PARTE TERZA Il mondo

11

Tom andò a casa sua. Dormii come un sasso per il resto della giornata e per tutta la notte. Il mattino dopo, rimasi male nel vedere che la tempesta era cessata. Il sole inondava la porta come se non fosse mai andato via. E se noi ci fossimo trattenuti nel rifugio ancora un giorno, saremmo tornati a casa con la massima facilità. Mandai un lamento. Fa’ mi udì e smise di cucire. «Vado io a prendere l’acqua, stamattina?»

«No, lascia stare. Sono solo indolenzito.» A dire il vero, le braccia erano blocchi di legno, e i muscoli delle gambe pure; e purtroppo scoprii di avere un mucchio di graffi, lividi e tagli che dolevano praticamente a ogni respiro. Ma non vedevo l’ora di uscire, di guardare in giro. Con altri gemiti, mi alzai dal letto.

Fuori di casa, imboccai il sentiero (a ogni passo i secchi strattonavano le mie povere braccia) e la luce del sole mi colpì negli occhi. C’era ancora qualche nuvola, ma il cielo era in gran parte sereno e un filo di vapore s’alzava da ogni cosa. La casa di bidoni dei Costa sembrava bruciare, da come fumava. Procedetti a fatica lungo il sentiero, fissando ogni particolare.

Ho già descritto la valle? Ha la forma di una mano a coppa ed è piena di alberi. Nella piega del palmo c’è il fiume che scorre sinuoso fino al mare, e i campi di granturco, d’orzo, di patate. L’attaccatura della mano è monte Basilone: lassù c’è la casa dei Costa, la torre di Addison, la traballante casa di Rafael con annessa officina. Dalla parte opposta, le dita coperte di foreste del costone di Tom. Tutte le case più vecchie erano stravaganti: non l’avevo mai notato, ma ora me ne accorgevo. Rafael continuava ad aggiungere stanze per conservare meccanismi e congegni vari; seguiva il profilo del pendio montuoso, quindi a un certo punto chi avesse voluto disegnarne la pianta avrebbe tracciato una X in cima a una W. Doc Costa si era costruito la casa sfruttando bidoni di petrolio, come ho già detto, per trattenere il calore d’inverno e il fresco d’estate. Probabilmente non aveva previsto che la casa si sarebbe messa a ululare come uno spettro al minimo alito di vento; diceva che la cosa non gli dava alcun fastidio, ma secondo me era questa la ragione per cui Mando s’impressionava tanto facilmente. I Nicolin avevano la loro grossa casa dei vecchi tempi, sul promontorio prospiciente la spiaggia, e gli Eggloff erano rintanati più all’interno del pendio, nel punto d’incontro fra il pollice e l’indice, se manteniamo il paragone con la mano a coppa. Vivevano lì come donnole, ed erano anche vicini al cimitero, ma sostenevano di battere Doc, in quanto a caldo d’inverno e fresco d’estate. E poi c’era Tom, in cima al costone, dov’era destinato a gelare nelle tempeste e ad arrostire nei giorni di sole, ma a lui non importava niente. Lui voleva guardare. Proprio come Addison Shark, si sarebbe detto, che si era stabilito su monte Basilone in una casa costruita intorno a una vecchia torre elettrica; ma forse Addison stava lì perché il posto era grazioso e vicino a San Clemente, dove lui conduceva i suoi traffici al riparo d’occhi indiscreti. Le case più recenti, ora, si trovavano giù nella valle, vicino ai campi coltivati, a giusta distanza dal fiume, e tutti avevano dato una mano a costruirle, tanto che sembravano quasi fatte in serie: scatole quadrate, montanti di ferro agli angoli, pareti di legno stagionato, tetto di legno o di lamiera o anche di tegole. Mettendone due insieme si aveva lo stabilimento per i bagni.

Giunto al fiume, mi sedetti cautamente e continuai a guardarmi intorno. Non riuscivo a saziarmi. Tutto mi sembrava familiare, eppure estraneo. Prima del viaggio a sud di Onofre, quella era solo la mia casa, un luogo naturale; le case, il ponte e i sentieri, i campi e le latrine, ne facevano parte quanto le scogliere, il fiume, gli alberi. Ma adesso vedevo la valle con occhi nuovi. Il sentiero. Un largo tratto polveroso di terra battuta che tagliava le erbacce, che curvava per superare l’angolo dell’orto dei Simpson, che si restringeva dove le rocce s’ammassavano ai lati… Seguiva quel percorso perché tutti avevano convenuto, quando la gente si era trasferita nella valle, che era la via migliore dal fiume ai campi meridionali. Il pensiero umano aveva creato quel sentiero. Guardai il ponte… rozze tavole su montanti d’acciaio, che superava il vuoto fra le basi di pietra delle rive. Gente che conoscevo aveva progettato, e costruito, quel ponte. E lo stesso valeva per ogni edificio della valle. Cercai d’immaginare il ponte com’era un tempo, in quanto parte delle cose di una volta, ma non ci riuscii. Quando si cambia, non si torna indietro. Niente sembra più lo stesso di prima.

Mentre tornavo a casa, con le braccia che mi dolevano per il peso dei secchi pieni, mi sentii afferrare rudemente da dietro.

«Ahia!»

«Sei tornato!» Era Steve Nicolin, con un sorriso tutto denti. «Dove te ne stai nascosto?»

«Sono tornato solo ieri notte» protestai.

Steve prese un secchio. «Be’, racconta.»

Risalimmo insieme il sentiero. «Sei tutto sderenato!» disse Steve. «Barcolli!»

Gli raccontai della corsa in treno a sud e della cena a casa del Sindaco. Steve socchiuse gli occhi, cercando d’immaginare la casa sull’isola, ma non ci sarebbe mai riuscito, mi dissi. Né potevo, solo a parole, trasmettergli l’impressione esatta. Quando gli parlai del viaggio di ritorno, della fuga a nuoto e di tutto il resto, posò il secchio nell’orto di Pa’ e mi afferrò per le spalle, scuotendomi e ridendo alle nuvole. «Saltato in acqua! Nella tempesta! Bravo, Henry, bravo davvero!»

«Incosciente, altro che bravo» dissi, massaggiandomi il braccio, mentre lui saltellava intorno al secchio. Ma ero compiaciuto.

Steve smise di saltellare e sporse le labbra. «Così questi giapponesi sbarcano nell’Orange County?»

Annuii.

«E il Sindaco di San Diego vuole che lo aiutiamo a farli smettere?»

«Esatto. Ma Tom non sembra molto entusiasta dell’idea.»

I cavolfiori avevano le lumache. Mi chinai cautamente a sbatterle via. Da vicino vedevo i danni che quegli animali nocivi avevano fatto a ciascuna testa. Erano cavolfiori ben miseri. Mandai un sospiro, ricordando le insalate alla cena del Sindaco.

«Sapevo che gli sciacalli macchinavano qualcosa» disse Steve, fissando il nord. «Ma aiutare i giapponesi è proprio spregevole. Gliela faremo pagare. E saremo la resistenza americana!» Agitò il pugno al cielo.

«Almeno una parte, comunque.»

L’idea lo trasportò in un mondo tutto suo; Steve vagò nell’orto, senza badarmi. Strappai qualche erbaccia, ispezionai il resto dei cavolfiori. Non era un buon lavoro.

Con aria indifferente Steve mi chiese: «Esci a pesca, oggi?»

«Non credo. Ho le braccia ancora così rigide che quasi non riesco a muoverle. Non sarei di alcun aiuto.»

«Be’, io invece fra poco devo andarci.» Steve si accigliò. «Ma parlami ancora di questo Sindaco.»

Così per un poco parlammo del viaggio e Pa si unì a noi nell’orto ad ascoltarmi. Steve se ne andò presto. Trascorsi il resto della giornata a sonnecchiare e stiracchiarmi nell’orto, cercando di sciogliermi i muscoli. Anche quella notte dormii come un ghiro. Il mattino dopo, Steve passò da casa mia per accompagnarmi alla foce. Gli uomini smisero di tirare in acqua le barche il tempo necessario a salutarmi e rivolgermi alcune domande. Quando John si avvicinò, smettemmo tutti di parlare e fingemmo di essere indaffarati, finché lui non passò oltre. A un certo punto mettemmo in acqua le barche; portarle al largo richiese tutta la nostra attenzione. I pescatori rimasero impressionati perché ero riuscito a nuotare di notte in quei marosi; a dire il vero, ero impressionato quanto loro: sentii tornare la paura, ma cercai di non darlo a vedere. Lontano, a sud, vedevo le lunghe linee curve dei marosi correre verso la riva, frangersi, rotolare sulla spiaggia bianca di spuma. Niente eguagliava una simile esibizione di potere incontrollato. Ero fortunato di essere sopravvissuto, maledettamente fortunato! Ricacciai il cuore al suo posto e strinsi i pugni per impedire che le mani mi tremassero.

Rafael voleva sentire tutto sui giapponesi. Mentre calavamo le reti, continuai il racconto; lui mi rivolse alcune domande e mi divertii. John si avvicinò in barca, ordinò a Steve di andare a pescare con la canna… e disse a me di restare lì a occuparmi delle reti. Steve salì sul canotto e remò verso sud; girando appena la testa ci lanciò un’occhiata di stizza.

E poi arrivò di nuovo il momento di uscire a pesca. Le barche si agitavano parecchio nel mare mosso, gli spruzzi brillavano al sole, le montagne verdi danzavano all’orizzonte, a nord e a sud. Calammo le reti (le braccia protestavano ogni volta che tiravo o lanciavo), le tendemmo in cerchio, le ritirammo piene di pesce. Remai, tirai reti, ammazzai pesce, mi ressi alla falchetta, parlai, mi massaggiai le braccia e, lanciando una volta un’occhiata al solito panorama della valle dal mare, credetti che la mia avventura fosse conclusa. Nonostante tutto, mi dispiaceva.

Terminata la pesca, portate a secco le barche, Steve e io trovammo tutta la banda in attesa in cima alla scogliera. Kathryn mi abbracciò, Del e Gabby e Mando mi diedero manate sulla schiena dolorante e guardarono con ahhh! e ohhh! di stupore i tagli e i lividi di cui ero pieno. Kristen e Rebel lasciarono i forni e si unirono a noi; tutti mi chiesero di raccontare la mia avventura. Mi sedetti e iniziai; per l’entusiasmo, procedevo a spizzichi, facevo lunghe pause d’effetto.

Era la terza volta, in due giorni: ormai facevo tesoro di certi giri di frase che sembravano rendere più avvincente il racconto. Ma era anche la terza volta che Steve Nicolin ascoltava; capivo, da come serrava le labbra e da come guardava lontano fra gli alberi, che si annoiava. Riconosceva tutte le frasi, mi frenava. Trovai nuove descrizioni, ma non faceva differenza. Così esposi gli avvenimenti più in fretta che potevo; Gab e Del saltarono su a tempestarmi di domande per sapere i particolari. Mentre rispondevo, Steve ascoltava, ma continuava a guardare fra gli alberi. Pur limitandomi ai fatti, avevo l’impressione di raccontare spacconate. Kathryn s’intrecciava le ciocche ribelli e m’incoraggiava con un commento qua e là; si era resa conto della situazione: la sorpresi a scoccare occhiatacce a Steve. Tornammo all’argomento San Diego; parlai loro di La Jolla, pensando che Steve non avesse ancora ascoltato quella parte del viaggio. Descrissi le rovine della scuola e il luogo dove stampavano libri; stavolta Steve ammorbidì la stretta delle labbra e mi guardò.

«… E poi, dopo averci mostrato ogni cosa, ha dato a me e a Tom due libri, uno ancora bianco, per scriverci, e uno stampato da poco, dal titolo» pausa d’effetto «Un americano intorno al mondo.»

«Cosa?» disse Steve. «Un libro?»

«Un americano intorno al mondo» ripeté Mando; assaporò le parole, a occhi spalancati.

Riferii quel che sapevo. «Questo tizio è andato a Catalina e da lì ha fatto il giro del mondo prima di tornare a San Diego.»

«Come?» chiese Steve.

«Non so. C’è scritto nel libro, ma non l’ho letto. Non abbiamo avuto tempo.»

«Perché non me ne hai parlato prima?»

Mi strinsi nelle spalle.

«Credi che Tom abbia già terminato di leggerlo?» chiese Mando.

«Non mi stupirebbe. Lui legge in fretta.»

Tutti annuirono. «Più in fretta di chiunque altro» dichiarò Mando.

Steve si alzò. «Henry, sai che ho già sentito la storia della nuotata, quindi scusami, ma vado a strapparlo di mano al vecchio, se riesco.»

«Stephen» cominciò Kathryn, con impazienza. La interruppi: «Certo, Steve.»

«Devo leggere quel libro. Se me lo procuro, lo leggeremo tutti insieme di mattina.»

«Ma prima di domani l’avrai già terminato» protestò Gabby.

«Steve» disse di nuovo Kathryn. Ma lui era già per strada e la zittì con un gesto, senza neanche girarsi.

Lo guardammo dirigersi in fretta all’autostrada. Continuai il racconto. Ma senza Steve, anche se era stato d’ostacolo, mi divertivo molto meno.

Era quasi il tramonto, quando terminai. Gabby e Del tornarono a casa. Mando e Kristen seguirono a ruota; sull’autostrada, Mando si avvicinò timidamente a Kristen e la prese per mano. Inarcai un sopracciglio. Kathryn lo notò e scoppiò a ridere.

«Già, gatta ci cova.»

«Dev’essere successo mentre ero via.»

«Ancora prima, credo; ma adesso sono più arditi.»

«Non è successo nient’altro?»

Kathryn scosse la testa.

«Steve come l’ha presa?»

«Oh… non troppo bene. Gli dava fastidio che tu e Tom foste via. I rapporti fra lui e John si sono fatti più tesi. Quei due…»

«Lo so.»

«Speravo che si calmasse, vedendoti tornare.»

«Può darsi che si calmi.»

Kathryn scosse la testa: sospettai che avesse ragione.

«Quelli di San Diego verranno di nuovo da queste parti, giusto? E poi, il libro. Non so cosa succederà, quando l’avrà letto.» Aveva un’aria spaventata che mi sorprese. Non ricordavo d’averla mai vista spaventata.

«È solo un libro» dissi debolmente.

Mi lanciò un’occhiata penetrante. «Quello scemo finirà per voler fare anche lui il giro del mondo. Lo so.»

«Non potrebbe.»

«Basta e avanza che lo voglia, per quanto mi riguarda.» Sembrava così amareggiata e sconsolata che mi venne voglia di chiederle cosa c’era fra lei e Steve. Certo non era solo la questione del libro. Ma esitai. Non erano affari miei, per quanto bene li conoscessi e per quanto curioso fossi.

«Meglio tornare a casa» disse Kathryn. Il sole scivolava sotto le montagne. La seguii fino al sentiero del fiume, guardandole la schiena e le ciocche ribelli. Varcato il ponte, lei mi mise il braccio sulle spalle e mi diede una stretta che mi strappò una smorfia di dolore. «Sono felice che tu non sia annegato, laggiù.»

«A chi lo dici!»

Si mise a ridere e se ne andò. Ancora una volta mi domandai cosa ci fosse fra lei e Steve… di cosa parlassero, eccetera. Come sempre, ero incuriosito soprattutto dalle cose che non potevo sapere. Anche se uno dei due avesse voluto parlarmene, non avrebbe potuto farlo… non c’era il tempo, e non c’era l’onestà.

Quella notte Steve era furibondo. «Non ha voluto darmi il libro! Ci credi? Ha detto di tornare domani.»

«Almeno ha intenzione di farcelo leggere.»

«Ma certo! E sarà meglio! Se non lo fa, lo prendo a pugni e glielo porto via! Non vedo l’ora di leggerlo. E tu?»

«Anch’io ne ho una gran voglia» ammisi.

«Credi che l’autore sia andato in Inghilterra? Così ne sapremmo di più sulla costa orientale. Mi auguro che ci sia andato.» Discutemmo di possibili percorsi e di questioni di viaggio, senza dati su cui basare le ipotesi, finché Pa’ non ci buttò fuori di casa, dicendo che era ora d’andare a dormire. Sotto il grande eucalipto (le foglie erano tutte bruciate dalla tempesta) ci accordammo per andare da Tom il giorno dopo, terminata la pesca, e costringerlo, con le cattive se occorreva, a darci il libro, perché eravamo fieramente decisi a rimediare in parte alla nostra ignoranza del mondo e quél libro sembrava il più adatto a farlo.


Il giorno dopo, quando arrivammo da Tom, senza fiato per la corsa, scoprimmo che Mando, Kristen e Rebel erano già lì. «Molla l’osso» ansimò Steve, entrando come una furia.

«Ehi, ehi» disse Tom, piegando la testa a fissare Steve. «Avevo una mezza idea di darlo prima a un altro.»

«Glielo strapperò di mano.»

«Be’, non so» disse Tom, strascicando le parole e guardando in giro per la stanza. «Hank avrebbe il diritto di precedenza. L’ha visto per primo, capisci?»

Come mettere sale sulla ferita. Steve s’imbronciò. Aveva un’aria estremamente seria, ma Tom lo guardò negli occhi ammiccando con l’innocenza di un agnello.

«Ah» disse. «Stammi a sentire, Steve Nicolin. Devo andare a lavorare un poco agli alveari. Ti presto il libro; ma anche gli altri vogliono leggerlo, perciò, prima di andartene, leggi ad alta voce un paio di capitoli. Anzi, leggi finché non torno, e dopo discuteremo le modalità del prestito.»

«Affare fatto» disse Steve. «Dammi il libro.»

Tom andò in camera da letto e tornò con il libro. Steve mandò un grido di trionfo e gli balzò addosso; vociarono e si spintonarono finché Steve non s’impadronì del libro. Tom prese l’equipaggiamento da apicoltore e disse: «Attenti, con le pagine.» Poi aggiunse: «E non piegate troppo la costola.» E cose del genere.

Appena Tom uscì, Steve sedette accanto alla finestra. «Bene, adesso comincio a leggere. Sedetevi e fate silenzio.»

E cominciò.


UN AMERICANO INTORNO AL MONDO
Ossia il resoconto di una circumnavigazione del globo durante gli anni dal 2030 al 2039, di GLEN BAUM.

Nacqui a La Jolla, figlio di un paese distrutto, e crebbi nell’ignoranza del mondo e delle sue condizioni; ma sapevo che c’era, e che me ne tenevano lontano. La sera del mio ventitreesimo compleanno, dalla cima di monte Soledad guardai la distesa smisurata dell’oceano. All’orizzonte, luci fioche ammiccavano, simili a stelle rosse, raggruppate come in una costellazione sulla gobba nera nelle tenebre, l’isola di San Clemente. Sotto quei puntini rossi camminavano senza mai mostrarsi gli stranieri che avevano solo il compito di tenermi lontano dal mondo, come se il mio paese fosse una prigione. D’un tratto mi resi conto di non poter più sopportare questa situazione e decisi su due piedi, prendendo a calci i sassi della cima fino a formare un cumulo a testimonianza del mio impegno, che sarei sfuggito alle restrizioni imposte su di me e avrei girato il globo per vedere quel che volevo. Avrei scoperto cos’era il mondo in realtà, avrei visto i cambiamenti occorsi in seguito alla grande devastazione del mio paese, sarei tornato e avrei riferito ai miei compatrioti quel che avevo visto.

Dopo qualche settimana di riflessione e di preparativi, mi ritrovai sul troncone del molo Scripps, insieme con mia madre in lacrime e con alcuni amici. Il piccolo sloop appartenuto a mio padre dondolava impaziente sulle onde. Salutai con un bacio mia madre, le promisi di tornare se possibile entro quattro anni, scesi la scaletta del molo e salii a bordo. Il sole era appena tramontato. Con una certa trepidazione mollai gli ormeggi e navigai nella notte.

Era una notte chiara; il vento Santa Ana soffiava debolmente dal quadrante di dritta e mi spingeva a buona velocità verso nordovest. Intendevo raggiungere l’isola di Catalina, anziché quella di San Clemente, perché correva voce che a Catalina si trovasse un numero di stranieri dieci volte superiore e anche l’aeroporto più grande. Nella barca portavo una buona giacca pesante, un involto con pane e formaggio di mia madre, e basta. Nient’altro di quel che potevo procurarmi a La Jolla mi sarebbe stato utile. In dieci ore attraversai il canale, mantenendo sempre la rotta.

A oriente strisce azzurre filtravano nel nero, quando mi avvicinai alla ripida costa di Catalina. Le montagne nere, segnate da nervature di un nero meno intenso, erano punteggiate di luci rosse, bianche, gialle, azzurre. Navigai intorno al capo meridionale dell’isola, con l’intenzione di prendere terra in una spiaggia adatta allo scopo e di camminare fino ad Avalon. Per mia sfortuna, il lato occidentale di Catalina sembrava formato da scogliere ripidissime e prive di spiaggia, assai diverse dagli analoghi tratti della costa di San Diego; era quel momento dell’alba in cui si distinguono i contorni ma non il colore delle cose. In quel mondo di sfumature grigie navigai seguendo la costa (al riparo dell’isola il vento era caduto), quando con sorpresa vidi contro la scogliera una vela, issata da un albero che non avevo notato. Subito cercai di virare verso il mare aperto, ma la barca bordeggiò lentamente davanti a me per intercettarmi. Meditavo se mi convenisse dirigermi alla scogliera e tentare lì la sorte, quando vidi che l’unica persona a bordo dell’altra barca era una ragazza dai capelli neri. Mi passò davanti e mise la sua imbarcazione in rotta parallela alla mia, poi mi si accostò, senza smettere di fissarmi.

«E lei chi è?» mi chiese.

«Un pescatore di Avalon.»

Scosse la testa. «Chi è lei?»

Dopo un attimo d’esitazione, scelsi la temerarietà e gridai: «Vengo dalla terraferma e vado ad Avalon e nel mondo!»

Lei m’indicò a gesti di ammainare la vela; eseguii l’operazione. Lei mi imitò e le nostre barche vennero a contatto. Pur bianca di pelle, la ragazza aveva lineamenti orientali. Le domandai se ci fosse una spiaggia dove prendere terra. Mi rispose che c’era, ma che tutte le spiagge erano pattugliate, come le coste dell’isola, da guardie che portavano in galera chi era privo di documenti.

Non avevo previsto questa difficoltà e non sapevo che cosa fare. Guardai l’acqua lambire le barche, poi dissi alle ragazza: «Non potrebbe aiutarmi?»

«Sì» rispose lei. «E mio padre le procurerà i documenti. Ecco, salga a bordo della mia barca. Bisogna abbandonare la sua.»

Controvoglia scavalcai le falchette, portando con me il fagotto. La barca di mio padre dondolò, vuota. Prima di staccarci, dall’altra barca presi un’accetta e squarciai il fondo della mia. Di nascosto mi asciugai una lacrima, mentre la guardavo affondare.

Nel doppiare il capo meridionale per avvicinarci ad Avalon, la ragazza «si chiamava Hadaka» mi disse di nascondermi sotto il pesce sul fondo della barca. Aveva fatto pesca notturna e catturato un buon numero di prede il cui contatto mi metteva a disagio: anguille, calamari, squali grigi, scorpene, polpi, tutti alla rinfusa. Ma seguii il suo consiglio. Rimasi disteso, respirando a fatica, immobile come i pesci morti che mi ricoprivano, mentre lei si fermava all’ingresso del porto di Avalon e veniva interrogata in giapponese. Entrai ad Avalon, con un polpo sul viso.

Quando Hadaka ebbe ormeggiato la barca, saltai fuori e mi comportai come se fossi il suo aiutante. «Lasci lì i pesci» disse la ragazza, quando furono coperti. «Svelto, venga a casa mia.»

Percorremmo una strada ripida, passando davanti a mercati appena aperti. Mi sentivo al centro dell’attenzione, non foss’altro per come puzzavo di pesce; ma per fortuna nessuno badò a noi. Su fra le colline che circondano la città, varcammo senza farci scorgere un cancello e ci trovammo nel piccolo giardino davanti alla casa della sua famiglia.


A oriente il sole colpì il suolo dell’America e splendette su di noi. Mi ero lasciato alle spalle il mio paese, per la prima volta in vita mia ero in terra straniera.


«Bene, questo era il primo capitolo» disse Steve. «Lui si trova a Catalina!»

«Leggi ancora!» esclamò Mando. «Vai avanti!»

«Basta così» disse Tom dalla porta. «È tardi, ho bisogno di pace e riposo.» Tossì, posò in un angolo l’attrezzatura da apicoltore. Ci indicò di uscire: «Nicolin, puoi tenere il libro quanto basta e leggerlo…»

«Uau!»

«Calma, calma. Quanto basta a leggerlo agli altri qui presenti.»

«Bene» disse Mando, con un’occhiata avida al libro.

«Sarà divertente» disse Kristen; e guardò Mando.

«D’accordo» convenne Steve. «E poi, mi piace leggere ad alta voce.»

«Bene, allora andate a casa a cena. Tutti!»

Tom ci cacciò fuori, non senza rivolgere a Steve terribili avvertimenti sulle conseguenze di eventuali danni al libro. Steve rise e ci precedette giù lungo il sentiero del costone, reggendo alto il libro, con aria di trionfo. Guardai in direzione di Catalina, stimolato dalla curiosità; ma le nuvole m’impedirono di scorgerla. Sull’isola c’erano degli americani! Avevo una gran voglia d’andarci anch’io. Con la punta del piede malandato urtai un sasso; mandai un gemito di dolore e riportai l’attenzione al sentiero. In basso, nel punto in cui si biforcava, ci fermammo e decidemmo di riunirci il pomeriggio seguente a leggere altre pagine del libro.

«Vediamoci ai forni» disse Kristen. «Kathryn vuole fare un’infornata completa, domani.»

«Dopo la pesca» assentì Steve e scantonò lungo il sentiero della spiaggia, tenendo in alto il libro.


Ma il giorno seguente, dopo la pesca, Steve non era altrettanto allegro. John continuava a tormentarlo per chissà quali motivi e, tirate a secco le barche, gli ordinò di aiutare a dividere il pesce e a pulirlo. Steve si bloccò, immobile come una roccia, a fissare il padre, finché non gli rifilai una gomitata e lo spinsi via.

«Avverto gli altri che farai tardi» dissi; e lo lasciai sulla scogliera prima che sfogasse su di me la rabbia, con qualcosa di più di una semplice occhiataccia.

Su ai forni, Kathryn aveva messo le ragazze al lavoro: Kristen e Rebel pompavano i mantici, rosse per lo sforzo, striature di farina nei capelli. Kathryn e Carmen Eggloff preparavano tortillas e pagnotte e le disponevano sulle teglie. Sopra i forni di mattoni, l’aria tremolava per il calore. Dietro l’angolo della casa dei Mariani, la signora M. aiutava altre ragazze a impastare farina d’orzo. Kathryn smise di comandare a bacchetta Kristen e Rebel quanto bastava a salutarmi. «Vatti a sedere» mi disse, quando le riferii che Steve avrebbe tardato. «Tanto, Mando e Del non sono ancora arrivati.»

«Gli uomini sono sempre in ritardo» commentò da dietro l’angolo la signora Mariani. Si divertiva a stare in compagnia delle ragazze a spettegolare. «Henry, dov’è la tua amica Melissa?» mi chiese, con la speranza di mettermi in imbarazzo.

«Non l’ho ancora vista, da quando sono tornato» risposi con disinvoltura.

Rebel e Carmen discutevano. «Non posso credere che Jo sia così stupida da restare di nuovo incinta» disse Carmen. «È una vergogna.»

«No, se ne farà uno giusto» obiettò Rebel.

«Ne ha fatti quattro di fila, uno peggio dell’altro. Un segno da non trascurare.»

«Ma è dura non avere niente da mostrare, dopo tante gravidanze» disse Rebel.

«Erano malfatti» disse Carmen. «Veramente malfatti.»

«Li crea Dio anche loro» replicò Rebel, mettendo il broncio.

«Lui non li fa deformi» obiettò Carmen. «È colpa delle radiazioni; e sono sicura che Dio non approva. Quando nascono deformi, è una benedizione per loro rimandarli al Creatore e lasciare che Lui ci provi di nuovo. Se li lasciamo in vita, saranno un peso per se stessi, oltre che per noi. Non so come fai a non capirlo, Rebel.»

Rebel scosse la testa ostinatamente. «Sono tutti figli di Dio.»

«Ma sarebbero un peso» intervenne Kathryn, in tono pragmatico. «Bisogna capire che non si deve avere un figlio fin dopo il giorno dell’imposizione del nome.»

«Non ne abbiamo il diritto» disse Rebel. «E se fossi nata tu, con un braccio solo? Avresti avuto ugualmente il cervello e l’iniziativa per riportare il pane in questa valle. Il tuo talento non è nel corpo.»

«Il pane l’ha riportato il lievito, non io» disse Kathryn, cercando di alleggerire la tensione.

«Ma se li lasciamo vivere» continuò Carmen «metà della valle sarebbe di menomati. E la generazione successiva rischierebbe di non sopravvivere.»

«Non ci credo» disse Rebel. Sua madre, dopo Del e lei, aveva avuto quattro figli deformi: per questo Rebel era molto sensibile all’argomento. Credo che sentisse la mancanza di quei mocciosi. Ma Carmen era altrettanto ferma nell’altro senso. Toccava a lei e a Doc prendere la decisione; secondo me non le piaceva nemmeno che se ne parlasse. Kathryn capì che cominciavano a scaldarsi, notò il mio interesse e preferiva, credo, che non facessi da spettatore. Disse: «Forse Jo non aveva intenzione di restare incinta.»

«Ah, ne sono sicura» intervenne la signora Mariani, con un sorrisetto compiaciuto. «Marvin Hamish non è tipo da badare troppo al calendario.»

Risero tutte, anche Rebel e Carmen. Poi arrivarono Mando e Del. Il discorso si spostò sulla qualità del grano di quell’anno. Kathryn era depressa: la tempesta che per poco non mi aveva ucciso aveva avuto maggiore successo con buona parte delle messi.

Poi arrivò Steve. Abbracciò Kathryn sollevandola da terra e si pulì le mani che gli si erano infarinate.

«Katie, sei tutta sporca!» esclamò.

«E tu puzzi di pesce» lo rimbeccò lei.

«Nient’affatto. Bene, è il momento del secondo capitolo di questo magnifico libro.»

«Prima bisogna infornare le teglie» disse Kathryn. «Puoi darci una mano.»

«Ehi, ho terminato la giornata di lavoro.»

«Vieni qui e datti da fare» ordinò Kathryn. Steve ubbidì controvoglia e tutti quanti aiutammo a infornare le teglie.

«Una padrona davvero inflessibile» la prese in giro Steve.

«Chiudi il becco e guarda quel che fai» lo rimbeccò Kathryn.

Infornate le teglie, ci mettemmo a sedere. Dalla tasca della giacca Steve prese il libro e ricominciò a leggere.


Capitolo II: L’isola internazionale.

Fra due cespugli di rose pieni di boccioli gialli c’era una donna bianca, alta, con un paio di cesoie da giardinaggio. Anche se non si somigliavano molto, era la madre di Hadaka. Quando mi vide, la donna fece scattare a vuoto le cesoie, con un gesto di rabbia.

«E lui chi è?» disse, mentre Hadaka abbassava la testa. «Ne hai portato a casa un altro, stupida?»


«Ecco come si procura gli amici» commentò Rebel, fra le risa delle ragazze. «Non male, come metodo!»

«Proprio quel che si dice pescare uomini» convenne Carmen.

«Silenzio!» ordinò Steve. E continuò.


«L’ho visto fare vela verso la spiaggia proibita, madre. E ho capito che proveniva dalla terraferma…»

«Basta così! Questa storia l’ho già sentita.»

Intervenni. «Sono profondamente grato a sua figlia e a lei per avermi salvato la vita.»

«In questo modo non fai che incoraggiare tuo padre» sbraitò la madre di Hadaka. E poi, a me: «Non l’avrebbero uccisa, a meno che non tentasse la fuga».


«Vedi?» disse Kathryn a me. «Avrebbero potuto ucciderti, quando ti sei buttato dalla loro nave. Hai corso un rischio maggiore che non restando a bordo.»

«Ah, be’…» cominciai.

«Piantatela» disse Steve. Era stufo di sentir parlare della mia avventura, questo era certo. Mando aggiunse: «Per favore!» Aveva una voglia matta di conoscere la storia del libro: gli piaceva davvero. Steve annuì con un gesto d’approvazione e riprese a leggere.


Le cesoie tagliarono l’aria. «Entri e si dia una ripulita» mi disse. Arricciò il naso, quando le passai accanto; non potevo darle torto, visto quant’ero sporco e irsuto. Mi sentivo un barbaro. Dentro la stanza da bagno dalle pareti a piastrelle, mi lavai sotto una doccia che forniva acqua di varie temperature, dal gelido al bollente, a seconda del desiderio di chi la usava. La signora Nisha (scoprii che questo era il loro cognome) mi portò degli abiti e mi mostrò come usare un rasoio che ronzava. Quando fui presentabile, mi ammirai in uno specchio perfetto: calzoni grigi, camicia azzurro vivo… un vero cosmopolita.

Il padre di Hadaka, rientrando in casa, si mostrò meno sconvolto della moglie per la mia presenza. Il signor Nisha mi esaminò da tutte le parti e mi strinse la mano; in un inglese aspro m’invitò a sedere con la famiglia. Era giapponese, forse non l’ho ancora detto, e somigliava molto a Hadaka, anche se era più scuro di pelle. Era anche molto più basso della signora Nisha.

«Devo procurare a te documenti» disse, quando Hanaka gli raccontò la storia del mio arrivo. «Io procuro documenti e tu lavori per me un poco. D’accordo?»

«Affare fatto.»

Mi pose mille domande e poi altre mille. Gli raccontai tutto di me, inclusi i progetti. A quanto pareva, nell’incontrare Hadaka ero stato più fortunato di quanto ancora non sapessi, perché il signor Nisha era impiegato nell’amministrazione giapponese delle Isole del Canale e lavorava nel dipartimento responsabile degli americani che vivevano in quella zona. Nell’ambito del suo lavoro aveva conosciuto la signora Nisha, che aveva attraversato come me il canale una ventina d’anni prima. Il signor Nisha aveva anche lo zampino come minimo in una decina di altre attività, per la maggior parte illegali, anche se mi occorse un paio di settimane per capirlo. Ma quella notte stessa capii che era un individuo assai intraprendente e mi presi la pena di fargli intuire che l’avrei servito in ogni modo possibile. Quando lui terminò d’interrogarmi, tutti e tre m’accompagnarono al giaciglio nel capanno del giardino e mi ritirai di buonumore.

Entro una settimana avevo documenti da cui risultava che ero nato a Catalina e vi ero sempre vissuto, al servizio dei giapponesi. Da quel momento, potevo lasciare liberamente la casa dei Nisha. Il signor Nisha mi affidò dei lavori: andavo a pesca con Hadaka, strappavo le erbacce in giardino. In seguito, terminato questo periodo di prova, mi mandò nelle vie di Avalon a scambiare con gente a me sconosciuta pesanti pacchetti avvolti in carta marrone, oppure ad accompagnare in città giapponesi sbarcati all’aeroporto nell’interno dell’isola, ovviamente evitando loro il fastidio dei vari posti di controllo.

Non bisogna credere che queste e altre attività clandestine assegnatemi dal signor Nisha fossero insolite ad Avalon. La città brulicava di rappresentanti di qualsiasi razza, credo e nazione; dal momento che, per disposizione delle Nazioni Unite, l’isola doveva essere usata solo dai giapponesi e all’unico scopo di mantenere in quarantena la costa americana, era chiaro che la presenza di parecchi visitatori era illegale. Ma funzionari come il signor Nisha erano numerosi, e li si trovava a tutti i livelli, sia nell’isola di Catalina sia nelle Hawaii, il porto d’ingresso per l’America occidentale. Quasi tutti, in città, avevano documenti che autorizzavano la loro presenza sull’isola ed era impossibile dire quali fossero contraffatti o comprati; ma, girando per le vie, vidi gente vestita secondo tutti gli stili, con tratti somatici orientali o messicani, o con pelle nera come il carbone: nell’amministrazione giapponese qualcosa non funzionava.

Approfittavo di ogni occasione per scambiare due chiacchiere con gli stranieri, grazie alle poche parole di giapponese che conoscevo, e per ascoltare alcune singolari versioni della lingua inglese. Gli unici individui con cui ero cauto nell’attaccare bottone erano quelli che avevano l’aspetto di americani: ma anche loro, notai, non avevano molta voglia di parlare con me. C’erano buone probabilità che pure loro fossero profughi, impegnati in chissà quale impresa disperata per rimanere ad Avalon; correva anche voce che un buon numero di costoro lavorasse per la polizia. Di fronte a questi rischi, sembrava più opportuno ignorare qualsiasi sentimento di fratellanza.

La zona vecchia di Avalon era rimasta in gran parte tale e quale ai vecchi tempi, mi dissero: piccole case intonacate, sul fianco della montagna che scendeva fino alla piccola baia utilizzata come porto. Erano state costruite banchine per allargare il porto; nuove costruzioni si riversavano sulle montagne a nord e a ovest, centinaia di edifici in stile giapponese, con spesse travi, pareti sottili, tetto a punta coperto di tegole. Tutta l’isola aveva nuove strade asfaltate, fiancheggiate da bassi muretti di pietra che dividevano i terreni in appezzamenti simili a parchi, nei quali sorgevano quegli enormi edifici che i giapponesi chiamano dacie. Lì vivevano i funzionari delle Nazioni Unite e dell’amministrazione giapponese. Le dacie sul lato occidentale dell’isola erano più piccole; quelle davvero grandi fronteggiavano la terraferma, perché la vista dell’America era tenuta in grande pregio. Le dacie più grandi di tutte, almeno così ho sentito, si trovavano sul lato orientale dell’isola di San Clemente: le luci da me viste la notte in cui decisi di circumnavigare il globo.

Trascorsero alcune settimane. Viaggiai in automobile sulle strade bianche, guidai io stesso una volta e a momenti andai a sbattere contro un muro; quando l’automobile si muove, crea un forte spostamento d’aria e tutto scorre via un po’ troppo rapidamente per i riflessi umani.


«Non hai detto di avere provato la stessa impressione, sul treno?» intervenne Rebel, rivolgendosi a me.

«Verissimo» risposi. «Vai così forte che ti sembra di tagliare l’aria. Per fortuna non occorreva guidarlo, altrimenti saremmo andati a sbattere almeno cento volte.»

«Zitti!» esclamò Mando. Steve continuò, troppo interessato al racconto per alzare gli occhi dalla pagina.


Vidi le gigantesche macchine volanti, i jet, atterrare all’aeroporto come pellicani e decollare con un ruggito che quasi faceva scoppiare le orecchie. E intanto eseguivo parecchi lavori a profitto del signor Nisha. Quando cominciò a fidarsi completamente di me, mi chiese se potevo guidare a San Diego una spedizione notturna, composta di cinque uomini d’affari giapponesi in visita a Catalina proprio a questo scopo. Ero riluttante a tornare sulla terraferma, ma il signor Nisha propose di dividere con me la tariffa che applicava per questi viaggi, una cifra enorme. Valutai i vantaggi e accettai.

