EPILOGO

Cinque mesi e mezzo dopo, incinta di sette, Brawne Lamia prese il dirigibile del mattino per la Città dei Poeti, a nord della capitale: era invitata alla festa di addio del Console.

La vecchia Keats — adesso chiamata Jacktown da indigeni, marinai della FORCE in permesso e Ouster insieme — sembrava bianca e pulita nella luce del mattino, mentre il dirigibile lasciava la torre di ancoraggio del centro città e puntava a nordest seguendo il corso dell'Hoolie.

La più vasta città di Hyperion aveva riportato danni, durante gli scontri, ma era stata in gran parte ricostruita; la maggior parte dei tre milioni di profughi delle piantagioni di fibroplastica e delle città più piccole del continente meridionale aveva scelto di fermarsi, nonostante il recente interesse degli Ouster nella fibroplastica. Così la città era cresciuta alla rinfusa e aveva servizi basilari come elettricità, fognature e una TV via cavo che proprio in quel periodo arrivava alle zone sovraffollate delle colline fra lo spazioporto e la città vecchia.

Ma gli edifici erano bianchi nella luce del mattino, l'aria di primavera era ricca di promesse e Brawne ritenne buon segno per il futuro i rozzi squarci di nuove strade e il trambusto del traffico fluviale in basso.

La battaglia nello spazio di Hyperion non era durata a lungo, dopo la distruzione della Rete. L'occupazione di fatto dello spazioporto e della capitale da parte degli Ouster si era mutata in riconoscimento della scomparsa della Rete e codirezione con il nuovo Consiglio Autonomo, nel trattato mediato primariamente dal Console e dall'ex governatore generale Theo Lane. Ma nei quasi sei mesi dalla morte della Rete, l'unico traffico allo spazioporto riguardava le navette della flotta della FORCE ancora all'interno del sistema e le frequenti escursioni planetarie di veicoli spaziali dello Sciame. Ormai non era insolito vedere le alte figure degli Ouster andare a far spese in piazza Jacktown o le loro versioni più esotiche prendere l'aperitivo al Cicero.

Negli ultimi mesi Brawne aveva alloggiato al Cicero, in una delle camere più ampie del terzo piano dell'ala vecchia, mentre Stan Leweski ricostruiva e ampliava le sezioni danneggiate del leggendario edificio. «Perdio, non ho bisogno dell'aiuto di donne incinte! » gridava Stan, ogni volta che Brawne si offriva di dargli una mano; ma invariabilmente Brawne finiva per fare qualche lavoretto, mentre Leweski borbottava e brontolava. Se pure incinta, Brawne era sempre una lusiana e i muscoli non le si erano certo atrofizzati per una permanenza di qualche mese su Hyperion.

Quella mattina Stan l'aveva accompagnata alla torre di ormeggio e l'aveva aiutata a portare il bagaglio e il pacchetto per il Console. Poi il proprietario del Cicero aveva dato anche a lei un regalino. «È un viaggio maledettamente noioso, in quel territorio dimenticato da Dio» aveva brontolato. «Devi avere qualcosa da leggere, no?»

Il regalo era una riproduzione dell'edizione del 1817 delle Poesie di John Keats, rilegata in pelle dallo stesso Leweski.

Brawne aveva messo in imbarazzo quell'uomo grande e grosso e divertito i presenti stringendolo in un abbraccio da fargli scricchiolare le costole. «Basta, maledizione» aveva brontolato Leweski, massaggiandosi il fianco. «Ricorda a quel Console che voglio vedere qui la sua indegna pellaccia, prima di lasciare a mio figlio questa indegna taverna. Digli così, d'accordo?»

Brawne aveva annuito e con gli altri passeggeri aveva agitato il braccio in segno di saluto a chi era venuto ad augurare buon viaggio. E aveva continuato, dalla balconata, mentre l'aeronave toglieva gli ormeggi, scaricava la zavorra e si muoveva pesantemente sopra i tetti.

