a galla per un poco, studiai le onde che si frangevano e risucchiavano acqua alle loro spalle. Il punto in cui i frangenti erano più intensi segnavano l’acqua più bassa; se c’erano scogli, probabilmente si trovavano lì. Allora nuotai parallelamente alla riva, fino al punto in cui le onde si frangevano con maggiore ritardo. Il freddo mi penetrava di nuovo nel cervello e la paura cresceva. Decisi di andare avanti.
Prestai attenzione alle onde: se una si fosse infranta prima di raggiungermi, mi avrebbe fatto rotolare e non mi avrebbe più lasciato. No, dovevo prendere un’onda e galleggiare sulla sua cresta, proprio come facevamo per divertimento al largo di Onofre. Se prendevo quella giusta, forse sarei riuscito a farmi portare fin sulla sabbia. Non volevo altro. Mi occorreva un’onda grossa… non troppo, però: media. Le onde in genere venivano a serie di tre, una grossa seguita da due più piccole, ma nel buio non riuscivo a distinguerle. Girando la testa per guardare avanti e indietro, inghiottii una boccata d’acqua che quasi mi mandò a fondo. Non potevo fare troppo l’esigente; andai avanti, sul dorso, deciso a prendere l’onda successiva. Se fossi finito contro gli scogli, pazienza: non avevo scelta. Dovevo correre il rischio.
Di colpo, mentre un’onda m’afferrava, non sentii più la stanchezza, pur nuotando ancora con impaccio. Mi girai sullo stomaco, mentre l’onda mi piegava i piedi verso l’alto, e nuotai per mantenerla. Che cosa non avrei dato, per un paio di pinne di Tom! Mi avrebbero permesso di uguagliare con minore fatica la velocità crescente dell’onda. Riuscii lo stesso a prenderla e a farmi trasportare. Ero in alto sul fronte ripido, quando l’onda s’inalberò, per cui caddi nel vuoto e schiaffeggiai con il petto l’acqua. E non scogli, per fortuna, altrimenti sarebbe stata la fine. Scivolai sull’acqua con il frangente, sporgendo solo la testa dalla spuma e rotolando a velocità tremenda fra gli spruzzi.
L’onda tuttavia morì troppo presto e mi lasciò a boccheggiare nell’acqua torbida. Mi misi dritto, tentai di toccare il fondo… niente da fare; andai sotto, con i piedi toccai quasi subito la sabbia. Risalii in tempo per veder sopraggiungere un’altra ondata fumante. Mi rannicchiai come una palla e lasciai che l’onda mi sbattesse verso riva… un normale trucco di chi fa surf a corpo libero, poco adatto però al mio stato di prostrazione. Cessata la spinta in avanti, riuscii a stento a tornare a galla. Ma ora toccavo! Potevo stare in piedi, ansimando, sulla sabbia! I primi passi mi provocarono subito crampi alle gambe. Crollai lungo e disteso. L’acqua spinta sulla spiaggia dalle ultime ondate scelse proprio quel momento per scorrere via di nuovo verso il mare; in ginocchio artigliai la sabbia sfuggente, mentre quel fiume mi passava sopra. E poi, libero, barcollai fuori dell’acqua.
Raggiunto il ripido bagnasciuga e il segno dell’alta marea, caddi per terra. La spiaggia era coperta da uno strato granuloso di grandine che già si scioglieva. Finalmente distesi i muscoli dello stomaco e cominciai a vomitare. Non credevo d’avere ingoiato tanta acqua. Impiegai un bel po’ di tempo a vomitarla tutta. Me ne fregavo: era un vomito di trionfo.
C’ero riuscito. Tutto d’un pezzo. Ma non era il caso di festeggiare, si presentava una nuova serie di difficoltà. La neve aveva smesso per un momento di cadere, ma il vento mi flagellava. Strisciai fino ai piedi della scogliera. La spiaggia era stretta; la scogliera, alta tre volte me… poteva essere un punto qualsiasi della costa dei monti Pendleton. Ai piedi della scogliera il vento era meno forte; mi rannicchiai dietro un masso d’arenaria, in mezzo ad altri massi precipitati dal costone. Cercai d’asciugarmi usando le dita; intanto mi guardai intorno.
Sul mare le nubi schiarite dalla luna oscuravano il panorama. La spiaggia si estendeva in entrambe le direzioni, coperta da mucchi neri di alghe. Cominciavo a tremare. Un monticello di alghe aveva una forma più regolare degli altri. Mi alzai a guardare meglio; il vento mi colpì in pieno. Eppure, quel mucchio di alghe… Barcollando, girai intorno al masso; mi avvicinai, attento a non fare movimenti avventati e a non cadere.
