CAPITOLO TREDICESIMO

Il Lupo-Re non gli diede altra risposta che quella. Ma celato nel suo sguardo c’era qualcos’altro, di cui non voleva parlare. Morgon lo intuì, e la cosa fu compresa anche da Yrth, che la sera prima della loro partenza da Yrye domandò: — Har, che stai pensando? Dietro tutto ciò che dici io sento qualcosa.

Erano seduti dinnanzi al focolare. Le raffiche di vento che fischiavano sul tetto ricacciavano refoli di fumo giù per la canna fumaria. Har scrutò il mago alla luce rosata della fiamma, e il suo volto era duro e antico, imperscrutabile, ma la voce con cui rispose conteneva soltanto l’abituale pacatezza discorsiva:

— Nulla che ti riguardi personalmente, credimi.

— E perché non dovrei crederlo? — mormorò Yrth. — Qui in questa sala, dove in secoli di verità hai intrecciato secoli di enigmi?

— Credimi — ripeté Har. Gli occhi del mago si girarono a fissarlo, ciechi, offrendogli la loro tenebra.

— Tu andrai a Ymris.

— No! — esclamò Morgon. Aveva rinunciato ad avversare Yrth; accettava la sua presenza stancamente, come quella di un animale poderoso e imprevedibile. Ma la frase del mago, che era suonata in parte come un ordine, lo indusse a protestare. — Har, cosa puoi ottenere a Ymris, a parte la certezza di farti ammazzare?

— Non ho alcuna intenzione di morire a Ymris — disse Har. Aprì le mani verso il fuoco, rivelando le bianche cicatrici di potere. Quel gesto fece irrigidire Morgon.

— Allora che intendi fare?

— Ti darò una risposta in cambio di un’altra.

— Har, questa non è una gara di enigmi.

— Davvero? Cosa c’è in cima alla Torre del Vento?

— Io non lo so. Quando lo saprò verrò qui e te lo dirò. Sii paziente.

— Non ho più pazienza — dichiarò Har. Si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro. Poi si fermò accanto al mago; prese un paio di piccoli ceppi e s’inginocchiò a sistemarli sul fuoco. — Se tu morissi — osservò, — poco importerebbe che io sia qui o là. Non ti pare?

Morgon non replicò. Yrth si sporse avanti, poggiandosi a una spalla di Har per non cadere, e afferrò al volo un ceppo fiammeggiante che rotolava verso di loro. Lo rigettò fra le braci. — Sarà difficile avvicinarsi alla Torre del Vento. Ma credo che con l’aiuto dell’esercito di Astrin non sarà impossibile. — Lasciò Har e si tolse la cenere dalle dita. Il Re si alzò. La sua faccia esprimeva tanta decisione che Morgon scartò un argomento dopo l’altro, finché in lui non rimase che la ferma risolutezza di seguire comunque la propria strada.

All’alba del giorno successivo prese commiato da Har, ed i tre corvi si diressero a meridione per il lungo viaggio che doveva portarli a Herun. Il loro volo fu ostacolato dalla pioggia, ma il mago li guidò con stupefacente sicurezza sulle piatte brughiere di Osterland e oltre le foreste che seguivano il corso dell’Ose. Mantennero quella forma finché ebbero oltrepassato il Fiume Inverno, e dinnanzi a loro si aprì la vasta terra di nessuno che separava Ymris da Osterland. Al tramonto del loro terzo giorno di viaggio la pioggia finalmente cessò, e senza bisogno di accordarsi a parole i tre scesero al suolo, riprendendo la forma umana.

— In nome di Hel — borbottò Morgon, mentre Yrth si affrettava a radunare dei rami e accendeva il fuoco. — Come hai potuto guidarci così? E come hai fatto ad andare e tornare fra Isig e Hed in due giorni?

Yrth si volse verso la voce. La fiamma che gli era nata fra le mani balzò alta divorando la legna, e lui si fece indietro. — Istinto — disse. — Tu pensi troppo, quando voli.