Ora, mentre la nave si lasciava indietro i sobborghi e virava a ovest per seguire il corso del fiume, Brawne vide chiaramente per la prima volta la vetta della montagna meridionale dove il viso di re Billy il Triste rimuginava ancora sopra la città. C'era una recente cicatrice di dieci metri, che sbiadiva lentamente alle intemperie, sulla guancia di Billy, dove una lancia laser l'aveva colpita durante la battaglia.

Ma fu la scultura più grande sulla parete nordest della montagna ad attirare l'attenzione di Brawne. Anche con i moderni strumenti da taglio presi in prestito dalla FORCE, il lavoro era lento e il grande naso aquilino, le folte sopracciglia, la bocca larga e gli occhi tristi e intelligenti cominciavano solo ora a essere riconoscibili. Molti profughi dell'Egemonia abbandonati su Hyperion si erano opposti al fatto che le sembianze di Meina Gladstone fossero aggiunte alla montagna, ma Rithmet Corber III, pronipote dello scultore che vi aveva creato il viso di re Billy il Triste (e, incidentalmente, proprietario della montagna), aveva risposto, con la massima diplomazia possibile: «Andate a fare in culo» e aveva continuato il lavoro. Ancora un anno, forse due, e avrebbe terminato.

Brawne sospirò, si massaggiò il ventre ingrossato — un gesto che aveva sempre odiato, nelle donne in gravidanza, ma che ora trovava impossibile evitare — e si diresse goffamente a una poltrona sul ponte panoramico. "Se è così grossa a sette mesi, quanto sarà, a nove?" si disse. Diede un'occhiata alla grande sagoma ricurva e gonfia del dirigibile e sussultò.


Il viaggio dell'aeronave, con buoni venti di coda, richiese solo venti ore. Brawne dormicchiò per parte del viaggio, ma trascorse quasi tutto il tempo a guardare il ben noto paesaggio scorrere in basso.

A metà mattino oltrepassarono le chiuse Karla; Brawne sorrise e diede un colpetto al pacco per il Console. Nel tardo pomeriggio si avvicinarono al porto fluviale Naiade e da tremila piedi di altezza Brawne guardò una vecchia chiatta passeggeri trascinata su per il fiume da mante che lasciavano la tipica scia a V. Si chiese se per caso non fosse proprio la Benares.

Volarono sopra il Bordo, mentre nel salottino superiore servivano la cena, e inziarono la traversata del mare di Erba, proprio quando il tramonto dava colore alla steppa smisurata e milioni di steli s'increspavano alla stessa brezza che teneva in volo l'aeronave. Brawne prese il caffè e si sistemò nella sua poltrona preferita, sulla balconata; spalancò la finestra e guardò scorrere il mare di Erba, simile al panno di un tavolo da biliardo, mentre la luce si affievoliva. Un attimo prima che sul ponte si accendessero le lampade, fu ricompensata dallo spettacolo di un carro a vela che bordeggiava da nord a sud, con le lanterne che oscillavano a prua e a poppa. Brawne si sporse e udì con chiarezza il rombo della grande ruota e lo schiocco della vela di fiocco, mentre il carro virava con forza per cambiare rotta.

Nello scompartimento il letto era pronto, quando Brawne risalì a mettersi in vestaglia; ma dopo la lettura di alcune poesie, tornò sul ponte panoramico e vi rimase fino all'alba, sonnecchiando in poltrona e gustando il fresco profumo di erba che proveniva dal basso.

Si fermarono a Riposo del Pellegrino quanto bastava a fare provvista di cibo fresco e di acqua, rinnovare la zavorra e cambiare equipaggio, ma Brawne non scese a fare due passi. Intorno alla stazione della funivia si vedevano le luci di lavoro; quando infine il viaggio riprese, l'aeronave parve seguire la fila di torri di sostegno dei cavi che s'inoltrava nella Briglia.