In una spaccatura della scogliera, sfuggita alla mia attenzione, sboccava una gola profonda percorsa da un torrente che tagliava la spiaggia e si riversava in mare. Mi lasciai scivolare lungo l’argine sabbioso fino al torrente, per bere un sorso d’acqua… incredibile, ma morivo di sete. Mi rialzai e fu una lotta per superare il metro di terrapieno sul lato opposto: continuavo a scivolare; alla fine, tra ansiti e imprecazioni, fui costretto a procedere carponi. Superato il dislivello, mi rialzai.
Sulla spiaggia vedevo chiaramente la montagnola nera. I miei sospetti trovarono conferma: una barca tirata a secco fin quasi alla base della scogliera. «Oh, sì» dissi. Non dovevo muovermi con troppa fretta, altrimenti sarei caduto. La barca era più lontano dei previsto, ma alla fine la raggiunsi e sedetti al suo riparo. Con le mani rese insensibili dal freddo mi afferrai alla falchetta.
Nella barca c’erano due remi e nient’altro; non potevo esserne sicuro, ma pensavo proprio che fosse la scialuppa a rimorchio dello sloop. Quindi gli altri avevano raggiunto la riva! Tom era (quasi certamente) vivo!
Mentre io, d’altro canto, ero quasi morto. I miei compagni erano probabilmente nei dintorni. Forse avevano risalito la gola, sembrava una buona ipotesi… ma non potevo seguirli. Ero troppo debole e intirizzito per reggermi in piedi. Anzi, anche solo a stare seduto sbattevo la testa sulla fiancata della scialuppa. Ero in condizioni pietose, ma non volevo morire dopo essermi dato la pena di farmi tutta la nuotata fino a riva. Mi tirai su in ginocchio. Peccato che non avessero lasciato qualcosa nella barca, oltre ai remi. Dato che non avevano lasciato niente… ragionavo con lentezza da lumaca, come ubriaco. Un pensiero al minuto, lento e barcollante come il cammino percorso sulla spiaggia. “Devo… togliermi… dal vento, sì.” Strisciai fino a un cumulo di alghe, strappai gli strati superiori. Erano aggrovigliati e non volevano staccarsi. Mi arrabbiai… “Stupide alghe, staccatevi!”… e non smisi di brontolare finché non arrivai alla parte interna del mucchio, ancora asciutta. Solo per questo le alghe sembravano calde. Tirai via tutte quelle che riuscivo a portare; tornai barcollando alla barca. Lasciai cadere il fascio sulla sabbia.
Spinsi la fiancata della scialuppa. Non si mosse, neanche fosse di pietra. Mandai un grugnito. Premendo contro la falchetta, riuscivo a farla dondolare un pochino. “Gira, barcaccia!” Ero stupito e spaventato per la mancanza di forza: normalmente, una scialuppa come quella la rovesciavo con una mano sola. Adesso, diventava il grande sforzo della vita, capovolgere la maledetta barca. Tolsi i remi, ne infilai uno sotto la chiglia, sollevai la pala e la bilanciai sull’impugnatura dell’altro, conficcato nella sabbia. In questo modo la barca s’inclinò. Girai dall’altra parte, salii con i piedi sulla falchetta inferiore e tirai verso di me quella superiore. La barca si rovesciò. Mi gettai lungo e disteso, per evitare che mi schiacciasse.
Sputai sabbia e mi rialzai. Trasportai un sasso di arenaria vicino alla prua. Sollevarla fu meno difficile del previsto; spinsi il sasso sotto la prua, per tenerla sollevata. Se prima avessi avuto il buonsenso di mettere le alghe dentro la barca, a quest’ora sarei stato a posto. Ma non ragionavo al punto da prevedere così in anticipo le mie mosse. Ammassai le alghe sotto la prua, poco alla volta; cacciarmi sotto la barca fu più difficile; mi graffiai la schiena, ma alla fine, spingendo con la testa, riuscii a sollevare la prua quanto bastava a strisciare al coperto.
Fui tentato di distendermi e restare lì, perché ero esausto. Ma tremavo ancora come un cane bagnato. Frugando a tentoni nel buio, ammassai le alghe. Formai un giaciglio abbastanza spesso e vi strisciai sopra; rimanevano alghe sufficienti a formare una sorta di coperta. Tirai via il sasso: così ero al riparo del vento, in un letto asciutto.
