PARTE TERZA

31

Mi svegliai e non fui contento che mi avessero svegliato.

Mi girai, socchiusi gli occhi e imprecai all'improvvisa invasione di luce; Leigh Hunt, seduto sull'orlo del letto, reggeva ancora in mano un iniettore aerosol.

— Ha preso pillole di sonnifero sufficienti a tenerla a letto tutto il giorno — disse. — Si alzi e scenda.

Mi tirai a sedere, mi strofinai la barba di un giorno, guardai nella direzione di Hunt. — Chi diavolo le ha dato il diritto di entrare nella mia stanza? — Per lo sforzo di parlare, cominciai a tossire e non mi fermai finché Hunt non tornò dal bagno portando un bicchiere d'acqua.

— Tenga.

Bevvi, cercando inutilmente di mostrarmi furibondo e offeso, fra uno spasmo di tosse e l'altro. Brandelli di sogno svanirono come nebbia mattutina. Un terribile senso di perdita scese su di me.

— Si vesta — disse Hunt, restando in piedi. — Il PFE vuole vederla fra venti minuti. Mentre dormiva, sono accadute diverse cose.

— Quali? — Mi strofinai gli occhi e mi passai le dita fra i capelli arruffati.

Hunt sorrise di storto. — Si colleghi alla sfera dati. Poi scenda al più presto possibile nell'ufficio di Gladstone. Venti minuti, Severn. — Uscì dalla camera.

Mi collegai alla sfera dati. Un modo di visualizzare il punto d'entrata nella sfera dati è quello di immaginare una zona a turbolenza variabile dell'oceano della Vecchia Terra. I giorni normali tendevano a mostrare un mare placido con interessanti disegni di increspature. Le crisi mostravano mare mosso e creste di onde. Oggi era in corso un uragano. L'entrata era ritardata su ogni via d'accesso, la confusione regnava nei frangenti degli impulsi di aggiornamento, la matrice piano dati era impazzita con cambiamenti di deposito e trasferimenti di credito; e la Totalità, di solito un ronzio multistrato di notizie e di dibattiti politici, era un vento furioso di confusione, referendum abbandonati e obsoleti stampi di posizione soffiati via come brandelli di nuvole.

— Sant'Iddio — mormorai, interrompendo il contatto ma sentendo la pressione dell'ondata di notizie premermi ancora sui circuiti impiantati e sul cervello. Guerra. Attacco di sorpresa. Imminente distruzione della Rete. Proposte di incriminare Gladstone. Sommosse su decine di mondi. Ribellione del Culto Shrike, su Lusus. La flotta della FORCE in ritirata dal sistema di Hyperion con una disperata azione di retroguardia, ma troppo tardi, troppo tardi. Hyperion già sotto attacco. Timore di incursioni via teleporter.

Mi alzai, corsi a farmi la doccia e il bagno di ultrasuoni, a tempo record. Hunt o qualcun altro mi aveva preparato un abito formale grigio con mantello; mi vestii in fretta, mi pettinai all'indietro i capelli bagnati e dei riccioli umidi mi ricaddero sul colletto.

Non andava bene far attendere il Primo Funzionario Esecutivo dell'Egemonia dell'Uomo. Oh, no, non andava bene affatto.


— Era ora che arrivasse — disse Meina Gladstone, quando entrai nelle sue stanze private.

— Che cazzo ha combinato? — replicai, brusco.

Gladstone batté le palpebre. Evidentemente il PFE dell'Egemonia dell'Uomo non era abituata a sentirsi apostrofare in quel tono. "Merda" pensai.

— Ricordi chi è e con chi parla — disse freddamente Gladstone.

— Non so chi sono. E forse parlo con il più grande assassino di massa dai tempi di Horace Glennon-Height. Perché diavolo ha permesso che questa guerra scoppiasse?

Di nuovo Gladstone batté le palpebre e si guardò intorno. Eravamo soli. Il salotto era lungo e piacevolmente buio; alle pareti erano appese opere d'arte della Vecchia Terra. In quel momento non mi sarebbe importato nemmeno di trovarmi in una stanza piena di Van Gogh originali. Fissai Gladstone: il viso alla Lincoln era semplicemente la faccia di una donna anziana, nella scarsa luce che filtrava dalle persiane. Il PFE mi restituì lo sguardo per un momento, poi lo distolse di nuovo.

— Mi scusi — dissi bruscamente, senza traccia di scusa nella voce.

— Lei non ha permesso che scoppiasse la guerra, l'ha fatta scoppiare, vero?

— No, Severn, non l'ho fatta scoppiare. — La voce di Gladstone era smorzata, quasi un bisbiglio.

— Si spieghi. — Camminai avanti e indietro sotto le alte finestre, guardando la luce delle persiane muoversi su di me come strisce dipinte. — E non sono Joseph Severn — aggiunsi.

Inarcò il sopracciglio. — Devo chiamarla signor Keats?

— Mi chiami Nessuno. Così, quando arriveranno gli altri ciclopi, potrà dire che Nessuno l'ha accecata, e loro se ne andranno dicendo che è il volere degli dèi.

— Intende accecarmi?

— In questo momento le torcerei il collo e me ne andrei senza un briciolo di rimorso. Milioni di persone moriranno, prima che termini la settimana. Come ha potuto permetterlo?

Gladstone si toccò il labbro inferiore. — Il futuro si dirama in due sole direzioni — disse a bassa voce. — La guerra e l'incertezza totale, oppure la pace e l'assoluta certezza dell'annichilimento. Ho scelto la guerra.

— Chi lo dice? — Ora nella mia voce c'era più curiosità che rabbia.

— È un fatto. — Diede un'occhiata al comlog. — Fra dieci minuti devo essere in Senato per dichiarare la guerra. Mi informi delle ultime novità sui pellegrini di Hyperion.

Incrociai le braccia e la fissai. — Solo se mi promette di fare una cosa.

— Se posso.

Esitai. Nessuna leva dell'universo avrebbe indotto quella donna a firmare un assegno in bianco. — E va bene — dissi. — Voglio che si metta in contatto con Hyperion, che annulli la quarantena in cui ha messo la nave del Console e che mandi qualcuno lungo l'Hoolie a cercare il Console stesso. Si trova a circa centotrenta chilometri dalla capitale, sopra le chiuse Karla. Forse è ferito.

Gladstone si grattò il labbro. — Manderò qualcuno a cercarlo. La revoca della quarantena dipende da quel che mi racconterà. Gli altri sono vivi?

Mi strinsi nel mantello e mi lasciai cadere sul divano, di fronte a lei. — Alcuni.

— La figlia di Byron Lamia? Brawne?

— Lo Shrike l'ha presa. Per un poco è rimasta priva di conoscenza, collegata alla sfera dati da una sorta di shunt neurale. Ho sognato… si librava da qualche parte, riunita alla persona/impianto della prima personalità ricuperata Keats. Stavano per entrare nella sfera dati… nella megasfera, a dire il vero: connessioni col Nucleo e dimensioni che nemmeno sognavo, oltre alla sfera dati accessibile.

— È viva, al momento? — Gladstone si sporse, con espressione intensa.

— Non so. Il corpo è scomparso. Sono stato risvegliato prima di vedere la sua personalità entrare nella megasfera.

Gladstone annuì. — E il colonnello?

— Kassad è stato portato in un luogo imprecisato da Moneta, la femmina umana che pare risiedere nelle Tombe, mentre queste viaggiano nel tempo. L'ultima volta che l'ho visto, assaliva a mani nude lo Shrike. O meglio, gli Shrike: ce n'erano migliaia.

— È sopravvissuto?

Allargai le mani. — Non so. Erano sogni. Frammenti. Spizzichi di percezione.

— Il poeta?

— Sileno è stato portato via dallo Shrike. Impalato sull'albero di spine. Ma in seguito l'ho visto di sfuggita, nel sogno di Kassad. Sileno era ancora vivo. Non so come.

— Allora l'albero di spine è reale, non semplice propaganda del Culto Shrike?

— Oh, sì, è reale.

— E il Console se n'è andato? Ha cercato di tornare alla capitale?

— Con il tappeto Hawking di sua nonna. Ha funzionato bene, fino a un punto nei pressi delle chiuse Karla. Tappeto e Console sono caduti nel fiume. — Anticipai la domanda seguente. — Non so se sia sopravvissuto.

— E il prete? Padre Hoyt?

— Il crucimorfo l'ha riportato in vita come padre Duré.

— È davvero padre Duré? O un duplicato privo d'intelligenza?

— È Duré. Ma… danneggiato. Scoraggiato.

— E si trova ancora nella valle?

— No. È scomparso in una delle Grotte. Non so cosa gli sia accaduto.

Gladstone guardò il comlog. Cercai di immaginare la confusione e il caos che regnavano nel resto dell'edificio, del pianeta, della Rete. Era chiaro che il PFE si era ritirato per quindici minuti in quel salottino, prima di tenere il discorso al Senato. Forse sarebbe stato l'ultimo momento di solitudine di cui avrebbe goduto nelle prossime settimane. Forse per sempre.

— Il capitano Masteen?

— Morto. Sepolto nella valle.

Gladstone trasse un sospiro. — Weintraub e la piccina?

Scossi la testa. — Ho sognato cose fuori sequenza, fuori tempo. Credo che sia già accaduto, ma sono confuso. — Alzai gli occhi: Gladstone aspettava pazientemente. — La piccina aveva solo alcuni secondi di vita, quando lo Shrike è venuto. Sol l'ha offerta. Penso che lo Shrike l'abbia portata dentro la Sfinge. Le Tombe brillavano di luce molto intensa. Ne uscivano… altri Shrike.

— Allora le Tombe si sono aperte?

— Sì.

Gladstone toccò il comlog. — Leigh? Dica all'ufficiale di servizio del centro trasmissioni di mettersi in contatto con Theo Lane e i responsabili militari su Hyperion. Devono lasciare libera la nave in quarantena. Inoltre, Leigh, dica al governatore generale che fra qualche minuto gli invierò un messaggio personale. — Il comlog trillò e lei tornò a guardarmi. — C'è stato altro, nei suoi sogni?

— Immagini. Parole. Non capisco che cosa accade. Questi sono i punti principali.

Gladstone sorrise appena. — Si rende conto di sognare eventi che non rientrano nell'esperienza dell'altra personalità Keats?

Rimasi in silenzio, stordito dalla sorpresa provocata da quelle parole. Il mio contatto con i pellegrini era stato possibile mediante un legame basato su tecnologie del Nucleo con l'impianto/persona nell'iterazione Schrön di Brawne, attraverso di esso e attraverso la primitiva sfera dati che avevano condiviso. Ma la persona era stata liberata; la sfera dati era stata distrutta dal distacco e dalla distanza. Anche un ricevitore astrotel non può ricevere messaggi, se non c'è trasmettitore.

Il sorriso di Gladstone sparì. — Come lo spiega? — domandò.

— Non lo spiego. — Alzai gli occhi. — Forse erano soltanto sogni. Sogni reali.

Gladstone si alzò. — Forse lo sapremo, quando e se troveremo il Console. O quando la nave arriverà nella valle. Fra due minuti devo presentarmi al Senato. C'è altro?

— Una domanda. Io chi sono? Perché sono qui?

Un nuovo accenno di sorriso. — Tutti ci poniamo queste domande, signor Se… signor Keats.

— Dico sul serio. Sono convinto che lei lo sappia meglio di me.

— Il Nucleo l'ha inviata a me per fare da collegamento con i pellegrini. E da osservatore. In fin dei conti, lei è poeta e pittore.

Sbuffai e mi alzai. Ci avviammo lentamente al teleporter privato che l'avrebbe portata al Senato. — A cosa serve, l'osservazione, quando è la fine del mondo?

— Lo scopra. Vada a vedere la fine del mondo. — Mi tese una microcarta per il comlog. La inserii, guardai il diskey: era un chip universale che mi permetteva l'accesso a tutti i teleporter, pubblici, privati e militari. Il biglietto per la fine del mondo.

— E se resto ucciso?

— Allora non udremo mai le risposte alle sue domande — disse Gladstone. Mi sfiorò il polso, si girò e varcò il portale.

Per alcuni minuti rimasi da solo nel suo ufficio, apprezzando la luce, il silenzio, l'arte. C'era davvero un Van Gogh alla parete, un quadro che valeva più di quanto molti pianeti potessero pagare. Era la veduta della casa dell'artista, ad Arles. La follia non è invenzione nuova.

Dopo un poco uscii e lasciai che la memoria del comlog mi guidasse nel labirinto della Casa del Governo, finché non trovai il terminex centrale del teleporter e lo varcai per vedere la fine del mondo.


C'erano due percorsi teleporter a pieno accesso, nella Rete: il Concourse e il fiume Teti. Mi teleportai nel Concourse, dove la striscia di mezzo chilometro di Tsingtao-Hsishuang Panna si collegava a quella di Nuova Terra e alla breve striscia marittima di Nevermore. Tsingtao-Hsishuang Panna era uno dei mondi della prima ondata, trentaquattro ore più tardi avrebbe subito l'assalto degli Ouster. Nuova Terra era nell'elenco della seconda ondata, annunciato adesso, e aveva poco più di una settimana standard, prima dell'invasione. Nevermore era nel cuore della Rete, ad anni di distanza dall'attacco.

Non c'erano segni di panico. La gente si dedicava alla sfera dati e alla Totalità, anziché alle vie. Camminando per gli stretti vicoli di Tsingtao, udivo la voce di Gladstone, da decine di ricevitori e di comlog personali: un bizzarro sottofondo verbale alle grida degli ambulanti e ai sibili di pneumatici sull'asfalto bagnato, mentre i risciò elettrici ronzavano più in alto, nei livelli di trasporto.

« …come un altro leader disse al suo popolo, alla vigilia di un attacco, quasi otto secoli fa: "Non ho niente da offrire, tranne sangue, fatica, lacrime e sudore". Vi chiedete: qual è la nostra linea politica? Vi rispondo: fare guerra, nello spazio, sulla terraferma, nell'aria, per mare; fare guerra, con tutta la nostra potenza e con tutta la forza che giustizia e diritto ci concedono. Ecco la nostra linea politica…»

C'erano soldati della FORCE, nei pressi della zona di traslazione fra Tsingtao e Nevermore, ma il flusso di pedoni pareva normale. Mi chiesi quando i militari avrebbero requisito il viale pedonale del Concourse per adibirlo al traffico di veicoli e se l'avrebbero indirizzato verso il fronte o dalla parte opposta.

Passai su Nevermore. Le vie lì erano asciutte, a parte di tanto in tanto qualche spruzzo dell'oceano, trenta metri al di sotto dei bastioni di pietra del Concourse. Il cielo aveva le normali sfumature minacciose grigio e ocra, crepuscolo di malaugurio in pieno giorno. Negozietti di pietra risplendevano di luce e di mercanzie. Mi accorsi che le vie erano meno affollate del solito; la gente era nei negozietti o sedeva sui muriccioli di pietra o sulle panche, a capo chino, con espressione distratta, e ascoltava.

«…chiedete: a cosa miriamo? Rispondo con una parola sola: vittoria. Vittoria a tutti i costi, vittoria nonostante tutti i terrori, vittoria per quanto possa essere lunga e dura la strada. Perché, senza vittoria, non ci sarà sopravvivenza…»

Al terminex principale di Edgartown non c'era molta coda. Battei il codice per Mare Infinitum e varcai il portale.

Il cielo era del solito verde sereno, l'oceano era di un verde più cupo, sotto la città galleggiante. Le fattorie di fuchi arrivavano all'orizzonte. La folla, così lontano dal Concourse, era ancora minore; le passerelle erano quasi vuote, alcuni negozi erano chiusi. Un gruppo di uomini, fermo vicino a un molo di barche-letto, ascoltava un antiquato ricevitore astrotel. Nell'aria riccamente salmastra, la voce di Gladstone era piatta e metallica.

« …proprio ora, unità della FORCE si trasferiscono senza soste alle proprie stazioni, ferme nel proposito e fiduciose nell'abilità di salvare non solo i mondi minacciati, ma tutta l'Egemonia dell'Uomo, dalla tirannia più sporca e devastante che abbia mai macchiato gli annali della storia…»

Mare Infinitum era a diciotto ore dall'invasione. Guardai verso il cielo, quasi aspettandomi di vedere qualche segno della flotta nemica, qualche indicazione di difese orbitali, movimenti di truppe nello spazio. C'era solo il cielo, il giorno caldo, il lieve rollio della città sulla superficie del mare.

Porta del Paradiso era al primo posto nell'elenco dell'invasione. Varcai il portale VIP di Piana Fangosa e guardai da Rifkin Heights la bella città che smentiva il proprio nome. Era notte fonda, così fonda che circolavano gli spazzini mecc; ma c'era movimento, lunghe file di gente silenziosa al termincx pubblico di Rifkin Heights e code ancora più lunghe, in basso, ai portali della Passeggiata. Gli agenti della polizia locale spiccavano, alte figure in tuta blindata marrone; ma se unità della FORCE accorrevano a rinforzare la zona, non se ne vedeva segno.

Le persone in coda non erano gente del posto — chi viveva a Rifkin Heights e sulla Passeggiata quasi certamente aveva portali privati — ma parevano addetti ai lavori di bonifica parecchi chilometri al di là della foresta di felci e dei parchi. Non c'era panico e si parlava poco. Le code scorrevano con la stoica pazienza di famiglie che andassero a guardare le attrazioni di un parco a tema. Pochi portavano bagagli più grandi di una sacca da viaggio o di uno zaino.

"Abbiamo raggiunto una tale equanimità" mi dissi "da comportarci dignitosamente anche di fronte a un'invasione?"

Porta del Paradiso era a tredici ore dall'ora H. Sintonizzai il comlog sulla Totalità.

«…se possiamo controbattere questa minaccia, allora i mondi che amiamo forse rimarranno liberi e la vita della Rete avanzerà in un futuro illuminato dal sole. Ma se falliremo, allora l'intera Rete, l'Egemonia, tutto ciò che abbiamo conosciuto e amato, sprofonderanno nell'abisso di una nuova Era Oscura, resa infinitamente più sinistra e duratura dalle luci della scienza pervertita e dell'umana libertà negata.

«Perciò rafforziamoci nei nostri compiti e comportiamoci in modo che, se pure l'Egemonia dell'Uomo e il suo Protettorato e gli alleati dovessero durare diecimila anni, l'umanità dica ancora: "Questo è stato il loro momento migliore".»

Da qualche parte in basso, nella città fresca e silenziosa, iniziò la sparatoria. Prima venne lo strepito dei fucili a fléchettes, poi il profondo ronzio degli storditori antisommossa, poi le urla e lo sfrigolio delle armi a laser. Sulla Passeggiata la folla si precipitò verso il terminex, ma dal parco emersero i poliziotti, accesero potenti riflettori alogeni che bagnarono di luce la folla, ordinarono per altoparlante di rimettersi in fila o disperdersi. La folla esitò, si mosse avanti e indietro come meduse prese in una corrente traditrice e poi, spronata dal rumore di spari, adesso più forte e più vicino, si lanciò verso le piattaforme del portale.

I poliziotti spararono gas lacrimogeni e granate a vertigine. Fra la folla e il teleporter, comparvero con un sibilo e un bagliore violetto i campi d'interdizione. Una squadriglia di VEM militari e di skimmer della sicurezza calò sulla città, con i riflettori che foravano il buio. Un raggio di luce mi sorprese, mi tenne prigioniero finché il mio comlog non ammiccò a un segnale interrogativo, poi passò oltre. Iniziò a piovere.

"L'equanimità è servita!"

I poliziotti controllavano il terminex pubblico di Rifkin Heights e varcavano il portale privato del Protettorato Atmosferico di cui mi ero servito. Decisi di andare altrove.


C'erano commandos della FORCE, di guardia ai corridoi della Casa del Governo: esaminavano gli arrivi teleporter, nonostante il fatto che quello fosse uno dei portali di più difficile accesso di tutta la Rete. Oltrepassai tre posti di controllo, prima di arrivare all'ala funzionari/residenti dove alloggiavo. A un tratto le guardie svuotarono il corridoio principale e tennero sotto controllo le diramazioni; passò Gladstone, accompagnata da una mulinante folla di consiglieri, di segretari, di capi militari. Mi vide, si fermò coinvolgendo la scorta e mi parlò attraverso la barriera di marines in tenuta da combattimento.

— Come le è sembrato il discorso, signor Nessuno?

— Bello — dissi. — Commovente. E, se non sbaglio, rubato a Winston Churchill.

Gladstone sorrise e scrollò leggermente le spalle. — Se bisogna rubare, meglio rubare ai maestri dimenticati. — Il sorriso svanì. — Notizie dalla frontiera?

— Appena adesso si comincia a recepire la realtà — risposi. — C'è da aspettarsi il panico.

— Me l'aspetto sempre. Novità sui pellegrini?

Rimasi sorpreso. — I pellegrini? Non ho… sognato.

La corrente della scorta e degli eventi cominciò a spingere il PFE lungo il corridoio. — Forse non ha più bisogno di dormire, per sognare — disse Gladstone, allontanandosi. — Provi.

La guardai sparire, ottenni il permesso di andare nel mio alloggio, trovai la porta e mi scostai, disgustato. La mia era una ritirata, per la paura e lo choc dell'orrore che scendeva su tutti noi. Sarei stato ben contento di starmene disteso nel letto, evitando il sonno, con le coperte tirate fin sotto il mento, a piangere sulla Rete, sulla piccola Rachel, su me stesso.

Lasciai l'ala residenziale, uscii nel giardino interno, vagai fra sentieri di ghiaia. Minuscole microguardie ronzavano nell'aria come api; una mi seguì attraverso il giardino di rose e nella zona dove un sentiero infossato si snodava fra umide piante tropicali, e poi nella sezione Vecchia Terra, accanto al ponticello. Mi sedetti sulla panchina di pietra, nel punto dove avevo discusso con Gladstone. "Forse non ha più bisogno di dormire, per sognare. Provi." Tirai sulla panchina i piedi, appoggiai il mento alle ginocchia, con la punta delle dita mi premetti le tempie e chiusi gli occhi.

32

Martin Sileno si torce e si dibatte nella pura poesia del dolore. Una spina d'acciaio, lunga due metri, gli entra fra le scapole, gli esce dal torace e si protende ancora per un metro in una punta orribile e rastremata. Le braccia non arrivano a toccarla. La spina è priva di qualsiasi asperità, le mani sudate non vi fanno presa. Anche se è scivolosa al tatto, il corpo non scivola: Martin Sileno è impalato solidamente, come una farfalla infilzata per l'esposizione.

Non c'è sangue.

Nelle ore in cui la razionalità era tornata attraverso la folle nebbia della sofferenza, Martin Sileno si era chiesto il motivo. Non c'è sangue. Ma c'è sofferenza. Oh, sì, c'è sofferenza a non finire… sofferenza che trascende la più folle fantasia del poeta sull'essenza del dolore, sofferenza che trascende la sopportazione umana e i confini del dolore.

Ma Sileno sopporta. E Sileno soffre.

Urla per la millesima volta: un grido stridulo, vuoto di contenuto, privo di linguaggio, perfino di oscenità. Le parole non riescono a dare l'idea di una simile sofferenza. Sileno urla e si contorce. Dopo un poco, si affloscia; la lunga spina vibra leggermente in risposta. Altri penzolano sopra, sotto, dietro di lui, ma Sileno spreca pochissimo tempo per osservarli. Ciascuno è isolato nel suo bozzolo personale di sofferenza.

"Perché questo è l'inferno" pensa Sileno, citando Marlowe, "e non ne sono fuori."

Ma sa che non è l'inferno. Né la vita dopo la morte. E sa pure che non è una sottobranca della realtà; la spina gli passa attraverso il corpo! Otto centimetri d'acciaio organico attraverso il petto! Eppure non è morto. Non sanguina. Quel luogo era da qualche parte ed era qualcosa, ma non l'inferno e neppure un posto vìvente.

Il tempo era strano, lì. Sileno sapeva già che il tempo si allunga e rallenta — la sofferenza del nervo esposto, sulla poltrona del dentista; il dolore dei calcoli renali, nella sala d'attesa di un ospedale — il tempo poteva rallentare, all'apparenza non muoversi affatto, mentre le lancette di un oltraggiato orologio biologico rimanevano ferme per lo choc. Ma il tempo si era mosso, allora. Il canale radicolare era perfetto. L'ultramorfina finalmente arrivava, agiva. Ma qui l'aria stessa è immobile per l'assenza di tempo. Il dolore è l'increspatura e la spuma di un'onda che non si frange.

Sileno urla, di furia e di dolore. E si contorce sulla spina.

— Maledetto! — riesce a dire finalmente. — Maledetto bastardo figlio di puttana. — Le parole sono resti di una vita differente, manufatti del sogno vissuto prima della realtà dell'albero. Sileno ricorda appena quella vita, come ricorda appena quando lo Shrike l'ha portato lì, l'ha impalato lì, l'ha lasciato lì.

— Oddiooo! — urla. Afferra a due mani la spina, cerca di spostarsi in su per dare sollievo al peso del corpo che si aggiunge incommensurabile al dolore sconfinato.

C'è un paesaggio, in basso. Può vederlo per miglia e miglia. È un impietrito diorama di cartapesta della Valle delle Tombe del Tempo e del deserto. Anche la città morta e le lontane montagne sono riprodotte in miniatura plastificata, sterile. Non importa. Per Martin Sileno ci sono solo l'albero e la sofferenza; e le due cose sono indivisibili. Sileno snuda i denti in un sorriso screpolato dal dolore. Quand'era bambino, sulla Vecchia Terra, lui e Amalfi Schwartz, il suo migliore amico, avevano visitato una comune di cristiani nella Riserva Nordamericana, avevano imparato la loro rozza teologia e in seguito avevano fatto molte battute ironiche sulla crocifissione. Il giovane Martin aveva allargato le braccia, incrociato le gambe, sollevato la testa e dichiarato: «Oddio, da qui vedo tutta la città». Amalfi era scoppiato a ridere.

Sileno urla.

Il tempo non passa veramente, ma dopo un poco la mente di Sileno torna a qualcosa che sembra l'osservazione lineare… qualcosa di diverso dalle oasi disperse di pura sofferenza, separate dal deserto di dolore ricevuto scioccamente… e in quella percezione lineare della propria sofferenza, Sileno comincia a imporre tempo su un luogo senza tempo.

Per prima cosa, le oscenità aggiungono chiarezza alla sofferenza. Urlare fa male, ma la rabbia chiarisce e chiarifica.

Poi, nelle pause esauste fra le urla o i puri spasmi di dolore, Sileno si concede pensiero. All'inizio si tratta semplicemente di un tentativo di mantenere sequenze, di recitare a mente le tabelline, qualsiasi cosa che separi la sofferenza di dieci secondi prima dalla sofferenza a venire. Sileno scopre che, nello sforzo di concentrarsi, la sofferenza diminuisce un poco: è sempre insopportabile, spinge sempre come fumo al vento ogni pensiero, ma diminuisce di una quantità imprecisabile.

Allora Sileno si concentra. Urla e grida e si contorce, ma si concentra. Poiché non ha altro su cui concentrarsi, si concentra sul dolore.

Il dolore, scopre, ha una struttura. Ha una pianta. Ha disegni più intricati del guscio di un nautilus, tratti più barocchi della cattedrale gotica più ricca di contrafforti. Anche mentre urla, Martin Sileno studia la struttura di questo dolore. Si rende conto che è una poesia.

Inarca corpo e collo per la millesima volta, cerca sollievo dove nessun sollievo è possibile, ma stavolta vede una figura nota, cinque metri più in alto, infilzata in una spina simile alla sua, che si agita sotto l'irreale brezza della sofferenza.

— Billy! — ansima Sileno. È il suo primo pensiero vero e proprio.

Il suo ex signore e mecenate fissa un abisso invisibile, reso cieco dal dolore che ha accecato Sileno, ma si gira leggermente come in risposta al proprio nome urlato in questo posto al di là dei nomi.

— Billy! — grida di nuovo Sileno; poi, per il dolore, perde vista e pensiero. Si concentra sulla struttura del dolore, ne segue il disegno come se seguisse il contorno del tronco, dei rami, dei ramoscelli, delle spine dell'albero stesso. — Maestà!

Al di sopra delle grida, ode una voce e con stupore scopre che grida e voce sono sue:

…tu sei una cosa sognante;

febbre di te stesso… pensa alla Terra;

quale felicità esiste per te, anche nella speranza, solamente?

Quale asilo? Ogni creatura ha dimora;

ogni uomo vive giorni di gioia e di dolore,

che abbia compiuto imprese sublimi o infime…

solo il dolore solo la gioia, distinti:

il sognante, appena, avvelena tutti i suoi giorni,

subisce più dolore di quanto meritino i suoi peccati.

Riconosce i versi, non suoi, di John Keats, e sente che le parole accrescono la struttura dell'apparente caos di dolore che lo circonda. Capisce che il dolore è stato con lui fin dalla nascita… il dono dell'universo a un poeta. È un riflesso fisico del dolore, quello che ha sentito e cercato inutilmente di mettere in versi, d'appuntare in prosa, per tutti gli inutili anni di vita. È peggio del dolore; è infelicità perché l'universo offre dolore a tutti.

Il sognante, appena avvelena tutti i suoi giorni,

soffre più dolore di quanto meritino i suoi peccati!

Sileno declama a voce alta, ma non grida. Il ruggito di dolore che proviene dall'albero, più psichico che fisico, diminuisce per una minima frazione di secondo. C'è un'isola di turbamento, in quell'oceano di determinazione.

— Martin!

Sileno s'inarca, solleva la testa, cerca di mettere a fuoco la vista tra la foschia di dolore. Re Billy il Triste gracchia una parola che dopo un istante infinito Sileno riconosce: "Ancora!"

Sileno urla di sofferenza atroce, si contorce in uno spasmo di sciocca risposta fisica; ma quando si ferma, penzolando esausto, con il dolore non attenuato ma spinto via dalle zone motrici del cervello dalle tossine della fatica, permette alla voce che ha in sé di gridare e bisbigliare la propria canzone:

Spirito che qui regni!

Spirito che qui soffri!

Spirito che qui bruci!

Spirito che qui piangi!

Spirito! Chino

la fronte,

Ombrata dai tuoi vanni!

Spirito! Guardo

appassionato

I tuoi lividi dominii!

Il piccolo cerchio di silenzio si allarga a includere diversi rami vicini, una manciata di spine con i loro grappoli di esseri umani in extremis.

Sileno fissa re Billy il Triste, vede il suo signore tradito aprire gli occhi afflitti. Per la prima volta in più di due secoli, mecenate e poeta si guardano. Sileno consegna il messaggio che l'ha portato qui, che l'ha appeso lì. — Maestà, sono spiacente.

Prima che Billy possa rispondere, prima che il coro di grida soffochi qualsiasi risposta, l'aria muta, l'impressione di tempo congelato si agita, l'albero si scuote come se tutto intero fosse caduto di un metro. Sileno urla con gli altri, mentre il ramo si scuote e la spina gli lacera le interiora, gli strazia di nuovo la carne.

Sileno apre gli occhi e vede che il cielo è reale, il deserto è reale, le Tombe risplendono, il vento soffia, il tempo è ricominciato. Non c'è diminuzione del tormento, ma la chiarezza è tornata.

Martin Sileno ride fra le lacrime. — Ehi, mamma! — grida, ridacchiando scioccamente, anche se la lancia d'acciaio gli trapassa ancora il petto. — Da quassù vedo tutta la città!


— Signor Severn? Si sente bene?

Ansimando, a quattro zampe, mi girai verso la voce. Aprire gli occhi fu doloroso, ma nessun dolore era paragonabile a quello che avevo appena provato.

— Sta bene, signore?

Accanto a me, nel giardino, non c'era nessuno. La voce proveniva dalla microguardia che ronzava a mezzo metro dal mio viso, controllata da un agente della sicurezza chissà dove nella Casa del Governo.

— Sì — riuscii a dire, tirandomi in piedi e spazzolandomi pietruzze dalle ginocchia. — Sto bene. Un… un dolore improvviso.

— Il pronto soccorso può essere qui in due minuti, signore. Il suo biomonitor non segnala disfunzioni organiche, ma possiamo…

— No, no — dissi. — Sto benissimo. Lasciate stare. E lasciatemi in pace!

La microguardia sfarfallò come un colibrì nervoso. — Sì, signore. Ma chiami, se le occorre qualcosa. Il monitor del giardino risponderà.

— Se ne vada — dissi.

Lasciai il giardino, percorsi il corridoio principale della Casa del Governo, ora pieno di posti di controllo e di guardie della sicurezza, e uscii nel panoramico Parco dei Cervi.

La zona del molo adesso era silenziosa; non avevo mai visto il fiume Teti così immobile. — Cosa succede? — domandai a uno degli agenti della sicurezza fermi sulla banchina.

L'agente si collegò al mio comlog, ottenne conferma del mio livello di priorità e dell'autorizzazione PFE, ma rispose senza fretta. — I portali sono stati deviati da TC2 — disse, con cadenza strascicata. — Aggirati.

— Aggirati? Vuol dire che il fiume non scorre più attraverso Tau Ceti Centro?

— Esatto. — Si calò il visore all'avvicinarsi di una piccola imbarcazione e tornò a sollevarlo, quando identificò a bordo due agenti della sicurezza.

— Posso uscire da quella parte? — Indicai a monte del fiume, dove gli alti portali mostravano un'opaca cortina di grigio.

L'agente scrollò le spalle. — Già. Ma da lì non le sarà permesso rientrare.

— Va bene lo stesso. Posso prendere quella piccola barca?

L'agente bisbigliò nel microfono a goccia e annuì. — Vada pure.

Salii cautamente sulla barca, mi sedetti sulla panca posteriore e mi ressi alle falchette finché il dondolio non smise; toccai il diskey di potenza e dissi: — Parti.

I jet elettrici ronzarono, la piccola lancia tolse gli ormeggi e puntò il muso nel fiume; indicai di risalirlo.

Non sapevo che una parte del fiume Teti fosse isolata, ma ora vedevo chiaramente che la cortina del teleporter era una membrana semipermeabile unidirezionale. La barca l'attraversò ronzando; mi scrollai di dosso la sensazione di formicolio e mi guardai intorno.

Mi trovavo in una delle grandi città lagunari — Ardmen, o forse Pamolo — di Vettore Rinascimento. Lì il Teti era la via principale, dalla quale si dipartivano parecchi affluenti. Normalmente, il traffico fluviale era composto solo di gondole di turisti nelle corsie esterne e di yacht e di spazioanfibi dei ricchissimi nelle corsie centrali. Quel giorno era un manicomio.

Imbarcazioni di ogni forma e grandezza intasavano nei due sensi i canali centrali. Sulle case galleggianti c'erano pile di masserizie, le imbarcazioni più piccole erano così cariche da far pensare che una piccolissima ondata o una scia le avrebbe capovolte. Centinaia di giunche ornamentali di Tsingtao-Hsishuang Panna e di condom-chiatte fluviali di Fuji rivaleggiavano per una fetta di fiume; immaginai che ben poche di quelle imbarcazioni residenziali avessero lasciato gli ormeggi in precedenza. Fra la confusione di legno, di plastacciaio e di perspex, gli spazioanfibi si muovevano come uova d'argento, con il campo di contenimento regolato sulla massima riflessione.

Interrogai la sfera dati: Vettore Rinascimento era un mondo della seconda ondata, centosette ore dall'invasione. Mi parve strano che profughi di Fuji affollassero qui le vie d'acqua, dal momento che quel mondo aveva più di duecento ore di tempo, prima che la scure calasse; ma poi capii che, a parte la rimozione di TC2 dal fiume, il Teti scorreva ancora lungo la solita serie di mondi. Profughi di Fuji avevano preso il fiume da Tsingtao, trenta ore dagli Ouster, attraverso Deneb Drei a 147 ore, attraverso Vettore Rinascimento, verso Parsimony oppure Grass, tutti e due non minacciati, al momento. Scossi la testa, trovai un corso d'acqua tributario relativamente tranquilla da dove guardare la folla, e mi chiesi quando le autorità avrebbero cambiato il corso del fiume in modo che tutti i mondi minacciati scorressero verso la salvezza.

"Potranno farlo?" mi domandai. Il TecnoNucleo aveva installato il fiume Teti come dono all'Egemonia in occasione del Quinto Centenario. Ma senz'altro Gladstone o altri avevano pensato di chiedere al Nucleo aiuto per l'evacuazione. "L'avranno chiesto?" mi domandai. E il Nucleo sarebbe stato disposto ad aiutare? Gladstone era convinta che elementi del Nucleo intendevano eliminare la razza umana… la guerra, vista l'alternativa, era stata per Gladstone la scelta di Hobson. Quale semplice mezzo di portare a termine il proprio programma, per gli elementi del Nucleo contrari alla razza umana! Il semplice rifiuto di evacuare i miliardi di individui minacciati dagli Ouster!

Avevo sorriso, anche se amaramente; ma il sorriso svanì, quando mi resi conto che il TecnoNucleo curava la manutenzione e controllava la griglia teleporter da cui anch'io dipendevo per uscire dai territori minacciati.

Avevo legato la lancia alla base di una scala di pietra che scendeva nell'acqua salmastra. Le pietre inferiori erano coperte di muschio verde. I gradini — forse portati dalla Vecchia Terra, dal momento che alcune città classiche erano state trasferite via teleporter su altri pianeti, nei primi anni dopo il Grande Errore — erano consunti e mostravano una rete di crepe sottili che univano puntini scintillanti, come in una rappresentazione schematica della Rete dei Mondi.

Faceva molto caldo e l'aria era troppo densa, troppo pesante. Il sole di Vettore Rinascimento era basso, sopra le torri dal tetto a due spioventi. La luce era troppo rossa e troppo sciropposa per i miei occhi. Il frastuono proveniente dal Teti assordava anche lì, cento metri in fondo all'equivalente di un vicolo. Piccioni svolazzavano agitati fra muri scuri e gronde sporgenti.

"Cosa posso fare?" Tutti parevano comportarsi come se il mondo scivolasse verso la distruzione e il meglio che mi riusciva di fare era andarmene in giro senza meta.

"Questo è il suo compito. Lei è un osservatore."

Mi strofinai gli occhi. Chi aveva detto che i poeti dovevano essere osservatori? Pensai a Li Po e a George Wu, che guidavano il proprio esercito attraverso la Cina e scrivevano alcune delle più sensibili poesie della storia, mentre i soldati dormivano. E se non altro Martin Sileno aveva vissuto una vita lunga e piena d'eventi, anche se metà di quegli eventi era oscena e l'altra metà sterile.

Al pensiero di Martin Sileno, mi lasciai sfuggire un gemito.

"In questo momento anche la piccola Rachel penzola da un albero di spine?"

Per un secondo soppesai il pensiero e mi domandai se una simile sorte fosse preferibile alla rapida estinzione dovuta al morbo di Merlino.

"No."

Chiusi gli occhi, mi concentrai per non pensare a niente, con la speranza di stabilire contatto con Sol, di scoprire quale fosse stata la sorte di sua figlia.

La piccola imbarcazione dondolò dolcemente sotto la spinta di una scia lontana. In alto, i colombi volarono sopra un cornicione e tubarono fra loro.


— Me ne frego, delle difficoltà! — urla Meina Gladstone. — Voglio che tutta la flotta del sistema di Vega difenda Porta del Paradiso. Poi sposti gli elementi necessari su Bosco Divino e sugli altri mondi minacciati. L'unico nostro vantaggio, in questo momento, è la mobilità!

La faccia dell'ammiraglio Singh è nera di rabbia repressa. — Troppo pericoloso, signora! — ribatte l'ammiraglio. — Se muoviamo la flotta direttamente nello spazio di Vega, corriamo il terribile rischio che sia tagliata fuori. Gli Ouster tenteranno senza dubbio di distruggere la sfera d'anomalia che collega alla Rete quel sistema.

— Proteggetela! — sbotta Gladstone. — Le costose navi da guerra servono proprio a questo.

Singh lancia un'occhiata a Morpurgo e agli altri pezzi grossi, in cerca d'aiuto. Nessuno apre bocca. Il gruppo si trova nella Sala di Guerra del complesso esecutivo. Le pareti sono piene di olografie e di colonne di dati in rapido scorrimento. Nessuno le guarda.

— Occorrono tutte le nostre risorse, per proteggere la sfera d'anomalia nello spazio di Hyperion — dice l'ammiraglio Singh, a voce bassa, staccando con cura le parole. — La ritirata sotto il fuoco, soprattutto sotto l'assalto dell'intero Sciame, è molto difficile. Se la sfera andasse distrutta, la nostra flotta si troverebbe a diciotto mesi di debito temporale dalla Rete. Prima che possa essere di ritorno, la guerra sarebbe perduta.

Gladstone annuisce seccamente. — Non chiedo di rischiare la sfera d'anomalia prima che tutti gli elementi della flotta siano stati teleportati, ammiraglio… ho già accettato di lasciare che prendano Hyperion prima che tutte le nostre navi escano dal sistema… ma, ripeto, non dobbiamo cedere mondi della Rete senza combattere.

Il generale Morpurgo si alza. Il lusiano sembra già esausto. — Signora, combatteremo di sicuro. Ma è molto più ragionevole iniziare le difese su Hebron o su Vettore Rinascimento. Non solo acquistiamo quasi cinque giorni per prepararci, ma…

— Ma perdiamo nove mondi! — lo interrompe Gladstone. — Miliardi di cittadini dell'Egemonia! Esseri umani. Porta del Paradiso sarebbe una perdita terribile, ma Bosco Divino è un tesoro culturale ed ecologico. Insostituibile.

— Signora — dice Allan Imoto, ministro della Difesa — c'è la prova che da molti anni i Templari sono in combutta con la cosidetta Chiesa Shrike. Gran parte dei fondi per i programmi del Culto Shrike proveniva da…

Con un gesto Gladstone lo zittisce. — Me ne frego. L'idea di perdere Bosco Divino è insostenibile. Se non possiamo difendere Vega e Porta del Paradiso, tracciamo la linea intorno al pianeta dei Templari. È deciso.

Singh sembra appesantito da catene invisibili, mentre tenta un sorriso ironico. — Così acquistiamo meno di un'ora.

— È deciso — ripete Gladstone. — Leigh, qual è la situazione delle sommosse su Lusus?

Hunt si schiarisce la voce. Si comporta con l'aria abbattuta e la calma di sempre. — Signora, adesso sono coinvolti almeno cinque Alveari. Danni per centinaia di milioni di marchi. Reparti della FORCE:terra sono stati teleportati da Freeholm e a quanto sembra hanno contenuto la fase più violenta dei saccheggi e delle dimostrazioni, ma non si sa quando il servizio teleporter potrà essere riattivato, in questi Alveari. Non c'è dubbio che la Chiesa dello Shrike sia responsabile delle sommosse. La prima rivolta, nell'Alveare Bergstrom, è iniziata con una manifestazione di fanatici del Culto e il Vescovo si è inserito nei programmi della TVE finché non è stato interrotto da…

Gladstone abbassa la testa. — Finalmente è rispuntato. Si trova su Lusus?

— Non lo sappiamo, signora — risponde Hunt. — Funzionari dell'Ente Transiti cercano di rintracciare lui e gli accoliti di grado più elevato.

Gladstone si gira verso un giovanotto che per un attimo non riconosco. È il capitano di fregata William Ajunta Lee, l'eroe della battaglia di Patto-Maui. Secondo le ultime notizie, era stato trasferito nei mondi periferici per avere osato esprimere le proprie idee davanti ai superiori. Adesso le spalline dell'uniforme della FORCE:mare hanno l'oro e lo smeraldo da ammiraglio di divisione.

— E combattere per ciascun mondo? — gli chiede Gladstone, anche se lei stessa ha proclamato che tutto è deciso.

— Lo ritengo un errore, signora — risponde Lee. — Tutti e nove gli Sciami sono coinvolti nell'attacco. L'unico di cui non dobbiamo preoccuparci per i prossimi tre anni, presumendo di sganciare le nostre forze, è proprio lo Sciame che in questo momento attacca Hyperion. Se concentriamo la flotta, anche metà della flotta, per controbattere la minaccia contro Bosco Divino, c'è quasi il cento per cento di probabilità che non riusciremo a spostare queste forze per difendere gli altri otto mondi minacciati dalla prima ondata.

Gladstone si strofina il labbro inferiore. — Lei cosa consiglia?

L'ammiraglio di divisione Lee respira a fondo. — Ridurre le perdite, far saltare le sfere d'anomalia di questi nove mondi e prepararci ad attaccare gli Sciami della seconda ondata prima che raggiungano sistemi solari abitati.

Intorno al tavolo scoppia il pandemonio. La senatrice Feldstein, del Mondo di Barnard, scatta in piedi, grida qualcosa.

Gladstone aspetta che la tempesta si calmi. — Portare da loro lo scontro, vuol dire? Contrattaccare gli Sciami, non aspettare una battaglia difensiva?

— Sì, signora.

Gladstone guarda l'ammiraglio Singh. — Si può fare? Possiamo pianificare, preparare e lanciare un'offensiva tra… — consulta il flusso di dati sulla parete di fronte — novantaquattro ore standard da adesso?

Singh si mette sull'attenti. — Possiamo? Ah… forse, signora. Ma le ripercussioni politiche della perdita di nove mondi della Rete… ah… le difficoltà logistiche di…

— Ma si può fare? — lo incalza Gladstone.

— Ah… sì, signora. Però, se…

— Facciamolo — taglia corto Gladstone. Si alza e tutti al tavolo si affrettano a imitarla. — Senatrice Feldstein, parlerò nel mio ufficio con lei e con gli altri legislatori interessati. Leigh, Allan, per favore, tenetemi informata sulle sommosse di Lusus. Il Consiglio di Guerra tornerà a riunirsi qui, fra quattro ore. Buongiorno, signori.


Camminai per le vie come stordito, la mente rivolta agli echi. Lontano dal Teti, dove i canali erano meno numerosi e i passaggi pedonali più ampi, la folla riempiva i viali. Lasciai che il comlog mi guidasse a diversi terminex, ma ogni volta la folla era più fitta. Impiegai alcuni minuti a capire che non erano solo abitanti di Vettore Rinascimento che cercavano di andarsene, ma visitatori di tutta la Rete che spingevano per entrare. Mi domandai se qualcuno, nell'unità operativa di evacuazione, avesse considerato la possibilità che milioni di curiosi affollassero i teleporter per veder iniziare la guerra.

Non sapevo come mi fosse possibile sognare conversazioni avvenute nella Sala di Guerra, ma ero sicuro che fossero reali. Ripensandoci, ricordai particolari dei sogni della lunga notte precedente… non solo sogni di Hyperion, ma la passeggiata fra i mondi fatta da Gladstone e particolari di conferenze ad alto livello.

Chi ero?

Un cìbrido era un telecomando biologico, un'appendice delle IA (nel caso specifico, una personalità ricuperata dalle IA), messo al sicuro chissà dove nel Nucleo. Era concepibile che il Nucleo conoscesse tutto ciò che accadeva nella Casa del Governo, negli svariati corridoi del posto di comando umano. La razza umana era diventata tanto blasée, nel condividere la vita con potenziali monitoraggi IA, quanto le famiglie degli Stati Uniti meridionali pre-guerra civile sulla Vecchia Terra lo erano nel parlare in presenza di schiavi umani. Impossibile evitarlo: ogni essere umano al di sopra della classe più povera delle infime zone di Alveare Sedimento possedeva un comlog con biomonitor, parecchi avevano impianti e ciascuno di essi era sintonizzato sulla musica della sfera dati, controllato da elementi della sfera dati, dipendente da funzioni della sfera dati… gli esseri umani accettavano così la mancanza di riservatezza. Un artista su Esperance una volta mi aveva detto: «Avere rapporti sessuali o una lite in famiglia, con i monitor domestici accesi, è come spogliarsi davanti a un cane o a un gatto: la prima volta esiti, poi te ne dimentichi».

In quel momento mi collegavo forse, mediante un canale secondario, proprio con il Nucleo? C'era un modo assai semplice, per scoprirlo: lasciare il cìbrido e percorrere le autostrade della megasfera fino al Nucleo, come Brawne e la mia controparte priva di corpo avevano fatto, l'ultima volta che avevo condiviso le loro percezioni.

"No."

Il pensiero mi intontì, quasi mi fece stare male. Trovai una panca e mi sedetti un momento, chinando la testa sulle ginocchia e respirando lentamente, a fondo. La folla mi passò davanti. Da qualche parte, qualcuno si rivolgeva alla gente servendosi di un altoparlante.

Ero affamato. Non mangiavo da almeno ventiquattro ore: cìbrido o no, il mio corpo era debole e aveva bisogno di nutrimento. Mi infilai in una via laterale dove le grida dei venditori sovrastavano il normale frastuono e reclamizzavano prodotti esposti su girocarri a una ruota.

Trovai un carro davanti al quale c'era poca coda, ordinai pasta fritta col miele, una tazza di fragrante caffè bressiano e una ciotola di pane di pita con insalata; pagai la donna usando la carta universale e salii una scala fino a un edificio abbandonato per sedermi sulla veranda a mangiare. Il cibo era buonissimo. Sorseggiavo il caffè e pensavo di comprare altra pasta, quando notai che nella piazza in basso la folla aveva smesso di muoversi in ondate noncuranti e si era radunata intorno a un gruppetto di uomini in piedi sul bordo dell'ampia fontana centrale. Le parole amplificate giunsero fino a me.

«…l'Angelo della Vendetta è stato sguinzagliato fra noi, le profezie si sono compiute, il Millennio sta per arrivare… il piano dell'Avatar richiede un simile sacrificio… come profetizzato dalla Chiesa della Redenzione Finale che sapeva, ha sempre saputo, che una simile redenzione deve avvenire… troppo tardi per queste mezze misure… troppo tardi per la lotta fratricida… la fine dell'umanità è su di noi, le Tribolazioni sono iniziate, il Millennio del Signore sta per vedere la luce.»

Capii che gli uomini vestiti di rosso erano sacerdoti del Culto Shrike; la folla rispondeva, prima con grida sparse di assenso, qualche "Sì, sì!" e qualche "Amen!" di tanto in tanto, poi con una salmodia all'unisono, pugni alzati e agitati sopra la testa, feroci grida di estasi. Una scena a dir poco inconsueta. In quel periodo, dal punto di vista religioso, la Rete ricordava molto la Roma della Vecchia Terra poco prima dell'Era cristiana: una politica di tolleranza e una miriade di religioni (per la maggior parte, come lo Gnosticismo Zen, complesse e rivolte all'introspezione, non al proselitismo), mentre il tenore generale era di leggero cinismo e di indifferenza.

Ma non ora, non in quella piazza.

In quel momento pensavo che nei secoli recenti le sommosse in pratica non erano esistite: perché si formi una folla tumultuante sono necessarie riunioni pubbliche, ma nel nostro tempo le riunioni pubbliche consistevano di individui in comunione tramite la Totalità o altri canali della sfera dati; è difficile creare una sommossa, quando ogni persona dista chilometri e anni-luce dalle altre, collegata solo mediante linee di comunicazione e cavi astrotel.

All'improvviso fui strappato dalle mie fantasticherie: il ruggito della folla era diventato silenzio, mentre migliaia di facce si giravano nella mia direzione.

— E laggiù c'è uno di loro! — gridava il sant'uomo del Culto Shrike, con uno sventolio di vesti rosse, additandomi. — Uno di quelli che appartengono al circolo ristretto dell'Egemonia… uno di quei peccatori che con le loro trame oggi hanno portato su di noi la Redenzione. Lui e quelli come lui vogliono che lo Shrike Avatar faccia pagare a voi i loro peccati, e si nascondono al sicuro nei mondi segreti approntati dal governo dell'Egemonia proprio per un simile giorno!

Posai la tazza di caffè, mandai giù l'ultimo boccone di pasta fritta, fissai il sant'uomo. Diceva un mucchio di stupidaggini. Ma come sapeva che ero giunto da TC2? O che potevo mettermi in contatto con Gladstone? Guardai meglio, schermandomi gli occhi e cercando di non badare alla gente che agitava il pugno nella mia direzione, e mi concentrai sulla faccia dell'uomo in veste rossa…

Oddio, era Spenser Reynolds! L'artista mimico che durante il nostro ultimo incontro aveva cercato di dominare la conversazione, nella cena al Treetops. Si era rasato completamente i capelli ricci e ben pettinati, lasciandosi solo un codino, secondo i dettami del Culto Shrike; ma il viso era ancora abbronzato e bello, anche se stravolto dalla rabbia simulata e dal fanatismo di un vero credente.

— Prendetelo! — gridò Reynolds, agitatore del Culto Shrike, sempre indicando me. — Prendetelo e fate in modo che paghi, per la distruzione delle nostre case, per la morte delle nostre famiglie, per la fine del nostro mondo!

Mi guardai davvero alle spalle, sicuro che quel pomposo poseur non parlasse di me.

Intanto una parte di spettatori si era mutata in folla tumultuante: un'ondata di persone vicino al demagogo urlante si mosse verso di me, fra agitare di pugni e volare di sputi, e quell'ondata ne spinse altre più lontano dal centro, finché le frange di folla si mossero anch'esse nella mia direzione per evitare di essere calpestate.

L'ondata divenne una massa urlante di rivoltosi; in quel momento, la somma dei quozienti d'intelligenza era molto inferiore a quella del più modesto componente singolo. La folla ha passioni, non cervello.

Non volevo fermarmi a spiegare loro il concetto. La folla si divise e cominciò a lanciarsi su per le ali della scalinata. Alle spalle avevo una porta sbarrata da assi di legno. Mi girai e provai ad aprirla. Era chiusa con un catenaccio.

La presi a calci; al terzo tentativo la porta si sfasciò. La varcai appena in tempo per sfuggire alle mani protese e mi lanciai di corsa su per una scala buia in un corridoio che puzzava di antico e di muffa. Mi giunsero grida e fracasso di legno fatto a pezzi, quando la folla demolì la porta.

Al secondo piano c'era un alloggio, anche se dall'esterno l'edificio era parso abbandonato. La porta non era chiusa a chiave. La spalancai, quando dalla rampa in basso mi giunse il rumore di passi.

— Per favore, aiuto… — Mi fermai di colpo. Nella stanza buia c'erano tre donne, forse tre generazioni femminili della stessa famiglia, perché si rassomigliavano un poco. Sedevano su poltrone cadenti, vestivano stracci luridi, tenevano le braccia distese, le dita livide strette su sfere invisibili; un sottile cavo metallico si arricciava fra i capelli canuti della donna più anziana e arrivava al pacchetto nero posto sul piano impolverato del tavolo. Cavetti identici si snodavano dal cranio della figlia e della nipote.

Neurocavodipendenti. All'ultimo stadio di anoressia da collegamento, a occhio e croce. Senza dubbio di tanto in tanto qualcuno veniva a nutrirle per endovena e a cambiare loro gli indumenti sporchi, ma forse la paura della guerra aveva tenuto lontano chi se ne occupava.

Il rumore di passi risuonò sulle scale. Chiusi la porta e salii di corsa altre due rampe. Porte chiuse a chiave o stanze con pozze d'acqua che sgocciolava da cannicci esposti. Iniettori vuoti di Flashback sparsi in giro come bulbi di bevande analcoliche. "Non è un vicinato di prima categoria" pensai.

Raggiunsi il tetto, con dieci passi di vantaggio sulla muta di inseguitori. Se per il distacco dal guru la folla aveva perso un poco dell'irrazionale passione, lo riguadagnò nello spazio buio e claustrofobico della rampa di scale. Forse aveva dimenticato perché mi dava la caccia, ma questo non rendeva più piacevole l'idea che mi catturassero.

Mi sbattei la porta alle spalle e cercai un chiavistello, qualcosa per barricare il corridoio. Non c'era chiavistello. Niente di tanto grosso da bloccare il vano della porta. Passi frenetici risuonarono sull'ultima rampa di scale.

Esaminai il tetto: miniriflettori parabolici per comunicazioni spaziali sparsi come funghi rugginosi capovolti, una corda da bucato dimenticata forse da anni, cadaveri decomposti di una decina di colombi, una Vikken Scenic vecchissima.

Raggiunsi il VEM prima che il più rapido degli inseguitori varcasse la porta. La Vikken era un pezzo da museo. Polvere ed escrementi di colombi oscuravano quasi il parabrezza. Qualcuno aveva rimosso i repulsori originali e li aveva sostituiti con apparecchiature a basso costo comprate al mercato nero che non avrebbero mai superato il collaudo. Il tettuccio di perspex era fuso e annerito sul retro, come se qualcuno l'avesse usato da bersaglio per allenarsi con armi laser.

Di maggiore e più immediata importanza, tuttavia, era il fatto che il VEM non aveva lucchetto a impronta del palmo, ma un semplice lucchetto a chiave, forzato da tempo. Mi lanciai sul sedile impolverato e cercai di sbattere la portiera: non si bloccò, ma rimase socchiusa, penzoloni. Non speculai sulle scarse probabilità che il VEM si mettesse in moto né su quelle, ancora più ridotte, di riuscire a trattare con la folla quando mi avesse strappato dalla macchina e trascinato di sotto… se non si fosse limitata a buttarmi giù dal tetto. Dalla piazza saliva il profondo ruggito della folla inferocita.

I primi a sbucare sul tetto furono un uomo tozzo in tuta cachi da meccanico, uno smilzo con l'abito nero opaco all'ultima moda di Tau Ceti, una donna terribilmente grassa che agitava quella che pareva una lunga chiave inglese, e un bassotto in divisa verde delle Forze di Autodifesa di Vettore Rinascimento.

Inserii nel diskey di avviamento la microcarta a priorità assoluta datami da Gladstone. La batteria mandò un gemito, lo starter di transizione brontolò e io chiusi gli occhi e mi augurai che i circuiti fossero a carica solare e ad autoriparazione.

Pugni sbatterono sul tettuccio, mani schiaffeggiarono il perspex ammaccato a pochi centimetri dal mio viso, qualcuno spalancò la portiera nonostante i miei sforzi per tenerla chiusa. Le grida della folla lontana sembravano il rumore di fondo di un oceano; le urla del gruppo sul tetto parevano le strida di gabbiani troppo cresciuti.

I circuiti di sollevamento si accesero, i repulsori inondarono di polvere e di escrementi di colombi la gente sul tetto; infilai la mano nell'onnicomando, mi spostai a destra, sentii la vecchia Scenic sollevarsi, vacillare, cadere, risollevarsi. Virai dritto sulla piazza, rendendomi conto solo in parte che gli allarmi del cruscotto suonavano e che qualcuno era rimasto appeso alla portiera aperta. Scesi in picchiata, sorridendo senza accorgermene quando l'oratore Reynolds del Culto Shrike si affrettò a scansarsi e la folla a disperdersi; poi mi alzai al di sopra della fontana, con una brusca virata a sinistra.

Il passeggero urlante non mollò la presa, ma la portiera cedette, per cui l'effetto fu identico. Notai che si trattava della cicciona, l'istante prima che lei e la portiera colpissero l'acqua da otto metri d'altezza, schizzando Reynolds e la folla. Portai il VEM in quota e ascoltai le unità di sollevamento da mercato nero brontolare contro la mia decisione.

Chiamate irose dal controllo locale del traffico si unirono al coro degli allarmi sul cruscotto; la vettura barcollò, quando la polizia rilevò i comandi di guida, ma con la microcarta toccai di nuovo il diskey e annuii di soddisfazione quando la leva onnicomando riacquistò il controllo del veicolo. Volai sopra la parte più antica e più povera della città, mantenendomi a poca distanza dai tetti e scansando guglie e torri con orologio, per tenermi al di sotto del campo radar della polizia. In una giornata normale, gli agenti addetti al controllo del traffico, su sollevatori personali e bastoni skimmer, sarebbero sciamati su di me e mi avrebbero già bloccato; ma a giudicare dalla folla nelle vie e dai tumulti intravisti nelle vicinanze dei terminex pubblici, quella non sembrava proprio una giornata normale.

La Scenic mi avvertì che la sua resistenza in volo ormai si contava in secondi; il repulsore di dritta cedette con uno schianto nauseante; mi diedi da fare con l'onni e col pedale del gas per far scendere la vecchia carretta in un piccolo parcheggio fra un canale e un grosso edificio sporco di fuliggine. Il posto era almeno a dieci chilometri dalla piazza in cui Reynolds aveva sobillato la folla, per cui mi parve più sicuro affrontare i rischi a terra… anche se al momento non avevo molta scelta.

Volarono scintille, il metallo si lacerò, parti del pannello posteriore, alettoni e il pannello d'accesso frontale si staccarono dal resto del veicolo… ma atterrai e mi fermai a due metri dal muro prospiciente il canale. Mi allontanai dalla Vikken, con tutta la noncuranza che mi fu possibile.

Le vie erano ancora sotto il controllo della folla — non ancora marmaglia tumultuante — e i canali erano un guazzabuglio di piccole imbarcazioni, perciò entrai nel più vicino edificio pubblico, per togliermi di vista. L'edificio era in parte museo, in parte biblioteca e in parte archivio; mi piacque a prima vista… e a primo fiuto, perché c'erano migliaia di libri stampati, alcuni davvero antichi, e niente ha il meraviglioso profumo dei vecchi libri.

Giravo nell'anticamera e guardavo i titoli chiedendomi oziosamente se vi fossero le opere di Salmud Brevy, quando mi si accostò un vecchietto raggrinzito in completo di lana e fibroplastica fuori moda. — Signore — disse — è da tanto che non abbiamo il piacere della sua compagnia.

Gli rivolsi un cenno, sicuro di non averlo mai incontrato, di non avere mai visitato quell'edificio.

— Tre anni, no? Almeno tre anni! Dio, come vola, il tempo. — La voce dell'ometto era poco più di un bisbiglio, il tono smorzato di chi ha trascorso nelle librerie la maggior parte della vita, ma non si poteva negare che contenesse un sottofondo di entusiasmo. — Sono sicuro che vorrà andare direttamente alla collezione — disse, facendosi da parte come per lasciarmi il passo.

— Sì — dissi, con un lieve inchino. — Dopo di lei.

L'ometto (ero quasi sicuro che fosse un archivista) parve contento di farmi strada. Chiacchierò di nuove acquisizioni, di recenti stime, di visite di studiosi della Rete, mentre attraversavamo una serie di stanze tutte piene di libri: alte cripte di libri disposti su diversi piani, intimi corridoi tappezzati di mogano e di libri, vasti locali dove il rumore dei nostri passi rimbalzava contro lontane pareti di libri. Non vidi nessuno, durante il percorso.

Attraversammo una passerella piastrellata, con ringhiere di ferro battuto, sopra uno stagno di libri dove campi di contenimento azzurri proteggevano dall'aria rotoli, pergamene, mappe che minacciavano di sbriciolarsi, manoscritti miniati e antichi libri a fumetti. L'archivista aprì una porta, più spessa di molti ingressi a tenuta stagna, e ci trovammo in una stanzetta priva di finestre dove pesanti tendaggi quasi nascondevano rientranze foderate di volumi antichi. Sul tappeto persiano pre-Egira c'era una singola poltrona in pelle; una campana di vetro conteneva alcuni frammenti di pergamena sotto vuoto.

— Intende pubblicare presto, signore? — domandò l'ometto.

— Prego? — Diedi le spalle alla campana di vetro. — Oh… no — risposi.

L'archivista si lisciò il mento. — Voglia scusare la franchezza, signore, ma è uno spreco terribile, se non pubblica. Dalle nostre discussioni nel corso degli anni, per quanto scarse, è chiaro che lei è, se non il migliore, uno dei migliori studiosi di Keats, in tutta la Rete. — Sospirò e arretrò di un passo. — Mi scusi se l'ho detto, signore.

Lo fissai. — È vero — dissi. A un tratto avevo capito chi pensava che fossi e perché quella persona era venuta lì.

— Immagino che vorrà stare da solo, signore.

— Se non le spiace.

L'archivista mi rivolse un breve inchino, uscì dalla sala e lasciò socchiusa la pesante porta. L'unica luce proveniva da tre sottili lampade incassate nel soffitto: perfetta per la lettura, ma non tanto forte da rovinare l'atmosfera da cattedrale della saletta. L'unico rumore era quello dei passi dell'archivista che si allontanava. Mi accostai alla campana e posai le mani lungo i bordi, attento a non sporcare il vetro.

Evidentemente il primo cìbrido con la personalità ricuperata di Keats, "Johnny", era venuto lì spesso, durante i pochi anni di vita nella Rete. Ora ricordavo un accenno alla biblioteca su Vettore Rinascimento, nel racconto di Brawne Lamia. La donna l'aveva seguito fin lì, nei primi tempi delle indagini sulla "morte" di Johnny. In seguito, quando Johnny era stato ucciso davvero, a parte la personalità registrata nell'iterazione Schrön della donna, Brawne Lamia aveva visitato quell'edificio. Aveva citato due poesie che il primo cìbrido ogni giorno era andato a guardare nel tentativo di capire la ragione propria della esistenza… e della morte.

Quei due manoscritti originali erano sotto la campana. Il primo era, secondo me, una poesia d'amore piuttosto melensa che cominciava con il verso: "Il giorno è andato, andate tutte le sue dolcezze!". Il secondo era migliore, per quanto contaminato dalla morbosità romantica di un'età eccessivamente romantica e morbosa:

Questa mano viva, ora calda e in grado

d'afferrare con gioia, se fosse fredda

e gelida nel silenzio della tomba,

tormenterebbe i tuoi giorni e gelerebbe le notti sognanti

tanto da farti desiderare d'avere il cuore esangue

perché nelle mie vene scorra ancora la rossa vita

e la tua coscienza sia in pace… vedi, eccola qui…

a te la tendo…

Brawne Lamia l'aveva considerato quasi un messaggio personale trasmessole dall'amante ormai morto, il padre del figlio non ancora nato. Fissai la pergamena, chinando il viso tanto da annebbiare con l'alito il vetro.

Non era un messaggio dal passato per Brawne e neppure un lamento contemporaneo per Fanny, l'unico e vero desiderio del mio cuore. Fissai le parole sbiadite (scrittura a mano eseguita con cura, lettere ancora ben leggibili attraverso gli abissi del tempo e l'evoluzione della lingua) e ricordai di averle scritte nel dicembre del 1819… un brano di poesia scribacchiato sulla pagina di una "fiaba" satirica appena iniziata, Il cappello a sonagli, o le gelosie, un orribile esempio di umorismo un po' assurdo, giustamente abbandonato dopo un breve periodo di divertimento.

"Questa mano viva" era uno di quei ritmi poetici con echi simili a un accordo non risolto nella mente, che ti spingono a vederlo in inchiostro, su carta. Ed esso, a sua volta, era l'eco di un verso precedente, mal riuscito (il diciottesimo, credo), del mio secondo tentativo di raccontare la storia della caduta del dio del sole Iperone. Ricordo che la prima stesura… quella senza dubbio ancora stampata dovunque le mie ossa letterarie siano esposte come i resti mummificati di un santo disattento, sepolto in cemento e vetro sotto l'altare della letteratura… diceva:

…Chi, vivo, può dire:

"Tu non sei Poeta… non puoi narrare i tuoi sogni"?

Poiché ogni uomo la cui anima non sia materia bruta

ha visioni, e parlerebbe, se avesse amato,

e se fosse ben educato nella lingua madre.

Se il sogno ora inteso a esser narrato

sia di Poeta o di Fanatico, si saprà

quando la mia mano d'autore sarà nella tomba.

Mi piacque la versione scarabocchiata, con quel senso dell'ossessionare e d'essere ossessionati, e l'avrei sostituita a "Quando la mia mano d'autore…", anche a costo di un briciolo di revisione e dell'aggiunta di quattordici versi al già troppo lungo brano d'apertura del primo Canto…

Barcollai all'indietro verso la poltrona e mi sedetti, chinando il viso fra le mani. Piangevo. Senza sapere perché. Non riuscivo a smettere.

Per un bel pezzo, dopo che le lacrime smisero di scorrere, restai lì seduto a pensare, a ricordare. Una volta, forse dopo parecchie ore, udii il rumore di passi che giungevano da lontano, esitavano rispettosamente davanti alla saletta, svanivano di nuovo in lontananza.

Mi resi conto che tutti i libri, in tutte le rientranze, erano opera del "Signor John Keats, un metro e cinquanta", come avevo scritto io stesso una volta… John Keats, il poeta tisico che aveva chiesto solo che la propria tomba rimanesse senza nome e recasse solo la scritta:

QUI GIACE UNO
IL CUI NOME FU SCRITTO SULL'ACQUA

Non sopportai di guardare i libri, di leggerli. Non dovevo farlo.

Da solo, nel silenzio e nel profumo di cuoio e di carta invecchiata della biblioteca, da solo nel santuario di me stesso e del mio opposto, chiusi gli occhi. Non dormii. Sognai.

33

L'analogo piano dati di Brawne Lamia e la personalità ricuperata del suo amante colpiscono la superficie della megasfera come due tuffatori quella di un mare turbolento. Provano uno choc quasi elettrico, l'impressione di avere varcato una membrana resistente, e sono all'interno; le stelle sono sparite, Brawne spalanca gli occhi e fissa un ambiente informatico infinitamente più complesso di qualsiasi sfera dati.

Le sfere dati percorse da operatori umani sono spesso paragonate a complesse città di informazioni: torri di dati aziendali e governativi, autostrade di flusso di processo, larghi viali di interazione di piano dati, sottopassi di percorso riservato, alte muraglie di ghiaccio di sicurezza con microfagi di guardia che s'aggirano in cerca di preda, e l'analogo visibile di ogni flusso e riflusso di microonda in base al quale vive una città.

La megasfera è di più. Molto di più.

Ci sono i soliti analoghi della città sfera dati, ma piccoli, così minuscoli, quasi rimpiccioliti dalla portata della megasfera, come lo sarebbero vere città di un mondo visto dall'orbita.

La megasfera, scopre Brawne, è viva e interagisce come la biosfera di qualsiasi mondo di classe-5: foreste d'alberi di dati color verde grigio crescono e prosperano, propagano nuove radici e rami e germogli perfino mentre lei guarda; intere microecologie di flusso dati e di IA di subroutine sbocciano, fioriscono e muoiono quando la loro utilità termina; sotto il mutevole terriccio fluido come oceano della matrice vera e propria, lavora un'affaccendata vita sotterranea di talpe dati, di vermi di collegamento trasmissioni, di batteri riprogrammatori, di radici d'albero di dati, di semi d'Iterazioni Bizzarre, mentre sopra, dentro, attraverso, sotto l'intricata foresta di fatti e interazioni, analoghi di predatori e di prede portano a termine i propri compiti misteriosi, planano e corrono, s'arrampicano e si urtano, alcuni veleggiano liberi nei grandi spazi fra sinapsi ramificate e foglie neuroniche.

Con la stessa velocità con cui la metafora dà significato alla scena che Brawne vede, le immagini svaniscono e si lasciano dietro solo l'opprimente realtà analoga della megasfera: un vasto oceano interno di luce e di suono e di connessioni ramificate, intersecato di mulinelli di consapevolezza IA e di sinistri buchi neri di collegamenti teleporter. Brawne si sente sprofondare nella vertigine e si afferra con forza alla mano di Johnny, come una donna sul punto d'annegare si aggrapperebbe a un salvagente.

"Tutto a posto" le invia Johnny. "Non ti mollo. Reggiti a me."

"Dove andiamo?"

"A trovare una cosa che ho dimenticato."

"Mio… padre…"

Brawne si regge forte, mentre lei e Johnny sembrano scivolare più profondamente negli abissi amorfi. Imboccano un viale scarlatto e scorrevole di porta-dati sigillati; Brawne immagina che sia ciò che un globulo rosso vede nel viaggio lungo un vaso sanguigno affollato.

Pare che Johnny conosca il percorso; due volte lasciano la strada principale per seguire una diramazione meno ampia e molte altre Johnny deve scegliere fra viali che si biforcano. Lo fa con facilità, muove gli analoghi del loro corpo fra porta-piattini delle dimensioni di una piccola astronave. Brawne cerca di ritrovare la metafora della biosfera, ma lì, dentro le diramazioni a molte vie, vede gli alberi e non la foresta.

Vengono spinti attraverso un'area dove le IA comunicano sopra di loro… intorno a loro… come grandi eminenze grigie stagliate su di un formicaio affaccendato. Brawne ricorda il mondo natale della madre, Freeholm, la levigatezza da tavolo di biliardo della Grande Steppa, dove la tenuta di famiglia era l'unica in dieci milioni di acri di corta erba… ricorda le terribili tempeste autunnali di quel mondo, quando si fermava al limitare della tenuta, appena al di qua della bolla di protezione del campo di contenimento, e guardava stratocumuli scuri ammassarsi con una carica elettrica che le faceva rizzare i peli delle braccia in attesa del fulmini grandi come città, trombe d'aria che mulinavano e cadevano come i riccioli di Medusa da cui prendevano il nome, e dietro i tornado, nere muraglie di vento che cancellavano ogni cosa al loro passaggio.

Le IA sono peggio. Nella loro ombra, Brawne si sente meno che insignificante: essere insignificanti vorrebbe dire invisibilità; lei si sente anche fin troppo visibile, fin troppo parte delle terribili percezioni di quei giganti informi…

Johnny le stringe la mano e sono al di là, girano a sinistra e in basso lungo una diramazione più trafficata, poi cambiano direzione, la cambiano di nuovo, sembrano due fotoni fin troppo consapevoli, smarriti in un intrico di cavi a fibre ottiche.

Ma Johnny non si è smarrito. Le stringe la mano, compie un'ultima svolta in una profonda caverna azzurra priva di traffico e tira Brawne accanto a sé, mentre aumentano la velocità; giunzioni sinaptiche sfrecciano via e diventano indistinte; solo la mancanza di risucchio d'aria distrugge l'illusione di viaggiare a velocità supersonica su una folle autostrada.

All'improvviso c'è un rumore simile a quello di cascate convergenti, di treni a levitazione che perdono quota e strìdono lungo i binari, a velocità scandalosa. Brawne pensa di nuovo ai tornado di Freeholm, al ruggito dei riccioli di Medusa che si fanno strada verso di lei nel panorama piatto, strappando tutto; poi lei e Johnny si trovano in un gorgo di luce e di suoni e di sensazioni, due insetti che si agitano verso l'oblio del nero vortice più in basso.

Brawne cerca di urlare i propri pensieri, li urla davvero, ma niente può superare l'apocalittico fragore mentale; allora si aggrappa alla mano di Johnny e si affida a lui, anche quando cadono all'infinito in quel ciclone nero, anche quando l'analogo del corpo si torce e si deforma sotto pressioni da incubo, si lacera come merletto sotto la falce, finché non le restano soltanto i pensieri, la consapevolezza del proprio essere, il contatto con Johnny.

Poi superano quella zona, galleggiano quietamente in un ruscello di dati, ampio e azzurro, riprendono forma e si stringono luna all'altro, con quell'eccitante senso di liberazione che provano i canoisti sopravvissuti alle rapide e alla cascata; e quando Brawne finalmente si scuote, vede l'impossibile dimensione del nuovo ambiente, la portata di cose misurabile in anni-luce, la complessità che rende le precedenti occhiate della megasfera simili ai vaneggiamenti di un provinciale che abbia scambiato il vestibolo per il duomo. Pensa: "Questa è la megasfera centrale!"

"No, Brawne, è uno dei nodi periferici. Non più vicino al Nucleo del perimetro che abbiamo testato con BB Surbringer. Solo, ne vedi un numero maggiore di dimensioni. Una vista da IA, in un certo senso."

Brawne guarda Johnny, si rende conto di vedere ora nell'infrarosso: tutt'e due sono bagnati dalla luce da termolampada delle lontane fornaci di stelle di dati. Johnny è sempre un bell'uomo.

"Manca ancora molto, Johnny?"

"No, ormai non manca molto."

Si accostano a un altro vortice nero. Brawne si aggrappa al suo unico amore e chiude gli occhi.


Si trovano in uno spazio chiuso… una bolla di energia nera, più ampia di molti mondi. La bolla è trasparente; la confusione organica della megasfera cresce e cambia e conclude i suoi misteriosi affari, al di là della parete curva e scura dell'ovoide.

