Raederle stava piangendo. La strinse a sé per consolarla, e tese gli orecchi ai rumori esterni, ma la ragazza era incapace di placarsi. Al di là dei suoi singhiozzi udì il cigolio delle ruote sulla strada polverosa, e il fischiettare del mercante che gli giungeva attraverso i rotoli di stoffa ammucchiati fin quasi al telone. La strada era tranquilla; dietro il carro non sentì nulla che indicasse la presenza di altri veicoli. Gli doleva la testa, e appoggiò la nuca contro una balla di lino. Chiuse gli occhi. Dentro di lui tambureggiava una tenebra senza suono. Poco dopo le ruote presero una buca, lo scossone lo gettò di lato, e Raederle si sciolse dal suo braccio e si tirò a sedere. Si tolse i capelli dalla faccia.
— Morgon… lui è venuto in piena notte, e io ero scalza. Non ho potuto tentare di sfuggirgli. Dapprima ho creduto che fossi tu. Ma in nome di Hel, cosa voleva fare quell’arpista? Io non lo capisco. Io non… — La voce le si bloccò in gola quando poté vederlo meglio, quasi avesse scoperto d’avere un cambiaforma accanto a sé. Si portò una mano alla bocca, poi allungò l’altra a sfiorargli il volto. — Morgon…
Lui si toccò la fronte con una mano, esaminò il sangue rimastogli sulle dita ed emise un borbottio di sorpresa. Un bruciore gli correva su tutto un lato della faccia, dalla tempia alla mandibola. Gli doleva una spalla, e nel toccarsela notò di avere la tunica stracciata. Un taglio irregolare ed escoriato, che avrebbe potuto esser stato prodotto da uno zoccolo affilato, gli segnava la faccia e proseguiva poi sulla spalla scendendo fino a metà del torace.
Si raddrizzò con un mugolio, girandosi a guardare le macchie di sangue che aveva lasciato sul fondo del carro e sulla stoffa pregiata del mercante. Un tremito improvviso e violento lo scosse, costringendolo a respirare a fondo per calmarsi.
— Sono andato a cacciarmi in trappola come un idiota! — ansimò, e imprecò sottovoce contro se stesso finché non s’accorse che lei si stava alzando. La afferrò per un polso, tirandola di nuovo a sedere. — No!
— Vuoi lasciarmi? Sto soltanto andando a dire al conducente di fermarsi. Se non mi lasci mi metto a gridare.
— No, Raederle, senti… vuoi ascoltarmi? Siamo ad appena poche miglia a ovest del posto dove ci hanno sorpresi. I cambiaforma ci cercheranno. E lo stesso farà Ghisteslwchlohm, se non è morto. Dobbiamo allontanarci il più possibile da loro.
— Io non ho neppure le scarpe! E se insisterai ancora perché cambi forma, ti darò un pugno nei denti. — Ma deglutì, impietosita, sfiorandogli ancora la guancia. — Morgon, vuoi smetterla di piangere?
— Sto ancora piangendo?
— Sì. — Anch’ella aveva gli occhi umidi. — Sembri uno degli spettri di Hel. Per favore, lascia che il mercante ti aiuti.
— No. — Il veicolo si fermò d’improvviso, e il sobbalzo gli strappò un grugnito. Si tirò in piedi, vacillando, e la aiutò ad alzarsi. Le falde del telone si aprirono, e fra esse comparve il volto stupefatto del mercante seduto a cassetta.
— Per gli occhi del Lupo-Re! Si può sapere cosa state facendo lì? — Aprì del tutto il telone per illuminare l’interno. — Guardate il danno che avete fatto su quella stoffa ricamata. Avete un’idea di quanto costa questa roba? E quel velluto bianco…
Morgon vide che Raederle stava per rispondere. La prese per mano e proiettò la sua mente fuori da lì, come un’ancora scagliata nell’acqua che affondasse nell’ombra in cerca di un luogo dove riposare. Individuò un tratto di strada soleggiato e tranquillo, più avanti, in cui l’unico viandante visibile era un musicista a cavallo che canterellava fra sé trottando verso Lungold. Morgon catturò la mente di Raederle nella sua, interrompendola a mezzo di quel che stava dicendo, e si trasportò con lei non distante dal musicista.
