«Non si tratta proprio di saccheggiare una tomba» spiegava Steve Nicolin. «Tiriamo fuori la bara e prendiamo l’argento. Non l’apriamo affatto. La rimettiamo nella fossa e sistemiamo tutto per bene. Cosa c’è di male? Tanto, sottoterra le maniglie d’argento si rovineranno comunque.»
Noi cinque riflettemmo sulla proposta. Al tramonto, le scogliere all’imbocco della valle risplendono del colore dell’ambra e nell’ampia spiaggia sottostante i grovigli di legna gettata a riva dal mare lanciano ombre fino ai macigni di arenaria alla base del dirupo. Ogni pezzo di legno consumato dalle onde poteva essere una lapide travolta dall’acqua e piegata sul fianco: immaginai di scavare alla ricerca di quel che vi giaceva sotto.
Gabby Mendez tirò un ciottolo a un gabbiano che planava sull’acqua. «In che senso, non vuol dire saccheggiarla?» domandò a Steve.
«Occorre profanare il cadavere, perché sia saccheggio di tombe.» Steve mi strizzò l’occhio. Ero il suo socio, in questo tipo d’imprese. «Lasceremo in pace il morto. Non gli porteremo via i gemelli, né la fibbia della cintura, anelli e protesi dentarie. Niente del genere!»
«Ugh!» disse Kristen Mariani.
Eravamo riuniti sulla sporgenza della scogliera sovrastante la foce del fiume: Steve Nicolin e Gabby, Kristen e Mando Costa, Del Simpson e io, tutti vecchi amici, cresciuti insieme; quello era il nostro solito posto di ritrovo al termine della giornata, per discutere e chiacchierare e fare piani folli… specialità di Steve e mia. Sotto di noi, alla prima curva del fiume, c’erano le barche da pesca, tirate a secco sul terreno livellato dalle maree. Mi piaceva stare seduto sulla sabbia tiepida nel vento fresco, insieme con i miei amici, sapendo che per quel giorno il lavoro era terminato, e guardare il sole che scivolava sulle creste spumeggianti delle onde. Mi sentivo un po’ assonnato. Gabby tirò un altro ciottolo ai gabbiani che, incuranti, si posarono in gruppo accanto alle barche e cominciarono a disputarsi le teste di pesce.
«Con tutto quell’argento, saremo i re del raduno» continuò Steve. «E le regine» aggiunse, rivolgendosi a Kristen, che annuì. «Potremo comprare ogni cosa due volte. O risalire la costa, se ce ne venisse voglia. O andare all’interno. Insomma, fare quel che ci va.»
E non quel che tuo padre ti dice di fare, pensai. Ma le parole di Steve mi attiravano, lo ammetto.
«Come fai a sapere che la bara che vuoi prenderti la briga di tirar fuori avrà le maniglie d’argento?» chiese Gab, dubbioso.
«Hai già sentito il vecchio parlare dei funerali nei vecchi tempi» replicò Steve. «Henry, diglielo anche tu.»
«A quei tempi avevano una paura irrazionale della morte» dissi, come se fossi un’autorità in materia. «Allora facevano cerimonie grandiose, per non pensare a quel che era accaduto realmente. Tom dice che un funerale costava fino a cinquemila dollari!»
Steve annuì, con aria d’approvazione. «Dice che ogni bara era ornata d’argento.»
«Dice anche che gli uomini hanno messo piede sulla luna» obiettò Gabby. «Questo non significa che andrò lassù a cercare orme.»
Ma l’avevo quasi convinto; sapeva che Tom Barnard, il vecchio che ci aveva insegnato a leggere e scrivere (almeno a Steve, a Mando e a me), poteva descrivere con la massima facilità e nei minimi particolari la ricchezza di un tempo.
«Allora, risaliamo l’autostrada fino alle rovine» continuò Steve. «Troviamo un cimitero e una lapide dall’aria costosa, e siamo a posto.»
«Una lapide con orecchini di brillanti, eh?» disse Gabby.
«Tom dice che non dobbiamo andare lassù» ci ricordò Kristen.
Steve gettò indietro la testa e rise. «Perché lui ha paura.» Tornò serio. «Ma è comprensibile, visto quel che ha passato. Lassù non c’è niente, tranne i frugamacerie; ma quelli di notte non vanno in giro.»
Non poteva esserne sicuro, perché non eravamo mai stati lassù, né di giorno né di notte; ma prima che Gabby glielo rinfacciasse, Mando squittì: «Di notte?»
«Certo!» esclamò Steve.
«Dicono che gli sciacalli ti mangiano, se ti prendono» disse Kristen.
«Perché, di giorno non ripari reti e non coltivi i campi? Oppure tuo padre ti permette di lasciare il lavoro?» replicò Steve a Mando. «Per tutti noi è lo stesso, e anche peggio. La nostra banda deve sbrigare i suoi affari di notte.» Abbassò la voce. «E poi, è il momento più indicato per depredare tombe in un cimitero.» Scoppiò a ridere, nel vedere la faccia di Mando.
«La spiaggia puoi saccheggiarla a qualsiasi ora del giorno» dissi, quasi fra me.
«I badili li procuro io» intervenne Del.
«E io porto una lanterna» disse in fretta Mando, per far vedere che non aveva paura. E d’un tratto eravamo lì a discutere un piano. Un po’ sorpreso, mi scossi dalla sonnolenza e divenni più attento. In precedenti occasioni, Steve e io avevamo illustrato un certo numero di progetti: andare all’interno a prendere in trappola una tigre, fondere vecchie rotaie ferroviarie per estrarre l’argento che contenevano. Quasi sempre, durante la discussione, le difficoltà pratiche finivano per saltar fuori e allora lasciavamo perdere. Erano solo chiacchiere. Ma il nostro ultimo piano era diverso: dovevamo solo andare di nascosto fra le rovine (avevamo sempre giurato di averne una voglia malta) e scavare. Così discutemmo i particolari: in quale notte era meno probabile che gli sciacalli fossero in giro (una notte di luna piena, quando compaiono i fantasmi: così garantì Steve a Mando), a chi chiedere di venire, come tagliare le maniglie d’argento in tondini commerciabili, e così via.
L’oceano lambiva l’orlo rosso del sole; la temperatura era scesa di parecchio. Gabby si alzò e si ripulì il fondo dei calzoni, parlando della cena a base di selvaggina che avrebbe mangiato quella sera. Ci alzammo tutti.
«Questa volta lo facciamo sul serio» disse Steve, con intenzione. «E perdio, non vedo l’ora.»
Nel risalire il promontorio, mi staccai dagli altri e seguii il bordo della scogliera. Sull’ampia spiaggia le pozze d’acqua lasciate dalla marea mandavano riflessi d’argento venato di rosso, modellini dello smisurato oceano che rifluiva più lontano. Dall’altra parte c’era la valle, la nostra valle, chiusa contro il mare dalle montagne. Gli alberi della foresta che copriva i monti scuotevano i rami nel vento di mare del tramonto; il sole sprofondava e conferiva al verde delle foglie di tarda primavera la sfumatura giallorosa del polline. Per chilometri, su e giù lungo la curva della costa, la foresta si agitava; abeti bianchi, pini, abeti rossi, sembravano la chioma di una creatura viva. E il vento agitava anche i miei capelli. Non si vedeva segno d’uomo, nei pendii intersecati di forre (anche se l’uomo c’era): solo alberi, alti e bassi, sequoie e pini di Torrey ed eucalipti, una cascata di montagne verde scuro nel mare; e mentre percorrevo l’orlo della scogliera color ambra, ero felice. Non avevo il minimo sospetto che, con i miei amici, avrei dato inizio a un’estate che ci avrebbe… cambiati. Mentre scrivo il resoconto di quei mesi, nel cuore dell’inverno più rigido che abbia mai visto, ho il vantaggio del senno di poi e capisco che la spedizione alla ricerca d’argento fu l’inizio di tutto… non tanto a causa di quel che accadde, sia chiaro, ma a causa di quel che non accadde; a causa dei modi in cui fummo ingannati. A causa di quel che risvegliò in noi il gusto dell’avventura. Avevo fame, capite: non solo di cibo (questa era una costante), ma di una vita che fosse qualcosa di più che pescare, strappare erbacce e controllare trappole. E Steve era anche più affamato di me.
Ma non voglio anticipare la storia. Mentre procedevo sul ripido confine di arenaria tra foresta e mare, non immaginavo minimamente quel che sarebbe accaduto e non badavo affatto agli avvertimenti del vecchio. Ero solo emozionato dall’idea di un’avventura. Quando imboccai il sentiero meridionale verso la piccola baracca che dividevo con mio padre, il profumo di resina e di salsedine mi entrò nelle narici e mi ubriacò di fame; tutto felice, immaginavo pezzetti d’argento grossi come una decina di monetine. Mi venne in mente che io e i miei amici, per la prima volta in vita nostra, avremmo davvero fatto quel che tanto spesso avevamo progettato fra mille vanterie… e a quel pensiero provai un eccitante brivido d’attesa, saltai di radice in radice sul sentiero: avremmo invaso il territorio degli sciacalli, ci saremmo avventurati a nord, nelle rovine dell’Orange County.
La notte scelta per la spedizione, chiazze bianche di nebbia si alzavano dall’oceano e giungevano a riva a folate, sotto un quarto di luna che conferiva loro una debole luminescenza. Aspettavo sulla soglia della baracca, senza fare caso al russare di Pa’. Un’ora prima gli avevo letto un libro per farlo addormentare, e lui giaceva pesantemente sul fianco, le dita callose contro la cicatrice sulla tempia. Pa’ è zoppo e debole di cervello per un incidente nel tentativo di catturare un cavallo quando ero piccolo. Mamma gli leggeva sempre qualcosa per farlo addormentare; alla sua morte, Pa’ mi aveva mandato da Tom a continuare la scuola, dicendo nel suo modo lento di parlare che sarebbe stato un bene per entrambi. Aveva ragione, credo.
Di tanto in tanto mi scaldavo le mani sulle braci grigie della stufa, perché tenevo socchiusa la porta della baracca e fuori faceva freddo. Il grande eucalipto in fondo al sentiero scompariva a tratti. Una volta mi parve di scorgere delle figure in piedi sotto l’albero; poi uno sbuffo umido di nebbia, puzzolente come la spianata alla foce del fiume, entrò in casa; quando svanì, sotto l’albero non c’era nessuno. Mi augurai che gli altri arrivassero. A parte il ronfare di Pa’, si udiva solo il fievole picchiettio delle goccioline di nebbia che dalle foglie scivolavano sul tetto.
U-uuu, u-uuu. Il richiamo di Steve mi svegliò di soprassalto: per un attimo mi ero assopito. Quel segnale era una buona imitazione del verso dei grossi gufi di canyon, anche se i gufi si udivano sì e no una volta all’anno e quindi, a mio parere, era sciocco usare proprio quel verso come segnale segreto. Comunque, era preferibile al colpo di tosse del leopardo, prima idea di Steve: almeno non rischiavamo che ci sparassero.
Scivolai fuori e mi affrettai a raggiungere l’eucalipto. Steve aveva in spalla i due badili di Del; quest’ultimo e Gabby erano fermi dietro di lui.
«Dobbiamo andare a prendere Mando» dichiarai.
Del e Gabby si scambiarono un’occhiata. «Mando Costa?» disse Steve.
Lo fissai. «Sarà lì ad aspettarci.» Mando e io eravamo più giovani degli altri, io di un anno, Mando di tre. Spesso mi sentivo obbligato a prenderne le difese.
«La casa di Mando è sulla strada, comunque» disse Steve agli altri. Seguimmo il sentiero del fiume fino al ponte, lo attraversammo e ci avviammo per il sentiero della montagna che portava dai Costa.
La bizzarra casa di Doc Costa, fatta con vecchi bidoni di petrolio, sembrava un piccolo castello nero uscito dalle pagine dei libri di Tom: tozza come un rospo e più scura, nella nebbia, di ogni altro oggetto naturale. Nicolin emise il verso; Mando uscì subito e si avvicinò in fretta.
«Sempre decisi a farlo stanotte?» chiese, con un’occhiata alla nebbia.
«Certo» risposi in fretta, prima che gli altri approfittassero della sua esitazione per lasciarlo a casa. «Hai la lanterna?»
«L’ho dimenticata.» Mando tornò in casa a prenderla. Tutti insieme scendemmo alla vecchia autostrada e la imboccammo, diretti a nord.
Procedevamo a passo svelto per scaldarci. Nella nebbia, l’autostrada era un duplice nastro livido, pieno di crepe in cui crescevano erbacce nerastre. Attraversammo in fretta il crinale che segnava l’estremità nord della nostra valle e, subito dopo, la stretta valle San Mateo. Continuammo su e giù per le ripide alture di San Clemente. Ci tenevamo vicini e non parlavamo molto. Tutt’intorno, la foresta era ingombra di rovine: pareti in prefabbricati di cemento, tetti sostenuti da intelaiature scheletriche, intrichi di cavi metallici fra un albero e l’altro… tutte cose scure e immobili. Ma sapevamo che gli sciacalli vivevano lì da qualche parte e camminavamo in fretta, silenziosi come i fantasmi sui quali Del e Gabby avevano scherzato due chilometri prima, quando si sentivano meno a disagio. Un’umida lingua di nebbia si protese sopra di noi, mentre la strada scendeva bruscamente in un largo canyon; non riuscimmo più a vedere altro che l’asfalto accidentato. Dalle tenebre silenziose e umide provenivano scricchiolii e a volte uno sgocciolio passeggero, come se qualcosa avesse sfiorato le foglie bagnate: qualcosa che seguisse noi, appunto.
Steve si fermò a esaminare una rampa d’uscita che curvava scendendo sulla destra. «Ci siamo» sibilò. «Il cimitero si trova in cima a questa altura.»
«Come lo sai?» chiese Gab, a voce normale, che risuonò terribilmente forte.
«Sono già venuto qui e l’ho visto» rispose Steve. «Come credevi che lo sapessi?»
Lasciammo l’autostrada seguendo Steve, assai impressionati perché era venuto lì da solo. Neppure io ne ero al corrente. Giù nella foresta c’erano quasi più edifici che alberi, ed erano edifici grossi, in rovina: porte e finestre strappate come denti, con cespugli e felci che crescevano in ogni apertura; pareti crollate; tetti ammonticchiati per terra. La nebbia ci seguì per questa via, provocando fruscii che sembravano lo scalpiccio di mille zampette. C’erano cavi metallici tesi su pali a volte inclinati fino a toccare la strada; fu necessario scavalcare i pali e nessuno di noi toccò i fili.
Il latrato di un coyote squarciò il silenzio. Ci fermammo di colpo. Era un coyote vero o uno sciacallo? Ma non ci furono altri rumori. Riprendemmo il cammino, più nervosi che mai. La strada faceva goffi tornanti all’estremità della valle; superati questi, ci ritrovammo sul pianoro tagliato dal canyon, un tempo la parte alta di San Clemente. Lassù c’erano delle case, di quelle grandi, disposte in fila lungo la via come pesci a seccare: si sarebbe detto che una volta la gente fosse tanto numerosa da non consentire a ogni famiglia un orto decente. Le case erano per la maggior parte sventrate e invase dalle erbacce; alcune, crollate del tutto, erano semplici pavimenti da cui sporgevano tubature, come braccia da una fossa. In quella zona erano vissuti gli sciacalli, e avevano consumato una casa dopo l’altra per ricavarne legna da ardere, passando a quella successiva quando il loro covo era esaurito: una pratica di cui avevo sentito parlare, ma di cui non avevo mai visto di persona i risultati, la distruzione e lo spreco.
Steve si fermò a un incrocio trasformato in fossa per i falò.
«Certo che le strade le progettavano bene» osservò Del.
«Da questa parte» disse Steve.
Lo seguimmo verso nord, lungo una via parallela all’oceano e al bordo del pianoro. Sotto di noi, la nebbia era simile a un secondo oceano che ci ricacciava sulla spiaggia, per così dire, e di tanto in tanto ci lambiva con le sue onde. La fila di case terminò e iniziò una staccionata, con ringhiere di ferro che collegavano pilastri di pietra. Al di là, il pianoro ondulato era cosparso di pietre squadrate sporgenti dall’erba: il cimitero. Ci fermammo a guardare. Nella nebbia era impossibile scorgere dove terminasse; sembrava un cimitero grandissimo. Finalmente scavalcammo una breccia nella staccionata e avanzammo nell’erba folta, fra cespugli e lapidi.
Le tombe erano disposte con la stessa simmetria delle case. All’improvviso Steve alzò il viso al cielo e lanciò l’ululato del coyote, yip yip yoo-ee-oo-ee-oo-eee, con vocalizzi in falsetto degni di un cane selvatico.
«Piantala» disse Gabby, disgustato. «Ci manca solo che i cani ci ululino dietro.»
«O gli sciacalli» aggiunse Mando, impaurito.
Steve si mise a ridere. «Ragazzi, siamo sopra una miniera d’argento, tutto qua.» Si piegò sui talloni per leggere una lapide. Troppo buio: saltellò a quella vicina. «Guardate questa quant’è grande» disse. Vi si accostò e con l’aiuto delle dita lesse l’iscrizione. «Abbiamo qui un certo signor John Appleby. 1904-1984. Proprio una gran bella lapide, sarà morto al momento giusto… forse abitava in una delle grandi case lungo la strada… ricco di sicuro, giusto?»
«Dovrebbe esserci un’iscrizione molto lunga, sulla pietra» dissi. «La prova che era ricco.»
«C’è, infatti. Padre amato, mi sembra, e altra robaccia. Proviamo lui?»
Per un po’ nessuno rispose. Poi Gab disse: «Lui vale un altro.»
«Di più» replicò Steve. Lasciò cadere a terra un badile e sollevò l’altro. «Togliamo di mezzo l’erba.» Conficcando il badile nel terreno, tracciò una linea. Gabby, Del, Mando e io restammo a guardarlo. Lui alzò gli occhi. «E allora? Volete o no un po’ d’argento?»
Cominciai a togliere l’erba; volevo farlo prima, ma mi rendeva nervoso. Messo a nudo il terriccio, iniziammo a scavare sul serio. Quando fummo nella buca fino alle ginocchia, passammo i badili a Gabby e a Del, ansimando un poco. Sudavo a profusione nella nebbia e mi raffreddavo in fretta. Zolle d’argilla bagnata mi si spiaccicavano sotto i piedi. Quasi subito Gabby disse: «Non si vede niente qua sotto. Meglio accendere la lanterna.» Mando tirò fuori il battifuoco e si dedicò allo stoppino.
La lanterna emise una luce giallastra, spettrale, che mi abbagliò e praticamente servì solo ad aumentare le ombre. Mi allontanai di qualche passo, per non disabituare gli occhi all’oscurità e intanto sgranchirmi. Avevo le braccia sporche di terriccio, mi sentivo più nervoso che mai. Da quella distanza, la fiamma della lanterna era più grossa e debole. I miei compagni erano sagome nere; i due con il badile erano sotto fino alla cintola. Mi trovai davanti alla fossa di una tomba lasciata aperta; sobbalzai e tornai in fretta nel cerchio di luce della lanterna, con il fiato grosso.
Gabby, che superava appena con la testa il mucchio di terriccio già estratto, mi guardò. «Li seppellivano in profondità» disse, con voce bizzarra. Lanciò fuori un’altra palata di terra.
«Forse questo qui è già stato dissepolto» suggerì Del, guardando giù nel buco, dal quale Mando gettava fuori una manciata di terriccio a ogni colpo di badile.
«Certo» lo prese in giro Steve. «O forse l’hanno sepolto vivo ed è strisciato fuori da solo.»
«Mi fanno male le mani» disse Mando. Il manico del badile era un ramo e le sue mani non erano molto robuste.
«“Mi fanno male le mani”» piagnucolò Steve, facendogli il verso. «Allora vieni fuori di lì.»
Mando si arrampicò fuori. Steve prese il suo posto e si mise a scavare con forza; il terriccio volava nella nebbia.
Le stelle non erano ancora spuntate. Sembrava tardi, avevo freddo e una fame da lupi. La nebbia s’infittiva; la zona intorno a noi sembrava chiara, ma presto la nebbia scese anche lì, finché non fu l’unica cosa visibile per metri di distanza: una muraglia bianca. Eravamo dentro una bolla di bianco; al limitare della bolla c’erano delle sagome: lunghe braccia, teste dagli occhi ammiccanti, paia di zampe veloci…
Tum. Il badile aveva urtato qualcosa. Steve raddrizzò la schiena, appoggiato al manico, guardò in basso. Provò a dare qualche colpo, tum tum tum. «Ci siamo» dichiarò a voce alta. Riprese a spalare terriccio. Dopo un poco, disse: «Spostate la lanterna da questa parte.» Mando la tenne sospesa sopra la fossa. La luce mi mostrò il viso dei miei compagni, sudato, striato di sporco, nel quale risaltava il bianco degli occhi. Anch’io avevo le braccia sporche di terra fino al gomito.
Ma fu solo l’inizio. Steve prese a imprecare. Scoprimmo che la fossa appena scavata, un buon metro e mezzo per novanta, aveva messo in luce solo un’estremità della bara. «Quei maledetti l’hanno sistemata proprio sotto la lapide!» Era ancora solidamente imprigionata nell’argilla.
Seguì una discussione. Il piano finale, di Steve, fu di grattare via il terriccio dal coperchio e dai fianchi della bara, in modo da tirarla nella fossa già scavata. Grattammo la terra fin dove arrivavano le braccia.
«Henry» disse Steve «finora sei quello che ha scavato meno di tutti. Sei alto e magro, per cui cerca d’infilarti qui dentro e spingere il terriccio verso di noi.»