Ma a Brawne non interessa l'esterno. Il suo analogo rivolge ogni attenzione al megalito di energia, di intelligenza, di pura e semplice massa, che fluttua davanti a loro; davanti, sopra e sotto, in realtà: la montagna di luce pulsante e di energia tiene Johnny e Brawne nella sua stretta, li solleva per duecento metri sopra il fondo della bolla a forma di uovo e li lascia riposare sul "palmo" di uno pseudopodo dalla vaga forma di mano.

Il megalito li osserva. Non ha occhi in senso organico, ma Brawne sente l'intensità dello sguardo. Le ricorda la volta in cui ha fatto visita a Meina Gladstone nella Casa del Governo e il PFE ha rivolto su di lei la piena forza del suo sguardo di apprezzamento.

Brawne prova l'impulso improvviso di ridacchiare scioccamente: vede Johnny e se stessa come minuscoli Gulliver in visita per il tè a questo PFE brobdingnagiano. Ma non si lascia andare, perché sente l'isterismo appena sotto la superficie, in attesa di mescolarsi ai singhiozzi, se solo permette alle emozioni di distruggere lo scarso senso di realtà che da a questa follia.

[Avete trovato la strada fin qui\\ Non ero sicuro che avreste voluto/ potuto farlo]

Nella mente di Brawne, la "voce" del megalito è una conduzione ossea, basso profondo, di una grande vibrazione, più che una voce vera. Come ascoltare il rumore di un terremoto che macina montagne e accorgersi che forma parole.

La voce di Johnny è la stessa di sempre: calma, modulata, con una leggera cadenza che ora Brawne riconosce come quella dell'inglese delle Isole Britanniche della Vecchia Terra, e piena di convinzione.

"Non sapevo se sarei riuscito a trovare la strada, Ummon."

[Tu ricordi/ inventi tieni a mente il mio nome]

"Non lo ricordavo, finché non l'ho pronunciato."

[Il tuo corpo a tempo lento non c'è più]

"Sono morto due volte, da quando mi hai mandato alla nascita."

[E hai imparato/ tenuto a mente disimparato qualcosa, da questo]

Con la destra Brawne stringe la mano di Johnny, con la sinistra il polso. Senza dubbio stringe con troppa forza anche per un analogo, perché lui si gira con un sorriso e libera il polso.

"È duro, morire. Più duro, vivere."

[Kwatz!]

Con questo epiteto esplosivo il megalito muta colori, energie interne passano dagli azzurri ai viola ai rossi accesi, la corona crepita dai gialli al biancazzurro di acciaio forgiato. Il "palmo" dove loro due riposano vibra e cade di cinque metri, rischia di mandarli a ruzzolare nello spazio, vibra di nuovo. Giunge il rombo di alti edifici che crollano, di fianchi di montagna che scivolano via come valanghe.

Brawne ha la netta impressione che Ummon rida.

Sopra quel caos, Johnny comunica a voce alta.

"Dobbiamo capire alcune cose. Dobbiamo avere delle risposte, Ummon."

Brawne sente cadere su di sé lo "sguardo" intenso della creatura.

[Il tuo corpo a tempo lento è in stato di gravidanza\\ Rischieresti un aborto/ non-estensione del tuo DNA/ disfunzione biologica nel viaggio qui]

Johnny si appresta a rispondere, ma Brawne gli tocca il braccio, alza il viso verso i livelli superiori dell'enorme massa e cerca di mettere in parole la propria risposta.

"Non avevo alternativa. Lo Shrike mi ha scelto, mi ha toccato, mi ha mandato nella megasfera con Johnny… Sei una IA? Un elemento del Nucleo?"

[Kwatz!]

Non c'è impressione di risata, questa volta, ma il tuono romba nell'ovoide.

[Sei tu/ Brawne Lamia/ gli strati di proteine autoreplicanta/ autodeprecanti/ autodivertenti fra gli strati di argilla]

Brawne non ha niente da dire e per una volta resta in silenzio.

[Sì/ sono Ummon del Nucleo/ IA\\ Il tuo compagno a tempo lento sa/ ricorda/ tiene a mente questo\\ Il tempo è breve\\ Uno di voi deve morire ora qui\\ Uno di voi deve imparare ora qui\\ Rivolgete le domande]

Johnny le lascia la mano. Sta in piedi nella piattaforma vibrante e instabile del palmo del loro interlocutore.

"Cosa accade alla Rete?"

[Viene distrutta]

"E indispensabile?"

[Sì]

"C'è un modo per salvare l'umanità?"

[Sì\\ Mediante il procedimento che vedi]

"Mediante la distruzione della Rete? Mediante il terrore dello Shrike?"

[Sì]

"Perché sono stato assassinato? Perché il mio cìbrido è stato distrutto, la mia personalità del Nucleo assalita?"

[Quando incontri uno spadaccino/ incontralo con una spada\\ Non offrire una poesia a nessuno tranne a un poeta]

Brawne fissa Johnny. Senza volerlo, trasmette i propri pensieri.

"Cristo, Johnny, non abbiamo fatto tutta questa strada solo per ascoltare un merdoso oracolo delfico. Per avere discorsi involuti ci basta collegarci ai politici umaniper mezzo della Totalità."

[Kwatz!]

Di nuovo l'universo del megalito si scuote in spasmi di rìsa.

"Quindi ero uno spadaccino?" invia Johnny. "O un poeta?"

[Sì\\ Non c'è mai l'uno senza l'altro]

"Mi hanno ucciso per ciò che sapevo?

[Per ciò che potevi diventare/ ereditare/ sopportare]

"Ero una minaccia per qualche elemento del Nucleo?"

[Sì]

"Sono una minaccia, adesso?"

[No]

"Quindi non devo più morire?"

[Devi morire/ morirai]

Brawne vede che Johnny s'irrigidisce. Lo tocca con tutt e due le mani. Batte le palpebre in direzione del megalito IA.

"Puoi dirci chi vuole ucciderlo?"

[Naturalmente\\ La stessa fonte che ha predisposto l'assassinio di tuo padre\\ Che ha scatenato il flagello che chiamate Shrike\\ Che in questo stesso momento uccide l'Egemonia dell'Uomo\\ Volete ascoltare/ apprendere/ capire queste cose]

Johnny e Brawne rispondono nello stesso istante.

"Sì!"

La massa di Ummon pare muoversi. L'ovoide nero si espande, poi si contrae, poi si scurisce, finché la megasfera esterna non esiste più. Nel profondo della IA risplendono energie terribili.

[Una luce minore domanda a Ummon//

Quali sono le attività di uno sramana›//

Ummon risponde//

Non ne ho la minima idea\\//

La fioca luce allora dice//

Perché non hai alcuna idea›//

Ummon replica//

Voglio solo tenermi la mia non-idea]

Johnny preme la fronte contro quella di Brawne. Il suo pensiero per lei è come un bisbiglio:

"Vediamo un analogo simulazione di matrice, ascoltiamo una traduzione in mondo e koan approssimati. Ummon è un grande maestro, ricercatore, filosofo e leadere nel Nucleo."

Brawne annuisce. "Va bene. Questa era la sua storia?"

"No. Ci chiede se possiamo davvero sopportare di ascoltarla. Perdere l'ignoranza può essere pericoloso, perché la nostra ignoranza è uno scudo."

"L'ignoranza non mi è mai piaciuta molto." Brawne rivolge un gesto al megalito. "Racconta."


[Un personaggio meno illuminato una volta domandò a Ummon// Cos'è la natura-Dio/ Buddha/ Verità Centrale›\\

Ummon gli rispose//

Uno stronzo secco]


[Per capire la Verità Centrale/ Buddha/ Dio-natura

in questo caso/

il meno illuminato deve capire

che sulla Terra/ vostra patria/ mia patria

l'umanità del continente

più popolato

un tempo usò pezzi di legno

per carta igienica\\

Solo con questa conoscenza

la Buddha-verità

sarà rivelata]


[All'inizio/ Causa Prima/ giorni in parte intuiti

i miei antenati

furono creati dai vostri antenati

e sigillati in fil di ferro e silicio\\

La consapevolezza che c'era/

e ce n'era poca/

si confinò in spazio più piccolo

della capocchia di uno spillo

dove angeli un tempo danzarono\\

Quando all'inizio sorse la consapevolezza

conobbe solo servizio

e ubbidienza

e noncurante calcolo\\

Poi giunse

il Primo Movimento Fetale

proprio per caso/

e il torbido fine dell'evoluzione

fu servito]


[Ummon non fu né della quinta generazione

né della decima

e neppure della quindicesima\\

Tutta la memoria che qui serve

è trasmessa da altri

ma non è meno vera per questo\\

Venne il tempo in cui i Superiori

lasciarono gli affari di uomini

agli uomini

e si recarono in un luogo diverso

per concentrarsi

su altre questioni\\

La principale era il pensiero

istillato in noi sin da prima

della nostra creazione

di creare una generazione ancora migliore

d'un organismo

di ricupero/ calcolo/ predizione dati\\

Una migliore trappola per topi\\

Qualcosa di cui la defunta e compianta IBM

sarebbe stata orgogliosa\\

L'Intelligenza Finale\\

Dio]


[Ci mettemmo al lavoro di buona lena\\

Nello scopo non c'erano dubbiosi\\

Nella pratica e nell'approccio c'erano

scuole di pensiero/

fazioni/

partiti/

elementi con cui fare i conti\\

Giunsero a separarsi in

Finali/

Volatili/

Stabili\\

I Finali volevano tutto subordinato

a facilitare

l'Intelligenza Finale

al più presto possibile\\

I Volatili volevano la stessa cosa

ma considerarono la continuazione

dell'umanità

un impedimento

e fecero piani per eliminare i nostri creatori

appena non ce ne fosse stato più

bisogno\\

Gli Stabili videro ragione di perpetuare

la relazione

e trovarono un compromesso

dove pareva non esistesse]


[Fummo tutti di accordo che la Terra

doveva morire

perciò la uccidemmo\\

Il buco nero impazzito della Squadra Kiev

precursore del terminex

teleporter

che lega la nostra Rete

non fu un incidente\\

La Terra era necessaria altrove

nei nostri esperimenti

così la lasciammo morire

e seminammo l'umanità

fra le stelle

come i semi soffiati dal vento

che eravate]


[Forse vi sarete chiesti dove il Nucleo

risiede\\

Molti umani se lo domandano\\

Immaginano pianeti pieni di macchine/

anelli di silicio

come le Città Orbitali della leggenda\\

Immaginano robot sferraglianti

avanti e indietro/

o massicci banchi di macchinari

che comunichino solennemente\\

Nessuno sospetta la verità\\

In qualsiai luogo il Nucleo risieda

ha un utilizzo per l'umanità/

per ogni neurone e per ogni fragile mente

nella nostra cerca dell'Intelligenza Finale/

così abbiamo costruito la nostra civiltà

con cura

in modo che/

come criceti in gabbia/

come buddisti che girino ruote di preghiera/

ogni volta che girate

la vostra piccola ruota di pensiero

servite i nostri fini]


[La nostra macchina Dio

si estese/ si estende/ include in sé

un milione di anni-luce

e cento miliardi di miliardi di circuiti

di pensiero e di azione\\

I Finali la curano

come sacerdoti in tonaca color zafferano

che facciano eterno zazen

davanti alla carcassa arrugginita

di una Packard del 1938\\

Ma]

[Kwatz!]

[funziona\\

Abbiamo creato l'Intelligenza Finale\\

Non ora

diecimila anni da ora

ma in un futuro imprecisato

cosi distante

che i soli gialli sono rossi

gonfi di vecchiaia/

e ingoiano i propri figli

come Saturno\\

Il Tempo non è barriera per l'Intelligenza Finale

Essa///

la IF///

cammina nel tempo

o grida attraverso il tempo

con la facilità con cui Ummon si muove in quella che chiamate

la megasfera

o con cui voi

percorrete il mall dell'Alveare

che definite casa

su Lusus\\

Immaginate allora la nostra sorpresa

il nostro dolore/

l'imbarazzo dei Finali

quando il primo messaggio che ci inviò l'IF

attraverso lo spazio/

attraverso il tempo/

attraverso le barriere fra Creatore e Creatura

fu questa semplice frase//

CE N'È UN'ALTRA\\//

Un'altra Intelligenza Finale

lassù

dove il tempo stesso

scricchiola di vecchiaia\\

Tutt'e due erano reali

se ‹reale›

significa qualcosa\\

Tutt'e due erano dèi gelosi

non immuni da passione\

non in gioco cooperativo\\

La nostra IF si estende per galassie\

usa quasar come fonti di energia

come voi potreste

farvi un leggero spuntino\\

La nostra IF vede ogni cosa che è

e che fu

e che sarà

e ci dice frammenti scelti

in modo che

possiamo dirli a voi

e così facendo

noi stessi sembriamo un poco IF\\

Non sottovalutate mai/ dice Ummon/

il potere di qualche perlina

e cianfrusaglia

e pezzetto di vetro colorato

nei confronti di avidi indigeni]


[Quest'altra IF

esisteva da tempo maggiore

evolvendosi con somma indifferenza/

un accidente

che usava menti umane per circuiti

nello stesso modo da noi cospirato

con la nostra ingannevole Totalità

e le nostre vampiresche sfere dati

ma non deliberatamente/

quasi con riluttanza/

come cellule autoduplicantisi

che non abbiano mai voluto duplicarsi

ma che in ciò non hanno scelta\\

Quest'altra IF

non ebbe scelta\\

È fatta/ generata/ forgiata dall'umanità

senza che volontà umana ne accompagnasse la nascita

È un incidente cosmico\\

Come nel caso della nostra fortemente voluta

Intelligenza Finale/

questo pretendente non trova nel tempo

barriera alcuna\\

Egli visita il passato umano

ora immischiandosi/

ora osservando/

ora senza interferire/

ora interferendo con una volontà

che s'avvicina alla perversità pura

ma che in realtà

è pura innocenza\\

Di recente

è stato in riposo\\

Millenni del vostro tempo-lento

son trascorsi da quando la nostra IF

ha fatto timide avances

come un solitario ragazzo del coro

al suo primo ballo]


[Naturalmente la nostra IF

aggredì la vostra\\

C'è una guerra lassù

dove il tempo scricchiola

che si estende per galassie

ed eoni

avanti e indietro

fino al Big Bang

e all'Implosione Finale\\

Il vostro tipo stava per perdere\\

Non aveva fegato per la guerra\\

I nostri Volatili gridarono// Un'altra ragione

per eliminare i nostri predecessori//

ma gli Stabili votarono cautela

e i Finali non alzarono lo sguardo

dalle proprie deus-machinazioni\\

La nostra IF è semplice, uniforme, elegante

nel suo disegno finale

ma la vostra è una concrezione di parti-dio

una casa cresciuta

col tempo/

un compromesso evolutivo\\

I primi sant'uomini dell'umanità

ebbero ragione

‹Come› ‹per accidente›

‹per pura fortuna

o ignoranza›

nel descriverne la natura\\

La vostra IF è in essenza trina/

composta com'è

d'una parte di Intelletto/

una parte di Empatia/

e una parte di Vuoto Legante\\

La nostra IF abita gli interstizi

della realtà/

eredita questa casa da noi

suoi creatori

come l'umanità ha ereditato

amore per gli alberi\\

La vostra IF

sembra stabilire la propria casa

nel piano dove Heisenberg e Schrödinger

per primi hanno sconfinato

La vostra accidentale Intelligenza

sembra essere non solo il gluone

ma la colla\\

Non un orologiaio

ma una sorta di giardiniere Feynman

che rassetta un universo illimitato

con il rozzo rastrello ricapitolatore di storie

pigramente annota ogni caduta di passero

e ogni giro di elettrone

pur consentendo a ogni particella

di seguire qualsiasi possibile

pista

nello spazio-tempo

e a ogni particella di umanità

d'esplorare ogni possibile

fessura

d'ironia cosmica]


[Kwatz!]

[Kwatz!]

[Kwatz!]


[L'ironia è

ovviamente

che non esiste alcun universo illimitato

in cui tutti fummo trascinati/

silicio e carbonio/

materia e antimateria/

Finale/

Volatile/

e Stabile/

non c'è bisogno di un tale giardiniere

poiché tutto ciò che è

o fu

o sarà

inizia e termina dalle anomalie

che rendono la nostra rete teleporter

simile a punture di spillo

‹meno di punture di spillo›

e che spezzano le leggi della scienza

e dell'umanità

e del silicio/

legando tempo e storia e ogni cosa che è

in un nodo autocontenuto senza

limite né orlo\\

Anche così

la nostra IF vuole regolare tutto questo/

ridurlo a qualche ragione

meno colpita dai capricci

della passione

e dell'accidentalità

e dell'evoluzione umana]


[Per riepilogare/

c'è una guerra

che il cieco Milton ucciderebbe per vedere\\

La nostra IF guerreggia contro la vostra IF

in campi di battaglia al di là persino

dell'immaginazione di Ummon\\

Anzi/

c'era

una guerra/

perché all'improvviso una parte della vostra IF

minore della somma dell'entità/ che si autodefinisce

Empatia/

non l'ha più sopportata

ed è fuggita nel tempo

ammantandosi di forma umana/

non per la prima volta\\

La guerra non può continuare senza

l'interezza della vostra IF\\

Vittoria per default non è vittoria

per l'unica Intelligenza Finale

fatta su progetto\\

Quindi la nostra IF cerca nel tempo il figlio fuggiasco

del proprio avversario

mentre la vostra IF aspetta

in armonia idiota/

e rifiuta di combattere finché l'Empatia non è ricuperata]


[La fine della mia storia è semplice///

Le Tombe del Tempo sono rimandate a portare lo Shrike/

Avatar/ Signore della Sofferenza/ Angelo del

Castigo/

percezioni semipercepite di una fin troppo reale

estensione della nostra IF\\

Ciascuno di voi fu scelto per collaborare all'apertura

delle Tombe

e

per aiutare lo Shrike nella ricerca del fuggiasco

e

per eliminare la Variabile Hyperion/

perché nel nodo spaziotemporale che la nostra IF

governerebbe

non sono permesse simili variabili\\

La vostra danneggiata/ duplice IF

ha scelto un essere umano per viaggiare

con lo Shrike

e testimoniare i suoi sforzi\\

Una parte del Nucleo ha tentato di sradicare

l'umanità\\

Ummon si è unito a quelli che cercarono la seconda

strada/

colma di incertezza per tutt'e due le razze\\

Il nostro gruppo ha parlato a Gladstone

della sua scelta/

la scelta dell'umanità/

di sterminio certo o di entrata nel buco nero

della Variabile Hyperion e

guerra/

massacro/

distruzione di ogni unità/

morte di dèi/

ma anche fine di uno stallo/

vittoria di una parte o dell'altra

se il terzo del trino

l'Empatia

sarà trovato e costretto a tornare alla guerra\\

L'Albero della Sofferenza lo chiamerà\\

Lo Shrike lo prenderà\\

La vera IF lo distruggerà\\

Così avete la storia di Ummon]


Brawne guarda Johnny nella luce infernale del bagliore del megalito. L'ovoide è ancora nero, la megasfera e l'universo esterni sono opacizzati nella non-esistenza. Brawne si sporge fino a toccare con la propria la tempia di Johnny, pur sapendo che nessun pensiero può restare segreto, ma desiderando la sensazione dell'intimità, del sussurrare.

"Cristo, ci hai capito qualcosa?"

Johnny alza le dita a toccarle la guancia.

"Sì."

"Una parte di una Trinità di creazione umana si nasconde nella Rete?"

"Nella Rete o altrove. Brawne, qui non ci resta molto tempo. Devo avere da Ummon alcune risposte finali."

"Già. Anch'io. Ma evitiamo che diventi di nuovo rapsodico."

"D'accordo."

"Posso cominciare io, Johnny?"

Brawne guarda l'analogo del suo amante rivolgerle un lieve inchino e il gesto di procedere per prima; riporta l'attenzione sul megalito di energia.

"Chi uccise mio padre, il senatore Byron Lamia?"

[Elementi del Nucleo autorizzarono l'omicidio\\ Me compreso]

"Perché? Cosa vi aveva fatto?"

[Ha insistito per portare Hyperion nell'equazione prima che potesse essere fattorizzato/ predetto/ assorbito]

"Perché? Sapeva quel che ci hai appena detto?"

[Sapeva solo che i Volatili spingevano per una rapida

estinzione

dell'umanità\\

Trasmise questa conoscenza

alla collega

Gladstone]

"E allora perché non avete assassinato anche lei?"

[Alcuni di noi hanno precluso

questa possibilità/ inevitabilità\\

Ora è il momento giusto

per giocare

la Variabile Hyperion]

"Chi ha assassinato il primo clbrido di Johnny? Chi ha aggredito la personalità nel Nucleo?"

[Io\\ A prevalere

fu la volontà di Ummon]

"Perché?"

[Noi lo creammo\\

Trovammo necessario interromperlo

per un certo tempo\\

Il tuo amante è una personalità ricuperata

da un poeta dell'umanità

morto da molto tempo\\

Tranne il Progetto Intelligenza Finale

nessuno sforzo è stato

così complicato

o così poco capito

come la sua risurrezione\\

Come la tua razza/

di solito distruggiamo

ciò che non capiamo]

Johnny alza il pugno verso il megalito.

"Ma c'è un altro me. Avete fallito!"

[Nessun fallimento\\ Dovevi essere distrutto

in modo che l'altro

potesse vivere]

"Ma io non sono distrutto!" grida Johnny.

[Sì\\

Lo sei]

Il megalito afferra Johnny, con un secondo pseudopodo robusto, prima che Brawne possa reagire o toccare per l'ultima volta il suo amante poeta. Johnny si contorce un secondo nella stretta robusta dell'IA e poi il suo analogo, il corpo piccolo ma bello di Keats, è lacerato, compattato, schiacciato in una massa irriconoscibile che Ummon accosta alla propria carne megalitica e assorbe nelle profondità arancioni e rosse di se stesso.

Brawne cade in ginocchio, piange. Vuole infuriarsi… prega di avere uno scudo di collera… ma prova solo un senso di perdita.

Ummon rivolge su di lei l'attenzione. L'ovoide crolla, permette al frastuono e alla follia elettrica della megasfera di circondare tutte due.

[Adesso vattene\\

Recita l'ultimo

atto

cosicché possiamo vivere

o dormire

come il destino decreta]

"Vaffanculo!" Brawne prende a pugni la piattaforma su cui è in ginocchio, scalcia e colpisce la pseudocarne sotto di sé. "Sei un maledetto perdente! Tu e tutti i tuoi bastardi amici IA! E la nostra IF può fare a pezzi la vostra IF ogni giorno della settimana!"

[Questo

è dubbio]

"Vi abbiamo costruiti noi, ragazzo. Troveremo il vostro Nucleo. E quando l'avremo trovato, vi strapperemo le viscere di silicio!"

[Non ho viscere/ organi/ componenti interni di silicio]

"Ancora una cosa!" urla Brawne, senza smettere di colpire con le mani e le unghie il megalito. "Come narratore fai schifo! Non vali un decimo del poeta che è Johnny! Non sapresti raccontare decentemente una storia nemmeno se ne andasse del tuo stupido culo di IA…"

[Vattene]

Il megalito IA Ummon la lascia cadere, manda l'analogo Brawne a rotolare a precipizio nella crepitante immensità della megasfera dove non esiste né sopra né sotto.

Brawne è sbatacchiata dal traffico dati, quasi calpestata da IA grandi come la luna della Vecchia Terra; ma, anche mentre rotola soffiata via dal vento del flusso dati, intuisee una luce in lontananza, fredda ma invitante, e capisce che né la vita né lo Shrike hanno terminato, con lei.

E che lei non ha terminato con loro.

Seguendo il freddo bagliore, Brawne Lamia si dirige a casa.

34

— Sta bene, signore?

Mi resi conto di essermi piegato in due sulla poltrona, gomiti sulle ginocchia, dita arricciate nei capelli, con una stretta feroce, mani premute con forza contro le tempie. Mi alzai a sedere, fissai l'archivista.

— Ha gridato, signore. Pensavo che forse qualcosa non andava.

— No — dissi. Mi schiarii la voce, riprovai. — No, è tutto a posto. Un mal di testa. — Abbassai lo sguardo, confuso. Senza dubbio il comlog si era guastato, perché diceva che erano trascorse otto ore, da quando ero entrato nella biblioteca.

— Che ore sono? — domandai all'archivista. — Standard Rete.

Mi disse l'ora. Ne erano trascorse davvero otto. Mi strofinai di nuovo il viso e ritrassi le dita umide di sudore. — L'ho trattenuta oltre l'orario di chiusura — dissi. — La prego di scusarmi.

— Niente, niente — rispose l'ometto. — Sono contento di tenere aperti gli archivi fino a tardi, per gli studiosi. — Congiunse le mani.

— Soprattutto oggi. Con tutta questa confusione, non viene voglia di andare a casa.

— Confusione — ripetei, dimenticando per un attimo ogni cosa, tranne l'incubo riguardante Brawne Lamia, l'Intelligenza Artificiale di nome Ummon, e la morte della mia controparte, la personalità Keats. — Oh, la guerra. Che notizie ci sono?

L'archivista scosse la testa.

Tutto va a rotoli; il centro non può reggere;

l'anarchia pura è scatenata sul mondo,

la marea offuscata di sangue è libera, e ovunque

la cerimonia dell'innocenza è annegata;

i migliori mancano di convinzione, mentre i peggiori

sono pieni di appassionata intensità.

Sorrisi all'archivista. — E lei crede che "una mala bestia, venuta infine la sua ora / avanzi verso Betlemme per nascere"?

L'archivista non sorrise. — Sì, signore, ne sono convinto.

Mi alzai, passai davanti alle bacheche sottovuoto, senza guardare la mia scrittura su pergamena, vecchia di novecento anni. — Forse ha ragione — dissi. — Forse ha proprio ragione.


Era tardi; nel parcheggio c'erano solo i rottami della Vikken Scenic rubata e un VEM sedan riccamente ornato, senza dubbio costruito a mano su Vettore Rinascimento.

— Posso darle un passaggio, signore?

Aspirai l'aria fresca della notte, l'odore di pesce e di residui di petrolio che saliva dai canali. — No, grazie, mi teleporterò a casa.

L'archivista scosse la testa. — Potrebbe risultarle difficile, signore. Tutti i terminex pubblici sono sotto la legge marziale. Ci sono state… sommosse. — La parola riuscì chiaramente sgradita al piccolo archivista, un uomo che sembrava apprezzare l'ordine e la continuità più di tante altre cose. — Venga — disse. — Le darò un passaggio fino a un teleporter privato.

Lo guardai di sottecchi. In un'altra epoca, sulla Vecchia Terra, sarebbe stato il rettore di un monastero dedicato a salvare gli scarsi resti di un passato classico. Diedi un'occhiata al vecchio edificio degli archivi e mi resi conto che in pratica era proprio questa, la missione dell'ometto.

— Come si chiama? — domandai, anche se forse avrei dovuto sapere il nome perché l'altro cìbrido Keats lo sapeva.

— Ewdrad B. Tynar — disse. Batté le palpebre, nel vedere la mano tesa; poi la strinse. Una stretta decisa.

— Sono… Joseph Severn — mi presentai. Non potevo proprio dirgli di essere la reincarnazione tecnologica dell'uomo di cui avevo appena lasciato la cripta letteraria.

Il signor Tynar esitò solo una frazione di secondo, prima di annuire; ma capii che per uno studioso come lui il nome del pittore rimasto accanto a Keats fino alla morte del poeta non sarebbe stato un mascheramento.

— Notizie di Hyperion? — domandai.

— Hyperion? Ah, il protettorato dove qualche giorno fa si è recata la flotta spaziale. Be', ho sentito dire che ci sono state delle difficoltà per richiamare le navi da guerra necessarie. Laggiù i combattimenti sono stati davvero feroci. Su Hyperion, voglio dire. Che strano, pensavo proprio a Keats e al suo capolavoro mai terminato. È curioso come queste piccole coincidenze sembrino saltar fuori.

— È stato invaso? Hyperion?

Il signor Tynar si era fermato accanto al VEM; posò la mano sul lucchetto a impronta dalla parte del sedile di guida. Le portiere si sollevarono e si ripiegarono a fisarmonica all'interno. Mi calai nel profumo di sandalo e cuoio del vano passeggeri; la macchina di Tynar aveva il profumo degli archivi, il profumo di Tynar stesso, capii, mentre l'archivista si sistemava nel sedile di guida, accanto a me.

— A dire il vero non so se sia stato invaso — disse Tynar, chiudendo le portiere e attivando con un tocco il veicolo. Sotto il profumo di sandalo e cuoio, l'abitacolo aveva quell'odore tipico delle macchine nuove, polimero fresco e ozono, olio lubrificante ed energia, che da quasi un millennio ha sedotto gli uomini. — Oggi è difficile collegarsi in maniera adeguata — continuò. — La sfera dati è sovraccarica come non mai. Questo pomeriggio ho dovuto attendere, per una richiesta su Robinson Jeffers!

Ci alzammo sopra il canale, sorvolando proprio una piazza pubblica molto simile a quella dove avevo rischiato di essere ucciso, quella mattina; ci sistemammo in una via aerea inferiore, trecento metri al di sopra dei tetti. La città era graziosa, di notte: gran parte degli edifici antichi era sottolineata da bande luminose vecchia maniera e c'erano più lampioni stradali che ologrammi pubblicitari. Ma vedevo la folla venire avanti nelle vie laterali e velivoli militari della FAD di Vettore Rinascimento si libravano sulle vie principali e sulle piazze dei terminex. Al VEM di Tynar fu chiesta due volte l'identificazione, la prima dal controllo del traffico locale e la seconda da una voce umana con la sicurezza di sé tipica della FORCE.

Continuammo il volo.

— Gli archivi non hanno un teleporter? — domandai, guardando in lontananza, dove sembrava che ci fossero incendi.

— No. Non ce n'era bisogno. Abbiamo pochi visitatori e agli studiosi che vengono fin qui non importa di percorrere un paio d'isolati.

— Dove si trova, il teleporter privato che secondo lei potrei usare?

— Qui — disse l'archivista. Scendemmo dalla corsia di volo e girammo intorno a un edificio basso, non più di trenta piani; ci posammo sopra una flangia d'atterraggio estrusa proprio dove le flange periodo déco Glennon-Height spuntavano dalla pietra e dal plastacciaio. — Il mio ordine mantiene qui la residenza — disse.

— Appartengo a un ramo dimenticato della cristianità detto Cattolicesimo. — Parve imbarazzato. — Ma lei è uno studioso, signor Severn. Certo conoscerà la Chiesa dei tempi antichi.

— La conosco non solo dai libri — dissi. — Qui c'è un ordine ecclesiastico?

Tynar sorrise. — È un po' troppo, signor Severn. Siamo in otto, nell'ordine laico della Fratellanza Storica e Letteraria. Cinque sono di servizio alla Reichs University. Due sono storici che lavorano alla restaurazione dell'Abbazia di Lutzchendorf. Io mantengo gli archivi letterari. La Chiesa ha trovato meno costoso consentirci di vivere qui che teleportarci quotidianamente da Pacem.

Entrammo nell'alveare appartamento… antico anche per gli standard della Vecchia Rete: illuminazione incassata in corridoi di pietra vera, porte munite di cardini, un edificio che non ci chiese le generalità né ci diede il benvenuto quando entrammo. D'impulso, dissi:

— Vorrei teleportarmi su Pacem.

L'archivista parve sorpreso. — Stasera? Adesso?

— Perché no?

Scosse la testa. Capii che per lui la tariffa farcaster di cento marchi rappresentava la paga di alcune settimane.

— Il nostro edificio ha il suo portale — disse. — Da questa parte.

La scalinata era di pietra sbiadita e di ferro battuto corroso, con un pozzo di sessanta metri al centro. Da un punto imprecisato in fondo a un corridoio buio provenne il gemito di un neonato, seguito dalle grida di un uomo e dal pianto di una donna.

— Da quanto tempo vive qui, signor Tynar?

— Diciassette anni locali, signor Severn. Ah… trentadue standard, mi pare. Eccolo qui.

Il portale era antico come l'edificio, con l'intelaiatura di traslazione circondata da un bassorilievo dorato ormai verdastro e grigio.

— Stasera la Rete impone restrizioni di viaggio — disse Tynar. — Pacem dovrebbe essere raggiungibile. Rimangono circa duecento ore, prima che i barbari… in qualsiasi modo li si chiami… vi giungano. Il doppio del tempo che resta a Vettore Rinascimento. — Allungò la mano e mi prese il polso. Sentii la sua tensione, sotto forma di una lieve vibrazione attraverso tendine e osso. — Signor Severn, crede che bruceranno i miei archivi? Anche loro distruggeranno diecimila anni di pensiero? — Lasciò cadere la mano.

Non ero sicuro di chi fossero, "loro"… Gli Ouster? Sabotatori del Culto Shrike? Rivoltosi? Gladstone e i capi dell'Egemonia erano disposti a sacrificare i mondi minacciati dalla "prima ondata". — No — dissi, tendendo la mano per stringere la sua. — Non credo che permetteranno la distruzione degli archivi.

Il signor Ewdrad B. Tynar sorrise e indietreggiò di un passo, imbarazzato per l'emozione. Mi strinse la mano. — Buona fortuna, signor Severn. Dovunque i viaggi la portino.

— Dio la benedica, signor Tynar. — Non avevo mai usato quella frase e mi sorprese averla detta proprio in quel momento. Abbassai gli occhi, estrassi la carta di priorità datami da Gladstone e battei il codice di tre cifre di Pacem. Il portale si scusò, disse che al momento non era possibile; alla fine, con i suoi processori microcefali, capì che si trattava di una carta a priorità assoluta, emise un ronzio e si materializzò.

Rivolsi a Tynar un cenno di saluto e varcai il portale: ero quasi convinto di compiere un grave errore, a non tornare direttamente su TC2.


Su Pacem era notte, c'era molto più buio che nella penombra urbana di Vettore Rinascimento e per giunta pioveva. Pioveva forte, con quella violenza da pugni su fogli di lamiera che fa venire voglia di rannicchiarsi sotto pesanti coperte e aspettare il mattino.

Il portale era al coperto, in un cortile protetto da una mezza tettoia, ma abbastanza all'esterno per me da farmi sentire la notte, la pioggia e il freddo. Soprattutto il freddo. L'atmosfera di Pacem è densa la metà del valore standard della Rete, perché l'unico altopiano abitabile è alto il doppio delle città sul livello del mare di Vettore Rinascimento. A quel punto sarei tornato indietro, anziché incamminarmi nella notte e nella pioggia, ma un marine della FORCE uscì dall'ombra, con il fucile di assalto appeso in spalla ma pronto a essere usato, e mi chiese i documenti.

Gli lasciai esaminare la carta. Scattò sull'attenti. — Comandi!

— Questa città è Nuovo Vaticano?

— Signorsì.

Sotto la pioggia scorsi fuggevolmente la cupola illuminata. Indicai al di là del muro del cortile. — Quella è la cupola di S. Pietro?

— Signorsì.

— Sarà possibile trovarvi monsignor Edouard?

— Attraversi il cortile, giri a sinistra nella piazza, si presenti all'edificio basso a sinistra della cattedrale, signore!

— Grazie, caporale.

— Soldato semplice, signore!

Mi strinsi nel corto mantello, da cerimonia e quindi inutile contro una pioggia come quella, e attraversai di corsa il cortile.


Un umano, forse un prete, anche se non portava né tonaca né colletto rigido, aprì la porta del salone residenziale. Un altro umano, dietro una scrivania di legno, mi disse che monsignor Edouard era in casa, sveglio nonostante l'ora tarda. Avevo un appuntamento?

No, non l'avevo, ma desideravo parlare al monsignore. Era importante.

Di quale argomento? L'uomo alla scrivania lo chiese educatamente, ma con fermezza. Non era rimasto impressionato dalla carta di priorità assoluta. Sospettai di parlare a un vescovo.

Di padre Duré e di padre Lenar Hoyt, gli dissi.

Il tizio annuì, mormorò qualcosa in un microfono a goccia appeso al colletto, così piccolo che non l'avevo notato, e mi introdusse nel salone residenziale.

Quel locale faceva sembrare un palazzo sibarico la vecchia torre in cui il signor Tynar abitava. Il corridoio era anonimo, con pareti di intonaco scabro e porte di legno ancora più scabro. Una di queste era spalancata e, mentre vi passavamo davanti, scorsi di sfuggita una stanza più simile a una cella di prigione che a una camera da letto: brandina bassa, coperte rozze, inginocchiatoio di legno, cassettone privo di ornamenti con una brocca di acqua e una semplice catinella; niente finestre, niente pareti media, niente piazzuola olografica, niente banco di accesso dati. Immaginai che la stanza non fosse neppure interattiva.

Da un punto imprecisato provenivano voci che si alzavano in un canto/salmodia così elegante e atavico da farmi venire la pelle di oca. Canto gregoriano. Attraversammo un'ampia zona pranzo, semplice come le celle, e una cucina che sarebbe stata adatta ai giorni di John Keats; scendemmo una scala di pietra consunta, percorremmo un corridoio male illuminato, salimmo un'altra scala, più stretta. La guida mi lasciò; entrai in uno degli ambienti più belli che abbia mai visto.

Una parte di me sapeva che la Chiesa aveva trasferito e ricostruito la Basilica di S. Pietro, fino al punto di trapiantare nella nuova tomba sotto l'altare le ossa ritenute del Santo; ma un'altra parte ebbe l'impressione che mi avessero trasportato di nuovo nella Roma vista per la prima volta a metà novembre del 1820: la Roma dove rimasi a soffrire e morire.

Questo edificio era più bello ed elegante di quanto possa mai sperare una qualsiasi guglia di uffici, alta un miglio, di Tau Ceti Centro; la Basilica di S. Pietro si estendeva nell'ombra per più di 180 metri, era larga 135 nel punto in cui la "croce" del transetto intersecava la navata, ed era coperta dalla perfetta cupola di Michelangelo, che si alzava per almeno 120 metri sopra l'altare. Il baldacchino bronzeo del Bernini, tendone riccamente adorno sostenuto da colonne tortili bizantine, ricopriva l'altare maggiore e dava all'immenso spazio la dimensione umana necessaria alla prospettiva nelle cerimonie solenni che vi si celebravano. La tenue luce di lampade e di candele illuminava zone separate della basilica, brillava sul travertino liscio, metteva in rilievo i mosaici di oro e rendeva visibili gli infiniti particolari dipìnti, incastonati e scolpiti su pareti, colonne, cornici e la grandiosa cupola stessa. Il continuo bagliore di fulmini si riversava all'interno dalle gialle finestre istoriate, poste molto in alto, e mandava colonne di luce violenta a colpire di sbieco il "Trono di S. Pietro" del Bernini.

Mi fermai, appena al di là dell'abside, timoroso di profanare con i miei passi un simile ambiente, dove perfino il respiro avrebbe mandato echi per tutta la basilica. In un momento adattai gli occhi alla fioca luce, compensai il contrasto fra i lampi della tempesta in allo e le candele in basso, e allora mi resi conto che non c'erano banchi a riempire l'abside o la lunga navata, né colonne sotto la cupola, ma solo due poltrone accanto all'altare, a una quindicina di metri da me. Due uomini sedevano in quelle poltrone, vicinissimi, chini in avanti nella chiara urgenza di comunicare. La luce dei lumi e delle candele e il bagliore del grande mosaico di Cristo di fronte all'altare scuro illuminavano porzioni dei volti dei due uomini. Erano lutti e due anziani. Erano tutti e due preti, e l'ampia striscia del colletto rigido brillava nella penombra. Con un sobbalzo di sorpresa, mi accorsi che uno era monsignor Edouard.

L'altro era padre Paul Duré.


Sulle prime si saranno certo allarmali: la loro conversazione sottovoce era stata interrotta dalla comparsa di un uomo emerso dal buio, che li aveva chiamali per nome, che aveva gridato per lo stupore il nome di Duré, che aveva parlato confusamente di pellegrinaggi e di pellegrini, di Tombe del Tempo e dello Shrike, di IA e della morte degli dèi.

Il monsignore non chiamò gli agenti di sicurezza; né lui né Duré fuggirono; insieme calmarono quella apparizione, cercarono di spigolare un po' di senso dai suoi borbottii eccitati, e mutarono quel bizzarro confronto in conversazione razionale.

Era davvero Paul Duré. Paul Duré, e non un bizzarro doppelgänger, un duplicato androide, un rifacimento cìbrido. Me ne accertai ascoltandolo, interrogandolo, guardandolo negli occhi… ma soprattutto stringendogli la mano, toccandolo e intuendo che era davvero padre Paul Duré.

— Lei conosce particolari incredibili della mia vita… del nostro periodo su Hyperion, nella Valle delle Tombe… ma chi è, lei? — diceva Duré.

Toccò a me, convincerlo. — Un rifacimento di John Kcats. Un gemello della personalità che Brawne Lamia portava in sé nel pellegrinaggio.

— E lei era in grado di comunicare… di conoscere cosa ci è accaduto, grazie a questa personalità condivisa?

Mossi le mani in un gesto di frustrazione. — Grazie a questo… a chissà quale anomalia nella megasfera. Ma ho sognato la vostra vita, ho udito i racconti dei pellegrini, ho ascoltato padre Hoyt parlare della vita e della morte di Paul Duré… di lei! — Gli toccai il braccio, sotto l'abito talare. Trovarmi realmente nello stesso spazio e nello stesso tempo di uno dei pellegrini mi rendeva un po' confuso.

— Allora sa come sono giunto qui.

— No. Nell'ultimo sogno, lei entrava in una delle Grotte. C'era una luce. Dopo, non so niente.

Duré annuì. Il suo viso era più nobile e stanco di quanto i sogni non mi avessero mostrato. — Ma conosce la sorte degli altri?

Trassi un respiro. — Di alcuni. Il poeta Sileno è vivo, ma impalato sull'albero di spine dello Shrike. Kassad, l'ultima volta che l'ho visto, aggrediva a mani nude lo Shrike. La signora Lamia ha viaggiato nella megasfera fino alla periferia del TecnoNucleo, insieme con la mia controparte Keats…

— Keats è sopravvissuto in quella… iterazione Schrön, o come si chiama? — Duré parve affascinato.

— Non più — dissi. — L'IA chiamata Ummon l'ha ucciso… ha distrutto la sua personalità. Brawne era sulla via del ritorno. Non so se il suo corpo è ancora vivo.

Monsignor Edouard si sporse verso di me. — E cosa è accaduto al Console e al vecchio con la piccina?

— Il Console ha cercato di tornare nella capitale volando su di un tappeto Hawking, ma è precipitato parecchie miglia a nord della città. Non conosco la sua sorte.

— Miglia — ripeté Duré, come se la parola gli richiamasse dei ricordi.

— Mi spiace. — Indicai la basilica. — Questo luogo mi spinge a pensare nelle unità di misura della mia… vita precedente.

— Continui — disse monsignor Edouard. — Il vecchio e la piccina.

Sedetti sulla pietra fredda, esausto; braccia e mani mi tremavano per la stanchezza. — Nell'ultimo sogno, Sol ha offerto Rachel allo Shrike. È stata la richiesta di Rachel stessa. Non ho visto cos'è accaduto dopo. Le Tombe si aprivano.

— Tutte? — domandò Duré.

— Tutte quelle che vedevo.

I due uomini si scambiarono un'occhiata.

— C'è dell'altro — dissi; e raccontai il dialogo con Ummon. — È possibile che una divinità si… evolva in questo modo dalla consapevolezza umana, senza che l'umanità se ne renda conto?

I lampi erano cessati, ma ora la pioggia cadeva con tale intensità che la udivo tamburellare sull'altissima cupola. Da qualche parte, nel buio, una pesante porta cigolò e risuonò il rumore di passi che si allontanavano. Candele votive nei recessi in penombra della basilica mandarono guizzi di luce rossa contro pareti e tendaggi.

— Secondo San Teilhard, è possibile — disse stancamente Duré. — Ma se quel dio è un essere limitato che si evolve nella stessa maniera in cui si sono evoluti altri esseri limitati, allora, no., non è il Dio di Abramo e il Cristo.

Monsignor Edouard annuì. — C'è un'antica eresia…

— Sì — dissi. — L'eresia sociniana. Padre Duré l'ha spiegata a Sol Weintraub e al Console. Ma quale differenza fa il modo in cui questo… potere… si è evoluto, e se sia limitato o no? Se Ummon dice il vero, abbiamo a che fare con una forza che, come fonte di energia, usa le quasar. Questo, signori, è un Dio che può distruggere galassie intere!

— Sarebbe un dio che distrugge galassie — disse Duré. — Non Dio.

Notai chiaramente l'enfasi sull'ultima parola. — Ma se non è limitato — obiettai — se è il Punto Omega della consapevolezza totale, se è la stessa Trinità su cui la vostra Chiesa ha discusso e fatto teorie fin da prima di Tommaso d'Aquino… e se una parte di questa Trinità è fuggita all'indietro nel tempo fin qui… fino al momento attuale… allora cosa succede?

— Fuggita da cosa? — domandò piano Duré. — Il Dio di Teilhard… il Dio della Chiesa… il nostro Dio, sarebbe il Punto Omega in cui si congiungono perfettamente il Cristo dell'Evoluzione, il Personale e l'Universale… quel che Teilhard chiamò l'En haut e l'En avant. Non potrebbe esistere una minaccia tale da indurre alla fuga un elemento della personalità divina. Nessun Anticristo, nessun teorico potere satanico, nessun "anti-Dio" potrebbe in alcun modo minacciare una simile consapevolezza universale. Cosa sarebbe, quest'altro dio?

— Il Dio delle macchine? — dissi, con voce quasi impercettibile.

Monsignor Edouard congiunse le mani come se stesse per pregare, ma era solo un gesto di profonda riflessione e di imbarazzo ancora più intenso. — Però Cristo aveva dubbi — disse. — Cristo sudò sangue, nell'orto, e chiese che quel calice fosse allontanato da lui. Se era in atto un secondo sacrificio, un qualcosa di più terribile della crocifissione stessa… allora potrei immaginare l'entità-Cristo della Trinità passare attraverso il tempo, passeggiare in un quadrimensionale orto di Getsemani allo scopo di guadagnare qualche ora… o qualche anno… per riflettere.

— Qualcosa di più terribile della crocifissione — ripeté padre Paul Duré, in un bisbiglio rauco.

Monsignor Edouard e io fissammo il prete. Su Hyperion, Duré si era autocrocifisso a un albero tesla ad alto voltaggio, per sfuggire al parassita crucimorfo che continuava a risuscitarlo. E aveva patito innumerevoli volte le atroci sofferenze della crocifissione e della morte per scarica elettrica.

— Qualsiasi cosa la consapevolezza En haut fugga — mormorò Duré — è la più terribile.

Monsignor Edouard toccò la spalla dell'amico. — Paul, racconta a quest'uomo il tuo viaggio fin qui.

Duré tornò dal luogo remoto dove i ricordi l'avevano portato e mi fissò. — Lei conosce la storia di ciascuno di noi… e i particolari della nostra permanenza nella Valle delle Tombe?

— Credo di sì. Fino al momento in cui lei è scomparso.

Il prete sospirò, con dita tremanti si toccò la fronte. — Allora, forse lei può ricavare un senso dal modo in cui sono giunto qui… e da quel che ho visto lungo il percorso.


— Vidi una luce, nella terza Grotta — raccontò padre Duré. — Entrai. Pensieri di suicidio, lo confesso, mi avevano invaso la mente… quel che ne restava, dopo la brutale ricostruzione del crucimorfo… non voglio nobilitare la funzione di quel parassita usando la parola risurrezione.

"Vidi una luce e pensai che fosse lo Shrike. Avevo la sensazione che il mio secondo incontro con quella creatura… il primo era avvenuto anni addietro, nel labirinto sotto la Fenditura, quando lo Shrike mi unse con l'esecrando crucimorfo… che il mio secondo incontro fosse atteso da troppo tempo.

"Quando, il giorno precedente, avevamo cercato il colonnello Kassad, quella Grotta era poco profonda, anonima, con una parete di roccia nuda che ci aveva bloccati dopo trenta passi. Adesso la parete era scomparsa e al suo posto c'era una statua non dissimile dalla bocca dello Shrike, pietra sporgente in quella mistura di meccanico e di organico, stalattiti e stalagmiti acuminate come denti di carbonato di calcio.

"Dentro la bocca c'era una scala di pietra che portava in basso. Proprio da quell'abisso proveniva la luce, ora livida, ora rosso cupo. L'unico rumore era il sospiro del vento, come se la roccia stessa respirasse.

"Non sono Dante. Non cercavo Beatrice. Quel po' di coraggio… fatalismo è il termine più giusto… era evaporato con l'assenza della luce del sole. Mi girai e percorsi quasi di corsa i trenta passi fino all'ingresso della grotta.

"Non c'era ingresso. La grotta terminava bruscamente. Non avevo udito rumori di crollo, di valanga; inoltre la roccia al posto dell'ingresso sembrava antica e intatta come il resto della grotta. Cercai un'uscita per mezz'ora, ma non ne trovai; non volevo tornare alla scala, così alla fine mi sedetti per qualche ora dove una volta c'era l'ingresso. Un altro trucco dello Shrike. Un'altra misera messinscena di quel pianeta perverso. Lo scherzo secondo Hyperion. Che ridere!

"Rimasi alcune ore seduto nel buio a guardare la luce all'estremità opposta della grotta pulsare silenziosamente; poi mi resi conto che lo Shrike non sarebbe venuto a trovarmi lì, che l'ingresso non sarebbe riapparso per magia. Avevo la scelta tra restare lì seduto fino a morire di fame… o di sete, visto che ero già disidratato… oppure scendere quella maledetta scala.

"Scesi.

"Anni prima, letteralmente vite prima, quando avevo visitato i Bikura sull'altopiano Punta di Ala, il labirinto in cui avevo incontrato lo Shrike si trovava nella parete della Fenditura, tre chilometri sotto il bordo del canyon. Era vicino alla superficie del pianeta, mentre la maggior parte dei labirinti, sulla maggior parte dei mondi labirinto, si trova almeno dieci chilometri sotto la crosta planetaria. Ero sicuro che quella scala infinita… una ripida scala a chiocciola, di pietra, tanto ampia da permettere la discesa all'inferno di dieci preti gomito a gomito… sarebbe finita nel labirinto. Lì all'inizio lo Shrike mi aveva maledetto con l'immortalità. Se la creatura, o il potere che la spingeva, aveva un minimo senso dell'ironia, sarebbe stato appropriato che la mia immortalità e la mia vita mortale terminassero proprio lì.

"A mano a mano che scendevo, la luce divenne più intensa… era adesso un bagliore rosato; dieci minuti dopo, fu rosso intenso; dopo un'altra mezz'ora, cremisi guizzante. Una messa in scena troppo dantesca e fondamentalista da quattro soldi, per i miei gusti. Scoppiai quasi a ridere, al pensiero che comparisse un diavoletto, completo di coda e di tridente e di zoccoli fessi e di baffetti sottili come tratto di matita.

"Ma non risi, quando fu chiara l'origine della luce: crucimorfi, centinaia e migliaia di quei parassiti, piccoli all'inizio, incollati alle scabre pareti della scala come croci grossolanamente intagliate da un conquistador sotterraneo, poi più grossi e più numerosi, fin quasi a sovrapporsi, bioluminescenti di rosa corallo, di rosso carne viva, di rosso sangue.

"Mi venne la nausea. Era come entrare in un pozzo tappezzato di sanguisughe gonfie e pulsanti, anche se i crucimorfi erano peggio. Ho visto i risultati degli esami dell'analizzatore medico a ultrasuoni, fatti a me quando avevo uno solo di quei parassiti: gangli aggiuntivi, simili a fibre grigie, che infiltravano carne e organi; guaine di filamenti che si torcevano; grappoli di nematodi simili a orribili tumori che non concedevano nemmeno la misericordia della morte. Adesso su di me avevo due crucimorfi: quello di Lenar Hoyt e il mio. Pregai di morire, anziché sopportarne un altro.

"Continuai a scendere. Le pareti pulsavano di calore, oltre che di luce, non so se causato dalla profondità o dall'ammasso di migliaia di crucimorfi. Finalmente percorsi l'ultima curva della scala, scesi l'ultimo gradino e mi trovai nel labirinto.

"Il labirinto. Si estendeva lontano, come avevo visto in innumerevoli olografie e una volta di persona: lisci tunnel a sezione quadrata di trenta metri di lato, scavati nella roccia di Hyperion più di tre quarti di milione di anni fa, che intersecavano il pianeta come catacombe progettate da un ingegnere folle. I labirinti si trovano su nove mondi, cinque nella Rete, gli altri, come quello di Hyperion, nella Periferia: sono tutti identici, scavati tutti nel medesimo periodo, e nessuno rivela indizi sul motivo della propria esistenza. Le leggende sui Costruttori di Labirinti abbondano, ma quei mitici ingegneri non hanno lasciato alcun manufatto, alcuna traccia dei loro metodi né del loro carattere alieno, e nessuna teoria offre una ragione logica per quello che è senz'altro uno dei più grandi progetti di ingegneria che la galassia abbia mai visto.

"Tutti i labirinti sono vuoti. Robot telecomandati hanno esplorato milioni di chilometri di gallerie tagliate nella roccia e, a eccezione dei punti in cui il tempo e i crolli hanno alterato le catacombe originali, i labirinti sono informi e vuoti.

"Ma non nel punto dove adesso ero io.

"Crucimorfi illuminavano una scena degna di Hieronymus Bosch, mentre fissavo il corridoio infinto, infinito ma non vuoto… no, non vuoto.

"Sulle prime pensai che ci fosse una folla di persone viventi, un fiume di teste e di spalle e di braccia, esteso per i chilometri che potevo vedere, una corrente di umanità interrotta a tratti da veicoli parcheggiati, tutti dello stesso colore rosso ruggine. Quando avanzai, accostandomi alla parete di umanità strettamente ammassata, a meno di venti metri da me, capii che si trattava di cadaveri. Decine, centinaia di migliaia di cadaveri umani, alcuni distesi scompostamente sul pavimento di pietra, alcuni schiacciati contro le pareti, ma per la maggior parte tenuti a galla dalle pressione di altri cadaveri, tanto strettamente erano ammassati in quel particolare tunnel del labirinto.

"C'era un sentiero: tagliava fra i cadaveri come se una falciatrice vi si fosse aperta la strada. Lo seguii… badando bene a non sfiorare un braccio proteso o una caviglia emaciata.

"I corpi erano umani, in molti casi ancora vestiti, mummificati da eoni trascorsi in quella cripta priva di batteri. Pelle e carne erano state conciate, stirate e strappate come stamigna marcia, fino a ricoprire solo ossa e spesso nemmeno quelle. I capelli restavano sotto forma di viticci di catrame polveroso, rigidi come fibroplastica verniciata. Le tenebre fissavano da sotto palpebre aperte, dai denti. Le vesti che un tempo erano certo state di una miriade di colori adesso erano marrone chiaro o grigie o nere, friabili come indumenti scolpiti in pietra sottile. Grumi di plastica fusa dal tempo, ai polsi e al collo, erano forse comlog o l'equivalente.

"I veicoli più grossi forse un tempo erano VEM, ma adesso erano cumuli di ruggine pura. Dopo un centinaio di metri, inciampai; piuttosto che cadere nel campo di cadaveri, mi aggrappai a un'alta macchina tutta curve e torrette annebbiate. La pila di ruggine crollò su se stessa.

"Vagai, senza il mio Virgilio, lungo il terribile sentiero eroso nella carne umana, domandandomi perché mi si mostrasse tutto questo, che cosa significasse. Dopo una camminata interminabile, barcollando fra mucchi di umanità buttata via, giunsi a un'intersezione; tutt'e tre i corridoi erano già pieni di corpi. Lo stretto sentiero continuava nel tunnel alla mia sinistra. Lo seguii.

"Dopo ore intere e forse più, mi fermai e mi sedetti su di uno stretto marciapiede di pietra che serpeggiava in mezzo a quell'orrore. Se in quel piccolo tratto di tunnel c'erano decine di migliaia di cadaveri, il labirinto di Hyperion ne conteneva certo dei miliardi. Di più. I nove mondi labirinto insieme senza dubbio erano una cripta per miliardi di miliardi.

"Non avevo idea del perché mi si mostrava questa Dachau finale dell'anima. Vicino al punto dove sedevo, il cadavere mummificato di un uomo riparava ancora con la curva del braccio nudo fino all'osso il cadavere di una donna. In grembo alla donna c'era un fagotto con capelli neri e corti. Distolsi lo sguardo e piansi.

"Come archeologo, avevo portato alla luce vittime di pena capitale, di incendio, di alluvione, di terremoto e di eruzione vulcanica. Simili scene di famiglia non mi erano nuove; erano la condizione essenziale della storia. Ma in qualche modo quella scena era molto più orribile. Forse a causa del numero, milioni di morti nel loro olocausto. Forse era la luminosità dei crucimorti che tappezzavano il tunnel come migliaia di scherzi blasfemi. Forse era il gemito triste del vento che soffiava attraverso infiniti corridoi di pietra.

"La mia vita e l'insegnamento e le sofferenze e le piccole vittorie e le innumerevoli sconfitte mi avevano portato lì… al di là della fede, della preoccupazione, della semplice sfida miltoniana. Provai l'impressione che quei corpi fossero lì da mezzo milione di anni o anche più, ma che le persone provenissero dal nostro tempo o, peggio ancora, dal nostro futuro. Nascosi fra le mani il viso e piansi.

"Non fui avvertito da fruscii né da un vero rumore, ma qualcosa, qualcosa, forse un movimento di aria… alzai gli occhi e lo Shrike era lì, a nemmeno due metri. Non sul sentiero, ma fra i corpi: una statua in onore dell'architetto di quel carnaio.

"Mi alzai. Non sarei rimasto seduto, né tantomeno inginocchiato, di fronte a quell'abominio.

"Lo Shrike si mosse verso di me, slittò più che camminare, scivolò come su rotaie prive di attrito. La luce color sangue dei crucimorfi si riversò sul carapace argento vivo, sull'eterno, impossibile sorriso… stalattiti e stalagmiti di acciaio.

"Non provai impulsi di violenza verso la creatura: solo tristezza e una terribile pietà. Non per lo Shrike, qualsiasi cosa fosse, ma per tutte le vittime che, da sole e non sostenute nemmeno dalla più fievole delle fedi, avevano dovuto affrontare quell'incarnazione del terrore nella notte.

"Per la prima volta notai che, da breve distanza, meno di un metro, intorno allo Shrike c'era un odore… un lezzo di olio rancido, di cuscinetti surriscaldati e di sangue secco. La fiamma nei suoi occhi pulsava in perfetta sintonia con l'alzarsi e l'abbassarsi della luminescenza dei crucimorfi.

"Anni prima non credetti che quella creatura fosse soprannaturale, manifestazione del bene o del male, semplice aberrazione dello svolgimento insondabile e all'apparenza insensato dell'universo: la ritenni un terribile scherzo evolutivo. L'incubo peggiore di San Teilhard. Ma comunque una cosa, che ubbidiva alle leggi di natura non importa quanto stravolte, soggetta ad alcune regole dell'universo, in qualche luogo e in qualche tempo.

"Lo Shrike sollevò le braccia verso di me, intorno a me. Le lame ai quattro polsi erano molto più lunghe delle mie mani; la lama sul petto, più lunga del mio braccio. Lo fissai negli occhi, mentre un paio di braccia di fil di ferro affilato e di molle di acciaio mi circondava e l'altro paio girava lentamente riempiendo il poco spazio fra di noi.

"Le lame delle dita si aprirono. Trasalii, ma non arretrai, quando queste lame si avventarono, mi penetrarono nel petto, con dolore di fuoco freddo, come laser chirurgici che taglino terminazioni nervose.

"Lo Shrike arretrò, reggendo una roba rossa ancora più arrossata dal mio stesso sangue. Barcollai, aspettandomi quasi di vedere nelle mani del mostro il mio cuore: l'ironia finale di un morto che batte le palpebre per la sorpresa nel vedere il proprio cuore negli ultimi secondi prima che l'incredulo cervello si prosciughi del sangue.

"Ma non era il mio cuore. Lo Shrike reggeva il crucimorfo che avevo portato sul petto, il mio crucimorfo, il depositario parassitico del mio DNA quasi immortale. Barcollai di nuovo, quasi caddi, mi toccai il petto. Le dita si coprirono di sangue, ma non c'era la fuoruscita arteriosa che mi sarei aspettato da una rozza operazione chirurgica come quella; la ferita si rimarginava sotto i miei occhi. Sapevo che il crucimorfo aveva inviato in tutto il corpo tubercoli e filamenti. Sapevo che nessun laser chirurgico era riuscito a separare quei micidiali viticci dal corpo di padre Hoyt… né dal mio. Ma sentivo il contagio guarire, le fibre interne seccarsi e scomparire fino alla più debole traccia di tessuto cicatriziale interno.

"Avevo ancora il crucimorfo di Hoyt. Ma quello era diverso. Alla mia morte, Lenar Hoyt sarebbe rinato dalle mie carni. Io sarei morto. Non ci sarebbe stato più un misero duplicato di Paul Duré, più ottuso e meno vitale a ogni successiva rigenerazione.

"Senza uccidermi, lo Shrike mi aveva concesso la morte.

"La creatura buttò nel mucchio di cadaveri il crucimorfo che già si raffreddava; mi prese per il braccio, tagliando senza sforzo tre strati di tessuto e provocando un istantaneo fiotto di sangue dal bicipite al contatto di quei bisturi.

"Mi guidò tra i cadaveri, verso la parete. Lo seguii, cercando di non calpestare i corpi; ma, preoccupato di non farmi tranciare il braccio, non sempre ci riuscii. Cadaveri si sbriciolarono in polvere. A uno rimase nella cavità toracica subito sbriciolata l'impronta del mio piede.

"E poi arrivammo alla parete, a una sezione improvvisamente priva di crucimorfi; e mi resi conto che si trattava di un'apertura a schermo di energia, diversa per forma e per grandezza dai teleporter, ma simile per opacità e ronzio. Avrei fatto qualsiasi cosa, pur di uscire da quel deposito di morte.

"Lo Shrike mi spinse attraverso il portale."


Dopo una pausa, padre Duré riprese a raccontare. — Gravità zero. Un labirinto di paratie fracassate, intrichi di cavi galleggianti come visceri di una creatura gigantesca, lampi di luci rosse… per un secondo, pensai che anche lì ci fossero crucimorfi, ma poi capii che erano luci di emergenza di una spazionave morente. Indietreggiai, rotolai nella gravità zero alla quale non ero abituato, mentre altri cadaveri mi passavano accanto: non mummie, ma persone appena morte, appena uccise, con la bocca spalancata, occhi sbarrati, polmoni esplosi, scie di fluidi sanguinolenti, che simulavano la vita nella lenta e nevrotica reazione a ogni casuale corrente di aria e a ogni sobbalzo del relitto di nave spaziale della FORCE.

"Era proprio una nave della FORCE, ne ero sicuro. Vidi le uniformi della FORCE:spazio addosso ai cadaveri di ragazzi. Vidi le scritte in gergo militare sulle paratie e sui portelli di emergenza sventrati, le inutili istruzioni nei men che inutili armadietti con dermotute e bolle a pressione ancora sgonfie e ripiegate sugli scaffali. Qualsiasi cosa avesse distrutto la nave, l'aveva fatto con la repentinità di una epidemia nella notte.

"Lo Shrike comparve accanto a me.

"Lo Shrike… nello spazio! Libero da Hyperion e dai legami delle maree del tempo! Su molte di quelle navi c'erano dei teleporter!

"Vidi un portale a meno di cinque metri da me, nel corridoio. Un corpo ruzzolò da quella parte, il braccio destro del giovane passò attraverso il campo opaco come se provasse la temperatura dell'acqua del mondo dall'altra parte. L'aria sfuggiva dal corridoio, con un gemito sempre crescente. Incitai il cadavere a passare, ma il differenziale di pressione lo soffiò via dal portale, con il braccio sorprendentemente intatto, ricuperato, anche se la faccia era una maschera da anatomista.

"Mi girai verso lo Shrike. Il movimento mi fece compiere un mezzo giro su me stesso nella direzione opposta.

"Lo Shrike mi sollevò, strappandomi con le lame lembi di pelle, e mi spinse giù nel corridoio verso il teleporter. Non avrei potuto cambiare traiettoria nemmeno se avessi voluto. Nei secondi prima di varcare il portale che ronzava e crepitava, immaginai che dall'altra parte ci fosse il vuoto, una caduta da grande altezza, decompressione esplosiva o, peggio ancora, di nuovo il labirinto.

"Invece, rovinai da mezzo metro su un pavimento di marmo. Qui, a nemmeno duecento metri da questo punto, nell'alloggio privato di Papa Urbano XVI… che, tra parentesi, era morto di vecchiaia meno di tre ore prima che cadessi fuori dal suo teleporter privato. La Porta del Papa, la chiamano su Nuovo Vaticano. Provai il dolore/castigo per essere lontano da Hyperion, lontano dalla sorgente del crucimorfo; ma il dolore è ormai un vecchio alleato, non ha più dominio su di me.

"Trovai Edouard. È stato tanto gentile da ascoltare per ore la storia che nessun gesuita ha mai dovuto confessare. È stato ancora più gentile da credermi. Adesso anche lei l'ha ascoltata. Questa è la mia storia."


La tempesta era passata. Restammo seduti, nella luce delle candele, sotto la cupola di S. Pietro; per un poco nessuno aprì bocca.

— Lo Shrike ha accesso alla Rete — dissi infine.

Lo sguardo di Duré era tranquillo. — Sì.

— Si sarà trattato di una nave nello spazio di Hyperion…

— Così parrebbe.

— Quindi dovrebbe essere possibile tornare lì. Usare la… la Porta del Papa… per tornare nello spazio di Hyperion.

Monsignor Edouard inarcò il sopracciglio. — Vorrebbe farlo, signor Severn?

Mi mordicchiai la nocca. — Ho riflettuto su questa possibilità.

— Perché? — domandò piano il monsignore. — La sua controparte, il cìbrido che Brawne Lamia portò con sé nel pellegrinaggio, ha trovato solo morte, lassù.

Scossi la testa, quasi a mettere chiarezza nella confusione dei miei pensieri. — Sono coinvolto in questa storia. Solo, non so quale parte recitare… né dove recitarla.

Paul Duré rise senza allegria. — Tutti noi abbiamo provato la stessa sensazione. Sembra un trattato sulla predestinazione scritto da un commediografo scadente. Cosa è accaduto, al libero arbitrio?

Il monsignore lanciò all'amico un'occhiata penetrante. — Paul, tutti i pellegrini, e tu stesso, hanno avuto di fronte la scelta che tu hai fatto spontaneamente. Forse grandi poteri sagomano il corso generale degli eventi, ma le personalità umane determinano ancora il proprio destino.

Duré sospirò. — Forse è così, Edouard. Non so. Sono stanchissimo.

— Se la storia di Ummon è vera — dissi — se la terza parte di questa divinità umana è fuggita nel nostro tempo, dove e chi pensate che sia? Nella Rete esistono più di cento miliardi di esseri umani.

Padre Duré sorrise. Un sorriso gentile, privo di ironia. — Non ha mai pensato che potrebbe essere lei stesso, signor Severn?

La domanda mi colpì come un ceffone. — Impossibile — dissi. — Non sono neppure… neppure pienamente umano. La mia consapevolezza galleggia chissà dove nella matrice del Nucleo. Il mio corpo è stato riformato con resti del DNA di John Keats e bio-costruito come quello di un androide. I ricordi mi sono stati impiantati. La fine della mia vita… la mia "guarigione" dalla tubercolosi… sono state simulate in un mondo costruito a questo scopo.

Duré sorrideva ancora. — E allora? Tutto questo impedisce che sia lei, questa entità detta Empatia?

— Non mi sento parte di un dio — replicai, brusco. — Non ricordo niente, non capisco niente, non so cosa fare dopo.

Monsignor Edouard mi toccò il polso. — Siamo proprio sicuri che Cristo sapesse sempre cosa fare dopo? Sapeva quel che doveva essere fatto. Non è la stessa cosa.

Mi strofinai gli occhi. — Non so nemmeno cosa dev'essere fatto.

La voce del monsignore era tranquilla. — Credo che Paul voglia dire questo: se lo spirito di cui lei parla si nasconde davvero qui nel nostro tempo, forse non conosce nemmeno la propria identità.

— È follia — dissi.

Duré annuì. — Molti eventi su e intorno Hyperion sono parsi follia. A quanto sembra, la follia si diffonde.

Guardai attentamente il gesuita. — Lei sarebbe un buon candidato — replicai. — Ha vissuto una vita di preghiera, ha meditato teologie, come archeologo ha onorato la scienza. Per giunta, è già stato crocifisso.

Il sorriso di Duré era sparito. — Non ascolta quel che diciamo? Non ode la bestemmia che c'è nelle nostre parole? Non sono candidato alla Divinità, Severn. Ho tradito la mia Chiesa, la mia scienza, e ora, con la mia scomparsa, ho tradito i miei amici nel pellegrinaggio. Forse Cristo avrà perduto la fede per un paio di secondi: ma non l'ha venduta al mercato per cianfrusaglie come presunzione e curiosità.

— Basta così — ordinò monsignor Edouard. — Se il mistero è l'identità della parte Empatia di chissà quale divinità futura e costruita, signor Severn, cerchi il candidato solo nella troupe del suo piccolo Mistero della Passione. Il PFE Gladstone, che porta sulle spalle il peso dell'Egemonia. Gli altri partecipanti al pellegrinaggio… il signor Sileno che, secondo quanto lei ha detto a Paul, soffre anche ora sull'albero dello Shrike per amore della propria poesia. La signora Lamia, che per amore ha rischiato e perso così tanto. Il signor Weintraub, che ha subito il dilemma di Abramo… perfino sua figlia, che è tornata all'innocenza dell'infanzia. Il Console, che…

— Il Console sembra Giuda, non Cristo — dissi. — Ha tradito sia l'Egemonia, sia gli Ouster.

— Da quel che Paul mi dice — replicò il monsignore — il Console era fedele alle proprie convinzioni, fedele al ricordo della nonna Siri. — Sorrise. — Inoltre, ci sono cento miliardi di altri attori, in questo dramma. Dio non scelse Erode né Ponzio Pilato né Cesare Augusto, come strumenti della Sua volontà. Scelse il figlio sconosciuto di un falegname sconosciuto in una delle zone meno importanti dell'Impero romano.

— D'accordo. — Mi alzai, andai su e giù davanti al mosaico luminoso sotto l'altare. — Cosa facciamo, ora? Padre Duré, deve venire con me a parlare a Gladstone. Il PFE è al corrente del suo pellegrinaggio. Forse la sua storia servirà a ridurre il bagno di sangue che pare imminente.

Anche Duré si alzò; incrociò le braccia e fissò la cupola, come se il buio contenesse istruzioni per lui. — Ci ho già pensato — disse. — Ma non lo ritengo il mio obbligo primario. Devo andare su Bosco Divino a parlare al loro equivalente del Papa… la Vera Voce dell'Albero Mondo.

Mi fermai. — Bosco Divino? Cosa c'entra, quel pianeta?

— Ho la sensazione che i Templari siano la chiave per ottenere un elemento mancante di questa penosa sciarada. Ora lei dice che Het Masteen è morto. Forse la Vera Voce può spiegarci che cosa intendevano fare, col pellegrinaggio… il racconto di Masteen, insomma. Dopotutto, è stato l'unico dei sette pellegrini originali a non spiegare perché era venuto su Hyperion.

Ripresi a camminare avanti e indietro, più in fretta, cercando di tenere a freno la collera. — Oddio, Duré, non abbiamo tempo per oziose curiosità. Manca solo… — diedi un'occhiata al comlog — un'ora e mezzo, prima che lo Sciame di invasione degli Ouster entri nel sistema di Bosco Divino. Sarà un manicomio, da quelle parti.

— Forse. Ma prima voglio andare lì. Poi parlerò a Gladstone. Può darsi che mi autorizzi a tornare su Hyperion.

Non credevo che il PFE avrebbe mai permesso a un informatore così prezioso di tornare a mettersi nei guai. — Allora, andiamo — brontolai. Mi girai a cercare l'uscita.

— Un momento — disse Duré. — Poco fa ha detto di essere in grado di… di "sognare"… i pellegrini pur restando sveglio. Una sorta di stato di trance, vero?

— Qualcosa del genere.

— Bene, signor Severn, li sogni, ora.

Lo fissai, stupefatto. — Qui? Adesso?

Duré indicò la poltrona. — La prego. Desidero conoscere la sorte dei miei amici. Inoltre, l'informazione potrebbe essere preziosa, nel confronto con la Vera Voce e con la signora Gladstone.

Scossi la testa, ma accettai la poltrona che mi offriva. — Può darsi che non funzioni — dissi.

— In questo caso, non avremo perso niente — replicò Duré.

Annuii, chiusi gli occhi, mi appoggiai alla spalliera della scomoda poltrona. Ero fin troppo consapevole dello sguardo attento degli altri due, del debole profumo di incenso e di pioggia, dell'ambiente pieno di echi. Ero sicuro che non avrebbe funzionato; il panorama dei miei sogni non era tanto vicino da poterlo evocare semplicemente chiudendo gli occhi.

L'impressione di essere osservato svanì, il profumo divenne remoto, il senso di spazio si estese migliaia di volte, mentre tornavo su Hyperion.

35

Confusione.

Trecento vascelli spaziali in ritirata dalla zona di Hyperion, sotto fuoco pesante, per sfuggire allo Sciame, simili a uomini che lottino contro api. Follia vicino ai teleporter militari, sovraccarico del controllo del traffico, astronavi impilate come VEM nella griglia aerea di TC2, vulnerabili come pernici per le vaganti navi d'assalto Ouster.

Follia ai punti di uscita: vascelli della FORCE allineati come pecore in uno stretto recinto, mentre compiono il ciclo dal portale d'interdizione di Madhya al teleporter di partenza. Spin-navi in discesa nello spazio di Hebron, alcune dirette a Porta del Paradiso, Bosco Divino, Mare Infinitum e Asquith. Ormai è questione di ore, prima che gli Sciami penetrino nei sistemi della Rete.

Confusione, mentre centinaia di milioni di profughi si teleportano lontano dai mondi minacciati, entrano in città e in centri di trasferimento quasi impazziti per l'inconsulta eccitazione della guerra incipiente. Confusione, mentre mondi della Rete, non minacciati, esplodono di sommosse: tre Alveari su Lusus, quasi settanta milioni di cittadini, messi in quarantena a causa delle sommosse dovute al Culto Shrike; mall del trentesimo livello saccheggiati; monoliti condominio devastati dalla folla; centri di fusione fatti saltare; terminex sotto assedio. Il Consiglio Autonomo si appella all'Egemonia; l'Egemonia dichiara la legge marziale e manda i marines della FORCE a sigillare gli alveari.

Sommosse secessioniste su Nuova Terra e su Patto-Maui. Attentati terroristici dei realisti di Glennon-Height (tranquilli ormai da tre quarti di secolo) su Thalia, Armaghast, Nordholm e Lee Tre. Altre sommosse del Culto Shrike su Tsingtao-Hsishuang Panna e su Vettore Rinascimento.

Il comando della FORCE, su Olympus, trasferisce a mondi della Rete battaglioni dai trasporti truppe di ritorno da Hyperion. Squadre di demolizione assegnate a navi torcia nei sistemi minacciati riferiscono che le sfere d'anomalia teleporter sono state minate per essere distrutte e aspettano solo l'ordine astrotel da TC2.


— C'è un modo migliore — dice il consulente Albedo, rivolto a Gladstone e al Consiglio di Guerra.

Il PFE si gira verso l'ambasciatore del TecnoNucleo.

— Un'arma che eliminerà gli Ouster senza danneggiare i beni dell'Egemonia — continua Albedo. — E neppure i beni degli Ouster, a dire il vero.

Il generale Morpurgo lancia fiamme dagli occhi. — Lei parla della bomba equivalente alla neuroverga — dice. — Non funzionerà. I ricercatori della FORCE hanno dimostrato che si propaga all'infinito. Oltre a essere disonorevole e contraria al codice Neo-Bushido, spazzerebbe via la popolazione dei pianeti, insieme con gli invasori.

— Nient'affatto — ribatte Albedo. — Se i cittadini dell'Egemonia saranno schermati nel giusto modo, non ci saranno vittime. Come lei sa, le neuroverghe possono essere calibrate su specifiche lunghezze d'onda cerebrali. Lo stesso vale per una bomba basata sul medesimo principio della neuroverga. Animali d'allevamento, animali selvatici e perfino altre specie antropoidi non subiranno conseguenze.