Cominciai a tremare seriamente. Battevo i denti al punto da avere male alle mascelle; intorno a me, le alghe secche scricchiolavano e frusciavano. Ma non per questo sentivo più caldo. Gocce di pioggia o nevischio colpirono il fondo della barca; fui contento d’essermi messo al riparo. Ma non smettevo di tremare. Cambiai posizione, tenni le mani sotto le ascelle, mi rannicchiai meglio fra le alghe… qualsiasi cosa, pur di stare più caldo. Era una lotta.
Trascorse una di quelle lunghe ore di cui spesso parla chi racconta avventure; un’ora piena di freddo e di paure, spesa interamente nello sforzo di scaldarmi. Alla fine ci riuscii un poco. Non crepavo certo di caldo, ma dopo il mare gelido e la spiaggia spazzata dal vento, il letto di alghe secche sotto la barca sembrava magnifico. Volevo solo starmene lì per sempre, rannicchiato, e dormire e non muovermi più.
Ma sapevo di dover trovare Tom e i compagni di San Diego prima che si allontanassero troppo. Come me, pensavo, avrebbero passato la notte in una specie di rifugio; ma sarebbero partiti al mattino. Sollevai la prua della scialuppa. Si vedeva un sottile spicchio d’alba: sabbia, scogliera accidentata, nubi nere. Il giorno più scuro e più miserevole mai spuntato, senza dubbio. Il vento fischiava sopra la barca. Ma dovevo trovarli, mi dissi, prima che se ne andassero senza di me.
Uscire da sotto la barca fu più facile: sollevai la prua, la puntellai con il sasso, scivolai nell’apertura. Il vento fu uno choc, soffiò via in un istante tutto il mio prezioso tepore. Nella luce dell’alba vedevo più lontano: la spiaggia era spoglia e vuota, una distesa grigia e desolata. Spostai la barca e misi allo scoperto le alghe; me le attorcigliai intorno fino a coprirmi di steli fruscianti e neri. Mi proteggevano dal vento meglio di quanto m’aspettassi e certo meglio di niente.
La gola tagliava una V nella scogliera, quasi a livello della spiaggia; potevo camminare seguendo il letto del torrente ed evitare i cespugli. A quel punto non m’importava affatto la fine che avrebbero fatto i miei piedi sul letto del torrente, ma per fortuna vi trovai ciottoli lisci e arrotondati. Un ramo mi graffiò la gamba; lasciai perdere i fianchi della gola e badai a dove mettevo i piedi. Superata una cascatella, mi trovai fra gli alberi; i cespugli divennero meno fitti. La gola faceva una brusca curva a sinistra, poi curvava di nuovo; da lì in avanti non c’era quasi più vento. In alto la cima degli alberi ondeggiava e gli aghi sibilavano. Fiocchi di neve si ammucchiavano fra i rami e ne rendevano confusi i contorni. Con un gemito continuai a camminare.
La gola s’inerpicava e le cascate diventavano più alte; per superarle dovevo arrampicarmi fra arbusti di mesquite, senza badare se mi graffiavano e mi portavano via a poco a poco la protezione di alghe. Ero così debole che, quando giunsi alla terza delle piccole scogliere, scoppiai a piangere. Non ce l’avrei mai fatta. Superata la crisi di sconforto, mi arrampicai strisciando sulle mani e sulle ginocchia, proprio in mezzo al ruscello, per evitare gli arbusti sulle rive. Era una soluzione sciocca, forse; ma ormai la mia lucidità era andata a farsi benedire. E non sono sicuro che ci fosse un’altra via per superare la scogliera. Nei pressi della cima scivolai e finii lungo e disteso: quasi annegavo in trenta centimetri d’acqua, dopo essere sopravvissuto in alto mare. Ma riuscii a sollevare la testa e, poco dopo, a superare l’ultimo tratto. Ormai ero quasi troppo stanco per camminare. Se solo avessi avuto le pinne di Tom, pensai. Quando mi resi conto del pensiero, soffocai una risata e scoppiai a piangere. Guadai il laghetto sopra le piccole cascate e continuai lungo la riva del torrente; procedevo ingobbito, mi lasciavo dietro una scia di alghe, tiravo su col naso e piangevo, convinto che presto sarei morto di freddo.
In questo stato inciampai nel loro campo. Girai intorno a un cespuglio e quasi finii con i piedi nel fuoco, giallo vivido e abbagliante, fra tutto quel grigio e quel nero.
«Ehi!» gridò qualcuno. D’un tratto diversi uomini scattarono in piedi. Lee brandiva un’accetta.