Protestai. Ma gli altri convennero che ero proprio adatto alla bisogna e presto mi trovai bocconi sul coperchio della bara, con l’argilla sgocciolante a qualche centimetro dalla schiena e dal sedere, a scavare con le dita e a spingere il terriccio dietro di me. Solo una serie continua d’imprecazioni riusciva a non farmi pensare a quel che giaceva sotto il legno su cui ero disteso, esattamente parallelo a me. Gli altri mi gridavano incoraggiamenti, come: «Guarda che noi adesso ce ne torniamo a casa», oppure: «Oh, cos’è che s’avvicina?», o anche: «Non hai sentito vibrare la bara, un attimo fa?» Ma io non ci trovavo niente da ridere. Finalmente arrivai con le dita al bordo estremo della bara; strisciai fuori, mi grattai di dosso il fango, brontolai di disgusto e paura.
«Henry, sapevo di poter contare sempre su di te» disse Steve saltando nella fossa. Allora toccò a lui e a Del dare strattoni alla bara e brontolare; dopo un ultimo sforzo, la bara scivolò nella fossa, mentre Steve e Del vi si lasciavano cadere a lato.
La bara era di legno nero, con un velo verdastro che brillava come una coda di pavone alla luce della lanterna. Gabby tolse il terriccio dalle maniglie e la sporcizia appiccicosa dai listelli di rinforzo intorno al coperchio: tutto argento.
«Guardate che maniglie» disse Del, in tono reverenziale. Ce n’erano sei, tre per lato, lucide e brillanti come se fossero state seppellite il giorno prima e non sessant’anni fa. Notai nel legno lo sfregio lasciato dal colpo di badile di Steve.
«Ragazzi» disse Mando «guardate quanto argento!»
Guardammo. Immaginai tutti noi, al primo raduno di scambio, addobbati come sciacalli in giacca di pelliccia e stivali e cappello piumato, che andavamo in giro rischiando di perdere i calzoni per il peso di quei pezzi d’argento. Fra grida di gioia, ci scambiammo manate sulle spalle. Poi ci fermammo a guardare ancora, esultammo di nuovo. Gabby strofinò con il pollice una maniglia; arricciò il naso.
«Ehi» disse. «Uh…» Afferrò il badile appoggiato contro il fianco della bara e diede un colpetto alla maniglia. Thud. Un suono sordo, non di metallo contro metallo. E il colpo lasciò il segno. Gabby diede un’occhiata a Del e a Steve, si piegò sui talloni a guardare più da vicino. Colpì di nuovo la maniglia. Thud thud thud. Vi passò sopra la mano.
«Non è argento» disse. «Si è staccata. È una specie… una specie di plastica, credo.»
«Porca puttana» imprecò Steve. Saltò nella fossa e afferrò il badile; colpì i listelli del coperchio, li tagliò in due.
Be’, noi fissammo di nuovo la cassa, ma stavolta nessuno gridò di gioia.
«Quel maledetto bugiardo di un vecchio» disse Steve. Buttò via il badile. «Ha detto che ogni funerale costava una fortuna. Ha detto…» S’interruppe; lo sapevamo tutti. «Ha detto che c’era argento.»
Lui, Gabby e Del erano in piedi nella fossa. Mando posò la lanterna sulla pietra tombale. «Forse anche la lapide è di plastica» disse, cercando di alleggerire un poco il malumore generale.
Steve si accigliò. «Gli prendiamo l’anello?»
«No!» esclamò subito Mando. Ridemmo tutti.
«Prendiamo l’anello e la fibbia e le otturazioni d’oro?» ripeté Steve, con voce roca, lanciando a Mando un’occhiata di sbieco. Mando scosse con furia la testa; sembrava sul punto di piangere. Del e io ci mettemmo a ridere; Gabby uscì dallo scavo, con aria disgustata. Steve piegò la testa e rise, una risata breve e rauca. Risalì anche lui. «Prima seppelliamo questo poveraccio, poi andiamo a seppellire il vecchio.»
Buttammo dentro il terriccio con le pale. Le prime zolle colpirono la bara e ne trassero un suono cavo, bonk bonk bonk. Non ci volle molto a riempire la fossa. Mando e io aggiustammo alla meglio le zolle d’erba. A lavoro ultimato, lo spettacolo era orribile.
«Sembra che si sia messo a tirare calci, no?» disse Gabby.
Spegnemmo la lanterna e ce ne andammo. La nebbia fluiva nelle vie deserte come l’acqua nel letto di un fiume; e noi eravamo sotto la superficie, fra rovine sommerse e alghe nerastre. Sull’autostrada ci si sentiva meno sommersi, ma la nebbia spazzava la carreggiata e il freddo era più intenso. Puntammo a sud, all’andatura più veloce possibile, senza dire una parola. Quando ci fummo riscaldati, rallentammo un poco e Steve cominciò a parlare.
«Be’, dal momento che hanno colorato d’argento la plastica, significa che in periodi precedenti le bare avevano davvero maniglie d’argento… le bare della gente più ricca, o di quella sotterrata prima del 1984, o che so io.»
Capimmo tutti che si trattava di un modo indiretto per proporre un altro scavo, per cui nessuno gli diede ragione, anche se l’ipotesi pareva sensata. Steve si offese per il nostro silenzio; guadagnò terreno rispetto a noi, fino a diventare un puntolino nella nebbia. Eravamo quasi fuori San Clemente.
«Una specie di maledetta plastica» diceva Gabby a Del. Cominciò a ridere, sempre più forte, fino a posargli il gomito sulla spalla.
«Ah ah ah… abbiamo passato la notte a scavare fuori due chili di plastica. Plastica!»
D’un tratto un rumore improvviso forò l’aria: un ululato, uno stridio sonoro che iniziò su toni bassi e crebbe sempre più alto e rumoroso. Non era attribuibile a nessuna creatura vivente, era diverso da qualsiasi suono avessi mai udito. Raggiunse l’apice della sonorità, ondeggiò fra due toni, salendo e scendendo, oooooo-eeeeee-oooooo-eeeeee-oooooo, e continuò in questo modo, simile al grido dei fantasmi di tutti i morti sotterrati nell’Orange County, o alle grida finali di tutte le vittime delle bombe.
Ci mettemmo a correre. Il rumore continuò, parve seguirci.
«Che cos’è?» gridò Mando.
«Sciacalli!» sibilò Steve. Il suono salì e scese, più vicino. «Più veloci!» gridò Steve, superandolo. Gli squarci della carreggiata non ci preoccupavano, li superavamo con un balzo. Delle pietre cominciarono a colpire il cemento alle nostre spalle e il terrapieno sul quale correva l’autostrada. «Non perdete i badili» gridò Del. Raccolsi da terra un sasso di buone dimensioni, in un certo modo sollevato dal sapere che eravamo inseguiti da semplici sciacalli. Alle mie spalle c’era solo nebbia, nebbia e ululati, ma i sassi sbucavano dal nulla con buona frequenza. Tirai il sasso contro una sagoma scura e corsi dietro gli altri, inseguito da ululati che erano come minimo animaleschi e potevano essere anche umani. Ma sopra ogni rumore si alzava il suono ondeggiante. «Henry!» gridò Steve. Gli altri erano scesi con lui dal terrapieno. Saltai giù e li seguii fra le erbacce. «Prendete dei sassi!» ordinò Steve. Ubbidimmo e li scagliammo subito sull’autostrada alle nostre spalle. Ci furono grida di risposta. «Ne abbiamo colpito uno!» disse Steve. Ma era impossibile esserne sicuri. Risalimmo sulla carreggiata e continuammo a correre. Lo stridio si allontanò dietro di noi. A un certo punto sbucammo nella valle San Mateo e sulla cresta Basilone, proprio sopra la nostra stessa valle. Dietro di noi il rumore continuò, attutito dalla distanza e dalla nebbia.
«Doveva essere una sirena» disse Steve. «Quella che chiamano sirena. Una macchina per produrre rumore. Chiederemo a Rafael.» Tirammo più o meno in direzione della sirena i sassi rimasti e superammo di buon passo la cresta entrando in Onofre.
«Sciacalli puzzolenti!» disse Steve, mentre, ormai sul sentiero del fiume, riprendevamo fiato. «Vorrei sapere come hanno fatto a scoprirci.»
«Forse erano in giro da quelle parti e ci hanno trovati per caso» suggerii.
«Poco probabile.»
«Già.» Ma non riuscivo a immaginare spiegazioni più attendibili, né d’altra parte Steve ne offrì. Comunque, era attendibile quanto l’esistenza di quel rumore assurdo.
«Vado a casa» disse Mando, con una traccia di sollievo nella voce. Non sembrava lui, forse era spaventato. Un brivido mi corse lungo la schiena.
«Sì, vai pure. Per questa volta i frugamacerie la fanno franca.»
Cinque minuti dopo avevamo raggiunto il ponte. Lo attraversammo; Gabby e Del si diressero a monte del fiume. Steve e io ci fermammo alla biforcazione del sentiero. Lui cominciò a discutere della nottata, imprecando con uguale intensità contro gli sciacalli, il vecchio e il defunto John Appleby; era chiaramente su di giri, pronto a continuare fino all’alba. Ma io ero stanco: non avevo la sua resistenza ed ero ancora sottosopra per l’ululato. Sirena o non sirena, era un suono terribilmente inumano. Perciò augurai a Steve la buona notte ed entrai di soppiatto nella baracca. Il russare di Pa’ perse un colpo, riprese con regolarità. Tagliai un pezzo della pagnotta del giorno dopo e lo mandai giù in fretta; sapeva di terriccio. Tuffai le mani nel secchio dell’acqua e le lavai, ma continuarono a sembrarmi sudice e puzzavano di tomba. Lasciai perdere. Mi distesi sul letto, sentendomi sporco di terra. Mi addormentai ancora prima d’essermi scaldato.
Sognavo il momento in cui avevamo iniziato a riempire la fossa. Grumi di terriccio colpivano la bara cavandone quel rumore orribile, bonk bonk bonk; ma nel sogno era un bussare dall’interno, sempre più forte e più disperato, a mano a mano che la fossa si riempiva.
Pa’ mi svegliò nel mezzo dell’incubo. «Stamattina sulla spiaggia hanno trovato un cadavere gettato a riva» disse.
«Eh?» risposi. Saltai dal letto, confuso. Pa’ si scostò, sorpreso. Mi chinai sulla bacinella e mi lavai il viso. «Cos’hai detto?»
«Hanno trovato uno di quei cinesi. Sei tutto sporco di terra. Cosa t’è successo? Sei stato fuori, ieri notte?»
«Sì. Costruiamo un nascondiglio.»
Pa’ scosse la testa, perplesso, con aria di disapprovazione.
«Muoio di fame» aggiunsi, allungando la mano verso la pagnotta. Dallo scaffale presi una tazza e la tuffai nel secchio dell’acqua da bere.
«C’è rimasto solo pane.»
«Lo so.» Staccai un pezzo di pagnotta. Il pane di Kathryn era buono anche vecchio di qualche giorno. Andai ad aprire la porta: un cuneo di luce attenuata tagliò la penombra della baracca priva di finestre. Sporsi la testa: sole smorto. Lungo il fiume, alberi inzuppati d’acqua. Nella baracca la luce cadde sul tavolo da cucito di Pa’, con la vecchia macchina tutta lustra per gli anni d’uso. Accanto al tavolo c’era la stufa; sopra di essa, vicino al tubo che forava il soffitto, lo scaffale per gli utensili. Tutto questo, più la tavola, le sedie, l’armadio e i due letti, completavano i nostri averi: i semplici averi di un sempliciotto con un mestiere semplice. In realtà la gente non aveva alcun bisogno che Pa’ cucisse i vestiti…
«Farai bene a scendere alle barche» disse Pa’, severo. «È tardi, avranno già cominciato a metterle in acqua.»
«Umf.» Pa’ aveva ragione, era tardi. Continuando a masticare bocconi di pane, m’infilai scarpe e camicia. «Buona fortuna!» mi gridò dietro Pa’, mentre correvo via.
Nell’attraversare l’autostrada fui bloccato da Mando, che veniva dall’altra direzione. «Hai saputo del cinese gettato a riva?» chiese.
«Già. L’hai visto?»
«Sì. Papà è sceso a dare un’occhiata e l’ho seguito.»
«Gli hanno sparato?»
«Quattro fori di proiettile, in pieno petto.»
«Caspita.» Il mare gettava a riva parecchi cadaveri come quello. «Mi piacerebbe sapere per cosa combattono con tanto accanimento, là fuori.»
Mando si strinse nelle spalle. Nel campo di patate al di là della strada, Rebel Simpson, rossa in viso, dava la caccia a un cane con una zappetta in bocca e gli inveiva contro.
«Papà dice che al largo c’è una guardia costiera apposta per tenere lontano la gente» riprese Mando.
«Lo so. Ma mi chiedo se non siano proprio loro.»
Grosse navi comparivano come fantasmi lungo la costa, di solito all’orizzonte, qualche volta più vicino; e di tanto in tanto il mare gettava a riva cadaveri crivellati di proiettili. Ma, a parer mio, questo era il massimo che si potesse dire con certezza del mondo esterno. Quando ci pensavo, a volte diventavo così curioso da rasentare la rabbia. Mando, invece, era sicuro che suo padre (il quale si limitava a ripetere le parole del vecchio) avesse sempre la risposta giusta. Mi accompagnò fino alla scogliera. Al largo c’era una nube bianca all’orizzonte: il banco di nebbia, che più tardi sarebbe tornato a riva, spinto dal vento. In basso, sulla spianata lungo il fiume, caricavano le reti.
«Devo salire a bordo» dissi a Mando. «Ci vediamo dopo.»
Prima che terminassi di scendere la scogliera, già mettevano in acqua le barche. Raggiunsi Steve, fermo accanto alla barca più piccola, ancora sulla sabbia. John Nicolin, il padre di Steve, si avvicinò e mi guardò storto.
«Oggi voi due prendete le canne» disse. «Non sareste buoni per nient’altro.»
Lo guardai senza battere ciglio. Lui si allontanò a brontolare un ordine alla barca che scivolava in acqua.
«Sa che siamo stati fuori?»
«Già.» Steve arricciò le labbra. «Ho inciampato in una rastrelliera di pesce secco, mentre rientravo di nascosto.»
«Ha fatto storie?»
Lui girò la testa per mostrarmi un livido accanto all’orecchio. «Tu che dici?» Non era dell’umore adatto a fare conversazione. Andai ad aiutare gli uomini che trascinavano sulla spianata la barca seguente. L’acqua fredda mi lambì i piedi e mi risvegliò del tutto. In mare, il sommesso crrr, crrrrr dei frangenti indicava un leggero moto ondoso. Venne il turno della barca più piccola; Steve e io balzammo a bordo mentre la spingevano nel canale. Remammo senza molto impegno, affidandoci alla corrente; oltrepassammo con facilità i frangenti alla foce del fiume.
Quando tutte le barche furono intorno al gavitello che segna il principale banco di scogli a fior d’acqua, si trattò del lavoro di tutti i giorni. Le tre barche più grosse iniziarono la manovra circolare, calando le reti a sacco. Steve e io remammo verso sud, mentre altre barche per la pesca a canna si dirigevano a nord. All’estremità meridionale della valle c’è una piccola insenatura, quasi ostruita da blocchi di calcestruzzo a pelo d’acqua: la chiamiamo Concrete Bay. Fra gli scogli di cemento e quelli naturali più al largo c’è un canale, usato dai pesci più svelti per sfuggire alle reti; di solito, mentre le reti sono all’opera, la pesca con la canna dà buoni risultati. Steve e io gettammo l’ancora sopra il banco di scogli principale e lasciammo che il moto ondoso ci spingesse nel canale, fin quasi ai segmenti curvi degli scogli di cemento. Poi tirammo fuori le canne. Annodai alla lenza la scintillante barretta metallica che avrebbe fatto da esca. «Maniglia di bara» dissi a Steve, tenendola sollevata prima di lanciarla fuori bordo. Lui non rise. Lasciai che l’esca andasse a fondo e cominciai a recuperare piano piano la lenza.
Pescammo: lanciavamo l’esca sul fondale, riavvolgevamo la lenza a poco a poco, lanciavamo di nuovo l’esca. Di tanto in tanto le canne si curvavano e qualche minuto di lotta terminava con un colpo di raffio. Poi si ricominciava. A nord i pescatori tiravano a bordo reti argentee di pesce che si dibatteva per cercare la libertà perduta; le barche s’inclinavano sotto il peso, a volte sembrava che dovessero mostrare la chiglia e capovolgersi. Verso terra, pareva che le montagne salissero e scendessero, salissero e scendessero. Sotto il sole velato di nuvole, la foresta era di un bel verde vivo, in contrasto con il grigio smorto della scogliera e delle cime brulle.
Cinque anni prima, quando ne avevo dodici e Pa’ mi aveva mandato a lavorare da John Nicolin, la pesca mi pareva un’avventura. Ero entusiasta di tutto: la pesca in sé, gli umori dell’oceano, il lavoro di squadra degli uomini, il fascino della terra vista dal mare. Ma da allora era passato un mucchio di giorni sull’acqua, e un mucchio di pesce era stato tirato a bordo: pesci piccoli e grossi, niente pesci oppure tanto di quel pesce da esaurire la forza delle braccia e da far venire le vesciche alle mani; sopra marosi alti e lenti, o maretta spinta dal vento, o acqua piatta come specchio; e sotto cieli caldi e sereni, o nella pioggia che rendeva le montagne un miraggio grigio, oppure, in caso di tempesta, sotto nuvole che correvano in alto come cavalli… ma per lo più erano giornate come quella: mare abbastanza calmo, sole in lite con nubi alte, bottino discreto. E l’entusiasmo era scomparso da un pezzo. Ormai per me era solo lavoro.
Fra un pesce e l’altro sonnecchiai, cullato dal moto ondoso. Stare disteso con la testa appoggiata alla falchetta per un poco andò benissimo, e anche stare rannicchiato sul banco, pur con il rischio di farmi schiaffeggiare dalla coda di un pesce. Il resto del tempo lo passavo curvo sulla canna e mi svegliavo quando mi sbatteva contro la pancia. Allora riavvolgevo la lenza, tiravo il pesce, lo arpionavo, lo issavo a bordo, gli davo un colpo di mazzuolo in testa, staccavo l’esca, la gettavo di nuovo in mare e riprendevo a dormire. Provai a stendermi di schiena sul banco (per tutti i suoi novanta centimetri), a gambe incrociate, piedi in equilibrio precario contro la falchetta, per dormire dieci minuti di più.
«Henry!»
«Sì!» risposi, mettendomi a sedere e controllando la canna per forza d’abitudine.
«Abbiamo già un po’ di pesce.»
Lanciai un’occhiata ai tonni striati e ai persici. «Una decina.»
«Buona pesca. Forse nel pomeriggio riuscirò ad allontanarmi.» Steve era pensieroso.
Dubitavo che ci riuscisse, ma non dissi niente. Il sole era velato, l’acqua grigia. Cominciava a fare freddo. Il banco di nebbia iniziava l’avanzata. «Mi sa che il pomeriggio lo passeremo a riva» dissi.
«Già. Dobbiamo andare su da Barnard. Gli voglio far prendere uno spaghetto, a quel vecchio bugiardo.»
«Certo.»
In quel momento ne abboccarono due grossi e ci toccò darci da fare per non aggrovigliare le lenze. Eravamo ancora impegnati a tirarli a bordo, quando giunse il segnale di tromba di Rafael. I pescatori avevano ritirato le reti, la nebbia avanzava rapidamente. Per quel giorno la pesca era finita. Con un grido di gioia tirammo i pesci a bordo senza perdere tempo, agganciammo i remi agli scalmi e ci accostammo alla barca di Rafael. Ci rifilarono un po’ di pesce, perché alcune barche rischiavano di affondare, tanto erano piene. E remammo nella foce del fiume.
Con l’aiuto della famiglia di Nicolin e degli altri sulla riva, tirammo la barca a secco e portammo il pesce ai banchi di pulitura. I gabbiani si tuffarono più volte contro di noi, con strida acute e un frullare d’ali. Quando la barca fu vuota e tirata alla base della scogliera, Steve si avvicinò a suo padre, che controllava le reti e scuoteva il dito contro Rafael rimproverandolo per qualche fune attorcigliata.
«Posso andare adesso, Pa’?» chiese Steve. «Hanker e io dobbiamo prendere lezioni da Tom.» Ed era vero.
«No» rispose il vecchio Nicolin, ancora chino a ispezionare la rete. «Ci aiuterai a sistemare questa rete. E poi andrai a dare una mano a tua madre e alle tue sorelle per pulire il pesce.»
All’inizio John aveva mandato Steve a imparare a leggere dal vecchio, perché riteneva che per la famiglia fosse un segno di prosperità e distinzione. Poi, quando Steve ci aveva preso gusto (ma ce n’era voluto!), John aveva iniziato a tenerlo lontano dall’istruzione: un’altra arma nella battaglia sempre in corso fra loro due. John si raddrizzò, fissò Steve; era poco più basso del figlio, ma molto più robusto. Tutt’e due avevano la stessa mascella volitiva, lo stesso ciuffo di capelli castani, occhi celesti, naso dritto e marcato… Si scambiarono un’occhiata astiosa: John sfidava Steve a rimbeccarlo davanti a tutti gli uomini affaccendati lì attorno. Per un istante pensai che sarebbe successo, che Steve l’avrebbe sfidato, iniziando così chissà quale sanguinoso litigio. Ma Steve gli girò le spalle e a passo deciso si diresse ai banchi di pulitura. Aspettai un attimo che si calmasse un poco, poi gli andai dietro.
«Vado su io e dico al vecchio che verrai più tardi.»
«D’accordo» rispose Steve, senza guardarmi. «Vengo appena posso.»
Il vecchio Nicolin mi diede tre persici; li portai su per la scogliera in una sacca di rete che avrei dovuto restituire. Nel gruppo di case alla seconda curva del fiume non c’era quasi nessuno. Una squadra di ragazze lavava i panni nell’acqua e, più a monte, alcune donne erano ferme intorno al forno dei Mariani. Lassù, lontano dal mare, tutto sembrava più tranquillo; il latrato di un cane risuonò chiaramente dall’altra parte del placido corso d’acqua.
Portai i pesci a Pa’, che subito si alzò con aria famelica dalla macchina per cucire. «Oh, bene, bene. Ci penso io: uno per stasera, gli altri a seccare.» Gli dissi che andavo dal vecchio e lui annuì. Si diede una rapida tirata ai baffi. «Lo mangiamo subito dopo il tramonto, va bene?»
