PARTE PRIMA

1

Nel giorno in cui la flotta di astronavi partì per la guerra, nell'ultimo giorno della vita così come la conoscevamo, fui invitato a un party. C'erano party dappertutto, quella sera, su più di centocinquanta mondi della Rete, ma il mio era l'unico che contasse.

Per mezzo della sfera dati comunicai che accettavo l'invito, controllai che il mio migliore abito da sera fosse pulito, me la presi comoda a farmi il bagno e la barba, mi vestii con cura meticolosa e all'ora fissata adoperai il diskey usa-e-getta contenuto nel chip d'invito, per teleportarmi da Esperance a Tau Ceti Centro.

In quell'emisfero di TC2 era tardo pomeriggio. Una luce bassa e intensa illuminava le alture e le valli del Parco dei Cervi, le torri grigie del complesso amministrativo più a sud, i salici piangenti e le splendide pirofelci lungo le rive del fiume Teti, i bianchi colonnati della stessa Casa del Governo. Gli ospiti arrivavano a migliaia, ma il personale del servizio di sicurezza accoglieva ciascuno di noi, confrontava con gli schemi DNA i codici d'invito e indicava con un gesto cortese come raggiungere bar e buffet.

— Signor Joseph Severn — confermò la guida, in tono educato.

— Sì — mentii. Severn era il mio nome, allora, ma non la mia identità.

— Il Primo Funzionario Esecutivo Gladstone desidera vederla più avanti nella serata. Le faremo sapere quando la signora sarà libera di riceverla.

— Grazie.

— Se desidera particolari rinfreschi o divertimenti, le basterà chiedere ad alta voce e i monitor a terra cercheranno di accontentarla.

Annuii, sorrisi e mi allontanai. Avevo fatto solo una decina di passi e la guida già si occupava di altri invitati che scendevano dalla piattaforma del terminex.

Dal mio punto d'osservazione in cima a una montagnola scorgevo alcune migliaia di ospiti in movimento su varie centinaia di ettari di prato ben curato; molti passeggiavano tra foreste d'alberi tagliali in fogge bizzarre. Più in alto rispetto al tratto erboso dov'ero fermo, già in penombra per il filare di alberi lungo il fiume, si estendevano i giardini all'italiana e al di là di essi si alzava la massa imponente della Casa del Governo. Nel patio la banda suonava, e altoparlanti nascosti portavano la musica fin nelle zone più distanti del Parco dei Cervi. Una fila continua di VEM scendeva a spirale da un teleporter posto a grande altezza. Per alcuni secondi osservai i passeggeri, vestiti a colori vivaci, sbarcare sulla piattaforma nelle vicinanze del terminex pedonale. Ero affascinato dalla varietà di velivoli: le luci si riflettevano non solo sugli scafi di comuni Vikken, Altz e Sumalso, ma anche sui ponti rococò delle chiatte a levitazione e sullo scafo metallico di antiquati skimmer già pittoreschi quando la Vecchia Terra esisteva ancora.

Scesi lungo il dolce pendio fino alla riva del Teti e oltrepassai il molo dove un incredibile assortimento d'imbarcazioni scaricava passeggeri. Il Teti era l'unico fiume che si estendesse nella Rete: scorreva nei teleporter permanenti e attraversava tratti di più di duecento fra pianeti e lune; la gente che abitava lungo le sue rive era fra la più ricca dell'Egemonia. I veicoli sul fiume comprendevano grandi cruiser merlati, brigantini a palo carichi di vele, chiatte a cinque ponti (molte di queste imbarcazioni erano attrezzate con dispositivi di levitazione), elaborate case galleggianti munite di teleporter autonomo, piccole isole mobili importate dagli oceani di Patto-Maui, motoscafi da corsa sportivi, sommergibili pre-Egira, un assortimento di VEM nautici intagliati a mano, provenienti da Vettore Rinascimento, e pochi, moderni yacht polivalenti il cui profilo era nascosto dalla superficie ovoidale riflettente e continua dei campi di contenimento.

Gli ospiti non erano meno sgargianti e barocchi dei veicoli da cui sbarcavano: lo stile di ciascuno andava dal tradizionale abito da sera pre-Egira, portato da gente chiaramente mai toccata dal trattamento Poulsen, a quello all'ultima moda secondo i dettami della settimana corrente su TC2, drappeggiato su figure modellate dai più famosi ARNisti della Rete. Continuai la passeggiata e mi fermai a un lungo tavolo da buffet il tempo sufficiente per riempirmi il piatto: roast beef, insalata, filetto di calamaro volante, curry di Parvati e pane appena sfornato.

Il tardo pomeriggio era già sfumato nel crepuscolo quando trovai un posto dove sedermi, vicino ai giardini: spuntavano le prime stelle. Le luci della vicina città e del complesso amministrativo erano state abbassate per consentire di scorgere la flotta spaziale: il cielo notturno di Tau Ceti Centro era più chiaro di quanto non fosse stato per secoli.

Una donna seduta accanto a me mi lanciò un'occhiata e sorrise. — Sono sicura che ci siamo già incontrati.

Ricambiai il sorriso, certo del contrario. La donna era molto attraente, forse vicina ai sessanta standard, il doppio dei miei anni, ma sembrava più giovane dei miei ventisei, grazie al denaro e a Poulsen. La pelle era talmente chiara da sembrare quasi trasparente. I capelli erano acconciati in una treccia rialzata. I seni, rivelati più che nascosti dall'abito lungo di velocrespo, erano perfetti. Gli occhi, crudeli.

— Forse — risposi. — Ma non mi sembra probabile. Mi chiamo Joseph Severn.

— Certo — disse lei. — Un pittore!

Non ero un pittore. Ero… fui… un poeta. Ma l'identità Severn, che avevo assunto a partire dalla morte e dalla nascita della mia persona reale un anno prima, mi proclamava pittore: era scritto nel mio file della Totalità.

— L'ho ricordato — rise la signora. Mentiva. Si era servita del costoso innesto comlog per accedere alla sfera dati.

Non avevo bisogno di accedere… parola goffa e ridondante che disprezzavo nonostante la sua antichità. Mentalmente chiusi gli occhi e fui nella sfera dati, scivolai al di là delle barriere superficiali della Totalità, sotto le onde dei dati di superficie, e seguii il lucente cavo del cordone ombelicale d'accesso, fino alle buie profondità del flusso di dati "riservati".

— Sono Diana Philomel — disse lei. — Mio marito è amministratore zonale trasporti per Sol Draconis Septem.

Accettai la mano che mi porgeva. La donna non aveva accennato al fatto che il marito era stato capo agente provocatore per il sindacato dei grattamuffa di Porta del Paradiso, prima che raccomandazioni politiche lo promuovessero a Sol Draconis… né che lei un tempo era conosciuta come Dinee la Tettona, ex puttana di bordello e cameriera volante per i procuratori di polmotubature nelle Lande di Mediocesso… né che era stata arrestata due volte per abuso di Flashback e la seconda aveva ferito gravemente un medico dell'istituto per il recupero di ex detenute… né che a nove anni aveva avvelenato il fratellastro, dopo che lui aveva minacciato di raccontare al padre che lei s'incontrava con un minatore di Piana Fangosa, di nome…

— Lieto di conoscerla, signora Philomel — dissi. La sua mano era tiepida. Mantenne la stretta un istante di troppo.

— Non è emozionante? — sussurrò.

— Che cosa?

Mosse la mano in un ampio gesto che includeva la notte, i fotoglobi che cominciavano ad accendersi, i giardini, la folla. — Oh, il party, la guerra, tutto — rispose.

Le sorrisi, annuendo; assaggiai il roast beef. Era eccezionale, ottimo, ma con una punta del gusto pungente tipico delle vasche di clonazione di Lusus. Il calamaro pareva autentico. Gli steward erano passati a offrire coppe di champagne; lo assaggiai. Scadente. Vino di qualità, scotch e caffè erano le tre cose che nessuno era riuscito a sostituire, dopo la morte della Vecchia Terra. — Secondo lei, la guerra è necessaria? — domandai.

— Altroché, maledizione! — Diana Philomel aveva aperto la bocca, ma a rispondere era stato il marito. Era giunto di sorpresa e si sedette sul finto ceppo sul quale cenavamo. Era un colosso, almeno un piede e mezzo più alto di me, ma questo significa poco, dal momento che sono basso. La memoria mi dice che un tempo scrissi una poesia in cui mi prendevo in giro da solo: "…Mister John Keats, cinque piedi", anche se in realtà sono cinque e uno: leggermente basso, quando Napoleone e Wellington erano vivi e la statura media maschile era di cinque piedi e sei pollici, ma ridicolmente basso, ora che sui mondi a gravità standard la statura va da sei piedi a quasi sette. Chiaramente non avevo la muscolatura né la costituzione per sostenere di provenire da un pianeta a forte gravità, per cui agli occhi di tutti ero soltanto basso. (Mi sono espresso servendomi delle unità di misura a cui sono abituato: da quando sono rinato nella Rete, di tutti i cambiamenti mentali pensare nel sistema metrico decimale è il più difficile; a volte rifiuto perfino di provarci.)

— Perché la guerra è necessaria? — domandai a Hermund Philomel, marito di Diana.

— Perché quei maledetti l'hanno voluta - brontolò lui. Parlava arrotando i denti e muovendo i muscoli delle guance. Quasi privo di collo, aveva una barba sottocutanea che sfidava crema depilatoria, lametta, rasoio. Le sue mani erano grandi una volta e mezzo le mie e molte volte più robuste.

— Capisco — dissi.

— I maledetti Ouster l'hanno voluta - ripeté e passò in rassegna per me i punti principali della sua tesi. — Ci hanno rotto i coglioni su Bressia e ora ci rompono le palle su… su comesichia…

— Il sistema di Hyperion — disse sua moglie, senza mai staccare lo sguardo dal mio.

— Già — convenne il suo signore e marito. — Il sistema di Hyperion. Ci hanno rotto le palle e ora dobbiamo andare laggiù a far vedere che l'Egemonia non ci sta. Chiaro?

Ricordai che, da ragazzo, ero stato mandato a Enfield, alla scuola secondaria John Clarke, e che lì c'era più di un paio di bulli come lui, dal cervello di gallina e dai pugni come prosciutti. Appena giunto, li evitai o cercai di vivere in pace con loro. Dopo la morte di mia madre, quando tutto il mio mondo cambiò, andai a caccia di loro anche se ero più piccolo, stringendo sassi nel pugno; e mi rialzai da terra per picchiare di nuovo, anche con il naso sanguinante e i denti che ballavano.

— Chiaro — dissi piano. Il piatto era vuoto. Alzai la coppa di champagne scadente per un brindisi a Diana Philomel.

— Mi ritragga — disse lei.

— Prego?

— Mi ritragga, signor Severn. Lei è un artista.

— Pittore — dissi, mostrando la mano vuota. — Purtroppo non ho lo stilo.

Diana Philomel frugò nella tasca della veste del marito e mi tese una penna a luce. — Mi ritragga, la prego.

La tratteggiai. Il ritratto prese forma a mezz'aria: le linee si alzarono e ricaddero e tornarono su se stesse come filamenti al neon in una statua di fil di ferro. Una piccola folla si raccolse a guardare. Risuonò un tiepido applauso, quando terminai. Il disegno non era malvagio. Coglieva la lunga e voluttuosa curva del collo della donna, l'alta treccia di capelli, gli zigomi sporgenti… perfino il lampo lieve, ambiguo, degli occhi. Era il meglio che potessi fare, dopo che la cura RNA e le lezioni mi avevano preparato per la personalità attuale. Il vero Joseph Severn avrebbe fatto di meglio… aveva fatto di meglio. Ricordo che mi fece il ritratto, quando ero in punto di morte.

La signora Diana Philomel s'illuminò, approvando il mio lavoro. Il signor Hermund Philomel mi guardò in cagnesco.

Si alzò un grido: «Eccole!»

La folla mormorò, restò a bocca aperta, tacque. I fotoglobi e le luci del giardino si smorzarono e si spensero. Migliaia di ospiti alzarono gli occhi al cielo. Cancellai il disegno e rimisi nel taschino di Hermund la penna a luce.

— La flotta — disse un anziano signore dall'aria distinta, nell'uniforme nera della FORCE. Alzò il bicchiere a indicare qualcosa alla giovane compagna. — Hanno appena aperto il portale. Passeranno prima le navi vedetta, poi la scorta di navi torcia.

Dal nostro punto d'osservazione, il teleporter militare della FORCE non era visibile. Anche nello spazio, immagino, sarebbe apparso solo come un'aberrazione rettangolare contro la distesa di stelle. Ma le code di fusione erano ben visibili, prima come un gruppo di lucciole o di ragnatelidi luminosi, poi come comete ardenti, a mano a mano che le vedette accendevano il motore principale e sciamavano nella zona di traffico cislunare del sistema di Tau Ceti. Un altro ansito generale si levò, quando comparvero le navi torcia, con la coda cento volte più lunga di quella delle vedette. Da orizzonte a orizzonte, il cielo notturno di TC2 fu segnato da strisce rosso oro.

Qualcuno batté le mani. Nel giro di qualche secondo, i campi e i prati e i giardini del Parco dei Cervi scrosciarono di applausi sfrenati e di sonori evviva, mentre l'elegante folla di miliardari, di funzionari governativi, di esponenti di nobili casate, giunta da cento mondi diversi, dimenticava ogni cosa, tranne lo sciovinismo e la sete di guerra ora risvegliata dopo più di un secolo e mezzo di letargo.

Non applaudii. Ignorato da coloro che mi attorniavano, terminai il brindisi — non a lady Philomel, ora, ma alla durevole stupidità della mia razza — e vuotai la coppa di champagne. Era insipido.

In alto, le navi più importanti della flotta si erano teleportate all'interno del sistema. Grazie a un brevissimo contatto con la sfera dati, la cui superficie adesso era agitata da fiotti di dati fino a sembrare un mare in tempesta, seppi che la flotta della FORCE:spazio consisteva di più di cento spin-navi importanti : assaltatori di un nero metallico, simili a lance, con i bracci di lancio ripiegati; navi comando Tre-C, belle e goffe come meteore di cristallo nero; cacciatorpediniere a forma di bulbo, che sembravano navi torcia ipersviluppate, quali in realtà erano; vedette per la difesa perimetrale, più energia che materia, con i massicci campi di contenimento predisposti era per la riflessione totale… lucenti specchi che riflettevano Tau Ceti e le centinaia di scie di fiamma tutt'intorno; incrociatori rapidi, che si muovevano come squali fra banchi di navi più lente; sgraziati trasporti truppe, che portavano nelle stive a gravità zero migliaia di FORCE:marines, e decine e decine di navi appoggio: fregate, cacciatorpediniere d'assalto, lanciasiluri, vedette di relè astrotel e le stesse Balzonavi teleporter, massicci dodecaedri con un fantastico spiegamento di antenne e di sonde.

Tutt'intorno alla flotta, mantenuti a distanza di sicurezza dal controllo del traffico, svolazzavano yacht e imbarcazioni private, la cui velatura raccoglieva la luce del sole e rifletteva lo splendore delle navi da guerra.

Gli ospiti della Casa del Governo esultarono e applaudirono. Il tizio in divisa nera della FORCE piangeva in silenzio. Lì accanto, tele e olocamere ad ampia banda, nascoste, portavano su centinaia di mondi della Rete e, tramite astrotel, su decine di mondi al di fuori della Rete quello storico momento.

Scossi la testa e rimasi seduto.

— Signor Severn? — Una funzionaria del servizio di sicurezza era ferma davanti a me.

— Sì?

La donna accennò all'edificio dell'esecutivo. — Il PFE Gladstone la riceverà adesso.

2

A quanto pare, ogni epoca gravida di discordie e di pericoli produce un leader adatto ai tempi, un gigante politico la cui assenza, in retrospettiva, sembra inconcepibile nel momento in cui la storia di quei giorni viene scritta. Meina Gladstone era un leader di questo tipo, per la nostra Epoca Finale, anche se a quel tempo nessuno si sarebbe sognato che sarei stato il solo a scrivere la vera storia sua e dei suoi giorni.

Gladstone era stata paragonata tante di quelle volte alla figura classica di Abramo Lincoln che, quando infine quella sera fui ammesso alla sua presenza, rimasi quasi sorpreso nel vedere che non portava finanziera e cilindro nero. Il Primo Funzionario Esecutivo del Senato e capo di un governo al servizio di centotrenta miliardi di persone, indossava una giacca grigia di morbida lana, calzoni e top ornati solo da un accenno d'impuntura rossa lungo le cuciture e ai polsini. Non assomigliava certo ad Abramo Lincoln, e neppure ad Alvarez-Temp, il secondo eroe dell'antichità più comunemente citato dalla stampa come suo doppelgänger. Pensai che sembrava solo un anziana signora.

Meina Gladstone era alta e magra, e aveva un profilo più aquilino di Lincoln, col naso a becco, zigomi in rilievo, bocca ampia ed espressiva, labbra sottili, capelli grigi raccolti in un'onda a taglio irregolare che sembravano davvero piume. Ma, per me, il tratto più memorabile di Meina Gladstone era un altro: gli occhi, grandi, castani, infinitamente tristi.

Non eravamo soli. Ero stato accompagnato in una stanza lunga, illuminata da una luce soffusa, tappezzata di scaffalature di legno che contenevano centinaia di libri stampati. Un'ampia cornice olografica simulava una finestra e mostrava una vista dei giardini. La riunione in corso stava per concludersi: della decina fra uomini e donne, alcuni erano già in piedi, altri ancora seduti in semicerchio attorno alla scrivania di Gladstone. Il PFE incrociò le braccia e si appoggiò con naturalezza alla scrivania. Alzò lo sguardo, mentre entravo.

— Signor Severn?

— Sì.

— Grazie per essere venuto. — Riconobbi subito la voce, udita in centinaia di dibattiti nell'ambito della Totalità: timbro rauco per gli anni, ma tono morbido come un liquore costoso. La cadenza era famosa: un misto di sintassi precisa e di ritmo quasi dimenticato dell'inglese pre-Egira, che ormai si trovava solo nelle regioni del delta del suo mondo d'origine, Patawpha. — Signore e signori, permettetemi di presentarvi il signor Joseph Severn — disse Gladstone.

Diversi mi rivolsero un cenno di saluto, ma era chiaro che non capivano il motivo della mia presenza. Gladstone non proseguì nelle presentazioni, allora mi collegai brevemente alla sfera dati per identificare i presenti: tre membri del gabinetto, incluso il Ministro della Difesa, due capi di stato maggiore della FORCE, due aiutanti di Gladstone, quattro senatori fra cui l'influente Kolchev, e una proiezione del consulente del TecnoNucleo noto come Albedo.

— Il signor Severn è stato invitato per portare nella discussione il punto di vista di un artista — disse Gladstone.

Il generale Morpurgo, della FORCE:terra, sbuffò e rise. — Il punto di vista di un artista? Con il dovuto rispetto, signora, cosa diavolo significa?

Gladstone sorrise. Anziché rispondere al generale, si rivolse a me. — Cosa ne pensa, della flotta, signor Severn?

— Graziosa — risposi.

Il generale Morpurgo sbuffò di nuovo. — Graziosa? Quest'uomo vede la maggiore concentrazione di potenza di fuoco spaziale nella storia della galassia e la definisce… graziosa? — Si girò verso l'altro militare e scosse la testa.

Il sorriso di Gladstone era rimasto immutato. — E della guerra? — mi domandò. — Cosa ne pensa, del nostro tentativo di salvare Hyperion dai barbari Ouster?

— Stupido — risposi.

Nella stanza scese il silenzio. Le ultime inchieste in tempo reale della Totalità mostravano che il 98% approvava la decisione di combattere anziché cedere agli Ouster il pianeta coloniale Hyperion. Il futuro politico di Meina Gladstone dipendeva da un risultato positivo del conflitto. Gli uomini e le donne presenti nella stanza avevano contribuito a stabilire quella linea politica, avevano preso la decisione d'invadere Hyperion e si erano adoperati per risolvere i problemi logistici. Il silenzio perdurò.

— Perché stupido? — domandò con calma Gladstone.

— Fin dalla sua fondazione, sette secoli fa, l'Egemonia non è mai stata in guerra — risposi. — Mi sembra stupido mettere alla prova in questo modo la sua stabilità di base.

— Mai stata in guerra! — ruggì il generale Morpurgo. Con le grosse mani si strinse le ginocchia. — E come diavolo chiama la Rivolta Glennon-Height?

— Rivolta, appunto. Ammutinamento. Azione di polizia.

Il senatore Kolchev mise in mostra i denti in un sorriso privo di buonumore. Proveniva da Lusus e sembrava una montagna di muscoli, non un essere umano. — Interventi della flotta, mezzo milione di morti, due divisioni della FORCE impegnate in combattimento per più d'un anno — disse. — Gran bella azione di polizia, figliolo.

Rimasi zitto.

Leigh Hunt, un uomo di una certa età, dall'aspetto emaciato, ritenuto il più stretto collaboratore di Gladstone, si schiarì la voce. — La risposta del signor Severn è interessante. Signore, in che cosa ritiene diverso questo… ah… conflitto, dalla guerra contro Glennon-Height?

— Glennon-Height era un ex ufficiale della FORCE — dissi, rendendomi conto di fare un'affermazione ovvia. — Per secoli gli Ouster sono stati un'incognita. Le forze ribelli erano note, rendevano facile valutarne il potenziale; gli sciami Ouster sono sempre stati al di fuori della Rete, fin dai tempi dell'Egira. Glennon-Height si manteneva all'interno del Protettorato e taceva scorrerie su mondi in un raggio non superiore a due mesi di debito temporale dalla zona della Rete; Hyperion dista tre anni da Parvati, l'insediamento più vicino della Rete.

— Crede che non abbiamo fatto anche noi queste stesse considerazioni? — replicò il generale Morpurgo. — Cosa ne dice della battaglia di Bressia? Lì abbiamo già affrontato gli Ouster. Quella non era… una rivolta.

— Generale, la prego — intervenne Leigh Hunt. — Continui, signor Severn.

Scrollai le spalle. — La differenza principale è che in questa circostanza abbiamo a che fare con Hyperion — risposi.

La senatrice Richeau, una delle donne presenti, annuì come se mi fossi spiegato chiaramente. — Lei ha paura dello Shrike — disse. — Per caso appartiene alla Chiesa della Redenzione Finale?

— No — risposi. — Non sono membro del culto Shrike.

— Cos'è, allora? — disse Morpurgo.

— Un pittore — mentii.

Leigh Hunt sorrise e si girò verso Gladstone. — Avevamo davvero bisogno del punto di vista di quest'uomo, per tornare sobri — disse, indicando la finestra e le immagini olografiche della folla che ancora applaudiva. — Ma le obiezioni del nostro amico pittore sono già state sollevate e soppesate.

Il senatore Kolchev si schiarì la voce. — Odio far notare l'ovvio, quando sembra che ci adoperiamo tutti per ignorarlo, ma questo… signore… ha il necessario nullaosta della sicurezza per presenziare a questa discussione?

Gladstone annuì e mostrò quell'accenno di sorriso che tanti caricaturisti avevano tentato di riprodurre. — Il signor Severn ha ricevuto dal Ministero delle Arti l'incarico di eseguire nel corso dei prossimi giorni una serie di schizzi con me come soggetto. In base alla teoria, ritengo, che avranno un certo significato storico e che potrebbero servire per un ritratto ufficiale. A ogni modo, il signor Severn ha ottenuto dalla sicurezza un nullaosta di grado T-oro, quindi possiamo parlare liberamente davanti a lui. Inoltre, ne apprezzo il candore. Forse il suo arrivo serve a suggerirci che la riunione è giunta al termine. Ci ritroveremo nella Sala di Guerra, alle otto di domattina, poco prima che la flotta si teleporti nel sistema di Hyperion.

Subito il gruppetto si sciolse. Nell'uscire, il generale Morpurgo mi lanciò un'occhiata astiosa. Passandomi davanti, il senatore Kolchev mi fissò con una certa curiosità. Il consulente Albedo si limitò a svanire nel nulla. Leigh Hunt fu il solo a trattenersi. Si mise comodo, posando la gamba sul bracciolo della poltrona pre-Egira, d'inestimabile valore, su cui sedeva. — Si sieda — mi disse.

Lanciai un'occhiata a Gladstone: si era seduta alla scrivania e ora annuì. Mi accomodai nella sedia con lo schienale dritto occupata poco prima dai generale Morpurgo. Gladstone disse: — Davvero ritiene che sia stupido difendere Hyperion?

— Sì.

Gladstone unì la punta delle dita e si batté il labbro inferiore. Alle sue spalle, la finestra mostrava il fermento continuo del party in onore della flotta. — Se nutre qualche speranza di riunirsi alla sua… ah… controparte — disse Gladstone — dovrebbe avere interesse che la campagna di Hyperion sia portata a termine.

Rimasi in silenzio. Alla finestra il panorama cambiò e mostrò il cielo notturno ancora fiammeggiante di scie di fusione.

— Ha portato i materiali da disegno? — chiese Meina Gladstone.

Estrassi la matita e il piccolo blocco per schizzi che a Diana Philomel avevo detto di non avere.

— Disegni pure, mentre parliamo — disse Meina Gladstone.

Iniziai a schizzare un abbozzo della donna in quella posa rilassata, quasi scomposta, e passai ai particolari del viso. Gli occhi stuzzicavano la mia curiosità.

Mi rendevo conto vagamente che Leigh Hunt mi fissava. — Joseph Severn — disse. — Interessante scelta di nomi.

Usai tratti rapidi e marcati per dare il senso della fronte spaziosa e del naso pronunciato di Gladstone.

— Sa perché la gente diffida dei cìbridi? — domandò Hunt.

— Sì — risposi. — La sindrome del mostro di Frankenstein. Paura di tutto ciò che, pur in forma umana, non è completamente umano. La vera ragione per cui gli androidi furono messi fuorilegge, penso.

— Ah-ha — convenne Hunt. — Ma i cìbridi sono completamente umani, no?

— Dal punto di vista genetico, sì. — Mi scoprii a pensare a mia madre, a ricordare quante volte avevo letto per lei, durante la sua malattia. Pensai a mio fratello Tom. — Ma fanno anche parte del Nucleo e così corrispondono alla definizione "non completamente umano".

— Anche lei fa parte del Nucleo? — domandò Meina Gladstone, girandosi a guardarmi negli occhi. Iniziai un altro schizzo.

— Non proprio. Posso viaggiare liberamente nelle regioni che mi sono consentite, ma questa capacità è più simile all'accesso alla sfera dati che non alle caratteristiche di una vera personalità del Nucleo. — Il viso di Gladstone era più interessante di tre quarti, ma gli occhi avevano maggiore intensità, visti di fronte. Lavorai a riprodurre il reticolo di rughe che si allargava dagli angoli di quegli occhi. Era evidente che Meina Gladstone non si era mai concessa un trattamento Poulsen.

— Se fosse possibile mantenere dei segreti nei confronti del Nucleo — disse la donna — sarebbe follia permetterle libero accesso ai consigli di governo. Ma, visto come stanno le cose… — Abbassò le mani e si drizzò a sedere. Cambiai pagina.

— Visto come stanno le cose — riprese Gladstone — lei possiede informazioni che mi occorrono. È vero che può leggere la mente della sua controparte, la personalità ricuperata per prima?

— No — risposi. Era difficile catturare il complesso gioco di rughe e di muscoli agli angoli della bocca. Ne tracciai lo schizzo, passai al mento volitivo e alla zona d'ombra sotto il labbro inferiore.

Hunt corrugò la fronte e diede un'occhiata al PFE. Meina Gladstone unì di nuovo la punta delle dita. — Si spieghi — disse.

Alzai lo sguardo dal disegno. — Faccio dei sogni. A quanto pare, il contenuto dei sogni corrisponde a eventi che si verificano intorno alla persona che porta in sé l'innesto della precedente personalità Keats.

— Una donna di nome Brawne Lamia — disse Leigh Hunt.

— Sì.

Gladstone annuì. — Quindi la personalità Keats originale, quella che si ritiene sia stata uccisa su Lusus, è ancora viva?

Esitai. — È… è ancora consapevole — dissi infine. — Come saprà, il substrato della personalità primaria fu estratto dal Nucleo, probabilmente a opera del cìbrido stesso, e innestato nel corpo della signora Lamia, in un bio-shunt a ciclo d'iterazione Schrön.

— Sì, sì — disse Leigh Hunt. — Ma lei è davvero in contatto con la personalità Keats e, per suo tramite, con i pellegrini allo Shrike?

Tratti rapidi e marcati fornirono uno sfondo scuro per dare allo schizzo di Gladstone maggiore profondità. — In realtà non sono in contatto — replicai. — Faccio sogni su Hyperion, sogni che, secondo le vostre trasmissioni astrotel, corrispondono a eventi in tempo reale. Non posso comunicare con la personalità Keats passiva, né con il suo ospite, né con gli altri pellegrini.

Gladstone batté le palpebre. — Come fa a sapere delle trasmissioni astrotel?

— Il Console ha rivelato agli altri pellegrini che il suo comlog è in grado di collegarsi al trasmettitore astrotel della sua nave. Li ha informati poco prima che scendessero nella valle.

Il tono di Gladstone lasciava intuire gli anni passati a fare l'avvocato prima d'entrare in politica. — E gli altri come hanno reagito alla rivelazione del Console?

Rimisi in tasca la matita. — Sapevano che tra loro c'era una spia — risposi. — L'ha detto lei, a ciascuno di loro.

Gladstone scoccò un'occhiata al suo aiutante. L'espressione di Hunt era vuota. — Se lei è in contatto con loro — riprese la donna — saprà di sicuro che non abbiamo ricevuto alcun messaggio, da quando hanno lasciato Castel Crono per scendere alle Tombe del Tempo.

— Il sogno di ieri notte è terminato proprio mentre si avvicinavano alla valle.

Meina Gladstone si alzò, andò alla finestra, spense l'immagine.

— Così non sa se qualcuno di loro è ancora vivo?

— No.

— In quali condizioni si trovavano, secondo il suo ultimo… sogno?

Hunt mi osservava con la stessa intensità di sempre. Meina Gladstone fissava lo schermo buio e ci dava la schiena. — Tutti i pellegrini erano vivi — risposi. — Tranne, forse, Het Masteen, la Vera Voce dell'Albero.

— Morto? — domandò Hunt.

— Scomparso, due notti prima, dal carro a vela, durante la traversata del mare d'Erba, poco dopo che le vedette Ouster hanno distrutto la nave-albero Yggdrasill. Però, poco prima di lasciare Castel Crono, i pellegrini hanno scorto una figura in tonaca dirigersi alle Tombe.

— Het Masteen? — domandò Gladstone.

— Loro pensano di sì. Ma non ne sono sicuri.

— Mi parli degli altri.

Presi fiato. Dai sogni sapevo che Gladstone conosceva almeno due dei partecipanti all'ultimo pellegrinaggio; il padre di Brawne Lamia era stato senatore, collega di Meina, e il Console dell'Egemonia era stato il rappresentante personale del PFE nei negoziati segreti con gli Ouster. — Padre Hoyt soffre molto — dissi. — Ha raccontato la storia del crucimorfo. Il Console ha scoperto che Hoyt stesso ne porta uno… anzi, due: il proprio e quello di padre Duré.

Gladstone annuì. — Ha sempre su di sé il parassita della resurrezione?

— Sì.

— E soffre maggiormente, ora che si avvicina al covo dello Shrike?

— Ritengo di sì.

— Continui.

— Il poeta, Sileno, è stato ubriaco per gran parte del tempo. È convinto che il suo poema incompiuto predice e determina il corso degli eventi.

— Su Hyperion? — domandò Gladstone, ancora di spalle.

— Dovunque — risposi.

Hunt lanciò un'occhiata al Primo Funzionario, poi tornò a guardarmi. — Sileno è pazzo?

Restituii lo sguardo, ma non commentai. A dire il vero, non sapevo.

— Continui — ripeté Gladstone.

— Il colonnello Kassad ha sempre una duplice ossessione: trovare la donna, Moneta, e uccidere lo Shrike. Si rende conto che la donna e il mostro possono essere la stessa cosa.

— È armato? — La voce di Gladstone era molto bassa.

— Sì.

— Continui.

— Sol Weintraub, lo studioso del Mondo di Barnard, spera di entrare nella tomba detta Sfinge non appena…

— Mi scusi — disse Gladstone. — Sua figlia è ancora con lui?

— Sì.

— E quanto ha, ora, Rachel?

— Cinque giorni, credo. — Chiusi gli occhi per ricordare nei particolari il sogno della notte precedente. — Sì — confermai. — Cinque giorni.

— E diventa ancora più giovane?

— Sì.

— Continui, signor Severn. Mi parli, per favore, di Brawne Lamia e del Console.

— La signora Lamia porta avanti i desideri del suo ex cliente… e amante — dissi. — La persona Keats riteneva necessario confrontarsi con lo Shrike. Al posto suo, lo fa Brawne Lamia.

— Signor Severn — intervenne Hunt — lei parla della "persona Keats" come se non avesse importanza né legame con la sua stessa…

— Ne parliamo dopo, Leigh, per favore — disse Meina Gladstone. Si girò a guardarmi. — Il Console m'incuriosisce. Ha raccontato anche lui i motivi che l'hanno spinto a partecipare al pellegrinaggio?

— Sì.

Gladstone e Hunt attesero.

— Il Console ha parlato di sua nonna — ripresi. — La donna di nome Siri, che più di mezzo secolo fa iniziò la rivolta di Patto-Maui. Ha raccontato come morì la sua famiglia, durante la battaglia di Bressia, e ha rivelato i suoi incontri segreti con gli Ouster.

— Nient'altro? — domandò Gladstone. Lo sguardo degli occhi castani era assai intenso.

— No — risposi. — Il Console ha rivelato che fu lui a mettere in funzione il congegno Ouster per accelerare l'apertura delle Tombe del Tempo.

Hunt si drizzò a sedere. Anche Gladstone non nascose la sorpresa. — È tutto?

— Sì.

— Come hanno reagito, gli altri, a questa rivelazione di… di tradimento?

Esitai, cercando di ricostruire le immagini del sogno in maniera più lineare di quella che la memoria mi forniva. — Alcuni si sono risentiti — dissi. — Ma a questo punto nessuno prova soverchia lealtà per l'Egemonia. Hanno deciso di andare avanti. Secondo me, ciascun pellegrino è convinto che la punizione sarà comminata dallo Shrike, non da un'autorità umana.

Hunt batté il pugno sul bracciolo della poltrona. — Se il Console fosse qui — sbottò — scoprirebbe presto quanto si sbaglia.

— Calma, Leigh. — Gladstone tornò alla scrivania, sfogliò alcune carte. Tutte le spie luminose dell'intercom lampeggiavano con impazienza. Fui stupito che in un momento simile il PFE sprecasse tanto tempo a parlare con me. — Grazie, signor Severn — disse Meina. — Voglio che resti con noi per alcuni giorni. Le mostreranno il suo alloggio nell'ala residenziale della Casa del Governo.

Mi alzai. — Farò un salto su Esperance per prendere le mie cose.

— Non occorre. Sono state portate qui prima ancora che lei scendesse dalla piattaforma del terminex. Leigh le mostrerà la strada.

Con un cenno d'assenso seguii Hunt alla porta.

— Ah, signor Severn… — mi bloccò Gladstone.

— Sì?

Il Primo Funzionario sorrise. — Poco fa ho apprezzato il suo candore — disse. — Ma, d'ora in avanti, facciamo finta che lei sia solo un pittore di corte e nient'altro, senza opinioni, invisibile, muto. Chiaro?

— Chiaro, signora.

Gladstone annuì; già rivolgeva l'attenzione alle spie luminose dell'interfono. — Ottimo. La prego di portare il blocco per gli schizzi, alla riunione nella Sala di Guerra, domattina alle otto.

Un agente della sicurezza ci accolse nell'anticamera e mi precedette nel labirinto di corridoi e di posti di controllo. Hunt lo bloccò e mi raggiunse nell'ampio corridoio, con passo deciso che echeggiò sulle piastrelle. Mi toccò il braccio. — Non faccia errori — disse. — Sappiamo… la signora sa… chi è lei e chi rappresenta.

Sostenni il suo sguardo e con calma liberai il braccio. — Mi fa piacere — dissi. — A questo punto, io stesso non sono sicuro di saperlo.

3

Sei adulti e una bimba, in un ambiente ostile. Il loro fuoco pare ben piccola cosa, contro l'oscurità incombente. Più avanti le montagne che circondano la valle si alzano come pareti; avvolte nel buio della valle stessa, le sagome enormi delle Tombe sembrano avvicinarsi strisciando, simili ad apparizioni di rettili scaturiti da epoche antidiluviane.

Brawne Lamia è stanca, sofferente, irritabile. Il pianto della piccina di Sol Weintraub le da ai nervi. Ma Brawne sa che anche gli altri sono stanchi: nelle ultime tre notti, nessuno ha dormito più di qualche ora; il giorno appena terminato è stato pieno di tensione e di terrori inspiegati. Lamia getta nel fuoco l'ultimo pezzo di legno.

— Non ce n'è più, dove l'abbiamo preso — sbotta Martin Sileno. Il fuoco gli illumina i lineamenti da satiro.