— Forse. — Si accovacciò presso il bivacco. Raederle aspirò a fondo l’aria profumata di pino e gettò un’occhiata di desiderio al fiume.

— Morgon, non prenderesti qualche pesce? Sono affamata, e non ho voglia di riprendere la forma-corvo per mangiare… qualunque cosa mangino i corvi. Se tu peschi io cercherò funghi.

— Sento odore di mele — disse Yrth. — In quanto a me, quando volo non penso a niente. — Si alzò, e fermandosi accanto a Raederle la baciò su una guancia. — Ti piacciono le mele?

— Io sento odore di pesce. E di altra pioggia. Morgon… — Si chinò ad appoggiargli le mani sulle spalle. Lui alzò gli occhi.

— Che c’è?

— Niente. — Ma s’era accigliata, perplessa. Abbassò la voce, mentre Yrth s’allontanava. — Si muove sulla terra come se fosse davvero un Signore…

— L’ho notato.

— Io ho voluto… ho cercato di fidarmi di lui. Finché ho ripensato a come ti ha ferito. Allora ho cominciato ad averne paura, a chiedermi dove ci sta portando, e con quale astuzia… Ma dimentico così facilmente le mie paure! — Gli accarezzò distrattamente i capelli, poi mormorò: — Morgon…

— Che stai pensando?

— Non lo so. — Si raddrizzò di scatto, seccata con se stessa. — Non so cosa sto pensando.

Attraversò la radura per esaminare una famigliola di funghi giallastri. Morgon andò al fiume, ampio e limpido, entrò nell’acqua fino a metà coscia e s’immobilizzò come un tronco d’albero, scrutando in cerca di pesci e sforzandosi di non pensare a niente. Un paio di trote lo lasciarono a mani vuote e inzuppato fino ai capelli. Infine svuotò la mente, lasciandovi soltanto gli argentei riflessi dell’acqua, e cominciò a pensare come un pesce.

Catturò tre grosse trote, e non avendo altro utensile usò la spada stellata per pulirle. Tornando poi al bivacco trovò Yrth e Raederle ad aspettarlo. La giovane donna stava sorridendo. L’espressione del mago era imperscrutabile. Morgon depose i pesci su una pietra e ripulì la spada nell’erba. Quando la lama fu ben lucida la fece smaterializzare di nuovo e si gettò a sedere davanti al fuoco.

— E sia — disse. — L’istinto. — Prese i funghi trovati da Raederle e cominciò a farcirne i pesci. — Ma questo non spiega il tuo viaggio a Hed.

— Tu quanta strada puoi fare in un giorno?

— Forse posso attraversare Ymris. Non so. Non mi piace trasportarmi da un luogo all’altro, ripetutamente. È una cosa che stanca, e non so mai quale mente potrei sfiorare.

— Se vuoi saperlo — disse il mago, — ero disperato. E non volevo che ti liberassi dal mio legame mentale prima che io tornassi.

— Io non avrei potuto…

— Il potere ce l’hai. Tu puoi vedere nel buio.

Morgon lo fissò senza parole. Un brivido lo percorse, a quel ricordo. — Era questo il legame? — mormorò. — Un ricordo?

— La tenebra che ti avvolgeva sotto l’Isig.

— O quella del Monte Erlenstar.

— Sì. È stato facile, dunque.

— Facile. — Rammentò la supplica di Har e sospirò fra sé, finché le parole che avrebbe voluto gridare non tornarono a smorzarsi nel suo petto. Avvolse il pesce in alcune foglie, e mise la pietra sul fuoco. — Nulla è facile.

Il mago sfiorò la curva di un filo d’erba fino alla cima. — Alcune cose lo sono. La notte. Il fuoco. Un filo d’erba. Se metti la mano nel fuoco e pensi al dolore, ti bruci. Ma se accetti la fiamma, o se accetti la notte, senza ricordarne la sofferenza… diventa facile.