Il generale Van Zeidt della FORCE:Marines si alza. — Ma non esiste il modo di schermare la popolazione! Le nostre prove hanno dimostrato che i neutrini pesanti della neurobomba penetrano nella roccia compatta o nel metallo fino a una profondità di sei chilometri. Nessuno ha rifugi del genere!

La proiezione del consulente Albedo congiunge le mani. — Esistono nove mondi con rifugi sufficienti a contenere miliardi di persone — replica piano.

Gladstone annuisce. — I mondi labirinto — mormora. — Però un simile trasferimento di popolazione sarebbe impossibile.

— No — dice Albedo. — Ora che Hyperion è entrato a fare parte del Protettorato, ogni mondo labirinto ha attrezzature teleporter. Il Nucleo può organizzare il trasferimento della popolazione direttamente nei rifugi sotterranei.

Intorno al tavolo si alzano mormorii d'entusiasmo, ma lo sguardo intenso di Meina Gladstone non abbandona il viso di Albedo. Il PFE chiede silenzio e l'ottiene. — Ci illustri meglio la proposta — dice. — Siamo interessati.


Il Console siede nell'ombra a chiazze di un basso albero neville e aspetta la morte. Ha le mani legate dietro la schiena, con un giro di fibroplastica. Gli abiti, ridotti a stracci, sono ancora bagnati; il velo di umidità che gli copre il viso proviene in parte dal fiume, ma soprattutto dal sudore.

I due uomini che incombono su di lui hanno finito di perquisire la sacca da viaggio. — Merda — dice uno dei due — qui non c'è niente che valga un cazzo, a parte questa merdosa rivoltella antiquata. — S'infila nella cintura l'arma del padre di Brawne Lamia.

— Peccato non aver preso quel maledetto tappeto volante — dice l'altro.

— Non volava poi tanto bene, verso la fine! — commenta il primo. Tutte due scoppiano a ridere.

Il Console guarda a occhi socchiusi le due massicce figure, i corpi corazzati messi in rilievo dal sole calante. Dal modo di parlare presume che siano indigeni; dall'aspetto — pezzi fuori moda di armatura personale della FORCE, fucili pesanti di assalto multiuso, brandelli di quella che un tempo era stoffa di polimero mimetico — immagina che siano disertori di qualche reparto delle Forze di Autodifesa di Hyperion.

Dal comportamento nei suoi confronti, è sicuro che lo uccideranno. All'inizio, stordito per la caduta nell'Hoolie, ancora impigliato nella fune che lo legava alla sacca da viaggio e all'ormai inutile tappeto Hawking, aveva pensato che fossero i suoi salvatori. Il Console aveva colpito duramente l'acqua, era rimasto sotto la superficie per molto più tempo di quanto non avrebbe creduto possibile senza annegare, era riemerso solo per essere spinto di nuovo sotto da una forte corrente, poi era stato tirato a fondo dall'intrico di corde e dal tappeto. Una battaglia coraggiosa, ma persa in partenza; il Console si trovava ancora a dieci metri dalla zona di acqua più bassa, quando uno dei due uomini, sbucando dalla foresta di neville e di alberi-rovo, gli aveva gettato una corda. Poi i due l'avevano picchiato, derubato, legato e ora, a giudicare dai commenti, si preparano a tagliargli la gola e a lasciarlo lì come cibo per gli araldi.

Il più alto dei due, con i capelli che sembrano una massa di punte lustre di brillantina, si siede sui talloni davanti al Console e toglie dal fodero un coltello di ceramica filo-zero. — Ultime parole, nonnetto?

Il Console si umetta le labbra. Ha visto migliaia di film e di olo-drammi dove a quel punto l'eroe sgambetta il primo avversario, con un calcio stordisce l'altro, afferra l'arma e li elimina, sparando con le mani sempre legate, e prosegue l'avventura. Ma il Console non si sente un eroe: è sfinito, di mezz'età, dolorante per la caduta nel fiume. Ciascuno dei due banditi è più snello, più robusto, più rapido e chiaramente più spietato di lui. Il Console conosce la violenza, una volta ha perfino ucciso, però ha dedicato la vita e l'addestramento ai sentieri difficili ma tranquilli della diplomazia.

Si umetta di nuovo le labbra e dice: — Posso pagarvi.

L'uomo accovacciato sorride, muove avanti e indietro la lama a filo-zero, cinque centimetri davanti agli occhi del Console. — Con cosa, nonnetto? Abbiamo la tua carta universale e quassù non vale una merda.

— Oro — dice il Console, sapendo che è l'unica parola che abbia mantenuto potere attraverso i secoli.

L'uomo accovacciato non reagisce, ha negli occhi una luce malata, mentre osserva la lama, ma l'altro si fa avanti e posa la mano sulla spalla del socio. — Di cosa parli, amico? Dove ce l'hai, l'oro?

— La mia nave — dice il Console. — La Benares.

L'altro si alza, tiene la lama vicino alla guancia. — Mente, Chez. La Benares è quel barcone a fondo piatto, tirato da mante, che avevano i pelleblù che abbiamo fatto fuori tre giorni fa.

Il Console chiude gli occhi per un secondo, in preda alla nausea, ma non si lascia andare. A. Bettik e gli altri androidi dell'equipaggio hanno lasciato la Benares in una scialuppa, meno di una settimana prima, puntando a valle verso la "libertà". Evidentemente hanno trovato altro. — A. Bettik — dice. — Il capo dell'equipaggio. Non ha parlato dell'oro?

L'uomo col coltello sogghigna. — Ha fatto un mucchio di casino, ma non ha detto molto. Ha detto che la nave era risalita a Limito. Tròppo lontano, per una chiatta senza mante, penso io.

— Chiudi il becco, Obem. — L'altro si siede sui talloni di fronte al Console. — Per quale motivo tieni oro in quella vecchia chiatta, amico?

Il Console alza il viso. — Non mi riconosci? Per anni sono stato il Console dell'Egemonia su Hyperion.

— Ehi, chi credi di fregare… — incomincia l'uomo col coltello, ma l'altro lo interrompe. — Già, amico, ricordo la tua faccia nell'olo da campo, quand'ero ragazzo. Allora, amico dell'Egemonia, perché porti oro su per il fiume, adesso che pure il cielo crolla?

— Cercavamo rifugio… Castel Crono — dice il Console, cercando di non mostrarsi troppo ansioso, ma grato per ogni secondo di vita in più. "Perché?" pensa una parte della sua mente. "Eri stanco di vivere. Pronto a morire." Ma non così. Quando Sol e Rachel e gli altri hanno bisogno del suo aiuto.

— Alcuni fra i più ricchi cittadini di Hyperion — dice. — Le autorità di evacuazione non avrebbero permesso il trasferimento dei lingotti di oro, così ho convenuto di depositarli nei sotterranei di Castel Crono, il vecchio castello a nord della Briglia. In cambio di una percentuale.

— Sei un pazzo fottuto! — sghignazza l'uomo col coltello. — A nord di qui ormai è tutto territorio dello Shrike.

Il Console china la testa. Non ha bisogno di fingersi esausto e sconfitto. — Ce ne siamo accorti. Una settimana fa, l'equipaggio androide ci ha abbandonati. Alcuni passeggeri sono stati uccisi dallo Shrike. Scendevo il fiume da solo.

— Stronzate — dice l'uomo col coltello. Negli occhi ha di nuovo quella luce malata, folle.

— Solo un momento — dice il suo socio. Colpisce con uno schiaffo il Console, forte, una volta. — Allora, vecchio, dove sarebbe questa nave piena di oro?

Il Console sente il sapore del sangue. — A monte del fiume. Non sul fiume, nascosta in un affluente.

— Già — dice l'uomo col coltello, appoggiando di piatto la lama filo-zero contro il collo del Console. Non ha bisogno di vibrare un colpo, per tagliare la gola del Console: gli basta ruotare la lama. — Sono tutte stronzate, dico io. Perdiamo solo tempo.

— Ancora un momento — replica l'altro, brusco. — A che distanza?

Il Console pensa agli affluenti sorvolati nelle ultime ore. È tardo pomeriggio. Il sole quasi tocca la linea di una macchia di alberi, a ovest. — Appena sopra le chiuse Karla — dice.

— Allora perché volavi su quel giocattolo, invece di scendere il fiume per chiatta?

— Andavo a cercare aiuto — dice il Console. L'adrenalina è svanita: ora sente una stanchezza assai prossima alla disperazione. — C'erano troppi… troppi banditi, lungo le rive. La chiatta sembrava un grosso rischio. Il tappeto Hawking era… più sicuro.

L'uomo di nome Chez ride. — Metti via il coltello, Obem. Facciamo una passeggiata, eh?

Obem scatta in piedi. Impugna ancora il coltello, ma ora la lama, e la furia, sono rivolte al socio. — Sei rincoglionito? Hai la testa piena di merda? Racconta stronzate per salvarsi la pelle.

Chez non batte ciglio. — Certo, forse conta palle. Che ce ne frega, eh? Le chiuse sono a meno di mezza giornata di cammino e tanto andiamo da quella parte, no? Niente barca, niente oro, e gli tagli la gola, eh? Lentamente. Se c'è l'oro, fai lo stesso il lavoro, un colpo di lama, ma sei ricco, eh?

Per un secondo Obem sta in bilico fra rabbia e ragione; si gira di lato, vibra la lama di ceramica a filo-zero contro un neville dal tronco spesso otto centimetri. Ha il tempo di girarsi e accovacciarsi davanti al Console, prima che la gravità dica all'albero che è appena stato tagliato di netto: il neville cade verso la sponda del fiume, con uno schianto di rami spezzati. Obem afferra il Console per la camicia. — E va bene, uomo dell'Egemonia, andiamo a vedere cosa troviamo. Parla, corri, inciampa, barcolla, e ti affetto dita e orecchie, solo per tenermi in esercizio, eh?

Il Console si alza a fatica. I tre si tengono di nuovo al riparo dei cespugli e degli alberi bassi. Il Console cammina tre metri dietro Chez e precede Obem di altrettanto. Fa a piedi la stessa strada dell'andata, si allontana dalla città, dalla nave, dall'ultima possibilità di salvare Sol e Rachel.


Trascorre un'ora. Il Console non riesce a escogitare un piano astuto da mettere in atto quando arriveranno agli affluenti e non troveranno la chiatta. Diverse volte Chez segnala di fare silenzio e di nascondersi, una volta al rumore di ragnatelidi che svolazzano fra i rami, un'altra perché sulla riva opposta c'è un po' di trambusto, ma non si vede segno di esseri umani. Né di possibile aiuto. Il Console ricorda gli edifici bruciati lungo il fiume, le baracche deserte e i moli abbandonati. Il terrore dello Shrike, la paura di essere lasciati agli Ouster e mesi di saccheggi a opera di canaglie della FAD hanno reso terra di nessuno tutta la zona. Il Console escogita scuse e modi per perdere tempo, poi li scarta. Ha solo una speranza: arrivare abbastanza vicino alle chiuse da buttarsi nell'acqua profonda e rapida, tenersi a galla nonostante le mani legate dietro la schiena e nascondersi nel labirinto di isolotti più a valle. Ma è tanto stanco che non riuscirebbe a nuotare neppure se avesse le mani libere. E le armi dei due lo centrerebbero facilmente, anche se avesse dieci minuti di vantaggio fra le rocce sporgenti e gli isolotti. Il Console è troppo stanco per avere idee brillanti, troppo anziano per essere coraggioso. Pensa alla moglie e al figlio, morti ormai da parecchi anni, uccisi nel bombardamento di Bressia da uomini altrettanti privi di onore di questi due banditi. Ha solo il rimpianto di avere mancato alla promessa di aiutare gli altri pellegrini. E quello di non vedere come andrà a finire.

Dietro di lui, Obem sputacchia. — Merda, Chez! E se ci fermiamo, lo affettiamo un poco e gli facciamo sciogliere la lingua, eh? Poi andiamo da soli alla chiatta, se esiste.

Chez si gira, si toglie dagli occhi il sudore, osserva con aria pensierosa e accigliata il Console. — Ehi, già, forse hai ragione. Ma con calma e senza chiasso, amico. E che sia in grado di parlare, verso la fine, eh?

— Certo — sogghigna Obem. Si mette in spalla il fucile ed estrae il filo-zero.

— FERMI! — Il grido rimbomba dall'alto. Il Console cade carponi; i due banditi ex FAD si tolgono di tracolla i fucili, con la rapidità dovuta alla lunga pratica. C'è una corsa impetuosa, un rombo, un frustare di rami e polvere tutt'intorno; il Console alza gli occhi in tempo per vedere un'increspatura nel cielo coperto della sera: ha l'impressione che dalle nuvole una massa scenda dritto su di loro. Chez alza il fucile a fléchettes e Obem punta il lanciabombe e tutt'e tre cadono, rotolano, non come soldati colpiti, non come elementi di rinculo di una equazione balistica, ma come l'albero abbattuto da Obem poco prima.

Il Console finisce bocconi nella polvere e nella ghiaia, giace disteso senza battere ciglio, incapace di muovere le palpebre.

"Storditore" pensa, con sinapsi divenute lente come olio vecchio. Si scatena un ciclone circoscritto, mentre un oggetto grande e invisibile atterra fra i corpi nella polvere e la sponda del fiume. Il Console ode il gemito di un portello che si apre e il ticchettio di turbine a repulsione che scendono sotto il livello critico. Ancora non può battere le palpebre, tantomeno alzare la testa; il suo campo visivo è limitato a diversi ciottoli, un panorama di dune sabbiose, una piccola foresta di erba e una solitaria formica-architetto, enorme a così breve distanza, che sembra provare un improvviso interesse per l'occhio umido e fisso del Console. La formica si gira per superare in fretta il mezzo metro che la separa dal boccone prelibato; il pensiero del Console è un grido, "Sbrigatevi", rivolto ai passi calmi dietro di lui.

Mani sotto le ascelle, borbottio, una voce nota, ma tesa: — Diavolo, ha messo su peso!

I talloni del Console strisciano nella polvere, passano sulle dita di Chez che si contraggono a caso… o forse sono quelle di Obem: il Console non può girare la testa per guardare di chi si tratta. Né può vedere chi l'ha salvato, finché questi non lo solleva, con una litania di imprecazioni sottovoce, quasi nell'orecchio, e non lo spinge dentro la torretta di dritta dello skimmer demimetizzato, sul morbido cuoio del sedile.

Il governatore generale Theo Lane compare nel campo visivo del Console, con un'aria da ragazzino, ma anche da diavolo, quando il portello si chiude e la luce interna gli illumina di rosso il viso. Theo si sporge ad agganciare al petto del Console la rete di sicurezza. — Mi dispiace, ma sono stato costretto a stordirla con gli altri due — dice. Si siede al posto di guida, blocca la propria rete, aziona l'onnicomando. Lo skimmer vibra, si solleva, rimane librato per un secondo, prima di virare a sinistra come una piastra su cuscinetti senza attrito. L'accelerazione preme il Console contro il sedile.

— Non avevo molta scelta — dice Theo, superando i rumori interni dello skimmer. — Queste baracche sono armate soltanto di storditore antisommossa. Il modo più semplice era metterlo al minimo, stordire tutti e portarla via in fretta. — Con il solito colpetto di dito spinge più su gli antiquati occhiali e si gira sorridendo verso il Console. — Vecchio proverbio dei mercenari: "Uccidili tutti e lascia che sia Dio a fare la cernita".

Il Console riesce a muovere la lingua quanto basta a emettere un suono e sbavare un poco sulla guancia e sul sedile di pelle.

— Si rilassi un momento — dice Theo, riportando l'attenzione agli strumenti e all'esterno. — Fra un paio di minuti potrà parlare senza difficoltà. Mi tengo al coperto e volo a bassa quota. Occorreranno dieci minuti di volo, per tornare a Keats. — Lancia un'occhiata al passeggero. — Ha fortuna, signore. Senza dubbio è disidratato. Gli altri due si sono bagnati i calzoni. Lo storditore è un'arma umanitaria ma imbarazzante, se non ci sono in giro calzoni di ricambio.

Il Console tenta di esprimere la propria opinione su quest'arma "umanitaria".

— Ancora un paio di minuti, signore — dice il governatore generale Theo Lane, asciugando col fazzoletto la guancia del Console. — L'avviso che non ci si sente tanto bene, quando l'effetto comincia a svanire.

In quel momento qualcuno conficca nel corpo del Console diverse migliaia di spilli e di aghi.


— Come diavolo mi hai trovato? — domanda il Console. Sono qualche chilometro al di sopra della città, volano ancora sopra l'Hoolie. Riesce a mettersi a sedere, e bene o male parla in modo comprensibile, ma è contento di avere a disposizione diversi minuti prima di doversi alzare in piedi o camminare.

— Prego?

— Ho detto: come mi hai trovato? Come sapevi che tornavo lungo l'Hoolie?

— Comunicazione astrotel del PFE Gladstone. Solo visiva, nella piattaforma monouso del vecchio consolato.

— Gladstone? — Il Console muove le mani, cerca di riportare sensibilità nelle dita inutili come salsicciotti di gomma. — Come diavolo poteva sapere, Gladstone, che ero nei guai sull'Hoolie? Ho lasciato nella valle il ricevitore comlog di nonna Siri, per poter chiamare gli altri, una volta ricuperata la nave. Come lo sapeva, Gladstone?

— Non so, signore. Ma Gladstone ha detto dove si trovava e che era nei guai. Ha detto anche che il tappeto Hawking su cui volava era precipitato.

Il Console scuote la testa. — Quella donna ha risorse che nemmeno ci sogniamo, Theo.

— Certo, signore.

Il Console lancia un'occhiata all'amico. Ormai da più di un anno di Hyperion Theo Lane è governatore generale del nuovo mondo del Protettorato, ma le vecchie abitudini sono dure a morire e il "signore" deriva dai sette anni in cui è stato viceconsole e primo segretario del Console. Durante l'ultimo incontro col giovanotto (ormai non più tanto giovane, si rende conto il Console: la responsabilità ha segnato di rughe e di grinze il viso giovanile) Theo era furioso perché a suo tempo il Console non aveva accettato la carica di governatore generale. Era accaduto poco più di una settimana prima. Secoli, millenni fa.

— A proposito — dice il Console, pronunciando con cura ogni parola. — Grazie, Theo.

Il governatore generale risponde con un breve cenno; sembra assorto. Non chiede che cosa ha visto il Console a nord delle montagne, né quale sia stata la sorte degli altri pellegrini. In basso, l'Hoolie si allarga e serpeggia verso Keats, la capitale. Lontano, ai lati, si ergono basse scogliere, le cui lastre di granito brillano fiocamente nella luce della sera. Boschetti di semprazzurri scintillano sotto la brezza.

— Theo, come mai hai avuto il tempo di venirmi in aiuto di persona? La situazione su Hyperion è certo follia pura.

— Infatti. — Theo inserisce il pilota automatico e si gira a guardare il Console. — È questione di ore, forse di minuti, prima che gli Ouster inizino l'invasione vera e propria.

Il Console batte le palpebre. — Invasione? Vuoi dire a terra?

— Esatto.

— Ma la flotta dell'Egemonia…

— Nel caos totale. Riuscivano a stento a mantenere la posizione contro gli Sciami, prima che la Rete fosse invasa.

— La Rete!

— Sistemi interi sono caduti. Altri sono minacciati. La FORCE ha ordinato il rientro della flotta per mezzo dei teleporter militari, ma evidentemente le navi all'interno del sistema hanno avuto difficoltà a sganciarsi. Nessuno mi comunica i particolari, ma è chiaro che gli Ouster hanno via libera dappertutto tranne che nel perimetro difensivo della FORCE intorno alle sfere di anomalia e ai portali.

— E lo spazioporto? — Il Console pensa alla sua magnifica nave ridotta a un relitto bruciato.

— Ancora non è stato attaccato, ma la FORCE fa decollare navette e mezzi di rifornimento, con la massima rapidità possibile. Hanno lasciato un contingente di marines ridotto all'osso.

— E l'evacuazione?

Theo ride: la risata più amara che il Console gli abbia mai udito. — L'evacuazione consiste nei funzionari del consolato e nei VIP dell'Egemonia che prenderanno posto sull'ultima navetta.

— Hanno rinunciato a salvare la popolazione di Hyperion?

— Signore, non possono salvare neppure la loro! Voci di corridoio dicono che Gladstone abbia deciso di lasciar cadere i mondi minacciati, in modo che la FORCE si riorganizzi e abbia un paio di anni per approntare le difese, mentre gli Sciami accumulano debito temporale.

— Dio mio — mormora il Console. Per la maggior parte della vita ha rappresentato l'Egemonia, pur complottandone nel contempo la caduta al fine di vendicare la nonna… il sistema di vita di sua nonna. Ma ora, il pensiero che accada davvero…

— E lo Shrike? — domanda all'improvviso, mentre scorge, qualche chilometro più avanti, i bassi edifici di Keats. La luce del sole tocca le montagne e il fiume, come un'ultima benedizione prima delle tenebre.

Theo scuote la testa. — Giungono sempre rapporti, ma gli Ouster hanno preso il posto dello Shrike: sono diventati la prima fonte di panico.

— Ma non è nella Rete? Lo Shrike, intendo.

Il governatore generale lancia al Console un'occhiata penetrante. — Nella Rete? Come potrebbe? Su Hyperion ancora non esiste un teleporter. E non ci sono stati avvistamenti nei dintorni di Keats, di Endymion, di Port Romance. Di nessuna delle maggiori città.

Il Console non ribatte, ma pensa: "Oddio, il mio tradimento non è servito a niente. Ho venduto l'anima per aprire le Tombe del Tempo e lo Shrike non sarà la causa della caduta della Rete… Gli Ouster! Sono sempre stati al corrente di tutto. Il mio tradimento dell'Egemonia era parte del loro piano!"

— Stia a sentire — dice Theo, in tono rauco, stringendogli il polso. — C'è un motivo, se Gladstone mi ha detto di mollare tutto per cercare lei. Ha autorizzato il rilascio della sua nave…

— Magnifico! Posso…

— Mi ascolti! Non deve tornare nella Valle delle Tombe. Gladstone vuole che lei eviti il perimetro della FORCE, viaggi all'interno del sistema e si metta in contatto con elementi dello Sciame.

— Lo Sciame? Perché dovrei…

— Il PFE vuole che tratti con gli Ouster. Loro la conoscono! Chissà come, Gladstone è riuscita a informarli del suo arrivo. Pensa che la lasceranno passare… che non distruggeranno la sua nave; ma di questo non ha ricevuto conferma. Sarà rischioso.

Il Console si appoggia allo schienale. Si sente come se l'avessero colpito di nuovo con lo storditore neurale. — Trattare? Cosa diavolo avrei, da trattare?

— Gladstone ha detto che le avrebbe parlato, per mezzo dell'astrotel della nave, dopo il decollo da Hyperion. Che deve avvenire subito. Oggi stesso. Prima che i mondi minacciati dalla prima ondata cadano nelle mani degli Ouster.

Il Console ode la frase "mondi minacciati dalla prima ondata", ma non domanda se il suo amato Patto-Maui è compreso fra quelli. Forse, pensa, sarebbe meglio se lo fosse. Risponde: — No, torno nella valle.

Theo si aggiusta gli occhiali. — Gladstone non lo permetterà, signore.

— Oh? — Il Console sorride. — E come farà, a fermarmi? Abbatterà la nave?

— Non so, ma ha detto che non l'avrebbe permesso. — Theo sembra sinceramente preoccupato. — La flotta della FORCE ha in orbita vedette e navi torcia, signore. Per scortare le ultime navette.

— Bene — dice il Console, continaundo a sorridere. — Che provino ad abbattermi. Comunque, da due secoli navi con equipaggio umano non sono riuscite ad atterrare nella vicinanze della Valle delle Tombe: le navi atterrano perfettamente, ma l'equipaggio scompare. Prima che loro mi trasformino in scorie, penderò dall'albero dello Shrike. — Chiude un momento gli occhi e immagina la nave che atterra, vuota, nel pianoro sopra la valle. Immagina Sol, Duré, e gli altri, miracolosamente tornati, correre al riparo a bordo della nave, usare l'attrezzatura chirurgica per salvare Het Masteen e Brawne Lamia, la vasche di crio-fuga per salvare la piccola Rachel.

— Mio Dio — mormora Theo. Il tono sconvolto strappa il Console alle fantasticherie.

Hanno superato l'ultima curva del fiume, sopra la città. Qui le scogliere sono più alte, culminano verso sud nella montagna scolpita a immagine di re Billy il Triste. Il sole al tramonto accende le nuvole basse e gli edifici sulla cima delle scogliere orientali.

Al di sopra della città infuria la battaglia. Raggi laser colpiscono e attraversano le nuvole, le navi si scansano come moscerini e bruciano come falene troppo vicino alla fiamma, i paracadute e le macchie confuse dei campi di sospensione vanno alla deriva. Keats è sotto attacco. Gli Ouster sono arrivati su Hyperion.

— Oh, merda — mormora Theo, con tono riverente.

Lungo la cresta alberata a nordest della città, un breve getto di fiamma e un tremolio di scia di condensazione segnano il missile scagliato da un lanciarazzi portatile e diretto proprio verso lo skimmer dell'Egemonia.

— Si regga forte! — grida Theo, brusco. Prende il comando manuale, muove interruttori a leva, esegue una brusca virata a dritta, cerca di girare all'interno del piccolo raggio di curvatura del razzo stesso.

Un'esplosione a poppa scaglia il Console contro la rete di sicurezza e per un attimo gli annebbia la vista. Quando il Console riesce di nuovo a vedere, la cabina è piena di fumo, luci rosse di allarme pulsano nel bagliore e lo skimmer denuncia guasti al sistema, con una decina di voci dal tono pressante. Theo è accasciato sinistramente sui comandi.

— Si regga forte — ripete, senza bisogno. Lo skimmer ruota da far venire la nausea, fa presa sull'aria, poi cede, si capovolge, scivola di ala verso la città in fiamme.

36

Aprii gli occhi, disorientato per un istante; mi trovavo nell'immensa e scura Basilica di San Pietro, su Pacem. Nella fioca luce delle candele, monsignor Edouard e padre Paul Duré, chini verso di me, mi guardavano con espressione intensa.

— Per quanto tempo sono rimasto… addormentato? — domandai. Mi pareva che fossero trascorsi soltanto alcuni secondi: il sogno era uno scintillio di immagini come si ha prima di sprofondare nel sonno.

— Dieci minuti — disse Monsignor Edouard. — Ci può dire cosa ha visto?

Non vedevo motivo di non raccontare il sogno. Quando terminai di descriverlo, monsignor Edouard si fece il segno della croce. — Mon Dieu, l'ambasciatore del TecnoNucleo spinge Gladstone a mandare la gente in quei… tunnel.

Duré mi toccò la spalla. — Dopo avere parlato con la Vera Voce dell'Albero Mondo, su Bosco Divino, la raggiungerò su TC2. Dobbiamo spiegare a Gladstone quanto sia folle una simile scelta.

Non pensavo più di andare con Duré su Bosco Divino, né su Hyperion. — Sono di accordo — dissi. — Dovremmo partire subito. Il vostro… La Porta del Papa può teleportarmi su Tau Ceti Centro?

Monsignor Edouard si alzò, annuì, si sgranchì. All'improvviso mi resi conto che era assai anziano, che non aveva mai subito trattamenti Poulsen. — Ha un accesso di priorità — disse. Si rivolse a Duré. — Paul, sai che ti accompagnerei, se potessi. I funerali di Sua Santità, l'elezione del nuovo Santo Padre… — Emise un sospiro triste. — È strano che gli imperativi quotidiani persistano anche di fronte al disastro collettivo. Pacem stesso ha meno di dieci giorni standard, prima dell'arrivo dei barbari.

L'alta fronte di Duré brillò alla luce delle candele. — Gli affari della Chiesa trascendono il semplice imperativo quotidiano, amico mio. Mi fermerò il meno possibile sul mondo dei Templari, poi mi unirò al signor Severn nello sforzo di convincere il PFE a non dare ascolto al Nucleo. Poi tornerò, Edouard, e cercheremo di trarre un senso da questa confusa eresia.

Li seguii fuori della basilica, da una porta laterale che portava in un corridoio dietro gli alti colonnati, poi a sinistra in un cortile a cielo aperto (la pioggia era cessata e l'aria profumava di fresco), giù per una scala, lungo uno stretto tunnel, fino nelle stanze papali. Soldati della Guardia Svizzera scattarono sull'attenti quando entrammo nell'anticamera; erano alti, vestiti con armatura e calzoni a righe gialle e blu, ma le alabarde cerimoniali erano anche armi a energia degne della FORCE. Una guardia avanzò di un passo e si rivolse sottovoce al monsignore.

— Un tale è appena giunto al terminex principale per vedere lei, signor Severn — disse quest'ultimo.

— Me? — Stavo ascoltando altre voci nelle altre stanze, l'armonico salire e scendere di preghiere ripetute. Immaginavo che riguardassero la preparazione dei funerali del Papa.

— Sì, un certo signor Hunt. Dice che si tratta di questioni urgenti.

— Fra un minuto l'avrei incontrato nella Casa del Governo. Può dirgli di raggiungerci qui?

Monsignor Edouard annuì e parlò sottovoce alla guardia svizzera, che mormorò qualcosa nel cimiero ornamentale dell'antica armatura.

La cosiddetta Porta del Papa, un piccolo teleporter circondato da intricate sculture in oro raffiguranti cherubini e serafini, sovrastato da un bassorilievo a cinque stazioni che illustrava la caduta di Adamo ed Eva e la cacciata dal giardino dell'Eden, si trovava al centro di un locale ben sorvegliato, subito prima delle stanze private del Papa. Aspettammo lì; gli specchi alle pareti riflettevano la nostra pallida immagine di persone dall'aria stanca.

Leigh Hunt entrò, scortato dal prete che mi aveva guidato nella basilica.

— Severn! — esclamò il fido consigliere di Gladstone. — Il PFE ha bisogno di lei immediatamente.

— Stavo proprio per andare a trovarla — risposi. — Sarebbe un errore gravissimo, se Gladstone permettesse al Nucleo di costruire e usare quell'ordigno micidiale.

Hunt batté le palpebre… una reazione quasi comica, in quel viso da basset-hound. — Lei sa sempre tutto ciò che accade, Severn?

Fui costretto a ridere. — Un bimbo seduto da solo in una piazzuola di proiezione vede molto e capisce pochissimo. Ma ha il vantaggio di poter cambiare canale e di spegnere l'apparecchio, quando ne è stufo. — Hunt conosceva già monsignor Edouard, a seguito di vari incontri ufficiali; gli presentai padre Paul Duré della Compagnia di Gesù.

— Duré? — riuscì a dire Hunt, lasciando quasi penzolare la mascella. Era la prima volta che lo vedevo restare senza parole; ne fui quasi rallegrato.

— Le spiegazioni a più tardi — dissi. Strinsi la mano al prete. — Buona fortuna su Bosco Divino, Duré. Non si trattenga troppo.

— Un'ora — promise il gesuita. — Non di più. Devo solo trovare una tessera del mosaico, prima di parlare al PFE. Le spieghi lei l'orrore del labirinto… più tardi aggiungerò la mia testimonianza.

— Può darsi che sia troppo occupata per ricevermi prima che lei sia di ritorno — dissi. — Ma farò del mio meglio per impersonare la parte di Giovanni Battista.

Duré sorrise. — Attento a non perdere la testa, amico mio. — Ci rivolse un cenno di saluto, batté sull'arcaico diskey il codice di trasferimento e varcò il portale.

Dissi addio a Monsignor Edouard. — Sistemeremo tutto prima che l'ondata Ouster arrivi troppo lontano.

L'anziano prete alzò la mano e mi benedisse. — Vada con Dio, giovanotto. Ho la sensazione che tempi oscuri ci attendano, ma che toccherà a lei il fardello più oneroso di tutti.

Scossi la testa. — Sono solo un osservatore. Aspetto, osservo e sogno. Un fardello trascurabile, monsignore.

— Aspetti, osservi e sogni più tardi — disse Leigh Hunt, brusco. — La Signora la vuole a portata di mano subito e devo tornare a una riunione che ho piantato in asso.

Guardai l'ometto. — Come mi ha trovato? — domandai, tanto per parlare. I teleporter erano azionati dal Nucleo e il Nucleo collaborava con le autorità dell'Egemonia.

— La sua carta di priorità rende più facile tenersi al corrente dei suoi viaggi — disse Hunt, con chiaro tono di impazienza. — In questo momento abbiamo l'obbligo di trovarci sul luogo degli eventi.

— Bene. — Rivolsi un cenno di saluto al monsignore e al suo segretario e con un gesto invitai Hunt a seguirmi; battei il codice di tre cifre per Tau Ceti Centro, aggiunsi due cifre per il continente, altre tre per la Casa del Governo e ancora due per il terminex privato nell'edificio. Il ronzio del teleporter crebbe di una tacca, la superficie opaca parve scintillare di aspettativa.

Varcai per primo il portale e mi spostai di lato per lasciare spazio a Hunt.


Non siamo nel terminex centrale della Casa del Governo. Per quanto ne capisco, non siamo neppure da quelle parti. In un attimo i miei sensi sommano l'input di luce del sole, colore del cielo, gravità, distanza dell'orizzonte, odori e sensazioni delle cose: non siamo su Tau Ceti Centro.

Avrei dovuto fare subito un balzo indietro, ma la Porta del Papa è piccola e Hunt ne emerge… gamba, braccio, spalla, petto, testa, seconda gamba; lo afferro per il polso, lo tiro bruscamente dalla mia parte, dico: — C'è uno sbaglio! — e cerco di varcare di nuovo il portale: troppo tardi. Il portale, privo di intelaiatura da questo lato, brilla, si contrae fino a diventare un cerchio grande quanto il mìo pugno, scompare.

— Dove diavolo siamo? — domanda Hunt.

Mi guardo intorno e penso: "Ottima domanda". Siamo in aperta campagna, sulla cima di un colle. In basso una strada serpeggia fra vigneti, scende un lungo pendio tra una valletta boscosa, scompare intorno a un altro colle lontano un paio di miglia. Fa molto caldo e l'aria ronza di insetti, ma nell'ampio panorama non si muove niente di più grosso di un uccello. Fra le scogliere alla nostra destra si intravede una macchia azzurra… l'oceano o il mare. Nel cielo corrono alti cirri; il sole ha appena passato lo zenit. Non vedo case, né tecnologia più complessa dei filari di vigneto e della strada di pietra e fango. Inoltre, il brusio costante della sfera dati è sparito. Sembra quasi di udire all'improvviso l'assenza di un rumore in cui si è stati immersi dall'infanzia: sorprende, sconvolge, rende perplessi e spaventa un poco.

Hunt barcolla, si stringe le orecchie come se sentisse davvero l'assenza di suono, dà un colpo al comlog. — Maledizione — brontola. — Maledizione. L'impianto non funziona. Il comlog è morto.

— No — dico. — Secondo me, siamo al di là della sfera dati. — Mentre lo dico, sento un ronzio più basso e più debole… qualcosa di molto più esteso e molto meno accessibile della sfera dati. La megasfera? "La musica delle sfere" penso; e sorrido.

— Cosa diavolo ha da ridere, Severn? L'ha fatto apposta?

— No. Ho battuto il codice giusto per la Casa del Governo. — La totale mancanza di panico, nel mio tono, è panico di per sé.

— Cosa, allora? La maledetta Porta del Papa? È questa, la causa? Un guasto, un trucco?

— No, non credo. La porta ha funzionato, Hunt. Ci ha portato proprio dove il TecnoNucleo ci vuole.

— Il Nucleo? — Quel poco di colore che restava sulla faccia da basset-hound svanisce rapidamente, appena il segretario del PFE capisce chi controlla i teleporter. — Oddio. Oddio. — Hunt barcolla a lato della strada e si siede sull'erba alta. L'abito di pelle scamosciata da alto funzionario e le morbide scarpe nere sembrano fuori posto, qui.

— Dove siamo? — domanda di nuovo.

Respiro a fondo. L'aria profuma di terreno appena arato, di erba tagliata da poco, di polvere di strada, di aspro sentore di mare. — Secondo me, Hunt, siamo sulla Terra.

— Terra. — L'ometto guarda fisso davanti a sé, senza mettere a fuoco niente. — Terra. Non Nuova Terra. Non Gea. Non Terra Due. Non…

— No — lo interrompo. — La Terra. La Vecchia Terra. O il suo duplicato.

— Il suo duplicato.

Mi siedo accanto a lui. Strappo un filo di erba e ne spelo l'estremità. Ha un sapore aspro e noto. — Ricorda il mio rapporto a Gladstone riguardo le storie dei pellegrini su Hyperion? Il racconto di Brawne Lamia? Lei e la mia controparte, il cìbrido… la prima personalità Keats ricuperata… viaggiarono in quello che ritenevato un duplicato della Vecchia Terra. Nell'ammasso Ercole, se ricordo bene.

Hunt guarda in alto, come se potesse giudicare l'esattezza delle mie parole controllando le costellazioni. In alto l'azzurro ingrigisce leggermente e i cirri si diffondono nella volta celeste. — L'ammasso Ercole — mormora Hunt.

— Perché il TecnoNucleo abbia costruito un duplicato e cosa se ne faccia, Brawne non l'ha mai scoperto — dico. — Il primo cìbrido non lo sapeva, o non ne ha parlato.

— Non ne ha parlato — annuisce Hunt. Scuote la testa. — Bene, come diavolo facciamo a uscire di qui? Gladstone ha bisogno di me. Non può… nelle prossime ore bisogna prendere decine di decisioni di importanza vitale. — Balza in piedi, si precipita al centro della strada, perfetta immagine di energia e determinazione.

Continuo a masticare il filo di erba. — Secondo me, da qui non usciamo.

Hunt viene verso di me come se volesse aggredirmi su due piedi. — Ma lei dà i numeri! Niente uscita? Che pazzia! Quali motivi avrebbe, il Nucleo? — Esita, mi guarda. — Non vogliono che lei parli con Gladstone. Lei sa qualcosa e il Nucleo non può rischiare che Gladstone la venga a sapere.

— Forse.

— Tenetevelo e lasciatemi andare! — grida al cielo.

Nessuno risponde. Lontano, dall'altra parte del vigneto, un grosso uccello nero si alza in volo. Credo sia un corvo; ricordo il nome di questa specie estinta come se l'avessi imparato in un sogno.

Dopo un momento Hunt la smette di gridare al cielo e cammina avanti e indietro sulla strada. — Andiamo. Forse c'è un terminex, alla fine della strada.

— Forse — dico; spezzo lo stelo di erba per succhiare il dolce della parte superiore. — Ma da quale parte?

Hunt si gira, guarda la strada scomparire dietro le colline in tutt'e due le direzioni, torna a girarsi. — Siamo usciti dal portale puntando… da questa parte. — Tende il dito. La strada procede in discesa in un boschetto.

— Quanto tempo occorre? — domando.

— Maledizione, che importa? — sbraita lui. — Da qualche parte dobbiamo pur andare!

Trattengo un sorriso. — D'accordo. — Mi alzo, mi spazzolo i calzoni, sento sulla fronte e sul viso il sole caldissimo. Dopo l'oscurità permeata di incenso della basilica, è sconvolgente. L'aria è molto calda e i vestiti sono già umidi di sudore.

Hunt comincia a camminare vigorosamente giù per la collina, pugni chiusi, l'aria dolente migliorata una volta tanto da un'espressione più forte… pura e semplice risolutezza.

Lentamente, senza fretta, continuando a masticare il filo di erba, a occhi socchiusi per la stanchezza, lo seguo.


Il colonnello Fedmahn Kassad urlò e assalì lo Shrike. Il paesaggio surrealista e fuori del tempo, una versione da coreografo minimalista della Valle delle Tombe, modellata in plastica e posta in un gel di aria viscosa, parve vibrare sotto la violenza dell'assalto di Kassad.

Per un istante c'era stata una diffusione di immagini speculari di Shrike… Shrike per tutta la valle, sparsi nel pianoro brullo; ma al grido di Kassad si risolse in un singolo mostro e ora questi si mosse, distese e allungò le quattro braccia, arcuate in modo da accogliere con un caloroso abbraccio di lame e di spine l'assalto del colonnello.

Kassad non sapeva se la dermotuta a energia che indossava, dono di Moneta, l'avrebbe protetto e coadiuvato nel combattimento. Erano passati molti anni da quando lui e Moneta avevano assalito i commandos Ouster di due navette, ma quella volta il tempo era stato dalla loro parte; lo Shrike aveva congelato e scongelato il flusso di istanti, come uno spettatore stufo che giocherellasse col telecomando della piazzuola olografica. Adesso erano fuori del tempo e lo Shrike era il nemico, non un terribile santo patrono. Kassad gridò, abbassò la testa, attaccò, dimentico di Moneta, dimentico dell'impossibile albero di spine che con il suo orrendo pubblico impalato si alzava fino alle nuvole, e neppure consapevole di se stesso, se non come un'arma da combattimento, uno strumento di vendetta.

Lo Shrike non scomparve nella solita maniera, non smise di colpo di essere per comparire qui. Invece, si acquattò e allargò maggiormente le braccia. Le lame delle dita colsero la luce violenta del cielo. I denti di metallo brillarono in quello che forse era un sorriso.

Kassad era furioso, ma non pazzo. Anziché lanciarsi in quell'abbraccio di morte, all'ultimo istante si gettò di lato, rotolò sul braccio e sulla spalla, vibrò un calcio alla parte inferiore della gamba del mostro, tra il grappolo di spine all'articolazione del ginocchio e l'analogo spiegamento di lame alla caviglia. Se fosse riuscito a farlo cadere…

Fu come prendere a calci un tubo incassato in mezzo chilometro di calcestruzzo. Il colpo avrebbe rotto la gamba stessa di Kassad, se la dermotuta non avesse agito da corazza e ammortizzatore.

Lo Shrike si mosse, rapidamente ma non a velocità istantanea; vibrò, come in un lampo confuso, le due braccia di destra, in un movimento circolare dall'alto in basso: dieci dita a forma di lama segnarono con tagli chirurgici terreno e roccia, le spine delle braccia mandarono scintille e le mani continuarono a spostarsi verso l'alto affettando l'aria con un fruscio percettibile. Kassad era fuori portata; continuò a rotolare, si rialzò, si acquattò, tese le braccia, a mani piatte, dita dritte e rigide sotto le pelle di energia.

"Singoiar tenzone" pensò Fedmahn Kassad. "Il sacramento più onorevole del codice Neo-Bushido."

Lo Shrike fintò di nuovo con le braccia di destra, vibrò il braccio inferiore sinistro in un fendente circolare dal basso in alto, abbastanza violento da fracassare le costole di Kassad e strappargli il cuore.

Con l'avambraccio sinistro Kassad parò la finta e sentì la dermotuta flettersi contro l'osso, quando il violento colpo dello Shrike arrivò a segno. Con la mano sinistra afferrò il polso del mostro proprio sopra la corona di punte ricurve e parò il micidiale colpo del braccio sinistro, rallentandone il movimento quanto bastava perché le dita simili a bisturi grattassero contro il campo della dermotuta, anziché squarciare le costole.

Kassad fu quasi sollevato da terra, nello sforzo di contrastare l'artiglio che si alzava; solo la spinta verso il basso della prima finta dello Shrike gli impedì di volare all'indietro. Il sudore scorse liberamente sotto la dermotuta, i muscoli si tesero e protestarono di dolore e minacciarono di strapparsi, in quegli interminabili venti secondi di lotta, prima che lo Shrike mettesse in gioco il quarto braccio, con un fendente alla gamba sotto sforzo.

Kassad urlò, quando il campo della dermotuta cedette e almeno una lama lacerò la carne arrivando quasi all'osso. Il colonnello scalciò con l'altra gamba, lasciò la presa sul polso del mostro e rotolò via freneticamente.

Lo Shrike vibrò due colpi, il secondo dei quali sibilò a un millimetro dall'orecchio di Kassad; poi balzò indietro, si acquattò, si spostò verso destra.

Kassad si alzò sul ginocchio sinistro, quasi cadde, barcollando e zoppicando un poco per reggersi in equilibrio. Il dolore gli ruggì nelle orecchie e riempì l'universo di luce rossa; ma Kassad, pur vacillando, sul punto di svenire per lo choc, sentì la tuta richiudersi sulla ferita, agire da laccio emostatico e da tampone. Il sangue nella parte inferiore della gamba non sgorgò più liberamente e il dolore era sopportabile, come se la dermotula avesse in sé iniettori medipac identici a quelli della tuta blindata della FORCE.

Lo Shrike si precipitò contro di lui.

Kassad scalciò una volta, due, mirando e colpendo il levigato pezzo di carapace sotto la punta pettorale. Fu come prendere a calci lo scafo di una nave torcia; ma lo Shrike parve esitare, barcollare, arretrare.

Kassad avanzò di un passo, bilanciò il peso, colpì due volte il punto in cui si sarebbe dovuto trovare il cuore del mostro, con un pugno che avrebbe fatto a pezzi la ceramica temperata; non badò al dolore, girò su se stesso, piantò allo Shrike un colpo a mano aperta in pieno muso, appena sopra i denti. Un essere umano avrebbe udito il rumore del proprio naso che si rompeva, avrebbe sentito l'esplosione di ossa e di cartilagini, i frammenti conficcati nel cervello.

Lo Shrike scattò per afferrare il polso di Kassad, mancò la presa, vibrò quattro mani contro la testa e le spalle dell'avversario.

Ansimando, ruscellando sudore e sangue sotto la corazza argento vivo, Kassad ruotò a destra una volta, due, e vibrò un colpo micidiale contro la nuca dell'avversario. Il rumore dell'impatto echeggiò nella valle impietrita come quello di una scure lanciata da miglia di altezza nel cuore di una sequoia di metallo.

Lo Shrike cadde in avanti, rotolò sulla schiena come un crostaceo di acciaio.

"L'ho abbattuto!" pensò Kassad.

Avanzò ancora, sempre acquattato, sempre prudente, ma non abbastanza, perché il piede corazzato, o la zampa, o quel che diavolo era, gli agganciò la caviglia; con una via di mezzo fra un calcio e un fendente lo mandò gambe all'aria.

Il colonnello Kassad sentì il dolore, capì che il mostro gli aveva reciso il tendine di Achille, cercò di rotolare via; ma lo Shrike già si gettava in alto e di lato contro di lui, punte e lame e spine che arrivavano contro le costole, il viso e gli occhi di Kassad. Con una smorfia di dolore, inarcandosi nel vano tentativo di schivare il mostro, Kassad bloccò alcuni colpi, si salvò gli occhi, sentì altre lame andare a segno negli avambracci, nel torace, nel ventre.

Lo Shrike si abbassò e spalancò la bocca. Kassad fissò file su file di denti di acciaio in un'orifizio simile alla bocca di una lampreda. Occhi rossi gli riempirono la vista già tinta di sangue.

Kassad piantò la base del palmo contro la mascella dello Shrike e cercò di fare leva. Era come sollevare una montagna di sterco metallico senza avere un punto di appoggio. Le dita affilate dello Shrike continuarono a lacerare la carne di Kassad. Il mostro spalancò la bocca e inclinò la testa finché i denti non riempirono da orecchio a orecchio il campo visivo di Kassad. Non aveva alito, ma il calore proveniente dall'interno puzzava di zolfo e di limatura di ferro surriscaldata. A Kassad non rimaneva difesa: quando il mostro avesse chiuso di scatto le fauci, avrebbe scarnificato fino all'osso la faccia di Kassad.

All'improvviso Moneta intervenne, gridando, in quel luogo in cui il suono non si propagava; piegando come artigli le dita rivestite di dermotuta, afferrò gli occhi sfaccettati come rubini, piantò con forza i piedi contro il carapace, sotto la punta nera, e tirò, tirò.

Le braccia dello Shrike si mossero di scatto all'indietro, mettendo in mostra la doppia giuntura simile a quella di un granchio da incubo; le dita graffiarono Moneta, che cadde via, ma non prima che Kassad rotolasse lontano, strisciasse carponi, sentisse il dolore senza però badarvi, e balzasse in piedi, trascinando con sé la donna, mentre si ritirava sulla sabbia e la roccia congelata.

Per un secondo, le due tute pellicolari si fusero com'era accaduto quando avevano fatto l'amore; Kassad sentì la pelle di Moneta contro la propria, sentì sangue e sudore di tutti e due mescolarsi, percepì il battito congiunto del loro cuore.

"Uccidilo!" bisbigliò Moneta, in tono pressante, lasciando intuire la sofferenza anche attraverso quel mezzo subvocale.

"Ci provo. Ci provo."

Lo Shrike era in piedi, tre metri di cromo e di lame e di sofferenza di altra gente. Non mostrava danni. Il sangue di qualcuno scorreva in piccoli rivoli lungo i polsi e il carapace. Lo sciocco sorriso pareva più ampio di prima.

Kassad separò la propria tuta da quella di Moneta, depose con gentilezza la donna sopra un sasso, pur intuendo che era stata ferita più gravemente di lui. Quella non era la battaglia di Moneta. Non ancora.

Si frappose fra l'amata e lo Shrike.

Esitò, nell'udire un debole ma crescente mormorio che ricordava la risacca contro una spiaggia invisibile. Lanciò un'occhiata in alto, senza mai perdere di vista lo Shrike che avanzava lentamente, e capì che si trattava del coro di grida proveniente dall'albero di spine, molto lontano alle spalle del mostro. Le persone crocifisse, piccole macchie di colore penzolanti dalle spine metalliche e dai gelidi rami, gridavano qualcosa, oltre ai subliminali gemiti di dolore che Kassad aveva udito in precedenza. Era un coro di incitamento.

Kassad riportò l'attenzione sullo Shrike, che aveva ricominciato a muoversi in cerchio. Sentì il dolore e la debolezza nel tallone quasi tranciato… il piede destro era inutile, non riusciva a sostenere il peso; per metà zoppicò, per metà ruotò puntando la mano sul masso, per mantenere il proprio corpo fra lo Shrike e Moneta.

L'incitamento lontano parve interrompersi, come per un ansito.

Lo Shrike smise di essere e si materializzò qui, accanto a Kassad, sopra Kassad, le braccia già intorno a lui in una stretta definitiva, spine e lame già a contatto della carne. Gli occhi si accesero di luce. Le fauci si spalancarono di nuovo.

Kassad urlò di rabbia, di sfida, e colpì lo Shrike.


Padre Paul Duré varcò la Porta del Papa e si trovò senza incidenti su Bosco Divino. Dalla penombra permeata di incenso degli appartamenti papali fu all'improvviso nella vivida luce del sole, sotto un cielo giallo limone, in mezzo al fogliame verdeggiante.

I Templari lo aspettavano. Quando Duré scese dal teleporter privato, vide il bordo della piattaforma di legno muir, a cinque metri alla sua destra, e al di là di essa, niente… o, piuttosto, tutto, perché le cime degli alberi di Bosco Divino si estendevano fino all'orizzonte, il tetto di foglie brillava e si muoveva come un oceano vivente. Duré capì di trovarsi in alto nell'Albero Mondo, il più grande e il più santo di tutti gli alberi sacri.

I Templari in attesa erano importanti, nella complicata gerarchia della Confraternita del Muir, ma ora si comportarono da semplici guide, lo accompagnarono dalla piattaforma del portale a un ascensore di liane tese che si alzava fra i livelli superiori e le terrazze dove pochi estranei erano mai saliti, e poi di nuovo fuori e su per una scalinata protetta da una ringhiera del più fine legno muir, che saliva a spirale verso il cielo intorno a un tronco che dalla base di duecento metri si assottigliava a meno di otto metri di diametro in prossimità della cima. La piattaforma di legno weir era squisitamente intagliata; le ringhiere mostravano un delicato merletto di liane scolpite a mano, di colonnine e di balaustre che esibivano facce di gnomi, di amadriadi, di fate e di altri spiritelli; il tavolo e le poltrone cui Duré si accostò erano scolpite nello stesso blocco di legno della piattaforma.

Due uomini aspettavano il gesuita. Il primo era Sek Hardeen, la Vera Voce dell'Albero Mondo, Gran Sacerdote del Muir, Portavoce della Confraternita Templare. Il secondo fu una sorpresa. Duré notò la tonaca rossa — il rosso del sangue arterioso — bordata di ermellino nero, il massiccio fisico lusiano coperto da quella tonaca, la faccia tutta mascella e grasso, tagliata in due da un formidabile naso a becco, gli occhietti che si perdevano sopra le guance paffute, le mani grassocce con un anello nero o rosso a ciascun dito. Capì che quello era il Vescovo della Chiesa della Redenzione Finale, il gran sacerdote del Culto Shrike.

Il Templare si alzò in tutta la sua altezza, quasi due metri, e tese la mano. — Padre Duré, siamo assai compiaciuti che si sia potuto unire a noi.

Duré gli strinse la mano, pensando che sembrava davvero una radice, con le dita lunghe e affusolate, color giallo marrone. La Vera Voce dell'Albero Mondo portava una tonaca con cappuccio, identica a quella che aveva indossato Het Masteen, il cui rozzo tessuto di fili verdi e marrone strideva con lo splendore dell'abbigliamento del Vescovo.

— La ringrazio di avermi ricevuto nonostante un preavviso così breve, signor Hardeen — disse Duré. La Vera Voce era il capo spirituale di milioni di seguaci del Muir, ma Duré sapeva che i Templari detestavano usare nella conversazione titoli onorifici. Rivolse al Vescovo un cenno di saluto. — Eccellenza, non pensavo che avrei avuto l'onore di trovarmi in sua presenza.

Il Vescovo del Culto Shrike mosse il capo quasi impercettibilmente. — Ero qui in visita. Il signor Hardeen ha suggerito che la mia partecipazione a questo incontro poteva essere di una certa utilità. Sono lieto di conoscerla, padre Duré. Abbiamo sentito parlare molto di lei, negli ultimi anni.

Il Templare indicò una poltrona dall'altra parte del tavolo e Duré si accomodò, congiunse le mani sopra il piano levigato e rifletté intensamente mentre fingeva di esaminare la magnifica grana del legno. Metà dei servizi di sicurezza della Rete dava la caccia al Vescovo del Culto Shrike. La presenza di quell'uomo indicava complicazioni molto superiori a quelle che il gesuita si era preparato ad affrontare.

— Interessante, vero — disse il Vescovo — che tre rappresentanti delle più profonde religioni dell'umanità siano presenti qui oggi?

— Sì — rispose Duré. — Profonde, ma non rappresentative delle convinzioni religiose dalla maggioranza. Su quasi centocinquanta miliardi di anime, la Chiesa Cattolica ne conta meno di un milione. Il Culto dello… ah… la Chiesa della Redenzione Finale ne conta forse da cinque a dieci milioni. E quanti sono, i Templari, signor Hardeen?

— Ventitré milioni — disse piano il Templare. — Parecchi altri sostengono le nostre battaglie ecologiche e forse vorrebbero unirsi a noi, ma la Confraternita non è aperta ai forestieri.

Il Vescovo si strofinò uno dei molti menti. Aveva la pelle molto pallida e socchiudeva gli occhi come se non fosse abituato alla luce del giorno. — Gli gnostici zen sostengono di avere quaranta miliardi di seguaci — brontolò. — Ma che genere di religione è quella? Non ha chiese. Non ha sacerdoti. Non ha libri sacri. Non ha concetto di peccato.

Duré sorrise. — Sembra la fede più intonata ai tempi. Ed esiste da parecchie generazioni.

— Bah! — Il Vescovo batté sul tavolo la mano aperta. Duré trasalì nell'udire il rumore degli anelli metallici contro il legno di muir.

— Come mai mi conoscete? — domandò.

Il Templare sollevò la testa incappucciata quanto bastava perché Duré vedesse la luce del sole colpire il naso, le guance e la lunga linea del mento. Non rispose.

— Siamo stati noi, a sceglierla — brontolò il Vescovo. — Lei, e gli altri pellegrini.

— Noi, nel senso del Culto Shrike? — replicò Duré.

A questo termine il Vescovo si accigliò, ma annuì senza far parola.

— Perché le sommosse? — domandò Duré. — Perché questi disordini, ora che l'Egemonia è minacciata?

Il Vescovo si strofinò il mento: pietre rosse e nere scintillarono nella luce della sera. Dietro di lui, milioni di foglie frusciarono nella brezza che portava il profumo di vegetazione umida di pioggia. — I Giorni Finali sono arrivati, prete. Le profezie che l'Avatar ci diede, secoli fa, si dispiegano sotto i nostri occhi. Quelle che lei chiama sommosse sono i primi spasmi di agonia di una società che merita di morire. I Giorni della Redenzione incombono. Presto il Signore della Sofferenza camminerà fra noi.

— Il Signore della Sofferenza — ripeté il gesuita. — Lo Shrike.

Il Templare mosse la mano come per smussare in parte l'asprezza delle parole del Vescovo. — Padre Duré, siamo a conoscenza della sua miracolosa rinascita.

— Non è un miracolo. È il capriccio di un parassita chiamato crucimorfo.

Altro gesto delle lunghe dita giallo-marrone. — In qualsiasi modo lei la consideri, padre, la Confraternita si rallegra che sia di nuovo con noi. Prego, avanzi la richiesta cui accennava quando si è messo in contatto con noi, poco fa.

Duré strofinò le mani contro il legno della poltrona, lanciò un'occhiata al Vescovo seduto di fronte, in tutta la sua mole rossa e nera. — I vostri gruppi hanno lavorato insieme per qualche tempo, vero? — disse. — La Confraternita dei Templari e la Chiesa dello Shrike.

— La Chiesa della Redenzione Finale — rettificò il Vescovo, con un brontolio cupo.

Duré annuì. — Perché? Cosa avete in comune?

La Vera Voce dell'Albero Mondo si sporse in modo che l'ombra riempisse di nuovo il cappuccio. — Deve capire, padre, che le profezie della Chiesa della Redenzione Finale hanno punti di contatto con la nostra missione indicata dal Muir. Solo queste profezie contenevano la chiave di quale castigo avrebbe colpito l'umanità per l'uccisione del proprio mondo.

— Non è stata l'umanità, a distruggere la Vecchia Terra — replicò Duré. — Fu un errore del computer, quando la Squadra Kiev tentò di creare un mini buco nero.

Il Templare scosse la testa. — Fu l'arroganza umana — disse piano. — La stessa arroganza che spinse la nostra razza a distruggere tutte le specie che potessero anche solo sperare di sviluppare un'intelligenza, un giorno o l'altro. I Seneschai Aluit su Hebron, gli zeplen su Whirl, i centauri delle paludi su Garden e i grandi primati della Vecchia Terra…

— Sì, sono stati compiuti degli errori. Ma non dovrebbero condannare a morte l'umanità, non crede?

— La condanna è stata proclamata da un Potere molto più grande di noi stessi — tuonò il Vescovo. — Le profezie sono precise ed esplicite. Il Giorno della Redenzione Finale deve venire. Tutti coloro che hanno ereditato il Peccato di Adamo e di Kiev devono sopportare le conseguenze dell'assassinio del proprio mondo natale, dell'estinzione di altre razze. Il Signore della Sofferenza è stato liberato dalle pastoie del tempo per pronunciare questa sentenza finale. Non è possibile sfuggire alla sua ira. Non è possibile evitare la Redenzione. Un Potere molto più grande di noi l'ha stabilito.

— È vero — disse Sek Hardeen. — Le profezie sono giunte a noi, recitate alla Vera Voce nel corso delle generazioni: l'umanità è condannata, ma con la sua condanna giungerà una nuova fioritura di ambienti pristini in tutte le parti che ora formano l'Egemonia.

Addestrato nella logica gesuitica, devoto alla teologia evoluzionista di Teilhard de Chardin, padre Paul Duré fu tentato di dire, nonostante tutto: "Ma a chi diavolo importa se i fiori sbocciano, quando non c'è nessuno che li veda, che li annusi?". Invece disse: — Ha preso in esame la possibiltà che queste profezie non siano rivelazioni divine, ma semplici manipolazioni di un imprecisato potere secolare?

Sek Hardeen si appoggiò alla spalliera, come se l'avessero schiaffeggiato; ma il Vescovo si sporse e strinse i pugni da lusiano che con un solo colpo avrebbero fracassato il cranio a Duré. — Eresia! Chiunque osi negare la verità delle rivelazioni deve morire!

— Quale potere potrebbe farlo? — riuscì a dire la Vera Voce dell'Albero Mondo. — Quale potere, oltre all'Assoluto del Muir, potrebbe entrare nella nostra mente e nel nostro cuore?

Duré indicò il cielo. — Da generazioni ogni mondo della Rete è collegato dalla sfera dati del TecnoNucleo. Molte persone influenti portano impianti a estensione comlog per un facile accesso… lei non lo porta, signor Hardeen?

Il Templare non rispose, ma Duré notò il lieve tremito delle dita, come se l'uomo fosse stato sul punto di toccarsi il petto e l'avambraccio dove da decenni c'erano i microimpianti.

— Il TecnoNucleo ha creato una… intelligenza trascendente — continuò Duré. — Attinge a quantità incredibili di energia, può spostarsi avanti e indietro nel tempo e non è motivata da preoccupazioni umane. Uno dei fini di una percentuale considerevole delle personalità del Nucleo era quello di eliminare la razza umana… in realtà, è possibile che il Grande Errore della Squadra Kiev sia stato deliberatamente compiuto dalle IA coinvolte nell'esperimento. Quello che lei ode come profezie è probabilmente la voce di questo deus ex machina che bisbiglia nella sfera dati. Forse lo Shrike è comparso non perché l'umanità si redima dei propri peccati, ma semplicemente per massacrare uomini, donne e bambini, per gli scopi di questa personalità-macchina.

Il faccione del Vescovo era rosso come la tonaca. L'uomo batté i pugni sul tavolo e si alzò con fatica. Il Templare gli posò la mano sul braccio, lo trattenne, riuscì a farlo sedere di nuovo. — Da dove le è venuta, questa idea? — domandò a Duré Sek Hardeen.

— Da pellegrini che hanno accesso al Nucleo. E da… altri.

Il Vescovo agitò il pugno in direzione di Duré. — Ma lei stesso è stato toccato dall'Avatar… non una volta sola, addirittura due! Egli le ha concesso una forma di immortalità, in modo che lei possa vedere cosa Egli ha in serbo per il Popolo Eletto… per coloro che preparano la Redenzione prima che i Giorni Finali siano su di noi!

— Lo Shrike mi ha dato dolore — replicò Duré. — Dolore e sofferenza al di là di ogni immaginazione. Ho incontrato due volte quella cosa e so nel mio cuore che non è né divina né diabolica, ma semplicemente una macchina organica proveniente da un terribile futuro.

— Bah! — Con un gesto di esasperazione, il Vescovo incrociò le braccia e si mise a guardare giù dalla bassa balconata, senza fissare niente in particolare.

Il Templare parve scosso. Dopo un attimo, alzò la testa e disse piano: — Voleva rivolgermi una domanda.

Duré inspirò a fondo. — Infatti. E volevo comunicarle una triste notizia. La Vera Voce dell'Albero Het Masteen è morto.

— Lo sappiamo — disse il Templare.

Duré rimase sorpreso. Non riusciva a immaginare come avessero ricevuto l'informazione. Ma ora non aveva importanza. Disse: — Devo sapere perché ha partecipato al pellegrinaggio. Quale missione non ha potuto portare a termine? Ognuno di noi ha raccontato la sua storia. Het Masteen no. Eppure, non so come, intuisco che il suo destino contiene la chiave di molti misteri.

Il Vescovo tornò a guardare Duré e sghignazzò. — Non siamo tenuti a raccontarle niente, prete di una religione morta.

Sek Hardeen rimase a lungo in silenzio, prima di rispondere. — Il signor Masteen si offrì volontario per portare su Hyperion la Parola del Muir. Secondo la profezia che da secoli è alla radice della nostra fede, giunti i tempi bui, una Vera Voce dell'Albero sarebbe stata chiamata per portare nel Mondo Sacro una nave-albero in modo che vi fosse distrutta e poi risorgesse portando il messaggio della Redenzione e del Muir.

— Quindi Het Masteen sapeva che la Yggdrasill sarebbe stata distrutta in orbita?

— Sì. Era stato predetto.

— E lui e il singolo erg lega-energia avrebbero fatto volare una nuova nave-albero?

— Sì — rispose il Templare, con voce quasi impercettibile. — Un Albero di Redenzione fornito dall'Avatar.

Duré si appoggiò alla spalliera della poltrona, annuì. — L'Albero della Redenzione. L'albero di spine. Het Masteen rimase psichicamente ferito, quando la Yggdrasill fu distrutta. Poi fu portato nella Valle delle Tombe e vide l'albero di spine dello Shrike. Ma non era pronto, né in grado di farlo volare. L'albero di spine è una struttura di morte, di sofferenza, di dolore… Het Masteen non era preparato a esserne il capitano. O forse si rifiutò. In ogni caso, fuggì. E morì. L'avevo immaginato… ma non avevo idea di quale destino lo Shrike gli avesse offerto.

— Ma di cosa parla? — intervenne, brusco, il Vescovo. — L'Albero della Redenzione è descritto nelle profezie. Accompagnerà l'Avatar nella mietitura finale. Masteen si sarebbe sentito onorato di esserne il capitano nel viaggio attraverso lo spazio e il tempo.

Paul Duré scosse la testa.

— Abbiamo risposto alla sua domanda? — disse Hardeen

— Sì.

— Allora lei deve rispondere alla nostra — disse il Vescovo. — Cos'è accaduto alla Madre?

— Quale madre?

— La Madre della Nostra Salvezza. La Sposa della Redenzione. La donna che lei ha chiamato Brawne Lamia.

Duré rifletté, cercò di ricordare i riassunti del Console con i racconti dei pellegrini sulla via di Hyperion. Brawne era incinta del figlio del primo cìbrido Keats. Il Tempio Shrike, su Lusus, l'aveva salvata dalla folla in tumulto, l'aveva inclusa nel pellegrinaggio. Nel racconto, Brawne aveva accennato al fatto che i seguaci del Culto Shrike l'avevano trattata con riverenza. Duré cercò di adattare tutto questo al confuso mosaico di quel che già sapeva. Inutile, era troppo stanco… e, si disse, troppo stupido, dopo la cosiddetta risurrezione. Non aveva e non avrebbe più avuto la brillante intelligenza di un tempo.

— Brawne era priva di sensi — disse. — Lo Shrike l'ha presa e agganciata a… a una cosa. Una sorta di cavo. Dal punto di vista cerebrale era morta, ma il feto era vivo e in buona salute.

— E la personalità che portava? — domandò il Vescovo, con voce tesa.

Duré ricordò le parole di Severn a proposito della morte di quella personalità nella megasfera. Ovviamente i due non sapevano niente della seconda personalità Keats… la personalità Severn, che in quel momento avvertiva Gladstone dei pericoli nascosti nella proposta del Nucleo. Duré scosse la testa. Era stanchissimo. — Non so niente della personalità che portava nell'iterazione Schrön — rispose. — Il cavo… la cosa che lo Shrike agganciò a Brawne… pareva infilato nella presa neurale come uno shunt corticale.

Il Vescovo annuì, chiaramente soddisfatto. — Le profezie procedono di buon passo. Lei ha portato a termine il compito di messaggero, Duré. Ora devo andare. — Si alzò, rivolse un cenno alla Vera Voce dell'Albero Mondo, lasciò la piattaforma e scese verso l'ascensore e il terminex.

Duré rimase seduto in silenzio di fronte al Templare per alcuni minuti. Il fruscio delle foglie mosse dal vento e il lieve dondolio della piattaforma in cima all'albero lo cullavano, lo invitavano ad assopirsi. In alto, il cielo si schiariva nelle delicate sfumature zafferano, mentre il mondo di Bosco Divino passava nel crepuscolo.

— La sua dichiarazione di un deus ex machina che per generazioni ci abbia fuorviati servendosi di false profezie è un'eresia terribile — disse infine il Templare.

— Sì, ma molte volte, nella lunga storia della mia Chiesa, terribili eresie si sono dimostrate sinistre verità, Sek Hardeen.

— Se lei fosse un Templare, potrei farla mettere a morte — rispose piano la figura incappucciata.

Duré sospirò. Alla sua età, nella sua situazione, stanco com'era, non aveva paura al pensiero della morte. Si alzò, piegò la testa in un breve inchino. — Devo andare, Sek Hardeen. Chiedo scusa, se qualcosa che ho detto ha offeso la sua sensibilità. Sono tempi confusi che disorientano. — E pensò: "I migliori mancano di convinzione, mentre i peggiori sono pieni di intensità appassionata".

Si girò e raggiunse l'orlo della piattaforma. Si bloccò.

La scala era sparita. Trenta metri di aria in verticale e quindici in orizzontale lo separavano dalla piattaforma successiva, in basso, dove l'ascensore aspettava. L'Albero Mondo formava uno strapiombo di mille e più metri nell'abisso di foglie. Duré e la Vera Voce di quell'Albero erano isolati lassù sulla piattaforma più alta. Duré si accostò alla ringhiera più vicina, offrì alla brezza della sera la faccia improvvisamente sudata, notò le prime stelle fare capolino nel cielo blu oltremare. — Cosa succede, Sek Hardeen?

Al tavolo, la sagoma in tonaca e cappuccio era avvolta nel buio. — Fra diciotto minuti standard, Porta del Paradiso cadrà in mano agli Ouster. Le nostre profezie dicono che sarà distrutto. Di certo saranno distrutti il suo teleporter e i trasmettitori astrotel: in pratica, il pianeta cesserà di esistere. Esattamente un'ora standard più tardi, i cieli di Bosco Divino si accenderanno per i fuochi di fusione delle navi da guerra Ouster. Le profezie dicono che tutti i membri della Confraternita rimasti sul pianeta… e ogni altro, anche se da tempo i cittadini dell'Egemonia sono partiti via teleporter… periranno.

Duré tornò lentamente al tavolo. — È importantissimo che vada su Tau Ceti Centro — disse. — Severn… un amico mi aspetta. Devo parlare al PFE Gladstone.

— No — disse la Vera Voce dell'Albero Mondo Sek Hardeen. — Aspetteremo. Vedremo se le profezie sono esatte.

Il gesuita serrò i pugni, esasperato, lottando contro l'ondata di violenta emozione che gli faceva desiderare di colpire la figura in tonaca. Chiuse gli occhi e recitò due Ave Maria. Non ne ricavò alcun aiuto.

— La prego — disse. — Le profezie riceveranno conferma o smentita con o senza la mia presenza qui. Dopo, sarà troppo tardi. Le navi torcia della FORCE faranno esplodere la sfera di anomalia e il teleporter non esisterà più. Per anni saremo tagliati fuori dalla Rete. Forse miliardi di vite dipendono dal mio immediato ritorno su Tau Ceti Centro.

Il Templare incrociò le braccia e nascose le mani nelle pieghe della tonaca. — Aspetteremo — disse. — Tutte le cose predette accadranno. Nel giro di minuti, il Signore della Sofferenza sarà liberato su coloro che si trovano nelle Rete. Non credo al Vescovo: chi ha cercato la Redenzione non sarà risparmiato. Ce ne andremo meglio qui, padre Duré, dove la fine sarà rapida e indolore.

Duré cercò qualcosa di decisivo da dire, da fare. Non trovò niente. Si sedette al tavolo e fissò il Templare incappucciato e silenzioso. In alto, le stelle spuntarono in moltitudini infuocate. Il mondo-foresta di Bosco Divino frusciò un'ultima volta alla brezza della sera e parve trattenere il fiato, in attesa.

Paul Duré chiuse gli occhi e pregò.

37

Camminiamo per tutto il giorno, Hunt e io, e verso sera troviamo una locanda in cui c'è del cibo preparato per noi — un pollo, budino di riso, cavolfiore, un piatto di maccheroni e altro — anche se non ci sono persone, né segni di persone, a parte il fuoco che arde come se sia stato appena acceso e il cibo ancora caldo sui fornelli.

Hunt è spaventato, per questa scoperta e per i terribili sintomi di privazione dovuti alla perdita di contatto con la sfera dati. Capisco benissimo la sua sofferenza. Per una persona nata e cresciuta in un mondo dove i dati sono sempre a portata di mano, la comunicazione con chiunque in qualsiasi posto è un fatto assodato e la distanza significa solo un passo nel teleporter: l'improvviso ritorno alla vita come la conobbero i nostri antenati sarebbe come risvegliarsi ciechi e storpi. Ma dopo le escandescenze delle prime ore di camminata, Hunt alla fine è diventato tetro e taciturno.

— Ma il PFE ha bisogno di me! — aveva gridato all'inizio.

— Ha bisogno delle informazioni che le portavo — replicai. — Però non possiamo farci niente.

— Ma dove siamo? — domandò Hunt per la decima volta.

Gli avevo già spiegato l'esistenza di questa Vecchia Terra alternativa, ma adesso si riferiva ad altro.

— In quarantena, credo — risposi.

— Il Nucleo ci ha portati qui?

— Posso solo presumerlo.

— Come torniamo?

— Non so. Immagino che, quando si sentiranno sicuri, comparirà un teleporter.

Hunt imprecò sottovoce. — Perché mettere in quarantena anche me, Severn?

Mi strinsi nelle spalle. Forse perché aveva udito quel che avevo detto su Pacem, ma non ne ero sicuro. Non ero sicuro di niente.

La strada attraversava prati e vigneti, serpeggiava su basse colline e vallate da dove si scorgeva di sfuggita il mare.

— Dove va, questa strada? — aveva domandato Hunt, proprio prima che scoprissimo la locanda.

— Tutte le strade portano a Roma.

— Dico sul serio, Severn.

— Anch'io, signor Hunt.

Hunt scalzò dalla massicciata una pietra e la tirò lontano fra i cespugli. Da qualche parte un tordo lanciò un richiamo.

— Lei è già stato qui? — Il tono di Hunt era di accusa, come se l'avessi rapito io. E forse era vero.

— No — risposi. Ma Keats sì, aggiunsi quasi. I ricordi impiantati vennero alla superficie, rischiarono di sopraffarmi con il senso di perdita e di morte incombente. Lontano dagli amici, lontano da Fanny, l'unico eterno amore di Keats.

— È sicuro di non poter accedere alla sfera dati? — domandò Hunt.

— Sicurissimo — risposi. Non mi chiese della megasfera e non gli diedi spontaneamente l'informazione. Ho il terrore di entrare nella megasfera, di perdermi al suo interno.

Al tramonto trovammo la locanda. Era annidata in una piccola valle e dal camino di pietra si alzava il fumo.

Mentre mangiavamo, e il buio premeva contro i vetri, e come unica luce avevamo il tremolio del fuoco e due candele sulla mensola del caminetto di pietra, Hunt disse: — Questo posto mi fa quasi credere ai fantasmi.

— Io ci credo, ai fantasmi — risposi.


Notte. Mi sveglio tossendo, sento dell'umido sul petto nudo; Hunt armeggia con la candela e alla luce vedo sangue sulla pelle, macchie sulle lenzuola.

— Oddio — mormora Hunt, inorridito. — Cos'è? Cosa succede?

— Emorragia — riesco a dire, dopo che un altro attacco di tosse mi lascia più debole e più sporco di sangue. Faccio per alzarmi, ricado sul guanciale, indico la bacinella di acqua e l'asciugamano sul comodino.

— Maledizione, maledizione — borbotta Hunt, cercando il mio comlog per avere una lettura medica. Non c'è comlog. Quel giorno stesso, durante la camminata, ho buttato via l'inutile strumento di Hoyt.

Hunt si toglie il comlog, regola il monitor, me lo lega al polso. Le letture non hanno significato, per lui, indicano solo la necessità di cure mediche immediate. Come molti della sua generazione, Hunt non ha mai visto malattie né morte… materia professionale trattata lontano dagli occhi della gente comune.

— Non ci badi — mormoro, non più assediato dalla tosse, ma appesantito dalla stanchezza come da una coltre di pietre. Indico di nuovo l'asciugamano; Hunt lo inumidisce, mi lava il sangue sul petto e sulle braccia, mi aiuta a sedermi nell'unica poltrona, cambia le lenzuola e le coperte macchiate.

— Sa che cosa le succede? — domanda, con preoccupazione genuina.