Per un paio di minuti restarono immobili sulla strada, alle spalle del cavaliere che si allontanava. Il passaggio dalla penombra alla luce viva abbagliò Morgon. Raederle stava ancora lottando contro la sua stretta mentale con sorprendente ostilità. Comprese che la ragazza era irritata, stordita dall’accaduto e molto vicina a una sorta di panico. Uno sguardo in lei gli consentì di capire che aveva vaste risorse di potere, e che avrebbe saputo perfino infrangere la sua stretta mentale, ma in quel momento era troppo spaventata per controllare i propri pensieri. Di nuovo mandò la sua identità, smaterializzata e priva di forma, a sorvolare la strada; sfiorò la psiche di alcuni cavalli, di un falco, di uno stormo di corvi che si nutrivano presso un bivacco abbandonato. Fu la mente di un giovane contadino, che aveva lasciato la casa paterna e in groppa a un vecchio cavallo da tiro andava a cercar fortuna a Lungold, ad ancorare la mente di Morgon. Si proiettò con Raederle in quella direzione. Fermo nel polverone sollevato dagli zoccoli del cavallo da tiro Morgon ne udì l’ansimare rauco ed esausto. Qualcosa gli impattò dolorosamente nell’interno del cranio, e d’impulso reagì per combatterlo, ma subito si rese conto che era un grido mentale di Raederle. Placò la propria mente e quella di lei, quindi proseguì nella sua esplorazione della strada.
Un fabbro ambulante, che girava da un villaggio all’altro per ferrare cavalli e riparare utensili da cucina, era seduto sul suo carro e sonnecchiava, con la pancia piena di birra. Smaterializzandosi Morgon restò agganciato a lui, sognando i suoi sogni, e lo seguì per parte della calda mattina. Raederle si lasciava trasportare passivamente, ostile e lontana. Avrebbe disperatamente voluto comunicare con lei, ma non osò interrompere la concentrazione. Aprì ancora la mente in un’esplorazione, finché non sentì dei mercanti che ridevano. Si lasciò guidare dal suono delle loro risa e poco dopo giunse presso di loro, fra gli alberi. Ad un tratto il suo senso di vicinanza con la mente di Raederle svanì. La cercò a tentoni nello spazio circostante ma non riuscì a captare che i vaghi pensieri di qualche animale selvatico: rintracciarla con l’esplorazione mentale gli rimase impossibile. Allarmato e stupefatto sentì che la sua concentrazione andava in pezzi; si rimaterializzò sul terreno e scoprì che la ragazza era lì, in piedi dinnanzi a lui.
Lo fissava ansimando, muta, tesa come se fosse sul punto di urlare o di colpirlo, o di scoppiare in lacrime. Rigido in volto, stentando a farsi uscire il fiato di bocca, lui disse: — Ancora una volta. Ti prego. Lungo il fiume.
Dopo qualche istante lei annuì. Le sfiorò una mano, poi tornò a immergersi nella sua mente. Più a ovest captò pensieri nei quali c’era il freddo, malgrado la calura: pesci, uccelli acquatici e animali che nuotavano nel fiume. Davanti a lui apparve il corso d’acqua; si rimaterializzarono sulla riva erbosa, in un tratto pianeggiante fitto d’erbe palustri.
Lasciò la presa su Raederle e s’inginocchiò a bere. La voce dell’acqua corrente fluì in lui, rinfrescandogli anche i pensieri. Si volse a cercare Raederle con gli occhi, desideroso di dirle qualcosa, ma non riuscì a vedere dove fosse andata. Un’improvvisa sonnolenza lo invase; si sdraiò con la faccia sulle umide felci e cadde nel sonno.
Quando si risvegliò era notte fonda, e girandosi vide Raederle che seduta accanto a lui lo vegliava, alla luce di un focherello. Per un poco non fecero altro che fissarsi, in silenzio, come se ciascuno osservasse l’altro alla luce dei propri ricordi. Poi Raederle gli accarezzò una guancia. Era pallida e stanca, con una luce negli occhi che lui non ricordava di averle mai visto.
L’angoscia gli serrò la gola. Mormorò: — Scusami. Ero disperato.
— Va tutto bene. — Gli aggiustò il bendaggio intorno al torace, nel quale lui riconobbe strisce della sua sottoveste. — Ho trovato delle erbe che la guardiana dei porci… voglio dire Nun, mi insegnò a riconoscere. Lei le usava per curare i maiali. Spero che funzionino anche su di te.
Le prese una mano e la tenne fra le sue. — Ti prego. Dillo.
— Non so cosa dovrei dirti. Ma nessuno aveva mai controllato e dominato la mia mente prima d’ora. Ero arrabbiatissima con te. Desideravo soltanto liberarmi, sfuggirti e tornare ad Anuin. Poi… mi sono liberata. E sono rimasta con te perché tu capisci… tu capisci il potere. Lo capiva anche il cambiaforma che mi ha chiamato consanguinea, ma in te ho fiducia. — Tacque. Lui attese, scrutando l’espressione febbrile di quegli occhi in cui si rifletteva il fuoco, i capelli disordinati intorno al volto bianco come la madreperla, i lineamenti dall’espressione mutevole quanto i giochi della luce nelle acque del mare. D’improvviso lei si girò di lato. — Smettila di fissarmi in quel modo!