— Io non posso dimenticare.

Il mago tacque. Allorché il pesce cominciò a friggere, la pioggia stava riprendendo a cadere. Furono costretti a mangiare in fretta ed a cambiare forma, poi volarono fra i rami di un albero per dormire al riparo.

Due giorni più tardi attraversarono ancora l’Ose e scesero sulla riva delle acque selvagge e tumultuose, riassumendo le sembianze umane. Era pomeriggio avanzato. Al suolo scorrevano veloci le ombre delle nuvole. I tre si guardarono in faccia storditamente, come sorpresi dal loro aspetto fisico.

Con un sospiro Raederle si gettò a sedere su un tronco caduto. — Non ho più la forza di muovermi — si lamentò. — Non ne posso più di essere un corvo. Sto perfino dimenticando come si fa a parlare.

— Andrò a caccia — mormorò Morgon. Ma non fece un passo, lasciando che la stanchezza avesse la meglio sulla sua volontà.

— Caccerò io qualcosa — disse Yrth. Prima che gli altri due protestassero cambiò nuovamente forma. Un falco sbatté le ali e si lanciò nell’aria, sempre più in alto, sfidando il vento e infine lasciandosi portare in lenti circoli sulla boscaglia.

— Come fa? — sussurrò Morgon. — Come può cacciare, se è cieco? — Per un attimo fu tentato di raggiungere il falco, poi scacciò quell’impulso. Mentre lo guardava, il volatile si gettò in una picchiata veloce e mortale scomparendo oltre le scure cime degli alberi.

— È come un Signore della Terra — disse Raederle, provocando in Morgon un brivido spiacevole. — Tutti loro hanno una strana e terribile bellezza. — Tacque, mentre il falco si risollevava ancora nell’aria grigia e nebulosa del tramonto. Fra gli artigli aveva qualcosa. La ragazza si alzò con uno sforzo. — Ci sarà bisogno di uno spiedo.

Morgon staccò un ramo da un cespuglio e lo ripulì, intanto che il predatore tornava. Accanto al fuoco che Raederle stava accendendo venne deposta una lepre. Yrth fu di nuovo in piedi fra loro. Per qualche istante i suoi occhi ebbero un bagliore sconosciuto, ancor pieni del vento e della micidiale precisione del falco. Poi si raddolcirono. Morgon gli fece una domanda con voce che suonò smorta e rassegnata.

— Ho sentito l’odore della sua paura — spiegò il mago. Prima di sedere si tolse un coltello da uno stivale. — Vuoi spellarla, per favore? Per me sarebbe un problema.

Morgon si mise al lavoro senza parlare. Raederle raccolse lo spiedo e lo pulì passandolo sul fuoco. D’un tratto, quasi timidamente, chiese: — Tu sai parlare la lingua dei falchi?

Gravidi di sicurezza e di potere gli occhi ciechi si volsero a lei. Al suono della sua voce avevano assunto una gentilezza che per un momento fermò il coltello di Morgon. — Soltanto un poco.

— Puoi insegnarmela? O dovremo volare per tutta la strada fino a Herun come corvi?

— Se vuoi… Pensavo, poiché sei di An, che ti saresti sentita più a tuo agio come corvo.

— No — rispose sottovoce lei. — Ti ringrazio del pensiero, ma ormai per me una forma vale l’altra.

— Quante ne hai prese?

— Oh… uccelli, un albero, un salmone, un tasso, un cervo, un vesta. Ho perso il conto, quando andavo alla ricerca di Morgon.

— Ma lo hai sempre ritrovato.

— E anche tu.

Distrattamente Yrth tastò il terreno accanto a sé, cercando rami con cui sostenere lo spiedo. — Già…

— Ho anche preso la forma di una lepre.

— La lepre è la preda del falco. Ti sei compenetrata nelle leggi della terra.