«Benissimo» risposi, uscendo.
La casa del vecchio si trova sulla ripida cresta che segna l’estremità meridionale della nostra valle, in uno spiazzo appena più grande della casa stessa, a circa metà strada dalla cima della montagna più alta. Da nessun’altra casa di Onofre si ha vista migliore. Quando arrivai alla casa, una costruzione quadrata di legno, con quattro stanze e un’ampia finestra sul davanti, non trovai nessuno. Attraversai con prudenza il cortile pieno di cianfrusaglie. Fra le arnie, le pinze tagliafili telefonici, le meridiane, gli pneumatici, i barili con l’imbuto di tela per raccogliere l’acqua piovana, le parti di generatore, i motori rotti, le pendole, i fornelli a gas, le casse piene di chissà cosa, c’erano grossi cocci di vetro e diverse trappole per furfanti che il vecchio spostava di continuo, per cui era saggio fare attenzione. A casa di Rafael, macchine come quelle gettate alla rinfusa nella piccola aia di Tom sarebbero state riparate e rimesse in funzione, oppure utilizzate come parti di ricambio, ma lì erano solo argomenti di conversazione. A cosa serviva un motore d’auto su cavalletti? E come l’aveva portato fin sulla cresta? Tom voleva che ci ponessimo proprio domande del genere.
Continuai a risalire il sentiero eroso che seguiva il crinale. A sud, una serie di costoni coperti di foreste si alzava a partire dalla scogliera sulla spiaggia e arrivava giù fino ai monti Pendleton. In prossimità della cima del costone che risalivo, il sentiero svoltava e scendeva ripidamente nella spaccatura a sud, uno stretto canyon troppo piccolo per contenere tutto l’anno un corso d’acqua, ma nel quale c’era una sorgente. Gli alberi di eucalipto non permettevano la crescita del sottobosco; lì, in un lieve pendio della piega di terra, il vecchio teneva gli alveari, una ventina di piccole cupole bianche in legno. Lo trovai fra le arnie; con la tuta da apicoltore e il cappello, sembrava un bambino negli abiti di un adulto. Ma si muoveva con vivacità… per uno che abbia superato i cent’anni, voglio dire. Passava da un’arnia all’altra, tirava fuori i vassoi e li tastava con la mano guantata, dava un calcio a un alveare, agitava il dito contro un altro, e capivo che non smetteva un attimo di parlare, anche se il berretto gli nascondeva quasi tutto il viso. Tom parlava a tutto e tutti: alla gente, a se stesso, ai cani, agli alberi, al cielo, al pesce nel piatto, alle pietre in cui inciampava… e naturalmente alle sue api. Infilò sotto un alveare un vassoio e si guardò intorno, improvvisamente cauto; mi scorse, agitò la mano in segno di saluto. Mentre mi avvicinavo, tornò a controllare le arnie. Camminava buttando le ginocchia in fuori, come se avesse le rotule all’esterno; e con gesti rigidi e agitati spostava in tutte le direzioni le braccia nascoste dalle lunghe maniche… per tenersi in equilibrio, immagino.
«Fila via dalle arnie, ragazzo. Le api ti pungeranno.»
«Te, non ti pungono.»
Tom agitò il cappello per ricacciare un’ape nell’arnia «In me non trovano più molto da pungere, adesso. E poi non lo farebbero mai: conoscono chi si prende cura di loro.»
Ci scostammo dalle arnie. I capelli del vecchio, bianchi e lunghi, svolazzavano nel vento, sembrava si mischiassero alle nuvole. La barba era rimboccata nella camicia, “così non mangio nessuno dei miei tesorucci”. La nebbia s’alzava già, formava rapidi fiumi opachi. Tom si fregò la testa lentigginosa.
«Togliamoci dal vento, Henry, ragazzo mio. È così freddo che le api fanno le sceme. Dovresti sentire le sciocchezze che dicono. Proprio come quando le affumicano. Prendi una tazza di tè?»
«Volentieri.» Il tè di Tom era così forte che sembrava quasi di fare un pasto.
«Ti sei preparato la lezione?»
«Certo. Hai sentito del cadavere gettato a riva?»
«Sono sceso a dargli un’occhiata. Gettato a riva proprio a nord della foce. Un giapponese, direi. L’abbiamo seppellito in fondo al cimitero, con gli altri.»
«Secondo te cosa gli è successo?»
«Be’…» Svoltammo nel sentiero che portava a casa sua. «Qualcuno gli ha sparato!» Ridacchiò, notando la mia espressione. «Immagino che cercasse di visitare gli Stati Uniti d’America. Ma gli Stati Uniti d’America sono vietati.» Attraversò l’aia senza fare la minima attenzione alle cianfrusaglie; lo seguii da vicino. Entrammo in casa. «Ovviamente qualcuno ci ha dichiarati zona vietata; siamo fuori della palizzata, ragazzo, solo che in questo caso la palizzata è piuttosto scura: le navi che vanno avanti e indietro sono così nere che le vedi anche in una notte senza luna… e sarebbe abbastanza sciocco, se davvero volessero rimanere invisibili. Non ho più incontrato uno straniero… uno straniero vivo, intendo, perché questi morti valgono poco come informatori, eh, eh… dal Giorno. Troppo, per essere semplice coincidenza, anche se non manca qualche segno della loro presenza. Ma il fatto principale è un altro: dove sono? Dal momento che ci sono davvero, là fuori.» Riempì la teiera. «Secondo la mia ipotesi, dichiararci zona vietata era l’unico modo per evitare che si disputassero il nostro territorio e lo distruggessero… ma te ne avevo già parlato, no?»
Risposi con un cenno.
«Eppure, a pensarci bene, non so neppure di chi si tratta.»
«Dei cinesi, no?»
«O dei giapponesi.»
«Allora secondo te stanno a Catalina solo per tenere lontano la gente?»
«So che a Catalina c’è qualcuno, che vive diversamente da noi. È l’unica cosa che so per certo. Da qui, la notte, ho visto le luci accendersi e spegnersi in tutta l’isola. Le hai viste anche tu.»
«Certo. Un vero spettacolo.»
«Già, Avalon dev’essere un piccolo porto molto attivo, di questi tempi. Senza dubbio c’è qualcosa di più grosso dietro, un porto di grande traffico, sai. È una benedizione, Henry, conoscere qualcosa con certezza. Sono rare, le cose che si può dire di conoscere. La conoscenza è come l’argento vivo.» Si avvicinò al focolare. «Ma c’è qualcuno, a Catalina.»
«Dovremmo andare a vedere chi c’è.»
Tom scosse la testa e guardò dall’ampia finestra le rapide folate di nebbia che arrivavano dal mare. «Non faremmo ritorno.»
Con aria mogia, gettò alcuni rametti sulle braci del fuoco sistemato in modo che bruciasse lentamente. Ci sedemmo davanti alla finestra, in due poltrone a braccioli, aspettando che l’acqua si scaldasse. Il mare era una stoffa a chiazze colorate, grigio chiaro e grigio scuro, con bottoni d’argento disseminati in una fila storta fra noi e il sole. Sembrava che venisse la pioggia, anziché la nebbia. Il vecchio Nicolin si sarebbe arrabbiato, perché non si può pescare sotto la pioggia. Tom si tirò la pelle del viso, disegnando uno schema nuovo nelle diecimila rughe che lo coprivano. «Che cosa mai è accaduto all’estate?» canticchiò. «Sì, quando la vita era fa-ci-leee.»
Gettai sul fuoco altri ramoscelli, senza far caso al motivetto udito già tante volte. Tom aveva raccontato un mucchio di storie sui vecchi tempi e aveva insistito che allora la nostra costa era un deserto spoglio e arido. Però, guardando dalla finestra le foreste e le nuvole gonfie, sentendo il fuoco scaldare l’aria gelida della stanza, ricordando l’avventura della notte precedente, non ero sicuro di potergli credere. Metà delle sue storie non trovavano conferma nei molti libri che possedeva… e poi, forse mi aveva insegnato a leggere male, in modo che le mie letture avallassero le sue parole.
Ma sarebbe stato difficile inventare un sistema coerente, mi dissi, mentre lui gettava nel bricco una bustina di tè, fatto con le erbe che raccoglieva all’interno. E ricordai la volta che, a un raduno di scambio, era venuto di corsa da me, Steve e Kathryn, ebbro d’eccitazione, balbettando: «Guardate cosa ho comprato, guardate cosa ho avuto!» e ci aveva tirati sotto una torcia per mostrarci una vecchia mezza enciclopedia malandata, aperta alla pagina che mostrava la fotografia di un cielo nero sopra un terreno bianco sul quale c’erano due figure tutte bianche e una bandiera americana. «Questa è la Luna, capite? Vi avevo detto che c’eravamo andati, ma voi non ci credevate.»
«E non ci credo ancora adesso» aveva risposto Steve. A momenti si era messo a ridere, allo scoppio di collera del vecchio.
«Per questa fotografia ho dato quattro barattoli di miele, solo per dimostrarlo a voi scettici. E tu ancora non ci credi?»
«No!»
Kathryn e io morivamo dal ridere, davanti a loro due… anche noi eravamo abbastanza brilli. Ma lui aveva conservato la foto (anche se aveva buttato l’enciclopedia) e in seguito vidi la palla azzurra della Terra nel cielo nero, piccola com’è la Luna nel nostro. Avrò fissato la foto per un’ora. Quindi, una delle cose che lui sosteneva, fra le meno attendibili, era vera. Ed ero incline a credere anche al resto, di solito.
«Bene» disse Tom, porgendomi una tazza piena di tè aromatico. «Sentiamo la lezione.»
Mi schiarii la mente per evocare la pagina del libro che Tom mi aveva dato da imparare. Le righe regolari rendevano facile ricordare la poesia; la recitai come se la leggessi:
«È questo il paese, è questo il suolo, il clima»
disse l’Arcangelo perduto «è questa la sede
che dobbiamo scambiare con il Paradiso?
… queste lugubri tenebre,
con quella luce celestiale?»
Continuai con facilità, divertendomi a recitare la sfida di Satana. Alcuni versi si prestavano particolarmente a essere declamati con voce roboante:
«Addio, campi felici,
dove la gioia dimora in eterno! Salve, orrori! Salve,
mondo diabolico! E tu, Inferno profondissimo,
accogli il tuo nuovo possessore… uno che porta
una mente che né luogo né tempo cambieranno.
La mente è il luogo stesso, dentro di sé
può rendere Paradiso l’Inferno, Inferno il Paradiso.
Che importa dove, se sarò sempre lo stesso
e quel che dovrei essere, quasi meno di colui
che il tuono ha reso più grande? Qui almeno
saremo liberi…»
«Basta così, questa l’hai imparata» disse Tom, con aria soddisfatta, guardando il mare. «I versi migliori che abbia mai scritto, per metà rubati a Virgilio. E l’altro brano?»
«L’altro lo recito anche meglio» dissi, fiducioso. «Senti:»
«Credo d’essere un profeta appena ispirato,
e così spirando prevedo di lui:
la sua impetuosa e violenta fiammata di rivolta non può durare,
perché i fuochi violenti si esauriscono presto.
L’acquerugiola dura a lungo, ma le tempeste improvvise sono brevi;
spesso si stanca chi spesso sprona troppo forte;
chi si ciba con avidità è dal cibo soffocato…»
«Proprio il nostro ritratto» m’interruppe Tom. «Qui parla dell’America. Volevamo divorare il mondo e ne siamo rimasti soffocati. Scusa, continua pure.»
Mi sforzai di ricordare il punto esatto, poi ripresi:
«Questo regale trono di sovrani, quest’isola munita di scettro,
questa terra di maestà, questa sede di Marte,
quest’altro Eden, semi-paradiso,
questa fortezza eretta per sé dalla Natura
contro l’infezione e la mano della guerra,
questa felice stirpe d’uomini, questo piccolo mondo,
questa preziosa pietra in un mare d’argento
che le serve da muraglia,
o da fossato a difesa d’una casa,
contro l’invidia di terre meno fortunate,
quest’area benedetta, questo regno, quest’Inghilterra…»
«Basta!» esclamò Tom, ridacchiando e scuotendo la testa. «O troppo. Non so cosa pensare. Ma senza dubbio ti faccio imparare a memoria della roba buona.»
«Già» dissi. «Si capisce perché Shakespeare riteneva l’Inghilterra il migliore dei tredici stati.»
«Sì… Era un grande americano. Forse il più grande di tutti.»
«Ma cosa significa fossato?»
«Fossato? Ah, un canale d’acqua che circonda un luogo per rendere difficile l’accesso. Non l’hai capito, dal contesto?»
«Se l’avessi capito, perché lo chiederei?»
Tom rise. «Ho udito questa parola in uno dei piccoli raduni di scambio nell’entroterra, solo l’anno scorso. Un contadino diceva: «Scaveremo un fossato attorno al granaio». Sono rimasto un poco sorpreso. Ma si sentono sempre parole insolite come questa. Un tale, ai raduni, diceva che avrebbero gabbato qualcuno; e un altro mi ha detto che la mia abilità di venditore era degna di un filibustiere. Insaziato, simulatore… è sorprendente come le parole entrino nella lingua parlata. Brutte notizie per lo stomaco sono buone notizie per la lingua, capisci cosa intendo?»
«No.»
«Be’, sono sorpreso di te.» Si alzò, rigido e lento; riempì di nuovo la teiera, la sistemò sul fuoco. Poi s’accostò a uno scaffale di libri. L’interno della casa sembrava un poco il cortile: cianfrusaglie da tutte le parti, solo meno voluminose; altri orologi, una collezione di lampade e lanterne, una macchina per suonare la musica (dì tanto in tanto vi metteva sopra un disco e lo faceva girare, con il dito ossuto, ordinandoci di accostare l’orecchio per udire il mormorio alto e basso della musica stridula, e intanto diceva: «Questa è l’Eroica! Ascoltatela!» finché non gli intimavamo di chiudere il becco e lasciarci ascoltare); ma due pareti erano occupate quasi per intero da scaffali sovraccarichi di libri malandati. Molti non me li aveva lasciati leggere; ma ora ne prese uno e me lo gettò in grembo. «Passiamo alla lettura a vista. Comincia dal segno, lì.»
Aprii lo smilzo e ammuffito libretto, cominciai a leggere… un compito che mi risultava ancora assai difficile, assai piacevole. «“La giustizia è di per sé impotente: ciò che per natura governa è la forza. Tirare quest’ultima a fianco della giustizia, in modo che con la forza la giustizia governi… è il problema dell’abilità politica, certo assai grave; si capisce fino a che punto, se si considera quale sconfinato egoismo riposi in quasi ogni cuore umano; e che parecchi milioni di individui sono siffatti da dover essere mantenuti nei confini della pace, dell’ordine e della legalità. Stando così le cose, è una meraviglia che il mondo nel suo insieme sia pacifico e rispettoso delle leggi così come facciamo in modo sia”» a questo punto il vecchio scoppiò a ridere e continuò a lungo «“situazione che, tuttavia, determina solo il meccanismo dello stato. Infatti l’unica cosa che può produrre un effetto immediato è la forza fisica, dal momento che è l’unica cosa che gli uomini in generale capiscono e rispettano…”»
«Ehi!»
Era Steve Nicolin, che irruppe in casa come Satana nella camera da letto di Dio. «Ti ammazzo qui e subito!» gridò, avanzando verso il vecchio.
Tom saltò in piedi. «Provaci!» gridò. «Non hai la minima possibilità!» E per un po’ si accapigliarono, con Steve che teneva il vecchio per le spalle, a distanza sufficiente per non farsi prendere dai suoi colpi feroci.
«Dove vuoi arrivare riempiendoci la testa di menzogne, vecchio figlio di puttana?» disse Steve, scuotendo Tom avanti e indietro con rabbia sincera.
«E tu dove vuoi arrivare, irrompendo in casa mia a questo modo?» Tom perse subito il piacere del solito divertimento. «E poi, quando mai ti ho detto menzogne?»
Steve sbuffò. «E quando mai non le hai dette? Ci hai raccontato che i morti li seppellivano in bare listate d’argento. Ora sappiamo che è una menzogna, perché ieri notte siamo stati a San Clemente, abbiamo dissepolto una bara e c’era solo plastica.»
«Che storia è questa?» Tom guardò dalla mia parte. «Cos’avete fatto?»
Gli raccontai della spedizione a San Clemente. Quando arrivai alla storia delle maniglie, cominciò a ridere; si abbandonò sulla poltrona e rise, hii, hiii, hi hi hiiii, per tutto il resto del racconto, compreso l’inseguimento degli sciacalli accompagnato dall’ululato di sirena.
Steve rimase in piedi: incombeva su di lui, mandava fiamme dagli occhi. «Così ora sappiamo che dici menzogne, chiaro?»
«Hiiiii, hi hi hi hi hi hi.» Un paio di colpi di tosse. «Niente menzogne, ragazzi; solo la verità, dice il vecchio Tom Barnard. State a sentire… perché secondo voi le maniglie della bara erano color argento?» Steve mi lanciò un’occhiata significativa. «Perché di solito erano d’argento, ovviamente. Avete disseppellito un poveraccio morto senza un soldo. La famiglia gli ha comprato una bara a buon mercato. Ma come mai vi siete messi a disseppellire bare?»
«Volevamo l’argento» disse Steve.
«Sfortuna nera.» Si alzò a prendere un’altra tazza, la riempì fino all’orlo. «Ti dico che la maggior parte la seppellivano avvolta nell’argento. Siedi, Stephen, bevi una tazza di tè.» Steve tirò più vicino una piccola sedia di legno, sedette e cominciò a sorbire l’infuso. Tom si rannicchiò nella poltrona, strinse le dita nodose intorno alla tazza. «Quelli davvero ricchi li seppellivano nell’oro» disse piano, fissando il vapore che si alzava dalla tazza. «Uno di loro aveva sul viso una maschera d’oro che riproduceva le sue sembianze. Nella camera mortuaria c’erano statue d’oro a immagine di sua moglie, e dei suoi cani, e dei suoi figli… calzava scarpe pure d’oro; e intorno, alle pareti della stanza, c’erano piccoli mosaici di pietre preziose, che illustravano i momenti più importanti della sua vita…»
«Ma va’…» protestò Steve.
«Dico sul serio! Era proprio così. Siete stati lassù, avete visto le rovine… vorreste dirmi per caso che non buttavano argento nel terreno insieme con i loro morti?»
«Ma perché?» domandai. «Perché la maschera d’oro e tutto il resto?»
«Perché erano americani.» Sorseggiò il tè. «E questo era il meno, vi dico.» Per qualche minuto guardò intensamente dalla finestra, perso nei ricordi. «Viene la pioggia» disse. Per un altro minuto sorseggiò il tè, in silenzio. «Come mai vi è venuta tutta questa voglia d’argento?»
Lasciai che fosse Steve a rispondere, visto che l’idea era stata sua.
«Per scambiarlo» rispose Steve. «Per procurarci quello che vogliamo, ai raduni. Per andare da qualche parte, magari giù lungo la costa, e avere qualcosa da scambiare per procurarci il cibo.» Diede un’occhiata al vecchio, che lo fissava attentamente. «Per viaggiare, come facevi tu.»
Il vecchio non raccolse l’insinuazione. «Ci si procura tutto quel che si vuole, scambiando i prodotti del proprio lavoro. I pesci, nel tuo caso.»
«Ma non si può andare dove si vuole! Non si viaggia portandosi il pesce sulla schiena!»
«Tanto, non si può più viaggiare. A quanto sembra, hanno fatto saltare tutti i ponti di una certa importanza. E se riesci ad andare da qualche parte, i locali ti ucciderebbero per rubarti l’argento, probabilmente. E anche se fossero persone oneste, prima o poi finiresti l’argento e saresti costretto a lavorare di nuovo, là dove ti trovi. Scavare pozzi neri, o cose del genere.»
Il fuoco crepitò, mentre stavamo seduti a guardarlo. Steve, testardo, emise un lungo sospiro. Il vecchio sorseggiò il tè e continuò: «Occorrono tre giorni di viaggio per arrivare al luogo dei raduni, se le condizioni atmosferiche lo permettono. Un viaggio più lungo di quelli che eravamo soliti fare, lascia che te lo dica. E incontriamo sempre meno gente nuova.»
«Sciacalli compresi» dissi.
«Meglio non litigare, con questi giovani sciacalli» disse Tom.
«L’abbiamo già fatto» replicò Steve.
A quel punto fu Tom a sospirare. «Ci sono state già fin troppe liti. Di questi tempi c’è così poca gente in vita. Non c’è motivo.»
«Hanno iniziato loro.»
Goccioloni di pioggia colpirono la finestra. Li guardai scivolare sul vetro e rimpiansi che casa mia non avesse finestre. Anche con la porta chiusa e il cielo coperto di nuvole scure, tutti i libri, le terraglie, le lanterne, perfino le pareti, luccicavano di grigio argento, come se contenessero una luce propria.
«Non voglio che facciate a pugni, al raduno» disse Tom.
Steve scosse la testa. «No, se non saremo costretti.»
Tom si accigliò e cambiò argomento. «Hai imparato a memoria la lezione?»
Steve scosse la testa. «Ho avuto troppo da lavorare… mi spiace.»
Dopo un poco, dissi: «Sai a me cosa sembra?»
«Cosa?» chiese Tom.
«La linea costiera, qui. Mi dà l’impressione che una volta non ci fossero altro che montagne e vallate giù fino all’orizzonte. Poi un giorno un gigante traccia una linea retta; a ovest della linea tutto sprofonda e vi si riversa l’oceano. Dove la linea incrociava una montagna, lì c’è un dirupo; dove incrociava una vallata, c’è una palude salmastra e una spiaggia. Ma sempre in linea retta, vedi? Le montagne non sporgono nell’oceano e l’acqua non viene a riempire le valli.»