Così una notte mi ritrovai a tornare a San Diego, in una barca a motore, e a dare istruzioni al pilota, Ao, l’unica persona a bordo che parlasse inglese. Ao sapeva quale percorso avrebbero seguito quella notte le navi di pattuglia lungo la costa e mi garantì che non ci sarebbero state interferenze. Lo indirizzai a un approdo nella parte interna di Point Lorna, condussi i turisti alle rovine del piccolo faro e li portai fra i vialetti del piccolo cimitero navale, fiancheggiati di croci bianche: un cimitero così vasto che si sarebbe detto contenesse tutti i morti della grande devastazione. All’alba ci nascondemmo in una casa abbandonata; per tutto il giorno i cinque uomini d’affari giapponesi fecero scattare le loro grosse macchine fotografiche puntandole sul profilo dentellato del centro città e sul porto distrutto. La notte tornammo ad Avalon e mi sentii ragionevolmente soddisfatto dell’impresa.

Dopo la prima, guidai altre quattro spedizioni a San Diego, con buon guadagno e senza difficoltà, tranne l’ultima, durante la quale mi lasciai convincere, nonostante il mio parere contrario, a guidare di notte la motobarca nella foce del Mission River. I miei lettori di San Diego sanno certo che la foce del Mission è ostruita dai detriti, scorre sopra un paio di vecchi moli e di vecchie strade, cambia percorso ogni primavera e in genere è una delle foci più turbolente, bizzarre e pericolose che esistano. Ora, quella notte l’oceano era liscio come una tavola, ma il giorno prima era piovuto a dirotto e l’acqua turbinava sui blocchi di cemento della foce come quella di una cascata. Un nostro cliente, sotto il peso della macchina fotografica (hanno macchine che fotografano anche di notte), cadde fuori bordo e io mi tuffai per soccorrerlo. Occorse un mucchio di fatica, da parte mia e di Ao, per riunirci tutti e trovare scampo in mare. In una barca a vela saremmo annegati, e io ero abituato alle barche a vela.

Da quella volta non fui più molto entusiasta all’idea di guidare altre spedizioni. E avevo accumulato, grazie alla generosità del signor Nisha, un buon gruzzolo. Due notti dopo la spedizione del disastro, durante una grande festa in una dacia di lusso sulle pendici orientali dell’isola, l’uomo a cui avevo salvato la vita mi propose, nelle sue dieci parole d’inglese, di entrare al suo servizio e di accompagnarlo in Giappone. Evidentemente Ao gli aveva parlato di quanto desideravo vedere il mondo e lui desiderava ripagarmi per avergli salvato la vita.

Condussi Hadaka in giardino, fra i cespugli sagomati ad arte; ci sedemmo davanti alla fontana illuminata che gorgogliava nella terrazza inferiore. Mentre guardavamo la massa scura del continente, le parlai dell’occasione che mi si presentava. Con un bacio da sorella maggiore (un paio di volte ci eravamo scambiati baci di natura differente…


«Figuriamoci se non l’avevano fatto!» esclamò Rebel e le ragazze risero.

Kathryn imitò la voce di Steve: «… e mi preparai a dire alla mia cara madre, giù a casa, che i suoi nipotini sarebbero stati per un quarto giapponesi…»

«Niente interruzioni!» gridò Steve, ma ormai tutti ridevamo a crepapelle. «Continuo subito!»


E riprese.


… (un paio di volte ci eravamo scambiati baci di natura differente, ma non provavo per lei un’attrazione tanto forte da rischiare la collera del signor Nisha)…


«Oh, il vigliaccone!» esclamò Kristen. «Che coniglio!»

«Un momento» obiettò Steve. «Quest’uomo ha in mente una mela, vuole andare in giro per il mondo. Non può fermarsi a Catalina. Voi ragazze pensate solo al lato romantico della storia. Adesso state zitte, o smetto di leggere.»

«Per favore!» supplicò Mando. «Voglio sapere cosa accade dopo.»


… Hadaka mi disse che sarebbe stato meglio per tutti se avessi colto al volo l’occasione e fossi partito; anche se i Nisha non me l’avevano fatto capire, la mia permanenza a casa loro non era del tutto sicura: era sempre possibile dimostrare che avevo documenti contraffatti e in questo caso il signor Nisha si sarebbe trovato in guaì grossi. Capii allora che proprio per questo lui m’aveva dato una parte così grossa del guadagno dei viaggi sul continente: alla fine avrei avuto il necessario per andarmene. Mi dissi che era una famiglia generosissima e che avevo avuto una grande fortuna a incontrarla.

Perciò tornai dentro la dacia, evitai le ragazze americane nude che offrivano a tutti bevande e sigarette, e dissi al mio benefattore, signor Tasumi, che accettava la proposta. Poco dopo rivolsi un triste saluto alla mia famiglia di Catalina. Quando avevo lasciato mia madre e gli amici, a San Diego, avevo potuto dire sinceramente che avrei cercato di tornare; ma cosa potevo dire ai Nisha? Baciai madre e figlia, abbracciai il signor Nisha e in un sincero conflitto d’emozioni andai all’aeroporto per imbarcarmi in un viaggio a diecimila chilometri sopra lo smisurato oceano Pacifico.


«Qui finisce il secondo capitolo» disse Steve, chiudendo il libro. «Si è messo in moto.»

«Leggi ancora!» supplicò Mando.

«Ora no.» Steve lanciò un’occhiata acida alle donne, che toglievano dal forno le teglie. «È quasi ora di cena, mi pare.» Si alzò, scosse la testa verso di me e di Mando. «Queste ragazze non sanno apprezzare un buon libro» si lamentò.

«Quante storie!» disse Kathryn. «Che divertimento c’è a leggerlo insieme, se non possiamo parlarne?»

«Non lo prendete seriamente.»

«Cosa significa? Forse non lo prendiamo troppo seriamente.»

«Vado a casa» disse Steve, di cattivo umore. «Vieni, Hank?»

«Torno a casa anch’io. Ci vediamo domattina.»

«Tom vuole che domani sera ci sia una riunione pubblica in chiesa» disse Carmen. «Lo sapevate?»

Nessuno di noi ne era informato. Stabilimmo di trovarci prima della riunione per leggere un altro capitolo.

«Cosa riguarda la riunione?» chiese Steve.

«San Diego» rispose Carmen.

Steve si bloccò.

«Tom vorrà discutere la faccenda dell’aiuto a quelli di San Diego per combattere i giapponesi» dissi. «Te ne avevo parlato.»

«Ci sarò» garantì Steve, aspro; e se ne andò. Aiutai Kathryn a staccare dalle teglie le pagnotte. Ne portai una a Pa’; mentre la sbocconcellavo, mi chiedevo quanti giorni occorrevano per volare fin dall’altra parte dell’oceano.

12

In genere le riunioni si tenevano nella chiesa di Carmen, ma questa volta lei e Tom avevano infastidito tutte le persone della valle, spingendole a partecipare (Tom era perfino andato nell’interno, a sollecitare Roger lo Strambo), per cui la chiesa, uno stretto edificio simile a un fienile, nel pascolo degli Eggloff, non bastava a contenerci; ci saremmo riuniti nello stabilimento per i bagni. Pa’ e io ci andammo per tempo e aiutammo Tom ad accendere il fuoco. Mentre portavo dentro la legna, dovetti scansare Roger lo Strambo, che ispezionava il pavimento e le pareti in cerca di bruchi, uno dei suoi cibi preferiti. Guardando Roger, Tom scosse la testa. «Non so se valeva la pena trascinarlo fin qui» disse. Sembrava meno entusiasta di quanto m’aspettassi e insolitamente silenzioso. Da parte mia, non stavo nella pelle: quella sera ci saremmo uniti alla resistenza, finalmente saremmo tornati a far parte dell’America.

Fuori il cielo della sera era striato di nubi sfilacciate che riflettevano ancora un po’ di luce; un vento sostenuto soffiava dal mare. La gente chiacchierava e rideva, mentre si avvicinava allo stabilimento; qua e là delle lanterne brillavano fra gli alberi. In fondo al campo di patate dei Simpson, i cani imploravano con ululati patetici di unirsi a noi. Giunse Steve, con fratelli e sorelle. Ci sedemmo sui teloni impermeabili. «Così vidi che il pescecane aveva spalancato la bocca enorme ed era sul punto di ingoiarmi» diceva Steve ai fratelli. «Gli infilai il remo fra le fauci per impedirgli di mordermi. Ma dovevo mantenere la presa sul remo, per non farmi risucchiare sotto, e non avevo più aria nei polmoni. Dovevo escogitare subito qualcosa.»

Poi, dalla curva del sentiero del fiume, spuntarono John e la signora Nicolin e i loro figli s’affrettarono a entrare. Marvin e Jo Hamish attraversarono il ponte; per nascondere il ventre sempre più grosso, Jo indossava un camicione bianco che si gonfiava al vento. Ricordando la conversazione ai forni, mi domandai che cosa le crescesse dentro, questa volta. E poi veniva gente da ogni parte, scendeva allo stabilimento da tutte le direzioni. Un branco di bambini dei Simpson e dei Mendez comparve da dietro l’angolo delle alture a grano, precedendo i padri che si consultavano sottovoce. Rafael, Mando e Doc scesero dalla montagna al di là del fiume; dietro di loro c’erano Add e Melissa Shanks. Agitai il braccio per salutare Melissa e lei mi rispose: i suoi capelli neri fluttuavano nel vento. Poco dopo Carmen e Nat Eggloff uscirono dai boschi, portando insieme una grossa lanterna e discutendo, mentre Manuel Reyes e famiglia si affrettavano dietro di loro per approfittare della luce. Sembrava un raduno di scambio infilato a forza nello stabilimento: quando vennero i Mariani, pensai che la capienza massima fosse ormai superata. Ma fuori faceva freddo. Rafael prese il comando e disse a tutti di sedersi: gli uomini contro le pareti; i bambini piccoli in braccio alle madri; la nostra banda in una delle vasche vuote. Alla fine tutta la popolazione della valle era stipata come pesce in una cassetta pronta per il mercato. Lanterne furono appese alle pareti e grossi ceppi furono accesi nel focolare: la stanza risplendeva come mai durante i bagni. Il chiacchiericcio era così forte che i bambini più piccoli cominciarono a strillare e a piangere; il resto di noi era quasi altrettanto emozionato, perché non ci riunivamo mai a quel modo, tranne a Natale e nelle rare riunioni della valle.

Tom gironzolò un poco, parlando con gente che non vedeva da parecchio. Intanto richiamò tutti all’ordine, ma lo scambio di convenevoli continuò nonostante i suoi annunci e anche altri si misero a girare e a discutere, imitandolo. Tuttavia la maggior parte aveva solo domande; e quando Marvin chiese a Tom: «Allora, qual è lo scopo di questa riunione?», la domanda fu ripresa da molti e il locale divenne più silenzioso.

«Benissimo» disse Tom, rauco. Iniziò a parlare del nostro viaggio a San Diego. Seduto sul bordo della vasca, guardai gli altri. Avevo l’impressione che fosse trascorso un mucchio di tempo da quando Lee e Jennings erano entrati in quella stanza dicendo che avevano rimesso in funzione la ferrovia. E mi pareva impossibile che solo alcune settimane racchiudessero tutti gli avvenimenti accaduti da allora… e mi avessero cambiato a quel modo. Mi sentivo una persona diversa, ma non sapevo esattamente fino a che punto, né che cosa significava per me il cambiamento. Era solo una sensazione, un disagio, un’incertezza, un’ignoranza… come se dovessi imparare tutto da capo. Non mi piaceva.

Da come la raccontò Tom, quelli di San Diego sembravano sciocchi o buoni a nulla, allo stesso livello degli sciacalli. Per cui di tanto in tanto mi sentii in dovere d’intervenire per esprimere anche la mia opinione… per parlare a tutti delle batterie e dei generatori elettrici, della radio guasta, del fabbricante di libri, del sindaco Danforth. Non era bello discutere davanti a tutti, ma secondo me era giusto che gli altri conoscessero anche il mio punto di vista, perché Tom era contro quelli del sud. Dissentì con forza, quando continuai a parlare del Sindaco.

«Henry» disse «lui vive in grande stile perché ha un gruppo di uomini che pensano solo ad aiutarlo a mandare avanti le cose, tutto qui. Solo questo gli dà il potere di mandare emissari a est, per contattare le altre città.»

«Può darsi» replicai. «Ma tu racconta a tutti quel che hanno trovato a est.»

Tom annuì e si rivolse agli altri. «Secondo lui, i suoi uomini sono arrivati fino all’Utah e tutti i villaggi dell’interno si sono uniti in un movimento chiamato resistenza americana. La resistenza, dicono, vuole unificare di nuovo l’America.»

Quelle parole zittirono tutti. Dalla parete accanto alla porta, John Nicolin ruppe il silenzio. «E allora?»

«Allora» continuò Tom «vuole che ci uniamo anche noi a questo grandioso progetto, aiutando quelli di San Diego a combattere i giapponesi a Catalina.» Riferì la lunga discussione con il Sindaco. «Ora sappiamo perché il mare getta sulla nostra spiaggia cadaveri di orientali. Ma è chiaro che non hanno smesso di scendere a terra; e ora quelli di San Diego vogliono il nostro aiuto per liberarsene per sempre.»

«Cosa intendono esattamente per aiuto?» chiese la signora Mariani.

«Be’…» Tom esitò. Intervenne Doc.

«Il permesso di usare la foce del nostro fiume come base per i loro attacchi.»

Nello stesso momento Recovery Simpson, padre di Del e di Rebel, disse: «Significa che finalmente avremmo fucili e potenziale umano per fare qualcosa contro la sorveglianza continua a cui siamo sottoposti.»

Entrambe le opinioni suscitarono reazioni e la discussione si frammentò in un mucchio di piccoli battibecchi. Non intervenni, ma ascoltai e cercai di scoprire come ciascuno la pensava. Anche un gruppo piccolo come il nostro poteva essere diviso in gruppi ancora più piccoli. Recovery Simpson e il vecchio Mendez erano a capo delle famiglie che svolgevano gran parte del lavoro nell’entroterra, ossia andavano a caccia, piazzavano le trappole e curavano le greggi; Nat, Manuel e i pastori erano pronti a seguire in genere l’imbeccata di Simpson. Poi c’erano i contadini. Ognuno coltivava un pezzo di terra, ma Kathryn dirigeva tutte le donne che curavano i raccolti importanti. I pescatori di Nicolin erano il terzo gruppo principale, che comprendeva tutti i Nicolin, gli Hamish, Rafael e me; infine c’erano coloro che non rientravano in alcun gruppo, come Tom, Doc, mio padre, Addison, Roger lo Strambo. In un certo senso si trattava di falsi raggruppamenti, perché ciascuno faceva un po’ di tutto. Ma per un po’ credetti d’avere notato qualcosa; i cacciatori, il cui lavoro somigliava già al combattimento, sembravano a favore della resistenza, mentre i contadini, per i quali era necessario che le cose fossero sempre le stesse anno dopo anno (e che comunque erano per la maggior parte donne) si sarebbero dichiarati contro. Aveva senso, per me: ed ero sicuro che la presa di posizione dei Nicolin avrebbe determinato l’esito. Ma poi notai che c’erano tante eccezioni quanti erano gli esempi a conferma; non fui più sicuro di capire che cosa succedeva.

Doc fu uno dei primi a darmi una delusione. Era vecchio quasi quanto Tom; durante i raduni di scambio, al tavolo degli anziani, sosteneva sempre che l’America era stata tradita da coloro che non volevano combattere. Mi era sembrato ovvio che continuasse a dissentire da Tom e sostenesse la necessità di unirci a quelli di San Diego nella lotta. Ma lui si alzò a dire: «Mi ricordo di un tempo, quando alla gente di Gabino Canyon fu chiesto di unirsi a quella di Cristianitos, che combatteva contro Talega per i pozzi di Four Canyon Flat. Quelli di Gabino accettarono; ma alla fine, ai raduni non c’era più gente di Gabino: solo di Cristianitos. In altre parole, i villaggi grossi tendono a inghiottire quelli più piccoli. Henry può dirvi che a San Diego ci sono centinaia di persone…»

«Ma noi non siamo solo gli abitanti del canyon accanto» obiettò Steve. «Fra noi e loro ci sono chilometri e chilometri. E poi, dovremmo combattere davvero i giapponesi. Ogni villaggio dovrebbe far parte della resistenza, altrimenti non ci sono speranze.» Aveva parlato con veemenza; parecchi annuirono, ignorando i discorsi intorno a loro. Steve aveva presenza, d’accordo. La sua voce colpiva l’orecchio.

«I chilometri non significheranno niente, se la ferrovia tornerà in funzione» rispose Doc. Quindi era contrario all’unione. Stupito, stavo per chiedergli come mai si rimangiava tutti i discorsi fatti ai raduni, proprio quando aveva la possibilità di passare ai fatti; ma Tom, a voce alta, dichiarò: «Ehi! Parliamo uno per volta.»

Rafael approfittò del momento di silenzio. «Dovremmo combattere i giapponesi ogni volta che l’occasione si presenta» sostenne. «Affrontiamo la realtà: ci circondano. Siamo come pesci in una rete a sacco. E non solo ci tengono lontano dal resto del mondo, ma anche separati gli uni dagli altri, bombardando ferrovie e ponti.»

«Abbiamo solo la parola di quelli di San Diego» obiettò Doc. «Siamo sicuri che dicano la verità?»

«Certo che la dicono!» replicò Mando, indignatissimo. Agitò il pugno in direzione di suo padre. «Henry e Tom hanno visto le bombe colpire la ferrovia.»

«Può darsi» concesse Doc. «Ma non significa che tutto il resto sia vero. Forse volevano solo spaventarci, spingerci a chiedere aiuto. Il sindaco di San Diego penserà di essere anche sindaco di Onofre, non appena ci uniremo a loro.»

«Ma cosa può farci?» disse Recovery. Gli altri cacciatori annuirono. Recovery avanzò di un passo per intervenire nella discussione fra Doc e Mando. «Significa solo che tratteremo con un altro villaggio, proprio come trattiamo con tutti i villaggi che vengono ai raduni.»

Doc piombò sulla tesi di Cov come un pellicano su un pesce. «Tutto il contrario! San Diego è molto più grande di noi: loro non si limiteranno a fare scambi. Come hai detto tu, Cov, hanno un mucchio di fucili.»

«Ma non spareranno a noi» disse Cov. «Inoltre, stanno a ottanta chilometri da qui.»

«Sono d’accordo con Simpson» disse il vecchio Mendez. «Un’alleanza come questa contribuirà a riannodare le fila. Loro non vogliono ciò che abbiamo noi e non possono farci niente, anche se lo volessero. Vogliono solo aiuto in una lotta che è anche la nostra, che partecipiamo o no.»

«Proprio quel dico!» aggiunse con decisione Rafael. «Ci tengono sotto, questi giapponesi! Dobbiamo combatterli solo per rialzarci.»

Steve e io annuimmo, muovendo la testa come burattini allo spettacolo dei raduni. Gabby, fra noi, alzò i pugni e li agitò con aria di trionfo. Non sapevo che Rafe patisse tanto per la nostra situazione, perché non ne parlava molto. La nostra banda ne rimase impressionata. Steve cambiò posizione nella vasca, dimenandosi come un gatto, mentre cercava il coraggio di alzarsi e schierarsi con quelli che volevano combattere. Ma prima che potesse farlo, suo padre si staccò dalla parete e prese la parola.

«Lavorare, ecco cosa dovremmo fare. Dovremmo raccogliere cibo e conservarlo, costruire altri ricoveri e migliorare quelli che già abbiamo, procurarci più indumenti e medicine ai raduni. Procurarci più barche e attrezzature, più legna da ardere, tutto. Far funzionare la comunità. Questo è il tuo compito, Rafe. Non combattere contro gente mille volte più potente di noi. È un sogno. Se mai combatteremo, lo faremo solo in questa valle e per la valle. Non per altri. Non per quei pagliacci del sud, e di sicuro non per un ideale come l’America.» Pronunciò la parola come se fosse la più brutta delle bestemmie e intanto lanciò un’occhiata di fuoco a Tom. «L’America non esiste più. È morta. Ci siamo noi, nella valle, e altri, a San Diego, nell’Orange, oltre i Pendleton, sull’isola di Catalina. Ma loro non sono noi. Questa valle è la patria più grande che avremo in vita nostra; per essa dovremmo lavorare, mantenendo in vita e in buona salute chiunque ci abiti. Ecco cosa dovremmo fare, secondo me.»

Lo stabilimento divenne silenzioso, dopo quelle parole. Così, John era contrario. E Tom e Doc… Mi sentivo come se alle nostre vele fosse venuto a mancare il vento per colpa di John. Ma Rafael si alzò a parlare.

«La nostra valle non è abbastanza grande per pensarla alla tua maniera, John. La gente con cui facciamo scambi dipende da noi, ma anche noi dipendiamo da loro. Siamo tutti compatrioti. E siamo tenuti divisi dalle guardie a Catalina. Non puoi negarlo e devi convenire che lavorare solo per noi nella valle significa essere liberi di progredire quando possiamo. Al momento attuale, non abbiamo questa libertà.»

John si limitò a scuotere la testa. Accanto a me, Steve mandò un fischio sommesso. Ribolliva… teneva le mani strette a pugno, cercava di dominarsi. Non era una novità. Nelle riunioni Steve non andava mai d’accordo con suo padre. Ma John non sopportava che suo figlio gli si opponesse in pubblico, per cui Steve doveva sempre starsene zitto. Al termine di ogni riunione, Steve scoppiava sempre d’indignazione e di collera. E forse anche questa sarebbe stata uguale alle altre, se poco prima Mando non si fosse messo a discutere con Doc. Steve l’aveva notato: come poteva starsene zitto, mostrarsi meno coraggioso del piccolo Armando Costa? Figuriamoci! E io avevo discusso con Tom per tutta la notte. Le pressioni erano troppe e si verificavano tutte nello stesso istante. D’un tratto Steve saltò su, rosso in viso, mani strette a pugno lungo i fianchi. Guardava da tutte le parti, tranne che in direzione di suo padre.

«Siamo tutti americani, a prescindere dalla valle di provenienza» disse in fretta. «Non possiamo farci niente, ma non possiamo negarlo. Abbiamo perso la guerra e ne paghiamo ancora le conseguenze in tutti i modi, ma un giorno saremo di nuovo liberi.» John lo fissò ferocemente, ma Steve si rifiutò di fare marcia indietro. «Quando ci riusciremo, sarà perché la gente ha combattuto sfruttando ogni occasione.»

Ricadde sul bordo della vasca e solo allora guardò dalla parte di John, sfidandolo a replicare. Ma John non ne aveva l’intenzione, non si degnava di discutere in pubblico con suo figlio. Si limitò, a fissare Steve, rosso in viso. Ci fu un silenzio imbarazzato, durante il quale ciascuno capì che cosa succedeva: John negava a suo figlio il diritto di partecipare alla discussione.

Tom, che si scaldava le mani al fuoco, sollevò lo sguardo e si rese conto della situazione. «Tu cosa ne pensi, Addison?» disse.

Add era appoggiato alla parete, con Melissa seduta ai suoi piedi; di tanto in tanto le accarezzava i capelli lucidi e guardava attentamente gli altri discutere. Ora Melissa teneva gli occhi bassi e si mordeva il labbro inferiore. Se era vero che Add trafficava con gli sciacalli, avrebbe avuto difficoltà a unirsi alle nostre spedizioni nell’Orange County. Ma lui si strinse nelle spalle e incrociò sfrontatamente lo sguardo con noi, come se non gliene fregasse un fico. «La faccenda» rispose «non m’interessa molto, in un senso e nell’altro.»

«Pinché!» disse il vecchio Mendez. «Avrai pure un’opinione.»

«No, non ce l’ho» replicò Add, strascicando le parole.

«Sei di grande aiuto» disse Mendez. Gabby parve sorpreso nell’udire che suo padre interveniva. Il vecchio Mendez era un uomo taciturno.

«Già, Add, cosa sei venuto a fare, allora?» disse Marvin.

«Un momento.» Pa’ si tirò in piedi. «Non è un delitto venire qui senza avere un’opinione precisa. Proprio per questo discutiamo.»

Add rivolse a Pa’ un cenno di ringraziamento. Tipico di Pa’: l’unica volta che parlava, giustificava il silenzio.

Doc e Rafael non badarono a Pa’; ripresero la discussione, scaldandosi. Ma c’erano battibecchi dovunque, quindi ciascuno dei due poteva parlare rabbiosamente senza mettere l’altro in imbarazzo.

«Tu hai sempre voglia dì giocare con i fucili» disse Doc, in tono di scherno.

Con occhi che mandavano lampi da sotto le sopracciglia nere e marcate, Rafael replicò: «Se tu sei l’unico medico della valle, ammetterai che vuol dire che non ce la passiamo bene quanto credi.»

Un discorso del genere non piacque a nessuno; m’intromisi dicendo: «Niente attacchi personali, va bene?»

«Oh, in fin dei conti parliamo solo della nostra vita!» replicò Rafe, sarcastico. «Non vogliamo metterla sul piano personale! Ma dammi retta, il medico qui presente può baciare il culo ai serpenti, se pensa che m’impiccio di fucili solo per divertimento.»

«Ma voi due siete amici…»

«Ehi!» gridò Tom, con aria stanca. «Ancora non abbiamo ascoltato tutti.»

«Henry, per esempio» disse Kathryn. «Anche lui è stato a San Diego e li ha visti. Secondo te cosa dovremmo fare?» Mi lanciò un’occhiata che chiedeva qualcosa, ma non sapevo cosa. Dissi quel che pensavo e mi augurai che andasse bene.

«Dovremmo unirci a quelli di San Diego» dichiarai. «Se ci venisse il sospetto che vogliono assorbirci, possiamo sempre distruggere i binari e liberarci di loro. In caso contrario, faremo di nuovo parte della nazione e verremo a sapere un mucchio di cose su quel che succede all’interno.»

«Nei raduni vengo a sapere tutto quel che voglio» replicò Doc.

«E distruggere i binari non impedirebbe loro di venire per mare. Se sono mille, come dicono, e noi… quanti? Sessanta?… e in gran parte ragazzi, possono fare tranquillamente quel che vogliono, nella valle.»

«Possono farlo comunque, che siamo o no d’accordo» disse Cov. «E se ci uniamo a loro adesso, forse otterremo quel che vogliamo.»

John Nicolin parve particolarmente disgustato a quest’idea, ma prima che aprisse bocca intervenni: «Doc, non ti capisco. Ai raduni protesti sempre perché non abbiamo avuto la possibilità di rivalerci bombardandoli. Adesso che si presenta l’occasione, tu…»

«L’occasione non l’abbiamo!» insisté Doc. «Non è cambiato un bel niente…»

«Basta!» disse Tom. «Questi discorsi li abbiamo già sentiti prima. Carmen, tocca a te.»

Con il suo tono da predicatore, Carmen disse: «Nat e io ne abbiamo parlato parecchio e non ci siamo trovati d’accordo; ma la mia idea è chiara. La lotta in cui quelli di San Diego vogliono coinvolgerci è inutile. Uccidere i visitatori che vengono da Catalina non ci restituisce la libertà. Non sono contro la lotta, se fosse a fin di bene; ma questo è solo omicidio. L’omicidio non è mai il mezzo per raggiungere un buon fine, quindi sono contraria a unirci alla resistenza.» Annuì con enfasi e guardò il vecchio. «Tom? Non hai ancora espresso la tua opinione.»

«Diavolo, se l’ha espressa!» dissi, seccato con Carmen per il tono da predicatore e per le parole piene di luoghi comuni: in fin dei conti era solo la sua opinione. Ma lei mi diede un’occhiataccia e restai zitto.

Tom si strappò al torpore per la vicinanza al fuoco. «Una cosa non mi è piaciuta, di questo Danforth. Ha cercato di indurci a unirci a lui, che lo volessimo o no.»

«Come?» replicò Rafael.

«Ha detto: o siamo con lui, o siamo contro di lui. Per me è una minaccia.»

«Ma cosa potrebbero farci, se non ci uniamo a loro?» disse Rafe. «Portare un esercito fin qui e puntarci il fucile alla testa?»

«Non so. Ma hanno davvero un mucchio di fucili. E uomini per puntarli.»

Rafael sbuffò. «Allora sei contrario ad aiutarli.»

Be’, sì «disse lentamente Tom, come se anche lui fosse incerto.» Mi piacerebbe scegliere se collaborare o no, a seconda di quel che hanno in mente. Caso per caso, per così dire. Allora non saremmo solo una sezione staccata di San Diego che ubbidisce agli ordini.

«Il punto è che possono costringerci a ubbidire» protestò Recovery. «Così invece è solo un’alleanza, un accordo su scopi comuni.»

«Vuoi dire che è quel che speri» disse John Nicolin.

Cov cominciò a discutere con John; Rafael ce l’aveva ancora con Tom; il dibattito si frammentò di nuovo e ben presto ogni adulto nel locale vi partecipava, e anche gran parte dei giovani. «Vuoi che vengano nel nostro fiume?» «Chi, i giapponesi o quelli di San Diego?» «Rischierai la pelle per nulla.» «Mi venga un colpo se voglio che le motovedette stabiliscano i confini di tutta la mia vita.» Continuò di questo passo, con intromissioni nelle controversie dei vicini, quando uno udiva qualcosa che gli andava o che non gli andava. Volarono imprecazioni, anche intorno a Carmen; ci furono dita agitate sotto il naso; Kathryn afferrò Steve per il davanti della camicia, per dimostrare le sue ragioni… a giudicare dal volume delle voci, sembravamo divisi m due fazioni uguali, tanto che nessuna prevaleva. Ma noi favorevoli all’unione eravamo in difficoltà. Il vecchio, John Nicolin, Doc Costa e Carmen Eggloff… tutt’e quattro erano contrari, e loro contavano molto nella valle. Rafael, Recovery e il vecchio Mendez erano importanti per la comunità, avevano voce in capitolo nelle discussioni, ma non godevano del tipo d’influenza degli altri. John e Doc circolavano per la stanza e discutevano alla chetichella con Pa’ e Manuel, Kathryn e la signora Mariani; sapevo da che parte si sarebbero messe le cose al momento della votazione.

All’apice della discussione, Roger lo Strambo si alzò e gesticolò, con un’assurda luce di comprensione negli occhi. Schiamazzava rumorosamente e Kathryn si accigliò. «Ha la fortuna di non essere nato nella valle» brontolò. «Altrimenti non sarebbe mai arrivato al giorno dell’imposizione del nome.» Un mucchio di gente la pensava come lei, era sconvolta che Tom avesse condotto lì Roger. Ma all’improvviso lo Strambo parlò con chiarezza, a voce acuta e rauca.

«Uccidete ogni sciacallo della terra, uccideteli tutti! Gli sciacalli avvelenano l’acqua, strappano i lacci, mangiano i morti. Se non si elimina l’arto cancrenoso, il corpo muore! Dico: uccideteli tutti, uccideteli tutti, uccideteli tutti!»

«D’accordo, Roger.» Tom lo prese per il braccio e l’accompagnò in un angolo. Poi tornò al focolare e, finalmente stufo, chiuse le discussioni. «Silenzio! Nessuno dice qualcosa di nuovo. Propongo di mettere ai voti la questione. Ci sono obiezioni?»

Ce n’erano in quantità, ma dopo altre discussioni sul modo di formulare la proposta, fummo pronti.

«Chi è favorevole a San Diego e alla resistenza americana alzi la mano.»

Rafael, i Simpson, i Mendez, Marvin e Jo Hamish, Steve, Mando, Nat Eggloff, Pa’ e io alzammo la mano e aiutammo i fratellini e le sorelline di Gabby ad alzare la loro. Sedici in tutto.

«Adesso, chi è contro.»

Tom, Doc Costa, Carmen; i Mariani, gli Shanks, i Reyes; e John passò in rassegna la fila della sua famiglia, sollevando la mano di Teddy e di Emilia, di Virginia e di Joe, di Carol e di Judith, perfino quella di Marie, quasi fosse una dei bambini, il che dal punto di vista mentale era vero. Little Joe, sull’attenti, alzò la mano; i capelli neri gli ricadevano sul viso, pancino e pisello gli sporgevano da sotto la camiciola sporca di moccio. La signora Nicolin mandò un sospiro, nel vedere la camiciola. «Oh, Cristo» si lamentò Rafael. Ma la regola era quella: tutti votavano. Quindi, 23 voti contrari. Ma, fra gli adulti, lo scarto era assai minore. Carmen eseguì il conteggio; nel silenzio carico di tensione che seguì, ci fu uno scambio di occhiate dure. Non avevo mai visto niente del genere nella valle. La prospettiva di una zuffa può sembrare divertente, per esempio quando ai raduni ci si trova a fronteggiare una banda di sciacalli; ma nella valle, fra amici e vicini di casa, sembrava solo un guaio. Tutti erano colpiti nella stessa maniera, credo; e nessuno pensò al modo di metterci una pezza.

«Bene» disse Tom. «Quando torneranno, dirò a Lee e a Jennings che non li aiuteremo.»

«Ogni singolo individuo è libero di fare come meglio crede» dichiarò all’improvviso Addison Shanks, come se esponesse un principio generale.

«Certo» rispose Tom. Lanciò a Shanks un’occhiata penetrante. «Come sempre. Non facciamo un’alleanza con loro, tutto qui.»

«Benissimo» disse Add. Spinse fuori Melissa e se ne andò.

«Per me non va affatto bene» dichiarò Rafael, guardando un po’ tutti, ma John in particolare. «È sbagliato. Ci tengono sotto, capite? Il resto del mondo va avanti, con l’aiuto delle macchine progredisce, cura le malattie eccetera. Con le bombe ci hanno tolto tutto questo e adesso ci tengono lontano da tutto questo. Non è giusto per niente.» Non l’avevo mai udito usare un tono così amaro: quella non era la voce di Rafael. «Dovremmo combatterli.»

«Vuoi dire che non seguirai le decisioni generali?» chiese John.

Rafael gli scoccò un’occhiata astiosa. «Mi conosci, John. Accetto il risultato della votazione. Tanto, da solo non potrei fare molto. Però penso che è sbagliato. Non possiamo nasconderci per sempre in questa valle come donnole: no, visto che siamo proprio di fronte a Catalina.» Inspirò a fondo, lasciò uscire il fiato. «Be’, merda. Tanto, non possiamo cambiare il voto.» A passo deciso si aprì la strada fra la gente ancora seduta e lasciò lo stabilimento dei bagni.

La riunione era terminata. Attraversai il locale, con Steve e Gabby. Steve faceva del suo meglio per evitare suo padre. Nella confusione, Del ci rivolse un gesto; con un cenno a Mando e a Kathryn, li seguimmo fuori.

Senza una parola ci avviammo per il sentiero del fiume, dietro la luce della lanterna di qualcuno. Attraversammo il ponte, andammo fino ai grossi massi in fondo al campo d’orzo. I massi erano bagnati, per cui non potemmo sederci. Il vento piegava gli alberi. Faceva abbastanza freddo da farmi venire la pelle d’oca. Nel buio burrascoso, i miei amici erano semplici sagome, simili a protuberanze dei massi. Dall’altra parte del fiume, le lanterne ammiccavano fra gli alberi, punteggiando i sentieri che gli altri seguivano per tornare a casa.

«Ci credete, a tutte quelle chiacchiere?» disse Gabby sprezzante.

«Rafael ha ragione» disse Steve, amaro. «Cosa penseranno di noi, a San Diego e altrove, quando lo sapranno?»

«Ormai è fatta» disse Kathryn, nel tentativo di consolarlo.

«Per te» replicò Steve. «È andata come volevi. Ma per noi…»

«Per tutti» insisté Kathryn. «È fatta per tutti.»

Ma Steve non l’avrebbe mai ammesso. «Ti piacerebbe che fosse vero, ma non lo è. Non lo sarà mai.»

«Cosa vuoi dire?» chiese Kathryn. «Abbiamo votato.»

«E tu sei stata contentissima del risultato, vero?» l’accusò Steve.

«Ne ho abbastanza di questa storia, per una sera sola» replicò Kathryn. «Vado a casa.»

«Forza, vattene» disse Steve, con rabbia. Nello scendere dal masso, Kathryn si fermò per lanciargli un’occhiataccia. Ero felice di non essere nei panni di Steve in quel momento. Senza una parola, Kathryn si diresse al ponte. «Non comandi tu, nella valle!» le gridò dietro Steve, con la voce rauca per la tensione. «E non comandi neanche me! Non mi comanderai mai!» Scese dal masso, andò avanti e indietro nel campo d’orzo. Distinguevo appena Kathryn che attraversava il ponte.

«Non so perché si è comportata così stasera» si lamentò Steve.

Dopo un lungo silenzio, Mando disse: «Avremmo dovuto votare sì.»

«Ah-ha» disse Del. «L’abbiamo fatto. Ma non eravamo in numero sufficiente.»

«Tutti, volevo dire.»

«Dovevamo unirci» gridò Steve dal campo d’orzo.

«E allora?» disse Gabby, pronto come sempre a istigare Steve. «Cosa conti di fare?»

Dall’altra parte del fiume dei cani abbaiarono. Per un istante vidi la luna, sopra le nubi in corsa. Dietro di me l’orzo frusciava; rabbrividivo nel vento freddo. Qualcosa, nel movimento delle ombre, mi ricordò la disperata risalita del canalone alla ricerca dì Tom e degli altri; fui di nuovo assalito dalla paura, che mi frusciò dentro come il vento. È così facile dimenticare la paura! Steve girava intorno ai massi come un lupo preso al laccio.

«Noi potremmo unirci» disse.

«Come?» chiese Gab, ansioso.

«Solo noi. Hai sentito cos’ha detto Add alla fine. I singoli individui sono liberi di fare come meglio credono. E Tom non l’ha proibito. Potremmo avvicinarli, dopo che Tom avrà risposto no; diremo che vogliamo aiutarli. Solo noi.»

«Ma come?» chiese Mando.

«Che tipo d’aiuto vogliono? Nessuno lo sa, ma io sì! Vogliono gente che faccia loro da guida nell’Orange County, ecco. E noi siamo le guide migliori, a Onofre.»

«Non ne sono tanto sicuro» disse Del.

«Possiamo guidarli come chiunque altro!» si corresse Steve, perché era vero che negli anni passati suo padre e alcuni altri avevano trascorso un bel po’ di tempo su a nord. «Quindi, perché non dobbiamo farlo, visto che ne abbiamo voglia?»

Intimorito, dissi: «Forse sarebbe meglio attenerci alla votazione.»

«In culo la votazione!» gridò Steve, furibondo. «Cosa ti prende, Henry? Hai paura di combattere i giapponesi, adesso? Merda, sei andato a San Diego e ora vieni a dirci cosa dobbiamo fare, è così?»

«No!» protestai.