— Lo so — replica Brawne Lamia, troppo stanca per mettere nel tono di voce anche solo una punta di collera. La legna da ardere proviene da un deposito alimentato dai gruppi di pellegrini degli anni precedenti. Le tre piccole tende sono poste nell'area tradizionalmente usata la notte prima di affrontare lo Shrike. L'accampamento si trova nelle vicinanze della Tomba chiamata Sfinge; la sagoma nera di quella che potrebbe essere un'ala si estende a nascondere una parte di cielo.

— Useremo la lanterna, quando il fuoco si sarà spento — dice il Console. Ha un aspetto ancora più sfinito degli altri. La luce guizzante gli colorisce i lineamenti tristi. Ha indossato per l'occasione l'abito di gala dei diplomatici, ma ora la cappa e il tricorno sembrano sporchi e vizzi quanto lui.

Il colonnello Kassad torna accanto al fuoco e si cala sul casco il visore notturno. Indossa l'equipaggiamento militare completo: la tuta di polimero camaleonte, attivala, lascia vedere solo il viso, che pare librarsi a due metri da terra. — Niente — dice Kassad. — Nessun movimento, né tracce di calore. Solo il fruscio del vento. — Appoggia contro una roccia il fucile d'assalto multiuso della FORCE e si siede accanto agli altri: le fibre della tuta blindala si disattivano e formano un grumo nero non molto più visibile di prima.

— Credete che lo Shrike verrà stanotte? — domanda padre Hoyt. Il prete si è avvolto nel mantello nero e sembra parte della notte non meno del colonnello Kassad. Smagrito, parla con voce sofferente.

Kassad si sporge, col bastone di comando attizza il fuoco. — Non abbiamo modo di saperlo. Monterò di guardia, non si sa mai.

A un tratto tutt'e sei alzano lo sguardo: il cielo stellato si riempie di colori pulsanti, fiori rossi e arancione che sbocciano in silenzio e cancellano le stelle.

— Nelle ultime ore erano molto meno numerosi — dice Sol Weintraub, cullando la piccina. Rachel ha smesso di piangere, cerca d'afferrare la barbetta del padre. Weintraub le bacia la manina.

— Saggiano di nuovo le difese dell'Egemonia — dice Kassad. Scintille si alzano dal fuoco attizzato, faville che si librano nel cielo come per unirsi alle fiamme più vivide, su in alto.

— Chi ha vinto? — domanda Brawne Lamia, riferendosi alla silenziosa battaglia spaziale che per tutta la notte precedente e buona parte del giorno ha riempito di violenza il cielo.

— Chi cazzo se ne fotte? — replica Martin Sileno. Si fruga nelle tasche del cappotto di pelliccia, casomai ci fosse una bottiglia piena. Non ne trova. — Chi cazzo se ne fotte — borbotta di nuovo.

— Io — ribatte stancamente il Console. — Se gli Ouster sfondano, possono distruggere Hyperion prima che troviamo lo Shrike.

Sileno ride, beffardo. — Oh, sarebbe terribile, vero? Morire prima di scoprire la morte. Essere uccisi prima del momento stabilito. Scomparire rapidamente e senza dolore, anziché contorcersi per sempre sulle spine dello Shrike. Oh, che pensiero orribile!

— Chiudi il becco — dice Brawne Lamia; il tono è sempre privo di emozione, ma questa volta vi affiora la minaccia. Lamia guarda il Console. — Allora, dov'è, lo Shrike? Perché non riusciamo a trovarlo?

Il diplomatico fissa il fuoco. — Non so. Perché dovrei saperlo?

— Forse lo Shrike è sparito — dice padre Hoyt. — Forse il collasso dei campi anti-entropici l'ha liberato per sempre. Forse quel mostro ha portato altrove il proprio flagello.

Il Console scuote la testa e non replica.

— No — dice Sol Weintraub. La piccina gli si è addormentata contro la spalla. — Verrà qui. Me lo sento.

Brawne Lamia annuisce. — Anch'io. È lì che aspetta. — Dalla sacca ha preso alcune confezioni di viveri; tira la linguetta per riscaldare il contenuto e le distribuisce.

— L'improvvisa caduta di tensione, lo so, è l'ordito e la trama del mondo — dice Sileno. — Ma siamo davvero ridicoli. Tutti in pompa magna e senza un posto dove morire.

Brawne Lamia lo squadra con occhi di fuoco, ma rimane in silenzio; per un poco mangiano e non dicono niente. In alto, le fiammate svaniscono e compaiono di nuovo le stelle fittamente raggruppate, ma le faville continuano ad alzarsi come se cercassero una via di fuga.


Avvolto per duplice interposizione nel guazzabuglio nebbioso dei pensieri di Brawne Lamia, cerco di ricostruire gli eventi a partire dal mio ultimo sogno delle loro vite.

Prima dell'alba i pellegrini sono scesi nella valle, cantando, e le luci della battaglia in svolgimento un miliardo di chilometri più in alto ne proiettavano l'ombra sul terreno. Per tutto il giorno hanno esplorato le Tombe del Tempo. Da un momento all'altro s'aspettavano di morire. Dopo alcune ore, mentre il sole si levava e il freddo del deserto lasciava posto al calore, hanno sentito affievolirsi paura ed esaltazione.

Il lungo giorno è stato silenzioso, a parte il fruscio della sabbia, un grido di tanto in tanto, il gemito continuo e quasi subliminale del vento fra le rocce e le tombe. Kassad e il Console hanno portato uno strumento per misurare l'intensità dei campi anti-entropici, ma Lamia è stata la prima a notare che era superfluo, che il flusso e il riflusso delle maree del tempo producevano una leggera nausea sovraccarica di una impressione di déjà vu che non si attenuava.

La Tomba più vicina all'ingresso della valle era la Sfinge; poi veniva la Tomba di Giada, le cui pareti erano trasparenti solo al mattino e nel crepuscolo; poi, neppure cento metri più avanti, si alzava l'Obelisco; da lì, il sentiero dei pellegrini risaliva un arroyo che si allargava fino alla tomba più grande, posta al centro, il Monolito di Cristallo, la cui superficie era priva di ornamenti e di aperture, e il cui tetto piatto si trovava allo stesso livello delle pareti della valle; poi c'erano le tre Grotte, il cui ingresso era visibile solo a causa dei sentieri molto battuti che portavano fin lì; e infine, quasi un chilometro nel cuore della valle, c'era il cosiddetto Palazzo dello Shrike, le cui flange a spigolo vivo e le guglie elevate ricordavano le spine della creatura che si riteneva infestasse quel luogo.

Per tutta la giornata i pellegrini erano passati da tomba a tomba; nessuno si avventurava da solo, ma tutto il gruppo si soffermava all'ingresso delle costruzioni dove era possibile entrare. Sol Weintraub era rimasto quasi sconvolto dall'emozione, nel vedere la Sfinge e nell'entrarvi: era proprio quella la tomba in cui, ventisei anni prima, sua figlia aveva contratto il morbo di Merlino. Gli strumenti installati dalla squadra universitaria erano ancora sui treppiedi all'esterno della tomba, anche se era impossibile dire se continuassero a eseguire il quotidiano compito di sorveglianza. I corridoi della Sfinge erano stretti e labirintici come le note sul comlog di Rachel avevano lasciato intuire; i fotoglobi e le lampadine elettriche, abbandonati da svariati gruppi di ricerca, ormai erano spenti ed esauriti. Per esplorare la tomba, i sei pellegrini avevano adoperato torce a mano e il visore notturno di Kassad. Non c'era segno della stanza in cui Rachel si trovava quando le pareti si erano chiuse su di lei e il morbo l'aveva colpita. C'erano solo tracce minime di maree del tempo una volta possenti. Non c'era segno dello Shrike.

Ogni tomba aveva offerto momenti di terrore, di speranza e di orribile aspettativa, rimpiazzati però da delusioni quando stanze vuote e polverose comparivano proprio come era accaduto ai turisti e ai Pellegrini allo Shrike dei secoli precedenti.

Alla fine, mentre le ombre della parete orientale della valle oscuravano le Tombe e il terreno come un sipario che ponesse termine a una recita di scarso successo, la giornata si era risolta in delusione e fatica. Il calore del giorno era svanito e il freddo del deserto era tornato rapidamente, sulle ali d'un vento che profumava di neve e delle alte distese della Briglia, venti chilometri a sudovest. Kassad aveva suggerito di accamparsi. Il Console aveva mostrato la strada per il luogo in cui, secondo tradizione, i Pellegrini passavano l'ultima notte prima d'incontrare lo Shrike. La zona piatta, nelle vicinanze della Sfinge, mostrava tracce di rifiuti dei gruppi di ricerca, oltre che dei pellegrini; era piaciuta a Sol Weintraub e gli aveva dato l'impressione che sua figlia si fosse accampata proprio in quel luogo. Nessuno aveva sollevato obiezioni.

Ora, nella piena oscurità, mentre l'ultimo pezzo di legna bruciava, provai la sensazione che i sei si avvicinassero maggiormente… non al semplice calore del fuoco, ma l'uno all'altro… attirati dalle fragili ma tangibili corde dell'esperienza condivisa, createsi durante la risalita del fiume, sulla chiatta a levitazione Benares, e il viaggio in funivia fino a Castel Crono. Anzi, sentii un'unità più palpabile dei legami emotivi; capii dopo un istante che il gruppo era legato da una rete sensoriale in una microsfera di dati condivisi. In un pianeta dove i primitivi relè dati erano collassati al primo accenno di combattimento, questo gruppo aveva collegato i propri comlog e i bio-monitor per condividere informazioni e per sorvegliarsi l'un altro nel miglior modo possibile.

Anche se le barriere d'ingresso erano ovvie e solide, non avevo avuto difficoltà a superarle e a rilevare gli indizi, finiti ma numerosi (pulsazioni, temperatura della pelle, attività delle onde corticali, richiesta d'accesso, inventario dati), che mi permettevano una certa intuizione di quel che ciascun pellegrino pensava, sentiva, faceva. Kassad, Hoyt e Lamia avevano bio-impianti che rendevano più facile intuire il loro flusso di pensiero. In quel preciso istante Brawne Lamia si domandava se non fosse stato un errore andare alla ricerca dello Shrike; era infastidita da un pensiero appena sotto la superficie della coscienza ma implacabile nella sua richiesta d'attenzione, come se trascurasse un indizio importantissimo che contenesse la soluzione di… di che cosa?

Brawne Lamia non aveva mai potuto soffrire i misteri; era questa una delle ragioni che l'avevano spinta ad abbandonare una vita non priva di certe comodità e di piaceri per diventare investigatrice privata. Ma quale mistero la tormentava, adesso? Aveva quasi risolto l'omicidio del cliente, e amante, cìbrido ed era venuta su Hyperion per adempiere al suo ultimo desiderio. Eppure intuiva che il dubbio da cui era assillata non aveva molto a che fare con lo Shrike. Che cos'era, allora?

Scosse la testa e attizzò il fuoco morente. Aveva un fisico robusto, cresciuto per resistere alla gravità di Lusus, 1,3 g standard, e ipersviluppato dall'addestramento, ma per diversi giorni non aveva dormito ed era stanca, stanchissima. Si accorse vagamente che uno di loro parlava.


— …solo fare una doccia e mangiare un boccone — dice Martin Sileno. — E forse usare l'astrotel per sapere chi vince la guerra.

Il Console scuote la testa. — Non ancora. La nave è riservata a casi d'emergenza.

Sileno indica la notte, la Sfinge, il vento che si leva. — E questo non è un caso d'emergenza?

Brawne Lamia capisce che Sileno cerca di convincere il Console a richiamare dalla città di Keats la propria astronave. — Sei sicuro — interviene — che il caso d'emergenza non riguardi solo la mancanza d'alcol?

Sileno le rivolge un'occhiata di fuoco. — Un goccio farebbe male?

— No — dice il Console. Si strofina gli occhi e Lamia ricorda che anche lui un tempo era un alcolizzato. Ma la risposta riguardante la nave è stata negativa. — Aspetteremo finché sarà necessario.

— E un collegamento astrotel? — propone Kassad.

Il Console toglie dalla sacca l'antiquato comlog. L'apparecchio apparteneva a sua nonna Siri e prima ancora ai nonni di lei. Il Console sfiora il diskey. — Con questo posso trasmettere, ma non ricevere.

Sol Weintraub ha deposto la bimba addormentata nell'apertura della tenda più vicina. Ora si gira verso il fuoco. — E l'ultimo messaggio trasmesso annunciava il nostro arrivo a Castel Crono?

— Sì.

Martin Sileno interviene, sarcastico. — Dovremmo credere alle parole di un traditore confesso?

— Sì. — La voce del Console è un concentrato di sfinimento.

Il viso magro di Kassad si libra nel buio. Corpo, gambe e braccia sono visibili solo come una macchia scura contro lo sfondo già buio. — Ma servirà per chiamare la nave, se ne avremo bisogno?

— Sì.

Padre Hoyt si stringe nel mantello per evitare che i lembi sbattano al vento crescente. La sabbia fruscia contro la lana e la stoffa da tenda. — Non hai paura che le autorità portuali o la FORCE spostino la nave o la manomettano? — domanda al Console.

— No. — Il Console muove appena la testa, come se fosse troppo stanco per un cenno d'assenso completo. — I documenti d'autorizzazione hanno la firma di Gladstone in persona. Inoltre, il governatore generale è mio amico… era mio amico.

Gli altri hanno conosciuto poco dopo l'atterraggio il governatore dell'Egemonia, nominato di recente; a Brawne Lamia, Theo Lane è parso un uomo catapultato in eventi troppo grandi per le proprie capacità.

— Il vento aumenta — dice Sol Weintraub. Si gira per riparare col proprio corpo la piccina. Volano granelli di sabbia. Lo studioso continua a fissare a occhi socchiusi gli effetti delle raffiche e dice: — Chissà se là fuori c'è Het Masteen.

— Abbiamo frugato dappertutto — replica padre Hoyt. La sua voce suona soffocata, perché il prete ha chinato la testa fra le pieghe del mantello.

Martin Sileno ride. — Scusami, prete, ma non dire cazzate. — Il poeta si alza, cammina fino al limitare della zona illuminata dal fuoco. Il vento gli arruffa il pelo del cappotto e sbrindella nella notte le sue parole. — Le pareti dei dirupi hanno mille nascondigli. Il Monolito di Cristallo cela l'ingresso a noi… ma a un Templare? E poi, hai visto la scala che porta giù nel labirinto, nella stanza inferiore della Tomba di Giada.

Hoyt alza lo sguardo e socchiude gli occhi per difenderli dalle punture di spillo della sabbia. — Credi che sia laggiù? Nel labirinto?

Sileno ride e solleva le braccia. La seta dell'ampia camicia s'increspa e si gonfia. — Come cazzo faccio a saperlo, padre? Ma Het Masteen potrebbe essere qui intorno, in questo momento, e tenerci d'occhio in attesa di venire a reclamare il bagaglio. — Il poeta indica il cubo di Moebius, al centro della piccola catasta di zaini. — O potrebbe essere già morto. O peggio.

— Peggio? — dice Hoyt. Nelle ultime ore, il viso del prete è invecchiato. Gli occhi infossati sono specchi di sofferenza, il sorriso è un rictus.

Martin Sileno torna accanto al fuoco morente. — Peggio — dice. — Potrebbe essere lì a contorcersi sull'albero d'acciaio dello Shrike. Dove saremo anche noi fra qualche…

Brawne Lamia si alza di scatto e afferra per la camicia il poeta. Lo solleva da terra, lo scuote, lo abbassa fino a guardarlo negli occhi. — Prova a ripeterti — sussurra — e ti farò qualcosa di molto doloroso. Non ti ucciderò, ma rimpiangerai d'essere vivo.

Il poeta mostra il sorriso da satiro. Lamia lo lascia cadere e gli gira la schiena. Kassad dice: — Siamo tutti stanchi. Andate a letto. Resto io di guardia.


I miei sogni su Lamia sono mescolati con i sogni di Lamia. Non è spiacevole condividere i sogni di una donna, i pensieri di una donna, perfino di una donna separata da me da un abisso di tempo e di cultura molto più esteso di qualsiasi immaginabile baratro di sesso. In un modo bizzarro e speculare, lei ha sognato l'amante perduto, Johnny, il suo naso troppo piccolo e la mascella troppo decisa, i capelli troppo lunghi arricciati sopra il colletto e gli occhi… quegli occhi troppo espressivi, troppo rivelatori, che animavano troppo liberamente un viso che, occhi a parte, sarebbe potuto appartenere a uno qualsiasi di mille contadini nati nel raggio di un giorno di cavallo da Londra.

Il viso che sognò era il mio. La voce che udì in quel sogno era la mia. Ma l'atto amoroso che sognò… ricordandolo adesso… non era una cosa che avessi condiviso. Cercai di sfuggire al suo sogno, anche solo per trovare il mio. Se dovevo essere un voyeur, tanto valeva esserlo nel guazzabuglio di ricordi prefabbricati che passavano per sogni miei.

Ma a me non è concesso sognare sogni miei. Non ancora. Sospetto d'essere nato… e rinato dal letto di morte… solo per sognare i sogni del mio gemello morto e remoto.

Mi rassegnai, rinunciai a lottare per svegliarmi e sognai.


Brawne Lamia si sveglia di colpo, quando un rumore o un movimento la strappano a un sogno piacevole. Per un attimo rimane disorientata; c'è buio, c'è un rumore, non meccanico, più forte di molti rumori dell'Alveare di Lusus in cui vive; è ubriaca di stanchezza, ma capisce d'essersi svegliata da un sonno assai breve; è da sola, in uno spazio piccolo, limitato, una sorta di sacco a pelo troppo grosso.

Cresciuta su un mondo dove i luoghi chiusi significano protezione dall'aria cattiva, dal vento e dagli animali, dove molti soffrono di agorafobia quando si trovano ad affrontare i rari spazi aperti e pochi conoscono la claustrofobia, Brawne ha comunque la reazione di un claustrofobo: artiglia l'aria come se le mancasse il fiato, spinge via il sacco a pelo e il lembo della tenda nel disperato tentativo di sfuggire al piccolo bozzolo di fibroplastica, striscia, si trascina a forza di mani e di gomiti fino ad avere sabbia sotto le braccia e cielo in alto.

Non proprio il cielo, capisce, ricordando a un tratto dove si trova. Sabbia. Una tormenta di granelli che le pungono il viso come spilli. Il fuoco da campo è spento, coperto di sabbia. La sabbia si è ammucchiata sul lato sopravento di tutt'e tre le tende, il cui lembo sbatte e schiocca al vento con rumore di fucilate; nuove dune si sono formate intorno all'accampamento, hanno lasciato solchi e creste sottovento alle tende e ai bagagli. Nelle altre tende nessuno si muove. La tenda che lei divide con padre Hoyt è quasi crollata, quasi sepolta dalle dune crescenti.

Hoyt.

È stata l'assenza del prete, a svegliarla. Anche durante il sogno, Brawne si rendeva conto del lieve respiro e dei gemiti quasi impercettibili del prete addormentato e sofferente. A un certo punto, nell'ultima mezz'ora, il prete se n'è andato. Forse solo qualche minuto prima; pur sognando Johnny, Brawne Lamia ha sentito un fruscio sopra il raspare della sabbia e il ruggire del vento.

Lamia si alza e si scherma gli occhi. C'è buio fitto, le stelle sono nascoste dalle nuvole e dalla tempesta di sabbia, ma un fulgore quasi elettrico riempie l'aria e si riflette su rocce e dune. L'aria è piena d'elettricità statica che le fa rizzare i capelli e li muove come la chioma di Medusa. Le cariche di statica le strisciano lungo le maniche e si librano sopra le tende come fuochi di Sant'Elmo. Mentre la vista si adatta all'oscurità, Lamia capisce che le dune mobili brillano di fuoco livido. Quaranta metri a est, la tomba detta Sfinge è una sagoma che pulsa e crepita nella notte. Onde di corrente si muovono lungo le appendici spalancate spesso chiamate ali.

Brawne Lamia non vede segno di padre Hoyt e si domanda se non sia il caso di chiamare aiuto. Capisce che la voce non supererebbe il ruggito del vento. Per un istante si domanda se il prete non sia semplicemente andato in un'altra tenda o alla rozza latrina venti metri a ovest, ma qualcosa le dice che non è così. Guarda la Sfinge e, per un attimo, crede di scorgere la sagoma d'un uomo, mantello nero che pende come una bandiera afflosciata, spalle ingobbite per resistere al vento, messa in risalto dal bagliore delle statiche.

Una mano le tocca la spalla.

Brawne si sottrae di scatto, si rannicchia in posizione di combattimento, pugno sinistro teso, destra irrigidita. Riconosce Kassad, in piedi accanto a lei. Il colonnello è alto una volta e mezzo Brawne, largo la metà: fulmini in miniatura giocano sul suo fisico magro, mentre lui si china a gridarle all'orecchio: — È andato da quella parte! — Quella sorta di spaventapasseri nero tende il braccio in direzione della Sfinge.

Lamia annuisce e risponde gridando, ma nel ruggito del vento quasi non riesce a udire la propria voce: — Svegliamo gli altri? — Solo in quel momento ricorda che Kassad montava la guardia. Ma non dorme mai, quell'uomo?

Fedmahn Kassad scuote la testa. Ha alzato i visori e ha modificato la struttura del casco che ora forma un cappuccio sulla schiena della tuta blindata da combattimento. Sembra pallidissimo, sotto il bagliore emesso dalla tuta. Indica la Sfinge. Nell'incavo del braccio sinistro regge il fucile multiuso della FORCE. Granate, custodia col binocolo e altri oggetti misteriosi pendono da ganci e cinghie disseminati sulla tuta blindata. Kassad indica di nuovo la Sfinge.

Lamia si protende verso di lui e grida: — L'ha preso lo Shrike?

Kassad scuote la testa.

— Riesci a vederlo? — Lamia indica il visore notturno e il binocolo.

— No — risponde Kassad. — La tempesta. Rovina le tracce termiche.

Brawne Lamia gira la schiena al vento, sente i granelli di sabbia colpirle la nuca come proiettili di una pistola a fléchettes. Interroga il comlog, ma l'apparecchio le risponde solo che Hoyt è vivo e si muove; non ci sono altre trasmissioni sulla banda comune. Lamia si sposta fino a trovarsi a fianco di Kassad: la loro schiena forma un muro contro la tempesta. — Lo seguiamo? — grida.

Kassad fa un cenno di diniego. — Non possiamo lasciare incustodito il campo. Ho disposto alcuni rivelatori, ma… — Indica la tempesta.

Brawne Lamia torna nella tenda, s'infila gli stivali, indossa il mantello per tutte le stagioni, impugna l'automatica paterna ed esce. Nella tasca del mantello ha un'arma più convenzionale, uno storditore Gier. — Allora vado io — dice.

Sulle prime pensa che il colonnello non abbia udito, ma poi scorge l'espressione degli occhi slavati e capisce che Kassad ha sentito. Il colonnello batte un colpetto sul comlog militare che porta al polso.

Lamia annuisce e si assicura che il proprio impianto comlog sia regolato sulla banda più ampia possibile. — Tornerò — dice e si avvia a risalire la duna. Le gambe dei calzoni brillano per le scariche statiche e la sabbia sembra viva per gli argentei impulsi di corrente che guizzano sulla superficie variegata.

Percorsi venti metri, Lamia non vede più l'accampamento. Dopo altri dieci metri, si trova davanti alla Sfinge. Non c'è segno di padre Hoyt. Nella tempesta le impronte di passi non durano dieci secondi.

L'ampio ingresso alla Stinge è aperto, come sempre da quando l'umanità ha scoperto l'esistenza delle Tombe. Ora appare come un rettangolo nero in una parete debolmente luminosa. La logica suggerisce che Hoyt sia entrato, se non altro per togliersi dalla tempesta; ma un'intuizione al di là della logica dice a Brawne Lamia che la meta del prete non è quella.

La donna oltrepassa la Sfinge, per qualche istante si tiene al riparo dell'edificio per togliersi dal viso la sabbia e respirare liberamente, poi riprende ad avanzare seguendo un sentiero di terra battuta appena visibile fra le dune. Più avanti, la Tomba di Giada risplende di un verde latteo nella notte: le morbide curve e gli spigoli sono unti di lucore sinistro.

Lamia aguzza lo sguardo e vede, per un fuggevole istante, qualcuno o qualcosa stagliarsi contro il bagliore. La figura svanisce subito: o è entrata, o è invisibile contro il semicerchio nero dell'ingresso.

Lamia china la testa e avanza, sotto la pressione del vento che pare spingerla di fretta verso qualcosa di grande importanza.

4

La riunione informativa militare proseguì, monotona, fin verso metà mattino. Sospetto che da parecchi secoli simili riunioni abbiano sempre le stesse caratteristiche: discorsi vivaci e monotoni come un ronzio di fondo, gusto stantio di troppo caffè, cappa di fumo, pile di bozze, vertigine corticale per sovrapposizione di dati. Ho l'impressione che fosse più semplice, quand'ero ragazzo: Wellington radunava i propri uomini (quelli che con accuratezza spassionata definì "i rifiuti della società"), non dava spiegazioni e li mandava a morire.

Riportai l'attenzione sul gruppo. Ci trovavamo in una sala spaziosa: pareti grigie alleggerite da rettangoli bianchi di luce, tappeto grigio, tavolo color bronzo, a ferro di cavallo, con diskey neri e qua e là una brocca d'acqua. Il Primo Funzionario Esecutivo Meina Gladstone sedeva all'apice della curva del tavolo e aveva ai lati i senatori di maggiore importanza e i ministri di gabinetto, e poi ufficiali militari e funzionari di livello inferiore. Alle spalle di tutti quelli seduti al tavolo c'era l'inevitabile grappolo d'aiutanti di campo (nel caso dei militari, come minimo del grado di colonnello) e dietro costoro, su poltrone dall'aria meno comoda, gli aiutanti degli aiutanti.

Io non avevo poltrona. Con un gruppo di altri invitati chiaramente inutili, sedevo su uno sgabello nell'angolo in fondo alla sala, a venti metri dal PFE e anche più lontano dall'ufficiale relatore, un giovane colonnello che impugnava una bacchetta e non aveva la minima esitazione nel tono di voce. Dietro il colonnello c'era la piastra grigia e oro di una lavagna di richiamo della memoria del computer; davanti a lui, l'onnisfera leggermente rialzata del tipo che si trova nelle piazzuole di proiezione. Di tanto in tanto la lavagna di richiamo si scuriva e si attivava; in altre occasioni, complesse olografie si formavano a mezz'aria. Miniature di questi diagrammi brillavano su ogni piastra diskey e si libravano sopra alcuni comlog.

Sedevo sullo sgabello, osservavo Gladstone e di tanto in tanto disegnavo uno schizzo.


Quel mattino, quando mi ero svegliato nella stanza per gli ospiti della Casa del Governo, mentre la vivida luce del sole Tau Ceti filtrava dalle tende color pesca che si erano aperte automaticamente al momento della sveglia fissata per le 6,30, per un istante mi ero sentito perduto, fuori posto, ancora all'inseguimento di Lenar Hoyt e con la paura dello Shrike e di Het Masteen. Poi, come se un potere sconosciuto avesse esaudito il mio desiderio di sognare i miei sogni, c'era stato un minuto di confusione, in cui mi ero alzato a sedere ansimando, allarmato, aspettandomi che il tappeto color limone e la luce color pesca svanissero come il sogno febbricitante che erano, lasciando solo il dolore e il catarro e le terribili emorragie, sangue sulle lenzuola, la stanza piena di luce che si dissolveva nelle ombre dell'appartamento buio in Piazza di Spagna, mentre su tutto incombeva il viso sensibile di Joseph Severn che si chinava, si sporgeva, osservava e aspettava che morissi.

Feci due docce, la prima d'acqua e la seconda di ultrasuoni, indossai un abito grigio, nuovo, che trovai sul letto appena rifatto quando uscii dallo stanzino da bagno, e mi avviai a trovare la corte orientale dove, come diceva l'appunto gentilmente lasciato accanto all'abito nuovo, avrebbero servito la prima colazione.

Il succo d'arancia era appena spremuto. Il bacon era croccante e autentico. Il giornale diceva che il PFE Gladstone avrebbe rivolto un discorso alla Rete, tramite la Totalità e i media, alle 10,30 standard. Le pagine erano piene di notizie di guerra. Fotografie bidimensionali della flotta splendevano a tutto colore. Da pagina tre il generale Morpurgo fissava, truce, i lettori; il giornale lo definiva "l'eroe della seconda rivolta Height". Da un tavolo vicino, dove faceva colazione insieme con quel Neanderthal di marito, Diana Philomel mi rivolse un'occhiata. Ora indossava un abito più formale, blu scuro, che rivelava molto meno, anche se lo spacco lungo il fianco permetteva una breve visione dello spettacolo della notte precedente. Continuò a tenere gli occhi puntati su di me, mentre con unghie smaltate prendeva una fetta di bacon e dava un morso prudente. Hermund Philomel emise un brontolio, leggendo qualcosa di piacevole nelle pagine finanziarie.


— Il grappolo di migrazione Ouster, comunemente definito Sciame, è stato scoperto, poco più di tre anni standard fa, da un congegno per la rilevazione di distorsioni Hawking — diceva in quel momento il giovane colonnello. — Subito dopo la scoperta, l'Unità Operativa 42 della FORCE, predisposta per l'evacuazione del sistema di Hyperion, ha lasciato, in stato C-più, il sistema solare di Parvati, con l'ordine sigillato di creare un teleporter nel raggio d'utilizzo di Hyperion. Nello stesso tempo, l'Unità Operativa 87.2 è partita dalla zona di sosta Solkov-Tikata, intorno a Camn III, con l'ordine di unirsi all'unità di evacuazione nel sistema di Hyperion, di trovare il grappolo di migrazione Ouster e di attaccare e distruggere la componente militare… — Immagini della flotta comparvero sulla lavagna di richiamo e di fronte al giovane colonnello. L'ufficiale mosse la bacchetta e una linea di luce color rubino tagliò l'ologramma più grande per illuminare una delle navi Tre-C in formazione. — L'Unità Operativa 87.2 è sotto il comando dell'ammiraglio Nashita a bordo della AE Ebridi…

— Sì, sì — brontolò Morpurgo. — Lo sappiamo tutti, Yani. Vieni al sodo.

Il giovane colonnello simulò un sorriso, annuì impercettibilmente verso il generale e Gladstone, e ricominciò, in tono un briciolo meno fiducioso. — Messaggi in codice dell'UO 42, nel corso delle ultime 72 ore standard, segnalano scontri fra vedette della flotta di evacuazione ed elementi avanzati del grappolo di migrazione Ouster…

— Lo Sciame — lo interruppe Leigh Hunt.

— Sì — disse Yani. Si rivolse alla lavagna di richiamo e cinque metri di vetro smerigliato brillarono di vita. Per me il quadro era un labirinto incomprensibile di simboli arcani, vettori colorati, codici secondari e acronimi della FORCE che aumentavano il guazzabuglio generale. Forse non aveva significato neppure per i pezzi grossi militari e politici presenti in sala, ma nessuno vi accennò. Iniziai un nuovo disegno della Gladstone sullo sfondo del profilo da bulldog di Morpurgo.

— Anche se i primi rapporti indicavano nelle vicinanze scie di quattromila motori Hawking, questa cifra induce in errore — continuò il colonello Yani. — Come sapete, gli… ah… Sciami Ouster possono comprendere fino a diecimila unità motrici diverse, ma la parte maggiore consiste in veicoli piccoli e disarmati o di scarsa importanza militare. La valutazione delle tracce microonda, astrotel e altre fonti d'emissioni suggerisce…

— Mi scusi — disse Meina Gladstone, con voce rauca che faceva stridente contrasto col flusso sciropposo dell'ufficiale relatore. — Può dirci quante navi Ouster hanno reale importanza militare?

— Ah… — disse il colonnello, con un'occhiata ai superiori.

Il generale Morpurgo si schiarì la voce. — Riteniamo circa seicento… settecento al massimo — disse. — Niente di cui preoccuparsi.

Gladstone inarcò il sopracciglio. — E la grandezza dei nostri gruppi da combattimento?

— L'Unità Operativa 42 conta circa sessanta navi, signora. L'Unità Operativa…

— La 42 è il gruppo d'evacuazione?

Il generale Morpurgo annuì; mi parve di scorgere nel suo sorriso una traccia di condiscendenza. — Sì, signora — rispose. — L'Unità Operativa 87.2 è il gruppo d'intervento che un'ora fa si è teleportato nel sistema…

— Sessanta navi sono in grado d'affrontarne seicento o settecento? — domandò Gladstone.

Morpurgo lanciò un'occhiata ai colleghi, quasi a chiedere che portassero pazienza. — Sì — rispose. — Più che in grado. Seicento motori Hawking possono sembrare un bel mucchio, signora, ma non destano preoccupazioni, se spingono mononavi, o vedette, o le piccole cinque posti che loro chiamano lancer. L'Unità Operativa 42 comprende circa venticinque spin-navi principali, inclusi i trasporti truppe Ombra di Olympus e Stazione Nettuno. Ciascuno di questi ultimi può lanciare più di cento astrocaccia o ALR. — Morpurgo si frugò in tasca, estrasse un bastoncino di tabacco ricombinante grosso quanto un sigaro, parve ricordare che Gladstone disapprovava il fumo, lo ripose nella giubba. Si accigliò. — Quando l'Unità Operativa 87.2 completa lo spiegamento, avremo potenza di fuoco sufficiente per affrontare una decina di Sciami. — Sempre accigliato, rivolse a Yani il cenno di continuare.

Il colonnello si schiarì la voce e con la bacchetta indicò la lavagna di richiamo. — Come vedete, l'UO 42 non ha avuto difficoltà a ripulire il volume di spazio necessario a iniziare la costruzione di un teleporter. L'attività ha avuto inizio sei settimane fa, tempo standard della Rete, e si è conclusa ieri alle 16,24. Le prime scaramucce con gli Ouster si sono risolte senza perdite per l'UO 42 e nelle ultime 48 ore una battaglia importante ha avuto luogo fra unità avanzate dell'UO e il grosso degli Ouster. Il punto focale dell'azione di guerra era in questa zona… — Yani mosse di nuovo la bacchetta e una sezione della lavagna pulsò di luce azzurra — ovvero 29 gradi sopra il piano dell'eclittica, trenta unità astronomiche dal sole di Hyperion, circa 0,35 UA dal bordo ipotetico della nube del sistema di Oört.

— Perdite? — disse Leigh Hunt.

— Entro limiti del tutto accettabili, per uno scontro di questa durata — rispose il giovane colonnello, che aveva l'aria di chi non si è mai trovato a meno di un anno luce dal fuoco nemico. Aveva capelli biondi, pettinati accuratamente di lato, e pelle lustra sotto l'intenso bagliore dei faretti. — Ventisei caccia rapidi dell'Egemonia distrutti o dispersi, dodici ALR porta-torpedini, tre navi-torcia, il trasporto carburante Orgoglio di Asquith e l'incrociatore Draconis III.

— Quante perdite umane? - domandò Gladstone. La voce era molto bassa.

Yani rivolse a Morpurgo una rapida occhiata ma rispose senza attendere l'autorizzazione. — Circa duemilatrecento — disse. — Ma sono in corso operazioni di recupero e ci sono speranze di trovare i superstiti della Draconis III. - Si lisciò la giubba e continuò in fretta.

— Questa cifra va confrontata con la distruzione di almeno centocinquanta navi da guerra Ouster. Le nostre incursioni nel loro grappolo… nel loro Sciame hanno prodotto un'ulteriore distruzione di un numero di imbarcazioni compreso fra trenta e sessanta, incluse fattorie cometa, navi per la lavorazione dei minerali e almeno un grappolo comando.

Meina Gladstone si strofinò le dite nodose. — La stima delle perdite, delle nostre perdite, comprende i passeggeri e l'equipaggio della nave-albero Yggdrasill, da noi noleggiata per l'evacuazione?

— No, signora — rispose vivacemente Yani. — Secondo la nostra analisi, anche se a quel tempo era in atto un'incursione Ouster, la Yggdrasill non fu distrutta dal nemico.

Gladstone inarcò il sopracciglio. — E da chi, allora?

— Sabotaggio, per quanto ne sappiamo — rispose il colonnello. Chiamò sulla lavagna un altro diagramma del sistema di Hyperion.

Il generale Morpurgo diede un'occhiata al proprio comlog e disse:

— Va bene, Yani, salta alle difese a terra. Fra trenta minuti il PFE deve tenere il discorso.

Completai lo schizzo di Gladstone e di Morpurgo, mi stiracchiai, mi guardai intorno alla ricerca di un altro soggetto. Leigh Hunt sembrava una sfida, con quei lineamenti indefinibili, quasi emaciati. Quando tornai a sollevare lo sguardo, l'ologramma del globo di Hyperion aveva smesso di girare su se stesso ed era diventato una serie di proiezioni bidimensionali: equirettangolare obliqua, di Bonne, ortografica, a rosetta, di Van der Grinten, di Gores, ad angoli omologici interrotti di Goode, gnomonica, sinusoidale, equidistante azimutale, policonica, ipercorretta Kuwatsi, computer-escherata, di Brisemeister, di Buckminster, cilindrica Miller, multicoligrafica e standard da satellite, prima di risolversi in una mappa standard Robinson-Baird.