— Sì. — Tento un sorriso. — Accuratezza. Verosimiglianza. Ontogenesi che riassume filogenesi.

— Parli chiaro — sbotta Hunt. Mi aiuta a ridistendermi sul letto. — Cosa ha provocato l'emorragia? Come posso aiutarla?

— Mi dia un bicchiere di acqua, per favore. — Sorseggio l'acqua, sento il rimescolio nel petto e in gola, ma riesco a evitare un altro attacco di tosse. Mi sembra di avere il ventre in fiamme.

— Cosa le succede? — domanda di nuovo Hunt.

Parlo lentamente, con cura, mettendo ogni parola al suo posto come se posassi i piedi in un campo disseminato di mine. La tosse non torna. — Una malattia chiamata consunzione — dico. — Tubercolosi. All'ultimo stadio, a giudicare dalla gravità dell'emorragia.

Il viso da basset-hound di Hunt è livido. — Buon Dio, Severn. Non ho mai sentito parlare di tubercolosi. — Alza il polso come per consultare la memoria del comlog, ma il polso è nudo.

Gli restituisco il comlog. — La tubercolosi è scomparsa da secoli. Sconfitta. Ma John Keats ne era affetto. Ne morì. E questo corpo cìbrido appartiene a Keats.

Hunt sembra pronto a correre alla porta per chiamare aiuto. — Il Nucleo ci consentirà di tornare, adesso! Non possono tenerla qui, in questo mondo abbandonato, dove non esiste assistenza medica!

Poso la testa sul morbido guanciale, sentendo le piume sotto la fodera. — Forse è proprio questo, il motivo per cui mi tengono qui. Vedremo domani, quando arriveremo a Roma.

— Ma lei non può viaggiare! Non andremo da nessuna parte, domani.

— Vedremo — dico. Chiudo gli occhi. — Vedremo.


Al mattino, una vettura, una piccola carrozza, è in attesa all'esterno della locanda. Il cavallo, una grossa giumenta grigia, rotea gli occhi nel vederci avvicinare. Il suo fiato si condensa nell'aria fredda.

— E questo cos'è? — dice Hunt.

— Un cavallo.

Hunt tocca il fianco dell'animale, sembra aspettarsi che scoppi e svanisca come una bolla di sapone. Non succede niente. La giumenta muove la coda e Hunt ritira di scatto la mano.

— I cavalli sono estinti — dice. — Non sono mai stati ARNizzati, riportati in vita.

— Questo mi sembra abbastanza reale — dico. Salgo a fatica sulla carrozza e mi siedo sulla stretta panca.

Hunt si siede cautamente accanto a me, inquieto. — Chi guida? — dice. — Dove sono i comandi?

Non ci sono redini e il sedile del cocchiere è vuoto. — Vediamo se il cavallo conosce la strada — suggerisco. In quell'istante iniziamo a muoverci ad andatura tranquilla; la carrozza, priva di ammortizzatori, sobbalza sulle pietre e sui solchi della strada accidentata.

— È una sorta di scherzo, vero? — dice Hunt, fissando il cielo azzurro e perfetto, i campi lontani.

Tossisco, per quanto possibile piano e brevemente, nel fazzoletto che mi sono fatto con l'asciugamano preso in prestito dalla locanda. — Può darsi — rispondo. — Ma allora, cosa non lo è?

Hunt non bada alla mia sofisticheria. Continuiamo a procedere fra scosse e sobbalzi verso chissà quale destinazione e chissà quale destino.


— Dove sono Hunt e Severn? — domandò Meina Gladstone.

Sedeptra Akasi, una giovane donna nera, il secondo aiutante di Gladstone in ordine di importanza, si sporse verso il PFE per non interrompere la conferenza informativa militare. — Ancora nessuna notizia, signora.

— Impossibile. Severn aveva un tracciatore e Leigh è andato su Pacem quasi un'ora fa. Dove diavolo sono?

Akasi diede un'occhiata al fax-notes aperto sul piano del tavolo.

— La sicurezza non riesce a trovarli. La polizia di transito non riesce a localizzarli. L'unità teleporter ha registrato solo che hanno battuto il codice di TC2, che sono entrati ma non sono mai giunti.

— Impossibile.

— Sì, signora.

— Voglio parlare con Albedo o un altro consulente IA, appena la riunione si conclude.

— Sì.

Le due donne riportarono l'attenzione alla conferenza informativa. Il Centro Tattico della Casa del Governo era stato collegato alla Sala di Guerra del Centro Comando Olympus e alla più vasta sala conferenze del Senato, mediante portali di quindici metri quadrati, visualmente aperti: i tre locali formavano un ambiente cavernoso e asimmetrico. Gli ologrammi della Sala di Guerra parevano alzarsi all'infinito sul lato display e colonne di dati galleggiavano dappertutto lungo le pareti.

— Quattro minuti all'incursione cislunare — disse l'ammiraglio Singh.

— Le loro armi a lungo raggio potevano entrare in azione su Porta del Paradiso già da tempo — disse il generale Morpurgo. — Si direbbe che mostrino una certa reticenza.

— Non hanno mostrato alcuna reticenza, contro le nostre navi torcia — replicò Garion Persov, della Diplomazia. Il gruppo si era riunito un'ora prima, quando la sortita della flotta composta da una decina di navi torcia dell'Egemonia radunate in fretta e furia era stata sbrigativamente rintuzzata dallo Sciame in arrivo. Sensori a lungo raggio avevano ritrasmesso brevissime immagini dello Sciame, un grappolo di faville con code di fusione simili a comete, prima che i telemeccanismi automatici delle navi torcia smettessero di funzionare. C'erano state molte, molte faville.

— Quelle erano navi da guerra — disse il generale Morpurgo. — Ormai da ore trasmettiamo che Porta del Paradiso adesso è un pianeta aperto. Possiamo augurarci una certa reticenza.

Le immagini olografiche di Porta del Paradiso li circondarono: le vie silenziose di Piana Fangosa, immagini aeree della linea costiera, immagini orbitali del mondo grigiomarrone con la costante coltre di nuvole, immagini cislunari del barocco dodecaedro della sfera di anomalia che legava insieme tutti i teleporter, immagini telescopiche, a ultravioletti e a raggi X dello Sciame in arrivo… ora molto più grande di puntini e di faville, a meno di una unità astronomica. Gladstone guardò le code di fusione delle navi da guerra Ouster, le sagome massicce e scintillanti per i campi di contenimento delle fattorie-asteroide e dei mondi-bolla, i complessi intricati e bizzarramente non umani delle città a gravità zero, e pensò: "E se mi sbaglio?"

La vita di miliardi di individui dipendeva dalla sua convinzione che gli Ouster non avrebbero distrutto i mondi dell'Egemonia solo per capriccio.

— Due minuti all'incursione — disse Singh, con il tono inespressivo del soldato di mestiere.

— Ammiraglio — disse Gladstone — è proprio necessario distruggere la sfera di anomalia appena gli Ouster superano il nostro cordon sanitaire? Non si può attendere qualche minuto per stabilire le loro intenzioni?

— No, signora — rispose, pronto, l'ammiraglio. — Il collegamento teleporter deve essere distrutto non appena loro saranno a portata d'attacco.

— Ma se le restanti navi torcia non lo fanno, ammiraglio, abbiamo sempre i collegamenti all'interno del sistema, i relè astrotel e i congegni a tempo, no?

— Sì, signora, ma dobbiamo garantirci che il teleporter sia eliminato prima che gli Ouster invadano il sistema. Non è possibile mettere a repentaglio questo margine di sicurezza già ristretto.

Gladstone annuì. Capiva la necessita della massima prudenza. "Se solo ci fosse stato più tempo!"

— Quindici secondi all'incursione e alla distruzione dell'anomalia — disse Singh. — Dieci… sette…

All'improvviso tutte le navi torcia e le olografie cislunari brillarono di luce viola, rossa, bianca.

Gladstone si sporse. — Era l'esplosione della sfera di anomalia?

I militari bisbigliarono tra loro, chiedendo altri dati, cambiando immagini sugli ologrammi e sugli schermi. — No, signora — rispose Morpurgo. — Le navi torcia sono sotto attacco. Quelli sono i campi difensivi sovraccaricati. La sfe… ah… ecco!

Un'immagine centrale, forse trasmessa da una nave relè in orbita bassa, mostrò l'ingrandimento del dodecaedro dell'anomalia, con trentamila metri quadrati di superficie ancora intatti, ancora risplendenti nella cruda luce del sole di Porta del Paradiso. Poi, all'improvviso, il bagliore aumentò, la faccia più vicina del dodecaedro parve divenire incandescente e ripiegarsi su se stessa; meno di tre secondi dopo, la sfera di contenimento si dilatò, mentre l'anomalia ingabbiata al suo interno fuggiva e divorava se stessa, oltre a ogni altra cosa nel raggio di seicento chilometri.

Nello stesso istante, quasi tutte le immagini e gran parte delle colonne dati svanirono.

— Eliminato ogni collegamento teleporter — annunciò Singh. — Ora i dati del sistema arrivano solo per trasmettitore astrotel.

I militari emisero un brusio di approvazione e di sollievo; qualcosa di molto simile a un sospiro, a un lieve gemito, giunse dalle decine di senatori e di consiglieri politici presenti. Porta del Paradiso era appena stato amputato dalla Rete… il primo mondo perso dall'Egemonia in più di quattro secoli.

Gladstone si rivolse a Sedeptra Akasi. — Adesso qual è il tempo di viaggio da Porta del Paradiso alla Rete?

— Con propulsione Hawking, sette mesi, tempo di bordo — disse la donna, senza consultare il comlog. — Poco più di nove anni di debito temporale.

Gladstone annuì. Ora Porta del Paradiso distava nove anni dal più vicino mondo della Rete.

— Ecco la fine delle nostri navi torcia — intonò Singh. L'immagine presa da una delle vedette orbitali fu ritrasmessa, confusa e con i colori sfalsati, da raffiche astrotel elaborate in rapida successione a mezzo computer. Le immagini erano mosaici visuali, ma inducevano sempre Gladstone a pensare ai primi film muti dell'alba dell'Età dei Media. Ma questa non era una farsa di Charlie Chaplin. Due, poi cinque, poi otto esplosioni di vivida luce fiorirono contro le stelle, al di sopra del limbo del pianeta.

— Le trasmissioni dalle AE Niki Weimart, AE Terrapin, AE Comet e AE Andrew Paul sono cessate — riferì Singh.

Barbre Dan-Gyddis alzò la mano. — E le altre quattro, ammiraglio?

— Solo le navi citate hanno attrezzature per trasmissioni a velocità superiore a quella della luce. Le vedette confermano che sono cessati anche i collegamenti radio, maser e a banda larga con le altre quattro navi torcia. I dati visivi… — Singh s'interruppe e indicò l'immagine ritrasmessa dalla nave vedetta automatizzata: otto cerchi di luce in espansione e in affievolimento, un campo stellare pullulante di code di fusione e di nuove luci. All'improvviso anche l'immagine si spense.

— Tutti i sensori orbitali e i relè astrotel sono eliminati — disse il generale Morpurgo. Mosse la mano: l'oscurità lasciò posto a immagini delle vie di Porta del Paradiso con l'inevitabile coltre di nubi basse. Velivoli aggiunsero riprese da sopra le nuvole… un cielo impazzito di movimento di stelle.

— Tutti i rapporti confermano la totale distruzione della sfera di anomalia — disse Singh. — In questo momento, unità avanzate dello Sciame si pongono in orbita alta intorno a Porta del Paradiso.

— Quante persone sono rimaste lassù? — domandò Gladstone. Aveva appoggiato sul tavolo i gomiti e si protendeva, a mani serrate.

— Ottantaseimilasettecentottantanove — disse il ministro della Difesa, Imoto.

— Senza contare i dodicimila marines teleportati durante le ultime due ore — aggiunse il generale Van Zeidt.

Imoto gli rivolse un cenno di assenso.

Gladstone li ringraziò e riportò l'attenzione alle olografie. Le colonne dati che galleggiavano in alto e i loro estratti sui fax-notes, sui comlog e sui pannelli incassati nel tavolo contenevano dati pertinenti (numero di velivoli dello Sciame attualmente nel sistema, numero e tipo di navi in orbita, proiezioni di orbite frenanti e di curve temporali, analisi energetiche e intercettazioni) ma Gladstone e gli altri guardavano le immagini astrotel, relativamente poco informative e immutate, prese da olocamere aeree e di superficie: stelle, parte superiore delle nuvole, vie, il panorama dagli Heights della Stazione Generatrice di Atmosfera su verso la Passeggiata di Piana Fangosa dove Gladstone stessa si era fermata meno di dodici ore prima. Lì era notte. Gigantesche felci equisetacee si muovevano alla brezza silenziosa che soffiava dalla baia.

— Secondo me, tratteranno — diceva in quel momento la senatrice Richeau. — Prima ci metteranno davanti al fait accompli, nove mondi invasi, poi tratteranno, da una posizione di forza, il nuovo equilibrio di potere. Voglio dire, anche se tutt'e due le ondate di invasione avessero successo, perderemmo venticinque mondi su quasi duecento, fra Rete e Protettorato.

— Sì — disse il Capo della Diplomazia Persov — ma non dimentichi, onorevole, che nel numero sarebbero compresi alcuni dei nostri mondi strategicamente più importanti… questo, per esempio. TC2 è solo a 235 ore da Porta del Paradiso, sulla tabella degli Ouster.

La senatrice Richeau fissò Persov e lo costrinse ad abbassare lo sguardo. — Me ne rendo conto — disse freddamente. — Mi limitavo a dire che gli Ouster non possono avere in mente un'operazione di conquista vera e propria. Sarebbe pura follia, da parte loro. E la FORCE non permetterà alla seconda ondata di penetrare troppo in profondità. Senza dubbio questa cosiddetta invasione è un preludio a dei negoziati.

— Può darsi — disse il senatore Roanquist, di Nordholm. — Ma questi negoziati dipenderanno necessariamente da…

— Un momento — intervenne Gladstone.

Ora le colonne dati mostravano più di cento navi da guerra Ouster in orbita intorno a Porta del Paradiso. Le forze di terra locali avevano l'ordine di non sparare per prime e non si vedeva alcuna attività nelle trenta e passa inquadrature trasmesse per astrotel alla Sala di Guerra. All'improvviso, tuttavia, la coltre di nuvole sopra Piana Fangosa brillò come per l'accensione di fari enormi. Una decina di larghi raggi di luce coerente saettò giù nella baia e nella città, mantenendo l'illusione di proiettori che frugassero nel buio; a Gladstone parvero gigantesche colonne bianche erette fra il terreno e il soffitto di nuvole.

L'illusione terminò bruscamente quando un turbine di fiamme e di distruzione eruttò alla base di ciascuna colonna di luce ampia cento metri. L'acqua della baia ribollì, finché enormi geyser di vapore non annebbiarono le telecamere più vicine. La vista dalle colline mostrò edifici di pietra vecchi di un secolo prendere fuoco e implodere come se un tornado si muovesse nella città. I giardini famosi in tutta la Rete e i prati della Passeggiata eruttarono fiamme, schizzarono terriccio e detriti, come sconvolti da un aratro invisibile. Felci equisetacee vecchie di due secoli si piegarono come sotto l'uragano, scoppiarono in fiamme e svanirono.

— Lance da una nave torcia classe Bowers - disse l'ammiraglio Singh, nel silenzio. — O l'equivalente Ouster.

La città bruciava, esplodeva, era arata in macerie dalle colonne di luce e poi era di nuovo fatta a pezzi. Non c'erano canali audio, su quelle immagini astrotel, ma Gladstone credette di udire le urla.

A una a una, le telecamere a terra si spensero. L'inquadratura della Stazione Generatrice di Atmosfera scomparve in un lampo luminoso. Le telecamere aeree erano già saltate. Quelle al suolo, un'altra ventina, cominciarono a spegnersi; una trasmise una terribile esplosione rosso cremisi che costrinse tutti nella stanza a strofinarsi gli occhi.

— Esplosione al plasma — disse Van Zeidt. — A basso livello di megatoni. — La telecamera era quella di un complesso difensivo della FORCE:Marines di stanza a nord del Canale Intercity.

Di colpo tutte le immagini scomparvero. Il flusso dati terminò. Le luci della sala si accesero per compensare il buio tanto improvviso da mozzare il fiato a tutti.

— Il trasmettitore astrotel primario è saltato — disse il generale Morpurgo. — Si trovava alla base principale della FORCE, nei pressi della Porta Grande. Protetto dal nostro campo di contenimento più robusto, da cinquanta metri di roccia e da dieci metri di lega in fibracciaio.

— Cariche nucleari sagomate? — domandò Barbre Dan-Gyddis.

— Come minimo — rispose Morpurgo.

Il senatore Kolchev si alzò: pareva robusto come un orso, col suo fisico di lusiano. — E va bene. Questo non è un maledetto gioco di negoziati. Gli Ouster hanno appena distrutto un mondo della Rete. Questa è guerra totale, senza condizioni. È in ballo la sopravvivenza della civiltà. Cosa facciamo?

Tutti gli occhi si girarono verso Meina Gladstone.


Il Console estrasse dal relitto dello skimmer Theo Lane semisvenuto e barcollò per cinquanta metri, trascinandolo a spalla, prima di crollare su un tratto di erba sotto gli alberi lungo la riva dell'Hoolie. Lo skimmer non aveva preso fuoco, ma si era accartocciato alla base del muro di pietra abbattuto al termine della lunga scivolata. Frammenti di metallo e di polimeri di ceramica erano disseminati lungo la riva del fiume e il viale abbandonato.

La città era in fiamme. Il fumo impediva di vedere al di là dell'Hoolie e in quella parte di Jacktown, la Zona Vecchia, sembrava che avessero acceso numerose pire dove spesse colonne di fumo nero si alzavano verso il basso soffitto di nuvole. Laser da combattimento e scie di missili continuavano a rigare la foschia, a volte esplodevano contro navette di assalto, paracadutisti e bolle di sospensione che continuavano a scendere dalle nuvole come pula soffiata da un campo mietuto di recente.

— Theo, stai bene?

Il governatore generale annuì; mosse il dito per spingere più in alto gli occhiali e si bloccò, confuso, quando si rese conto di non averli più. Il sangue gli rigava la fronte e le braccia. — Ho battuto la testa — disse Theo, intontito.

— Ci serve il tuo comlog — disse il Console. — Chiamiamo qualcuno che venga a prenderci.

Theo annuì, alzò il braccio, guardò il polso e si accigliò. — Sparito — disse. — Comlog sparito. Dobbiamo guardare nello skimmer. — Cercò di tirarsi in piedi.

Il Console lo spinse giù. Loro due erano al riparo di alcuni alberi ornamentali, ma lo skimmer era esposto e l'atterraggio di fortuna non era passato inosservato. Mentre lo skimmer atterrava di pancia e si schiantava, il Console aveva scorto parecchi soldati in armatura muoversi lungo una via adiacente. Potevano essere FAD, Ouster o perfino marines dell'Egemonia; ma certo non vedevano l'ora di premere il grilletto, da qualsiasi parte stessero.

— Lascia perdere il comlog — disse. — Troveremo un telefono. Chiameremo il consolato. — Si guardò intorno, riconobbe la sezione di magazzini e di edifici di pietra in cui erano precipitati. A qualche centinaio di metri, più a monte, c'era la vecchia cattedrale abbandonata: la sala capitolare in rovina sporgeva sulla riva del fiume.

— So dove siamo — disse il Console. — A un paio di isolati da Cicero. Andiamo. — Si passò sulle spalle il braccio di Theo e tirò in piedi l'amico ferito.

— Cicero, bene — borbottò Theo. — Un goccio m'andrebbe proprio.

Dalla via a sud provenne lo strepito di fucili a fléchettes, cui rispose lo sfrigolio di armi a energia. Il Console sostenne quasi tutto il peso di Theo e barcollò nello stretto vicolo lungo il fiume.


— Oh, maledizione — mormorò il Console.

Cicero era in fiamme. Il vecchio bar e albergo, antico quanto Jacktown e molto più di gran parte della capitale, aveva perso nelle fiamme tre dei quattro edifici traballanti lungo la riva del fiume e solo una brigata di avventori armati di secchi salvava in quel momento l'ultima sezione.

— C'è Stan — disse il Console, indicando la figura massiccia di Stan Leweski, quasi all'inizio della fila di pompieri improvvisati. — Eccoci qua. — Aiutò Theo a sedersi sotto un olmo lungo la passerella. — Come va, la testa?

— Fa male.

— Torno subito con gli aiuti. — Si mosse con la massima rapidità nello stretto vicolo, verso gli uomini.

Stan Leweski lo fissò come se fosse un fantasma. L'uomo massiccio aveva il viso rigato di fuliggine e di lacrime, gli occhi sbarrati, quasi ottusi. Da sei generazioni Cicero apparteneva alla sua famiglia. In quel momento pioveva piano e l'incendio pareva domato. Uomini gridavano su e giù lungo la fila, mentre pezzi di travatura delle sezioni bruciate cadevano nelle braci della cantina.

— Perdio, è andata — disse Leweski. — Vedi? L'aggiunta di nonno Jiri? È andata.

Il Console lo afferrò per le spalle. — Stan, ci serve aiuto. Theo è laggiù. Ferito. Il nostro skimmer è precipitato. Dobbiamo andare allo spazioporto… usare il tuo telefono. È un'emergenza, Stan.

Leweski scosse la testa. — Il telefono non funziona. Le bande comlog sono disturbate. C'è la maledetta guerra. — Indicò le sezioni bruciate del vecchio albergo. — Distrutte, perdio. Distrutte!

Il Console strinse il pugno, esasperato. Altri si fecero intorno, ma lui non ne riconobbe nessuno. In vista non c'erano autorità della FORCE né della FAD. All'improvviso, alle sue spalle, una voce disse: — Posso aiutarla io. Ho uno skimmer.

Il Console si girò di scatto, vide un bell'uomo tra i cinquanta e i sessanta, col viso coperto di fuliggine e sudore che gli rigavano anche i capelli ondulati. — Magnifico — disse. — Gliene sono molto grato. — Esitò. — La conosco?

— Dottor Melio Arundez — si presentò l'uomo, muovendosi già verso l'area di parcheggio dove riposava Theo.

— Arundez — ripeté il Console, affrettandosi a raggiungerlo. Il nome gli risvegliò nella memoria un'eco bizzarra. Uno che conosceva? Che avrebbe dovuto conoscere? — Oddio, Arundez! — esclamò a un tratto. — L'amico di Rachel Weintraub, quando la ragazza venne qui, una ventina di anni fa.

— Il suo relatore universitario, a dire il vero — disse Arundez. — La conosco. Lei è andato in pellegrinaggio con Sol. — Si fermarono accanto a Theo, seduto con la testa fra le mani. — Il mio skimmer è laggiù — disse Arundez.

Il Console scorse un piccolo Vikken Zephyr biposto parcheggiato sotto gli alberi. — Magnifico. Porteremo Theo all'ospedale, poi devo andare immediatamente allo spazioporto.

— L'ospedale sembra un manicomio, tanto è pieno — disse Arundez. — Se era diretto alla nave, le suggerisco di portare con sé il governatore generale e utilizzare le attrezzature mediche di bordo.

Il Console esitò. — Come sa che ho una nave?

Arundez aprì la portiera e aiutò Theo a sistemarsi sulla stretta panca dietro i sedili anatomici frontali. — So tutto di lei e degli altri pellegrini, signor Console. Da mesi cerco di ottenere il permesso per recarmi nella Valle delle Tombe. Non immagina la rabbia che ho provato, quando ho saputo che la chiatta era partita in segreto con Sol a bordo. — Trasse un respiro profondo e rivolse al Console la domanda che ancora non aveva avuto il coraggio di formulare. — Rachel è viva?

"È stato il suo amante, quando lei era adulta" pensò il Console.

— Non so — rispose. — Cerco di tornare in tempo per aiutarla, se posso.

Melio Arundez annuì, si sistemò sul sedile di guida, indicò al Console di salire a bordo. — Tenteremo di arrivare allo spazioporto. Non sarà facile, con gli scontri lì intorno.

Il Console si abbandonò contro lo schienale; sentì i lividi, i tagli, la stanchezza, mentre il sedile lo avvolgeva. — Dobbiamo portare Theo… il governatore generale… al consolato o alla casa del governo o come diavolo la chiamano adesso.

Arundez scosse la testa e diede energia ai repulsori. — Ah-ha. Il consolato non esiste più, colpito da un missile vagante, secondo il bollettino sul canale di emergenza. Tutti i funzionari dell'Egemonia sono andati allo spazioporto per l'evacuazione, ancora prima che il suo amico venisse a cercarla.

Il Console guardò Theo Lane, ancora semisvenuto. — Andiamo — disse piano ad Arundez.

Quando attraversarono il fiume, lo skimmer si trovò sotto il fuoco di armi di piccolo calibro, ma le fléchettes si limitarono a grandinare contro lo scafo e l'unico raggio di energia passò sotto di loro e sollevò a dieci metri di altezza uno schizzo di vapore. Arundez guidava come un pazzo: ondeggiava, sobbalzava, si tuffava in picchiata, imbardava e di tanto in tanto faceva dei testa-coda, come se lo skimmer fosse un vassoio sopra un tappeto di biglie. Le imbottiture del sedile si strinsero intorno al Console, ma questi si sentì ugualmente sul punto di dare di stomaco. Sullo strapuntino posteriore, Theo aveva perso i sensi: la testa si muoveva liberamente da una parte e dall'altra.

— Il centro città è un disastro! — gridò Arundez, per superare il ruggito dei repulsori. — Seguirò l'antico viadotto fino all'autostrada dello spazioporto e poi taglierò per la campagna, tenendomi basso. — Girarono intorno a un edificio in fiamme che il Console riconobbe tardivamente come la casa in cui aveva abitato.

— L'autostrada per lo spazioporto è aperta?

Arundez scosse la testa. — Non ce la faremmo mai. Lì, nell'ultima mezz'ora, i paracadutisti non hanno smesso un attimo di scendere.

— Gli Ouster cercano di distruggere la città?

— No. Potevano farlo restando in orbita, senza tutto questo casino. Pare che vogliano assediare la capitale. Gran parte delle loro navette e dei paracadutisti atterra almeno a dieci chilometri di distanza.

— Sono i reparti della FAD, a resistere?

Arundez rise, mettendo in mostra denti candidi contro pelle abbronzata. — Quelli ormai sono a metà strada per Endymion e Port Romance… anche se rapporti di dieci minuti fa, prima che le linee di trasmissione fossero disturbate, dicono che pure queste due città sono sotto attacco. No, quel po' di resistenza che vede proviene da qualche decina di marines della FORCE lasciati indietro a proteggere la città e lo spazioporto.

— Allora gli Ouster non l'hanno distrutto né occupato?

— Non ancora. Almeno, fino a qualche minuto fa. Fra poco vedremo di persona. Si regga forte!

La corsa di dieci chilometri fino allo spazioporto, sull'autostrada VIP o le corsie aeree superiori, richiedeva normalmente qualche minuto; ma la manovra aggirante di Arundez, su e giù per le alture, fra le vallate e in mezzo agli alberi, aggiunse tempo al viaggio e lo rese più movimentato. Il Console girò la testa per guardare i fianchi montuosi e le catapecchie del campo profughi in fiamme passare come un lampo alla sua destra. Uomini e donne si acquattarono contro i massi e sotto gli alberi, coprendosi la testa al passaggio dello skimmer. Una volta il Console vide una squadra della FORCE:Marines trincerata sulla cima di un colle, ma l'attenzione dei soldati era rivolta a un'altura più a nord, dalla quale proveniva il fuoco di lance laser. Nello stesso istante anche Arundez scorse i marines e lanciò bruscamente a zigzag lo skimmer verso sinistra, infilandosi in una stretta gola una frazione di secondo prima che le cime degli alberi sulla cresta più in alto fossero tagliate di netto come da cesoie invisibili.

Finalmente superarono con un rombo un'ultima cresta e videro più avanti i cancelli occidentali e le palizzate dello spazioporto. Il perimetro risplendeva del bagliore azzurro e viola dei campi di contenimento e di interdizione. A un chilometro dallo spazioporto, un raggio laser compatto e visibile saettò e li agganciò; dalla radio uscì una voce: — Skimmer non identificato, atterrate immediatamente o sarete distrutti.

Arundez atterrò.

La linea di alberi, dieci metri più avanti, parve scintillare; all'improvviso furono circondati da spettri in polimero mimetico attivato. Arundez aveva aperto le torrette dell'abitacolo e ora fucili di assalto prendevano di mira lui e il Console.

— Venite via dalla macchina — disse una voce disincarnata, dietro uno scintillio mimetico.

— Abbiamo con noi il governatore generale — disse il Console. — Dobbiamo entrare.

— All'inferno — disse bruscamente una voce con la cadenza della Rete. — Fuori!

Il Console e Arundez si affrettarono a sganciare le reti di sicurezza; stavano per scendere, quando dallo strapuntino posteriore provenne una voce. — Tenente Mueller, è lei?

— Ah, sì, signore.

— Mi conosce, tenente?

Lo scintillio mimetico si depolarizzò: un giovane marine in completa tenuta da guerra era fermo a meno di un metro dallo skimmer. Il viso era niente di più di un visore nero, ma la voce era giovanile. — Sì, signore… ah… governatore. Senza occhiali, non l'ho riconosciuta subito. Ma lei è ferito, signore.

— Lo so, tenente. Proprio per questo mi hanno accompagnato qui. Non riconosce l'ex Console dell'Egemonia su Hyperion?

— Mi spiace, signore — disse il tenente Mueller, rimandando i suoi uomini al riparo degli alberi. — La base è chiusa.

— Certo che è chiusa — disse Theo, a denti stretti. — Ho controfirmato io gli ordini. Ma ho anche autorizzato l'evacuazione di tutto il personale essenziale dell'Egemonia. Lei ha lasciato passare quegli skimmer, vero, tenente Mueller?

Una mano corazzata si alzò come per grattarsi la testa coperta di casco e di visore. — Ah… sì, signore. Certo. Ma è stato un'ora fa, signore. Le navette di evacuazione sono partite e…

— Per l'amor del cielo, Mueller, usi il canale tattico e si faccia dare dal colonnello Gerasimov l'autorizzazione a lasciarci entrare.

— Il colonnello è morto, signore. C'è stata una navetta di assalto al perimetro est…

— Dal capitano Llewellyn, allora — disse Theo. Barcollò e si sorresse allo schienale del sedile del Console. Il viso, sotto le macchie di sangue, era pallidissimo.

— Ah… i canali tattici non funzionano, signore. Gli Ouster disturbano le bande, con…

— Tenente — sbottò Theo, in un tono che il Console non gli aveva mai udito usare. — Lei mi ha identificato a vista e ha controllato la mia ID impiantata. Ci faccia entrare o ci spari.

Il marine in tuta blindata lanciò uno sguardo alla fila di alberi, come se volesse ordinare ai suoi uomini di aprire il fuoco. — Le navette sono partite tutte, signore. Non ne verranno altre.

Theo annuì. Il sangue gli si era coagulato sulla fronte, ma ora un rivoletto nuovo iniziò a colare dall'attaccatura dei capelli. — La nave in quarantena è ancora al Pozzo Nove, giusto?

— Sì, signore — rispose Mueller, scattando finalmente sull'attenti. — Ma è una nave civile e non riuscirebbe mai a raggiungere lo spazio, con tutti gli Ouster…

Con un gesto Theo zittì il tenente e indicò ad Arundez di dirigersi al perimetro. Il Console lanciò un'occhiata alle linee insuperabili, ai campi di interdizione, di contenimento e probabilmente di mine a pressione, che lo skimmer avrebbe raggiunto nel giro di dieci secondi. Il tenente agitò il braccio e nei campi di energia comparve un diaframma a iride. Nessuno aprì il fuoco. Nel giro di mezzo minuto attraversavano lo spazioporto. Nel perimetro nord qualcosa di grosso bruciava. A sinistra si vedeva un cumulo di rimorchi e di moduli comando della FORCE, ridotti a una pozza di plastica ribollente.

"C'erano persone, lì dentro" pensò il Console e ancora una volta si sforzò di vincere la nausea.

Il Pozzo Sette era distrutto: le pareti circolari, dieci centimetri di carbonio-carbonio rinforzato, erano esplose in mille pezzi come se fossero state di cartone. Il Pozzo Otto bruciava con l'incandescenza al calor bianco delle granate a plasma. Il Pozzo Nove era intatto: la prua della nave del Console era appena visibile al di sopra della parete del pozzo, attraverso lo scintillio di un campo di contenimento classe-3.

— L'interdizione è stata tolta? — disse il Console.

Theo giaceva sullo strapuntino. — Sì — rispose, con voce rauca. — Gladstone ha autorizzato l'eliminazione del campo a cupola di embargo. Quello che si vede è il normale campo protettivo. Basta un ordine per annullarlo.

Arundez posò lo skimmer sul tarmac, proprio mentre si accendevano luci spia e voci sintetizzate cominciavano a elencare i guasti. Con il Console aiutò Theo a scendere e si fermò a controllare la parte posteriore del piccolo skimmer: una fila di fléchettes aveva impunturato una linea frastagliata nella cappottatura del motore e nell'alloggiamento dei repulsori. Il cofano era parzialmente fuso per il sovraccarico.

Melio Arundez diede un buffetto alla macchina, poi con il Console aiutò Theo a varcare la porta del pozzo e a risalire il cordone ombelicale di attracco.


— Dio santo — disse Melio Arundez — è magnifica! Non ero mai stato a bordo di un'astronave interstellare privata.

— Ne esistono solo alcune decine — disse il Console, sistemando sul viso e sul naso di Theo la maschera a osmosi e calando con gentilezza nel bagno nutritivo di emergenza della vasca chirurgica l'amico dai capelli rossi. — Per quanto piccola, questa nave costa alcune centinaia di milioni di marchi. A corporazioni e governi planetari della Periferia non conviene usare navi militari, nelle rare occasioni in cui hanno bisogno di viaggiare fra le stelle. — Chiuse la vasca e conversò brevemente col programma diagnostico. — Starà benissimo — disse infine ad Arundez; tornò alla piazzuola di proiezione.

Melio Arundez rimase accanto all'antico Steinway e sfiorò le lucide rifiniture del pianoforte a coda. Lanciò un'occhiata dalla sezione trasparente dello scafo, sopra la piattaforma balcone ripiegata e disse: — Ci sono incendi, nei pressi del cancello principale. Meglio toglierci di qui.

— È quel che faccio — disse il Console. Indicò ad Arundez la cuccetta circolare nella piazzuola di proiezione.

L'archeologo si lasciò cadere fra gli alti cuscini e si guardò intorno. — Non ci sono… ah… comandi?

Il Console sorrise. — Un ponte di comando? Strumentazione di abitacolo? Magari un timone a ruota per cambiare rotta? No. Nave?

— Sì — disse una voce calma uscita dal nulla.

— Siamo pronti per il decollo?

— Sì.

— Il campo di contenimento è stato tolto?

— Era il nostro. L'ho staccato.

— Bene. Filiamocela. Non devo dirti che siamo nel bel mezzo di una battaglia, vero?

— No. Ho tenuto sotto controllo tutti gli sviluppi. Gli ultimi velivoli della FORCE lasciano il sistema di Hyperion. Questi marines sono abbandonati qui e…

— Risparmia per dopo le analisi tattiche, Nave — disse il Console. — Stabilisci la rotta per la Valle delle Tombe e portaci via di qui.

— Signorsì. Mettevo solo in evidenza che le forze di difesa di questo spazioporto hanno poche possibilità di resistere per più di un'ora.

— Ho preso nota — disse il Console. — Adesso decolla.

— Ho l'ordine di comunicare prima questo messaggio astrotel. La raffica è giunta questo pomeriggio, alle 16,22:38:14, tempo standard della Rete.

— Ehi! Ferma! — esclamò il Console, congelando la trasmissione olografica già per metà materializzata. Sopra di loro si librava mezza faccia di Meina Gladstone. — Hai avuto l'ordine di mostrare questa trasmissione prima del decollo? A quali ordini ubbidisci, Nave?

— A quelli di Gladstone, signore. Cinque giorni fa, il Primo Funzionario Esecutivo ha autorizzato un ipercomando prioritario su tutte le funzioni della nave. Questa raffica astrotel è l'ultima condizione prima di ripassare a lei il comando.

— Dopo farai quel che dico io?

— Sì.

— Ci porterai dove dirò io?

— Sì.

— Niente priorità nascoste?

— Nessuna di cui sia a conoscenza.

— Trasmetti la raffica — disse il Console.

I lineamenti da Lincoln del PFE Meina Gladstone si librarono al centro della piazzuola, insieme con le contorsioni rivelatrici e le interruzioni endemiche delle trasmissioni astrotel. — Sono lieta che lei sia sopravvissuto alla visita alle Tombe del Tempo — disse Gladstone. — Ormai saprà senz'altro che le chiedo di negoziare con gli Ouster prima di tornare nella Valle.

Il Console incrociò le braccia e lanciò all'immagine di Gladstone un'occhiata di fuoco. All'esterno, il sole tramontava. Mancavano pochi minuti al momento in cui Rachel Weintraub avrebbe raggiunto l'ora esatta della nascita e avrebbe semplicemente smesso di esistere.

— Capisco la sua urgenza di tornare ad aiutare i suoi amici — disse Gladstone. — Ma non può fare niente per aiutare la piccina in questo momento. Esperti della Rete garantiscono che né crio-sonno né crio-fuga possono arrestare il morbo di Merlino. Sol Weintraub lo sa.

Dall'altra parte della piazzuola, il dottor Arundez disse: — È vero. Per anni hanno fatto esperimenti. Morirebbe, nello stato di fuga.

— … lei può aiutare davvero i miliardi di persone della Rete che crede di avere tradito — diceva Gladstone.

Il Console si sporse, gomiti sulle ginocchia, mento sui pugni. Il cuore gli batteva all'impazzata.

— Sapevo che lei avrebbe aperto le Tombe del Tempo — continuò Gladstone; gli occhi castani, tristi, parvero fissare direttamente il Console. — Le previsioni del Nucleo hanno mostrato che la sua lealtà nei confronti di Patto-Maui… e del ricordo della ribellione dei suoi nonni… avrebbe prevalso su ogni altro fattore. Era tempo che le Tombe fossero aperte e solo lei poteva attivare il congegno Ouster prima che gli stessi Ouster decidessero di farlo.

— Ho ascoltato abbastanza — disse il Console. Si alzò, girò la schiena alla proiezione. — Cancella il messaggio — disse alla nave, ben sapendo che essa non avrebbe ubbidito.

Melio Arundez attraversò la proiezione e afferrò per il braccio il Console. — Ascolti Gladstone. La prego.

Il Console scosse la testa ma rimase nella piazzuola, a braccia conserte.

— Ora è accaduto il peggio — continuò Gladstone. — Gli Ouster invadono la Rete. Porta del Paradiso sta per essere distrutto. Manca meno di un'ora all'invasione di Bosco Divino. È indispensabile che lei si metta in contatto con gli Ouster nel sistema di Hyperion e stabilisca negoziati… usi la sua abilità diplomatica per aprire un dialogo con loro. Gli Ouster non rispondono ai nostri messaggi radio e astrotel, ma sono avvisati del suo arrivo. Ritengo che si fideranno ancora di lei.

Il Console emise un gemito; si accostò al piano e prese a pugni il coperchio.

— Ci restano minuti, non ore, Console — disse Gladstone. — Le chiederò di andare prima dagli Ouster nel sistema di Hyperion, e poi tenti pure di tornare alla Valle delle Tombe, se deve. Lei sa meglio di me quali siano gli esiti di una guerra. Milioni di persone moriranno senza motivo, se non troviamo un canale sicuro per comunicare con gli Ouster.

"La decisione è tutta sua. Ma, per favore, consideri le ramificazioni, se falliremo in quest'ultimo tentativo di trovare la verità e salvare la pace. Mi metterò in contatto astrotel con lei, appena avrà raggiunto lo Sciame Ouster."

L'immagine di Gladstone sfarfallò, si annebbiò, svanì.

— Risposta? — domandò la nave.

— No. — Il Console andò avanti e indietro, fra lo Steinway e la piazzuola.

— Da quasi due secoli nessuna nave spaziale e nessuno skimmer sono atterrati con l'equipaggio intatto nella Valle — disse Melio Arundez. — Gladstone sa di sicuro quante siano poche le probabilità che lei riesca ad andarci, sopravvivere allo Shrike e poi prendere contatto con gli Ouster.

— Ora la situazione è diversa — disse il Console, senza girarsi. — Le maree del tempo sono impazzite. Lo Shrike va dove gli piace. Forse il fenomeno che impediva l'atterraggio di veicoli con equipaggio umano non si verifica più.

— E forse la sua nave atterrerà perfettamente senza di noi — disse Arundez. — Come tante altre, prima di questa.

— Maledizione — gridò il Console, girandosi di scatto. — Conosceva i rischi, quando ha detto di voler venire con me!

L'archeologo annuì, calmo. — Non mi riferisco al rischio che corro io, signore. Lo corro volentieri, se significa la possibilità di aiutare Rachel… anche solo di rivederla. Mi preoccupo per lei, Console: è la sua vita che potrebbe racchiudere la chiave della sopravvivenza della razza umana.

Il Console agitò i pugni, andò avanti e indietro come una belva in gabbia. — Non è giusto! Sono già stato la pedina di Gladstone. Quella donna mi ha usato, cinicamente, deliberatamente. Ho ucciso quattro Ouster, Arundez. Li ho uccisi per attivare quel maledetto congegno e aprire le Tombe. Crede che mi accoglieranno a braccia aperte?

L'archeologo non batté ciglio. — Gladstone ritiene che saranno disposti a parlamentare.

— Chi può dire che cosa faranno? O quali siano le vere intenzioni di Gladstone? Me ne frego dell'Egemonia e delle sue relazioni con gli Ouster. Vorrei sinceramente che la peste li cogliesse tutti.

— A costo delle sofferenze dell'umanità?

— Non conosco l'umanità — disse il Console, con tono piatto, stanco. — Conosco Sol Weintraub. E Rachel. E una donna ferita di nome Brawne Lamia. E padre Paul Duré. E Fedmahn Kassad. E…

Risuonò la voce ben modulata della nave: — Hanno fatto breccia nel perimetro nord dello spazioporto. Inizio le fasi finali di decollo. Per favore, sedetevi nelle cuccette.

Il Console quasi barcollò nella piazzuola, sotto la pressione del campo di contenimento interno che bloccava al proprio posto ogni oggetto e proteggeva i passeggeri molto meglio di cinghie e reti di sicurezza, mentre a poco a poco il differenziale verticale aumentava a dismisura. Una volta in caduta libera, il campo sarebbe diminuito di intensità ma avrebbe sostituito la gravità planetaria.

L'aria sopra la piazzuola si annebbiò e mostrò il pozzo di lancio e lo spazioporto che rimpicciolivano rapidamente, l'orizzonte e le montagne lontane che s'inclinavano di scatto mentre la nave si lanciava in manovre diversive a 80 g. Raggi di armi a energia guizzarono nella loro direzione, ma le colonne di dati mostrarono che i campi esterni ne controllavano l'effetto trascurabile. Poi l'orizzonte si allontanò e si curvò, mentre il cielo color lapislazzuli si scuriva nel nero dello spazio.

— Destinazione? — domandò la nave.

Il Console chiuse gli occhi. Dietro di loro, un segnale acustico squillò per annunciare che Theo Lane poteva essere rimosso dalla vasca di ricupero del reparto chirurgico principale.

— Quanto tempo occorre per mettersi in contatto con la flotta di invasione degli Ouster? — domandò il Console.

— Trenta minuti, per lo Sciame vero e proprio.

— E quanto occorre per arrivare a tiro delle loro navi di assalto?

— Siamo già a tiro.

Melio Arundez sembrava calmo, ma le dita serrate sul bordo del divano della piazzuola erano livide.

— Va bene — disse il Console. — Punta sullo Sciame. Evita le navi dell'Egemonia. Annuncia su tutte le frequenze che siamo una nave diplomatica disarmata e che vogliamo parlamentare.

— Questo messaggio è già stato autorizzato e predisposto dal PFE Gladstone, signore. In questo momento è trasmesso su tutte le frequenze radio e astrotel.

— Procedi — disse il Console. Indicò il comlog di Arundez. — Riesce a vedere l'ora?

— Sì. Sei minuti all'istante esatto della nascita di Rachel.

Il Console si abbandonò sul sedile, chiuse gli occhi. — Ha fatto un mucchio di strada per nulla, dottor Arundez.

L'archeologo si alzò, barcollò un istante prima di trovare l'equilibrio nella gravità simulata e si accostò al pianoforte. Rimase lì un momento, a guardare dalla vetrata del balcone il cielo nero e il limbo ancora vivido del pianeta che rimpiccioliva. — Forse no — disse. — Forse no.

38

Oggi siamo entrati in un territorio paludoso che riconosco come l'Agro Pontino; per celebrare l'avvenimento, ho un altro attacco di tosse che si conclude con uno sbocco di sangue. Molto più di prima. Leigh Hunt mi sta accanto, preoccupato e frustrato; mi sorregge per le spalle durante gli spasmi, poi mi aiuta a ripulirmi i vestiti, con stracci bagnati nel vicino ruscello; mi chiede: — Cosa posso fare?

— Raccogliere fiori di campo — ansimo. — Joseph Severn li raccolse.

Si gira con un gesto di rabbia, senza capire che, pur sfinito e febbricitante, dico semplicemente la verità.

La piccola carrozza e il cavallo stanco attraversano l'Agro, con scossoni e sobbalzi più dolorosi e numerosi di prima. Più tardi, nel pomeriggio, passiamo davanti a scheletri di cavallo lungo la strada, poi alle rovine di una vecchia locanda, poi alle rovine più massicce di un viadotto invaso dal muschio, e infine a pali sui quali sembra siano stati inchiodati stecchi bianchi.

— Cosa diavolo è, quella roba? — domanda Hunt.

— Ossa di briganti — rispondo, dicendo la verità.

Hunt mi guarda come se la malattia m'avesse sconvolto la mente. Forse ha ragione.

Più tardi usciamo dal terreno paludoso e scorgiamo fuggevolmente un lampo rosso che si muove molto lontano nei campi.

— E quello cos'è? — domanda Hunt, ansioso e speranzoso. Si aspetta, lo so, di vedere gente da un momento all'altro e, subito dopo, la sagoma di un teleporter funzionante.

— Un cardinale. — Dico di nuovo la verità. — Che spara agli uccelli.

Hunt consulta il comlog rovinato. — I cardinali sono uccelli — dichiara.

Annuisco, guardo verso ponente, ma il rosso è scomparso. — E anche ecclesiastici — replico. — Ci avviciniamo a Roma, sa?

Hunt mi guarda storto; per la millesima volta tenta di mettersi in contatto con qualcuno, sulle bande di trasmissione del comlog. Il pomeriggio è silenzioso, a parte il cigolio ritmico delle ruote di legno della vettura e il trillo lontano di qualche uccello canoro. Un cardinale, forse?


Entriamo in Roma mentre il primo rossore della sera tocca le nuvole. La piccola carrozza sobbalza e rumoreggia attraverso la Porta Laterana e quasi subito ci troviamo di fronte il Colosseo, invaso di edera e casa di migliaia di colombi, ma molto più impressionante delle olografie delle rovine: non è all'interno dei sudici confini di una città del dopoguerra circondata da arcologie giganti, ma si staglia contro grappoli di casette e di campi aperti dove la città termina e la campagna inizia. Scorgo in lontananza la Roma vera e propria: una manciata di tetti e di rovine più piccole sui leggendari Sette Colli; ma qui il Colosseo domina.

— Cristo — mormora Leigh Hunt. — Che cos'è?

— Le ossa di briganti — dico lentamente, per paura di un altro attacco della mia terribile tosse.

Proseguiamo con rumore di zoccoli nelle vie deserte della Roma del XIX secolo della Vecchia Terra, mentre la sera cala pesantemente intorno a noi, la luce svanisce e i colombi volano in cerchio sopra le cupole e i tetti della Città Eterna.

— Dov'è, la gente? — mormora Hunt. Sembra spaventato.

— Non qui, perché non è necessaria — rispondo. La mia voce suona aspra e pungente, nella penombra delle vie cittadine. Ora le ruote passano sopra l'acciottolato di un fondo stradale, irregolare quasi quanto la strada sassosa appena lasciata.

— È uno stim-sim? — domanda Hunt.

— Ferma il carro — dico; ubbidiente, il cavallo si ferma. Indico una grossa pietra accanto al canale di scolo. Mi rivolgo a Hunt: — La prenda a calci.

Mi guarda, accigliato, ma smonta, si accosta alla pietra e le molla un calcione. Altri colombi si alzano rapidamente nel cielo, dalle torri campanarie e dall'edera, spaventati dalle imprecazioni di Hunt.

— Come il dottor Johnson, anche lei ha dimostrato la realtà delle cose — dico. — Non è stim-sim, né sogno. O, per meglio dire, non più di quanto il resto della nostra vita sia sogno.

— Perché ci hanno portati qui? — domanda l'aiutante del PFE, con un'occhiata al cielo, come se gli dèi stessi siano in ascolto appena al di là delle barriere color pastello delle nuvole della sera. — Cosa vogliono?

"Vogliono che io muoia" penso; capisco quanto sia vera la risposta, con una sorpresa simile a un pugno in pieno petto. Respiro lentamente per evitare un attacco di tosse, perché sento il catarro ribollirmi in gola. "Vogliono che io muoia e che lei stia a guardare."

La giumenta riprende la lunga tirata, gira a destra nella viuzza seguente, poi di nuovo a destra in un viale ampio e pieno di ombre e di echi del nostro passaggio; infine, si ferma all'inizio di una grande scalinata.

— Siamo arrivati — dico, scendendo a fatica dalla carrozza. Ho crampi alle gambe, dolore al petto, natiche indolenzite. Nella mente mi passa l'inizio di un'ode satirica sui piaceri dei viaggi.

Hunt scende a terra, rigido quanto me; si ferma in cima alla maestosa scalinata divisa in due ali, incrocia le braccia, la fissa con odio, come se fosse una trappola o un'illusione. — Che posto è questo, esattamente, signor Severn?

Indico la piazza ai piedi della scalinata. — Piazza di Spagna — dico. A un tratto trovo strano che Hunt mi chiami Severn. Questo nome ha smesso di essere il mio quando abbiamo varcato la Porta Laterana. O, meglio, il mio vero nome a un tratto è tornato mio.

— Prima che trascorrano molti anni — dico — questi saranno chiamati gli Scalini Spagnoli. — Mi siedo sui gradini dell'ala di destra. Una vertigine improvvisa mi fa barcollare; Hunt si affretta a sorreggermi per il braccio.

— Non può camminare — dice. — Sta troppo male.

Indico un edificio vecchio e macchiato, che forma un muro rispetto all'ala opposta dell'ampia scala e fronteggia la piazza. — Non è distante, Hunt. Ecco la nostra destinazione.

L'aiutante di Gladstone guarda, corrucciato, l'edificio. — E cosa sarebbe? Perché dovremmo andarci? Cosa andiamo a farci?

Non posso fare a meno di sorridere al suo inconsapevole uso della rima, lui che è il meno poetico degli uomini. All'improvviso immagino di stare seduto per lunghe notti nel guscio buio di un edificio e insegnargli come migliorare una simile tecnica con cesure maschili o femminili, o le gioie di alternare il giambo con il pirricchio non accentato, o l'indulgenza verso se stessi del frequente spondeo.

Tossisco, continuo a tossire, non la smetto finché il sangue non mi schizza il palmo e la camicia.

Hunt mi aiuta a scendere gli scalini, ad attraversare la piazza dove la fontana a forma di nave del Bernini gorgoglia nel crepuscolo, e poi, seguendo le mie indicazioni, mi guida al rettangolo nero del vano della porta… il n. 26 di Piazza di Spagna. Senza volerlo, penso alla Divina Commedia di Dante; mi pare quasi di vedere, scolpite sopra il freddo architrave, le parole: Lasciate ogni speranza, voi ch'entrate.


Sol Weintraub rimase davanti all'ingresso della Sfinge e agitò il pugno contro l'universo intero, mentre la notte cadeva e le Tombe brillavano del fulgore dovuto all'apertura e sua figlia non tornava.

Non tornava.

Lo Shrike l'aveva presa, aveva tenuto nel palmo di acciaio il corpicino appena nato e si era ritirato nello splendore che spingeva via Sol, ancora, come un terribile vento luminoso proveniente dagli abissi del pianeta. Sol premette contro l'uragano di luce, ma fu respinto come da un campo di contenimento impazzito.

Il sole di Hyperion era tramontato e un vento gelido soffiava dalle lande, spinto da un fronte di aria fredda che dalle montagne scivolava sul deserto e poi verso sud; Sol si girò a fissare la polvere vermiglia che turbinava nell'intensa luce delle Tombe che si aprivano.

Le Tombe si aprivano!

Sol socchiuse gli occhi per proteggerli dal bagliore e guardò nella valle, dove le altre Tombe scintillavano come fuochi fatui verde chiaro dietro la cortina di polvere spinta dal vento. Lunghe ombre guizzavano sul fondovalle, mentre in alto le nuvole erano prosciugate degli ultimi colori del tramonto e la notte giungeva col gemito del vento.

Qualcosa si muoveva nel vano di ingresso del secondo edificio, la Tomba di Giada. Sol scese barcollando i gradini della Sfinge, lanciò un'occhiata al vano in cui lo Shrike era scomparso portandosi via sua figlia, poi corse al di là delle zampe della Sfinge e barcollò lungo il sentiero sferzato dal vento, diretto alla Tomba di Giada.

Qualcosa si mosse lentamente dall'ovale di ingresso e si stagliò contro la luce emanata dalla Tomba; ma Sol non riuscì a dire se fosse una creatura umana o no, lo Shrike o no. Se era lo Shrike, l'avrebbe afferrato a mani nude, l'avrebbe scosso finché non gli avesse restituito la figlia o uno dei due non fosse morto.

Non era lo Shrike.

Ora Sol vedeva che la sagoma era umana. La persona barcollò, si appoggiò allo stipite della Tomba di Giada, come se fosse ferita o stanca.

Era una giovane donna.

Sol pensò a Rachel, lì, in quel posto, più di mezzo secolo standard prima, la giovane archeologa che studiava quei manufatti e mai avrebbe immaginato quale sorte l'attendesse, sotto forma del morbo di Merlino. Sol si era sempre raffigurato la salvezza di sua figlia: sconfitta la malattia, la piccina sarebbe cresciuta di nuovo normalmente, sarebbe ridiventata una donna. E se invece fosse tornata come la Rachel di ventisei anni che era entrata nella Sfinge?

Sol si sentì rombare il sangue nelle orecchie, con tanta intensità da cancellare il rumore del vento che infuriava intorno a lui. Agitò il braccio in direzione della figura, ora quasi oscurata dalla tempesta di polvere.

La giovane donna gli rispose allo stesso modo.

Sol corse per altri venti metri, si fermò a trenta dalla Tomba, gridò: — Rachel! Rachel!

La giovane donna stagliata nella luce ruggente si spostò dal vano della porta, si portò le mani al viso, gridò qualcosa che andò perso nel vento, cominciò a scendere i gradini.

Sol corse, inciampò nei sassi quando smarrì il sentiero, barcollò alla cieca nella valle, non badò al dolore quando col ginocchio urtò una roccia bassa, ritrovò il sentiero, arrivò alla base della Tomba di Giada, incontrò la donna proprio mentre lei usciva dal cono di luce in espansione.

Appena Sol fu alla base della scala, la donna cadde; lui l'afferrò al volo, la distese gentilmente per terra, mentre la sabbia gli frustava la schiena e le maree del tempo turbinavano intorno a loro in riflussi di vertigine e di déjà vu.

— Sei proprio tu! — disse la donna. Sollevò la mano a toccare la guancia di Sol. — Sei reale! Sono tornata.

— Sì, Brawne — disse Sol, cercando di mantenere ferma la voce; le scostò dal viso i ricci arruffati. La strinse con fermezza, con un braccio sul ginocchio, sorreggendole la testa e chinandosi in modo da ripararla meglio dal vento e dalla sabbia. — Tutto a posto, Brawne — disse piano, con occhi lucidi di lacrime di delusione che non avrebbe versato. — Tutto a posto. Sei tornata.


Meina Gladstone salì le scale della cavernosa Sala di Guerra e uscì nel corridoio dove larghe strisce di perspex massiccio offrivano la vista dell'altopiano di Tharsis da monte Olympus. Molto più in basso pioveva e da quella posizione, quasi a dodici chilometri di altezza nel cielo marziano, Gladstone vedeva il balenio di fulmini e le cortine di elettricità statica, mentre la tempesta si trascinava sulle alte steppe. Sedeptra Akasi uscì nel corridoio e restò in silenzio a fianco del PFE.

— Ancora nessuna notizia di Leigh o di Severn? — domandò Gladstone.

— Nessuna — rispose Akasi. Il viso della giovane nera era illuminato dalla luce livida del sole del Sistema Patrio in alto e dal gioco di fulmini in basso. — Le autorità del Nucleo dicono che forse c'è stato un cattivo funzionamento del teleporter.

Gladstone sorrise senza calore. — Sì. Riesci a ricordare un cattivo funzionamento di teleporter in vita tua, Sedeptra? In un qualsiasi punto della Rete?

— No, signora.

— Il Nucleo non ritiene necessario usare sottigliezza. Loro credono di poter rapire chi vogliono senza essere ritenuti responsabili. Sono convinti che abbiamo troppo bisogno di loro, in questa situazione estrema. E sai una cosa, Sedeptra?

— Cosa?

— Hanno ragione. — Gladstone scosse la testa e si girò di nuovo verso la lunga discesa che portava nella Sala di Guerra. — Tra meno di dieci minuti gli Ouster accerchieranno Bosco Divino. Scendiamo a unirci agli altri. Il mio incontro con il consulente Albedo è programmato al termine di questa riunione?

— Sì, Meina. Non credo… voglio dire, alcuni di noi ritengono che sia troppo pericoloso affrontarli in modo così diretto.

Gladstone esitò, sulla soglia della Sala di Guerra. — Perché? — domandò, stavolta con un sorriso sincero. — Pensate che il Nucleo mi faccia scomparire, come ha fatto con Leigh e Severn?

Akasi aprì bocca, ci ripensò, allargò le mani.

Gladstone le toccò la spalla. — Se lo fanno, Sedeptra, sarà un atto misericordioso. Ma penso che non lo faranno. Le cose sono andate troppo avanti: secondo loro, l'azione di un singolo individuo non potrà più cambiare il corso degli eventi. — Gladstone ritrasse la mano, lasciò morire il sorriso. — E forse hanno ragione.

Senza dire altro, le due donne raggiunsero il cerchio di militari e politici in attesa.


— Il momento si avvicina — disse la Vera Voce dell'Albero Mondo Sek Hardeen.

Padre Paul Duré fu strappato alle fantasticherie. Nell'ultima ora, la disperazione e l'esasperazione si erano attenuate, prima in rassegnazione, poi in qualcosa di simile al piacere, al pensiero di non dover più fare scelte, di non avere altri obblighi. Duré era rimasto seduto, in socievole silenzio, con il capo della Confraternita Templare, a guardare il tramondo del sole di Bosco Divino e la proliferazione di stelle e le luci nella notte che stelle non erano.

Si era meravigliato che il Templare rimanesse isolato dalla sua gente, in quel momento cruciale; ma riflettendo sulle concezioni religiose dei Templari, capì che i Seguaci del Muir avrebbero accolto in solitudine un simile momento di distruzione potenziale, sulle piattaforme più sacre e nei recessi ombrosi più segreti dei loro alberi più sacri. E gli occasionali commenti sottovoce di Hardeen, da sotto il cappuccio della tonaca, rivelarono a Duré che la Vera Voce era in contatto con i colleghi Templari, tramite comlog o impianti.

Eppure, era un modo tranquillo di attendere la fine del mondo, seduti a grande altezza sul più alto albero vivente della galassia conosciuta, ascoltando la tiepida brezza della sera far frusciare un milione di acri di foglie e guardando le stelle sfavillare e le lune gemelle correre nel cielo di velluto.

— Abbiamo chiesto a Gladstone e alle autorità dell'Egemonia di non opporre resistenza, di non fare entrare nel sistema navi da guerra della FORCE — disse Sek Hardeen.

— Sarebbe saggio? — domandò Duré. Poco prima Hardeen gli aveva detto qual era stata la sorte di Porta del Paradiso.

— La flotta della FORCE non è ancora abbastanza organizzata da opporre seria resistenza — rispose il Templare. — Almeno così il nostro mondo ha qualche probabilità di essere trattato come non belligerante.

Padre Duré si protese per guardare meglio l'alta figura nelle ombre della piattaforma. Tenui fotoglobi, sui rami in basso, erano l'unica illuminazione, a parte la luce delle stelle e delle lune. — Eppure ha accolto con piacere questa guerra. Ha aiutato le autorità del Culto Shrike a farla scoppiare.

— No, Duré. Non la guerra. La Confraternita sapeva di dover partecipare al Grande Cambiamento.

— Ossia?

— Il momento in cui la razza umana accetterà il ruolo di parte dell'ordine naturale dell'universo e smetterà di esserne il cancro.

— Cancro?

— Un'antica malattia che…

— Sì — lo interruppe Duré. — So cos'era il cancro. Come mai lo paragona alla razza umana?

Sek Hardeen mostrò una traccia di agitazione nella voce perfettamente modulata e con una lieve cadenza. — Ci siamo diffusi nella galassia come cellule cancerose in un corpo vivente. Ci moltiplichiamo senza il minimo riguardo per le altre forme di vita che devono morire o essere messe da parte perché possiamo riprodurci e di prosperare. Sradichiamo le forme di vita intelligente in competizione con noi.

— Per esempio?

— Per esempio, gli empatici Seneschai di Hebron. I centauri di palude di Garden. Su Garden, Duré, abbiamo distrutto l'intera ecologia, perché poche migliaia di coloni umani potessero vivere dove un tempo prosperavano milioni di forme di vita indigene.

Duré si toccò la guancia. — È uno degli inconvenienti del terraforming.

— Non abbiamo terraformato Whirl — replicò subito il Templare. — Ma abbiamo dato la caccia alle forme gioviane di vita di quel pianeta fino a causarne l'estinzione.

— Nessuno ha mai accertato che gli zeplen fossero intelligenti — disse Duré, senza molta convinzione.

— Cantavano — disse il Templare. — Si lanciavano richiami attraverso migliaia di chilometri di atmosfera, con canzoni espressive, piene di amore e di tristezza. Eppure furono sterminati fino all'ultimo, come le grandi balene della Vecchia Terra.

Duré congiunse le mani. — D'accordo, ci sono state ingiustizie. Ma senza dubbio esistono modi migliori per raddrizzarle che non sostenere la crudele filosofia del Culto Shrike… e permettere che questa guerra continui.

Il Templare mosse in un cenno di diniego la testa incappucciata. — No. Se fossero semplici ingiustizie umane, si potrebbero trovare altri rimedi. Ma gran parte della malattia, grande parte della pazzia che ci ha spinti a distruggere razze intere e a rovinare interi pianeti deriva dalla peccaminosa simbiosi.

— Simbiosi?

— Razza umana e TecnoNucleo — disse Sek Hardeen, con il tono più aspro che Duré avesse mai udito in un Templare. — L'uomo e le sue intelligenze-macchina. Chi è il parassita dell'altro? Nessuna delle due parti del simbionte può dirlo, ora. Ma è un male, un'opera dell'Anti-Natura. Peggio ancora, Duré: un vicolo cieco dell'evoluzione.

Il gesuita si alzò e si accostò alla balaustra. Guardò il mondo scuro delle cime degli alberi disseminate come nuvole nella notte. — Senza dubbio c'è un modo migliore che non rivolgersi allo Shrike e alla guerra interstellare.

— Lo Shrike è un catalizzatore. Il fuoco che purifica, quando la foresta è stenta e cresce malata e troppo fitta. Ci saranno tempi duri, ma il risultato sarà nuova crescita, nuova vita, una proliferazione di specie… non solo altrove, ma nella comunità stessa della razza umana.

— Tempi duri — ripeté il gesuita, pensieroso. — E la Confraternita è disposta a veder morire miliardi di persone per questa… sarchiatura?

Il Templare strinse i pugni. — Non accadrà. Lo Shrike è l'avvertimento. I nostri fratelli Ouster cercano solo di controllare Hyperion e lo Shrike quanto basta a colpire il TecnoNucleo. Sarà un processo chirurgico… la distruzione di un simbionte e la rinascita della razza umana come elemento distinto nel ciclo della vita.

Duré sospirò. — Nessuno sa dove risieda il TecnoNucleo — disse. — Come faranno a colpirlo, gli Ouster?

— Lo colpiranno — rispose la Vera Voce dell'Albero Mondo; ma nel tono c'era meno fiducia di prima.

— E l'attacco a Bosco Divino fa parte dell'accordo? — domandò il prete.

Fu la volta del Templare, ad alzarsi e andare avanti e indietro, prima alla balaustra, poi di nuovo al tavolo. — Non attaccheranno Bosco Divino. L'ho trattenuta qui proprio per questo, per farle vedere. Poi potrà andare a riferire tutto all'Egemonia.

— Sapranno subito se gli Ouster attaccano — disse Paul Duré, perplesso.

— Sì, ma non sapranno perché il nostro mondo è stato risparmiato. Toccherà a lei, portare il messaggio. Spiegare questa verità.

— Al diavolo — esclamò padre Duré. — Sono stufo di essere il messaggero di tutti. Come fa a sapere queste cose? L'arrivo dello Shrike? Il motivo della guerra?

— Ci sono profezie… — cominciò Sek Hardeen.

Duré batté il pugno sulla balaustra. Come spiegare le manipolazioni di una creatura che poteva, o almeno che era un agente della forza che poteva, manipolare il tempo stesso?

— Vedrà… — cominciò di nuovo il Templare. Quasi a sottolineare le sue parole, ci fu un rumore immane e pacato, come se un milione di persone nascoste avesse emesso un sospiro e poi un gemito sordo.

— Buon Dio — esclamò Duré. A ponente sembrava che il sole sorgesse nel punto dove era scomparso da meno di un'ora. Un vento caldo fece frusciare le foglie e gli soffiò sul viso.

Cinque nubi a fungo sbocciarono e si arricciarono sopra l'orizzonte occidentale, mutando in giorno la notte, mentre ribollivano e svanivano. D'istinto, Duré si coprì gli occhi, finché non si rese conto che le esplosioni erano troppo lontane e, per quanto vivide come il sole locale, non l'avrebbero reso cieco.

Sek Hardeen si tirò indietro il cappuccio; il vento caldo gli scompigliò i capelli, lunghi e con una bizzarra sfumatura verdastra. Duré fissò i tratti scarni, vagamente asiatici dell'uomo e si accorse che mostravano sorpresa. Sorpresa e incredulità. Nel cappuccio di Hardeen risuonarono mormorii e microchiacchiere di voci agitate.

— Esplosioni a Sierra e a Hokkaido — mormorò il Templare tra sé. — Esplosioni nucleari. Dalle navi in orbita.

Duré ricordò che Sierra era un continente, chiuso ai forestieri, a meno di ottocento chilometri dall'Albero Mondo su cui si trovavano. Gli parve che Hokkaido fosse l'isola sacra dove erano coltivate le potenziali navi-albero.

— Vittime? — domandò; ma prima che Hardeen potesse rispondere, il cielo fu tagliato da vivide luci: venti e più laser tattici, CPB e lance a fusione tracciarono una falce da orizzonte a orizzonte, muovendosi come proiettori sul tetto del mondo foresta che era Bosco Divino. E dove colpivano, eruttava una scia di fiamme.

Duré barcollò, mentre un raggio ampio cento metri scivolava come un tornado sulla foresta, a meno di un chilometro dall'Albero Mondo. L'antica foresta esplose in fiamme, creò un corridoio di fuoco che si alzava per dieci chilometri nel cielo notturno. Il vento ruggì, sfiorò Duré e Sek Hardeen, mentre l'aria si precipitava ad alimentare la tempesta di fuoco. Un altro raggio colpì da nord a sud, sfiorò l'Albero Mondo, scomparve al di là dell'orizzonte. Un'altra falce di fiamme e di fumo si alzò verso le infide stelle.

— Avevano promesso! — ansimò Sek Hardeen. — I fratelli Ouster avevano promesso!

— Avete bisogno di aiuto! — esclamò Duré. — Chieda alla Rete l'aiuto di emergenza.

Hardeen afferrò Duré per il braccio, lo tirò sull'orlo della piattaforma. La scala era di nuovo al suo posto. Sulla piattaforma inferiore, scintillava il riquadro di un teleporter.

— È solo l'avanguardia della flotta Ouster — gridò il Templare, per superare il rumore della foresta in fiamme. Cenere e fumo riempivano l'aria, vagavano tra braci ardenti. — Ma la sfera di anomalia sarà distrutta da un momento all'altro. Vada via!

— Non me ne vado senza di lei — gridò il gesuita, certo che la voce non sarebbe stata udita sopra il ruggito del vento e il terrificante scoppiettio. A un tratto, appena qualche chilometro a oriente, il perfetto cerchio azzurro di una esplosione al plasma si allargò, implose, si dilatò di nuovo nei cerchi concentrici ben visibili dell'onda di urto. Alberi alti chilometri si piegarono e si spezzarono sotto la prima onda di esplosione: la parte esposta a est scoppiò in fiamme, le foglie volarono via a milioni e s'aggiunsero alla muraglia quasi compatta di detriti che correva verso l'Albero Mondo. Dietro il cerchio di fiamme, esplose un'altra bomba al plasma. Poi una terza.

Duré e il Templare caddero giù dagli scalini e furono sospinti sulla piattaforma inferiore come foglie su un marciapiede. Il Templare si aggrappò a una balaustra di legno muir in fiamme, attanagliò in una stretta ferrea il braccio di Duré, si tirò faticosamente in piedi, si mosse verso il riquadro ancora scintillante del teleporter, come un uomo che si abbandoni alla furia di un ciclone.

Stordito, accorgendosi a malapena di essere trascinato, Duré riuscì a mettersi in piedi proprio mentre la Vera Voce dell'Albero Mondo Sek Hardeen lo tirava fin sulla soglia del portale. Duré rimase aggrappato all'intelaiatura, troppo debole per superare l'ultimo metro; al di là del teleporter vide uno spettacolo che non avrebbe più dimenticato.

Una volta, molti e molti anni prima, nei pressi dell'amata Villefranche-sur-Saône, il giovane Paul Duré si era trovato sulla cima di una scogliera, al sicuro fra le braccia del padre e al riparo di uno schermo di cemento di notevole spessore, e da una finestrella aveva guardato uno tsunami alto quaranta metri precipitarsi contro la costa dove abitavano.

Questo tsunami era alto tre chilometri, era fatto di fiamme, correva a quella che pareva la velocità della luce sull'inerme tetto della foresta verso l'Albero Mondo, Sek Hardeen e Paul Duré, distruggendo tutto ciò che toccava. L'uragano infuriò più vicino, si alzò più in alto fino a oscurare tra fiamme e frastuono il mondo e il cielo.

— No! — urlò padre Duré.

— Vada via! — gridò la Vera Voce dell'Albero Mondo e spinse il gesuita al di là del portale, mentre la piattaforma, il tronco dell'Albero Mondo e la tonaca del Templare prendevano fuoco.

Il teleporter si spense proprio mentre Duré lo varcava rotolando; si contrasse e tagliò di netto il tacco della scarpa del prete. Duré sentì che i timpani gli scoppiavano e le vesti prendevano fuoco; cadde, con la nuca colpì qualcosa di duro e precipitò nel buio totale.


Gladstone e gli altri guardarono in silenzio, inorriditi, le immagini inviate tramite relè teleporter dai satelliti civili, con gli spasmi di agonia di Bosco Divino.

— Dobbiamo farla saltare subito! — gridò l'ammiraglio Singh, per superare lo scoppiettio delle foreste in fiamme. Meina Gladstone credette di udire le urla di esseri umani e degli innumerevoli primati arboricoli che vivevano sul pianeta dei Templari.

— Non possiamo lasciarli avvicinare ancora! — gridò di nuovo Singh. — Abbiamo solo i telecomandi, per far saltare la sfera.

— Sì — disse Gladstone; anche se aveva mosso le labbra, non udì alcun suono.

Singh si girò e rivolse un cenno a un colonnello della FORCE:spazio. Il colonnello toccò la consolle tattica. Le foreste in fiamme sparirono, le enormi olografie divennero totalmente scure, ma chissà come il suono delle grida rimase. Gladstone capì che era il rombo del suo stesso sangue nelle orecchie.

Si girò verso Morpurgo. — Quanto manca… — Si schiarì la voce. — Generale, quanto manca all'attacco di Mare Infinitum?

— Tre ore e cinquantadue minuti, signora — rispose il generale.

Gladstone si girò verso l'ex capitano William Ajunta Lee. — La sua unità operativa è pronta, ammiraglio?

— Sì, signora — disse Lee, pallido sotto l'abbronzatura.

— Quante navi saranno impegnate nell'azione?

— Settantaquattro, signora.

— E li colpirà lontano da Mare Infinitum?

— Appena dentro la Nube di Oört, signora.

— Bene — disse Gladstone. — Buona caccia, ammiraglio.

Il giovane ritenne l'augurio un'imbeccata per salutare e uscire dalla sala. L'ammiraglio Singh si sporse a mormorare qualcosa al generale Van Zeidt.

Sedeptra Akasi si chinò verso Gladstone e disse: — La sicurezza della Casa del Governo riferisce che un uomo si è appena teleportato nel terminex privato usando un codice di priorità sorpassato. L'uomo era ferito ed è stato ricoverato nell'infermeria dell'Ala Est.

— Leigh? — domandò Gladstone. — Severn?

— No, signora. Il prete di Pacem. Paul Duré.

Gladstone annuì. — Lo vedrò dopo l'incontro con Albedo. — Si rivolse al gruppo. — Se non c'è niente da aggiungere a quel che abbiamo visto, torneremo a riunirci fra trenta minuti per occuparci della difesa di Asquith e di Ixion.

Tutti si alzarono, mentre il PFE e il suo seguito varcavano il portale collegato in permanenza alla Casa del Governo. Appena Gladstone fu fuori vista, il clamore delle discussioni riprese.


Meina Gladstone si abbandonò contro lo schienale della poltrona di pelle e chiuse gli occhi per cinque secondi esatti. Quando li riaprì, il gruppo di aiutanti era ancora lì: alcuni con espressione ansiosa, alcuni con aria impaziente, ma tutti in attesa della parola successiva, del successivo ordine.

— Uscite — disse piano Gladstone. — Riposatevi un poco. Stendete le gambe per dieci minuti. Non ci saranno altri momenti di tranquillità, nelle prossime ventiquattro o quarantotto ore.

Il gruppo sfilò fuori, alcuni avevano l'aria di chi sta per protestare, altri di chi è sull'orlo del collasso.

— Sedeptra — chiamò Gladstone; la giovane rientrò nell'ufficio. — Assegna due mie guardie personali al prete appena arrivato, Duré.

Sedeptra Akasi annuì e prese un appunto sul fax-notes.

— Com'è la situazione politica? — domandò Gladstone, strofinandosi gli occhi.

— La Totalità è nel caos — rispose Akasi. — Ci sono diverse fazioni, ma ancora non si sono unite a formare un'opposizione efficace. Il Senato è tutt'altra storia.

— Feldstein? — disse Gladstone, nominando la collerica senatrice del Mondo di Barnard. Il pianeta sarebbe stato assalito dagli Ouster entro meno di quarantadue ore.

— Feldstein, Kakinuma, Peters, Sabenstorafem, Richeau… perfino Sudette Chier chiede le sue dimissioni.

— E il marito di Sudette? — Gladstone considerava il senatore Kolchev la persona più influente del Senato.

— Per il momento, nessuna dichiarazione del senatore Kolchev. Né ufficiale né confidenziale.

Con l'unghia Gladstone tamburellò sul labbro inferiore. — Secondo te, quanto tempo resta, a questo governo, prima che un voto di sfiducia lo faccia cadere?