Era ancora buio, quando attraversarono le montagne; uno steward girò a chiudere le finestre per pressurizzare gli scompartimenti, ma Brawne scorse ancora di sfuggita le vetture della funivia passare da picco a picco fra le nuvole più in basso e le luccicanti distese di ghiaccio sotto la luce delle stelle.

Poco prima dell'alba sorvolarono Castel Crono, le cui pietre emanavano ben poco senso di calore anche nella luce rosata. Poi comparve il deserto, a sinistra la Città dei Poeti brillò di bianco e il dirigibile scese verso la torre di ormeggio, in fondo al lato orientale dello spazioporto.

Brawne non si era aspettata che qualcuno venisse ad accoglierla. Tutti i suoi conoscenti pensavano che avrebbe fatto il volo nello skimmer di Theo Lane, nel tardo pomeriggio. Ma Brawne aveva ritenuto che l'aeronave fosse il modo giusto per viaggiare da sola con i propri pensieri. E aveva avuto ragione.

Ma ancora prima che il cavo di ormeggio si tendesse e che calassero la rampa, Brawne scorse nella piccola folla il viso del Console. Accanto a lui c'era Martin Sileno, che corrugava la fronte e socchiudeva gli occhi nella poco familiare luce del mattino.

— Quel maledetto Stan — brontolò Brawne, ricordando che adesso i collegamenti a microonde funzionavano e in orbita c'erano satelliti per telecomunicazioni.

Il Console l'accolse con un abbraccio. Martin Sileno sbadigliò, le strinse la mano e disse: — Non potevi trovare un'ora più scomoda per arrivare, vero?


La sera ci fu una festa. Era qualcosa di più della partenza del Console il mattino dopo… gran parte della flotta della FORCE tornava indietro e anche una parte considerevole dello Sciame Ouster sarebbe andato via. Una decina di navette ingombravano il piccolo campo accanto alla nave del Console, mentre gli Ouster rendevano l'ultima visita alle Tombe del Tempo e gli ufficiali della FORCE si fermavano per l'ultima volta alla tomba di Kassad.

La stessa Città dei Poeti ora aveva quasi un migliaio di residenti a tempo pieno; molti di loro erano artisti e poeti, anche se Sileno sosteneva che fossero solo dei poseurs. Per due volte avevano tentato di eleggerlo sindaco; per due volte Martin Sileno aveva declinato l'invito e aveva imprecato a gran voce contro i futuri elettori. Ma l'anziano poeta continuava a mandare avanti le cose, a dirigere i lavori di restauro, a giudicare le controversie, ad assegnare alloggi e a programmare voli di rifornimento da Jacktown e da punti più a sud. La Città dei Poeti non era più la Città Morta.

Martin Sileno diceva che il quoziente di intelligenza collettivo era più elevato, quando il luogo era rimasto deserto.

Il banchetto si tenne nel padiglione da pranzo, da poco ricostruito; la grande cupola echeggiò di risate, quando Martin Sileno lesse poesie licenziose e altri artisti eseguirono scenette comiche. Oltre al Console e a Sileno, al tavolo rotondo di Brawne sedevano sei ospiti Ouster, compresi Freeman Ghenga e Coredwell Minmun, e anche Rithmet Corber III, vestito di pelli cucite a mano e di un alto cappello a cono. Theo Lane giunse tardi, scusandosi; raccontò le più recenti storielle di Jacktown e si accostò al tavolo per unirsi al dessert. Lane era stato menzionato recentemente come candidato del popolo alla carica di sindaco di Jacktown nelle elezioni di Quartomese che presto si sarebbero tenute — sia gli indigeni, sia gli Ouster, sembravano apprezzare il suo stile — e per il momento non si era mostrato restio ad accettare la nomina, se gliela avessero offerta.

Alla fine del banchetto il Console invitò a bordo della nave alcuni amici scelti, per ascoltare musica e bere altro vino. Brawne e Martin e Theo si sedettero sulla loggia, mentre il Console suonava con sobrietà e sentimento brani di Gershwin e Studeri e Brahms e Luser e i Beatles, e poi ancora Gershwin e infine il bellissimo Concerto per pianoforte n. 2 in Do minore di Rachmaninoff.