Sorrisi. Era stata la cosa più gradevole che avessi visto dall'inizio della riunione informativa. Alcuni funzionari di Gladstone si agitavano con impazienza. Volevano almeno dieci minuti con il PFE, prima dell'inizio della trasmissione.

— Come sapete — attaccò il colonnello — Hyperion ha un indice di somiglianza con la Vecchia Terra pari al 9,89 della scala Thuron-Laumier delle…

— Oh, perdio — brontolò Morpurgo — passa alla disposizione delle truppe e concludi.

— Sissignore. — Yani deglutì e sollevò la bacchetta. La voce era un po' meno fiduciosa. — Come sapete… voglio dire… — Indicò il continente settentrionale che galleggiava come uno schizzo malamente eseguito della testa e del collo d'un cavallo e terminava in una linea frastagliata dove sarebbero dovuti iniziare i muscoli del petto e della schiena dell'animale. — Questo è Equus. Ha un nome ufficiale diverso, ma tutti lo chiamano così, da quando… questo è Equus. La catena di isole che corre verso sudest… qui e qui… si chiama il Gatto e le Nove Code. In realtà è un arcipelago che comprende più di cento… comunque, il secondo continente in ordine di grandezza si chiama Aquila e forse riconoscerete che assomiglia come forma all'aquila della Vecchia Terra, con il becco qui, sulla costa di nordovest, e gli artigli protesi qui, verso sudovest, e un'ala sollevata in questo punto, fino alla costa di nordest. Questa sezione si chiama pianoro Punta d'Ala ed è quasi inaccessibile a causa delle foreste di fuoco, ma qui e qui, a sudovest, ci sono le principali piantagioni di fibroplastica…

— La disposizione delle truppe! — ringhiò Morpurgo.

Disegnai Yani. Scoprii che è impossibile riprodurre a carboncino il velo di sudore della pelle.

— Sissignore. Il terzo continente è Ursa, ha grosso modo la forma di un orso, ma lì non sono atterrate truppe della FORCE, perché si trova intorno al polo sud ed è quasi inabitabile, anche se la Forza di Autodifesa di Hyperion vi mantiene un posto d'ascolto… — Yani parve rendersi conto di parlare in modo confuso. Drizzò le spalle, con il dorso della mano si asciugò il labbro e continuò in tono più composto. — Le installazioni primarie della FORCE:terra si trovano qui, e qui, e qui. — La bacchetta illuminò zone in vicinanza della capitale Keats, in alto sul collo di Equus. — Unità della FORCE:spazio hanno fortificato lo spazioporto principale intorno a Keats e anche campi secondari, qui e qui. — Toccò le città di Endymion e di Port Romance, tutt'e due sul continente chiamato Aquila. — Unità della FORCE:terra hanno approntato installazioni di difesa in questo punto… — Venticinque luci rosse si accesero; per la maggior parte, nella zona del collo e della criniera di Equus, ma parecchie anche nel Becco d'Aquila e nelle vicinanze di Port Romance. — Queste unità comprendono reparti di marines, oltre alle difese terrestri e a componenti terra-aria e terra-spazio. L'Alto Comando si aspetta che, a differenza di Bressia, non ci saranno battaglie sul pianeta; ma se gli Ouster dovessero tentare un'invasione, saremo pronti a riceverli.

Meina Gladstone controllò il comlog. Mancavano diciassette minuti alla trasmissione dal vivo. — E i piani di evacuazione?

La compostezza di Yani si sbriciolò. Con una certa disperazione, il colonnello lanciò un'occhiata ai superiori.

— Niente evacuazione — disse l'ammiraglio Singh. — Era una finta, un'esca per gli Ouster.

Gladstone batté la punta delle dita. — Su Hyperion ci sono alcuni milioni di persone, ammiraglio.

— Sì — disse Singh — e li proteggeremo; ma l'evacuazione, anche solo dei sessantamila cittadini dell'Egemonia, è impensabile. Sarebbe il caos, se permettessimo l'ingresso nella Rete ai tre milioni di abitanti di Hyperion. Inoltre, per ragioni di sicurezza, è impossibile.

— Lo Shrike? — domandò Leigh Hunt.

— Ragioni di sicurezza — ripeté il generale Morpurgo. Si alzò, tolse a Yani la bacchetta. Il giovanotto rimase lì fermo per un istante, indeciso, non vedendo posto dove sedersi o stare in piedi; poi si spostò in fondo al salone, accanto a me, assunse la posizione di riposo e fissò un punto nelle vicinanze del soffitto… forse la fine della sua carriera militare.

— L'Unità Operativa 87.2 si trova nel sistema solare di Hyperion — disse Morpurgo. — Gli Ouster si sono ritirati intorno al centro dello Sciame, a circa sessanta UA dal pianeta. Sotto tutti i punti di vista, il sistema è sicuro. Hyperion è sicuro. Attendiamo un contrattacco, ma sappiamo di poterlo respingere. Di nuovo, sotto tutti i punti di vista, Hyperion adesso fa parte della Rete. Domande?

Non ce ne furono. Gladstone uscì, con Leigh Hunt, un gruppo di senatori e i suoi aiutanti personali. I pezzi grossi militari formarono capannelli, a seconda del grado, si sarebbe detto. Gli aiutanti si sparpagliarono. I pochi giornalisti presenti corsero dai propri tecnici d'olocamera in attesa all'esterno. Il giovane colonnello Yani rimase in posizione di riposo, sguardo perso nel vuoto, viso pallidissimo.

Mi trattenni un momento a osservare la mappa di Hyperion. Dalla mia posizione, la rassomiglianza del continente Equus con una testa di cavallo era maggiore: distinguevo appena le montagne che formano la Briglia e il grande deserto giallastro al di sotto dell'"occhio". A nordest delle montagne non c'era segno di postazioni difensive della FORCE: nessun simbolo, a parte un minuscolo puntino rosso che forse indicava le rovine della Città dei Poeti. Le Tombe del Tempo non erano segnate affatto. Come se le Tombe non avessero importanza militare, non giocassero alcuna parte negli atti del giorno. Ma io sapevo come stavano le cose. Sospettavo che la guerra intera, il movimento di migliaia d'individui, la sorte di milioni, forse miliardi, dipendeva dalle azioni di sei persone che si trovavano in quella distesa gialla e arancione, priva di contrassegni.

Chiusi l'album degli schizzi, misi in tasca le matite, cercai l'uscita, la trovai e ne approfittai.


Leigh Hunt mi venne incontro, in uno dei lunghi corridoi che portavano all'ingresso principale. — Se ne va? — disse.

Sospirai. — Non mi è permesso?

Hunt sorrise, se sorriso si può chiamare quel modo di piegare verso l'alto le labbra sottili. — Sì, certo, signor Severn. Ma il Primo Funzionario Gladstone vorrebbe parlarle ancora, oggi pomeriggio.

— A che ora?

Hunt alzò le spalle. — Una qualsiasi, dopo il discorso. Scelga pure quella che le fa più comodo.

Annuii. Milioni di maneggioni politici, di gente in cerca di lavoro, di sedicenti biografi, di uomini d'affari, di sostenitori del PFE e di assassini potenziali avrebbero dato qualsiasi cosa, per disporre di un minuto in compagnia della leader più in vista dell'Egemonia, di pochi secondi con il PFE Gladstone, e io potevo "scegliere l'ora che mi faceva più comodo". L'universo è proprio pazzo.

Passai davanti a Leigh Hunt e mi diressi all'ingresso principale.


Per lunga tradizione, la Casa del Governo non ha teleporter pubblici nel proprio comprensorio. Dopo una breve camminata al di là degli schermi di sicurezza dell'ingresso principale e attraverso il giardino, arrivai al basso fabbricato bianco che serviva da sala stampa e da terminex. I robocronisti erano raggruppati intorno alla piazzuola di visione centrale, dove il viso e la voce ben noti di Lewellyn Drake, "la voce della Totalità", davano informazioni sul discorso del PFE Gladstone, "di vitale importanza per l'Egemonia". Rivolsi a Drake un cenno di saluto, trovai un portale libero, usai la carta universale e andai a cercare un bar.


Il Grand Concourse era, una volta raggiunto, l'unico luogo della Rete dove si potesse usare gratis il teleporter. Ogni mondo della Rete ha offerto almeno uno dei propri isolati urbani più eleganti (TC2 ne aveva forniti ventitré) per shopping, divertimenti, ristoranti raffinati e bar. Soprattutto bar.

Come il fiume Teti, il Grand Concourse scorreva fra portali di formato militare, alti duecento metri. A forma di fascia richiusa su se stessa, faceva l'effetto di un corso cittadino infinito, un toroide lungo cento chilometri di delizie mondane. Si poteva stare, come facevo io quella mattina, sotto il vivido sole di Tau Ceti e guardare giù lungo il Concourse nella notte di Deneb Drei, viva di luci al neon e di ologrammi, e dare un'occhiata al Mall di Lusus, con i suoi cento livelli, sapendo che più in là c'erano le boutique ombrose di Bosco Divino con il suo viale di mattoni e l'ascensore per raggiungere il Treetops, il più costoso ristorante della Rete.

Me ne fregavo, di tutto questo. Volevo solo trovare un bar tranquillo.

I bar di TC2 erano troppo pieni di burocrati, robocron e gente d'affari; perciò presi una navetta del Concourse e sbarcai nella draga principale di Sol Draconis Septem. La gravità scoraggiava molti — scoraggiava perfino me! — ma significava che i bar erano meno affollati e che gli avventori avevano solo voglia di bere.

Scelsi un locale a pianoterra, quasi nascosto sotto le colonne di sostegno e gli scivoli di servizio che portavano al pergolato principale per le compere, con l'interno scuro: pareti scure, legno scuro, avventori scuri… pelle nera quanto è chiara la mia. Era un buon bar per bere in pace: iniziai con un doppio scotch, ma più andavo avanti, più ci davo dentro.

Perfino lì non mi ero liberato di Gladstone. In fondo alla sala, una TV bidimensionale mostrava il viso della donna contro lo sfondo azzurro e oro usato per le trasmissioni ufficiali. Alcuni avventori si erano riuniti a guardare. Mi giunsero brandelli del discorso: «…per garantire la sicurezza dei cittadini dell'Egemonia e… non si può mettere a repentaglio la sicurezza della Rete e dei nostri alleati in… così ho autorizzato una piena risposta militare al…»

— Abbassate quel maledetto affare! — Fui sorpreso nel riconoscere, in quel grido, la mia stessa voce. Gli avventori girarono la testa e mi lanciarono occhiate di fuoco, ma abbassarono l'audio. Per un istante guardai Gladstone muovere le labbra, poi mi trascinai verso il barista per farmi dare un altro doppio.

Più tardi, forse erano passate ore intere, alzai lo sguardo dal bicchiere e mi accorsi che qualcuno sedeva di fronte a me, nel séparé in penombra. Battei le palpebre e impiegai un secondo per riconoscere l'intruso, nella luce fioca. Per un attimo sentii il cuore accelerare i battiti, mentre pensavo: "Fanny"; poi battei di nuovo le palpebre e dissi: — Lady Philomel.

Indossava ancora l'abito blu scuro che le avevo visto durante la prima colazione. Il viso e le spalle parvero brillare, nella penombra. — Signor Severn — disse lei, con voce che era quasi un sussurro. — Sono venuta perché mantenga la promessa.

— Promessa? — Con un cenno chiamai il barista, che non rispose. Mi accigliai e guardai Diana Philomel. — Quale promessa?

— Di farmi il ritratto, ovviamente. Ha dimenticato di averlo promesso, al party?

Schioccai le dita, ma l'insolente barista ancora non si degnò di guardare dalla mia parte. — Le ho già fatto il ritratto — risposi.

— Sì — disse lei. — Ma non tutto il ritratto.

Con un sospiro prosciugai le ultime gocce di scotch. — Bevo — dissi.

Lady Philomel sorrise. — Vedo.

Mi mossi per alzarmi e andare dal barista, ci ripensai, tornai lentamente a sedermi sul legno stagionato della panca. — Armageddon — dissi. — Giocano con l'Armageddon. — Guardai attentamente la donna, socchiudendo un poco gli occhi per metterla a fuoco. — Conosce questa parola, signora?

— Non credo che il barista le servirà altri alcolici — disse lei. — Ne ho, a casa. Potrà bere, mentre disegna.

Socchiusi di nuovo gli occhi, stavolta con aria astuta. Forse avevo bevuto qualche scotch di troppo, ma non avevo perso completamente la lucidità. — Marito — obiettai.

Diana Philomel sorrise di nuovo, e anche questo sorriso era radioso. — Trascorre alcuni giorni nella Casa del Governo — disse, ora davvero in un sussurro. — Non riesce a stare lontano dalla fonte del potere, in tempi così importanti. Su, andiamo, il mio VEM è qui a due passi.

Non ricordo di avere pagato, ma immagino di averlo fatto. Oppure fu lady Philomel a provvedere. Non ricordo che mi abbia aiutato a uscire, ma presumo che qualcuno l'abbia fatto. Forse il suo chauffeur. Ricordo un uomo in veste e calzoni grigi, ricordo di essermi appoggiato a lui.

Il VEM aveva il tetto a bolla, polarizzato dall'esterno ma trasparente da dove sedevamo sprofondati nei cuscini e guardavamo fuori. Contai un portale, due, e poi fummo fuori del Concourse e salimmo sopra campi azzurri sotto un cielo giallo. Case riccamente ornate, di un legno color ebano, sorgevano sulla cima di alture circondate da campi color papavero e da laghi color bronzo. Vettore Rinascimento? Era un enigma di difficile soluzione, al momento; appoggiai la testa alla bolla di perspex e decisi di riposarmi per un paio di minuti. Dovevo essere riposato, per fare il ritratto di lady Philomel… eh, eh!

In basso, la campagna scorreva.

5

Il colonnello Fedmahn Kassad segue Brawne Lamia e padre Hoyt nella tempesta di sabbia, verso la Tomba di Giada. Ha mentito a Lamia: il visore notturno e i sensori funzionano bene, nonostante le scariche elettriche che guizzano tutt'intorno. Seguire i due gli è parsa l'opportunità migliore per trovare lo Shrike. Kassad ha ricordato come si dà la caccia al leone delle rocce su Hebron… si lega una capra e si aspetta.

Dati provenienti dai rivelatori disposti intorno all'accampamento lampeggiano sul display tattico di Kassad e bisbigliano attraverso l'impianto. È un rischio calcolato, lasciare Weintraub e sua figlia, Martin Sileno e il Console, addormentati nel campo, senza protezione a parte le armi automatiche e un segnale d'allarme. Ma, tanto, Kassad non è affatto convinto di poter fermare lo Shrike, in caso di necessità. I sei pellegrini sono tutti capre impastoiate in attesa. Prima di morire, Kassad è deciso a trovare la donna, il fantasma di nome Moneta.

Il vento ha continuato a riforzarsi e ora ruggisce intorno a Kassad, riduce a zero la visibilità normale e tempesta la tuta blindata. Le dune brillano di scariche, fulmini in miniatura scoppiettano intorno agli stivali e alle gambe di Kassad, mentre il colonnello avanza deciso per non perdere di vista la traccia termica di Lamia. Riceve il flusso di dati proveniente dal comlog aperto della donna. I canali chiusi di Hoyt rivelano solo che il prete è vivo e che si muove.

Kassad passa sotto l'ala tesa della Sfinge, la sente incombergli addosso come un enorme tacco di stivale. Poi si dirige nella valle, dove la Tomba di Giada compare come assenza di calore nell'infrarosso, un freddo contorno. In quel momento Hoyt varca l'apertura semisferica; Lamia è indietro di venti metri. Niente altro si muove, nella valle. I rivelatori intorno al campo, nascosti dalla notte e dalla tempesta, dicono che Sol e la piccina dormono, che il Console è sveglio ma non si muove, che non c'è nessuno, all'interno del perimetro.

Kassad toglie la sicura al fucile e avanza a grandi passi. In quel momento darebbe qualsiasi cosa per avere accesso a un satellite di ricognizione, per la completezza dei canali tattici, anziché accontentarsi del quadro parziale di una situazione frammentaria. Dentro la tuta blindata, scrolla le spalle e continua ad avanzare.


Brawne Lamia quasi non porta a termine gli ultimi quindici metri del viaggio alla Tomba di Giada. Il vento è salito a raffiche di burrasca e la spinge, tanto da farle perdere l'equilibrio due volte e mandarla lunga distesa sulla sabbia. I fulmini ora sono reali, lacerano il cielo con grandi scoppi luminosi che illuminano la tomba lucente più avanti. Due volte lei cerca di chiamare Hoyt, Kassad, o gli altri, convinta che al campo nessuno possa dormire con quel frastuono, ma il comlog e gli impianti le danno solo statiche, le bande registrano solo farfugliamenti. Dopo la seconda caduta, Lamia si alza in ginocchio e guarda avanti; non c'è stato segno di Hoyt, dopo la fuggevole visione di qualcuno che si muoveva verso l'ingresso.

Lamia stringe la rivoltella automatica e si tira in piedi; si lascia spingere dal vento per gli ultimi metri. Si sofferma davanti alla semisfera d'ingresso.

Che sia dovuto alla tempesta e alle scariche elettriche oppure ad altro, la Tomba di Giada brilla di un vivido verde bilioso che colora le dune e illividisce i polsi e le mani della donna, facendoli sembrare resti appena usciti dalla fossa. Lamia fa un ultimo tentativo di evocare qualcuno nel comlog, poi entra nella tomba.


Padre Lenar Hoyt, della Compagnia di Gesù antica di milleduecento anni, residente a Nuovo Vaticano su Pacem e servo leale di Sua Santità Papa Urbano XVI, in quel momento urla frasi oscene.

Hoyt è perduto e soffre disperatamente. Le ampie stanze vicino all'entrata della Tomba di Giada si sono ristrette, il corridoio ha fatto tante di quelle svolte che ora padre Hoyt non trova più la strada in una serie di catacombe, vaga fra pareti che risplendono di luce verdastra, in un labirinto che non ricorda d'avere visto durante l'esplorazione del giorno precedente né rilevato sulle mappe lasciate al campo. Il dolore — dolore che è stato con lui da anni, dolore che l'ha accompagnato da quando la tribù dei Bikura gli impiantò i due crucimorfi, il suo e quello di Paul Duré — ora minaccia di farlo impazzire, con la sua rinnovata intensità.

Il corridoio si stringe di nuovo. Lenar Hoyt urla, non si rende più conto di urlare, né delle parole che grida… parole che non ha più adoperato da quando era bambino. Vuole liberazione. Liberazione dal dolore. Liberazione dal fardello di portare il DNA di padre Duré, la personalità… l'anima!… di Duré, nel parassita a forma di croce che ha sulla schiena. E dalla terribile sciagura della propria risurrezione nel crucimorfo che ha sul petto.

E mentre urla, Hoyt capisce che non sono stati i Bikura ormai estinti a condannarlo a una simile sofferenza: i coloni che formavano quella tribù perduta, risuscitati dal proprio crucimorfo tante di quelle volte da essere divenuti idioti, semplice veicolo del proprio DNA e di quello del parassita, erano stati anche sacerdoti… sacerdoti dello Shrike.

Padre Hoyt della Compagnia di Gesù ha portato con sé una fiala d'acqua santa benedetta da Sua Santità, un'Ostia consacrata durante una Messa solenne e una copia dell'antico rito d'esorcismo della Chiesa. Tutte cose adesso dimenticate, chiuse in una bolla di perspex, tenute in una tasca del mantello.

Hoyt barcolla contro la parete e urla di nuovo. Ora la sofferenza è una forza che sfida ogni descrizione, che non reagisce all'effetto della fiala d'ultramorfina che Hoyt si è iniettato solo quindici minuti prima. Il prete urla e si artiglia le vesti, si strappa il pesante mantello, la tonaca nera e il solino rigido, i calzoni e la camicia e la biancheria, finché non rimane tutto nudo a rabbrividire di dolore e di freddo nei corridoi lucenti della Tomba di Giada e a urlare oscenità nella notte.

Avanza di nuovo barcollando, trova un'apertura, passa in una sala più ampia di quanto non ricordi dalle precedenti esplorazioni. Pareti spoglie e trasparenti si alzano per trenta metri su ogni lato dello spazio vuoto. Hoyt cade sulle mani e sulle ginocchia, guarda in basso e si rende conto che il pavimento è divenuto quasi trasparente. Adesso la sottile membrana del pavimento lo separa da un pozzo verticale che sprofonda per un chilometro o più nelle fiamme. La stanza si riempie della luce rossastra e pulsante che proviene dal fuoco sul fondo lontanissimo del pozzo.

Hoyt si rotola sul fianco e ride. Se questa vuole essere un'immagine dell'inferno evocata a suo uso e consumo, è un fiasco. Hoyt vede l'inferno come qualcosa di tattile: il dolore che si muove in lui come fili frastagliati tirati lungo le vene e i visceri. Inferno è anche il ricordo di bambini affamati nei quartieri poveri di Armaghast e il sorriso dei politici che mandano ragazzi a morire nelle guerre coloniali. Inferno è il pensiero che, durante la sua vita, durante la vita di Duré, la Chiesa si estingue e gli ultimi credenti sono una manciata di vecchi e di vecchie che riempiono solo alcuni banchi delle gigantesche cattedrali su Pacem. Inferno è l'ipocrisia di celebrare la messa del mattino, con il male del crucimorfo che pulsa, caldo, osceno, sopra il suo cuore.

C'è una folata d'aria rovente; una sezione del pavimento scivola via, forma una botola. La stanza si riempie di puzza di zolfo. Hoyt ride, a questo cliché, ma subito la risata si muta in pianto. Ora Hoyt è in ginocchio, con le unghie sanguinanti si gratta i crucimorfi che porta sul petto e sulla schiena. I due gonfiori a forma di croce sembrano brillare nella luce rossastra. Hoyt sente il crepitio della fiamme, in basso.

— Hoyt!

Continuando a piangere, Hoyt si gira: la donna, Lamia, si staglia nel vano d'ingresso. Guarda al di là del prete e alza una rivoltella antica. Ha gli occhi spalancati.

Padre Hoyt sente il calore alle spalle, ode il ruggito d'una fornace lontana, ma su tutto avverte a un tratto il raspare del metallo sulla pietra. Passi. Continuando ad artigliare il gonfiore insanguinato sul petto, Hoyt si gira, si scortica le ginocchia contro il pavimento.

Vede prima l'ombra: dieci metri d'angoli vivi, di spine, di lame… gambe simili a tubature d'acciaio con una rosetta di lame da scimitarra alle ginocchia e alle caviglie. Poi, fra le pulsazioni di luce ardente e d'ombra buia, Hoyt vede gli occhi. Centinaia, migliaia di sfaccettature ardenti di luce rossa, un laser che brilla fra due rubini gemelli, sopra il collare di spine d'acciaio e il torace argento vivo che riflette fiamma e ombra…

Brawne Lamia spara con la rivoltella paterna. Lo schiocco dei colpi echeggia, forte e secco, sopra il rombo della fornace.

Padre Lenar Hoyt si gira di scatto verso di lei, alza la mano. — No, non sparare! — grida. — Lui concede un desiderio! Devo esprimere…

Lo Shrike, che era là, a cinque metri, a un tratto è qui, a un braccio da Hoyt. Lamia smette di sparare. Hoyt alza gli occhi, vede il proprio riflesso nel cromo brunito del carapace… in quell'istante scorge qualcos'altro, negli occhi dello Shrike… e poi il mostro è svanito, lo Shrike è svanito, e Hoyt solleva lentamente la mano, si tocca la gola, quasi assorto, fissa per un secondo la cascata di rosso che gli copre la mano, il petto, il crucimorfo, il ventre…

Si gira verso la porta: Lamia guarda ancora, atterrita e sconvolta, non più lo Shrike, ma proprio lui, padre Lenar Hoyt della Compagnia di Gesù, e in quell'istante il prete si accorge che il dolore è sparito e apre la bocca per parlare, ma emette solo altro rosso, un geyser di rosso. Abbassa di nuovo lo sguardo, nota per la prima volta di essere nudo, vede il sangue colare dal mento e dal petto, gocciolare e fluire sul pavimento, adesso scuro, vede il sangue scorrere come se qualcuno avesse capovolto un secchio di vernice rossa, e poi non vede più nulla, cade bocconi contro il pavimento lontano, lontanissimo, in basso.

6

Il corpo di Diana Philomel era perfetto quanto la scienza cosmetica e l'abilità di un ARNista permettevano. Al risveglio, rimasi disteso per alcuni minuti ad ammirarne il corpo girato dall'altra parte: la classica curva della schiena e del fianco offriva una geometria più bella e potente di qualsiasi cosa scoperta da Euclide, le due fossette visibili nella parte inferiore della schiena, appena sopra le natiche bianco latte, erano morbidi angoli intersecantisi, la parte posteriore delle cosce piene era in qualche modo più sensuale e solida di quanto possa sperare di essere qualsiasi aspetto dell'anatomia maschile.

Lady Diana era addormentata, o lo sembrava. I nostri abiti erano sparpagliati sull'ampio tappeto verde. Luce densa, colorata di rosso magenta e di blu, inondava ampie finestre dalle quali si scorgevano cime d'albero, grigie e oro. Larghi fogli di carta da disegno erano disseminati tutt'intorno, sotto e sopra i vestiti. Mi sporsi a sinistra, presi un foglio e guardai un abbozzo frettoloso di seni, cosce, un braccio ridisegnato in fretta, un viso senza lineamenti. Disegnare bozzetti dal vivo, quando si è ubriachi e sul punto di essere sedotti, non è una formula che produca arte di qualità.

Mandai un gemito, mi girai sulla schiena ed esaminai le volute ornamentali a intaglio sul soffitto alto quattro metri. Se la donna al mio fianco fosse stata Fanny, forse non avrei voluto più muovermi. Invece, scivolai da sotto le lenzuola, cercai il mio comlog, notai che era prima mattina su Tau Ceti Centro, quattordici ore dopo il mio appuntamento con il PFE, e andai in bagno per procurarmi una pillola contro i postumi di sbronza.

Nell'armadietto dei medicinali di lady Diana c'erano diversi medicamenti fra cui scegliere. In aggiunta alle solite aspirine ed endorfine, vidi stimolanti, tranquillanti, tubetti di Flashback, derma orgasmico, manuali di shunt, inalatori per canapa indiana, sigarette di tabacco non ricombinante e un centinaio di medicinali di più difficile identificazione. Trovai un bicchiere e mi costrinsi a inghiottire due pastiglie di Giornodopo: quasi subito nausea e mal di testa scomparvero.

Uscii dalla stanza da bagno; lady Diana, sveglia, sedeva sul letto, ancora nuda. Iniziai a sorridere, poi vidi i due uomini accanto alla porta est. Nessuno dei due era il marito, anche se tutti e due erano grandi e grossi quanto lui e condividevano lo stile niente collo, pugni come prosciutti, mascella scura, che Hermund Philomel aveva portato a perfezione.

Nel lungo spettacolo drammatico della storia umana sono sicuro che sia esistito l'uomo capace di stare in piedi, sorpreso e nudo, davanti a due estranei vestiti, potenzialmente ostili e rivali, senza farsi piccolo piccolo, senza provare l'impulso a coprirsi i genitali e ingobbirsi, senza sentirsi totalmente vulnerabile e svantaggiato… ma di certo quell'uomo non sono io.

Ingobbii la schiena, mi coprii il basso ventre, indietreggiai verso il bagno e dissi: — Cosa… chi… — Lanciai a Diana Philomel una muta richiesta d'aiuto e la vidi sorridere: un sorriso che uguagliava la crudeltà che al primo incontro le avevo scorto negli occhi.

— Prendetelo. Presto! — ordinò la mia amante di poco prima.

Tornai nella stanza da bagno e cercai di premere l'interruttore manuale che avrebbe fatto dilatare la porta chiudendola; ma il più vicino dei due mi raggiunse, mi agguantò, mi spinse di nuovo nella camera da letto e mi lanciò al socio. I due erano originari di Lusus o di un altro pianeta ad alta gravità, oppure seguivano esclusivamente una dieta di steroidi e di sansoncellule, perché mi sbatterono avanti e indietro senza sforzo evidente. Non importava quanto fossero grandi e grossi. A parte la breve carriera di pugile da campo sportivo scolastico, la mia vita… il ricordo della mia vita… offriva poche occasioni di violenza e ancora meno occasioni in cui ero emerso vincitore dalla zuffa. Un'occhiata ai due che si divertivano a mie spese mi disse che quelli erano proprio del tipo di cui si legge ma senza crederci sul serio: individui che ti spezzano le ossa, ti schiacciano il naso o ti fracassano la rotula, senza maggior rimorso di quanto non ne abbia io a buttare via uno stilo difettoso.

— Svelti! — sibilò di nuovo Diana.

Esaminai minuziosamente la sfera dati, la memoria della casa, il cordone ombelicale del comlog di Diana, il tenue legame dei due sgherri con l'universo dell'informazione… e pur sapendo ora dove mi trovavo, ossia nella tenuta di campagna dei Philomel, seicento chilometri dalla capitale Pirre, nella fascia terraformata per l'agricoltura di Rinascimento Minore… e chi erano con esattezza i due sgherri, cioè Debin Farrus e Hemmit Gorma, agenti della sicurezza impianti per il Sindacato dei Grattamuffa di Porta del Paradiso… non avevo la minima idea del perché uno dei due stesse sopra di me e mi puntasse il ginocchio nell'incavo della schiena, mentre l'altro fracassava sotto il tacco il mio comlog e mi metteva al polso una manetta a osmosi e la faceva scivolare su per il braccio…

Udii il sibilo e mi rilassai.


— Chi sei?

— Joseph Severn.

— È il tuo vero nome?

— No. — Sentii gli effetti della scioglilingua e seppi di poter battere la droga con il semplice atto di andarmene, di tornare nella sfera dati o di ritirarmi completamente nel Nucleo. Ma questo significava abbandonare il mio corpo alla mercé di chi m'interrogava in quel momento. Rimasi lì. Tenevo gli occhi chiusi, ma riconobbi la voce seguente.

— Chi sei, in realtà? — domandò Diana Philomel.

Sospirai. Una domanda a cui non era facile rispondere onestamente. — John Keats — dissi infine. Il silenzio mi disse che il nome non aveva significato, per loro. "Perché dovrebbe averne?" mi domandai. Un tempo avevo predetto che sarebbe stato un nome "scritto sull'acqua". Non mi potevo muovere, né aprire gli occhi, ma non trovai difficoltà a esaminare la sfera dati, seguendo i loro vettori d'accesso. Il nome del poeta si trovava fra gli ottocento John Keats nell elenco offerto dal file pubblico, ma loro non parvero interessarsi molto a un personaggio morto da novecento anni.

— Per chi lavori? — Era la voce di Hermund Philomel. Non so il motivo, ma rimasi un poco sorpreso.

— Per nessuno.

Il fievole effetto Doppler di voci cambiò: i quattro discutevano fra loro.

— Possibile che resista alla droga?

— Nessuno può resistere — disse Diana. — Si può morire, nel momento della somministrazione, ma non si può resistere.

— Allora cosa c'è in ballo? — domandò Hermund. — Perché, alla vigilia della guerra, Gladstone porterebbe nel Consiglio una nullità?

— Può sentirci, sapete — disse un'altra voce maschile, uno dei due gorilla.

— Non importa — rispose Diana. — Tanto, dopo l'interrogatorio non rimarrà in vita. — Si rivolse di nuovo a me. — Perché il PFE ti ha invitato al Consiglio… John?

— Non saprei. Per avere notizie dei pellegrini, probabilmente.

— Quali pellegrini, John?

— I Pellegrini allo Shrike.

Qualcun altro emise un rumore. — Silenzio — disse Diana Philomel. E a me: — Questi Pellegrini allo Shrike sono su Hyperion, John?

— Sì.

— C'è un pellegrinaggio, in questo momento?

— Sì.

— E perché Gladstone chiede a te, John?

— Sogno i pellegrini.

Seguì un versaccio di disgusto. Hermund disse: — È pazzo. Anche sotto la scioglilingua non sa chi è e ora ci racconta questa storia. Facciamola finita e…

— Chiudi il becco — disse lady Diana. — Gladstone non è pazza. L'ha invitato lei, non dimenticarlo. John, cosa significa che li sogni?

— Sogno le impressioni della prima personalità ricuperata di Keats — dissi. Avevo la voce impastata, come se parlassi nel sonno. — Quando hanno ucciso il suo corpo, si è inserita in uno dei pellegrini e ora vaga nella loro microsfera. Non so come, ma le sue percezioni sono i miei sogni. Forse le mie azioni sono i suoi sogni, non so.

— Follia — disse Hermund.

— No, no — replicò lady Diana. Aveva la voce tesa, quasi sconvolta. — John, sei un cìbrido?

— Sì.

— Oh, Cristo e Allah! — disse lady Diana.

— Cos'è un cìbrido? — domandò uno dei gorilla. Aveva una voce acuta, quasi femminile.

Per un momento ci fu silenzio, poi Diana disse: — Idiota. I cìbridi erano umani controllati a distanza, creati dal Nucleo. Ce n'erano alcuni nella Commissione di Consulenza, fino al secolo scorso, quando furono messi fuorilegge.

— Come gli androidi e cose del genere? — disse il secondo gorilla.

— Chiudi il becco — rispose Hermund.

— No — disse Diana. — I cìbridi erano geneticamente perfetti, ricombinati da DNA che risaliva alla Vecchia Terra. Bastava un osso… un frammento di capello… John, mi ascolti? John?

— John, sei un cìbrido… sai qual è la fonte della tua personalità?

— John Keats.

Inspirò a fondo. — Chi è… era… John Keats?

— Un poeta.

— Quando visse, John?

— Dal 1795 al 1821.

— Secondo quale calendario, John?

— Quello della Vecchia Terra — risposi. — Pre-Egira. Era moderna…

Intervenne Hermund, con voce agitata. — John, sei… sei in contatto con il TecnoNucleo, in questo momento?

— Sì.

— Puoi… sei libero di comunicare nonostante la scioglilingua?

— Sì.

— Oh, cazzo — disse il gorilla dalla voce acuta.

— Dobbiamo andarcene di qui — sbottò Hermund.

— Ancora un minuto — disse Diana. — Dobbiamo sapere…

— Non possiamo portarlo con noi? — domandò il gorilla dalla voce profonda.

— Idiota — disse Hermund. — Se è vivo e in contatto con la sfera dati e col Nucleo… diavolo, lui vive nel Nucleo, la sua mente è lì… allora può collegarsi a Gladstone, all'EsecSicur, alla FORCE, a chiunque!

— Sta' zitto — disse lady Diana. — Lo uccideremo, appena avremo terminato. Ancora qualche domanda. John?

— Sì.

— Perché Gladstone ha bisogno di sapere cosa accade ai Pellegrini allo Shrike? Riguarda la guerra con gli Ouster?

— Non lo so con certezza.

— Merda — mormorò Hermund. — Andiamo via!

— Zitto. John, da dove provieni?

— Ero su Esperance, negli ultimi dieci mesi.

— E prima?

— Sulla Terra.

— Quale Terra? — domandò Hermund. — Nuova Terra? Terra Due? Terra City? Quale?

— Terra — dissi. Poi ricordai. — Vecchia Terra.

Vecchia Terra? - disse un gorilla. — Questo qui è suonato. Me ne vado subito.

Ci fu lo sfrigolio di pancetta fritta tipico di un'arma laser. Sentii un odore più dolce di quello della pancetta in padella e udii il tonfo di un corpo pesante. Diana Philomel disse: — John, ti riferisci alla vita della tua personalità originaria sulla Vecchia Terra?

— No.

— Tu… tu come cìbrido… eri sulla Vecchia Terra?

— Sì — dissi. — Lì mi sono destato dalla morte. Nella stessa stanza della casa in Piazza di Spagna dove morii. Severn non c'era, ma il dottor Clark e alcuni altri erano prese…

— È davvero pazzo — disse Hermund. — La Vecchia Terra è stata distrutta più di quattro secoli fa… a meno che i cìbridi non vivano più di quattrocento anni…

— No — sbottò lady Diana. — Chiudi il becco e lasciami terminare. John, perché il Nucleo… ti ha riportato in vita?

— Non lo so con certezza.

— Riguarda la guerra civile in corso fra le Intelligenze Artificiali?

— Forse — dissi. — È probabile. — Diana faceva domande interessanti.

— Quale gruppo ti ha creato? I Finali, gli Stabili o i Volatili?

— Non so.

Udii un sospiro d'esasperazione. — John, hai comunicato a nessuno dove ti trovi e che cosa ti accade al momento?

— No — dissi. Era un segno dell'intelligenza della donna, il fatto che avesse atteso tanto per porre la domanda.

Anche Hermund emise un sospiro. — Magnifico — disse. — Filiamocela prima che…

— John — disse Diana — sai perché Gladstone ha fabbricato questa guerra contro gli Ouster?

— No — dissi. — O meglio, potrebbero esserci diversi motivi. Il più probabile sembra una manovra contrattuale nell'ambito dei suoi rapporti con il Nucleo.

— Perché?

— Elementi nella ROM governativa del Nucleo hanno paura di Hyperion — dissi. — Hyperion è una variabile ignota in una galassia dove ogni variabile è stata quantificata.

— Chi ha paura, John? I Finali, gli Stabili o i Volatili? Quale gruppo di IA ha paura di Hyperion?

— Tutt'e tre — dissi.