Morgon gettò la pelle e le interiora fra i cespugli, e afferrò lo spiedo. — E le leggi del reame? — chiese, secco. — Non significano niente per un Signore della Terra?

Il mago s’irrigidì. Qualcosa dello spietato istinto del falco sembrò riaffiorare dietro i suoi occhi, finché Morgon sentì l’inutilità del proprio atteggiamento di sfida. Distolse lo sguardo. Yrth disse, ironico: — Né le una, né le altre. — Morgon piazzò lo spiedo sulla fiamma e girò la lepre un paio di volte per collaudarlo. L’ambiguità delle parole del mago lo infastidiva. Tolse via dei sassi, sedette e lo scrutò. Ma Raederle gli stava parlando, e il disagio che c’era nella voce di lei lo zittì.

— Allora perché, secondo te, i miei consanguinei sulla Piana del Vento stanno facendo guerra al Supremo? Perché, se il potere è una semplice questione di conoscenza, e le leggi che essi sfruttano sono le leggi della terra?

Yrth mantenne il silenzio. Il sole era tramontato, le nuvole nere di pioggia a occidente l’avevano nascosto. La penombra scesa intorno a loro era resa più fitta dalla nebbia. L’uomo allungò una mano allo spiedo e lo girò lentamente. — Io penso — disse, — che Morgon sia nel giusto presumendo che il Supremo stia bloccando i pieni poteri dei Signori della Terra. In se stessa, questa è una ragione sufficiente perché essi vogliano combatterlo… Ma dietro tale enigma sembra che ce ne siano molti altri. I bambini di pietra sotto l’Isig mi guidarono alla loro tomba, secoli or sono, con la tristezza che emanava da essi. I loro poteri gli erano stati tolti. I bambini sono sempre gli eredi del potere; forse è per questo che sono stati distrutti.

— Aspetta! — La voce di Morgon tremò su quella parola. — Stai dicendo… stai suggerendo l’ipotesi che anche l’erede del Supremo fosse sepolto in quella tomba?

— Sembra probabile, no? — Il grasso sgocciolò sulle braci, e lui girò la lepre. — Forse era proprio quel bambino che mi disse di costruire un’arpa e una spada, intarsiata di stelle, per qualcuno che nei secoli futuri sarebbe venuto a reclamarle…

— Ma perché? — sussurrò Raederle con un fremito. — Perché?

— Tu hai visto il volo del falco… è affascinante nella sua picchiata mortale. Se non vi fosse una legge che lo regola, questo suo potere e il fascino che ne deriva diventerebbero terribili…

— Io lo voglio. Quel potere.

Il volto scarno e duro di Yrth s’illuminò ancora della sua strana dolcezza. Le toccò un braccio, come aveva sfiorato il filo d’erba. — Allora prendilo.

Lasciò ricadere la mano. Raederle chinò il capo. Non riuscendo a vederle il viso Morgon allungò una mano a scostarle i capelli. Ma lei lo evitò con un gesto brusco e si alzò. Il giovane la guardò allontanarsi fra gli alberi, con le braccia strette al petto come se stesse rabbrividendo. Il sangue gli salì agli occhi senza una ragione che potesse capire, salvo che il mago l’aveva toccata e lei s’era fatta scostante.

— Tu non mi lasci niente… — sussurrò.

— Morgon!

Con un’imprecazione lui balzò in piedi e seguì Raederle nella nebbia della sera, lasciando al falco la sua preda.

Nei giorni successivi proseguirono il volo, talora come corvi, e talaltra, quando il cielo si schiariva, come falchi. Due di loro si scambiavano sovente strida acute, il terzo li ascoltava e taceva. Cacciarono usando la forma-falco; dormirono e svegliandosi nell’alba fissarono il pallido sole invernale con occhi fieri e selvatici. Quando pioveva mantenevano la forma-corvo e procedevano lenti e pesanti sotto l’acqua. Gli alberi scorrevano senza fine più in basso, immutabili, dando loro l’impressione di volare sempre sullo stesso punto. Ma quando la pioggia restò alle loro spalle e fra le nubi occhieggiò il fantasma del sole, la foschia che chiudeva l’orizzonte si solidificò lentamente in una catena di colline che svettavano sulla foresta.