— Mi spiace — disse lui. — Sei bellissima. Ti rendi conto di quale potere occorre per spezzare la presa che avevo su di te?
— Sì. Il potere di un cambiaforma. È questo ciò che ho.
La osservò in silenzio. Un lieve brivido lo percorse. — Loro hanno molto potere — si alzò a sedere, ignorando la fitta di dolore lungo il torace. — Perché non ne fanno uso? Non l’hanno mai usato. Avrebbero potuto uccidermi già da tempo. A Herun, il cambiaforma Corrig avrebbe potuto ammazzarmi mentre dormivo. Invece mi ha sfidato a ucciderlo. E ad Isig… quei cambiaforma non avrebbero forse potuto uccidere un contadino di Hed che non aveva mai impugnato una spada in vita sua? In nome di Hel, chi sono? Cosa vogliono da me? E cosa cerca Ghisteslwchlohm?
— Credi che lo abbiano ucciso?
— Non lo so. Potrebbe aver avuto il buonsenso di fuggire. Non mi sarei affatto sorpreso se ce lo fossimo trovato accanto, su quel carro.
— Verranno a cercarti a Lungold.
— Lo so. — Si passò le mani sulla faccia. — Lo so. Può darsi che con l’aiuto dei maghi io riesca a scacciarli almeno fuori città. Devo essere là al più presto. Devo…
— Capisco. — Ebbe un sospiro stanco. — Morgon insegnami la forma-corvo. Infine è una forma propria dei sovrani di An. È meglio volare che camminare a piedi nudi.
Lui sollevò il capo. Si distese all’indietro e con un braccio la trasse distesa al suo fianco, cercando un modo per riassumerle in breve l’insieme di nozioni che gli si affollavano nella mente. Infine mormorò: — Imparerò a suonare l’arpa — e la sentì sorridere contro il suo collo. Poi ogni sua sensazione si raggelò intorno al ricordo di un’arpa che non avrebbe suonato mai più. Non si accorse che stava piangendo finché non fu costretto a togliersi quel velo dagli occhi con un dito. Raederle taceva, stringendosi dolcemente a lui. Dopo qualche minuto, quando il fuoco s’era ormai spento, le disse: — Ero andato a sedermi davanti a Deth non perché sperassi di capirlo, ma perché lui mi aveva attirato là, mi voleva là. E a tenermi là non sono state le sue parole, né la sua arpa, ma qualcosa che malgrado tutto aveva ancora la forza di legarmi a lui. Mi voleva accanto a sé. Sapevo che mi voleva, ed è per questo che ci sono andato. Riesci a capire questo?
— Morgon, tu gli volevi bene — sussurrò lei. — Questa era la forza che ti legava a lui.
Morgon tacque, ripensando a quel volto incorniciato dai capelli argentei al di là del fuoco da campo e ricordando le notti in cui aveva ascoltato il silenzio dell’arpista, finché i rami degli alberi parvero intrecciarsi in una rete che ricopriva il firmamento, una rete di enigmi, un’immensa e misteriosa partita nella quale la morte di Deth era anch’essa un enigma. Infine l’odore delle erbe che Raederle gli aveva spalmato sulla guancia agì in lui come un soporifero, e senza accorgersene si riaddormentò.
Il mattino dopo a svegliarli fu l’alba, e lui cominciò a insegnarle la forma-corvo. Penetrò nella sua mente e in fondo ad essa trovò le immagini-corvo, racconti e storie circa quella forma, e ricordi che lei non sapeva neppure di avere: i neri e imperscrutabili occhi da corvo di suo padre, i rauchi versi dei corvi fra le querce nell’allevamento di maiali di Raith, i corvi che avevano volato nella storia di An, i divoratori di carogne, i portamessaggi, i guardiani di tombe, e le loro voci derisorie, indignate, assurde, poetiche.
— Ma da dove escono tutti questi corvi? — si sbalordì lei.
— Fanno parte del governo della terra di An. La forza e il cuore di An. Nulla di più.
Chiamò a sé un corvo che dormiva su un albero nelle vicinanze, e il volatile gli si appollaiò su un polso. — Riesci a entrarmi nella mente? Puoi vedere ciò che penso, attraverso i miei occhi?
— Non lo so.