«Sei spaventato, ora che hai fatto il grande viaggio e li hai visti da vicino?»

«No.» Ero sconvolto dalla furia di Steve e troppo confuso per pensare a come difendermi. «Voglio combattere» dissi debolmente. «L’ho detto, nella riunione.»

«La riunione era una cazzata. Sei con noi o no?»

«Sono con voi. Non ho mai detto il contrario.»

«E allora?»

«Allora… dovremmo chiedere a Jennings se vuole delle guide, credo. Non ci ho mai pensato.»

«Io sì che ci ho pensato!» disse Steve. «Ed è quel che faremo.»

«Dopo che avranno parlato con Tom» disse Gabby, riassumendo la situazione.

«Giusto. Dopo. Ci penseremo io e Henry. Giusto, Henry?»

«Certo» dissi, sobbalzando al tono di voce. «Certo.»

«Io ci sto» disse Del.

«Anch’io» esclamò Mando. «Voglio fare da guida anch’io. Ho girato l’Orange County quanto voi.»

«Nessuno vuole lasciarti da parte» lo rassicurò Steve.

«E io pure» disse Gabby.

«E tu, Henry?» insisté Steve. «Sei dei nostri?»

Intorno c’erano solo ombre, soffiate dal vento nel buio. La luna scivolò in uno squarcio delle nuvole e mi permise di vedere le chiazze chiare del viso dei miei amici, simili a grumi di farina, puntate su di me. Posammo insieme la destra sopra il masso centrale; le loro dita callose si intrecciarono alle mie.

«Sono con voi» dissi.

13

Quando rividi il vecchio me la presi con lui, perché se si fosse schierato a favore della resistenza era probabile che la votazione avrebbe avuto un risultato diverso. E se la valle avesse votato a favore, Steve non avrebbe escogitato il piano di unirci in segreto a quelli di San Diego e io non avrei ceduto, approvandolo. Per non ammettere con me stesso d’avere ceduto a Steve, decisi che il suo piano era buono. Quindi, in un certo senso, era tutta colpa del vecchio. Non era bello agire di nascosto per aiutare quelli di San Diego, ma dovevamo fare parte della resistenza. Ricordavo fin troppo bene come mi ero sentito nel guardare il ponte metallico della nave giapponese, piangendo perché credevo che Tom e gli altri fossero morti e giurando di combattere per sempre i giapponesi. E non dovevo nemmeno ringraziare loro, se Tom era sopravvissuto. Sarebbe potuto morire ugualmente, e io pure. Gliele cantai, a Tom, rimproverandolo di avere votato contro, alla riunione. «E ogni volta che andiamo fuori, può capitare la stessa cosa» conclusi, agitandogli il dito sotto il naso.

«Ogni volta che andiamo al largo in una notte di nebbia e spariamo contro di loro, vuoi dire» ribatté Tom, masticando un pezzo di favo. Eravamo nel suo cortile e soffocavamo sotto nubi alte e rade; lui bruciava le assicelle di alcuni coperchi quadrati di un alveare non riuscito. Cavalletti, affumicatori e coperchi d’alveare erano disseminati intorno a noi fra le erbacce. «Può darsi che le ghiandaie abbiano mangiato tutte le api di questo alveare» brontolò. «Quella ghiandaia rachitica da sola ne ingoiava dieci a pasto. Ho piazzato una trappola per topi di Rafael in cima al palo su cui si posava; quando è scesa, la trappola l’ha sbattuta almeno a cinque metri. Com’era infuriata! Mi ha maledetto in tutte le lingue conosciute dalle ghiandaie.»

«Ah, stronzate» dissi, tirandogli via dall’angolo della bocca un ciuffo dei lunghi capelli bianchi, prima che l’ingoiasse. «Da quando siamo nati non hai fatto che parlarci dell’America. Di quant’era grande. Ora abbiamo l’occasione di combattere per la patria, e tu voti contro. Non capisco. Fa a pugni con tutto ciò che ci hai insegnato.»

«No. L’America era grande come sono grandi le balene, capisci cosa intendo?»

«No.»

«Ultimamente ti sei rincitrullito parecchio, sai? Voglio dire, l’America era grande, un gigante. Nuotava nel mare e mangiava le nazioni più piccole… assorbendole man mano che progrediva. Mangiavamo il mondo, ragazzo; per questo il mondo si è sollevato e ci ha fatto smettere. Quindi non mi contraddico affatto. L’America era grande come una balena… era gigantesca e maestosa, ma puzzava e assassinava. Un mucchio di pesci è morto per renderla così grande. Non vi ho sempre insegnato questo?»

«No.»

«Diavolo se non ve l’ho insegnato! E tutte le discussioni, ai raduni di scambio, con Doc, con Leonard, con George?»

«Là parli diversamente, ma solo per dare in testa a Doc e a Leonard. Qui a casa hai sempre fatto sembrare l’America il paese di Dio. Inoltre, non c’è alcun dubbio che in questo momento ci tengono sotto, proprio come ha detto Rafe. Dobbiamo combatterli, Tom. E tu lo sai.»

Scosse la testa e si succhiò l’interno delle guance, così che dalla mia posizione sembrava che avesse solo mezza faccia. «Carmen ha battuto sul chiodo con maggiore durezza, come al solito. L’hai ascoltata? Non direi. Sosteneva che assassinare quegli scemi di turisti non serve affatto a cambiare la situazione. Catalina sarebbe sempre giapponese, i satelliti continuerebbero a sorvegliarci, saremmo sempre tenuti in quarantena. E i turisti non la smetteranno di venire. Saranno solo armati meglio e più pronti a difendersi.»

«Se i giapponesi cercano davvero di tenere lontano la gente, possiamo uccidere tutti i visitatori che vengono di nascosto.»

«Può darsi, però la situazione rimane la stessa.»

«Ma è un punto di partenza. Un’azione così semplice può essere fatta subito, e l’inizio sembra sempre poco importante. Se tu fossi vissuto al tempo della Rivoluzione, non l’avresti nemmeno iniziata. «L’assassinio di qualche giubba rossa non cambierà la struttura» avresti detto.»

«E invece non l’avrei detto, perché la struttura non era la stessa. Non siamo un territorio occupato, siamo un territorio in quarantena. Se ci unissimo a San Diego nella lotta, l’unico risultato sarebbe quello di diventare parte di San Diego. Doc aveva ragione, proprio come Carmen.»

Pensai di averlo colto in fallo. «La stessa obiezione valeva anche allora. La gente della Pennsylvania poteva dire: «Se ci uniamo alla lotta, diventeremo parte di New York». Ma dal momento che facevano parte dello stesso paese, hanno lavorato insieme.»

«Ragazzo, è una falsa analogia, come lo sono sempre le analogie storiche. Tu credi di capire la storia solo perché te l’ho insegnata. Durante la Rivoluzione, gli inglesi avevano uomini e fucili, e noi avevamo uomini e fucili. Adesso abbiamo ancora uomini e fucili, come nel 1776, ma il nemico ha satelliti, missili intercontinentali, navi che possono prenderci a cannonate dalle Hawaii, raggi laser e bombe atomiche e chissà cos’altro. Ragiona un momento. Uno scontro fra tigre e topolino sarebbe più equilibrato.»

«Be’, non so» brontolai, sotto il peso delle sue argomentazioni. Mi aggirai fra gli alveari smantellati, le meridiane, i barili per la pioggia e la paccottiglia, per riordinare le idee. Sotto di noi la valle era una trapunta colorata, i campi sembravano fazzoletti d’oro gettati sulla foresta, dove i raggi del sole disegnavano campi di verde brillante ancora più estesi. «Sostengo ancora che ogni rivoluzione ha un piccolo inizio. Se tu avessi votato a favore della resistenza, avremmo pensato qualcosa. Così invece mi hai cacciato in una situazione poco bella.»

«Cosa vorresti dire?» chiese, guardandomi negli occhi.

Avevo parlato troppo. Cercai di aggiustarla. «Oh, nelle discussioni, capisci.» Poi trovai lo spunto giusto. «Dal momento che non aiuteremo la resistenza, sarò l’unico della banda che è stato a San Diego. A Steve, a Del, a Gabby, la cosa non piace.»

«Ci andranno anche loro, prima o poi» disse. Respirai di sollievo per averlo messo fuori pista. Ma mi dispiaceva tenerlo all’oscuro; significava mentirgli regolarmente, da quel momento in avanti. Tornai vicino a lui; mentre lo guardavo lavorare, strofinai con un certo impaccio i tacchi a terra per liberarli dal fango. Le sue argomentazioni erano sensate, non potevo negarlo, anche se ero sicuro che le conclusioni fossero errate. Volevo che lo fossero.

«Hai studiato la lezione?» chiese Tom. «A parte la storia degli Stati Uniti.»

«Un pezzo.»

«Diventi peggio di Steve.»

«Non è vero.»

«Sentiamo, allora. “Ti conosco. Dov’è il re?”»

Richiamai alla mente la pagina; mi comparve su uno sfondo grigio e confuso, ingiallita e friabile, con gli arrotondati segni neri così pieni di significato. Lessi i versi come li vedevo.

In lotta con gl’irritabili elementi;

ordina che il vento soffi la terra in mare,

o gonfi le acque increspate sull’oceano,

che le cose cambino o cessino; strappa i suoi capelli bianchi,

che le raffiche impetuose, con rabbia cieca,

afferrano nella loro furia e non capiscono;

si batte nel suo piccolo mondo d’uomo per superare in spregio

l’andirivieni di pioggia e vento in lotta.

Stanotte, in cui l’orsa attirata dai cuccioli s’acquatta,

il leone e il lupo dal ventre tormentato e vuoto

tengono asciutto il loro pelo, a capo scoperto corre,

e ordina quel che tutto prenderà.

«Benissimo!» esclamò Tom. «Era la nostra notte, d’accordo. “Tuono che tutto scuoti, appiattisci la spessa rotondità del mondo, spacca gli stampi della natura, spargi subito tutti i germi che rendono ingrato l’uomo.”»

«Ehi, hai tenuto a mente due versi interi» dissi.

«Oh, sta’ zitto. Ti darò dei versi da Re Lear. Ascolta.»

Il peso di questo triste tempo dobbiamo ubbidire;

dire quel che sentiamo, non quel che dovremmo.

Il vecchio ha sopportato il massimo; noi che siam giovani,

non vedremo mai così tanto, né vivremo così a lungo.

«Noi che siam giovani?» domandai.

«Silenzio! Acuminato invero più di dente di serpe. Il vecchio ha sopportato il massimo, nessuna menzogna.» Scosse la testa. «Ma stammi a sentire, marmocchio ingrato, ti ho dato quei versi per aiutarti a ricordare il tuo viaggio fin qui nella tempesta. Da come ti comporti, sembra che tu l’abbia già dimenticato…»

«Nient’affatto.»

«Oppure non ci hai creduto, o non gli hai trovato posto nella tua vita. Ma ti è capitato, ti è capitato davvero.»

«Lo so.»

I liquidi occhi neri mi fissarono con durezza. A bassa voce, Tom disse: «Sai che è accaduto. Ora devi procedere da lì. Devi trarne insegnamento, altrimenti sarebbe un’esperienza sprecata.»

Non lo seguivo. Ma all’improvviso Tom si era messo a grattare il coperchio che teneva sulle ginocchia. E diceva: «Ho sentito che leggono quel libro, giù dai Mariani… come mai non sei lì anche tu?»

«Cosa?» esclamai. «Perché non me l’hai detto?»

«Non cominceranno prima di avere sfornato il pane. Inoltre, per te era l’ora della lezione.»

«Ma a metà pomeriggio avranno già finito di cuocere il pane!» protestai.

«Non è questa, l’ora?» chiese, con un’occhiata al cielo.

«Vado» dissi, afferrando un pezzo di favo gocciolante dal vassoio alle sue spalle.

«Ehi!»

«Arrivederci.»

Di corsa scesi il sentiero del costone, tra i boschi (sfruttai una mia scorciatoia) e tra i campi di patate, fino all’orto delle erbe aromatiche dei Mariani. Erano tutti seduti sull’erba, tra i forni e il fiume: Steve, Kathryn, Kristen, la signora Mariani, Rebel, Mando, Rafael e Carmen. Steve leggeva e gli altri mi diedero appena un’occhiata, quando mi sedetti, ansando come un cane.

«È in Russia» m’informò Mando, sottovoce.

«Oh, merda, come c’è arrivato?» chiesi.

Steve non sollevò lo sguardo dalla pagina, ma continuò a leggere.


«Il primo anno dopo la guerra, furono molto franchi con le Nazioni Unite, per dimostrare che non avevano avuto niente a che fare con l’attacco. Diedero alle Nazioni Unite l’elenco di tutti gli americani che si trovavano in Russia; dopodiché, le Nazioni Unite furono irremovibili nella pretesa di sapere dove ci trovavamo e cosa ci succedeva. Se non fosse per questo, ora non parlerei inglese. I russi ci avrebbero assimilati. Oppure uccisi.»

Il tono di Johnson mi spinse a esaminare con maggiore attenzione i sovietici, pesantemente vestiti, dall’aria inoffensiva, che affollavano con noi lo scompartimento. Alcuni di loro ci lanciarono occhiate furtive, quando ci udirono parlare in una lingua straniera; la maggior parte se ne stava stravaccata al proprio posto e dormiva, oppure guardava senza interesse dal finestrino. L’odore di fumo era soffocante e copriva solo fino a un certo punto altri odori: sudore, formaggio, alcol non raffinato di quel loro liquore detto vodka. All’esterno, l’enorme e grigia città di Vladivostok aveva lasciato posto alle foreste dei territori ondulati, un chilometro dopo l’altro. Il treno correva a velocità tremenda, percorreva decine e decine di chilometri all’ora; eppure Johnson mi assicurò che il nostro viaggio avrebbe richiesto vari giorni.

Ci eravamo limitati a stringerci la mano, prima di camminare sotto gli occhi delle guardie del treno e di sostenere la nostra parte. Ora gli chiesi notizie di sé, dove abitava, qual era la sua storia, quale attività svolgeva.

«Sono meteorologo» rispose. Notando la mia reazione, spiegò: «Studio il clima. O meglio, lo studiavo. Ora guardo uno schermo Doppler usato per le previsioni del tempo e per l’anticipazione delle tempeste più intense. In realtà il sistema Doppler è uno degli ultimi frutti della scienza americana. Ma ormai è sorpassato e la mia posizione è d’importanza secondaria».

Naturalmente ero assai interessato. Gli chiesi se sapeva spiegarmi come mai, dopo la guerra, la temperatura fosse diventata così fredda, sulla costa della California. Viaggiavamo già da diverse ore; i sovietici intorno a noi riempivano lo scompartimento e mostravano un’aria di noia assoluta; all’idea di parlare della sua specializzazione, il viso di Johnson s’illuminò un poco.

«La domanda è complicata» rispose. «In genere si concorda nel ritenere che la guerra abbia alterato il clima del mondo, ma si discute ancora su come siano avvenuti i cambiamenti. Si calcola che tremila bombe ai neutroni siano esplose sul continente degli Stati Uniti, quel giorno del 1984; non hanno liberato un grande quantitativo di radiazioni a lungo termine, per vostra fortuna; ma nella stratosfera, ossia lo strato superiore dell’aria, si è generato un mucchio di turbolenza e a quanto pare la corrente a getto ha alterato per sempre il suo corso. Sa cos’è la corrente a getto?»

Con un cenno della testa indicai di no. «Ma ho volato su un aviogetto» aggiunsi.

Scosse la testa. «Nei livelli superiori dell’atmosfera, il vento è costante e intenso. Ci sono enormi fiumi di vento. Nell’emisfero nord la corrente a getto descrive un cerchio da ovest a est e si sposta a zigzag su e giù mentre compie il giro del mondo: circa cinque zig e cinque zag ogni giro completo.» Strinse la mano a pugno e con l’altro indice tracciò il percorso della corrente a getto. «Ogni volta varia un poco, ovviamente; ma prima della guerra c’era un punto fermo, al di sopra delle vostre Montagne Rocciose. La corrente a getto invariabilmente curvava verso nord, girando intorno alle Rockies, e poi di nuovo a sud, attraverso gli Stati Uniti, così.» Indicò le nocche del pugno, che rappresentavano le Rockies. «Da dopo la guerra, il punto fermo è scomparso. La corrente è libera e ora si muove a casaccio: a volte soffia direttamente dall’Alaska al Messico, ed è per questo che di tanto in tanto la California ha un clima artico.»

«Proprio così» confermai.

«In parte» mi corresse. «Il clima è un organismo complesso, di cui non si può mai indicare un singolo aspetto e darlo per certo. La corrente a getto è libera, ma anche i sistemi tropicali sono cambiati… e non si sa quale abbia causato il mutamento dell’altro, né se ci siano correlazioni. Nessuno può dirlo. Il sistema del Pacifico, per esempio, che interessa anche voi della California meridionale, era un’area d’alta pressione, molto stabile, al largo della costa occidentale del nord America. D’estate si spostava a nord e si stabiliva al largo della California, respingendo a nord la corrente a getto; d’inverno scendeva nella zona sotto Baja California. Ora d’estate non si sposta più a nord, quindi non vi protegge. Anche questo è un fattore importante: ma, di nuovo, si tratta della causa o dell’effetto? E poi c’è la polvere scagliata nella stratosfera dalle bombe e dagli incendi, che abbassa di un paio di gradi la temperatura del mondo… e le nevi perenni che ne derivano, sulla Sierra Nevada e sulle Rockies, e che generano ghiacciai che riflettono la luce del sole e raffreddano ancora di più l’ambiente… e lo spostamento delle correnti del Pacifico… un mucchio di cambiamenti.» L’espressione di Johnson era una bizzarra mescolanza di tetraggine e d’interesse affascinato.

«Pare che il clima della California sia cambiato più di tutti» dissi.

«Oh, no» rispose Johnson. «Nient’affatto. La California è stata intensamente colpita, non c’è dubbio: come se l’avessero spostata a nord di quindici gradi di latitudine. Ma altre parti del mondo hanno subito conseguenze altrettanto gravi, o perfino peggiori. Per esempio, le eccezionali precipitazioni sul Cile settentrionale, con conseguente dilavamento delle sabbie andine. Caldo tropicale estivo in Europa, siccità durante il monsone… potrei continuare per un pezzo. Il cambiamento del clima ha provocato più sofferenze umane di quanto lei non immagini.»

«Non ne sia tanto convinto.»

«Ah. Sì. Bene, non è solo il grigio impero sovietico ad avere reso il mondo un luogo così tetro, da dopo la guerra: il clima ha avuto la sua grossa parte. Per fortuna neanche la Russia è rimasta indenne.»

«Come mai?»

Johnson scosse la testa e non volle dare spiegazioni.

Due giorni dopo, sempre in Siberia, nonostante la velocità del treno, capii cosa intendesse.

Avevamo trascorso la mattinata nel corridoio della carrozza, esibendo i documenti di viaggio a un trio di controllori sospettosi. Il fatto che non sapessi una parola di russo non aiutava certo a farci accettare da loro; chiacchierai in giapponese e pseudo-giapponese, nel tentativo di rassicurarli che venivo da Tokyo, come i documenti dichiaravano, augurandomi che non si rendessero conto di quanto fosse poco probabile. Per fortuna i nostri documenti erano autentici e i controllori se ne andarono soddisfatti.

A quel punto Johnson era troppo sconvolto per tornare nello scompartimento. «Sono stati quegli stupidi ficcanaso lì dentro a provocare il controllo» disse. «Ci hanno sentiti parlare in una lingua straniera ed è bastato. I sovietici sono uguali dappertutto. Restiamo un poco qui fuori. Tanto, non sopporto più la loro puzza.»

Eravamo ancora nel corridoio, appoggiati ai finestrini, quando il treno si fermò nel bel mezzo della sconfinata foresta siberiana, senza il minimo segno di civiltà in vista. Montagne coperte d’alberi si estendevano a perdita d’occhio in ogni direzione; attraversavamo un’ondulata pianura verde, sotto un basso cielo azzurro pieno di nubi ancora più basse. Smisi di descrivere la California, di cui Johnson non si stufava mai; ci sporgemmo dal finestrino a guardare verso la parte anteriore del treno. A ovest le nubi, basse e scure, formavano ora una linea nera e continua. Nel vederla, Johnson si sporse maggiormente dal finestrino. «Mi regga per le gambe» disse. «Mi regga per le gambe.»

Quando scivolò di nuovo dentro la vettura, aveva un sogghigno feroce sul viso solitamente tetro. Si chinò verso di me e mormorò: «Un tornado».

Nel giro di alcuni minuti, arrivarono i controllori e diedero ordine a tutti di scendere.

«Non servirà a niente» dichiarò Johnson. «Anzi, preferirei restare sul treno.» Ci unimmo comunque alla folla davanti alla porta.

«Allora perché ci fanno scendere?» chiesi, cercando di tenere d’occhio le nubi.

«Oh, una volta un treno intero è stato sollevato in aria e scagliato per tutta la campagna. Sono morti tutti i passeggeri. Ma chi si fosse trovato accanto al treno sarebbe morto ugualmente.»

L’idea non mi parve molto rassicurante. «Quéste trombe d’aria sono frequenti, allora?»

Johnson annuì, con sinistra soddisfazione. «È il cambiamento del clima russo, cui avevo solo accennato. La parte centrale del continente è più calda, ma adesso ci sono trombe d’aria. Prima della guerra, il 95 per cento di queste perturbazioni si verificava negli Stati Uniti.»

«Non lo sapevo.»

«È vero. Erano il risultato della combinazione delle locali condizioni atmosferiche e della geografia specifica delle Rockies, delle grandi pianure e del golfo del Messico: almeno così si credeva, visto che i tornado sono un altro mistero meteorologico. Ma ora sono frequenti in Siberia.» I nostri compagni di viaggio ci fissavano; per continuare, Johnson attese di scendere dal treno. «E sono enormi. Enormi come la Siberia stessa. Hanno cancellato dalla carta geografica diverse città.»

I controllori ci riunirono in una radura nei presi della ferrovia, in fondo al treno. Nubi nere coprivano il cielo, un vento gelido sibilava fra gli alberi. Nel giro di alcuni minuti, il vento aumentò d’intensità; foglie e ramoscelli volavano a mezz’aria sopra di noi; tenendoci a qualche passo di distanza dagli altri passeggeri, potevamo parlare senza essere ascoltati da alcuno; anzi, riuscivamo appena a sentirci.

«Karymskoye è poco più avanti, credo» disse Johnson. «Mi auguro che il tornado la colpisca.»

«Si augura?» esclamai, stupito. Credevo di avere udito male, dato che, a dire il vero, l’inglese di Johnson non era privo d’inflessioni.

«Sì» disse lui in un sibilo, tenendo il viso molto vicino al mio. Nella soffusa luce verdastra mi parve d’un tratto selvaggio, fanatico. «La giusta punizione, capisce? La terra stessa si vendica della Russia.»

«Ma credevo che le bombe le avesse piazzate il Sud Africa.»

«Il Sud Africa» replicò, con rabbia. Mi afferrò per il braccio. «Come fa a essere così ingenuo? Dove si sarebbe procurato le bombe, il Sud Africa? Tremila bombe ai neutroni. Sud Africa, Argentina, Vietnam, Iran… non importa chi le abbia realmente piazzate negli Stati Uniti e le abbia fatte esplodere; e poi, non credo che lo sapremo mai con certezza: forse tutti insieme… ma è stata la Russia a fabbricarle, la Russia a fornirle, la Russia a trarne i maggiori vantaggi. Il mondo intero lo sa; e nota come mostruose trombe d’aria la tormentino. È la giusta punizione, glielo dico io! Guardi la loro faccia! Lo sanno tutti, dal primo all’ultimo. È il castigo della Terra. Guardi! Ecco che arriva!»

Guardai nella direzione da lui indicata. A ovest ora la nube nera a un certo punto arrivava fino a terra, formava un imbuto nero e turbinante. Il vento ululava intorno a noi, mi strappava i capelli; eppure udivo ancora un basso digrignare, una vibrazione nel terreno, come se un treno varie volte più grande del nostro corresse su lontane rotaie.

«Viene da questa parte» mi gridò Johnson all’orecchio. «Guardi quant’è grosso!» Sul viso spigoloso e barbuto c’era un’espressione d’estasi religiosa.

Il tornado si assottigliò, divenne una colonna nera che turbinava furiosamente su se stessa. Alla base alberi interi volavano via a decine. Il ruggito profondo crebbe d’intensità; alcuni russi, nella radura, si gettarono a terra; altri s’inginocchiarono a pregare e rivolsero al cielo nero il viso stravolto. Johnson agitò il pugno contro di loro, gridò parole subito soffocate dal frastuono. La tromba d’aria aveva certo colpito Karymskoye, perché gli alberi volanti avevano lasciato posto a detriti, pezzi di città ridotta in macerie in un istante. Johnson ballò una giga sbilenca, lasciandosi spingere dal vento.

Anch’io tenni d’occhio quella tempesta soprannaturale. Si muoveva da sinistra a destra davanti a noi e si avvicinava di sbieco. La colonna turbinante era d’un nero così intenso che avrebbe potuto essere una torre di carbone. Di tanto in tanto la base della torre si sollevava da terra, toccava un’altura al di là della città colpita, ne strappava gli alberi, rimbalzava in aria fin quasi alla nube nera sovrastante, si allungava e toccava terra di nuovo, continuava ad avanzare. Con mio considerevole sollievo, sembrava che sarebbe passata circa cinque chilometri a nord da noi. Quando ne fui sicuro, mi sentii pervaso in parte dalla stessa esaltazione di Johnson. Avevo appena assistito alla distruzione di una città. Ma l’Unione Sovietica, aveva detto Johnson, era responsabile della distruzione del mio paese, di migliaia di città: e gli credevo. Il tornado era davvero una giusta punizione… la vendetta, addirittura. Gridai con quanto fiato avevo nei polmoni, sentii che il vento mi strappava il grido e lo portava lontano. Gridai di nuovo. Ero sorpreso della gioia con cui accoglievo un colpo vibrato contro gli assassini della mia patria… di quanto avessi bisogno di vederlo. Johnson mi batté la mano sulla spalla e mi asciugò gli occhi bagnati di lacrime; barcollammo nel vento, attraversammo la radura, ci rifugiammo fra alcuni alberi, dove potevamo gridare e segnare a dito il tornado e prendere a calci i tronchi; lanciare maledizioni troppo terribili perché altri le udissero, lamenti troppo terrificanti anche solo da immaginare. La nostra patria era morta; quello sventurato in esilio, la mia guida, ne soffriva intensamente quanto me. Gli circondai le spalle, abbracciai un compatriota, un fratello. «Sì» disse lui, in un sibilo. «Sì, sì, sì» ripeté.

Nel giro di venti minuti il tornado rimbalzò per sempre su fra le nubi; e noi restammo lì, nel vento intenso e gelido, a riprenderci. Johnson si asciugò gli occhi. «Mi auguro che non abbia divelto tratti troppo lunghi di rotaia» disse, con la sua pronuncia lievemente gutturale. «Altrimenti resteremo qui una settimana.»


Un’ombra cadde sulla pagina. Steve smise di leggere. Alzammo gli occhi. John Nicolin era lì fermo, mani sui fianchi.

«Mi serve il tuo aiuto per sostituire la chiglia danneggiata» disse a Steve.

Steve era ancora nelle foreste della Siberia, lo capivo dallo sguardo sfocato. Disse: «Non posso, devo leggere…»

John gli strappò il libro, lo chiuse con un colpo secco, tum. Steve sobbalzò, riuscì a dominarsi. I due si squadrarono con odio. Il viso di Steve divenne sempre più rosso. Trattenni il respiro, disorientato dal brusco distacco dal racconto.

John lasciò cadere sull’erba il libro. «Puoi sprecare il tempo come più ti piace, quando il tuo aiuto non mi serve. Ma quando mi serve, me lo dai, chiaro?»

«Sì» disse Steve. Ora guardava il libro per terra. Si allungò a raccoglierlo, mentre John si allontanava. Steve continuò a esaminare il libro, per vedere se si era macchiato d’erba, evitando il nostro sguardo. Mi dispiaceva essere presente. Sapevo come si sentiva, protagonista di una simile scenata sotto gli occhi di tutti. E c’erano Kathryn, Mando, la madre e la sorella di Kathryn, gli altri… Guardai l’ampia schiena di John scomparire giù lungo il sentiero del fiume; fra me, gli lanciai un paio di maledizioni. Non c’era bisogno di fare a Steve una scenata del genere. Era semplice malvagità, che nessun precedente poteva scusare. Ero felice che John non fosse mio padre.

«Bene, la lettura è sistemata» disse Steve, nel suo solito tono scherzoso, o almeno in una imitazione. «Ma pensate al tornado, eh?»

«Tanto devo andare a casa per la cena» disse Mando. «Ma non vedo l’ora di sapere cosa succede dopo.»

«Non ti preoccupare, ti avvisiamo» disse Kathryn, quando fu evidente che Steve non avrebbe risposto. Mando salutò Kristen e si allontanò verso il ponte. Kathryn si alzò. «Meglio che vada a controllare le tortillas» disse. Si chinò a baciare Steve sulla testa. «Non prendertela, tutti devono lavorare, una volta o l’altra.»

Steve le lanciò un’occhiata acida e non rispose. Gli altri andarono via con Kathryn. Mi alzai. «Vado via anch’io, mi sa.»

«Già. Senti, Hank, vedi sempre Melissa, no?»

«Di tanto in tanto.»

Mi fissò negli occhi. «Ma sfrutti bene il tempo, scommetto.»

Mi strinsi nelle spalle, con un cenno d’assenso.

«Il punto è questo» continuò lui. «Se proponiamo a quelli di San Diego di fare loro da guida nell’Orange County, non ci basterà solo saper seguire l’autostrada verso nord. Lo sa fare chiunque. Forse non vorranno avere niente a che fare con noi, se gli offriamo solo questo. Ma se sapessimo dove i giapponesi sbarcheranno, e quando, allora ci porterebbero con loro, capisci.»

«Può darsi.»

«No, è sicuro! Cosa vuoi dire, con “Può darsi”?»

«Niente, d’accordo. E allora?»

«Dal momento che sei amico di Melissa, perché non chiedi ad Addison se può darci una mano?»

«Cosa? Ehi… Add lo conosco appena. E i suoi traffici nell’Orange County riguardano solo lui, nessuno gli chiede mai niente.»

«Be’» disse Steve, guardando per terra con aria avvilita «certo che ci farebbe comodo.»

Sussultai, nel vederlo così abbattuto. Per un pezzo restammo tutt’e due con gli occhi bassi. Steve si batté il libro contro la coscia.

«Non farebbe male, no?» supplicò. «Se non vuole parlarne, dirà di no e basta.»

«Già» ammisi, incerto.

«Prova, d’accordo?» Ancora non mi guardava negli occhi. «Voglio davvero fare qualcosa, su a nord… combatterli, capisci? Mi domandai chi volesse combattere in realtà, i giapponesi o suo padre. Era lì, a occhi bassi, accigliato, abbattuto, ancora sofferente perché suo padre lo tiranneggiava. Mi dispiaceva molto vederlo in quello stato.»

«Parlerò con Add e vedremo cosa risponde» dissi, con chiara riluttanza.

Steve non badò al tono. «Benissimo!» Mi rivolse un breve sorriso. «Se ci dice qualcosa, è garantito che faremo da guida a quelli di San Diego.»

Faceva un certo effetto, la gratitudine di Steve. L’avevo vista di rado. Prima, ci scambiavamo favori da amici, da fratelli, ed era normale, niente di notevole. Prima… oh, adesso la situazione era cambiata, né poteva tornare all’antico. Prima, se non ero d’accordo con lui, era roba da ridere; discutevamo e, quale che fosse il risultato, non si trattava di una sfida alla sua supremazia nella banda. Ma adesso, se discutevo con lui di fronte al gruppo, Steve non ci stava, s’arrabbiava. Adesso, chiedergli spiegazioni equivaleva a mettere in discussione la sua autorità: solo perché io ero stato a San Diego e lui no. Cominciavo a pentirmi di quello stupido viaggio.

E ora, a peggiorare le cose, ero l’amico di Melissa e di Addison Shanks; così, proprio quando meno lo voleva, Steve era costretto a chiedere a me di agire, mentre lui rimaneva di nuovo in margine, a fare da spettatore; e doveva essermene grato! E io… io non potevo discutere con lui senza rischiare di rovinare la nostra amicizia; dovevo approvare qualsiasi piano lui facesse, anche quelli che non mi piacevano; e ora dovevo andare, dietro sua richiesta, a fare una cosa che gli sarebbe piaciuto fare di persona, per la quale io non ero portato. La situazione mi sfuggiva di mano. (Almeno, me n’ero fatto l’idea: a noi stessi, in simili circostanze, diciamo un mucchio di menzogne.)

Tutto questo lo capii in un attimo: uno di quei momenti di comprensione, quando un mucchio di cose viste ma non capite si uniscono, come frammenti di disegno nel comportamento dì un altro, che ora assume significato. Era una cosa che mi era capitata sempre più spesso, quell’estate, ma che continuava a cogliermi di sorpresa. Sbattei le palpebre e guardai di nuovo Steve, valutandolo rapidamente. «Farai meglio a scendere ad aiutare tuo padre» dissi.

«Ma sì, ma sì» disse, di nuovo arrabbiato. «Ancora alla catena. D’accordo, ci vediamo presto, va bene, amico?»

«Ci vediamo» risposi; e mi avviai su per il sentiero del fiume. Arrivato a casa, mi resi conto di non avere visto niente, per tutto il percorso.

14

Una sera ero fuori nell’orto di Pa’ a godermi il cielo sereno con la sua serie di sfumature d’azzurro, quando scorsi il fuoco sul costone. Un falò nel terreno di Tom, un ammiccare giallo vivo nel crepuscolo. Infilai la testa in casa. «Vado da Tom» dissi a Pa’. Nella foresta gli uccelli cinguettavano, mentre percorrevo la scorciatoia. A dire il vero, di notte non era visibile, ma la seguivo basandomi sul terreno e sulla sagoma delle ombre, e quasi correvo, anche senza la voce degli alberi a farmi da guida. Fra i varchi nei cespugli, il falò mi strizzava l’occhio, m’incitava ad affrettarmi.

Sul costone m’imbattei in Rafael, Addison e Melissa, i vicini di monte Basilone, fermi sul sentiero a bere una caraffa di vino. I falò di Tom attiravano la gente. Steve, Emilia e Teddy Nicolin erano già nel cortile e gettavano nel fuoco legna resinosa. Tom precedette fuori di casa Mando e Recovery, tossendo e ridendo. I piccoli Simpson saltellavano fra il ciarpame del cortile, cercando di spaventarsi a vicenda.

«Rebel! Deliverance! Charity! Spostate le chiappe da lì!» gridò Recovery.

Sogghignai. Era una vista piacevole, la sera, il falò di Tom sulla montagna. Ci salutammo e sistemammo alla giusta distanza dal fuoco i ceppi e le sedie; mandammo qualche grido d’entusiasmo quando comparvero John e la signora Nicolin, portando una bottiglia di rum e un grosso pezzo di burro incartato. All’arrivo di Carmen, di Nat e dei Mariani, la festa era già avviata. Nessuno parlò della riunione, naturalmente; ma, guardandomi in giro, non riuscivo a non pensarci. La festa era l’antidoto, per così dire. L’idea che la nostra banda andasse contro il voto mi metteva a disagio; provai a non pensarci, ma Steve continuava a muovere la testa in direzione di Melissa: già non vedeva l’ora che mi dessi da fare con gli Shanks.

Melissa scherzava con le ragazze dei Mariani; presi la mia tazza di rum al burro e cautamente bevvi un sorso, davanti al fuoco. Guardai le fiamme schizzare dalle gocce di resina. Mando cercava di fare dei treppiedi di rami sopra il punto più caldo del fuoco e di giocarci (aveva imparato il trucco da me). Il fuoco intorpidisce la mente in una sorta di pace bizzarra. Esige l’attenzione dell’occhio, come nessun’altra cosa. Trasparenti pennoni gialli si alzano tremolando dalla legna e scompaiono: che roba è, poi? Lo chiesi a Tom, ma la sua spiegazione era la più zoppicante che avessi mai ascoltato, ed è tutto dire. Si riduceva al fatto che, se le cose diventano abbastanza calde, bruciano; e la combustione è il cambiamento del legno in fumo e in cenere, per mezzo della fiamma. Dal gran ridere, Rafael a momenti si soffocava con il rum, quando Tom terminò.

«Davvero illuminante» sghignazzai, scansando le sberle di Tom. «La spiegazione più zoppa… Ah, ah… che ci hai mai rifilato.»

«E allora… i fulmini?» schiamazzò Rafael.

«E il motivo per cui i delfini sono animali a sangue caldo?» aggiunse Steve. Tom ci scacciò con un gesto, come se fossimo zanzare, e si versò altro rum; noi continuammo a ridacchiare.

Ma Tom sapeva perché il fuoco cattura a quel modo l’occhio e la mente, o almeno così mi pareva. Una volta avevo azzardato che il fuoco era una buona immagine della mente… i pensieri tremolano come le fiamme, alla fine esauriscono la legna della carne. Tom aveva annuito, ma aveva risposto che no, era al contrario. La mente, diceva, era una buona immagine del fuoco, almeno sotto questo aspetto: per milioni di anni gli esseri umani sono vissuti in modo più miserevole di noi. Proprio ai margini dell’esistenza, per milioni di anni letteralmente. Giurava che il tempo era quello e mi obbligava a immaginare tutte le generazioni, cosa ovviamente per me impossibile. Immaginarle, voglio dire. Comunque, tornando all’inizio, il fuoco si manifestò agli esseri umani solo come fulmine e incendi delle foreste, che bruciarono un sentiero dall’occhio al cervello.

«Poi, quando Prometeo ci diede il controllo del fuoco…» disse Tom.

«Chi è Prometeo?»

«Prometeo è il nome di quella parte del nostro cervello che contiene la conoscenza del fuoco. Il cervello possiede escrescenze come i tuberi, o i nodi d’albero, dove s’accumula la conoscenza di certi argomenti. Mentre la vista del fuoco provocava l’evoluzione di questo nodo particolare, esso crebbe finché non fu chiamato Prometeo; e allora l’animale uomo ebbe il dominio del fuoco.»

Così, continuò Tom, generazione dopo generazione, un numero incalcolabile di esseri umani si è seduto intorno al fuoco a guardare le fiamme. Per questi antenati morsi dal gelo, il fuoco significava calore; per loro, che divoravano sì e no un giorno su quattro la carne di creature più piccole, significava cibo. Fra l’occhio e Prometeo crebbe un sentiero di nervi simile a un’autostrada e il fuoco divenne uno spettacolo da far girare la testa e da estasiare lo spettatore. Nell’ultimo secolo dei vecchi tempi, l’umanità civilizzata perdette la dipendenza dai semplici fuochi; ma un secolo è solo un battito di ciglia nell’estensione del tempo umano; ormai il battito era passato e noi fissavamo di nuovo il fuoco, come ipnotizzati. Perché il battito di ciglia del tempo non aveva toccato la strada di nervi: ogni cervello l’aveva ancora, ed essa portava ardenti sensazioni al Prometeo dormiente, con la rapidità di sempre, risvegliando quel vecchio nodo dai sogni, dai simboli, dai vividi pensieri perduti.