Nel tardo pomeriggio il sole emerse d’improvviso dagli squarci fra le nuvole. Raggi di luce scesero obliqui sulla terra, facendo scintillare le sinuosità dei ruscelli e trasformando gli stagni in limpide monete d’argento immerse nel verde. I falchi continuarono a volare stancamente, distanziati fra loro su una linea lunga mezzo miglio. Il secondo, come inebriato dalla luce intensa, accelerò d’un tratto il volo sotto le nubi, passando dalla luce all’ombra con foga esuberante. La sua eccitazione distrasse Morgon dal monotono ritmo con cui agitava le ali. Aumentò la velocità e oltrepassò il falco di testa per inseguire il lampo fulvo che saettava nel cielo. Non s’era mai accorto che Raederle riuscisse a volare così rapida. Sfruttò una forte corrente che spirava a sud, e nonostante ciò l’altro falco accrebbe il suo distacco. Lo tallonò con tutta l’energia di cui disponeva, impegnandosi al massimo, e pian piano riuscì ad accorciare la distanza. Soltanto allora, nel notare la sua apertura alare e le penne scure sul dorso, si accorse che era Yrth.

Mantenne l’andatura, e in lui nacque l’impulso violento di soverchiare il potere e la forza dell’altro volatile, mostrandogli che riusciva a oltrepassarlo. Accelerò al limite delle sue capacità, finché il vento divenne una barriera quasi solida che sembrava strappargli via le penne. La foresta era un mare d’onde verdi e veloci sotto di lui. Palmo a palmo diminuì il distacco, divenne l’ombra di quel falco, e quando riuscì ad affiancarlo tenne la sua velocità battendo le ali allo stesso ritmo. Ma non riuscì a sopravanzarlo. Si proiettò nell’aria e nella luce finché non si lasciò alle spalle perfino il suo furioso desiderio, come zavorra gettata via per accelerare ancora. E anche l’altro volatile accelerò, come per illuderlo e attrarlo in una gara sempre più accanita, sino al punto di dargli la certezza che se avesse costretto il suo cuore a pulsare di un sol battito più rapido sarebbe bruciato nel vento come una meteora.

Con un rauco stridio si staccò dal fianco del falco, gettandosi in picchiata verso i dolci declivi dei colli sottostanti. Non riusciva quasi più a muovere le ali, e lasciò che le correnti ascensionali lo sostenessero nella lunga planata finché non toccò il suolo. Cambiò forma. L’erba folta e soffice lo accolse come un giaciglio. Disteso bocconi a braccia spalancate artigliò le zolle con le dita, mentre pian piano il terribile martellare del suo cuore si placava e in gola cominciò a inalare aria invece di fuoco. Si girò sulla schiena e giacque immobile. L’altro falco fluttuava alto su di lui. Lo fissò senza pensare a nulla, irritato con se stesso, ancora vagamente conscio del suo impulso di sovrastarne il potere. Poi alzò una mano verso il volatile. Lo vide cadere dritto nella sua direzione come una pietra, ma lo lasciò venire. Il falco atterrò su una sua spalla e rimase lì, guardandolo con occhi ciechi e senza luce. Nella presa fiera di quegli artigli lui non si mosse, come una preda inerme in suo potere.

I tre falchi quella notte dormirono sulle colline di Herun. All’alba furono tre corvi quelli che si levarono nell’umida nebbia, sopra i villaggi ed i pascoli pieni di rocce, dove le raffiche di vento talora disperdevano la caligine rivelando qua un albero contorto, là un isolato dente granitico. Poco dopo cominciò a cadere una fitta pioggia che li accompagnò per tutta la strada fino alla Città dei Cerchi.