— Prova. I miei pensieri vogliono essere ascoltati da te. — Aprì la mente a quella del corvo e unì ai suoi occhi i processi psichici del volatile, finché vide attraverso quegli occhi inumani due volti confusi che poté a stento riconoscere come il suo e quello di Raederle. Sentì movimenti microscopici, nitidi e precisi, fra le foglie morte del sottobosco e le radici. Cominciò a comprendere gli elementi del linguaggio dei corvi. Emise un gracidio, più curioso che impaziente. Nella sua mente vi fu poi la sensazione di quella di Raederle, come se ella fosse in lui e lo toccasse gentilmente, riempiendolo di luce. Deglutì saliva per la meraviglia. Per qualche minuto ci furono tre menti che scivolavano l’una dentro l’altra, incerte e un po’ spaurite in quell’esplorare. Poi il corvo gracidò; le sue ali nere occlusero la visione di Morgon, che restò solo nella sua mente umana, e guardò attorno in cerca di ciò che era uscito da lui. Un corvo stava fuggendo via. Un altro roteava invece in lenti circoli su di lui, e gli atterrò su una spalla. Si girò a guardare quegli occhi neri.
Un sorriso gli comparve sul volto. Il corvo dispiegò le ali e volò verso il ramo di un albero lì accanto; parve incapace di coordinare i movimenti per farvi presa, ma infine si erse appollaiandosi saldamente. Un attimo dopo il corvo si trasformò in Raederle, mezza nascosta fra le foglie, e il ramo s’incurvò sotto il peso maggiore della sua forma.
La ragazza abbassò gli occhi su Morgon dall’alto della sua posizione, stupefatta e senza fiato. — Oh, tu… smettila di ridere, Morgon! Io volo! Ho volato. In nome di Hel, e adesso come faccio a scendere?
— Spicca il volo.
— Ho dimenticato come si fa!
Lui cambiò forma e volò fino alla sua altezza, con un’ala che gli doleva per la ferita ancora aperta. Tornò alla forma umana, e il ramo scricchiolò pericolosamente sotto il suo peso facendolo imprecare. Lei ansimò: — Morgon, si sta rompendo… cadremo nel fiume! — Il suo grido si trasformò in un gracidio quando balzò in volo. Morgon la inseguì con ampi colpi d’ala. Salirono insieme nella luce del mattino, neri e veloci, e acquistarono quota sulla boscaglia finché poterono vedere il territorio che si estendeva per centinaia di miglia in ogni direzione e la lunghissima strada rettilinea che lo attraversava, tagliando il reame. Continuarono a salire, ed i veicoli dei mercanti divennero piccoli come formiche su un nastro di polvere. Poi ripresero ad abbassarsi lentamente, spiraleggiando in ampi circoli senza quasi battere le ali, e le loro evoluzioni li portarono sempre più vicini alla superficie finché non compirono un ultimo e veloce cerchio sfiorando l’acqua del fiume. Atterrarono fra le felci della riva e cambiarono forma. Un po’ ansanti, nella luce vivida e nella calura, si guardarono. Raederle sussurrò:
— I tuoi occhi sono ancora pieni di ali.
— I tuoi sono pieni di sole.
Per due settimane volarono verso occidente nella forma-corvo. Nell’entroterra la silenziosa e dorata foresta di querce si restrinse e terminò. La strada curvò a nord in un territorio in parte coperto di pini, la cui quiete sembrava indisturbata da millenni. Proseguiva fra le spoglie colline rocciose su cui il sole bruciava in toni giallastri, valicava su arcate di pietra profondi crepacci in fondo ai quali i corsi d’acqua che scendevano dai Laghi di Lungold ruggivano fra pareti di roccia consunta. I loro occhi da corvo coglievano le visioni di un panorama sconfinato, che nelle remote profondità occidentali del continente sfumava sulle vette di montagne sconosciute velate di foschia azzurrina. Di giorno il sole fiammeggiava in un cielo di zaffiro. La notte il buio spingeva le stelle da un orizzonte all’altro, come greggi di luci verso i pascoli ai confini del mondo. Le voci della boscaglia e di quel terreno pietroso su cui non alitava nessun vento erano troppo basse per poter essere udite. Il loro compagno di viaggio era il silenzio. Morgon volava dentro di esso, lo respirava, lo sentiva nelle ossa, ne avvertiva il contatto strano e profondo dentro il cuore. Nei primi giorni avrebbe voluto sfuggirlo, raggiungere la mente di Raederle pur con il vago e inarticolato linguaggio dei corvi. Poi pian piano il silenzio divenne parte del suo ritmo di volo, e infine qualcosa di simile a una muta canzone. Da ultimo, quando gli pareva d’aver quasi dimenticato il linguaggio umano e Raederle era soltanto una cosa nera e pennuta che tagliava l’aria accanto a lui, vide l’interminabile boscaglia di pini terminare e ne fu quasi sorpreso. In lontananza la grande città fondata da Ghisteslwchlohm si estendeva sulla riva del più meridionale fra i Laghi di Lungold, risplendente di tonalità ramate e bronzee sotto gli ultimi raggi del sole.