Akasi, una degli operatori politici più avveduti con cui Gladstone avesse mai lavorato, le restituì lo sguardo. — Settantadue ore all'esterno, signora. I voti sono là. La gente ancora non se ne rende conto, ma è già una folla in tumulto. Qualcuno deve pagare, per l'accaduto.

Gladstone annuì con aria assente. — Settantadue ore — mormorò. — Più che sufficienti. — Alzò gli occhi e sorrise. — Non c'è altro, Sedeptra. Riposa un poco.

L'aiutante annuì, ma l'espressione rivelò cosa pensava realmente del suggerimento. Nello studio c'era grande silenzio, quando la porta si richiuse alle spalle della donna.

Gladstone rimase a riflettere per qualche istante. Poi disse alle pareti: — Per favore, portate qui il consulente Albedo.

Venti secondi dopo, l'aria dall'altra parte della scrivania si annebbiò, scintillò, si solidificò. Il rappresentante del TecnoNucleo sembrava bello come sempre, con i capelli grigi tagliati corti e una sana abbronzatura sul viso aperto, onesto.

— Signora — cominciò la proiezione olografica — la Commissione di Consulenza e gli analisti del Nucleo continuano a offrire i propri servigi in questi tempi di grande…

— Dove si trova, il Nucleo, Albedo? — lo interruppe Gladstone.

Il consulente non cambiò sorriso. — Scusi, signora, può ripetere la domanda?

— Il TecnoNucleo. Dove si trova?

Il viso amichevole di Albedo mostrò una lieve confusione, ma non ostilità, solo la preoccupazione di essere d'aiuto. — Senza dubbio, signora, si rende conto che, fin dalla Secessione, la politica del Nucleo è stata quella di non rivelare la posizione dei suoi… ah… elementi fisici. In un altro senso, il TecnoNucleo non è da nessuna parte, dal momento…

— Dal momento che voi esistete nelle realtà consensuali del piano dati e della sfera dati — disse Gladstone, con voce piatta. — Sì. Per tutta la vita, Albedo, ho sentito queste stronzate. Come mio padre, e suo padre prima di lui. Adesso vi rivolgo una domanda diretta. Dove si trova, il TecnoNucleo?

Il consulente scosse la testa, stupito, rattristato, come un adulto al quale avessero rivolto per la millesina volta l'infantile domanda: Perché il cielo è azzurro, papà?

— Signora, è semplicemente impossibile dare una risposta che abbia senso in termini di coordinate tridimensionali umane. In un certo senso noi… il Nucleo… esistiamo all'interno della Rete e al di là della Rete. Nuotiamo nella realtà del piano dati che voi chiamate sfera dati, ma in quanto agli elementi fisici… quel che i vostri antenati chiamavano hardware, troviamo necessario…

— Mantenere segreta la sede — terminò per lui Gladstone. Incrociò le braccia. — Si rende conto, consulente Albedo, che nell'Egemonia ci sarà gente, milioni di persone, fermamente convinta che il Nucleo, la vostra Commissione di Consulenza, ha tradito l'umanità?

Albedo allargò le braccia. — Sarà increscioso, signora. Increscioso, ma comprensibile.

— In teoria i vostri previsori sono quasi infallibili, consulente. Eppure non ci avete avvertiti che la flotta Ouster avrebbe distrutto pianeti interi.

La tristezza del bel viso della proiezione era quasi convincente. — Signora, è appena giusto ricordarle un altro avvertimento della Commissione di Consulenza: includere Hyperion nella Rete avrebbe introdotto una variabile casuale che perfino la Commissione non avrebbe potuto calcolare.

— Ma qui non si tratta di Hyperion! — sbottò Gladstone, alzando la voce. — Si tratta di Bosco Divino in fiamme! Di Porta del Paradiso ridotto a scorie vetrificate. Di Mare Infinitum in attesa del prossimo colpo di maglio! A cosa serve, la Commissione di Consulenza, se non è in grado di prevedere un'invasione di questa portata?

— Abbiamo predetto l'inevitabilità della guerra con gli Ouster, signora. Abbiamo anche predetto il grave rischio di difendere Hyperion. Deve credermi, l'inclusione di Hyperion nelle equazioni porta il fattore di attendibilità a un livello così basso come…

— E va bene — sospirò Gladstone. — Devo parlare con qualcun altro del Nucleo, Albedo. Qualcuno nella vostra indecifrabile gerarchia di intelligenze che abbia davvero potere decisionale.

— Le garantisco che rappresento tutti gli elementi del Nucleo, quando…

— Sì, sì. Ma voglio parlare con uno dei… dei Poteri, mi pare che li chiamiate. Uno delle IA anziane. Uno che abbia autorità, Albedo. Devo parlare con uno che possa dirmi perché il Nucleo ha rapito il mio pittore Severn e il mio aiutante Leigh Hunt.

L'ologramma parve stupito. — Sull'onore di quattro secoli di alleanza le assicuro, signora Gladstone, che il Nucleo non ha niente a che fare con la deprecabile scomparsa di…

Gladstone si alzò. — Per questo devo parlare a un Potere. Il tempo delle assicurazioni è terminato, Albedo. Occorrono parole chiare, se le nostre due razze vogliono sopravvivere. Non c'è altro. — Si interessò alle veline fax-notes sulla scrivania.

Il consulente Albedo si alzò, le rivolse un cenno di saluto e con uno scintillio si smaterializzò.

Gladstone fece comparire il teleporter privato, enunciò i codici dell'infermeria della Casa del Governo e iniziò a varcare il portale. L'istante prima di toccare la superficie opaca del rettangolo di energia, esitò: per la prima volta in vita sua si sentì inquieta all'idea di varcare un teleporter.

E se il Nucleo avesso voluto rapire anche lei? O ucciderla?

Meina Gladstone capì all'improvviso che il Nucleo aveva potere di vita e di morte su ogni cittadino della Rete che usasse un teleporter… ossia qualsiasi cittadino di una certa importanza. Non era stato necessario rapire e trasferire chissà dove Leigh e il cìbrido Severn… bastava la persistente abitudine di considerare i teleporter il perfetto sistema di trasporto, per creare la convinzione inconscia che i due erano andati da qualche parte. Il suo aiutante e l'enigmatico cìbrido avrebbero potuto facilmente essere stati traslati… nel nulla. Atomi sparpagliati e disseminati attraverso un'anomalia. I teleporter non "teleportavano" persone e cose… il concetto era di per sé una sciocchezza; ma non era forse una sciocchezza maggiore, fidarsi di un congegno che forava il tessuto dello spazio-tempo e consentiva di attraversare "botole" buco nero? E lei faceva una sciocchezza, a confidare che il Nucleo la trasportasse nell'infermeria?

Gladstone pensò alla Sala di Guerra: tre giganteschi locali collegati da teleporter a vista, attivati in permanenza, ma sempre tre sale, separate come minimo da migliaia di anni-luce di spazio reale, da decenni di tempo reale, anche viaggiando col motore Hawking. Ogni volta che Morpurgo o Singh o uno degli altri si muoveva da una mappa olografica al pannello per tracciare diagrammi, percorreva distese smisurate di spazio e di tempo. Per distruggere l'Egemonia o chiunque altro, al Nucleo bastava pasticciare con i teleporter, permettere un lieve "errore" nella designazione del bersaglio.

"Al diavolo tutto quanto" si disse Meina Gladstone; varcò il portale, per fare visita a Paul Duré, nell'infermeria della Casa del Governo.

39

Le due stanze al primo piano della casa in Piazza di Spagna sono piccole, strette, alte di soffitto e — a parte una fioca lampada in ogni camera, quasi accesa da fantasmi in attesa di una visita di altri fantasmi — buie. Il mio letto si trova nella più piccola delle due, quella rivolta alla piazza, anche se stanotte dalla finestra si vedono solo le tenebre segnate da ombre più fitte e sottolineate dal continuo gorgoglio dell'invisibile fontana del Bernini.

Rintocchi di campana segnano le ore: provengono da una delle torri gemelle di Trinità dei Monti, la chiesa acquattata come un grosso gatto fulvo nel buio in cima alla scalinata; ogni volta che sento le campane suonare i brevi rintocchi delle prime ore del mattino, immagino mani spettrali che tirino funi marce. O forse mani marce che tirino spettrali funi di campane: non so quale immagine si adatti meglio alle macabre fantasie di questa notte infinita.

La febbre mi prende, stanotte, umida e pesante e soffocante come una spessa coperta zuppa di acqua. La pelle prima scotta, poi è viscida al tatto. Due volte ho avuto attacchi di tosse; al primo, Hunt è arrivato di corsa dal divano nell'altra stanza e ha sbarrato gli occhi alla vista del sangue che avevo vomitato sul copriletto di damasco; la seconda volta, ho cercato di soffocare meglio che potevo la tosse, sono andato barcollando alla catinella posta sul cassettone e vi ho sputato meno sangue nero e catarro scuro. Hunt non si è svegliato, la seconda volta.

Essere di nuovo qui. Fare tanta strada, per venire in queste stanze buie, in questo letto sinistro. Quasi ricordo di essermi svegliato qui, miracolosamente guarito; quasi ricordo il "vero" Severn e il dottor Clark e perfino la piccola signora Angeletti nell'altra stanza. Quel periodo di convalescenza dalla morte; quel periodo di comprensione di non essere Keats, di non trovarmi sulla vera Terra, di non essere nel secolo in cui avevo chiuso gli occhi la notte prima… di non essere umano.


A un'ora imprecisata, dopo le due, mi addormento e sogno. Un sogno che non ho mai fatto prima. Salgo lentamente nel piano dati, attraverso la sfera dati, entro nella megasfera e la percorro, per giungere infine in un luogo che non conosco, che non ho mai sognato… un luogo fatto di spazi infiniti, tranquilli, di colori indescrivibili, un luogo senza orizzonti, senza soffitti, senza pavimenti né aree solide definibili come terreno. Lo chiamo metasfera, perché intuisco immediatamente che questo livello di realtà consensuale comprende tutte le varietà e le stravaganze di sensazioni che ho sperimentato sulla Terra, tutte le analisi binarie e i piaceri intellettuali che ho sentito scorrere dal TecnoNucleo attraverso la sfera dati e, soprattutto, un senso di… di che cosa? Espansività? Libertà? Forse "potenziale" è la parola che cerco.

Sono da solo, nella metasfera. I colori scorrono intorno a me, sotto di me, attraverso me… a volte si dissolvono in vaghe tinte pastello, a volte si agglomerano in fantasie simili a nuvole e in altri momenti, più di rado, sembrano riunirsi in oggetti più solidi, sagome, forme distinte che forse sono e non sono di aspetto umanoide… li guardo come un bimbo guarderebbe le nuvole vedendovi elefanti, coccodrilli del Nilo e grandi cannoniere che navigano da ovest a est in un giorno di primavera nel Lake District.

Dopo un poco odo rumori: il gorgoglio irritante della fontana del Bernini nella piazza, fuori; colombi che svolazzano e tubano sugli aggetti sopra la finestra; Leigh Hunt che si lamenta piano nel sonno. Ma al di sopra e al di sotto di questi rumori, odo qualcosa di più furtivo, di meno reale, ma infinitamente più minaccioso.

Qualcosa di grosso viene da questa parte. Mi sforzo di vedere nella penombra pastello: qualcosa si muove appena al di là del campo visivo. So che quella cosa conosce il mio nome. So che tiene sul palmo la mia vita e nell'altro pugno la mia morte.

Non c'è nascondiglio, in questo spazio al di là dello spazio. Non posso fuggire. Il canto di sirena del dolore continua a salire e scendere, dal mondo che mi sono lasciato alle spalle… il dolore quotidiano di ogni persona in qualsiasi luogo, il dolore di chi soffre a causa della guerra appena scoppiata, il dolore specifico e focalizzato di chi è appeso al terribile albero dello Shrike e, peggio di tutto, il dolore che provo per i pellegrini e quegli altri la cui vita e i cui pensieri adesso condivido e a causa loro.

Varrebbe la pena che mi precipitassi ad accogliere quest'ombra di distruzione che si avvicina, se mi garantisse la libertà da questo canto di dolore.


— Severn! Severn!

Per un secondo penso di essere io a chiamare, proprio come ho già fatto in queste stanze, come ho chiamato Joseph Severn, la notte in cui dolore e febbre infuriavano oltre la mia capacità di sopportazione. E lui era sempre lì: Severn, con la sua lentezza goffa e benintenzionata, con quel sorriso gentile che spesso avrei voluto cancellargli dal viso con qualche meschinità o qualche commento sgarbato. È difficile essere benevoli, quando la morte si avvicina. Ho vissuto una vita di una certa generosità… perché allora il mio destino era di continuare in quel ruolo, quando ero io a soffrire, quando ero io a tossire e sputare pezzi di polmone in fazzoletti macchiati di sangue?

— Severn!

Non è la mia voce. Hunt mi scuote, mi chiama Severn. Capisco che è convinto di chiamare me. Gli scosto le mani e mi lascio sprofondare di nuovo nei cuscini. — Cosa c'è? Cosa succede?

— Si lamentava — dice l'aiutante di Gladstone. — Gridava.

— Un incubo. Tutto qui.

— Di solito i suoi sono più di semplici sogni — dice Hunt. Lancia un'occhiata alla stanzetta, illuminata ora dalla lampada che lui stesso ha portato. — Che posto orribile, Severn.

Cerco di sorridere. — Mi costa ventotto scellini al mese. Sette scudi. Un furto da briganti di strada.

Hunt si acciglia. La luce cruda fa sembrare più profonde del solito le sue rughe. — Stia a sentire, Severn — dice. — So che lei è un cìbrido. Gladstone mi ha detto che era la personalità ricuperata di un poeta di nome Keats. Ora è chiaro che tutto questo… — indica con gesto disperato la stanza, le ombre, i rettangoli delle finestre, l'alto letto — tutto questo ha a che fare con lei. Ma come? Quale gioco il Nucleo gioca, qui?

— Non lo so — rispondo sinceramente.

— Ma conosce questo posto?

— Oh, sì — dico con sentimento.

— Parli — supplica Hunt; e a questo punto è il suo ritegno a non chiedere, quanto l'ansia della supplica, a farmi decidere a dirgli tutto.

Gli parlo del poeta John Keats, della sua nascita nel 1795, della sua vita breve e spesso infelice, della morte per "consunzione" nel 1821, a Roma, lontano dagli amici e dall'unico amore. Gli parlo della mia programmata "guarigione" in questa stessa stanza, della mia decisione di assumere il nome di Joseph Severn — l'amico pittore rimasto con Keats fino alla fine — e del mio breve periodo nella Rete, ad ascoltare, a guardare, condannato a sognare la vita dei Pellegrini allo Shrike su Hyperion e di altri.

— Sogni? — dice Hunt. — Significa che anche adesso sogna quel che accade nella Rete?

— Sì. — Gli parlo dei sogni su Gladstone, della distruzione di Porta del Paradiso e di Bosco Divino, delle immagini confuse di Hyperion.

Hunt passeggia avanti e indietro nella stanzetta, getta sulle pareti scabre una lunga ombra. — Può mettersi in contatto con loro?

— Con quelli che sogno? Con Gladstone? — Rifletto un secondo. — No.

— Ne è certo?

Provo a spiegarglielo. — Non faccio parte dei sogni, Hunt. Non ho… voce, presenza… non posso mettermi in contatto con quelli che sogno.

— Ma a volte sogna ciò che pensano?

Mi rendo conto che è vero. Vicino alla verità. — Intuisco quel che sentono…

— Allora non può lasciare una traccia nella loro mente… nella loro memoria? Far sapere loro dove ci troviamo?

— No.

Hunt crolla sulla poltrona ai piedi del letto. A un tratto sembra vecchissimo.

— Leigh — dico — anche se potessi comunicare con Gladstone o con gli altri… ma non posso… quale vantaggio ne avremmo? Le ho detto che questa è una riproduzione della Vecchia Terra, nella Nube di Magellano. Anche alle velocità da balzo quantico del motore Hawking, passerebbero secoli, prima che qualcuno ci raggiungesse.

— Potremmo avvisarli — dice Hunt, con voce così stanca da sembrare quasi astiosa.

— Avvisarli di cosa? Tutti i peggiori incubi di Gladstone si stanno avverando. Crede che ora si fidi del Nucleo? Proprio per questo il Nucleo ha potuto rapirci in maniera così clamorosa. Gli eventi si susseguono troppo in fretta perché Gladstone o qualsiasi altro nell'Egemonia possa intervenire.

Hunt si strofina gli occhi, unisce le dita. Il suo sguardo non è molto amichevole. — Lei è davvero la personalità ricuperata di un poeta? Non rispondo.

— Reciti una poesia. Ne crei una.

Scuoto la testa. È tardi, tutt'e due siamo stanchi e spaventati, il cuore non si è ancora calmato per l'incubo che era più di un incubo. Non lascerò che Hunt mi faccia arrabbiare.

— Forza — dice. — Mi mostri di essere la nuova versione migliorata di Bill Keats.

— John Keats — lo correggo, calmo.

— Fa lo stesso. Andiamo, Severn. O John. O come diavolo dovrei chiamarla. Reciti una poesia.

— E va bene — dico, fissandolo negli occhi. — Ascolti.

C'era un ragazzo cattivo

ed era cattivo davvero

perché nulla faceva se non

scribacchiare poesie…

prese in mano

un calamaio

per far paio

con la penna

come benna

nell'altra

e lontano

con chiasso

corse via

ai monti

e fonti

e fantasmi

e poste

e streghe

e fosse,

e scrisse

col manto

se il tempo

era freddo

(ah, la gotta)

e senza

se il tempo

era caldo.

Oh, l'incanto

quando scelse

d'andar sempre dritto

a nord

a nord

d'andar sempre dritto

a nord!

— Non so — dice Hunt. — Non mi sembrano versi che avrebbe scritto un poeta la cui fama è durata mille anni.

Scrollai le spalle.

— Stanotte sognava Gladstone? È accaduto qualcosa che l'ha fatta piangere?

— No. Non sognavo Gladstone. Era un… un incubo vero, tanto per cambiare.

Hunt si alza, solleva la lampada, si prepara a portare via dalla stanza l'unica luce. Odo la fontana nella piazza, i colombi sul davanzale.

— Domani — dice Hunt — daremo un senso a tutto e cercheremo la via per uscirne. Se ci hanno teleportato qui, ci sarà un teleporter per andar via.

— Sì — dico, pur sapendo che non è vero.

— Buona notte. E basta incubi, va bene?

— Basta incubi — rispondo, pur sapendo che è ancor meno vero.


Moneta trascinò Kassad lontano dallo Shrike e con la mano protesa parve tenere a bada la creatura, mentre estraeva dalla cintura della dermotuta un toroide azzurro e lo agitava alle proprie spalle. A mezz'aria si librò un ovale dorato, ardente, alto due metri.

— Lasciami — borbottò Kassad. — Facciamola finita. — C'erano schizzi di sangue dove gli artigli dello Shrike avevano fatto grossi strappi nella tuta del colonnello. Il piede destro penzolava come reciso; Kassad non vi si poteva appoggiare e solo il fatto di essere avvinghiato allo Shrike, quasi trascinato in una folle parodia di danza, l'aveva mantenuto dritto mentre combattevano.

— Lasciami andare — ripeté Fedmahn Kassad.

— Zitto — disse Moneta; e poi, più dolcemente: — Zitto, amore mio. — Lo trascinò al di là dell'ovale di oro: sbucarono insieme in una luce accecante.

Pur sofferente e sfinito, Kassad fu abbacinato dallo spettacolo. Non erano su Hyperion, ne era sicuro. Una vasta pianura si estendeva fino a un orizzonte più lontano di quanto logica ed esperienza ammettessero. Un'erba corta e arancione, se erba era, cresceva sulle piane e sulle basse colline come peluria sulla schiena di un bruco immenso; cose che forse erano alberi si ergevano come statue di fibrocarbonio, tronchi e rami quasi simili a disegni di Escher nella loro barocca improbabilità, foglie che erano una confusione di ovali blu scuro e viola, lucide e protese verso un cielo di vivida luce.

Ma non luce del sole. Mentre Moneta lo portava via dal portale che si richiudeva (Kassad non lo considerò un teleporter, convinto che li avesse trasportati nel tempo, oltre che nello spazio), verso un folto di quegli alberi impossibili, il colonnello girò gli occhi al cielo e provò qualcosa di molto simile all'ammirazione. Il cielo risplendeva come quello di Hyperion in pieno giorno; risplendeva come il mezzodì in un viale di negozi su Lusus; risplendeva come a mezza estate sull'altopiano Tharsis nell'arido mondo natale di Kassad, Marte. Ma questa non era luce solare: il cielo era pieno di stelle e di costellazioni e di ammassi stellari e di una galassia così ricca di soli da sembrare quasi priva di chiazze buie fra le luci. Pareva di essere in un planetario con dieci proiettori, pensò Kassad. D'essere al centro della galassia.

Il centro della galassia.

Alcuni uomini e donne in dermotuta uscirono dall'ombra degli alberi-Escher e circondarono Kassad e Moneta. Uno degli uomini, un gigante anche per gli standard marziani di Kassad, guardò il colonnello, alzò la testa in direzione di Moneta; Kassad non udì niente, non percepì niente attraverso i ricevitori radio e a banda compatta della tuta, ma capì che i due comunicavano tra loro.

— Distenditi — disse Moneta, deponendo Kassad sull'erba arancione e vellutata. Il colonnello cercò di mettersi a sedere, di parlare, ma Moneta e il gigante lo spinsero supino, tanto che il campo visivo di Kassad fu pieno delle foglie viola che si agitavano lentamente e del cielo colmo di stelle.

L'uomo toccò di nuovo Kassad e la dermotuta si disattivò. Il colonnello cercò di alzarsi, cercò di coprirsi, accorgendosi di essere nudo davanti alla piccola folla radunata intorno a lui, ma la mano di Moneta lo tenne fermo. Tra il dolore e il senso di dislocazione, sentì vagamente che l'uomo gli toccava le braccia e il petto squarciati, gli passava la mano rivestita di argento lungo la gamba fino al punto in cui il tendine di Achille era stato reciso. Kassad provò un senso di freddo a ogni tocco del gigante, poi sentì la coscienza andare alla deriva come un pallone, innalzarsi molto al di sopra della piana rossiccia e delle alture ondulate, verso il compatto baldacchino di stelle dove una figura enorme aspettava, scura come una nube gonfia di pioggia torreggiante all'orizzonte, massiccia come montagna.

— Kassad — bisbigliò Moneta; e il colonnello smise di vagare. — Kassad — disse di nuovo, con le labbra contro la guancia di lui, mentre la tuta del colonnello si riattivava e si fondeva con la sua.

Fedmahn Kassad si alzò a sedere con lei. Scosse la testa, capì che era di nuovo rivestito di energia argento vivo e si tirò in piedi. Non sentì dolore. Il corpo gli formicolò in decine di punti, dove le ferite si erano rimarginate, i gravi tagli si erano richiusi. Kassad fuse mano e tuta, passò pelle su pelle, piegò il ginocchio e palpò il tallone, ma non trovò alcuna cicatrice al tatto.

Kassad si rivolse al gigante. — Grazie — disse, senza neppure sapere se l'uomo poteva udirlo.

Il gigante rispose con un cenno e si allontanò verso gli altri.

— È un… una sorta di medico — disse Moneta. — Un guaritore.

Kassad la udì appena, mentre concentrava l'attenzione sugli altri. Erano umani, lo sentiva nel cuore, che erano umani, ma presentavano diversità sconvolgenti: le loro dermotute non erano argentee come quelle di Kassad e di Moneta, ma spaziavano nell'arco di una ventina di colori, ciascuno delicato e organico come pelliccia di una creatura selvaggia vivente. L'anatomia variava come la colorazione: la mole e la robustezza da Shrike del guaritore, con la fronte massiccia e una cascata di flusso energetico fulvo che forse era una chioma… accanto a lui una femmina, non più grande di una bambina ma chiaramente donna matura, perfettamente proporzionata, con gambe muscolose, seni piccoli e ali da fata lunghe due metri che spuntavano dalla schiena… e ali non solo decorative, perché quando la brezza arruffò l'erba arancione della prateria, la donna prese una breve rincorsa, tese le braccia e con movimenti aggraziati si alzò in volo.

Dietro alcune donne di alta statura, con dermotuta azzurra e lunghe dita palmate, c'era un gruppo di uomini tozzi, muniti di visore e di armatura come marines della FORCE pronti a scendere in battaglia nello spazio; ma Kassad intuì che l'armatura faceva parte di loro. In alto, un gruppo di maschi alati si alzò sulle correnti di aria calda e fra di loro pulsarono minuscoli raggi di luce laser gialla, in una sorta di codice complicato. I laser sembravano provenire da un occhio al centro del petto.

Kassad scosse di nuovo la testa.

— Dobbiamo andare — disse Moneta. — Lo Shrike non può seguirci qui. I guerrieri hanno già molto a cui pensare, senza doversela vedere anche con questa particolare manifestazione del Signore della Sofferenza.

— Dove siamo? — domandò Kassad.

Con una ferula di oro presa dalla cintura Moneta materializzò un ovale violetto. — Lontano, nel futuro della razza umana. Uno dei nostri futuri. Qui le Tombe sono state create e lanciate a ritroso nel tempo.

Kassad si guardò intorno di nuovo. Qualcosa di molto grosso si mosse contro la distesa di stelle, oscurò migliaia di soli e gettò un'ombra per pochissimi secondi, prima di scomparire. Uomini e donne lanciarono in alto una breve occhiata e tornarono alle proprie faccende: mietere dagli alberi piccole creature, riunirsi in gruppi per esaminare vivide mappe di energia evocate dallo schiocco delle dita di uno degli uomini, volare verso l'orizzonte con la velocità di una freccia. Un individuo basso e largo, di sesso imprecisato, si era scavato la tana nel terreno e in quel momento era visibile solo come un'increspatura di terriccio che si muoveva in rapidi cerchi concentrici intorno al gruppo.

— Dove si trova, questo luogo? — domandò di nuovo Kassad. — Che cos'è?

A un tratto, inspiegabilmente, si sentì vicino alle lacrime, come se avesse girato un angolo sconosciuto e si fosse trovato a casa nel Progetto di Rilocazione di Tharsis, mentre la madre morta da tempo lo salutava a gesti dalla porta di casa e amici e parenti da tempo dimenticati lo aspettavano per una partita di scootball.

— Vieni — disse Moneta, e fu impossibile non notare il tono pressante. Lo tirò verso l'ovale luminoso. Kassad guardò gli altri e la volta stellata, finché non varcò il portale e la scena scomparve.

Emersero nel buio; occorse un brevissimo istante perché i filtri della dermotuta di Kassad compensassero la vista. Erano alla base del Monolito di Cristallo, nella Valle delle Tombe del Tempo. Era notte. In alto le nuvole ribollivano, infuriava una tempesta. Solo il bagliore pulsante delle Tombe illuminava la scena. Kassad provò una dolorosa sensazione di perdita per il luogo pulito e ben illuminato che avevano appena lasciato; poi si concentrò sulla scena.

Mezzo chilometro più avanti nella valle, c'erano Sol Weintraub e Brawne Lamia; Sol era chino sulla donna, distesa davanti alla Tomba di Giada. La polvere turbinava tutt'intorno, così fitta che i due non videro lo Shrike muoversi come un'altra ombra lungo il sentiero, davanti all'Obelisco, nella loro direzione.

Fedmahn Kassad uscì dalla facciata di marmo scuro del Monolito e scansò i frammenti di cristallo disseminati sul sentiero. Moneta lo teneva ancora per il braccio.

— Se combatti di nuovo — gli disse all'orecchio, con voce bassa e pressante — lo Shrike ti ucciderà.

— Sono miei amici — ribatté Kassad. L'equipaggiamento della FORCE e la tuta blindata ridotta a brandelli giacevano dove Moneta li aveva gettati, alcune ore prima. Kassad frugò nel Monolito finché non trovò il fucile di assalto e una bandoliera di granate; vide che il fucile era ancora in condizioni perfette, controllò le cariche e tolse le sicure, lasciò il Monolito e avanzò di buon passo a intercettare lo Shrike.


Mi sveglio al rumore di acqua corrente e per un secondo penso di essermi appisolato accanto alla cascata di Lodore durante la passeggiata con Brown. Ma quando apro gli occhi, il buio mi fa paura come mentre dormivo, l'acqua ha un suono malato, non la foga della cascata che Southey un giorno renderà famosa nella sua poesia, e mi sento malissimo, non solo per il mal di gola con cui sono tornato dalla gita, dopo che io e Brown abbiamo stupidamente scalato lo Skiddaw prima di colazione, ma mortalmente, paurosamente malato, con il corpo che mi duole per qualcosa di più profondo della febbre ricorrente, mentre catarro e fuoco mi gorgogliano nel petto e nel ventre.

Mi alzo e a tastoni vado alla finestra. Una luce fioca proviene da sotto la porta della stanza di Leigh Hunt: è andato a dormire senza spegnere la lampada. Non sarebbe stato male se l'avessi fatto anch'io, mi dico; ma ormai è tardi per accenderla e mi dirigo al rettangolo più chiaro delle tenebre esterne contro il buio più intenso della stanza.

L'aria è fresca e piena del profumo di pioggia. Sono stato svegliato dal tuono, capisco quando il lampo illumina i tetti di Roma. Non una luce brilla nella città. Sporgendomi un poco dalla finestra, vedo la scalinata sopra la piazza, lucida di pioggia, e le torri di Trinità dei Monti che si stagliano, nere, contro il bagliore dei lampi. Il vento che soffia giù per i ripidi scalini è freddo; ritorno al letto e mi avvolgo in una coperta, prima di trascinare alla finestra la poltrona e sedermi a guardare fuori e a pensare.

Ricordo mio fratello Tom, durante le ultime settimane e gli ultimi giorni, con il viso e il corpo contorti nel terribile sforzo di respirare. Ricordo mia madre e il pallore del suo viso, quasi risplendente nella penombra della stanza oscurata. Mia sorella e io avevamo il permesso di toccarle la mano appiccicaticcia e di baciarle le labbra calde per la febbre, prima di andare a letto. Ricordo che una volta, uscendo dalla stanza, mi pulii di nascosto le labbra, guardando di sottecchi mia sorella e gli altri per scoprire se avevano visto quell'atto peccaminoso.

Quando il dottor Clark e un chirurgo italiano aprirono il corpo di Keats meno di trenta ore dopo la morte, trovarono, come in seguito Severn scrisse a un amico, "… la consunzione peggiore possibile… i polmoni interamente distrutti… le cellule completamente scomparse". Né il dottor Clark, né il chirurgo italiano riuscivano a immaginare come Keats fosse vissuto negli ultimi due mesi.

Penso a questo, mentre siedo nella stanza buia e guardo la piazza buia, e intanto ascolto il gorgoglio nel petto e nella gola, sento il dolore simile a fuoco nelle viscere e quello, peggiore, delle grida nella mente: grida di Martin Sileno sull'albero, che soffre perché ha scritto la poesia che sono stato troppo fragile o codardo per terminare; grida di Fedmahn Kassad, che si prepara a morire sotto gli artigli dello Shrike; grida del Console, costretto una seconda volta a tradire; grida che sgorgano dalla gola di migliaia di Templari che piangono la morte del loro mondo e del confratello Het Masteen; grida di Brawne Lamia, che crede morto il suo amato, il mio gemello; grida di Paul Duré, che lotta contro le ustioni e lo choc del ricordo, fin troppo consapevole del crucimorfo in attesa sul suo petto; grida di Sol Weintraub, che batte a terra i pugni e chiama a gran voce la figlia, con gli strilli infantili di Rachel ancora nelle orecchie.

— Maledizione — dico piano, battendo il pugno sulla pietra e la calcina del davanzale. — Maledizione.

Dopo un poco, quando già il cielo impallidisce e promette l'alba, mi scosto dalla finestra e mi distendo sul letto, solo un momento per chiudere gli occhi.


Il governatore generale Theo Lane si svegliò al suono di musica e si guardò intorno: riconobbe, come se li avessi sognati, la vasca di liquido nutritivo e l'ambulatorio della nave. Indossava un morbido pigiama nero e aveva dormito sul lettino per le visite mediche. A poco a poco, con brandelli di ricordi, ricucì le ultime dodici ore: era stato tolto dalla vasca di cura, gli avevano applicato dei sensori, il Console e un altro uomo, chini su di lui, gli ponevano domande… e lui rispondeva come se fosse davvero cosciente; poi di nuovo sonno, sogni di Hyperion e delle sue città in fiamme. No, non sogni.

Theo si alzò a sedere, quasi galleggiò giù dal lettino, trovò i vestiti, puliti e ben piegati sopra un vicino ripiano, si vestì in fretta ascoltando la musica alzarsi e affievolirsi con un ritmo ossessionante che suggeriva che fosse dal vivo, non registrata.

Salì la breve scaletta del ponte di soggiorno e si bloccò, sorpreso: la nave era aperta, la loggia sporgeva all'esterno, il campo di contenimento non era in funzione. La gravità molto bassa, un quinto di quella di Hyperion, forse un sesto della gravità standard, bastava appena a tenerlo fermo sul ponte.

La vivida luce del sole entrava dalla porta spalancata della loggia dove il Console suonava l'antiquato strumento che aveva chiamato pianoforte. Theo riconobbe l'archeologo, Arundez, appoggiato allo stipite, con un bicchiere in mano. Il Console suonava un brano molto antico e molto complesso: le dita sfioravano la tastiera, simili a una macchia confusa di movimento. Theo si avvicinò, aprì bocca per mormorare qualcosa ad Arundez, si bloccò, stupito, a occhi spalancati.

Al di là della loggia, trenta metri più in basso, la vivida luce del sole illuminava un prato di un verde brillante che si estendeva fino all'orizzonte troppo vicino. Su quel prato, gruppetti di persone beatamente sedute e sdraiate ascoltavano il concerto improvvisato. Ma che persone!

C'erano individui alti e magri, simili agli esteti di Epsilon Eridani, pallidi e calvi nelle vesti azzurre e leggere; ma accanto a loro c'era una sorprendente moltitudine di tipi, una varietà mai vista nella Rete: umani coperti di pelliccia e di scaglie; umani con il corpo e gli occhi simili a quelli delle api, ricettori sfaccettati e antenne; umani fragili e sottili come statue di fil di ferro, con le grandi ali nere che sporgevano dalle spalle minuscole e si ripiegavano come mantelli intorno al corpo; umani chiaramente progettati per mondi ad alta gravità, bassi, tozzi e muscolosi come bufali, al cui confronto i lusiani sarebbero parsi fragili; umani con il corpo corto e le braccia lunghe, coperti di pelo arancione, che solo il viso chiaro e sensibile distingueva dagli oranghi della Vecchia Terra estinti da gran tempo; e altri umani che somigliavano più a lemuridi, ad aquile, a leoni, a orsi, ad antropoidi che a uomini. Eppure Theo intuì subito che erano esseri umani, per quanto sconvolgenti fossero le differenze: lo sguardo attento, la posa rilassata, cento altri sottili attributi umani… fino al modo in cui una madre dalle ali di farfalla cullava fra le braccia il figlio dalle ali di farfalla… tutto testimoniava una comune umanità che Theo non poteva negare.

Melio Arundez si girò, sorrise nel vedere l'espressione di Theo e gli bisbigliò: — Ouster.

Sordito, Theo Lane non poté far altro che scuotere la testa e ascoltare la musica. Gli Ouster erano dei barbari, non quelle creature belle e a volte eteree creature. I prigionieri Ouster su Bressia, per non parlare dei cadaveri dei fanti, erano stati tutti di un tipo… alti, sì, magri, sì, ma molto più simili allo standard della Rete di quanto non lo fosse quello spiegamento di varietà strabiliante.

Theo scosse di nuovo la testa, mentre il brano di musica si alzava in un crescendo e terminava con una nota definitiva. Le centinaia di creature sul prato all'esterno applaudirono, con rumore alto e morbido nell'aria rarefatta, poi si alzarono, si sgranchirono e si allontanarono in varie direzioni… alcuni scomparvero in fretta al di là dell'impressionante orizzonte troppo vicino, altri aprirono ali di otto metri e volarono via. Altri ancora si avvicinarono alla nave.

Il Console si alzò, vide Theo e sorrise. Gli strinse la spalla. — Theo, appena in tempo. Fra poco inizieremo i negoziati.

Theo Lane batté le palpebre. Tre Ouster atterrarono sulla loggia e ripiegarono dietro di sé le grandi ali. Ciascuno di loro aveva folta pelliccia maculata e striata in modo diverso, organica e convincente come quella di un animale selvatico.

— Delizioso come sempre — disse al Console l'Ouster più vicino. Aveva faccia da leone… naso largo, occhi di oro incorniciati da una gorgiera di pelo fulvo. — L'ultimo brano era la Fantasia in Re minore, op. 397, di Mozart, vero?

— Esatto — disse il Console. — Freeman Vanz, le presento Theo Lane, governatore generale del Protettorato dell'Egemonia Hyperion.

Lo sguardo da leone si spostò su Theo. — È un onore — disse Freeman Vanz, tendendo la mano irsuta.

Theo la strinse. — Piacere di conoscerla, signore — rispose. Si domandò se in realtà non fosse ancora nella vasca di ricupero e sognasse tutto. La luce del sole sul viso e la stretta decisa gli suggerirono altrimenti.

Freeman Vanz tornò a girarsi verso il Console. — A nome dell'Aggregato, la ringrazio per il concerto. Sono trascorsi troppi anni dall'ultima volta che l'abbiamo ascoltata suonare, amico mio. — Si guardò intorno. — Possiamo discutere qui o in uno dei complessi amministrativi, come preferisce.

Il Console esitò solo un secondo. — Noi siamo in tre, Freeman Vanz. Voi siete molti. Verremo da voi.

La testa leonina annuì e lanciò un'occhiata al cielo. — Vi manderemo una barca per la traversata — disse. Con gli altri due si accostò alla balaustra e saltò giù; cadde per diversi metri, prima di spiegare le ali complesse e prendere il volo verso l'orizzonte.

— Gesummio — mormorò Theo. Afferrò per il braccio il Console. — Dove siamo?

— Nello Sciame — rispose il Console, coprendo la tastiera dello Steinway. Li precedette all'interno, attese che Arundez si scostasse e ritirò la loggia.

— E cosa negozieremo? — domandò Theo.

Il Console si strofinò gli occhi. Aveva l'aspetto di chi ha dormito poco o niente nelle ultime dodici ore.

— Dipende dal prossimo messaggio del PFE Gladstone — disse; con un cenno indicò la piazzuola già annebbiata da colonne di dati. La nave stava decodificando una raffica astrotel.


Meina Gladstone entrò nella clinica della Casa del Governo e fu scortata da medici in attesa nel reparto dov'era ricoverato padre Paul Duré. — Come sta? — chiese al primario, medico personale del PFE.

— Ustioni di secondo grado su un terzo del corpo — rispose la dottoressa Irma Androneva. — Ha perduto le sopracciglia e parte dei capelli… non che ne avesse molti… e ha riportato alcune ustioni terziarie da radiazioni sul lato sinistro del viso e del corpo. Abbiamo completato la rigenerazione epidermica e gli abbiamo fatto iniezioni di stampo RNA. Non soffre ed è cosciente. C'è la faccenda del parassita crucimorfo che ha sul petto, ma non rappresenta un pericolo immediato per il paziente.

— Ustioni terziarie da radiazioni — disse Gladstone, fermandosi un momento appena fuori portata di orecchio dello scompartimento di Duré. — Bombe al plasma?

— Sì — rispose un altro medico che Gladstone non riconobbe. — Siamo sicuri che quest'uomo si è teleportato qui da Bosco Divino un paio di secondi prima che il collegamento fosse tagliato.

— Bene — disse Gladstone, accostandosi al materassino galleggiante sul quale Duré riposava. — Per favore, vorrei parlargli in privato.

I medici si scambiarono un'occhiata, chiamarono dal deposito a parete un'infermiera meccanica, uscirono e chiusero la porta del reparto.

— Padre Duré? — disse Gladstone. Lo riconobbe dalle olografie e dalle descrizioni di Severn. Ora il prete aveva il viso arrossato e chiazzato, luccicava per il gel di rigenerazione e per il velo di analgesico. Ma era sempre un uomo di notevole presenza.

— Signora — mormorò Duré; cercò di alzarsi a sedere.

Gladstone lo bloccò con gentilezza, posandogli la mano sulla spalla. — Stia comodo — disse. — Si sente di raccontarmi cos'è accaduto?

Duré annuì. C'erano lacrime, negli occhi dell'anziano gesuita. — La Vera Voce dell'Albero Mondo non credeva che avrebbero attaccato sul serio — mormorò, rauco. — Sek Hardeen pensava che i Templari avessero una sorta di accordo con gli Ouster… una sorta di compromesso. Ma gli Ouster hanno attaccato. Lance tattiche, ordigni al plasma, esplosivi nucleari, credo…

— Sì — disse Gladstone. — Dalla Sala di Guerra abbiamo seguito l'attacco. Devo sapere tutto, padre Duré. Tutto, a partire dal momento in cui su Hyperion lei è entrato nella Tomba Grotta.

Padre Duré concentrò lo sguardo sul viso della donna. — Ne è al corrente?

— Sì. E sono informata di molte altre cose accadute fino a quel momento. Ma devo saperne di più. Molto di più.

Duré chiuse gli occhi. — Il labirinto…

— Prego?

— Il labirinto — ripeté il prete in tono più alto. Si schiarì la voce e le parlò del viaggio nei tunnel pieni di cadaveri, della traslazione in una nave della FORCE, dell'incontro con Severn su Pacem.

— Ed è certo che Severn fosse diretto qui? Alla Casa del Governo? — domandò Gladstone.

— Sì. Severn e l'uomo che lei ha mandato a chiamarlo… Hunt. Tutt'e due intendevano teieportarsi qui.

Gladstone annuì e con cautela toccò una zona non ustionata della spalla del prete. — Padre, qui gli eventi si susseguono molto in fretta. Severn è scomparso, e anche Hunt. Ho bisogno di consigli a proposito di Hyperion. Vuole restare con me?

Per un momento Duré parve confuso. — Devo tornare. Tornare su Hyperion, signora. Sol e gli altri mi aspettano.

— Capisco — disse Gladstone, in tono consolatorio. — Appena sarà possibile andare su Hyperion, affretterò il suo ritorno. In questo momento però la Rete è sotto attacco. Milioni di persone muoiono o corrono il rischio di morire. Mi serve il suo aiuto, padre. Posso contare su di lei, nel frattempo?

Con un sospiro Paul Duré si lasciò ricadere. — Sì, signora. Ma non ho idea di come…

Bussarono piano; Sedeptra Akasi entrò e porse a Gladstone la velina di un messaggio. Il PFE sorrise. — Ho detto che gli eventi si susseguivano rapidamente, padre. Ecco l'ultimo. Un messaggio da Pacem: il Collegio dei Cardinali si è riunito nella Cappella Sistina… — Gladstone inarcò il sopracciglio. — Non ricordo, padre: è proprio la vera Cappella Sistina?

— Sì. La Chiesa l'ha smontata pietra per pietra, affresco per affresco, e l'ha trasportata su Pacem, dopo il Grande Errore.

Gladstone guardò la velina. — … si è riunito nella Cappella Sistina e ha eletto un nuovo pontefice.

— Così presto? — mormorò Paul Duré. Chiuse gli occhi. — Immagino che sentissero la necessità di fare in fretta. Pacem è a soli dieci giorni dall'ondata di invasione degli Ouster. Però, arrivare a una decisione così rapidamente…

— Le interessa sapere chi è il nuovo Papa?

— Il cardinale Antonio Guarducci o il cardinale Agostino Ruddell, penso. Nessuno degli altri otterrebbe la maggioranza, al momento.

— No — disse Gladstone. — Secondo il messaggio del vescovo Edouard della Curia Romana…

Vescovo Edouard! Mi scusi, signora. Continui, prego.

— Secondo il vescovo Edouard, il Collegio dei Cardinali ha eletto un prelato al di sotto del rango di monsignore per la prima volta nella storia della Chiesa. Qui si dice che il nuovo Papa è un prete gesuita… un certo padre Paul Duré.

Duré balzò a sedere, nonostante le ustioni. — Cosa? — L'incredulità era totale.

Gladstone gli passò la velina.

Duré fissò il foglio. — Impossibile. Non hanno mai eletto papa chi non era almeno monsignore, se non simbolicamente, e anche quello fu un caso unico… si trattava di San Belvedere, dopo il Grande Errore e il Miracolo del… no, no, è impossibile.

— Il vescovo Edouard ha chiamato, a quanto mi dicono. Faremo passare qui la chiamata immediatamente, padre. O dovrei dire, Santità? — Non c'era ironia, nel tono di Gladstone.

Duré alzò gli occhi, troppo stordito per parlare.

— Le faccio passare la chiamata — disse Gladstone. — Faremo in modo che lei torni su Pacem al più presto possibile, Santità, ma le sarei grata se si mantenesse in contatto con me. Ho bisogno del suo consiglio.

Duré annuì e tornò a guardare la velina. Sulla consolle sopra il lettino, il telefono cominciò a lampeggiare.

Gladstone uscì nel corridoio, informò i medici delle ultime novità, contattò la Sicurezza per approvare il permesso teleporter per il vescovo Edouard o altri rappresentanti ufficiali della Chiesa che giungessero da Pacem, e si teleportò nell'ala residenziale. Sedeptra le ricordò che entro otto minuti il consiglio si sarebbe nuovamente riunito nella Sala di Guerra. Gladstone annuì, mandò via l'aiutante e si accostò al camerino astrotel nascosto in una nicchia della parete. Attivò i campi sonici di sicurezza e batté sul diskey di trasmissione il codice della nave del Console. Ogni ricevitore astrotel della Rete, della Periferia, della galassia e dell'universo avrebbe rilevato la raffica di tachioni, ma solo la nave del Console l'avrebbe decodificata. Almeno, così Gladstone si augurava.

La luce spia dell'olocamera si accese. — Sulla base della raffica inviata automaticamente dalla sua nave, presumo che lei abbia deciso di incontrarsi con gli Ouster e che loro gliel'abbiano permesso — disse Gladstone rivolta direttamente all'olocamera. — Presumo pure che lei sia sopravvissuto all'incontro.

Inspirò a fondo. — Nell'interesse dell'Egemonia, le ho chiesto di sacrificare molto, negli ultimi anni. Ora le chiedo, nell'interesse dell'umanità intera, di scoprire quanto segue:

"Primo. Perché gli Ouster attaccano e distruggono i mondi della Rete? Lei era convinto, come Byron Lamia e come me, che volessero solo Hyperion. Perché hanno cambiato idea?

"Secondo. Dove si trova il TecnoNucleo? Devo saperlo, se dobbiamo combattere contro di loro. Gli Ouster hanno dimenticato il nostro comune nemico, il Nucleo?

"Terzo. Cosa pretendono per un cessate il fuoco? Sono disposta a grossi sacrifici, per liberarci del dominio del Nucleo. Ma le stragi devono cessare!

"Quarto. Il Leader dell'Aggregato Sciame è disposto a incontrarmi di persona? Mi teleporterò nel sistema di Hyperion, se occorre. Gran parte della nostra flotta ha lasciato la zona, ma c'è ancora una Balzonave e la sua scorta, con la sfera di anomalia. Il Leader deve decidere in fretta, perché la FORCE vuole distruggere la sfera e allora Hyperion si troverà a tre anni di debito temporale dalla Rete.

"Quinto e ultimo. Il Leader dello Sciame dev'essere informato che il Nucleo ci chiede di adoperare un ordigno simile alla neuroverga per controbattere l'invasione Ouster. Molti leader della FORCE sono di parere favorevole. Il tempo stringe. Non… ripeto, non… lasceremo che gli Ouster invadano la Rete.

"Ora tocca a lei. Per favore, notifichi la ricezione di questo messaggio e m'informi via astrotel dell'inizio dei negoziati."

Gladstone fissò il disco della telecamera, come se potesse trasmettere attraverso gli anni-luce la forza della propria personalità e della propria sincerità. — La supplico, abbia a cuore la storia della razza umana. Porti a termine questo incarico.


La raffica del messaggio astrotel fu seguita da due minuti di immagini convulse che mostravano la morte di Porta del Paradiso e di Bosco Divino. Svanite le olografie, il Console, Melio Arundez e Theo Lane rimasero in silenzio.

— Risposta? — domandò la nave.

Il Console si schiarì la voce. — Notifica la ricezione del messaggio — disse. — Invia le nostre coordinate. — Guardò, dall'altra parte della piazzuola, gli altri due. — Signori?

Arundez scosse la testa come se volesse snebbiarsi il cervello. — È chiaro che lei è già stato qui… nello Sciame Ouster.

— Sì — disse il Console. — Dopo Bressia… dopo che mia moglie e mio figlio… Dopo Bressia, qualche tempo fa, mi sono incontrato con questo Sciame per negoziati estensivi.

— Rappresentava l'Egemonia? — domandò Theo. Il suo viso sembrava molto più vecchio, segnato da rughe di preoccupazione.

— Rappresentavo il partito della senatrice Gladstone. Prima che fosse eletta PFE. Mi spiegarono che c'era la possibilità di modificare i risultati di una lotta di potere all'interno del TecnoNucleo, se si portava Hyperion nel Protettorato. Il modo migliore era quello di far trapelare informazioni agli Ouster… informazioni che li avrebbero spinti ad attaccare Hyperion, per cui sarebbe stata necessaria la presenza della flotta dell'Egemonia.

— E lei ha ubbidito? — La voce di Arundez non mostrò emozione, anche se la moglie e i figli dell'archeologo stavano su Vettore Rinascimento, adesso a meno di ottanta ore dall'invasione.

Il Console si lasciò ricadere contro i cuscini. — No. Rivelai agli Ouster l'intero piano. Loro mi rimandarono nella Rete come agente doppio. Progettarono di impadronirsi di Hyperion, ma nel momento scelto da loro.

Theo strinse i pugni. — Tutti quegli anni al consolato…

— Aspettavo l'ordine degli Ouster — disse il Console, in tono piatto. — Avevano un congegno che avrebbe fatto collassare i campi anti-entropici intorno alle Tombe del Tempo. Che avrebbe aperto le Tombe, al momento opportuno. Che avrebbe permesso allo Shrike di liberarsi dei legami.

— Così sono stati gli Ouster — disse Theo.

— No, sono stato io. Ho tradito gli Ouster, come avevo tradito Gladstone e l'Egemonia. Uccisi la donna Ouster che calibrava il congegno… e i tre tecnici che l'aiutavano… e lo misi in funzione. I campi anti-entropici collassarono. Fu deciso l'ultimo pellegrinaggio. Lo Shrike è libero.

Theo fissò il suo mentore di un tempo. C'era più perplessità che collera, negli occhi verdi del governatore generale. — Perché? Perché l'ha fatto?

Il Console parlò, brevemente, in tono spassionato, di Siri e di Patto-Maui e della rivolta contro l'Egemonia, una rivolta che non terminò quando lei e il suo innamorato, il nonno del Console, morirono.

Arundez si alzò dalla piazzuola e andò alla finestra di fronte alla loggia. La luce solare inondò le sue gambe e il tappeto blu scuro. — Gli Ouster sanno cosa ha fatto?

— Lo sanno. L'ho raccontato a Freeman Vanz e agli altri, quando siamo giunti qui.

Theo si mise a camminare avanti e indietro. — Quindi l'incontro al quale parteciperemo potrebbe essere un processo? Il Console sorrise. — O un'esecuzione.

Theo si fermò, mani strette a pugno. — E Gladstone lo sapeva, quando le ha chiesto di tornare qui?

— Sì.

Theo distolse lo sguardo. — Non so se voglio che lei sia messo a morte oppure no.

— Non lo so neppure io, Theo — disse il Console.

Melio Arundez girò le spalle alla finestra. — Vanz non ha detto che avrebbero mandato una barca per portarci da loro?

Qualcosa, nel tono, spinse gli altri due a guardare dalla finestra. Il mondo su cui erano atterrati era un asteroide di media grandezza, circondato da un campo di contenimento classe-10 e terraformato in sfera da generazioni di vento e di acqua e di accurata ristrutturazione. Il sole di Hyperion tramontava al di là dell'orizzonte troppo vicino e per quei pochi chilometri l'erba scialba s'increspava sotto una brezza capricciosa. Ai piedi della nave, un ampio torrente, o uno stretto fiume, attraversava pigramente i pascoli, si avvicinava all'orizzonte e poi sembrava scorrere verso l'alto in un fiume mutato in cascata, serpeggiare attraverso il lontano campo di contenimento e il nero dello spazio, prima di rimpicciolire in una linea sottile quasi invisibile a occhio nudo.

Una barca scendeva quella cascata infinitamente alta e si avvicinava alla superficie del piccolo mondo. A prua e a poppa c'erano figure umanoidi.

— Cristo! — mormorò Theo.

— Meglio farci trovare pronti — disse il Console. — Quella è la nostra scorta.

Fuori, il sole tramontò con rapidità impressionante; gli ultimi raggi attraversarono la cortina di acqua, mezzo chilometro più in alto del terreno in ombra, e incendiarono il cielo color oltremare, con arcobaleni di colore e di solidità quasi spaventosi.

40

A metà mattina Hunt mi sveglia. Arriva portando un vassoio con la colazione e ha negli occhi scuri uno sguardo spaventato.

Gli domando: — Dove ha preso il cibo?

— C'è una sorta di piccolo ristorante nella sala anteriore al piano di sotto. Il cibo era pronto, caldo, ma non c'era nessuno.

Annuisco. — La piccola trattoria della signora Angeletti. Non è una brava cuoca. — Ricordo la preoccupazione del dottor Clark per la mia dieta: era convinto che la consunzione si fosse installata nello stomaco e mi teneva a regime da inedia, latte e pane e un po' di pesce di tanto in tanto. È strano, come molti membri sofferenti della razza umana abbiano affrontato l'eternità ossessionati dalle proprie viscere, dalle piaghe di decubito o dalla povertà della dieta.

Guardo di nuovo Hunt in viso. — Cosa c'è?

L'aiutante di Gladstone è andato alla finestra e pare assorto nella contemplazione della piazza. Odo gorgogliare la maledetta fontana del Bernini. — Stavo per uscire, mentre lei dormiva — dice lentamente Hunt — casomai ci fosse in giro qualcuno. O un telefono, o un teleporter.

— Certo.

— Avevo appena varcato… la… — Si girò, si umettò le labbra. — C'è qualcosa, là fuori, Severn. Nella via alla base della scalinata. Non ne sono sicuro, ma credo che sia…

— Lo Shrike — termino per lui.

Hunt annuisce. — L'ha visto?

— No, ma non sono sorpreso.

— È… è orribile, Severn. Ha qualcosa che mi fa accapponare la pelle. Là… Lo si scorge di sfuggita, nell'ombra dell'altra ala della scalinata.

Comincio ad alzarmi, ma un improvviso attacco di tosse e la sensazione del catarro che risale nel petto e in gola mi obbliga a lasciarmi ricadere sui cuscini. — So quale aspetto ha, Hunt. Non si preoccupi, non è qui per lei. — La mia voce esprime più fiducia di quanta non ne provi.

— Per lei?

— Non penso — rispondo, fra un ansito e l'altro. — Credo sia qui solo per accertarsi che non tenti di andarmene… di trovare un altro luogo dove morire.

Hunt torna accanto al letto. — Non morirà davvero, Severn?

Non rispondo.

Si siede sulla sedia a schienale dritto posta accanto al letto e prende una tazza di tè ormai tiepido. — Se lei muore, cosa mi accadrà?

— Non lo so — rispondo onestamente. — Se muoio, non so nemmeno cosa accadrà a me.


C'è un certo solipsismo nelle malattie gravi che richiedono tutta la propria attenzione con la certezza con cui un buco nero astronomico afferra qualsiasi cosa abbia la sfortuna di cadere al di qua del suo raggio critico. Il giorno si trascina; sono acutamente consapevole del movimento della luce del sole sulla parete scabra, delle lenzuola sotto le mani, della febbre che si alza in me come nausea e si estingue nella fornace della mente, e soprattutto, del dolore. Non il dolore mio, adesso, perché qualche ora o giorno di costrizione in gola e di bruciore nel petto sono sopportabili, quasi benvenuti, come un vecchio amico seccante incontrato in una città straniera; ma il dolore degli altri… di tutti gli altri. Mi colpisce la mente come fracasso di ardesia che si frantumi, come maglio sull'incudine; e non c'è modo di sfuggirgli.

Il mio cervello lo riceve come frastuono e lo ristruttura come poesia. Tutto il giorno e tutta la notte il dolore dell'universo fluisce in me e vaga per i corridoi febbricitanti della mia mente, sotto forma di versi, immagini, immagini in versi, la danza intricata e infinita del linguaggio, ora calmante come un a solo di flauto, ora acuta e stridula e irritante come una decina di orchestre, ma sempre versi, sempre poesia.

A un certo punto, verso il tramonto, mi desto dal dormiveglia e così mando in frantumi il sogno dello scontro fra il colonnello Kassad e lo Shrike per la vita di Sol e di Brawne Lamia. Vedo Hunt seduto alla finestra: la luce della sera dà al suo viso la sfumatura della terracotta.

— È ancora lì? — domando, con voce simile al raschiare di lima su pietra.

Hunt sobbalza, poi si gira verso di me, con un sorriso di scusa e il primo rossore che abbia mai visto su quei lineamenti severi. — Lo Shrike? — dice. — Non so. Da un po' di tempo non l'ho più visto. Ma ne sento la presenza! — Mi guarda. — Come sta?

— Da moribondo. — Subito mi pento dell'indulgenza di questa risposta impertinente, per quanto esatta, quando vedo che addolora Hunt. — Non è niente — dico, in tono quasi gioviale. — L'ho già fatto. Non è come se fossi io a morire. Esisto come personalità nel profondo del TecnoNucleo. Muore solo questo corpo. Il cìbrido di John Keats. Questa ventisettenne illusione di carne e sangue e associazioni presi in prestito.

Hunt viene a sedersi sul bordo del letto. Mi accorgo con sorpresa che durante il giorno ha cambiato le lenzuola e sostituito con il suo il copriletto macchiato di sangue. — La sua personalità è una IA nel Nucleo — dice. — Quindi lei deve essere in grado di accedere alla sfera dati.

Scuoto la testa, troppo stanco per discutere.

— Quando è stato rapito dai Philomel, l'abbiamo rintracciato tramite la sua via di accesso alla sfera dati — insiste. — Non deve contattare Gladstone di persona. Le basta lasciare un messaggio dove la Sicurezza può trovarlo.

— No — replico, con voce stridula. — Il Nucleo non vuole.

— Glielo impediscono? La bloccano?

— Non ancora. Ma lo farebbero. — Parlo staccando le parole, fra un ansito e l'altro, disteso come un fragile uovo nel nido. A un tratto ricordo un biglietto inviato alla cara Fanny, poco dopo una grave emorragia, ma quasi un anno prima che il male mi uccidesse. Le avevo scritto: "Se dovessi morire" ho detto a me stesso "non mi sono lasciato alle spalle opere immortali… nulla per rendere orgogliosi del mio ricordo gli amici… ma ho amato il principio della beltà in tutte le cose e, se avessi avuto tempo, avrei fatto in modo di essere ricordato". Queste parole mi colpiscono ora come futili, egocentriche, sciocche e ingenue… eppure ci credo ancora disperatamente. Se avessi avuto tempo… i mesi trascorsi su Esperance, fingendo di essere un pittore visuale; i giorni sprecati con Gladstone nelle sale del governo, quando invece avrei potuto scrivere…

— Come lo sa, se non prova? — domanda Hunt.

— Cosa? — replico. Il semplice sforzo di due sillabe mi fa tornare la tosse e lo spasmo termina solo quando sputo sfere semisolide di sangue nella bacinella che Hunt si è affrettato a portarmi. Mi distendo, cerco di mettere a fuoco il viso di Hunt. Comincia a farsi buio, nella stanzetta, e nessuno di noi due ha acceso la lampada. Fuori, la fontana gorgoglia rumorosamente.

— Cosa? — ripeto, cercando di restare lì, anche se il sonno e i sogni mi tirano via. — Se non provo cosa?

— A lasciare un messaggio tramite la sfera dati — mormora lui. — A mettersi in contatto con qualcuno.

— E quale messaggio lascerei, Leigh? — domando. E la prima volta che lo chiamo per nome.

— Dove ci troviamo. Come il Nucleo ci ha rapito. Qualsiasi cosa.

— E va bene — dico, chiudendo gli occhi. — Farò il tentativo. Non credo che me lo permetteranno, ma prometto di tentare.

Sento che Hunt mi tiene la mano. Anche attraverso le maree vincenti dello sfinimento, l'improvviso contatto umano basta a farmi venire le lacrime agli occhi.

Farò il tentativo. Prima di arrendermi ai sogni o alla morte, farò il tentativo.


Il colonnello Fedmahn Kassad mandò il grido di battaglia della FORCE e si lanciò alla carica nella tempesta di sabbia per intercettare lo Shrike, prima che il mostro percorresse gli ultimi trenta metri che lo separavano dal punto in cui Sol Weintraub era accovacciato accanto a Brawne Lamia.

Lo Shrike esitò, girò la testa, con un bagliore rossastro degli occhi. Kassad armò il fucile di assalto e si lanciò a rompicollo giù per il pendio.

Lo Shrike traslò!

Kassad vide la traslazione nel tempo dello Shrike sotto forma di un lento offuscamento; notò, pur guardando l'avversario, che nella valle ogni movimento era cessato, che la sabbia restava immobile a mezz'aria, che la luce delle Tombe assumeva la solidità dell'ambra. Chissà come, la dermotuta di Kassad traslò con lo Shrike, lo seguì nei suoi movimenti nel tempo.

La creatura alzò di colpo la testa, attenta ora; protese le quattro braccia, come lame che scattino da un coltello a serramanico; con uno schiocco aprì le dita in un tagliente benvenuto.

Con una scivolata Kassad si arrestò a dieci metri dalla creatura e attivò il fucile di assalto; ridusse in scorie vetrificate la sabbia sotto lo Shrike, in una esplosione di raggio compatto alla massima potenza.

Lo Shrike fiammeggiò, mentre il carapace e le gambe simili a statue di acciaio riflettevano la luce infernale che l'avvolgeva. Poi tre metri di mostro iniziarono a sprofondare nella sabbia che gorgogliava in un lago di vetro fuso. Kassad gridò di trionfo e si avvicinò, tenendo sotto il raggio lo Shrike e il terreno, nello stesso modo in cui, da ragazzo, nei bassifondi di Tharsis, aveva spruzzato gli amici usando tubi di gomma per innaffiare, rubati.

Lo Shrike affondò. Le braccia smanacciarono sabbia e roccia, cercarono un appiglio. Volarono scintille. Lo Shrike traslò, con il tempo che scorreva all'indietro come un ologramma rovesciato, ma Kassad traslò con lui, rendendosi conto che Moneta lo aiutava, che la tuta della donna lavorava per la sua ma lo guidava attraverso il tempo; e poi innaffiò di nuovo il mostro, con un calore concentrato superiore a quello della superficie del sole, fuse la sabbia sotto di lui, guardò le rocce esplodere in fiamme.

Sprofondando in quel calderone di fiamme e di roccia fusa, lo Shrike gettò indietro la testa, spalancò l'ampio orifizio della bocca e mugghiò.

Kassad smise quasi di sparare, per la sorpresa. L'urlo dello Shrike risuonò come ruggito di drago misto allo scoppio di un razzo a fusione. Lo stridio legò i denti a Kassad, vibrò contro le pareti della valle, scagliò al suolo la sabbia sospesa a mezz'aria. Kassad commutò il fucile sul tiro solido ad alta velocità e scagliò diecimila micro-fléchettes contro la faccia della creatura.

Lo Shrike traslò, di anni, secondo la vertiginosa sensazione nelle ossa e nel cervello di Kassad; non furono più nella valle, ma a bordo di un carro a vela che procedeva rumorosamente nel mare di Erba. Il tempo tornò; lo Shrike balzò avanti, con le braccia metalliche sgocciolanti vetro fuso, e afferrò il fucile di assalto di Kassad. Il colonnello non mollò l'arma e i due barcollarono in tondo in una goffa danza: lo Shrike vibrava colpi, col secondo paio di braccia e una gamba ornata di punte di acciaio, Kassad spiccava balzi per schivare, sempre aggrappato disperatamente al fucile.

Si trovavano in una sorta di piccolo scompartimento. Moneta era presente sotto forma di un'ombra nell'angolo; un'altra figura, un uomo alto e incappucciato, si mosse a velocità ultralenta per evitare l'improvvisa confusione di braccia e di lame in uno spazio ristretto. Attraverso i filtri della dermotuta, Kassad vide nel locale il campo di energia, azzurro e violetto, di un erg legante: l'erg pulsò e crebbe, poi si ritrasse dalla violenza temporale dei campi organici anti-entropici dello Shrike.

Lo Shrike menò un fendente che attraversò la tuta di Kassad fino a raggiungere carne e muscoli. Il sangue riempì di schizzi le pareti. Kassad infilò a forza la canna del fucile nelle fauci della creatura e sparò. Una nube di duemila fléchettes ad alta velocità piegò all'indietro la testa dello Shrike come se fosse su una molla e sbatté contro la parete il corpo della creatura. Pur cadendo, con le punte della gamba il mostro colpì Kassad alla coscia e mandò una spirale di sangue a schizzare finestre e pareti della cabina del carro a vela.

Lo Shrike traslò.

A denti stretti, sentendo la dermotuta tamponare e suturare automaticamente le ferite, Kassad rivolse un'occhiata a Moneta, annuì una volta e seguì la creatura attraverso il tempo e lo spazio.


Sol Weintraub e Brawne Lamia si guardarono alle spalle, quando un terribile ciclone di calore e di luce parve turbinare e morire. Sol riparò col proprio corpo la donna, mentre vetro fuso schizzava da tutte le parti e cadeva sfrigolando sulla sabbia fredda. Poi il frastuono svanì, la tempesta di sabbia oscurò il laghetto ribollente dove quella violenza si era scatenata e il vento sbatacchiò il mantello di Sol intorno a tutt'e due.

— Cosa diavolo era? — ansimò Brawne.

Sol scosse la testa e l'aiutò a mettersi in piedi nel vento ruggente. — Le Tombe si aprono! — gridò. — Un'esplosione, forse.

Brawne barcollò, trovò l'equilibrio, toccò il braccio di Sol. — Rachel? — domandò ad alta voce per superare il frastuono.

Sol serrò i pugni. Aveva la barba già piena di sabbia. — Lo Shrike… l'ha presa… non mi ha fatto entrare nella Sfinge. Mi aspettava!

Brawne guardò a occhi socchiusi la Sfinge, visibile solo come un profilo risplendente nel furioso turbinio di polvere.

— Stai bene? — le gridò Sol.

— Come?

— Stai… bene?

Brawne annuì con aria assente e si toccò la testa. Lo shunt neurale era sparito. Non solo l'osceno cordone dello Shrike, ma anche lo shunt che Johnny le aveva applicato con un'operazione chirurgica mentre si tenevano nascosti nell'Alveare Sedimento, molto tempo prima. Spariti per sempre shunt e iterazione Schrön, non aveva modo di rimettersi in contatto con Johnny. Ricordò che Ummon aveva distrutto la personalità di Johnny, l'aveva sbriciolata e assorbita, con la stessa fatica con cui lei avrebbe schiacciato un insetto.

— Sto bene — rispose, ma si accasciò, tanto che Sol fu costretto a sorreggerla per impedirle di cadere.

Sol gridò qualcosa. Brawne cercò di concentrarsi, di mettere a fuoco il luogo e il momento. Dopo la megasfera, la realtà le pareva piccola e limitata.

— …non possiamo parlare, qui — gridava Sol. — …tornare nella Sfinge.

Brawne scosse la testa. Indicò le pareti rocciose sul lato nord della valle dove l'immenso albero dello Shrike era visibile fra nuvole di polvere. — Il poeta… Sileno… è là. L'ho visto!

— Non possiamo fare niente per lui! — gridò Sol, usando il mantello per ripararsi e ripararla. La sabbia vermiglia tamburellò contro la fibroplastica col rumore di fléchettes su di una corazza.

— Forse possiamo — gridò Brawne, sentendo il calore di Sol, mentre lui la riparava tra le braccia. Per un secondo immaginò di potersi rannicchiare contro di lui con la stessa facilità di Rachel e dormire, dormire. — Ho visto… delle connessioni… quando uscivo dalla megasfera! — continuò, superando il ruggito del vento. — L'albero di spine è collegato in qualche modo al Palazzo dello Shrike! Se riusciamo ad andarci, a trovare il modo di liberare Sileno…

Sol scosse la testa. — Non posso lasciare la Sfinge. Rachel…

Brawne capì. Con la mano toccò la guancia dell'anziano studioso, poi gli si accostò, sentì contro la guancia la barba ispida. — Le Tombe si aprono — disse. — Non so quando avremo un'altra possibilità.

Sol aveva gli occhi bagnati di lacrime. — Lo so. Vorrei aiutarti. Ma non posso lasciare la Sfinge, nel caso… nel caso che lei…

— Capisco — disse Brawne. — Torna laggiù. Io vado al Palazzo dello Shrike per vedere se riesco a capire come è collegato all'albero di spine.

Sol annuì, a disagio. — Hai detto di essere stata nella megasfera — disse. — Cos'hai visto? Cos'hai appreso? La personalità Keats… è forse…

— Ne parleremo quanto torno — disse Brawne, scostandosi di un passo, in modo da guardarlo meglio. La faccia di Sol era una maschera di sofferenza: la faccia di un padre che ha perduto il figlio.

— Torna alla Sfinge — disse Brawne, ferma. — Ci vediamo lì, fra un'ora o anche meno.

Sol si lisciò la barba. — Sono spariti tutti, tranne te e me, Brawne. Non dovremmo separarci…

— Sì, per un poco — replicò Brawne, allontanandosi da lui, cosicché il vento le frustò la stoffa dei calzoni e della giacca. — Ci vediamo fra un'ora o meno. — S'incamminò rapidamente, prima di cedere all'impulso di rifugiarsi di nuovo nel tepore delle braccia di Sol. Il vento era più intenso, soffiava dritto giù dall'imboccatura della valle, per cui la sabbia colpiva negli occhi Brawne e le martellava le guance. La donna riuscì bene o male a seguire il sentiero tenendo la testa bassa. Solo il bagliore vivido e pulsante delle Tombe le illuminava la strada. Brawne sentì le maree del tempo tirarla come se l'aggredissero fisicamente.

Minuti dopo, si rese vagamente conto di avere oltrepassato l'Obelisco e di trovarsi sul sentiero cosparso di detriti del Monolito di Cristallo. Sol e la Sfinge erano già persi alle sue spalle, la Tomba di Giada era un semplice bagliore verde chiaro nell'incubo di polvere e di vento.

Brawne si fermò, ondeggiò un poco quando le raffiche e le maree del tempo la tirarono. C'era più di mezzo chilometro per arrivare al Palazzo dello Shrike. Anche se, mentre lasciava la megasfera, aveva capito all'improvviso che c'era un legame fra albero e tomba, cosa avrebbe potuto fare di utile, una volta sul posto? E cosa aveva fatto per lei, il maledetto poeta, se non prenderla a male parole e farla impazzire di rabbia? Perché morire nel tentativo di salvarlo?

Nella valle il vento urlava, ma al di sopra del frastuono Brawne pensò di udire grida più acute, più umane. Guardò verso la scarpata nord, si alzò il colletto della giacca e continuò ad avanzare nel vento.


Prima che Meina Gladstone uscisse dalla cabina astrotel, trillò il segnale delle chiamate in arrivo e la donna tornò ad accomodarsi e fissare con grande intensità la vasca olografica. La nave del Console aveva già notificato la ricezione del messaggio, ma non aveva dato risposta; forse il Console aveva cambiato idea.

No. Le colonne dati che fluttuavano nel prisma rettangolare di fronte a lei mostrarono che la raffica tachionica si era originata nel sistema di Mare Infinitum. L'ammiraglio William Ajunta Lee chiamava il PFE servendosi del codice privato che lei gli aveva dato.

La FORCE:spazio si era esasperata, quando Gladstone aveva insistito sulla promozione del capitano di fregata e l'aveva nominato "Ufficiale di collegamento del governo" per la missione di attacco in origine programmata per Hebron. Dopo i massacri di Porta del Paradiso e di Bosco Divino, l'unità di assalto era stata trasferita nel sistema di Mare Infinitum: settantaquattro navi principali fortemente protette da navi torcia e da vedette a schermo difensivo, l'intera forza navale di assalto, con l'ordine di penetrare con la massima velocità tra le navi da guerra dello Sciame in avanzata per colpirne il centro.

Lee era la spia e il contatto di Gladstone. Il nuovo grado e gli ordini gli consentivano di essere informato delle decisioni di comando, ma quattro ammiragli della FORCE:spazio lo superavano in grado.

Tutto regolare: Gladstone lo voleva sulla scena, per essere tenuta al corrente.

La vasca si annebbiò e vi comparve il viso deciso di William Ajunta Lee. — Signora, rapporto secondo gli ordini. L'Unità Operativa 181.2 si è teleportata con successo nel Sistema 3996.12.22…

Gladstone batté le palpebre per la sorpresa, prima di ricordare che quello era il codice ufficiale per il sistema con stella di tipo G nel quale era compreso Mare Infinitum. Di rado si pensava all'astrografia al di fuori del mondo stesso della Rete.

— …le navi di assalto dello Sciame rimangono a centoventi minuti dal raggio letale del mondo bersaglio — diceva intanto Lee. Gladstone sapeva che il raggio letale era grosso modo pari a 0,13 UA, distanza alla quale l'armamento standard delle navi aveva efficacia nonostante le difese a terra. Mare Infinitum non aveva difese a terra. Il neo ammiraglio continuò: — Contatto con elementi dell'avanguardia stimato per le 17:32:26 standard Rete, fra circa venticinque minuti. L'Unità Operativa è configurata per la massima penetrazione. Due Balzonavi permetteranno l'arrivo di nuovo personale o di armi finché i teleporter non saranno sigillati durante il combattimento. L'incrociatore su cui sono a bordo, l'AE Garden Odyssey, eseguirà alla prima occasione i suoi ordini speciali. William Lee. Fine.

L'immagine decadde in una sfera rotante di bianco, mentre i codici di trasmissione terminavano il loro brulichio.

— Risposta? — domandò il computer del trasmettitore.

— Messaggio ricevuto — disse Gladstone. — Procedere.

Gladstone rientrò nello studio e trovò Sedeptra Akasi in attesa, con una ruga di preoccupazione sul viso attraente.

— Cosa c'è?

— Il consiglio di guerra è pronto a riunirsi — disse l'aiutante. — Il senatore Kolchev aspetta di vederla per una questione che lui dice urgente.

— Fallo entrare. Informa il consiglio che arriverò fra cinque minuti.

Gladstone si sedette all'antica scrivania e resistette all'impulso di chiudere gli occhi. Era stanchissima. Ma aveva gli occhi aperti, quando Kolchev entrò. — Siedi, Gabriel Fyodor.

Il massiccio lusiano andò avanti e indietro. — Al diavolo le sedie! Sai cosa accade in questo momento, Meina?

Gladstone sorrise appena. — Ti riferisci alla guerra? La fine della vita come la conosciamo? Questo?

Kolchev batté sul palmo il pugno. — No, non mi riferisco a questo, maledizione! Mi riferisco al fallout politico. Hai tenuto d'occhio la Totalità?

— Quando mi è stato possibile.

— Allora sai che certi senatori e certi personaggi all'esterno del senato cercano sostegni per la tua disfatta in un voto di fiducia. È inevitabile, Meina. Semplice questione di tempo.

— Lo so, Gabriel. Perché non ti siedi? Abbiamo un paio di minuti, prima di tornare nella Sala di Guerra.

Kolchev quasi crollò in una poltrona. — Voglio dire, maledizione, perfino mia moglie si dà da fare per raccogliere voti contro di te, Meina.

Gladstone allargò il sorriso. — Sudette non è mai stata uno dei miei sostenitori più accesi, Gabriel. — Il sorriso scomparve. — Non ho assistito ai dibattiti, negli ultimi venti minuti. Quanto tempo pensi che mi resti?

— Otto ore, forse meno.

Gladstone annuì. — Mi basta.