«La linea di faglia» disse Tom, con tono sognante e gli occhi chiusi, come se nella mente consultasse un libro. «La superficie della terra è fatta di immense placche che scivolano lentamente. Verissimo! Molto lentamente… nell’arco della tua vita si sposteranno di due centimetri… della mia, cinque, eh, eh… e noi ci troviamo nelle vicinanze di una faglia, dove le placche s’incontrano. La placca del Pacifico scivola verso nord; la terra qui, verso sud. Ecco perché c’è la linea retta. E i terremoti, li hai già sentiti, sono provocati dall’incontro delle due placche, che scivolano e si stritolano l’una con l’altra. Una volta, ai vecchi tempi, c’è stato un terremoto che ha distrutto ogni città di questa costa. Gli edifici sono crollati come nel Giorno. Sono scoppiati incendi, e non c’era acqua per domarli. Le autostrade come quella qui sotto puntavano al cielo e nessuno poteva intervenire a dare aiuto, sulle prime. Per un mucchio di gente è stata la fine. Ma quando gli incendi si sono estinti da soli… Sono arrivati da tutte le parti. Hanno portato macchine gigantesche e materiali, usato come pietrisco le macerie. Un mese dopo, ogni città era ricostruita, proprio come prima, con tanta precisione che non si sarebbe detto che c’era stato un terremoto.»
«Oh, andiamo!» protestò Steve.
Il vecchio si strinse nelle spalle. «Era proprio così.»
Guardammo, fra le oblique linee d’acqua, la valle sottostante. Nere scope di pioggia spazzavano il mare incappucciato di bianco. Nonostante gli anni di lavoro compiuti nella valle, nonostante i campi squadrati vicino al fiume e il piccolo ponte che lo superava, nonostante i tetti qua e là, legno o tegole o cavi del telefono… nonostante tutto questo, l’autostrada era il segno principale che l’umanità abitava la valle… l’autostrada, piena di crepe e morta, mezza ostruita e inutile. Le enormi strisce di cemento passarono dal biancastro al grigio bagnato, mentre guardavamo. Parecchie volte eravamo rimasti a sedere in casa di Tom, a bere tè e a guardare, Steve e io, Mando e Kathryn e Kristen, durante le lezioni oppure all’aperto sotto un acquazzone, e parecchie volte il vecchio ci aveva parlato dell’America, aveva indicato l’autostrada e descritto le automobili, tanto che quasi le vedevo correre come lampi avanti e indietro, grosse macchine metalliche di tutti i colori e di tutte le forme che si limitavano a volare via, incrociandosi ed evitando per un pelo scontri disastrosi, mentre correvano a fare affari a San Diego o a Los Angeles… i fari rossi e bianchi si riflettevano sull’asfalto bagnato e ammiccavano oltre la montagna, nuvole di schizzi spiraleggiavano all’indietro e avviluppavano le auto seguenti tanto che nessuno riusciva a vedere bene, e la Morte sedeva sul posto accanto al guidatore, aspettando un errore… così Tom raccontava, finché mi sembrava davvero strano guardare in basso e vedere la strada così vuota.
Ma questa volta Tom si limitò a starsene seduto: mandava lunghi sospiri, di tanto in tanto guardava Steve e scuoteva la testa. Sorseggiava il tè, in silenzio. Mi faceva sentire depresso. Speravo che raccontasse un’altra storia. Sarei tornato a casa sotto la pioggia, Pa’ avrebbe acceso un fuoco troppo piccolo, nella baracca avrebbe fatto freddo, ancora molto dopo la cena di pesce e pane mi sarei dovuto ingobbire sopra le braci per scaldarmi, nel buio pieno di spifferi… In basso c’era l’autostrada, simile a un sentiero per giganti, grigia nel verde bagnato della foresta. Mi chiedevo se le automobili vi sarebbero mai tornate.
I raduni di scambio impegnavano quasi tutta la gente di Onofre nei preparativi della carovana. Al punto di partenza, dove l’autostrada attraversa la cresta Basilone, eravamo una ventina: alcuni ammassavano pesce sui carrelli delle barche, altri tornavano di corsa nella valle a prendere roba dimenticata, altri ancora inveivano contro i cani, che una volta tanto si rendevano utili perché tiravano i carrelli. Era davvero un’impresa mettere loro i finimenti. Intorno ai carrelli la gente bisticciava per avere più spazio. I carrelli, leggeri cavalletti metallici con un paio di ruote, erano mezzi di trasporto ottimi ma poco spaziosi: il vecchio Tom minacciava tutti coloro che cercavano di guadagnare spazio cambiando la posizione dei suoi barattoli di miele, Kathryn difendeva con identiche minacce e imprecazioni le sue pagnotte, Steve requisiva per il pesce carrelli interi. Al raduno portavamo soprattutto pesce, fresco e secco, nove o dieci carrelli; io avevo il compito di aiutare nel carico Rafael, Steve, Doc e Gabby. I pesci si dibattevano, i cani abbaiavano, Steve dava ordini a destra e a manca, a tutti ma non a Kathryn, che l’avrebbe preso a calci; e in alto uno stormo di gabbiani lanciava strida, quasi sapesse che non gli sarebbe toccato il pasto. Faceva impazzire i cani. La confusione di grida eccitate giunse all’apice e partimmo.
Sulla costa il cielo era color latte andato a male. Ma quando lasciammo l’autostrada e ci dirigemmo verso l’interno, risalendo la valle San Mateo, la prima a nord della nostra, il sole cominciò a comparire a tratti: chiazze di luce incendiarono di verde le montagne. La carovana si allungò, a mano a mano che la strada si restringeva: era una vecchia strada d’asfalto, piena di buche, che noi stessi avevamo riempito di sassi per rendere più agevole il percorso.
Steve e Kathryn camminavano a braccetto in fondo alla fila. Li osservai, seduto sul bordo di un carrello, lasciando strisciare un piede sull’asfalto. Conoscevo da sempre Kathryn Mariani; e da sempre ne ero quasi spaventato. I Mariani abitavano accanto a Pa’, per cui vedevo Kathryn continuamente. Era la prima di cinque sorelle; quando ero piccolo, mi sembrava che facesse sempre la prepotente con tutti noi, o che rifilasse un rapido ceffone a chi tentava di arraffare di nascosto un pezzo di pane o s’infilava di soppiatto nei campi di granturco. Era grande e grossa, anche… Dopo avermi mandato a gambe levate, con un calcio del pesante stivale, com’era successo più di una volta, il suo viso lentigginoso mi guardava con cattiveria da quella che mi pareva un’altezza tremenda. A quel tempo la consideravo la ragazza più malvagia del mondo. Solo da un paio d’anni, ormai alto come lei, la vedevo da un punto di vista diverso e notavo quant’era graziosa. Un naso a patata non sembra tanto bello, visto da terra (sembra un grugno, a dire la verità), e neppure una gran bocca spalancata… ma vista dalla stessa altezza, Kathryn sembrava a posto. L’anno prima lei e Steve erano diventati amanti e le altre ragazze ridacchiavano chiedendosi quando si sarebbero sposali; di conseguenza, lei e io eravamo diventati amici e avevo imparato a considerarla qualcosa di più di uno spaventapasseri con il matterello. Scherzammo sui vecchi tempi.
«Credo che andrò a far colazione con il pane del primo carrello; sono sicuro che nessuno ci farà caso.»
«Tocca quel pane, Henry caro, e ti mando a calci nel sedere giù fino a Onofre, come una volta.»
Steve rise. Era molto più allegro, in quei viaggi, quando si lasciava alle spalle la famiglia e il padre che guidava ogni giorno gli uomini alla pesca. I cani abbaiarono e lui andò a giocare con loro finché non tornarono di buonumore e gli fecero le feste, pronti a tirare il carico tutto il giorno, per semplice divertimento, per il modo in cui Steve rideva. Gran parte dei cani apparteneva ai Nicolin e passava quasi tutta la vita a dar la caccia ai ratti sulle scogliere. Steve li aveva addestrati bene: quando c’era lui, stavano in silenzio, così poteva uscire e rientrare di nascosto, la notte, senza che abbaiassero per fargli festa. Pa’ e io non avevamo cani… di solito eravamo già fortunati se avevamo da mangiare per noi… ma quelli dei Nicolin mi avevano in simpatia. «Bravi perros» dissi ai cani, mentre Steve tornava da Kathryn.
Verso mezzogiorno giungemmo sul posto del raduno di scambio: un campo erboso pieno di eucalipti ben distanziati e alberi del ferro. Il sole splendeva, più di metà dei villaggi partecipanti erano già arrivati, e nella luce a chiazze sotto gli alberi c’erano tendoni colorati e bandiere, carrelli e carri e lunghi banchi, decine di persone nel loro abito migliore, pennacchi di fumo di legna che s’innalzavano fra gli alberi da numerosi fuochi di bivacco. I cani impazzirono.
Reggendoli per la cavezza, seguimmo fra la folla il percorso tortuoso fino al nostro posto. Dopo aver salutato i bovari di Talega Canyon, accampati vicino a noi, ramazzammo nel pozzetto per il fuoco tutto lo sterco di vacca disseminato nella nostra zona e scaricammo i carrelli o li sistemammo come banchi. Aiutai Rafael a stendere i tendoni sopra i carrelli del pesce. Il vecchio fissò con aria estasiata il baldacchino bianco sopra i bovari; lo indicò e disse a Steve e a me: «Un tempo la gente si legava sulla schiena uno di questi affari e saltava giù dagli aeroplani, da chilometri d’altezza. E scendeva lentamente fino a terra.»
«E i pesci giocavano a baseball» disse Steve. «Hai cominciato a celebrare il raduno in anticipo, eh, Tom?»
Alle proteste del vecchio scoppiammo tutti a ridere. I cani erano una seccatura: li portammo in fondo alla nostra zona e li legammo agli alberi; per tenerli calmi, gettammo loro delle teste di pesce. Al nostro ritorno, i baratti erano già iniziati. Eravamo in genere l’unico villaggio di mare al raduno, ci conoscevano tutti. «Onofre è arrivato» gridò qualcuno. «Guarda che magnifiche orecchie di mare» disse un altro. «Ne mangio subito una!» Rafael lanciò il suo richiamo: «Pesce fresco! Pesce fresco!» Perfino gli sciacalli di Laguna venivano a fare scambi con noi: non erano buoni a pescare da soli neanche quando l’oceano li prendeva a sberle sul muso. «Non voglio le tue monete, signora» ripeteva Doc. «Voglio stivali, stivali. So che ne hai.» «Prendi le monete e compra gli stivali da un altro: li ho finiti. Il Registro dice: una moneta, un pesce.» Doc brontolò e concluse la vendita. Scaricata da un carrello la legna da ardere, avevo terminato il lavoro della giornata. A volte avevo abiti da barattare: li prendevo, strappati e laceri, dagli sciacalli e li rivendevo, rammendati da Pa’. Ma stavolta Pa’ non aveva aggiustato niente, perché il mese prima non avevamo niente da dare in cambio di abiti vecchi. Così la giornata era tutta per me, anche se avrei continuato a tenere gli occhi aperti in cerca di abiti frusti… e li vedevo, anche, ma sulle spalle della gente. Andai davanti al nostro campo e mi sedetti al sole, sul ciglio del viale principale.
Il viale ferveva d’attività. Passò una donna con una lunga veste viola, che reggeva in equilibrio sulla testa una gabbia di polli, seguita da due uomini con calzoni a strisce gialle e rosse che facevano il paio e camicia azzurra a maniche lunghe. Un’altra donna, circondata da un gruppo d’amici vestiti a colori vivaci, portava un paio di calzoni a macchie di tutti i colori, così rigidi da avere una piega davanti e dietro.
Gli sciacalli non si distinguevano solo per l’abbigliamento. Parlavano tutti a voce alta, quasi sempre. Ascoltandoli, mi dissi che forse in quel modo volevano superare il silenzio delle rovine. Tom diceva spesso che la vita fra le rovine rendeva matti gli sciacalli, dal primo all’ultimo; e infatti quelli che mi passarono davanti avevano in gran parte negli occhi una luce che sembrava dare ragione al vecchio: selvaggia e sfrenata, come se cercassero qualcosa di eccitante da fare e non lo trovassero. Osservai con attenzione maggiore i più giovani, chiedendomi se fra loro c’erano quelli che ci avevano inseguiti da San Clemente. Avevamo avuto con un gruppo di loro qualche scontro di scarsa importanza, in passato, ai raduni e nella valle San Mateo, e i sassi erano volati come bombe… ma non vidi nessuno di quel gruppo e comunque non avrei potuto riconoscere quelli che ci avevano scoperti a San Clemente. Ne passarono due in un completo di un bianco abbagliante e cappello in tinta. Mi venne da ridere. Io avevo jeans scoloriti e rattoppati sulle ginocchia chissà quante volte. La gente di paesi e di villaggi nuovi era abbigliata tutta allo stesso modo, abiti di campagna tenuti insieme da ago e preghiera, a volte abiti nuovi fatti di scarti di stoffa o pelli; era come avere il distintivo di gente sana e normale. Gli abiti degli sciacalli erano, credo, un simbolo d’altro tipo: chi li portava era ricco, e pericoloso. Subito dopo un gruppo di pastori passò una squadra di donne degli sciacalli, in abiti di merletto, ciascuno dei quali, calcolai, aveva richiesto più di sei metri di stoffa e almeno due strisciavano per terra. Spreco.
Poi vidi Melissa Shanks uscire dal nostro campo, portando un paniere di granchi. Balzai in piedi senza riflettere e m’avvicinai. «Melissa!» la chiamai. Quando si girò dalla mia parte, le rivolsi un sorriso da sciocco. «Ti serve aiuto per portare indietro quel che ricaverai dai granchi?»
Lei sollevò le sopracciglia. «E se fosse una bustina d’aghi?»
«Uh, be’, non avresti bisogno di molto aiuto.»
«Infatti. Ma sei fortunato. Devo procurarmi una mezza botte, quindi mi fa piacere che m’accompagni.»
«Magnifico.» Melissa lavorava saltuariamente ai forni; era amica di Kristen, la sorella più giovane di Kathryn. La vedevo poco, solo ai forni. Suo padre, Addison Shanks, stava su monte Basilone e non aveva molti rapporti con il resto della valle. «Sarai fortunata, se otterrai una mezza botte per quei quattro granchi» continuai, dopo un’occhiata nel paniere.
«Lo so. Il Registro dice che è possibile, ma mi toccherà sfoderare tutta la mia parlantina.» Fiduciosa, gettò all’indietro i lunghi capelli neri che brillarono al sole, così lucidi e ben curati da far sembrare che portasse dei gioielli. Era graziosa: denti piccoli, naso affilato, pelle bianca e liscia… Aveva un’intera serie di espressioni preoccupate, serie, altere, che rendevano più dolci i rari sorrisi. La fissai troppo a lungo; andai a sbattere contro una donna anziana che veniva nell’altro senso.
«Carajo!»
«Chiedo scusa, signora, ma sono stato distratto da questa giovane fanciulla…»
«Allora datti da fare!»
«Ci proverò di sicuro, signora, arrivederci.» Con un’ammiccata e un pizzicotto sul sedere (lei mi diede uno schiaffo sulla mano e ridacchiò), girai intorno alla vecchia. Anche Melissa sorrise; allora le strinsi il braccio e chiacchierammo allegramente, girando nel viale principale del raduno, alla ricerca di un bottaio. A un certo punto ci dirigemmo al campo di Trabuco Canyon, i cui contadini lavoravano bene il legno.
Sopra il campo di Trabuco, un pennacchio di fumo galleggiava fra le chiazze di sole che lo tingevano di rosa conchiglia. Sentimmo odore di carne: arrostivano un vitello tagliato in due. Una certa folla si era radunala intorno al campo per unirsi al festino. Melissa e io scambiammo un granchio con due costolette e mangiammo in piedi, guardando le buffonate di un trio d’astuti sciacalli che pretendevano sei costolette per una scatola di spilli di sicurezza. Stavo per fare una battuta su di loro, quando ricordai che il padre di Melissa, secondo le voci, trafficava con gli sciacalli. Addison concludeva un mucchio di affari di notte, su a nord; e nessuno sapeva se facesse scambi con gli sciacalli, se li derubasse, se lavorasse per loro… Era lui stesso una sorta di sciacallo che preferiva vivere fuori delle rovine. Masticai la carne in silenzio, rendendomi conto all’improvviso che conoscevo ben poco la ragazza al mio fianco. Melissa ripulì la costoletta come un cane ripulisce un osso e continuò a guardare la carne che sfrigolava sul fuoco. «Era davvero buona» sospirò. «Ma non vedo botti. Mi sa che toccherà dare un’occhiata al campo degli sciacalli.»
Fui d’accordo, anche se significava trattative più difficili. Ci dirigemmo alla metà nord del parco, dove si fermavano gli sciacalli… forse per tenere sgombra la via di casa. Lì gli accampamenti e gli oggetti di scambio erano assai diversi: niente generi alimentari, a parte diversi vassoi di spezie e scatolame pregiato, sorvegliati da alcune donne. Passammo accanto a un uomo con un abito azzurro brillante, che offriva utensili esposti sopra una coperta stesa sull’erba. Alcuni erano arrugginiti, altri più lucenti dell’argento, tutti di forma e grandezza diverse. Cercammo d’indovinare a che cosa servissero. Uno, davvero buffo, consisteva in due paia di morsetti di metallo verdastro alle estremità di un filo metallico dentro un tubo di plastica arancione. «Serviva a tenere insieme marito e moglie che non andavano d’accordo» disse Melissa.
«No, ci sarebbe voluto un affare più robusto. Sarà un fermaporta.»
Lei rise. «Un cosa?» Ma non mi lasciò spiegare… cominciò a piegarsi in due ogni volta che ci provavo, fino a farmi sfiatare. Passammo davanti ad ampie esposizioni di abiti sgargianti, scarpe lucide, grosse macchine rugginose assolutamente inutili senza corrente elettrica, e davanti ad armaioli con la loro folla di spettatori pronti ad assistere a un’eventuale trattativa importante o agli spari dimostrativi. Lo scambio di sementi, lungo il confine fra il campo degli sciacalli e il nostro, era vivace come al solito. Volevo avvicinarmi a vedere se Kathryn faceva scambi, perché il suo modo di contrattare per le sementi era un’arte; ma la folla m’impediva di vedere se lei c’era e a un tratto Melissa mi tirò per il braccio. «Là!» disse. Al di là della zona riservata alle sementi, una donna vestita di rosso barattava sedie, tavoli e botti.
«Sei a posto» le dissi. Avevo visto Tom Barnard, dall’altra parte del viale. «Vado a vedere cosa combina Tom. Tu intanto comincia a trattare.»
«Bene. Farò la parte della povera innocente, finché non torni.»
«Buona fortuna.» Ma non sembrava poi tanto innocente, era questa la verità. M’avvicinai a Tom, che discuteva animatamente con un mercante di utensili. Quando mi fermai accanto a lui, mi posò la mano sulla spalla e continuò a parlare.
«… rifiuti industriali, legno fradicio, corpi d’animali, a volte…»
«Cagate» disse il venditore d’utensili. («Anche quelle» si intromise il vecchio.) «Lo facevano dalla canna da zucchero e dalla barbabietola, c’è scritto sulla scatola. E lo zucchero resta buono per sempre ed è dolce come il tuo miele.»
«Non esistono canne da zucchero e barbabietole» disse Tom, sprezzante. «Hai mai visto piante del genere? Le hanno inventate gli zuccherifici. E intanto ricavavano lo zucchero dai residui delle fogne e lo si paga con orribili malattie e deformità. Ma il miele! Il miele tiene lontano il raffreddore e tutte le malattie dei polmoni, libera dalla gotta e dall’alito cattivo, è dieci volte più gustoso dello zucchero, ti aiuta a vivere quanto me, è nuovo e naturale, non robaccia sintetica vecchia di sessant’anni. Tieni, assaggia un po’ di questo, prendine una ditata, ha entusiasmato tutto il raduno, e poi non c’è obbligo, in una ditata.»
L’uomo degli utensili tuffò due dita nel vasetto che il vecchio gli porgeva e leccò il miele.
«Sì, il sapore è buono…»
«Certo che è buono! Ora, un solo maledetto accendino… e tu ne hai migliaia, nell’Orange County… non è certo esagerato per due, dico duuueee, barattoli di questo miele delizioso. Soprattutto…» Tom si batté la mano contro la tempia, come se si fosse dimenticato. «Soprattutto perché ti restano anche i barattoli di vetro.»
«Anche i barattoli, dici.»
«Sì. Sono generoso, lo so, ma noi di Onofre siamo fatti così, daremmo via anche i calzoni, se alla gente non importasse vederci girare con il culo al vento. E poi, sono un vecchio rimbambito…»
«D’accordo, d’accordo! Chiudi pure il becco: affare fatto. Dammi i due barattoli.»
«Eccoli qui, giovanotto. Arriverai alla mia età, se mangerai questo magico elisir, lo giuro.»
«Non ci tengo, se non ti spiace» disse lo sciacallo, con una risata. «Ma il sapore è buono.» Prese l’accendino, di plastica trasparente con cappuccio metallico, e lo diede al vecchio.
«Arrivederci, allora» disse Tom, intascando rapidamente l’accendino e tirandomi via. Si fermò sotto l’albero seguente. «Hai visto, Henry? Hai visto? Un accendino per due vasetti di miele. Non è stato un affare? Ecco, guarda. Ci avresti mai creduto? Guarda.» Estrasse l’accendino, lo tenne davanti a me, premette il pollice. Lo tenne acceso per un secondo, poi lo spense.
«Grazioso» dissi. «Ma hai già un accendino.»
Accostò il viso rugoso al mio. «Procurateli sempre, quando ne trovi, Henry. Sempre. Sono la cosa più preziosa che gli sciacalli hanno da barattare. La più grande invenzione della tecnologia americana, non c’è dubbio.» Frugò nello zaino. «To’, bevi un goccio.» Mi tese una piccola bottiglia di liquido ambrato.
«Sei già passato dalla zona dei liquori?»
Sogghignò, mettendo in mostra gli spazi vuoti fra i denti. «Il primo posto dove sono andato, naturalmente. Bevi un sorso. Scotch di cent’anni. Ottimo davvero.»