I due corvi proseguirono stancamente nell’ultima parte del loro volo. Nei dintorni della città la foresta era stata spinta indietro di molte miglia per far posto ai campi, ai pascoli e ai frutteti. Il fresco odore dei pini lasciava il posto al sentore d’humus della terra arata, e a quello dei raccolti maturi, che colpiva gli istinti da corvo di Morgon. La Strada dei Mercanti, zebrata d’ombre, nel suo ultimo miglio tagliava le coltivazioni fino all’ingresso principale della città. Il portale era un’alta e fragile arcata fatta di lucido legno scuro e pietra bianca. Le mura apparivano invece massicce, rafforzate da contrafforti granitici e garitte di legno che sovrastavano i quartieri costruiti negli ultimi secoli fuori dalla cinta muraria. Nuove strade lastricate si dirigevano verso ì bastioni, dove erano state aperte altre piccole porte; case e botteghe s’infittivano lungo di esse, e ce n’erano persino sopra le mura stesse, a testimoniare che i loro costruttori avevano dimenticato le paure a cui sette secoli addietro s’era dovuta l’erezione di mura tanto munite.
I corvi si abbassarono verso la porta principale, sotto la grande arcata. I due battenti avevano l’aria di non esser stati chiusi da secoli. Erano in massicci pannelli di quercia, con cardini poderosi e rinforzi in bronzo. Dietro di essi e nell’ombra dell’architrave, rondini e pipistrelli avevano fatto il nido in ogni angolo. All’interno la strada si diramava in un intreccio di viuzze acciottolate, lungo le quali s’allineavano taverne dalla facciata dipinta vivacemente, sale di commercio, botteghe di mercanti e di artigiani, abitazioni le cui finestre erano rallegrate da belle tendine ed elaborati vasi da fiori. Morgon aguzzò i suoi occhi da corvo oltre i tetti e i comignoli, verso la zona settentrionale della città. Il sole morente spandeva sulla superficie del lago i rossi bagliori del crepuscolo, e ormeggiati ai moli c’erano un centinaio di battelli da pesca che davano l’impressione di ardere su quelle acque di fuoco.
Scese al suolo in un angoletto fra i battenti e il muro, e lì cambiò forma. Raederle lo seguì. Per un poco si fissarono a vicenda, ciascuno trovando qualcosa di alieno sul volto dell’altro, segnato dai lunghi silenzi e dalla solitudine dei territori attraversati. Poi Morgon ricordò che finalmente possedeva due braccia, strinse a sé Raederle e con qualche esitazione la baciò. Soltanto allora il viso di lei parve riassumere del tutto un’espressione umana.
— In nome di Hel, cosa ci è accaduto? — mormorò la ragazza. — Morgon, mi sento come se avessi fatto un sogno lungo cento anni.
— È durato due settimane filate. E adesso siamo a Lungold.
— Vorrei essere a casa mia. — Negli occhi le apparve una luce stranita. — Ma cosa abbiamo mangiato?
— Non starci a pensare. — Si guardò attorno. Il traffico attraverso il portale era quasi ridotto a zero; un solo cavaliere dall’aria stanca nelle ombre del crepuscolo stava entrando in città. La prese per mano. — Andiamo.
— Dove?
— Non lo senti all’odore? Io lo avverto come un sospiro in fondo alla mente. Odore di potere…
Fu questo a guidarli attraverso il dedalo delle stradicciole. L’abitato era tranquillo, poiché a quell’ora nelle case si cenava; i profumi invitanti che uscivano dalle taverne a cui passarono davanti li fecero sospirare languidamente. Ma non avevano denaro, e fra la tunica stracciata di Morgon ed i piedi scalzi di Raederle il loro aspetto era quello di due mendicanti. La percezione di quel potere, antico e stagnante, attrasse Morgon verso il centro della città, lungo le vie strette dove c’erano bottegucce sorprendentemente belle e case di ricchi mercanti. Tutte le strade terminavano nello stesso punto: una vastissima estensione di terreno incolto formava un pendio, lunghissimo, e alla sommità di esso troneggiavano i resti maestosi dell’antica Scuola, resi affascinanti e misteriosi dalla presenza della magia, e le mura vuote di quell’alto edificio erano ancora illuminate dagli ultimi scarlatti bagliori del sole.