— Merda — mormorò Hermund. — Sta' a sentire… John… le Tombe del Tempo e lo Shrike hanno a che fare con questa storia?

— Sì, hanno un mucchio a che fare.

— Come? — domandò Diana.

— Non so. Nessuno lo sa.

Hermund, o un altro, mi colpì malignamente, con forza, al petto. — Vuoi dire che la merdosa Commissione di Consulenza del Nucleo non ha previsto il risultato di questa guerra, di questi eventi? — ringhiò Hermund. — Vorresti farmi credere che Gladstone e il Senato s'imbarcano in una guerra senza avere una previsione di probabilità?

— No — dissi. — È stata predetta da secoli.

Diana Philomel emise un verso simile a quello di un bambino di fronte a una montagna di dolci. — Cosa hanno predetto, John? Riferisci tutto.

Avevo la bocca secca. La scioglilingua mi aveva prosciugato della saliva. — Hanno predetto la guerra — dissi. — L'identità dei partecipanti al Pellegrinaggio allo Shrike. Il tradimento del Console dell'Egemonia che ha attivato un congegno che avrebbe aperto… che ha aperto… le Tombe del Tempo. L'emergenza del Flagello Shrike. Il risultato della guerra e il Flagello…

— Qual è il risultato, John? — bisbigliò la donna con cui avevo fatto l'amore qualche ora prima.

— La fine dell'Egemonia — dissi. — La distruzione della Rete dei Mondi. — Provai a umettarmi le labbra, ma avevo la lingua secca. — La fine della razza umana.

— Oh, Gesù e Allah — mormorò Diana. — C'è qualche possibilità che la previsione sia errata?

— No — dissi. — O meglio, solo per quanto riguarda l'effetto di Hyperion sul risultato. Le altre variabili sono chiare.

— Uccidilo — gridò Hermund Philomel. — Uccidi questo… oggetto. Così possiamo andarcene e informare Harbrit e gli altri.

— D'accordo — disse lady Diana. Poi, l'attimo dopo: — No, non il laser, idiota. Gli inietteremo la dose letale d'alcol, secondo il piano. Tieni, reggi la manetta a osmosi, così collego la fleboclisi.

Sentii una pressione al braccio destro. Subito dopo ci furono esplosioni, scosse violente, un grido. Odore di fumo e d'aria ionizzata. Uno strillo di donna.

— Toglietegli la manetta — disse Leigh Hunt. Me lo vedevo, lì in piedi, sempre con il tradizionale abito grigio, circondato dai commandos dell'Esecutivo di Sicurezza in tuta blindata e polimero camaleonte. Un commando alto il doppio di Hunt si mise a tracolla la frustalaser e si precipitò a eseguire l'ordine.

In uno dei canali tattici, che da qualche tempo tenevo sotto controllo, vedevo l'immagine di me stesso… nudo, disteso sul letto, braccia e gambe divaricate, manetta a osmosi al braccio destro e un livido sempre più scuro sulla cassa toracica. Diana Philomel, suo marito e uno dei due gorilla giacevano, privi di conoscenza, fra schegge di legno e frantumi di vetro. L'altro gorilla era riverso sulla soglia: la parte superiore del corpo aveva il colore e la consistenza di una bistecca troppo cotta.

— Sta bene, signor Severn? — domandò Leigh Hunt; mi sollevò la testa e mi mise sul naso e sulla bocca la membrana sottile di una maschera a ossigeno.

— Hrrmmmggh — dissi. — Arrct. — Nuotai alla superficie dei miei sensi come un tuffatore che risalga troppo in fretta dalle profondità. La testa mi doleva. Le costole mi facevano un male d'inferno. Gli occhi ancora non mi funzionavano bene, ma attraverso il canale tattico riuscii a vedere Leigh Hunt piegare le labbra in quella piccola smorfia che passava per un sorriso.

— L'aiuteremo a vestirsi — disse Hunt. — Le daremo del caffè, nel volo di ritorno. Andiamo alla Casa del Governo, signor Severn. È in ritardo all'appuntamento con il PFE.

7

Le battaglie spaziali, nei film e negli olodrammi, mi avevano sempre annoiato, ma una battaglia vera aveva un certo fascino: era un po' come guardare la cronaca dal vivo di una serie di incidenti per il traffico. In effetti, i costi di produzione della realtà — come indubbiamente è sempre stato nei secoli — erano molto inferiori anche allo stanziamento per un olodramma di media qualità. Pur considerando le tremende energie in atto, di fronte a una vera battaglia spaziale si aveva la sconvolgente impressione che lo spazio fosse smisurato e che le flotte e le navi e le corazzate e tutto il resto fossero tremendamente piccole.

Almeno così pensavo, seduto nel Centro d'Informazione Tattica, la cosiddetta Sala di Guerra, con Gladstone e con i suoi sciocchi militari, nel guardare le pareti trasformarsi in buchi di venti metri nell'infinito mentre quattro massicce cornici olografiche ci circondavano con lo scenario tridimensionale e i commentatori riempivano la stanza di trasmissioni astrotel: chiacchiere radio fra caccia, brontolio di canali tattici di comando, messaggi nave-nave su banda larga, canali laserizzati, astrotel in codice, e tutte le grida, gli urli, gli strilli, le oscenità di battaglia preesistenti a ogni tipo di media, a parte l'aria e la voce umana.

Era una versione drammatica del caos totale, una definizione funzionale della confusione, una danza non coreografica di violenza disperata. Era la guerra.


Gladstone e una manciata di suoi collaboratori sedevano nel mezzo di tutto quel frastuono e quelle luci; la Sala di Guerra galleggiava come un rettangolo dal tappeto grigio fra stelle ed esplosioni, il limbo di Hypcrion era uno splendore color lapislazzuli che riempiva metà della parete olografica nord, le urla dei moribondi erano su ogni canale e in ogni orecchio. Facevo parte della manciata di collaboratori di Gladstone con il privilegio e la maledizione di trovarsi lì.

Il PFE ruotò sulla poltrona a spalliera alta, unì la punta delle dita, si batté il labbro, si rivolse al gruppo di militari. — Cosa ne pensate?

I sette in divise piene di decorazioni si guardarono l'un l'altro, poi sei fissarono il generale Morpurgo. Quest'ultimo mordicchiò il sigaro spento. — Non va come dovrebbe — disse. — Li teniamo lontano dalla posizione del teleporter… lì le nostre difese reggono bene… ma sono penetrati troppo nel sistema.

— Ammiraglio? — disse Gladstone, inclinando d'un millimetro la testa in direzione dell'ufficiale alto e magro in divisa nera della FORCE:spazio.

L'ammiraglio Singh si accarezzò la barbetta. — Il generale Morpurgo ha ragione. La campagna non procede secondo i piani. — Accennò alla quarta parete, dove diversi diagrammi, in gran parte ellissoidi, ovali e archi, erano sovrimpressi su un'inquadratura statica del sistema di Hyperion. Alcuni archi s'ingrandirono. Le vivide linee blu indicavano le traiettorie dell'Egemonia. Le linee rosse, quelle degli Ouster. Le rosse erano molto più numerose delle blu.

— I due trasporti truppe d'assalto assegnati all'Unità Operativa 42 sono stati messi fuori combattimento — continuò l'ammiraglio Singh. — L'Ombra di Olympus è stato distrutto insieme con tutto l'equipaggio e lo Stazione Nettuno è stato gravemente danneggiato, ma in questo momento fa ritorno all'area cislunare d'attracco, sotto scorta di cinque navi torcia.

Gladstone annuì lentamente, sporgendo il labbro fino a toccare la punta delle dita. — Quante persone erano a bordo dell'Ombra di Olympus, ammiraglio?

Gli occhi castani di Singh, larghi come quelli del PFE, non suggerivano la stessa profondità di tristezza. L'ammiraglio resse per alcuni secondi lo sguardo della donna. — Quattromiladuecento — rispose. — Senza contare il distaccamento di marines, pari a seicento unità. Una parte di questi ultimi si è imbarcata alla stazione teleporter di Hyperion, quindi non abbiamo dati precisi sul numero esatto.

Gladstone annuì. Si rivolse di nuovo al generale Morpurgo. — Come mai queste difficoltà improvvise, generale?

Morpurgo era calmo in viso, ma aveva quasi tranciato il sigaro stretto fra i denti. — Un numero di unità da combattimento superiore al previsto, signora — rispose. — Inoltre, hanno i lancer… veicoli a cinque posti, in realtà navi torcia in miniatura, più veloci e meglio armati dei nostri caccia alungo raggio… piccoli, micidiali calabroni. Li distruggiamo a centinaia, ma se un lancer supera lo sbarramento, schizza all'interno delle difese della flotta e semina il panico. — Morpurgo scrollò le spalle. — Più d'uno l'ha superato.

Il senatore Kolchev sedeva dall'altra parte del tavolo, insieme con otto colleghi. Ruotò la poltroncina girevole fino a guardare la mappa tattica. — Si direbbe che abbiano quasi raggiunto Hyperion — disse. La sua voce, famosa in tutta la Rete, era rauca.

Rispose Singh. — Non dimentichi la scala, senatore. A dire il vero controlliamo ancora la maggior parte del sistema. Ogni cosa, nel raggio di dieci UA dal sole di Hyperion, è nostra. La battaglia si è spostata al di là della nube di Oört e al momento ci riorganizziamo.

— E quei… grumi… rossi sopra il piano dell'eclittica? — domandò la senatrice Richeau. Anche lei vestiva di rosso, uno dei suoi tratti caratteristici, al senato.

Singh annuì. — Uno stratagemma interessante — rispose. — Lo Sciame ha scatenato un attacco di circa tremila lancer per completare un movimento a tenaglia contro il perimetro elettronico dell'UO 87.2. L'attacco è stato rintuzzato, ma bisogna ammirare l'astuzia della…

— Tremila lancer? — lo interruppe Gladstone, a bassa voce.

— Sì, signora.

Gladstone sorrise. Smisi di disegnare e mi rallegrai che quel particolare sorriso non fosse rivolto a me.

— Nella conferenza di ieri non si era detto che gli Ouster avrebbero messo in campo seicento lancer… settecento al massimo? — Le parole erano le stesse di Morpurgo. Gladstone ruotò la poltrona per guardare in viso il generale. Inarcava il sopracciglio.

Morpurgo si tolse di bocca il sigaro, lo fissò, accigliato, si tolse dai denti inferiori un frammento di tabacco. — Erano dati del nostro servizio segreto. Sbagliati.

— La Commissione di Consulenza delle IA era coinvolta in questa valutazione del controspionaggio?

Tutti si girarono verso il consulente Albedo. Costui era una proiezione perfetta: sedeva nella poltroncina fra gli altri, le mani strette sui braccioli, in posizione rilassata; mancava completamente della nebulosità e della trasparenza assai comuni alle proiezioni mobili. Aveva il viso allungato, zigomi alti, bocca espressiva con una traccia di sorriso ironico perfino nei momenti di maggiore serietà. E quello era un momento del genere.

— No, signora — disse il consulente Albedo. — La Commissione non ha avuto la richiesta di valutare le forze degli Ouster.

— Presumevo — disse Gladstone, rivolta sempre a Morpurgo — che le stime del servizio segreto della FORCE tenessero conto anche delle proiezioni della Commissione.

Il generale della FORCE:terra lanciò ad Albedo un'occhiata di fuoco. — No, signora — disse. — Dal momento che il Nucleo dichiara di non avere contatti con gli Ouster, abbiamo ritenuto che le sue proiezioni non fossero migliori delle nostre. Per calcolarle, abbiamo usato la rete SCO:RTS aggregata alle IA. — Si rimise in bocca il sigaro smozzicato, protese il mento e continuò: — La Commissione avrebbe potuto fare di meglio?

Gladstone fissò Albedo.

Il consulente mosse appena le lunghe dita della destra. — Le nostre stime, per questo Sciame, indicavano da quattro a seimila unità da combattimento.

— Lei… — iniziò Morpurgo, paonazzo.

— Lei non ne ha parlato, durante l'incontro informativo — intervenne Gladstone. — E neppure durante le deliberazioni precedenti.

Il consulente Albedo si strinse nelle spalle. — Il generale ha ragione — disse. — Non abbiamo contatti con gli Ouster. Le nostre stime non sono più attendibili di quelle della FORCE; si basano su premesse differenti, ecco tutto. La Scuola Comando Olympus:Rete Tattica Storica fa un lavoro eccellente. Se lì le IA fossero di un solo ordine d'acume più in alto nella scala Turing-Demmler, saremmo costretti a trasferirle nel Nucleo. — Mosse di nuovo la mano in un gesto aggraziato. — Sta di fatto che le premesse della Commissione potranno essere utili per piani futuri. Ovviamente passeremo a questo gruppo tutte le proiezioni, in qualsiasi momento.

Gladstone annuì. — Le passi immediatamente.

Tornò a rivolgersi allo schermo e gli altri la imitarono. I monitor della sala registrarono il silenzio e aumentarono il volume dei ricevitori: di nuovo fu possibile udire le grida di vittoria, le richieste di aiuto, la calma elencazione di posizioni, le direttive di fuoco, gli ordini. La parete più vicina era alimentata in tempo reale dalla nave torcia AE N'Djamena, che cercava superstiti fra i resti del Gruppo di Battaglia B-5. La nave torcia danneggiata alla quale in quel momento si avvicinava, ingrandita mille volte, sembrava una melagrana esplosa, i cui semi e la buccia rossa si riversavano all'esterno con moto lento e ruzzolavano in una nuvola di particelle, di gas, d'idrocarburi volatili congelati, di milioni di microcircuiti strappati dalle intelaiature, di depositi di cibo, d'attrezzature aggrovigliate e — riconoscibili di tanto in tanto per il movimento simile a quello delle marionette di braccia o gambe — di molti, molti corpi umani. Il riflettore della N'Djamena, un fascio luminoso fuori asse di dieci metri dopo il balzo coerente di ventimila miglia, giocava sui relitti congelati e illuminati dalle stelle, mettendo a fuoco singoli oggetti, sfaccettature e facce. Era uno spettacolo bellissimo e orribile a un tempo. Il riflesso rese ancora più vecchio il viso di Gladstone.

— Ammiraglio — disse il PFE — è normale che lo Sciame abbia atteso finché l'Unità Operativa 87.2 non si è teleportata nel sistema?

Singh si toccò la barbetta. — Vuole sapere se era una trappola, signora?

— Sì.

L'ammiraglio lanciò un'occhiata ai colleghi, poi guardò Gladstone. — Credo di no. Pensiamo… io, almeno… che gli Ouster, nel vedere l'elevato numero di forze da noi impiegate, abbiano risposto di conseguenza. Significa tuttavia che sono fermamente decisi a prendere il sistema di Hyperion.

— Possono riuscirci? — domandò Gladstone, continuando a fissare il vortice di relitti in alto sulla parete. Il cadavere di un giovane, metà dentro la tuta spaziale e metà fuori, rotolò verso la telecamera. Si vedevano chiaramente gli occhi e i polmoni scoppiati.

— No — disse l'ammiraglio Singh. — Possono coprirci di sangue. Possono costringerci ad arretrare fino a un perimetro totalmente difensivo intorno a Hyperion stesso. Ma non possono sconfiggerci né mandarci via.

— Né distruggere il teleporter? — La voce della senatrice Richeau era tesa.

— Né distruggere il teleporter — confermò Singh.

— Ha ragione — disse il generale Morpurgo. — Mi ci gioco la carriera.

Gladstone sorrise e si alzò. Gli altri, me compreso, si affrettarono a imitarla. — Se la gioca — disse piano Gladstone a Morpurgo. — Se la gioca. — Si guardò intorno. — Ci ritroviamo qui appena gli eventi lo giustificano. Il signor Hunt sarà il mio collegamento con voi. Per ora, signori, il lavoro del governo continuerà come al solito. Buongiorno.

Mentre gli altri uscivano, tornai a sedermi e alla fine rimasi da solo nella sala. Il volume degli altoparlanti aumentò di nuovo. Su una banda, un uomo piangeva. Tra le statiche si udivano risa di follia. Sopra di me, dietro di me, ai due lati, i campi di stelle si muovevano lentamente contro l'oscurità e la luce degli astri si rifletteva, gelida, sui relitti.


La Casa del Governo aveva la forma di una stella di David; nel centro della stella, schermato da muretti e da alberi piantati in posizione strategica, c'era un giardino: più piccolo degli acri a classiche aiuole fiorite del Parco dei Cervi, ma non meno bello. Vi passeggiavo mentre calava la sera, con il vivido biancazzurro di Tau Ceti che svaniva nell'oro, quando Meina Gladstone mi si avvicinò.

Per un poco passeggiammo insieme, in silenzio. Notai che aveva cambiato abito e indossava ora una lunga veste come quelle delle nobildonne di Patawpha; l'ampia veste, ricamata a intricati disegni blu scuro e oro che quasi emulavano il cielo al crepuscolo, si gonfiava al vento. Le mani non si vedevano, infilate in tasche nascoste; le ampie maniche si agitavano alla brezza; l'orlo della veste frusciava sulle pietre bianco latte del sentiero.

— Ha lasciato che mi interrogassero — dissi. — Sono curioso di sapere perché.

La voce di Gladstone era stanca. — Non trasmettevano. Non c'era pericolo che le informazioni fossero riferite ad altri.

Sorrisi. — Tuttavia, ha lasciato che subissi l'interrogatorio.

— Il servizio di sicurezza voleva scoprire su di loro tutto il possibile.

— A spese di un… piccolo fastidio… da parte mia.

— Si.

— E il servizio di sicurezza sa per chi lavoravano?

— L'uomo ha fatto il nome di Harbrit. Il servizio è abbastanza sicuro che si tratti di Emlem Harbrit.

— La mediatrice di materie prime di Asquith?

— Sì. Lei e Diana Philomel hanno legami con le vecchie fazioni realiste di Glennon-Height

— Erano dilettanti — dissi. Hermund si era lasciato sfuggire il nome di Harbrit e Diana mi aveva interrogato in modo assai confuso.

— Mi sembra chiaro.

— I realisti sono collegati a un gruppo serio?

— Solo alla Chiesa Shrike — disse Gladstone. Si soffermò nel punto dove il sentiero attraversava un ruscello, mediante un ponte di pietra. Raccolse la veste e si sedette su una panchina di ferro battuto. — Nessuno dei loro vescovi è ancora uscito dal nascondiglio, sa?

— Considerando le sommosse e le reazioni violente, non li biasimo — risposi. Restai in piedi. In vista non c'erano guardie del corpo né monitor, ma sapevo che, se avessi fatto un gesto di minaccia verso Gladstone, mi sarei svegliato in una cella dell'EsecSicur. In alto, le nuvole perdettero le ultime sfumature dorate e cominciarono a brillare dell'argenteo riflesso delle innumerevoli città torre di TC2. — Cosa ne ha fatto, la sicurezza, di Diana e del marito? — domandai.

— Sono stati interrogati a fondo. Al momento sono… trattenuti.

Annuii. Interrogati a fondo significava che ora il loro cervello galleggiava in vasche di shunt totale. Il corpo sarebbe stato mantenuto in crio-deposito finché un processo segreto non avesse stabilito se le loro azioni erano da considerare alto tradimento. Dopo il processo, i corpi sarebbero stati distrutti e Diana e Hermund sarebbero rimasti "trattenuti", mediante il distacco di ogni canale sensorio e di comunicazione. Da secoli l'Egemonia non usava la pena di morte, ma l'alternativa non era piacevole. Mi sedetti sulla panchina, a due metri da Gladstone.

— Scrive ancora poesie?

La domanda mi sorprese. Lasciai vagare lo sguardo lungo il sentiero, dove lanterne giapponesi e fotoglobi nascosti si erano appena accesi. — In pratica, no — risposi. — A volte, sogno in versi. O solevo farlo…

Meina Gladstone piegò in grembo le mani e rimase a fissarle. — Se per caso scrivesse degli eventi attuali — disse — che genere di poema creerebbe?

Scoppiai a ridere. — Già due volte l'ho iniziato e l'ho lasciato perdere… o meglio, è stato lui. Parlava della morte degli dèi e della loro difficoltà ad accettare la rimozione. Parlava di mutamento e sofferenza e ingiustizia. E parlava soprattutto del poeta… che lui riteneva avesse sofferto, più di ogni altro, di simile ingiustizia.

Gladstone mi guardò. Nella luce fioca, il viso era una massa di linee e di ombre. — E questa volta quali dèi sono rimossi, signor Severn? È l'umanità, o sono i falsi dèi da noi creati, a deporci?

— Come diavolo faccio, a saperlo? — replicai, brusco. Mi girai a guardare il ruscello.

— Lei fa parte di tutt'e due i mondi, no? Dell'Umanità e del Tecno-Nucleo.

Scoppiai a ridere di nuovo. — Non faccio parte né dell'una, né dell'altro. Qui sono un mostro, un cìbrido; là, un progetto di ricerca.

— Sì, ma ricerca di chi? E a quale scopo?

Mi strinsi nelle spalle.

Gladstone si alzò e io la imitai. Superammo il ruscello e ascoltammo l'acqua scorrere sulle pietre. Il sentiero serpeggiava tra massi alti e coperti di eleganti licheni che brillavano alla luce delle lanterne.

Gladstone si soffermò in cima a una breve rampa di gradini di pietra. — Ritiene che i Finali, nel Nucleo, riusciranno a costruire quella che chiamano l'Intelligenza Finale, signor Severn?

— Costruiranno Dio? — replicai. — Ci sono IA che non vogliono costruire Dio. Dall'esperienza umana hanno imparato che costruire il passo seguente della coscienza è un invito alla schiavitù, se non l'estinzione vera e propria.

— Ma un vero Dio estinguerebbe le proprie creature?

— Nel caso del Nucleo e dell'ipotetica IF — dissi — Dio è la creatura, non il creatore. Forse un dio deve creare gli esseri inferiori a contatto con se stesso, per sentirsi responsabile verso di loro.

— Eppure sembra che il Nucleo si sia assunto la responsabilità degli esseri umani, nei secoli a partire dalla Secessione delle IA — disse Gladstone. Mi fissava intensamente, come se valutasse qualcosa basandosi sulla mia espressione.

Guardai il giardino. Il sentiero brillava, bianco, quasi irreale nel buio. — Il Nucleo opera secondo fini propri — dissi, pur sapendo che nessun essere umano conosceva questo fatto meglio del PFE Meina Gladstone.

— E lei ritiene che l'umanità non rappresenti più un mezzo verso questi fini?

Mossi la destra in un gesto sprezzante. — Sono una creatura che non appartiene a queste due culture — dissi. — E neppure graziata dall'innocenza dei creatori involontari, né maledetta dalla terribile consapevolezza delle proprie creature.

— Dal punto di vista genetico, lei è pienamente umano.

Non era una domanda. Non risposi.

— Fu detto che Gesù Cristo fosse pienamente umano — riprese Gladstone. — E anche pienamente divino. Umanità e divinità al punto d'intersezione.

Mi meravigliai che facesse riferimento a quell'antica religione. Il Cristianesimo era stato rimpiazzato dapprima dal Cristianesimo Zen, poi dallo Gnosticismo Zen, poi da un centinaio di teologie e di filosofie più vitali. Il mondo natale del PFE non era un ricettacolo di credenze già scartate: presumevo, e mi auguravo, che non lo fosse nemmeno Gladstone. — Se era pienamente uomo e pienamente Dio — replicai — allora sono la sua immagine di antimateria.

— No — disse Gladstone. — Ritengo che questa definizione corrisponda allo Shrike che in questo momento si confronta con i suoi amici pellegrini.

La fissai. Per la prima volta con me aveva citato lo Shrike, anche se sapevo — e lei sapeva che sapevo — che proprio il piano di Gladstone aveva indotto il Console ad aprire le Tombe del Tempo e a liberare quella creatura.

— Forse avrebbe dovuto prendere parte al pellegrinaggio, signor Severn — disse il PFE.

— In un certo senso, vi prendo parte — replicai.

Gladstone mosse la mano e materializzò una porta per i suoi alloggi privati. — Sì, in un certo senso vi prende parte — ammise. — Ma se la donna che porta in sé la sua controparte finisce crocifissa sul leggendario albero di spine dello Shrike, lei, signor Severn, soffrirà in sogno per l'eternità?

Non sapevo che cosa rispondere, quindi rimasi lì, zitto.

— Parleremo ancora domattina, dopo la conferenza — disse Meina Gladstone. — Buona notte, signor Severn. Sogni d'oro.

8

Martin Sileno, Sol Weintraub e il Console risalgono barcollando le dune in direzione della Sfinge, mentre Brawne Lamia e Fedmahn Kassad tornano portando il corpo di padre Hoyt. Weintraub si stringe nel mantello, cerca di riparare la piccina dalla furia delle raffiche di sabbia e dal crepitio luminoso. Guarda Kassad discendere la duna, con le gambe lunghe e nere da vignetta umoristica contro la sabbia elettrizzata, mentre le braccia e le mani di Hoyt penzolano e si muovono lievemente a ogni scivolone e a ogni passo.

Sileno grida, ma il vento porta via le parole. Brawne Lamia indica l'unica tenda ancora in piedi; la tempesta ha fatto crollare o ha strappato le altre. Si affollano nella tenda di Sileno, il colonnello Kassad per ultimo, passando con gentilezza agli altri il corpo. Nella tenda, le urla superano il crepitio della tela di fibroplastica e il rumore dei fulmini, simile a fruscio di carta strappata.

— Morto? — grida il Console, togliendo il mantello che Kassad ha avvolto intorno al corpo nudo di Hoyt. Il crucimorfo brilla, roseo.

Il colonnello indica i rivelatori che ammiccano sul medipac militare applicato al torace del prete. Le spie palpitano di luce rossa, a parte quelle gialle dei filamenti e dei noduli di sostentamento del sistema. La testa di Hoyt rotola all'indietro e rivela la sutura a forma di millepiedi che tiene insieme i lembi frastagliati dello squarcio alla gola.

Weintraub cerca manualmente le pulsazioni; non ne trova. Si china, posa l'orecchio sul petto del prete. Non c'è battito cardiaco, ma il gonfiore del crucimorfo è tiepido, contro la guancia. Weintraub guarda Brawne Lamia. — Lo Shrike?

— Sì… penso… non so. — Indica l'antica rivoltella che ancora stringe in mano. — Ho vuotato il caricatore. Dodici colpi contro… contro qualsiasi cosa fosse.

— L'hai visto? — domanda il Console a Kassad.

— No. Sono entrato nella stanza dieci secondi dopo Brawne, ma non ho visto niente.

— E i tuoi stronzissimi marchingegni militari? — dice Martin Sileno. Se ne sta rannicchiato in fondo alla tenda, quasi in posizione fetale. — Tutta quella merda della FORCE non ha mostrato niente?

— No.

Dal medipac proviene un lieve segnale acustico; Kassad stacca dalla cintura un'altra cartuccia di plasma e la inserisce nella fessura del medipac; torna a sedersi sui talloni e abbassa il visore per osservare l'apertura della tenda. La voce è distorta dal microfono del casco.

— Ha perso più sangue di quanto possiamo compensare qui. Qualcuno ha portato una valigetta di pronto soccorso?

Weintraub fruga nella sacca. — Ho l'equipaggiamento essenziale. Ma non basta, questa volta. Chi gli ha tagliato la gola, ha reciso tutto.

— Lo Shrike — mormora Martin Sileno.

— Non importa — dice Lamia, stringendosi nelle braccia per smettere di tremare. — Dobbiamo trovargli aiuto. — Guarda il Console.

— È morto — obietta il Console. — Neppure l'attrezzatura chirurgica di una nave lo riporterebbe in vita.

— Dobbiamo fare il tentativo! — grida Lamia, afferrando il Console per la camicia. — Non possiamo lasciarlo a quelle… robacce. — Indica il crucimorfo che brilla sotto la pelle del torace del morto.

Il Console si strofina gli occhi. — Possiamo distruggere il cadavere. Usare il fucile del colonnello e…

— Moriremo tutti, se non ci togliamo da questa tempesta di merda! — urla Sileno. La tenda vibra, a ogni raffica il telo di fibroplastica sbatte contro la testa del poeta. Il frastuono di sabbia contro stoffa sembra un razzo in fase di decollo proprio davanti alla tenda.

— Chiama la maledetta nave! Chiamala!

Il Console tira a sé la sacca, come per proteggere l'antiquato comlog. Gocce di sudore gli brillano sulle guance e sulla fronte.

— Possiamo rifugiarci in una Tomba e aspettare che la tempesta finisca — propone Sol Weintraub. — Nella Sfinge, per esempio.

— Non dire cazzate — ribatte Martin Sileno.

Lo studioso cambia posizione nello spazio ristretto e fissa il poeta.

— Hai fatto tutta questa strada per trovare lo Shrike. Vuoi dire d'avere cambiato idea, adesso che a quanto pare ha fatto la prima comparsa?

Da sotto l'orlo del berretto calato sulla fronte gli occhi di Sileno mandano lampi. — Non dico niente, tranne che voglio qui quella maledetta nave, e la voglio subito!

— Forse è una buona idea — dice il colonnello Kassad.

Il Console lo guarda.

— Se esiste una sola possibilità di salvare Hoyt, dovremmo fare il tentativo.

Il Console soffre. — Non possiamo andarcene — dice. — Non possiamo andarcene proprio ora.

— No — conviene Kassad. — Non useremo la nave per andarcene. Ma l'attrezzatura chirurgica potrebbe aiutare Hoyt. E potremmo aspettare a bordo che la tempesta finisca.

— E forse scoprire cosa succede lassù — dice Brawne Lamia, muovendo il pollice verso il tetto della tenda.

La piccina, Rachel, strilla a pieni polmoni. Weintraub la culla, le sorregge la testa. — Sono d'accordo — dice. — Se vuole, lo Shrike ci trova anche nella nave. Ci assicureremo che nessuno se ne vada. — Tocca il petto di Hoyt. — Per quanto suoni orribile, l'attrezzatura chirurgica ci fornirebbe dati di valore incalcolabile sull'attività del parassita.

— E va bene — dice il Console. Estrae dallo zaino l'antico comlog, posa la mano sul diskey e mormora alcune frasi.

— Viene? — domanda Martin Sileno.

— Ha confermato l'ordine. Dobbiamo ammucchiare i bagagli per il trasferimento. Ho detto alla nave di atterrare proprio all'ingresso della valle.

Lamia si accorge con sorpresa d'essere in lacrime. Si asciuga le guance e sorride.

— Cosa c'è di tanto divertente? — domanda il Console.

— In questa situazione — risponde lei, passandosi sulla guancia il dorso della mano — riesco solo a pensare come sarebbe bello fare una doccia.

— Bere un goccio — dice Sileno.

— Ripararsi dalla tempesta — dice Weintraub. La piccina prende il latte dal poppatoio.

Kassad sporge testa e spalle fuori della tenda. Alza il fucile e toglie la sicura. — Rivelatori — dice. — Qualcuno si muove proprio al di là della duna. — Il visore si gira verso gli altri, riflette un gruppo livido e rannicchiato, il corpo ancora più livido di Lenar Hoyt. — Vado a controllare — continua Kassad. — Aspettate qui l'arrivo della nave.

— Non andartene — dice Sileno. — Sembra di essere in uno di quei merdosi olodrammi antichi dell'orrore, dove spariscono uno alla volta… ehi! — Il poeta tace. L'ingresso della tenda è un triangolo di luce e di rumore. Fedmahn Kassad è scomparso.


La tenda inizia a crollare, i paletti e i cavi d'ancoraggio cedono mentre la sabbia si muove all'intorno. Rannicchiati, gridando per farsi udire sopra il frastuono del vento, il Console e Lamia avvolgono nel mantello il corpo di Hoyt. Le spie del medipac continuano a palpitare di luce rossa. Il sangue ha smesso di colare dalla sutura provvisoria. Sol Weintraub depone la figlia di quattro giorni nel porta-neonati appeso al petto, la copre col mantello e si acquatta all'ingresso della tenda. — Nessun segno del colonnello! — grida. Mentre guarda, un fulmine colpisce l'ala tesa della Sfinge.

Brawne Lamia si sposta all'ingresso e solleva il corpo del prete. Si stupisce di quant'è leggero. — Portiamo padre Hoyt sulla nave e affidiamolo all'attrezzatura chirurgica. Poi torneremo a cercare Kassad.

Il Console si cala sugli occhi il tricorno e si alza il colletto. — La nave ha radar di profondità e sensori di movimento. Ci dirà dov'è finito il colonnello.

— E lo Shrike — dice Sileno. — Non dimentichiamo il nostro anfitrione.

— Andiamo — dice Lamia. Si alza. Deve chinarsi contro il vento per avanzare. I lembi del mantello di Hoyt svolazzano e la colpiscono, il suo stesso mantello forma una coda ondeggiante. Alla luce intermittente dei fulmini trova il sentiero e si dirige all'imboccatura della valle; solo una volta si lancia alle spalle un'occhiata per vedere se gli altri la seguono.

Martin Sileno si allontana dalla tenda, prende il cubo di Moebius appartenuto a Het Masteen; il vento gli strappa il berretto viola e lo porta in alto. Sileno rimane lì a imprecare violentemente, fermandosi solo quando la bocca gli si riempie di sabbia.

— Vieni — grida Weintraub, toccandogli la spalla. La sabbia gli colpisce il viso, gli penetra nella barbetta. Con l'altra mano Sol si copre il petto, come per proteggere qualcosa d'infinitamente prezioso. — Perderemo di vista Brawne, se non ci sbrighiamo. — I due si aiutano a vicenda per avanzare controvento. La pelliccia di Sileno svolazza da tutte le parti, quando il poeta fa una deviazione per ricuperare il berretto caduto al riparo di una duna.

Il Console è l'ultimo a lasciare la tenda, portando il proprio zaino e quello di Kassad. Ha lasciato il piccolo riparo da un solo minuto, quando i paletti cedono, la tela si strappa, la tenda vola nella notte, circondata da un alone d'elettricità statica. Il Console percorre barcollando i trecento metri di sentiero, di tanto in tanto scorge fuggevolmente i due che lo precedono, più spesso perde la pista e deve camminare in cerchio finché non la ritrova. Dietro di lui, le Tombe del Tempo sono visibili, quando la tempesta di sabbia si calma un po' e i fulmini si susseguono a breve intervallo. Il Console vede la Sfinge che risplende ancora per le ripetute scariche elettriche, più in là la Tomba di Giada con le pareti luminose e a distanza maggiore l'Obelisco, che invece non risplende e sembra una striscia verticale di nero assoluto contro le pareti della valle. E poi il Monolito di Cristallo. Non c'è segno di Kassad, anche se le dune mutevoli, le folate di sabbia e i lampi improvvisi danno l'impressione che molte cose siano in movimento.

Il Console alza lo sguardo, ora vede l'ampia imboccatura della valle e le nuvole che corrono più in alto; quasi s'aspetta di scorgere il bagliore azzurro della scia di fusione della nave che scende tra le nubi. La tempesta è terrificante, ma la nave è atterrata in condizioni peggiori. Il Console si domanda se sia già scesa e se più avanti gli altri aspettino che lui arrivi.

Ma quando raggiunge la sella fra le pareti rocciose all'imboccatura della valle, mentre il vento rinnova gli assalti, vede che gli altri quattro se ne stanno rannicchiati all'inizio della vasta pianura: la nave non c'è.

— A quest'ora non dovrebbe essere già scesa? — grida Lamia, mentre il Console si avvicina al gruppetto.

Lui annuisce e si acquatta per togliere dallo zaino il comlog. Weintraub e Sileno si mettono dietro di lui e si piegano per dargli un certo riparo dalla sabbia. Il Console estrae il comlog ed esita, guardandosi intorno. La tempesta dà l'impressione che il gruppetto si trovi in una folle stanza con pareti e soffitto che cambiano da un istante all'altro, un momento si chiudono su di loro a qualche metro di distanza, l'attimo dopo si allontanano, mentre il soffitto si libra verso l'alto, come la scena il cui la stanza e l'albero di Natale si espandono per Clara, nello Schiaccianoci di Ciaikovskij.

Il Console tocca il diskey, mormora nel riquadro fonico. L'antico strumento gli risponde in un bisbiglio, parole appena percettìbili sopra il fruscio della sabbia. Il Console si raddrizza, si gira verso gli altri. — La nave non ha avuto il permesso di partire.

Segue una confusione di proteste. — Cosa significa, non ha avuto il permesso? — domanda Lamia, quando torna il silenzio.

Il Console alza le spalle e guarda il cielo, come se una coda di fiamma azzurra, potesse ancora annunciare l'arrivo della nave. — Allo spazioporto di Keats non hanno dato il nullaosta.

— Ma non avevi detto che i documenti erano firmati dalla pidocchiosa regina? — grida Martin Sileno. — Dalla Vecchia Crostona in persona?

— Il permesso di Gladstone era nella memoria della nave — dice il Console. — La FORCE e le autorità portuali lo sapevano.

— Allora che diavolo è accaduto? — Lamia si pulisce il viso. Le lacrime versate nella tenda hanno lasciato minuscoli rivoli di fango nello strato di sabbia che le copre le guance.

Il Console si stringe nelle spalle. — Gladstone ha annullato il documento originale. Qui c'è un suo messaggio. Volete ascoltarlo?