Ne mandai giù un sorso, quasi soffocai.
«Prendine un altro, adesso: il primo apre solo la porta. Senti il calore che ti scende dentro?» Lo sentivo. «Roba buona.»
Bevemmo a turno. Indicai Melissa, che sembrava concludere ben poco con la donna dei barili. «Ahh!» disse Tom, con una sbirciata maliziosa. «Peccato che non sappia mercanteggiare come un uomo.»
«Senti, mi presti un vasetto di miele? Ti ricambierò lavorando agli alveari.»
«Be’, non so…»
«Su, andiamo, cosa vuoi scambiare ancora per oggi?»
«Un mucchio di roba» protestò lui.
«Hai già la cosa più importante che gli sciacalli possiedono, no?»
«Oh, va bene. Ti darò quello piccolo. Bevi un altro goccio, prima di andartene.»
Tornai da Melissa. Mi sentivo bruciare lo stomaco, girare la testa. Melissa diceva lentamente, come se fosse già la quarta volta: «Li abbiamo tirati via dall’acqua ancora vivi, stamattina. Facciamo sempre così, è risaputo. Tutti hanno mangiato i nostri granchi e mai nessuno è stato male. La carne dura una settimana, tenendola al fresco. La più saporita che ci sia, e se l’hai mai provata lo sai.»
«Già fatto» disse la donna, brusca. «Mi spiace, i granchi vanno bene, ma non ce ne sono abbastanza da far cambiare la situazione. Queste mezze botti sono difficili da trovare. A te durerà per sempre, mentre io avrò qualche boccone di granchio per una settimana.»
«Ma se non le baratti, dovrai riportarle a nord» intervenni, in tono amichevole. «Spingerle su per le montagne, stare attenta che non rotolino dall’altra parte… ti faremmo un favore a prenderne una gratis… non che ne abbiamo l’intenzione, ovviamente. Ecco… ci mettiamo anche un vasetto di miele di Barnard, oltre a questi granchi squisiti: un vero furto. Per te.» Prima Melissa mi aveva scoccato un’occhiata di fuoco perché m’impicciavo nella trattativa. Ora, speranzosa, sorrideva alla donna. Quest’ultima guardò il vasetto di miele, ma pareva poco convinta.
«Il Registro dice che mezza botte vale dieci dollari» continuai. «E i granchi valgono due dollari l’uno. Ce ne sono sette, per cui sei già in vantaggio di quattro dollari, senza contare il miele.»
«Lo sanno tutti che il Registro è pieno di stronzate» disse la donna.
«Da quando in qua? L’hanno fatto gli sciacalli.»
«No… siete stati voi zappaterra.»
«Chiunque sia stato, lo usano tutti e lo disprezzano solo quando cercano di fregare.»
La donna esitò. «Il Registro dice davvero che i granchi valgono due dollari l’uno?»
«Ma certo» risposi, augurandomi che non ce ne fosse una copia a portata di mano, perché valgono solo un dollaro e cinquanta.
«Bene» disse la donna «mi piace il sapore.»
Mentre facevamo rotolare la mezza botte fino al nostro campo, Melissa scordò la mia mancanza d’educazione. «Oh, Henry» trillò. «Come posso ringraziarti?»
«Ma figurati, non è niente, eh eh.» Fermai la botte per lasciar passare un gruppo di pastori che reggevano sulla testa un enorme tavolo capovolto. Melissa mi abbracciò e mi diede un bel bacio. Rimanemmo lì a guardarci, prima di ricominciare. Aveva le guance arrossate, il corpo caldo contro il mio. Mentre riprendevamo la strada, schioccò le labbra. «Hai bevuto, Henry?»
«Uh… il vecchio Barnard mi ha dato un paio di sorsi, laggiù.»
«Ah, sì?» Girò la testa a guardarsi indietro. «Non direi di no neppure io.»
Tornati al campo, Melissa andò a cercare Kristen, mentre io collaborai a terminare lo scambio del pesce. Steve mi si avvicinò, sigaretta fra le dita; fumammo a turno, sotto i raggi di sole che facevano scintillare la polvere nell’aria del pomeriggio. Subito dopo scoppiò una lite fra un bovaro dei Pendleton e uno sciacallo, ma fu sedata da un gruppo di omacci rudi che avevano il compito di mantenere l’ordine. Questi sceriffi dei raduni non gradivano che la gente ignorasse la loro autorità: chi si azzuffava, finiva sempre per prenderle da loro. Dopo questo episodio, mi appisolai per un paio d’ore, insieme ai cani addormentati.
Rafael mi svegliò, quando venne a portare i rifiuti ai perros. Solo a ovest il cielo era ancora azzurro; le nuvole, in alto, riflettevano un po’ di luce del tramonto. Mi alzai troppo in fretta. Passato lo stordimento, m’avvicinai al nostro fuoco di bivacco, attorno al quale qualcuno mangiava ancora. Sedetti sui talloni accanto a Kathryn, che mi offrì un po’ di stufato. «Dov’è Steve?» chiesi mentre mangiavo.
«È già andato ai campi degli sciacalli. Ha detto che sarebbe rimasto un paio d’ore in quello di Mission Viejo.»
«Ah» commentai, ingozzandomi. «Come mai non sei con lui?»
«Be’, Hanker, sai com’è. Prima di tutto, dovevo aiutare a cucinare. Ma anche se avessi potuto andarci, non posso stare insieme a Steve per tutta la notte. Sai cosa significa. Voglio dire, potrei farlo, ma non sarebbe divertente. E poi, mi sa che preferisca stare lontano da me, qui al raduno.»
«No.»
Si strinse nelle spalle. «Fra un po’ vado a cercarlo.»
«Com’è andato il baratto di sementi?»
«Benissimo. Non come a primavera, ma ho avuto un bel pacchetto di semi d’orzo. Gran colpo… tutti erano interessati a quest’orzo, visti i buoni risultati di Talega, per cui la trattativa scottava, ma il nostro buon elote l’ha spuntata. La prossima settimana semino tutto il campo alto, per vedere come va. Se non è troppo tardi.»
«Il tuo gruppo avrà da fare.»
«Hanno sempre da fare.»
«Vero.» Terminai lo stufalo. «Vado a cercare Steve.»
«Lo troverai facilmente» rise. «Dritto dove c’è più casino. Ci vediamo lì.»
Fra i campi del nuovo paese, sul lato sud del parco, c’era buio e silenzio, a parte i versi acuti e lugubri dei pavoni di Trabuco che protestavano nelle gabbie. Qua e là piccoli fuochi facevano tremolare e danzare di luce riflessa gli alberi; dalle sagome scure che schermavano le fiammelle provenivano voci. Inciampai in una radice.
Nella metà nord del parco era tutto diverso. Nelle radure ruggivano grandi falò che facevano agitare i tendoni colorati distesi fra i rami. Dagli alberi pendevano lanterne che mandavano una debole luce biancastra. Imboccai il viale e fui spinto alle spalle da una donna robusta, vestita d’arancione. «Scusa, ragazzo» mi disse. Andai al campo Mission Viejo. Un barattolo mi volò vicino, spargendo il contenuto, e s’infranse contro un albero. I colori brillanti degli abiti tremolavano alla luce dei fuochi; ogni sciacallo, uomo, donna, ragazzo, aveva tirato fuori la propria collezione di paccottiglia: tutti portavano collane d’oro e d’argento, orecchini, anelli al naso, catenelle alle caviglie, alla cintura, ai polsi; ogni ornamento era tempestato di pietre preziose che mandavano bagliori rossi, azzurri, verdi. Uno spettacolo magnifico.
Nel campo di Mission Viejo c’erano tavoli accostati l’uno all’altro in lunghe file, affiancati da panche piene di gente che beveva, discuteva, ascoltava il gruppo jazz all’estremità del campo. Per un poco mi fermai a guardare, ma non vidi nessuno di mia conoscenza. Poi Steve mi urtò il braccio, sogghignando. «Andiamo a rompere le palle al vecchio» disse. «È laggiù, con Doc e gli altri matusa.»
Tom era a capotavola, fra altri sopravvissuti dei vecchi tempi: Doc Costa, Leonard Sarowitz di Hemet, George vattelapesca di Cristianitos. I quattro erano personaggi fissi di tutti i raduni, spesso in compagnia di Roger lo Strambo e altri sopravvissuti abbastanza anziani da ricordare i vecchi tempi. Tom era di gran lunga il più vecchio del gruppo. Ci vide e ci fece posto accanto a lui sulla panca. Bevemmo un sorso dalla fiasca di Leonard; il liquore mi andò di traverso e me ne versai metà sulla camicia. I matusa morirono dal ridere. Le gengive del vecchio Leonard erano sdentate come quelle di un neonato.
«C’è Fergie?» chiese Doc a George, riprendendo la conversazione.
George scosse la testa. «È andato a ovest.»
«Ah. Peccato.»
«Sai quant’è veloce questo ragazzo?» disse Tom, rifilandomi una manata sulla schiena. Leonard scosse la testa, si accigliò. «Una volta gli ho fatto un lancio e lui con la risposta di dritto mi ha sfiorato l’orecchio… mi sono girato e ho visto la palla colpirlo nel culo mentre lui scivolava in seconda base.»
Gli altri risero, ma Leonard scosse di nuovo la testa. «Non distrarmi! Cerchi solo di distrarmi!»
«Come sarebbe a dire?»
«Il punto è… glielo stavo dicendo, ragazzi, e anche voi dovreste ascoltare… il punto è che, se Eliot avesse reagito da americano, adesso non ci troveremmo in questa condizione.»
«Quale condizione?» chiese Tom. «Per conto mio, mi trovo benissimo.»
«Non farmi ridere» intervenne Doc, acido.
«Di nuovo la stessa storia, a quanto vedo» osservò Steve, alzando gli occhi al cielo e allungando la mano verso la fiasca.
«Sono sicuro che torneremo a essere la nazione più potente del mondo, perdio» continuò Leonard.
«Un momento» disse Tom. «Non ci sono abbastanza americani vivi da formare anche solo una nazione, altro che la più potente del mondo. E che vantaggio ne avremmo, se a furia di bombe avessimo ridotto ogni altro paese nelle stesse nostre condizioni?»
Doc si sentì offeso, tanto da intervenire al posto di Leonard.«Che vantaggio ne avremmo?» ripeté. «Non ci sarebbero maledette navi cinesi lungo la costa, a tenerci d’occhio ogni momento e a bombardarci appena tentiamo di ricostruire! Ecco il vantaggio. Quel vigliacco di Eliot ha affossato l’America per sempre. Adesso siamo l’ultima ruota del carro, Tom Barnard. Siamo orsi nella fossa.»
«Grrrrr» ringhiò Steve e bevve un altro sorso. A me toccò quello dopo.
«Eravamo spacciati, una volta esplose le bombe» disse Tom. «Non fa differenza quel che è accaduto al resto del mondo. Se Eliot avesse deciso di premere il pulsante, avrebbe solo ucciso altra gente e distrutto altre nazioni. Per noi non sarebbe cambiato niente. E poi, non sono stati né i russi né i cinesi, a piazzare le bombe…»
«Parli a vanvera» disse Doc.
«Sai che è così! Sono stati i maledetti sudafricani. Pensavano che avremmo messo il becco nel loro mercato di schiavi.»
«I francesi!» gridò George. «Sono stati i francesi!»
«I vietnamiti» disse Leonard.
«No, loro no» replicò Tom. «Quei poveracci non avevano più neppure un petardo, quando siamo andati via dal loro paese. E probabilmente non è stato nemmeno Eliot a decidere di non fare rappresaglie. Pure lui, come tutti, sarà morto all’inizio del Giorno. La decisione l’avrà presa un generale a bordo di un aereo, ti ci puoi giocare i denti di legno. E sarà stata una gran sorpresa, anche per lui. Soprattutto per lui. Sarei curioso di sapere chi era.»
«Chiunque sia stato» disse Doc «era un vigliacco e un traditore.»
«Era un essere umano onesto» disse Tom. «Se avessimo colpito la Russia e la Cina, saremmo criminali e assassini. E poi, in questo caso i russi avrebbero scaricato su di noi tutto il loro arsenale: oggi non ci vivrebbe nemmeno una maledetta formica, in tutto il Nord America.»
«Le formiche sarebbero ancora vive» disse George. Steve e io chinammo la testa sul tavolo; ridacchiavamo e ci scambiavamo ditate nel fianco… “premendo il pulsante”, come dicevano i vecchi. Strano che premere un pulsante potesse scatenare una guerra. Tom ci guardava storto, allora ci raddrizzammo e bevemmo un altro goccio per calmarci.
«… più di cinquemila esplosioni nucleari e siamo sopravvissuti» diceva Doc. A ogni raduno, il numero di esplosioni cresceva. «Ne avremmo sopportata anche qualcuna in più. Ma i nostri nemici ne meritavano una dose pure loro, ecco cosa voglio dire.» Dalla voce gli era sparito il tono canzonatorio. Facevano la stessa discussione ogni volta che si riunivano con gli altri anziani, quasi sempre; ma Doc continuava ad arrabbiarsi con Tom. In tono amaro esclamò: «Se Eliot avesse premuto il pulsante, saremmo tutti nella stessa barca e allora avremmo la possibilità di ricostruire. Ma loro non ci permettono di farlo, che Dio li maledica!»
«Cominciamo già a ricostruire, Ernest» disse Tom, in tono gioviale, nel tentativo dì alleggerire la tensione. Con un ampio gesto indicò la scena tutt’intorno.
«Cerca di essere serio» replicò Doc. «Parlo di com’era una volta.»
«Non mi piacerebbe» disse Tom. «Ci farebbero saltare in aria di nuovo, probabilmente.»
Ma Leonard ascoltava solo Doc. «Faremmo a gara con i comunisti per ricostruire e sai già chi vincerebbe. Noi, vinceremmo!»
«Già!» disse George. «O forse i francesi…»
Tom si limitò a scuotere la testa. Strappò la fiasca a Steve. «Come medico, Ernest, non dovresti augurare a nessuno disgrazie del genere.»
«Come medico» replicò fieramente Doc «so meglio di tutti cosa ci hanno fatto. Siamo orsi nel pozzo.»
«Andiamocene» mi disse Steve. «Ora inizia la discussione per stabilire se apparteniamo ai russi o ai cinesi.»
«Oppure ai francesi» dissi, scivolando giù dalla panca. Bevvi un ultimo sorso di liquore e il vecchio mi diede un colpo di bastone. «Via di qui, ragazzacci ingrati» gridò. «Incapaci di ascoltare la storia senza riderci sopra.»
«Leggeremo i libri» disse Steve. «Loro non si ubriacano.»
«Ma sentitelo!» esclamò Tom, mentre i suoi amici scoppiavano a ridere. «Io gli ho insegnato a leggere e lui mi dà dell’ubriacone.»
«Non c’è da stupirsi che siano così confusi, con te come maestro» disse Leonard. «Sei sicuro di avergli insegnato a leggere dalla parte giusta?»
Li lasciammo a scambiarsi punzecchiature e ci dirigemmo, malfermi sulle gambe, all’albero arancione, una vecchia quercia gigantesca che reggeva fra i rami lanterne a petrolio rivestite di plastica trasparente color arancione. Era il segno degli sciacalli provenienti dall’Orange County centrale e la nostra banda se ne serviva come punto di ritrovo notturno. Non vedemmo nessuno di Onofre, allora ci sedemmo nell’erba sotto l’albero, ciascuno con il braccio sulle spalle dell’altro, e cominciammo a fare commenti osceni sulla gente che passava. Steve chiamò con un gesto un uomo che vendeva fiasche di liquore e gli diede due monetine da dieci centesimi per una fiasca di tequila. «Chi rende fiasche rotte prende botte» cantilenò l’uomo, continuando per la sua strada. Dall’altra parte dell’albero arancione, un piccolo generatore a pedali ronzava e crepitava; alcuni sciacalli se ne servivano per far funzionare un piccolo forno che nel giro di qualche secondo cuoceva bistecche o patate intere. «Scalda e mangia!» gridavano. «Guardate le miracolose microonde, il super horno! Scalda e mangia!» Bevvi un sorso di tequila; era roba forte, ma ero tanto ubriaco da volermi ubriacare di più. «Sono sbronzo!» dissi a Steve. «Sono borracho. Sono aplastaaa-do.»
«Sei sbronzo di sicuro» disse Steve. «Guarda quell’argento.» Indicò le pesanti collane di una donna degli sciacalli «Guardalo!» Bevve una lunga sorsata. «Hanker, questa gente è ricca. Può fare quasi tutto ciò che più gli piace, non credi? Può andare dove vuole, essere quel che vuole, no? Dobbiamo procurarci un po’ di argento. In un modo o nell’altro, dobbiamo procurarcelo. La vita non è solo faticare per il cibo nello stesso posto un giorno dopo l’altro, Henry. Così vivono gli animali. Ma siamo esseri umani, Hanker, siamo uomini, non dimenticarlo, e Onofre non è abbastanza grande per noi, non possiamo vivere tutta la vita nella valle a ruminare come vacche. Ruminare e aspettare che ci gettino in un forno e ci microondino… uhm… dammene ancora un sorso, Hanker, amico mio. M’è venuta una sete terribile.»
«La mente è il luogo stesso» dichiarai in tono solenne, passandogli la fiasca. Eravamo già pieni, ma quando arrivarono Gabby, Rebel, Kathryn e Kristen, ci mettemmo poco ad aiutarli a svuotare un’altra fiasca. Per un po’ Steve lasciò perdere l’argento e s’impegnò in un bacio; i capelli rossi di Kathryn coprirono lo spettacolo. La banda attaccò di nuovo a suonare: tromba, clarinetto, due sassofoni, batteria, contrabbasso; cantammo seguendo la musica: Waltzing Matilda, Oh, Susannah, I’ve Just Seen a Face. Arrivò Melissa e si sedette accanto a me. Aveva bevuto e fumato. La circondai con il braccio; voltandosi appena, Kathryn mi strizzò l’occhio. Altra gente si radunò intorno all’albero arancione, mentre la banda si scaldava; in poco tempo riuscimmo a vedere solo gambe. Giocammo a indovinare il villaggio di provenienza dei vari gruppi giudicando solo dalle gambe; poi ci mettemmo a ballare intorno all’albero insieme con gli altri.
Molto più tardi ci avviammo verso il nostro campo. Mi sentivo da re. Ci aprimmo la strada fra gente che cantava, restituimmo le fiasche all’uomo dei liquori, barcollammo nel viale reggendoci l’un l’altro e cantando High Hopes fuori tempo con la musica sempre più lontana.
A metà strada andammo a sbattere contro un gruppo che usciva da sotto gli alberi. Finii a gambe levate. «Chinga» dissi, rialzandomi a fatica. Grida e rumori di zuffa. Alcuni finirono a terra, si rialzarono fra mulinare di pugni e urla rabbiose. «Che diavolo…» I due gruppi si separarono e rimasero a fronteggiarsi bellicosamente; alla luce di una lanterna lontana vidi che si trattava della banda di San Clemente: avevano tutti l’identica camicia a strisce rosse e bianche.
«Oh» disse Steve, con voce che trasudava irritazione e disgusto. «Sono loro.»
Uno dei loro caporioni, un tipo maligno colpito da un sasso, avanzò sotto un raggio di luce e ghignò sgradevolmente. Aveva lacerazioni ai lobi delle orecchie, perché portava orecchini anche durante le zuffe; ma l’esperienza non l’aveva reso più accorto: infatti aveva due orecchini d’oro all’orecchio sinistro e due d’argento al destro.
«Ciao, Ghigno di bambola» disse Steve.
«I bambini non dovrebbero venire di notte a Clemente» disse lo sciacallo.
«Cos’è Clemente?» replicò Steve, con indifferenza. «A nord da noi ci sono solo rovine, rovine, rovine.»
«I bambini rischiano di spaventarsi. Rischiano di sentire un suono.» Ghigno di bambola attaccò e gli altri alle sue spalle cominciarono e canticchiare a bocca chiusa un motivo sempre più forte, uhnnnnnn-eeeeeehhhhhhh, che scendeva e saliva: la sirena da noi udita quella notte. Quando smisero, il caporione disse: «Non ci piace gente come voi nella nostra città. La prossima volta non ne uscirete così facilmente…»
Steve si esibì nel suo ghigno selvaggio. «Negli ultimi tempi avete trovato qualche buon cadavere da mangiare?» chiese agli sciacalli, in tono innocente. Subito tutti lo assalirono; Gabby e io fummo costretti ad affiancarlo e a menare forte per impedire che lo circondassero, anche se Steve faceva un buon lavoro contro le loro rotule con i pesanti stivali. Mentre la zuffa divampava a tutto spiano, si mise allegramente a urlare: «Avvoltoi! Mangiacarogne! Frugamacerie! Zopilotes!» Fui costretto a stare all’occhio, perché erano più di noi e sembrava che avessero anelli a ogni dito…
Gli sceriffi ci furono addosso urlando: «Che succede? Fermi… Ehi!» Mi ritrovai per terra un’altra volta, come la maggior parte di noi. Iniziai il laborioso processo di rialzarmi. «Voi ragazzi toglietevi di mezzo» disse uno sceriffo. Era rotondo come una botte, trenta centimetri più alto di Steve; l’aveva afferrato per la camicia. «Vi bandiremo per sempre dai raduni, se dovremo sedare di nuovo una zuffa del genere. Ora filate, prima che vi rompiamo il muso per darvi modo di riflettere.»
Ci unimmo di nuovo alle ragazze… Kristen e Rebel si erano gettate nella mischia, ma le altre erano rimaste in disparte. Ci allontanammo tutti insieme lungo il viale. Dietro di noi, la banda di Clemente iniziò a fare la sirena: uhnnnnnneeeeeeee-uhnnnnnneeeeeeeeeeee-uhnnnnnnnnnnneeeeeeee…
«Maledizione!» disse Steve, stringendo il braccio intorno a Kathryn. «Gliele avremmo suonate anche noi.» Kathryn aveva aggrottato le sopracciglia, con aria disgustata; ma a questa uscita fu costretta a ridere.