«Raccontaci una storia» disse Rebel Simpson.

«Sì, Tom, racconta» disse Mando.

Gli altri si unirono a me intorno al fuoco; restammo in semicerchio a sorseggiare rum e a contemplare le fiamme. Tutti erano d’accordo, volevano una storia. Tom si agitò sulla sedia a dondolo, si schiarì la voce, brontolò che sarebbe stata una fatica. Con il viso arrossato dalle fiamme, aspettammo pazientemente che la smettesse.

«Raccontaci di John Pigna» supplicò Rebel. «Voglio la storia di John Pigna.»

Era una delle mie preferite, la storia di come, negli ultimi secondi del vecchio tempo, Johnny fosse inciampato in una delle bombe atomiche nascoste nel retro di un vecchio furgoncino Chevvy e vi si fosse buttato sopra, come un marine su una granata, per usare l’espressione dì Tom, nella speranza di proteggere dall’esplosione i concittadini… e di come fosse sopravvissuto nella bolla d’aria immota a livello zero, e poi soffiato a chilometri d’altezza e ricreato dai raggi cosmici, cosicché, quando era ricaduto fluttuando come una foglia d’eucalipto, era matto quanto Roger, e anche immortale. E di come fosse salito sulle montagne di San Bernardino e su a San Gorgonio, avesse raccolto pigne e le avesse portate sulla piana costiera, piantandole in riva a ogni fiume nuovo, “per mettere un mantello di verde sull’arida nudità della nostra povera terra”… avanti e indietro, avanti e indietro, anno dopo anno dopo anno, finché gli alberi non erano spuntati e non avevano ricoperto il territorio; e Johnny si era seduto sotto una sequoia che cresceva come il fagiolo di Jack e si era addormentato, e lì dorme ancora oggi, aspettando il momento in cui ci sarà di nuovo bisogno di lui.

Era una bella storia. Ma altri obiettarono che Tom l’aveva già raccontata la stagione prima.

«Sai solo tre storie, Tom?» lo rimbrottò Steve. «Perché non ce ne racconti mai una nuova? Perché non racconti una storia sui vecchi tempi?»

Tom gli rivolse la sua tipica occhiata sfottente e tossicchiò. Rafael e Cov si unirono a Steve nel prendere in giro il vecchio.

«Raccontaci una storia che parli di te nei vecchi tempi.»

Sorseggiai il rum e guardai attentamente Tom. L’avrebbe raccontata, stavolta? Sembrava un po’ sfinito e di malumore. Mi lanciò un’occhiata: penso che ricordasse il nostro vivace scambio d’idee, dopo la riunione, quando gli avevo rinfacciato quanto grande ci avesse fatto sembrare l’America.

«D’accordo» decise Tom. «Vi racconterò una storia dei vecchi tempi. Ma vi avverto, non è inventata, è solo un avvenimento realmente accaduto.»

Soddisfatti, ci accomodammo sui ceppi e sulle sedie svergolate dalla pioggia.


«Allora» disse Tom «nei vecchi tempi possedevo un’automobile. Ve lo giuro. E all’epoca della storia, andavo in auto da New York a Flagstaff. Un viaggio come quello avrebbe richiesto circa una settimana, ad andare svelti. Ero quasi alla fine, sulla Statale 40, nel Nuovo Messico. Si avvicinava il tramonto e prometteva tempesta. Grandi nubi nere sembravano un’onda che rotolasse a riva dal Pacifico; il cielo era azzurro chiaro, sopra di me e dietro di me; in basso, la terra era un deserto disseminato di mesas e nient’altro, a parte i cespugli e le due corsie della strada. Un paese fantasma.»

“Per prima cosa notai che due raggi di sole spuntavano dalla sommità del fronte di nubi, fenomeno che anche voi avete visto; ma quei due raggi sembravano fari, si aprivano da sinistra a destra davanti a me, come portenti di qualche sorta. Pensate solo a quei raggi di sole… Avevano sfiorato la terra di tanto così «(mise in mostra pollice e indice appena staccati)» eppure l’avevano mancata, per cui avrebbero continuato per sempre nell’universo. Ma prima mi diedero un segno.

“In secondo luogo, comparve la vecchia Volvo, sbuffando per superare una ripida salita con un cartello in vetta, si cui era scritto Spartiacque continentale. Avrei dovuto immaginarlo. Prima della discesa, sul ciglio della strada c’era un autostoppista.

“A quell’epoca ero avvocato e davo valore alla mia solitudine. Per una settimana intera non ero costretto a parlare con nessuno e l’idea mi piaceva. Possedevo un’automobile, ma da giovane anch’io avevo fatto l’autostop e conoscevo la disperazione dell’autostoppista, il cumulo sempre crescente di piccole delusioni nell’umanità. E poi, stava per piovere. Ma non volevo dare un passaggio a quel tipo, per cui decisi di guardare dall’altra parte nel sorpassarlo, per non incrociare il suo sguardo. Ma sarebbe stata vigliaccheria. Così, all’ultimo istante, lo guardai. E, credetemi, nell’attimo in cui lo riconobbi, sterzai sul bordo della strada e slittai sulla ghiaia, fermandomi.

“Quell’autostoppista ero io. Io in persona.”

«Oh, contaballe» disse Rebel.

«Non è una bugia! Era così, in quei tempi. Voglio dire, ogni giorno capitavano cose anche più bizzarre di questa. Perciò lasciatemi continuare il racconto.»

“Allora. Tutt’e due lo capimmo, quel tizio e io. Non eravamo due semplici sosia, come quelli di cui ti parlano gli amici e poi, quando li incontri, non t’assomigliano per niente. Questo tizio era l’uomo che vedevo nello specchio ogni mattina quando mi radevo. Indossava perfino una mia vecchia giacca a vento.

“Scesi di macchina. Ci fissammo. «Allora, chi sei?» disse lui, in una voce che riconobbi perché avevo ascoltato registrazioni su nastro della mia.

“«Tom Barnard» risposi.

“«Anch’io» disse lui.

“Ci fissammo davvero.

“Come ho detto, all’epoca ero avvocato, d’inverno lavoravo a New York. Per cui ero piuttosto magro, con un po’ di pancetta. Si vedeva subito che l’altro Tom Barnard aveva fatto lavori manuali: era più robusto, duro, in piena forma, con un principio di barba e la pelle abbronzata dalla vita all’aria aperta.

“«Bene, vuoi un passaggio?» dissi. Cos’altro potevo dire? Dopo una breve esitazione, lui annuì; raccolse lo zaino e si avvicinò alla macchina. «La Volvo è ancora in giro, vedo» commentò. Salimmo. A sedere lì con lui, fianco a fianco, provai una sensazione tanto bizzarra da non riuscire a mettere in moto. Insomma, aveva sul braccio una cicatrice identica a quella che mi era rimasta cadendo da un albero! Straordinario! Comunque, ripresi la strada.

“Bene, a stare seduti in silenzio veniva la pelle d’oca a tutt’e due. Cominciammo a parlare. Eravamo il medesimo Tom Barnard, eccome! Nati nello stesso anno, dagli stessi genitori. Confrontando il nostro passato anno per anno, in breve scoprimmo il momento in cui ci eravamo suddivisi, sdoppiati, o chissà cosa. Un settembre di cinque anni prima, io ero tornato a New York, mentre lui era andato in Alaska.

“«Sei tornato allo studio legale?» chiese. Con un sussulto, confermai. Ricordai che avevo pensato di andare in Alaska, una volta terminato il lavoro con il Consiglio Navaho; ma non mi era sembrata una soluzione pratica. E dopo molte riflessioni ero tornato a New York. Alla fine determinammo il momento esatto: il mattino in cui partii in auto per New York, prima dell’alba, nel silenzio assoluto, c’era stato un istante, nell’imboccare la Statale 40, in cui non riuscivo a ricordare se la rampa d’accesso era una semplice curva a sinistra o un cerchio completo sulla destra; e mentre ancora ci pensavo, mi ero ripreso ed ero già sull’autostrada, diretto a est. La stessa cosa era accaduta al mio doppio: solo, lui si era diretto a ovest. «Ho sempre saputo che questa era una macchina magica» disse. «Anch’essa è doppia… ma ho venduto la mia a Seattle.»

“Be’… c’eravamo. La tempesta si scatenò e proseguimmo fra piccoli scrosci di pioggia. Il vento spingeva la macchina. Dopo un poco vincemmo lo stupore e prendemmo a chiacchierare. Gli raccontai cosa avevo fatto negli ultimi cinque anni… pratiche legali, per lo più… e lui scosse la testa, come se mi ritenesse matto. Mi raccontò cos’aveva fatto lui, e mi parve una vita magnifica. Pesca in Alaska, cartografia di fiumi nello Yukon, raccolta di scheletri d’animali per il dipartimento caccia e pesca… lavoro duro, a contatto con la natura. Quanto ridevo, alle sue storie! E da lui udivo la mia risata come la udivano i miei amici, e l’idea mi faceva solo ridere più forte. Vi è mai venuto in mente che la gente vi vede nello stesso modo in cui la vedete voi, una raccolta di apparenze, abitudini, azioni, parole… e che non arriva mai a leggervi i pensieri, a sapere quanto siete fantastici in realtà? In modo che agli altri sembrate estranei quanto loro a voi? Bene, quella sera guardai me stesso dall’esterno e vidi davvero un tipo buffo.

“Ma che vita aveva vissuto! Mi dava una sensazione di vuoto allo stomaco. Capite, aveva vissuto una vita assai vicina a quella che avevo sognato di vivere nel mio piccolo appartamento di New York, un inverno dopo l’altro. Mentre la mia vita in città era solo una serie di luoghi chiusi in cui sedevo a guardar parlare la gente o a parlare io stesso. Tutta qui, la mia vita. Ma quest’altro Tom! Era andato via, aveva fatto quel che volevo fare io. E non sapeva come sarebbe stato il resto della sua vita, disteso davanti a lui come la strada davanti a noi. Capii che amavo viaggiare all’interno del paese proprio perché attraversavo la campagna… che le volte in cui desideravo di girare la macchina nel Nuovo Messico e tornare a New York, e poi girare di nuovo e andare all’ovest, e continuare così, come se la Volvo fosse un pendolo appeso al polo nord… era perché volevo stare in campagna, all’aperto. Cominciai a sentire il vuoto della mia vita, il vuoto provato quando nel mio appartamento di New York guardavo nello specchio mentre mi radevo, quando notavo le rughe sotto gli occhi e pensavo che avrei potuto vivere una vita diversa, che avrei potuto renderla migliore.

“Mi demoralizzai a un punto tale da suggerire a un tratto al mio doppio che forse non ero altro che una sua allucinazione. Mi pareva un’ipotesi sensata. Lui aveva fatto la scelta più forte, io la più debole… non era forse logico pensare di essere niente di più di uno spettro venuto a tormentarlo, una visione di quel che gli sarebbe accaduto se avesse fatto l’errore di tornare a New York?

“«Non credo» disse lui. «È più probabile che sia io un’allucinazione che ti sei fermato a raccogliere per strada. E poi, saresti davvero un diavolo d’allucinazione, per portarmi fino al Nuovo Messico. No, siamo tutt’e due qui in carne e ossa.» Mi diede un pugno sul braccio; dove mi toccò, sentii un forte calore.

“«Hai ragione» ammisi. «Siamo qui tutt’e due. Ma come lo spieghi?»

“«C’era troppa roba per un corpo solo!» disse. «Per questo avevamo difficoltà a prendere sonno.»

“«Soffro ancora d’insonnia» riconobbi. E sapevo perché: avevo vissuto la vita sbagliata, avevo scelto la vita in scatola.

“«Anch’io» disse lui, con mia sorpresa. «Forse perché dormo troppo sul terreno. Ma forse per il mio genere di vita.» Per un attimo parve demoralizzato quanto me. «A volte ho l’impressione di non fare niente di reale, perché nessuno lo fa. Vado contro la mia inclinazione, immagino. Spesso il sonno ne risente.»

“Così anche lui aveva i suoi guai. Ma sembravano ben poca cosa, paragonati ai miei. Era più sano e felice di me, senza dubbio.

“La tempesta aumentò d’intensità. Misi in funzione i tergicristalli, aggiungendo il loro cigolio al rombo sommesso del motore e al sibilo di pneumatici sul bagnato. I fari illuminavano scrosci di pioggia; sull’altra corsia rombavano autotreni diretti a est, che si lasciavano alle spalle lunghi strascichi di schizzi. Mettemmo nell’autoradio una cassetta con la Terza di Beethoven: il secondo movimento sembrava il rumore della tempesta. Restammo ad ascoltare e parlammo di quando eravamo bambini. «Ricordi questo?» «Oh, certo.» «Ricordi quest’altro?» «Avrei dato chissà cosa perché nessuno venisse mai a saperlo.» E così via. Chiacchiere amichevoli, che però mettevano a disagio. Non potevamo più parlare della nostra vita diversa, perché c’era qualcosa di sbagliato, una tensione, un contrasto, anche se nessuno dei due era soddisfatto.

“Cominciava a piovere più forte, il vento squassava l’auto. Si vedeva ben poco, a parte il cono di luce dei fari… la massa nera della terra, le nubi nere più in alto. La marcia del secondo movimento, musica più grandiosa di quanto non possiate immaginare, si riversò dagli altoparlanti uguagliando colpo su colpo la tempesta. E parlammo e ridemmo, e ci sentimmo felici, gridammo, battemmo i pugni sul tettuccio, sommersi da quel che accadeva… perché se eravamo lì entrambi, significava che eravamo speciali, capite. Significava che eravamo magici.

“Ma nel bel mezzo degli schiamazzi, il motore della Volvo sputacchiò, in cima a un’altra salita. Schiacciai l’acceleratore, ma il motore si spense. Mi accostai al ciglio, provai a rimettere in moto. Niente da fare. «Acqua nello spinterogeno» disse il mio doppio. «Non l’hai mai fatta riparare?»

“«No» ammisi. Discutemmo un poco e decidemmo di tentare d’asciugarlo. Non sarebbe stato facile, ma era sempre meglio di stare lì seduti tutta la notte. Tirammo fuori i ponchos; per fortuna la pioggia si ridusse a un’acquerugiola continua. Mentre indossavo il poncho, il mio compagno aveva già sollevato il cofano ed era chino sul motore. Reggeva una piccola torcia elettrica e con l’altra mano tirava via lo spinterogeno. Lo aiutai: tre mani di Tom Barnard tolsero la calotta, staccarono i fili, asciugarono le puntine, rimisero tutto a posto. Il mio doppio corse a prendere un sacchetto di plastica, mentre io restavo chino sul motore, con il poncho disteso come un mantello, e sentivo il calore che si alzava. Il mio doppio tornò… lavoravamo a velocità d’emergenza, capite… e si chinò sul motore: le nostre quattro mani lavorarono con sovrannaturale coordinazione. Rimesso a posto lo spinterogeno, lui si precipitò sul sedile di guida e mise in moto. Il motore si accese e lui lo portò su di giri. L’avevamo aggiustato! Mentre chiudevo il cofano, il mio doppio scese di macchina, sorridendo. «Bene!» disse, dandomi una manata sul palmo; a un tratto spiccò un balzo e si mise a ululare il canto Navaho che avevamo imparato quand’ero bambino… e io giravo con lui, agitavo il poncho come se fosse un manto per le danze Hopi, gridavo a pieni polmoni. Oh, era uno spettacolo bizzarro, noi due che ballavamo davanti all’auto, su quell’altura, saltellando, girando, pestando i piedi nelle pozzanghere; e mi sentii… non esistono parole per esprimere come mi sentivo in quel momento, davvero.

“La pioggia era cessata. All’orizzonte, verso sud, piccole schegge di luce saettavano a terra dalle nuvole basse. Restammo fianco a fianco a guardarle, due tre al secondo. Niente tuoni.

“«La mia vita sembra questa» disse uno di noi, non ero sicuro quale dei due. Il mio braccio, il destro, scottava, dove toccava il suo. Guardai il braccio…

“E vidi che il mio e il suo si erano uniti e terminavano in una sola mano. Diventavamo di nuovo un tutt’uno. Ma era una mano sinistra… la sua. Allora notai che la mia gamba e la sua si univano nello stesso stivale, uno stivale destro. Il mio piede.

“Nell’avambraccio che si muoveva tra noi vedevo i tessuti rossastri, simili a una cicatrice da ustione. E sentivo l’attrazione ardente, il risucchio. Ci fondevamo insieme! Già avevamo in comune parte del braccio, presto saremmo stati uniti fino alla spalla, come gemelli siamesi; e sentivo lo stesso bruciore alla gamba destra, oh, il nostro tempo era giunto alla fine! Prima braccia e gambe, poi il tronco, poi la testa!

“Nel suo viso vidi l’immagine speculare del mio, stravolta dall’orrore. Pensai, ecco come sono, ecco chi sono, il nostro tempo è terminato. Incontrai il suo sguardo.

“«Tira!» disse lui.

“Tirammo. Con la destra lui afferrò il parafango; io scostai il piede sinistro, cercando appiglio nella ghiaia fangosa. Mi piegai all’infuori, tirai come mai avevo tirato in vita mia. L’avambraccio sporgeva fra noi simile a un artiglio. Ansimammo, grugnimmo, tirammo; il tessuto cicatriziale sopra il gomito bruciava, si stirava, restituiva a ciascuno di noi un po’ del braccio. Era doloroso, come se mi fossi afferrato a un sostegno e avessi cercato deliberatamente di strapparmi il braccio. Ma funzionava. Adesso ciascuno di noi aveva un gomito suo.

“«Tieniti forte» ansimai. Mi lanciai verso la strada. Srrppp! Un istante d’acuta sofferenza… e caddi sull’asfalto bagnato. Mi rialzai sostenendomi su tutt’e due le mani. Avevo tutt’e due i piedi. Scossi con violenza la destra, mi afferrai lo stivale destro. Ero di nuovo intero.

“Il mio doppio se ne stava appoggiato alla macchina, si reggeva nella destra l’avambraccio sinistro, tremava. M’accorsi di tremare anch’io. Lui mi fissava con espressione rabbiosa. Per un secondo pensai che volesse assalirmi. Per un istante ebbi una visione, lo vidi saltarmi addosso e prendermi a pugni, vidi le mani penetrare dentro di me e non venire più fuori, cosicché lottavamo a morsi e a calci, a ogni colpo ci fondevamo l’uno nell’altro fino a diventare una singola persona che si colpiva da sola, prona sulla ghiaia, e sobbalzava e si contorceva.

“Ma era solo una visione. In realtà, lui scosse con forza la testa, arricciò le labbra in un’espressione amara.

“«Meglio che me ne vada» disse.

“Risposi: «Credo di sì». Mentre mi rimettevo in piedi, si accostò alla portiera e prese lo zaino. Si tolse il poncho per mettersi in spalla lo zaino.

“«Per te c’è il ritorno a casa, eh, Thomas?» disse. C’era disprezzo, nel suo tono. All’improvviso mi arrabbiai.

“«E tu puoi tornartene sulla strada» risposi. «Sono felice di vederti andare via. Da te ho avuto la sensazione che tutta la mia vita sia stata uno sbaglio, che tu abbia fatto bene e io male. Ma non ho fatto male! Vivo con la gente, come un essere umano dovrebbe vivere; tu fuggi, vaghi sulle strade. Brucerai in fretta.»

“Mi lanciò un’occhiata d’odio e disse: «Hai capito male, fratello. Cerco di vivere la mia vita meglio che posso. E non brucerò mai». Si rimise il poncho. «Prendi tu il nome» disse. «Non so se vivo nel tuo stesso mondo, ma qualcuno potrebbe accorgersene. Perciò, tieni tu il nome. Tanto, ho la sensazione che sia tu il Tom Barnard reale.»

“Così avevamo litigato.

“Mi guardò un’ultima volta. «Buona fortuna» disse. Poi s’allontanò dalla strada, risalì il costone. Nella nebbiolina, con il poncho addosso, parve inumano. Ma io sapevo chi era. E mentre lo guardavo svanire nel buio e fra gli arbusti, il mio spirito si riempì di disperazione. Era me stesso, colui che scompariva laggiù; guardavo il mio vero essere svanire nella pioggia. Un’esperienza che non auguro a nessuno.

“Quando non riuscii più a scorgerlo, m’allontanai in macchina, in preda al panico. Bastava uno scricchiolio a farmi sobbalzare, avevo troppa paura per girarmi a vedere cosa fosse. Guidavo a velocità sempre maggiore e pregavo che lo spinterogeno restasse asciutto. Le valli a est dell’Arizona passarono una dopo l’altra. Per la prima volta, credo, mi resi conto di quanto il paese fosse vasto davvero. Non riuscivo a togliermi dalla testa gli ultimi avvenimenti. Le frasi parevano ancora sospese a mezz’aria. Avrei voluto più tempo a disposizione… avrei voluto che ci fossimo lasciati da amici… che la fusione si fosse realizzata! Perché la completezza ci aveva atterriti tanto? Ma avevo paura: il terrore di quell’unione mi sommerse. Spinsi l’auto a velocità ancora maggiore, come se lui, bagnato ed esausto, m’inseguisse sull’autostrada, chilometri più indietro.”


Tom tossì un paio di volte; fissava il fuoco, ricordando l’episodio. Lo guardavamo a bocca aperta.

«L’hai più rivisto?» chiese Rebel, in tono ansioso. Le parole spezzarono l’incantesimo. Molti di noi risero, Tom compreso. Ma poi il vecchio si accigliò e annuì.

«Sì, l’ho rivisto. E non è tutto.»

Tornammo a metterci comodi. Pensavo che i più anziani avessero già udito quella storia, ma anche loro parvero sorpresi.

«Parecchi anni dopo lo rividi. Capirete da soli a quale anno mi riferisco. Ero ancora avvocato, più vecchio, più trasandato, più grasso che mai. Era così, la vita nei vecchi tempi: gli anni in scatola la consumavano in fretta.» A questo punto Tom guardò me, come per accertarsi che lo ascoltassi. «Era davvero una vita stupida. Ecco perché non capisco la gente che parla di combattere per tornare a una vita del genere. A quei tempi, la gente s’affannava a lavorare in scatole per avere scatole da affittare e scatole a cui fare visita; e passava tutta la vita a correre dentro una scatola, come topi. Anch’io facevo così, e non aveva senso.»

“Una parte di me lo sapeva e si ribellava senza troppa convinzione. A quell’epoca ero di nuovo all’ovest in viaggio. Decisi di salire in cima al monte Whitney, la montagna più alta degli Stati Uniti. Nelle mie condizioni fisiche, era impresa disperata anche solo salire il sentiero di quindici chilometri, ma in un paio di giornate di fatica ci riuscii. Monte Whitney. Proprio sul far della sera… di nuovo. Per questo motivo ero l’unico sulla cima, cosa abbastanza rara.

“Camminavo sulla vetta, grande circa mezzo ettaro. Il sentiero risale il lato di ponente, un pendio facile e graduale. Ma la parete orientale scende quasi a picco e a guardare giù, nelle ombre, provai una bizzarra sensazione. Allora notai uno scalatore. Risaliva da solo la ripida parete, lungo un canalone. Anche il vecchio John Muir aveva risalito da solo la parete est, ma lui andava pazzo per il rischio e da allora ben pochi scalatori hanno osato imitarlo. Mi girava la testa solo a guardare, ma continuai lo stesso a osservare lo scalatore. Quando fu più vicino, prese a lanciare occhiate alla vetta; a un certo punto mi vide e agitò la mano. Più saliva, più mi pareva di conoscerlo. E poi capii chi era. Il mio doppio, con attrezzatura da alpinista e un gran barbone. Sembrava in piena forma. Ed era lì, sulla parete di granito!

“Be’, pensai di svignarmela giù dal sentiero; ma a un certo punto, nell’alzare gli occhi, mi riconobbe. Non potevo non salutarlo. Così aspettai.

“L’ultimo tratto di scalata parve eterno; e intanto lui correva il rischio di morire a ogni passo. Ma quando lui strisciò sulla cima, il sole era ancora alto all’orizzonte, laggiù sul Pacifico, nella foschia. Il mio doppio si alzò, camminò verso di me. Si fermò a un metro di distanza. Restammo a fissarci, senza parlare, in quella luce ambrata che si vede solo sulle Sierras al crepuscolo. Pareva che non ci fosse niente da dire, eravamo come impietriti.

“Accadde allora.”

Qui la voce di Tom assunse un tono rauco e duro; il vecchio si sporse sulla sedia zoppa, smise di dondolarsi, fissò il fuoco, non guardò in viso neppure uno solo di noi. Tossì tre quattro volte, riprese a parlare in fretta: «Il sole era una mezza sfera arancione all’orizzonte e… e ne fiorì un’altra, lì a fianco, e poi un mucchio, su e giù lungo la costa della California. Cinquanta soli in fila, nello splendore del tramonto. Nubi a fungo, alte come noi, poi ancora più alte. Piccoli aloni di fumo intorno a ogni colonna. Era il Giorno, gente. Era la fine.»

“Vidi cos’era, capii cos’era. Mi girai a guardare il mio doppio, lo vidi piangere. Mi venne a fianco, ci tenemmo per mano. Tutto qui, semplicemente. Ci fondemmo insieme con la massima facilità, come se fossimo d’accordo. Al termine, ero là sulla vetta, da solo. Ricordavo tutt’e due i miei passati, sentivo in me la forza di mio fratello. Un vento freddo soffiò verso di me le nubi a fungo. Oh, mi sentivo solo, credetemi; tremavo, guardavo l’orrendo spettacolo; e mi sentivo… come dire?… in qualche modo guarito e… Oh, non so. Non so. Scesi dal monte, chissà come.”

Si appoggiò alla spalliera e quasi spinse troppo all’indietro la sedia a dondolo. Tutti traemmo un respiro profondo.

Tom si alzò, con un rametto stuzzicò il fuoco. «Capite, non si poteva vivere una vita intera, nei vecchi tempi» disse, con tono di nuovo rilassato, perfino irascibile. «Solo ora siamo accanto al fuoco, nel mondo…»

«Risparmiaci la morale, per favore» disse Rafael. «Ce ne hai fatta fin troppa negli ultimi tempi, grazie.»

John Nicolin annuì.

Il vecchio batté le palpebre. «D’accordo, come volete. Tanto, le storie non dovrebbero mai avere una morale. Mettiamo altra legna sul fuoco! La storia è terminata, ho voglia di bere qualcosa.»

Con un colpo di tosse, andò lui stesso a prendersi da bere e ci lasciò liberi. Alcuni si alzarono a mettere legna sul fuoco, altri chiesero alla signora Nicolin se c’era ancora burro… tutti con tono un po’ mogio, ma soddisfatto.

«Il vecchio la sa sempre lunga» disse Steve. Poi mi prese per il braccio e indicò Melissa, dall’altra parte del fuoco. Lo scostai, con un’alzata di spalle; ma dopo un poco girai intorno al falò e le andai vicino. Melissa mi circondò con il braccio. Sentire la piccola mano sul fianco mi fece balzare il rum in corpo. Girellammo nel cortile pieno di cianfrusaglie e ci baciammo con desiderio. Ogni volta ero sorpreso di quanto fosse facile, con Melissa.

«Bentornato a casa» disse lei. «Ancora non mi hai parlato del viaggio… l’ho solo sentito di seconda mano! Perché non vieni a casa mia, più tardi, e mi racconti? Papà sarà presente, è chiaro, ma forse andrà a letto.»

Mi affrettai ad accettare l’invito, pensando più ai baci che alle informazioni che in teoria avrei dovuto strappare a Shanks. Ma quando me ne ricordai (mentre premevo le labbra sul collo di Melissa, bellissimo alla luce del fuoco), fui soddisfatto di me. Sarebbe stato più facile di quanto non credessi. «Andiamo a vedere se c’è ancora un po’ di rum» dissi.

Poco dopo avevamo trovato il rum e l’avevamo mandato giù; e Addison ci aveva trovati. «Andiamo via» disse sgarbatamente a Melissa.

«È ancora presto» rispose lei. «Henry può venire con noi? Voglio sentire il racconto del suo viaggio e mostrargli la nostra casa.»

«Certo» disse Addison, con indifferenza. Dietro la schiena di Melissa rivolsi un gesto di saluto a Steve e a Kathryn; mi sentii assai scaltro, quando scorsi l’espressione stupita di Steve. Imboccammo il sentiero del costone. Add ci precedette nella valle, senza una parola né un’occhiata, così non vide il braccio di Melissa intorno alla mia cintura, né la sua mano nella mia tasca. La tasca aveva un buco comodo per lei, ma io non mi sentivo affatto a mio agio, con Add proprio davanti a noi, e non reagii, se non con un bacio sul ponte, perché lì sapevo dove mettevo i piedi. Percorrendo a passo malfermo il sentiero di monte Basilone, sentivo il rum scorrermi nel sangue e le dita di Melissa frugare nei calzoni. Uau! Ma nello stesso tempo pensavo a come rivolgere a Shanks domande sugli sciacalli e sui giapponesi. Il rum mi confondeva il cervello, se riflettevo sul problema, ma non si trattava solo dell’alcol. Non esisteva una buona soluzione, ecco tutto. Dovevo lanciare l’amo senza l’esca e sperare.

La casa degli Shanks era una delle più vecchie: Add l’aveva costruita prima ancora che qualcuno si stabilisse a Onofre. Come intelaiatura aveva sfruttato un traliccio elettrico, per cui la casa era piccola, ma alta e robusta come un albero. Le pareti a scandole s’inclinavano leggermente verso l’interno; i quattro montanti del traliccio spuntavano dagli angoli del tetto e si univano in un intrico metallico molto più in alto.

«Entra» mi disse Add in tono ospitale, mentre toglieva di tasca una chiave e apriva la porta. All’interno, strofinò un fiammifero e accese una lanterna: l’odore d’olio di balena bruciato riempì la stanza. C’erano scatole e utensili ammucchiati contro le pareti, ma niente mobili.

«Abitiamo di sopra» disse Melissa, mentre Add ci precedeva su per la ripida scala di assi nell’angolo. Ridacchiò e mi spinse per il sedere, salendo dietro di me; quasi sbattei la testa in un grosso montante di ferro del vecchio traliccio.

Per quanto ne sapevo, ero il primo abitante dì Onofre a vedere il piano superiore. Ma non c’era niente di speciale: cucina in un angolo, tavolo di legno chiaro, un vecchio divano e alcune poltrone. Tutta roba da sciacalli. Una scaletta e una botola indicavano la presenza di un altro piano. Add posò la lanterna sopra il fornello e cominciò ad aprire le finestre togliendo le imposte di protezione. Ce n’erano un mucchio. Quando terminò, avevamo un bel panorama nelle quattro le direzioni: scure cime d’albero, da ogni parte.

«Avete un mucchio di finestre» dissi, sotto la spinta del rum.

Add annuì. «Siediti» m’invitò.

«Vado a cambiarmi» disse Melissa; salì la scaletta del piano superiore.

Mi accomodai in una delle grosse poltrone imbottite, di fronte al divano. «Dove ti sei procurato tutto questo vetro?» chiesi, con la speranza di arrivare così all’argomento che mi premeva. Ma Add sapeva che sapevo la provenienza del vetro e mi sorrise storto.

«Oh, qua e là» rispose. «Tieni, prendi un bicchiere di rum. Il mio è migliore di quello dei Nicolin.»

Avevo già bevuto a sufficienza, ma accettai il bicchiere.

«Siediti qui sul divano» disse Add, reggendomi il bicchiere mentre mi spostavo. «Da lì c’è la vista migliore. Se l’aria è chiara, si vede Catalina. Se no, il mare. Stava per diventare la tua seconda casa, a quanto dicono.»

«Seconda e ultima, a momenti.»

Rise forte e a lungo. «Ho sentito, ho sentito. Bene.» Bevve un sorso. «Una bella serata. Mi piacciono le storie di Tom.»

«Anche a me.» Sorseggiammo il rum; per un momento parve che non avessimo più niente da dire. Per fortuna Melissa scese, in un vestito da casa bianco che le stringeva il seno. Con un sorriso prese un bicchiere di rum e venne a sedersi accanto a me sul divano, premendomi braccio e gamba. La cosa mi rendeva nervoso, ma Add ci rivolse quel suo sorriso di storto (molto diverso da quello di Tom, causato da una cicatrice: Add sollevava solo un angolo delle labbra) e annuì, quasi fosse soddisfatto nel vederci in quella posizione intima. Si allungò contro la spalliera, posò il bicchiere in equilibrio sul bracciolo consunto della poltrona.

«Buon rum, vero?» disse Melissa. Riconobbi che era vero. «L’abbiamo scambiato con due dozzine di granchi. Vogliamo solo il rum migliore.»

«Mi piacerebbe fare scambi con San Diego» disse Add, irritato. «Davvero è grande come dice Tom?»

«Certo. Forse anche più grande.»

Melissa mi posò la testa sulla spalla. «Ti è piaciuto, laggiù?»

«Direi di sì. Un gran bel viaggio, lo ammetto.»

Cominciarono a chiedermi i particolari. Quanti villaggi c’erano? Erano tutti collegati dalla ferrovia? Il Sindaco era benvoluto? Quando raccontai che la mattina il Sindaco si allenava al tiro al bersaglio, si misero a ridere.

«Tutte le mattine?» chiese Add, alzandosi a riempire di nuovo i bicchieri.

«Così dicono.»

«Significa che hanno un mucchio di munizioni» borbottò fra sé, nell’angolo cucina. «Ehi, la bottiglia è vuota.»

«Ne hanno di sicuro» dissi. Mi parve che ci fosse il modo di portare presto la conversazione sugli sciacalli. Mi rilassai e cominciai a gustare la visita. «La zona è piena di magazzini navali e il Sindaco li ha fatti esplorare tutti.»

«Ah-hah. Un momento, scendo di sotto a prendere un’altra bottiglia.»

L’istante in cui la testa di Add sparì sotto il livello della botola, Melissa e io ci baciammo. Le sentivo il rum sulla lingua. Le posai la mano sul ginocchio; lei si tirò su il vestito, così toccavo la coscia nuda. Altri baci. Avevo il fiato corto. Spinsi il vestito sempre più su, finché scoprii che Melissa non portava niente sotto. Per la sorpresa il sangue mi rimbombò nelle orecchie. Il ventre le pulsava. Lei mi prese la mano, se la premette sul ventre. Ci baciammo più forte; lei mi strinse l’uccello nei pantaloni. Il fiato mi mancò del tutto, whoosh, whoosh!

Thump, thump, risposero gli stivali di Add sulla scala. Melissa si staccò da me e si tirò giù il vestito. Per lei andava benissimo, ma il rigonfio nei calzoni tradiva la mia erezione. Melissa mi diede un’altra strizzatina maliziosa che rese ancora più evidente il rigonfio e ridacchiò alla mia aria costernata. Bevvi il rum e mi rannicchiai nell’angolo del divano. Add entrò nella stanza, ruppe il sigillo della bottiglia. A questo punto ero presentabile, anche se il cuore batteva due volte più in fretta.

Bevemmo ancora. Melissa mi lasciò la mano sul ginocchio. Add si alzò e girò per la stanza in penombra, a scrutare dalle finestre; ne aprì prima una, poi un’altra, per regolare la circolazione d’aria, disse. Il rum mi dava alla testa.

«Il fulmine non colpisce mai la casa?» chiesi.

«Certo» risposero insieme e risero. Add aggiunse: «A volte ci colpisce e fa saltare via le scandole da tutta una parete. Quando le controllo, sono tutte bruciacchiate.»

«E a me si rizzano i capelli» disse Melissa.

«Non avete paura dell’elettrocuzione?» chiesi, compitando con cura l’ultima parola.

«No, no» disse Add. «Qui siamo bene a massa.»

«Cosa vuol dire?»

«Il fulmine corre lungo i montanti d’angolo e si scarica nel terreno. Ho chiesto a Rafe di dare un’occhiata e lui ha confermato che non corriamo alcun pericolo. Il suo parere mi consola, quando il fulmine ci colpisce e squassa la casa, e scintille azzurre ronzano come mosconi da tutte le parti.»

«A me piace» disse Melissa. «È eccitante.»

Add continuò a giocherellare con le finestre. Quando lui guardava da un’altra parte, Melissa mi prendeva la mano e se la posava in grembo, bloccandola fra le cosce. Quando Add si girava, lei allentava la stretta e io tiravo via di scatto la mano. Mi sembrava d’impazzire. Arrivai al punto da non aspettare che fosse Melissa a prendermi la mano: mi tuffavo su di lei alla minima occasione. Bevemmo ancora. Finalmente le finestre furono disposte in modo da soddisfare Add, che venne a fermarsi davanti al divano e mi guardò come se sapesse cosa succedeva alle sue spalle.

«Secondo te, cosa cerca in realtà il Sindaco di San Diego?» mi chiese.

«Non so» risposi. Ero confuso… impaziente di allungare la mano sotto il vestito di Melissa, ma consapevole della presenza di Add, proprio di fronte a me.

«Vuole essere il re di tutta la costa?»

«Non credo. Vuole cacciare i giapponesi dal continente, tutto qui.»

«Ah. L’hai già detto, alla riunione. Non so se crederci.»

«Perché?»

«Non ha senso. Di quanti uomini hai detto che dispone?»

«Non mi pare d’averlo detto. E poi, non lo so con esattezza.»

«Hanno apparecchi radio?»

«Ehi, come hai fatto a indovinare? Hanno una grossa radio vecchia, ma ancora non funziona.»

«No?»

«Non ancora, ma hanno intenzione di far venire dal Salton Sea un tizio a ripararla.»

«Chi te l’ha detto?»

«La gente di San Diego. Il Sindaco.»

Con tutte quelle domande, ritenni fosse il momento migliore per farne qualcuna anch’io. «Add, dove hai preso veramente tutto quel vetro?»

«Ai raduni di scambio, per la maggior parte.» Adesso guardava Melissa. Si scambiarono un’occhiata di cui non compresi il significato.

«Dagli sciacalli?»

«Certo. Sono loro che vendono il vetro, no?»

Decisi di sfiorare l’argomento. «Non tratti mai direttamente con gli sciacalli, Add? Voglio dire, al di fuori dei raduni.»

«No di certo. Perché lo chiedi?» Aveva ancora quel sorriso storto, ma gli occhi divennero attenti. Il sorriso svanì.

«Così» risposi. Provai per un attimo la sensazione che mi leggesse nel pensiero. «Curiosità, solo questo.»

«No» disse, deciso. «Non tratto mai con gli zopilotes, qualsiasi voce ti sia giunta. Pesco i granchi sotto Trestles, per cui giro molto da quelle parti, ma non faccio altro.»

«Raccontano un mucchio di menzogne, su di noi» intervenne Melissa, in tono tragico.