Poi, nella fioca luce, guardarono la città e la valle, bevvero ancora un po' di vino e chiacchierarono fino a notte.

— Cosa si aspetta di trovare, nella Rete? — domandò Theo al Console. — Anarchia? Governo della plebaglia? Ritorno alla vita dell'età della pietra?

— Questo e altro ancora, probabilmente — sorrise il Console. Fece girare nel bicchiere il cognac. — Sul serio, prima che l'astrotel smettesse di esistere, ci sono state raffiche sufficienti a far capire che, a parte alcune difficoltà reali, gran parte dei mondi della vecchia Rete se la caverà bene.

Theo Lane reggeva lo stesso bicchiere di vino che centellinava dalla sala da pranzo. — Secondo lei, perché le trasmissioni astrotel hanno smesso di esistere?

Martin Sileno sbuffò. — Dio si è stancato di vederci scarabocchiare sulle pareti del cesso fuori di casa.

Parlarono di vecchi amici, si chiesero che cosa facesse in quel momento padre Duré. Avevano sentito parlare della sua nuova carica, in una delle ultime trasmissioni. Ricordarono Lenar Hoyt.

— Pensate che diventerà automaticamente Papa, alla morte di Duré? — domandò il Console.

— Non credo — disse Theo. — Ma almeno avrà una possibilità di rivivere, se il crucimorfo che Duré porta sul petto funziona ancora.

— Chissà se verrà a cercare la balalaica — disse Sileno, traendone alcuni accordi. Nella luce soffusa, pensò Brawne, l'anziano poeta sembrava ancora un satiro.

Parlarono di Sol e di Rachel. Negli ultimi sei mesi, centinaia di persone avevano cercato di entrare nella Sfinge; uno solo vi era riuscito: un Ouster silenzioso di nome Mizenspesht Ammenyet.

Gli specialisti Ouster avevano trascorso mesi ad analizzare le Tombe del Tempo e la traccia di maree ancora esistenti. In alcuni edifici, dopo l'apertura delle Tombe erano comparsi geroglifici e scritte cuneiformi stranamente familiari che avevano portato almeno a ipotesi erudite sulle loro diverse funzioni.

La Sfinge era una porta a senso unico per il iuturo di cui aveva parlato Rachel/Moneta. Nessuno sapeva come scegliesse coloro ai quali permetteva il passaggio, ma era di moda fra i turisti provare a varcare la porta. Non si erano trovati indizi sulla sorte di Sol e di sua figlia. Brawne scoprì di pensare spesso all'anziano studioso.

Brawne, il Console e Martin Sileno brindarono a Sol e Rachel.

La Tomba di Giada pareva in qualche modo legata a mondi giganti gassosi. Nessuno era riuscito a varcare la sua particolare porta, ma Ouster esotici, progettati e allevati per vivere in habitat gioviani, venivano ogni giorno a fare il tentativo. Esperti sia degli Ouster sia della FORCE misero ripetutamente in evidenza che le Tombe non erano dei teleporter, ma chissà quale altra forma di connessione cosmica del tutto diversa. I turisti se ne fregarono.

L'Obelisco rimase un fitto mistero. La tomba risplendeva ancora, ma ora non aveva porta. Gli Ouster ritenevano che all'interno eserciti di Shrike fossero ancora in attesa. Martin Sileno espresse il parere che l'Obelisco fosse soltanto un simbolo fallico messo lì per decorare la valle, quasi in una sorta di ripensamento. Altri ritenevano che forse aveva a che fare con i Templari.

Brawne, il Console e Martin Sileno brindarono alla Vera Voce dell'Albero Het Masteen.