Morgon si fermò. Quella vista lo aveva pervaso di uno strano e tormentoso desiderio, come di fronte a qualcosa che non aveva mai posseduto e che, fino a quel momento, non aveva immaginato di voler possedere. Incredulo sussurrò: — Non mi meraviglia che siano tornati qui. Lui riuscì a costruire anche la bellezza…
Dai muri squarciati s’intravedevano saloni che pur semidistrutti rivelavano l’antica prosperità del reame. Nelle finestre c’erano sempre frammenti di vetro colorato e infissi dorati. All’interno pareti annerite dal fuoco trattenevano ancora pannelli di frassino intagliato, d’avorio, di quercia e di cedro. L’ampiezza delle finestre ad arco faceva pensare alla presenza di ambienti tranquilli, dove un tempo avevano riposato le menti inquiete e addestrate di chi aveva cercato la saggezza alla Scuola. A sette secoli di distanza Morgon ne sentiva vivide le illusioni è le promesse: l’unione dei più potenti cervelli del reame allo scopo di condividere ogni conoscenza, per meglio disciplinare ed esplorare i loro poteri. Un’oscura nostalgia di cui non sapeva darsi ragione gli attanagliò il cuore. Tenne gli occhi fissi sulle silenziose rovine della Scuola finché Raederle gli toccò una spalla.
— Che cos’hai?
— Non lo so. Vorrei… vorrei aver potuto studiare qui. Il solo potere che abbia mai conosciuto è quello di Ghisteslwchlohm.
— I maghi ti aiuteranno — gli disse. Ma lui non trovò troppa fiducia nel suo tono. La guardò.
— Vuoi fare un sacrificio per me? Riprendi la forma-corvo, ti porterò su una spalla intanto che li cerco. Non so quali trappole o legami mentali in cui potremmo invischiarci siano ancora lì, in attesa di chi tenta di penetrare in questo luogo.
Lei annuì con aria stanca, senza commenti, e cambiò forma. Gli si appollaiò su una spalla, e lui avanzò sul terreno circostante la Scuola. Non c’erano alberi a ombreggiarlo; le erbacce crescevano stente intorno a chiazze e solchi nel terreno biancastro. Le pietre giacevano là dov’erano cadute, immobili frammenti ancora gravidi di antico potere. Nulla era stato asportato o toccato in quei lunghi secoli. Morgon ne fu certo, mentre si stava avvicinando al grande edificio centrale. Ovunque, sui resti di quella ricchezza, aleggiava come un monito lo spettro della distruzione. A passi tranquilli ma tendendo ogni sua capacità percettiva entrò nella silenziosa costruzione.
Nelle stanze che oltrepassò c’era ancora odore d’incendio. In molte trovò ossa umane mezzo sepolte sotto cumuli di macerie. Da quei resti si levavano come una nebbia sensazioni e ricordi, speranze, paure e residui di energie mentali. La fronte gli s’imperlò di sudore mentre l’ombra che lo circondava pulsava delle memorie di una battaglia devastante e disperata. Quando entrò in un vasto salone al centro dell’edificio trasalì, sentendo che le stesse pareti erano ancora impregnate della terribile esplosione d’odio e di rabbia avvenuta lì dentro. Udì il corvo borbottare raucamente, e i suoi artigli gli si piantarono più forte nella spalla. Avanzò scavalcando i resti del soffitto che ricoprivano il pavimento, e si accorse che sul fondo c’era una porta. Il battente di legno cedette alla sua spinta con un cigolio di cardini corrosi, e al di là comparve lo stanzone un tempo adibito a biblioteca. Dappertutto c’erano libri che per uno studioso sarebbero stati un tesoro senza prezzo, ma ormai in vari stadi di dissoluzione. Il fuoco aveva divorato le scaffalature, lasciando poco più che frammenti di quegli antichi testi di magia, e il tempo aveva completato l’opera. Ma nel locale stagnava puzzo di bruciato, quasi che neppure l’aria avesse osato muoversi da lì in quei sette secoli.
Oltrepassò una stanza vuota dopo l’altra. In una trovò dei crogiuoli con residui di fusioni in oro e argento, piccoli lingotti di metalli preziosi e ciò che restava di lavori in gioielleria eseguiti dagli studenti. In un’altra c’era una quantità di ossa appartenenti a piccoli animali. Nel locale successivo erano allineati dei letti. Su uno di essi giaceva lo scheletro scarnificato di un bambino. A quel punto Morgon decise di averne abbastanza, e in fretta tornò all’esterno. Nell’oscurità della sera l’aria era satura di grida silenziose, che sembravano salire dal terreno morto e arido sotto le sue scarpe.