«Ah, eccovi» dissi. «Sono io.»
«Henry!»
«Cristo…»
«Che diavolo…»
«Henry! Henry Fletcher, perdio!» La voce di Tom. Individuai la posizione del vecchio: dritto davanti a me.
«Tom» dissi. Mi sentii stringere fra le braccia. «Sono felice di vederti.»
«Tu felice di rivedere me?» Mi stringeva al petto. Lee lo staccò da me per avvolgermi in una giacca di lana. Tom rise, una rauca risata di gioia. «Henry, Henry! Hank, ragazzo mio, stai bene?»
«Freddo.»
Jennings gettava legna sul fuoco, rideva e parlava, a me o a un altro, non so. Lee tirò via Tom e mi sistemò la giacca. Il fuoco cominciò a fare fumo; tossii e quasi caddi.
Lee mi sorresse e mi sistemò accanto al fuoco. Gli altri mi fissavano. Avevano costruito un riparo di rami, una capanna a una falda sopra una base di legna secca. Davanti al riparo, il fuoco ardeva con forza sufficiente a bruciare legna umida.
«Henry… hai nuotato fino a riva?»
Annuii.
«Cristo, Henry, abbiamo remato in cerchio finché abbiamo potuto, ma non t’abbiamo visto! Come hai fatto a passarci davanti?»
Scossi la testa, ma Lee disse: «Lasciatelo in pace e strofinategli le gambe. Il ragazzo rischia di morire se non lo scaldiamo: non vedete quant’è livido? E non può parlare. Stendiamolo accanto al fuoco. Più tardi ci racconterà cos’è successo.»
Mi stesero all’imboccatura del riparo, accanto al fuoco. Mi tolsero di dosso le alghe, mi asciugarono con delle camicie. Ero coperto di sabbia, sapevo che così mi avrebbero graffiato, ma non sentivo niente. Ero molto sollevato. Il fuoco sembrava un forno aperto. Il calore mi raggiungeva a ondate, piano piano mi entrava in corpo. Non avevo mai provato una sensazione così splendida. Tesi la mano sopra le fiammelle laterali; Tom la sollevò, me la tenne sul fuoco. Lee mi avvolse intorno alle gambe una spessa coperta di lana.
«D-dove avete preso i v-vestiti?» domandai a fatica.
«Avevamo un bel po’ di roba, nella scialuppa» rispose Jennings.
Tom mi sollevò l’altro braccio. «Ragazzo, non sai quanto sono felice di vederti. Urrà!»
«È vero» intervenne Jennings. «Dovevi vedere come si lamentava. Sembrava che stesse male.»
«Stavo male, non mi vergogno di dirlo. Ma ora sto benissimo. Non hai idea di quanto sia felice di rivederti, ragazzo. Non ricordo di essere mai stato così felice.»
«Peccato che t’abbiamo perso, nel buio» disse Jennings. «Altrimenti remavi con noi e ti risparmiavi un bella faticata, scommetto. Di posto ce n’era un mucchio.»
A queste parole, Thompson e gli altri scoppiarono a ridere.
«Mi hanno raccolto i giapponesi» dissi.
«Cosa?» esclamò Jennings.
Meglio che potevo, raccontai del capitano e dell’interrogatorio. «Allora lui ha detto che andavamo a Catalina, così sono saltato dalla murata.»
«Sei saltato dalla murata?»
«Sì.»
«E hai nuotato fin qui?»
«Sì.»
«Caspita! Hai visto la scialuppa, sulla riva?»
«Come ci sei arrivato, con quei marosi?»
A fatica misi in ordine le domande. «Ho nuotato. Ho visto la barca sulla spiaggia e mi sono riposato sotto. Immaginavo che eravate quassù.» Guardai gli uomini, incuriosito. «Come avete portato a secco la barca?»
Naturalmente fu Jennings a dare spiegazioni. «Quando lo sloop è affondato, siamo saltati tutti sulla scialuppa, tranne Lee che era caduto in acqua. Così non ci siamo bagnati. Ci siamo allontanati un poco e abbiamo tirato fuori Lee dalla broda. Ti abbiamo aspettato. Ma non riuscivamo a trovarti. E Thompson ha detto che l’albero ti era caduto addosso. Allora abbiamo pensato che eri annegato e abbiamo remato a riva.»
«Come avete portato a secco la barca?» chiesi di nuovo.