Il Monolito di Cristallo, di nuovo sigillato, era la tomba del colonnello Fedmahn Kassad. Iscrizioni poste nella pietra, decodificate, parlavano di una battaglia cosmica e di un grande guerriero proveniente dal passato, comparso per aiutare gli uomini a sconfiggere il Signore della Sofferenza. Giovani reclute scese dalle navi torcia e dai trasporti truppe di attacco la bevvero. La leggenda di Kassad si sarebbe diffusa sempre di più, a mano a mano che un numero maggiore di quelle navi fosse tornato nei mondi della vecchia Rete.

Brawne, il Console e Martin Sileno brindarono a Fedmahn Kassad.

La prima e la seconda delle Grotte non portavano da nessuna parte; ma la terza sembrava aprirsi sui labirinti di una varietà di mondi. Dopo la scomparsa di alcuni ricercatori, le autorità Ouster ricordarono ai turisti che i labirinti si trovavano in un tempo diverso, forse centinaia di migliaia di anni nel passato o nel futuro, oltre che in uno spazio diverso. Permisero l'accesso alle Grotte solo a esperti qualificati.

Brawne, il Console e Martin Sileno brindarono a Paul Duré e Lenar Hoyt.

Il Palazzo dello Shrike restò un mistero. Quando Brawne e gli altri vi erano tornati, qualche ora più tardi, le gradinate di corpi erano scomparse, l'interno della tomba aveva la grandezza di sempre, ma nel centro c'era una singola porta risplendente. Chi la varcò, scomparve. Nessuno tornò mai.

I ricercatori proibirono l'accesso al Palazzo, mentre lavoravano per decifrare lettere scolpite nella pietra, erose malamente dal tempo. Fino a quel momento erano certi solo di tre parole, tutte nel latino della Vecchia Terra, tradotte come COLOSSEO, ROMA e RIPOPOLARE. Era già sorta la leggenda che quel portale si aprisse sulla Vecchia Terra scomparsa e che le vittime dell'albero di spine vi fossero state trasportate. Altre centinaia rimasero in attesa.

— Vedi — disse Martin Sileno a Brawne — se tu non fossi stata così maledettamente precipitosa nel salvarmi, sarei tornato a casa.

Lane si sporse. — Sarebbe davvero tornato sulla Vecchia Terra?

Martin si esibì nel suo più dolce sorriso da satiro. — Nemmeno fra un milione di anni di merda. Era noiosa, quando ci vissi, e sarà sempre noiosa. È qui che c'è movimento! — Sileno brindò a se stesso.

In un certo senso, capì Brawne, era vero. Hyperion era il punto di incontro di Ouster ed ex cittadini dell'Egemonia. Le Tombe del Tempo, da sole, significavano commerci futuri e turismo e viaggi, mentre l'universo umano si adattava a vivere senza teleporter. Brawne cercò di immaginare il futuro come lo vedevano gli Ouster, con grandi flotte che ampliassero gli orizzonti della razza umana, con esseri umani geneticamente adattati per colonizzare giganti gassosi e asteroidi e pianeti più aspri di Marte e di Hebron prima del terraforming. Non ci riuscì. Un simile universo forse l'avrebbe visto sua figlia… o i suoi nipoti.

— A cosa pensi, Brawne? — domandò il Console, quando il silenzio si protrasse.

Lei sorrise. — Al futuro — rispose. — E a Johnny.

— Ah, già — disse Sileno. — Il poeta che poteva essere Dio e non lo fu.

— Cos'è accaduto alla seconda personalità, secondo voi? — domandò Brawne.

Il Console allargò le mani. — Non vedo come possa essere sopravvissuta alla morte del Nucleo. E tu?

Brawne scosse la testa. — Sono solo gelosa. A quanto pare, un mucchio di gente l'ha visto. Perfino Melio Arundez dice di averlo incontrato a Jacktown.

Brindarono a Melio, che da cinque mesi era andato via, con la prima spin-nave della FORCE diretta alla Rete.