«Erano il doppio di noi» notò.
«Ma è proprio quel che volevamo, Katie.»
Convenimmo tutti che li avevamo messi alle strette e tornammo di buonumore al campo. Melissa mi prese a braccetto, rallentò; in breve ci trovammo più indietro degli altri. Intuendo qualcosa, deviai dal viale in un boschetto. Mi fermai e mi appoggiai contro un alloro.
«Eri magnifico, mentre facevi a pugni» disse Melissa. A quel punto già ci baciavamo. Dopo alcuni lunghi baci, lei sembrò scaricare su di me tutto il suo peso e io mi lasciai scivolare lungo l’albero, graffiandomi la schiena contro la corteccia. Rimasi disteso in mezzo alle foglie, mezzo sopra di lei, mezzo a fianco, con una gamba fra le sue, in una posizione goffa che però mi faceva pulsare il sangue. Ci baciavamo senza tregua, mugolando. Cercai di infilarle la mano negli slip, ma non arrivavo molto lontano; allora la infilai sotto la camicia e le strinsi un seno. Lei mi mordicchiò il collo; un brivido mi percorse tutto il corpo. Qualcuno con la lanterna passò lungo il viale; per un secondo riuscii a scorgere la spalla di Melissa: cotone spiegazzato, bianco sporco contro la pelle chiara, la curva del seno sollevato… e di nuovo baci, con quell’immagine ben chiara nella mente.
Melissa si ritrasse. «Ohhh» sospirò. «Henry, ho detto a papà che sarei tornata subito. Comincerà a cercarmi, se non mi sbrigo a tornare.» Mise il broncio, riuscivo appena a scorgerlo nel buio; feci una risata e lo baciai.
«D’accordo, un’altra volta.» Ero troppo sbronzo per sentirmi deluso, visto che cinque minuti prima non m’aspettavo niente del genere e che era facile riprovarci. Tutto era facile. L’aiutai a rialzarsi, mi tolsi un pezzo di corteccia dalla schiena. E risi.
Accompagnai Melissa al campo; dopo un ultimo e rapido bacio, la lasciai accanto al banco del padre. Tornai nei cespugli a spandere acqua. Lontano, fra gli alberi, vedevo ancora i campi degli sciacalli ondeggiare alla luce dei falò e riuscivo a udire debolmente un gruppo di gente che cantava America the Beautiful. Cantai con loro sottovoce, un accompagnamento perfetto che udivo solo io; e l’antico motivetto mi riempì il cuore.
Tornato sul viale davanti al nostro campo, vidi il vecchio che parlava con due forestieri vestiti con insoliti soprabiti scuri. Il vecchio faceva domande, ma non riuscivo a distinguere le parole. Chiedendomi chi fossero, tornai barcollando al mio giaciglio. Mi sdraiai, con la testa che girava, e fissai i rami neri contro il cielo, ogni ago di pino netto come un tratto d’inchiostro. Pensavo di addormentarmi in un istante, ma c’erano dei rumori: qualcuno schiacciava in continuazione le foglie, crick, crick, crick, crick… nel punto in cui dormiva Steve. Tesi l’orecchio; dopo un poco, udii un respiro affannoso e una fievole, ritmica espirazione, huh, huh, huh… la voce di Kathryn. Ero di nuovo eccitato. Non sarei riuscito ad addormentarmi. Rimasi in ascolto per un minuto, sentendomi strano; mi alzai rumorosamente, stizzito; andai sul davanti del campo, dove il fuoco era ridotto a una massa di braci calde. Mi sedetti a guardarle passare dal grigio all’arancione a ogni alito di vento, eccitato e invidioso e ubriaco e felice.
All’improvviso il vecchio piombò nel campo; sembrava parecchio più sbronzo di me. Il ciuffo di capelli gli ondeggiava intorno alla testa come fumo. Mi vide e si accosciò accanto al fuoco. «Hank» disse, con voce insolitamente eccitata. «Ho appena parlato con due uomini venuti a cercarmi.»
«Ti ho visto insieme a loro. Chi erano?»
Mi guardò; gli occhi iniettati di sangue riflettevano la luce del fuoco. «Hank, quei due vivono a San Diego. E sono venuti fin qui; per meglio dire, fino a sud di Onofre. Hanno parlato con Recovery Simpson e ci hanno seguiti al raduno per parlare con me, non è bello? Le voci girano, capisci, si viene sempre a sapere chi è il più anziano del villaggio…»
«Gli uomini.»
«Sì. Quei due dicono di essere venuti da San Diego a Onofre in treno!»
Restammo a fissarci da sopra il fuoco; alcune fiammelle si alzarono. La luce danzò selvaggiamente nei suoi occhi. «Sono venuti in treno.»
Alcuni giorni dopo il ritorno dal raduno, Pa’ e io ci svegliammo al rumore della pioggia che tamburellava con violenza sul tetto. Mangiammo una pagnotta intera e accendemmo un bel fuoco; ci sedemmo a rammendare, ma la pioggia batteva sul tetto con violenza sempre maggiore e fuori, nel grigiore generale, il grande eucalipto si scorgeva a malapena. Sembrava che l’oceano avesse deciso di avventarsi su di noi e di spazzarci via: le colture più giovani se ne sarebbero andate per prime: piante, paletti, il terriccio stesso.
«Bisognerà stendere i teloni, a quanto pare» disse Pa’.
«Ah, non c’è dubbio» risposi. Alla luce del fuoco tirammo fuori i vestiti da pioggia e girammo nella stanza scura chiacchierando emozionati. Fra il rumore degli scrosci udimmo il debole richiamo della tromba di Rafael, un suono continuo, alto-basso-alto-basso-alto-basso.
Indossammo i vestiti da pioggia e ci precipitammo fuori; nel giro di qualche secondo eravamo inzuppati fradici. Pa’ corse al ponte, diguazzando nelle pozzanghere. Al ponte, alcune persone, rannicchiate sotto ponchos e ombrelli, aspettavano l’arrivo dei teloni impermeabili. Pa’ e io corremmo allo stabilimento per i bagni; il sentiero del fiume era adesso un torrentello che costeggiava il corso d’acqua scuro e spumeggiante. Incontrammo gruppi di tre, quattro persone che avanzavano goffamente sotto il peso di un grosso telone impermeabile. Nel capannone dello stabilimento i Mendez, Mando e Doc Costa, Steve e Kathryn, sollevavano i teloni arrotolati e li mettevano in spalla al primo che capitava. Spronato dalla voce acuta di Kathryn, mi affrettai ad afferrare l’estremità di un rotolo. La ragazza teneva sotto il suo gruppo, non c’era dubbio. E pioveva come se il mondo si trovasse sotto una cascata.
Collaborai a trasportare tre teloni, nei campi coltivati, al di là del ponte. Era il momento di stenderli. Mando e io andammo a un capo del rotolo — plastica arrotolata alla buona, trasparente un tempo, ora opaca per il fango — e ci chinammo per infilarvi sotto le braccia. La pioggia mi si riversò sul fondo schiena e nei calzoni; il poncho mi svolazzava sulle spalle. Gabby e Kristen erano all’altro capo del rotolo; sistemammo il telone al limitare inferiore di una fila di cavoli cappucci. Lo srotolammo poco alla volta, brontolando per lo sforzo e gridandoci istruzioni, risalendo i solchi, nell’acqua fino alla caviglia. Il campo si estendeva in lieve salita davanti a noi, nero e gibboso. Pozze grigie d’acqua rimbalzavano sotto l’assalto furioso della pioggia, dove la pendenza non era giusta. Srotolato tutto il telone, avevamo appena coperto l’ultima fila di cavoli. Nel ritorno, vidi che un certo numero di piante si piegava nei solchi. Un sistema di protezione ben misero, ma non ne avevamo di migliori. Più in basso, figurette ingobbite srotolavano altri teloni di plastica: gli Hamlish, gli Eggloff, Manuel Reyes e il resto dei contadini di Kathryn, più Rafael e Steve. Dietro di loro il fiume ribolliva, diluvio marrone punteggiato di tronchi e di arbusti. Passò una nuvola più sottile; per un attimo la luce cambiò, tanto che ogni cosa rosseggiò tra i veli screziati della pioggia. Poi, con la stessa subitaneità, tornò la luce crepuscolare.
Il vecchio, in fondo a un appezzamento, aiutava a stendere il resto dei teloni e camminava qua e là sotto l’ombrello a spalla, un aggeggio di plastica sorretto sopra la testa da due paletti legati alla schiena. Scoppiai a ridere e sentii in bocca le gocce di pioggia. «Perché non può portare un cappello come tutti?»
«Proprio per questo» disse Mando, con le mani strette sotto le ascelle per scaldarsele. «Vuole essere diverso dagli altri.»
«C’è già riuscito anche senza quella trappola sulla testa.»
Gabby e Kristen ci raggiunsero in fondo al pendio. Gabby era infangato dalla testa ai piedi per una caduta; il suo timido sorriso pareva ancora più bianco per contrasto. Trascinammo un altro rotolo su per la salita. Il vento colpiva gli alberi più in alto; i rami sobbalzavano e si piegavano, come se il fianco della montagna fosse un grosso animale che si dibatteva sotto la tempesta, emettendo il suo gemito, uhuuuu, uhuuuu, e facendo sembrare smisurata la valle. L’acqua scorreva sui teloni di plastica già stesi. Nel tornare indietro, Gab e io ci soffermammo a lisciare le grinze al telone in modo che si piegasse correttamente nei solchi. Il canale di scolo alla fine dei campi straripava, ma tanto l’acqua finiva comunque nel fiume.
Tom ci venne incontro. Nonostante l’ombrello, era bagnato in viso come chiunque altro. «Ciao Gabriel, Henry. Ciao Armando, Kristen. Bentornati. Kathryn dice che le serve aiuto per il granturco.»
Risalimmo in fretta la riva del fiume fino ai campi di granturco; avevamo brividi di freddo, battevamo le mani lungo il corpo per scaldarci. Kathryn, al limitare inferiore dei campi, correva da tutte le parti a formare i gruppi, spingeva a calci su per la montagna i rotoli riluttanti, indicava i cedimenti dei teloni già legati. Era nera di fango quanto Gabby. Ci urlò degli ordini: nell’udire il tono acuto della sua voce, ci mettemmo a correre.
I germogli di granturco erano alti due spanne: impossibile stendere i teloni sulle piantine senza romperle. Per ovviare all’inconveniente, a intervalli di qualche metro c’erano blocchi di cemento ai quali legare i teloni di plastica mediante appositi occhielli metallici. Quindi i blocchi dovevano trovarsi in posizione corrispondente agli occhielli. Steve e John Nicolin lavoravano insieme a spostare blocchi e legare nodi. Lì tutti gocciolavano fango nero. Kathryn ci aveva mandati all’estremità superiore del campo; lassù c’erano già le sue due sorelle più giovani, Doc e Carmen Engloff, impegnati con uno dei teloni più stretti. «Ehi, papà, fai rotolare quella roba» disse Mando, mentre ci avvicinavamo.
«Dateci una mano» replicò Doc, stancamente. Loro continuarono a srotolare, mentre noi legavamo ai blocchi il telone. Kathryn aveva posizionato i blocchi alcune settimane prima ed ero stupito quanto fossero vicini alla posizione corretta, però ciascuno doveva essere comunque spostato un poco. Ci vollero un mucchio di scivoloni nel fango prima di sistemarli. Finalmente terminammo di stendere il telone e passammo subito a quello seguente.
Faticammo per un bel pezzo, di nuovo su per il pendio. Raffiche di vento afferravano la plastica e me la strappavano dalle dita gelate. Faceva male, reggerla con forza. Legare i nodi divenne quasi impossibile: mi sentivo frustrato, nel vedere come le mie dita bianche e rosse sbagliassero in continuazione. E da parecchio non sentivo più i piedi. Arrivarono nubi più dense e aumentò l’oscurità. I teloni già stesi mandavano un debole riflesso luminoso. Ginocchioni nel fango, in preda ai brividi, staccai lo sguardo dal nodo per un attimo: il campo era punteggiato di sagome nere, accosciate, striscianti o miserevolmente piegate in due, schiena al vento. Con aria torva strinsi il nodo.
Steso il terzo telone — non eravamo una squadra da record di velocità — la maggior parte dei campi era coperta. Sciaguattando intorno al nostro ultimo telo, scendemmo lungo la sponda del fiume, da Kathryn. Il fiume spinse davanti a noi un pino di Torrey e lo trascinò sotto il ponte. L’albero pareva derelitto, sbatacchiato dalla corrente, con gli aghi ancora verdi, le radici bianche e nude.
Quasi tutti si erano radunati al canale di scolo, sommerso dalla pioggia: venti di noi, o anche più, guardavano i Mendez e i Nicolin correre intorno ai teloni e strisciarvi sotto, a tenderli, allentarli, sistemarli in maniera che drenassero nel modo dovuto. Alcuni si diressero allo stabilimento per i bagni; gli altri rimasero sotto gli ombrelli a parlare dei teloni stesi. I campi ora brillavano, distese di plastica ondulata; la pioggia colpiva i teloni e rimbalzava in aria, ogni goccia si divideva in una miriade di goccioline che subito ricadevano, tanto che la plastica era quasi invisibile sotto lo strato di nebbiolina bagnata. Ruscelli d’acqua si riversavano dai teloni nel canale di scolo, senza portarsi via il fango e il nostro raccolto estivo. Era uno spettacolo soddisfacente.
Sistemati i teloni, attraversammo tutti in gruppo il ponte, diretti allo stabilimento. Nella stanza principale Rafael si era dato da fare; faceva già caldo e i bagni fumavano. Alcuni si congratularono con Rafael per il fuoco, “un magnifico falò al coperto”, come disse Steve. Mentre mi toglievo gli abiti inzuppati, ammirai per la centesima volta il complicato sistema di tubi, pompe e vasche di raccolta escogitato da Rafael per riscaldare l’acqua da bagno. Entrai nella vasca per lo sporco, già piena di gente; era la più calda delle due e l’aria risuonava dei gemiti di piacere dei bagnanti scottati. Non sentivo i piedi, ma il resto bruciava. Poi il calore penetrò nella pelle e mi sembrò di avere, al posto dei piedi, due dei puntaspilli di Pa’. Ululai a gran voce. Il foglio di lamiera che formava il fondo della vasca era bollente; la maggior parte di noi si teneva a galla, si urtava, si schizzava, parlava della tempesta. Rafael pompava acqua a tutta velocità, con un ghigno da rana.
Il bagno pulito aveva sedili di legno fissati alle pareti; presto la gente vi si raccolse intorno, chiacchierando e rilassandosi nel tepore. Il rumore sordo della pioggia sul tetto di lamiera ondulata soffocava di tanto in tanto le chiacchiere; l’intensità del rumore era un segno esatto della violenza della pioggia; quando divenne più intenso, la gente smise di parlare e rimase in ascolto. Alcuni avevano collaborato a stendere i teloni prima ancora di coprire il proprio orto; si rimisero gli abiti bagnati (se non ne tenevano uno di scorta nello stabilimento) e uscirono, assicurandoci che sarebbero tornati in un baleno. E c’era da crederlo.
La luce del fuoco lanciava sul soffitto l’ombra danzante del sistema di tubazioni; le pareti d’assi brillavano del colore del fuoco. Tutti avevano la pelle arrossata. Le donne erano bellissime: Carmen Eggloff metteva sterpi sul fuoco e le costole le risaltavano sulla schiena; le ragazze si tuffavano come foche attorno a un sedile; Kathryn parlava, in piedi davanti a me, soda e tonda, la pelle lentigginosa imperlata di goccioline; la signora Nicolin si dimenava e strillava, mentre John le schizzava addosso acqua calda in una rara esibizione d’allegria. Me ne stavo seduto nel mio solito angolo, contento, ad ascoltare Kathryn e a guardarmi intorno: una stanza di animali dalla pelle di fuoco, bagnata e fumante, la chioma scompigliata, belli come cavalli.
La maggior parte ormai usciva dalla vasca e Carmen distribuiva la sua collezione d’asciugamani, quando una voce chiamò dall’esterno.
«Ehilà! Ehi, lì dentro!»
Tutti si zittirono. Nel silenzio (tamburellare sul tetto) udimmo con maggiore chiarezza: «Ehi, lì dentro! Salve a tutti! Siamo viaggiatori, veniamo dal sud! Americani!»
Istintivamente le donne, e gran parte degli uomini, afferrarono asciugamani o vestiti. M’infilai i calzoni infangati e freddi, seguii Steve alla porta. Tom e Nat Eggloff erano già sulla soglia; Rafael si unì a noi, ancora nudo; reggeva una pistola. John Nicolin si fece strada fra noi, tirandosi su le mutande, e uscì fuori.
«Cosa vi porta da queste parti?» chiese. Non riuscimmo a udire la risposta. L’attimo dopo, Rafael riaprì la porta. Due uomini con il poncho precedettero John all’interno; parvero sorpresi nel vedere Rafael. Erano inzuppati fradici, e per questo sembravano stanchi e male in arnese. Uno, pelle e ossa, aveva il naso lungo e una sottile striscia di barba nera lungo la mascella. L’altro, basso e tozzo, portava sotto il poncho un berretto floscio e bagnato. Si tolsero il poncho e misero in mostra giacche scure e calzoni bagnati. Il basso vide Tom e disse: «Ciao, Barnard. Ci siamo incontrati al raduno di scambio, ricordi?»
Tom disse: «Sì.» Si strinsero la mano. Poi i due diedero la mano a Rafael (comica, la scena), a John, a Nat, a Steve e a me. Senza darlo molto a vedere, esaminarono il locale. Tutte le donne erano vestite o avvolte negli asciugamani; restavano solo il fuoco, le vasche fumanti e alcuni uomini nudi che luccicavano come pesci fra noi con qualcosa indosso.
Il basso mosse la testa in una sorta d’inchino. «Grazie per averci fatti entrare. Veniamo da San Diego, come il signor Barnard qui presente vi spiegherà.»
Restammo a fissarli.
«Siete venuti in treno?» chiese Tom.
I due annuirono. Il magro rabbrividì. «Siamo arrivati con i carri fino a otto chilometri da qui» disse. «Abbiamo lasciato lì la nostra squadra e proseguito a piedi. Prima di sistemare altri tratti di binario volevamo parlarne con voi.»
«Pensavamo di arrivare prima» disse il basso. «Ma la tempesta ci ha rallentati.»
«Perché siete andati in giro con questo tempo, allora?» chiese John Nicolin.
Il basso esitò. «Preferiamo viaggiare quando il cielo è coperto. Così dall’alto non possono vederci.»
John piegò di lato la testa, lo fissò a occhi socchiusi. Non capiva.
«Se volete fare un tuffo nell’acqua calda» disse Tom «accomodatevi.»
Il magro scosse la testa. «Grazie, ma…» Si scambiarono un’occhiata.
«Sembra calda» osservò il basso.
«Già» disse l’altro, annuendo un paio di volte. Aveva ancora i brividi. Si guardò intorno, impacciato, poi disse a Tom: «Ci scalderemo al fuoco, se non vi dà fastidio. Abbiamo camminato sotto l’acqua e vorremmo asciugarci.»
«Certo, certo. Fate come volete, siete a casa vostra.»
John non parve molto contento della frase di Tom, ma accompagnò i due accanto al fuoco. Carmen aggiunse altra legna. Steve mi diede di gomito. «Hai sentito? Un treno per San Diego? Possiamo andare laggiù a fare un giro!»
«Credo di sì» risposi.
I due si presentarono: il magro si chiamava Lee; il basso, Jennings. Jennings si tolse il berretto, mise in mostra capelli biondi e arruffati; poi si tolse il poncho, la giacca, la camicia, gli stivali e i calzini. Stese il tutto ad asciugare; in piedi, allungò le mani verso il fuoco.
«Sono settimane che sistemiamo i binari a nord di Oceanside» ci disse. Lee cominciò a togliersi gli abiti bagnati, imitando il compagno. Jennings continuò: «Il Sindaco di San Diego ha organizzato squadre di lavoro di vario genere, e noi abbiamo il compito di migliorare le vie di comunicazione con le città circostanti.»
«È vero che San Diego conta duemila abitanti?» chiese Tom. «Lo dicevano a un raduno di scambio.»
«Sì, più o meno» annuì Jennings. «E da quando il Sindaco ha iniziato a riorganizzare le cose, abbiamo compiuto un bel po’ di progressi. I vari insediamenti sono distanziati, ma collegati da un sistema rotabile che funziona bene. Solo carrelli a mano, capite, anche se abbiamo generatori che forniscono una buona quantità di energia elettrica. Ci sono raduni di scambio ogni settimana, una flotta peschereccia, una milizia territoriale… tutte cose che c’erano una volta. Naturalmente Lee e io siamo particolarmente orgogliosi della squadra d’esplorazione. Pensate, abbiamo ripulito la Statale 8, attraverso le montagne fino al lago Salton Sea, e vi abbiamo trasferito le rotaie.» Qualcosa, nel modo in cui Lee si mosse davanti al fuoco, indusse Jennings a tacere per qualche istante.
«Il Salton Sea sarà enorme, ora» disse Tom.
Jennings lasciò rispondere Lee. Il magro annuì. «Ora è d’acqua dolce, ricco di pesci. La gente lì se la cava abbastanza bene, tenendo conto che erano rimasti quattro gatti.»
«Perché siete venuti qui?» chiese John Nicolin, bruscamente.
Mentre Lee fissava John, Jennings diede un’occhiata ai presenti. Tutti, nella stanza, lo scrutavano attentamente e ascoltavano quel che aveva da dire. Lui parve compiacersene. «Be’, abbiamo la ferrovia su fino a Oceanside» spiegò. «E le rotaie malandate proseguono a nord, per cui abbiamo deciso di rimetterle in funzione.»
«Perché?» insistette John.
Jennings piegò la testa, imitando l’atteggiamento di John. «Meglio che lo chiediate al Sindaco, l’idea è stata sua. Vedete…» e lanciò un’occhiata a Lee, quasi a chiedere il permesso di continuare. «Sapete anche voi che i giapponesi ci sorvegliano sulla costa occidentale?»