Sedette su un grosso frammento di muratura crollato da una cantonata dell’edificio. Intorno all’altura spoglia un tempo dovevano esserci stati altri edifici minori, di legno. Gli parve di vedere l’incendio che aveva distrutto la Scuola scendere lungo di essi, attaccare la città e divorare le case, gli orti, i frutteti, spargendosi poi lungo la riva del lago e fino alla foresta in quell’ardente giornata d’estate, senza nessuna speranza che piovesse per rallentarne il dilagare. Si prese il volto fra le mani e mormorò: — In nome di Hel, cosa penso di poter fare qui? Già una volta lui ha distrutto la città; e adesso fra me e lui la distruggeremo una seconda volta. I maghi non sono tornati qui per sfidarlo: sono venuti soltanto a morire.
Il corvo gracidò qualcosa. Rialzò la testa e fissò ancora la scura mole dell’edificio in rovina. Esplorandolo con la mente percepiva solo ombre di ricordi. Tese gli orecchi e gli parve di udire gli echi di quel nome maledetto da secoli vibrare fra le mura. Curvò le spalle. — Se sono qui hanno provveduto a nascondersi bene… non so proprio dove cercarli.
La voce di Raederle gli giunse attraverso la mente del corvo in una breve osservazione. Si volse a fissare quei piccoli occhi neri e rispose: — Va bene. So che posso trovarli. Posso vedere oltre le loro illusioni e spezzare i loro legami mentali. Ma, Raederle… sono maghi esperti. Hanno raggiunto il loro potere grazie alla disciplina, alla curiosità, all’integrità… forse perfino alla gioia. Non lo hanno ottenuto gridando di dolore nelle viscere del Monte Erlenstar. Non hanno mai avuto in loro le leggi della terra, né dato la caccia a un arpista da un capo all’altro del reame per ucciderlo. Potrebbero aver bisogno che qui io combatta per loro, ma mi domando se hanno fiducia in me… — Il corvo restò in silenzio; lui gli sfiorò un’ala. — Lo so. C’è soltanto un modo per scoprirlo.
Si alzò e rientrò nelle rovine della Scuola. Questa volta aprì tutto se stesso al tormento della distruzione e ai ricordi di una pace ormai dimenticata che stagnavano dietro di esso. Come un gioiello sfaccettato la sua mente raccolse i riflessi dei poteri rimasti fra le macerie, nelle pietre spaccate, nelle pagine ancora intatte di un libro d’incantesimi, nei più diversi antichi strumenti che trovò presso gli scheletri: anelli, strani bastoni intagliati, cristalli colmi di bagliori congelati, e ossa di animaletti e di uccelli che non poté identificare. In essi trovò vari livelli di potere, li esaminò e ne rintracciò l’origine. In un crogiuolo scoprì una massa di ferro fuso, nel profondo del quale stagnava ancora un misterioso calore, e sondandolo lo fece accidentalmente esplodere; capì che in quel ferro era contenuto uno strano potere. Lo scoppio aveva fatto volar via il corvo e staccato dal soffitto un bel po’ d’intonaco, ma lui s’era automaticamente adattato alle vibrazioni dell’esplosione, senza farle resistenza. Il corvo gracidò sbigottito nel vederlo tornare in forma umana dopo essersi smaterializzato nella pietra stessa della parete. Prese il volatile fra le mani e lo accarezzò per placarlo, meravigliato dei misteri dell’antica magia. Tutto ciò che la sua mente toccava — legno, vetro, oro, pergamena, ossa — conteneva residui di potere. Alla luce di una torcia improvvisata con frammenti del tetto seguitò a esplorare con pazienza in tutti gli angoli oscuri. Infine, verso mezzanotte, quando il corvo ormai dormicchiava sulla sua spalla, con gli occhi della mente scoprì all’improvviso l’esistenza di una porta.
L’incantesimo che gliel’aveva nascosta era molto potente: più volte l’aveva guardata, e ogni volta qualcosa aveva attratto altrove la sua attenzione distogliendolo dal desiderio di aprirla. Era in spessa quercia rinforzata con borchie di ferro, chiusa a catenaccio. Per avvicinarla era necessario aprirsi la strada fra ammassi di macerie e cumuli di legname semicarbonizzato. Intorno ad essa i muri erano abbattuti praticamente per intero, cosicché si sarebbe detto che dava accesso soltanto al nudo terreno esterno fra due piccoli edifici in rovina. Ma in realtà la porta era il frutto del potere mentale di qualcuno, che l’aveva costruita per uno scopo preciso. Si arrampicò oltre un mucchio di rottami e appoggiò le mani al battente. A sbarrargli il passaggio c’era una mente umana, ed era essa che gli dava l’illusione di legno solido sotto le dita. Prima di forzarla esitò, disturbato dalle ambiguità e dalla forza del suo stesso potere. Poi fece un passo avanti e trasformò se stesso, per il tempo di un respiro, in legno di quercia e borchie di metallo rugginoso, oltrepassando il potere che aveva dato forma a quegli oggetti.