Per un minuto nessuno risponde. Dopo una settimana di viaggio, il pensiero di essere in contatto con una persona esterna al gruppo è così incongruo da non fare subito presa: come se il mondo al di fuori del pellegrinaggio abbia smesso d'esistere, a parte le esplosioni nel cielo notturno. — Sì — dice Sol Weintraub. — Ascoltiamolo. — Un improvviso attimo di calma nella tempesta fa sembrare che le parole siano state pronunciate a voce altissima.

Si raccolgono intorno all'antico comlog, tenendo al centro del cerchio padre Hoyt. Nel minuto in cui non gli hanno badato, una piccola duna ha cominciato a formarsi intorno al corpo del prete. Ora le spie luminose sono tutte rosse, a parte quelle dei monitor d'estrema misura, che brillano di luce ambrata. Lamia inserisce nella fessura un'altra cartuccia di plasma e controlla che la maschera a osmosi sia ben sistemata su bocca e naso di Hoyt, lasci passare ossigeno puro e trattenga la sabbia. — D'accordo — dice.

Il Console aziona il diskey.

Il messaggio è una raffica tachionica astrotel, registrata dalla nave una decina di minuti prima. L'aria si annebbia con le colonne dati e il colloide a immagine sferica che caratterizza i comlog risalenti all'Egira. L'immagine di Gladstone sfarfalla: il viso è bizzarramente distorto, quasi comico, mentre milioni di granelli di sabbia lo attraversano e lacerano l'immagine. Anche a tutto volume, la voce quasi si perde nella tempesta.

«Sono spiacente» dice la ben nota immagine «ma al momento non posso permettere che la nave si avvicini alle Tombe. La tentazione di abbandonare la zona sarebbe troppo grande e l'importanza della missione deve passare sopra ogni altro fattore. Cercate di capire che da voi dipende forse la sorte dei mondi della Rete. Le mie speranze e le mie preghiere sono con voi. Gladstone. Fine.»

L'immagine si ripiega su se stessa e svanisce. Il Console, Weintraub e Lamia continuano a fissare in silenzio il vuoto. Martin Sileno si alza, tira un pugno di sabbia all'aria dove un attimo prima c'era il viso di Gladstone e urla: — Brutta stronza incestuosa d'una puttana paraplegica! — Prende a calci la sabbia. Gli altri spostano lo sguardo su di lui.

— Be', c'è stato davvero d'aiuto — dice piano Brawne Lamia.

Sileno agita le braccia, disgustato, e si allontana, continuando a prendere a calci le dune.

— Non c'è altro? — domanda Weintraub al Console.

— No.

Brawne Lamia incrocia le braccia e fissa il comlog, accigliata. — Come hai detto che funziona, questa baracca? Come riesce a superare le interferenze?

— Microraggio inviato a un comsat tascabile messo in orbita quando siamo scesi con la Yggdrasill - risponde il Console.

Lamia annuisce. — Così, quando hai fatto rapporto, in pratica hai mandato alla nave brevi messaggi che il computer ha trasmesso in raffiche astrotel a Gladstone… e ai tuoi contatti Ouster.

— Sì.

— La nave può decollare senza autorizzazione? — domanda Weintraub. Si è messo a sedere, con le braccia intorno alle ginocchia alzate, nella posa classica di chi è stanco. Anche la voce rivela sfinimento. — Senza tenere conto del divieto di Gladstone?

— No — risponde il Console. — La FORCE ha posto un campo di contenimento classe-3 sopra il pozzo di decollo dove è parcheggiata la nave.

— Mettiti in contatto con quella donna — dice Brawne Lamia. — Spiega la situazione.

— Ho provato. — Il Console rimette nello zaino il comlog. — Nessuna risposta. Nel messaggio di chiamata ho precisato che Hoyt è gravemente ferito e necessita d'intervento medico. Volevo che l'apparato chirurgico della nave fosse pronto a intervenire.

— Ferito — ripete Martin Sileno, tornando dove gli altri sono accovacciati. — Merda. Il nostro amico prete è morto come il cane di Glennon-Height. — Muove il pollice in direzione del corpo avvolto nel mantello; tutti i display monitor sono rossi. Brawne Lamia si china a toccare la guancia di Hoyt. È fredda. Sia il comlog bio-monitor sia il medipac cominciano a cinguettare avvertimenti di morte cerebrale. La maschera a osmosi continua a forzare ossigeno puro nei polmoni del prete e gli stimolatori del medipac mantengono ancora in funzione cuore e polmoni, ma l'intensità del segnale sonoro ha un'impennata e poi si mantiene costante su un tono orribile.

— Ha perso troppo sangue — dice Sol Weintraub. Tocca il viso del prete, tenendo chiusi gli occhi e chinando la testa.

— Magnifico — sbotta Sileno. — Eccezionale! E secondo la sua stessa storia, Hoyt si decomporrà e si ricomporrà, grazie a quella maledetta cosa a forma di croce… due maledette cose, l'amico abbonda di polizze di risurrezione… e poi tornerà come una versione cerebralmente danneggiata dello spettro del papà di Amleto. E a quel punto cosa faremo?

— Chiudi il becco — dice Brawne Lamia. Avvolge il corpo di Hoyt in un telo che ha portato con sé dalla tenda.

— Chiudilo tu! — urla Sileno. — Abbiamo giù un mostro in agguato qui intorno. Il Vecchio Grendel in persona è qui in giro e affila le unghie per il prossimo pasto; vuoi che alla nostra allegra compagnia si aggiunga lo zombie di Hoyt? Ricordi la descrizione dei Bikura? Per secoli hanno lasciato che il crucimorfo li riportasse in vita: parlare a uno di loro era come parlare a una spugna ambulante. Vuoi davvero che il cadavere di Hoyt faccia la passeggiata con noi?

— Due — dice il Console.

— Come? — Martin Sileno si gira di scatto, perde l'equilibrio, cade sulle ginocchia accanto al corpo di Hoyt. — Cos'hai detto?

— Due crucimorfi — dice il Console. — Il suo e quello di padre Duré. Se la storia sui Bikura è vera, allora tutt'e due saranno… risuscitati.

— Oh, Cristo in croce — dice Sileno. Si siede sulla sabbia.

Brawne Lamia ha terminato di avvolgere il corpo del prete. Lo guarda. — Ricordo l'episodio, nella storia di padre Duré a proposito del Bikura chiamato Alfa — dice. — Ma ancora non capisco. Non quadra con la legge della conservazione di massa.

— Saranno mini-zombie - dice Martin Sileno. Si stringe addosso la pelliccia e prende a pugni la sabbia.

— Avremmo appreso un mucchio di cose, se la nave fosse arrivata — dice il Console. — L'autodiagnostico avrebbe… — S'interrompe. — Guardate. Nell'aria c'è meno sabbia. Forse la tempesta sta per…

Il fulmine lampeggia e comincia a piovere: palline gelide che colpiscono il viso con furia maggiore della tempesta di sabbia.

Martin Sileno comincia a ridere. — Che deserto di merda! — grida al cielo. — Finiremo annegati nel diluvio.

— Dobbiamo toglierci di qui — dice Sol Weintraub. Fra le pieghe del mantello si scorge il viso della piccina. Rachel piange: è paonazza. Sembra appena nata.

— Castel Crono? — propone Lamia. — Dista un paio d'ore…

— Troppo lontano — obietta il Console. — Accampiamoci in una Tomba.

Sileno ride di nuovo. Declama:


Chi sono costoro che vengono al sacrificio?

A quale verde altare, o misterioso sacerdote,

hai condotto questa giovenca che muggisce al cielo,

con i serici fianchi ornati di ghirlande?


— Significa sì? — domanda Lamia.

— Significa un merdoso "perché no?" — ride Sileno. — Facilitiamo pure alla nostra gelida musa il compito di trovarci. Nell'attesa, guarderemo il nostro amico decomporsi. Quanto tempo occorreva, secondo la storia di Duré, perché un Bikura si riunisse al gregge, dopo che la morte aveva interrotto il suo brucare?

— Tre giorni — dice il Console.

Col palmo della mano Martin Sileno si batte la fronte. — Ma certo. Come ho fatto, a scordarlo? Un periodo di tempo davvero appropriato, a mo' di Nuovo Testamento. Intanto, forse il nostro lupo Shrike porterà via un altro capo di questo gregge. Credete che al prete importi, se prendo in prestito un crucimorfo, per ogni evenienza? Voglio dire, ne ha uno di scorta…

— Andiamo — dice il Console. Un ruscello continuo di pioggia gli scorre dal tricorno. — Staremo nella Sfinge fino al mattino. Porterò il bagaglio di Kassad e il cubo di Moebius. Brawne, porta le cose di Hoyt e lo zaino di Sol. Sol, tieni la piccina al caldo e all'asciutto.

— E il prete? — domanda il poeta, muovendo il pollice in direzione del corpo.

— Padre Hoyt lo porti tu — dice piano Brawne Lamia, girandosi.

Martin Sileno apre bocca, vede in pugno a Lamia la rivoltella, scrolla le spalle, solleva il corpo del prete. — Chi porterà Kassad, quando lo troveremo? — domanda. — Certo, forse sarà in tanti pezzi che potremo dividercelo…

— Per favore, sta' zitto — dice stancamente Brawne Lamia. — Se devo spararti, avremo un altro peso da portare. Cammina e basta.

Il Console procede all'avanguardia, Weintraub viene subito dopo, Martin Sileno barcolla a qualche metro, Brawne Lamia chiude la fila: per la seconda volta il gruppetto scende nella Valle delle Tombe.

9

Quel mattino il programma del PFE Gladstone era pieno d'impegni. Tau Ceti Centro ha un giorno di ventitré ore, cosa che rendeva pratico, per il governo, servirsi del tempo standard dell'Egemonia senza distruggere totalmente i ritmi diurni locali. Alle 5,45 Gladstone s'incontrò con i consiglieri militari. Alle 6,30 fece colazione con una ventina d'influenti senatori e con i rappresentati della Totalità e del TecnoNucleo. Alle 7,15 si teleportò su Vettore Rinascimento, dove era sera, per l'inaugurazione del Centro Medico Hermes a Cadua. Alle 7,40 tornò alla Casa del Governo per una riunione con i collaboratori più importanti, compreso Leigh Hunt, allo scopo di ripassare il discorso che alle dieci in punto avrebbe tenuto al Senato e alla Totalità. Alle 8,30 s'incontrò di nuovo col generale Morpurgo e con l'ammiraglio Singh, per un aggiornamento della situazione nel sistema di Hyperion. Alle 8,45 mi ricevette.

— Buon giorno, signor Severn — mi salutò. Era alla scrivania, nello stesso ufficio dove l'avevo incontrata tre notti prima. Indicò un buffet contro la parete, sul quale facevano bella mostra brocche d'argento sterling contenenti caffè, tè e caffta.

Scossi la testa e mi accomodai. Tre olofinestre mostravano solo luce bianca, ma quella alla mia sinistra presentava la stessa mappa tri-D del sistema di Hyperion che avevo tentato di decifrare nella Sala di Guerra. Ora mi parve che il rosso degli Ouster ricoprisse il sistema e vi s'infiltrasse come colore che si sciolga e si diffonda in una soluzione azzurra.

— Vorrei che mi raccontasse i suoi sogni — disse Gladstone.

— Vorrei che mi spiegasse perché li ha abbandonati — replicai, con voce piatta. — Perché ha lasciato morire padre Hoyt.

Gladstone non era certo avvezza a sentirsi apostrofare in questo modo, dopo quarantotto anni di Senato e quindici come Primo Funzionario Esecutivo; ma, come unica reazione, inarcò d'un millimetro il sopracciglio. — Allora sogna eventi reali — disse.

— Ne dubitava?

Gladstone posò il blocchetto per appunti, lo spense, scosse la testa. — A dire il vero, no. Ma è sempre una sorpresa sentir parlare di una cosa che non conosce nessun altro nella Rete.

— Perché non ha permesso ai pellegrini di usare la nave del Console?

Gladstone girò la poltroncina per guardare il display tattico che cambiava configurazione a mano a mano che gli aggiornamenti modificavano il flusso di linee rosse, la ritirata di linee blu, il movimento di pianeti e di lune; ma se per rispondermi intendeva prendere spunto dalla situazione militare, cambiò idea. Tornò a girarsi. — Perché dovrei spiegare una qualsiasi decisione esecutiva proprio a lei, signor Severn? Qual è il suo collegio elettorale? Chi rappresenta?

— Rappresento i cinque adulti e la bimba che lei ha abbandonato su Hyperion — risposi. — Era possibile salvare Hoyt.

Gladstone chiuse il pugno e con l'indice si tamburellò il labbro. — Forse — replicò. — E forse era già morto. Ma non era questo il punto, vero?

Mi appoggiai alla spalliera. Non mi ero preso la briga di portare un album da disegno e le dita mi prudevano per la voglia di stringere qualcosa. — Quale, allora?

— Ricorda la storia di padre Hoyt… la storia che raccontò nel corso del viaggio alle Tombe?

— Sì.

— A ogni pellegrino è concesso di chiedere allo Shrike una grazia. La tradizione dice che quell'essere esaudisce il desiderio di uno solo e uccide gli altri. Ricorda qual era il desiderio di Hoyt?

Esitai. Richiamare eventi del passato dei pellegrini era come cercare di ricordare particolari dei sogni della settimana prima. — Voleva che gli fossero tolti i crucimorfi — risposi. — Voleva la libertà per… l'anima, il DNA o cosa diavolo è… di padre Duré e per la propria.

— Non esattamente — disse Gladstone. — Padre Hoyt voleva morire.

Mi alzai, ribaltando quasi la poltrona, e mi accostai con decisione alla mappa. — Sciocchezze — dissi. — Anche se lo desiderava, gli altri avevano l'obbligo di salvarlo… e lei pure. Lei l'ha lasciato morire.

— Sì.

— E lascerà morire anche gli altri.

— Non necessariamente — disse il PFE Meina Gladstone. — Questa è la loro volontà… e quella dello Shrike, se una simile entità esiste davvero. A questo punto, so solo che il pellegrinaggio è troppo importante per fornire un mezzo di… di ritirata… al momento della decisione.

— Quale decisione? La loro? Come può, la vita di sei o sette individui… e di una neonata… influenzare il risultato di una società di centocinquanta miliardi di persone? — Conoscevo la risposta, ovviamente. La Commissione di Consulenza delle IA e i previsori meno intelligenti dell'Egemonia avevano scelto con molta cura i pellegrini. Ma per quale motivo? Imprevedibilità. Erano valori che pareggiavano l'enigma finale dell'intera equazione Hyperion. Gladstone lo sapeva, o sapeva solo quello che il consulente Albedo e le sue stesse spie le avevano detto? Con un sospiro tornai alla poltrona.

— Il sogno le ha detto qual è stata la sorte del colonnello Kassad? — chiese il PFE.

— No. Mi sono svegliato prima che tornassero alla Sfinge per ripararsi dalla tempesta.

Gladstone sorrise appena. — Lei capisce, signor Severn, che per i nostri scopi sarebbe più conveniente sottoporla a sedativi, adoperare la stessa droga usata dai suoi amici Philomel e collegarla a dei sub-vocalizzatori, in modo da avere un rapporto più continuo degli eventi su Hyperion.

Ricambiai il sorriso. — Sì — dissi. — Sarebbe più conveniente. Ma lo sarebbe meno, se mi ritraessi nel Nucleo, via sfera dati, lasciandomi alle spalle il corpo vuoto. Proprio quel che farò, se sarò sottoposto di nuovo a coercizione.

— Naturale. Farei così anch'io, in circostanze analoghe. Mi dica, signor Severn, che effetto fa, trovarsi nel Nucleo? In quel luogo remoto dove risiede realmente la sua consapevolezza.

— Sempre in movimento — risposi. — Oggi vuole vedermi per altro?

Gladstone sorrise di nuovo e intuii che quello era un sorriso vero, non l'arma da politico che adoperava con tanta abilità. — Sì — disse. — Ho altro in mente. Le piacerebbe andare su Hyperion? Il vero Hyperion?

— Il vero Hyperion? — ripetei scioccamente. Sentii un formicolio alle dita delle mani e dei piedi, mentre un senso d'eccitazione mi pervadeva. Forse la mia consapevolezza risiedeva nel Nucleo, ma il mio corpo e il mio cervello erano fin troppo umani, fin troppo suscettibili all'adrenalina e alle altre sostanze chimiche casuali.

Gladstone annuì. — Milioni di persone vogliono andarci. Teleportarsi in un posto nuovo. Osservare da vicino la guerra. — Con un sospiro spostò il blocco per appunti. — Che idioti. — Sollevò lo sguardo su di me, e gli occhi castani avevano un'espressione seria. — Ma io voglio che qualcuno vada lì e mi riferisca di persona. Stamane Leigh adopera uno dei nuovi terminali teleporter militari e ho pensato che potrebbe unirsi a lui. Forse non avrà il tempo di scendere su Hyperion, ma si troverà all'interno del sistema.

Delle diverse domande che mi vennero in mente, ne rivolsi una che mi imbarazzò. — Sarà pericoloso?

Gladstone non cambiò espressione né tono. — Può darsi. Anche se si troverà molto dietro le linee e Leigh ha ordini precisi di non esporsi, e di non esporre nemmeno lei, a rischi evidenti.

"Rischi evidenti" pensai. Ma quanti rischi non evidenti esistevano in una zona di guerra, nei dintorni di un mondo dove una creatura come lo Shrike vagava in libertà? — Sì — dissi. — Ci vado. Ma c'è una cosa…

— Sì?

— Devo sapere perché vuole che vada. Se il motivo riguarda solo il mio legame con i pellegrini, corre un rischio inutile, si direbbe, a mandarmi su Hyperion.

Gladstone annuì. — Signor Severn, è vero che il suo legame con i pellegrini, per quanto tenue, m'interessa. Ma è altrettanto vero che m'interessano le sue osservazioni e le sue valutazioni. Le sue.

— Ma per lei non sono niente — obiettai. — Non sa a chi altri potrei riferire, deliberatamente o meno. Sono una creatura del Tecno-Nucleo.

— Sì. Ma in questo momento potrebbe anche essere l'individuo più libero da legami politici di tutto Tau Ceti Centro e forse dell'intera Rete. Inoltre, le sue osservazioni sono quelle di un poeta esperto, di un uomo di cui rispetto la genialità.

Scoppiai a ridere. — Lui era un genio — replicai. — Io sono un simulacro. Un parassita. Una caricatura.

— Ne è sicuro? — domandò Meina Gladstone.

— Non ho scritto un verso, nei dieci mesi in cui sono stato vivo e cosciente di questa mia bizzarra vita dopo la morte — risposi. — Non penso in poesia. Non basta a dimostrare che questo progetto di ricupero del Nucleo è un'impostura? Perfino il mio falso nome è un insulto a un uomo di talento infinitamente superiore a quello che sarà mai il mio… Joseph Severn era un'ombra, a paragone del vero John Keats, ma io ne offusco il nome, usandolo.

— Potrebbe essere vero — disse Gladstone. — E potrebbe non esserlo. In un caso e nell'altro, le ho chiesto di partecipare col signor Hunt a questo breve viaggio su Hyperion. — Esitò. — Lei non ha… il dovere… di andare. In più di un senso, non è neppure cittadino dell'Egemonia. Ma sarei lieta che andasse.

— D'accordo — dissi; mi parve di ascoltare da lontano la mia stessa voce.

— Benissimo. Avrà bisogno di abiti pesanti. Non indossi niente che si sciolga o le procuri imbarazzo in caduta libera, anche se è poco probabile che un'eventualità del genere si verifichi. Incontrerà il signor Hunt nel nesso primario teleporter della Casa del Governo… — diede un'occhiata al comlog — fra dodici minuti.

Con un cenno d'assenso mi girai per uscire.

— Ah, signor Severn…

Mi fermai accanto alla porta. A un tratto l'anziana signora alla scrivania parve piccola e stanchissima.

— Grazie, signor Severn — disse.


Era vero che milioni di persone volevano teleportarsi nella zona di guerra. La Totalità era piena di stridule petizioni, di ragioni addotte per lasciare che i civili si teleportassero su Hyperion, di richieste delle navi da crociera per fare brevi escursioni nella zona e di pretese che i politici piane tari e i rappresentanti dell'Egemonia avessero il permesso di fare il giro del sistema in "missioni di ricerca fatti". Ogni richiesta del genere era stata respinta. I cittadini della Rete, soprattutto se dotati di potere e d'influenza, non erano abituati a rinunciare a nuove esperienze, e la guerra totale era una delle poche esperienze che l'Egemonia non aveva ancora provato.

Ma l'ufficio del PFE e le autorità della FORCE restavano inamovibili: niente civili né teletrasporti non autorizzali nel sistema di Hyperion, niente servizi robocron non censurati. In un'epoca in cui nessuna informazione era inaccessibile, nessun viaggio era negato, una simile esclusione stuzzicava e faceva ammattire.

Incontrai il signor Hunt al nesso teleporter dell'esecutivo, dopo avere mostrato l'autorizzazione a non meno di dodici nodi di sicurezza. Hunt vestiva di lana nera, l'uniforme priva di decorazioni ma significativa della FORCE, onnipresente in quella sezione della Casa del Governo. Avevo avuto poco tempo per cambiarmi: ero tornato nel mio alloggio solo per prendere una comoda camicia munita di varie tasche per tenerci i materiali da disegno e una olocamera da 35 mm.

— Pronto? — disse Hunt. Il viso da basset-hound non sembrava felice di vedermi. Hunt portava una normale valigetta nera.

Risposi con un cenno d'assenso.

Hunt rivolse un gesto a un tecnico dei trasporti della FORCE e un portale monouso si materializzò tremolando. Sapevo che quell'affare era sintonizzato sulla nostra impronta DNA e non avrebbe lasciato passare nessun altro. Hunt trasse un sospiro e varcò il portale. Guardai la superficie argento vivo incresparsi dopo il suo passaggio, come un ruscello che torni calmo al cessare d'un lieve alito di vento; varcai anch'io il portale.

Correva voce che i prototipi originali di teleporter non dessero sensazioni durante il transito, e che le IA e i progettisti umani li avessero modificati per aggiungere un vago formicolio e un sentore di scariche di ozono per dare l'impressione di avere viaggiato davvero. Qualunque sia la verità, la mia pelle vibrò di tensione, quando mi spostai di un passo dal portale e mi guardai intorno.

È curioso, ma vero, che il naviglio per guerre spaziali sia stato raffigurato nelle opere di fantasia, nei film, negli olodrammi e negli stim-sim per più di ottocento anni; ancora prima che la razza umana lasciasse la Vecchia Terra in aeroplani convertiti per sfiorare l'atmosfera, i film bi-di avevano mostrato epiche battaglie spaziali, enormi incrociatori interstellari dotati di armamenti incredibili che si tuffavano nello spazio come città aerodinamiche. Perfino l'inondazione di recenti olodrammi di guerra, a seguito della Battaglia di Bressia, mostrava enormi flotte impegnate in battaglia a distanze che due fanti avrebbero trovato claustrofobiche, navi che speronavano e sparavano e bruciavano come triremi greche ammassate nello stretto d'Artemisio.

Non c'è da stupirsi, quindi, se il cuore mi batteva e il palmo delle mani mi sudava un poco, all'idea di teleportarmi a bordo dell'ammiraglia, aspettandomi di emergere sull'ampio ponte di una nave da guerra come quelle degli olodrammi, con schermi giganteschi che mostravano le navi nemiche, suoni di sirene, comandanti scolpiti nella roccia raccolti intorno a pannelli di comando tattico, mentre la nave sbandava prima a destra, poi a sinistra.

Hunt e io ci trovammo in quello che sarebbe potuto essere uno stretto corridoio di una centrale energetica. Da ogni parte s'intrecciavano tubazioni con colori in codice e c'erano di tanto in tanto delle maniglie; a intervalli regolari, portelli a tenuta stagna suggerivano che ci trovassimo davvero dentro un'astronave; diskey ultimo modello e pannelli interattivi mostravano che il corridoio serviva a scopi diversi dall'accesso chissà dove, ma l'effetto complessivo era quello di claustroiobia e di tecnologia primitiva. Quasi m'aspettai di vedere veri cavi passare da un nodo di circuito all'altro. Un pozzo verticale intersecava il corridoio; dai portelli si vedevano altri corridoi stretti e ingombri.

Hunt mi guardò e si strinse nelle spalle. Mi domandai se era possibile che ci fossimo teleportati alla destinazione sbagliata.

Prima che uno di noi due aprisse bocca, un giovane guardiamarina della FORCE:spazio, in divisa nera da combattimento, comparve da un corridoio laterale, salutò Hunt e disse: — Benvenuti a bordo della AE Ebridi, signori. L'ammiraglio Nashita vi porge i suoi saluti e vi invita al centro controllo combattimento. Seguitemi, prego. — Girò sui tacchi e s'infilò in uno stretto pozzo verticale.

Lo seguimmo meglio che potevamo: Hunt cercava di non lasciar cadere la valigetta, e io cercavo di non farmi pestare le mani da Hunt, mentre ci arrampicavamo. Solo dopo qualche metro mi accorsi che lì la gravità era molto inferiore a quella standard: a dire il vero, non era affatto gravità, ma sembrava una miriade di piccole mani che mi premessero verso il basso. Sapevo che certi navigli, per simulare la forza di gravità, usavano in tutto lo scafo un campo di contenimento classe-1, ma quella era la prima volta che lo sperimentavo di persona. Non era una sensazione piacevole: a causa della pressione costante, sembrava di procedere controvento e l'effetto accresceva il senso di claustrofobia prodotto dagli stretti corridoi, dai piccoli portelli e dalle paratie ingombre d'attrezzature.

La Ebridi era una nave C-3, Comunicazione-Controllo-Comando, e il centro di controllo combattimento ne era il cuore e il cervello… ma non un cuore e un cervello molto impressionanti. Il giovane guardiamarina ci guidò attraverso tre portelli a tenuta stagna, lungo un ultimo corridoio sorvegliato da marines di guardia, salutò e ci lasciò in una cabina di circa venti metri quadrati, ma così piena di rumore, di personale e di congegni che il primo istinto era quello di tornare indietro per prendere una boccata d'aria.

Non c'erano schermi giganti, ma decine di giovani ufficiali della FORCE:spazio erano chini sopra misteriosi display, sedevano collegati ad apparecchiature stim-sim, o stavano in piedi davanti a pulsanti lavagne di richiamo che sembravano protendersi da tutt'e sei le paratie. Uomini e donne erano legati alle poltrone e alle culle sensoriali, fatta eccezione per alcuni ufficiali (in gran parte con l'aspetto di burocrati infastiditi, più che di guerrieri scolpiti nella roccia) che andavano su e giù per gli stretti passaggi, davano manate d'incoraggiamento ai subordinati, ringhiavano per avere altri dati e si servivano del proprio impianto a spinotto per collegarsi ai pannelli di comando. Uno di questi ufficiali si avvicinò in fretta, ci guardò, mi salutò e disse: — Il signor Hunt?

Con un cenno indicai il mio compagno.

— Signor Hunt — disse il giovane capitano di fregata — l'ammiraglio Nashita la riceverà subito.

Il comandante di tutte le forze dell'Egemonia nel sistema di Hyperion era un ometto con capelli bianchi e corti, pelle molto più liscia di quanto l'età suggerisse e un fiero cipiglio che sembrava scolpito dalla nascita. L'ammiraglio Nashita indossava una divisa nera a collo alto, priva di insegne di grado, a parte il piccolo sole nano rosso sul colletto. Aveva mani tozze e robuste, ma con unghie curate di recente. Sedeva sopra una piccola predella circondata da attrezzature e da lavagne in stato di riposo. Il trambusto e l'efficiente confusione parevano fluire intorno a lui come un rapido torrente intorno a una roccia inattaccabile.

— Lei è il messaggero di Gladstone — disse a Hunt. — E costui?

— Il mio aiutante — rispose Leigh Hunt.

Soffocai l'impulso d'inarcare il sopracciglio.

— Cosa vuole? — domandò Nashita. — Come vede, abbiamo da fare.

Leigh Hunt annuì e si guardò intorno. — Ho del materiale per lei, ammiraglio. Non possiamo andare in un luogo più tranquillo e riservato?

L'ammiraglio Nashita brontolò, passò il palmo sopra un reo-sensore e l'aria alle mie spalle divenne densa e si rapprese in una nebbia semisolida, sotto l'azione del campo di contenimento. I rumori del centro controllo scomparvero. Noi tre ci trovammo in un piccolo iglù di silenzio.

— Si sbrighi — disse l'ammiraglio Nashita.

Hunt aprì la valigetta e ne tolse una piccola busta con il simbolo della Casa del Governo sul rovescio. — Un messaggio privato da parte del Primo Funzionario Esecutivo — disse. — Da leggere con comodo, ammiraglio.

Nashita brontolò e mise da parte la busta.

Hunt posò sulla scrivania una busta più grossa. — E questa è la bozza della mozione senatoriale riguardante la prosecuzione di questa… ah… azione militare. Come sa, è volontà del Senato che sia una rapida dimostrazione di forza per raggiungere obiettivi limitati, con la minore perdita possibile di vite umane, seguita dall'offerta standard di aiuto e di protezione al nostro nuovo… bene coloniale.

Il cipiglio di Nashita crebbe leggermente. L'ammiraglio non diede segno di voler toccare né leggere le disposizioni del Senato. — È tutto? — disse.

Hunt prese tempo, prima di rispondere. — È tutto, ammiraglio, a meno che non voglia inviare per mio tramite un messaggio al PFE.

Nashita lo fissò. Negli occhi piccoli e neri non c'era vera e propria ostilità, solo un'impazienza che sospettai sarebbe scomparsa solo quando la morte li avesse velati. — Ho accesso astrotel privato al PFE — disse l'ammiraglio. — La ringrazio molto, signor Hunt. Non ci sono messaggi di risposta. Ora, la prego di tornare al nesso teleporter a mezzanave, in modo che questa azione militare possa proseguire.

Intorno a noi il campo di contenimento si spense e i rumori ci inondarono come acqua che superi una diga di ghiaccio fondente.

— C'è ancora una cosa — disse Leigh Hunt, con voce bassa che rischiò di perdersi nel tecno-schiamazzo del centro di combattimento.

L'ammiraglio Nashita fece ruotare la poltroncina e attese.

— Vorremmo scendere sul pianeta — disse Hunt. — Giù su Hyperion.

Il cipiglio dell'ammiraglio parve farsi più marcato. — La gente del PFE Gladstone non ha detto di preparare una navetta.

Hunt non batté ciglio. — Il governatore generale Lane sa che potremmo giungere.

Nashita lanciò un'occhiata a una lavagna, schioccò le dita e latrò qualcosa a un maggiore dei marines che si affrettò ad avvicinarsi. — Deve sbrigarsi — disse a Hunt l'ammiraglio. — Un corriere è pronto a lasciare il boccaporto venti. Il maggiore Inverness le mostrerà la strada. Sarà riportato a bordo della Balzonave primaria. La Ebridi lascerà l'attuale posizione fra ventitré minuti.

Hunt annuì e si girò per seguire il maggiore. Gli andai dietro. La voce dell'amiraglio ci bloccò.

— Signor Hunt — disse Nashita — la prego di riferire al PFE Gladstone che d'ora in avanti la nave ammiraglia avrà troppo da fare per altre visite di politici. — Si girò per prestare attenzione a una lavagna lampeggiante e a una fila di subordinati in attesa.

Seguii Hunt e il maggiore nel labirinto di corridoi.


— Dovrebbero esserci degli oblò.

— Prego? — Sovrappensiero, non avevo fatto attenzione.

Leigh Hunt girò la testa dalla mia parte. — Non sono mai stato in una navetta priva di oblò o di schermi. È insolito.

Annuii e mi guardai intorno, notando per la prima volta l'interno ingombro. Nella navetta c'erano solo paratie cieche e mucchi di provviste e un solo giovane sottotenente occupava con noi la stiva passeggeri. L'ambiente sembrava conformarsi alla claustrofobia della nave comando.

Tornai ai pensieri che mi preoccupavano da quando avevamo lasciato Nashìta. Mentre seguivo gli altri due al boccaporto venti, a un tratto mi era venuto in mente che non sentivo la mancanza di una cosa che mi ero aspettato mi sarebbe mancata. Una parte dell'ansia riguardante il viaggio derivava dal pensiero di abbandonare la sfera dati: mi sentivo come un pesce che meditasse di lasciare il mare. Una parte della mia coscienza era sommersa in qualche punto di questo mare, l'oceano di dati e di collegamenti informativi provenienti da duecento mondi e dal Nucleo, tutti legati dal mezzo invisibile un tempo chiamato piano dati e ora noto solo come megasfera.

Mi colpì, mentre lasciavamo Nashita, il fatto di udire ancora le pulsazioni di questo mare particolare, lontane ma costanti, simili al rumore della risacca a un chilometro da riva, e avevo cercato di capirlo, durante il volo della navetta, l'aggancio e la separazione, la corsa cislunare di dieci minuti fino al limitare dell'atmosfera di Hyperion.

La FORCE era orgogliosa di adoperare le proprie intelligenze artificiali, le proprie sfere dati e le fonti di calcolo. La ragione apparente consisteva nella necessità di operare negli spazi smisurati fra i mondi della Rete, gli abissi neri e silenziosi fra le stelle e al di là della megasfera della Rete; ma gran parte della ragione vera consisteva in un feroce bisogno di indipendenza che per secoli la FORCE aveva mostrato nei confronti del TecnoNucleo. Eppure, in una nave della FORCE nel mezzo della flotta della FORCE in un sistema extra-Rete e Protettorato, ricevevo lo stesso confortevole borbottio di fondo composto di dati e d'energia che avrei trovato in un qualsiasi altro punto della Rete. Interessante.

Pensai ai collegamenti che il teleporter aveva immesso nel sistema di Hyperion: non solo la Balzonave e la sfera di contenimento che si librava nel punto L-3 di Hyperion come una nuova luna scintillante, ma i chilometri di cavo gigacanale in fibra ottica che serpeggiavano nei portali permanenti Balzonave, i ripetitori microonda che meccanicamente facevano una spola di alcuni centimetri per ripetere il proprio messaggio in tempo quasi reale, le servili IA della nave comando che chiedevano, e ottenevano, nuovi collegamenti con l'Alto Comando Olympus su Marte e altrove. Nel sistema di Hyperion la sfera dati era infiltrata, forse di nascosto, dai macchinari della FORCE e dai loro operatori e alleati. Le IA del Nucleo sapevano tutto quel che accadeva. Se il mio corpo fosse morto in quel momento, avrei avuto la stessa via di fuga di sempre, lungo i collegamenti pulsanti che, come passaggi segreti, portavano al di là della Rete, al di là di ogni residuo di piano dati come lo conosceva la razza umana, giù nei tunnel di legame dati fino al TecnoNucleo stesso. "A dire il vero, non proprio al Nucleo" pensai "perché il Nucleo circonda e avvolge il resto, come l'oceano contiene correnti separate, grandi Correnti del Golfo che si ritengono mari a parte."

— Vorrei proprio che ci fosse uno schermo oblò — mormorò Leigh Hunt.

— Sì — dissi. — Anch'io.

La navetta sgroppò e vibrò, quando entrammo negli strati superiori dell'atmosfera di Hyperion. "Hyperion" pensai. "Lo Shrike." La camicia pesante e la veste sembravano appiccicose e incollate. Un debole sussurro esterno disse che volavamo nel cielo color lapislazzuli a velocità parecchie volte superiore a quella del suono.

Il giovane sottotenente si sporse nel passaggio mediano. — La vostra prima discesa, signori?

Hunt annuì.

Il sottotenente masticava gomma e mostrava quanto era rilassato. — Siete due tecnici civili provenienti dalla Ebridi?

— Siamo appena giunti da quella nave — disse Hunt.

— Lo immaginavo — disse il sottotenente sorridendo. — Io faccio servizio di corriere alla base dei marines nei pressi di Keats. Il mio quinto viaggio.

Un lieve brivido mi percorse, nel ricordare il nome della capitale; Hyperion era stato ripopolato da re Billy il Triste con una colonia di poeti, di artisti e di altri sbandati in fuga perché Horace Glennon-Height minacciava d'invadere il loro mondo natale… minaccia mai portata a termine. Quasi due secoli prima, il poeta che partecipava all'attuale Pellegrinaggio allo Shrike, Martin Sileno, aveva consigliato re Billy nella scelta del nome della capitale. Keats. I locali chiamavano Jacktown la parte vecchia della città.

— Un posto incredibile — disse il sottotenente. — La vera estremità anale del nulla. Voglio dire, niente sfera dati, niente VEM, niente teleporter, niente bar stim-sim, niente di niente. Non c'è da stupirsi se migliaia di stronzi indigeni se ne stanno accampati intorno allo spazioporto e fanno a pezzi il reticolato per andarsene dal pianeta.

— Assalgono davvero lo spazioporto? — domandò Hunt.

— No — rispose il sottotenente, con uno schiocco di gomma da masticare. — Ma sono pronti a farlo, rendo l'idea? Ecco perché il secondo battaglione dei marines ha innalzato una barriera e controlla le vie di comunicazione con la città. Inoltre, quei bifolchi sono convinti che da un momento all'altro metteremo in funzione i teleporter e che li faremo uscire dalla merda in cui si sono cacciati da soli.

— Si sono cacciati da soli? - dissi.

Il sottotenente scrollò le spalle. — Avranno combinato qualcosa, per provocare gli Ouster, no? Siamo qui per togliergli le ostriche dal fuoco.