«Certo» rispose John.
«Difficile non accorgersene» aggiunse Rafael. Aveva messo via la pistola e si era seduto sul bordo della vasca.
«Ma non mi riferisco solo alle navi al largo» disse Jennings. «Parlo anche del cielo. I satelliti.»
«Le telecamere?» disse Tom.
«Certo. Avete già visto i satelliti?»
Li avevamo visti. Tom ce li aveva indicati: puntini di luce in rapido movimento, simili a stelle, che si staccavano dall’orbita e ricadevano, mentre l’universo continuava a muoversi. E ci aveva anche detto che erano muniti di telecamere. Però…
«I satelliti hanno telecamere che riescono a distinguere anche cose non più grandi di un topo» disse Jennings. «Ci tengono sul serio gli occhi addosso.»
«Uno può alzare il viso e dire «Andate al diavolo», e loro glielo leggono sulle labbra» aggiunse Lee, con una risata a denti stretti.
«Verissimo» riprese Jennings. «E di notte hanno telecamere sensibili al calore, che rilevano oggetti piccoli come questo tetto, se in una notte serena tenete acceso il fuoco.»
Qualcuno scuoteva la testa, incredulo; ma sembrava che Tom e Rafael ci credessero. Quando gli altri lo notarono, ci furono commenti rabbiosi. «Te l’avevo detto!» sbottò Doc, rivolto a Tom. Nat, Gabby e un paio d’altri guardarono il tetto, sgomenti. L’idea di essere sorvegliati così attentamente era orribile, in un certo modo.
I forestieri portano sempre qualche notizia, si dice; ma quei due erano davvero fuori dell’ordinario. Mi chiesi se Tom l’avesse sempre saputo e non si fosse mai preso la briga di raccontarcelo, oppure se anche lui era all’oscuro. Dall’espressione, si sarebbe detto che sapesse. Dubitavo che una simile sorveglianza cambiasse la situazione, in termini di vita pratica; ma certamente era orribile, un’intrusione permanente. E nel contempo, affascinante. John guardò Tom, per avere conferma. Il vecchio gli rivolse un breve cenno d’assenso. John disse: «E voi come lo sapete? E, ripeto, cosa c’entra con la vostra venuta?»
«Abbiamo appreso alcune cose da Catalina» disse Jennings, tenendosi sul vago. «Ma non finisce qui. È chiaro che la politica dei musi gialli tende anche a mantenere isolate le nostre comunità. I musi gialli non vogliono l’unificazione, su nessuna scala. Quando abbiamo portato la ferrovia sulla Statale 8 est…» si gonfiò di sdegno al ricordo «abbiamo costruito alcuni ponti grossi e robusti. Una sera, verso il tramonto, bum, li hanno fatti saltare.»
«Cosa?» esclamò Tom. Alle parole “fatti saltare” era trasalito.
«Non fanno tanta scena» disse Jennings.
Lee sbuffò nel sentire la frase. «È vero. Sempre al crepuscolo: dal cielo arriva una scia rossa e, thunk, il ponte è distrutto. Senza la minima esplosione.»
«Bruciato?» chiese Tom.
Lee annuì. «Un calore tremendo. Le rotaie fondono, il legno incenerisce all’istante. A volte nei dintorni si sviluppa un incendio, ma in genere non succede.»
«Non ci accampiamo spesso nei pressi dei ponti» ridacchiò Jennings. «Potete ben immaginarlo.» Ma nessuno rise con lui. «Comunque, quando il Sindaco l’ha saputo, è diventato matto. Voleva completare la ferrovia, e al diavolo i bombardamenti! I contatti con altri americani sono un diritto divino, ha detto. Visto che per il momento loro hanno tutte le carte vincenti, e ci bombardano appena ci scorgono, dobbiamo solo fare in modo che non ci vedano. Sono le sue parole.»
«Ci andiamo sul serio con i piedi di piombo» disse Lee, con improvviso entusiasmo. «Gran parte dei piloni dei vecchi ponti esiste ancora; noi ci limitiamo a stendervi sopra delle travi e poi le rotaie. I carrelli a mano sono leggeri e non hanno bisogno dì supporti robusti. Attraversato il fiume, portiamo con noi travi e rotaie; le nascondiamo sotto gli alberi, così non resta segno del nostro passaggio. A furia di fare pratica, riusciamo ad attraversare in un paio d’ore i fiumi più facili.»
«Certo, non sempre funziona» aggiunse Jennings. «Una volta, nelle vicinanze di Julian, le scie rosse hanno bruciato i piloni fino a livello d’acqua.»
«Se sanno che ci diamo da fare, ci tengono d’occhio più attentamente» disse Lee. «Ma non ne siamo sicuri, non ci sono prove. Il sindaco dice che forse ci sono disaccordi sul modo di trattarci. Oppure la sorveglianza è saltuaria. Così non possiamo fare previsioni accurate. Però evitiamo di accamparci nelle vicinanze dei ponti.»
Il fatto che quei due si battessero contro i giapponesi, per quanto indirettamente, zittì tutti, nella stanza. Jennings si beava per come li guardavamo, Lee non ci badava. Dopo qualche istante, John continuò: «E ora che siete riusciti ad arrivare quassù, cosa vorrà mai da noi il vostro sindaco?»
Lee aveva cominciato a lanciare a John occhiate sempre più penetranti, ma Jennings rispose in tono amichevole: «Be’, dirvi salve, credo. Far vedere che ciascuno può accorrere in fretta dall’altro, se ce ne fosse bisogno. E si augurava che vi convincessimo a mandare un funzionario della vostra valle a discutere di accordi commerciali e cose del genere. E poi c’è la faccenda di estendere la ferrovia ancora più a nord: per questo occorrono ovviamente il vostro permesso e il vostro aiuto. Il Sindaco è molto ansioso di portare la ferrovia su fin nel bacino di Los Angeles.»
«Gli sciacalli dell’Orange County lì sarebbero un bel guaio» disse Rafael.
«Nella nostra valle non esistono funzionari» replicò John, bellicoso.
«Un portavoce della popolazione, allora» disse Jennings in tono mite.
«Il Sindaco vuole anche parlare di questi sciacalli» intervenne Lee. «A quanto ho capito, non vi vanno molto a genio, giusto?» Nessuno rispose. «Neppure a noi sono simpatici. Pare che aiutino i musi gialli.»
Steve mi aveva già dato tante di quelle gomitate che le costole mi dolevano; adesso quasi me ne ruppe una. «Hai sentito?» disse, in un mormorio feroce. «Sapevo che quegli zopilotes avevano cattive intenzioni. Ecco dove si procurano l’argento!» Kathryn e io lo zittimmo, per ascoltare il resto della discussione.
Mancava qualcosa: il tetto era silenzioso. La pioggia era cessata, almeno per il momento. Quelli che volevano andare a casa senza bagnarsi s’informarono e scoprirono che Lee e Jennings contavano di fermarsi un paio di giorni. Perciò parecchi raccolsero poncho e stivali e uscirono. Tom invitò i due di San Diego a fermarsi a casa sua; accettarono subito. Pa’ mi venne vicino.
«Ti va bene se andiamo a casa e mangiamo adesso?»
Sembrava che la discussione fosse terminata, per cui risposi di sì.
Uscimmo lentamente, come confusi. I forestieri ci avevano detto un mucchio di cose mai sentite neppure ai raduni di scambio; ci girava la testa e divenne difficile perfino trovare gli abiti asciutti che molti tenevano nello stabilimento. Dopo tutti i progetti elencati da Lee e da Jennings, il locale dei bagni sembrava una cosa ben misera. Pa’ e io indossammo di nuovo gli abiti umidi, perché non ne avevamo tanti da tenerne lì uno di riserva; tornammo a casa in fretta, seguendo il fiume scuro e rumoroso. Prima d’arrivare, già piovigginava di nuovo. Accendemmo un bel fuoco e ci sedemmo sui lettini a mangiare pesce secco e tortillas, chiacchierando dei forestieri e del treno.
«Forse porteranno la ferrovia fino al nostro ponte» dissi. «Sono sicuro che è abbastanza robusto; e poi, non potrebbero mai arrivare dove c’era il vecchio ponte con i binari.» Rotaie piegate e sporgenti sul ciglio del fiume segnavano il posto. «Secondo Tom, il fiume è tre volte più largo di prima.»
«Un’idea magnifica» disse Pa’, con ammirazione. «A te le buone idee vengono sempre, Hank. Dovresti parlarne con loro.»
«Può darsi.»
Mi addormentai pensando a treni e a ponti fatti solo di binari.
La mattina dopo, ripescavo dal nostro orto verdure sommerse, quando scorsi Kathryn percorrere il sentiero, di nuovo fangoso, reggendo in mano un mazzo di malridotte piantine di granturco. Aveva certo arrotolato i teloni; e, se aveva già terminato, lei e la sua squadra avevano iniziato a lavorare alle prime luci, perché non c’era mai molta gente disposta a raccogliere i teli. A stenderli collaboravano in molti, ma riportarli nella tettoia era un compito che più o meno toccava alla squadra. Quindi Kathryn aveva già visto i danni. Da come camminava, capivo che era inferocita. Il cane dei Mendez corse fuori e le abbaiò allegramente; lei gli rifilò una pedata e un’imprecazione. Il cane scivolò per evitare il calcio e latrò, poi tornò nell’orto. Kathryn si fermò sul sentiero; si mise a imprecare, poi con il pesante stivale prese a calci la base del grosso eucalipto, thump thump thump thump. Meglio evitare di darle il buon giorno: le avrei parlato in un altro momento. Kathryn proseguì, sempre imprecando.
Dalla direzione opposta comparve Tom. «Henry!» chiamò. Lo salutai con la mano mentre si avvicinava.
Si fermò a guardarmi con uno scintillio negli occhi. «Henry, ti piacerebbe un viaggetto a San Diego?»
«Eh? Certo! Ma come?»
Rise e sedette sulla mezza botte del nostro orto. «Ieri notte ho parlato con John, Rafe, Carmen e i due di San Diego; abbiamo deciso che andrò laggiù a sentire quel loro Sindaco. Non voglio andare da solo, ma gli adulti lavorano tutti. Allora ho pensato che a te forse non sarebbe dispiaciuto.»
«Dispiaciuto!» Gli girai intorno. «Dispiaciuto!»
«Mi pareva di no. Possiamo fare con tuo padre una sorta d’accordo.»
«Ah, sì?» disse Pa’, guardando da dietro l’angolo di casa. Sorrise, venne avanti portando due secchi d’acqua. «Di cosa si tratta?»
«Be’, Sky, voglio noleggiare tuo figlio per un viaggio.»
Pa’ posò i secchi e si tirò i baffi, mentre Tom spiegava. Discussero sul valore di una mia settimana di lavoro: convennero che non era molto, ma non erano d’accordo su quanto poco fosse; alla fine stabilirono un accordo in base al quale Tom si avvaleva dei miei servizi in cambio del necessario a ottenere la macchina per cucire vista da Pa’ a un raduno, due mesi prima.
«Anche se la macchina non funziona, d’accordo, Sky?» disse Tom.
«D’accordo. Mi serve soprattutto perché Rafe ci ricavi i pezzi di ricambio.»
E Tom doveva ancora trattare con John Nicolin per la mia assenza alla pesca.
«Ehi!» dissi. «Devi chiedere anche a Steve di venire.»
Tom mi guardò. Si grattò la barba. «Sì… dovrei chiederglielo.»
«Ah!» disse Pa’.
«Sì. Non so cosa dirà John, ma tu hai ragione. Se lo chiedo a te, devo chiederlo anche a Steve. Vedremo come andrà a finire. Al termine della pesca, chiedi a John quando posso andare a parlargli di San Diego. Ma non dire ancora niente a Steve, altrimenti lo chiederà lui a John, non io. E sarebbe la mossa sbagliata.»
Ero d’accordo. Poco dopo, me ne andai di corsa verso la scogliera, canticchiando: San Diego, Saaan Dieee-gooo. Sulla spiaggia chiusi il becco e passai il pomeriggio a pescare come al solito. Tornati a riva, dissi a John: «Tom vorrebbe parlarti a proposito degli uomini del treno, signore. Si chiede a che ora ti farebbe piacere che venissimo a trovarti.»
«Quando vuole, se non sono quaggiù» disse John, nel suo modo brusco. «Digli di venire stasera» aggiunse. «A cena da noi. E vieni anche tu.»
«Grazie, signore» risposi. Con aria di mistero strizzai l’occhio a Steve e risalii la scogliera. Corsi sul sentiero del fiume, calpestando tutte le pozzanghere. A San Diego! A San Diego in treno!
Più tardi, quel pomeriggio, il vecchio e io scendemmo il sentiero del fiume fino alla casa dei Nicolin. La valle aveva la forma di una coppa verde piegata su un lato per scaricarci nel mare. L’aria odorava di terra bagnata e alberi umidi. In alto i corvi gracchiavano, si tuffavano in picchiata, battevano pigramente le ali per tornare al nido. Non c’era una nuvola: niente, tranne la nitida cupola azzurra di prima sera. Ovviamente eravamo pieni d’entusiasmo. Saltavamo le pozzanghere, ci scambiavamo battute scherzose, parlavamo della cena che ci aspettava.
«Muoio di fame» dichiarò il vecchio. «Muoio di fame!» Agitò il braccio per salutare Marvin Hamish e Nat Eggloff, che pescavano in una pozza sull’altra riva del fiume. «Non ho mangiato un boccone da quando mi hai detto che eravamo invitati.»
«Ma è stato solo due ore fa!»
«Certo, però ho saltato il tè.»
Svoltammo nel viottolo che portava alla casa dei Nicolin, visibile fra gli alberi appena passata l’autostrada.
Era la casa più grande della valle, posta in un bel tratto di terra disboscata, subito dietro la parte più alta della scogliera. Il cortile era piantato a erba di canyon; la casa a due piani, con il tetto a tegole, si alzava sul prato verde (ben lontano dalla rimessa, dalle cucce dei cani e dalle stie di polli) come un residuo dei vecchi tempi. Gli scuri inquadravano finestre a vetri; c’erano ampie grondaie sopra le porte e un comignolo di mattoni. Il fumo si alzava nel cielo azzurro fiume, lampade risplendevano dietro le finestre. Tom e io ci scambiammo un’occhiata e ci avvicinammo al batacchio.
Prima di toccarlo, la signora Nicolin spalancò la porta. «Qui è tutto sottosopra» esclamò. «“Non fateci caso, entrate, entrate.»
«Grazie, Christy» disse Tom. «La casa sarà anche sottosopra, ma tu sei magnifica come sempre.»
«Oh, bugiardo» disse la signora Nicolin, ricacciandosi indietro un ricciolo folto e nero. Ma Tom era sincero: Christy Nicolin aveva un bel viso, forte e gentile; era alta e snella, anche dopo sette figli. Steve aveva preso molto da lei, più che dal padre: la statura, il naso affilato, la mascella volitiva, la linea della bocca. Christy ci indicò la porta alle sue spalle e scosse la testa al soffitto per mostrarci, come al solito, che la giornata era stata troppo faticosa per descriverla o anche solo immaginarla. «Fanno pulizia, dicono. Hanno passato il pomeriggio a fabbricare una zangola, proprio nella mia stanza da pranzo.»
La casa aveva più di dieci stanze, ma solo quella da pranzo aveva una serie di finestroni rivolti a ovest, per cui, a dispetto delle proteste della signora Nicolin, era usata per tutte le operazioni che richiedevano molta luce, soprattutto quando il cortile era bagnato. Tutte le stanze che attraversammo per arrivare a quella sulla facciata della casa contenevano ottimi mobili: letti, tavoli, poltrone che John e Teddy, il fratello dodicenne di Steve, avevano fabbricato a imitazione della roba di una volta. A me la casa sembrava uscita di peso dai libri; quando l’avevo detto a Tom, lui aveva ammesso che era la più simile alle vecchie case di tutte quelle che avesse visto: «Ma non avevano il focolare in cucina, né barili per l’acqua piovana nei corridoi, né pareti e pavimenti e soffitti di legno in ogni camera» aveva spiegato.
Quando arrivammo alla stanza da pranzo, i bambini ne uscirono gridando. La signora Nicolin sospirò e ci invitò a entrare. John e Teddy ramazzavano trucioli e pezzi di legno. Tom e John si strinsero la mano, cosa che facevano solo se l’uno era in visita a casa dell’altro. Le ampie finestre offrivano una magnifica vista sul mare. I raggi obliqui del sole colpivano la base della parete opposta e la polvere di legno a mezz’aria. «Pulite la stanza!» ordinò la signora Nicolin. Si passò le dita fra i capelli, come se solo a fermarsi lì dentro si sentisse sporca. John sollevò un sopracciglio, fingendo stupore, e le tirò un truciolo. Io uscii e attraversai la cucina piena di odori appetitosi, in cerca di Steve. Lo trovai sul retro, impegnato a pulire l’interno della zangola nuova.
«Cosa c’è in ballo?» mi chiese.
Decisi di dirglielo, perché non riuscivo a escogitare un modo per evitarlo. «Jennings e Lee hanno chiesto a Tom dì andare con loro a parlare al sindaco. Tom ha accettato e vuole portare anche noi!»
Steve lasciò cadere sull’erba la zangola. «Portare anche noi? Tu e io?» Annuii. «Uau! Andiamo in giro!» Saltò sulla zangola e agitò le braccia nella danza di vittoria. Si fermò di colpo e si girò a guardarmi. «Quanto staremo via?»
«Circa una settimana, dice Tom.»
Strinse gli occhi, serrò in una linea dura le labbra espressive.
«Cosa ti prende?»
«Mi auguro solo che mi lasci venire, tutto qui. Maledizione! Vengo lo stesso, non importa cosa dice.» Raccolse la zangola e ne tolse gli ultimi trucioli.
Quasi subito la signora Nicolin chiamò tutti in stanza da pranzo e ci sistemò intorno al grande tavolo di quercia: John e lei a capotavola; poi sua nonna Marie, 95 anni e un po’ svanita, Tom, Steve, Teddy ed Emilia, tredici anni, tranquilla e timida, e io; quindi i bambini, i gemelli Virginia e Joe, Carol e Judith, i piccoli della famiglia, accanto alla signora N. John accese le lampade sul tavolo, mentre la signora N. ed Emilia portavano il cibo. La luce giallastra delle lampade formava un netto contrasto con l’azzurro cupo della sera. Deboli immagini riflesse di tutti noi si disegnarono sulle vetrate.
Emilia e la signora N. portarono un piatto dopo l’altro, finché il piano del tavolo quasi scomparve. Tom e io ci scambiammo un calcio di nascosto. Parecchi piatti erano coperti; quando John tolse il coperchio, il vapore si riversò fuori, fragrante del profumo di pollo in salsa rossa. In una grossa ciotola di legno c’era insalata di cavolo cappuccio; in una terrina di porcellana, la minestra. C’erano vassoi di pane e tortillas, e vassoi coperti di pomodori affettati e uova. C’erano boccali di latte di capra e brocche d’acqua.
I profumi m’inebriavano. Dissi: «Signora N., questo è un convivio, un banquet, dovremo tenere gli occhi aperti casomai si manifesti il fantasma di Banquo; ma credo che non lo vedrei nemmeno, occupato a rimpinzarmi fino alle orecchie.»
I Nicolin risero e Tom disse: «Ha ragione, Christy. Di un pranzo così gli irlandesi ne farebbero una ballata.» Ci passammo i vassoi, seguendo le disposizioni della signora N.; riempito il piatto, cominciammo a mangiare; e per un po’ ci fu silenzio, a parte l’acciottolio di posate e di stoviglie. Ben presto Marie attaccò bottone con Tom, perché l’anziana signora si limitava a piluccare pollo e verdure. Tom mandava giù i bocconi con tale rapidità — sembrava che non smettesse un secondo di masticare — da trovare il tempo di parlare tra un morso e l’altro, e mentre riempiva di nuovo il piatto. Marie era contenta di vedere Tom, una delle poche persone non della famiglia che riconosceva regolarmente. «Thomas» chiese con voce acuta «hai visto qualche bel film ultimamente?»
Virginia e Joe ridacchiarono. Tom strappò un morso di pollo come se fosse pane, si chinò a parlare proprio nell’orecchio quasi sordo di Marie. «Ultimamente no, Marie» rispose. Marie ammiccò con aria saputa e annuì; dirimpetto a Tom, Virginia ridacchiò di nuovo.
«Ma Tom, la nonna sbaglia, la nonna sbaglia, non c’è i film…»
«Non ci sono film» la corresse automaticamente la signora N.
«Non ci sono film.»
«Be’, Virginia…» Tom ingollò una cucchiaiata di zuppa di pesce. «Tieni, assaggia la zuppa.»
«Ah, no!»
«Maria parlava dei vecchi tempi.»
«Adesso li confonde.»
«Sì, è vero.»
«Come?» disse Marie, a voce alta, intuendo che il discorso la riguardava.
«Niente, Marie» le gridò Tom all’orecchio.
«Perché fa così, Tom?»
«Virginia!» ammonì la signora N.
«Lascia stare, Christy. Vedi, Virginia, è facile per noi anziani confondere le cose in questo modo. A me succede di continuo.»
«Non è vero. Ma perché?»
«Abbiamo nella testa troppe cose dei vecchi tempi, capisci? Si assommano a quelle attuali e ci confondono.» Mandò giù dell’altro pollo, leccandosi golosamente il sugo dai baffi. «Assaggia questo; il pollo è una squisitezza, cucinato come lo cucina tua madre.»
«Uh, no.»
«Virginia.»
«Mau-ummmmmmm.»