«Non importa» disse Add, di nuovo con il sorriso. «Ognuno, credo, dà adito a storie, d’un tipo o dell’altro.»

«Vero» confermai. Ed era proprio così. Chiunque non vivesse nella valle, sotto l’esame costante di tutti, era oggetto di pettegolezzi. Capivo come le voci nascessero più in fretta nei confronti di un tipo riservato come Addison. Era ingiusto nei suoi riguardi. Non sapevo cosa dire. Steve avrebbe dovuto trovare un altro modo per procurarsi le informazioni da riferire a quelli di San Diego. Battei le palpebre, respirai a fondo e con regolarità, nel tentativo di annullare gli effetti del rum. Add aveva acceso solo una lanterna; anche se quell’unica fiammella era riflessa da cinque o sei finestre, la stanza era piena di ombre danzanti. Nel mio bicchiere c’erano ancora due dita di rum, ma decisi di lasciar perdere. Addison si allontanò dal divano. Melissa si drizzò a sedere. Add andò nell’angolo della cucina e consultò un grosso orologio a sabbia.

«È stato divertente, ma s’è fatto tardi. Melissa, dovremmo già essere a letto. Abbiamo un mucchio di lavoro, domattina.»

«Va bene, papà.»

«Accompagna giù Henry e dagli la buonanotte in fretta. Henry, torna a farci visita, uno di questi giorni.»

Mi alzai, poco saldo sulle gambe, ma impaziente. Add mi strinse con forza la mano, sorridendo. «Fai attenzione, tornando a casa.»

«Certo. Grazie per il rum, Add.»

Seguii Melissa a pianterreno e poi fuori della porta, nella notte. Ci baciammo. Mi appoggiai con la schiena contro la parete inclinata per tenermi in piedi, una gamba fra quelle di Melissa, mentre lei si premeva addosso a me. Mi ricordò la prima volta che avevamo amoreggiato, al raduno di scambio; solo che questa volta ero più sbronzo. Melissa mi si strusciò contro la coscia e lasciò che la toccassi, mentre mi baciava sul collo e ansimava, umm, umm, sottovoce.

«Mi aspetta» disse poi. «È meglio che torni di sopra.»

«Oh.»

«Buonanotte, Henry.»

Un bacetto sul naso, ed era scomparsa. Mi staccai dalla parete e attraversai, malfermo sulle gambe, la piccola radura. C’erano fondamenta antiche, i resti di vecchie case, pareva. Tutto sparito, tranne le lastre di cemento, che scricchiolavano sotto le erbacce. Inciampai in una lastra e mi sedetti per un poco, a guardare attraverso gli alberi la torre degli Shanks. Davanti alla luce, nel soggiorno, c’era una sagoma. Assaggiai il dito che aveva toccato Melissa. Il sangue mi andò alla testa. Mi parve che occorresse un terribile dispendio di energie, per rialzarmi: allora me ne restai seduto a ricordare le sensazioni che mi aveva dato. Vedevo anche lei, la sagoma era la sua: si muoveva nell’angolo cucina della stanza superiore. Immaginai che stesse pulendo. Non so quanto tempo trascorresse, ma all’improvviso la lanterna della cucina si oscurò, ricomparve… una, due, tre e quattro volte. Mi parve una stranezza.

A una certa distanza alla mia destra, un ramoscello si spezzò. Capii all’istante che qualcuno camminava sulle antiche fondamenta. Senza fare rumore, strisciai fra due grossi alberi e tesi l’orecchio. A nord della casa c’erano almeno due persone, poco abili a muoversi silenziosamente nei boschi. Gente della valle non avrebbe mai fatto tutto quel rumore. E poi non c’era motivo che due della valle si trovassero lì. Me ne resi conto in un attimo, nonostante la sbronza. Senza pensarci due volte, mi distesi bocconi dietro un albero, da dove vedevo la porta di casa degli Shanks. E infatti le ombre sul lato opposto della piccola radura si mutarono in sagome umane, tre individui. I tre andarono dritti alla porta e dissero qualcosa, rivolgendosi al piano superiore.

Fu Melissa a farli entrare. Mentre erano ancora al pianterreno, scivolai fra gli alberi, silenzioso come un gufo, e mi appiattii contro la parete della casa. Benedissi la mia velocità (ero di gran lunga il più veloce di Onofre) e trattenni il fiato. Solo allora mi domandai se volevo davvero essere lì. Colpa della sbronza: a volte rende rapida l’azione solo perché impedisce di riflettere.

Da terra udivo le voci, ma non riuscivo a capire le parole. Mi ricordai d’avere visto blocchi di legno inchiodati alla parete vicino alla porta, in modo da formare una scala per arrivare al tetto. Mi spostai lungo la parete e cominciai a salire piano piano, un minuto per blocco, per non provocare scricchiolii. Arrivato con la testa a livello delle finestre, mi fermai e tesi l’orecchio.

«Hanno una radio» diceva Addison. «Lui dice che non funziona ancora, ma che arriverà un tizio dal Salton Sea a cercare di ripararla.»

«Gonzales, probabilmente» commentò una voce nasale, acuta.

Una voce più profonda aggiunse: «Danforth si vanta sempre d’essersi procurato apparecchiature quasi funzionanti, ma non sempre è vero. Ha descritto le condizioni della radio?»

«No» rispose Add. «Ma tanto non saprebbe dare un giudizio.»

Mi avevano spremuto! Ero andato lì per carpire informazioni e loro invece avevano torchiato me. Diventai rosso come un peperone. E c’era di peggio: Melissa probabilmente aveva combinalo con Add d’avvicinarmi quando ero già sbronzo, così non avrei fatto caso alle domande. Era davvero una brutta cosa.

E poi Melissa disse, con disprezzo: «Non sa niente di più di quel che sanno gli altri zappaterra.»

«Conosce i libri» la corresse Add. «E tastava il terreno per scoprire qualcosa, non so cosa. Vetro? Oppure l’Orange, più facilmente. Può darsi che fosse solo curioso. Ma non è ignorante come la maggior parte di loro.»

«Oh, è in gamba» disse Melissa. «E regge bene l’alcol, anche.»

Uno degli sciacalli si muoveva per la stanza; ne scorsi l’ombra quando passò sopra di me. M’incollai alla parete, cercando di sembrare una scandola. Se m’avessero sorpreso… be’, potevo batterli tutti, nei boschi di notte. Se non cadevo. Ma non ero nelle condizioni migliori per correre. All’improvviso provai la paura che avrei dovuto provare fin dall’inizio.

Continuarono a parlare di quelli di San Diego. Add e Melissa riferirono tutto quel che avevo detto. Fui sorpreso nello scoprire quanto: certe cose non ricordavo affatto d’averle dette. M’avevano spremuto per bene, questo era certo. E io da loro non avevo appreso un accidente. Mi sentii un babbeo. Digrignai i denti contro quei due.

Ma ora rendevo loro la pariglia. E nonostante quel che lei aveva fatto e quel che diceva adesso, una parte di me voleva allungare ancora la mano sotto il vestito di Melissa.

«I nostri amici dell’isola contano di sbarcare gente e materiali, fra non molto» disse la voce nasale. «Dobbiamo sapere fino a che punto Danforth è informato e cosa sarebbe in grado di fare, se fosse al corrente. Può darsi che ci tocchi cambiare il punto d’approdo.»

«Quelli non sanno niente» disse Add. «E Danforth sa solo muovere la lingua. Se potessero arrivare a Dana Point, non chiederebbero aiuto alla gente di Onofre.»

«Forse vogliono solo un buon porto su a nord, qui lungo la costa» disse l’uomo sopra di me. Guardava fuori della finestra. «Las Pulgas ha troppe secche ed è troppo lontano.»

«Possibile. Ma da quanto si sente dire, non sembra che siano fonte di preoccupazioni.»

La voce nasale sembrava della stessa idea. «Danforth non può soffrire il suo uomo più in gamba, a quanto si dice. Non dev’essere un granché, come capo.»

Parlarono nei particolari di Danforth e dei suoi uomini. Sul gradino di legno tremavo di rabbia: per sapere tante cose avevano certo spie dappertutto! Noi eravamo una banda di sempliciotti ignoranti, a confronto di una simile organizzazione.

«Dobbiamo andare» disse la voce nasale. «Voglio essere a Dana Point per le tre.»

L’uomo continuò a parlare, ma appena accennò alla partenza io cominciai a scendere i blocchi, spostando con cautela il peso del corpo e pregando che l’uomo sopra di me non guardasse dalla finestra. Ero bloccato contro la casa: da qualsiasi parte andassi, c’erano buone probabilità che qualcuno mi scorgesse. Lo spazio aperto meno esteso era a ovest; mi spostai su quel lato dell’edificio e aspettai. Erano già scesi? Pensai di sì e mi rifugiai nei boschi. Una volpe non avrebbe attraversato la radura più rapidamente di me.

E infatti ben presto gli sciacalli comparvero sulla soglia. Melissa li salutò agitando la mano: indossava ancora l’abito bianco. Fui tentato di accostarmi di nuovo alla casa per spiare padre e figlia, ma non volevo chiedere troppo alla fortuna. Finché non sapevano che avevo assistito di nascosto al loro incontro con gli sciacalli, avevo cambiato le carte in tavola a mio vantaggio. Sembrava una buona cosa. Mi avviai al fiume, piano, senza fare rumore. Alla fin fine, avevo ottenuto più informazioni io di loro; e mi credevano ancora mezzo scemo. Forse sarebbe tornato utile in seguito. Morivo dalla voglia di vendicarmi. Se solo gli sciacalli avessero precisato il giorno dello sbarco! Ma sapevo che i giapponesi sarebbero sbarcati presto a Dana Point: un’informazione valida da passare a Steve. Avevo una bella storia da raccontargli. E, con la chiarezza degli ubriachi, pensai che Steve si sarebbe ingelosito di nuovo. Me ne fregavo. Avrei preso gli Shanks… mostrato a Steve quel che sapevo fare… spazzato via i giapponesi… tolto i vestiti a Melissa… trionfato in tutti i modi…

Lo scricchiolio di un albero mi fece saltare per davvero. Badai di più al percorso. Impiegai un bel po’ di tempo per arrivare a casa e anche di più per addormentarmi. Che notte! Mi rividi, appeso al muro della casa degli Shanks. Avevo avuto successo un’altra volta. Quella Melissa, però… aveva urtato i miei sentimenti. Ma tutto sommato ero soddisfatto. Fuggire dalla nave giapponese, battere in astuzia gli sciacalli e le loro spie… davvero un bel lavoro. Dopo un po’ di queste fantasie da ubriaco mi addormentai. Quella notte sognai di essere sdoppiato, inseguito da due copie del capitano giapponese e, in una casa inesistente sul fiume, salvato da due Kathryn.

15

«Bene, Henry» disse Steve, alla fine del racconto della nottata (un poco abbellito e scorciato della parte in cui Add e Melissa mi avevano spremuto tutto quel che sapevo) «dobbiamo sapere a tutti i costi quando sbarcheranno a Dana Point, altrimenti non abbiamo niente in mano. Pensi di riuscirci?»

«E come vuoi che faccia? Add non mi dirà un bel niente. Perché non cerchi di scoprirlo tu?»

Parve offeso. «Sei tu quello che conosce Melissa e Add.»

«Come ho detto, non serve.»

«Be’… potremmo spiarli di nuovo» suggerì, poco convinto.

«Sì, forse.»

Riprendemmo a pescare in silenzio. Il sole picchiava sull’acqua e i frangenti imbiancavano le onde. Giorni caldi come quello erano la mia felicità… il fianco delle montagne fumava, l’acqua e il cielo erano due tonalità dello stesso azzurro vivo… ma questa volta non vi badavo. Steve rifletteva su come spiare Add e meditava cosa riferire a Lee e Jennings. Aveva previsto tutto quel che avrebbe detto per convincerli a prenderci come guide nell’Orange. Mentre remavamo verso la foce, aprii bocca, per la prima volta da quando avevo raccontato la mia storia.

«Puoi cominciare a mettere in atto i piani… a riva c’è Jennings che parla con tuo padre.»

«Proprio lui?»

«Già. Non lo riconosci?»

Anche se il suo viso era piccolo come l’unghia del mio mignolo, lo riconoscevo. Nel vederlo, il viaggio a San Diego mi tornò alla mente tutto in una volta, come se fosse una cosa che mi era accaduta davvero. Il ricordo mi diede i brividi. Lee non si vedeva. Jennings parlava, come al solito. Adesso che lo vedevo in carne e ossa, il nostro piano mi parve sciocco. «Steve, penso sempre che trattare per conto nostro con quelli di San Diego non sia una buona idea. Che cosa dirà il resto della valle, quando verrà a saperlo?»

«Nessuno lo scoprirà. Via, Henry, non lasciarmi nella bagna proprio adesso. Sei il mio migliore amico, no?»

«Già. Ma questo non significa che…»

«Significa che adesso devi aiutarmi. Da solo non posso farcela.»

«Ah… merda.»

«Dobbiamo ascoltare cosa dicono quei due.»

Remò come se facesse una gara. Quando toccammo la sabbia, dissi: «Come facciamo ad avvicinarci tanto da udirli?»

Saltammo a riva e sollevammo la barca sopra il riflusso dell’ultima ondata. «Mentre porti via il pesce, passa davanti a loro e tendi l’orecchio. Io ti vengo dietro. Metteremo insieme quel che abbiamo udito.»

«Non sarà facile.»

«Merda, sappiamo quel che dice mio padre. Forza!»

Afferrai per le branchie un paio di persici e camminai lentamente sulla sabbia fino ai banchi di pulitura, muovendomi proprio alle spalle di Jennings. Lui si girò. «Ehi, ciao, Henry! A quanto pare sei tornato a casa sano e salvo.»

«Certo, signor Jennings. Dov’è il signor Lee?»

«Ah, ora…» Socchiuse gli occhi. «Non è venuto con noi, stavolta. Ti manda i saluti.» I due compagni di Jennings (uno era stato sul mio treno, mi parve) sorrisero furbescamente.

«Capisco.» Peccato, pensai.

«Siamo andati a fare visita al tuo amico Tom, ma era a letto malato. Ci ha detto di venire qui a parlare con il signor Nicolin.»

«Ed è quel che facciamo» disse John. «Quindi, Hank, togliti dai piedi.»

«Malato?»

«Sparisci!» disse John.

«Ne parliamo dopo» disse Jennings.

Portai i persici ai banchi di pulitura e salutai le ragazze. Nel tornare alla barca incrociai Steve, poi udii John dire: «Non hai alcun diritto d’insistere, amico. Vogliamo restarne fuori.»

«Per noi va benissimo» replicò Jennings. «Ma abbiamo bisogno di usare le rotaie; e passano proprio dalla valle.»

«Ci sono rotaie anche fra le montagne. Usate quelle.»

«Il Sindaco non vuole.»

Non ero più a portata d’orecchio. Difficile udire la loro voce, con i gabbiani che scendevano in picchiata e stridevano disputandosi gli scarti. Presi un tonno striato e un altro persico, m’affrettai a tornare. Steve li aveva appena oltrepassati.

«Barnard si è rifiutato di parlare con me» disse Jennings. «Vuole forse che ci mettiamo d’accordo noi?»

«Tom ha votato contro la vostra richiesta d’aiuto, come la maggioranza degli altri, questo è tutto.»

Ai banchi, la signora Nicolin mi chiese: «Perché quell’uomo discute con John?»

«Vuole il permesso di usare le rotaie della valle.»

«Ma sono rovinate, soprattutto vicino al fiume.»

«Già. Di’, il vecchio è malato?»

«Così ho sentito. Ma quando i vecchi si ammalano…»

Steve mi diede una spinta da dietro. Mi girai per un altro viaggio.

«Al Sindaco non piacerà» diceva Jennings. «E a nessuno dei nostri. Gli americani devono stare insieme, di questi tempi, non lo capisci? Henry! Sapevi che il tuo viaggio a San Diego non è servito a niente?»

«Uh…»

«Sai cosa succede qui?»

John mi rivolse un gesto rabbioso. «Voi ragazzi toglietevi di mezzo» ordinò.

Steve udì, nonostante le strida dei gabbiani, e mi spinse sul sentiero della scogliera. Dalla cima guardammo la spianata del fiume. Jennings parlava ancora. John gli stava di fronte, a braccia incrociate. Fra non molto avrebbe afferrato Jennings e l’avrebbe sbattuto in acqua.

«Quello lì è uno sciocco» disse Steve.

«Non credo. Sapevi che il vecchio è malato?»

«Già.» Non parve molto interessato.

«Perché non me l’hai detto?»

Non rispose.

«Vado a vedere come sta.»

Quando ci aveva raccontato la storia, aveva tossito parecchio. E anche durante la riunione era parso svogliato e fiacco. Tutto quel che ricordavo della morte di mia madre era che anche lei tossiva parecchio.

«Non ora» disse Steve. «Appena quello lì la pianta con mio padre, lo raggiungiamo da solo e gli parliamo del nostro progetto.»

«Jennings» dissi bruscamente. «Quello lì si chiama Jennings. Meglio che te ne ricordi, quando gli parlerai.»

Steve mi squadrò. «Lo sapevo.»

Percorsi un tratto di sentiero. Ero in collera. Giù ai banchi John si allontanò da quelli di San Diego, con la spalla ne scostò uno, si girò a dire qualcosa. Poi lasciò che i tre si guardassero tra loro. Jennings diede un ordine e i tre imboccarono il sentiero della scogliera.

«Togliamoci di vista» disse Steve.

Ci nascondemmo fra gli alberi, a sud del cortile dei Nicolin. Ben presto Jennings e i suoi due compagni comparvero sulla cresta della scogliera e s’incamminarono dalla nostra parte.

«Bene, andiamo a incontrarli» dissi.

«Meglio seguirli» replicò Steve.

«Forse non saranno contenti.»

«Dobbiamo parlare con loro dove nessuno ci vede.»

«Va bene, ma non prendiamoli di sorpresa.»

Quando i tre si furono inoltrati fra gli alberi a sud, iniziammo a seguirli, fermandoci spesso a scrutare davanti a noi, come banditi di un romanzo.

«Eccoli là» disse Steve, rosso per l’eccitazione. Le giacche scure comparivano a tratti fra gli alberi davanti a noi. Ci giungevano brani della voce di Jennings, forte come al solito.

«Questo posto vale un altro» disse Steve.

«Ah-hah.»

«Fermiamoli, allora.»

«Per me va bene. Non ti trattengo.»

Mi squadrò di nuovo. Si scostò dall’albero. «Ehi, ferma! Fermatevi!»

Di colpo la foresta fu silenziosa. Quelli di San Diego erano spariti.

«Signor Jennings!» chiamai. «Sono io, Henry! Dobbiamo parlarti.»

Jennings sbucò da dietro un eucalipto; rimise in tasca la pistola. «Perché non l’hai detto prima?» disse, irritato. «Non è bene cogliere di sorpresa la gente nei boschi.»

«Scusa» dissi, con un’occhiata a Steve. Era rosso fuoco.

«Cosa volete?» chiese Jennings, spazientito. I suoi due compagni gli comparvero alle spalle.

«Vogliamo parlarvi» disse Steve.

«L’ho già sentito. Parlate, allora. Cosa volete?»

Steve esitò. «Vogliamo unirci alla resistenza. Non tutti nella valle sono contrari ad aiutarvi. A dire il vero, la differenza di voti è stata minima. Se alcuni di noi vi aiuteranno, forse anche gli altri alla fine cambieranno idea.»

Un compagno di Jennings ridacchiò, ma lui con un gesto lo zittì. «Un magnifico pensiero, amico; ma quel che ci occorre davvero è la possibilità di attraversare la valle per andare a nord. Non credo che tu possa garantircela.»

«No, infatti. Ma possiamo farvi da guida, quando sarete nell’Orange, e questo conta di più. Se andrà tutto bene, ripeto, probabilmente in seguito gli altri si uniranno a noi.»

Sbigottito, fissai Steve; ma Jennings non guardava dalla mia parte.

«Conosciamo alcuni sciacalli che stanno dalla nostra parte» continuò Steve. «Da loro sapremo dove e quando i giapponesi sbarcheranno.»

«Chi ve lo dirà?» chiese Jennings, scettico.

«Gente che conosciamo» rispose Steve. Notando l’espressione poco convinta di Jennings, aggiunse: «Quassù ci sono sciacalli che conoscono altri sciacalli che trafficano con i giapponesi; la cosa non gli va giù. Non possono farci molto, ma possono informarci; allora penseremo noi a fare qualcosa, giusto? Siamo stati lassù un mucchio di volte, conosciamo il territorio e tutto il resto.»

«Informazioni del genere ci servirebbero» disse Jennings.

«E noi ve le daremo.»

«Bene. Benissimo.» Più lentamente aggiunse: «Stabiliremo un sistema per avere da voi informazioni di tanto in tanto.»

«Vogliamo fare di più» dichiarò Steve, deciso. «Possiamo guidarvi in qualsiasi punto i giapponesi tocchino terra. Nessuno di voi conosce le rovine bene quanto noi. Ci siamo stati di notte un mucchio di volte. Se fate un’incursione, vi serve qualcuno che conosca il territorio, per arrivare rapidamente sul posto e tornare via.»

Jennings non era molto bravo a nascondere i propri pensieri; adesso sembrava interessato.

«Vogliamo venire con voi e combatterli» disse Steve, con veemenza. «Siamo come il Sindaco: vogliamo che i giapponesi abbiano troppa paura per mettere ancora piede sulla nostra terra. Voi fornite uomini e fucili; quattro o cinque di noi vi guideranno e combatteranno con voi. E vi faremo sapere il momento degli sbarchi.»

«Gran bella proposta» disse lentamente Jennings, guardando me.

«Siamo giovani, ma non importa» proseguì Steve. «Sappiamo combattere… e tenderemo loro delle buone imboscate.»

«Proprio quel che facciamo noi» dichiarò Jennings, brusco. «Tendiamo imboscate e li uccidiamo. Qui si parla di uccidere esseri umani.»

«Lo so.» Steve parve offeso. «I giapponesi sono degli invasori. Approfittano della nostra debolezza. Ucciderli è difendere il nostro paese.»

«Vero» convenne Jennings. «Tuttavia… quell’uomo, nella valle, non gradirà che traffichiamo con voi alle sue spalle, giusto? Non so se sia il caso di accettare la vostra offerta.»

«Non ne saprà mai niente. Siamo in pochi, nessuno farà parola. Di notte andiamo spesso fra le rovine… non avranno sospetti, quando verremo con voi. Inoltre, se le cose andranno bene, saranno obbligati a unirsi a noi.»

Jennings girò lo sguardo dalla mia parte. «È così, Henry?»

«Certo, signor Jennings.» Continuai anch’io sulla stessa linea. «Vi guideremo lassù e nessuno ne saprà niente.»

«Può darsi» disse Jennings. «Può darsi.» Lanciò un’occhiata ai suoi uomini, poi mi fissò. «Sapete già quando ci sarà uno sbarco?»

«Presto» disse Steve. «Sappiamo che presto ce ne sarà uno. Sappiamo già dove e scopriremo esattamente quando, penso nel giro di qualche giorno.»

«D’accordo. Ecco cosa vi dico. Se avete notizia di uno sbarco, venite a riferircelo, alla stazione della pesa dove abbiamo finito di riattivare i binari. Avremo gente, lì. Io tornerò a parlare con il Sindaco; e se lui approverà l’idea, cosa possibile, porteremo altri uomini quassù e ci terremo pronti a muoverci. Abbiamo rimesso in funzione la ferrovia, te l’avevo detto, Henry? È stata dura, ma ce l’abbiamo fatta. Comunque, sapete dov’è la stazione della pesa.»

«Lo sappiamo tutti» disse Steve.

«Bene, bene. Ascoltate, adesso: se avrete notizia di uno sbarco di musi gialli, venite di corsa alla stazione a riferircelo; vedremo cosa si potrà fare. Per il momento restiamo intesi così.»

«Dobbiamo partecipare anche noi alla spedizione» insistette Steve.

«Certo, non l’ho già detto? Sarete le nostre guide. Dipende tutto dal Sindaco, capite, ma penso che sarà d’accordo. Lui vuole colpire i musi gialli in tutti i modi possibili.»

«Anche noi» dichiarò Steve. «Giuro.»

«Oh, ti credo. Adesso è meglio andare.»

«Quando possiamo venire a chiedere cosa ne pensa il Sindaco?»

«Oh… fra una settimana, diciamo. Ma venite pure prima, se avete notizie.»

Steve annuì. Jennings spinse gli uomini verso sud.

«Mi ha fatto piacere parlare con voi, amici. È bello sapere che qualcuno, in questa valle, è un vero americano.»

«E noi lo siamo. Vi rivedremo presto.»

«Arrivederci» dissi anch’io.

Li guardammo scivolare fra gli alberi. Steve mi diede un colpo al braccio.

«Ci siamo! Andremo anche noi, Henry, andremo anche noi!»

«Così sembra» risposi. «Ma cos’è che hai detto? Che nel giro di qualche giorno sapremo il posto dello sbarco? Hai mentito a quella gente! Non potevi essere sicuro che lo scopriremo, se mai lo scopriremo!»

«Su, su, Henry. Dovevo pur dire qualcosa. Fingi sempre di trovare obiezioni, ma sei contento quanto me. Sei bravo! Il più rapido di pensiero e di gambe che ci sia qui in giro, il più astuto nell’intuire questo genere di cose. Riuscirai senz’altro a scoprire la data di sbarco, se ti ci metti.»

«Può darsi» risposi, compiaciuto mio malgrado.

«Ma certo che ci riuscirai.»

«Beh… torniamo, prima che qualcuno noti la nostra assenza.»

Steve rise. «Vedi? Sei in gamba, Henry, in queste cose. Lo giuro.»

«Ah-hah.»

Ero convinto che avesse ragione, ecco il guaio! In fin dei conti, ero stato io a impedire che Jennings e i suoi ci sparassero per sbaglio. E ogni volta che mi trovavo in difficoltà, sembrava che succedessero proprio le cose giuste per tirarmene fuori. Avevo l’impressione che queste cose non mi capitassero per caso, ma che fossi io a provocarle. Ero io a dare agli avvenimenti la giusta piega. Significava che li controllavo: avrei aiutato la resistenza e combattuto i giapponesi senza andare contro al voto, senza fare infuriare tutti. Pensavo davvero di poterlo fare.

Poi ricordai il vecchio e sentii svanire ogni sensazione di potere. Eravamo ancora nella foresta fra la casa dei Nicolin e Concrete Bay; se mi fossi diretto verso l’interno, in poco tempo avrei raggiunto il costone dì Tom.

«Salgo a vedere come sta il vecchio» dissi.

«Devo tornare al lavoro» rispose Steve. «Ma… aspetta un minuto!»

Mi ero già allontanato fra gli alberi verso l’interno.

16

Il cortile davanti alla casa del vecchio sembrava sempre in disordine; le erbacce crescevano più alte della staccionata cadente e le cianfrusaglie erano disseminate da ogni parte. Ma ora, mentre risalivo il sentiero del costone, l’ansia mi spingeva a vedere con occhio nuovo ogni cosa: la casetta segnata dalle intemperie, con la grande finestra sul davanti che rifletteva il cielo; il cortile sommerso d’erbacce; gli alberi rachitici sul costone, agitati dal vento, che allungavano i rami a ghermire le nubi di vapore più grandi di minuto in minuto. Ogni cosa sembrava abbandonata, come se il proprietario della casa fosse morto e sepolto da dieci anni.

Kathryn comparve alla finestra. Cercai di cambiare linea di pensiero. Il vento piegava avanti e indietro le erbacce. Kathryn mi vide e mi rivolse un gesto di saluto; ricambiai con un cenno. Mentre attraversavo il cortile, lei aprì la porta e aspettò sulla soglia.

Con falsa noncuranza dissi: «Allora, come sta? Cosa gli è preso?»

«Adesso dorme. Non credo che abbia dormito molto, stanotte. Tossiva da far paura.»

«Mi ricordo che aveva un po’ di tosse, quando ci ha raccontato quella storia.»

«Ora è peggio. È tutto congestionato.»

Studiai il viso di Kathryn: il ben noto disegno di lentiggini era smosso da rughe di preoccupazione. Lei mi prese il braccio. La strinsi a me. Lei mi posò la testa sulla spalla. Il gesto mi spaventò. Se Kathryn era spaventata, io ero atterrito. Cercai di farle coraggio con la mia stretta, ma tremavo.

«Chi c’è lì fuori?» gridò Tom, dalla stanza da letto. «Sono sveglio. Chi è?»

E tossì. Una tosse profonda, secca, come se cercasse di proposito di renderla più forte.

«Sono io, Tom» dissi, quando si calmò. Andai alla porta della stanza. Lì nessuno di noi era il benvenuto: Tom la considerava il suo rifugio privato. Guardai dentro. «Dicevano che sei malato.»

«Hanno ragione.» Si era tirato su a sedere e si appoggiava alla parete del capezzale. Sembrava malato, senza dubbio. Barba e capelli erano arruffati e madidi, il viso pallido e sudato. Mi guardò senza muovere la testa. «Entra» disse.

Per la prima volta entrai nella stanza. Era piena di libri, come il ripostiglio in fondo al corridoio. C’erano un tavolo e una poltrona, tutt’e due con sopra diversi libri; un paio di pile di dischi; e appesa con puntine alla parete, sotto l’unica finestrella, una raccolta di fotografie arricciate ai bordi.

«Avrai preso un’infreddatura nel viaggio di ritorno» dissi.

«Avresti dovuto prenderla tu. Sei stato quello a patire di più.»

«Abbiamo preso freddo tutt’e due.» Ricordai che aveva camminato al mio fianco e mi aveva protetto dal vento; e che mi aveva sorretto, per farmi andare avanti. Guardai le fotografie, sentii che Kathryn smuoveva qualcosa, nella stanza grande.

«Cosa combina, di là?» chiese Tom. «Ehi, ragazza! Piantala!» Riprese a tossire.

Quando smise, il cuore mi batteva forte. «Non dovresti gridare.»

«Già.»

Dissi debolmente: «È un guaio beccarsi un’infreddatura d’estate.»

«Sì, certo.»

Kathryn si fermò sulla soglia.

«Dov’è tua sorella?» domandò Tom. «Era qui un momento fa.»

«Doveva sbrigare una commissione» rispose Kathryn.

«C’è nessuno?» gridò una voce dalla porta.

«Sarà lei» disse Kathryn. Ma era la voce di Doc.

«Uh oh» disse Tom. «Mi hai disubbidito.»

«È vero» si scusò Kathryn.

Doc avanzò nella stanza, borsa nera in mano, Kristen alle calcagna.

«Cosa ci fai qui?» disse Tom. «Non voglio che ti agiti per me, Ernest. Hai sentito?» Cambiò posizione nel letto, fino a trovarsi contro la parete laterale.

Con un sogghigno feroce Doc gli andò vicino.

«Lasciami stare, ti dico…»

«Chiudi il becco e mettiti disteso» disse Doc. Posò la borsa sul letto e tirò fuori lo stetoscopio.

«Ernest, lascia perdere. Ho solo un raffreddore.»

«Silenzio» disse Doc, brusco. Mostrò lo stetoscopio. «Fai come ho detto, altrimenti te lo faccio ingoiare.»

«Sai che paura!»

Ma Tom si mise supino e lasciò che Doc gli prendesse il polso e gli auscultasse il torace. Non smise di lagnarsi, ma Doc gli infilò in bocca un termometro, con il risultato di zittirlo, o quanto meno di rendere incomprensibili le sue lagne. E riprese ad auscultarlo.

Dopo un po’ gli tolse di bocca il termometro e lo lesse. «Respira lentamente» ordinò, con lo stetoscopio contro il petto di Tom.

Tom respirò un paio di volte, trattenne il fiato fino a diventare viola, tossì, un colpo lungo e forte.

«Tom» disse Doc, nel silenzio che seguì (trattenevo il fiato anch’io) «adesso vieni a casa mia per il ricovero in ospedale.»

Tom scosse la testa.

«Niente proteste» lo avvertì Doc. «Per te ci vuole l’ospedale, ragazzo.»

«Nemmeno per sogno» disse Tom. Si schiarì la gola. «Resto qui.»

«Maledizione a te!» Doc era sinceramente arrabbiato. «È facile che tu abbia la polmonite. Se non vieni con me, mi trasferisco qui io. Cosa penserà Mando?»

«Ne sarebbe felice.»

«Ma io no.»

Tom colse l’espressione sul viso di Doc. Probabilmente era vero: sarebbe stato più facile che Doc si trasferisse a casa di Tom che non il contrario. Ma casa di Doc era anche l’ospedale. Doc non esercitava più seriamente… Cioè, faceva quel che poteva, ma a volte non bastava. Fratture, tagli, parti… era bravo, in questo. Anni prima, quando Doc era giovane, suo padre, un medico innamorato della professione, gli aveva insegnato con insistenza da fanatico tutto quel che sapeva. Ma ora Doc era responsabile della sorte del suo migliore amico, gravemente ammalato… e forse trasferire Tom all’ospedale era un modo per convincersi di poter fare qualcosa per lui. Vedevo quasi Tom fare lo stesso ragionamento, mentre guardava Doc in viso… con lentezza maggiore del solito, forse.

«Polmonite, eh?» disse.

«Infatti.» Doc si girò verso di noi. «Uscite tutti per qualche minuto.»

Kathryn, Kristen e io ci fermammo nel cortile, fra i pezzi di macchinario arrugginito che macchiavano il terreno. Kristen ci disse come aveva trovato Doc. Kathryn e io fissammo l’oceano, condividendo in silenzio la nostra pena. Le nubi avanzavano rapidamente. Succedeva fin troppo spesso: un giorno pieno di sole, oscurato dalle nuvole a metà pomeriggio. Il vento frustava le erbacce e i capelli.

Doc sporse la testa. «C’è bisogno d’aiuto, dentro» disse. Entrammo in casa. «Kathryn, metti insieme un po’ di vestiti, un paio di camicie da portare a letto, roba così. Henry, vuole prendersi qualche libro, vai a vedere quale.»

Tornai in camera da letto. Tom era in piedi davanti alle fotografie appuntate alla parete, con il dito ne teneva una ben distesa. «Oh, scusa» dissi. «Quali libri vuoi portarti via?»

Si girò, andò lentamente accanto al letto. «Ti faccio vedere.» Andammo insieme al ripostiglio. Nel buio guardò i libri ammucchiati. Quelli che voleva portarsi via erano tutti in una pila accanto alla porta. Tom si accoccolò e me li passò a uno a uno. Notai solo un titolo, Grandi prospettive. Si fermò quando fui a braccia piene. Prese ancora un libro.

«Ecco. Questo tienilo per te.»

Mi tese il libro che Wentworth ci aveva dato, quello con le pagine bianche.

«Cosa me ne faccio?»

Cercò di mettermelo fra le braccia insieme con gli altri, ma non c’era posto.

«Un momento… non dovevi scriverci le tue storie?»

«Voglio che lo faccia tu.»

«Ma io non conosco le storie!»

«Sì, invece.»

«No. E poi, non so come si scrive.»

«Sai scrivere eccome! T’ho insegnato io, Cristo.»

«Sì, a scrivere. Ma non a scrivere libri.»

«Non ci vuole niente. Vai avanti finché non hai riempito tutte le pagine.» Mi costrinse a reggere il libro sotto l’ascella.

«Tom, no» protestai. «Sei tu che devi scriverlo.»

«Non posso. Ho tentato. Vedrai che mancano le prime pagine. Ma non ci riesco.»

«Non ci credo. Come, la storia che ci hai raccontato l’altra sera…»

«Non è la stessa cosa, credimi.» Parve desolato. Restammo lì a fissare il libro bianco che reggevo sottobraccio, sconvolti. «Le storie che so io, non vorresti vederle scritte.»

«Oh, Tom.»

Entrò Doc. «Henry, non riuscirai a portare tutti quei libri. Passali a Kristen, lei ha una sacca.»

«E io cosa porto?»

«Tu e io portiamo Tom, giovanotto. Ti sembra che sia in grado di attraversare a piedi la valle?»

Pensai che Tom gli avrebbe dato un pugno, ma il vecchio non reagì. Parve solo imbronciato e stanco. Disse: «Non sapevo che avessi una barella, Ernest.»

«Non ce l’ho, infatti. Useremo una delle tue poltrone.»

«Ah. Be’, sarà faticoso.» Entrò nella stanza grande. «Quella vicino alla finestra è la più leggera.» La portò fuori lui stesso e vi si sedette.

«Metti i libri nella sacca di Kristen» disse Doc.

«Se pesano!» disse Kristen, mentre li impilavo dentro. Andai ad aiutare Kathryn a cercare le camicie di Tom. Incuriosito, controllai la fotografia che Tom aveva guardato; era un viso di donna. Kathryn prese una bracciata di vestiti e uscimmo. Il vecchio fissava il mare. L’oceano già s’infuriava e a metà strada dall’orizzonte comparivano e scomparivano le prime creste di spuma.

«Sei pronto?» chiese Doc.

Tom annuì, senza guardarci. Doc e io afferrammo ai lati la poltrona, dal fondo e dal bracciolo. Tom piegò il collo per dare ancora un’occhiata alla casa, mente camminavamo lentamente lungo il sentiero del costone. Con le labbra piegate in una smorfia, disse: «Sono l’ultimo americano.»

«Col cavolo che sei l’ultimo» dissi. «Col cavolo.» E lui ridacchiò debolmente.

La discesa del sentiero fu piena di difficoltà, ma a valle Tom pareva ancora più pesante. «Prendo il tuo posto» disse Kathryn a Doc. Posammo a terra la poltrona. Tom rimase seduto, a occhi chiusi; non disse una parola. Era così insolito che il vecchio stesse zitto! Anche nel vento fresco, aveva sulla fronte goccioline di sudore.

Kathryn e io lo sollevammo. Kathryn era molto più robusta di Doc, per cui avevo meno peso da portare. Entrammo nell’ombra della foresta.

«Peso troppo?» disse Tom. Aprì gli occhi e guardò Kathryn. Le braccia lentigginose, a gomiti stretti, schiacciavano i seni davanti al viso del vecchio. Tom mimò il gesto di morderli.

Kathryn rise. «Non più di una poltrona piena di sassi.»

Al ponte ci fermammo a riposare; guardammo le nubi rotolare sopra di noi, parlando come se facessimo una normale passeggiata. Ma, con Tom nella poltrona, le frasi mancavano di naturalezza. Sulla riva a monte, alcuni bambini sguazzavano nell’acqua; si fermarono a guardarci attraversare il ponte, abbastanza stretto da costringermi a fare strada camminando a ritroso. Tom guardò mestamente i marmocchi nudi, che lo segnavano a dito e strillavano. Kathryn vide la sua espressione; mi lanciò uno sguardo furtivo, addolorata. Nubi grigie e gonfie calavano su di noi, il vento ci scompigliava i capelli, faceva freddo, la luce diminuiva… Cercai miseramente di trovare un modo per distrarre Tom.

«Ancora non capisco cosa me ne faccio di quel libro in bianco» dissi. «Tienilo tu, Tom, è meglio. Forse da Doc ti verrà voglia di scrivere qualcosa.»