— Le castagne — lo corresse Leigh Hunt, non raccogliendo il gioco di parole.

Altro schiocco di gomma da masticare. — Fa lo stesso.

Il mormorio del vento divenne un urlio chiaramente percettibile attraverso lo scalo. La navetta rimbalzò due volte, poi scivolò dolcemente — una dolcezza di malaugurio — come se avesse incontrato uno scivolo di ghiaccio quindici chilometri sopra il suolo.

— Vorrei che ci fosse un oblò — mormorò Leigh Hunt.

Nella navetta faceva caldo e si soffocava. I rimbalzi davano una bizzarra sensazione di rilassamento, come quella di una piccola nave a vela che risalisse e scendesse onde basse. Per alcuni minuti tenni chiusi gli occhi.

10

Sol, Brawne, Martin Sileno e il Console portano i bagagli, il cubo di Moebius di Het Masteen e il corpo di Lenar Hoyt giù per la lunga rampa fino all'ingresso della Sfinge. Ora cade la neve, turbina sulla superficie già butterata delle dune, in una complicata danza di particelle spinte dal vento. Anche se i comlog dicono che la notte è quasi terminata, a oriente non c'è traccia d'alba. Le frequenti chiamate sul collegamento radio comlog non ottengono risposta dal colonnello Kassad. Sol Weintraub esita davanti all'ingresso della Tomba del Tempo detta Sfinge. Sente la presenza della figlia come calore contro il petto sotto il mantello, alito caldo contro la gola. Alza la mano, tocca il piccolo fardello e cerca d'immaginarsi Rachel come una donna di ventisei anni, la ricercatrice che si sofferma su quello stesso ingresso prima di entrare a studiare i misteri anti-entropici della Tomba. Scuote la testa. Da quel momento sono trascorsi ventisei lunghi anni, tutta una vita. Fra quattro giorni sarà il giorno di nascita della figlia. A meno che Sol non agisca, non trovi lo Shrike, non trovi con lui un accordo, non faccia qualcosa, Rachel morirà, fra quattro giorni.

— Vieni, Sol? — lo chiama Brawne Lamia. Gli altri hanno deposto i bagagli nella prima stanza, sei metri più avanti nel corridoio di pietra.

— Eccomi — risponde Sol, ed entra nella tomba. Fotoglobi e lampadine elettriche sono appesi lungo il tunnel, ma sono spenti e impolverati. Solo la torcia di Sol e il bagliore di una delle piccole lanterne di Kassad illuminano la strada.

La prima stanza è piccola, non più di quattro metri per sei. Gli altri tre pellegrini hanno ammucchiato i bagagli contro la parete di fondo e hanno steso teloni e sacchi a pelo nel centro del pavimento gelido. Due lanterne sibilano e mandano una luce fredda. Sol si ferma e si guarda intorno.

— Il corpo di padre Hoyt è nella stanza accanto — dice Brawne Lamia, rispondendo alla domanda inespressa. — Lì fa anche più freddo.

Sol prende posto vicino agli altri. Anche a quella profondità, ode il raspare della sabbia e della neve spinte dal vento contro la pietra.

— Più tardi il Console proverà di nuovo il comlog — dice Brawne. — Spiegherà a Gladstone la situazione.

Martin Sileno ride. — Non serve a niente. A un cazzo di niente. Quella sa bene cosa fa. Non ci lascerà mai andare via di qui.

— Farò una prova appena dopo l'alba — dice il Console. Ha la voce stanchissima.

— Starò io di guardia — dice Sol. Rachel si agita e piange debolmente. — Tanto, devo dare da mangiare alla bambina.

Gli altri sembrano troppo stanchi per rispondere. Brawne si appoggia a uno zaino, chiude gli occhi, nel giro di qualche secondo respira pesantemente. Il Console si cala sugli occhi il tricorno. Martin Sileno incrocia le braccia e fissa l'entrata, in attesa.

Sol Weintraub si affaccenda con un nutripac: con le dita gelate e artritiche ha difficoltà a tirare la linguetta per l'autoriscaldamento. Guarda nella sacca e si accorge di essere rimasto solo con dieci confezioni e una manciata di pannolini.

La piccina poppa e Sol ciondola la testa, quasi assopito, quando un rumore sveglia tutti.

— Cos'è? — grida Brawne, cercando a tastoni la rivoltella paterna.

— Sst! — la zittisce il poeta, alzando la mano per avere silenzio.

Da qualche parte, al di là della Tomba, il rumore si ripete. Secco e definitivo, taglia il frastuono del vento e il fruscio della sabbia.

— Il fucile di Kassad — dice Brawne Lamia.

— O di un altro — mormora Martin Sileno.

Rimangono in silenzio e tendono le orecchie. Per un lungo istante non c'è alcun rumore. Poi, in un attimo, la notte è piena di frastuono… frastuono che li spinge a rannicchiarsi e a tapparsi le orecchie. Rachel strilla di terrore, ma i suoi strilli non si sentono fra le laceranti esplosioni che provengono dall'esterno.

11

Mi svegliai proprio mentre la navetta atterrava. "Hyperion" mi dissi, cercando ancora di separare i pensieri dai brandelli del sogno.

Il giovane sottotenente ci augurò buona fortuna e uscì per primo, quando il portello a iride si dilatò e aria fredda e sottile sostituì quella più densa della cabina pressurizzata. Seguii Hunt all'esterno e lungo la rampa d'ormeggio standard, varcai il muro di schermatura e fui sul tarmac.

Era notte; non avevo idea di quale fosse l'ora locale, se il terminatore aveva appena oltrepassato quel punto del pianeta o si avvicinava, ma provai l'impressione che fosse tardi. Pioveva piano, un'acquerugiola profumata di mare e di vegetazione bagnata di fresco. Luci di campo brillavano lungo il perimetro lontano e una ventina di torri illuminate lanciava aloni contro le nuvole basse. Sei giovanotti in divisa campale dei marines scaricavano rapidamente la navetta e il nostro sottotenente parlava in tono vivace a un ufficiale, trenta metri alla nostra destra. Il piccolo spazioporto pareva uscito da un libro di storia, un porto coloniale che risalisse ai primi giorni dell'Egira. Primitivi pozzi di lancio e quadrati d'atterraggio si estendevano per un paio di chilometri verso la massa scura delle montagne a nord; incastellature e torri di servizio badavano a una ventina di navette militari e a piccoli mezzi da guerra intorno a noi; le zone d'atterraggio erano circondate da edifici modulari che mostravano schieramenti di antenne, campi di contenimento violacei e un grappolo di skimmer e di velivoli.

Seguendo lo sguardo di Hunt, notai uno skimmer che si muoveva verso di noi. Il simbolo geodetico azzurro e oro dell'Egemonia, sopra una flangia, era illuminato dalle luci di posizione; la pioggia rigava le torrette di prua ed era spazzata via dai ventilatori in una violenta cortina di nebbia. Lo skimmer si posò, una torretta di perspex si aprì e si ripiegò, un uomo uscì e si mosse in fretta sul tarmac verso di noi.

Tese la mano a Hunt. — Signor Hunt? Sono Theo Lane.

Hunt gliela strinse e con la testa indicò me. — Lieto di conoscerla, governatore generale. Le presento Joseph Severn.

Strinsi la mano di Lane e al tocco provai una scossa di riconoscimento. Ricordavo Theo Lane, attraverso le nebbie di déjà vu della memoria del Console, dagli anni in cui Lane era viceconsole; e anche dal breve incontro di una settimana prima, quando Lane aveva salutato i pellegrini, prima che risalissero il fiume a bordo della chiatta a levitazione Benares. Sembrava più vecchio di quanto era apparso solo sei giorni prima. Ma il ciuffo ribelle sulla fronte era lo stesso e non erano cambiati gli antiquati occhiali che portava e la stretta di mano forte e decisa.

— Mi fa piacere che abbia trovato il tempo di scendere sul pianeta — disse a Hunt il governatore generale Lane. — Dovrei comunicare al PFE diverse cose.

— Siamo qui per questo — rispose Hunt. Diede un'occhiata al cielo, sotto la pioggerella. — Abbiamo circa un'ora. C'è un posto dove andare ad asciugarci?

Il governatore generale mostrò un sorriso giovanile. — Lo spazioporto è una gabbia di matti, anche alle 5,20 del mattino, e il consolato è sotto assedio. Ma conosco un posto. — Indicò lo skimmer.

Mentre decollavamo, notai due skimmer dei marines procedere di pari passo col nostro, ma rimasi ugualmente sorpreso che il governatore generale di un mondo del Protettorato volasse nel proprio veicolo e non fosse sempre circondato di guardie del corpo. Poi ricordai come l'aveva descritto il Console — efficiente e riservato — e capii che quel modo di fare era in carattere con lo stile del diplomatico.

Il sole spuntò mentre viravamo verso la città. Nuvole basse mandarono vividi riflessi, illuminate da sotto; le montagne a nord brillarono di un verde intenso, di viola, di rosso fulvo e la striscia di cielo al di sotto delle nuvole a est assunse quello sconvolgente color verde e blu lapislazzuli che conoscevo dai sogni. "Hyperion" pensai e provai una forte tensione, sentii in gola un groppo d'entusiasmo.

Appoggiai la testa contro il tettuccio rigato di pioggia: parte del senso di vertigine e di confusione che provavo in quel momento derivava dalla riduzione del contatto di fondo con la sfera dati. Il legame non era cessato, grazie soprattutto ai canali microonda e astrotcl, ma era più tenue di quanto non avessi mai provato… se la sfera dati fosse stata il mare in cui nuotavo, adesso mi trovavo davvero in acque basse, forse in una pozzanghera di marea, per usare una similitudine migliore, e l'acqua diventava sempre più scarsa, mentre lasciavamo l'involucro dello spazioporto e la sua rozza microsfera. Mi costrinsi a prestare attenzione ai discorsi di Hunt e del governatore generale Lane.

— Guardi le baracche e le catapecchie — disse Lane, virando di qualche grado per offrirci una vista migliore delle montagne e delle vallate che separavano lo spazioporto dalla periferia della capitale.

Baracche e catapecchie erano termini troppo raffinati per la miserabile accozzaglia di pannelli di fibroplastica, di pezzi di tela, di casse da imballaggio, di schegge di flussoschiuma, che copriva le montagne e i profondi canaloni. Quella che un tempo era stata chiaramente una strada panoramica di dieci chilometri fra montagne boscose, dalla città allo spazioporto, ora mostrava terreni diboscati per costruire ricoveri e avere legna da ardere, prati trasformati in spianate di terra battuta ridotta a fanghiglia, e una città di ottocentomila profughi sparsi su ogni tratto visibile di terra in piano. Il fumo di migliaia di fuochi per la colazione si alzava verso le nuvole; scorgevo movimento dappertutto, bambini che correvano scalzi, donne che portavano acqua da torrenti senza dubbio orribilmente inquinati, uomini accosciati nei campi aperti o in coda davanti a latrine di fortuna. Alti reticolati di fil di ferro tagliente e barriere di campi di contenimento violacei erano diposti ai lati della strada; ogni ottocento metri si vedevano posti di controllo militari. Lunghe file di veicoli mimetici terrestri della FORCE e di skimmer si muovevano nei due sensi lungo la strada e le corsie di volo a bassa quota.

— … per la maggior parte i profughi sono indigeni — diceva in quel momento il governatore generale Lane — anche se ci sono migliaia di ex proprietari terrieri fuggiti dalle città meridionali e dalle grandi piantagioni di fibroplastica di Aquila.

— Si sono rifugiati qui perché ritengono probabile l'invasione Ouster? — domandò Hunt.

Theo Lane diede un'occhiata all'aiutante di Gladstone. — All'inizio c'è stata un'ondata di panico al pensiero dell'apertura delle Tombe del Tempo — rispose. — Tutti erano convinti che lo Shrike venisse a prenderli.

— E avevano ragione? — domandai.

Il giovane funzionario cambiò posizione per guardarmi. — La Terza Legione della Forza di Autodifesa è andata a nord, sette mesi fa — disse. — Non è tornato nessuno.

— Ha detto che all'inizio fuggivano dallo Shrike — disse Hunt. — E dopo?

— Aspettano l'evacuazione. Tutti sanno quello che gli Ouster… e i soldati dell'Egemonia… hanno fatto su Bressia. Non vogliono trovarsi qui, quando accadrà anche su Hyperion.

— Si rende conto che per la FORCE l'evacuazione è l'ultimissima risorsa?

— Sì. Ma ai profughi non lo diciamo. Ci sono già state sommosse terribili. Il Tempio Shrike è stato distrutto… la folla l'ha assediato e qualcuno ha usato cariche sagomate al plasma, rubate dalle miniere nel continente Ursa. La settimana scorsa ci sono stati attacchi al consolato e allo spazioporto, oltre ai tumulti a Jacktown.

Hunt annuì e guardò la città avvicinarsi. Gli edifici erano bassi, quattro o cinque piani, e le pareti bianche o color pastello brillavano vivamente ai raggi obliqui del sole mattutino. Guardai da sopra la spalla di Hunt e vidi la bassa montagna scolpita con le fattezze di re Billy il Triste incombere sulla vallata. Il fiume Hoolie girava intorno al centro della città vecchia e si raddrizzava prima di puntare a nordest verso l'invisibile Briglia, poi piegava e scompariva nelle paludi di legno weir a sudest, dove sapevo che si allargava a formare il delta lungo la Grande Criniera. La città pareva poco affollata e tranquilla, dopo la penosa confusione dei baraccamenti di profughi; ma quando iniziammo a scendere verso il fiume, notai il traffico militare, i carri armati, i veicoli corazzati per trasporto truppe e le autoblindo agli incroci e nei parcheggi, con il polimero mimetico disattivato per avere un aspetto più minaccioso. Poi vidi i profughi nella città: tende di fortuna nelle piazze e nei viali, migliaia di figure addormentate lungo i marciapiedi, simili a innumerevoli pacchi da lavanderia di colore smorto in attesa di essere raccolti.

— Due anni fa Keats aveva una popolazione di duecentomila anime — disse il governatore generale Lane. — Adesso, calcolando le baraccopoli, ci avviciniamo ai tre milioni e mezzo.

— Pensavo che su tutto il pianeta ci fossero meno di cinque milioni d'abitanti — disse Hunt. — Indigeni compresi.

— Infatti. Ora capisce perché tutto va a rotoli. Il resto dei profughi si è raccolto nelle altre due maggiori città, Port Romance ed Endymion. In Aquila le piantagioni di fibroplastica sono abbandonate, invase dalla giungla e dalle foreste di fuoco; la cintura di fattorie lungo la Criniera e le Nove Code non produce più niente… o, se produce, non può mettere sul mercato i prodotti agricoli a causa del crollo del sistema di trasporti civili.

Hunt guardò il fiume farsi più vicino. — Cosa fa, il governo?

Theo Lane sorrise. — Vuol dire, cosa faccio io? Be', la crisi fermenta da quasi tre anni. Come primo passo, ho sciolto il Consiglio Autonomo e fatto entrare ufficialmente Hyperion nel Protettorato. Ottenuti i poteri esecutivi, ho nazionalizzato le ultime compagnie di trasporto e le linee di dirigibili… ora qui solo i militari usano gli skimmer… e ho soppresso la Forza di Autodifesa.

— Soppresso? — disse Hunt. — Pensavo invece che se ne sarebbe servito.

Il governatore generale Theo Lane scosse la testa. Sfiorò con sicurezza l'onnicomando e lo skimmer scese a spirale verso il centro di Keats vecchia. — Era peggio che inutile — disse. — Era pericolosa. Non sono rimasto troppo sconvolto, quando la "Terza Combattenti" non è tornata. Appena sono atterrati i fanti della FORCE:terra e i marines, ho disarmato quei criminali della FAD. Erano responsabili della maggior parte dei saccheggi. Ecco laggiù il posto dove faremo colazione e continueremo il discorso.

Lo skimmer si abbassò sul fiume, girò in tondo un'ultima volta e atterrò morbidamente nel cortile di un antico edificio di pietra e di legno e di finestre disegnate con fantasia: da Cicero. Prima che Lane ne dicesse a Hunt il nome, avevo riconosciuto il locale, perché i pellegrini erano passati da lì: l'antico ristorante/bar/albergo si trovava nel cuore di Jacktown e si estendeva su nove piani in quattro edifici, con balconi e banchine e scuri passaggi pedonali di legno weir che scavalcavano da un lato il pigro Hoolie e dall'altro vicoli e vicoletti. Cicero era più antico della faccia di pietra di re Billy il Triste; i séparé bui e le cantine erano stati la vera casa del Console, negli anni di esilio sul pianeta.

Stan Leweski ci accolse sulla porta del cortile. Alto e massiccio, faccia scura e segnata dagli anni come le pareti di pietra di Cicero, Leweski s'identificava col proprio locale, come prima di lui avevano fatto suo padre, suo nonno, suo bisnonno.

— Diavolo! — esclamò il gigante; diede al governatore generale dittatore de facto Theo Lane una manata sulla spalla tanto forte da farlo barcollare. — Stamattina si è alzalo presto, tanto per cambiare, eh? Porta due amici a colazione? Benvenuti da Cicero! — La manona di Stan Leweski inghiottì quella di Hunt e la mia, con una stretta che mi spinse a controllare dita e giunture in cerca di danni. — O è tardi, tempo Rete, per voi? — vociò. — Forse preferite un apertivo o volete cenare?

Leigh Hunt fissò con sospetto il proprietario del locale. — Come la a sapere che veniamo dalla Rete?

Leweski esplose in una risata che fece svolazzare le banderuole segnavento sul colmo del tetto. — Ah! Difficile da dedurre, eh? Venite qui all'alba in compagnia di Theo… pensate che dia a tutti un passaggio fin qui?… e avete abiti di lana quando qui non ci sono pecore. Non siete gente della FORCE e nemmeno pezzi grossi delle piantagioni di fibroplastica… li conosco tutti! Ergo, vi siete teleportati dalla Rete alle navi e siete scesi per un buon boccone. Allora, vi preparo la colazione o aperitivi a volontà?

Theo Lane sospirò. — Trovaci un angolino tranquillo, Stan. Uova al bacon e aringhe in salamoia per me. Signori?

— Solo caffè — disse Hunt.

— Anche per me — confermai. Seguimmo il proprietario nei corridoi, su per brevi scale, giù per rampe di ferro battuto, in altri corridoi. Il locale era più basso, più buio, più pieno di fumo e più caratteristico di quanto non ricordassi dai sogni. Alcuni clienti abituali alzarono gli occhi al nostro passaggio, ma il locale era molto meno affollato. Evidentemente Lane aveva inviato i soldati a buttare fuori gli ultimi barbari della FAD che avevano occupato il locale. Passammo davanti a una finestra alta e stretta: una rapida occhiata a un mezzo corazzato della FORCE:terra fermo nel vicolo mi confermò questa ipotesi; accanto al veicolo oziavano soldati muniti di armi chiaramente cariche.

— Qui — disse Leweski; ci introdusse in una piccola veranda che sovrastava l'Hoolie e guardava sui tetti a due spioventi e sulle torri di pietra di Jacktown. — Dommy arriverà in due minuti a portarvi la colazione e i caffè. — Scomparve in fretta… per uno della sua mole.

Hunt diede un'occhiata al comlog. — Abbiamo quarantacinque minuti, prima che la navetta parta in teoria con noi a bordo. Parliamo pure.

Lane annuì, si tolse gli occhiali, si strofinò gli occhi. Capii che era rimasto alzato per tutta la notte… forse per diverse notti. — Bene — disse, rimettendosi gli occhiali. — Il PFE Gladstone cosa vuole sapere?

Hunt esitò, mentre un uomo assai basso con pelle bianca come pergamena e occhi gialli ci portava i caffè, in tazze spesse e fonde, e metteva davanti a Lane il vassoio con la colazione. — Il PFE vuole sapere quali priorità intende seguire — disse Hunt. — E se è in grado di resistere, nel caso che il combattimento si prolunghi.

Prima di rispondere, Lane terminò il boccone. Bevve un lungo sorso di caffè e fissò Hunt. Dal gusto, era caffè vero, migliore della maggior parte di quello coltivato nella Rete. — Risponderò prima all'ultima domanda — disse Lane. — Si prolunghi quanto?

— Settimane.

— Settimane, probabilmente sì. Mesi, niente da fare. — Il governatore generale assaggiò le aringhe in salamoia. — Vede anche lei lo stato della nostra economia. Se non fosse per le provviste scaricate dalla FORCE, avremmo sommosse per fame ogni giorno, anziché una volta alla settimana. Non ci sono esportazioni, perché siamo in quarantena. Metà dei profughi vuole trovare i sacerdoti del Tempio Shrike e ucciderli; l'altra metà, vuole convertirsi prima che sia lo Shrike a trovare loro.

— Avete trovato i sacerdoti? — domandò Hunt.

— No. Siamo sicuri che sono sopravvissuti alla distruzione del tempio, ma le autorità non riescono a scoprire dove si trovino. Corre voce che siano andati a nord, a Castel Crono, un maniero di pietra che s'innalza sull'arido altopiano delle Tombe del Tempo.

Ne sapevo di più io. Almeno, sapevo che i pellegrini non avevano visto sacerdoti del Tempio Shrike, durante la breve visita a Castel Crono. Ma c'erano segni di massacro.

— In quanto alle nostre priorità — continuò Lane — la prima è l'evacuazione. La seconda è l'eliminazione della minaccia Ouster. La terza è aiuto per il panico provocato dallo Shrike.

Leigh Hunt si appoggiò alla spalliera di legno lucidato, reggendo la tazza piena di caffè fumante. — L'evacuazione non è una possibilità, al momento…

— Perché? — La domanda di Lane parve una scarica di frustalaser.

— Il PFE Gladstone non ha il potere politico, al momento attuale, per convincere il Senato e la Totalità che la Rete può accogliere cinque milioni di profughi…

— Stronzate — disse il governatore generale. — Un numero doppio di turisti invase Patto-Maui, il primo anno dall'ingresso nel Protettorato. E così fu distrutta un'ecologia planetaria assolutamente unica. Mandateci su Armaghast o su un altro mondo desertico, finché la paura della guerra non sia passata.

Hunt scosse la testa. Negli occhi da basset-hound aveva un'aria più triste del solito. — Non c'è solo la questione logistica — disse. — Né solo quella politica. Si tratta…

— Dello Shrike — disse Lane. Tagliò una fettina di bacon. — Lo Shrike è il vero motivo.

— Sì. E timori di una infiltrazione Ouster nelle Rete.

Il governatore generale rise. — Avete paura che, se impiantate qui i teleporter e ci lasciate andare via, un gruppo di Ouster alti tre metri si metta in coda senza che nessuno se ne accorga?

Hunt sorseggiò il caffè. — No — rispose. — Ma la possibilità d'invasione esiste realmente. Ogni teleporter rappresenta un'apertura per entrare nella Rete. La Commissione di Consulenza ci ha messi in guardia.

— E va bene — disse il giovane funzionario, a bocca piena. — Allora procedete all'evacuazione a mezzo nave. Non era questo il compito dell'unità operativa originaria?

— Il compito apparente - precisò Hunt. — Il nostro vero scopo adesso è sconfiggere gli Ouster e poi far entrare Hyperion nella Rete, a tutti gli effetti.

— E la minaccia dello Shrike, allora?

— Sarà… neutralizzata — disse Hunt. Tacque, mentre un gruppetto di persone passava davanti alla veranda.

Alzai gli occhi, cominciai a riportare l'attenzione al tavolino, poi girai di scatto la testa: il gruppetto era ormai fuori vista, lungo il corridoio. — Quello non era Melio Arundez? — dissi, interrompendo il governatore generale.

— Prego? Ah, il dottor Arundez. Lo conosce, signor Severn?

Leigh Hunt mi rivolse un'occhiata di fuoco, ma non gli badai. — Sì — risposi a Lane, anche se in realtà non avevo mai incontrato Arundez. — Cosa fa, su Hyperion?

— Il suo gruppo è arrivato più di sei mesi fa, con una proposta di progetto della Reichs University di Freeholm per ulteriori ricerche sulle Tombe del Tempo.

— Ma l'accesso alle Tombe è stato vietato a ricercatori e turisti — obiettai.

— Infatti. Però i loro strumenti… abbiamo permesso la trasmissione settimanale di dati per mezzo dell'astrotel del consolato… hanno già mostrato il cambiamento dei campi anti-entropici che circondano le Tombe. La Reichs University sapeva che le Tombe si aprivano… se questo è davvero il significato del cambiamento… e hanno inviato i principali ricercatori della Rete a studiarlo.

— Ma lei non ha dato il permesso?

Theo Lane sorrise senza calore. — Il PFE Gladstone non ha dato il permesso. Il divieto di accostarsi alle Tombe è un ordine diretto da TC2. Fosse dipeso da me, avrei negato ai pellegrini il permesso di transito e dato al dottor Arundez accesso prioritario. — Si girò di nuovo verso Hunt.

— Scusatemi — dissi, alzandomi.


Trovai Arundez e i suoi collaboratori — tre donne e quattro uomini, il cui abbigliamento e aspetto fisico suggerivano la provenienza da differenti mondi della Rete — due verande più avanti. Chini sopra la colazione e i comlog scientifici, discutevano con termini tecnici così astrusi da riempire d'invidia uno studioso del Talmud.

— Dottor Arundez? — dissi.

— Sì? — Sollevò lo sguardo. Era di vent'anni più vecchio di quanto non ricordassi, sulla sessantina, ma aveva sempre lo stesso profilo di notevole bellezza, pelle abbronzata, mascella volitiva, capelli neri e ondulati appena spruzzati di grigio alle tempie, acuti occhi castani. Capivo come una giovane studentessa fresca di laurea avesse potuto rapidamente innamorarsi di lui.

— Mi chiamo Joseph Severn — dissi. — Lei non mi conosce, ma io conoscevo una sua amica… Rachel Weintraub.

Arundez balzò in piedi, scusandosi con gli altri; mi prese per il braccio e mi guidò in un séparé vuoto, dentro uno stanzino, sotto una finestra circolare che guardava sui tetti di tegole rosse. Mi lasciò il braccio e mi valutò attentamente, notando gli abiti della Rete. Mi girò il polso, cercando la sfumatura azzurrina che rivelava il trattamento Poulsen. — Lei è troppo giovane — disse infine. — A meno che non abbia conosciuto Rachel bambina.

— A dire il vero, conosco meglio suo padre.

Il dottor Arundez sospirò e annuì. — Ma certo. Dov'è, Sol? Da mesi cerco di rintracciarlo tramite il consolato. Le autorità di Hebron dicono solo che ha cambiato residenza. — Mi rivolse di nuovo un'occhiata critica. — Lei è al corrente della… malattia di Rachel?

— Sì. — Il morbo di Merlino, che l'aveva fatta ringiovanire cancellandole i ricordi ogni giorno e ogni ora che passava. Melio Arundez era stato uno di quei ricordi. — So che una quindicina di anni standard fa lei è andato a farle visita, sul Mondo di Barnard.

Arundez fece una smorfia. — Fu un errore — disse. — Pensavo di parlare con Sol e con Sarai. Quando la vidi… — Scosse la testa. — Lei chi è? Sa dove si trovano, Sol e Rachel, in questo momento? Mancano tre giorni alla sua nascita!

Annuii. — Il suo primo e ultimo giorno. — Mi guardai in giro. Il corridoio era silenzioso e deserto, a parte il lontano mormorio di risate provenienti da un piano inferiore. — Sono qui in missione di ricerca dati per conto dell'ufficio del PFE — dissi. — Sol Weintraub e sua figlia hanno fatto il viaggio alle Tombe del Tempo.

Arundez mi guardò con l'aria di chi ha ricevuto un pugno alla bocca dello stomaco. — Qui? — esclamò. — Su Hyperion? — Per un momento fissò la distesa di tetti. — Dovevo capirlo… anche se Sol aveva sempre rifiutato di venire qui… ma dopo la morte di Sarai… — Mi guardò. — È in contatto con lui? Sta… stanno bene tutt'e due?

Scossi la testa. — Al momento attuale non esistono collegamenti con loro, via radio o sfera dati — risposi. — So che hanno terminato felicemente il viaggio. La questione è un'altra: cosa sa, lei? La sua squadra? Informazioni su quel che avviene in questo momento alle Tombe del Tempo sarebbero importantissime per la loro sopravvivenza.

Melio Arundez si passò le dita fra i capelli. — Se solo ci avessero permesso di andare sul posto! La maledetta, stupida, burocratica miopia… Ha detto di lavorare per l'ufficio di Gladstone. Non può spiegare loro perché è importantissimo che noi ci rechiamo laggiù?

— Sono un semplice messaggero. Ma mi spieghi il motivo e cercherò di passare l'informazione a qualcuno.

Le mani di Arundez strinsero a mezz'aria una sagoma invisibile. La sua tensione e la sua ira erano palpabili. — Per tre anni i dati sono giunti per via telemetrica, una volta alla settimana, grazie alle raffiche astrotel concesse dal consolato sul loro prezioso trasmettitore. Mostravano una lenta ma costante degradazione dell'involucro anti-entropico… le maree del tempo… dentro le Tombe e tutt'intorno. Era irregolare, illogica, ma continua. La nostra squadra fu autorizzata a venire qui, poco dopo l'inizio del fenomeno. Siamo giunti circa sei mesi fa; i dati indicavano che le Tombe si aprivano… che tornavano in fase con il presente. Ma quattro giorni dopo il nostro arrivo, gli strumenti hanno smesso di trasmettere. Tutti. Abbiamo supplicato quel bastardo di Lane di lasciarci andare a regolarli di nuovo e a sistemare nuovi sensori, se non voleva che investigassimo di persona.

"Niente da fare, nessun permesso di transito. Nessun contatto con l'università… nemmeno quando l'arrivo delle navi della FORCE l'ha reso più facile. Abbiamo provato a risalire il fiume da soli, senza permesso, e alcuni bifolchi dei marines di Lane ci hanno intercettati alle chiuse Karla e ci hanno riportati qui in manette. Ho fatto quattro settimane di prigione. Adesso ci permettono di girare per Keats, ma se lasciamo di nuovo la città, ci sbattono in galera a tempo indeterminato. — Arundez si sporse verso di me. — Lei non può aiutarci?"

— Non so — risposi. — Voglio aiutare i Weintraub. Forse la cosa migliore sarebbe se potessi portare sul posto lei e la sua squadra. Sa quando le Tombe si apriranno?

Il cronofisico fece un gesto di stizza. — Se avessimo nuovi dati! — Sospirò. — No, non lo sappiamo. Potrebbero aprirsi già adesso oppure fra sei mesi.

— Quando dice "aprire" non si riferisce all'apertura fisica, vero?

— No, naturalmente. Le Tombe sono fisicamente aperte all'ispezione fin da quando sono state scoperte, quattro secoli standard fa. Parlo di apertura nel senso di caduta delle cortine temporali che nascondono parte delle Tombe: l'intero complesso tornerebbe in fase con il flusso del tempo locale.

— Per "locale" intende…

— Di questo universo, è ovvio.

— È sicuro che le Tombe si muovano a ritroso nel tempo… a partire dal nostro futuro?

— A ritroso nel tempo, sì. Dal nostro futuro, si può dire. Ma non siamo sicuri nemmeno di cosa significhi "futuro", in termini temporali/fisici. Potrebbe essere una serie di probabilità a onda sinusoidale oppure un mega-universo a diramazioni decisionali, o perfino…

— Qualunque cosa sia — lo interruppi — le Tombe del Tempo e lo Shrike provengono da qui?

— Le Tombe, di sicuro. Non conosco lo Shrike. Personalmente ritengo che sia un mito alimentato dalla stessa fame di verità superstiziose che spinge altre religioni.

— Anche dopo quel che è accaduto a Rachel? Ancora non crede allo Shrike?

Melio Arundez mi lanciò un'occhiata di fuoco. — Rachel ha contratto il morbo di Merlino — rispose. — Una malattia d'invecchiamento anti-entropico, non il morso d'un mostro mitico.

— Il morso del tempo non è mai stato mitico — dissi, sorprendendo me stesso con questo frammento da quattro soldi di filosofia fatta in casa. — La domanda è: lo Shrike, o quale che sia il potere che abita le Tombe, riporterà Rachel al flusso di tempo "locale"?

Arundez annuì e rivolse lo sguardo ai tetti. Il sole si era spostato fra le nuvole; il mattino era smorto, le tegole rosse parevano slavate di ogni colore. La pioggia cominciava a cadere di nuovo.

— E c'è un'altra domanda — continuai, sorprendendomi di nuovo. — Lei è ancora innamorato di Rachel?

Arundez girò lentamente la testa per fissarmi con occhi pieni di rabbia. Controllò a fatica l'impulso a rispondere per le rime, forse non solo a parole. Poi si calmò, infilò la mano nella tasca della giacca e mi mostrò un'olografia, l'istantanea d'una donna attraente ma non più giovane e di due bambini sui dieci anni. — Mia moglie e i miei figli — disse. — Mi aspettano, su Vettore Rinascimento. — Puntò contro di me il dito tozzo. — Se… se Rachel fosse curata oggi, avrei ottantadue anni standard, prima che raggiungesse di nuovo l'età che aveva quando la conobbi. — Ripose in tasca l'olografia. — E… sì, sono ancora innamorato di lei.

Dopo un attimo, una voce ruppe il silenzio. — Pronto? — Huni e Theo Lane erano sulla soglia. — La navetta decolla fra dieci minuti — disse Hunt.

Mi alzai e strinsi la mano a Melio Arundez. — Ci proverò — dissi.

Il governatore generale Lane ordinò a uno dei suoi skimmer di scorta di riportarci allo spazioporto, mentre lui tornava al consolato. Lo skimmer militare non era più comodo dell'altro, ma sicuramente più veloce. A bordo della navetta, quando fummo legati nei sedili a rete, Hunt disse: — Cosa aveva da discutere, con quel cronofisico?

— Mi limitavo a rinnovare vecchi legami con un estraneo — risposi.

Hunt si accigliò. — Cosa gli ha promesso di tentare?

Sentii la navetta rombare e dare uno strattone, quando la griglia catapulta ci lanciò verso il cielo. — Gli ho detto che cercherò di combinare per lui una visita a un'amica ammalata — risposi.

Hunt rimase accigliato, ma io estrassi un blocco per schizzi e disegnai immagini del Cicero, finché non attraccammo alla Balzonave, quindici minuti più tardi.

Varcare il teleporter e ritrovarsi nel nesso per funzionari della Casa del Governo fu sconvolgente. Un altro passo ci portò nella galleria del Senato, dove Meina Gladstone parlava ancora all'assemblea quasi al completo. Olocamere e microfoni portavano il suo discorso alla Totalità e a cento miliardi di cittadini in attesa.

Diedi un'occhiata al cronometro. Erano le 10,38. Eravamo stati via solo novanta minuti.

12

L'edificio che ospitava il Senato dell'Egemonia dell'Uomo seguiva più lo schema del Senato degli Stati Uniti di otto secoli prima che non le maestose costruzioni della Repubblica Nordamericana o del Primo Consiglio Mondiale. La sala principale era ampia, circondata di balconate, sufficiente a contenere i trecento e passa senatori dei mondi della Rete e la settantina di rappresentanti senza diritto di voto delle colonie del Protettorato. I tappeti erano di un ricco color vinaccia e si irradiavano dalla piattaforma centrale dove il Presidente pro tempore, lo Speaker della Totalità e, oggi, il Primo Funzionario Esecutivo dell'Egemonia, avevano il proprio seggio. Le scrivanie dei senatori erano di legno muir, donato dai Templari di Bosco Divino e ritenuto sacro, e il luccichio e il profumo del legno brunito riempivano la sala anche quando era affollata come in quel momento.

Leigh Hunt e io entrammo proprio mentre Gladstone terminava il discorso. Premetti i tasti del comlog per una rapida lettura. Come per la maggior parte dei discorsi di Meina Gladstone, anche quello era breve, relativamente semplice, senza condiscendenza né parole altisonanti, eppure dotato di una fraseologia originale e di una ricchezza d'immagini che facevano grande effetto. Gladstone aveva passato in rassegna gli incidenti e i conflitti che avevano portato all'attuale stato di guerra con gli Ouster, aveva proclamato il desiderio di pace tuttora al primo posto nella politica dell'Egemonia e auspicato l'unità all'interno della Rete e del Protettorato, almeno fino al superamento della crisi in corso. Ascoltai la conclusione.

« …e così accade, concittadini, che dopo più di un secolo di pace ci troviamo di nuovo impegnati in una lotta per mantenere quei diritti ai quali la nostra società è consacrata fin da prima della morte della nostra Madre Terra. Dopo più d'un secolo di pace, adesso dobbiamo impugnare… anche se di malavoglia, anche se con ribrezzo… lo scudo e la spada, che hanno sempre preservato i nostri diritti e garantito il bene comune, in modo che la pace possa di nuovo prevalere.