D’improvviso intorno a lui ci fu una tenebra fitta nella quale per poco non precipitò. Celati dietro un’illusione di pavimento, degli scalini s’immergevano nel sottosuolo. La fiamma della sua torcia vacillò e s’indebolì rapidamente, come soffocata, e s’accorse che una forza arcana la stava spegnendo. Con un impulso mentale ne ravvivò la luce e la sostenne, girandola attorno.
I corrosi scalini di pietra scendevano ripidi, e molto più in basso terminarono in un pavimento di terra battuta. Oltre l’alone luminoso Morgon vide soltanto un’insondabile oscurità, uno spazio umido dove stagnava l’odore di legno marcio e di terra bagnata. Fece ardere la torcia con più forza, ma la luce sembrava indebolirsi contro veli di buio che pendevano ovunque nel silenzio. Un brivido di gelo lo pervase. Sulla sua spalla il corvo emise un gorgoglio spaurito. Intuendo il suo impulso di cambiare forma scosse subito il capo. Ubbidiente il corvo gli si strinse contro i capelli. Mentre poi faceva scaturire alte fiamme dalla torcia, cercando di scorgere i confini di quell’oscurità, qualcosa insinuò una mano invisibile nei suoi pensieri. Nelle immediate vicinanze avvertì la presenza di un potere che non aveva niente a che fare con quell’abisso sotterraneo. Confuso si domandò se il luogo altro non fosse che un’illusione.
Trattenne il respiro e cercò di esplorare il buio con la mente, ma senza risultato. Intorno a lui c’era un paradosso: una magia che si nutriva della magia. L’unica scelta che gli restava era di volgere le spalle e andarsene. Gettò a terra la torcia e la lasciò languire nelle tenebre, e quando fu spenta tornò a sondare il buio. Per quanto tempo restò lì immobile e teso, in ascolto, non avrebbe potuto dirlo; più cercava di vedere qualcosa e più era costretto a rassegnarsi alla sua cecità. Il freddo lo fece tremare, quando sollevò le mani per sfregarsi gli occhi. Il buio era una creatura immensa e senza corpo che gravava su di lui e tentava di penetrargli fin nella mente. La respinse, incapace di muoversi; ma rendendosi conto che non avrebbe saputo dove andare rimase storditamente dov’era, ottuso, silenzioso, sperando che qualcosa lo aiutasse.
Molto vicino a lui una voce disse: — La notte è soltanto qualcosa che dura fino all’alba. È un elemento, come il vento e il fuoco. La tenebra è il suo regno, segue le sue leggi, e molte creature viventi vi abitano. Tu stai cercando di separare da essa la tua mente. Questo è inutile. Accetta la realtà della tenebra.
— Non posso. — Le sue braccia ricaddero. Strinse i pugni e attese, immobile.
— Prova!
Le nocche gli divennero bianche, il sudore gli imperlò le tempie. — Io posso battermi contro il Fondatore, ma non ho mai imparato da lui come combattere questo.
— Hai attraversato la mia illusione come se neppure esistesse. — La voce era calma, vigorosa. — La mantenevo salda con tutto il potere che ancora possiedo. Soltanto altri due avrebbero potuto infrangerla, e tu sei molto più potente di entrambi. Portatore di Stelle, io sono Iff. — E poi pronunciò il suo nome intero, una serie di sillabe gutturali dal tono cantilenante. — Tu mi hai liberato dall’incantesimo del Fondatore, ed io mi metto al tuo servizio, fino alla morte. Riesci a vedermi?
— No — sussurrò Morgon. — Vorrei farlo.
Un nugolo di scintille risalì dalla torcia, circondandolo come un alone di polvere di stelle. L’impressione d’immensità svanì. La vaga consapevolezza di qualcosa fra il reale e l’irreale nacque in lui e si trasformò in un luogo solido. Poi vide un teschio umano che sembrava fissarlo, e accanto ad esso un altro, in mezzo a mucchietti biancheggianti di ossa. Si trovava in un locale circolare; le umide pareti di terra erano costellate di buchi profondi. Sentì i capelli rizzarglisi sul collo. Era sceso in una tomba, nascosta nel sottosuolo della vecchia scuola, e aveva interrotto gli ultimi maghi superstiti di Lungold mentre davano sepoltura ai loro morti.