«No. È tuo.»

«Ma… ma cosa me ne faccio?»

«Scrivici sopra. Per questo te l’ho dato. Scrivici la tua storia.»

«Ma non ho una storia.»

«Certo che ce l’hai. “Un americano in patria”.»

«Ma non vale niente. E poi, non so come scriverla.»

«Scrivi e basta. Scrivi come parli. Racconta la verità.»

«Quale verità?»

Dopo una lunga pausa, disse: «Lo scoprirai. Il libro serve proprio a questo.»

Non lo seguivo più, ma ormai risalivamo il sentiero per la casa dei Costa ed eravamo quasi alla piccola terrazza spoglia sul fianco della montagna, dove la casa sorgeva. Guardai Kathryn e lei mi ringraziò con un rapido sorriso perché distraevo il vecchio. Lo portammo per l’ultimo tratto.

La casa dei Costa luccicava di nero contro gli alberi e le nuvole. Mando uscì ad accoglierci. «Come stai, Tom?» chiese vivacemente. Senza rispondere, Tom cercò di reggersi in piedi e di varcare la soglia. Non ci riuscì; Kathryn e io lo portammo dentro. Mando ci precedette nella stanza d’angolo che chiamavano ospedale. Le due pareti esterne erano di bidoni; c’erano due letti, una stufa, una botola sul tetto per far entrare sole e aria, un liscio pavimento di legno. Sistemammo Tom nel letto d’angolo. Lui vi rimase disteso, con una debole smorfia. Andammo in cucina e lasciammo che Doc si prendesse cura di lui.

«Sta male davvero, eh?» disse Mando.

«Tuo padre dice che è polmonite» rispose Kathryn.

«Allora son contento che sia qui. Siediti, Henry. Sembri sfinito.»

«Esausto.»

Mando ci portò due bicchieri d’acqua. Era sempre un padrone di casa coscienzioso. Mentre Lui e Kristen non guardavano, Kathryn e io ci scambiammo un sorriso, nel vedere come si dava da fare. Ma fu un sorriso brevissimo: eravamo tristi davvero. Mando continuò a chiacchierare con Kristen e le mostrò alcuni disegni di animali.

«Hai visto davvero quell’orso, Armando?»

«Sì, certo… Del può confermarlo, era con me.»

Con la testa Kathryn indicò la porta. «Vieni fuori» mi disse.

Ci sedemmo sopra la panca ricavata da un tronco, nell’orto dei Costa. Kathryn emise un sospiro. Restammo seduti a lungo, senza parlare.

Mando e Kristen vennero fuori. «Papà dice di cercare Steve e di farlo venire qui a leggere un po’ di quel libro» disse Mando. «A Tom piacerebbe.»

«Sembra una buona idea» disse Kathryn.

«Sarà a casa» dissi. «O in fondo alla scogliera, accanto alla casa, sapete il posto.»

«Sì, proveremo a cercarlo lì.» Si avviarono lungo il sentiero, mano nella mano. Li guardammo finché non scomparvero, poi restammo a sedere in silenzio.

D’un tratto Kathryn diede una manata a una mosca. «È troppo vecchio, per questo» disse.

«Be’, è già stato malato.» Ma sapevo anch’io che stavolta era diverso.

Kathryn non rispose. I ciuffi ribelli si sollevavano e ricadevano nel vento pungente che soffiava dal mare. Sotto le nubi sempre più grosse, la foresta della valle splendeva di verde vivo. Tutta quella vita…

«Penso sempre che non abbia età» dissi. «Vecchio, ma… ecco, sempre uguale.»

«Capisco.»

«Ho paura, quando si ammala così!»

«Lo so.»

«Alla sua età. Insomma, è molto anziano.»

«Più di cento anni.» Kathryn scosse la testa. «Incredibile.»

«Mi chiedo perché invecchiamo. A volte mi sembra… innaturale.»

Intuii, più che vedere, la scrollata di spalle. «È la vita.»

Non era una gran risposta, per conto mio. Più profonda la domanda, più superficiale la risposta… fino al punto che le domande più profonde di tutte non ne avevano nessuna. Perché le cose sono così come sono, Kath? Un sospiro, braccia sfiorate, ricci svolazzanti sul viso, il vento, le nuvole in alto. Quale altra risposta, oltre questa? Mi sentivo soffocato, come se l’oceano o le nuvole mi riempissero fino a scoppiare. Un ciuffo di capelli di Kathryn mi rotolò su e giù per il naso; lo guardai con rabbia, notai ogni piega e ogni arricciamento, ogni filo rosso nel castano, come mezzo per controllarmi… per agguantare con i sensi il mondo, per tenerlo stretto a me e non lasciarlo scivolare via.

Passò il tempo. (È sempre il tempo, che ci manca.) Kathryn disse: «Steve è così teso, ultimamente, che rischia di spezzarsi. Come una corda d’arco da dieci chili in un arco da sessanta. Litiga in continuazione con suo padre. E tutte quelle stronzate sulla resistenza. Se non gli do sempre ragione, litiga anche con me. Comincio a essere stufa.»

Non seppi che cosa dire.

«Perché non gli parli tu, Henry? Non riesci a trovare un modo per scoraggiarlo, su questa faccenda della resistenza?»

«Da quando sono tornato, non mi permette più di discutere con lui.»

«Già. Me ne sono accorta. Ma ci sarà un modo. Anche tu sei favorevole alla resistenza, però capisci che non è il caso di dare i numeri per l’entusiasmo.»

Annuii.

«Un modo che non comporti discussioni. Tu sei bravo con le parole, Henry, potresti trovare un sistema per smorzare il suo entusiasmo.»

«Può darsi.» “E il mio, di entusiasmo?” avrei voluto replicare; ma, guardandola, mi mancò il coraggio. E poi, non avevo anch’io i miei dubbi?

«Per favore, Henry.» Mi posò la mano sul braccio. «Questa storia ci rende solo infelici, lui e me. Se sapessi che ti adoperi per calmarlo, mi sentirei meglio.»

«Oh, Kath, non so!» Ma lei mi strinse il braccio. Aveva gli occhi umidi. Questa era Kathryn, la ragazza che mi aveva comandato a bacchetta: ora mi chiedeva aiuto, da amica. Sotto il tocco della sua mano, mi sentii collegato a tutto il mondo che si precipitava su di noi, freddo e bellissimo. «Gli parlerò» continuai. «Farò del mio meglio.»

«Grazie, Henry, grazie. Steve ascolta più te di ogni altro, qualsiasi cosa tu dica.»

Rimasi sorpreso. «Credevo che ascoltasse te.»

Lei mise il broncio, ritrasse la mano. «Non andiamo d’accordo come una volta, te l’ho detto. A causa di questa storia.»

«Ah!» E le avevo assicurato il mio aiuto nella faccenda (l’avrei aiutata sempre, se me l’avesse chiesto), proprio quando in ogni momento libero cospiravo con Steve per condurre quelli di San Diego nell’Orange County! Nel pensare a quel che avevo combinato, mi venne la nausea. Il senso di comunanza con la foresta, le nuvole, il profumo del mare, la voce degli alberi, svanì di colpo; quasi dissi a Kathryn che non potevo farlo, che ero in combutta con Steve. Ma rimasi zitto. Sentivo un nodo dentro di me, alla bocca dello stomaco.

Steve comparve sul sentiero in basso, seguito da Mando, Kristen e Gabby; in una mano reggeva il libro e agitò l’altra a salutarci. Mando e Kristen andavano a passo svelto, per stargli alle calcagna.

«Ehilà!» gridò Steve allegramente. «Ehi lassù!»

Ci alzammo e lo aspettammo sulla soglia.

«Così Doc l’ha portato qui, eh?» disse Steve.

«Pensa che abbia la polmonite» spiegò Kathryn.

Steve trasalì. Sotto i capelli neri e folti, la fronte mostrava una ruga di preoccupazione. «Andiamo a tenergli compagnia, allora.»

Dentro casa, il nodo allo stomaco cominciò a sciogliersi. Quando Steve e Tom fecero la solita scena, risi anch’io insieme con gli altri.

«Cosa ci fai in ospedale, vecchio pelandrone? Hai già morsicato le infermiere?»

«Solo perché non allunghino troppo la mano quando mi lavano» disse Tom, con un debole sorriso.

«Certo, certo. E il cibo è orribile? E il… come lo chiami… Il pappagallo, va bene?»

«Attento, ragazzo, che te ne rovescio uno sulla testa. Pappagallo, proprio…»

Quando terminarono di rimbeccarsi, Steve aveva messo Tom a sedere sul letto, contro i bidoni. Ci radunammo nella stanza ospedale, seduti sull’altro letto o per terra; ridevamo come se fossimo alla festa intorno al falò di Tom. Steve riusciva a tirarci su di morale. Perfino Kathryn rideva. Solo Doc era rimasto serio, lo sguardo fisso su Tom. Lì era responsabile del vecchio e già mostrava i segni della tensione. Non credo che a Doc piacesse essere il nostro medico. Avrebbe preferito dedicarsi all’orto, se avesse potuto fare a modo suo. Ma era consuetudine che si occupasse lui dei malati; anche se aveva addestrato Kathryn perché lo aiutasse, anche se giurava che lei ne sapeva ormai quanto lui, Doc era il solo a cui si affidavano gli ammalati, nella valle. L’unico che avesse la conoscenza dei vecchi tempi. Era il suo lavoro. Ma non gli piaceva, neppure nei casi più semplici; e ora, costretto a curare il suo migliore amico, l’unico altro sopravvissuto dei dintorni, Doc sembrava davvero preoccupato.

Mando andava matto per Un americano intorno al mondo, anche più di Steve: cominciò a protestare perché ancora la lettura non iniziava. Steve sedette sul letto, ai piedi di Tom; Kathryn per terra, accanto alle gambe di Steve, dove lui poteva accarezzarle i capelli mentre leggeva. Gabby, Doc e io ci accomodammo sulle sedie prese in cucina; Mando e Kristen occuparono il letto vuoto, tenendosi di nuovo per mano.

Steve iniziò a leggere dal capitolo 16, intitolato “Meglio una vendetta simbolica che nessuna vendetta”. Baum era già arrivato a Mosca; durante la sfilata del Primo Maggio, quando tutti i tiranni del Cremlino passano in rivista la potenza militare sovietica, Baum mise di nascosto in un bidone per la spazzatura, nella Piazza Rossa, un pacchetto di fuochi artificiali, l’esplosivo più potente che era riuscito a procurarsi. Sul più bello della sfilata, i fuochi artificiali disseminarono il cielo di scintille rosse, bianche e azzurre, e costrinsero l’intero politburo dell’Unione Sovietica a cercare riparo sotto le poltrone. Questo tiro mancino, minuscola eco di quel che la Russia aveva fatto all’America, procurò a Baum lo stesso piacere del tornado, ma lo costrinse anche a svignarsela dalla capitale, perché la ricerca del colpevole era intensissima. Le peripezie che affrontò per raggiungere Istanbul, nel capitolo seguente, avrebbero sfiancato un cavallo. Un’avventura rischiosa dopo l’altra. A certi episodi Doc alzò gli occhi al cielo e ridacchiò davvero, come quello in cui Baum rubava un aliscafo in Crimea e lo pilotava sul Mar Nero, inseguito dalle cannoniere sovietiche. Baum rischiava la pelle, ma Doc continuò a ridacchiare.

«Insomma, perché ridi?» domandò Steve, irritato che la risata avesse rovinato la lettura della fuga disperata di Baum nel Bosforo.

«Oh, niente, niente» s’affrettò a rispondere Doc. «Si tratta solo del suo stile. Vedi, è troppo freddo nel racconto.»

Ma nel capitolo seguente, “Venezia sommersa”, Doc rise di nuovo. Steve si accigliò e smise di leggere.

«Aspetta un momento» disse Doc, anticipando il rimprovero. «Dice che il livello dell’acqua è dieci metri più alto di quello d’una volta. Ma tutti vedono che il livello dell’acqua è sempre lo stesso. Anzi, forse è addirittura inferiore.»

«È lo stesso» disse Tom, sorridendo alla discussione.

«Va bene. In questo caso, dovrebbe essere lo stesso anche a Venezia.»

«Forse lì le cose sono diverse» protestò Mando, sdegnato.

Doc ridacchiò ancora. «Gli oceani sono comunicanti» disse a Mando. «Il mare ha un livello solo.»

«In pratica secondo te questo Glen Baum è un bugiardo» disse Kathryn, con un certo interesse. Non ne sembrava dispiaciuta e io sapevo il motivo. «Il libro è tutto un’invenzione!»

«Non è vero!» gridò Steve, con rabbia. E Mando gli fece eco.

Doc alzò la mano. «Non dico che sia inventato. Ma non so se sia tutto vero. Forse c’è qualche esagerazione, per ravvivare la storia.»

«Dice che Venezia è sprofondata» obiettò freddamente Steve e rilesse quel brano. Spiegò: «Gli isolotti sono sprofondati ed è stato necessario costruire baracche sui tetti, per stare fuori dell’acqua. Quindi non occorreva che il livello del mare aumentasse.» Stizzito, guardò Doc. «A me sembra attendibile.»

«Può darsi, può darsi» disse Doc, serio. Steve serrò le mascelle, rosso in viso.

«Andiamo avanti con la lettura» intervenni. «Voglio sapere cosa succede dopo.»

Steve riprese a leggere, con voce rauca, in fretta. Le avventure di Baum divennero frenetiche. Era sempre in pericolo, ma in un certo senso non era più lo stesso. Nel capitolo intitolato “Remota Tortuga”, quando da un aereo in avaria si era paracadutato nel Mar dei Caraibi insieme con altri passeggeri che poi avevano gonfiato una zattera, Doc lasciò l’ospedale e passò in cucina, girando il viso per nascondere a Steve e a Mando l’ampio sogghigno. Gli uomini sulla zattera gonfiabile, tra parentesi, perirono uno alla volta, vittime della sete e degli assalti di tartarughe giganti, finché il solo Baum toccò terra, sulla spiaggia ai margini della giungla dell’America centrale. Sarebbe stata una situazione drammatica, e anche dolorosa; ma quando Baum incontrò nella giungla un cacciatore di teste, Tom cominciò a ridacchiare, in cucina Doc si sganasciò e anche Kathryn scoppiò a ridere. Steve chiuse rumorosamente il libro e a momenti diede un pestone a Kathryn, alzandosi di scatto.

«Per gente come voi non leggo più!» esclamò. «Non avete il minimo rispetto per la letteratura!»

Tom rise ancora più forte, tanto da rimettersi a tossire. Doc rientrò subito e ci scacciò lutti. La seduta di lettura era terminala.

Ma tornammo la sera dopo; e Steve, controvoglia, accettò di leggere. Ben presto Un americano intorno al mondo terminò, e forse fu meglio così; continuammo con Grandi prospettive e poi a turno leggemmo Molto rumore per nulla e anche altri libri. Era sempre un divertimento. Ma Tom continuava a tossire. Divenne più silenzioso, più magro, più pallido. I giorni trascorsero lentamente tutti uguali; non me la sentivo di unirmi agli scherzi sulle barche, né d’imparare a memoria le letture, né di leggere. Tutto mi pareva privo d’interesse e Tom era sempre più malato, giorno dopo giorno, fino al punto che certe sere non avevo cuore di guardarlo, disteso sulla schiena, quasi inconsapevole della nostra presenza; e ogni mattina mi svegliavo con quel nodo allo stomaco e con la paura che quello fosse il suo ultimo giorno di vita.

17

Certe mattine mi svegliavo all’alba, prima che le barche uscissero, e andavo a dare un’occhiata a Tom. Quasi sempre lo trovavo addormentato. Le notti erano dure, diceva Doc. Tom peggiorò in continuazione, fino a ridursi quasi in fin di vita… lo vedevo anch’io… e lì rimase sospeso, rifiutandosi di andarsene. Una mattina era mezzo sveglio: gli occhi iniettati di sangue mi fissarono con aria di sfida. Non è ancora giunto il mio momento, dicevano. Tom non aveva dormito quella notte, mi disse Mando. Adesso non si sentiva di parlare. Mi fissava e basta. Gli strinsi la mano: pelle umida, inerte, solo ossa. Me ne andai, scuotendo la testa di fronte a quella tenacia. Cent’anni di vita non gli bastavano. Voleva vivere per sempre. L’espressione dei suoi occhi me l’aveva detto. Sorrisi brevemente, augurandomi che ci riuscisse. Ma la visita m’aveva spaventato. Scesi in fretta la montagna fino alle barche, come se fuggissi via dalla Mietitrice in persona.

Un’altra mattina notai che Doc diventava più vecchio, a prendersi cura di Tom. Doc aveva superato i settanta, in molti villaggi sarebbe stato il più anziano. Forse, molto presto, lo sarebbe stato nel nostro. Una mattina, dopo una notte assai dura, sedetti con Mando e Doc al tavolo della cucina. Loro due erano rimasti svegli fin quasi all’alba, cercando di lenire la tosse di Tom, meno tormentosa ma più continua. Doc aveva rughe arrossate e profonde, borse sotto gli occhi. Mando appoggiò la testa sul tavolo, a bocca aperta come un pesce. Mi alzai ad attizzare il fuoco, misi a scaldare un bricco d’acqua, preparai tè e fiocchi d’avena caldi.

«Perderai la barca» disse Doc; ma piegò gli angoli della bocca in un sorriso. Gli tremavano le mani, mentre reggeva la tazza di tè. Mando si svegliò al profumo dei fiocchi d’avena e alzò a fatica il viso dal tavolo. Ridemmo di lui e mangiammo. Poi tornai giù. Avevo sempre un nodo allo stomaco.


Quel giorno era sabato. La domenica andai in chiesa. C’erano altri che, come me, ci andavano di rado: Rafael, Gabby, Kathryn e, nascosto in fondo, Steve. Carmen capì perché eravamo venuti; al termine della preghiera conclusiva disse: «E Ti preghiamo, Signore, di ridare a Tom la salute.» La sua voce aveva tanto potere e tanta calma che ci si sentiva quasi toccati, avvinti: sarebbe andato tutto bene… Gli «Amen» furono forti. Uscimmo dalla chiesa come una sola, grande famiglia.

Questo domenica mattina, però. Per il resto della settimana, la tensione rese irritabile la gente. Mando perse il sonno e fu la vittima degli sfoghi di Doc. E se ne fregò di quale libro leggevo, o se leggevo.

«Armando!» dissi. «Proprio tu, fra tutti, hai bisogno di leggere.»

«Lasciami stare» rispose, esausto.

Intorno ai forni, le donne parlavano a bassa voce. Niente pettegolezzi, niente risate. Sulle barche, niente scherzi da marinaio. Aiutai i Mendez a raccogliere legna: quasi litigai con Gabby per decidere come trasportare alla sega un eucalipto caduto. Più tardi, quel giorno stesso, passai davanti alla signora Mariani e alla signora Nicolin, che discutevano animatamente sulla porta della latrina. Nessuno m’avrebbe creduto, se l’avessi raccontato. Percorsi in fretta il sentiero, sempre più infelice.


Un giorno, alla foce, fu peggio. Quando arrivai, tiravano a secco le barche… in quel periodo passavo una settimana ad aiutare i Mendez e scendevo solo per fare pulizia. Mi unii agli uomini che portavano il pesce dalle barche ai banchi. I gabbiani volteggiavano in alto e con le loro strida aspre squarciavano l’aria. Steve e Marvin tiravano giù dalle barche le reti e le lavavano nell’acqua bassa prima di arrotolarle. Di solito Marvin se ne occupava da solo. John vide Steve e lo chiamò: «Steve, vieni qui ad aiutare Henry!»

Steve non alzò nemmeno la testa. In ginocchio sulla sabbia dura della spianata, tirò la rigida fune metallica in cima alla rete. “Rispondigli!” pensai. John s’avvicinò, lo squadrò dall’alto in basso.

«Vai a scaricare il pesce» ordinò.

«Sto piegando la rete» disse Steve, senza alzare gli occhi.

«Smettila e scarica il pesce.»

«E mollo qui la rete, eh?» rispose Steve, sarcastico. «Lasciami stare.»

John lo afferrò per le ascelle e lo tirò in piedi. Con un grido soffocato, Steve si liberò, barcollò all’indietro nell’acqua bassa. Si riprese e si lanciò contro John, che gli andò incontro e lo spinse di nuovo in acqua. Steve alzò il pugno, pronto a colpire. Marvin si frappose tra loro. «Per l’amor di Dio!» gridò. Con la spalla spinse John indietro di un passo. «Smettetela, capito?»

Steve non parve udire. Girava già intorno a Marvin, quando gli afferrai a due mani il polso destro e lo trascinai via; caddi nell’acqua bassa, per scansare un suo gancio sinistro. Se Rafael non l’avesse afferrato e immobilizzato, Steve mi avrebbe colpito con un pugno e si sarebbe lanciato di nuovo contro John. Aveva occhi da pazzo, non riconosceva nessuno di noi. Rafael lo portò di peso qualche passo più in là e con uno spintone lo lasciò andare.

Sulla spiaggia tutti avevano interrotto il lavoro. Guardavano la scena, con aria torva, o senza espressione, o segretamente compiaciuti, o anche apertamente divertiti. Piano piano mi rialzai.

«Voi due rendete difficile lavorare in pace» li rimproverò Rafael. «Cercate di risolvere in privato le questioni di famiglia.»

«Chiudi il becco» lo apostrofò John. Ci guardò, mosse bruscamente il braccio e ordinò: «Tornate al lavoro.»

«Vieni» dissi a Steve, tirandolo lontano dalle barche. Con uno scrollone lui si liberò. Inciampammo nella rete all’origine di tutto. «Su, Steve, andiamo via di qui.» Si lasciò tirare via. John non ci guardò. Scartai il sentiero della scogliera, per timore che Steve tirasse sassi a suo padre. Risalimmo la riva del fiume. Ero sconvolto, ma lieto che Marvin avesse avuto la prontezza di spirito d’intervenire. Io avevo la fama d’essere il più scattante, ma Marvin si era riavuto per primo dalla sorpresa. Se fosse stato più lento… be’, non m’andava di pensarci.

Steve aveva ancora il fiatone, come se avesse appena finito di fare surf sopra una serie intera di marosi. A denti serrati ripeteva una sfilza incoerente d’imprecazioni. Seguimmo il sentiero del fiume fino all’estremità in rovina dell’autostrada e ci sedemmo sotto un pino di Torrey che sporgeva sui sassi biancastri e sul fiume più in basso. Cercavamo un rifugio, come due coyote dopo lo scontro con un tasso.

Per un poco rimanemmo seduti e basta. Raccolsi mucchietti d’aghi di pino. Grattai il terriccio fino al cemento. Il respiro di Steve rallentò, tornò normale.

«Vuole obbligarmi a fare a pugni» disse, sforzandosi di mantenere calma la voce. «Lo so.»

Non ne ero convinto, ma dissi: «Può darsi. In questo caso, non dovresti arrivare al punto di accontentarlo.»

«E come vuoi che ci riesca?»

«Be’, non so. Evitalo, fa’ quel che ti ordina…»

«Oh, certo» esclamò, alzandosi. Si sporse su di me a gridare: «Devo continuare a strisciare e mangiare merda! Mi sei proprio di grande aiuto! Non cercare di dirmi cosa debbo farmene della mia vita, signor Grand’uomo. Sei come tutti gli altri! E non metterti mai più in mezzo, quando gli salto addosso, altrimenti rompo il muso a te anziché a lui!» Attraversò l’autostrada, tagliò per i campi di patate e sparì.

Emisi un gran sospiro di sollievo perché non m’aveva preso a pugni lì e subito. A parte questo, ero davvero giù di corda.

Kathryn aveva detto che Steve ascoltava me più di chiunque altro. Forse significava che non ascoltava più nessuno. O forse Kathryn si sbagliava. O forse avevo detto io la cosa sbagliata… o nel modo sbagliato. Non so.

Mi ci volle parecchio per trovare il coraggio di alzarmi e di andare via.


Un giorno risalii il sentiero del fiume, al di là degli orti, dei forni e delle donne che all’ansa facevano il bucato, fin dove le montagne si stringevano e la foresta cresceva quasi dentro l’acqua su entrambe le rive. Lì il sentiero spariva e bisognava aprirsi la strada da soli. Giunto sotto gli alberi, mi sedetti per terra, con la schiena contro il tronco di un grosso pino.

Vagare fra gli alberi e sedermi in compagnia della foresta era una cosa che facevo da molto tempo. Avevo cominciato quando mia madre era morta e mi pareva di udire la sua voce fra gli alberi vicino casa nostra. Era sciocco, e avevo smesso presto. Ma ora avevo ripreso l’abitudine. Con Tom malato, non c’era nessuno con cui potessi parlare, nessuno che non volesse qualcosa da me. Mi metteva tristezza. Allora, quando mi sentivo di quest’umore, andavo nei boschi e mi sedevo. Lì niente poteva toccarmi. E il nodo allo stomaco finiva per sciogliersi.

Quello era un posto particolarmente buono. Lì ero circondato dagli alberi, grossi pini di Torrey attorniati da figli più piccoli. Il terreno era coperto d’aghi, il tronco si piegava proprio all’angolo esatto per fare da schienale, in alto i rami arricciati bloccavano gran parte del sole, ma non tutto. Chiazze dì luce nuotavano sulle toppe dei miei jeans, aghi d’ombra facevano la scherma con quelli marrone sotto di me. Una pigna mi cadde addosso. Mi rannicchiai contro la corteccia scabra. Mi girai a raccogliere da una fessura un frammento di resina secca. Lo schiacciai con le dita, finché la parte centrale ancora liquida non uscì dalla crosta. Resina di pino. Ora le dita mi sarebbero rimaste appiccicose e avrebbero raccolto ogni genere di sporco: macchie scure mi sarebbero comparse sulle mani e sulle dita. Ma la resina aveva un profumo intenso di pino. Quell’aroma e gli odori di salsedine, di terra, di fumo di legna, di pesce, componevano la fragranza della valle. Il vento agitò gli aghi e ne gettò alcuni su di me; ognuno era composto da cinque aghi tenuti insieme da un pezzetto di corteccia alla base. Si staccavano con un rumorino secco.

Delle formiche strisciarono su di me. Le spazzai via. Chiusi gli occhi; il vento mi toccò la guancia, sospirò fra tutti gli aghi di tutti i rami di tutti gli alberi, disse: oh mmmmmmm. Avete mai sentito il rumore del vento fra i pini… voglio dire, ascoltato sul serio, come si ascolta la voce di un amico? Non c’è niente che dia uguale consolazione. Quasi m’indusse a dormire; mi spinse in uno stato di trance assai simile al sonno, anche se udivo ancora. Ogni alito, ogni calo di vento, variavano il mormorio o il sibilo o il ruggito di quella voce. A volte sembrava il rumore di una grossa cascata appena fuori vista, a volte quello delle onde sulla spiaggia… altre volte ancora, un migliaio di persone lontane che cantassero oh a pieni polmoni. Di tanto in tanto richiami d’uccelli interferivano, ma in genere si udiva solo il vento. Il vento, il vento, oh. Abbastanza da riempire l’orecchio per sempre. Non volevo udire altre voci.

Ma c’erano delle voci: voci umane, fra gli alberi vicino al fiume. Seccato, rotolai sul fianco per scoprire chi parlava. Non vedevo nessuno. Pensai di gridare un richiamo, ma non mi sentivo obbligato: dopotutto, invadevano il mio rifugio. Non potevo biasimarli troppo, la valle era piccola, non c’erano molti posti dove andare se ci si voleva allontanare dalla gente. Peccato però che avessero scelto proprio quel posto. Tornai a distendermi contro l’albero e mi augurai che se ne andassero. Non se ne andarono. Alcuni rametti si spezzarono alla mia sinistra; poi le voci ripresero, abbastanza vicino da distinguerne le parole: infatti erano solo a qualche albero di distanza. Una era la voce di Steve; gli rispose quella di Kathryn. Mi alzai a sedere, accigliato.

Steve disse: «Tutti in questa valle continuano a dirmi cosa devo fare.»

«Tutti?»

«Sì! Sai cosa intendo. Cristo, anche tu stai diventando come tutti.»

«Tutti?»

Bastò quest’unica parola a farmi capire che Kathryn era infuriata.

«Tutti» ripeté Steve, più triste che arrabbiato. «Steve, scendi giù a prendere i pesci. Steve, non andare nell’Orange County. Non andare a nord, non andare a sud, non andare a est, non andare troppo al largo in mare. Non lasciare Onofre, non fare niente.»

«Ti dicevo solo di non trafficare con quelli di San Diego dietro le spalle della gente di qui. Chissà cosa vogliono davvero, quelli.» Dopo una pausa, aggiunse: «Henry cerca di dirti la stessa cosa.»

«Henry, merda! Riesce ad andare a sud, e quando torna è diventato Henry Grand’uomo e mi dice cosa devo fare, come tutti.»

«Non ti dice cosa devi fare. Ti dice quel che pensa. Da quando in qua non può più farlo?»

«Oh, non so… Non è più Henry.»

A disagio, mi rannicchiai dietro l’albero. Brutto segno, che parlassero di me; si sarebbero accorti della mia presenza, a furia di nominarmi; si sarebbero guardati intorno, mi avrebbero visto; e io avrei fatto la figura di spiarli, quando invece avevo cercato solo di starmene un po’ in pace. Non volevo ascoltare i loro discorsi, non volevo saperne niente. Be’… non era del tutto vero. Comunque, non mi allontanai.

«Dì cosa si tratta, allora?» chiese Kathryn, rassegnata e anche un poco timorosa.

«Questa… vivere questa piccola vita in questa piccola valle. Sotto il pugno di mio padre, per sempre. Non lo sopporto.»

«Non sapevo che vivere qui ti desse tanto fastidio.»

«Ah, Kathryn, andiamo. Non si tratta di te.»

«No?»

«No! Qui sei la parte migliore della mia vita, continuo a dirtelo. Ma, non capisci? Non posso restarmene intrappolato qui per sempre, a lavorare per mio padre. Non sarebbe vita. Fuori di qui c’è un mondo intero! E chi m’impedisce di raggiungerlo? I giapponesi. E c’è gente che combatte i giapponesi, ma noi non l’aiutiamo. Mi fa star male. Quindi devo farlo, devo aiutarla, non lo capisci? Forse mi ci vorrà tutta la vita a renderci di nuovo liberi, forse non basterà neppure, ma almeno con la mia vita farò qualcosa di più che non raccogliere cibo per la pancia.»

Una ghiandaia saettò in un lampo azzurro e si posò sul ramo sopra di me, informando della mia presenza Steve e Kathryn. Ma loro non l’ascoltarono.

«Per te vivere qui significa solo questo?» chiese Kathryn.

«No, merda, non mi ascolti?» Dal tono traspariva irritazione.

«Sì. Ti ascolto. E ti sento dire che la vita in questa valle non ti soddisfa. Questo include anche me.»

«T’ho detto che non è vero!»

«Non puoi continuare a dire qualcosa, Steve Nicolin. Non puoi comportarti in un modo per mesi e mesi, e poi dire che no, non è così, e cancellare tutti quei mesi e tutto quello che hai fatto in quel periodo. Così non funziona.»

Non avevo mai udito Kathryn parlare con quel tono di voce. Rabbioso… l’avevo udita molte volte, quand’era arrabbiata, più di quante non mi piacesse ricordare. Adesso il tono rabbioso era completamente inespressivo. Mi dispiaceva sentirla parlare in quel modo. Non volevo udire quel tono, per niente… e all’improvviso quel sentimento superò la mia curiosità e la sensazione che quel posto fosse solo mio. Mi allontanai strisciando fra gli alberi, sentendomi sciocco. E se mi avessero visto ora, mentre per non fare rumore scavalcavo un ramo caduto? Imprecai fra me, una bestemmia dopo l’altra. Quando non mi arrivarono più le loro voci (litigavano ancora), mi alzai e mi allontanai, strascicando i piedi, scoraggiato. Una lite fra Steve e Kathryn… peggio di così come poteva andare?

Dopo la strettoia all’imboccatura della valle, il fiume si allarga e procede sinuoso tracciando larghe curve nei campi. Il tratto che scorre nel canyon è più facile da percorrere in canoa; dopo un pezzo a piedi, tornai a sedermi e guardai il fiume riversarsi in un laghetto e uscirne. I pesci si rifugiavano sotto la riva sporgente. Il vento sospirava ancora fra gli alberi, ma non riuscivo a ritrovare il senso di pace, per quanto mi sforzassi di ascoltare. Il nodo allo stomaco mi era tornato. A volte, più ti sforzi, meno se ne va. Dopo un poco, tanto per fare qualcosa, andai a dare un’occhiata alle trappole poste dai Simpson al limitare dell’unico meandro abbandonato.

Una donnola era rimasta presa al laccio. Aveva cercato di mangiare il coniglio morto nella stessa trappola; e ora il suo corpo lungo e sinuoso era tutto attorcigliato dai lacci. Quando m’avvicinai, la donnola diede un ultimo strattone alle corde; guaì, snudò i denti in una smorfia feroce, mi lanciò uno sguardo assassino, pieno d’odio… anche dopo che con un rapido calcio le spezzai il collo. Almeno, così mi parve. Tolsi i due animali e risistemai la trappola; mi diressi a casa, reggendoli per la coda, tutt’e due in una mano. Non riuscivo a dimenticare l’ultima occhiata della donnola.

Tornato nella gola, seguii il fiume, ricordando un tempo in cui il vecchio aveva cercato di staccare un alveare selvatico da un basso eucalipto sul pendio meridionale. Era stato punto e aveva lasciato cadere la camicia avvolta intorno all’alveare; le api infuriate ci avevano inseguito fin dentro il fiume. «Tutta colpa tua» aveva borbottato, mentre nuotavamo a riva.

Il sole calava. Un altro giorno era trascorso, niente era cambiato. Seguii la curva fino alla strettoia dove il fiume forma un paio di cascate alte mezzo metro; m’imbattei in Kathryn, seduta da sola sulla riva, intenta a gettare rametti nella corrente e a guardarli roteare a valle.

«Kath!» chiamai.

Lei alzò gli occhi. «Hank» disse «cosa ci fai qui?» Lanciò un’occhiata a valle, forse in cerca di Steve.

Andavo in giro su nel canyon «risposi. Le mostrai i due animali morti.» Ho guardato un paio di trappole dei Simpson. E tu?

«Niente. Sto seduta e basta.»

Mi avvicinai. «Sembri a terra.»

Parve sorpresa. «Davvero?»

Mi vergognai di me, a fingere di leggerle così bene nel pensiero. «Un poco.»

«Be’, hai ragione.» Buttò in acqua un altro rametto.

Mi sedetti accanto a lei. «Sei seduta sul bagnato» protestai.

«Già.»

«Niente di grave, immagino.»

Guardava in basso, o nel fiume; ma vidi che aveva gli occhi rossi. «Allora, di quale guaio si tratta?» chiesi. Di nuovo mi vergognai per la mia doppiezza. Dove avevo imparato cose del genere? In quale libro di Tom?

Alcuni bastoncini volteggiarono giù dalle cascate e scomparvero, prima che lei rispondesse. «Sempre la stessa storia» disse. «Io e Steve, Steve e io.» A un tratto si girò a guardarmi in viso. «Oh» disse, in tono feroce «devi costringere Steve a lasciar perdere il progetto di aiutare quelli di San Diego. Lui lo fa solo per contrariare John. Visto come vanno d’accordo, appena John lo scopre, gli fa sputare l’anima. Non glielo perdonerà mai… Non so cosa accadrà.»

«Certo» dissi, posandole la mano sulla spalla. «Ci proverò. Farò del mio meglio. Non piangere.» Vederla piangere mi spaventava. Da buon idiota, lo ritenevo impossibile. Disperatamente dissi: «Senti, Kathryn, sai che non posso farci molto, visto com’è lui in questo periodo. A momenti mi picchiava perché l’ho trattenuto, quando si è scagliato contro suo padre, l’altro giorno.»

«Lo so.» Si mise a quattro zampe, si sporse a tuffare la testa nell’acqua. La macchia umida sul fondo dei calzoni rimase in aria. Dopo un bel pezzo, Kathryn si rialzò, sbuffando e soffiando; scosse la testa come un cane, schizzando me e il fiume.

«Ehi!» protestai. Mentre teneva la testa in acqua, avrei voluto dirle, senti, non posso aiutarti, sono in combutta con Steve… ma poi, guardandola faccia a faccia, non dissi niente. Non potevo. La verità era che non potevo fare niente: qualsiasi decisione avessi preso, avrei tradito qualcuno.

«Vieni a casa mia» disse Kathryn. «M’è venuta fame e mamma ha fatto una crostata di bacche.»

«Magnifico» dissi, asciugandomi il viso. «Non devi chiedermelo due volte, se c’è di mezzo una crostata di bacche.»

«Non me n’ero mai accorta» rise lei, e scansò la manata d’acqua che le gettai.

Ci alzammo. Seguimmo la riva del fiume finché non comparve il sentiero, prima come una linea calpestata fra le erbacce e gli arbusti, poi come terra battuta e pietre spostate, infine sotto forma di solchi nella terra grassa che si mutavano in torrentelli dopo ogni temporale. Nuovi sentieri comparivano accanto ai solchi, quando questi ultimi diventavano troppo umidi, o profondi o sassosi. Mi ricordavano una cosa che Tom aveva detto prima di partire per San Diego: che siamo cunei conficcati in fessure. Ma capii che non era esatto: non eravamo legati così strettamente. Siamo invece gente su un sentiero, su una rete di sentieri come quella che attraversava l’acquitrino qui accanto al fiume… «Scegliere la strada è più facile, se ti trovi su un sentiero battuto» dissi, più a me stesso che a Kathryn.

Lei piegò la testa di lato. «Fare quel che la gente ha già fatto, vuoi dire.»

«Sì, esatto. Un mucchio di gente ha percorso questa strada e ha stabilito il percorso migliore. Ma nel bosco…»

Kathryn annuì. «Ora siamo tutti nel bosco.» Un martin pescatore volò in un lampo sopra una sporgenza. «Non so perché.» L’ombra degli alberi sulla riva opposta si allungava sull’acqua increspata e disegnava righe scure sulla nostra sponda. Nella tranquillità di una pozza laterale una trota venne in superficie e da quel punto le onde crebbero in cerchi perfetti… perché il coraggio non può crescere altrettanto in fretta? Volevo sapere… volevo sapere cosa facevo.

Più sono emozionato, più sono lucido. Quella sera capii tutto, con una chiarezza che mi sorprese: le foglie avevano tutte il bordo affilato, i colori erano vividi come l’abbigliamento di uno sciacallo al raduno di scambio… Ma sentivo solo emozioni confuse, oceani di nuvole nel petto, il nodo nello stomaco. Troppo mischiate, per riordinarle e definirle con il loro nome. Il fiume al crepuscolo; il passo lungo di quella donna, amica mia; la prospettiva della crostata di bacche e l’acquolina in bocca; di contro, l’idea di un paese libero. I piani di Steve. Il vecchio, in un letto, sull’altra riva del fiume in ombra. Non trovavo il nome per definire tutte queste sensazioni. Camminai accanto a Kathryn, senza dire una parola, per tutto il tratto a valle, fino a casa sua.