«Non dobbiamo lasciarci ingannare… e non ci lasceremo ingannare… dall'eco di trombe né dall'impeto di gioia che la chiamata alle armi inevitabilmente produce. Coloro che ignorano le lezioni della storia a proposito della follia finale della guerra, sono costretti a fare più che riviverla… potrebbero essere costretti a morire. Grandi sacrifici potrebbero attenderci tutti. Grandi dispiaceri potrebbero essere in serbo per alcuni di noi. Ma qualsiasi cosa ci portino i successi o le sconfitte, vi dico che dobbiamo ricordare due cose sopra ogni altra: primo, che combattiamo per la pace e sappiamo che la guerra non sarà mai una condizione, ma un flagello temporaneo che sopporteremo come un bambino sopporta la febbre, sapendo che la salute seguirà la lunga notte di sofferenza e che la pace è salute. Secondo, che non ci arrenderemo mai… non ci arrenderemo mai, né vacilleremo, né ci piegheremo a voci inferiori né a impulsi più confortevoli… non vacilleremo mai, finché la vittoria non sarà nostra, l'aggressione non sarà respinta, la pace non sarà riconquistata. Vi ringrazio.»

Leigh Hunt si sporse a guardare attentamente la maggior parte dei senatori che si alzava per dedicare a Gladstone un'ovazione che echeggiò sotto l'alto soffitto e colpì come un'ondata noi nella galleria. La maggior parte dei senatori, non tutti. Vidi Hunt contare quelli che erano rimasti seduti, alcuni a braccia conserte, altri visibilmente accigliati. La guerra aveva meno di due giorni e già l'opposizione cresceva… prima da parte dei mondi coloniali che temevano per la propria sicurezza poiché la FORCE si sarebbe spostata nell'ambito di Hyperion, poi dagli avversari politici di Gladstone, che erano un buon numero, dal momento che nessuno resta al potere tanto a lungo quanto lei senza crearsi squadre di nemici, e infine da parte di componenti della stessa coalizione di governo, che consideravano la guerra una sciocca distruzione di prosperità senza precedenti.

Gladstone lasciò la piattaforma, strinse la mano all'anziano Presidente e al giovane Speaker, percorse il passaggio centrale, salutò diversi senatori e scambiò battute, mostrando il suo ben noto sorriso. Olocamere della Totalità la seguirono: riuscivo a percepire la pressione della rete di dibattito che s'ingigantiva a mano a mano che nei livelli interattivi della megasfera miliardi di cittadini esprimevano la propria opinione.

— Ora devo parlare al PFE — disse Hunt. — Sa di essere stato invitato alla cena ufficiale, stasera, al Treetops?

— Sì — risposi. Hunt scosse leggermente la testa, come se proprio non capisse perché il PFE voleva la mia presenza. — Finirà tardi e sarà seguita da una riunione con la FORCE:comando. Il PFE vuole che lei partecipi a tutt'e due.

— Sarò disponibile — dissi.

Hunt si soffermò sulla soglia. — Ha qualcosa da fare, nella Casa del Governo, fino all'ora di cena?

Gli sorrisi. — Lavorerò ai ritratti. Dopo, probabilmente, farò una passeggiata nel Parco dei Cervi. Poi… non so. Forse schiaccerò un pisolino.

Hunt scosse di nuovo la testa e si allontanò in fretta.

13

Il primo colpo manca di meno d'un metro Fedmahn Kassad, manda in frantumi la roccia che il colonnello ha appena sorpassato; Kassad si è già mosso, prima che l'esplosione lo colpisca: rotola per mettersi al riparo, con il polimero mimetico in funzione, la tuta blindata in tensione, il fucile d'assalto pronto, il visore commutato sulla ricerca automatica del bersaglio. Per un lungo momento rimane disteso, ascolta i battiti del cuore e scruta le montagne, la valle e le Tombe, in cerca della minima traccia di calore o di movimento. Niente. Sogghigna, dietro lo specchio nero del visore.

Chi gli ha sparato intendeva mancarlo, ne è certo. Ha usato un pulsodardo di tipo standard, scagliato da una cartuccia da 18 mm. A meno che il cecchino non si trovasse a dieci o più chilometri di distanza, era impossibile sbagliare il colpo.

Kassad si alza per correre al riparo della Tomba di Giada. Il secondo colpo lo centra in pieno petto e lo scaglia all'indietro.

Questa volta Kassad grugnisce e rotola via, corre di nascosto verso la Tomba di Giada, con tutti i sensori in azione. Il secondo colpo è stato un proiettile di fucile. Chi gioca con lui, adopera un'arma d'assalto multiuso della FORCE, del tipo che Kassad stesso impugna. L'assalitore, sospetta il colonnello, sa che il bersaglio indossa una tuta blindata e che il proiettile di fucile non provocherebbe alcun danno a qualsiasi distanza. Ma l'arma multiuso ha altre possibilità: se il prossimo livello di gioco include un laser per uccidere, Kassad è morto. Il colonnello si lancia nell'entrata della tomba.

Ancora i sensori non rivelano né calore né movimento, a parte le immagini rosse e gialle delle orme dei compagni di pellegrinaggio, che si raffreddano rapidamente, nel punto dove alcuni minuti prima sono entrati nella Sfinge.

Kassad usa gli impianti tattici per cambiare display, scorre in fretta i canali di comunicazione VHF e ottici. Niente. Ingrandisce cento volte la valle, calcola vento e sabbia, attiva un indicatore di bersaglio mobile. Niente di più grosso di un insetto si muove. Kassad emette impulsi radar e sonar, sfida il cecchino a colpirli. Richiama il display tattico dei primi due colpi: compaiono due scie balistiche azzurre.

Il primo colpo proveniva dalla Città dei Poeti, più di quattro chilometri a sudovest. Il secondo, a distanza di meno di dieci secondi dal primo, è partito dal Monolito di Cristallo, quasi un chilometro intero giù nella valle, verso nordest. La logica dice che si tratta di due cecchini. Kassad è sicuro che il cecchino sia uno solo. Perfeziona la scala display. Il secondo colpo è giunto dall'alto del Monolito, almeno trenta metri lungo la parete a picco.

Kassad fa una conversione, aumenta l'ingrandimento, scruta nella notte, fra le ultime tracce della tempesta di sabbia e poi di neve, il gigantesco edificio. Niente. Non ci sono finestre, né feritoie, né aperture di qualsiasi tipo.

Solo i miliardi di particelle colloidali lasciate in aria dalla tempesta gli permettono di scorgere per una frazione di secondo il laser. Kassad vede il raggio verde dopo essere stato colpito al torace. Rotola indietro nel vano di entrata della Tomba di Giada e si domanda se le pareti verdi lo aiuteranno a deviare una lancia di luce verde, mentre i superconduttori della tuta blindata irradiano calore in ogni direzione e il visore tattico gli dice quel che già sa: il colpo è giunto dall'alto del Monolito di Cristallo.

Kassad sente una fitta di dolore al petto e abbassa lo sguardo in tempo per vedere le fibre fuse che gocciolano a terra da un cerchio di cinque centimetri di invulnarmor. Solo l'ultimo strato l'ha salvato. In quel momento il corpo gli gronda di sudore e le pareti della tomba brillano letteralmente del calore che la tuta ha disperso. Bio-monitor emettono segnali d'allarme, ma non c'è niente di grave; i sensori della tuta segnalano alcuni danni ai circuiti, ma niente di irreparabile; il fucile è ancora carico e funzionante.

Kassad riflette. Tutte le Tombe sono tesori archeologici senza prezzo, conservati per secoli come dono alle generazioni future, anche se davvero si muovono a ritroso nel tempo. Sarebbe un crimine su scala interplanetaria mettere la propria vita al di sopra della conservazione di simili, inestimabili manufatti.

— Oh, vaffanculo — mormora Kassad. Rotola in posizione di sparo.

Spruzza di raggi laser la facciata del Monolito, finché il cristallo si trasforma in scoria e cola. Pompa pulsodardi ad alto potenziale esplosivo contro l'edificio, a intervalli di dieci metri, partendo dai piani superiori. Migliaia di schegge di materiale riflettente volano nella notte, rotolano lentamente verso il fondo della valle, lasciano nella facciata dell'edificio brecce brutte come denti guasti. Kassad passa alla luce coerente ad ampio raggio e dai varchi innaffia l'interno, sogghignando sotto il visore quando qualcosa scoppia in fiamme su diversi piani. Kassad spara FEAE, fasci di elettroni ad alta energia, che lacerano il Monolito e scavano tunnel perfettamente cilindrici ampi quattordici centimetri e lunghi mezzo chilometro nella parete rocciosa della valle. Lancia granate caricate a mitraglia, che esplodono in decine di migliaia di fléchettes aghiformi, appena al di là della facciata di cristallo del Monolito. Scaglia falciate casuali di pulsolaser che accecherebbero chiunque guardasse nella sua direzione dall'edificio. Spara minimissili a ricerca di calore corporeo in qualsiasi orifizio offerto dall'edificio ormai in rovina.

Rotola di nuovo all'interno della Tomba di Giada e alza il visore. Lingue di fuoco della torre in fiamme si riflettono su migliaia di schegge di cristallo disseminate per tutta la valle. Il fumo si alza nella notte a un tratto senza vento. Dune vermiglie brillano per le fiamme. All'improvviso l'aria è piena del suono di campanelle a vento, quando altri pezzi di cristallo si rompono e cadono via, alcuni ancora appesi a lunghi fili di vetro fuso.

Kassad espelle le clip d'energia esaurite e i nastri di munizioni, li sostituisce prendendone di nuovi dalla cintura, rotola sulla schiena e respira l'aria più fresca che giunge dal vano d'ingresso. Non si illude affatto di avere ucciso il cecchino.

— Moneta — mormora. Chiude gli occhi per un secondo, prima di continuare.


La prima volta, Moneta è giunta a Kassad un mattino del tardo ottobre del 1415 d.C, ad Agincourt. I campi erano ingombri dei cadaveri di francesi e di inglesi, nella foresta incombeva la minaccia di un singolo nemico, ma quel nemico sarebbe risultato vincitore, se non fosse stato per l'aiuto della donna alta dai capelli corti e dagli occhi che Kassad non avrebbe mai dimenticato. Dopo la vittoria ottenuta insieme, ancora sporchi del sangue del cavaliere abbattuto, Kassad e la donna avevano fatto l'amore nella foresta.

La Scuola Comando Olympus:Rete Storica Tattica era un'esperienza di stimolo-simulazione più vicina alla realtà di qualsiasi esperienza analoga fatta da civili, ma l'amante fantasma chiamata Moneta non era un prodotto dello stim-sim. Nel corso degli anni, quando Kassad era allievo ufficiale alla Scuola Comando Olympus e più tardi, nei sogni post-catartici indotti dallo sfinimento che seguivano inevitabilmente il combattimento vero e proprio, la donna era venuta a lui. Fedmahn Kassad e l'ombra chiamata Moneta avevano fatto l'amore in angoli tranquilli di campi di battaglia che andavano da Antietam a Qom-Riyadh. Di nascosto da tutti, invisibile agli altri allievi stim-sim, Moneta era venuta a lui nelle tropicali notti di guardia e nei gelidi giorni di assedio nelle steppe russe. Avevano mormorato di passione nei sogni di Kassad, dopo notti di vera vittoria nelle isole di Patto-Maui ridotte a campi di battaglia e durante le sofferenze della ricostruzione fisica, dopo che Kassad era quasi morto su Bressia Sud. E sempre Moneta era stata la sua unica amante… una passione irresistibile, mista all'odore del sangue e della polvere da sparo, al gusto del napalm e di morbide labbra e di carne ionizzata.

Poi era venuto Hyperion.

Durante il viaggio di ritorno dal sistema di Bressia, la nave ospedale del colonnello Fedmahn Kassad era stata attaccata da navi torcia Ouster. Solo Kassad era sopravvissuto, rubando una navetta Ouster e compiendo un atterraggio di fortuna su Hyperion. Nel continente Equus. Nei grandi deserti e nelle terre spoglie e isolate al di là della Briglia. Nella valle delle Tombe del Tempo. Nel regno dello Shrike.

E Moneta era stata lì ad aspettarlo. Avevano fatto l'amore… e quando gli Ouster era atterrati in forze per reclamare il prigioniero, Kassad e Moneta e lo Shrike, di cui solo s'intuiva la presenza, avevano distrutto le navi Ouster, annichilito le squadre d'atterraggio, massacrato i soldati. Per breve tempo il colonnello Fedmahn Kassad, nato nei bassifondi di Tharsis, figlio e nipote e pronipote di profughi, cittadino di Marte in tutti i sensi, aveva conosciuto la pura estasi di usare come arma il tempo, di muoversi, invisibile, fra i propri nemici, di essere un dio della distruzione in modi nemmeno sognati da guerrieri mortali.

Ma allora, proprio mentre avevano fatto l'amore, dopo il carnaio della battaglia, Moneta era cambiata. Era divenuta un mostro. Oppure lo Shrike aveva preso il posto della donna. Kassad non ricordava i particolari; non li avrebbe ricordati, se non avesse dovuto farlo per sopravvivere.

Ma sapeva di essere tornato su Hyperion per trovare lo Shrike e ucciderlo. Per trovare Moneta e ucciderla. Ucciderla? Non sapeva. Il colonnello Fedmahn Kassad sapeva solo che tutta la grande passione di una vita intensa l'aveva portato in quel luogo e in quel momento, e se la morte lo aspettava lì, pazienza. E se amore e gloria e una vittoria che avrebbe scosso il Valhalla lo aspettavano, pazienza.


Kassad abbassa con un colpo secco il visore, si alza ed esce di corsa dalla Tomba di Giada, urlando. Spara granate fumogene e avanza verso il Monolito, ma le granate offrono ben poca protezione nel tratto da percorrere. Qualcuno è ancora vivo e spara dalla torre; proiettili e pulsocariche esplodono lungo il percorso, mentre lui schiva e si tuffa da duna a duna, da un cumulo di macerie all'altro.

Le fléchettes gli colpiscono il casco e le gambe. Il visore si crepa e le spie luminose d'allarme si accendono. Battendo le palpebre, Kassad elimina il display tattico, lascia solo il sussidio per la visione notturna. Proiettili solidi ad alta velocità lo colpiscono alla spalla e al ginocchio. Kassad cade a terra. La tuta blindata s'irrigidisce, torna flessibile; lui si alza e riprende a correre, sente che già gli si formano lividi profondi. Il polimero camaleonte lavora a tutto spiano per imitare la terra di nessuno che Kassad attraversa: notte, fiamme, sabbia, cristallo fuso, pietra ardente.

A cinquanta metri dal Monolito, nastri di luce saettano a sinistra e a destra, con un semplice tocco mutano in vetro la sabbia, puntano su di lui a una velocità che niente e nessuno può scansare. I laser omicidi smettono di giocare con lui e vanno a segno, lo colpiscono al casco, al cuore, all'inguine, con il calore delle stelle. La tuta blindata brilla come uno specchio, cambia frequenze nel giro di microsecondi, per uguagliare i mutevoli colori dell'attacco. Un nimbo d'aria iperriscaldata circonda Kassad. I microcircuiti protestano per il sovraccarico, mentre rilasciano il calore e lavorano per costruire un campo di forza micrometrico che protegga carne e ossa.

Kassad lotta per percorrere i venti metri finali, usa il sussidio di energia per scavalcare a balzi le barriere di cristallo scorificato. Esplosioni eruttano da ogni lato, lo sbattono giù, lo sollevano di nuovo. La tuta è completamente rigida. Kassad è una bambola sbattuta fra mani di fiamma.

Il bombardamento termina. Kassad si alza sulle ginocchia, poi si tira in piedi. Solleva lo sguardo sulla facciata del Monolito di Cristallo: vede le fiamme e le fessure e poco altro. Il visore è crepato e morto. Kassad lo solleva, inspira fumo e aria ionizzata, entra nella tomba.

Gli impianti gli dicono che gli altri pellegrini lo chiamano su tutti i canali di trasmissione. Kassad spegne il ricevitore. Si toglie il casco e cammina nelle tenebre.

C'è una singola stanza, larga, quadrata, buia. Al centro si è aperto un pozzo e Kassad guarda in alto per un centinaio di metri, verso una chiazza di cielo illuminato. Una figura aspetta al decimo piano, sessanta metri più su, stagliata contro le fiamme.

Kassad si mette a tracolla il fucile, regge sottobraccio il casco, trova una scala a chiocciola nel centro del pozzo e comincia a salire.

14

— È riuscito a dormire un po'? — mi domandò Leigh Hunt, mentre entravamo nell'area di ricezione farcaster del Treetops.

— Sì.

— Ha fatto sogni piacevoli, mi auguro — disse Hunt, senza il minimo sforzo di celare il sarcasmo né la propria opinione su coloro che dormivano mentre chi muoveva e scuoteva il governo si dava da fare.

— Non particolarmente — risposi, guardandomi intorno mentre salivamo l'ampia scalinata verso i piani da pranzo.

In una Rete dove ogni città di ogni provincia di ogni paese su ogni continente pareva vantare un ristorante a quattro stelle, dove i veri buongustai si contavano a decine di milioni e i palati erano avvezzi a cibi esotici provenienti da duecento pianeti, perfino in una Rete così ricca di trionfi culinari e di ristoranti di successo, il Treetops emergeva solitario.

Posto in cima a una decina degli alberi più alti in un mondo di foreste gigantesche, il Treetops occupava diversi acri di rami a ottocento metri da terra. La scalinata che Hunt e io salivamo, larga in quel punto quattro metri, si perdeva nell'immensità di rami grandi come viali, di foglie ampie come vele e di un tronco principale (illuminato da faretti e appena intravisto fra gli squarci nel fogliame) più ripido e monumentale delle pareti di molte montagne. Il Treetops ospitava nei padiglioni superiori una ventina di piattaforme da pranzo, in ordine ascendente a seconda del rango, del privilegio, della ricchezza e del potere. Soprattutto potere. In una società in cui i miliardari erano quasi comuni, dove una colazione al Treetops costava anche mille marchi ma era alla portata di milioni di persone, l'arbitro finale della posizione e del privilegio era il potere… una moneta che non passa mai di moda.

La riunione serale si sarebbe tenuta sul ponte più alto, una piattaforma ampia e curva di legno weir (dal momento che non si può calpestare il sacro legno muir), con il panorama di cieli color limone prossimi al crepuscolo, un'infinità di cime di alberi minori che si estendevano all'orizzonte lontano, e le morbide luci arancione degli alberi-casa dei Templari e dei luoghi di culto che splendevano attraverso lontanissime pareti color verde, terra bruciata e ambra, formate dal fogliame in lieve movimento. Gli invitati alla cena erano una sessantina; riconobbi il senatore Kolchev, con i capelli bianchi che rilucevano sotto le lanterne giapponesi, e il consulente Albedo, il generale Morpurgo, l'ammiraglio Singh, il Presidente pro tempore Denzel-Hiat-Amin, lo Speaker della Totalità Gibbons, un'altra decina di senatori provenienti da potenti mondi della Rete come Sol Draconis Septem, Deneb Drei, Nordholm, Fuji, i due Rinascimento, Metaxas, Patto-Maui, Hebron, Nuova Terra e Ixion, oltre a una frotta di politici di minore importanza. C'era Spenser Reynolds, l'artista mimico, che sfoggiava un abito da sera di velluto marrone, ma non vidi altri rappresentanti del mondo dello spettacolo. Vidi invece Tyrena Wingreen-Feif, dalla parte opposta dell'affollata piattaforma; l'editrice diventata filantropo risaltava ancora in qualsiasi gruppo, con la lunga veste fatta di migliaia di petali di cuoio sottile come seta e capelli di un nero azzurrastro acconciati in un'alta onda; ma la veste era un Tedekai originale, il trucco era appariscente ma non interattivo e l'aspetto d'insieme era molto più sommesso di quanto non sarebbe stato solo cinque o sei decenni prima. Mi mossi nella sua direzione, mentre gli ospiti si mescolavano sulla penultima piattaforma, facevano rapide puntate ai numerosi bar e aspettavano la chiamata per la cena.

— Joseph, tesoro — esclamò Wingreen-Feif, mentre percorrevo gli ultimi metri — come diavolo ti sei fatto invitare a una cerimonia così orribile?

Sorrisi e le offrii una coppa di champagne. L'imperatrice madre della moda letteraria mi conosceva solo a causa di una sua visita di una settimana al festival dell'arte su Esperance e della mia amicizia con personalità famose nella Rete, come Salmud Brevy III, Millon De Havre e Rithmet Corber. Tyrena era un dinosauro che si rifiutava di estinguersi… i polsi, i palmi e il collo, senza il trucco, avrebbero brillato d'azzurro, a causa dei ripetuti trattamenti Poulsen; e lei passava decenni in crociere interstellari a balzo breve o in pisolini in crio-fuga incredibilmente costosi in stazioni termali troppo esclusive per avere un nome; come risultato, Tyrena Wingreen-Feif aveva tenuto in pugno la scena sociale, con una stretta ferrea, per più di tre secoli e non mostrava alcun segno di volerla abbandonare. Con ogni pisolino di vent'anni, la sua fortuna economica aumentava e la leggenda cresceva.

— Vivi ancora in quell'orribile pianetino che visitai l'anno scorso? — mi domandò.

— Esperance — dissi, sapendo che lei conosceva con esattezza dove risiedeva ogni artista importante di quel mondo poco importante.

— No, a quanto pare mi sono trasferito su TC2, per il momento.

La signora Wingreen-Feif fece una smorfia. Mi rendevo conto vagamente della presenza di una decina di suoi leccapiedi che ci fissavano domandandosi chi fosse quel giovanotto sfrontato che si era inserito nell'orbita interna della donna. — Davvero terribile, per te — disse Tyrena — sopportare un mondo di imprenditori e burocrati governativi. Mi auguro che ti permettano di fuggire presto!

Alzai il bicchiere in un brindisi. — Volevo chiederti una cosa — dissi. — Non eri l'editore di Martin Sileno?

L'imperatrice madre abbassò il bicchiere e mi fissò freddamente. Per un istante immaginai Meina Gladstone e questa donna impegnate in uno scontro di volontà: repressi un brivido e attesi la risposta.

— Mio caro ragazzo — fece lei — è storia così antica! Perché vuoi turbare la tua graziosa testolina infantile con simili sciocchezze preistoriche?

— Sono interessato a Sileno — risposi. — Alla sua poesia. Ero solo curioso di sapere se sei ancora in contatto con lui.

— Joseph, Joseph, Joseph — rispose, con aria disgustata, la signora Wingreen-Feif. — Sono decenni che nessuno ha notizie del povero Martin. Quel disgraziato ormai sarà vecchissimo!

Mi guardai bene dal ricordare a Tyrena che, quando lei era l'editore di Sileno, il poeta era molto più giovane di lei.

— Strano, che tu ne abbia parlato — continuò Tyrena. — La mia vecchia casa editrice, la Transline, diceva di recente che intendono ristampare una parte dell'opera di Martin. Non so se si sono messi in contatto con gli eredi.

— I suoi libri della serie Crepuscolo d'un mondo? — dissi, pensando ai volumi basati sulla nostalgia della Vecchia Terra che molto tempo prima si erano venduti così bene.

— No. Per quanto sembri strano, pare che vogliano ristampare i suoi Canti. — Tyrena rise e tese un bastoncino di cannabis in un lungo bocchino d'ebano. Uno del seguito si affrettò a darle fuoco. — Che scelta bizzarra! — riprese lei. — Tanto più che nessuno ha mai letto i Canti, quando il povero Martin era in vita. Be', niente aiuta la carriera di un artista quanto un po' di morte e di oscurità, come dico sempre. — Rise… piccoli suoni acuti simili a metallo che scheggi la roccia. Cinque o sei del gruppo risero con lei.

— Faresti meglio ad accertarti che Sileno sia morto — dissi. — I Canti sarebbero una lettura migliore, se fossero completi.

Tyrena Wingreen-Feif mi guardò bizzarramente, le campanelle che annunciavano la cena risuonarono tra il fruscio di foglie, Spenser Reynolds offrì il braccio alla grande dame e la gente cominciò a salire l'ultima rampa veso le stelle; terminai di bere, lasciai sulla ringhiera la coppa vuota e mi unii al gregge.


Prendemmo posto e poco dopo arrivarono il PFE e il suo seguito; Gladstone pronunciò un breve discorso, probabilmente il ventesimo della giornata, senza contare quello del mattino al Senato e alla Rete. La ragione originale di quella cena era il riconoscimento ufficiale di una campagna per la raccolta di capitali destinati al Fondo di Assistenza di Armaghast, ma presto il discorso di Gladstone si spostò sulla guerra e sulla necessità di proseguirla con vigore ed efficienza, mentre i capi di tutti i partiti della Rete promuovevano l'unità.

Mentre lei parlava, lasciai vagare lo sguardo al di là della balaustra. Il cielo color limone si era dissolto in zafferano chiaro e poi era svanito rapidamente in un crepuscolo tropicale così vivido da far pensare che avessero steso sul cielo un pesante sipario azzurro. Bosco Divino aveva sei piccole lune, cinque delle quali visibili da quella latitudine, e quattro correvano nel cielo, mentre guardavo le stelle spuntare. Lì l'aria era ricca d'ossigeno, quasi esilarante, e aveva l'intensa fragranza di vegetazione umida che mi ricordò la visita del mattino su Hyperion. Ma su Bosco Divino non erano ammessi VEM, né skimmer, né velivoli di qualsiasi genere (esalazioni petrolchimiche e scie di celle a fusione non avevano mai inquinato quel cielo) e la mancanza di città, di autostrade e di illuminazione elettrica rendeva le stelle abbastanza brillanti da competere con le lanterne giapponesi e con i fotoglobi appesi ai rami e ai pilastri.

Dopo il tramonto, la brezza si era levata di nuovo e ora l'intero albero ondeggiava lievemente; la vasta piattaforma si muoveva con la dolcezza di una nave sul mare appena increspato, i pilastri e i sostegni di legno weir e muir scricchiolavano piano al movimento gentile. Vedevo luci splendere su fra le cime lontane e capii che molte di esse provenivano da "stanze" (alcune delle migliaia affittate dai Templari) collegabili via teleporter alla propria residenza multiplanetaria, se si possedeva l'iniziale milione di marchi necessario per una simile bizzarria.

I Templari non si sporcavano con le attività quotidiane del Treetops e delle agenzie immobiliari: si limitavano a porvi strette e inderogabili condizioni ecologiche, ma beneficiavano delle centinaia di milioni di marchi ricavati da simili imprese. Pensai alla loro nave da crociera interstellare, la Yggdrasill, un Albero lungo un chilometro proveniente dalla foresta più sacra del pianeta, mosso dai generatori d'anomalia del motore Hawking e protetto dai più complessi schermi e campi di forza erg trasportabili. Chissà come, inesplicabilmente, i Templari avevano acconsentito a inviare la Yggdrasill in una missione di sfollamento che era una semplice copertura per l'unità operativa di invasione della FORCE.

E come accade in genere quando oggetti inestimabili sono posti a repentaglio, la Yggdrasill era stata distrutta in orbita intorno a Hyperion da un attacco degli Ouster o per una causa ancora imprecisata. Come avevano reagito, i Templari? Quale scopo inconcepibile li aveva spinti a rischiare una della quattro navi-albero esistenti? E perché il capitano della nave-albero, Het Masteen, era stato scelto come uno dei sette pellegrini allo Shrike ed era scomparso prima che il carro a vela raggiungesse la Briglia, sulle rive del mare d'Erba?

C'erano maledettamente troppe domande e la guerra durava solo da qualche giorno.

Meina Gladstone aveva terminato il discorso e ci invitò a gustare la magnifica cena. Applaudii educatamente e indicai al cameriere di versarmi il vino. Il primo piatto era una classica insalata à la periodo impero, che gustai con entusiasmo. Mi resi conto di non avere mangiato niente, dalla prima colazione di quel mattino. Inforcando un germoglio di crescione d'acqua, ricordai il governatore generale Theo Lane mangiare uova e pancetta e aringhe in salamoia, mentre la pioggia cadeva piano dal cielo color lapislazzuli di Hyperion. Anche quello era stato un sogno?

— Cosa ne pensa della guerra, signor Severn? — mi domandò Reynolds, l'artista mimico. Sedeva alcuni posti più avanti, dall'altra parte dell'ampia tavola, ma la voce si udiva chiaramente. Vidi Tyrena, tre posti alla mia destra, inarcare il sopracciglio verso di me.

— Cosa si può pensare, della guerra? — risposi, assaggiando di nuovo il vino. Era abbastanza buono, ma niente nella Rete poteva uguagliare il Bordeaux che ricordavo io. — La guerra non esige giudizio, solo sopravvivenza.

— Al contrario — disse Reynolds. — Come tante altre cose che la razza umana ha ridefinito a partire dall'Egira, la guerra è sul punto di divenire una forma d'arte.

— Una forma d'arte — sospirò una donna dai capelli castani, tagliati corti. La sfera dati mi disse che era Sudette Chier, moglie del senatore Fyodor Kolchev e importante forza politica per proprio conto. La signora Chier indossava una lunga veste di lamé blu e oro e mostrava un'espressione rapita. — La guerra come forma d'arte, signor Reynolds! Che idea affascinante!

Spenser Reynolds era un po' più basso della media della Rete, ma molto più bello. Aveva corti riccioli, pelle che pareva abbronzata da un sole benevolo e lievemente indorata di sottile pittura per il corpo, abiti e trucco d'ARNista costosi e vistosi ma senza esagerazione, e il suo atteggiamento proclamava la rilassata fiducia che tutti gli uomini sognano e che ben pochi raggiungono. La sua intelligenza era evidente, l'attenzione nei confronti degli altri era sincera, il senso umoristico era leggendario.

Dal primo istante quel figlio di puttana mi risultò antipatico.

— Tutto è una forma d'arte, signora Chier, signor Severn. — Reynolds sorrise. — O deve diventarlo. Abbiamo oltrepassato il punto in cui la guerra può essere semplicemente la volgare imposizione di una linea politica mediante altri mezzi.

— Diplomazia — disse il generale Morpurgo, alla sinistra di Reynolds.

— Prego, generale?

— Diplomazia — disse Morpurgo. — E poi, "estensione ", non "imposizione".

Spenser Reynolds eseguì un inchino accompagnato da un gesto della mano. Sudette Chier e Tyrena risero sottovoce. Alla mia sinistra, l'immagine del consulente Albedo si sporse e disse: — Von Clausewitz, mi pare.

Lanciai un'occhiata al consulente. Un dispositivo portatile di proiezione, non più grande dei ragnatelidi che svolazzavano tra i rami, era sospeso a mezz'aria, due metri sopra e dietro di lui. L'illusione non era perfetta come nella Casa del Governo, ma migliore di ogni ologramma privato che avessi avuto occasione di vedere.

Il generale Morpurgo annuì, rivolto al rappresentante del Nucleo.

— In ogni caso — disse Chier — è l'idea della guerra come arte che è così brillante.

Terminai l'insalata; un cameriere umano portò via la ciotola e servì un brodino grigio scuro che non identificai. Era torbido, lievemente profumato di cinnamomo e di mare, delizioso.

— La guerra è uno strumento perfetto, per un artista — cominciò Reynolds, sollevando la forchetta per l'insalata come se fosse un bastone di comando. — E non solo per quegli… artigiani che hanno studiato la scienza della guerra. — Sorrise a Morpurgo e a un altro ufficiale della FORCE alla destra del generale, tagliandoli fuori. — Solo chi è disposto a guardare al di là dei limiti burocratici delle tattiche e delle strategie e dell'obsolescente "voglia di vincere", può davvero esercitare un tocco d'artista con uno strumento così difficile come la guerra dell'età moderna.

— L'obsolescente voglia di vincere? — disse l'ufficiale della FORCE. La sfera dati mi mormorò che si trattava del capitano di fregata William Ajunta Lee, un eroe navale del conflitto di Patto-Maui. Pareva giovane, forse tra i cinquanta e i sessanta, e il grado suggeriva che la giovinezza era dovuta agli anni di viaggio fra le stelle, anziché al trattamento Poulsen.

— Ma certo, obsolescente — rise Reynolds. — Ritiene che uno scultore voglia sconfiggere la creta? Il pittore assale forse la tela? In un altro campo, l'aquila o il tommifalco aggrediscono forse il cielo?

— Le aquile sono estinte — brontolò Morpurgo. — Forse avrebbero davvero dovuto aggredire il cielo. Le ha tradite.

Reynolds si girò dalla mia parte. I camerieri gli portarono via l'insalata e gli servirono il brodino che avevo quasi terminato. — Signor Severn, lei è un pittore… un illustratore, quanto meno — disse. — Mi aiuti a spiegare a questa gente cosa intendo dire.

— Non so che cosa intende dire — risposi. In attesa della portata seguente, battei un colpetto sul bicchiere, che mi fu immediatamente riempito. A capotavola, a dieci metri da me, Gladstone, Hunt e alcuni funzionari del Fondo di Assistenza ridevano.

Spenser Reynolds non parve sorpreso per la mia dichiarata ignoranza. — Perché la nostra razza raggiunga il vero satori, perché noi passiamo al successivo livello di consapevolezza e di evoluzione di cui tante nostre filosofie parlano, tutte le sfaccettature dello sforzo umano devono diventare impegni coscienti verso l'arte.

Il generale Morpurgo bevve una lunga sorsata e brontolò: — Comprese le funzioni corporali di sfamarsi, riprodursi ed eliminare rifiuti, immagino.

— Soprattutto simili funzioni! — esclamò Reynolds. Aprì le mani nel gesto di offrire la lunga tavola e le sue molteplici delizie. — Quel che si vede qui è l'esigenza animale di trasformare in energia composti organici morti, l'atto basilare di divorare altra vita, ma il Treetops l'ha fatto diventare un'arte! La riproduzione ha sostituito da tempo le proprie rozze origini animali con l'essenza della danza per gli esseri umani civili. L'eliminazione deve diventare pura poesia!

— Me ne ricorderò la prima volta che andrò a farmi una cacata — disse Morpurgo.

Tyrena Wingreen-Feif rise e si rivolse all'uomo in rosso e nero alla sua destra. — Monsignore, la sua chiesa… cattolica, in origine cristiana, vero?… non ha una deliziosa antica dottrina a proposito della razza umana che raggiunge uno stato evolutivo più esaltato?

Ci girammo tutti a guardare l'uomo piccolo e taciturno, in tonaca nera e copricapo bizzarro. Monsignor Edouard, un rappresentate della quasi dimenticata setta del primitivo cristianesimo ora limitata al mondo di Pacem e a qualche pianeta coloniale, si trovava nell'elenco degli invitati perché era coinvolto nel progetto di aiuti ad Armaghast e fino a quel momento si era dedicato in silenzio al brodino. Alzò gli occhi, con aria lievemente sorpresa, nel viso segnato da decenni di esposizione alle intemperie e alle preoccupazioni. — Certo — disse. — Gli insegnamenti di san Teilhard riguardano l'evoluzione verso il Punto Omega.

— E il Punto Omega è simile alla nostra idea gnostica zen del satori reale? — domandò Sudette Chier.

Monsignor Edouard guardò con aria assorta il brodino, come se fosse più importante della conversazione di quel momento. — Non molto simile, in realtà — rispose. — San Teilhard riteneva che ogni forma di vita, ogni livello di consapevolezza organica, facesse parte di un'evoluzione programmata verso la fusione finale in Dio. — Si accigliò un poco. — Negli ultimi otto secoli la posizione di Teilhard è stata modificata parecchio, ma resta il filo conduttore: consideriamo Gesù Cristo l'esempio incarnato di quel che la consapevolezza finale potrebbe essere sul piano umano.

Mi schiarii la voce. — Il gesuita Paul Duré non ha scritto vari saggi sull'ipotesi di Teilhard?

Monsignor Edouard si sporse in avanti per guardare al di là di Tyrena e mi fissò. C'era una luce di sorpresa, sul suo viso assai interessante. — Infatti — disse. — Ma sono sorpreso che lei conosca l'opera di padre Duré.

Sostenni lo sguardo dell'uomo che era stato amico di Duré anche quando il gesuita era in esilio su Hyperion per apostasia. Ricordai un altro profugo del Nuovo Vaticano, il giovane Lenar Hoyt, che giaceva morto in una Tomba del Tempo, mentre i parassiti crucimorfi portatori del suo stesso DNA e di quello mutato di Duré continuavano nel loro sinistro obiettivo di risurrezione. L'abominio del crucimorfo come trovava posto nella prospettiva di Teilhard e di Duré riguardante una inevitabile e benevola evoluzione verso la Divinità?

Spenser Reynolds ritenne che la conversazione fosse ormai da troppo tempo fuori del suo arengo personale. — Il punto — disse, soffocando con voce profonda ogni altra discussione per metà tavolo — è questo: la guerra, come la religione e ogni altro sforzo umano che utilizzi e organizzi su simile scala le energie umane, deve abbandonare l'infantile preoccupazione con il realismo Ding an sich… in genere espresso mediante un fascino servile per i "fini"… e dilettarsi della dimensione artistica della propria oeuvre. Ora, il mio più recente progetto…

— E qual è il fine del suo culto, monsignor Edouard? — domandò Tyrena Wingreen-Feif, rubando a Reynolds il pallino della conversazione senza alzare la voce né distogliere lo sguardo dal prelato.

— Aiutare l'umanità a conoscere e servire Dio — rispose monsignor Edouard e terminò rumorosamente il brodo. Quel piccolo prete antiquato spostò lo sguardo lungo il tavolo, fino al consulente Albedo.

— Corre voce che il TecnoNucleo persegua un fine bizzarramente simile. È vero che tenta di fabbricarsi il proprio dio?