«Mangia la tua razione» brontolò John, alzando lo sguardo dal piatto. Notai la smorfia di Steve. Non aveva detto una parola, dall’inizio del pranzo, anche quando sua madre lo interpellava direttamente. Il fatto mi preoccupava un poco, ma a dire la verità ero distratto dal cibo. Avevo iniziato a mangiare troppo in fretta e rallentai, assaporando meglio ogni boccone; c’erano tanti sapori, aromi, consistenze diverse; ogni forchettata aveva un gusto differente e una sorsata d’acqua dopo ogni boccone mi preparava ai sapori seguenti. Cominciavo a riempirmi, ma non potevo fermarmi. John iniziò a rallentare e parlò, senza rivolgersi a nessuno in particolare, della corrente calda che aveva colpito la costa, con la pioggia del giorno prima. Tom mangiava ancora a quattro palmenti; Virginia disse: «Nessuno te lo ruba, Tom.» Lui ci restò male, ma sorrise ugualmente a Virginia e i bambini risero.
«Mangia un po’ di pollo» mi esortò la signora N. «Prendi ancora del latte.»
«Nemmeno con l’imbuto» risposi.
La piccola Carol cominciò a piangere, Emilia si alzò per sedersi vicino a lei e farle mangiare un po’ di zuppa, imboccandola. L’ambiente era diventato rumoroso; Marie se ne accorse. «Accendi la tivù» gridò, sapendo che le sarebbe valso una risata. Intanto Steve continuava a mangiare in silenzio e John lo notò. Bevvi un’altra sorsata di latte, per rassicurarmi che tutto andasse bene.
Cominciammo a chiacchierare e a piluccare i resti del pranzo. Calmata Carol, Emilia iniziò a portare in cucina i piatti sporchi. «Stasera tocca anche a te» ricordò a Steve la signora N. Senza rispondere, Steve si alzò e portò via i piatti. Quando il tavolo fu quasi sparecchiato, portarono more con panna e un’altra brocca di latte. Tom mi rifilò un calcio, sbatté le sopracciglia come ali. «Hanno un’aria meravigliosa, Christy» disse devotamente.
Divorammo le more con panna. I bambini ebbero il permesso di allontanarsi con la nonna; John e la signora N., Steve ed Emilia, Tom e io restammo seduti, girandoci a fronteggiare la finestra. Da un armadietto John prese una bottiglia di acquavite e sorseggiammo il liquore, guardando il nostro riflesso sui vetri. Formavamo un quadro buffo. Steve quella sera non parlava, Emilia non parlava mai: gran parte della conversazione ricadeva sulle spalle di Tom e di John, con qualche occasionale intervento mio e della signora N. John rimuginava ancora sulla corrente. «Pare che le correnti calde portino le nubi più fredde… oppure che queste arrivino con le correnti. Pioggia fredda, e talvolta neve, mentre l’acqua è venti gradi più calda. Chissà perché.»
Nessuno di noi azzardò una teoria (fui sorpreso che Tom si lasciasse sfuggire un’occasione per parlare del tempo). La signora N. cominciò a lavorare a maglia ed Emilia in silenzio andò a reggerle la lana. John bevve d’un fiato il resto dell’acquavite.
«Allora… secondo te, cosa vogliono quei tipi del sud?» chiese a Tom.
Il vecchio sorseggiò il liquore. «Non lo so, John. Lo scoprirò, credo, quando sarò laggiù. Se quel che dicono è vero, non riusciranno a fare molto qui da noi, visto che gli asiatici ci sorvegliano. Però… c’è qualcosa che non dicono. Quando ho accennato ai cadaveri di asiatici gettati a riva, Jennings era sul punto di dire qualcosa, ma Lee l’ha bloccato. Jennings sa qualcosa. Ma perché sono venuti quassù? Ancora non lo so con certezza.»
«Forse vogliono solo vedere cose nuove» disse Steve, oscuramente.
«Forse» replicò Tom. «Oppure vogliono vedere cosa possono fare, mettere alla prova il loro potere. O fare scambi con noi. Oppure andare ancora più a nord. Non so. E loro non lo dicono; almeno, non lo dicono qui. Ecco perché voglio andare laggiù a parlare con quel loro sindaco.»
John scosse la testa. «Non sono ancora convinto che tu debba andarci.»
Gli angoli della bocca di Steve sbiancarono. In tono indifferente, Tom disse: «Male non può farne; e a dire il vero è utile andarci, per sapere che cosa accade. A proposito, avrei bisogno di portare con me un paio di persone e i giovani sono quelli di cui è più facile fare a meno; mi chiedevo se uno non potrebbe essere Steve. Mi sembra giusto il tipo adatto…»
«Steve?» John lanciò al vecchio un’occhiataccia. «No.» Guardò Steve, poi Tom di nuovo. «No, serve qui, lo sai.»
«Per una settimana puoi fare a meno di me» sbottò Steve. «Non sono indispensabile. Lavorerò il doppio, al ritorno, ti prego…»
«No!» John lo disse con il tono da ponte di comando. Nella stanza vicina, il rumore dei bambini che giocavano cessò di colpo. Steve si era alzato; ora si mosse di scatto verso il padre ancora appoggiato alla spalliera della sedia. Stringeva i pugni, era stravolto.
«Steve» disse piano la signora Nicolin. John cambiò posizione, per guardare meglio il figlio.
«Prima del tuo ritorno, la corrente calda sarà sparita. Mi servi adesso. La pesca è il tuo lavoro, ed è anche il lavoro più importante della valle. Andrai a sud un’altra volta, magari in inverno, quando non usciamo in mare.»
«Pagherò qualcuno che lavori al posto mio» disse Steve, disperato. Ma John si limitò a scuotere la testa; la linea decisa delle labbra divenne una smorfia rabbiosa. Mi rannicchiai sulla poltrona, intimorito. Le divergenze fra padre e figlio erano frequentissime, arrivavano subito al punto di rottura e prima o poi l’avrebbero superato, c’era da starne certi. Per un attimo pensai che il momento fosse giunto; Steve strinse i pugni, John era pronto a saltargli addosso… Ma ancora una volta Steve rimandò. Girò sui tacchi e uscì di corsa dalla stanza da pranzo. Udimmo la porta della cucina aprirsi e sbattere.
La signora Nicolin si alzò a riempire ancora il bicchiere di John. Disse: «Sei sicuro che Addison Shanks non possa prendere il suo posto per una settimana?»
«No, Christy. Il suo lavoro è qui, deve metterselo in testa. La gente dipende dalla pesca.» Diede un’occhiata a Tom, bevve una lunga sorsata; irritato, continuò: «Sai che mi serve qui, Tom. Perché vieni a mettergli in testa certe idee?»
«Pensavo che potevi farne a meno» spiegò Tom, con calma.
«No» disse John per l’ultima volta, mettendo nella negazione tutta la sua forza. «Non sono disposto a giocare là fuori, Tom…»
«Lo so, lo so.» Tom sorseggiò l’acquavite, mi lanciò un’occhiata inquieta. Imitai Emilia: finsi di non esserci. Fissai il ritratto di noi tutti sul vetro scuro della finestra. Eravamo un gruppo dall’aria molto infelice. Il silenzio si trascinò. Nella parte opposta della casa, i bambini ridevano. Steve se n’era andato da un pezzo. Sulla spiaggia, immaginai. Pensai a come si sentiva lui in quel momento: il buon pranzo si trasformò in un peso sullo stomaco. La signora Nicolin, tesa per l’ansia, cercò di riempirci di nuovo i bicchieri. Io scossi la testa, Tom coprì con la mano il suo. Si schiarì la gola.
«Bene, credo che Hank e io andremo a casa» disse. Ci alzammo. «Una cena favolosa, Christy» mormorò alla signora N. Lei cominciò a salutarci come se niente fosse accaduto; Tom la interruppe, con un’espressione sofferente. «Grazie per la cena, John. Mi spiace d’avere tirato in ballo la faccenda.»
John brontolò qualcosa e agitò la mano, perso nei suoi pensieri. Restammo tutti a guardarlo, un omaccione che meditava in poltrona, fissando la sua immagine scolorita, circondato dalle cose che possedeva… «Non importa» disse, come per liberarci. «Capisco cosa ti ha spinto a farlo. Vieni a dirmi com’è, laggiù, quando torni.»
«Senz’altro.» Tom ringraziò di nuovo la signora N. Andammo alla porta. Christy ci seguì. Sulla soglia, disse: «Avresti dovuto immaginarlo, Tom.»
«Già. Buona notte, Christy.»
Risalimmo il sentiero del fiume, con la pancia piena, ma tristi e pesanti. Tom brontolava fra sé e rifilava manate ai rami che sfioravano il sentiero. «Avresti dovuto immaginarlo… nient’altro è possibile… impossibile da cambiare… come un cuneo…» Alzò la voce.
«La storia è un cuneo in una fessura, ragazzo, e noi siamo il legno. Siamo il legno proprio sotto il cuneo, capisci, ragazzo?»
«No.»
«Ah…» Riprese a borbottare. Pareva disgustato.
«Capisco che John Nicolin è un malvagio figlio di puttana…»
«Silenzio!» sbottò Tom. «Un cuneo nella fessura» continuò.
Di colpo si fermò e mi prese per il braccio, scuotendomi con violenza. «Vedi laggiù?» gridò, indicando la riva opposta del fiume.
«Sì» protestai, aguzzando gli occhi nel buio.
«Proprio lì. I Nicolin si erano appena trasferiti qui: John, Christy, John Junior e Steve. Steve era solo un bimbetto, John Junior aveva sei anni. Erano venuti dall’interno, non hanno mai detto da dove. Un giorno, all’inizio dell’inverno, John ci aiutava a costruire il primo ponte. John Junior giocava sulla riva, sopra una sporgenza… e la sporgenza è crollata nel fiume.» Il tono di voce si era fatto aspro. «È caduta con un tonfo nel fiume, capisci? Nel fiume gonfio per la pioggia della notte. Proprio davanti a John. Lui si è tuffato, ha nuotato fino al mare. Ha nuotato per un’ora senza vedere traccia del bambino. Non lo ha più visto. Capisci?»
«Sì» risposi, a disagio per la tensione che traspariva dalla sua voce. Riprendemmo il cammino. «Ma questo non significa che abbia bisogno di Steve per la pesca, dal momento che di sicuro non…»
«Silenzio» ripeté, meno bruscamente di prima. Dopo alcuni metri, disse piano, quasi parlando fra sé: «E poi abbiamo affrontato quell’inverno. Come topi. Mangiavamo qualsiasi cosa ci capitava.»
«L’ho già sentito» dissi, irritato perché continuava a rivangare i vecchi tempi. Non sentivamo parlare d’altro: il passato, il passato, il maledetto passato. La spiegazione di ogni cosa era nel passato. Un padre si comportava da tiranno con il figlio, e qual era la scusa? La storia.
«Non significa che tu sappia com’era» disse Tom, anche lui irritato. Nella debole luce vidi su di lui i segni del passato: le cicatrici, le guance incavate dove gli mancavano i denti, la schiena curva. Mi ricordò uno degli alberi sulle montagne più in alto, contorti a causa del costante vento di mare, spaccati dal fulmine. «Ragazzo, morivamo di fame. La gente ci lasciava la pelle, perché non avevamo cibo a sufficienza, d’inverno. C’era questa valle, inzuppata d’acqua, dove gli alberi crescevano come erbacce, e non riuscivamo a ricavarne il cibo per sopravvivere. Potevamo solo scavare nella neve… neve, qui, maledizione… e mangiare qualsiasi animale in letargo riuscissimo a trovare. Eravamo lupi, nient’altro. Tu non vedrai tempi come quelli. Non sapevamo nemmeno quale giorno fosse! Ci sono voluti quattro anni, a me e a Rafe, per stabilire la data.» Si fermò per riprendere fiato, ricordò il punto di partenza. «Comunque, vedevamo i pesci nel fiume e abbiamo fatto del nostro meglio per farli finire sul fuoco. Nell’Orange County ci siamo procurati canne, lenze e ami, attrezzature in vendita nei negozi di caccia e pesca, credendo che fossero roba buona.» Sbuffò e sputò nel fiume. «Pescare con quelle stupide attrezzature che si rompevano ogni tre pesci, che andavano in pezzi appena le usavi… era un vero schifo. John Nicolin lo ha capito e ha cominciato a porsi delle domande. Perché non usavamo le reti? Non c’erano reti, rispondevamo. Perché non pescavamo in mare? Niente barche, dicevamo. Lui ci ha guardati come se fossimo una manica d’imbecilli. Alcuni si sono infuriati, hanno chiesto come ci saremmo procurati le reti. E dove.»
“Bene, Nicolin aveva la risposta. È andato a Clemente e ha guardato in una guida del telefono, sant’Iddio. Ha frugato nelle maledette pagine gialle. «Scoppiò a ridere, un breve attimo di delizia.» Ha trovato l’elenco dei grossisti d’attrezzature per la pesca. Ha preso con sé alcuni uomini ed è andato a cercare. Il primo magazzino era vuoto. Il secondo era stato raso al suolo, nel Giorno. Siamo entrati nel terzo: un magazzino pieno di reti. Cavi d’acciaio, nylon pesante… magnifico. Ed è stato solo l’inizio. Abbiamo usato l’elenco telefonico e la cartina per scoprire le darsene d’Orange County, perché tutti i porti erano vuoti, e abbiamo trasportato alcune barche su per l’autostrada.
«E gli sciacalli?»
«A quei tempi gli sciacalli erano pochi e non c’era da fare a pugni con quelli che vivevano lì.»
Sapevo che a questo punto non la contava giusta. Come sempre, si lasciava fuori della storia. Quasi tutto quel che Tom raccontava l’avevo già udito da altri. E c’erano un mucchio di storie su di lui: era l’uomo più vecchio della valle, il fulcro naturale delle leggende. Aveva partecipato alle spedizioni d’approvvigionamento, fatto da guida a John Nicolin e agli altri, nel suo vecchio quartiere e altrove. Dicevano che rappresentasse la morte, per gli sciacalli di quei giorni. Se la spedizione era braccata dagli sciacalli, Tom spariva fra le macerie, e in breve non c’erano più sciacalli. Era stato Tom, in realtà, a insegnare a Rafael l’uso delle armi da fuoco. E le storie sulla resistenza di Tom… caspita, erano così numerose e fantasiose che non sapevo cosa pensare. Una parte di quelle imprese l’aveva compiuta di certo, per guadagnarsi una simile reputazione; ma quale? Aveva resistito davvero una settimana senza dormire, durante la marcia forzata da Riverside? Aveva mangiato davvero la corteccia degli alberi, quando a Tustin erano stati bloccati e circondati? Per fuggire aveva camminato davvero fra le fiamme e trattenuto il respiro sott’acqua per mezz’ora? Qualsiasi impresa avesse compiuto, di sicuro aveva stracciato ogni uomo della valle, anche se a quel tempo aveva già superato i settantacinque. Rafael diceva che il vecchio doveva essersi beccato le radiazioni, il Giorno, e per mutazione era destinato a non morire mai, come l’ebreo errante. «Una cosa è certa» diceva Rafe. «Una volta, a un raduno di scambio, sono passato con lui davanti a un contatore Geiger degli sciacalli e l’aggeggio a momenti scoppiava. Gli sciacalli se la sono svignata…»
«Comunque» diceva ora Tom «John Nicolin si è occupato, di persona o dirigendo gli altri, di qualsiasi cosa riguardasse la pesca; proprio così ha unito la popolazione della valle e ci ha reso un villaggio. Il secondo inverno dopo il nostro arrivo, per la prima volta nessuno è morto di fame. Ragazzo, tu non sai cosa significa. Abbiamo mangiato pesce secco fino ad averne nausea, ma non è morto nessuno. Ci sono stati tempi duri, da allora, ma mai come prima dell’arrivo di Nicolin. Lo ammiro. Così, se ha il pesce nel cervello, se non permette a suo figlio d’allontanarsi per una settimana e neppure per un giorno, mi dispiace davvero. Ora è diventato così, e devi capirlo.»
«Ma non importa quanto sia ben nutrito, se si fa odiare da suo figlio.»
«Sì. Però non vorrebbe, lo so. Pensa a John Junior. Può darsi, anche se lui stesso non se ne rende conto, che John voglia tenere Steve sotto i suoi occhi. Perché sia sempre al sicuro. Allora anche la pesca è solo una scusa. Non so.»
Scossi la testa. Anche così, non era giusto tenere Steve a casa. Un cuneo in una fessura. Capivo un po’ meglio cosa Tom aveva voluto significare, ma secondo me eravamo noi i cunei, conficcati nella storia al punto tale da poterci muovere in una sola direzione, sotto i colpi degli eventi. Come mi sarebbe piaciuto se fossimo stati liberi di muoverci dove volevamo!
Eravamo arrivati a casa mia. La luce del fuoco filtrava dalle fessure intorno all’uscio. «Steve farà il viaggio un’altra volta» disse Tom. «Ma noi… partiremo per San Diego la prima notte di nuvolo.»
«Già.» In quel momento la prospettiva non mi entusiasmava troppo. Tom mi diede un colpetto sulla spalla e sì allontanò fra gli alberi.
«Tienti pronto!» gridò, mentre spariva nel buio della foresta.
La notte di nuvolo ci mise un po’ ad arrivare. Una volta tanto, la corrente calda portò cieli sereni; passavo le sere a maledire le stelle, spazientito. Durante il giorno continuavo ad andare a pesca. Steve, per ordine di John, stava sulle barche delle reti; così, al largo nella barca a remi, non me lo trovavo di fronte un’ora dopo l’altra e mi sentivo solo e diverso dal solito… come se in qualche modo lo tradissi. Quando lavoravamo insieme, a scaricare il pesce o a piegare le reti, si limitava a parlare di lavoro, senza incrociare lo sguardo con me, e non trovavo niente da dire. Mi sentii sollevato, quando, tre giorni dopo quella cena, sì mise a ridere e disse: «Nemmeno a farlo apposta, se non vuoi il sereno le nubi scompaiono. Su, sfruttiamo la giornata per quello che vale.» La pesca era terminala; visto che restavano ancora alcune ore di luce, camminammo sull’ampia spiaggia fino alla foce, dove le onde passavano lentamente da linee azzurre a linee bianche. Gabby, Mando e Del ci raggiunsero, portando le pinne; guadammo la sabbia scabra e rossiccia delle secche, fino ai frangenti. L’acqua era calda come non mai. Prendemmo una pinna ciascuno e nuotammo nell’acqua torbida fino a quella chiara al di là dei frangenti. Lì il mare era un vetro azzurro: vedevo perfettamente la liscia distesa di sabbia del fondo. Per me era un piacere anche solo camminare in acqua, lasciare che le piccole onde mi si riversassero sulla testa, guardare indietro le scogliere rossicce e la foresta verde, delimitate dal cielo e dall’oceano azzurro come gli occhi, che mi arrivava al mento. Mi lasciai trasportare e cavalcai le onde con gli altri, felice che i miei amici non ce l’avessero con me, non molto almeno, perché avevo l’occasione di andare a San Diego.
Parlammo solo di onde, tuttavia, mentre aspettavamo quelle più grandi; nessuno accennò, anche indirettamente, al mio prossimo viaggio. E quando tornammo sulla spiaggia, gli altri mi salutarono e se ne andarono in gruppo. Mi sedetti sulla sabbia, sentendomi strano.
Una figura comparve lungo la riva del fiume, nello stretto passaggio fra le scogliere, dove l’acqua si riversava in mare. Quando venne più vicino, vidi che era Melissa Shanks. Mi alzai e agitai il braccio; lei mi scorse e girò intorno alle pozze d’acqua sulla spiaggia per raggiungermi.
«Ciao, Henry» disse. «Sei stato a fare surf?»
«Già. Come mai da queste parti?»
«Oh, cercavo vongole sulle secche.» Non mi venne neppure in mente che non aveva rastrello né secchiello. «Henry, è vero che vai giù a San Diego con Tom?»
Annuii. Lei spalancò gli occhi, eccitata.
«Scommetto che non stai nella pelle» disse. «Quando parti?»
«La prima notte di nuvolo. Però, a quanto pare, il tempo non vuole che vada.»
Melissa si mise a ridere e si chinò a baciarmi sulla guancia. Alzai le sopracciglia e lei mi baciò di nuovo; mi girai a restituirle il bacio.
«Non posso crederci» disse, in tono sognante, fra un bacio e l’altro. «Un viaggio così… Be’, sei il più adatto a farlo.»
Cominciai a sentirmi meglio, a proposito del viaggio.
«In quanti andate?»
«Solo Tom e io.»
«E i due forestieri?»
«Oh, certo, anche loro. Ci accompagnano.»
«Solo i due che sono venuti fin qui?»
«No, c’è una squadra in attesa lungo l’autostrada, dove hanno terminato di aggiustare la ferrovia.» Le spiegai come quelli di San Diego compivano l’operazione. «Così dobbiamo muoverci in una notte nuvolosa, per non farci vedere dai musi gialli.»
«Oddio!» Rabbrividì. «Sembra pericoloso.»
«No, non credo.» La baciai ancora, facendola rotolare sulla sabbia; ci baciammo a lungo, tanto che quasi la svestivo. D’un tratto si guardò intorno e scoppiò a ridere.
«Non qui sulla spiaggia» disse. «Dalla scogliera tutti possono vederci.»
«No, non possono.»
«Sì che possono, e tu lo sai. Ho un’idea.» Si mise a sedere e si aggiustò la camicetta azzurra di cotone. Guardai attraverso i suoi capelli neri il sole del tardo tramonto e mi sentii percorrere da un’ondata di felicità. «Quando torni da San Diego, potremmo andare su allo Swing Canyon a fare un po’ d’altalena.»
Lo Swing Canyon era il cantuccio degli innamorati; annuii con voglia e allungai la mano, ma lei si alzò.
«Adesso devo andare, sul serio. Papà si chiederà dove sono finita.» Si baciò l’indice, mi sfiorò le labbra, s’allontanò ridendo. La guardai attraversare l’ampia spiaggia, poi mi alzai anch’io. Mi scossi, scoppiai a ridere. Guardai il mare: erano nubi, quelle laggiù?
Subito dopo il tramonto, la domanda ebbe risposta. Le nubi si avventarono verso terra come onde frastagliate; il cielo divenne grigioazzurro, poi buio e privo di stelle. Mentre chiacchieravo con Pa’, tolsi dal gancio la giacca e presi dal cesto del bucato un maglione pesante. Quella sera, sul lardi, Tom bussò alla porla. Partii per San Diego.