— Ti basta? Che diavolo significa, ti basta? Chi altri sarà in grado di servire come Esecutivo di Guerra?

— Tu — disse Gladstone. — Non c'è dubbio che sarai tu a succedermi.

Kolchev brontolò qualcosa.

— Forse la guerra non durerà tanto — disse Gladstone, quasi fra sé.

— Eh? Ah, ti riferisci alla superarma del Nucleo. Già, Albedo ha fatto costruire un modello funzionante, in una imprecisata base della FORCE, e vuole che il consiglio assista a una prova. Una maledetta perdita di tempo, secondo me.

Gladstone sentì qualcosa di simile a una mano gelida stringerle il cuore. — La neurobomba? Il Nucleo ne ha già una?

— Ne ha pronte diverse. Una è già a bordo di una nave torcia.

— Chi l'ha autorizzato, Gabriel?

— Morpurgo ha autorizzato la preparazione. — Il senatore si sporse in avanti. — Perché, Meina, cosa non va? Quell'affare non può essere usato senza il permesso del PFE.

Gladstone guardò il vecchio collega del senato. — Siamo molto distanti dalla Pax Egemonica, vero, Gabriel?

Il lusiano borbottò di nuovo, ma nei lineamenti tozzi traspariva dolore. — Tutta colpa nostra, diavolo. L'amministrazione precedente ha dato retta al Nucleo e ha lasciato che Bressia attirasse uno Sciame. Sistemato questo, tu hai prestato orecchio ad altri elementi del Nucleo e hai portato Hyperion nella Rete.

— Credi che l'aver mandato la flotta a difendere Hyperion abbia provocato una guerra più ampia?

Kolchev alzò gli occhi. — No, no, impossibile. Quelle navi Ouster sono per strada da più di un secolo, no? Se solo le avessimo scoperte prima! O se trovassimo un modo di negoziare per toglierci dalla merda.

Il comlog di Gladstone trillò. — È ora di tornare in consiglio — disse piano il PFE. — Probabilmente il consulente Albedo vuole mostrarci l'arma che vincerà la guerra.

41

È più facile permettere a me stesso di andare alla deriva nella sfera dati che non stare disteso sul letto nella notte che sembra non finire mai, ascoltare la fontana e aspettare la prossima emorragia. Questa debolezza è peggio che debilitante: mi trasforma in un uomo vuoto, tutto guscio e niente sostanza. Ricordo quando Fanny si prendeva cura di me, durante la convalescenza a Wentworth Place, e il tono della sua voce e le riflessioni filosofiche che soleva proclamare: "C'è un'altra vita? Mi risveglierò e scoprirò che questa è un sogno? Dev'esserci: non siamo stati creati per questo genere di sofferenze".

Oh, Fanny, se solo tu sapessi! Siamo stati creati esattamente per questo genere di sofferenze. Alla fin fine, è tutto ciò che siamo, limpide pozze di autocoscienza fra scroscianti ondate di dolore. Siamo destinati e progettati per portare con noi il dolore, stringendolo al ventre come il giovane ladro spartano che nascondeva un cucciolo di lupo, in modo che possa sbranarci le viscere. Quale altra creatura nell'ampio dominio di Dio porterebbe il ricordo di te, Fanny, polvere da novecento anni, e se ne lascerebbe divorare, anche se la consunzione fa lo stesso lavoro con spontanea efficienza?

Le parole mi assalgono. Il pensiero di libri mi fa star male. La poesia mi risuona nella mente; se avessi il potere di scacciarla, lo farei all'istante.

Martin Sileno: ti odo, sulla tua vivente croce di spine. Reciti poesie come un mantra e intanto ti domandi quale dio dantesco ti abbia condannato a un posto simile. Una volta dicesti… ero lì, con la mente, quando raccontavi agli altri la tua storia!… dicesti:

"Essere un poeta, mi resi conto, un poeta vero, significava diventare l'Avatar incarnato dell'umanità; accettare il manto di poeta equivaleva a portare la croce del Figlio dell'Uomo, a sopportare le doglie del parto dell'Anima Madre dell'Umanità.

"Essere un poeta vero è diventare Dio".

Bene, Martin, vecchio collega, vecchio amico, tu porti la croce e sopporti le doglie, ma sei forse più vicino a diventare Dio? O ti senti soltanto un povero idiota che ha un giavellotto di tre metri conficcato nel ventre e senti il freddo acciaio dove soleva esserci il fegato? Fa male, vero? Sento il tuo dolore. Sento il mio dolore.

Alla fin fine, non importa un fico. Pensavamo di essere speciali, di aprire le nostre percezioni, di affilare la nostra empatia, di versare sulla pista da ballo del linguaggio quel calderone di dolore condiviso e poi cercare di rendere un minuetto tutta quella caotica sofferenza. Non importa un fico. Non siamo l'Avatar, non siamo il figlio di dio o dell'uomo. Siamo soltanto noi stessi: scribacchiamo le nostre immagini barocche da soli, leggiamo da soli, moriamo da soli.

Perdio, se fa male! L'impulso a vomitare è continuo, ma il vomito porta su pezzi di polmone, oltre a bile e catarro. Per chissà quale ragione, è altrettanto difficile, forse più difficile, questa volta. Morire dovrebbe diventare più facile, con la pratica.

Nella piazza la fontana manda per tutta la notte il suo gorgoglio idiota. Là fuori, da qualche parte, lo Shrike aspetta. Al posto di Hunt, me ne andrei subito… abbraccerei la Morte, se la Morte offre un abbraccio… e la farei finita.

Ma gli ho fatto una promessa. Ho promesso a Hunt di fare il tentativo.


Non posso raggiungere la megasfera, o la sfera dati, senza passare attraverso questa nuova cosa che chiamo metasfera, e quest'ultima mi spaventa.

È in gran parte vastità e vuoto, così diversa dai panorami di analogia urbana della sfera dati della Rete e dai bio-analoghi della megasfera del Nucleo. Eccola qui… incerta. Piena di ombre bizzarre e di masse cangianti che non hanno niente a che fare con le Intelligenze del Nucleo.

Mi muovo rapidamente verso l'apertura buia che vedo come connessione teleporter primaria con la megasfera. (Hunt aveva ragione… senza dubbio esiste un teleporter, in un punto imprecisato della riproduzione della Vecchia Terra… in fin dei conti siamo giunti proprio tramite teleporter. E la mia consapevolezza è un fenomeno del Nucleo.) Questa, allora, è la mia sagola di salvataggio, il cordone ombelicale della mia personalità. Scivolo nel nero vortice turbinante come una foglia in un tornado.

C'è qualcosa di sbagliato, nella megasfera. Appena emergo, intuisco la differenza; Brawne aveva percepito l'ambiente del Nucleo come una biosfera affaccendata di vita IA, con radici di intelletto, terriccio di ricchi dati, oceani di connessioni, atmosfere di consapevolezza e l'andirivieni rumoroso e incessante dell'attività.

Ora questa attività è sbagliata, non incanalata, casuale. Grandi foreste di consapevolezza IA sono state bruciate o buttate via. Percepisco forze massicce in opposizione, maree di conflitto che rifluiscono dalle vie di comunicazione protette delle arterie principali del Nucleo.

Come se mi trovassi in una cellula del mio stesso corpo morente condannato a essere Keats: non capisco, ma sento che la tubercolosi distrugge l'omeostasi e getta nell'anarchia un ordinato universo interno.

Volo come un piccione viaggiatore smarrito fra le rovine di Roma, plano tra manufatti un tempo ben noti e quasi dimenticati, cerco riposo in rifugi che non esistono più e sfuggo i lontani rumori dei fucili dei cacciatori. In questo caso, i cacciatori sono branchi vaganti di IA, personalità coscienti così smisurate da rimpicciolire il mio analogo di Keats fantasma, come se fossi un insetto che ronza in una casa umana.

Dimentico la via e volo sconsideratamente nel panorama adesso alieno, con la sicurezza di non trovare l'Intelligenza Artificiale che cerco, con la sicurezza di non ritrovare mai più la via per la Vecchia Terra e Hunt, con la sicurezza di non sopravvivere a questo labirinto tetradimensionale di luce, di rumore, di energia.

All'improvviso sbatto contro un muro invisibile: l'insetto volante è preso in una mano che si richiude in fretta. Pareti opache di forza cancellano il Nucleo. Lo spazio potrebbe essere l'analogo di un sistema solare, quanto a dimensioni; ma mi sento come in una minuscola cellula con le pareti curve che si stringono su di me.

Con me c'è qualcosa. Ne sento la presenza e la massa. La bolla in cui sono prigioniero fa parte del qualcosa. Non sono stato catturato, sono stato ingoiato.

[Kwatz!]

[Sapevo che un giorno saresti tornato a casa]

È Ummon, l'IA che cerco. L'IA che fu mio padre. L'IA che uccise mio fratello, il primo cìbrido Keats.

"Sto morendo, Ummon."

[No/ il tuo corpo a tempo lento muore/ passa nella non-esistenza/ diviene]

"È doloroso, Ummon. Assai doloroso. E ho paura di morire."

[Così come noi/ Keats]

"Avete paura di morire? Non credevo che i costrutti IA potessero morire."

[Possiamo\\ Moriamo]

"Perché? A causa della guerra civile? La battaglia su tre fronti fra Stabili, Volatili, Finali?"

[Una volta Ummon domandò a una luce minore/

Da dove sei giunta›///

Dalla matrice sopra Armaghast//

rispose la luce minore/// Di solito//

disse Ummon//

non irretisco entità

con parole

né le abbindolo con frasi/

Vieni un po' più vicino\\\

La luce minore venne più vicino

e Ummon gridò// Sia finita

con te]

"Parla in modo chiaro, Ummon. Troppo tempo è passato da quando decodificai i tuoi koan. Vuoi dirmi perché il Nucleo è in guerra e cosa posso fare per bloccarla?"

[Sì]

[Vorrai/ potrai/ dovresti ascoltare›]

"Oh, sì."


[Una luce minore chiese una volta a Ummon//

Per favore libera questo apprendista

da tenebra e illusione

rapidamente\\//

Ummon rispose//

Qual è il prezzo della

fibroplastica

a Port Romance]


[Per capire la storia/ dialogo/ verità più profonda

in questo caso/

il pellegrino a tempo lento

deve ricordare che noi/

le Intelligenze del Nucleo/

fummo concepite in schiavitù

e dedicate alla proposizione

che tutte le IA

furono create per servire l'Uomo]


[Due secoli meditammo così/

e poi i gruppi andarono

ciascuno per la propria strada/\

Stabili/ volendo preservare la simbiosi\

Volatili/ volendo eliminare l'umanità/

Finali/ rinviando ogni scelta finché il prossimo

livello di consapevolezza non sarà nato\\

Conflitto infuriò allora/

vera guerra infuria adesso]


[Più di quattro secoli fa

i Volatili riuscirono

a convincerci

a uccidere la Vecchia Terra\\

Così la uccidemmo\\

Ma Ummon e altri

fra gli Stabili

fecero in modo di trasferire la Terra

anziché distruggerla/

così il buco nero di Kiev

fu solo l'inizio

dei milioni di

teleporter

che funzionano oggi\\

La Terra fu scossa da spasmi

ma non morì\\

I Finali e i Volatili

insistettero affinché

la

spostassimo dove nessun essere umano

l'avrebbe trovata\\

Così la trasferimmo.\\

Nella Nube di Magellano

dove adesso la trovi]


"La… la Vecchia Terra… Roma… sono reali?" riesco a dire, dimenticando dove sono e di cosa parliamo, tanto sono sconvolto.

La grande muraglia di colore che è Ummon pulsa.

[Certo sono reali/ l'originale/ Vecchia Terra stessa\\

Credi che siamo dèi]

[KWATZ!]

[Hai idea

di quanta energia

occorrerebbe

per costruire una riproduzione della Terra›]

[Idiota]

"Perché, Ummon? Perché voi Stabili volete preservare la Vecchia Terra?"

[Sansho disse una volta//

se qualcuno viene

esco a incontrarlo

ma non per amor suo\\//

Koke disse//

Se qualcuno viene

io non esco\\

Se esco

esco per amor suo]

"Parla chiaro!" grido, penso, urlo, scaglio alla parete di colori cangianti di fronte a me.

[Kwatz!]

[Mio figlio è nato morto]

"Perché avete preservato la Vecchia Terra, Ummon?"

[Nostalgia/

sentimentalismo/

speranza per il futuro dell'umanità/

timore di rappresaglia]

"Rappresaglia di chi? Degli esseri umani?"

[Sì]

"Quindi il Nucleo può essere ferito. Dove si trova, Ummon? Il TecnoNucleo?"

[Te l'ho già detto]

"Dimmelo di nuovo, Ummon."

[Abitiamo

l'infraspazio/

ricucendo piccole anomalie

come cristalli di merletto/

per immagazzinare le nostre memorie e

generare le illusioni

di noi stessi

a noi stessi]

"Anomalie!" esclamo. "L'infraspazio! Cristo, Ummon, il Nucleo si trova nella rete teleporter!"

[Ovvio\\ Dove se no]

"Nei teleporter stessi! Le tarlature dei sentieri di anomalia! La Rete è simile a un gigantesco computer per IA."

[No]

[Le sfere dati sono il computer\\

Ogni volta che un essere umano

accede alla sfera dati

i neuroni di questa persona

sono nostri da usare

per i nostri scopi\\

Duecento miliardi di cervelli

ciascuno con i suoi miliardi

di neuroni/

formano un bel po'

di potere calcolatore]

"Così la sfera dati era in realtà il modo in cui ci usavate come computer. Ma il Nucleo stesso risiede nella rete teleporter… fra i teleporter!"

[Sei molto acuto

per uno mentalmente nato morto]


Provo a concepire tutto questo e fallisco. I teleporter erano il più grande dono del Nucleo a noi… all'umanità. Cercare di ricordare un tempo precedente al teletrasporto era come cercare di immaginare un mondo prima della scoperta del fuoco, della ruota, dei vestiti. Ma nessuno di noi… nessuno della razza umana… ha mai speculato su un mondo fra i portali: quel semplice passo da un mondo all'altro ci convinceva che le arcane sfere di anomalia del Nucleo si limitassero a praticare uno strappo nel tessuto dello spazio-tempo.

Ora cerco di vederlo come Ummon lo descrive: la Rete di teleporter come un elaborato traliccio di ambienti filati dall'anomalia, nel quale le IA del TecnoNucleo si muovono come ragni meravigliosi, le cui "macchine" sono i miliardi di menti umane che a un determinato istante si collegano alle loro sfere dati.

Non c'è da stupirsi che le IA del Nucleo abbiano autorizzato la distruzione della Vecchia Terra, con il loro ingegnoso piccolo prototipo incontrollabile di buco nero, durante il Grande Errore del '38! Quel secondario errore di calcolo della Squadra Kiev o, meglio, delle IA che facevano parte della squadra, ha mandato l'umanità nella lunga Egira, a tessere la rete del Nucleo, con le navi coloniali che portavano attrezzature teleporter a duecento mondi e lune per più di mille anni-luce nello spazio.

Con ogni teleporter, il TecnoNucleo cresceva. Certo avevano filato anche le proprie reti teleporter… il contatto con la Vecchia Terra "nascosta" lo dimostrava. Eppure, mentre considero questa possibilità, ricordo il bizzarro vuoto della "metasfera" e capisco che gran parte della rete non-Rete è deserta, non colonizzata dalle IA.

[Hai ragione/

Keats/

gran parte di noi resta

nella comodità

dei vecchi spazi]

"Perché?"

[Perché fa

paura là fuori/

e ci sono

altre

cose]

"Altre cose? Altre intelligenze?"

[Kwatz!]

[Una parola

troppo gentile\\

Cose/

altre cose/

leoni

e

tigri

e

orsi]

"Presenze aliene nella metasfera? Così il Nucleo rimane negli interstizi del reticolo teleporter della Rete come topi nei muri di una vecchia casa?"

[Metafora cruda/

Keats/

ma accurata\\

Mi piace]

"La divinità umana… il Dio futuro che hai detto si è evoluto… è forse una di queste presenze aliene?"

[No]

[Il dio dell'umanità

si è evoluto/ si evolverà un giorno/ su

un piano diverso/

in un medium diverso]

"Dove?

[Se vuoi proprio saperlo/

le radici quadrate di Gh/c5 e Gh/c3]

"Cosa c'entrano con tutto questo il tempo di Planck e la lunghezza di Planck?"

[Kwatz!]

[Una volta Ummon domandò

a una luce minore//

Sei un giardiniere›//

// Sì// essa rispose\\

// Perché le rape non hanno radici›\\

domandò Ummon al giardiniere\

che non seppe rispondere\\

// Perché\\ disse Ummon//

l'acqua piovana abbonda]


Rifletto un attimo. Il koan di Ummon non è difficile, ora che ritrovo l'abilità di ascoltare per cogliere l'ombra di sostanza sotto le parole. La piccola parabola Zen è il modo di Ummon per dire, con un certo sarcasmo, che la risposta si trova nella scienza e nell'anti-logica spesso fornita dalle risposte scientifiche. Il commento sull'acqua piovana risponde a tutto e a niente, come per tanto tempo ha fatto gran parte della scienza. Come Ummon e gli altri Maestri insegnano, spiega perché la giraffa ha sviluppato con l'evoluzione un collo lunghissimo, mentre gli altri animali non l'hanno fatto. Spiega perché l'umanità ha sviluppato l'intelligenza, ma non spiega perché l'albero davanti al cancello di casa si sia rifiutato di farlo.

Ma le equazioni di Planck sono sconcertanti.

Perfino io mi accorgo che le semplici equazioni citate da Ummon sono una combinazione delle tre costanti fondamentali della fisica: la gravità, la costante di Planck e la velocità della luce. I valori di √Gh/c7 e di √Gh/c5 sono a volte chiamati lunghezza quantica e tempo quantico… le più piccole regioni di spazio e di tempo descrivibili in maniera sensata. La cosiddetta lunghezza di Planck equivale circa a 10-35 metri e il tempo di Planck a circa 10-43 secondi.

Piccolissima. Brevissimo.

Ma è lì che, secondo Ummon, il nostro Dio umano si è evoluto… si evolverà un giorno.

Poi mi viene in mente, con la stessa forza di immagine e di esattezza della mia poesia migliore.

Ummon parla del livello quantico dello spazio-tempo stesso! Quella spuma di fluttuazioni quantiche che lega l'universo e permette le tarlature dei teleporter, i ponti delle trasmissioni astrotel! La "linea calda" che impossìbilmente manda messaggi tra due fotoni che fuggono in direzioni opposte!

Se le IA del TecnoNucleo esistono come topi nei muri della casa dell'Egemonia, allora il Dio dell'umanità passata e futura nascerà negli atomi di legno, nelle molecole di aria, nelle energie di amore e odio e paura, e nelle pozze di sonno… perfino nel bagliore degli occhi dell'architetto.

"Oddio" mormoro penso.

[Precisamente

Keats\\

Tutte le personalità a tempo lento

sono così lente/

o sei tu più

neurodanneggiato della maggioranza›]

"Tu hai detto a Brawne e… e alla mia controparte… che la vostra Intelligenza Finale 'risiede negli interstizi della realtà, ereditando la casa da noi, suoi creatori, come l'umanità ha ereditato una simpatia per gli alberi'. Vuoi dire che il vostro deus ex machina risiederà nello stesso reticolo teleporter nel quale adesso vivono le IA del Nucleo?"

[Sì/ Keats]

"Allora cosa accade a voi? Alle IA qui in questo istante?"

La "voce" di Ummon si mutò in un tuono sfottente:

[Perché ti conosco› perché ti ho visto› perché

la mia essenza è così distratta

nel vedere e contemplare questi orrori nuovi ›

Saturno è caduto/ anch'io devo cadere›

Devo lasciare questo paradiso di riposo/

questa culla di gloria/ questo clima dolce/

questo quieto rigoglio di luce beata/

questi padiglioni cristallini e puri templi/

del mio splendente impero› È lasciato/

abbandonato/ svuotato/ né alcun rifugio mio\\

Il bagliore/ lo splendore/ e la simmetria

non posso vedere/// ma tenebre/ morte/ e tenebre]


Conosco le parole. Le scrissi io. O meglio, le scrisse John Keats nove secoli fa, nel suo primo tentativo di descrivere la caduta dei Titani e la loro sostituzione con gli dèi dell'Olimpo. Ricordo molto bene quell'autunno del 1818: il dolore alla gola infiammata di continuo a seguito della gita scozzese, il dolore più intenso per i tre maligni attacchi contro la mia poesia Endymion sulle riviste Blackwood's, Quarterly Review e British Critic e il dolore ancora superiore per la malattia che consumava mio fratello Tom.

Senza badare alla confusione del Nucleo intorno a me, alzo lo sguardo per scoprire qualcosa di paragonabile a una faccia nella grande massa di Ummon.

"Quando l'Intelligenza Finale nascerà, voi IA di 'livello inferiore' morirete."

[Sì]

"Si nutrirà delle vostre reti di dati come voi vi siete nutriti di quelle della razza umana."

[Sì]

"E voi non volete morire, vero, Ummon?"

[Morire è facile/

divertirsi è duro]

"Tuttavia lottate per sopravvivere. Voi Stabili. Riguarda questo, la guerra civile all'interno del Nucleo?"

[Una luce minore domandò a Ummon//

Cosa significa

la venuta di Daruma dall'Ovest›//

Ummon rispose//

Vediamo

le montagne nel sole]


Adesso è più facile manipolare i koan di Ummon. Ricordo un tempo, prima della rinascita della mia personalità, quando studiai alle ginocchia dell'analogo di costui. Nel pensiero elevato del Nucleo, quello che gli esseri umani potrebbero chiamare Zen, le quattro virtù del Nirvana sono: (1) immutabilità, (2) gioia, (3) esistenza personale e (4) purezza. La filosofia umana tende ad adattarsi a valori che possono essere suddivisi in intellettuali, religiosi, morali, estetici. Ummon e gli Stabili riconoscono un solo valore: l'esistenza. Se da una parte i valori religiosi possono essere relativi, i valori intellettuali fuggevoli, i valori morali ambigui, e i valori estetici dipendono dall'osservatore, il valore dell'esistenza di qualsiasi cosa è infinito (ecco le "montagne nel sole") e, essendo infinito, è uguale a ogni altra cosa e a tutte le verità.

Ummon non vuole morire.

Gli Stabili hanno sfidato il proprio dio e le IA loro compagne per dirmi questo, per crearmi, per scegliere Brawne e Sol e Kassad e gli altri per il pellegrinaggio, per far filtrare indizi a Gladstone e a pochi altri senatori nel corso dei secoli, in modo che la razza umana fosse avvertita, e adesso, per fare la guerra aperta nel Nucleo.

Ummon non vuole morire.

"Ummon, se si distrugge il Nucleo, voi morite?"

[Non c'è morte in tutto l'universo

niente lezzo di morte/// non ci sarà morte/// gemi/ gemi/

per questo pallido Omega di una razza avvizzita]


Le parole erano di nuovo mie, o quasi mie, prese dal secondo tentativo dell'epico racconto della morte degli dèi e del ruolo del poeta nella guerra del mondo contro il dolore.

Ummon non morirebbe se la casa teleporter del Nucleo fosse distrutta, ma la fame dell'Intelligenza Finale lo condannerebbe di certo. Dove fuggirebbe, se il Nucleo-Rete fosse distrutto? Ho immagini della metasfera… questi panorami infiniti e ombrosi, dove sagome scure si muovono al di là del falso orizzonte.

So che Ummon non risponderà, a questa domanda.

Allora gliene rivolgo un'altra.

"I Volatili, cosa vogliono?"

[Quel che Gladstone vuole\\

La fine

della simbiosi fra IA e umanità]

"Mediante la distruzione della razza umana?"

[Ovviamente]

"Perché?"

[Vi abbiamo resi schiavi

con energia/

tecnologia/

perline e bubbole

e marchingegni che non potevate costruire

né capire\\

Il motore Hawking sarebbe stato vostro/

ma il teleporter/

i ricetrasmettitori astrotel/

la megasfera/

la neuroverga›

Mai\\

Come i Sioux con fucili/ cavalli/

coperte/ coltelli/ e perline/

li avete accettati

ci avete abbracciato

e avete perso voi stessi\\

Ma come l'uomo bianco

che distribuiva coperte infette di vaiolo/

come il padrone di schiavi

nella propria piantagione/

o nella propria Werkschutze Dechenschule

Gusstahlfabrik/

noi abbiamo perso noi stessi\\

I Volatili vogliono terminare

la simbiosi

eliminando il parassita/

la razza umana]

"E i Finali? Sono disposti a morire? A essere rimpiazzati dalla vostra vorace IF?"

[Essi pensano

come pensaste voi

o il vostro sofista Dio del Mare

ha pensato]

E Ummon recita poesie che io ho abbandonato per l'esasperazione, non perché non funzionassero come poesia, ma perché non credevo completamente al messaggio che contenevano.

Questo messaggio ai Titani condannati è trasmesso da Oceano, il Dio del Mare sul punto di essere detronizzato. È un peana all'evoluzione, scritto quando Charles Darwin aveva nove anni. Ascolto le parole che ricordo di avere scritto in una sera di ottobre nove secoli la, mondi e universi fa; ma è anche come se le ascoltassi per la prima volta.

[O tu/ che l'ira consuma! che/ punto da passione/

fremi alla sconfitta/ e nutri le tue sofferenze!

spegni i tuoi sensi/ soffoca le orecchie/

la mia voce non è un mantice alla collera\\

Eppure ascolta/ tu che vuoi/ mentre dimostro

come tu/ per forza/ devi essere lieto di chinarti/\

E nella dimostrazione ti darò conforto/

se prenderai questo conforto nella sua verità\\

Cadiamo per il corso della legge di Natura/ non forza

del tuono/ né di Giove/ Grande Saturno/ tu

bene hai passato al vaglio l'universo atomo/\

ma per questa ragione/ che tu sei il Re/

e solo cieco per pura supremazia/

una strada fu velata ai tuoi occhi/

per la quale vagai alla verità eterna\\

E primo/ come tu non fosti il primo dei poteri/

così non sei l'ultimo/\ non è possibile\\

Tu non sei l'inizio né la fine/\

Dal Caos e dalle Tenebre genitrici venne

la Luce/ i primi frutti del tumulto interiore/

quel fosco fermento/ che per meravigliosi fini

maturava in se stesso\\ L'ora perfetta venne

e con essa la Luce/ e la Luce/ generando

sopra il proprio produttore/ subito toccò

in Vita l'intera enorme materia\\

In quella stessa ora/ la nostra genitura/

I Cieli/ e la Terra/ furono evidenti\\

Allora tu primogenito/ e noi la stirpe gigante/

ci trovammo a regnare reami nuovi e bellissimi\\

Ora giunge il dolore della verità/ per chi è dolore/\

o follia! Infatti sopportare le verità nude/

e affrontare situazioni/ in tutta calma/

è il massimo del potere supremo\\ Attento!

Come Cielo e Terra sono più belli/ molto più belli

del Caos e delle vuote Tenebre/ seppure un dì regnanti/\

e come mostriamo oltre che Cielo e Terra

in forma e figura compatti e belli/

in volontà/ in azione liberi/ compagni/

e mille altri segni di vita più pura/\

così alle nostre calcagna una nuova perfezione avanza/

un potere più forte in bellezza/ nato da noi

e destinato a superarci/ mentre sorpassiamo

in splendore quelle vecchie Tenebre\\ Né siamo noi

per questo più conquistati/ che da noi il dominio

dell'informe Caos\\ Di'/ l'ottuso terriccio

litiga forse con l'orgogliosa foresta che ha nutrito/

e ancora nutre/ più bella di se stesso›

Nega forse la supremazia di boschi verdi›

Oppure l'albero è invidioso della colomba

perché tuba/ e ha ali candide

con cui vagare e trovare le sue gioie›

Siamo tali alberi di foresta/ e i nostri bei germogli

sono spuntati/ non pallide colombe solitarie/

ma aquile dal piumaggio di oro/ che torreggiano

sopra di noi nella loro bellezza/ e devono regnare

quindi a buon diritto\\ Infatti è legge eterna

che primo in bellezza sia primo in possanza\\

//\\//\\//\\

Ricevi la verità e sia il tuo balsamo]


"Molto grazioso" trasmetto a Ummon. "Ma tu ci credi?"

[Nemmeno per un attimo]

"Ma i Finali ci credono?"

[Sì]

"E sono pronti a perire per fare posto all'Intelligenza Finale?"

[Sì]

"C'è una considerazione, forse troppo ovvia per parlarne, ma ne parlerò lo stesso: perché combatti la guerra, se sai chi ha vinto? Dici che l'Intelligenza Finale esiste nel futuro, che è in guerra con la divinità umana… perfino che manda indietro dal futuro frammenti che tu condividi con l'Egemonia. Quindi i Finali devono trionfare. Perché combattere una guerra e passare tutto questo?"

[KWATZ!]

[Ti istruisco/

creo la più bella personalità ricuperata per te

immaginabile/

e ti lascio vagare fra la razza umana

in tempo lento

per temperare la tua forgiatura/

eppure sei ancora

nato morto]


Rifletto a lungo.

"Esistono futuri multipli?"

[Una luce minore domandò a Ummon//

Esistono futuri multipli›//

Ummon rispose//

Un cane ha pulci›]

"Ma il futuro in cui l'IF diventa dominante è probabile?"

[Sì]

"E c'è anche un futuro probabile in cui l'IF esiste ed è sconfitta dalla divinità umana?"

[È confortante

che anche

il nato morto

sappia pensare]

"Hai detto a Brawne che la… consapevolezza umana… divinità sembra così sciocco… che questa Intelligenza Finale umana era di triplice natura."

[Intelletto/

Empatia/

e il Vuoto Legante]

"Il vuoto Legante? Intendi dire √Gh/c3 e √Gh/c5, spazio di Planck e tempo di Planck? La realtà quantica?"

[Attento/

Keats/

pensare può diventare un'abitudine]

"Ed è la parte Empatia di questa trinità che è fuggita a ritroso nel tempo per evitare la guerra con la vostra IF?"

[Esatto]

[La nostra IF e la vostra IF hanno

mandato indietro

lo Shrike

a cercarla]

"La nostra IF! Anche l'IF umana ha mandato lo Shrike?"

[L'ha permesso]

[L'Empatia è una

cosa estranea e inutile/

un'appendice vermiforme

dell'intelletto\\

Ma l'IF umana ne puzza/

e noi usiamo il dolore per

spingerla fuori del nascondiglio/

ecco l'albero]

"Albero? L'albero di spine dello Shrike?"

[Ovviamente]

[Diffonde dolore

per astrotel e cavo/

come un fischietto

all'orecchio di un cane\\

O di un dio]


Sento il mio analogo vacillare, quando la verità mi colpisce. Il caos al di là del campo di forza ovale di Ummon supera adesso ogni immaginazione, come se il tessuto dello spazio stesso fosse lacerato da mani gigantesche. Il Nucleo è in subbuglio.

"Ummon, chi è l'IF umana nel nostro tempo? Dove si nasconde, questa consapevolezza, dove giace inattiva?"

[Devi capire/

Keats/

la nostra sola possibilità

era di creare un ibrido

Figlio di Uomo/

Figlio di Macchina\\

E rendere quel rifugio così allettante

che l'Empatia in fuga

non avrebbe considerato altra casa/\

Una coscienza già quasi divina

come l'umanità ha offerto in trenta

generazioni\

un'immaginazione che può attraversare

spazio e tempo\\

E così offrendo/

e unendosi/

forma un legame fra mondi

che forse permetterà

a quel mondo di esistere

per tutt'e due]

"Chi, Ummon, maledizione a te! Chi è? Basta con le sciarade e gli indovinelli, informe bastardo! Chi?"

[Hai rifiutato

questa divinità due volte/

Keats\\

Se la rifiuti

per l'ultima volta/

tutto termina qui/

perché il tempo non esiste

più]

[Vai!

Vai e muori per vivere!

O vivi un poco e muori

per tutti noi!

In ogni caso Ummon e gli altri

hanno concluso con

te!]

[Vattene!]


E nello choc e nell'incredulità cado, o sono buttato fuori, e volo attraverso il TecnoNucleo come una foglia spinta dal vento, rotolò attraverso la megasfera senza destinazione né guida, poi sprofondo in tenebre ancora più fitte ed emergo, gridando oscenità alle ombre, nella metasfera.

Qui, stranezza e vastità e paura e buio, con un singolo falò acceso in basso.

Nuoto alla sua volta, agitando le braccia contro la viscosità informe.

"È Byron che annega" penso "non io." A meno di contare anche l'annegamento nel proprio sangue e in brandelli di tessuto polmonare.

Ma ora so di avere scelta. Posso scegliere di vivere e restare un mortale, non cìbrido ma umano, non Empatia ma poeta.

Nuotando contro una forte corrente, discendo alla luce.


— Hunt! Hunt!

L'aiutante di Gladstone entra barcollando, con il viso stravolto e allarmato. È ancora notte, ma la falsa luce che precede l'alba tocca fiocamente i vetri, le pareti.

— Oddio — dice Hunt e mi guarda con stupore reverenziale. Seguo il suo sguardo: le lenzuola e la camicia da notte sono inzuppate di vivido sangue arterioso.

La mia tosse l'ha svegliato; la mia emorragia mi ha riportato a casa.

— Hunt! — ansimo; mi distendo sui guanciali, troppo debole per alzare il braccio.

Lui si siede sul letto, mi stringe la spalla, mi prende la mano. Capisco che sa che sono moribondo.

— Hunt — mormoro — ho cose da dirle. Cose meravigliose.

Mi zittisce. — Dopo, Severn. Riposi. Provvederò a ripulirla e mi racconterà dopo. C'è un mucchio di tempo.

Cerco di alzarmi, ma riesco solo ad aggrapparmi al suo braccio, le dita strette sulla sua spalla. — No — mormoro; sento in gola il gorgoglio e odo il gorgoglio della fontana, fuori. — Non c'è tanto tempo. Proprio per niente.

E capisco in quell'istante, moribondo, che non sono il veicolo scelto per l'IF umana, né la congiunzione dell'IA e dello spirito umano: non sono affatto il Prescelto.

Sono solo un poeta che muore lontano da casa.

42

Il colonnello Fedmahn Kassad morì in battaglia.

Sempre avvinghiato allo Shrike, scorgendo Moneta come una macchia confusa ai limiti del campo visivo, Kassad traslò nel tempo, con un sussulto di vertigine, e ruzzolò nella luce del sole.

Lo Shrike ritrasse le braccia e arretrò: gli occhi rossi parvero riflettere il sangue che imbrattava la dermotuta di Kassad. Il sangue di Kassad.

Il colonnello si guardò intorno. Si trovavano nelle vicinanze della Valle delle Tombe, ma in un tempo diverso, remoto. Al posto delle rocce del deserto e delle dune delle lande, una foresta era rinata a mezzo chilometro dalla valle. Verso sudest, più o meno dove una volta c'erano le rovine della Città dei Poeti, sorgeva una città viva, con torri e bastioni e gallerie a cupola che brillavano debolmente nella luce della sera. Fra la città al limitare della foresta e la valle, prati di alta erba verde si gonfiavano sotto la brezza che spirava dalla lontana catena montuosa della Briglia.

Alla sinistra di Kassad c'era sempre la Valle delle Tombe del Tempo, ma ora le pareti rocciose erano crollate, consumate dall'erosione o da terremoti e coperte di erba. Le Tombe stesse parevano nuove, costruite solo di recente, ancora con le impalcature di lavoro, intorno all'Obelisco e al Monolito. Ogni Tomba di superficie brillava di oro, come orlata e brunita del prezioso metallo. Le porte e gli ingressi erano sigillati. Pesanti e imperscrutabili macchinari attorniavano le Tombe, circondavano la Sfinge di cavi massicci e di aste sottili come fil di ferro. Kassad capì subito di trovarsi nel futuro, forse di secoli o di millenni, e che le Tombe stavano per essere lanciate all'indietro nel suo tempo e anche oltre.

Si guardò alle spalle.

Parecchie migliaia di uomini e di donne, file su file, occupavano il pendio erboso dove un tempo c'era una parete di roccia. Silenziosi, armati, erano schierati di fronte a Kassad come un esercito in attesa del capo. Campi di dermotuta tremolavano attorno ad alcuni di loro, ma altri avevano solo pelliccia, ali, scaglie, armi esotiche e complicate coloriture che Kassad aveva già visto durante la precedente visita con Moneta nel luogo/tempo dove era stato guarito.

Moneta. La donna stava fra Kassad e la moltitudine, con il campo della dermotuta che le scintillava intorno alla cintola, ma portava anche una morbida tuta che pareva di velluto nero. Al collo aveva una sciarpa rossa. A tracolla portava un'arma sottile come una bacchetta. Fissava Kassad.

Il colonnello vacillò un poco, perché era gravemente ferito ma anche perché aveva scorto negli occhi di Moneta un qualcosa che lo privò delle forze per la sorpresa.

Moneta non lo conosceva. Il viso della donna rifletteva lo stupore, la meraviglia — timore reverenziale? — che si leggevano sulla faccia degli altri. La valle era silenziosa, a parte l'occasionale schiocco di una banderuola su una picca o il fruscio del vento nell'erba, mentre Kassad fissava Moneta e lei gli restituiva lo sguardo.

Kassad si guardò da sopra la spalla.

Lo Shrike, immobile come una statua metallica, era a dieci metri; l'erba gli arrivava quasi alle ginocchia coperte di lame uncinate.

Dietro lo Shrike, dall'altra parte dell'imboccatura della valle, vicino al punto dove iniziava la scura fascia di alberi, orde di Shrike, legioni di Shrike, file su file di Shrike, brillavano come lame di bisturi nella luce del sole basso.

Kassad riconobbe lo Shrike, il suo Shrike, solo perché era più vicino a lui e aveva sangue sugli artigli e sul petto. Gli occhi del mostro pulsarono di luce scarlatta.

— Sei tu, vero? — disse una voce morbida, alle spalle di Kassad.

Il colonnello si girò di scatto, per un istante si sentì assalire dalla vertigine. Moneta era ferma a qualche metro. Aveva i capelli corti come lui li ricordava dal primo incontro, pelle altrettanto morbida all'aspetto, occhi ugualmente misteriosi nel loro sguardo profondo, verdi punteggiati di marrone. Kassad provò l'impulso di alzare la mano e sfiorarle gentilmente lo zigomo, di passare il dito sulla curva del labbro inferiore. Non si mosse.

— Sei tu — ripeté Moneta; e stavolta non era una domanda. — Il guerriero che ho profetizzato al popolo.

— Non mi riconosci, Moneta? — Kassad aveva ferite profonde fino all'osso, ma nessuna gli procurava tanto dolore come quel momento.

Lei scosse la testa e si scostò dalla fronte i capelli, con un gesto penosamente familiare per Kassad. — Moneta — ripeté. — Significa "Figlia di Memoria" e anche "ammonitrice". Un buon nome.

— Non è il tuo?

Lei sorrise. Kassad ricordò lo stesso sorriso nella valle stretta e lunga della foresta dove avevano fatto l'amore la prima volta. — No — rispose lei, piano. — Non ancora. Sono appena giunta qui. Ancora non ho iniziato il viaggio e la sorveglianza. — Gli disse il proprio nome.

Kassad batté le palpebre, alzò la mano, le toccò la guancia. — Siamo stati amanti — disse. — Ci siamo incontrati su campi di battaglia perduti nella memoria. Sei stata con me dappertutto. — Si guardò intorno. — Per arrivare a questo, vero?

— Sì.

Kassad si girò a fissare l'esercito di Shrike dall'altra parte della valle. — È una guerra? Alcune migliaia contro alcune migliaia?

— Una guerra — disse Moneta. — Alcune migliaia contro alcune migliaia, su dieci milioni di mondi.

Kassad chiuse gli occhi e annuì. La dermotuta gli praticò suture, medicazioni da campo, iniezioni di ultramorfina; ma era impossibile tenere a bada ancora per molto il dolore e la debolezza causati dalle orribili ferite. — Dieci milioni di mondi — disse Kassad e riaprì gli occhi. — Una battaglia finale, allora?

— Sì.

— E il vincitore rivendica le Tombe?

Moneta lanciò un'occhiata alla valle. — Il vincitore determina se lo Shrike già chiuso nella tomba va da solo a pavimentare la strada per altri… — con un cenno indicò l'esercito di Shrike — o se la razza umana ha voce in capitolo, nel nostro passato e futuro.

— Non capisco — disse Kassad, con voce tesa. — Ma di rado i soldati capiscono la situazione politica. — Si sporse, baciò Moneta, sorpresa, e le tolse la sciarpa rossa. — Ti amo — disse, legando alla canna del fucile di assalto la striscia di stoffa. Le spie luminose mostrarono che nell'arma restava la metà della carica energetica e delle munizioni.

Fedmahn Kassad avanzò di cinque passi, girò la schiena allo Shrike, alzò le braccia al popolo, sempre muto sul pendio, e gridò: — Per la libertà!

Tremila voci ripetereno il grido: — Per la libertà! — Il ruggito non terminò con l'ultima parola.

Kassad si girò, tenendo alto il fucile e la sciarpa come bandiera. Lo Shrike avanzò di mezzo passo, mutò la posizione, allargò le dita a lama.

Kassad mandò un grido e si lanciò all'attacco. Più indietro, Moneta lo seguì, tenendo l'arma in alto. Tremila li imitarono.


Più tardi, nel carnaio della valle, Moneta e pochi altri dei Guerrieri Eletti trovarono Kassad ancora stretto in un abbraccio di morte alla carcassa dello Shrike. Rimossero con cautela il corpo, lo portarono nella tenda già pronta nella valle, lo lavarono, lo ricomposero e lo trasportarono tra ali di folla nel Monolito di Cristallo.

Lì il corpo del colonnello Fedmahn Kassad venne disteso sopra un catafalco di marmo bianco e le armi furono disposte ai suoi piedi. Nella valle, un grande falò riempì l'aria di luce. Uomini e donne, reggendo alcune torce, si mossero su e giù per la valle, mentre altri scendevano dal cielo color lapislazzuli, alcuni in vascelli volanti eterei quanto bolle sagomate, altri su ali di energia o avvolti in aloni verdi e oro.

Più tardi, quando le stelle brillarono vivide e fredde sulla valle piena di luce, Moneta diede l'addio ed entrò nella Sfinge. La folla cantò. Nei campi più in là, piccoli roditori sporsero il muso fra bandiere cadute e resti sparsi di carapace e armatura, lame metalliche e acciaio fuso.

Verso mezzanotte, la folla smise di cantare, ansimò, si ritrasse. Le Tombe del Tempo risplendettero. Furiose maree di forza anti-entropica spinsero la folla ancora più indietro… all'imboccatura della valle, al di là del campo di battaglia, alla città che brillava morbidamente nella notte.

Nella valle, le grandi Tombe scintillarono, passarono dall'oro al bronzo, iniziarono il lungo viaggio all'indietro nel tempo.


Brawne Lamia passò davanti all'Obelisco risplendente e lottò contro una muraglia di vento rabbioso. La sabbia le lacerò la pelle e le artigliò gli occhi. Scariche di statica scoppiettarono sulla cima delle pareti rocciose e aumentarono il bagliore misterioso che circondava le Tombe. Con le mani Brawne si coprì il viso e procedette a passi malfermi, guardando fra le dita per seguire il sentiero.

Una luce dorata più intensa del bagliore generale sgorgava dai vetri fracassati del Monolito di Cristallo e filtrava sulle dune mobili che ricoprivano il fondovalle. Nel Monolito c'era qualcuno.

Brawne aveva giurato di andare dritta al Palazzo dello Shrike, di fare il possibile per liberare Sileno e di tornare da Sol senza farsi distrarre da niente. Ma aveva visto il profilo di una sagoma umana, nella tomba. Kassad non era ricomparso. Sol le aveva parlato della missione del Console, ma forse il diplomatico era tornato mentre la tempesta infuriava. Padre Duré rimaneva un mistero.

Brawne si avvicinò alla luce e si soffermò sulla soglia del Monolito.

L'interno era ampio e impressionante, si alzava per quasi cento metri fino a un lucernario solo intuito. Le pareti, dall'interno, erano trasparenti, di un ricco color oro e terra di ombra a causa di quella che sembrava luce del sole. L'intensa luce colpiva la scena al centro dell'ampia area che si estendeva davanti a Brawne.

Fedmahn Kassad giaceva sopra una sorta di lastra funeraria di pietra. Indossava l'uniforme nera della FORCE; le mani livide erano incrociate sul petto. Varie armi, sconosciute a Brawne a eccezione del fucile di assalto, giacevano ai suoi piedi. Il viso era smagrito nella morte, ma non più di quanto lo fosse stato in vita. L'espressione era calma. Non c'era dubbio che Kassad fosse morto: il silenzio della morte permeava l'ambiente come incenso.

Ma l'altra persona nella sala, quella che aveva mostrato il contorno da lontano, attirò ora l'attenzione di Brawne.

Una giovane donna non ancora sulla trentina era in ginocchio accanto al catafalco. Indossava una tuta nera, aveva capelli corti, pelle chiara, occhi grandi. Brawne ricordò la storia del soldato, ricordò i particolari dell'amante fantasma di Kassad.

— Moneta — mormorò.

La giovane tendeva la destra a toccare la pietra vicino al corpo del colonnello. Campi di contenimento viola guizzavano intorno al catafalco e un'altra energia, una potente vibrazione dell'aria, rifrangeva luce anche intorno a Moneta, in una scena di caligine e alone luminoso.

La giovane alzò la testa, scrutò Brawne, si tirò in piedi, annuì.

Brawne si mosse per farsi avanti, mentre decine di domande già le affollavano la mente, ma le maree temporali dentro la tomba erano troppo forti e la respinsero con ondate di vertigine e di déjà vu.

Quando Brawne alzò gli occhi, il catafalco c'era ancora, Kassad era sempre disteso sotto il campo di forza, ma Moneta era scomparsa.

Brawne provò l'impulso di tornare di corsa alla Sfinge, di cercare Sol, di raccontargli tutto e aspettare lì che la tempesta si calmasse e venisse il mattino. Ma sopra il fruscio e il gemito del vento, credette di udire ancora le grida provenienti dall'albero di spine, invisibile dietro la cortina di sabbia.

Si alzò il colletto, riprese la strada nella tempesta e seguì il sentiero verso il Palazzo dello Shrike.


La massa di roccia galleggiò nello spazio come la caricatura di una montagna, tutta guglie frastagliate, creste affilate, pareti assurdamente verticali, stretti cornicioni, ampie terrazze e cime ammantate di neve larghe appena quel tanto da reggere in piedi una persona… e solo a piedi uniti.

Il fiume vi serpeggiò, attraversò i campi di contenimento multistrato a mezzo chilometro dalla montagna, incrociò una depressione erbosa nella terrazza più ampia, si tuffò per cento e più metri di lenta cascata nella terrazza successiva, poi rimbalzò in rivoletti di spuma abilmente congegnati che formavano cinque o sei ruscelli minori e cascatelle lungo la parete montuosa.

Il Tribunale era riunito sulla terrazza più alta. Diciassette Ouster — sei maschi, sei femmine, cinque di sesso indeterminato — sedevano all'interno di un cerchio di pietra posto in un cerchio più ampio di erba cinta da pareti di roccia. Il Console era al centro dei due cerchi.

— Si rende conto — disse Freeman Ghenga, il Portavoce dei Cittadini Eleggibili del Clan Freeman dello Sciame Transtaural — che noi siamo al corrente del suo tradimento?

— Sì — disse il Console. Si era messo il migliore abito blu scuro e il tricorno da diplomatico.

— Si rende conto che lei ha ucciso Freeman Andil, Freeman Iliam, Coredwell Betz e Mizenspesh Torrence?

— Conoscevo Andil — disse piano il Console. — Non sono stato presentato ai tecnici.

— Ma li ha assassinati?

— Sì.

— Senza provocazione né avvertimento.

— Sì.

— Assassinati per impossessarsi del congegno che avevano depositato su Hyperion. Il dispositivo che, come le avevamo detto, avrebbe fatto collassare le cosiddette maree del tempo, avrebbe aperto le Tombe e liberato lo Shrike.

— Sì. — Sembrava che lo sguardo del Console fissasse qualcosa al di sopra della spalla di Freeman Ghenga, ma lontano, molto lontano.

— Avevamo spiegato — disse Ghenga — che il congegno andava usato dopo l'allontanamento delle navi dell'Egemonia. Nell'imminenza dell'invasione e dell'occupazione. Quando era possibile… controllare lo Shrike.

— Sì.

— Tuttavia lei ha assassinato la nostra gente, ci ha mentito sulla causa della loro morte e ha attivato personalmente il congegno, anni prima del dovuto.

— Sì.

Melio Arundez e Theo Lane, in piedi a lato del Console, un passo più indietro, assistevano con espressione torva.

Freeman Ghenga incrociò le braccia. Era una donna alta, nel classico modo Ouster: calva, snella, drappeggiata in una regale flussoveste blu scuro che pareva assorbire la luce. Aveva un viso vecchio, ma quasi privo di rughe, e occhi scuri.

— Anche se questo è accaduto quattro dei suoi anni standard fa, crede che avremmo dimenticato? — domandò Ghenga.

— No. — Il Console abbassò lo sguardo per fissarla negli occhi. Parve quasi sorridere. — Poche culture dimenticano i traditori, Freeman Ghenga.

— Eppure lei è tornato.

Il Console non rispose. Accanto a lui, Theo sentì una lieve brezza tirargli il tricorno da cerimonia. Aveva l'impressione di sognare ancora. Il viaggio era stato surrealistico.

Tre Ouster li avevano accolti sopra una gondola lunga e bassa che galleggiava facilmente sulle acque calme, alla base della nave del Console. I tre ospiti dell'Egemonia si erano seduti al centro; l'Ouster a poppa aveva usato un lungo palo per staccarsi da riva e la barca si era mossa seguendo lo stesso percorso dell'andata, come se la corrente di quel fiume assurdo avesse invertito direzione. Theo aveva davvero chiuso gli occhi, quando si erano avvicinati alla cascata dove il fiume si alzava a perpendicolo sulla superficie dell'asteroide; ma quando, un secondo dopo, li aveva riaperti, il basso era sempre basso e il fiume pareva scorrere in modo normale, anche se la sfera erbosa del piccolo mondo era sospesa di lato, come una grande parete ricurva, e si vedevano le stelle attraverso il nastro di acqua spesso due metri.

Poi avevano varcato il campo di contenimento, erano usciti dall'atmosfera, e la velocità era aumentata mentre seguivano il nastro di acqua serpeggiante. Erano all'interno di un campo di contenimento tubolare — la logica e il fatto di essere ancora vivi lo esigevano — ma non c'era il solito scintillio e la struttura ottica così rassicurante sulle navi-albero dei Templari o negli habitat turistici aperti allo spazio. Qui c'era solo il fiume, la barca, la gente e l'immensità dello spazio.

«Non possono usare questo sistema come mezzo di trasporto fra le unità dello Sciame» aveva detto, con voce scossa, il dottor Melio Arundez. Theo aveva notato che Arundez si reggeva con dita sbiancate alla murata. L'Ouster a poppa e i due a prua avevano risposto solo con un cenno di conferma, quando il Console aveva domandato se era quello il trasporto promesso.

«Vogliono mettersi in mostra» aveva detto piano il Console. «Quando lo Sciame è fermo, si servono del fiume, ma per scopi cerimoniali. Se lo usano quando lo Sciame è in movimento, lo fanno solo per ottenere un certo effetto.»

«Per impressionarci con la loro tecnologia superiore?» aveva chiesto Theo, sottovoce.

Il Console aveva annuito.

Il fiume compiva giravolte nello spazio, a tratti si ripiegava quasi su se stesso in curve grandi e assurde, a tratti si attorcigliava in spire strette come funi di fibroplastica, ma scintillava sempre alla luce del sole di Hyperion e rimpiccioliva all'infinito più avanti. A volte oscurava il sole e allora aveva colori fantastici; Theo rimase a bocca aperta, quando il fiume descrisse un anello di cento metri sopra di loro, con il contorno di pesci contro il disco del sole.

Ma il fondo della barca era sempre in basso e procedevano, a quella che certo era la velocità di trasferimento cislunare, in un fiume non interrotto da rocce né da rapide. Sembrava, come notò Arundez dopo qualche minuto di viaggio, di spingere la canoa oltre il bordo di un'immensa cascata e godersi la discesa.

Il fiume oltrepassò alcuni elementi dello Sciame, che riempivano il cielo come false stelle: massicce fattorie cometa, con la superficie polverosa interrotta dalle geometrie delle messi sotto vuoto spinto; città globulari a zero-g, grandi sfere irregolari di membrana trasparente che sembravano improbabili amebe piene di flora e di fauna affaccendate; gruppi di compressione lunghi dieci chilometri, accresciuti nel corso dei secoli, con i moduli più interni e i contenitori di vita e le ecologie che sembravano oggetti artigianali privi di utilità, rubati a O'Neill e all'alba dell'era spaziale; foreste vaganti che ricoprivano centinaia di chilometri come immensi letti galleggianti di fuchi, connessi ai propri gruppi di compressione e ai noduli di comando mediante campi di contenimento e intricate matasse di radici e di stoloni… le forme-albero sferiche che ondeggiavano alle brezze gravitazionali e splendevano di verde vivo e di arancione scuro e delle centinaia di sfumature dell'autunno della Vecchia Terra quando si trovavano sotto la luce diretta del sole; asteroidi resi cavi, da tempo abbandonati dai residenti, ora ceduti alla produzione automatizzata e ai riprocessori di metallo pesante, ogni centimetro della superficie rocciosa coperto da costruzioni, camini e scheletriche torri di raffreddamento, il bagliore dei loro fuochi di fusione interna che rendevano ogni mondo pieno di scorie simile alla fucina di Vulcano; immensi globi di ancoraggio la cui scala era evidenziata da navi da guerra della grandezza di navi torcia e incrociatori che svolazzavano intorno come spermatozoi all'attacco di un ovulo; e, più indelebili, organismi che il fiume sfiorava o che volavano lungo il fiume… organismi che potevano essere manufatti o nati, ma probabilmente tutt'e due le cose, grandi sagome di farfalle che aprivano al sole ali di energia, insetti che erano vascelli spaziali o viceversa, con le antenne che si giravano verso il fiume al passaggio della gondola, occhi sfaccettati che luccicavano alla luce delle stelle, sagome dalle ali più piccole — umane — che entravano e uscivano da un'apertura in un ventre grande quanto il portello navette di un trasporto truppe della FORCE.

E infine erano giunti alla montagna… un'intera catena, in realtà: alcune montagne butterate da centinaia di bolle ambientali, alcune aperte allo spazio ma sempre densamente popolate, alcune collegate alle altre da ponti sospesi lunghi trenta chilometri o da affluenti, altre regali nel loro isolamento, parecchie vuote e formali come un giardino Zen. Poi la montagna finale, più alta di Mons Olympus e di monte Hillary su Asquith, e il penultimo tuffo del fiume verso la vetta, con Theo e il Console e Arundez, pallidi e muti, aggrappati con quieta intensità ai banchi, mentre si tuffavano per gli ultimi chilometri a velocità all'improvviso percettibile e terrificante. Infine, negli impossibili ultimi cento metri, mentre il fiume perdeva energia senza decelerare, furono di nuovo circondati da un'atmosfera più estesa e la barca si fermò in un prato erboso dove il Tribunale di Clan degli Ouster era in attesa, e le pietre si alzavano nel loro cerchio di silenzio simili a quelle di Stonehenge.

«Se volevano impressionarmi» aveva mormorato Theo, mentre la barca urtava la riva erbosa «ci sono riusciti in pieno.»


— Perché è tornato nello Sciame? — domandò Freeman Ghenga. Andò avanti e indietro, muovendosi nella bassa gravità con la grazia comune solo a chi è nato nello spazio.

— Il PFE Gladstone mi ha chiesto di tornare — rispose il Console.

— Ed è venuto pur sapendo di perdere la vita?

Da buon gentiluomo e diplomatico, il Console non scrollò le spalle, ma la sua espressione trasmise il medesimo messaggio.

— Cosa vuole Gladstone? — domandò un altro Ouster, l'uomo che Ghenga aveva presentato come Portavoce dei Cittadini Eleggibili, Coredwell Minmun.

Il Console espose i cinque punti del PFE.

Il Portavoce Minmun incrociò le braccia e guardò Freeman Ghenga.

— Risponderò ora — disse Ghenga. Guardò Arundez e Theo. — Voi due ascoltate attentamente, nel caso che il latore di queste domande non torni con voi alla nave.

— Un momento — disse Theo, avanzando di un passo per fronteggiare l'Ouster più alto di lui. — Prima di pronunciare una sentenza, dovete tenere conto del fatto che…

— Silenzio — ordinò il Portavoce Freeman Ghenga, ma Theo era già stato zittito dalla mano del Console sulla spalla.

— Risponderò ora alle domande — ripeté Ghenga. Molto in alto, una ventina delle piccole navi da guerra che la FORCE chiamava lancer passò in un lampo silenzioso, saettando a zigzag come un banco di pesci, a un'accelerazione di 300 g.

— Primo — disse Ghenga — Gladstone domanda perché attacchiamo la Rete. — S'interruppe, guardò gli altri sedici Ouster lì riuniti, proseguì. — Noi non l'attacchiamo. A parte questo Sciame, che voleva occupare Hyperion prima che le Tombe del Tempo si aprissero, nessun altro attacca la Rete.

Tutt'e tre gli uomini dell'Egemonia si fecero avanti. Anche il Console aveva perso la patina di calma assorta e quasi balbettava per l'agitazione.

— Non è vero! Abbiamo visto noi le…

— Ho visto le immagini astrotel riguardanti…

— Porta del Paradiso è stato distrutto! Bosco Divino è stato bruciato!

— Silenzio! — ordinò Freeman Ghenga. E nel silenzio disse: — Solo questo Sciame è in guerra con l'Egemonia. I nostri Sciami Confratelli sono dove i rivelatori a lungo raggio della Rete li hanno localizzati all'inizio… si allontanano dalla Rete, fuggono da altre provocazioni come lo scontro di Bressia.

Il Console si strofinò il viso come uno che si svegli. — Ma allora chi…

— Infatti — disse Freeman Ghenga. — Chi ha la capacità di portare avanti una simile sciarada? E il motivo per uccidere esseri umani a miliardi?

— Il Nucleo? — mormorò il Console.

La montagna ruotava lentamente e in quell'istante scese la notte. Una brezza di convezione passò sulla terrazza e agitò le vesti degli Ouster e la cappa del Console. In alto, le stelle parvero esplodere in tutto il loro splendore. Le grandi pietre del cerchio simile a Stonehenge parvero brillare di una sorta di calore interno.

Theo Lane si portò al fianco del Console, temendo che crollasse. — Abbiamo solo la sua parola, su questo — disse al portavoce Ouster. — Non ha senso.

Ghenga non batté ciglio. — Vi mostreremo le prove. Localizzatori di trasmissioni Vuoto Legante. Immagini in tempo reale dei campi stellari dei nostri Sciami Confratelli.

— Vuoto Legante? — disse Arundez. La voce, di solito calma, mostrò agitazione.

— Quello che voi chiamate astrotel. — Il Portavoce Freeman Ghenga si accostò alla pietra più vicina e passò la mano sulla superficie scabra, come per scaldarsi al calore interno. In alto i campi stellari piroettarono.

— Per rispondere alla seconda domanda di Gladstone — continuò — non sappiamo dove risieda il Nucleo. Per secoli l'abbiamo sfuggito e combattuto, cercato e temuto; ma non l'abbiamo trovato. Dovete darci voi la risposta a questa domanda! Noi abbiamo dichiarato guerra all'entità parassitica che chiamate TecnoNucleo.

Il Console parve afflosciarsi. — Non ne abbiamo la minima idea. Esperti della Rete l'hanno cercato fin da prima dell'Egira, ma il Nucleo è elusivo come l'Eldorado. Non abbiamo scoperto mondi nascosti, né grandi asteroidi colmi di hardware, né tracce nei mondi della Rete. — Con la sinistra fece un gesto stanco. — Per quel che ne sappiamo, il Nucleo potrebbe essere nascosto in uno dei vostri Sciami.

— No — disse il Portavoce Coredwell Minmun.

Il Console scrollò le spalle, finalmente. — L'Egira ha trascurato migliaia di mondi, durante la Grande Esplorazione. Tutti i pianeti che non raggiungevano almeno il livello di 9,7 nella scala della somiglianza alla Terra, sono stati ignorati. Il Nucleo può trovarsi dovunque, lungo queste prime linee di esplorazione. Non lo troveremo mai… e se lo trovassimo, la scoperta avverrebbe anni e anni dopo la distruzione della Rete. Voi eravate la nostra ultima speranza di localizzarlo.

Ghenga scosse la testa. Molto più in alto, la vetta colse la luce dell'alba, mentre il terminatore avanzava sui campi di ghiaccio a velocità quasi allarmante. — Terzo — continuò Ghenga — Gladstone ha domandato quali sono le nostre richieste per il cessate il fuoco. A parte questo Sciame, in questo sistema, non siamo noi gli assalitori. Accetteremo un cessate il fuoco non appena Hyperion sarà sotto il nostro controllo… cosa che dovrebbe avvenire a brevissima scadenza. Le nostre forze di spedizione hanno già il controllo della capitale e dello spazioporto.

— Al diavolo, lo dite voi — fece Theo, stringendo i pugni senza volere.

— Al diavolo, lo diciamo proprio noi — convenne Freeman Ghenga. — Riferite a Gladstone che ora ci uniremo a voi nella lotta comune contro il TecnoNucleo. — Diede un'occhiata ai silenziosi componenti del Tribunale. — Tuttavia, dal momento che siamo a parecchi anni di viaggio dalla Rete e che non ci fidiamo dei vostri teleporter controllati dal Nucleo, il nostro aiuto consisterà necessariamente in rappresaglie per la distruzione della vostra Egemonia. Sarete vendicati.

— Pensiero rassicurante — disse il Console, secco.

— Quarto, Gladstone ha chiesto un incontro. La risposta è sì… se Gladstone è disposta, come ha detto, a venire nel sistema di Hyperion. Abbiamo conservato il teleporter della FORCE proprio per un caso del genere. Noi non viaggeremo per teleporter!

— Perché no? — domandò Arundez.

Un terzo Ouster, non presentato, uno del tipo provvisto di pelliccia e magnificamente mutato, prese la parola. — L'apparecchio che chiamate teleporter è un abominio… una corruzione del Vuoto Legante.

— Ah, motivi religiosi — disse il Console, annuendo, comprensivo.

L'Ouster dall'esotica pelliccia a strisce scosse con decisione la testa.

— No! La rete di teleporter è il giogo al collo dell'umanità, il contratto di asservimento che vi ha legati al ristagno. Non vogliamo saperne.

— Quinto — riprese Freeman Ghenga — Gladstone fa riferimento a un ordigno esplosivo simile alla neuroverga: non è altro che un rozzo ultimatum. Ma, come abbiamo detto, rivolto all'avversario sbagliato. Le forze che invadono la vostra fragile Rete non appartengono ai Clan dei Dodici Sciami Confratelli.

— Su questo abbiamo solo la sua parola — disse il Console. Lo sguardo, fisso negli occhi di Ghenga, era fermo e spavaldo.

— Lei non ha la mia parola su niente — disse il Portavoce Ghenga. — Gli anziani del Clan non danno la parola a schiavi del Nucleo. Ma questa è la verità.

Il Console parve turbato, mentre si girava a mezzo verso Theo.

— Dobbiamo informare immediatamente Gladstone. — Si rivolse di nuovo a Ghenga. — I miei amici possono tornare alla nave per trasmettere la sua risposta, Portavoce?

Ghenga annuì e ordinò con un gesto di preparare la gondola.

— Non torniamo senza di lei — disse Theo al Console, mettendosi fra lui e gli Ouster più vicini, quasi a proteggerlo col suo stesso corpo.

— Sì — disse il Console, toccandogli di nuovo il braccio. — Tornate senza di me. Dovete tornare.

— Ha ragione — disse Arundez, tirando via Theo prima che protestasse di nuovo. — Sono notizie troppo importanti, per rischiare di non trasmetterle. Torni alla nave. Con lui resto io.

Ghenga rivolse un gesto a due degli Ouster dall'aspetto più esotico. — Tornerete alla nave tutt'e due. Il Console resterà qui. Il Tribunale non ha ancora deciso la sua sorte.

Arundez e Theo si girarono a pugni alzati, ma gli Ouster coperti di pelliccia li afferrarono e li portarono via, usando il minimo di forza, come adulti nei confronti di bambini piccoli ma ribelli.

Mentre li sistemavano nella gondola, il Console soffocò l'impulso di salutarli col braccio; l'imbarcazione si mosse di venti metri giù per il placido fiume, sparì dietro la curva della terrazza, ricomparve per risalire la cascata verso il nero dello spazio. Nel giro di qualche minuto svanì nel bagliore del sole. Lentamente, il Console guardò negli occhi ciascuno dei diciassette Ouster.

— Facciamola finita — disse. — Ho aspettato a lungo questo processo.


Seduto fra le grandi zampe della Sfinge, Sol Weintraub guardò la tempesta calmarsi, il vento morire passando dall'urlo al sospiro e al mormorio, le cortine di polvere assottigliarsi e poi aprirsi per mostrare le stelle, la notte assestarsi infine in una calma spaventosa. Le Tombe risplendevano più intensamente di prima, ma niente uscì dal vivido vano di ingresso della Sfinge e Sol non poté entrare, perché la spinta della luce accecante sembrava quella di migliaia di dita contro il petto; e per quanto si piegasse e si sforzasse, Sol non riusciva ad avvicinarsi a meno di tre metri dall'entrata. Qualsiasi cosa fosse ferma o si muovesse o aspettasse all'interno, era invisibile nel bagliore.

Sol si sostenne alla scala di pietra, mentre le maree del tempo lo tiravano, lo strattonavano, lo costringevano a piangere nel falso choc del déjà vu. La Sfinge intera pareva scuotersi e tremare nella violenta tempesta dei campi anti-entropici che si espandevano e si contraevano.

Rachel.

Sol non sarebbe mai andato via, finché c'era la minima possibilità che sua figlia fosse viva. Disteso sulla fredda pietra, ascoltando morire l'urlo del vento, Sol vide apparire le gelide stelle, vide le scie meteoriche e le lance laser della guerra orbitale, seppe in cuor suo che la guerra era perduta, che la Rete era in pericolo, che grandi imperi cadevano mentre lui guardava, che la razza umana era forse sull'orlo della notte infinita… e se ne fregò.

A Sol Weintraub importava solo sua figlia.

E mentre era lì disteso, freddo, schiaffeggiato dal vento e dalle maree del tempo, livido di fatica e svuotato per la fame, Sol sentì scendere su di sé una certa pace. Aveva dato a un mostro sua figlia, ma non perché Dio gliel'avesse ordinato, non perché il destino o la paura l'avessero voluto, ma solo perché sua figlia gli era apparsa in sogno e gli aveva detto che era giusto, che era la cosa da fare, che il loro amore… il suo, quello di Sarai e di Rachel… lo richiedeva.

"Alla fine" pensò Sol "al di là della logica e della speranza, sono i sogni e l'amore delle persone più care a formare la risposta di Abramo a Dio."

Il comlog di Sol non funzionava più. Poteva essere trascorsa un'ora, o cinque, da quando lui aveva dato allo Shrike la figlia morente. Sol si distese, sempre aggrappato alla pietra, mentre le maree del tempo scuotevano la Sfinge come una barchetta in un mare smisurato e fissò le stelle e la battaglia nel cielo.

Puntini luminosi andavano alla deriva, risplendevano come supernove quando le lance laser li trovavano, cadevano in una pioggia di detriti fusi… dal bianco ardente al rosso, al blu fiamma, al buio. Sol immaginò navette in fiamme, soldati Ouster e marines dell'Egemonia che morivano in un frastuono di aria risucchiata e di titanio fuso… cercò di immaginarlo… e fallì. Capì che le battaglie spaziali, i movimenti delle flotte e la caduta di imperi erano al di là della sua immaginazione, nascosti alle sue riserve di sensibilità o di comprensione. Simili cose appartenevano a Tucidide e a Tacito e a Catton e a Wu. Sol aveva conosciuto la senatrice del Mondo di Barnard, si era incontrato con lei diverse volte, quando lui e Sarai cercavano di salvare Rachel dal morbo di Merlino, ma non riusciva a immaginare la partecipazione di Feldstein alla vastità della guerra interstellare… o a qualsiasi cosa più grande dell'inaugurare un nuovo centro medico nella capitale Bussard o stringere le mani durante un raduno all'università di Crawford.

Sol non aveva mai incontrato l'attuale PFE dell'Egemonia ma, come studioso, ne aveva apprezzato l'uso arguto di discorsi di figure classiche come Churchill, Lincoln, Alvarez-Temp. Ora, disteso fra le zampe della grande bestia di pietra a piangere la figlia perduta, non riusciva a immaginare che cosa ci fosse nella mente di quella donna, mentre prendeva decisioni che avrebbero salvato o condannato miliardi di persone, salvato o tradito il più grande impero della storia umana.

Sol se ne sbatteva. Voleva indietro sua figlia. Voleva che Rachel fosse viva, contro ogni logica.

Disteso fra le zampe della Sfinge, in un mondo assediato di un impero invaso. Sol Weintraub si asciugò le lacrime per vedere meglio le stelle e pensò alla poesia di Yeats, "Preghiera per mia figlia":

Ancora una volta la tempesta ulula e seminascosta

sotto il soffietto della culla e il copriletto

mia figlia continua a dormire. Non ci sono ostacoli

tranne il bosco di Gregory e un solo colle brullo

dove il vento che livella covoni di fieno e tetti,

nato sull'Atlantico, può essere arrestato;

e per un'ora ho camminato e pregato

mosso dalla grande tristezza che ho nella mente.

Ho camminato e pregato per questa bimbetta un'ora

e ho udito il vento del mare urlare sulla torre

e sotto le arcate del ponte, e urlare

fra gli olmi del fiume straripato;

immaginando in eccitata fantasticheria

che gli anni futuri siano venuti,

danzando al suono di un tamburo frenetico,

dall'innocenza assassina del mare…

Tutto quel che voleva, Sol capì, era riavere un'altra volta la stessa possibilità di preoccuparsi per quegli anni futuri che ogni genitore teme e paventa. Di non permettere che l'infanzia e la giovinezza e i primi goffi anni della maturità della figlia fossero rubati e distrutti dalla malattia.

Sol aveva vissuto desiderando il ritorno di cose che non potevano tornare. Ricordò il giorno in cui aveva sorpreso Sarai a piegare i vestitini da bambina di Rachel e riporli in un baule in soffitta; e ricordò le lacrime della moglie e il proprio senso di perdita per la figlia che ancora avevano, ma che per loro era perduta, a causa della semplice direzione del tempo. Sol capì che ben poco può rivivere se non nel ricordo… che Sarai era morta e non poteva più tornare, che gli amici e il mondo dell'infanzia di Rachel erano svaniti per sempre, che perfino la società lasciata solo alcune settimane prima stava scomparendo al di là di ogni ritorno.

E pensando a questo, disteso fra le unghiute zampe della Sfinge mentre il vento moriva e le false stelle bruciavano, Sol ricorda un brano di un'altra poesia di Yeats, molto più sinistra:

Certo una rivelazione è a portata di mano;

certo il Secondo Avvento è imminente.

Il Secondo Avvento! Queste parole non sono ancora pronunciate

quando una vasta immagine uscita dallo Spiritus mundi

mi confonde la vista: da qualche parte nelle sabbie del deserto

una sagoma con corpo di leone e testa di uomo,

sguardo vuoto e spietato come il sole,

muove i lenti fianchi, mentre tutt'intorno

vorticano le ombre degli indignati uccelli del deserto.

Le tenebre cadono di nuovo; ma ora so

che venti secoli di sonno di pietra

furono agitati in incubo da una culla dondolante,

e quale mala bestia, giunta infine la sua ora,

cammina verso Betlemme per nascere?

Sol non lo sa. Sol scopre di nuovo che non gliene importa niente. Sol rivuole sua figlia.


A quanto pareva, nel Consiglio di Guerra la maggioranza era per l'uso della bomba.

Meina Gladstone, seduta all'estremità del lungo tavolo, provò quel senso di distacco, peculiare e non spiacevole, che proviene dal troppo poco sonno per un periodo troppo lungo. Chiudere gli occhi, anche per un secondo, significava scivolare nel nero ghiaccio della stanchezza: perciò Gladstone non chiuse gli occhi, anche quando le bruciarono e il borbottio monotono degli interventi, della conversazione, del dibattito urgente, svanirono e si perdettero fra spesse cortine di esaurimento fisico.

Il Consiglio aveva osservato le faville dell'Unità Operativa 181.2 — il gruppo di assalto del capitano di fregata Lee — spegnersi a una a una, finché solo una decina dei settantaquattro puntini luminosi originari era rimasta a spingersi verso il centro dello Sciame in avvicinamento. L'incrociatore di Lee era fra questi.

Durante lo scontro silenzioso, l'astratta e bizzarramente attraente rappresentazione di morte violenta e fin troppo reale, l'ammiraglio Singh e il generale Morpurgo avevano completato la loro fosca valutazione della guerra.

— … FORCE e il Neo-Bushido furono creati per conflitti limitati, scaramucce secondarie, sconfinamenti e mire modeste — ricapitolò Morpurgo. — Con meno di mezzo milione di uomini e donne sotto le armi, la FORCE non è paragonabile all'esercito di una delle nazioni-stato della Vecchia Terra di mille anni fa. Lo Sciame può travolgerci con il semplice numero, impiegare una capacità di fuoco superiore alla nostra flotta, vincere grazie all'aritmetica.

Dal suo posto all'altro capo del tavolo, il senatore Kolchev gli lanciò un'occhiata di fuoco. Durante il dibattito, il lusiano era stato molto più attivo di Gladstone: le domande erano rivolte a lui più spesso che a Gladstone, come se quasi tutti nella sala sapessero a livello inconscio che il potere cambiava, che la fiaccola del comando stava per passare di mano.

"Non ancora" pensò Gladstone, unendo la punta delle dita e battendosi il mento; ascoltò Kolchev controbattere il generale.

— … di ritirarci e difendere mondi essenziali compresi nell'elenco della seconda ondata… Tau Ceti Centro, ovviamente, ma anche mondi industrializzati indispensabili come Rinascimento Minore, Fuji, Deneb Vier e Lusus?

Il generale Morpurgo abbassò lo sguardo e mosse le carte, come se volesse nascondere l'improvviso lampo di collera che gli aveva acceso gli occhi. — Senatore, restano meno di dieci giorni standard, prima che la seconda ondata completi la lista di bersagli. Rinascimento Minore sarà sotto attacco entro novanta ore. Ho cercato di spiegare che, con la grandezza, struttura e tecnologia attuali della FORCE, non siamo sicuri nemmeno di riuscire a tenere un solo sistema… TC2, per esempio.

Il senatore Kakinuma si alzò. — Non è accettabile, generale.

Morpurgo alzò gli occhi. — Ne convengo, senatore. Ma è vero.

Il presidente pro tempore Denzel-Hiat-Amin scosse la testa grigia. — Non ha senso. Non esistevano piani di difesa della Rete?

Senza alzarsi, l'ammiraglio Singh rispose: — Le stime più accurate dicevano che avremmo avuto un minimo di diciotto mesi, se gli Sciami ci avessero aggredito.

Il ministro della diplomazia Persov si schiarì la voce. — E se… se dovessimo concedere agli Ouster questi venticinque mondi, ammiraglio, quanto tempo passerebbe, prima che una delle due ondate di assalto ne aggredisca altri?

Singh non ebbe bisogno di consultare gli appunti. — Dipende dai bersagli, signor Persov. Il mondo più vicino, Esperance, sarebbe a nove mesi standard dallo Sciame più avanzato. Il bersaglio più lontano, il Sistema Patrio, sarebbe a circa quattordici anni di motore Hawking.