All’interno faceva caldo (Rafael aveva sistemato sotto la casa dei tubi che convogliavano nelle stanze il calore dei forni per il pane), le lampade brillavano, la crostata fumante era in tavola. Le donne chiacchieravano. Mangiai la mia fetta di crostata e dimenticai tutto il resto. Bacche viola, dolce sapore d’estate. Mentre andavo via, Kathryn disse: «Mi aiuti, allora?»

«Ci proverò» risposi. Nel buio lei non poteva vedermi il viso. Così non seppe che, tornando a casa, proprio mentre pensavo agli argomenti per indurre Steve ad abbandonare il progetto, cercavo anche di trovare il modo per estorcere a Shanks la data dello sbarco. Avrei potevo spiarlo ogni notte, finché non ne avesse parlato…


Continuai a pensarci, ma non escogitai nessun trucco per carpire a Shanks l’informazione. Appena fossi uscito di nuovo a pesca con Steve, non avrei più potuto tergiversare.

E infatti, la prima volta, mentre remavamo fuori portata d’orecchio dalle altre barche, Steve disse: «Sono giù alle rovine della stazione. Ci sono stato. Sembrava che vi stabilissero un campo permanente. Jennings era a capo delle operazioni.»

«Ah, così sono lì, eh? In quanti?»

«Quindici, forse venti. Jennings ha chiesto dov’eri. E voleva sapere quando i giapponesi sbarcano. Dove e quando. Gli ho detto che sapevamo dove e presto avremmo scoperto quando.»

«Perché gliel’hai detto? Insomma, può darsi che lo sbarco non avvenga tanto presto.»

«Ma l’ha sentito dagli sciacalli!»

«Certo, ma non è detto che avessero ragione.»

«Be’, merda» disse lui e lanciò l’esca nel canale. Fissai a disagio la parete ripida in fondo a Concrete Bay. «Se la metti in questo modo, non potremo mai essere sicuri di niente» continuò Steve. «Ma se gli sciacalli l’hanno detto a Shanks, significa che anche lui è coinvolto, per cui saprà la data dello sbarco. Ho ripetuto a Jennings quel che gli avevamo già detto, che scopriremo la data.»

«Quel che tu gli avevi detto» lo corressi.

«Anche tu c’eri dentro» replicò. «Non fare finta di no.»

Calai l’esca dalla parte opposta e lasciai scorrere la lenza. «C’ero dentro anch’io, ma non significa che sia una buona idea. Senti, Steve, se ci sorprendono ad aiutare quella gente dopo il voto contrario, che cosa diranno? Come ci giustificheremo?»

«Me ne frego degli altri.» Un pesce abboccò e lui tirò con rabbia. «Sempre che ci scoprono. Non possono impedirci di fare come vogliamo, soprattutto quando combattiamo anche per loro, quei vigliacchi.» Arpionò il tonno striato come se fosse uno dei vigliacchi di cui parlava; lo issò sulla barca e lo colpì con il mazzuolo. Il tonno si agitò debolmente e morì. «Cosa c’è, mi abbandoni? Ora che quelli di San Diego sono là ad aspettarci?»

«No, non ti abbandono. Solo, non so se facciamo la cosa giusta.»

«È quella giusta, e lo sai! Hai dimenticato cos’hai detto alla riunione? Hai parlato meglio di tutti… hai detto cose giuste, dalla prima all’ultima. E lo sai. Ma torniamo a bomba: dobbiamo sapere da Add la data. Sei tu quello che conosce gli Shanks. Vai da loro e convinci Melissa, tutto qui.»

«Uhm.» Adesso diventava scomodo non avere raccontato a Steve tutta la verità sul modo in cui Add e Melissa mi avevano ingannato… Sentii abboccare, ma tirai troppo forte e il pesce non rimase agganciato. «Credo di sì.» Non potevo confessare d’avere mentito per fare bella figura.

«Devi farlo!»

«Va bene, va bene» sbuffai. «Ma lasciami stare, d’accordo? Non mi pare che tu abbia suggerito un piano astuto per indurlo a parlarcene anche se non ne ha voglia. Dacci un taglio!»

Così pescammo in silenzio e badammo alle lenze. A riva, i fianchi delle montagne ballonzolavano e il sole del pomeriggio stendeva su di essi una sfumatura color polline.

Steve cambiò argomento. «Vorrei che tentassimo di nuovo la pesca delle balene, quest’inverno. Potremmo farcela, se ne arpionassimo una piccola. Magari da più di una barca.»

«Non mettere in mezzo anche me, grazie» dissi, brusco.

«Non so cosa t’ha preso, Hanker. Da quando sei tornato…»

«Non m’ha preso un bel niente.» In tono amaro, aggiunsi: «Potrei dire la stessa cosa di te.»

«Solo perché vorrei ritentare la cattura di una balena?»

«No, perdio!» L’unica volta che abbiamo tentato di pescare una delle balene grigie durante la loro migrazione lungo la costa, siamo usciti nelle barche da pesca e abbiamo arpionato una balena. È stato un lancio eccellente di Rafael, che ha usato un arpione costruito da lui stesso. In piedi sulle barche, abbiamo guardato la balena sprofondare e tirarsi dietro tutta la corda. Abbiamo fatto l’errore di legare il capo della fune alla gassa di prua; la balena ci ha tirato via la barca da sotto i piedi. La prua è finita sotto la superficie e slurp, sparita. Ci è toccato ripescare dall’acqua gelida i nostri uomini, altro che la balena. E la fune ha fatto un taglio nel braccio di Manuel, che ha rischiato di morire dissanguato. John ha dichiarato che le balene sono troppo grosse per le nostre imbarcazioni e io, che mi trovavo nella barca vicina a quella finita sott’acqua, ero propenso a dargli ragione.

Ma non pensavo a quell’episodio. «Spingi troppo le cose» dissi lentamente. «Finirà che tuo padre non lo sopporterà più. Non so cosa pensi che accadrà…»

«Tu non sai cosa penso e basta» m’interruppe; dal tono, non voleva che continuassi, era chiaro. Serrò le labbra, sul punto di esplodere. I nostri cani hanno la stessa espressione, di tanto in tanto: un’espressione che vuol dire “dammi ancora un calcio e ti stacco il piede a morsi”. Un pesce abboccò, offrendomi una comoda occasione per lasciar perdere il discorso; ne approfittai al volo. Ma, ovviamente, avevo toccato un punto delicato. Forse lui pensava che John l’avrebbe sbattuto a calci via dalla valle, così sarebbe stato libero da tutto…

La preda era un grosso persico. Ci volle del bello e del buono, per issarlo a bordo.

«Vedi, questo pesce non è più lungo del mio braccio, e per poco non sono riuscito a catturarlo. Le balene sono lunghe il doppio della barca!»

«Però le catturano, su a San Clemente» disse Steve. «E ne ricavano anche un mucchio d’argento, ai raduni. Quanti barili d’olio Tom dice che si ottengono da una balena?»

«Non lo so.»

«Uffa, anche tu, con questi “non lo so”! Sentimi bene. L’intera valle sta andando in malora.»

«Balle» dissi, torvo. Steve sbuffò e tornammo a pescare. Catturati alcuni altri pesci, Steve ricominciò.

«Potremmo avvelenare gli arpioni. Oppure arpionare la stessa balena due volte, da due barche diverse.»

«Finiremmo incasinati. Le barche andrebbero a sbattere l’una contro l’altra, si fracasserebbero.»

«Il veleno, allora.»

«Sarebbe meglio attaccare all’arpione un cavo tre volte più lungo, così la balena può andarsene dove le pare.»

«Ecco, ora ragioni.» Steve era compiaciuto. «Che ne dici di questa proposta? Legare l’arpione a un cavo che arrivi fino alla spiaggia… sostenuto da piccoli galleggianti o qualcosa del genere. Quando l’arpione va a segno, se la sbrigano gli uomini a riva. Alla fine resterebbe solo da tirare la balena fino alla foce.»

«L’arpione dovrebbe essere ben agganciato.»

«Sì, certo. Dev’essere così in ogni caso.»

«Credo anch’io. Ma occorrerà anche un mucchio di cavo. Di solito le balene passano a più d’un chilometro da riva, no?»

«Già…» Dopo una riflessione, continuò: «Chissà come fanno quelli di San Clemente a catturare ’sti mostri.»

«Non ne ho idea. Ma certo non lo dicono.»

«Neppure io lo direi, fossi in loro.»

«Ah, sì? Pensavo che secondo te tutti i villaggi dovrebbero unirsi, siamo una nazione sola, eccetera.»

«Vero. L’hai detto anche tu. Ma finché tutti non sono d’accordo, devi tenere nascosti i tuoi assi.»

La risposta sembrava adattarsi al mio caso personale, ma non riuscivo esattamente a stabilire in che modo. Comunque, avevo fatto l’errore di riportare il discorso sulla politica; mentre remavamo a barca piena verso la foce, Steve tornò alla carica.

«Ricorda che a Jennings l’abbiamo promesso. E sai benissimo che tu pure vuoi combattere i musi gialli. Non dimenticare cos’hanno fatto a te e agli altri, durante la tempesta.»

«Già» risposi. Be’, Kathryn, ci ho provato, pensai. Ma sapevo benissimo come stavano le cose. Steve aveva ragione. Volevo anch’io cacciare dal nostro oceano quei giapponesi.

Superammo i frangenti della foce e proseguimmo fra le onde tranquille che l’alta marea spingeva nella gola del fiume.

«Allora, vai su a vedere cosa riesci a combinare con Melissa. Ha un debole per te, farà quello che vuoi.»

«Uhm.»

«Forse lo chiederà lei stessa a Add.»

«Ne dubito.»

«Tanto devi pur cominciare da qualche parte. E vedrò se riuscirò a scoprire qualcosa per conto mio. Potremmo origliare i loro discorsi, come hai fatto tu l’ultima volta.»

Risi. «Forse sarebbe l’unica soluzione» convenni. «Ci avevo già pensato.»

«D’accordo, ma prima fai quel che puoi, capito?»

«Capito. Tenterò con lei.»


Passai un paio di giorni a pensarci, nella speranza di escogitare qualcosa… e intanto vivevo con quel nodo allo stomaco, al punto da avere difficoltà a prendere sonno. Una mattina, prima dell’alba, smisi di pensarci e attraversai il ponte zuppo di rugiada per andare dai Costa. Doc era sveglio; sedeva al tavolo della cucina, beveva il tè e fissava la parete. Bussai alla finestra e lui aprì. «Dorme, adesso» disse, con tono di sollievo. Mi sedetti con lui. «Diventa sempre più debole» aggiunse, fissando il tè. «Non so se… Peccato che abbiate trovato un tempo così brutto, tornando da San Diego. Tu sei giovane, potevi sopportarlo; ma Tom… Tom si comporta come se fosse un giovanotto, e non lo è. Forse questa esperienza gli insegnerà a essere più prudente, a prendersi più cura di se stesso. Se sopravvive.»

«Dovresti farlo anche tu» dissi. «Sembri a pezzi.»

Annuì.

«Se non avessero guastato la ferrovia, saremmo tornati facilmente» continuai. «Quei bastardi…»

Doc mi guardò negli occhi. «Può morire, sai?»

«Lo so.»

Bevve un po’ di tè. La cucina cominciò a schiarirsi, con l’arrivo dell’alba. «Penso che andrò a letto.»

«Fai bene. Mi fermerò finché Mando non si sarà alzato. Starò attento io.»

«Grazie, Henry.» Spinse indietro la sedia. Si alzò a fatica. Rimase in piedi, si riprese. Andò in camera sua.


Quel pomeriggio andai sul Basilone per vedere se Melissa era in casa. Attraversai i boschi, poi il cemento crepato e verdastro delle antiche fondamenta. Quando entrai nella radura attorno alla loro torre, vidi Addison oziare sul tetto; fumava la pipa e batteva i talloni contro la parete della casa, thump-thump, thump-thump. Appena mi vide, smise di battere, ma non sorrise, né mi rivolse un cenno di saluto. A disagio sotto il suo sguardo fisso, mi avvicinai. «C’è Melissa?» chiesi.

«È giù nella valle.»

«No, sono qui» disse Melissa, sbucando nella radura dal lato nord… quello opposto alla valle. «Sono a casa!»

Add si tolse di bocca la pipa. «Ah, eccoti qui.»

«Cosa c’è, Henry?» disse Melissa con un sorriso. Indossava larghi calzoni di tela ruvida e una camicetta azzurra senza maniche.

«Vuoi fare una passeggiata sul costone?»

«Volevo proprio chiedertelo.»

«Papà, vado con Henry. Tornerò prima di sera.»

«Se non ci sono» disse Add «arriverò per cena.»

«Va bene.» Si scambiarono un’occhiata. «Te la terrò in caldo.» Mi prese per mano. «Andiamo, Henry.»

Ci inoltrammo nei boschi sopra la casa.

Mentre lei faceva strada su per la montagna, saltellando fra gli alberi per scansarli, mi lanciò domande. «Cos’hai fatto di bello, Henry? Sei andato ancora a San Diego? Non vuoi rivedere tutte quelle meraviglie?»

Ricordando quel che aveva detto agli sciacalli quella notte, quasi non riuscii a trattenermi dal sorridere. Non che fossi divertito. Ma era chiarissimo che mi torchiava di nuovo per ottenere informazioni. Ogni mia risposta fu una menzogna.

«Sì, sono andato di nuovo a San Diego, da solo. È un segreto. Ho conosciuto un intero…» esercito di americani, stavo per dire, ma non volevo farle capire che ero al corrente delle sue macchinazioni. «Un mucchio di gente» conclusi.

«Davvero?» esclamò lei. «E quand’è stato?»

Era lei, la vera spia. Ma, nello stesso tempo, era così snella e flessuosa, mentre scivolava fra gli alberi e raggi di sole traevano riflessi azzurrastri dai suoi capelli neri, che non mi sarebbe dispiaciuto tuffare le mani in quei capelli, spia o no.

Più in alto lungo il costone, gli alberi lasciavano posto ai cespugli di mesquite e a qualche ostinato ginepro. Seguimmo la gola di un piccolo ruscello su fino allo spartiacque; ci fermammo lì al vento. Il culmine del crinale era di arenaria perfettamente divisa, come il dorso di un pesce. Camminammo lungo la divisione, parlando della vista sul mare e sulla valle San Mateo.

«Swing Canyon è proprio dietro quello sperone» dissi.

«Sì? Vuoi andarci?»

«Certo.»

«Andiamoci.»

Ci baciammo per suggellare la decisione. Provai una fitta; perché non era come una delle altre ragazze, le Mariani o le Simpson? Continuammo lungo il costone. Melissa non smise di fare domande e io continuai con le menzogne. Dopo Cuchillo, ossia la cima del Basilone, dal crinale principale diversi speroni rocciosi si protendevano sulla valle. La ripida gola formata dai primi due era Swing Canyon; dalla nostra posizione guardavamo proprio nel suo interno, nel punto dove il torrentello si riversava in uno dei campi di Kathryn. Scivolammo sul sedere lungo la parete ripida e camminammo con prudenza fra i bassi e folti cespugli di mesquite. E intanto Melissa continuava a fare domande. Ero stupito di quanto fosse ovvia la manovra; ma forse, se fossi stato all’oscuro delle sue intenzioni, non me ne sarei accorto. La sua, dopotutto, sembrava curiosità pura e semplice, o quasi. Riflettendoci, decisi che potevo permettermi di essere più ardito, nelle mie domande. Ne sapevo più io di lei. Un po’ più ardito, sotto tutti gli aspetti: aiutandola a scendere un tratto verticale, la sostenni per l’inforcatura delle gambe; lei allargò un ginocchio per facilitarmi e ridacchiò, a terra, divincolandosi. Dopo un bacio, riprendemmo la discesa.

«Hai mai sentito parlare dei giapponesi che vengono qui da Catalina per guardare le rovine nell’Orange County?» domandai.

«Pare che sia vero» rispose vivacemente. «Ma non ne so altro. Racconta.»

«Mi piacerebbe assistere a un loro sbarco» dissi. «Sai, quando la nave giapponese mi ha preso a bordo, ho parlato con il capitano e ho visto che portava un anello delle scuole superiori, come quelli che vendono gli sciacalli!»

«Ma davvero?» disse, spalancando tanto d’occhi. “Adesso esageri” avrei voluto dirle.

«Proprio così! Il capitano della nave! Immagino che tutti i capitani delle vedette costiere giapponesi siano corrotti, dal momento che certe notti lasciano passare i turisti. Mi piacerebbe spiare uno di questi sbarchi, solo per vedere se riconosco quel capitano.»

«Ma perché?» domandò Melissa. «Vuoi sparargli?»

«No, no, certo. Voglio solo sapere se l’ho giudicato bene o no. Sai, se, come credo, collabora agli sbarchi.» Non mi sembrava una spiegazione convincente (e non avrei dovuto usare il verbo spiare), ma era la migliore che avevo trovato.

«Non credo che lo scoprirai mai» disse Melissa, ragionevolmente. «Comunque, buona fortuna. Mi piacerebbe aiutarti, ma non vorrei esserci anch’io.»

«Be’, forse puoi aiutarmi lo stesso.»

Eravamo nell’avvallamento, proprio all’inizio del canyon. Smisi di parlare per darle un lungo bacio. Dopo andammo all’albero della fune, vicino alla sorgente che origina il torrentello. La sorgente formava un laghetto, prima di riversarsi giù nel canyon da una costola d’arenaria; intorno al laghetto c’era uno spiazzo riparato da un cerchio di abeti rossi. Era il posto preferito dalle coppiette. Melissa mi prese per mano e mi condusse lì direttamente, quindi immaginai che lo conoscesse quanto me. Sedemmo nella penombra e ci baciammo, poi ci stendemmo sul letto di foglie e di aghi e ci baciammo di nuovo. Ci stringemmo l’uno addosso all’altra, rotolammo oziosamente sulle foglie scricchiolanti. Infilai le dita sotto il laccio dei calzoni di tela grezza e le accarezzai la pancia, i peli folti e ricci… lei mi palpò l’erezione, attraverso i jeans, e mi strinse con forza, e ci baciammo, ci baciammo, fra ansiti irregolari. Ero eccitato, ma… non potevo dimenticare tutto e accarezzarla. Le altre volte che ero stato con una ragazza… con Melissa, in precedenti occasioni, o Rebel Simpson l’anno prima, o quella Valerie di Trabuco che mi aveva reso così interessanti parecchie notti ai raduni… una volta iniziato, smettevo di ragionare, non pensavo a niente, e quando avevamo terminato mi sembrava di tornare in me. Questa volta, mentre l’accarezzavo e le baciavo il collo e le spalle, mi chiedevo come potevo rendere convincente, essenziale addirittura, il desiderio di assistere a uno sbarco di giapponesi; come potevo chiederle d’informarsi da Addison. Una situazione bizzarra.

«Forse puoi aiutarmi sul serio» dissi, fra un bacio e l’altro, quasi mi fosse venuto in mente solo allora. Tenevo ancora la mano dentro i suoi calzoni e con il dito la titillai.

«E come?» chiese lei, dimenandosi.

«Non puoi dire a tuo padre di parlarne a uno dei suoi contatti? So che non ne ha molti, ma hai ammesso anche tu che conosce un paio di…»

«Non ho ammesso un bel niente» disse lei, brusca, ritraendosi. La mano mi scivolò fuori dai suoi calzoni e si mosse a tentoni fra le foglie, cercandola. «Non ti ho mai detto cose del genere» continuò Melissa. «Papà lavora per conto suo.» Si alzò a sedere. «E poi, cosa vuoi andarci a fare? Non lo capisco. Per questo oggi parlavi con lui?»

«No, certo. Volevo vedere te» replicai, convinto.

«Per chiedermi di chiedergli» obiettò lei, per niente impressionata.

Strisciai accanto a lei, le strofinai il viso sul collo e sui capelli. «Ti spiego subito» dissi, confusamente. «Se non rivedo quel capitano giapponese, per tutta la vita avrò paura di lui. Sarà il mio incubo ricorrente. Ma so che Add può aiutarmi.»

«Come vuoi che faccia?» mi rimbeccò, irritata. Cercai d’infilarle di nuovo la mano nei calzoni per distrarla; ma lei la spinse via. «Smettila» disse freddamente. «Vedi? Mi hai fatta venire fin qui per chiedermi di infastidire mio papà. Stammi a sentire: non voglio che tu lo scocci con l’Orange County o i giapponesi o altre storie, capito? Non chiedergli niente e non immischiarlo negli affaracci tuoi.» Si tolse dai capelli un paio di foglie, strisciò verso il bordo del laghetto. «Ha già abbastanza guai, nella maledetta valle, senza che gliene rifili altri.» Nella mano a coppa raccolse un po’ d’acqua e bevve; poi si lisciò i capelli, con gesti rabbiosi.

Mi alzai, incerto; mi avvicinai all’albero della fune. Le sue parole mi facevano sentire orribilmente colpevole e calcolatore; e lei era bellissima, inginocchiata lì accanto al laghetto scuro. Eppure, quel comportamento innocente, dopo il modo con cui aveva parlato agli sciacalli quella notte… dopo che lei e Add li avevano accolti in casa per riferire quel che avevano appreso spiando la nostra “maledetta valle” e il suo più sciocco abitante, Henry Aaron Fletcher… mi faceva digrignare i denti.

L’albero della fune cresce proprio sulla costola che trattiene il laghetto. Molto tempo prima qualcuno aveva legato un robusto pezzo di corda a un ramo alto e la fune serviva per dondolarsi sopra il ripido canyon sottostante. Con rabbia afferrai la fune per i nodi all’estremità libera e indietreggiai dal dirupo. Mi aggrappai per bene sopra i nodi, attraversai di corsa in diagonale la radura e mi lanciai a dondolare nel vuoto. Da molto tempo non provavo più la magnifica sensazione di dondolare nel buio. Vedevo la parete opposta del canyon, sulla quale batteva ancora qualche raggio di sole, e sotto di me la cima degli alberi, in ombra. Ruotai lentamente su me stesso; lanciai un’occhiata per stabilire la posizione del grosso tronco. Atterrando, lo mancai di un buon margine. Una volta Gabby si era lanciato mentre era sbronzo ed era tornato dritto contro il tronco, di schiena, colpendo uno spuntone di ramo. Era impallidito.

«Non parlare mai più con noi di queste cose, hai sentito, Henry?»

«Ho sentito.»

«Mi sei simpatico, ma non sopporto sentir dire che papà traffica con quella gente lassù. Già così è abbastanza seccante e almeno ce ne fosse il motivo! Tutte chiacchiere prive di fondamento.» Sembrava così rattristata e depressa che avrei voluto gridarle: «È seccante perché siete davvero due sciacalli, brutta puttana! Ti ho visto fare la spia per conto loro! La tua recita non m’inganna!» Invece strinsi i denti e dissi: «Già» e iniziai un’altro lancio. «Ti sento» gridai amaramente all’aria. Lei non rispose. La corda scricchiolò forte. Muovendo i piedi, girai lentamente su me stesso, per benino. Tornai a terra, mi lanciai ancora, e poi ancora. Per un momento provai quant’era meraviglioso dondolare, desiderai di farlo per sempre, girare lentamente all’estremità di una fune, staccato dalla terra e senza altre preoccupazioni se non quella di scansare il tronco, pensando solo all’aria che mi sfiorava, agli alberi scuri che mi ruotavano intorno, al laghetto verde scuro, in basso di lato. Allora il nodo allo stomaco sarebbe certo scomparso. Nel toccare terra, quasi andai a sbattere con il viso contro il tronco. Così va la vita: passi il tempo a sognare e ti becchi un albero sul muso.

Melissa era accucciata accanto al laghetto; con la mano si tirava indietro i capelli, china a bere direttamente dalla sorgente.

«Me ne vado» le dissi, brusco.

«Ho bisogno del tuo aiuto per salire sul costone» rispose, senza guardarmi.

Stavo per dirle che poteva scendere il canyon e fare il giro della valle anche senza il mio aiuto; ma cambiai idea.

Non avevamo molto da dirci, al ritorno. Era faticoso risalire l’ultimo tratto della ripida parete; ci sporcammo di terriccio. Melissa si lasciò aiutare solo quando non poteva farne a meno, forse ricordando l’appiglio di cui mi ero servito durante la discesa. Più pensavo a come mi aveva lavorato, più mi arrabbiavo. E l’avevo desiderata ancora! Ecco, ero proprio uno sciocco… e gli Shanks non erano meglio dei ladri. Sciacalli. Spie. Zopilotes! Non solo, ma non sarei mai riuscito a ottenere da loro l’informazione che volevo.

Scendemmo il pendio del Basilone, tenendoci a qualche albero di distanza l’uno dall’altra. «Non ho più bisogno del tuo aiuto» dichiarò freddamente Melissa. «Puoi tornartene alla valle a cui appartieni.»

Senza una parola, le girai le spalle e tagliai attraverso il pendio, verso la valle. Sentii che rideva. Furibondo, mi fermai dietro un albero e aspettai un poco. Poi continuai verso la casa degli Shanks, compiendo un ampio giro, in modo da arrivare da nord, passando da albero ad albero, con grande cautela. Dall’incavo di un pino spaccato scorgevo perfettamente la loro bizzarra abitazione. Addison, fermo sulla soglia, discuteva animatamente con Melissa. Lei indicò il sud, verso la valle, e rise; Add annuì. Indossava la lunga giacca scura e unta (che s’intonava benissimo ai suoi capelli); terminato d’interrogare Melissa, aprì la porta e la spinse dentro, dandole una manata sul sedere. Poi s’allontanò nei boschi; mi passò a un paio d’alberi di distanza, diretto a nord. Aspettai un poco e lo seguii. C’era una sorta di sentiero, tracciato senza dubbio da Addison stesso nei suoi molti viaggi a nord; lo percorsi rapidamente, in punta di piedi, facendo attenzione ai rametti secchi e alle mosse di Addison, più avanti. Quando lo scorsi di nuovo, lasciai il sentiero e mi nascosi, ansando, dietro un abete rosso. Sporsi la testa: Add si allontanava. Lasciai il riparo e corsi fra gli alberi, badando a posare i piedi sul terriccio o sugli aghi di pino, muovendo le gambe come se ballassi, per non spezzare ramoscelli e arbusti. Al termine di ogni scatto, mi fermavo dietro un tronco e mi guardavo intorno per determinare di nuovo la posizione di Add. Per il momento andava tutto bene: lui non aveva la minima idea d’essere seguito. Di tanto in tanto controllavo che mi girasse sempre la schiena e aspettavo finché non era nascosto dagli alberi, così non potevo stabilire con certezza quale direzione seguisse; allora saltavo fuori dal mio nascondiglio e correvo a zigzag secondo il percorso che ritenevo più silenzioso. Dopo alcune corse a casaccio, ci presi gusto. Avevo ancora una certa dose di paura, ma mi divertivo. Dopo tutta la merda che Add e Melissa mi avevano scaricato addosso, era un vero piacere fregarlo… dimostrarmi migliore nel suo stesso campo.

Era anche un piacere svolazzare a quel modo fra i boschi. Come seguire le tracce di un animale selvatico, ma non proprio, perché un animale non si sarebbe lasciato seguire così facilmente, si sarebbe accorto di me in un attimo e non si sarebbe più fatto vedere né mi avrebbe fatto capire dove fosse finito. Era facile, invece, seguire un uomo. Riuscivo persino a stabilire da quale parte sarei comparso, per poi attraversare il suo percorso e sbucare dalla parte opposta. Una specie di nascondino. Solo che il gioco aveva una posta ben precisa.

A metà strada dalla valle San Mateo mi resi conto che avrei avuto difficoltà a seguirlo oltre il fiume. L’autostrada era l’unico ponte che superava il San Mateo River ed era esposta come qualsiasi ponte. Avrei dovuto aspettare un bel pezzo che Add attraversasse, e poi correre fra gli alberi, con la speranza di passargli davanti e di ritrovarlo.

Studiavo ancora un piano, quando Add raggiunse la riva del San Mateo, assai più a valle dell’autostrada. Mi tuffai dietro un albero, un eucalipto un po’ troppo sottile per i miei scopi, chiedendomi quali intenzioni avesse. Add si guardava intorno, anche dalla mia parte; mi acquattai e tenni la testa dietro il tronco, anche se così non lo vedevo più. La ruvida corteccia dell’eucalipto trasudava resina; con il fiato grosso, la fissai, incerto se sporgere di nuovo la testa. Add mi aveva udito? A quel pensiero il cuore mi batté come un picchio. D’un tratto, seguire un uomo non mi parve più solo divertimento. Mi distesi per terra, badando bene a non fare rumore fra le foglie secche; trattenendo il fiato, sporsi un occhio.

Add non si vedeva. Sporsi tutta la testa, ma non lo vidi ugualmente. Mi tirai in piedi. Proprio allora dal fiume giunse il brontolio di un motore. Add tornò in piena vista: era sempre sulla riva, guardava dalla parte del mare e agitava il braccio. Rimasi immobile. Add non si guardò più intorno. Poco dopo, fra gli alberi, scorsi una piccola barca con tre uomini a bordo. Non aveva remi, ma un motore montato a poppa. L’uomo di mezzo era giapponese. Quello a prua si alzò, mentre accostavano; saltò nell’acqua bassa e aiutò Add a legare la barca a un albero.

Mentre gli altri due scendevano dalla barca, strisciai come un gatto da un albero all’altro; alla fine scivolai sopra un ammasso di foglie d’eucalipto e di aghi, fino a un pino di Torrey, a soli quattro alberi di distanza da loro. Sotto i rami bassi e dietro il tronco, fui sicuro che non m’avessero visto.

Il giapponese (assomigliava un poco al mio capitano, ma era più basso) prese dalla barca un sacco di tela bianca, legato in cima. Lo passò ad Addison. I tre rivolsero delle domande a quest’ultimo e Add rispose. Udivo le voci, soprattutto quella del giapponese, ma non riuscivo a distinguere le parole. Risucchiai aria fra i denti, imprecai con forza fra me. Ero fin troppo vicino a loro, non potevo rischiare di avvicinarmi ancora. Niente da fare. Ma a parte qualche parola di tanto in tanto, un “come” o un “tu”, distinguevo solo il tono delle voci. Ero vicino come lo ero stato a Steve e a Kathryn, quando senza volerlo avevo ascoltato la loro conversazione; ma i quattro parlavano sulla riva di un fiume e l’acqua corrente, anche se non sembra molto rumorosa, basta già a confondere le parole. Imparavo in quel momento che è impossibile ascoltare di nascosto con buoni risultati chi sta sulla riva: quindi l’inseguimento e l’appostamento erano sprecati. Non riuscivo a capacitarmi di tanta sfortuna. Lì c’era Add, che parlava con un giapponese, forse proprio degli argomenti che volevo conoscere; e qui c’ero io, proprio dove volevo, a meno di quattro barche di distanza. Ma non serviva a niente. Mi venne voglia di affondare la testa fra gli aghi di pino e piangere.

Di tanto in tanto uno dei due sciacalli (presumo che lo fossero, anche se erano vestiti da paesani) rideva e prendeva in giro Addison a voce più alta, permettendomi di udire frasi intere. «Facile far fesso un fesso» disse uno. Add rise alla battuta. «Ci tornerà tutto indietro fra un paio di mesi» disse l’altro, indicando la sacca di Add. «Alle nostre puttane, almeno!» sogghignò il primo. Il giapponese guardava di volta in volta chi parlava e non rise mai alle battute. Rivolse ad Add ancora qualche domanda e Add rispose, almeno credo: mi voltava la schiena, quindi non lo udivo affatto.

E poi, sotto i miei occhi, i tre risalirono sulla barca. Add slegò la fune e la gettò a bordo, spinse l’imbarcazione, la guardò scivolare a valle. I tre sparirono subito alla vista, ma udii il motore accendersi. Era tutto. Non avevo appreso niente che già non sapessi. Premetti il viso contro gli aghi di pino e ne stritolai alcuni fra i denti.

Add continuò a guardare la barca per un paio di secondi, poi mi passò accanto. Restai disteso, immobile, per un poco; poi mi alzai e gli andai dietro. Presi addirittura a pugni qualche albero, passandogli vicino. E non vedevo Add da nessuna parte. Rallentai, furioso e frustrato al punto da non sapere se volevo sprecare pazienza a pedinarlo. Cosa ne ricavavo? Ma l’alternativa, tornare a Onofre da solo, era anche peggiore. Cominciai ad avanzare tracciando ampie diagonali, danzando di nuovo fra gli alberi in una corsa silenziosa.

Non lo vidi finché non mi colpì con una spallata che mi buttò a terra. Estrasse dalla cintola un coltello e mi assalì, cadendomi quasi addosso. Rotolai su me stesso, con un calcio lo colpii al braccio, poco sopra il coltello; mi contorsi, lo scalciai al ginocchio; mi alzai, schivai, lo colpii sul collo a mani unite, sempre muovendomi con la massima rapidità possibile. Lui andò a sbattere contro un albero, si accasciò, stordito; gli strappai rapidamente la sacca dalla sinistra e balzai indietro per evitare una coltellata. Tenni sollevata la sacca, come se fosse una mazza, e mi ritrassi in fretta.

«Resta fermo lì, altrimenti scappo e non rivedrai più la sacca» lo apostrofai. Senza riflettere, aggiunsi: «Sono più veloce di te, non mi prenderai mai. Nessuno mi raggiunge, nei boschi.» E risi di trionfo, nel vedere la sua espressione, perché era vero e lui lo sapeva. Nessuno è più veloce di me. E sconfiggere fra gli alberi Add e il suo coltello, più veloce del pensiero, più veloce di quanto mi occorreva per decidere le mie mosse, me ne dava la sensazione esatta. Anche lui lo sapeva. Finalmente, finalmente, avevo Add Shanks dove lo volevo. Con la mano libera Add si massaggiò il collo, lanciandomi la stessa occhiata d’odio che avevo visto negli occhi della donnola in trappola. «Cosa vuoi?» domandò.

«Non voglio molto. Non voglio questa sacca, anche se sembra contenere un bel po’ d’argento e magari roba ancora più importante, eh?» Forse non avevo indovinato il contenuto, ma una cosa era certa: rivoleva la sacca. La fissò, si mosse in avanti, ma io arretrai di tre passi, spostandomi anche sulla destra, dove avevo una via di fuga fra gli alberi. «Mi sa che Tom, John, Rafael e gli altri sarebbero molto interessati a vedere la sacca e a sentire quel che ho da dire al riguardo.»

«Che cosa vuoi?» ringhiò.

Per niente intimorito, ricambiai lo sguardo carico d’odio. «Non mi piace come hai approfittato di me» dissi. Il coltello gli sobbalzò in mano; pensai: “Non fargli capire quanto ne sai”. «Voglio vedere uno sbarco di giapponesi nell’Orange County. So che scendono a terra e so che sei d’accordo con loro. Voglio sapere dove e quando ci sarà il prossimo sbarco.»

Parve perplesso; abbassò di una spanna il coltello. Poi sogghignò, sempre con quell’espressione di odio. Trasalii. «Ah, già, sei in combutta con gli altri ragazzi, giusto? Il giovane Nicolin, Mendez e il resto.»

«Sono da solo.»

«Mi spiavi, vero? E John Nicolin non ne sa niente, scommetto. Niente.»

Sollevai la sacca. «Dimmi quando e dove, Add. Altrimenti la porto nella valle e tu non ci metterai più piede.»

«Ce lo metterò eccome!»

«Facciamo la prova?»

Arricciò le labbra in un ringhio. Tenni duro. Lo guardai riflettere. Poi Add sogghignò di nuovo, in un modo che non capii. Pensai, allora, che facesse come la donnola, che mostrasse i denti in un ultimo ringhio feroce, prima di morire.

«Sbarcheranno a Dana Point questo venerdì. A mezzanotte.»

Gli gettai la sacca e corsi via.

All’inizio corsi come un daino braccato, saltai tronchi caduti, schiantai piccoli cespugli, approfittai del lusso di fare rumore. Ora avevo paura: forse, con la sacca, gli avevo gettato una pistola; oppure lui era un abile lanciatore di coltelli e mi avrebbe trapassato con la lama pesante che impugnava. Però, attraversata gran parte della valle San Mateo, capii di essere al sicuro, e continuai a correre solo perché ero felice. Trionfante, danzavo fra gli alberi, superavo a salti cespugli che avrei potuto scansare, strappavo piccoli rami che mi ostacolavano. Corsi fino all’autostrada, proseguii in discesa a tutta velocità. Non credo di avere mai corso più rapidamente in vita mia, né di essermi divertito tanto. «Venerdì notte!» gridai al cielo e volai sull’asfalto, come un’automobile: il nodo allo stomaco era finalmente scomparso.

18

Ma il nodo ricomparve presto. Attraversai di corsa la valle e andai dritto a casa dei Nicolin, ma la signora N. seppe dirmi solo che Steve era da qualche parte con Kathryn. La ringraziai e me ne andai; già mi sentivo a disagio. Steve e Kathryn litigavano di nuovo? Cercavano di rappacificarsi? Kathryn l’aveva convinto a lasciar perdere? (Questa ipotesi pareva poco attendibile.) Controllai alcuni dei nostri soliti luoghi di ritrovo; non ci tenevo molto a trovare Kathryn, ma desideravo vedere Steve al più presto. Non li trovai da nessuna parte. E non avevo indizi per scoprire dove fossero, né che cosa facessero. Mentre risalivo un’altra volta Swing Canyon, mi resi conto che quei due non li capivo più, se mai li avevo capiti. Che cosa si fa, dopo una lite come quella che avevo ascoltato di nascosto? La vita privata di altre coppie… una delle cose più riservate che esistano. Anche se ne parlano con altri, solo i diretti interessati sanno cosa succede realmente tra loro. E se non ne parlano, il mistero è assoluto, nascosto al mondo.

Questo, mercoledì sera. Tornai dai Nicolin due volte, quella notte, ma non trovai nessuno. E più non riuscivo a raccontare tutto a Steve, più mi sentivo a disagio. Che cosa avrebbe detto, Kathryn, quando avesse saputo la mia parte nella faccenda? Avrebbe pensato che le avevo mentito, che avevo tradito la sua fiducia. D’altro canto, se non avessi parlato a Steve dello sbarco, se avessi lasciato passare venerdì… e se mai lui l’avesse scoperto… bene, non meritava neppure pensarci. Avrei perso sul momento il mio migliore amico.

Dopo la seconda visita notturna ai Nicolin, tornai a casa e andai a letto. Era stata una gran giornata, pensavo di non riuscire a prendere sonno; ma dopo qualche minuto dormivo già. Però un paio d’ore più tardi mi svegliai e per il resto della notte continuai a rigirarmi nel letto; ascoltai il vento, meditai su come comportarmi.