— L'hanno visto tutti, tranne me — disse Brawne, fissando accigliata il bicchiere di cognac e rendendosi conto di dover prendere altre pillole prenatali anti-alcol, prima di andare a letto. Capiva di essere brilla: quella robaccia non avrebbe fatto male alla bambina, se lei avesse preso le pillole, ma l'aveva conciata per le feste.

— Faccio ritorno — annunciò; si alzò e abbracciò il Console. — Voglio essere in piedi presto, e lucida, per assistere al tuo decollo con il sorgere del sole.

— Non vuoi proprio passare la notte a bordo? — domandò il Console. — La stanza degli ospiti ha una bella vista sulla valle.

Brawne scosse la testa. — Ho lasciato al vecchio palazzo tutta la mia roba.

— Parleremo ancora, prima della mia partenza — disse il Console; si abbracciarono di nuovo, in fretta, fingendo di non accorgersi delle lacrime di Brawne.

Martin Sileno accompagnò Brawne alla Città dei Poeti. Si fermarono nella galleria illuminata, all'esterno degli alloggi.

— Eri davvero sull'albero, oppure eri collegato a uno stim-sim, mentre dormivi nel Palazzo dello Shrike? — gli domandò Brawne.

Il poeta non sorrise. Si toccò il petto, dove la spina di acciaio l'aveva trapassato. — Ero un filosofo cinese che sognava di essere una farfalla, oppure una farfalla che sognava di essere un filosofo cinese? È questo, quel che vuoi sapere, ragazza?

— Sì.

— Già — disse piano Sileno. — Sì. Tutt'e due le cose. E tutt'e due erano reali. E facevano male. E ti vorrò bene per sempre, Brawne, per avermi salvato. Per me, sarai sempre capace di camminare nell'aria. — Le prese la mano e gliela baciò. — Entri?

— No, vorrei fare due passi in giardino.

Il poeta esitò. — Va bene. Credo. Abbiamo pattuglie, mecc e umane. E per il momento il nostro Grendel-Shrike non ha fatto l'apparizione bis… ma stai attenta. D'accordo?

— Non dimenticarlo, sono l'ammazza-Grendel. Cammino nell'aria e li trasformo in orchi di vetro per ridurli in frantumi.

— Ah-ha, ma non allontanarti dal giardino. D'accordo, ragazza?

— D'accordo — disse Brawne. Si toccò il ventre. — Saremo prudenti.


Lui aspettava nel giardino, dove la luce non arrivava del tutto e le telecamere non riuscivano a riprendere.

— Johnny! — ansimò Brawne e mosse rapidamente un passo avanti, sul sentiero di ghiaia.

— No — disse lui e scosse la testa, forse con un po' di tristezza. Esattamente gli stessi capelli rossicci, occhi castani, mento volitivo, zigomi alti, sorriso dolce. Vestiva in maniera un poco bizzarra, un pesante giaccone di pelle, cintura larga, scarponi, bastone da montagna e un rozzo berretto di pelliccia, che si tolse nell'avvicinarsi.

Brawne si fermò a meno di un metro. — Ma certo — disse, in poco più di un bisbiglio. Allungò la mano per toccarlo e la mano attraversò il corpo di lui, anche se non c'erano il tremolio e i contorni confusi degli ologrammi.

— Questo posto è ancora ricco nei campi della metasfera — disse Johnny.

— Ah-ha — convenne Brawne, senza capire affatto di cosa parlasse. — Sei l'altro Keats. Il gemello di Johnny.

Il bassotto sorrise e tese la mano come per toccarle il ventre gonfio. — Questo fa di me una sorta di zio, vero, Brawne?

Lei annuì. — Sei stato tu a salvare la piccina… Rachel… vero?

— Sei riuscita a vedermi?

— No — mormorò Brawne. — Ma ho sentito la tua presenza. — Esitò un istante. — Ma tu non eri colui del quale parlò Ummon, la parte Empatia dell'IF umana?