«Be’, merito di Thompson. Con tanta gente a bordo, la barca sporgeva solo di cinque centimetri; così Thompson, trovata la foce del torrente, dove i frangenti erano meno pericolosi, ha buttato in acqua Lee e me e ci ha costretti a nuotare. Non ti dico che piacere… ma certo lo sai. Alla fine la barca ha preso una delle onde più piccole e ha toccato terra. Una manovra come se ne vedono poche.»
Thompson ridacchiò. «Per fortuna l’abbiamo presa giusta, quell’onda.»
«Così, tranne Lee e me alla fine, non ci siamo neppure bagnati! Ma tu, ragazzo, ti sarai fatto una nuotata d’inferno.»
«Non finiva mai» ammisi. Ero sul fianco, rannicchiato in modo da stare tutto accanto al fuoco. La lana raccoglieva tutto il calore e lo tratteneva intorno a me; ed ero felice… mi accontentavo di ascoltare le voci, senza preoccuparmi di decifrare le parole.
Parecchie volte, durante la giornata, Tom mi svegliò per vedere se stavo bene; se borbottavo qualcosa, mi lasciava riprendere sonno. La prima volta che mi svegliai da solo, avevo il braccio destro intorpidito e fui costretto a cambiare posizione sul giaciglio di rami. Mossi il braccio per riattivare la circolazione. Sentii fitte acute dappertutto. Le braccia mi dolevano. Mi sollevai sul gomito. Era quasi buio. La neve mista a pioggia cadeva a blocchi filtrando tra i rami. Gli uomini erano sotto il riparo, dietro di me, distesi o seduti sui rami tagliati da Lee per il fuoco notturno. Lee affilava l’accetta. Vide che ero sveglio e gettò sul fuoco un altro ramo. Thompson e i due marinai dormivano. Avevo la schiena fredda. La girai verso il fuoco e sentii il calore sfiorarmi. Tom e Jennings fissavano le fiamme con aria cupa.
Il campo si trovava in una piccola ansa del torrente, nella cavità creata da un albero caduto e sradicato. Accanto al nostro riparo, le radici puntavano ancora al cielo e aumentavano la protezione. Gli alberi intorno a quello caduto erano abbastanza alti da sporgere oltre la gola; la cima si agitava e ondeggiava. Mi girai di nuovo verso il fuoco e mi rannicchiai. Il torrente gorgogliava, il fuoco scoppiettava e sibilava, le cime degli alberi ululavano. Mi addormentai.
Tornai a svegliarmi a notte fonda. Sembrava che non nevicasse più. Alimentammo il fuoco, ci alzammo e ci stiracchiammo. Thompson tirò fuori della sacca l’ultima pagnotta e la divise fra tutti. Il pane di Kathryn non mi era mai parso buono come quella roba umida e stantia. Tom tolse dalla sacca alcuni bastoncini di pesce secco e li distribuì; Lee passò in giro la sua tazza, dopo avervi scaldato dell’acqua. Quando Tom prese il pesce, notai la sacca. «Hai ancora i libri di Wentworth?» domandai.
«Sì. Non si sono bagnati per niente.»
«Bene.»
Sopra la gola, il vento diventava più forte; le nubi correvano basse nel cielo. Quelli di San Diego discussero il da farsi, tirandola per le lunghe per ingannare il tempo. Mi chiesero di raccontare nei particolari la nuotata. Dopo tornarono a fare piani; decisero che, se la tempesta non peggiorava o non cessava del tutto, avrebbero abbandonato la scialuppa e raggiunto a piedi la ferrovia. Avevano nascondigli di cibo lungo il percorso e parevano sicuri di riuscire a tornare a casa via terra. Tom e io potevamo andare con loro, oppure puntare a nord; Onofre, ci assicurò Lee, distava solo alcuni chilometri. Tom annuì. «Andremo a casa» disse. Scese il silenzio. Jennings mi chiese di descrivergli di nuovo il capitano giapponese; gli dissi tutto quel che ricordavo. Quando accennai all’anello, quelli di San Diego mostrarono un’aria disgustata ma anche compiaciuta: era un’altra prova di corruzione. Tom si accigliò, come se non gli andasse che rivelassi altre cose del genere. Quelli di San Diego cominciarono a raccontare aneddoti sulla vita a Catalina. Ero interessato, ma non riuscivo a tenermi sveglio. Mi sedetti e mi appisolai.