Subito dopo l’alba mi svegliai, di nuovo con quel nodo allo stomaco; e cercare di riprendere sonno non faceva altro che peggiorarlo. Avevo la vaga impressione d’avere fatto un sogno così orribile che non avevo nessuna voglia di ricordarlo più chiaramente… in sogno mi davano la caccia… ma dopo qualche istante non ero nemmeno sicuro d’avere sognato. Come tutte le mattine uscii a orinare e scoprii che s’era alzato il vento Santa Ana, quel vento del deserto che soffia dalle montagne orientali, spinge a mare le nubi, scalda la terra, secca ogni cosa. Il Santa Ana colpisce tre, quattro volte all’anno e cambia completamente il nostro clima. Questa volta già aumentava d’intensità e piegava gli alberi in senso opposto alla naturale inclinazione dovuta al vento di mare. Presto avrebbe spezzato i rami dei pini e li avrebbe trascinati verso l’oceano.

Il secchio dell’acqua da bere, vuoto, mi diede la scossa quando lo presi per riempirlo. Elettricità statica, la chiamava Tom, ma per quanto sì sforzasse, non era mai riuscito a farmi capire il fenomeno: qualcosa di simile a milioni di minuscoli fuochi che si muovono in cerchio (certo ricorderete che bella spiegazione del fuoco mi aveva dato!)… e i cavi tesi fra i tralicci come quello degli Shanks avevano portato l’elettricità da ogni parte e fatto funzionare tutte le macchine automatiche dei vecchi tempi. Una simile energia, da piccole scosse come quella che avevo appena provato.

Mentre andavo al fiume, nel vivido sole del mattino, sembrava che ogni cosa fosse imbottita di colore, come se l’elettricità statica fosse una cosa che riempiva tutto e lo rendeva più splendente. I peli sulle braccia mi si rizzavano; sentivo le radici nello scalpo, mentre il vento mi agitava qua e là i capelli. Elettricità statica… forse negli esseri umani si raccoglieva nello stomaco. Al fiume entrai in acqua fino alle ginocchia, tuffai la testa sotto la superficie, feci gargarismi, con la speranza che l’elettricità si disperdesse nell’acqua e se ne andasse. Non funzionò.

Adesso ero completamente sveglio. Piccole onde si aprivano a ventaglio sulla superficie dell’acqua, una dopo l’altra, spingendola a mare. Già l’aria era calda e secca, pareva che presto sarebbe diventata ardente. Il cielo era di un celeste brillante. Bevvi mezzo secchio d’acqua, tirai sassi a un tronco caduto, impigliato nella riva opposta. Che fare? In alto i gabbiani volavano in cerchio, battevano le ali lamentandosi per la fatica che erano costretti a fare nel vento contrario. Tornai a casa e mangiai con Pa’ una pagnotta.

«Cosa fai oggi?» mi chiese Pa’.

«Vado a dare un’occhiata alle trappole. Così m’ha detto il vecchio Mendez.»

«Sarebbe una bella novità rispetto al solito pesce.»

«Già.»

Pa’ mi guardò, arricciò il naso. «Ultimamente non chiacchieri molto. Annuii, troppo turbato per prestargli attenzione.»

«Non vuoi fare in modo che la gente ti parli» continuò.

«No. Meglio che vada, però.»

Tornai al fiume, pensando di andare comunque a controllare le trappole. Mi sedetti sopra uno dei minuscoli promontori che sporgono a picco sulla riva. A valle, le donne comparvero a una a una, il gruppo Mariani e le altre; approfittavano del Santa Ana per fare il bagno e per lavare abiti, lenzuola, coperte, asciugamani, qualsiasi cosa potessero portare al fiume. L’aria era un po’ più calda a ogni minuto e talmente secca da sentirla nelle narici. Le donne tirarono fuori il sapone e si spogliarono; si mossero nell’acqua bassa della curva, portando assi da bucato e ceste di abiti e di panni; si misero al lavoro, chiacchierando e ridendo, tuffandosi nel centro del fiume per sguazzare un poco e togliersi il sapone di dosso. Il sole del mattino si rifletteva sui corpi bagnati e sui capelli incollati alla testa; avrei potuto restare a guardarle ancora, tanto erano bianche e snelle. Pensai che sembravano un gruppo di delfini; si schizzavano acqua addosso, dondolavano le tette, mentre strofinavano i panni sull’asse da bucato, a bocca aperta per ridere e sorridere al cielo. Ma mi avevano visto, seduto più a monte; presto, se fossi rimasto, mi avrebbero tirato sassi, avrebbero alzato le gambe per mettermi in imbarazzo, avrebbero gridato frasi scherzose come: «Ehi, non ti liscia niente contropelo?» Oppure: «Ti serve aiuto, con l’affare?» O anche: «Attento che non ti si consumi come questo pezzo di sapone»…

E poi, comunque, avevo altre cose per la mente; diedi loro un’ultima occhiata, mi girai e risalii il fiume; dimenticai le donne e cominciai di nuovo a preoccuparmi. (Ma loro cosa avrebbero pensato?)

Capite, potevo non dirgli niente. Potevo dirgli: “Steve, non ho scoperto niente e non so come fare”. E finirla lì. Venerdì sarebbe arrivato e passato, non ci saremmo mai accorti della differenza. Almeno, loro non se ne sarebbero accorti. E tutto sarebbe continuato come prima. Nel percorrere il sentiero del fiume mi venne proprio quest’idea; e mentre andavo da una trappola all’altra, la meditai. Per certi versi mi andava a genio.

Ma ricordai lo scontro con Add: mi aveva sbattuto contro un albero, quando lui aveva il coltello e io no. Tolsi un coniglio dal laccio e risistemai la trappola. Ricordai la fuga dalla nave giapponese, la nuotata a riva, la fatica per risalire il canalone. Adesso mi sembrava una grande avventura. Ricordai l’arrampicata sulla parete della casa degli Shanks per origliare la conversazione con gli sciacalli e il silenzioso pedinamento di Addison nei boschi. Mi era piaciuto più di qualsiasi altra cosa fosse mai successa a Onofre. Non avevo mai sentito in me un potere del genere. Più che mai mi parve che questi avvenimenti non mi accadessero per caso, ma che fossi io stesso a provocarli, che decidessi io di fare certe cose e che poi le facessi. E adesso avevo l’occasione di fare qualcosa di meglio, di combattere per la mia terra perduta. La terra su cui camminavo era nostra, l’unica cosa che ci fosse rimasta. Ne stessero lontano o sopportassero le conseguenze! Non eravamo una vetrina di mostruosità, una versione in grande delle fiere degli orrori che a volte venivano ai raduni ed esibivano patetiche vittime delle radiazioni, umane e animali… Eravamo una nazione, una nazione viva, comunità vive in una terra viva, e dovevano lasciarci in pace.

Così quando tornai nella valle attraverso la strettoia, lasciai perdere tre conigli e una moffetta puzzolente e continuai fino alla casa dei Nicolin. Steve, davanti alla casa, gridava furiosamente contro sua madre, ferma sulla soglia. Qualcosa che riguardava ancora John, mi parve di capire; qualcosa che lui aveva detto o fatto per irritare Steve… Trasalii e attesi che Steve smettesse di gridare. Quando si diresse allo scogliera, lo avvicinai.

«Cosa c’è?» disse, vedendomi.

«Ho scoperto la data!» esclamai. S’illuminò. Gli raccontai tutto. Al termine, provai una sorta di brivido; be’, gliel’ho detto, pensai. Non avevo preso la decisione, era stata automatica.

«Magnifico» continuò a ripetere Steve. «Magnifico. Adesso li abbiamo in pugno! Perché non me l’hai detto?»

«Te l’ho appena detto» risposi, irritato. «L’ho saputo solo ieri.»

Mi diede una manata sulla schiena. «Andiamo a riferirlo a quelli di San Diego. Non c’è molto tempo… un giorno, uau! Forse dovranno far venire altri uomini dal sud, o chissà cosa.»

Ora che gliel’avevo detto, però, ero più incerto di prima che fosse la cosa giusta. Era stupido, ma era successo. Scrollai le spalle.

«Vai tu a dirglielo; io informerò Gabby, Del e Mando, se li vedo.»

«Be’…» piegò curiosamente la testa. «Certo. Se vuoi così.»

«La mia parte l’ho fatta» replicai, sulla difensiva. «Se ci andiamo tutt’e due, rischiamo di attirare l’attenzione.»

«Forse è vero.»

«Fatti vedere stasera e dimmi cosa ne pensano.»

«D’accordo.»

Quando si presentò, quella sera, il vento soffiava più forte che mai. I rami del grosso eucalipto sbattevano l’uno contro l’altro, le foglie crepitavano e cadevano volteggiando su di noi. I pini borbottavano il loro accordo più basso e si agitavano contro le vivide stelle.

«Indovina chi c’era, al loro campo» mi disse Steve. Non stava nella pelle per l’eccitazione. «Indovina!»

«Non so. Lee?»

«No, il Sindaco! Il Sindaco di San Diego.»

«Davvero? Cosa ci faceva, lì?»

«È qua per combattere i musi gialli, naturalmente. Era contentissimo, quando gli ho detto che potevamo guidarli al punto di sbarco. Mi ha stretto la mano, abbiamo bevuto insieme un bicchiere di whisky, e tutto il resto.»

«Logico. Gli hai detto il luogo?»

«Certo che no! Mi prendi per uno stupido? Ho detto che fino a domani non avremmo avuto la conferma e che li avremmo informati dopo esserci uniti a loro. Così saranno obbligati a portarci con sé, capisci? A dire il vero, ho detto che solo tu conosci il punto esatto dello sbarco e che non vuoi rivelarlo a nessuno.»

«Oh, magnifico. E perché dovrei comportarmi cosi?»

«Perché sei un tipo sospettoso, naturalmente. E non vuoi che i giapponesi scoprano chissà come che siamo al corrente. Così gli ho detto.»

Questo mi suggerì una cosa alla quale non avevo mai pensato, che lo crediate o no: i giapponesi potevano venire a sapere da Add che eravamo al corrente dello sbarco. E potevano rinviarlo, dopotutto. Mi si presentò alla mente un’altra possibilità: Add poteva avere mentito, sulla data. Ma questo lo tenni per me. Non volevo creare difficoltà. Dissi solo: «Crederanno che siamo pazzi.»

«Ma va’! E perché? Il Sindaco era davvero contento di noi.»

«Ah, lo credo! Quanti uomini aveva?»

«Quindici, forse venti.»

«C’era anche Jennings?»

«Certo. Senti, hai parlato a Del, Gabby e Mando?»

«E Lee? Lee c’era?»

«Non l’ho visto. Hai parlato alla banda?»

Ero preoccupato per l’assenza di Lee. Non capivo, né gradivo, il modo in cui era scomparso dal gruppo. «Ho parlato a Gabby e a Del» dissi, dopo un poco. «Venerdì Del va con suo padre a Talega Canyon, per procurarsi qualche vitello; perciò non ci sarà.»

«E Gabby?»

«Lui viene.»

«Ottimo. Henry, ci siamo! Facciamo parte della resistenza!»

Il soffio caldo del Santa Ana mi bruciava nelle narici; mi sentivo in tutto il corpo l’elettricità statica. Le stelle danzavano tra le foglie. «Vero» dissi «vero.» Tremavo per l’emozione.

Steve mi fissò. «Non avrai paura, per caso?»

«No, certo! Solo un po’ stanco, credo. Farei meglio a dormire qualche ora.»

«Buona idea. Ne avrai bisogno, domani.» Mi diede una manata sul braccio e sparì fra gli alberi. Una fortissima raffica di vento spinse un ramo a veleggiarmi sulla testa. Lo scostai con il braccio e tornai dentro casa. Pa’ cuciva.

Non dormii molto, quella notte. E il giorno seguente fu il più lungo della mia vita. Il Santa Ana soffiò con forza per tutta la giornata; la terra s’inaridiva e si scaldava; la temperatura salì al punto che bastava muoversi per sudare. Per tutto il giorno controllai trappole nell’interno della valle, ma non trovai nemmeno un animale. Dopo avere buttato giù a fatica il solito pane e pesce, divenni così irrequieto da non riuscire a star senza far niente. Dissi a Pa’: «Vado su a trovare il vecchio. Dopo lavoriamo alla capanna sull’albero, perciò farò tardi.»

«Va bene.»

Scendeva il crepuscolo. Il fiume era uno splendore d’argento, molto più chiaro degli alberi sulla riva opposta. A occidente il cielo era dello stesso azzurro argentato, l’intera volta celeste sembrava più chiara del solito… la terra era scura, ma il cielo ancora rosseggiava. Attraversai il ponte e salii dai Costa. Da lì vedevo tutta la valle ruzzolare nel buio.

Mando mi accolse fuori della porta. «Gabby mi ha detto tutto e vengo anch’io, capito?»

«Certo» dissi.

«Se provi ad andare senza di me, racconto tutto.»

«Oh, andiamo, le minacce non servono, Armando. Vieni con noi.»

«Ah.» Abbassò gli occhi. «Non lo sapevo. Non ne ero sicuro.»

«Perché?»

«Pensavo che forse Steve non mi avrebbe voluto.»

«Be’… perché non scendi a parlargli? Scommetto che è ancora in casa.»

«Non so se devo farlo. Papà dorme e dovrei tenere d’occhio Tom.»

«Ci penso io, sono venuto apposta. Vai a dire a Steve che vieni anche tu. Digli che starò qui finché non partiamo.»

«D’accordo.» S’allontanò di corsa.

«E niente minacce!» gli gridai dietro; ma il vento spinse le parole verso Catalina e Mando non le udì. Entrai in casa. Il Santa Ana sibilava intorno agli spigoli, fischiava fra i bidoni; la casa gemeva uuuuu, uuuuu, uuuuuu. Guardai nell’ospedale, dove ardeva una lampada. Tom giaceva sulla schiena, la testa sostenuta dal guanciale. Aprì gli occhi e mi guardò.

«Henry» disse. «Bene.»

Nella stanza faceva caldo, mancava l’aria. In quei giorni torridi, il riscaldamento solare di Doc funzionava fin troppo bene; se si aprivano completamente gli sfiatatoi, il vento avrebbe messo tutto a soqquadro. Mi accostai al letto, mi sedetti sulla seggiola accanto.

Tom aveva barba e capelli arruffati; i ricci grigi e bianchi sembravano di cera. Gli incorniciavano il viso, più piccolo e più pallido di come lo ricordavo. Lo fissai, come se lo vedessi per la prima volta. Il tempo traccia un mucchio di segni, sul viso: rughe, macchie, pieghe… la curvatura del naso, la cicatrice che interrompeva un sopracciglio, le guance incavate dove mancavano i denti… Tom sembrava vecchio e malato. Pensai: “Sta per morire”. Forse, una volta tanto, lo vedevo realmente: crediamo di conoscere l’aspetto dei nostri familiari; perciò, quando li guardiamo, in realtà non li vediamo; diamo solo un’occhiata e ricordiamo. Ora lo guardavo con occhi nuovi, l’osservavo sul serio. Un vecchio. Si sollevò sui gomiti.

«Alzami il cuscino, così sto seduto» disse.

La voce era la metà del solito. Spostai il cuscino, sorressi il vecchio finché non si fu sistemato a sedere. Poggiava la testa contro la parte concava di un bidone. Si tirò la camicia, in modo che gli scendesse dritta sul petto.

L’unica lampada accesa tremolò, quando uno ventata s’infilò nello sfiatatoio socchiuso. Il bagliore giallastro che riempiva la stanza divenne più fioco. Mi alzai, allungai lo stoppino del lume. Il vento girò intorno alla casa, con rumore particolarmente intenso.

«Soffia il Santa Ana, eh?» disse Tom.

«Uno di quelli forti. E anche caldo.»

«L’ho notato.»

«Ne ero sicuro. Questo posto sembra un forno. Sono felice di non vivere nel deserto, se è così per tutto l’anno.»

«Un tempo lo era. Ma il vento non è caldo a causa del deserto. Si comprime superando le montagne e la compressione lo scalda. Scalda ogni cosa.»

«Ah.» Cominciai a descrivere l’effetto del Santa Ana sugli alberi avvezzi al vento di mare, ma anche lui conosceva il Santa Ana. Tacqui. Restammo così per un poco. Non c’era fretta di riempire il silenzio fra noi. Quante ore avevamo trascorso insieme, a parlare o a non dire niente, era lo stesso. Il ricordo di quelle ore m’intristì. “Non puoi morire adesso” pensai. “Non mi hai ancora insegnato tutto. Chi mi dirà cosa leggere?”

Stavolta Tom compì uno sforzo per scuotere l’atmosfera. «Hai cominciato a riempire il libro che t’ho dato?»

«Oh, Tom, non so come fare. Non l’ho neppure aperto.»

«Parlavo sul serio» disse, fissandomi. Anche in quel viso devastato, l’occhio aveva la sua antica severità.

«Lo so. Ma cosa scrivo? E conosco appena l’ortografia.»

«L’ortografia» disse con sprezzo «non ha importanza. Le sei firme di Shakespeare giunte fino a noi erano scritte in quattro modi diversi. Ricordatene, quando ti preoccupi dell’ortografia. E non conta nemmeno la grammatica. Scrivi come parleresti, capito?»

«Ma Tom…»

«Non contraddirmi, ragazzo. Dopo tutto il tempo speso a insegnarti a leggere e a scrivere, voglio dei risultati.»

«Lo so. Ma non ho nessuna storia da scrivere, Tom. Sei tu che hai le storie. Come quella di quando hai incontrato te stesso, ricordi?»

Parve confuso.

«Quando hai dato un passaggio a te stesso» suggerii.

«Ah, già» disse piano, lo sguardo perso contro la parete.

«È accaduto davvero, Tom?»

Il vento. Solo i suoi occhi si mossero, scivolarono a guardarmi. «Sì.»

Di nuovo il vento e il suo fischio stupito, whoooooo! Tom rimase in silenzio per un pezzo; trasalì, batté le palpebre: non ricordava più di cosa parlavamo.

«È accaduto moltissimo tempo fa, eppure tu ricordi ogni cosa con la massima chiarezza» dissi. «Le parole precise, tutto. Io non ci riuscirei mai. Non ricordo neppure cos’ho detto la settimana scorsa. Anche per questo non posso scrivere il libro.»

«Scrivi» mi ordinò. «Ti torna tutto in mente, quando lo metti per iscritto. Sollecita la memoria.»

Tacque. Ascoltammo gli ululati del vento. Un ramo batté rumorosamente contro la parete. Tom afferrò il lenzuolo che gli copriva le gambe, lo strinse, lo torse. L’orlo era tutto sfilacciato.

«Hai male?» chiesi.

«No.» Ma continuò a torcere il lenzuolo e guardò la parete, non me. Sospirò alcune volte. «Pensi che io sia molto vecchio, no, ragazzo?» La voce era debole.

Lo fissai. «Sei molto vecchio.»

«Sì. Ho vissuto una vita intera, nei vecchi tempi, avevo 45 anni, il Giorno… per cui ora ne ho 108, giusto?»

«Sì, certo. Lo sai meglio di tutti.»

«E sembro proprio un centenario, lo sa Iddio.» Trasse un respiro profondo, trattenne il fiato, lo lasciò uscire. Notai che ancora non aveva tossito, da quando ero arrivato: forse il vento secco lo aiutava. Ero sul punto di dirlo, quando lui riprese.

«Ma se non lo fossi?»

«Come?»

«Se non fossi così vecchio?»

«Non capisco.»

Sospirò, cambiò posizione sotto il lenzuolo. Chiuse gli occhi per un poco. Pensai che si fosse addormentato. Riaprì gli occhi.

«Voglio dire… ho allungato un poco la mia età.»

«Ma… com’è possibile?»

Spostò lo sguardo a fissarmi in viso, con occhi castani, lucidi e imploranti. «Quando le bombe scoppiarono, Henry, avevo 18 anni. Ti dico la verità per la primissima volta. Devo, finché ne ho l’occasione. Dovevo andare in quella scuola di cui abbiamo visto le rovine sulle scogliere, a sud. Andai a fare una gita nella Sierra, l’estate prima; accadde proprio allora. Quando avevo 18 anni. Così ora ne ho… ne ho…» Batté rapidamente le palpebre varie volte di seguito, scosse la testa.

«Ottantuno» dissi, con voce secca come il vento.

«Ottantuno» ripeté lui, in tono sognante. «Abbastanza vecchio, ed è la verità! Ma sono solo cresciuto, nei vecchi tempi. Il resto non è vero. Volevo dirtelo, prima d’andarmene.»

Lo fissai, lo fissai. Mi alzai, girai per la stanza, finii ai piedi del letto, da lì lo fissai ancora. Mi sembrava di non riuscire a metterlo a fuoco. Lui smise di guardarmi in faccia, si scrutò a disagio le mani chiazzate.

«Pensavo solo che dovevi sapere qual è stato il mio compito» disse, in tono di scusa.

«E sarebbe?» chiesi, intontito.

«Non lo sai? No. Be’… fare in modo che ci fosse in giro uno che era vissuto nei vecchi tempi, che li conosceva bene, anche… è importante.»

«Ma se in realtà non ci eri vissuto!»

«Inventare. Oh, c’ero. Sono vissuto nei vecchi tempi. Non molto, e senza capirli, all’epoca… ma c’ero. Non ho mentito completamente. Ho solo esagerato.»

Non ci credevo. «Ma perché?» esclamai.

Rimase in silenzio per un periodo lunghissimo. Il vento ululava d’angoscia al posto mio.

«Non so come dirlo» riprese stancamente. «Per mantenere un appiglio su quella parte del passato che ha valore, forse? Per mantenere alto lo spirito di noi tutti. Come fa quel libro. Non sono sicuro se l’ha fatto o meno. Può darsi che un Glen Baum abbia fatto il giro del mondo; può darsi che Wentworth l’abbia scritto lì nella sua tipografia. Non importa… ora è vero, perché c’è il libro. Un americano intorno al mondo. Ne avevamo bisogno, anche se era una bugia, capisci?»

Scossi la testa, incapace di parlare. Tom sospirò, guardò dall’altra parte, batté leggermente la testa contro il bidone. Un milione di pensieri mi si affollava nella testa, eppure dissi una cosa che non avevo pensato, in tono pieno di delusione. «Allora non hai veramente incontrato il tuo doppio.»

«No. L’ho inventato. Ho inventato un mucchio di cose.»

«Ma perché, Tom? Perché?» Ripresi ad andare avanti e indietro per la stanza, così non mi avrebbe visto piangere.

Non rispose. Pensai a tutte le volte che Steve l’aveva chiamato bugiardo, a quanto spesso avevo difeso il vecchio. Da quando ci aveva mostrato la fotografia della Terra vista dalla Luna, gli avevo creduto, avevo creduto a tutte le sue storie. Avevo deciso che diceva la verità.

Con voce che percepivo appena, Tom disse: «Siedi, ragazzo. Siediti qui.» Ubbidii. «E ora ascolta. Sono sceso e ho visto, capisci? Capisci? Ero fra le montagne, te l’ho detto. Questa parte della storia era vera. Tutte le bugie erano vere. Fra le montagne, per una gita da solo. Non sapevo nemmeno che le bombe fossero esplose, ci credi?» Scosse la lesta, come se non ci credesse ancora adesso. E all’improvviso capii che mi raccontava cose mai dette a nessuno. «Era una giornata magnifica, arrivai fin sopra passo Pinchot, ma quella notte il fumo oscurò le stelle. Niente stelle. Non lo sapevo, ma sapevo. E scesi e vidi. Ogni persona di valle Owens era impazzita; la prima che incontrai mi disse perché. E quel momento… oh, Hank, grazie a Dio tu non dovrai mai vivere quel momento. Impazzii come tutti gli altri. Avevo poco più della tua età. E tutti erano morti, tutti quelli che conoscevo. Ero pazzo di dolore, mi si spezzò il cuore, a volte penso che non sia mai guarito…»

Deglutì con forza. «Ora capisco perché non ne parlo.» Con la testa sbatté contro il bidone, mosse le palpebre per schiarirsi la vista. In un sussurro feroce disse: «Ma devo parlarne, devo, devo, devo» sbattendo piano la testa, bong, bong, bong.

«Smettila, Tom.» Gli misi la mano sulla nuca, contro quel risonante tamburo metallico. Aveva i capelli madidi. «Non hai bisogno di parlare.»

«Devo» mormorò. Mi sporsi per sentire. «Sulle prime, non ci credetti. Ma la corriera non passava, e capii. Sputai l’anima a camminare e a fare l’autostop con dei pazzi, per tornare a casa; ma quando scesi la cinque, dappertutto c’erano ancora colonne di fumo in tutta la città. Allora seppi che era vero; avevo paura delle radiazioni, non andai a vedere casa mia. Mi rifugiai fra le montagne, saccheggiai e frugai nelle macerie per procurarmi il cibo. Per quanto tempo, non so; perdetti il senno; ricordo solo lampi come fiamme tra il fumo. Ammazzai. Tornai in me in una baracca fra i monti e seppi che dovevo vedere, per credere che fossero tutti morti. I miei familiari, capisci? Ormai me ne fregavo delle radiazioni, non me ne ricordavo nemmeno. Tornai all’Orange County; e qui, oh, oh…» Continuò a torcere il lenzuolo. Gli bloccai la mano. Era febbricitante.

«Questo non posso raccontarlo» bisbigliò. «Era… male. Scappai, venni qui. Montagne disabitate. Ero sicuro che tutto il mondo era distrutto, mondi d’insetti e d’esseri umani morenti sulle spiagge. Nei momenti di speranza, mi auguravo che fosse successo solo a noi e alla Russia, all’Europa e alla Cina. E che gli altri paesi alla fine ci portassero aiuto, ah, ah.» Quasi soffocò, mi si aggrappò alla mano. «Ma nessuno sapeva. Nessuno sapeva niente, a parte quel che si vedeva. Vidi montagne deserte. Sapevo solo questo. I marines le avevano tenute pulite. Vidi che potevo vivere fra quelle montagne senza impazzire, se riuscivo a non farmi uccidere da qualcuno e a non morire di fame. Se era possibile. Ma qui c’era la valle e sapevo che era possibile. E non misi mai più piede nell’Orange County.»

Gli strinsi la mano; sapevo che da allora c’era andato.

Quasi a contraddirmi, disse: «Mai, fino a oggi.» Mi tirò la mano, mormorò in fretta: «È male, è male. Li hai visti ai raduni, gli sciacalli, in loro c’è qualcosa di sbagliato, occhi affetti da glaucoma corneale, qualcosa scoppiato dentro… c’è qualcosa di sbagliato nei loro occhi, la vita nelle rovine li fa impazzire. Matti come cavalli. E non è una sorpresa. Devi stare lontano da lì, Henry. So che ci sei stato, di notte. Ma dammi retta, ora, non salirci più, è male, male!» Si sporgeva dal guanciale verso di me, tutt’e due le mani dalla mia parte del letto per tenersi sollevato, il volto teso e madido. «Promettimi di non andarci, ragazzo.»

«Ah, Tom…»

«Non puoi andarci!» disse disperatamente. «Dimmi che non ci andrai, che non ci andrai mai.»

«Tom, a volte devo…»

«No! A che scopo? Quel che serve lo ottieni dagli sciacalli, sono apposta qui per questo, ti prego, Henry, prometti. C’è il male, lassù, così orribile da non poterne parlare ti prego ti chiedo di non andare lassù…»

«Va bene» dissi. «Non ci salirò, te lo prometto.» Dovevo dirlo. Per calmarlo, capite. Ma il nodo allo stomaco mi si strinse, tanto da costringermi a tenere il braccio sotto le costole. Sapevo di avere sbagliato. Sbagliato di nuovo.

Tom ricadde contro il cuscino, bong. «Bene. Da quello sei salvo. Ma io no.»

Stavo così male che cercai di cambiare discorso. «Ma non credo che ti abbia danneggiato, almeno a lungo andare. Sei ancora qui, dopo tutti questi anni.»

«Bombe ai neutroni. Radiazioni a breve termine. Immagino, ma non lo so. Qualcosa del genere, comunque. La terra ci vendicherà, ma non è una consolazione. La vendetta non consola. La loro sofferenza non ripagherà la nostra, niente ci riuscirà mai, siamo stati assassinati.» Mi strinse la mano con tanta forza da farmi male alle nocche. Inspirò rumorosamente. «Noi sopravvissuti eravamo affamati, così affamati da combatterci l’un l’altro e terminare per loro la strage, ah, questo fu il peggio. Eravamo impazziti. L’anno dopo, morirono più persone di quante non ne avessero uccise le bombe, sono sicuro, e continuarono a morire, sembrava che sarebbero morti tutti. Difesa civile, già! Stupidi americani, ormai così lontani dalla terra che non avevamo la minima idea di come trarne da vivere, oppure chi lo sapeva era travolto da chi non lo sapeva, ammazzato, e la lotta era più aspra. Si arrivò al punto che un amico di cui fidarsi era la cosa più preziosa del mondo. Alla fine ne rimasero così pochi che non c’era più bisogno di combattere, nessuno contro cui combattere. Tutti morti. Quante morti, Henry. Ho visto la Morte camminare lungo la via più volte di quanto si voglia immaginare. Un vecchio in giacca nera e la scure sulla spalla. Arrivai a salutarlo e a passargli vicino. Poi dal cielo le tempeste, il clima peggiorò e vennero le tempeste. Ci fu un inverno che durò dieci anni… sembra l’inizio di un limerick. Ma la sofferenza era insopportabile. Vivo per dimostrare cosa un uomo può sopportare senza morirne, bella poesia, ricordi? Te l’ho fatta studiare? Quando vedevi una persona con il viso che non sembrava pazzo, ti veniva voglia di abbracciarla. Anni di solitudine come il poeta mai aveva immaginato. Occorre gente, più ce n’è e più è facile procurarsi il cibo, in un certo senso. Così quando ci sistemammo qui… fu un inizio. Nuovo. Non eravamo più di una decina. Ogni giorno, una lotta. Cibo… Mi chiedevo sempre a che cosa servisse… siamo schiavi del cibo, ragazzo, l’ho imparato. Sono cresciuto senza imparare in realtà un accidente del cibo. In quell’America era male. Il mondo moriva di fame e mangiavamo come maiali, la gente moriva di fame e noi mangiavamo il loro cadavere e ci leccavamo le labbra. È vero quel che dico a Ernest e a George, eravamo un mostro e mangiavamo il mondo e avevano ragione di farlo, eppure, eppure, non lo meritavamo. Eravamo un buon paese.»

«Per favore, Tom. Ti rovinerai la voce, continuando così. Smettila!»

Sudava. La sua voce era così tesa e rauca che pensavo davvero che gli si sarebbe rovinata. Avevo paura, tremavo. Ma ora lui era lanciato; trasse alcuni respiri profondi e riprese, stringendomi la mano e ordinandomi con lo sguardo di lasciarlo parlare, di lasciarlo finalmente parlare.

«Eravamo liberi, allora. Non perfettamente, capisci, ma era il meglio che potevamo fare, tentavamo, era il meglio fino a quel momento. Mai nessuno aveva fatto di meglio, noi… eravamo la migliore nazione della storia» mormorò, come se dovesse convincermi o morire. «Ti dico la verità, ora; non prendo in giro George, non racconto frottole. Con tutti i difetti e le stupidità, eravamo ancora la guida, il punto focale del mondo, e ci hanno uccisi per questo. Ci hanno uccisi per perfida invidia, hanno assassinato la migliore nazione che la terra abbia mai avuto, era genocidio, ragazzo, conosci la parola? Genocidio, l’assassinio di un popolo intero. Oh, è successo in precedenza, noi stessi l’abbiamo fatto agli indiani. Forse per questo è accaduto anche a noi. Continuo a trovare nuovi motivi, ma non sono mai sufficienti. Eppure sarebbe meglio credere che siamo stati uccisi dall’invidia rabbiosa degli altri paesi, non lo meritavamo, nessuna nazione meriterebbe una simile devastazione, sbagliavamo in mille modi e avevamo difetti grandi quanto la nostra forza, ma non lo meritavamo.»

«Calmati, Tom, per favore, calmati!»

«Ne pagheranno le conseguenze» mormorò. «Trombe d’aria, sì, e terremoti e alluvioni e siccità e incendi e omicidi senza motivo. Sono tornato a guardare. Dovevo guardare. E tutto fumava, tutto era raso al suolo. Casa. E solo a qualche isolato di distanza, era ancora in piedi, tutt’intorno era raso al suolo, ma era ancora in piedi, punto zero è quel punto immobile. Era davvero il regno magico di quando ero bambino.» Il suo mormorio divenne così rapido e disperato che riuscivo a stento a udirlo; e le sue parole non avevano senso. Gli tenevo fermo il braccio, mentre continuava: «Main Street era piena di rottami, cadaveri qua e là, rovine, il puzzo della morte. Dietro l’angolo dove arrivava sempre il piroscafo, una volta da piccolo i miei genitori mi ci portarono e mentre il piroscafo girava l’angolo sentivamo la sirena tagliare l’acqua come la tromba dell’arcangelo Gabriele e in un attimo tutta la folla sapeva che era lui, era Satchmo, Henry, Satchmo che suonava più forte della sirena del piroscafo, ma ora il lago era zeppo di cadaveri. Andai a parlare ad Abramo Lincoln, gli posai la testa in grembo, lo guardai negli occhi tristi, gli dissi che avevano ucciso il suo paese come avevano ucciso lui, ma lo sapeva già, e gli piansi sulla spalla. Attraversai il castello fino alle coppe da tè giganti, una grande donna scarmigliata e due uomini nel silenzio assoluto ridevano ubriachi e cercavano di far ruotare le tazze da tè, lei lasciò cadere una grossa bottiglia verde che si ruppe sul cemento e in quell’istante capii che era tutto vero, e l’uomo… l’uomo prese il coltello, oh… oh…»

«Ti prego, Tom!»

«Ma sopravvissi! Sopravvissi. Fuggii dal male non so dove né come, giunsi alla valle, te l’ho detto. Corsi per tutta la strada e imparai quel che occorreva per sopravvivere. Non avevo imparato un bel niente, nei vecchi tempi. Libri di scuola… spazzatura, nient’altro. America idiota. Roger è un modello di raziocinio, al confronto. Quasi morii, imparando quel che dovevo sapere, quasi morii venti volte e più, Cristo, fui fortunato a vivere, la fortuna ragazzo esiste e fa la differenza fra la vita e la morte un milione di volte in vita tua. Solo fortuna. Finché non vengono fuori assi di picche l’ho visto accadere ad amici proprio sotto i miei occhi e non potevo farci niente se non chiedermi perché mai non fosse uscito anche il mio asso, era dura. A volte me o loro, lui cadde nel torrente e forse avrei potuto… oppure quella volta che la presero, niente Troia per noi… duro, duro, duro. Giustizia della tigre, siamo greci ora, ragazzo, è duro per noi come lo fu per loro, e se possiamo trarne qualcosa di bello sarà come quel che loro han fatto, la delicata linea scolpita pura e semplice solo per descrivere com’è. E la delicata curva della Morte sempre lì seduta, teschio sotto la carne nel sole, nessuna meraviglia le tragedie, le asperità, strofe rituali il vaso, la linea curva, erano solo un modo per dire quel che era vero allora e adesso, vero come la fame, un modo per non trarre niente dal dolore, a volte non ne sopporto il pensiero. Fummo gli ultimi di quelle tragedie, grande orgoglio un grande difetto, entrambi identici e ci uccisero per questo, ci gettarono nella desolazione a lottare nella polvere per raspare trent’anni e morire come greci, oh, Henry, capisci perché l’ho fatto, perché ti ho mentito, era per fartelo sapere, per tenerti lontano dal nulla, per renderci spettri greci sulla terra e sfidare quel che ci è accaduto e renderlo puro e semplice in modo da dire che siamo ancora un popolo, Henry, Henry…»

«Sì, Tom. Tom! Calmati, ti supplico.» Ero in piedi, lo trattenevo per le spalle, mi chinavo su di lui, sconvolto dal suo delirio. Si dibatté per riprendere a parlare. Gli tappai la bocca. Lottò per respirare, tolsi via la mano. «Dici cose insensate» lo rimproverai. La lampada tremolò, la nostra ombra ondeggiò contro i cerchi neri delle pareti, il vento ululò oltre l’angolo. «Ti affatichi troppo a parlare a vanvera. Ascoltami, ora, mettiti disteso. Per favore. Doc s’arrabbierà, se ci scopre. Non hai la forza per continuare a questo modo.»

«Ma devo» bisbigliò.

«Buono, buono. Lascia sbollire i pensieri, calma, calma.»

Finalmente parve udire le mie parole. Si abbandonò all’indietro. Mi asciugai dalla fronte il sudore, tornai a sedermi. Mi sentivo come se avessi corso chilometri e chilometri. «Cristo, Tom.»

«Va bene» disse. «Mi calmo. Ma dovevi sapere.»

«So che sei sopravvissuto. Ora hai superato quel momento, non mi serve sapere altro. Non voglio sapere altro.» E l’intendevo sul serio.

Scosse la testa. «Devi saperlo.» Si rilassò contro il guanciale. Bong, bong, bong, bong, bong, bong.

«Smettila, Tom.»

Smise. Il vento riprese forza, riempì il silenzio. Whoooo, whoooooo, whooooooooooo.

«Sì, starò zitto» disse piano. La tensione era scomparsa dalla voce. «Non vorrei che Doc s’infuriasse con me.»

«No, infatti» dissi, serio. Ero ancora spaventato; il cuore mi batteva all’impazzata. «E poi, devi cercare di conservare le energie che ti restano.»

Scosse la testa. «Sono stanco.» Il vento ululava come se volesse sollevarci e sbatterci a terra. Il vecchio mi guardò. «Non andrai lassù, vero? L’hai promesso.»

«Ah, Tom» dissi. «Una volta o l’altra dovrò andarci, lo sai.»

Si accasciò sul guanciale, fissò il soffitto. Dopo un poco parlò in tono molto calmo. «Quando impari cose abbastanza importanti da avere voglia d’insegnarle, sembra sempre possibile. Ogni cosa è così chiara, dato quel che hai passato… le immagini sono lì, a volte perfino le parole adatte a esprimerle. Ma non funziona. Non puoi insegnare quel che le parole hanno insegnato a te. Tutti i trucchi della retorica, la forza della personalità, la falsa autorità dell’essere maestro, o la finzione d’essere enormemente vecchio… nessuna di queste cose basta a scavalcare l’abisso. E nient’altro basterebbe.»

“Così, ho fallito. Quel che ho finito per insegnarvi era senza dubbio l’opposto esatto dei miei scopi. Ma non c’è rimedio. Tentavo di fare l’impossibile e così mi sono… confuso.”

Scivolò sul cuscino, giacque disteso sulla schiena. Si coprì con il lenzuolo, tanto da dare l’impressione che si sarebbe addormentato da un momento all’altro, perché teneva gli occhi chiusi e respirava profondamente, come un uomo esausto. Ma allora un occhio castano si aprì e mi fissò, mi trafisse. «Riceverai l’insegnamento da qualcosa di forte come questo vento, ragazzo, che ti afferrerà e ti soffierà a mare.»

Загрузка...