Lui scosse la testa. I ricci mandarono riflessi, nella luce fioca. — Ho scoperto di essere Colui Che Viene Prima. Preparo la via a Colei Che Insegna. Purtroppo il mio unico miracolo è stato prendere in braccio una neonata e aspettare che qualcuno la prendesse a me.

— Mi hai aiutata… con lo Shrike? A stare in aria?

John Keats si mise a ridere. — No. E non è stata neppure Moneta. Sei stata tu, Brawne.

Lei scosse con forza la testa. — Impossibile.

— Non impossibile — disse lui, piano. Allungò la mano per toccarle di nuovo il ventre e lei immaginò di sentire la pressione del suo palmo. Johnny mormorò: — "Tu, sposa ancora intatta della quiete, / tu, figlia adottiva dal silenzio e del tempo lento…" — Guardò in viso Brawne. — Senza dubbio la madre di Colei Che Insegna può esercitare alcune prerogative.

— La madre di… — A un tratto Brawne sentì il bisogno di sedersi e trovò una panchina appena in tempo. Mai prima di allora era stata goffa, ma adesso non riuscì proprio a sedersi con grazia. Pensò, anche se non c'entrava per niente, al dirigibile che sarebbe giunto l'indomani mattina.

— Colei Che Insegna — ripeté Keats. — Non so cosa insegnerà, ma cambierà l'universo e metterà in moto idee che saranno vitali anche fra diecimila anni.

— Mia figlia? — riuscì a dire Brawne, sentendosi mancare l'aria. — La figlia di Johnny e mia?

La persona-Keats si lisciò la guancia. — L'unione di spirito umano e logica IA che Ummon e il Nucleo hanno cercato per tanto tempo, e sono morti senza capire — disse. Avanzò di un passo. — Vorrei solo essere dalle sue parti, quando insegnerà quel che dovrà insegnare. Vedere quale effetto avrà sul mondo. Su questo mondo. Altri mondi.

La mente di Brawne girava vorticosamente. Ma la donna aveva sentito qualcosa, nel suo tono. — Perché? Dove sarai? Cosa non va?

Keats sospirò. — Il Nucleo è morto. Le sfere dati qui sono troppo piccole per contenermi anche in forma ridotta… a parte le IA della nave della FORCE, e quelle non credo che mi piacerebbero. Non ho mai preso bene gli ordini.

— E non c'è altro posto? — domandò Brawne.

— La metasfera — rispose lui, lanciandosi alle spalle un'occhiata. — Ma è piena di leoni, tigri, orsi. E io non sono ancora pronto.

Brawne lasciò correre. — Ho un'idea — disse. Gliela espose.

L'immagine del suo amato le venne più vicino, le mise le braccia al collo. — Tu sì che sei un miracolo, signora mia — disse. Arretrò nelle ombre.

— Sono solo una donna incinta — replicò Brawne. Si posò la mano sul gonfiore sotto la veste. — Colei Che Insegna — mormorò. Poi, a Keats: — D'accordo, tu sei l'arcangelo che annuncia tutto questo. Quale nome devo darle?

Non ricevendo risposta, Brawne alzò lo sguardo.

Fra le ombre non c'era nessuno.


Prima del sorgere del sole, Brawne era già allo spazioporto. Non era esattamente un gruppo allegro, quello che salutava. Al di là della normale tristezza degli addii, Martin, il Console e Theo avevano i postumi della bevuta, dal momento che le pillole doposbronza erano esaurite, nell'Hyperion post-Rete. Solo Brawne era di buon umore.

— Quel maledetto computer della nave si comporta stranamente per tutta la mattina — brontolò il Console.

— Com'è possibile? — sorrise Brawne.

Il Console la guardò storto. — Chiedo di effettuare un normale controllo prima della partenza e la stupida nave mi risponde versi.

— Versi? — disse Sileno, inarcando il sopracciglio da satiro.

— Già… state a sentire. — Il Console mise in funzione il comlog. Una voce ben nota a Brawne disse:

Così, voi tre Fantasmi, adieu! Non potete alzare

la mia testa infilata nella fredda erba fiorita;

infatti non mi nutrirei di soli applausi,

agnello domestico in una farsa sentimentale!