Nonostante il freddo e l’umidità, dormii per alcune ore. Tuttavia verso mezzanotte mi svegliai; avevo fatto il pieno di sonno. Misi un ramo sul fuoco. Ormai c’era una buona base di braci e il ramo prese fuoco quasi subito. Alla sua luce vidi gli altri, distesi sotto il riparo o accanto al fuoco, davanti a me. Notai con sorpresa il riflesso degli occhi: erano tutti svegli, tranne Thompson e Jennings, e aspettavano che il giorno spuntasse. Avevo i piedi freddi, ero rigido e indolenzito dappertutto, sapevo che non avrei ripreso sonno. Cambiai posizione e allungai i piedi verso il fuoco. Le ore trascorsero lentamente… ore di irrigidimento, di crampi, di fame, di noia, di sofferenza… un altro di quei periodi che si saltano, quando si raccontano le avventure, anche se, a giudicare dalla mia, buona parte di ogni avventura passa proprio così, nell’attesa irritante di fare qualcosa. Lee mise sul fuoco un altro ramo; guardammo il legno fumare, finché le fiamme non comparvero e non fecero presa.
Un mucchio di rami si ridusse in cenere prima che la livida luce di un’alba tempestosa creasse lentamente il senso di distanza fra le sagome nere della gola. Nevicava di nuovo, in modo irregolare; cadeva nevischio che si scioglieva appena toccava qualcosa. La faccia irsuta e rugosa degli uomini rivelava che erano irrigiditi, intirizziti e affamati come me. Lee si alzò e andò a tagliare altra legna. Anche gli altri si alzarono e si allontanarono a spandere acqua o a distendere i muscoli doloranti.
Lee gettò sul fuoco la legna raccolta e maledì il fumo. «Tanto vale mettersi in cammino» brontolò. «Il tempo non migliorerà affatto per un bel pezzo, credo. E non ho voglia di aspettare tutto il giorno per esserne sicuro.»
Thompson e i marinai non erano molto convinti, mi parve. Jennings disse loro: «Arrivati al Ten Post River, troveremo una cassa di cibo e di vestiti. Costruiremo un riparo come questo, se occorrerà, e avremo da mangiare.»
«Quanto dista?» chiese Thompson.
«Forse otto chilometri.»
«Un po’ tanto, con questo tempo.»
«Sì, ma possiamo farcela. E loro possono essere a Onofre per mezzogiorno.»
Thompson si dichiarò d’accordo; senza altre discussioni ci preparammo a partire. Jennings rise, nel vedere la mia faccia afflitta; mi diede i suoi mutandoni, un paio d’affari bianchi e spessi, ancora umidi, che mi arrivavano sotto i piedi. «Con questi e la giacca dovresti essere a posto» disse.
«Grazie, signor Jennings.»
«Di niente. Per colpa nostra sei finito a mollo. E te la sei vista brutta, mi pare.»
«Non è ancora finita» disse Tom, guardando cadere la neve.
Risalimmo la gola finché non fu solo un declivio della foresta. Lì ci fermammo. Tutt’intorno dai rami cadevano goccioloni e il vento sibilava. Dai piedi intirizziti e scalzi il freddo cominciava a risalirmi lungo le gambe; ero stufo.
Scambiammo un saluto frettoloso con quelli di San Diego. «Torneremo presto a Onofre» mi disse Jennings. «Così mi riprendo i vestiti.»
«E il Sindaco vorrà avere vostre notizie» disse Lee a Tom.
Promettemmo di farci trovare pronti; dopo qualche attimo d’imbarazzo, loro s’allontanarono fra gli alberi. Tom e io girammo a nord. Presto incontrammo i resti di una stretta strada asfaltata; Tom disse che dovevamo seguirla.
«Non è meglio risalire fino all’autostrada?»
«Troppo esposta. Il vento spazza i tratti non riparati.»
«Lo so, ma ci sono tratti aperti anche qui. E là si cammina meglio.»
«Può darsi. I piedi, eh? Fa freddo anche lassù. E poi, lungo questa strada c’è una serie di gabinetti, ricordo di quando la zona faceva parte di un parco marittimo. Se sarà il caso, potremo fermarci in uno: in alcuni ci ho messo provviste di legna da ardere.»
«D’accordo.»
La strada era solo una serie di chiazze d’asfalto nella foresta, interrotta con regolarità da piccoli burroni. Procedevamo con una certa lentezza e presto non sentii più i piedi. Camminare mi sembrava un’impresa. Tom si teneva sopravvento rispetto a me, di tanto in tanto mi sorreggeva con la destra. Non sapevo nemmeno dov’ero, finché non giungemmo a una lunga distesa priva d’alberi, coperta di arbusti alti un metro, squassati dal vento. Da lì si vedeva il mare e il vento colpiva con tutta la sua forza.
«Tom, ho freddo.»