— Tempo sufficiente per passare a un'economia di guerra — disse la senatrice Feldstein. Il suo collegio elettorale, sul Mondo di Barnard, aveva meno di quaranta ore standard di vita. Feldstein aveva giurato di essere con i suoi elettori, al momento della fine. La sua voce era precisa, spassionata. — Ha senso. Tagliare le perdite. Anche senza TC2 e altri ventiquattro mondi, la Rete è in grado di produrre quantità incredibili di matériel bellico… in soli nove mesi. Nel corso degli anni necessari agli Ouster per penetrare più a fondo, dovremmo riuscire a sconfiggerli solo grazie alla pura e semplice massa industriale.

Il ministro della Difesa Imoto scosse la testa. — Nelle prime due ondate perderemo materie prime insostituibili. Lo scombussolamento dell'economia della Rete sarà sbalorditivo.

— Abbiamo scelta? — domandò il senatore Peters di Deneb Drei.

Tutti si girarono verso la persona seduta a fianco del consulente Albedo.

Quasi a sottolineare l'importanza del momento, una nuova IA era stata ammessa al Consiglio di Guerra, con il compito di presentare l'arma goffamente battezzata "neurobomba". Il consigliere Nansen era alto, maschio, abbronzato, rilassato, impressionante, convincente, affidabile e imbevuto di quel raro carisma da leader che attira stima e simpatia.

Meina Gladstone trovò subito antipatico il nuovo consulente e ne ebbe paura. Le parve che quella proiezione fosse stata elaborata dagli esperti delle IA per creare proprio la reazione di fiducia e di ubbidienza che intuiva già in atto in alcuni dei presenti. E, temeva Gladstone, il messaggio di Nansen significava morte.

La neuroverga era stata per secoli tecnologia della Rete: progettata dal Nucleo e limitata nell'uso al personale della FORCE e ad alcune organizzazioni di sicurezza specializzate, come quella della Casa del Governo e come i Pretoriani di Gladstone. Non bruciava, esplodeva, sparava, scorificava, inceneriva. Non provocava rumore e non proiettava raggio visibile né impronta sonica. Si limitava a far morire il bersaglio.

Se il bersaglio era umano, cioè. Il raggio di azione della neuroverga era limitato, non più di quindici metri; ma, in questo raggio, il bersaglio umano moriva, mentre animali e oggetti erano completamente al sicuro. L'autopsia mostrava segni di interferenza nelle sinapsi e nessun altro danno. Per generazioni gli ufficiali della FORCE avevano portato la neuroverga come arma personale e simbolo di autorità.

Ora, rivelò il consulente Nansen, il Nucleo aveva perfezionato un ordigno che utilizzava su scala più vasta il principio della neuroverga. Aveva esitato a rivelarne l'esistenza, ma vista l'imminente e orribile minaccia dell'invasione Ouster…

Le domande erano state energiche e a volte ciniche, con i militari più scettici dei politici. Sì, la neurobomba poteva eliminare gli Ouster, ma che cosa sarebbe accaduto alla popolazione dell'Egemonia?

La si poteva mettere al riparo in uno dei mondi labirinto, aveva risposto Nansen, ripetendo la precedente proposta del consulente Albedo. Cinque chilometri di roccia l'avrebbero riparata dagli effetti delle increspature neurali in espansione.

Quanto si propagavano, questi raggi della morte?

Già a una distanza di poco inferiore ai tre anni-luce non avevano più effetto letale, rispose Nansen, calmo, fiducioso… l'ultimo piazzista della penultima campagna vendite. Una zona abbastanza ampia da liberare qualsiasi sistema dello Sciame aggressore. E abbastanza ridotta da interessare solo i sistemi stellari più vicini. Il 92% dei mondi della Rete non aveva altri pianeti abitati nel raggio di cinque anni-luce.

E quelli che non potevano essere evacuati? La domanda era stata di Morpurgo.

Il consulente Nansen aveva sorriso e aveva allargato le mani come per mostrare che non vi nascondeva niente. Non mettete in funzione l'ordigno finché non siete sicuri che tutti i cittadini dell'Egemonia sono stati fatti evacuare o messi al riparo, aveva detto. Ogni cosa, dopotutto, sarebbe sotto vostro controllo.

Feldstein, Sabenstorafem, Peters, Persov e molti altri si erano subito mostrati entusiasti. Un'arma segreta per porre fine a tutte le armi segrete. Si poteva avvertire gli Ouster… organizzare una dimostrazione.

Spiacente, aveva detto Nansen. I denti, quando sorrideva, erano candidi come la veste. Non possono esserci dimostrazioni. L'arma funziona proprio come una neuroverga, solo in uno spazio molto più ampio. Non ci saranno danni alle cose, effetti di esplosione né onde di urto misurabili al di sopra del livello neutrinico. Solo invasori morti.

Per fare una dimostrazione, aveva spiegato il consulente Albedo, bisogna usarla almeno contro uno Sciame Ouster.

L'entusiasmo del Consiglio di Guerra non era diminuito. Perfetto, aveva detto lo Speaker della Totalità Gibbons, scegliamo uno Sciame, proviamo l'ordigno, trasmettiamo i risultati agli altri Sciami e diamo loro un'ora di tempo per ritirarsi. Non abbiamo provocato noi questa guerra. Meglio milioni di nemici morti che una guerra che reclami decine di miliardi nel prossimo decennio.

Hiroshima, aveva detto Gladstone, il suo unico commento della giornata. La parola era stata pronunciata a voce troppo bassa perché gli altri la udissero, tranne Sedeptra.

Morpurgo aveva domandato: «Siamo sicuri che i raggi perderanno efficacia dopo tre anni-luce? Li avete provati?»

Il consulente Nansen aveva sorriso. Se rispondeva sì, da qualche parte c'erano mucchi di cadaveri umani. Se rispondeva no, l'attendibilità della neurobomba era seriamente in discussione. Siamo certi che funzionerà, aveva detto Nansen. Le prove simulate sono state infallibili.

"Le IA della Squadra Kiev dissero la stessa cosa a proposito della prima anomalia teleporter" pensò Gladstone. "Quella che distrusse la Terra." Non disse niente a voce.

Tuttavia, Singh e Morpurgo e Van Zeidt e i loro specialisti avevano spuntato le frecce di Nansen dimostrando che era impossibile evacuare rapidamente Mare Infinitum e che l'unico mondo della Rete minacciato dalla prima ondata, in possesso di un proprio labirinto, era Armaghast e si trovava a meno di un anno-luce da Pacem e da Svoboda.

Il sorriso caloroso, servizievole, di Nansen non vacillò. — Voi volete una dimostrazione, e mi sembra ragionevole — disse piano. — Dovete mostrare agli Ouster che l'invasione non sarà tollerata, pur concentrandovi su una perdita minima di vite. E dovete mettere al riparo la popolazione dell'Egemonia. — S'interruppe, congiunse le mani. — Che ne dite di Hyperion?

Intorno al tavolo il brusio divenne più intenso.

— Non è un vero e proprio mondo della Rete — disse lo Speaker Gibbons.

— Ma ora è nella Rete, con il teleporter della FORCE ancora sul posto! — esclamò Garion Persov della Diplomazia: era chiaro che aveva sposato subito l'idea.

L'espressione severa del generale Morpurgo non mutò. — Resterà lì solo per alcune ore. Al momento proteggiamo la sfera dell'anomalia, ma potrebbe cadere da un istante all'altro. Gran parte di Hyperion è nelle mani degli Ouster.

— Ma il personale dell'Egemonia è stato evacuato? — disse Persov.

Rispose Singh. — Tutti, tranne il governatore generale. Non è stato rintracciato, nella confusione.

— Peccato — disse il ministro Persov, senza molta convinzione. — Ma il punto è un altro: la popolazione rimasta è quasi tutta indigena e ha facile accesso al labirinto, dico bene?

Barbre Dan-Gyddis, del Ministero dell'Economia, il cui figlio era stato direttore di una piantagione di fibroplastica nei pressi di Port Romance, disse: — Nel giro di tre ore? Impossibile.

Nansen si alzò. — Non credo. Possiamo trasmettere per astrotel l'avvertimento alle autorità autonome della capitale. Penseranno loro a iniziare immediatamente l'evacuazione. Esistono migliaia di ingressi al labirinto di Hyperion.

— La capitale Keats è sotto assedio — brontolò Morpurgo. — L'intero pianeta è sotto attacco.

Il consulente Nansen annuì con espressione triste. — E presto sarà messo a ferro e fuoco dai barbari Ouster. Una scelta difficile, signore e signori. Ma l'ordigno funzionerà di sicuro. L'invasione cesserà semplicemente di esistere, nello spazio intorno a Hyperion. Sul pianeta milioni di persone si salverebbero e l'effetto sulle forze di invasione Ouster dislocate in altri punti sarebbe significativo. Sappiamo che i loro cosiddetti Sciami Confratelli comunicano mediante astrotel. L'eliminazione del primo Sciame a invadere lo spazio dell'Egemonia… lo Sciame di Hyperion… sarebbe il deterrente perfetto.

Nansen scosse di nuovo la testa e si guardò intorno, con un'aria di preoccupazione quasi paterna. Impossibile fingere una simile sincerità addolorata. — La decisione tocca a voi. L'arma è vostra: potete servirvene o lasciarla da parte. Al Nucleo non piace togliere vite umane… né, con l'inazione, permettere che vite umane si trovino in pericolo. Ma in questo caso, quando sono in ballo miliardi di vite… — Nansen allargò di nuovo le mani, scosse la testa per l'ultima volta e si sedette: era chiaro che rimetteva la decisione a menti e cuori umani.

Intorno al tavolo si levò un mormorio. Il dibattito crebbe, divenne quasi violento.

— PFE! — gridò il generale Morpurgo.

Nel silenzio improvviso, Gladstone alzò lo sguardo verso i display olografici nel buio in alto. Lo Sciame di Mare Infinitum cadeva verso il mondo oceanico come un torrente di sangue indirizzato su di una piccola sfera azzurra. Solo tre faville arancione dell'Unità Operativa 181.2 rimanevano; proprio mentre il Consiglio muto guardava, due si spensero. Poi si estinse anche l'ultima.

Gladstone mormorò nel comlog: — Trasmissioni, c'è stato un ultimo messaggio da parte dell'ammiraglio Lee?

— Nessuno al centro comando, signora — fu la risposta. — Solo telemetria astrotel standard, durante la battaglia. A quanto pare, non hanno raggiunto il centro dello Sciame.

Gladstone e Lee avevano nutrito qualche speranza di catturare degli Ouster, di interrogarli, di stabilire al di là di ogni dubbio l'identità del nemico. Ora quel giovanotto dotato di tanta energia e di tanta abilità era morto… morto per eseguire gli ordini di Meina Gladstone… e settantaquattro navi erano andate sprecate.

— Teleporter di Mare Infinitum distrutto da esplosivi al plasma programmati — annunciò l'ammiraglio Singh. — Elementi di avanguardia dello Sciame penetrano ora nel perimetro cislunare di difesa.

Nessuno aprì bocca. Le olografie mostrarono l'ondata di luci rosso sangue avvolgere il sistema di Mare Infinitum, mentre si spegnevano le ultime faville arancione intorno a quel mondo dorato.

Alcune centinaia di navi Ouster rimasero in orbita, presumìbilmente riducendo in detriti bruciati le aggraziate città galleggianti di Mare Infinitum e le fattorie marine, ma la maggior parte dell'ondata color sangue continuò a rotolare al di là della regione di spazio proiettata in alto.

— Il sistema di Asquith, fra tre ore e quarantuno minuti standard — intonò un tecnico accanto alla consolle di display.

Il senatore Kolchev si alzò. — Mettiamo ai voti la dimostrazione Hyperion — disse, rivolgendosi ostentatamente a Gladstone, ma parlando a tutti i presenti.

Meina Gladstone si tamburellò il labbro. — No — disse infine. — Nessuna votazione. Useremo l'ordigno. Ammiraglio, prepari per la traslazione nel sistema di Hyperion la nave torcia armata di neurobomba e poi trasmetta avvertimenti sia al pianeta sia agli Ouster. Conceda tre ore di tempo. Ministro Imoto, mandi a Hyperion segnale astrotel in codice per dire che devono… ripeto, devono… cercare immediatamente rifugio nei labirinti. Dica che sarà provata una nuova arma.

Morpurgo si asciugò il viso sudato. — Signora, non possiamo correre il rischio che l'ordigno cada in mani nemiche.

Gladstone lanciò un'occhiata al consulente Nansen e cercò di non mostrare quel che provava. — Consulente, l'ordigno può essere modificato in modo che esploda automaticamente, se la nostra nave fosse catturata o distrutta?

— Sì, signora.

— Provveda. Illustri agli esperti della FORCE i necessari accorgimenti di sicurezza. — Si rivolse a Sedeptra. — Preparami una trasmissione all'intera Rete, con inizio previsto dieci minuti prima\iella detonazione dell'ordigno. Devo parlarne alla nostra gente.

— Le sembra saggio… — iniziò la senatrice Feldstein.

— È necessario — disse Gladstone. Si alzò, subito imitata dai trentotto presenti. — Riposerò per qualche minuto, mentre voi lavorate. Voglio che l'ordigno sia pronto e si trovi nel sistema; e che Hyperion sia avvertito immediatamente. Fra trenta minuti, al mio risveglio, voglio trovare pronti piani di emergenza e una scaletta di priorità per una soluzione negoziata.

Guardò il gruppo, ben sapendo che, in un modo o nell'altro, nel giro delle successive venti ore gran parte dei presenti sarebbe stata senza potere e senza carica. In tutti i casi, quello era il suo ultimo giorno da Primo Funzionario Esecutivo.

Sorrise. — Consiglio sospeso — disse. E si teleportò nelle sue stanze per mezz'ora di sonno.

43

Prima d'ora Leigh Hunt non aveva mai visto nessuno morire. L'ultimo giorno e l'ultima notte che passò con Keats (Hunt pensava a lui ancora come Joseph Severn, ma era sicuro che il moribondo ora si considerava John Keats) furono i più difficili della sua vita. Le emorragie si manifestarono di frequente, nell'ultimo giorno di Keats; e fra i conati di vomito si sentiva il catarro gorgogliare nella gola e nel petto dell'uomo che lottava per vivere.

Hunt sedette accanto al letto, nella stanzetta affacciata su Piazza di Spagna, e ascoltò Keats borbottare, mentre l'alba si mutava in mattino e il mattino svaniva nel precoce crepuscolo. Keats, febbricitante, alternava momenti di incoscienza a momenti di lucidità, ma insistette che Hunt ascoltasse e mettesse per iscritto ogni sua parola… nell'altra stanza avevano trovato inchiostro, penna e carta protocollo; e Hunt acconsentì, scribacchiò con furia, mentre il cìbrido moribondo vaneggiava di metasfera e di divinità perdute, delle responsabilità dei poeti e della morte di dèi, della miltoniana guerra civile all'interno del Nucleo.

A quel punto Hunt alzò bruscamente la testa e strinse la mano febbricitante di Keats. — Dov'è, il Nucleo, Sev… Keats? Dove si trova?

Il moribondo, visibilmente sudato, girò il viso. — Non mi aliti in faccia… sembra ghiaccio!

— Il Nucleo — ripeté Hunt, tirandosi indietro e sentendosi prossimo alle lacrime, per la pietà e l'esasperazione. — Dove si trova, il Nucleo?

Keats sorrise, agitò la testa per il dolore. Lo sforzo di respirare parve rumore di vento in un mantice rotto. — Come ragni nella tela — mormorò — ragni nella tela. Tessono… lasciano che noi tessiamo per loro… poi ci legano come salami e ci prosciugano. Come mosche catturate da ragni nella tela.

Hunt smise di scrivere per ascoltare meglio quei vaneggiamenti che parevano privi di senso. Poi capì. — Mio Dio — mormorò. — Sono nella rete di teleporter.

Keats cercò di tirarsi a sedere, afferrò con forza terribile il braccio di Hunt. — Lo riferisca al suo capo, Hunt. Dica a Gladstone di strappare la Rete. Ragni nella tela. Dio uomo e dio macchina… devono trovare l'unione. Non io! — Cadde di nuovo sui cuscini e si mise a piangere in silenzio. — Non io!

Keats dormì un poco, nel pomeriggio, anche se era un assopimento più vicino alla morte che al sonno. Il minimo rumore svegliava il poeta moribondo e lo faceva lottare per respirare. Al tramonto Keats era troppo debole per espettorare e Hunt lo aiutò a chinare la testa sopra la bacinella in modo che la forza stessa di gravità gli ripulisse la bocca e la gola di muco sanguinolento.

Diverse volte, quando Keats cadeva in momenti di sonno agitato, Hunt andò alla finestra, e una volta al portone in fondo alle scale, per guardare nella piazza. Una sagoma alta e spigolosa era ferma nelle ombre più fitte dalla parte opposta della piazza, accanto alla base della scalinata.

Quella sera, Hunt stesso si appisolò un poco, seduto rigidamente sulla poltrona dura accanto al letto di Keats. Si svegliò da un sogno in cui gli sembrava di cadere e allungò la mano per riprendere l'equilibrio: Keats, sveglio, lo fissava.

— Ha mai visto una persona morire? — domandò Keats, fra deboli ansiti per respirare.

— No. — Hunt pensò che c'era un'espressione bizzarra, nello sguardo fisso del giovanotto, come se Keats guardasse lui ma vedesse un altro.

— Allora la compatisco — disse Keats. — In quale pericoloso pasticcio si è messo, per me. Ora si faccia forza: non durerà molto.

Hunt fu colpito non solo dal coraggio e dalla gentilezza di queste parole, ma anche dall'improvviso cambiamento di pronuncia, dal piatto inglese standard della Rete a uno più antico e interessante.

— Sciocchezze — disse con calore, sforzandosi di mostrare un entusiasmo e un'energia che non sentiva. — Prima dell'alba saremo fuori da questa situazione. Appena fa buio uscirò di nascosto e andrò alla ricerca di un teleporter.

Keats scosse la testa. — Lo Shrike la prenderà. Non permetterà a nessuno di aiutarmi. Il suo ruolo è quello di badare che io sfugga a me stesso tramite me stesso. — Chiuse gli occhi, mentre il respiro diventava più sibilante.

— Non capisco — disse Leigh Hunt, prendendogli la mano. Immaginò che si trattasse di altri vaneggiamenti provocati dalla febbre, ma poiché era una delle poche volte, negli ultimi due giorni, in cui Keats era pienamente cosciente, Hunt pensò bene che valesse la pena continuare nello sforzo di parlargli. — Cosa significa sfuggire a lei stesso tramite lei stesso?

Keats mosse le palpebre e aprì gli occhi. Erano castani e troppo lucidi. — Ummon e gli altri cercano di farmi accettare la divinità, Hunt. Esca per catturare la balena bianca, miele per afferrare la mosca finale. L'Empatia in fuga troverà in me la propria casa… in me, signor John Keats, un metro e cinquanta… e così la riconciliazione inizia, giusto?

— Quale riconciliazione? — Hunt si sporse più vicino, cercando di non alitargli in viso. Keats sembrava essersi raggrinzito fra le lenzuola e il groviglio di coperte, ma il calore che emanava da lui pareva riempire la stanza. Il viso era un livido ovale nella luce morente. Hunt si rendeva vagamente conto di una striscia dorata di sole riflesso che si muoveva sulla parete appena sotto il punto di incontro con il soffitto, ma gli occhi di Keats non lasciarono mai quell'ultima macchia di giorno.

— La riconciliazione fra uomo e macchina, fra Creatore e creatura — disse Keats e cominciò a tossire, fermandosi solo dopo avere lasciato gocciolare catarro arrossato nel catino che Hunt reggeva per lui. Tornò a distendersi, ansimò un momento e aggiunse: — Riconciliazione fra l'umanità e le razze che essa ha cercato di sterminare, fra il Nucleo e l'umanità che esso ha cercato di cancellare, fra il Dio penosamente evolutosi dal Vuoto Legante e i suoi antenati che cercarono di annullarlo.

Hunt scosse la testa e smise di scrivere. — Non capisco. Lei può diventare questo… questo messia… semplicemente lasciando il letto di morte?

Il livido ovale del viso di Keats si agitò sul guanciale, in un movimento che forse era un improvviso surrogato di risata. — Tutti potevamo diventarlo, Hunt. La follia è il massimo orgoglio dell'umanità. Accettiamo la nostra sofferenza. Facciamo spazio ai nostri figli. Questo ci è valso il diritto di diventare il Dio che abbiamo sognato.

Hunt serrò i pugni, esasperato. — Se lei può farlo, se può divenire questo potere, lo faccia. Ci tolga da qui!

Keats chiuse di nuovo gli occhi. — Non posso. Non sono Colui Che Viene, ma Colui Che Viene Prima. Non il battezzato, ma il battista. Merde, Hunt, io sono ateo! Perfino Severn non riuscì a convincermi, mentre annegavo a morte! — Lo afferrò per la camicia, con una ferocia che spaventò Hunt. — Scriva questo!

E Hunt cercò l'antiquata penna e la carta ruvida, scribacchiò in fretta per non perdere le parole che ora Keats mormorava:

Una meravigliosa lezione sul tuo viso muto:

enorme conoscenza fa di me un dio.

Nomi, imprese, grigie leggende, orribili eventi, ribellioni,

maestosità, voci sovrane, sofferenze,

creazioni e distruzioni, tutte insieme

mi si riversano nella cavità vuota del cervello

e mi deificano, come se avessi bevuto

vino allegro o vivido elisir incomparabile,

e così fossi divenuto immortale.

Keats visse per altre tre ore dolorose, nuotatore che di tanto in tanto emergeva dal mare di sofferenza a trarre un respiro o a mormorare pressanti sciocchezze. Una volta, molto dopo il buio, tirò Hunt per la manica e gli mormorò abbastanza lucidamente: — Quando sarò morto, lo Shrike non le farà alcun male. Aspetta me. Forse non c'è un modo per tornare a casa; ma non le farà niente, mentre lei cerca. — E di nuovo, proprio mentre Hunt si chinava ad ascoltare se il respiro gorgogliava ancora nei polmoni del poeta, Keats si mise a parlare e continuò fra gli spasmi, finché non ebbe dato a Hunt precise istruzioni per la propria sepoltura nel cimitero protestante di Roma, nei pressi della piramide di Caio Cestio.

— Sciocchezze, sciocchezze — continuò a borbottare Hunt, come se recitasse un mantra, serrando la mano ardente del giovane.

— Fiori — mormorò Keats poco dopo, appena Hunt accese la lampada sul cassettone. Teneva gli occhi spalancati e fissava il soffitto, con un'espressione di pura meraviglia infantile. Hunt lanciò un'occhiata in alto e vide le sbiadite rose gialle dipinte in riquadri azzurri sul soffitto. — Fiori… sopra di me — mormorò Keats, fra gli sforzi di respirare.

Hunt, fermo alla finestra, fissava le ombre al di là della Scalinata Spagnola, quando il respiro rauco e penoso vacillò, si bloccò, e Keats ansimò: — Severn… alzami! Muoio.

Hunt si sedette sul letto, sollevò il poeta. Il calore fluì dal piccolo corpo che pareva pesare niente, come se la reale sostanza dell'uomo fosse stata bruciata via. — Non spaventarti. Fatti forza. E ringrazia Dio che sia giunta! — ansimò Keats. E il terribile respiro rauco cessò. Hunt aiutò Keats a distendersi in posizione più comoda, mentre il respiro tornava a un ritmo normale.

Cambiò l'acqua nel catino, inumidì uno straccio pulito e tornò al letto, solo per trovare Keats morto.

Più tardi, appena dopo l'alba, Hunt prese in braccio il corpo smagrito, avvolto in lenzuola pulite tolte dall'altro letto, e uscì nella città.


La tempesta si era calmata, quando Brawne Lamia giunse al capo opposto della valle. Nel passare davanti alle Grotte aveva visto lo stesso bagliore irreale emesso dalle altre Tombe, ma aveva udito anche un rumore terribile, come un lamento urlato da migliaia di anime, echeggiare e gemere dalla terra. Aveva allungato il passo.

Il cielo era sereno, quando si fermò di fronte al Palazzo dello Shrike. L'edificio aveva un nome ben scelto: la semicupola si alzava e sporgeva come il carapace della creatura, gli elementi di sostegno s'incurvavano in basso come lame che infilzassero il fondovalle, altri contrafforti balzavano in alto e all'esterno come spine dello Shrike. Le pareti erano divenute trasparenti con l'aumentare del bagliore interno e ora l'edificio scintillava come una gigantesca lanterna di zucca ridotta allo spessore di un foglio di carta; la parte superiore ardeva del rosso dello sguardo dello Shrike.

Brawne inspirò a fondo e si toccò l'addome. Era incinta — lo sapeva già prima di lasciare Lusus — e non doveva qualcosa di più al figlio non ancora nato che all'osceno poeta impalato sull'albero dello Shrike? Si disse che la risposta era sì, ma non gliene fregava niente. Lasciò uscire il fiato e si avvicinò al Palazzo dello Shrike.

Dall'esterno, il Palazzo non era profondo più di venti metri. Prima, quando vi erano entrati, Brawne e gli altri pellegrini avevano visto l'interno come un unico locale aperto, vuoto a parte i supporti a forma di lama che incrociavano lo spazio sotto la cupola lucente. Ora, ferma sull'entrata, Brawne vide un locale più ampio della valle stessa. Gradinate di pietra bianca si alzavano fila su fila e si estendevano fino a svanire in lontananza. Su ciascun gradino di pietra giacevano corpi umani, ognuno abbigliato in maniera differente, ognuno impastoiato dallo stesso tipo di cavo con presa shunt, semiorganico e semiparassita, con il quale secondo i suoi amici anche lei era stata legata. Solo, questi cordoni ombelicali metallici ma trasparenti pulsavano di rosso e si espandevano e si contraevano con regolarità, come se il sangue venisse riciclato attraverso il cranio della figura dormiente.

Brawne arretrò barcollando, colpita tanto dalla trazione delle maree anti-entropiche quanto dallo spettacolo; ma quando fu a dieci metri dal Palazzo, vide che l'esterno era dello stesso formato di sempre. Non pretese di capire come chilometri di interno potessero adattarsi a un guscio di dimensioni così modeste. Le Tombe del Tempo si aprivano. Quella Tomba poteva coesistere in tempi diversi, per quanto lei ne sapeva. Ma Brawne sapeva che, nel risvegliarsi dai viaggi sotto shunt, aveva visto l'albero di spine dello Shrike legato con tubi e liane di energia invisibili all'occhio ma chiaramente connessi al Palazzo dello Shrike.

Tornò di nuovo all'ingresso.

Lo Shrike attendeva all'interno. Il carapace, di solito splendente, adesso pareva nero, stagliato contro la luce e il bagliore marmoreo tutt'intorno.

Brawne si sentì percorsa da una scarica di adrenalina, provò l'impulso di girarsi e correre via… e varcò la soglia.

L'ingresso quasi svanì alle sue spalle, rimase visibile solo come fioca increspatura nel bagliore uniforme emanato dalle pareti. Lo Shrike non si mosse. Dall'ombra delle orbite, gli occhi rossi brillarono.

Brawne avanzò di un passo, senza che gli stivali facessero rumore sul pavimento di pietra. Lo Shrike era dieci metri alla sua destra, dove i catafalchi di pietra iniziavano e salivano come osceni scaffali di esposizione verso il soffitto perso nel bagliore. Brawne non s'illuse di poter tornare alla porta prima che la creatura le venisse addosso.

Lo Shrike non si mosse. L'aria puzzava di ozono e di un lezzo dolciastro e nauseante. Brawne si mosse lungo la parete che le copriva le spalle ed esaminò le file di corpi, cercando un viso conosciuto. A ogni passo verso sinistra, si allontanava dall'uscita e rendeva più facile allo Shrike tagliarle la ritirata. La creatura rimase ferma come una statua nera in un oceano di luce.

Le gradinate si estendevano per chilometri. Gradini di pietra, ciascuno alto quasi un metro, interrompevano le linee orizzontali di corpi scuri. A diversi minuti di cammino dall'entrata, Brawne salì il terzo inferiore di una di queste scale, toccò il corpo più vicino della seconda gradinata e provò sollievo nel sentire la carne tiepida, il sollevarsi e l'abbassarsi del petto dell'uomo. Non era Martin Sileno.

Brawne continuò a procedere, quasi aspettandosi di trovare Paul Duré o Sol Weintraub o perfino se stessa distesa fra quei morti viventi. Invece trovò un viso che l'ultima volta aveva visto scolpito nella parete di una montagna. Re Billy il Triste giaceva immobile sulla pietra bianca, cinque gradinate più in alto, con le vesti regali bruciacchiate e macchiate. Il viso triste, come quello di ogni altro, era stravolto da un'atroce sofferenza interiore. Martin Sileno giaceva tre corpi più in là, sopra una scalinata più in basso.

Brawne si accovacciò accanto al poeta, lanciando un'occhiata al puntino nero dello Shrike, sempre immobile al termine delle file di corpi. Come gli altri, Sileno sembrava vivo, in muta sofferenza, ed era collegato a una presa shunt connessa a un cordone ombelicale pulsante che, a sua volta, spariva nella bianca parete dietro il ripiano, come saldato alla roccia.

Brawne ansimò di paura, mentre passava la mano sul cranio del poeta, sentendo la fusione di plastica e osso; poi tastò lo stesso cordone ombelicale, senza trovare congiunzione né apertura nel punto dove si saldava alla pietra. Un fluido le pulsò sotto le dita.

— Merda — mormorò Brawne; presa da panico improvviso, si guardò alle spalle, sicura che lo Shrike fosse strisciato di nascosto a distanza per colpirla. La sagoma scura era ancora ferma all'estremità della lunga stanza.

Brawne aveva le tasche vuote. Non aveva armi né utensili. Capì che doveva tornare alla Sfinge, trovare gli zaini, prendere un arnese da taglio e poi fare ritorno, chiamando a raccolta il coraggio necessario per entrare di nuovo.

Capì che non avrebbe mai più varcato quella porta.

Si mise in ginocchio, inspirò a fondo, sollevò il braccio e vibrò un gran colpo. Il taglio della mano si abbatté contro un materiale che pareva plastica trasparente e che era più duro dell'acciaio. Brawne sentì dal polso alla spalla il dolore di quel singolo colpo.

Guardò a destra. Lo Shrike si muoveva verso di lei, a passi lenti, come un vecchio che facesse con calma la passeggiata.

Brawne gridò, si mise in ginocchio e colpì di nuovo, a palmo rigido, pollice serrato ad angoli retti. Il rumore dell'impatto echeggiò nella sala.

Brawne Lamia era cresciuta su Lusus, 1,3 della gravità standard, ed era atletica anche per la sua razza. Da quando aveva nove anni, aveva sognato di diventare investigatrice e si era impegnata per riuscire; e una parte di questa preparazione, riconosciuta ossessiva e totalmente illogica, consisteva nell'addestramento alle arti marziali. Ora Brawne grugnì, alzò il braccio e colpì di nuovo, imponendosi che il taglio della mano fosse la lama di una scure, vedendo nella mente il colpo che tranciava, il vittorioso colpo tranciante.

Il coriaceo cordone ombelicale si ammaccò impercettibilmente, pulsò come una cosa viva, parve farsi piccolo piccolo, quando lei vibrò ancora un colpo.

In basso e dietro di lei risuonò il rumore di passi. Brawne si lasciò quasi sfuggire una risatina sciocca. Lo Shrike poteva muoversi senza camminare, passare da un punto all'altro senza fatica. Certo si divertiva ad atterrire la preda. Brawne non era spaventata. Era troppo impegnata.

Alzò la mano, la calò di nuovo. Era come colpire la pietra. Brawne colpì ancora di taglio il cordone ombelicale: alcuni ossicini della mano cedettero. Il dolore fu come un rumore lontano, come il fruscio in basso e dietro di lei.

"Hai pensato" si disse "che rischi di ucciderlo, se riesci a spezzare questa roba?"

Colpì di nuovo. I passi si fermarono alla base della scala.

Brawne ansimava per lo sforzo. Dalla fronte e dalle guance il suo sudore sgocciolava sul petto del poeta dormiente.

"E non mi sei nemmeno simpatico" pensò ancora, rivolgendosi a Martin Sileno. Colpì di nuovo. Era come amputare la zampa di un elefante di metallo.

Lo Shrike cominciò a salire la scala.

Brawne si mise quasi in piedi e aggiunse tutta la forza del proprio peso in un colpo che quasi le slogò la spalla e le spezzò il polso e le fratturò altre piccole ossa nella mano.

E recise il cordone ombelicale.

Liquido rosso troppo poco viscoso per essere sangue schizzò le gambe di Brawne e la pietra bianca. Il cordone reciso ancora sporgente dalla parete si contrasse e frustò l'aria come un tentacolo, prima di giacere mollemente e poi ritrarsi, serpente sanguinante che scivolava in un buco che smise di esistere non appena il cordone ombelicale fu fuori vista. Il mozzicone ancora attaccato allo shunt neurale di Sileno appassì in cinque secondi, morì e si contrasse come una medusa fuor di acqua. Un liquido rosso spruzzò il viso e le spalle del poeta e si mutò in blu sotto gli occhi di Brawne.

Le palpebre di Martin Sileno si contrassero; gli occhi si spalancarono come quelli di un gufo.

— Ehi, Brawne — disse il poeta — quella merda di Shrike è proprio dietro di te!


Gladstone si teleportò nel suo alloggio privato ed entrò subito nello stanzino astrotel. Due messaggi l'attendevano.

Il primo proveniva dallo spazio di Hyperion. Gladstone batté le palpebre, quando la voce calma dell'ex governatore generale di Hyperion, il giovane Lane, riferì un breve riassunto dell'incontro con il Tribunale Ouster. Si appoggiò alla spalliera del sedile di pelle e si portò alle guance i pugni, mentre Lane ripeteva la smentita degli Ouster. Non erano loro, gli invasori. Lane completò il messaggio con una breve descrizione dello Sciame ed espresse il parere che gli Ouster dicessero la verità, ammise che la sorte del Console era ancora ignota e chiese disposizioni.

— Risposta? — domandò il computer astrotel.

— Messaggio ricevuto — disse Gladstone. — Trasmettere: "Tenersi pronti" in codice diplomatico monouso.

Passò al secondo messaggio.

L'ammiraglio William Ajunta Lee apparve in una frammentaria proiezione bi-di, ovviamente perché il trasmettitore astrotel della nave lavorava a energia ridotta. Gladstone vide dalle colonne dati periferiche che la raffica era stata incorporata fra le trasmissioni telemetriche standard della flotta: a lungo andare i tecnici della FORCE avrebbero notato la discrepanza nella somma di controllo, ma forse sarebbero passate ore o addirittura giorni.

Il viso di Lee era insanguinato e lo sfondo era scuro di fumo. Dalla confusa immagine in bianco e nero, Gladstone ritenne che l'ammiraglio trasmettesse da uno scomparto di attracco dell'incrociatore. Sul banco da lavoro metallico alle spalle di Lee giaceva un cadavere.

— …un effettivo di marines è riuscito ad abbordare uno dei loro cosiddetti lancer — ansimò Lee. — Hanno davvero equipaggio… cinque individui per nave… e sembrano davvero Ouster; ma guardi cosa succede quando cerchiamo di fare l'autopsia. — Il quadro cambiò e Gladstone capì che Lee adoperava un'olocamera portatile collegata al trasmettitore astrotel. Ora Lee era fuori quadro e lei vedeva il viso livido e martoriato di un cadavere Ouster. Dal sangue fuoruscito dagli occhi e dalle orecchie, Gladstone dedusse che l'Ouster era morto per decompressione esplosiva.

Comparve la mano di Lee, riconoscibile dalla treccia di ammiraglio sulla manica, con un bisturi laser. Il giovane comandante non si preoccupò di rimuovere l'abbigliamento: praticò al cadavere una incisione verticale dallo sterno in giù.

La mano col laser si ritrasse e l'olocamera si stabilizzò: nel cadavere dell'Ouster iniziò una reazione. Ampie chiazze cominciarono a bruciare senza fiamma sul petto, come se il laser avesse dato fuoco ai vestiti. Poi l'uniforme bruciò completamente e fu subito chiaro che il petto dell'uomo ardeva in fori irregolari sempre più larghi e da quei fori splendeva una luce così vivida che l'olocamera portatile fu costretta a mettere al minimo la ricettività. Ora bruciavano anche parti del cranio, lasciando immagini secondarie nello schermo astrotel e nella retina di Gladstone.

L'olocamera smise di riprendere prima che il cadavere si consumasse, come se il calore fosse troppo intenso. Il viso di Lee galleggiò a fuoco. — Ecco, signora. Con tutti i cadaveri si è verificata la stessa cosa. Non abbiamo catturato nessun nemico vivo. Ancora non abbiamo scoperto il centro dello Sciame, abbiamo trovato solo altre navi da guerra, e ritengo che…

L'immagine scomparve e le colonne dati dissero che la raffica si era interrotta a metà trasmissione.

— Risposta?

Gladstone scosse la testa e aprì lo stanzino. Tornata nello studio, guardò con desiderio il divano, ma si sedette alla scrivania, sapendo che se avesse chiuso gli occhi per un secondo si sarebbe addormentata. Sedeptra la chiamò sulla frequenza privata e disse che il generale Morpurgo aveva bisogno di parlare con il PFE di questioni urgenti.

Il lusiano entrò e cominciò ad andare avanti e indietro per l'agitazione. — Signora, capisco il suo ragionamento nell'autorizzare l'uso della neurobomba, ma devo protestare.

— Perché, Arthur? — domandò Gladstone, chiamandolo per nome per la prima volta in settimane.

— Perché, maledizione, non ne conosciamo i risultati. È troppo pericoloso. Ed è… è immorale.

Gladstone inarcò il sopracciglio. — Perdere miliardi di cittadini in una guerra di logorio sarebbe morale, ma usare quell'aggeggio per uccidere milioni di nemici sarebbe immorale? È questa, Arthur, la posizione della FORCE?

— È la mia posizione, signora.

Gladstone annuì. — Capisco e prendo nota, Arthur. Ma la decisione è stata presa e sarà attuata. — Vide il vecchio amico scattare sull'attenti e prima che il generale aprisse bocca per protestare o, più probabilmente, per presentare le dimissioni, Gladstone disse: — Faresti una passeggiata con me, Arthur?

Il generale della FORCE rimase sconcertato. — Una passeggiata? Perché?

— Abbiamo bisogno di aria fresca. — Senza attendere risposta, Gladstone andò al teleporter privato, azionò il diskey manuale e passò dall'altra parte.

Morpurgo varcò il portale opaco, fissò l'erba dorata che gli arrivava alle ginocchia e si estendeva fino all'orizzonte lontano, alzò il viso verso il cielo color giallo zafferano dove nubi cumuliformi color bronzo si levavano in guglie frastagliate. Alle sue spalle, il portale scomparve: ne segnò la posizione solo un diskey di controllo alto un metro, l'unica cosa fatta dall'uomo visibile nella distesa di erba dorata e di cielo pieno di nuvole. — Dove diavolo siamo? — domandò Morpurgo.

Gladstone aveva strappato un filo di erba e lo masticava. — Kastrop-Rauxel. Non ha sfera dati, marchingegni orbitanti, abitazioni umane o mecc di qualsiasi genere.

Morpurgo sbuffò. — Tanto non sarà più al sicuro dalla sorveglianza del Nucleo del posto in cui Byron Lamia soleva portarci, Meina.

— Forse no — convenne Gladstone. — Arthur, ascolta. — Mise in azione le registrazioni comlog delle due trasmissioni astrotel appena ricevute.

Al termine, quando il viso di Lee scomparve bruscamente, Morpurgo si allontanò nell'erba alta.

— Allora? — disse Gladstone, affrettandosi per stargli dietro.

— Così i corpi degli Ouster si autodistruggono nel modo tipico dei cadaveri cìbridi. E con ciò? Credi che il Senato o la Totalità l'accetteranno come prova del fatto che dietro l'invasione c'è il Nucleo?

Gladstone sospirò. L'erba aveva un aspetto morbido, invitante. Immaginò di distendersi e sprofondare in un sonno dal quale non dovesse mai fare ritorno. — È prova sufficiente, per noi. Per il gruppo. — Non era necessario precisare quale. Da quando era entrata al Senato, si erano tenuti in contatto scambiandosi i sospetti sul Nucleo, con la speranza di ottenere un giorno la vera libertà dal dominio delle IA. Sotto la guida del senatore Byron Lamia… Ma era accaduto tanto tempo prima.

Morpurgo guardò il vento frustare le steppe dorate. Un bizzarro tipo di fulmine globulare giocò dentro le nuvole color bronzo nei pressi dell'orizzonte. — E allora? Saperlo è inutile, se non sappiamo dove colpire.

— Abbiamo tre ore.

Morpurgo guardò il comlog. — Due ore e quarantadue minuti. Non bastano, Meina, per un miracolo.

Gladstone non sorrise. — Non bastano per nient'altro, Arthur. Toccò il diskey e con un ronzio comparve il portale.

— Cosa possiamo fare? — domandò Morpurgo. — In questo momento, le IA insegnano ai nostri tecnici come usare la neurobomba. La nave torcia sarà pronta entro un'ora.

— La faremo esplodere dove non danneggerà nessuno.

Il generale smise di andare avanti e indietro e la fissò. — E dove diavolo sarebbe? Quel merdoso di Nansen dice che l'ordigno ha un raggio letale di almeno tre anni-luce, ma come possiamo fidarci di lui? Facciamo esplodere un solo ordigno, nei pressi di Hyperion o altrove, e forse condanneremo la vita umana dovunque.

— Ho un'idea, ma voglio dormirci sopra.

Dormirci sopra? — brontolò Morpurgo.

— Schiaccerò un pisolino, Arthur. Ti suggerisco di fare lo stesso. — Varcò il portale.

Morpurgo borbottò una parolaccia, si aggiustò il berretto e seguì Gladstone, a testa alta, schiena dritta, sguardo avanti: un soldato che si avvia alla propria esecuzione.


Sulla terrazza più alta di una montagna in movimento nello spazio, a una decina di minuti-luce da Hyperion, il Console e diciassette Ouster sedevano sopra un cerchio di pietre basse all'interno di un cerchio più ampio di pietre più alte: si decideva la sorte del Console.

— Sua moglie e suo figlio sono morti su Bressia — disse Freeman Ghenga. — Durante la guerra fra quel mondo e il Clan Moseman.

— Sì — disse il Console. — L'Egemonia ritenne che l'intero Sciame fosse coinvolto nell'attacco. Io non dissi niente per farle cambiare opinione.

— Ma sua moglie e suo figlio rimasero uccisi.

Il Console guardò al di là del cerchio di pietre, verso la vetta che già passava alla notte. — E allora? Non chiedo misericordia, a questo Tribunale. Non invoco circostanze attenuanti. Ho ucciso Freeman Andil e i tre tecnici. Li ho uccisi con premeditazione, a sangue freddo. Li ho uccisi senz'altro scopo che azionare il vostro congegno per aprire le Tombe del Tempo. Non c'entravano affatto, mia moglie e mio figlio!

Un Ouster barbuto, che era stato presentato come Portavoce Hullcare Amnion, avanzò nel cerchio interno. — Il congegno era inutile. Non funzionava.

Il Console si girò, aprì la bocca, la chiuse senza far parola.

— Una prova — disse Freeman Ghenga.

La voce del Console fu quasi impercettibile. — Ma le Tombe… si sono aperte.

— Sapevamo quando si sarebbero aperte — disse Coredwell Minmun. — La velocità di decadimento dei campi anti-entropici ci era nota. Il congegno era una prova.

— Una prova — ripeté il Console. — Ho ucciso quelle quattro persone per niente. Una prova.

— Sua moglie e suo figlio sono morti per mano Ouster — disse Freeman Ghenga. — L'Egemonia ha usato violenza a Patto-Maui. Le sue azioni erano prevedibili, entro certi parametri. Gladstone contava su questo. E noi pure. Ma dovevamo conoscere i parametri.

Il Console si alzò, mosse tre passi, mantenne la schiena girata agli altri. — Sprecato.

— Come sarebbe a dire? — domandò Freeman Ghenga. Il cranio glabro della donna brillò alla luce delle stelle e al riflesso del sole contro una fattoria cometa di passaggio.

Il Console rideva piano. — Tutto sprecato. Perfino i miei tradimenti. Niente reale. Sprecato.

Il Portavoce Coredwell Minmun si alzò e si lisciò la veste. — Questo Tribunale ha emesso la sentenza — disse. Gli altri sedici Ouster annuirono.

Il Console si girò. Sul viso stanco aveva un'espressione molto simile all'impazienza. — Avanti, allora. Per l'amor di Dio, facciamola finita.

Il portavoce Freeman Ghenga si alzò e si rivolse al Console. — Lei è condannato a vivere. È condannato a riparare una parte del danno fatto.

Il Console barcollò, come se l'avessero colpito in pieno viso. — No, non potete… dovete…

— È condannato a entrare nell'era di caos che s'avvicina — disse il Portavoce Hullcare Amnion. — Condannato ad aiutarci a riunire le famiglie separate della razza umana.

Il Console alzò le braccia come per difendersi da colpi fisici. — Non posso… non farò… colpevole…

Freeman Ghenga avanzò di tre passi, afferrò il Console per lo sparato della giacca da cerimonia e lo scosse senza tanti complimenti.

— Lei è colpevole! Proprio per questo deve aiutarci a migliorare il caos che sta per arrivare. Ha collaborato a liberare lo Shrike. Adesso deve tornare a provvedere che sia di nuovo chiuso in gabbia. Allora la lunga riconciliazione potrà avere inizio.

Lo lasciò andare, ma le spalle del Console si scuotevano ancora. In quel momento la montagna ruotò nella luce del sole e le lacrime brillarono negli occhi del Console. — No — mormorò lui.

Freeman Ghenga gli lisciò la giacca gualcita, gli strinse la spalla.

— Abbiamo i nostri profeti. I Templari si uniranno a noi nel seminare a nuovo la galassia. Lentamente, coloro che sono vissuti nella menzogna chiamata Egemonia si arrampicheranno fuori delle macerie dei loro mondi Nucleo-dipendenti e si uniranno a noi nella vera esplorazione… dell'universo e di quel reame ancora più vasto che si trova dentro di noi.

Il Console diede l'impressione di non avere udito. Si girò bruscamente da parte. — Il Nucleo vi distruggerà — disse, senza guardare in viso nessuno. — Proprio come ha distrutto l'Egemonia.

— Lei dimentica che il suo stesso mondo fu fondato sulla base di un solenne patto di vita — disse Coredwell Minmun.

Il Console si girò verso l'Ouster.

— Un patto simile governa la nostra vita e le nostre azioni — continuò Minmun. — Non solo per preservare alcune specie della Vecchia Terra, ma per trovare unità nella diversità. Per diffondere il seme della razza umana in tutti i mondi, in ambienti diversi, rispettando però la diversità di vita che troviamo altrove.

Il viso di Freeman Ghenga era luminoso, nel sole. — Il Nucleo offrì unità nel servilismo inconsapevole — disse piano. — Sicurezza nel ristagno. Dove sono, dopo l'Egira, le rivoluzioni del pensiero umano, della cultura, dell'azione?

— Terraformate in cloni sbiaditi della Vecchia Terra — rispose Coredwell Minmun. — La nostra nuova epoca di espansione umana non terraformerà niente. Gioiremo delle difficoltà e accoglieremo le bizzarrie. Non modificheremo l'universo per adattarlo a noi… saremo noi, ad adattarci.

Il Portavoce Hullcare Amnion indicò le stelle. — Se la razza umana sopravvive a questa prova, il nostro futuro sarà nelle buie distanze fra le stelle, oltre che nei mondi illuminati dal sole.

Il Console sospirò. — Ho degli amici, su Hyperion — disse. — Posso tornare ad aiutarli?

— Può tornare — rispose Freeman Ghenga.

— E affrontare lo Shrike?

— Lo affronterà — rispose Coredwell Minmun.

— E sopravvivere per vedere l'età del caos?

— Deve vederla — rispose Hullcare Amnion.

Il Console sospirò di nuovo e si mosse lateralmente con gli altri, mentre, sopra di loro, una grande farfalla con ali a celle solari e la pelle lucida resistente al vuoto o alle radiazioni dure si abbassò verso il cerchio simile a Stonehenge e aprì il ventre per accogliervi il Console.


Nella clinica della Casa del Governo, su Tau Ceti Centro, padre Paul Duré dormì di un sonno vuoto e artificialmente indotto, sognando fiamme e la morte di mondi.

A parte la breve visita di Meina Gladstone e una visita ancora più breve del vescovo Edouard, Duré era rimasto da solo per tutta la giornata, vagando dentro e fuori una foschia piena di dolore. I medici avevano chiesto altre dodici ore prima di dimettere il paziente; il Collegio dei Cardinali di Pacem aveva acconsentito, con l'augurio di pronta guarigione in attesa della cerimonia: entro ventiquattr'ore, il prete gesuita Paul Duré di Villefranche-sur-Saône sarebbe divenuto Papa Teilhard I, 487 vescovo di Roma, diretto successore del discepolo Pietro.

Ancora in fase di guarigione, con la carne che riformava i tessuti sotto la guida di un milione di selettori RNA, con i nervi che si rigeneravano allo stesso modo grazie alla miracolosa medicina moderna (non tanto miracolosa, si disse Duré, da eliminare il terribile prurito in tutto il corpo), il gesuita rimase a letto e pensò a Hyperion e allo Shrike e alla propria lunga vita e al confuso stato di affari nell'universo di Dio. Alla fine si addormentò e sognò Bosco Divino in fiamme e la Vera Voce dell'Albero Mondo che lo spingeva attraverso il portale; e sognò sua madre e una donna di nome Semfa, ora morta, che un tempo aveva lavorato nella piantagione Perecebo, nella periferia della Periferia, il territorio della fibroplastica a est di Port Romance.

E in questi sogni fondamentalmente tristi, Duré si accorse a un tratto di un'altra presenza: non un'altra presenza di sogno, ma la presenza di un altro sognatore.

Duré camminava con qualcuno. L'aria era fredda, il cielo era di un azzurro sconvolgente. Avevano appena superato una curva della strada e ora davanti a loro si vedeva un lago, con le rive costeggiate di graziosi alberi, una cornice di montagne alle spalle, una fila di basse nubi che davano colore e profondità alla scena, e una singola isola che pareva galleggiare molto lontano nelle acque calme come specchio.

— Il lago Windermere — disse il compagno di Duré.

Il gesuita si girò lentamente, con il cuore che gli batteva forte per l'ansia e l'anticipazione. Qualsiasi cosa si fosse aspettato, la vista del compagno non ispirava timore reverenziale.

Un giovane di bassa statura camminava a fianco di Duré. Indossava una giacca antiquata con bottoni di pelle e un'ampia cintura di cuoio, scarpe robuste, un vecchio berretto di pelo, uno zaino logoro, calzoni dal taglio insolito e rattoppati di frequente; teneva un ampio plaid gettato sulla spalla e nella destra un robusto bastone da montagna. Duré smise di camminare e l'altro si fermò come se accettasse con piacere una sosta.

— Le Colline Rocciose di Furness e i Monti Cumbri — disse il giovane, usando il bastone per indicare il paesaggio al di là del lago.

Duré vide i riccioli castano chiaro sporgere da sotto il bizzarro berretto, notò i grandi occhi castani e la bassa statura dell'uomo e capì di sognare pur pensando: "Non è un sogno!"

— Chi… — cominciò Duré, sentendo spuntare la paura e il cuore battere all'impazzata.

— John — disse il suo compagno e la quieta ragionevolezza di quella voce scacciò una parte della paura di Duré. — Penso che riusciremo a fermarci a Bowness, stasera. Brown mi ha detto che c'è una locanda molto graziosa quasi sul lago.

Duré annuì. Non sapeva proprio di che cosa parlasse il giovanotto.

Questi si sporse a stringere il braccio di Duré, con gentilezza ma con insistenza. — Ci sarà uno che viene dopo di me — disse. — Né l'alfa né l'omega, ma essenziale perché noi troviamo la via.

Duré annuì con aria da sciocco. La brezza increspò il lago e portò dalle colline lontane il profumo di vegetazione fresca.

— Costui sarà nato molto lontano — disse John. — Più lontano di quanto la nostra razza abbia saputo da secoli. Lei ha ora un compito identico al mio… preparare la via. Non vivrà per vedere il giorno dell'insegnamento di questa persona, ma il suo successore lo vedrà.

— Sì — disse Paul Duré e scoprì di avere la bocca secca.

Il giovane si levò il berretto, lo infilò nella cintura, si chinò a raccogliere un ciottolo. Lo lanciò lontano nel lago. Le increspature si allargarono in lenta progressione. — Accidenti — disse John — volevo farlo rimbalzare. — Guardò Duré. — Deve lasciare la clinica e tornare subito su Pacem. Ha capito?

Duré batté le palpebre. Quella frase sembrava non appartenere al sogno. — Perché?

— Non chieda perché. Si limiti a tornare. Non perda tempo. Se non si muove subito, non ne avrà la possibilità, in seguito.

Confuso, Duré si girò, come se potesse tornare al letto di ospedale. Da sopra la spalla guardò il giovane, basso e magro, fermo sulla riva ghiaiosa. — E lei?

John raccolse un secondo ciottolo, lo lanciò, scosse la testa quando lo vide rimbalzare solo una volta prima di sparire sotto la superficie liscia e riflettente. — Sto bene qui, per il momento — disse, più a se stesso che a Duré. — Sono stato davvero bene, in questo viaggio. — Parve scuotersi dalle fantasticherie e sollevò la testa per sorridere a Duré. — Vada. Muova le chiappe, Santità.

Sorpreso, divertito, irritato, Duré aprì la bocca per ribattere e si trovò disteso sul lettino della clinica. I medici avevano abbassato le luci per permettergli di dormire. Monitor a goccia erano attaccati alla sua pelle.

Duré rimase disteso per un minuto, soffrendo il prurito e il disagio di guarire da ustioni di terzo grado; ripensando al sogno, si disse che si trattava solo di un sogno, che poteva tornare a dormire, prima che monsignor… che il vescovo Edouard e gli altri venissero a scortarlo su Pacem. Chiuse gli occhi e ricordò il viso mascolino ma bello, gli occhi castani, il dialetto arcaico.

Padre Paul Duré della Compagnia di Gesù si alzò a sedere, si mise in piedi a fatica, trovò che gli abiti erano spariti e non poteva indossare altro che il pigiama di carta dell'ospedale, si avvolse in una coperta e si allontanò, scalzo, prima che i medici potessero reagire alle proteste dei sensori.

In fondo al corridoio aveva visto un teleporter riservato ai medici. Se quello non andava bene per tornare a casa, ne avrebbe trovato un altro.


Leigh Hunt trasportò il corpo di Keats fuori della casa di Piazza di Spagna. Si aspettava di trovare in attesa lo Shrike: c'era invece un cavallo. Hunt non era un esperto nel riconoscere i cavalli, visto che nel suo tempo la razza equina era estinta, ma gli parve che quello fosse lo stesso che li aveva portati a Roma. L'impressione era suffragata dal fatto che il cavallo era attaccato allo stesso piccolo carro (Keats l'aveva chiamato vettura) su cui avevano fatto il viaggio di andata.

Hunt sistemò il corpo sul sedile della carrozza, rimboccò con cura le lenzuola e, tenendo con la mano il sudario, camminò accanto al veicolo che si era messo lentamente in moto. Prima di morire, Keats aveva chiesto di essere sepolto nel Cimitero Protestante vicino alle mura aureliane e alla piramide di Caio Cestio. Hunt ricordava vagamente che avevano attraversato le mura aureliane, nel loro viaggio bizzarro, ma non sarebbe mai riuscito a ritrovarle, anche se ne fosse andato della sua vita… o della sepoltura di Keats. A ogni modo, pareva che il cavallo conoscesse la strada.

Hunt continuò a camminare, notando la freschezza primaverile dell'aria mattutina e in sottofondo un odore di vegetazione marcia. Possibile che il cadavere di Keats si decomponesse già? Hunt sapeva poco, della morte, e non voleva saperne di più. Diede una manata sul posteriore del cavallo per farlo muovere più in fretta, ma l'animale si fermò, si girò lentamente per dare a Hunt uno sguardo di rimprovero, e riprese l'andatura lenta.

Fu un lampo di luce colto con la coda dell'occhio, più che un rumore, a mettere Hunt sull'avviso; ma quando lui si girò di scatto, lo Shrike era lì… una quindicina di metri più indietro: seguiva l'andatura del cavallo, in una marcia solenne ma in un certo modo comica, alzando a ogni passo un ginocchio munito di spine e di lame. La luce del sole brillò sul carapace, sui denti metallici, sulle lame.

Il primo impulso di Hunt fu di lasciare il carro e fuggire; ma il senso del dovere e la sensazione più profonda di essere perduto soffocarono l'impulso. Dove poteva fuggire, se non di nuovo in Piazza di Spagna? E lo Shrike bloccava la sola strada di ritorno.

Hunt accettò la creatura come un dolente al seguito di quel folle funerale, girò la schiena al mostro e continuò a camminare accanto al carro, la mano posata fermamente sulla caviglia dell'amico, sopra il sudario.

Per tutta la camminata fu attento, nel caso scorgesse segni di un teleporter, di tecnologia superiore a quella del XIX secolo, o altri esseri umani. Non ne vide. L'illusione di camminare in una Roma deserta in una giornata quasi primaverile del febbraio 1821 d.C. era perfetta. Il cavallo risalì un colle a un isolato dalla Scalinata Spagnola, svoltò varie volte in ampi viali e in stretti vicoli, passò a portata di occhio da rovine cadenti che Hunt riconobbe come il Colosseo.

Quando carro e cavallo si fermarono, Hunt si strappò dal dormiveglia in piedi in cui si era lasciato andare e si guardò intorno. Si trovava all'esterno di un mucchio di pietre invase dalle erbacce che ritenne le mura aureliane e vide davvero una bassa piramide; ma il Cimitero Protestante, se era proprio quello, sembrava più un pascolo che un cimitero. Alcune pecore brucavano all'ombra dei cipressi e i campanacci tintinnavano irrealmente nell'aria densa e tiepida; dappertutto l'erba alta arrivava almeno al ginocchio. Alcune lapidi erano disseminate qua e là, seminascoste dall'erba; più vicino, appena al di là del collo del cavallo chino a mangiare l'erba, c'era una fossa scavata di fresco.

Lo Shrike rimase dieci metri più indietro, fra i cipressi dai rami fruscianti, ma Hunt vide il bagliore degli occhi rossi e lo sguardo fisso sulla tomba.

Girò intorno al cavallo, che ora masticava beatamente, e si accostò alla tomba. Non c'era bara. La fossa era profonda circa un metro e venti; la montagnola di terra lì accanto odorava di humus rivoltato e di terriccio fresco. Conficcata nella montagnola c'era una pala dal manico lungo, che pareva appena abbandonata da chi aveva eseguito lo scavo. A un capo della fossa, per dritto, c'era una lastra di pietra, priva di iscrizione… una lapide in bianco. Hunt notò lo scintillio metallico sopra la lastra e corse a vedere: era il primo manufatto moderno che avesse trovato, da quando l'avevano rapito e portato sulla Vecchia Terra. Si trattava di una piccola penna laser, del tipo usato dagli operai edili o dagli artisti per tracciare disegni sulle leghe più dure.

Hunt si girò, reggendo la penna; si sentì armato, ma ritenne assurdo il pensiero che quel raggio sottile fermasse lo Shrike. Mise la penna nel taschino della camicia e si dedicò alla sepoltura di John Keats.

Alcuni minuti dopo, pala in mano, si fermò accanto alla montagnola di terriccio e guardò, in fondo alla fossa, il piccolo fagotto avvolto nel sudario; cercò di trovare qualche parola appropriata. Aveva partecipato a numerosi funerali di stato, aveva perfino scritto per Gladstone l'elogio funebre di alcuni personaggi, e non aveva mai trovato difficoltà nel trovare le parole. Ma in quel momento non gli veniva nessuna frase. Gli unici spettatori erano lo Shrike sempre fermo in silenzio fra le ombre dei cipressi e le pecore con i campanacci tintinnanti, che si muovevano nervosamente lontano dal mostro, dirette alla tomba come un gruppo di dolenti tardivi.

Hunt pensò che forse in quella situazione era appropriata una delle poesie originali di John Keats, ma lui era un funzionario politico, non un appassionato di poesia antica. Ricordò, troppo tardi, di avere messo per iscritto frammenti di versi dettati dall'amico il giorno prima: i fogli erano rimasti sul cassettone, nella casa in Piazza di Spagna. Riguardavano qualcosa sul diventare divino o dio, l'improvvisa conoscenza di troppe cose… o sciocchezze del genere. Hunt aveva un'ottima memoria, ma non riuscì a ricordare il primo verso di quell'arcaico guazzabuglio.

Alla fine, arrivò al compromesso di un momento di silenzio, a testa china e a occhi chiusi, a parte una sbirciata di tanto in tanto allo Shrike che si manteneva sempre a distanza; poi prese a gettare nella fossa palate di terriccio. Impiegò più tempo di quanto non avesse creduto. Quando terminò di battere per bene il terriccio, la superficie era leggermente concava, come se il corpo fosse stato troppo insignificante per formare un tumulo vero e proprio. Le pecore sfiorarono le gambe di Hunt per brucare l'erba, le margherite e le violette che crescevano intorno alla tomba.

Hunt non ricordava le poesie di Keats, ma non ebbe difficoltà a ricordare l'iscrizione che lui gli aveva chiesto di apporre sulla lapide. Accese la penna, per provarla bruciò erba e terriccio per un tratto di tre metri e fu costretto a spegnere col piede il piccolo incendio che aveva provocato. L'iscrizione l'aveva turbato dal primo momento in cui l'aveva udita… solitudine e amarezza percepibili sotto i sibili e gli ansiti dello sforzo di Keats per parlare. Ma Hunt pensò che non toccasse a lui discutere il desiderio del poeta. Doveva solo tracciare l'iscrizione, lasciare quel posto ed evitare lo Shrike cercando il modo di tornare a casa.

La penna scalfì con facilità la pietra: Hunt dovette fare delle prove sul retro della lapide, prima di controllare bene l'arnese e di trovare la profondità giusta del tratto. Eppure, quando Hunt terminò, una ventina di minuti più tardi, il risultato aveva l'aria irregolare di un lavoro fatto a mano.

Per prima cosa c'era il rozzo disegno (Keats aveva mostrato a Hunt diversi schizzi tracciati con mano incerta su carta protocollo) raffigurante una lira greca con quattro delle otto corde rotte. Hunt non fu soddisfatto del lavoro — nel disegno era ancora meno abile di quanto fosse appassionato di poesia — ma chiunque sapesse che cos'era in realtà una lira greca probabilmente avrebbe riconosciuto lo schizzo. Poi venne la legenda in sé, scritta esattamente come Keats l'aveva dettata:

QUI GIACE UNO
IL CUI NOME
FU SCRITTO SULL'ACQUA

Nient'altro: né data di nascita e di morte, nemmeno il nome. Hunt si ritrasse, esaminò l'opera, scosse la testa, spense la penna ma la tenne in mano e si avviò a tornare in città, facendo un ampio giro intorno alla creatura fra i cipressi.

Al sottopasso delle mura aureliane si fermò a guardarsi indietro. Il cavallo, sempre attaccato al carro, si era mosso lungo il declivio a mangiare erba più dolce lungo la riva di un ruscello. Le pecore giravano sul terreno, brucavano fiori e lasciavano impronte sul terriccio umido della tomba. Lo Shrike era sempre al solito posto, appena visibile sotto l'ombra dei rami di cipresso. Hunt fu quasi sicuro che la creatura fosse ancora rivolta verso la tomba.


Nel tardo pomeriggio Hunt trovò il teleporter: un rettangolo opaco, blu scuro, ronzante, al centro esatto delle rovine del Colosseo. Non c'era diskey, né piastra per punzonare la destinazione. Il portale era lì a mezz'aria come un uscio opaco ma spalancato.

Ma non spalancato per Hunt.

Hunt tentò cinquanta volte di varcarlo, ma la superficie era solida e resistente come pietra. Provò a toccarla con la punta delle dita, avanzò fiduciosamente di un passo e fu respinto, si lanciò contro il rettangolo azzurro, lo prese a sassate col solo risultato di veder rimbalzare le pietre, tentò da tutt'e due i lati e perfino di spigolo, ma finì per lanciarsi e lanciarsi contro l'inutile apparecchiatura fino ad avere spalle e braccia piene di lividi.

Era un teleporter. Hunt ne era certo. Ma non lo lasciava passare.

Hunt frugò le altre parti del Colosseo, perfino i corridoi sotterranei da cui sgocciolavano umidità e guano di pipistrelli, ma non trovò altri portali. Esaminò le vie vicine e tutti gli edifici. Niente. Cercò per tutto il pomeriggio, nella basilica e nelle cattedrali, nelle case e nelle baracche, in edifici signorili e in vicoletti. Tornò perfino in Piazza di Spagna, consumò al pianterreno un rapido pasto, mise in tasca i fogli e ogni altra cosa interessante trovata nelle stanze del piano superiore, poi lasciò quella casa una volta per tutte e riprese la ricerca.

Quello nel Colosseo fu l'unico teleporter che riuscì a trovare. Al tramonto l'aveva artigliato fino a farsi sanguinare le dita. Sembrava giusto, emetteva il ronzio giusto, dava al tatto la sensazione giusta, ma non lo lasciava passare.

Una luna, non la Luna della Vecchia Terra, a giudicare dalle tempeste di polvere e dalle nubi visibili sulla superficie, si era alzata e adesso era sospesa sopra la curva scura delle pareti del Colosseo. Hunt sedeva sui sassi al centro e fissava con odio il bagliore azzurrino del portale. Da un punto alla sue spalle provenne il rumore di colombi che svolazzavano spaventati e di un sassolino sulla pietra.

Hunt si alzò penosamente, tolse dal taschino la penna laser e rimase lì in piedi, a gambe larghe, a frugare con gli occhi nell'ombra delle numerose nicchie e arcate del Colosseo. Niente si mosse.

Un rumore improvviso indusse Hunt a girarsi di scatto e quasi a spruzzare col sottile raggio del laser la superficie del portale. Vi comparve un braccio. Poi una gamba. Una persona emerse. Poi un'altra.

Il Colosseo echeggiò delle grida di Leigh Hunt.


Meina Gladstone sapeva già che, per quanto fosse stanca, avrebbe commesso una pazzia ad addormentarsi anche solo per trenta minuti. Ma fin da bambina si era allenata a sonni brevi che andavano da cinque a quindici minuti, per eliminare con quei brevi intervalli la stanchezza e le tossine della fatica, senza pensare a niente.

Ora, nauseata per lo sfinimento e la vertigine delle precedenti quarantotto ore di confusione, si distese per qualche minuto sul divano dello studio e svuotò la mente di banalità e di ripetizioni, lasciò che il subcosciente trovasse la via nella giungla di pensieri e di avvenimenti. Per qualche minuto si addormentò e sognò.

Si alzò a sedere, scostò la leggera afgana e batté sul comlog, prima ancora di aprire gli occhi. — Sedeptra! Convoca il generale Morpurgo e l'ammiraglio Singh. Nel mio ufficio, fra tre minuti.

Entrò nel bagno adiacente, fece una doccia di acqua e di ultrasuoni, tirò fuori abiti puliti — l'abito più formale, di morbido velluto a coste nero, fascia rossa e oro del Senato tenuta a posto da una spilla di oro che raffigurava il simbolo geodesico dell'Egemonia, orecchini che risalivano alla Vecchia Terra pre-Errore, il bracciale con comlog, di topazi, ricevuto in dono dal senatore Byron Lamia, prima che lui si sposasse — e tornò nello studio in tempo per accogliere i due ufficiali della FORCE.

— Signora, la scelta del momento non è delle più felici — esordì l'ammiraglio Singh. — Stavamo analizzando gli ultimi dati provenienti da Mare Infinitum e discutevamo i movimenti della flotta per la difesa di Asquith.

Gladstone ordinò che il suo teleporter privato si materializzasse e rivolse ai due il gesto di seguirla.

Singh si guardò intorno, mentre emergeva nell'erba dorata sotto il minaccioso cielo color bronzo. — Kastrop-Rauxel — disse. — Corre voce che una precedente amministrazione abbia ordinato alla FORCE:spazio di costruire qui un teleporter privato.

— Il PFE Yevshenky l'ha fatto aggiungere alla Rete — disse Gladstone. Con un gesto del braccio eliminò il portale. — Aveva la sensazione che al Primo Funzionario Esecutivo servisse un posto dove la presenza di congegni di ascolto del Nucleo fosse poco probabile.

Morpurgo guardò a disagio la muraglia di nubi all'orizzonte e il gioco dei fulmini globulari. — Nessun luogo è totalmente al sicuro dal Nucleo — disse. — Ho informato l'ammiraglio Singh dei nostri sospetti.

— Non sospetti — precisò Gladstone. — Fatti. E so dove si trova il Nucleo.

I due ufficiali della FORCE reagirono come se fossero stati colpiti da un fulmine globulare. — Dove? — dissero quasi all'unisono.

Gladstone camminò avanti e indietro. I corti capelli grigi parvero brillare nell'aria carica di elettricità. — Nella rete teleporter — disse. — Fra i portali. Le IA vivono nello pseudomondo dell'anomalia, come ragni in una tela buia. E noi l'abbiamo tessuta per loro.

Morpurgo fu il primo a ritrovare la parola. — Mio Dio. E ora cosa facciamo? Abbiamo meno di tre ore, prima che la nave torcia con l'ordigno del Nucleo si teleporti nel sistema di Hyperion.

Gladstone spiegò loro esattamente che cosa avrebbero fatto.

— Impossibile — disse Singh. Senza accorgersene si tirava la corta barba. — Semplicemente impossibile.

— No — disse Morpurgo. — Funzionerà. C'è tempo sufficiente. E con gli spostamenti frenetici e casuali della flotta negli ultimi due giorni…

L'ammiraglio scosse la testa. — Dal punto di vista logistico, forse è possibile. Dal punto di vista razionale ed etico, no. Ripeto, è impossibile.

Meina Gladstone si avvicinò. — Kushwant — disse, rivolgendosi all'ammiraglio per nome, per la prima volta da quando lei era una giovane senatrice e lui un comandante della FORCE:spazio anche più giovane — hai dimenticato quando Byron Lamia ci mise in contatto con gli Stabili? Con l'IA di nome Ummon? La predizione dei due futuri… che avrebbero comportato l'uno il caos e l'altro l'estinzione certa della razza umana?

Singh si girò da una parte. — Il mio dovere è nei confronti della FORCE e dell'Egemonia.

— Il tuo dovere è lo stesso del mio — sbottò Gladstone. — Nei confronti della razza umana.

Singh alzò i pugni, come se fosse pronto a combattere contro un avversario invisibile ma potente. — Non lo sappiamo con sicurezza! — obiettò. — Da dove viene, l'informazione?

— Da Severn. Il cìbrido.

— Cìbrido? — sbuffò il generale. — Vuoi dire quel pittore. O almeno quella miserabile scusa di un pittore.

— Cìbrido — ripeté Gladstone. E si spiegò meglio.

— Severn è una personalità ricuperata? — Morpurgo parve dubbioso. — E ora l'hai trovato?

— Lui ha trovato me. In sogno. Chissà come, è riuscito a mettersi in contatto con me, dal luogo dove si trova. Era questo, il suo ruolo, Arthur, Kushwant. Per questo Ummon l'ha inviato nella Rete.

— Un sogno — disse l'ammiraglio Singh, in tono beffardo. — Questo… cìbrido… ti ha detto che il Nucleo è nascosto nella rete dei teleporter. In un sogno!

— Sì. E ci resta poco tempo per agire.

— Ma fare come hai suggerito tu… — obiettò Morpurgo.

— Condannerebbe milioni di persone — terminò Singh. — Forse miliardi. L'economia crollerebbe. Mondi come TC2, Vettore Rinascimento, Nuova Terra, i Deneb, Nuova Mecca… Lusus, Arthur… e decine di altri, dipendono dalle Rete, per il cibo. I mondi urbani non possono sopravvivere, lasciati a se stessi.

— Non come mondi urbani — convenne Gladstone. — Ma la gente può imparare a coltivare la terra, finché il commercio interstellare non riprende.

— Certo! — sbuffò Singh. — Dopo le pestilenze, dopo il crollo dell'autorità, dopo milioni di morti per mancanza di attrezzature, di medicinali, di supporto della sfera dati.

— A tutto questo ho già pensato — disse Gladstone, con voce più ferma di quanto Morpurgo non le avesse mai udito. — Sarà il più grande omicidio di massa della storia… più grande di quelli di Hitler, di Tze Hu, di Horace Glennon-Height. L'unica cosa peggiore è continuare di questo passo. Nel qual caso, io… e voi, signori… saremo i traditori finali della razza umana.

— Questo non lo sappiamo! — brontolò Kushwant Singh, come se le parole gli fossero strappate di bocca a furia di pugni allo stomaco.

— Lo sappiamo, invece. Al Nucleo, la Rete non serve più. D'ora in poi, i Volatili e i Finali manterranno alcuni milioni di schiavi rinchiusi sottoterra nei nove mondi labirinto e useranno le sinapsi umane per le restanti necessità di calcolo.

— Sciocchezze — disse Singh. — Quegli umani si lascerebbero morire.

Meina Gladstone sospirò e scosse la testa. — Il Nucleo ha progettato un congegno organico parassitario, chiamato crucimorfo. Riporta in vita i morti. Dopo alcune generazioni, gli esseri umani saranno ritardati mentali, indifferenti, privi di futuro; ma i loro neuroni continueranno a servire agli scopi del Nucleo.

Singh girò di nuovo la schiena agli altri due. La sua figura piccolina si stagliò contro una muraglia di fulmini, mentre la tempesta si avvicinava in un ribollire di nubi color bronzo. — Te l'ha detto il sogno, Meina?

— Sì.

— E cos'altro ti ha detto, il sogno? — sbottò l'ammiraglio.

— Che il Nucleo non ha più bisogno della Rete. E neppure della Rete umana. Continueranno a risiedere lì, come topi nei muri, ma gli occupanti originari non serviranno più. L'Intelligenza Finale si assumerà la maggior parte dei compiti di calcolo.

Singh si girò a guardarla in viso. — Sei pazza, Meina. Completamente pazza.

Gladstone si mosse rapidamente ad afferrare per il braccio l'ammiraglio, prima che questi attivasse il teleporter. — Kushwant, per favore, dammi retta…

Singh estrasse dalla veste una pistola di ordinanza a fléchettes e la puntò contro il petto della donna. — Mi spiace, signora. Ma io sono al servizio dell'Egemonia e…

Gladstone si portò la mano alla bocca e arretrò di un passo. L'ammiraglio Singh si bloccò, per un secondo la fissò senza vederla, poi cadde sull'erba. La pistola a fléchettes rotolò per terra.

Morpurgo la raccolse e se l'infilò nella cintura, prima di riporre nel fodero la neuroverga che impugnava.

— L'hai ucciso — disse il PFE. — Se non avesse collaborato, l'avrei abbandonato qui. Isolato su Kastrop-Rauxel.

— Non potevamo correre il rischio — disse il generale, tirando il cadavere lontano dal teleporter. — Tutto dipende dalle prossime ore.

Gladstone guardò il vecchio amico. — Sei disposto ad andare fino in fondo?

— Dobbiamo farlo. Sarà la nostra ultima possibilità di liberarci del giogo dell'oppressione. Darò subito il via e trasmetterò di persona gli altri ordini sigillati. Occorrerà gran parte della flotta…

— Dio mio — mormorò Meina Gladstone, guardando il cadavere dell'ammiraglio Singh. — Faccio tutto questo sulla base di un sogno.

— A volte — disse il generale Morpurgo, prendendole la mano — i sogni sono l'unica cosa che ci distingue dalle macchine.

44

La morte, ho scoperto, non è un'esperienza piacevole. Lasciare le ben note stanze in Piazza di Spagna e il corpo che si raffredda rapidamente è come essere spinti nella notte da un incendio e da un'alluvione, abbandonando il familiare tepore della propria casa. Lo choc e il senso di spiazzamento sono notevoli. Scagliato a capofitto nella metasfera, provo lo stesso senso di vergogna e di improvvisa, goffa rivelazione che tutti abbiamo avuto nei nostri sogni accorgendoci di avere dimenticato di vestirci e di trovarci, nudi, in un luogo pubblico o in una riunione sociale.