Svanite piano dai miei occhi e siate ancora una volta

in figure da maschera sull'urna sognante;

addio! Ho ancora visioni per la notte

e visioni più sbiadite sono in serbo per il giorno;

svanite, fantasmi, dal mio spirto ozioso,

svanite nelle nuvole e non fate più ritorno!

Theo Lane disse: — Una IA difettosa? Credevo che la nave avesse una delle migliori intelligenze, al di fuori del Nucleo.

— Infatti — disse il Console. — Non è difettosa. Ho fatto il controllo cognitivo e di funzione. Tutto è a posto. Però mi dà… questa roba! — Indicò la lettura di registrazione del comlog.

Martin Sileno lanciò un'occhiata a Brawne Lamia, scrutò attentamente il sorriso della donna, poi si rivolse al Console. — Bene, pare che la tua nave diventi erudita. Non preoccupartene. Sarà una buona compagnia, durante il viaggio laggiù e ritorno.

Nella pausa che seguì, Brawne tirò fuori un involto voluminoso. — Un regalo di addio — disse.


Il Console scartò l'involto, lentamente dapprima, poi strappando via la confezione, mentre compariva il piccolo tappeto piegato, sbiadito, logoro. Il Console vi passò sopra la mano, alzò lo sguardo e parlò con voce piena di emozione. — Dove… come hai…

Brawne sorrise. — Una profuga indigena l'ha trovato sotto le chiuse Karla. Cercava di venderlo al mercato di Jacktown, quando sono capitata lì io. Nessuno era interessato all'acquisto.

Il Console trasse un profondo sospiro e passò la mano sui disegni del tappeto Hawking che aveva portato suo nonno Merin al fatale incontro con sua nonna Siri.

— Purtroppo non credo che volerà ancora — disse Brawne.

— I filamenti di volo hanno bisogno di ricarica — disse il Console. — Non so come ringraziarti…

— Non farlo. È un augurio di buona fortuna per il viaggio.

Il Console scosse la testa, abbracciò Brawne, strinse la mano agli altri, prese l'ascensore per salire a bordo. Brawne e gli altri tornarono a piedi al terminal.

Non c'erano nuvole, nel cielo color lapislazzuli di Hyperion. Il sole dipingeva di tonalità intense i lontani picchi della Briglia e prometteva calore per il giorno a venire.

Senza girarsi Brawne diede un'occhiata alla Città dei Poeti e alla valle più avanti. La cima delle Tombe più alte si scorgeva appena. Un'ala della Sfinge rifletté la luce.

Con poco rumore e appena un accenno di calore, la nave color ebano del Console si alzò su una colonna di fiamma azzurra e puntò al cielo. Brawne cercò di ricordare le poesie appena lette e i versi finali della più lunga e più bella opera incompiuta del suo amato.

Presto s'avventò il brillante Hyperion;

le vesti di fiamma allungate oltre i talloni,

e diede un ruggito, come di fuoco terreno,

che spaventò le meschine eteree Ore,

e fece tremare le loro ali di colomba. Sfolgorò ancora…

Brawne sentì il vento caldo tirarle i capelli. Alzò il viso verso il cielo e agitò il braccio, senza cercare di nascondere o di asciugare le lacrime, continuò a salutare con forza, ora che la splendida nave puntava la prua e saliva al cielo, con la sua vivida scia di fiamma azzurra e, come un urlo distante, creava un improvviso bang sonico che increspò il deserto ed echeggiò contro i picchi lontani.

Brawne non cercò di trattenere le lacrime e salutò di nuovo e continuò ad agitare il braccio al Console che partiva e al cielo e ad amici che non avrebbe più rivisto e a una parte del proprio passato e alla nave che s'innalzava come una perfetta freccia di ebano scagliata dall'arco di un dio.

Sfolgorò ancora…

FINE
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