«Lo so. Più avanti c’è un vecchio gabinetto; ci fermeremo lì. Lo vedi?»
Ma quando vi arrivammo, scoprimmo che la parete opposta era crollata e che il tetto mancava. E il gabinetto si riempiva di fanghiglia.
«Maledizione» disse Tom. «Allora è il prossimo.»
Continuammo. Non mi accorgevo di tremare. «Tengo sueño» borbottai. «Ten-go sue-gno.» Il freddo: so di averlo menzionato molte volte; ma non quanto basta a far capire la sua forza, la sua influenza micidiale… il male che fa anche se si è insensibili, come prosciuga di ogni forza, come tiene sveglia una parte della mente, spaventata a morte che le altre parti siano addormentate come le dita…
«Henry!»
«… Eh?»
«Siamo quasi arrivati. Mettimi il braccio attorno alle spalle. Henry! Il braccio. Così.» Mi sorresse e barcollammo verso il gabinetto… l’unico edificio dei vecchi tempi più piccolo di casa mia.
«È questo» disse Tom. «Entriamo a scaldarci, poi riprendiamo il cammino. Il vento non continuerà a soffiare così per tutto il giorno. Siamo a tre chilometri da casa, non di più. Ma il vento è troppo. Andiamo al riparo.»
I cespugli rimbalzavano in continuazione contro il terreno; sul pendio in alto, il vento ululava fra gli alberi. La neve oscurava la vista del mare, continuava a colpirmi negli occhi. Raggiungemmo la costruzione isolata. Tom scrutò cautamente nell’apertura. «Bene» disse «è questo. E non ci sono animali.»
Mi tirò dentro, mi aiutò a sedermi contro la parete. Il vano d’ingresso era rivolto all’entroterra, per cui il riparo dal vento era totale. Già questo era una benedizione. Ma nell’angolo di fronte a me c’era una grossa catasta di rami, legno morto da tempo e perfettamente secco. Tom balzò verso la catasta, congratulandosi da solo, e cominciò a spostare la legna nel vano d’ingresso. Soddisfatto del lavoro, frugò nella sacca e tirò fuori un accendino. Come per magia scaturì un’alta fiammella. Alla luce arancione, la faccia di Tom brillò: un sorriso la divideva in due e metteva in mostra la decina di denti rimasti. Dalla zucca l’acqua gli colava nel complicato sistema viario di rughe; barba e capelli erano arruffati, gli occhi mostravano il bianco attorno all’iride. Le mani gli tremavano. Si mise a ridere come un animale selvatico. Spense e accese la fiammella due volte, poi si piegò sui talloni e l’accostò ai rametti più piccoli e ai fuscelli alla base della catasta. Quasi subito tutta la legna prese fuoco. L’aria del piccolo locale si scaldò. Mi strinsi fra le mani i piedi e cambiai posizione per accostarli alla fiamma. Tom vide che riuscivo a muovermi da solo e saltellò allegramente attorno al fuoco.
«Se avessimo da mangiare, saremmo a posto. Neanche un castello sarebbe meglio. La mia stessa casa non sarebbe migliore. Ragazzo, guarda il vento. Infuria. Ma sembra che la nevicata si calmi. Appena ci saremo scaldati faremo una corsa a casa a procurarci un buon pasto, eh? Soprattutto se smette di nevicare.»
Da dentro la nostra piccola fortezza, il ruggito del vento era rumoroso. Mi scaldai abbastanza da ricominciare a tremare. I piedi mi causavano fitte di dolore, bruciavano. Tom mise altra legna sul fuoco. «Uau! Guarda che vento. Ragazzo, il peggio è passato. Il peggio è passato, capisci?»
«Uh.» Credevo di capire. Ma questo non era il peggio, per me. Il peggio era avanzare nell’acqua di notte, dentro un’onda gigante che si frangeva, senza sapere se c’erano scogli fra me e la spiaggia. Ero stufo del peggio, almeno per il momento e forse per sempre. Non volevo averci più niente a che fare.
Ci scaldammo abbastanza da toglierci i vestiti e strizzarli. Poi Tom mi disse di prepararmi a partire. «Non nevica più e il giorno non durerà per sempre.» Ero affamato come un lupo, perciò ammisi che aveva ragione, anche se mi dispiaceva abbandonare il rifugio. In quella che sembrava una ninnananna del vento, lasciammo il nostro fortino e ci affrettammo lungo la strada d’asfalto. Subito il vento ci gelò i vestiti; sentivo la giacca e i mutandoni riempirsi d’umidità. Le nuvole galoppavano nel cielo, ma per il momento la neve aveva smesso di cadere.