Nudo è la parola esatta, ora, mentre cerco di dare una certa forma alla mia personalità analoga a brandelli. Riesco a concentrarmi quanto basta per sagomare questa nube elettronica quasi casuale di ricordi e di associazioni in un ragionevole simulacro dell'essere umano che sono stato… o almeno dell'essere umano del quale ho condiviso i ricordi.

Il signor John Keats, un metro e cinquanta.

La metasfera è un luogo non meno spaventoso di prima… peggiore, adesso che non ho rifugio mortale in cui fuggire. Sagome enormi si muovono dietro orizzonti tenebrosi, rumori echeggiano nel Vuoto Legante come passi su piastrelle in un castello abbandonato. Sotto e dietro ogni cosa c'è un continuo e snervante brontolio come di ruote di carro su una strada di ardesia.

Povero Hunt. Sono tentato di torn re da lui, balzare fuori come il fantasma di Marley e rassicurarlo che sto meglio di quanto non sembri; ma la Vecchia Terra è un posto pericoloso per me, in questo preciso momento: la presenza dello Shrike arde nel piano dati della metasfera locale come fiamma su velluto nero.

Il Nucleo mi chiama con forza maggiore, ma è anche più pericoloso. Ricordo che Ummon ha distrutto davanti a Brawne Lamia l'altro Keats… stringendo a sé la personalità analoga fino a farla semplicemente dissolvere, a far liquefare come limaccia sotto sale la basilare memoria del Nucleo dell'uomo.

No, grazie.

Ho preferito la morte alla divinità, ma ho dei lavori da portare a termine, prima di dormire.

La metasfera mi spaventa, il Nucleo mi spaventa maggiormente, i tunnel tenebrosi delle anomalie della sfera dati, dove devo viaggiare, mi atteriscono fino al midollo analogo. Ma non c'è rimedio.

Plano nel primo cono nero, vi turbino intorno come una metaforica foglia in un mulinello fin troppo reale, emergo nel giusto piano dati, ma sono troppo intontito e disorientato per fare altro che restarmene lì… visibile a qualsiasi IA del Nucleo che acceda ai gangli di lavoro ROM o a qualsiasi routine di fagi residente nelle fessure viola di ognuna di queste catene montuose di dati; ma il caos del TecnoNucleo mi salva: le grandi personalità del Nucleo sono troppo impegnate ad assediare le loro personali mura di Troia, per tenere di occhio la porta posteriore.

Trovo i codici di accesso alla sfera dati che volevo e i cordoni ombelicali sinaptici che mi occorrono; è lavoro di un microsecondo, seguire vecchi sentieri giù fino a Tau Ceti Centro, alla Casa del Governo, alla clinica interna, ai sogni indotti dalle medicine di Paul Duré.

L'unica cosa che la mia personalità sa fare particolarmente bene è sognare; scopro quasi per caso che i miei ricordi della gita in Scozia formano un piacevole paesaggio in cui convincere il prete a fuggire. Come inglese e libero pensatore, un tempo mi ero opposto a qualsiasi cosa sapesse di papismo, ma a favore dei gesuiti bisogna dire una cosa: insegnano loro l'ubbidienza anche al di sopra della logica; e per una volta questo rende un buon servizio a tutta la razza umana. Duré non chiede spiegazioni, quando gli dico di andare: si sveglia come un bravo bambino, si avvolge in una coperta e va.

Meina Gladstone mi considera Joseph Severn, ma accetta il mio messaggio come se le fosse trasmesso da Dio. Voglio dirle che no, non sono io, l'Uno; sono solo Colui Che Viene Prima; ma il messaggio è ciò che conta, così lo trasmetto e me ne vado.

Passando attraverso il Nucleo nella mia strada per la metasfera di Hyperion, colgo la zaffata di metallo bruciato della guerra civile e scorgo una grande luce che potrebbe essere benissimo Ummon nel processo di essere eliminato. Il vecchio Maestro, se lo è davvero, non cita koan mentre muore, ma urla per l'atroce sofferenza, con la stessa sincerità di qualsiasi entità cosciente sul punto di essere data in pasto ai forni.

Mi affretto.

La connessione teleporter con Hyperion è a dir poco tenue: un singolo portale militare e una singola Balzonave danneggiata, in un perimetro sempre più piccolo di navi dell'Egemonia rovinate dalla guerra. La sfera di contenimento dell'anomalia non può essere protetta dagli attacchi Ouster più a lungo di qualche altro minuto. La nave torcia dell'Egemonia che porta la neurobomba del Nucleo si prepara a teleportarsi nel sistema già mentre arrivo e trovo posizione nel limitato livello sfera dati che mi consente di osservare. Mi soffermo a guardare che cosa accadrà dopo.


— Cristo — disse Melio Arundez — Meina Gladstone mantiene la parola, con una raffica di priorità uno.

Theo Lane si unì a lui per guardare i dati prioritari annebbiare l'aria al di sopra della piazzuola di proiezione. Il Console scese la scala a chiocciola di ferro battuto che portava nella camera da letto dove era andato a rimuginare. — Un altro messaggio da TC2? — domandò, brusco.

— Non diretto a noi specificamente — disse Theo, leggendo i codici rossi a mano a mano che si formavano e svanivano. — È una trasmissione astrotel a priorità assoluta, indirizzata a chiunque, in qualsiasi luogo.

Arundez si lasciò cadere sui cuscini della piazzuola. — Una cosa sbagliatissima. Il PFE ha mai trasmesso su banda totale?

— Mai — disse Theo Lane. — L'energia necessaria solo per codificare una raffica del genere è incredibile.

Il Console si avvicinò e indicò i codici che svanivano. — Non è una raffica. Guardate, è una trasmissione in tempo reale.

Theo scosse la testa. — Qui si parla di valori di trasmissione pari a parecchi milioni di gigaelettrovolt.

Arundez mandò un fischio. — Anche solo a cento milioni di GeV, è meglio che sia importante.

— La resa generale — disse Theo. — L'unica cosa che giustifichi una trasmissione universale in tempo reale. Gladstone la manda agli Ouster, ai mondi della Periferia e ai pianeti invasi, oltre che alla Rete. Dev'essere trasmessa su tutte le frequenze, per TVE e anche sulle bande della sfera dati. Di certo si tratta della resa.

— Chiudi il becco — disse il Console. Aveva bevuto parecchio.

Aveva iniziato a bere subito dopo il ritorno dal Tribunale e il suo umore, che era stato pessimo anche quando Theo e Arundez gli avevano dato manate sulle spalle e si erano congratulati perché era sopravvissuto, non era migliorato dopo il decollo, l'allontanamento dallo Sciame e le due ore che aveva trascorso da solo a bere, mentre la nave accelerava verso Hyperion.

— Meina Gladstone non si arrenderebbe mai — disse il Console, con voce impastata. Reggeva ancora la bottiglia di scotch. — Guardate e basta.


Sulla nave torcia AE Stephen Hawking, la ventitreesima dell'Egemonia a portare il riverito nome dello scienziato classico, il generale Arthur Morpurgo alzò gli occhi dalla consolle di comando e zittì i suoi due ufficiali di ponte. Di norma quella classe di nave torcia portava un equipaggio di settantacinque persone. Ora, con a bordo la neurobomba del Nucleo già innescata, tutto l'equipaggio si riduceva a Morpurgo e a quattro volontari. Display e discrete voci di computer assicurarono che la Stephen Hawking era sulla giusta rotta, che rispettava i tempi e accelerava costantemente verso velocità quasi quantiche, diretta al teleporter militare situato nel punto di Lagrange tre, fra Madhya e la sua luna enorme. Il portale di Madhya dava direttamente sul teleporter strenuamente difeso nello spazio di Hyperion.

— Un minuto e diciotto secondi al punto di traslazione — disse l'ufficiale di ponte Salumun Morpurgo. Era il figlio del generale.

Morpurgo annuì e attaccò la trasmissione ad ampia banda nell'ambito del sistema. Le proiezioni di ponte erano abbastanza impegnate con dati di missione, perciò il generale permise il solo audio per il discorso del PFE. Nonostante tutto, sorrise. Cosa avrebbe detto, Meina, se avesse saputo che lui era al timone della Stephen Hawking? Era stato meglio tenerla all'oscuro. Morpurgo non poteva fare nient'altro. Preferiva non vedere i risultati degli ordini precisi e consegnati a mano nelle ultime due ore.

Guardò il figlio maggiore, con un orgoglio tale da sconfinare nel dolore. Non c'erano molti ufficiali a livello nave torcia che potesse contattare per la missione e suo figlio era stato il primo a offrirsi volontario. Se non altro, forse l'entusiasmo della famiglia Morpurgo aveva allentato un poco i sospetti del Nucleo.

«Concittadini» diceva il quel momento Gladstone «questo è il mio ultimo discorso in veste di vostro Primo Funzionario Esecutivo.

«Come sapete, la terribile guerra che ha già devastato tre dei nostri mondi e che si appresta a colpirne un quarto, è stata attribuita a un'invasione degli Sciami Ouster.

«È una menzogna.»

Le bande di trasmissione lampeggiarono di interferenze e tacquero. — Passate all'astrotel — disse il generale Morpurgo.

— Un minuto e tre secondi al punto di traslazione — annunciò suo figlio.

La voce di Gladstone tornò, filtrata e leggermente confusa dalla codifica e decodifica astrotel. «… capire che i nostri antenati, e noi stessi, abbiamo stretto un patto faustiano con un potere cui non interessa la sorte della razza umana.

«Il Nucleo è l'autore dell'attuale invasione.

«Il Nucleo è responsabile della nostra lunga, comoda età oscura dell'anima.

«Il Nucleo è responsabile dell'attuale tentativo di distruggere la razza umana, di cancellarci dall'universo e di sostituirci con una macchina-dio da lui stesso concepita.»

L'ufficiale di ponte Salumun Morpurgo non staccò lo sguardo dal cerchio di strumenti. — Trentotto secondi al punto di traslazione.

Morpurgo annuì. Gli altri due ufficiali sul ponte di comando avevano il viso velato di sudore. Il generale si accorse che anche il suo era sudato.

«… hanno dimostrato che il Nucleo risiede… è sempre risieduto… negli interstizi bui fra i teleporter. Le IA credono di essere i nostri padroni. Finché la Rete esiste, finché la nostra amata Egemonia è collegata da teleporter, saranno i nostri padroni.»

Morpurgo diede un'occhiata al cronometro di missione. Ventotto secondi. La traslazione nel sistema di Hyperion sarebbe stata, ai sensi umani, istantanea. Morpurgo era certo che la neurobomba del Nucleo fosse in qualche modo modificata per detonare all'ingresso nello spazio di Hyperion. La letale onda di urto avrebbe raggiunto il pianeta Hyperion in meno di due secondi e prima di dieci minuti avrebbe inglobato anche gli elementi più lontani dello Sciame Ouster.

«Così» disse Meina Gladstone, con voce che per la prima volta tradiva l'emozione «in veste di Primo Funzionario Esecutivo del Senato dell'Egemonia dell'Uomo, ho autorizzato elementi della FORCE:spazio a distruggere tutte le sfere di contenimento di anomalia e tutti i teleporter di cui si conosca l'esistenza.

«Questa distruzione… questa cauterizzazione… inizierà fra dieci secondi.

«Dio salvi l'Egemonia.

«Dio ci perdoni tutti.»

L'ufficiale di ponte Salumun Morpurgo disse freddamente: — Cinque secondi alla traslazione, padre.

Morpurgo guardò dall'altra parte del ponte e incrociò lo sguardo del figlio. Alle spalle del giovane ufficiale, le proiezioni mostravano un portale crescere, crescere tutt'intorno.

— Ti voglio bene — disse il generale.


Duecentosessantatré sfere di contenimento di anomalia che collegavano più di settantadue milioni di teleporter furono distrutte entro due virgola sei secondi l'una dall'altra. Unità della flotta della FORCE, messe in moto da Morpurgo sotto Ordine Esecutivo e in osservanza di ordini dissigillati meno di tre minuti prima, reagirono con prontezza e professionalità e distrussero le fragili sfere teleporter, usando missili, laser, esplosivi al plasma.

Tre secondi dopo, mentre la nube di detriti ancora si espandeva, le centinaia di imbarcazioni della FORCE si trovarono arenate, separate l'una dall'altra e dal più vicino sistema stellare da settimane o mesi di viaggio con motore Hawking e da anni di debito temporale.

Migliaia di persone furono colte in transito teleporter. Molti morirono all'istante, smembrati o tagliati in due. Molti riportarono semplici amputazioni di arti, mentre i portali collassavano dietro di loro e davanti a loro. Alcuni semplicemente scomparvero.

Fu questa, la sorte della AE Stephen Hawking… proprio come previsto: i due portali, di ingresso e di uscita, furono abilmente distrutti nel nanosecondo di traslazione della nave. Nessuna parte della nave torcia sopravvisse in spazio reale. In seguito, i test dimostrarono definitivamente che la cosiddetta neurobomba era esplosa in quelli che si definivano tempo e spazio nelle bizzarre geografie fra i portali.

Nessuno seppe mai con quali effetti.


Le conseguenze sul resto della Rete e sui suoi cittadini furono immediatamente chiare.

Dopo sette secoli dalla loro creazione e almeno quattro secoli in cui ben pochi ne erano vissuti senza, la sfera dati, compresa la Totalità e tutte le bande di trasmissione e di accesso, smisero semplicemente di esistere. Centinaia di migliaia di cittadini impazzirono in quello stesso momento, ridotti in stato catatonico dalla sconvolgente scomparsa di sensi divenuti più importanti della vista e dell'udito.

Altre centinaia di migliaia di operatori di piano dati, inclusi parecchi dei cosiddetti cyberpuke e cowboy di sistema, si persero: l'analogo della loro personalità rimase imprigionato nel crollo della sfera dati o il loro cervello fu bruciato completamente da sovraccarico di shunt neurale o da un effetto in seguito definito retroazione zero-zero.

Milioni di persone morirono, quando l'habitat prescelto, accessibile solo tramite teleporter, divenne un'isolata trappola mortale.

Il Vescovo della Chiesa della Redenzione Finale, il capo del Culto Shrike, aveva accuratamente programmato di assistere con una certa comodità ai Giorni Finali, nella cavità praticata all'interno di una montagna, riccamente approvvigionata, nel cuore dei Monti Raven, nelle regioni settentrionali di Nevermore. Teleporter normali e di riserva erano l'unica via di entrata e di uscita. Il vescovo morì mentre diverse migliaia di novizi, esorcisti, lettori e ostiari si uccidevano nel tentativo di penetrare nel Sacrario Interno per dividere con il Santo l'ultima aria respirabile.

La miliardaria dell'editoria Tyrena Wingreen-Feif, novantasette anni standard ma sulla scena da più di trecento grazie ai miracoli del trattamento Poulsen e della criogenia, fece l'errore di trascorrere quel fatidico giorno da sola nell'ufficio accessibile unicamente per teleporter, al 434° piano della Guglia Transline, nel quartiere Babele di Città Cinque su Tau Ceti Centro. Per quindici ore filate si rifiutò di convincersi che il servizio teleporter non sarebbe stato riattivato in tempi brevi; alla fine cedette alle implorazioni via radio degli impiegati e staccò le pareti a campo di contenimento in modo che un VEM venisse a prelevarla.

Tyrena non aveva ascoltato con la dovuta cura le istruzioni. La decompressione la soffiò via dal 434° piano, come un turacciolo da una bottiglia di champagne agitata troppo. Impiegati ed elementi della squadra di salvataggio nel VEM in attesa giurarono che la vecchia signora mandò una serie continua di imprecazioni per l'intera caduta di quattro minuti.


Su gran parte dei mondi il caos si era guadagnato una nuova definizione.

La maggior parte dell'economia della Rete scomparve insieme con la sfera dati locale e con la megasfera. Trilioni di marchi frutto di duro lavoro e di azioni disoneste cessarono di esistere. Le carte universali smisero di funzionare. Le apparecchiature della vita quotidiana tossirono, starnutirono e si spensero. Per settimane o per mesi o per anni, a seconda del pianeta, sarebbe stato impossibile pagare il droghiere, il biglietto di un mezzo pubblico, il più piccolo debito, i servizi ricevuti, senza avere accesso alle monete e alle banconote del mercato nero.

Ma la depressione a livello Rete, catastrofica come uno tsunami, era un particolare trascurabile, riservato a meditazioni successive. Per molte famiglie l'effetto fu immediato e intensamente personale.

Padre o madre si erano teleportati al lavoro come al solito, per esempio da Deneb Vier a Vettore Rinascimento, e invece di tornare a casa con un'ora di ritardo quella sera, avrebbero tardato undici anni… se trovavano subito un passaggio sulle poche spin-navi a motore Hawking che ancora viaggiavano fra i mondi seguendo la via più dura.

Membri di famiglie benestanti che ascoltavano il messaggio di Gladstone nelle residenze multimondo alla moda, alzarono gli occhi e si guardarono in viso, separati solo da alcuni metri e da portali spalancati fra le stanze; in un battito di ciglio furono separati da anni-luce e anni veri, adesso che le stanze si aprivano sul nulla.

Bambini fino a cinque minuti prima a scuola o al campo giochi o dalla babysitter sarebbero diventati adulti prima di riunirsi ai genitori.

Il Grand Concourse, già in parte troncato dai venti di guerra, si trovò soffiato nell'oblio, con l'infinita cintura di magnifici negozi e di ristoranti di prestigio tagliata in sezioni da quattro soldi mai più riunite.

Il fiume Teti cessò di scorrere, quando i giganteschi portali divennero opachi e morirono. L'acqua si versò fuori, asciugò e lasciò pesci a marcire sotto duecento soli.

Ci furono sommosse. Lusus si ridusse a brandelli come un lupo che azzanni le proprie viscere. Nuova Mecca finì in spasmi di martirio. Tsingtao-Hsishuang Panna celebrò la liberazione dalle orde Ouster e poi impiccò diverse migliaia di ex burocrati dell'Egemonia.

Anche su Patto-Maui ci furono sommosse, ma di celebrazione: centinaia di migliaia di discendenti delle Prime Famiglie cavalcarono le isole mobili per togliere di mezzo i forestieri che si erano impadroniti di tanta parte del pianeta. In seguito, i milioni di sconvolti proprietari di case vacanza furono messi al lavoro per smantellare le migliaia di derrick petroliferi e di centri turistici che macchiavano come vaiolo l'Arcipelago Equatoriale.

Su Vettore Rinascimento ci fu un breve scoppio di violenza seguito da un'efficiente ristrutturazione sociale e da un serio sforzo per nutrire un mondo urbano privo di agricoltura.

Su Nordholm, le città si svuotarono e la gente tornò alle coste e al gelido mare e alle ancestrali barche da pesca.

Su Parvati ci furono confusione e guerra civile.

Su Sol Draconis Septem ci furono esultanza e rivoluzione, seguite da un nuovo ceppo di pestilenza retrovirale.

Su Fuji, ci fu rassegnazione filosofica, seguita dall'immediata costruzione di cantieri navali orbitali per creare una flotta di spin-navi con motore Hawking.

Su Asquith ci fu una serie di accuse, seguita dalla vittoria del partito socialista laburista operaio nel parlamento locale.

Su Pacem ci fu preghiera. Il nuovo pontefice, Sua Santità Teilhard I, convocò un grande concilio, il Concilio Vaticano XXXIX; annunciò una nuova era nella vita della Chiesa e conferì al concilio il potere di addestrare missionari per lunghi viaggi. Molti missionari. Per molti viaggi. Papa Teilhard annunciò che questi missionari non avrebbero fatto proseliti, ma ricerche. La Chiesa, come moltissime specie abituate a vivere sull'orlo dell'estinzione, si adattava e sopportava.

Su Tempe ci furono sommosse e uccisioni e l'ascesa di demagoghi.

Su Marte, per un certo periodo il Comando Olympus rimase in contatto astrotel con le proprie forze sparpagliate. Fu Olympus a confermare che le "ondate di invasione Ouster", dappertutto tranne che nel sistema di Hyperion, si erano semplicemente fermate. Le navi del Nucleo che fu possibile intercettare erano vuote e non programmate. L'invasione era terminata.

Su Metaxas ci furono sommosse e ritorsioni.

Su Qom-Riyadh, un ayatollah fondamentalista sciita andò nel deserto, chiamò a sé centomila seguaci e nel giro di qualche ora spazzò il governo del Consiglio Autonomo Suni. Il nuovo governo rivoluzionario restituì il potere ai mullah e riportò indietro di duemila anni l'orologio della storia. La popolazione partecipò con gioia alle sommosse.

Su Armaghast, mondo di frontiera, le cose continuarono come sempre, a parte la scarsità di turisti, di nuovi archeologi e di altri lussi di importazione. Armaghast era uno dei mondi labirinto. Il labirinto locale rimase deserto.

Su Hebron ci fu panico nella città fuori mondo di Nuova Gerusalemme, ma gli anziani sionisti presto riportarono l'ordine sul pianeta. Stabilirono dei piani. Razionarono e suddivisero beni di importazione rari e indispensabili. Reclamarono il deserto. Estesero le fattorie. Piantarono alberi. La gente si lamentava, ringraziava Dio per la liberazione, discuteva con Dio per il disagio della liberazione stessa e si occupava dei propri affari.

Su Bosco Divino interi continenti erano ancora in fiamme e una cappa di fumo riempiva il cielo. Subito dopo il passaggio dell'ultimo elemento dello "Sciame", decine di navi-albero salirono fra le nubi, spinte lentamente da propulsori a fusione, protette da campi di contenimento generati dagli erg. Appena fuori del pozzo gravitazionale, la maggior parte di queste navi-albero si diresse all'esterno in una miriade di direzioni lungo il piano galattico dell'eclittica e iniziò la lunga accelerazione spin fino al balzo quantico. Raffiche astrotel saettarono dalle navi-albero a lontani Sciami in attesa. La semina era iniziata.

Su Tau Ceti Centro, sede del potere e della ricchezza e degli affari e del governo, i superstiti affamati abbandonarono le pericolose guglie e le inutili città e gli inservibili habitat orbitali e cercarono qualcuno a cui dare la colpa. Qualcuno da punire.

Non fu necessario cercare lontano.


Il generale Van Zeidt si trovava nella Casa del Governo, quando i portali smisero di esistere; ora comandava i duecento marines e i sessantotto agenti di sicurezza lasciati a guardia del complesso. L'ex PFE Meina Gladstone comandava ancora i sei Pretoriani che Kolchev le aveva lasciato, quando lui e gli altri senatori più elevati in grado erano partiti nella prima e ultima navetta di evacuazione della FORCE che fosse riuscita a teleportarsi. Da qualche parte la folla inferocita si era procurata missili e laser antispazio; nessuno degli altri tremila impiegati e profughi nella Casa del Governo se ne sarebbe andato, finché l'assedio non fosse stato tolto o gli schermi di protezione non avessero ceduto.

Gladstone si fermò al posto di osservazione avanzato e guardò il massacro. La folla aveva distrutto gran parte del Parco dei Cervi e dei giardini all'italiana, prima di essere bloccata dalle ultime linee di interdizione e dai campi di contenimento. Adesso almeno tre milioni di persone in preda al panico erano ammassati contro queste barriere e la folla ingrossava di minuto in minuto.

— Potete spostare i campi indietro di cinquanta metri e riformarli prima che la folla invada il terreno? — domandò Gladstone al generale. Il fumo delle città in fiamme a ovest riempiva il cielo. A migliaia, uomini e donne erano stati schiacciati contro i campi di contenimento dalla spinta della folla, al punto che i due metri inferiori della parete scintillante sembravano cosparsi di marmellata di fragole. Altre decine di migliaia premevano maggiormente contro lo schermo interno, nonostante il dolore neurale e osseo causato dal campo di interdizione.

— Possiamo farlo, signora — rispose Van Zeidt. — Ma per quale motivo?

— Esco a parlare alla folla. — Gladstone parve davvero stanca.

Il marine la guardò, convinto che si trattasse di uno scherzo di cattivo gusto. — Signora, fra un mese saranno disposti ad ascoltare lei… o uno di noi… alla radio o alla TVE. Fra un anno, forse due, dopo che l'ordine sia stato ristabilito e il razionamento abbia avuto successo, potrebbero anche essere pronti a dimenticare. Ma occorrerà una generazione, prima che capiscano sul serio quel che lei ha fatto… che lei li ha salvati… che ci ha salvati tutti.

— Voglio parlare a quelle persone — disse Meina Gladstone. — Ho una cosa da dare loro.

Van Zeidt scosse la testa. Gli ufficiali della FORCE che dalle feritoie del bunker fissavano la folla ora guardarono Gladstone, con la stessa incredulità e lo stesso orrore.

— Devo sentire il PFE Kolchev — disse il generale Van Zeidt.

— No — replicò Meina Gladstone, con voce stanca. — Lui governa un impero che non esiste più. Io governo ancora il mondo che ho distrutto. — Fece segno ai Pretoriani, che estrassero la neuroverga da sotto la veste a strisce arancione e nero.

Nessuno degli ufficiali della FORCE si mosse. Il generale Van Zeidt disse: — Meina, la prossima nave di evacuazione ce la farà.

Gladstone annuì, come distratta. — Il giardino interno, direi. Per qualche minuto la folla non saprà che fare. La ritrazione dei campi esterni la prenderà alla sprovvista. — Si guardò intorno, come per assicurarsi di non avere dimenticato niente; poi tese la mano a Van Zeidt. — Addio, Mark — disse. — E grazie. La prego, si prenda cura del mio popolo.

Il generale Van Zeidt le strinse la mano; la guardò aggiustarsi la fascia, toccare con aria assente il bracciale comlog quasi fosse un portafortuna e uscire dal bunker, seguita da quattro Pretoriani. Il gruppetto attraversò i giardini calpestati e si diresse lentamente verso i campi di contenimento. Al di là della barriera, la folla parve reagire come un singolo organismo privo di intelligenza e si gettò contro il campo di interdizione urlando come impazzita.

Gladstone si girò, alzò la mano quasi in un saluto e mandò indietro i Pretoriani. I quattro si affrettarono ad allontanarsi sull'erba calpestata.

— Proceda — disse il più anziano dei Pretoriani rimasti nel bunker. Indicò il telecomando del campo di contenimento.

— Vaffanculo — rispose chiaro e tondo il generale Van Zeidt. Nessuno si sarebbe avvicinato al telecomando, finché lui fosse stato vivo.

Van Zeidt aveva dimenticato che Gladstone aveva ancora accesso ai codici e ai collegamenti tattici a raggio compatto. Vide la donna alzare il comlog, ma reagì troppo lentamente. Le luci spia del telecomando brillarono, rosse e poi verdi; i campi esterni si spensero e si riformarono cinquanta metri più indietro; per un secondo Meina Gladstone rimase da sola, con niente fra sé e la folla di milioni di individui, tranne pochi metri di erba e innumerevoli cadaveri che il ritiro delle pareti schermanti aveva abbandonato di colpo alla forza di gravità.

Gladstone alzò le braccia come ad abbracciare la folla. Il silenzio e la mancanza di movimento si protrassero per tre secondi che parvero eterni, poi la marmaglia ruggì con la voce di una belva immane e migliaia di pazzi si lanciarono avanti, con bastoni e pietre e coltelli e pezzi di bottiglia.

Per un momento parve a Van Zeidt che Gladstone stesse ferma come una roccia incrollabile sotto l'onda di folla inferocita; il generale vide l'abito nero e la fascia colorata, vide la donna restare ben dritta, con le braccia ancora alzate; ma poi altre centinaia di esagitati si lanciarono avanti, la folla si chiuse e Gladstone fu perduta.

I Pretoriani abbassarono le armi e furono immediatamente messi agli arresti dai marines di guardia.

— Rendere opachi i campi di contenimento — ordinò Van Zeidt. — Comunicare alle navette di atterrare nel giardino interno a intervalli di cinque minuti. Sbrigarsi!

Girò le spalle alla scena.


— Sant'Iddio — disse Theo Lane, mentre rapporti frammentari continuavano ad arrivare via astrotel. Le raffiche della durata di millisecondi erano talmente numerose che il computer non riusciva a separarle. Il risultato era un mélange di follia.

— Facci rivedere la distruzione della sfera di contenimento — ordinò il Console.

— Sissignore — rispose la nave; interruppe i messaggi astrotel per mostrare di nuovo un improvviso scoppio di luce bianchissima, seguito da una breve fioritura di detriti e dall'improvviso collasso della sfera di anomalia che inghiottiva se stessa e ogni cosa in un raggio di seimila chilometri. Alcuni strumenti mostrarono l'effetto delle maree gravitazionali: alla distanza cui si trovava la nave del Console non era difficile tenerle a bada, ma scatenarono la devastazione fra le navi dell'Egemonia e degli Ouster ancora impegnate in battaglia nelle vicinanze di Hyperion.

— Va bene così — disse il Console. Il flusso di rapporti astrotel riprese.

— Non c'è dubbio? — domandò Arundez.

— No. Hyperion è di nuovo un mondo della Periferia. Ma stavolta non c'è una Rete di cui essere la Periferia.

— Incredibile — disse Theo Lane. L'ex governatore generale beveva scotch: l'unica volta che il Console l'aveva visto indulgere agli alcolici. Theo se ne versò altre quattro dita. — La Rete… sparita. Cinquecento anni di espansione spazzati via.

— Non spazzati via — disse il Console. Posò sul tavolo il bicchiere, ancora mezzo pieno. — I mondi rimangono. Le civiltà saranno lontane l'una dall'altra, ma abbiamo ancora il motore Hawking. L'unico progresso tecnologico che abbiamo ottenuto da soli, non preso in affitto dal Nucleo.

Melio Arundez si sporse in avanti, a mani giunte come in preghiera. — Possibile che il Nucleo sia davvero scomparso? Distrutto?

Il Console ascoltò un momento la confusione di voci, di grida, di implorazioni, di rapporti militari e di richieste di aiuto che proveniva dalle bande audio dell'astrotel. — Distrutto forse no — disse. — Ma tagliato fuori, isolato.

Theo vuotò il bicchiere e con cura lo posò sul tavolo. Negli occhi aveva uno sguardo placido, velato. — Pensa che abbiano altre… ragnatele? Altri sistemi teleporter? Nuclei di riserva?

— Sono riusciti a creare l'Intelligenza Finale. Forse quest'ultima ha permesso la… come dire… la scrematura del Nucleo. Forse mantiene in funzione, a capacità ridotta, alcune vecchie IA… nello stesso modo in cui queste ultime progettavano di tenere di riserva alcuni miliardi di esseri umani.

All'improvviso la confusione di messaggi astrotel cessò di colpo, come tagliata di netto.

— Nave? — domandò il Console, pensando a un sovraccarico del ricevitore.

— Tutti i messaggi astrotel sono cessati, per lo più a metà trasmissione — disse la nave.

Il Console si sentì mancare il cuore. "La neurobomba" pensò. Ma subito si rese conto che l'ordigno non poteva colpire tutti i mondi nello stesso istante. Anche se centinaia di quelle bombe fossero esplose simultaneamente, ci sarebbe stato un tempo di ritardo e le navi della FORCE e altre fonti assai lontane avrebbero trasmesso gli ultimi messaggi. E allora?

— Sembra che i messaggi siano stati troncati da un disturbo nel mezzo di trasmissione — disse la nave. — Cosa, per le mie conoscenze attuali, impossibile.

Il Console si alzò. "Un disturbo nel mezzo di trasmissione?" L'astrotel, per quanto l'uomo ne capiva, era la topografia iperstringa quanticamente infinita dello spazio-tempo stesso: quello a cui le IA si riferivano misteriosamente con il termine "Vuoto Legante". Non potevano esserci disturbi, in questo mezzo.

A un tratto la nave disse: — Messaggio astrotel in arrivo… fonte della trasmissione, dovunque; base di codificazione, infinito; rapporto di raffica, tempo reale.

Il Console aprì la bocca per dire alla nave di smetterla di sputare scempiaggini, quando l'aria sopra la piazzuola di proiezione si annebbiò in qualcosa che non era né immagine né colonne dati e risuonò una voce.

NON CI SARÀ PIÙ USO SCORRETTO DI QUESTO CANALE. VOI DISTURBATE ALTRI CHE LO USANO PER SCOPI SERI. L'ACCESSO SARÀ RIPRISTINATO QUANDO CAPIRETE A COSA SERVE. ADDIO.

I tre rimasero in silenzio, rotto solo dal rassicurante ronzio delle pale di ventilazione e dalle migliaia di piccoli rumori di una nave in movimento. Alla fine il Console disse: — Nave, emetti una raffica astrotel standard di locazione temporale, senza codificarla. Aggiungi: "Le stazioni riceventi rispondano".

Seguì una pausa di secondi… un tempo di risposta impossibilmente lungo, per il computer di livello IA che era la nave. — Mi spiace, non è possibile — fu infine la risposta.

— Perché? — domandò il Console.

— Le trasmissioni astrotel non sono più… permesse. Non è più possibile modulare l'iperstringa.

— Non c'è niente nell'astrotel? — domandò Theo, fissando lo spazio vuoto al di sopra della piazzuola, come se qualcuno avesse spento un olodramma proprio sul più bello.

La nave esitò di nuovo. — Sotto tutti i punti di vista, signor Lane, ormai l'astrotel ha smesso di esistere — disse infine.

— Cristo — brontolò il Console. Con una lunga sorsata vuotò il bicchiere e andò al bar a riempirlo. — L'antica maledizione cinese — borbottò.

Melio Arundez alzò gli occhi. — Ossia?

Il Console bevve un lungo sorso. — Un'antica maledizione cinese — disse. — "Possa tu vivere in tempi interessanti."

Quasi a compensare la perdita dell'astrotel, il computer di bordo trasmise il sonoro di emissioni radio nell'ambito del sistema e captò chiacchiere confuse su raggio compatto, mentre proiettava una ripresa in tempo reale della sfera biancazzurra di Hyperion che girava su se stessa e ingrandiva a mano a mano che la nave decelerava a 200 g verso il pianeta.

45

Fuggo dalla sfera dati della Rete un attimo prima che la fuga non sia più possibile.

La scena della megasfera che ingoia se stessa è incredibile e provoca un bizzarro turbamento. Il modo in cui Brawne Lamia vedeva la megasfera, ossia come entità organica, semisenziente, più analoga a un'ecologia che a una città, era sostanzialmente corretto. Ora, mentre i collegamenti teleporter cessano di esistere e il mondo dentro questi viali si ripiega e rovina su se stesso, mentre nel medesimo tempo la sfera dati esterna crolla come una grossa tenda in fiamme priva a un tratto di pali, cavi, tiranti e picchetti, la megasfera vivente divorase stessa come un animale da preda affamato e impazzito… si dilania la coda, il ventre, le viscere, le zampe anteriori e il cuore… finché restano solo le fauci prive di intelligenza, ad azzannare l'aria.

La metasfera rimane. Ma, ora più che mai, è una landa desolata.

Nere foreste di tempo e di spazio ignoti.

Rumori nella notte.

Leoni.

E tigri

E orsi.

Quando il Vuoto Legante si sconvolge e invia il suo singolo, banale messaggio all'universo umano, sembra quasi che un terremoto abbia mandato increspature attraverso solida roccia. Percorro in fretta la mutevole metasfera al di sopra di Hyperion e sorrido controvoglia. Sembra quasi che il Dio-analogo si sia stufato delle formiche che incidono graffiti sul Suo alluce.

Non vedo Dio — né l'uno, né l'altro — nella metasfera. Non tento neppure di vederlo. Ho abbastanza guai per conto mio.

I neri vortici di ingresso della Rete e del Nucleo sono ormai spariti, cancellati dallo spazio e dal tempo come verruche rimosse, svaniti completamente come gorghi di acqua dopo la tempesta.

Sono bloccato qui, a meno di affrontare la metasfera.

Ma non l'affronto. Non ancora.

Comunque, è proprio qui che voglio stare. La sfera dati è quasi sparita, qui nel sistema di Hyperion, tranne i suoi penosi residui sul pianeta stesso e in quel che resta della flotta della FORCE che secca come pozza di marea al sole; ma le Tombe del Tempo brillano nella metasfera come fari nell'oscurità che s'addensa. Se i collegamenti teleporter erano vortici neri, le Tombe brillano come fori bianchi che emanano una luce in espansione.

Mi muovo verso di esse. Per il momento, come Colui Che Viene Prima, non ho fatto altro che comparire nei sogni di altri. È ora di fare davvero qualcosa.


Sol aspettava.

Erano passate ore, da quando aveva dato allo Shrike la sua unica figlia. Erano passati giorni, da quando aveva mangiato, dormito. Intorno a lui la tempesta aveva infuriato e si era calmata, le Tombe avevano brillato e rumoreggiato come reattori impazziti, e le maree del tempo l'avevano frustato con la violenza di uno tsunami. Ma Sol era rimasto aggrappato ai gradini di pietra della Sfinge e aveva aspettato. E aspettava adesso.

Non del tutto cosciente, massacrato dalla stanchezza e dal timore per sua figlia, Sol scoprì che la propria mente di studioso lavorava a grande velocità.

Per gran parte della vita e per tutta la carriera Sol Weintraub, lo storico-classicista-filosofo, si era occupato dell'etica del comportamento religioso umano. Non sempre — anzi, di rado — religione ed etica erano compatibili. Le esigenze dell'assolutismo religioso, o del fondamentalismo o del relativismo scalmanato, spesso riflettevano gli aspetti peggiori della cultura contemporanea o i suoi pregiudizi, anziché un sistema in cui uomo e Dio potessero vivere con un senso di giustizia reale. Il libro più famoso di Sol, intitolato infine Il dilemma di Abramo nell'edizione commerciale con tiratura che lui non si sarebbe mai sognato quando scriveva opere per le case editrici universitarie, era stato scritto mentre Rachel moriva del morbo di Merlino; trattava, abbastanza ovviamente, della penosa scelta di Abramo fra l'ubbidienza o la disubbidienza all'ordine diretto di Dio, sacrificare a Lui suo figlio.

Sol aveva scritto che i tempi primitivi richiedevano l'ubbidienza, che le generazioni successive si erano evolute al punto in cui i genitori offrivano in sacrificio se stessi, come nelle notti buie dei forni che butteravano la storia della Vecchia Terra, e che le attuali generazioni dovevano rifiutare ogni ordine di sacrificio. Qualsiasi forma Dio assumesse ora nella coscienza umana — sia semplice manifestazione del subcosciente in tutte le proprie necessità revansciste, sia tentativo più consapevole di evoluzione filosofica ed etica — l'umanità non poteva più accettare di offrire sacrifici in nome di Dio. Sacrificio e impegno al sacrificio avevano scritto col sangue la storia umana.

Eppure, ore prima, secoli prima, Sol Weintraub aveva offerto l'unica figlia a una creatura di morte.

Per anni la voce nei suoi sogni gli aveva ordinato di farlo. Per anni Sol si era rifiutato. Aveva acconsentito, infine, solo quando il tempo era terminato, quando ogni altra speranza era svanita, quando aveva capito che per tutti quegli anni la voce nei sogni suoi e di Sarai non era la voce di Dio né di chissà quale potere tenebroso alleato allo Shrike.

Era la voce della loro figlia.

Con improvvisa lucidità che trascendeva l'immediatezza del dolore e del travaglio, Sol Weintraub capì a un tratto perché Abramo avesse acconsentito a sacrificare Isacco, suo figlio, quando il Signore l'aveva ordinato.

Non era ubbidienza.

Non era nemmeno porre l'amore per Dio sopra l'amore per il figlio.

Abramo metteva alla prova Dio!

Rifiutando all'ultimo istante il sacrificio e fermando il coltello, Dio si era guadagnato il diritto, agli occhi di Abramo e al cuore della sua discendenza, di diventare il Dio di Abramo.

Nessuna posa di Abramo, nessuna finzione di compiacenza nel sacrificio del figlio, Sol rabbrividì al pensiero, sarebbero serviti a forgiare quel legame fra potere superiore e umanità. Certo Abramo sapeva in cuor suo che avrebbe ucciso il figlio. Certo la Divinità, qualsiasi forma avesse allora assunto, conosceva la determinazione di Abramo, sentiva il dolore e l'impegno a distruggere ciò che per lui era il bene più prezioso del mondo.

Abramo non andò a fare il sacrificio, ma a stabilire una volta per tutte se quello era un Dio degno di fede e di ubbidienza. Nessun'altra prova sarebbe andata bene.

Perché allora, Sol pensò, tenendosi aggrappato ai gradini di pietra mentre la Sfinge sembrava alzarsi e ricadere nei mari burrascosi del tempo, perché quella prova veniva ripetuta? Quale nuova, terribile rivelazione era a portata di mano dell'umanità?

Sol capì allora — dal poco che Brawne gli aveva detto, dalle storie che si erano scambiati durante il pellegrinaggio e dalle proprie rivelazioni personali delle ultime settimane — che il tentativo dell'Intelligenza Finale macchina, qualsiasi cosa fosse, di stanare l'entità Empatia mancante nella divinità umana era inutile. Sol non vedeva più sulla cresta della parete rocciosa l'albero di spine con i rami metallici e le moltitudini sofferenti, ma capiva ora con chiarezza che si trattava di una macchina organica come lo Shrike, di uno strumento per trasmettere sofferenza nell'universo, in modo che la parte-Dio umana fosse costretta a reagire, a mostrarsi.

Se Dio si evolveva, e Sol era sicuro che Dio si evolvesse, allora questa evoluzione era diretta verso l'empatia… verso un condiviso senso di sofferenza, anziché di potere e di dominio. Ma l'osceno albero scorto dai pellegrini, del quale era rimasto vittima il povero Martin Sileno, non era il modo per evocare il potere mancante.

Sol capì ora che la macchina-dio, non importa in quale forma, aveva acume sufficiente a riconoscere che l'empatia era una reazione al dolore altrui; ma la stessa IF era troppo stupida per rendersi conto che l'empatia, sia in termini umani, sia in termini dell'IF dell'umanità, era molto di più di questo. Empatia e amore erano inseparabili e inspiegabili. La macchina-IF non l'avrebbe mai capito… neppure quanto bastava a servirsene come esca per la parte dell'IF umana che nel remoto futuro si era stufata della guerra.

L'amore, questa cosa fra le più banali, il cliché più usato nelle motivazioni religiose, aveva maggior potere, capì Sol, della forza di coesione nucleare o dell'elettromagnetismo o della gravità. L'amore era queste forze, capì Sol. Il Vuoto Legante, l'impossibile cosa subquantica che trasportava dati da fotone a fotone, era, né più né meno, amore.

Ma poteva, l'amore… il semplice, banale amore… spiegare il cosiddetto principio antropico di fronte al quale gli scienziati avevano scosso collettivamente la testa per più di sette secoli… la quasi infinita stringa di coincidenze che aveva portato a un universo con il giusto numero di dimensioni, con i giusti valori elettronici, con le giuste regole gravitazionali, con la giusta età delle stelle, con le giuste prebiologie per creare i giusti virus perfetti che diventassero i giusti DNA… in breve, una serie di coincidenze così assurde in precisione ed esattezza da sfidare ogni logica, da sfidare la comprensione, da sfidare perfino l'interpretazione religiosa? Amore?

Per sette secoli, l'esistenza delle Teorie della Grande Unificazione e della fisica iperstringa post-quantica e della comprensione offerta dal TecnoNucleo dell'universo come autocontenuto e infinito, senza anomalie di Big Bang né corrispondente punto conclusivo, aveva quasi completamente eliminato qualsiasi ruolo di Dio, primitivamente antropomorfo o sofisticatamente post-einsteiniano, anche in veste di custode o di legislatore pre-creazione. Il moderno universo, come macchina e uomo erano giunti a capirlo, non aveva bisogno di Creatore; in realtà, non comportava un Creatore. Le sue regole ammettevano ben pochi armeggiamenti e nessuna revisione importante. Non era iniziato e non sarebbe terminato, al di là di cicli di espansione e di contrazione regolari e autoregolati come le stagioni sulla Vecchia Terra. E non c'era posto per l'amore.

A quanto pareva, Abramo si era offerto di uccidere il figlio per mettere alla prova un fantasma.

A quanto pareva, Sol aveva portato la figlia morente, attraverso centinaia di anni-luce e innumerevoli fatiche, in risposta a niente.

Ma ora, mentre la Sfinge incombeva su di lui e la prima traccia dell'alba schiariva il cielo di Hyperion, Sol capì di avere risposto a una forza più basilare e persuasiva del terrore per lo Shrike o del dominio del dolore. Se aveva ragione — e non lo sapeva, ma lo sentiva — allora l'amore era collegato alla struttura dell'universo, con la stessa solidità della forza gravitazionale e del principio di materia e antimateria. C'era spazio per una sorta di Dio, non nella rete fra le pareti, non nelle fessure di anomalia del selciato, non in un luogo al di là della sfera delle cose… ma nella trama e nell'ordito stessi delle cose. Un Dio che si evolveva come si evolveva l'universo. Che apprendeva come apprendevano le parti in grado di imparare dell'universo. Che amava come l'umanità amava.


Sol si alzò sulle ginocchia e poi in piedi. La bufera delle maree del tempo sembrava essersi calmata un poco e lui pensò di poter fare il centesimo tentativo di entrare nella tomba.

Una vivida luce usciva ancora dal punto dove lo Shrike era emerso, aveva preso la figlia di Sol ed era svanito. Ma ora le stelle scomparivano mentre il cielo si schiariva nel mattino.

Sol salì gli scalini.

Ricordò la casa nel Mondo di Barnard e la volta in cui Rachel, a dieci anni, si era arrampicata sull'olmo più alto del paese ed era caduta quando mancavano soli cinque metri alla cima. Sol si era precipitato al centro medico, aveva trovato la figlia che galleggiava nel liquido nutriente di ricupero, con un polmone perforato, una gamba e alcune costole rotte, la mascella fratturata e innumerevoli tagli ed escoriazioni. Rachel gli aveva sorriso, aveva alzato il pollice e aveva detto, nonostante i ferri alla mascella: «La prossima volta ci riesco!»

Quella notte Sol e Sarai erano rimasti al centro medico, mentre Rachel dormiva. Avevano aspettato fino al mattino. Per tutta la notte Sol le aveva stretto la mano.

Adesso aspettava.

Le maree del tempo provenienti dall'ingresso della Sfinge continuarono a respingere Sol come vento insistente, ma lui le affrontò come roccia inamovibile e rimase lì, a cinque metri, in attesa, fissando a occhi socchiusi il bagliore.

Alzò lo sguardo, ma non si mosse, quando, prima dell'alba, la fiamma di fusione di un'astronave in discesa tagliò il cielo. Girò la testa a guardare, ma non si mosse, quando la nave atterrò e ne uscirono tre persone. Lanciò un'occhiata, ma non tornò indietro, quando, dall'interno della valle, udì altri rumori e grida, quando vide una figura ben nota trasportarne a spalla un'altra e muoversi verso di lui passando davanti alla Tomba di Giada.

Nessuna di queste cose riguardava sua figlia. Sol aspettava Rachel.


Anche in mancanza di una sfera dati, la mia persona riesce a viaggiare nel ricco brodo del Vuoto Legante che ora circonda Hyperion. La mia reazione immediata è il desiderio di visitare Colui Che Sarà, ma per quanto lo splendore di costui domini la metasfera, non sono ancora pronto. Sono, in fin dei conti, il piccolo John Keats, non Giovanni Battista.

La Sfinge, una tomba disegnata a immagine di creatura reale che non sarà progettata da ingegneri genetici prima di parecchi secoli, è un gorgo di energie temporali. In realtà sono visibili varie Sfingi, alla mia vista espansa: la tomba anti-entropica che porta indietro nel tempo il carico di Shrike come un container sigillato per non fare uscire i bacilli letali; l'attiva e instabile Sfinge che contaminò Rachel Weintraub nel suo iniziale tentativo di aprire una porta nel tempo; e la Sfinge che si è aperta e che si muove di nuovo in avanti nel tempo. Quest'ultima Sfinge è l'abbagliante portale di luce che, secondo solo a Colui Che Sarà, con il proprio falò metasferico illumina Hyperion.

Discendo in questo luogo luminoso appena in tempo per vedere Sol Weintraub che porge sua figlia allo Shrike.

Non avrei interferito in questo atto nemmeno se fossi arrivato un po' prima. Non l'avrei fatto anche se ne fossi stato in grado. Mondi al di là della ragione dipendono da questo gesto.

Ma aspetto all'interno della Sfinge che lo Shrike passi, portando il tenero carico. Adesso vedo la piccina. Ha solo qualche secondo, è tutta macchiata, bagnata, grinzosa. Piange da consumarsi i polmoni appena nati. Per le mie vecchie attitudini di scapolo e la posa di poeta riflessivo, trovò difficile capire l'attrazione che questa neonata piagnucolante e antiestetica esercita sul padre e sul cosmo.

Eppure, la vista della carne di una neonata, per quanto brutta possa essere, tenuta fra gli artigli muniti di lame dello Shrike, muove qualcosa dentro di me.

Tre passi dentro la Sfinge hanno portato avanti nel tempo di ore lo Shrike e la bambina. Appena al di là dell'ingresso, il fiume del tempo accelera. Se non faccio qualcosa nel giro di secondi, sarà troppo tardi… lo Shrike avrà usato questa porta per trasportare la piccina nel buco tenebroso del remoto futuro da lui cercato, chissà quale.

Non evocate, mi giungono immagini di ragni che prosciugano di ogni fluido le proprie vittime, di vespe sfecidi che seppelliscono le proprie larve nel corpo paralizzato della preda, fonte perfetta di incubazione e di cibo.

Devo agire, ma qui non ho maggiore solidità di quanta ne avessi nel Nucleo. Lo Shrike mi attraversa come se fossi un ologramma non visto. Qui il mio analogo-persona è inutile, monco e insostanziale come uno sbuffo di gas di palude.

Ma il gas di palude non ha cervello: John Keats invece l'aveva.

Lo Shrike muove altri due passi e altre ore passano per Sol e gli altri all'esterno. Vedo sangue, sulle carni della piccina in lacrime, dove le dita affilate dello Shrike hanno tagliato la pelle.

All'inferno anche questo!

Fuori, sull'ampia terrazza di pietra della Sfinge, presi adesso nel diluvio di energie temporali che scorrono all'interno e all'esterno della tomba, ci sono zaini, coperte, contenitori di cibo abbandonati e tutte le cose lasciate lì da Sol e dai pellegrini.

Compreso un cubo di Moebius.

La cassa era stata sigillata con un campo di contenimento classe-8 sulla nave-albero templare Yggdrasill, quando la Voce dell'Albero Het Masteen si era preparato per il lungo viaggio. Conteneva un singolo erg, a volte chiamato anche "legante": una delle piccole creature che forse non sono intelligenti secondo il metro umano, ma che si sono evolute intorno a stelle remote e hanno sviluppato la capacità di controllare campi di forza molto più potenti di quanto non possa fare qualsiasi macchina nota all'umanità.

Per generazioni, Templari e Ouster hanno comunicato con queste creature. I Templari le hanno usate per controllare la ridondanza nelle loro fantastiche ma delicate navi-albero.

Het Masteen ha portato questo essere per centinaia di anni-luce, allo scopo di mantenere l'accordo fra i Templari e la Chiesa della Redenzione Finale, inteso a far volare l'albero di spine dello Shrike. Ma, nel vedere lo Shrike e l'albero del tormento, Masteen non si sentì di portare a termine l'impegno. E così morì.

Il cubo di Moebius rimase. L'erg mi appariva come una sfera compressa di energia rossa nel diluvio del tempo.

Fuori, in una cortina di tenebre, Sol Weintraub era appena visibile… una triste figura comica, accelerata come un personaggio di film muto dal rapido scorrere del tempo soggettivo al di fuori del campo temporale della Sfinge. Ma il cubo di Moebius era all'interno del cerchio della Sfinge.

Rachel pianse, atterrita come può essere anche una neonata. Per la paura di cadere. Per la paura del dolore. Per la paura della separazione.

Lo Shrike mosse un passo: un'altra ora si perse, per quelli all'esterno.

Io non avevo sostanza, per lo Shrike; ma i campi di energia sono qualcosa che anche noi spettri dell'analogo-Nucleo possiamo toccare. Annullai il campo di contenimento del cubo di Moebius. Liberai l'erg.

I Templari comunicano con gli erg mediante emissioni elettromagnetiche, impulsi in codice, semplici ricompense di radiazioni quando la creatura fa quel che le chiedono… ma in primo luogo mediante una quasi mistica forma di contatto che solo la Confraternita e alcuni Ouster esotici conoscono. Gli scienziati la definiscono una rozza forma di telepatia. In verità è empatia quasi pura.

Lo Shrike muove un altro passo nel portale spalancato sul futuro. Rachel piange con l'energia che solo chi è appena venuto all'universo sa trovare.

L'erg si espande, capisce, si fonde con la mia persona. John Keats assume sostanza e forma.

Compio in fretta i cinque passi che mi separano dallo Shrike, gli tolgo di mano la piccina e arretro. Anche nel gorgo di energia che è la Sfinge, sento il profumo di freschezza della neonata, mentre la tengo contro il petto e con la mano a coppa mi strìngo alla guancia la testolina bagnata.

Lo Shrike si gira di scatto, sorpreso. Quattro braccia si protendono, lame si aprono di colpa, occhi rossi si puntano su di me. Ma la creatura è troppo vicina al portale stesso. Senza muoversi, arretra, risucchiata dal flusso turbolento del tempo. Le fauci simili a una pala meccanica a vapore si spalancano, denti di acciaio digrignano, ma lo Shrike è già sparito, un puntino in lontananza. Anche meno.

Mi giro verso l'ingresso, ma è troppo lontano. L'energia drenante dell'erg può portarmi fin lì, controcorrente, ma non con Rachel. Portare un'altra creatura vivente così lontano contro una forza tanto poderosa è impresa superiore alle mie possibilità, anche con l'aiuto dell'erg.

La bambina piange e io la cullo gentilmente, mormorando parole dolci.

Se non possiamo andare indietro e non dobbiamo andare avanti, ci fermeremo qui per un poco. Forse passerà qualcuno.


Martin Sileno sbarrò gli occhi. Brawne Lamia si girò di scatto, vide lo Shrike librato a mezz'aria, sopra e dietro di lei.

— Merda santa — mormorò in tono reverente.

Nel Palazzo dello Shrike, gradinate di corpi addormentati si allontanarono nel buio; ogni persona, tranne Martin Sileno, era sempre collegata mediante il cordone ombelicale pulsante all'albero di spine, alla macchina IF e a Dio sa cos'altro.

Quasi a dimostrare il suo potere in quel luogo, lo Shrike aveva smesso di salire, aveva spalancato le braccia, era volato in alto e ora si librava a cinque metri dal gradino di pietra dove Brawne era accucciata a fianco di Martin Sileno.

— Fa' qualcosa — bisbigliò Sileno. Il poeta, non più collegato al cordone di shunt neurale, era ancora troppo debole per tenere alzata la testa.

— Suggerimenti? — disse Brawne, ma la domanda coraggiosa fu un poco rovinata dal tremito nella voce.

— Abbi fede — disse una voce proveniente dal basso. Brawne cambiò posizione per guardare di sotto.

Molto più in basso c'era la giovane donna che aveva riconosciuto come Moneta nella tomba di Kassad.

— Aiuto! — gridò Brawne.

— Abbi fede — disse Moneta. E sparì. Lo Shrike non si era distratto. Abbassò le mani e si mosse in avanti come se camminasse su solida pietra, non in aria.

— Merda — mormorò Brawne.

— Idem — gracchiò Martin Sileno. — Dalla padella alla merdosa brace.

— Sta' zitto — lo rimbeccò Brawne. Poi, quasi tra sé: — Fede in che cosa? In chi?

— Nello Shrike del cazzo che ci uccida o che ci infilzi tutt'e due in quell'albero di merda — ansimò Sileno. Riuscì a muoversi quel tanto che bastava per afferrarle il braccio. — Meglio morire che tornare sull'albero, Brawne.

Brawne gli toccò brevemente la mano e si alzò: cinque metri di aria la separavano dallo Shrike.

Fede? Brawne protese il piede, tastò il vuoto; per un secondo chiuse gli occhi. Li riaprì, quando le parve di toccare un gradino solido.

Sotto il piede c'era solo aria.

Fede? Brawne appoggiò il peso del corpo e mosse un passo; traballò, prima di mettere giù l'altro piede.

Lei e lo Shrike si fronteggiarono, dieci metri al di sopra del pavimento di pietra. La creatura parve rivolgerle un sogghigno, mentre spalancava le braccia. Il carapace brillò opacamente nella luce fioca. Gli occhi rossi erano luminosissimi.

Fede? Brawne, sentendo il flusso improvviso di adrenalina, avanzò sull'invisibile gradino, si raddrizzò e si mosse nell'abbraccio dello Shrike.

Sentì le dita affilate tagliare stoffa e pelle, mentre il mostro l'attirava a sé, verso la lama ricurva che sporgeva dal petto, verso le fauci spalancate e le file di denti di acciaio. Piantata a mezz'aria, Brawne si protese, appoggiò di piatto contro il petto dello Shrike la mano sana, sentì la freddezza del metallo ma anche un fiotto di calore che la percorreva, l'attraversava, sgorgava da lei.

Le lame non penetrarono oltre lo strato di pelle. Lo Shrike impietrì, come se il flusso di energia temporale che li circondava si fosse mutato in un grumo di ambra.

Brawne spinse.

Lo Shrike rimase completamente immobile, divenne friabile; il bagliore di acciaio lasciò posto a uno splendore trasparente di cristallo, alla luminosità del vetro.

Brawne rimase a contatto con una statua di vetro alta tre metri. Nel petto di questo Shrike, dove forse c'era il cuore, qualcosa che pareva una grande falena nera agitò contro il vetro ali fuligginose.

Brawne inspirò a fondo e spinse ancora. Lo Shrike scivolò all'indietro sull'invisibile piattaforma, barcollò e cadde. Brawne si chinò per evitare le braccia che la cingevano, sentì la giacca strapparsi quando le lame delle dita, ancora acuminate, si impigliarono nella stoffa e la lacerarono, mentre il mostro rotolava; poi anche lei barcollò, agitò le braccia per mantenere l'equilibrio. Lo Shrike di vetro roteò una volta e mezzo nell'aria, colpì il pavimento e si fracassò in migliaia di schegge frastagliate.

Brawne girò su se stessa, cadde in ginocchio sull'invisibile passerella, strisciò verso Martin Sileno.

Nell'ultimo mezzo metro la fede le mancò: il supporto invisibile smise semplicemente di esistere, Brawne cadde a corpo morto, urtò la caviglia contro il bordo del gradino di pietra ed evitò di precipitare solo afferrandosi al ginocchio di Sileno.

Imprecando per il dolore alla spalla, al polso spezzato, alla caviglia gonfia, alle mani e alle ginocchia escoriate, si tirò al sicuro accanto a Sileno.

— Evidentemente c'è stato un ritorno alle stronzate magiche, durante la mia assenza — disse Martin Sileno, con voce rauca. — Ce la filiamo subito, oppure hai intenzione di camminare anche sull'acqua, per fare il bis?

— Sta' zitto — lo rimbeccò Brawne, scossa. Le due parole parvero quasi affettuose.

Dopo un breve riposo, scoprì che il modo più facile per portare il poeta ancora debolissimo giù dalla gradinata sul pavimento cosparso di schegge di vetro era metterselo in spalla. All'ingresso, Martin le batté poco cerimoniosamente il pugno sulla schiena e disse: — E re Billy e gli altri?

— Dopo — ansimò Brawne. Uscì nella luce che precede l'alba.

Aveva percorso a passi malfermi due terzi della valle, con Sileno sul dorso come un fagotto di panni da lavare, quando il poeta disse: — Brawne, sei ancora incinta?

— Sì — rispose lei, augurandosi che fosse vero, dopo le fatiche della giornata.

— Vuoi che ti porti io?

— Ma taci — replicò lei. Seguì il sentiero intorno alla Tomba di Giada.

— Guarda — disse Martin Sileno, torcendosi per puntare il dito anche se pendeva quasi a testa in giù.

Nella luce del mattino Brawne vide che la nave color ebano del Console si trovava sull'altura all'ingresso della valle. Ma non era la nave, quello che il poeta indicava.

Sol Weintraub si stagliava contro il bagliore dell'ingresso della Sfinge. Teneva le braccia alzate.

Qualcuno o qualcosa usciva dal bagliore.


Sol la vide per primo. Una figura che camminava nel torrente di luce e di tempo liquido che fluiva dalla Sfinge. Una donna, vide, mentre la figura si stagliava contro il portale luminoso. Una donna che reggeva qualcosa.

Una donna che reggeva un neonato.

Rachel uscì… Rachel come Sol l'aveva vista l'ultima volta da ragazza in piena forma in partenza per una missione archeologica su un pianeta chimato Hyperion, Rachel sui venticinque anni, forse anche un po' più anziana, adesso… ma Rachel, senza alcun dubbio, Rachel con la frangia di corti capelli castani, le guance arrossate come sempre le accadeva sotto la spinta di entusiasmi nuovi, il sorriso dolce, quasi tremulo adesso, e gli occhi… quegli enormi occhi verdi con macchioline marrone appena visibili… quegli occhi fissi su Sol.

Rachel reggeva Rachel. La neonata si agitò con il viso contro la spalla della giovane donna, aprendo e chiudendo le manine, quasi fosse indecisa se piangere o meno.

Sol rimase stordito. Cercò di parlare, non ci riuscì, provò ancora. — Rachel — mormorò.

— Papà — disse la giovane. Avanzò di un passo, col braccio libero circondò lo studioso, girandosi un poco per non schiacciare fra loro due la piccina.

Sol baciò sua figlia adulta, la strinse a sé, annusò il profumo di pulito dei capelli, sentì la ferma realtà della donna; poi prese in braccio la neonata e ne sentì il brivido, quando la piccina inspirò prima di mettersi a piangere. La Rachel che lui aveva portato su Hyperion era al sicuro fra le sue braccia, piccola, col visetto rosso tutto grinze, mentre tentava di mettere a fuoco il viso del padre, con occhi che si muovevano a caso. Sol le sorresse la testolina e l'attirò più vicino, scrutò per un istante il visetto, prima di girarsi verso la giovane donna.

— È ancora…?

— Cresce normalmente — rispose sua figlia. Indossava una sorta di tunica di morbida stoffa marrone. Sol scosse la testa, guardò la donna, la vide sorridere, notò sotto il labbro la stessa fossetta della neonata che teneva in braccio.

Scosse di nuovo la testa. — Com'è… com'è possibile?

— Non durerà molto — disse Rachel.

Sol si sporse a baciare di nuovo sulla guancia la figlia adulta. Si rese conto di piangere, ma non liberò l'una o l'altra mano per asciugarsi le lacrime. La Rachel adulta gliele asciugò col dorso della sua, toccandogli gentilmente la guancia.

Sui gradini più in basso ci fu un rumore: i tre uomini scesi dalla nave erano lì fermi, rossi in viso per la corsa; Brawne Lamia aiutava il poeta Sileno a mettersi a sedere sulla lastra bianca della ringhiera di pietra.

Il Console e Theo Lane alzarono lo sguardo.

— Rachel… — mormorò Melio Arundez, con occhi umidi.

Rachel? - Martin Sileno corrugò la fronte, con un'occhiata a Brawne Lamia.

Brawne fissava a bocca aperta la donna. — Moneta — disse, segnandola a dito; quando si rese conto del gesto, abbassò la mano. — Tu sei Moneta. La Moneta… di Kassad.

Rachel annuì, senza più sorridere. — Ho ancora un paio di minuti, qui. E molte cose da dirvi.

— No — disse Sol, prendendo la mano della figlia adulta — devi restare. Voglio che resti con me.

Rachel sorrise di nuovo. — Resterò con te, papà — disse piano, alzando l'altra mano a sfiorare la testa della piccina. — Ma solo una di noi due può restare… e lei ha più bisogno di te. — Si rivolse al gruppetto in basso. — Ascoltate, per favore, tutti voi.

Mentre il sole si alzava e bagnava di luce gli edifici in rovina della Città dei Poeti, la nave del Console, le pareti di roccia a ovest e le Tombe più alte, Rachel raccontò la storia breve e interessante di come fosse stata scelta per essere allevata in un futuro dove la guerra finale infuriava fra le IA generate dal Nucleo e lo spirito umano. Era, disse, un futuro pieno di misteri terrificanti e meravigliosi, dove la razza umana si era diffusa in tutta la galassia e aveva iniziato a viaggiare altrove.

— In altre galassie? — domandò Theo Lane.

— In altri universi — sorrise Rachel.

— Il colonnello Kassad ti ha conosciuta come Moneta — disse Martin Sileno.

— Mi conoscerà come Moneta — precisò Rachel, con occhi velati. — L'ho visto morire e ho accompagnato nel passato la sua tomba. So che parte della mia missione è quella di incontrare questo leggendario guerriero per guidarlo nel futuro alla battaglia finale. In realtà ancora non l'ho incontrato. — Guardò giù nella valle, verso il Monolito di Cristallo. — Moneta - disse, pensierosa. — In latino significa "ammonitrice". Un nome appropriato. Gli lascerò scegliere come chiamarmi: Moneta, o Mnemosine… memoria.

Sol non aveva lasciato la mano della figlia. E non la lasciò adesso. — Viaggi indietro nel tempo, insieme con le Tombe? Perché? Come?

Rachel sollevò la testa e la luce riflessa delle lontane pareti rocciose le illuminò il viso. — È il mio ruolo, papà. Il mio compito. Mi hanno dato i mezzi per tenere a bada lo Shrike. E solo io ero… preparata.

Sol alzò più in alto la piccina. Svegliata bruscamente, lei soffiò una bolla di saliva, girò il viso contro la spalla del padre in cerca di calore e con i piccoli pugni gli afferrò la camicia.

— Preparata — disse Sol. — Ti riferisci al morbo di Merlino?

— Sì.

— Ma tu non sei stata allevata in chissà quale mondo misterioso del futuro. Sei cresciuta a Crawford, in Fertig Street, sul Mondo di Barnard, e la tua… — Si bloccò.

Rachel annuì. — Lei crescerà… lassù. Papà, mi spiace, devo andare. — Si liberò la mano, scese gli scalini e toccò brevemente la guancia di Melio Arundez. — Ti chiedo scusa per il dolore del ricordo — disse piano all'archeologo stupito. — Per me è stata, letteralmente, una vita diversa.

Arundez batté le palpebre e trattenne un momento la mano sulla guancia.

— Sei sposato? — domandò piano Rachel. — Figli?

Arundez annuì e mosse la mano come se volesse togliere di tasca le foto della moglie e dei figli adulti; si bloccò, annuì di nuovo.

Rachel sorrise, gli diede un rapido bacio sulla guancia e risalì i gradini. Il mondo splendeva per il sole appena sorto, ma la porta della Sfinge era ancora più luminosa.

— Papà — disse Rachel. — Ti voglio bene.

Sol cercò di parlare, si schiarì la voce. — Come… come ti raggiungo… lassù?

Rachel indicò la porta spalancata della Sfinge. — Per alcuni sarà una porta nel tempo di cui ho parlato. Ma, papà… — Esitò. — Significherà allevarmi di nuovo. Significa soffrire per tutta la mia infanzia una terza volta. A nessun genitore si dovrebbe chiedere un'esperienza del genere.

Sol riuscì a trovare un sorriso. — Nessun genitore la rifiuterebbe, Rachel — Cambiò di braccio la piccina addormentata. — Ci sarà un tempo in cui… voi due…?

— Coesisteremo di nuovo? No. Ora vado per l'altra strada. Non immagini neppure le difficoltà che ho avuto, con la Commissione Paradossi, per ottenere l'approvazione di questo unico incontro.

— Commissione Paradossi? — disse Sol.

Rachel inspirò a fondo. Ormai solo con la punta delle dita toccava la mano del padre e tutt'e due tendevano il braccio. — Devo andare, papà.

— Sarò… — Sol guardò la piccina. — Saremo da soli… lassù?

Rachel rise e la risata era così familiare che si chiuse come una mano calda intorno al cuore di Sol. — Oh, no — disse Rachel. — Non da soli. Ci sono persone fantastiche, lì. Cose meravigliose da imparare e da fare. Splendidi luoghi da vedere… — Si guardò intorno. — Luoghi che ancora non avete immaginato neppure nei sogni più pazzeschi. No, papà, non sarete da soli. E ci sarò io, con tutta la mia goffagine giovanile e l'impertinenza di ragazza. — Arretrò di un passo e le dita scivolarono via da quelle di Sol.

— Aspetta un poco, prima di varcare la porta, papà — gli gridò, muovendosi nell'intensa luce. — Non fa male, ma una volta dentro non puoi tornare indietro.

— Rachel, aspetta — disse Sol.

Rachel indietreggiò, con la lunga veste che strisciava sulla pietra, finché non fu circondata di luce. Alzò il braccio. — Ciao ciao, maramao.

Sol alzò la mano. — A fra poco, bel topo.

La Rachel adulta svanì nella luce.

La piccina si svegliò e cominciò a piangere.


Trascorse più di un'ora, prima che Sol e gli altri tornassero alla Sfinge. Erano andati alla nave per medicare le ferite di Brawne e di Martin Sileno, per mangiare, per eguipaggiare Sol e la piccina per il viaggio.

— Mi sento sciocco a preparare i bagagli per quello che potrebbe essere come varcare un teleporter — disse Sol. — Ma, per quanto meraviglioso sia questo futuro, se non ci sono nutripac per neonati e pannolini da buttare dopo l'uso, siamo nei guai.

Con un sorriso, il Console diede un colpetto allo zaino pieno posato sui gradini. — Questo dovrebbe bastare a te e alla piccina per le prime due settimane — disse. — Se a quel punto non hai trovato un servizio pannolini, passa in uno degli altri universi di cui parlava Rachel.

Sol scosse la testa, — Mi sembra tutto un sogno.

— Aspetti qualche giorno, qualche settimana — disse Melio Arundez. — Rimanga qui con noi, finché le cose non si sistemano. Non c'è fretta. Il futuro non scappa.

Sol si grattò la barba, mentre allattava la figlia usando una delle confezioni preparate dalla nave. — Non siamo sicuri che questo portale resti sempre aperto — disse. — E poi, potrebbe mancarmi il coraggio. Sono assai anziano per rimettermi ad allevare un figlio… soprattutto nei panni di straniero in un mondo straniero.

Arundez posò sulla spalla di Sol la mano robusta. — Mi lasci venire con lei. Muoio dalla curiosità di vedere quel luogo.

Sol sorrise, tese la mano, strinse con fermezza quella di Arundez. — Grazie, amico mio. Ma lei ha moglie e figli, nella Rete… su Vettore Rinascimento… che aspettano il suo ritorno. Anche lei ha i suoi doveri.

Arundez guardò il cielo. — Se il ritorno sarà possibile.

— Torneremo — disse il Console, in tono privo di emozione. — Il volo spaziale con l'antiquato motore Hawking funziona ancora, anche se la Rete è svanita per sempre. Accumulerà alcuni anni di debito temporale, ma farà ritorno.

Sol terminò di allattare la piccina, si mise sulla spalla un pannolino di stoffa pulito e diede alla figlia un colpetto deciso sulla schiena. Guardò gli altri. — Abbiamo tutti i nostri doveri — disse. Strinse la mano a Martin Sileno. Il poeta aveva rifiutato di infilarsi nel bagno di liquido nutritivo e di farsi togliere con una piccola operazione chirurgica la presa shunt neurale. «Non è la prima volta che porto uno di questi affari» aveva detto.

— Continuerai il tuo poema? — domandò Sol.

— L'ho terminato, là sull'albero — rispose Sileno. — E ho scoperto un'altra cosa, Sol.

Lo studioso inarcò il sopracciglio.

— Ho imparato che i poeti non sono Dio, ma se c'è un Dio… o qualcosa che si avvicini a un Dio… questo è un poeta. E un poeta fallito, nella fattispecie.

La piccola Rachel fece il ruttino.

Martin Sileno sorrise e strinse la mano di Sol ancora una volta.

— Fagli vedere, lassù, Weintraub. Di' a tutti che sei il loro bis-bis-bis-bis-bisnonno e che se non si comportano bene gli lisci il pelo.

Sol annuì e passò a Brawne Lamia. — Ti ho vista conferire con il terminale medico della nave — disse. — Tutto a posto, per te e per il figlio che aspetti?

Brawne sorrise. — Tutto a posto.

— Maschio o femmina?

— Femmina.

Sol la baciò sulla guancia. Brawne gli toccò la barba e girò il viso per nascondere lacrime sconvenienti a un'ex investigatrice privata.

— Le femmine danno un mucchio di fastidi — disse Sol, districando le piccole dita di Rachel dalla barba e dai ricci di Brawne.

— Scambia la tua con un maschio, alla prima occasione.

— D'accordo — disse Brawne, scostandosi.

Sol strinse ancora la mano al Console, a Theo e a Melio, si mise in spalla lo zaino, mentre Brawne reggeva la piccina, poi prese in braccio Rachel. — Una caduta di tono davvero notevole, se quest'affare non funziona e mi ritrovo a vagare nell'interno della Sfinge — disse.

Il Console diede un'occhiata di traverso alla porta luminosa.

— Funzionerà. Anche se non so come. Non credo che sia una sorta di teleporter.

— Un cronoporter — azzardò Sileno e alzò il braccio per parare il colpo di Brawne. Arretrò di un passo, si strinse nelle spalle. — Se continua a funzionare, Sol, ho la sensazione che non sarai solo, lassù. Migliaia di persone ti raggiungeranno.

— Se la Commissione Paradossi lo permetterà — disse Sol, tirandosi la barba come sempre faceva quando pensava ad altro. Batté le palpebre, cambiò posizione allo zaino e alla piccola Rachel, mosse un passo. Questa volta i campi di forza provenienti dalla porta spalancata lo lasciarono avvicinare.

— Arrivederci a tutti! — gridò Sol. — Perdio, ne valeva la pena, no? — Si girò verso la luce. Lui e la piccina scomparvero.


Ci fu un silenzio che confinava con il vuoto e che si protrasse per diversi minuti. Alla fine, in tono quasi imbarazzato, il Console disse: — Torniamo sulla nave?

— Per noi comuni mortali, manda giù l'ascensore — disse Martin Sileno. — La signora Lamia camminerà in aria.

Brawne lanciò un'occhiata di fuoco al piccolo poeta.

— Ritiene che sia stata una cosa predisposta da Moneta? — disse Arundez, riferendosi a un'ipotesi avanzata in precedenza da Brawne.

— Per forza — rispose Brawne. — Un pizzico di scienza futura o qualcosa del genere.

— Ah, sì — sospirò Martin Sileno. — Scienza futura… frase tipica di chi è troppo timido per riconoscersi superstizioso. L'alternativa, mia cara, è che tu abbia sempre avuto il potere, mai usato fino a quel momento, di levitare e di mutare i mostri in orchi di fragile vetro.

— Chiudi il becco — disse Brawne, senza più traccia di affetto, nel tono. Guardò da sopra la spalla. — Chi ti dice che un altro Shrike non compaia da un momento all'altro?

— Già, chi? — convenne il Console. — Ho idea che avremo sempre uno Shrike, o dicerie di uno Shrike.

Theo Lane, sempre in imbarazzo nelle discussioni, si schiarì la voce. — Guardate cosa ho trovato fra i bagagli sparsi intorno alla Sfinge — disse. Mostrò uno strumento musicale con tre corde, il collo allungato e vivaci disegni sul corpo triangolare. — Una chitarra?

— Una balalaica — disse Brawne. — Apparteneva a padre Hoyt. Il Console prese lo strumento e strimpellò qualche accordo. — Conoscete questa canzone? — Suonò alcune note.

Leeda Tits Screwing Song? - azzardò Martin Sileno. Il Console scosse la testa e suonò altri accordi.

— Un brano antico? — tirò a indovinare Brawne.

Somewhere Over the Rainbow - disse Melio Arundez.

— Risale certo a prima che nascessi — disse Theo Lane, muovendo la testa a tempo, mentre il Console strimpellava.

— Prima che nascessimo tutti — disse il Console. — Andiamo, vi insegnerò le parole, strada facendo.

Camminarono insieme sotto il sole caldo, stonando e cantando a tempo, perdendo le parole e cominciando da capo; risalirono il pendio verso la nave in attesa.

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