Il sorriso di Albedo fu perfettamente calcolato per essere amichevole, ma senza traccia di condiscendenza. — Non è un segreto che elementi del Nucleo lavorino da secoli per creare almeno un modello teorico di una cosiddetta intelligenza artificiale molto al di là del nostro povero intelletto — rispose, con un gesto di disapprovazione.

— Non è un tentativo di creare Dio, monsignore. Si avvicina di più a un progetto di ricerca che esplora le possibilità di cui sono stati pionieri il suo san Teilhard e padre Duré.

— Ma lei crede che sia possibile orchestrare verso un grado così elevato di consapevolezza la propria evoluzione? — domandò il capitano di fregata Lee, l'eroe navale, che aveva ascoltato con interesse.

— Progettare un'intelligenza finale così come noi un tempo progettammo i vostri rozzi antenati utilizzando silicio e microchip?

Albedo rise. — Niente di così semplice, né di così grandioso, purtroppo. E quando dice "lei", capitano, non dimentichi che sono soltanto una personalità in un assieme d'intelligenze non meno diverse fra loro di quanto non siano gli esseri umani di questo pianeta… anzi, della Rete stessa. Il Nucleo non è monolitico. Ci sono tante filosofie, convinzioni, ipotesi… religioni, se più le piace… quante potrebbero essercene in qualsiasi altra comunità. — Piegò le mani, come se apprezzasse una battuta comprensibile solo a lui. — Anche se preferisco considerare la ricerca dell'Intelligenza Finale come un hobby, non come una religione. Qualcosa di simile a costruire navi in bottiglia, capitano, o a discutere sul numero di angeli che starebbero sulla capocchia d'uno spillo, monsignore.

Tutti risero educatamente, tranne Reynolds che, senza volerlo, corrugava la fronte riflettendo certo su come riprendere il controllo della conversazione.

— E cosa mi dice dalla voce secondo cui il Nucleo ha creato una copia perfetta della Vecchia Terra, nell'ambito della ricerca dell'Intelligenza Finale? — domandai, sorprendendo anche me stesso.

Il sorriso di Albedo non vacillò, lo sguardo amichevole non tremò, ma ci fu un nanosecondo in cui qualcosa fu trasmesso con la proiezione. Cosa? Sorpresa? Rabbia? Divertimento? Non ne avevo idea. Nell'eternità di quel nanosecondo Albedo avrebbe potuto comunicare privatamente con me, trasmettermi quantità immense di dati tramite lo stesso cordone ombelicale che mi legava al Nucleo o gli invisibili corridoi che ci siamo riservati nella labirintica sfera dati che la razza umana riteneva inventata così semplicemente. Oppure avrebbe potuto uccidermi, facendo pesare la propria autorità nei confronti di qualsiasi dio del Nucleo che controllasse l'ambiente circostante a una coscienza come la mia… sarebbe stato semplice come se il direttore di un istituto di ricerche avesse ordinato ai tecnici di anestetizzare in permanenza una cavia fastidiosa.

Lungo tutto il tavolo la conversazione si era interrotta. Perfino Meina Gladstone e il gruppo d'ultra-VIP che l'attorniava guardavano dalla nostra parte.

Il consigliere Albedo allargò il sorriso. — Che voce deliziosamente bizzarra! Mi dica, signor Severn, come avrebbe fatto un organismo come il Nucleo, che i vostri stessi commentatori hanno definito "un mazzo di cervelli privi di corpo, di programmi impazziti sfuggiti ai propri circuiti, che passano la maggior parte del tempo a estrarre lanugine intellettuale dal proprio ombelico inesistente"… come avrebbe fatto, chiunque, a costruire una copia perfetta della Vecchia Terra?

Guardai la proiezione, guardai attraverso la proiezione… e mi accorsi solo allora che anche i piatti e la cena di Albedo erano proiettati: stava mangiando, mentre parlavamo.

— E poi — continuò Albedo, ovviamente assai divertito — sarà venuto in mente ai propalatori di questa voce che "una copia perfetta della Vecchia Terra" sarebbe la Vecchia Terra a tutti effetti? Di quale vantaggio sarebbe un simile sforzo, nello studio delle possibilità teoriche di una matrice ampliata di intelligenza artificiale?

Non risposi e un silenzio fastidioso scese sulla parte mediana del tavolo.

Monsignor Edouard si schiarì la voce. — Parrebbe — disse — che qualsiasi… ah… società in grado di produrre una copia esatta di qualsiasi mondo… e in particolare di un mondo distrutto da quattro secoli… non avrebbe bisogno di cercare Dio: sarebbe Dio essa stessa.

— Appunto! — rise il consulente Albedo. — È una voce folle, ma deliziosa… davvero deliziosa!

Risate di sollievo riempirono il buco di silenzio. Spenser Reynolds cominciò a parlare del suo progetto successivo… il tentativo di fare in mondo che dei suicidi coordinassero il proprio balzo dal ponte, sopra una ventina di mondi diversi, mentre la Totalità guardava… e Tyrena Wingreen-Feif gli rubò tutta l'attenzione circondando con il braccio monsignor Edouard e invitandolo a un party di nuoto senza costume, dopo cena, nella casa galleggiante che possedeva su Mare Infinitum.

Notai che il consulente Albedo mi fissava, mi voltai in tempo per cogliere un'occhiata interrogativa di Leigh Hunt e del PFE, e girai la sedia per osservare i camerieri che portavano su vassoi d'argento la prima portata di carne.

La cena fu eccellente.

15

Non andai al party di nuoto di Tyrena. E non vi andò nemmeno Spenser Reynolds: l'ultima volta che lo vidi, discuteva calorosamente con Sudette Chier. Non so se monsignor Edouard abbia ceduto alle lusinghe di Tyrena.

La cena non era ancora terminata, i funzionari del Fondo di Assistenza tenevano brevi discorsi e molti dei senatori più importanti davano già segni di irrequietezza, quando Leigh Hunt mi mormorò che il gruppo del PFE era pronto a congedarsi e che era richiesta la mia presenza.

Erano quasi le 23,00 ora standard della Rete; immaginai che il gruppo sarebbe tornato alla Casa del Governo ma, varcato il portale monouso (ero l'ultimo del gruppo, a parte le guardie del corpo, i Pretoriani, che chiudevano la fila), mi ritrovai con sorpresa all'inizio di un corridoio dalle pareti di pietra interrotte da lunghe finestre che mostravano l'alba marziana.

A rigor di termini, Marte non fa parte della Rete; si era voluto di proposito che la più antica colonia extraterrestre della razza umana fosse difficile da raggiungere. Per recarsi alla Roccia del Maestro, nel bacino di Hellas, i pellegrini gnostici zen devono teleportarsi alla Stazione Sistema Patrio e prendere una navetta da Ganimede o da Europa a Marte. È una seccatura di qualche ora soltanto, ma per una società dove ogni cosa dista letteralmente dieci passi richiede spirito di sacrificio e d'avventura. Ben pochi, a parte gli storici e gli esperti agricoli per la produzione di acquavite di cactus, hanno un motivo professionale per recarsi su Marte. Nell'ultimo secolo, con il declino graduale dello gnosticismo zen, anche il movimento di pellegrini è diminuito. Tutti se ne fregano, di Marte.

Esclusa la FORCE. Anche se gli uffici amministrativi della FORCE si trovano su TC2 e le basi sono disseminate nella Rete e nel Protettorato, Marte resta la vera casa dell'organizzazione militare, di cui è il cuore la Scuola Comando Olympus.

Un gruppetto di VIP militari era pronto a ricevere il gruppetto di VIP politici; mentre i due gruppi si mescolavano come galassie in collisione, mi avvicinai a una finestra e guardai fuori.

Il corridoio faceva parte di un complesso scavato nella metà superiore di Mons Olympus; dalla nostra posizione, a una quindicina di chilometri d'altezza, si aveva l'impressione di scorgere con una sola occhiata metà del pianeta. Da quel punto il mondo era davvero l'antico vulcano scudo e il gioco della distanza riduceva le vie d'accesso, la città vecchia lungo le pareti dello strapiombo, i quartieri poveri e le foreste del pianoro di Tharsis a semplici scarabocchi in un paesaggio rosso che pareva immutato da quando il primo essere umano pose piede su quel mondo, lo dichiarò proprietà di un paese chiamato Giappone e scattò una fotografia.

Guardavo spuntare un piccolo sole e pensavo: "Quello è il Sole", ammirando l'incredibile gioco di luce sulle nuvole che strisciavano dal buio su per il fianco interminabile della montagna, quando Leigh Hunt mi si accostò. — Il PFE la riceverà dopo la conferenza — disse. Mi porse due album da disegno che un aiutante aveva portato dalla Casa del Governo. — Si rende conto che tutto che quel ascolterà e vedrà nel corso della conferenza è segretissimo?

Non la considerai una domanda e non risposi.

Grandi battenti di bronzo si spalancarono nella parete di pietra; luci guida si accesero, mostrando la rampa rivestita di tappeto e la serie di gradini che portava al tavolo della Sala di Guerra, posto al centro di un ambiente ampio e nero che sarebbe potuto essere un enorme auditorio sprofondato nel buio totale a eccezione di una singola isoletta di luce. Aiutanti di campo si affrettarono a mostrare la strada, a porgere poltroncine, a ritirarsi nell'ombra. Girai la schiena all'alba con riluttanza e seguii il gruppo in quella sorta d'abisso.


Il generale Morpurgo e una troika di altri capi della FORCE si occuparono personalmente della conferenza informativa. La qualità dei grafici era distante anni-luce dalle rozze lavagne di richiamo e dagli ologrammi della Casa del Governo: eravamo davvero in uno spazio vasto, sufficiente a contenere tutti gli ottomila allievi e il personale in caso di necessità, ma al momento gran parte del buio sopra di noi era pieno di ologrammi qualità omega e di diagrammi grandi quanto un campo di freeball. In un certo modo, metteva paura.

Come il contenuto della conferenza informativa.

— Stiamo perdendo il conflitto nel sistema di Hyperion — concluse Morpurgo. — Nella migliore delle ipotesi, otterremo una condizione di stallo, tenendo in iscacco lo Sciame Ouster all'esterno di un perimetro di 15 UA dalla sfera di anomalia teleporter, con il costante fastidio di incursioni di navi di piccola stazza. Nella peggiore delle ipotesi, dovremo ritirarci su posizioni difensive ed evacuare la flotta e i cittadini dell'Egemonia, lasciando che Hyperion cada in mano agli Ouster.

— Che fine ha fatto il colpo da k.o. che ci era stato promesso? — domandò il senatore Kolchev, seduto a un vertice del tavolo a forma di rombo. — L'attacco decisivo contro lo Sciame?

Morpurgo si schiarì la voce, ma lanciò un'occhiata all'ammiraglio Nashita, che si alzò. L'uniforme nera del comandante della FORCE:spazio diede l'illusione che solo il suo viso accigliato si librasse nel buio. Provai un'impressione di déjà vu, al pensiero di quell'immagine, ma tornai a guardare Meina Gladstone, illuminata ora dai grafici di guerra e dai colori che galleggiavano sopra di noi come la versione in olospettro della spada di Damocle e ripresi a disegnare. Avevo messo da parte l'album e usavo ora la pennaluce su un foglio flessibile di lavagna.

— Per prima cosa, la nostra conoscenza degli Sciami era per forza di cose limitata — iniziò Nashita. In alto, i grafici cambiarono. — Sonde spia e ricognitori a lungo raggio non potevano dirci l'esatta natura di ogni unità della flotta migratoria Ouster. Ne è risultata un'ovvia e grave sottovalutazione della reale forza di combattimento di questo particolare Sciame. I nostri sforzi di penetrarne le difese utilizzando solo caccia d'assalto a lungo raggio e navi torcia non hanno avuto il successo auspicato.

"In secondo luogo, la necessità di mantenere nel sistema di Hyperion un perimetro difensivo di sicurezza così esteso ha impegnato le nostre due unità operative a tal punto da rendere impossibile destinare all'attività offensiva un numero sufficiente di navi."

Kolchev lo interruppe. — Ammiraglio, in pratica sostiene di avere troppo poche navi per annientare o rintuzzare l'attacco Ouster contro il sistema di Hyperion. Giusto?

Nashita fissò il senatore e mi ricordò le immagini dei samurai l'attimo prima di togliere dal fodero la spada omicida. — Giusto, senatore Kolchev.

— Eppure, nella nostra conferenza del gabinetto di guerra non più di una settimana standard fa, lei ha garantito che due unità operative sarebbero bastate a proteggere Hyperion dall'invasione o dalla distruzione e a vibrare un colpo decisivo a questo Sciame Ouster. Cos'è accaduto, ammiraglio?

Nashita si alzò in tutta la sua statura (maggiore di quella di Morpurgo, ma sempre più bassa della media della Rete) e rivolse lo sguardo a Gladstone. — Signora, ho già spiegato le variabili che richiedono una modificazione al nostro piano di battaglia. Devo ripetermi?

Meina Gladstone teneva il gomito sul tavolo e con la destra si reggeva la testa, due dita contro la guancia, due sotto il mento, pollice lungo la mascella, in una posizione attenta e stanca. — Ammiraglio — disse piano — pur ritenendo assai pertinente la domanda del senatore Kolchev, ammetto che la situazione da lei esposta in questa conferenza informativa e in quelle precedenti sia una risposta sufficiente. — Si rivolse a Kolchev. — Gabriel, abbiamo fatto un errore di stima. Con questo impiego di unità della FORCE, al massimo otteniamo una situazione di stallo. Gli Ouster sono più accaniti, più duri e più numerosi di quanto non pensassimo. — Riportò su Nashita lo sguardo pieno di stanchezza. — Ammiraglio, di quante altre navi ha bisogno?

Nashita trasse un sospiro, chiaramente preso in contropiede dalla domanda rivolta prima del previsto. Diede un'occhiata a Morpurgo e agli altri capi congiunti, poi incrociò le mani sul basso ventre, come un direttore di funerale. — Duecento navi da guerra — disse. — Almeno duecento. È il numero minimo.

Un fremito percorse la sala. Sollevai lo sguardo dal disegno. Tutti bisbigliavano o si agitavano, tranne Gladstone. Mi occorse un secondo, per capire.

L'intera flotta di navi da guerra della FORCE:spazio contava meno di seicento unità. Naturalmente ciascuna nave era costosissima… poche economie planetarie potevano permettersi di costruire più di un paio di navi interstellari e perfino una manciata di navi torcia munite di motore Hawking poteva portare al fallimento un pianeta coloniale. E ciascuna nave era davvero potente: un incrociatore d'assalto poteva annientare un mondo, una squadra di incrociatori e di spin-navi cacciatorpediniere poteva distruggere un sole. Era concepibile che le navi dell'Egemonia già ammassate nel sistema di Hyperion, se teleportate attraverso l'enorme matrice di transito della FORCE, fossero in grado di annientare gran parte dei sistemi stellari della Rete. Un secolo prima, erano bastate meno di cinquanta navi del tipo richiesto da Nashita per distruggere la flotta di Glennon-Height e soffocare per sempre la Rivolta.

Ma il vero problema sollevato dalla richiesta di Nashita era l'impegno nel sistema di Hyperion di due terzi della flotta dell'Egemonia in una volta sola. Sentivo l'ansia scorrere come corrente elettrica nei politici e nei responsabili delle linee d'azione.

La senatrice Richeau, di Vettore Rinascimento, si schiarì la voce. — Ammiraglio, non abbiamo mai concentrato in un solo punto una flotta del genere, vero?

Con un movimento fluido, Nashita girò la testa, ma mantenne il cipiglio. — Non ci siamo neppure mai impegnati in un'azione spaziale di questa importanza per il futuro dell'Egemonia, senatrice Richeau.

— Sì, lo capisco — replicò Richeau. — Ma la domanda intendeva chiarire quale impatto avrebbe questa azione sulla difesa della Rete in altri punti. Non è un rischio terribile?

Nashita brontolò; i grafici alle sue spalle turbinarono, si annebbiarono e si agglomerarono in una stupefacente immagine della Via Lattea vista da notevole distanza sopra il piano dell'eclittica; l'angolo cambiò, mentre sembrava di correre a velocità sconvolgente verso un braccio della spirale, finché non divenne visibile il merletto azzurro della rete di teleporter: l'Egemonia, un irregolare nucleo dorato con cuspidi e pseudopodi estesi nel nimbo verde del Protettorato. La Rete pareva casuale nel disegno e annichilita dall'estensione pura e semplice della galassia… e tutt'e due queste impressioni erano immagini accurate della realtà.

All'improvviso il grafico variò, la Rete e i mondi coloniali divennero l'universo, a parte una spolverata di stelle per dare prospettiva.

— Questa è la posizione attuale degli elementi della nostra flotta — disse l'ammiraglio Nashita. Fra il verde e l'oro, e più in là, comparvero parecchie centinaia di puntini arancione vivo, maggiormente concentrati intorno alla lontanissima stella di un protettorato che riconobbi tardivamente come quello di Hyperion.

— Ed ecco gli Sciami Ouster, secondo la più recente elaborazione. — Comparve una decina di linee rosse, segni di vettore e scie azzurrastre che mostravano la direzione di viaggio. Anche su quella scala, nessun vettore di Sciame pareva intersecare lo spazio dell'Egemonia, tranne uno, molto grosso, che s'incurvava nel sistema di Hyperion.

Notai che gli spiegamenti della FORCE:spazio spesso riflettevano i vettori di Sciame, a parte raggruppamenti nelle vicinanze delle basi e di mondi a rischio come Patto-Maui, Bressia e Qom-Riyadh.

— Ammiraglio — disse Gladstone, prevenendo la descrizione di questi spiegamenti — immagino che abbia tenuto conto del tempo di reazione della flotta, nel caso si presentasse una minaccia in altri punti della nostra frontiera.

Il cipiglio di Nashita si contrasse in qualcosa che poteva passare per sorriso. Nella voce c'era una traccia di degnazione. — Sì, signora. Se osserva gli Sciami più vicini, a parte quello nel sistema di Hyperion… — L'immagine zumò verso vettori rossi sopra una nube dorata, comprendenti sistemi stellari che, ne ero abbastanza sicuro, includevano Porta del Paradiso, Bosco Divino e Mare Infinitum. Su quella scala, la minaccia Ouster sembrava davvero remota.

— Elaboriamo le migrazioni di Sciame in base alle scie dei motori Hawking raccolte nei posti d'ascolto situati nella Rete e anche al di fuori. Inoltre, le nostre sonde a lunga distanza verificano a intervalli frequenti la grandezza e la direzione dello Sciame.

— Quanto frequenti, ammiraglio? — domandò il senatore Kolchev.

— Almeno una volta ogni due-tre anni — sbottò l'ammiraglio. — Tenga presente che il tempo di viaggio ammonta a diversi mesi, anche a velocità di spin-nave, e che dal nostro punto di vista il debito temporale può arrivare a dodici anni, per un transito del genere.

— Con intervalli di anni fra le osservazioni dirette — continuò Kolchev, imperterrito — come si fa a sapere dove si trovano gli Sciami, a un dato momento?

— I motori Hawking non mentono, senatore — replicò Nashita, in tono assolutamente neutro. — È impossibile simularne la scia di distorsione. Noi guardiamo la locazione in tempo reale di centinaia… o, nel caso di Sciami più consistenti, di migliaia… di motori ad anomalia in movimento. Come per le trasmissioni astrotel, non c'è debito temporale per la propagazione dell'effetto Hawking.

— Sì — disse Kolchev, con tono altrettanto neutro e micidiale di quello dell'ammiraglio — ma se gli Sciami viaggiassero a velocità inferiore a quella delle spin-navi?

Nashita sorrise sul serio. — Al di sotto della velocità iperluce, senatore?

— Sì.

Morpurgo e altri militari scossero la testa o nascosero un sorriso. Solo il giovane comandante della FORCE:mare, William Ajunta Lee, era attento e serio.

— A velocità subluce — rispose, impassibile, l'ammiraglio Nashita — i nostri pro-pro-pronipoti dovrebbe preoccuparsi di mettere in guardia i propri nipoti dal pericolo d'invasione.

Kolchev non intendeva darsi per vinto. Si alzò e indicò il punto in cui lo Sciame più vicino faceva una curva sopra Porta del Paradiso e si allontanava dall'Egemonia. — E se questo Sciame si avvicinasse senza usare i motori Hawking?

Nashita sospirò, chiaramente irritato che la sostanza della riunione fosse inquinata da questioni irrilevanti. — Senatore, le garantisco che se quello Sciame spegnesse in questo stesso momento i motori Hawking e virasse verso la Rete, impiegherebbe… — batté le palpebre, come se consultasse i propri impianti e collegamenti — duecentotrenta anni standard, prima d'avvicinarsi alle nostre frontiere. Non è un fattore che riguardi la decisione da prendere oggi, senatore.

Meina Gladstone si sporse e tutti gli occhi si girarono verso di lei. Memorizzai nella lavagna il disegno appena terminato e ne iniziai un altro.

— Ammiraglio, mi pare che la vera preoccupazione, qui, riguardi sia il raggruppamento senza precedenti di forze nel sistema di Hyperion, sia il fatto di mettere tutte le uova in un solo paniere.

Intorno al tavolo ci furono mormorii di divertimento. Gladstone era famosa per aforismi, storielle e luoghi comuni così antichi e dimenticati da sembrare nuovi di zecca. L'ultimo modo di dire ne era un esempio.

— Mettiamo davvero tutte le uova in un solo paniere? — continuò il PFE.

Nashita si sporse e posò sul tavolo le mani, a dita tese, premendo con forza. Questa forza eguagliava il potere della personalità di quell'uomo piccolino: uno dei rari individui che ottengono senza fatica l'attenzione e l'ubbidienza altrui. — No, signora, non ce le mettiamo — rispose. Senza girarsi, indicò il display in alto alle sue spalle.

— Gli Sciami più vicini non potrebbero entrare nello spazio dell'Egemonia senza un preavviso di due mesi in tempo di motore Hawking… ossia di tre anni del nostro tempo. Alla nostra flotta nel sistema di Hyperion occorrerebbero… anche nell'ipotesi che fosse sparsa in una zona molto vasta e in situazione di combattimento… meno di cinque ore per ritirarsi e teleportarsi in un punto qualsiasi della Rete.

— Questo non vale per unità della flotta che si trovano al di là della Rete — disse la senatrice Richeau. — Non possiamo lasciare senza protezione le colonie.

— Le duecento navi da guerra che useremo per risolvere la campagna di Hyperion sono già all'interno della Rete o portano attrezzature teleporter. Le unità della flotta indipendente assegnate alle colonie non saranno toccate.

Gladstone annuì. — Ma se il portale di Hyperion fosse danneggiato o cadesse in mano agli Ouster?

Dai tramestii, sospiri e cenni d'assenso dei civili presenti immaginai che Gladstone avesse toccato la fonte di preoccupazione maggiore.

Nashita annuì e tornò sulla piccola pedana, come se avesse previsto la domanda e si rallegrasse per la fine delle obiezioni irrilevanti. — Ottima domanda — disse. — Se n'è parlato in precedenti riunioni, ma prenderò in esame nei particolari questa possibilità.

"Primo, abbiamo attrezzature teleporter di riserva: al momento, due Balzonavi nel sistema e altre tre previste per l'arrivo dei rinforzi. Le probabilità che tutt'e cinque queste navi siano distrutte sono davvero piccole… quasi insignificanti, se si considera l'aumento di capacità difensive reso possibile dalle navi di rinforzo.

"Secondo, le possibilità che gli Ouster si impadroniscano di un teleporter militare intatto e che lo usino per invadere la Rete sono zero. Ogni nave… ogni individuo… che varchi un portale della FORCE, è identificato da microtraspositori cifrati a prova di manomissione, aggiornati quotidianamente…"

— Gli Ouster non potrebbero infrangere questi codici… inserire i propri? — domandò il senatore Kolchev.

— Impossibile. — Nashita, mani dietro la schiena, andò su e giù per la piccola piattaforma. — L'aggiornamento dei codici avviene ogni giorno, per mezzo di tamponi astrotel monouso emessi dal quartier generale della FORCE all'interno della Rete…

— Mi scusi — lo interruppi, sorpreso di udire la mia voce in quel consesso — ma stamane ho effettuato una breve visita nel sistema di Hyperion e non mi sono accorto della presenza di codici.

Varie teste si girarono. L'ammiraglio Nashita riprese con successo l'espressione di un gufo che muovesse la testa su cuscinetti senza attrito. — Tuttavia, signor Severn — rispose — lei e il signor Hunt siete stati codificati… con un sistema indolore e impercettibile, laser all'infrarosso, ai due estremi del transito teleporter.

Annuii, stupito per un secondo che l'ammiraglio avesse ricordato il mio nome, finché non ricordai che pure lui aveva impianti.

— Terzo — continuò Nashita, come se non fossi intervenuto — se accadesse l'impossibile e le forze degli Ouster dovessero sopraffare le nostre difese, catturare i teleporter intatti, eludere i codici di sicurezza e attivare una tecnologia che conoscono poco e che per più di quattro secoli abbiamo tenuto lontano da loro… anche allora, tutti gli sforzi degli Ouster approderebbero a niente, perché il traffico militare è istradato verso Hyperion dalla base di Madhya.

— Da dove? — chiesero in coro diverse voci.

Avevo sentito parlare di Madhya solo grazie al racconto di Brawne Lamia riguardante la morte del suo cliente. Sia lei, sia Nashita, lo pronunciavano "mad-ye".

— Madhya — ripeté l'ammiraglio Nashita, sorridendo ora sul serio. Era un sorriso bizzarramente fanciullesco. — Inutile interrogare il comlog, signore e signori. Madhya è un sistema "nero", non risulta sulle guide e sugli elenchi dei teleporter civili. Lo teniamo di riserva proprio per scopi del genere. Con un solo pianeta abitabile, adatto unicamente a estrazioni minerarie e alla nostra base, Madhya è l'estrema posizione di ritirata. Se le navi da guerra Ouster riuscissero nell'impossibile e invadessero le nostre difese e i nostri portali di Hyperion, potrebbero andare solamente a Madhya, dove un ammontare significativo di potenza di fuoco è automaticamente diretto contro ogni e qualsiasi cosa vi giunga. Se l'impossibile fosse elevato al quadrato e la flotta Ouster sopravvivesse al transito nel sistema di Madhya, le connessioni teleporter di uscita si autodistruggerebbero e le loro navi da guerra rimarrebbero bloccate ad anni di distanza dalla Rete.

— Sì — disse la senatrice Richeau. — Ma lo stesso vale per noi. Due terzi della nostra flotta rimarrebbero nel sistema di Hyperion.

Nashita assunse la posizione di riposo. — Vero — disse. — Con i capi congiunti, io stesso ho soppesato varie volte le conseguenze di questa eventualità remota, anzi, statisticamente impossibile. Il rischio pare accettabile. Dovesse verificarsi l'impossibile, avremmo ancora una riserva di più di duecento navi da guerra per difendere la Rete. Avremmo perso il sistema di Hyperion, ma dopo avere inflitto agli Ouster un colpo terribile, un colpo che di per sé quasi certamente impedirebbe future aggressioni.

"Ma non è questo, il risultato che prevediamo! Con duecento navi da guerra trasferite presto, ossia nelle prossime otto ore standard, i nostri previsori e quelli della Commissione di Consulenza IA calcolano un 99% di probabilità di sconfitta dello Sciame aggressore Ouster, con perdite trascurabili da parte nostra."

Meina Gladstone si girò verso il consulente Albedo. Nella luce bassa, la proiezione era perfetta. — Consulente, non sapevo che alla Commissione fosse stata rivolta questa domanda. Il 99% è una cifra attendibile?

Albedo sorrise. — Attendibilissima, signora. Il fattore percentuale di probabilità era del 99,962794. — Il sorriso divenne più marcato. — Tanto rassicurante da indurre a mettere per breve tempo tutte le uova in un solo paniere.

Gladstone non sorrise. — Ammiraglio, quanto tempo prevede che durerà il conflitto, dopo l'arrivo dei rinforzi?

— Una settimana standard, signora. Al massimo.

Gladstone inarcò il sopracciglio sinistro. — Così poco?

— Sì, signora.

— Generale Morpurgo? Il parere della FORCE:terra?

— Concordiamo, signora. I rinforzi sono necessari, e subito. I trasporti truppe porteranno circa centomila tra marines e fanti, per spazzare i resti dello Sciame.

— In sette giorni standard o meno?

— Sì, signora.

— Ammiraglio Singh?

— È indispensabile, signora.

— Generale Van Zeidt?

Uno dopo l'altro, Gladstone chiese il parere ai comandanti congiunti e ai militari di grado superiore presenti, perfino al comandante della Scuola Comando Olympus, che s'inorgoglì per essere stato consultato. Tutti consigliarono senza esitazioni l'invio di rinforzi.

— Capitano Lee?

Tutti si girarono verso il giovane ufficiale navale. Notai la posizione rigida e il cipiglio dei militari più anziani: all'improvviso capii che Lee era presente su invito del PFE, non per la benevolenza dei superiori. Ricordai una frase di Gladstone, secondo la quale il giovane capitano Lee mostrava il tipo d'iniziativa e d'intelligenza che talvolta alla FORCE era mancato. Immaginai che, partecipando a questa conferenza informativa, il giovanotto si fosse tranciato la carriera.

Il capitano di fregata William Ajunta Lee si mosse a disagio sulla poltroncina. — Con il dovuto rispetto, signora, sono un semplice ufficiale navale di grado inferiore e non sono qualificato per esprimere un'opinione su argomenti di tale importanza strategica.

Gladstone non sorrise. Annuì con un cenno quasi impercettibile. — Apprezzo le sue parole, capitano. E sono sicura che anche i suoi superiori le apprezzino. Tuttavia, in questo caso, mi chiedo se non vorrebbe compiacermi ed esprimere il suo parere.

Lee raddrizzò le spalle. Per un istante il suo sguardo mostrò la disperazione d'un animale in trappola. — Se proprio devo esprimere un parere, signora, dico che l'istinto… e solo d'istinto si tratta, perché sono profondamente ignorante di tattiche interstellari… mi consiglierebbe di non inviare rinforzi. — Inspirò a fondo. — È una dichiarazione puramente militare, signora: sono all'oscuro delle ramificazioni politiche riguardanti la difesa del sistema di Hyperion.

Gladstone si sporse. — Allora, su base puramente militare, capitano, perché sconsiglia l'invio di rinforzi?

Dal mio posto a metà del tavolo, sentivo l'impatto dello sguardo dei comandanti della FORCE come un'esplosione laser da cento milioni di joule adoperata per accendere le sfere di deuterio-tritio in uno degli antichi reattori di fusione a confinamento inerziale. Mi stupii che Lee non crollasse, implodesse, s'accendesse e si fondesse davanti ai nostri occhi.

— Su base militare — disse Lee, con sguardo disperato, ma con voce ferma — ci sono due peccati capitali: dividere le proprie forze e… per usare la sua similitudine, signora… mettere tutte le uova in un solo paniere. In questo caso, il paniere non è neppure fatto da noi stessi.

Gladstone annuì e si appoggiò alla spalliera, unendo la punta delle dita sotto il labbro inferiore.

Capitano - disse il generale Morpurgo, mostrandomi che è davvero possibile sputare una parola — ora che abbiamo il beneficio del suo… parere… posso chiederle se si è mai trovato coinvolto in una battaglia spaziale?

— No, signore.

— È mai stato anche solo addestrato alle battaglie spaziali, capitano?

— No, signore, a parte il minimo richiesto alla SCO, che ammonta a qualche corso di storia.

— È mai stato coinvolto in elaborazioni di piani strategici di qualsiasi tipo, al di sopra del livello di… quante navi di superficie ha comandato, su Patto-Maui, capitano?

— Una, signore.

— Una — ripeté Morpurgo. — Di grande stazza?

— No, signore.

— Il comando della nave le era stato assegnato, capitano? Se l'era guadagnato? O l'ha ottenuto a causa delle vicissitudini di guerra?

— Il nostro capitano rimase ucciso, signore. Presi il comando come ufficiale più alto in grado. Era l'azione navale conclusiva della campagna di Patto-Maui e…

— Non c'è altro, capitano. - Morpurgo girò la schiena all'eroe navale e si rivolse al PFE. — Desidera chiedere di nuovo il nostro parere, signora?

Gladstone scosse la testa.

Il senatore Kolchev si schiarì la voce. — Forse dovremmo tenere una riunione ristretta di gabinetto alla Casa del Governo.

— Non è necessario — disse Meina Gladstone. — Ho deciso. Ammiraglio Singh, è autorizzato a spostare nel sistema di Hyperion le unità della flotta che lei e il comando congiunto ritenete necessarie.

— Sì, signora.

— Ammiraglio Nashita, mi aspetto una conclusione delle ostilità, coronata da successo, entro una settimana standard dal momento in cui riceverà rinforzi adeguati. — Girò lo sguardo lungo il tavolo. — Signore e signori, non posso sottolineare in modo adeguato l'importanza di possedere Hyperion e di eliminare una volta per tutte la minaccia degli Ouster. — Si alzò e si diresse alla base della rampa che portava su nel buio. — Buona sera, signore e signori.


Erano quasi le quattro, tempo della Rete e di Tau Ceti Centro, quando Hunt bussò alla porta. Da tre ore, da quando eravamo tornati, mi sforzavo di stare sveglio. Avevo appena deciso che Gladstone si era dimenticata di me e cominciavo ad assopirmi, quando udii bussare.

— Nel giardino — disse Leigh Hunt. — E, per l'amor di Dio, s'infili nei calzoni la camicia.

Gli stivali frusciavano sulla ghiaia sottile, mentre procedevo per i viali bui. Le lanterne e i fotoglobi quasi non mandavano luce. Le stelle non erano visibili, a causa del bagliore delie interminabili città di TC2, ma le luci delle abitazioni orbitali in rapido movimento si muovevano nel cielo come un infinito anello di lucciole.

Gladstone sedeva sulla panchina metallica accanto al ponte.

— Signor Severn, grazie per essere venuto — disse a bassa voce.

— Mi scuso per l'ora tarda. La riunione di gabinetto è appena terminata.

Rimasi in silenzio e in piedi.

— Volevo chiederle della visita di stamattina a Hyperion. — Ridacchiò. — Di ieri mattina. Quali impressioni ha riportato?

Mi domandai che cosa intendesse. Secondo me, la donna aveva una fame insaziabile di dati, non importa quanto irrilevanti all'apparenza. — Ho incontrato una persona — risposi.

— Oh?

— Sì, il dottor Melio Arundez. Era… è…

— …un amico della figlia del signor Weintraub — terminò per me Gladstone. — La bimba che invecchia a ritroso. Ha qualche aggiornamento sulle condizioni della piccina?

— In pratica, no. Oggi ho fatto un pisolino, ma i sogni sono stati frammentari.

— E l'incontro con il dottor Arundez a quali risultati ha portato?

Mi lisciai il mento con dita diventate improvvisamente fredde.

— Aspetta da mesi nella capitale, con la squadra di ricerca. Forse loro sono la nostra unica speranza di capire che cosa accade con le Tombe. E lo Shrike…

— Secondo i nostri previsori, è importante che i pellegrini siano lasciati in pace, finché il loro atto non si è concluso — disse, dal buio, Gladstone. Pareva guardare di lato, verso il ruscello.

A un tratto mi sentii travolgere da una collera inspiegabile, implacabile. — Padre Hoyt è già "concluso" — replicai, in tono più brusco di quanto non intendessi. — Avrebbero potuto salvarlo, se la nave del Console avesse avuto il permesso di andare all'appuntamento con i pellegrini. Arundez e la sua squadra forse riuscirebbero a salvare la piccola Rachel, anche se manca solo qualche giorno.

— Meno di tre giorni — disse Gladstone. — C'è altro? Impressioni del pianeta, o della nave comando dell'ammiraglio Nashita, che le siano parse… interessanti?

Strinsi a pugno le mani, le riaprii. — Non permetterà ad Arundez di raggiungere le Tombe?

— Non ora, no.

— E l'evacuazione da Hyperion dei civili? Almeno dei cittadini dell'Egemonia?

— Non è possibile, al momento.

Mi trattenni, prima di fare un commento inappropriato. Fissai il punto da dove proveniva il mormorio dell'acqua sotto il ponte invisibile.

— Nessun'altra impressione, signor Severn?

— No.

— Bene, le auguro la buona notte e sogni d'oro. Forse domani sarà una giornata febbrile, ma troverò un momento per parlare con lei dei suoi sogni.

— Buonanotte — risposi. Girai sui tacchi e tornai in fretta nel mio alloggio nella Casa del Governo.

Nel buio della stanza, chiesi al computer una sonata di Mozart e mandai giù tre compresse di trisecobarbital. Molto prabilmente mi avrebbero fatto piombare in un sonno drogato, privo di sogni, dove il fantasma del defunto Johnny Keats e degli ancora più spettrali pellegrini non mi avrebbero trovato. Significava deludere Meina Gladstone, ma la cosa non mi costernava minimamente.

Pensai al marinaio di Swift, Gulliver, e al disgusto che aveva provato per la razza umana, dopo essere tornato dalla terra dei cavalli intelligenti, gli Houyhnhnm… un disgusto per la propria specie che arrivò al punto da indurlo a dormire nella stalla con i cavalli solo per sentirsi rassicurato dal loro odore e dalla loro presenza.

L'ultimo pensiero, prima di addormentarmi, fu: "Al diavolo Meina Gladstone, al diavolo la guerra, al diavolo la Rete.

"E al diavolo i sogni."

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