«Neve a luglio» borbottò Tom, con una bestemmia. Si mise di nuovo sopravvento rispetto a me e regolò l’andatura sulla mia, passo a passo. Entrambi tenevamo la faccia girata per non esporla al vento. «In questa zona non nevicava mai. Mai. Era già tanto che piovesse qualche volta. E gli sbalzi di temperatura dell’oceano. Folli. Qualcosa ha mandato a puttane il clima del mondo, Hank, te lo dico con la massima certezza. Mi chiedo se abbiamo dato inizio a un’altra epoca glaciale. Ragazzo, non gli servirebbe da lezione? Certo che gli servirebbe da lezione, maledetti loro. Se è colpa della guerra, gli sta bene e buona notte al secchio. Se siamo stati noi, prima di essere colpiti, allora è buffo. Rivincita postuma, giusto, Henry? Eh?»
Continuò con quelle scempiaggini, nel tentativo di distrarmi.
«Una volta hai imparato un brano che si adatta alla nostra situazione attuale, vero, Hank? Non ti ho dato da studiare qualcosa del genere? Tom si raffredda, ragazzo, l’hai detto. Congela! Non l’ho mai imparato a memoria nemmeno io. Soffiate, venti! Grandinate, uragani! Qualcosa del genere. Certo una buona recita, se lo dico io…»
E via di questo passo, finché il freddo non prese anche lui; allora Tom abbassò la testa, mi strinse il braccio intorno alla vita e arrancammo. Pareva che dovesse durare per sempre. Una volta alzai gli occhi e vidi il mare verde come la foresta, nubi grigie ammassate sull’acqua, creste spumose che si frangevano da ogni parte, al punto che il mare era quasi tanto bianco quanto verde. Poi riabbassai la testa.
A un certo punto Tom disse: «Lassù c’è il costone e casa mia. Ce l’abbiamo quasi fatta.»
«Bene.»
Allora ci trovammo di nuovo fra gli alberi e attraversammo il costone. Al di là di Concrete Bay e su fino all’autostrada. Nevicava di nuovo, non si vedeva un accidente. Gli alberi sembravano fantasmi usciti dalla fanghiglia che cadeva dal cielo. Volevo affrettarmi, ma non sentivo più i piedi e continuavo a inciampare. Se non fosse stato per il vecchio, sarei caduto una decina di volte.
«Andiamo a casa mia» dissi. «Non ce la faccio a salire fino alla tua.»
«Certo. Tanto, tuo padre vorrà vederti.»
Perfino la valle sembrava allungarsi; fu un’impresa attraversarla. Barcollando passammo davanti al grosso eucalipto all’angolo, arrivammo alla porta. In vita mia non ero mai stato così felice di vedere la baracca. Dal tetto scivolò una fanghiglia biancastra, quando battemmo il pugno contro la porta ed entrammo all’improvviso, come viaggiatori smarriti da tempo. Pa’ dormiva, ma si svegliò subito e mi abbracciò, sorpreso. Si tirò i baffi. «Hai un’aria terribile» disse. «Cos’è successo ai tuoi vestiti?»
Tom e io scoppiammo a ridere; cominciammo a parlare. Posai i piedi sopra la stufa, sentii la pelle bruciare. Tom parlava in fretta come Jennings, rideva una frase sì una no. Saccheggiai gli scaffali e lanciai a Tom mezza pagnotta, conservandone un pezzo per me.
«Non hai altro?» chiese Tom, a bocca piena. Pa’ tirò fuori per noi un po’ di carne secca. La divorammo in un baleno. Mangiammo tutto quello che c’era di commestibile in casa e attizzammo il fuoco nella stufa, più alto di quanto fosse mai stato dalla morte di mia madre. E non smettemmo di parlare.
«Non sapevo cosa t’avrei raccontato» diceva Tom. «Era sparito per sempre!» Pa’ lo guardava a occhi sgranati. Presi il secchio d’acqua e mi lavai con uno straccio, ripulendomi della sabbia sotto le ascelle e nell’inguine. Il bruciore ai piedi era aumentato. Continuammo a raccontare a Pa’ la nostra storia, confondendolo del tutto. Alla fine la smettemmo tutt’e due nello stesso istante.
«Sembra che te la sei vista brutta» disse Pa’.
«Sì» confermò Tom e rise forte, quasi istericamente, di sollievo. Si mise in bocca l’ultimo pezzetto di pane, annuì, inghiottì. «Brutta davvero.»