Diversamente dalla volta precedente, Morgon non girò neppure gli occhi su quelle grandi circonferenze di case e di mura. Ma nel cortile della grande dimora centrale trovarono Iff ad attenderli, e subito videro uscire anche la Morgol, che incuriosita spalancò gli occhi sui tre uccelli neri inzuppati d’acqua mentre essi prendevano terra dinnanzi al portone. Il suo stupore aumentò ancora dopo che ebbero cambiato forma.

— Morgon… — La donna gli prese con dolcezza il volto magro e barbuto fra le mani. E solo in quel momento lui si rese conto di chi aveva condotto nella sua dimora.

Yrth si ergeva immobile; appariva preoccupato, come se avesse guardato se stesso attraverso gli occhi di tutti loro e non sapesse quale scegliere fra quelle immagini. La Morgol scostò dal volto di Raederle una ciocca di capelli bagnati.

— Sei diventata il più grande enigma di An — le disse, e Raederle abbassò gli occhi imbarazzata. Ma la Morgol le fece rialzare il volto con un sorriso e la baciò. Poi si volse ai due maghi.

Iff aveva poggiato una mano su una spalla dell’altro, e lo presentò con voce tranquilla: — El, questi è Yrth. Credo che non vi siate mai incontrati.

— No, infatti. — La donna ebbe un lieve inchino del capo. — Voi onorate la mia casa, Fabbricante di Stelle. Entrate, mettiamoci al riparo dalla pioggia. Solitamente posso vedere chi attraversa i miei confini, e preparo le camere degli ospiti; ma non ho prestato attenzione a tre corvi stanchi. — Poggiò una mano su un braccio a Yrth per guidarlo. — Da dove venite?

— Isig e Osterland — rispose il mago. La sua voce suonò più brusca del solito. Nell’intreccio di corridoi stazionavano guardie che non fecero un movimento all’apparire dei visitatori, ma i loro occhi li seguirono stupiti e pieni di congetture. La Morgol procedeva sottobraccio a Yrth, che inclinava la testa per udire meglio la sua voce, ed alle loro spalle Morgon era così teso a osservarli che tardò ad accorgersi di quel che Iff gli stava dicendo:

— Le notizie dell’attacco a Hed ci sono giunte solo pochi giorni dopo il fatto. La voce si è sparsa come un lampo in tutto il reame, causando paura e sgomento. Molti cittadini hanno abbandonato Caithnard; ma dove potranno andare? A Ymris? Ad An, che Mathom lascerà senza difesa quando avrà portato il suo esercito a nord? A Lungold? Quella città sta faticando a rimettersi dal terrore che l’ha colpita. Non c’è posto dove la gente possa sfollare.

— I Maestri hanno lasciato Caithnard? — domandò Raederle.

Il mago scosse il capo. — No. Hanno rifiutato di andarsene. — Ebbe una smorfia esasperata. — La Morgol mi ha chiesto di andare a vedere se avevano bisogno d’aiuto o di navi per portar via i loro libri. Mi hanno risposto che forse l’essenza della magia contiene il segreto di come eludere la morte, ma l’essenza dello studio degli enigmi insegna che non è saggio volgere le spalle alla morte, poiché chi vuole sfuggirle la trova sempre davanti a sé. Io li ho esortati ad essere pratici. Mi hanno detto che se volevo aiutarli dessi loro non delle navi ma delle risposte. Gli ho fatto allora presente che lì avrebbero potuto perdere la vita. Mi hanno chiesto se sia la morte la cosa più terribile. E a questo punto ho cominciato a capire un po’ cosa sia lo studio degli enigmi. Ma non ero in grado di giocare agli enigmi con loro.

— L’uomo saggio — disse Morgon, — insegue un enigma con l’accanimento con cui un mendicante si getta all’inseguimento di una moneta che sta per rotolare in una chiavica.

— Così pare. Tu puoi fare qualcosa? Mi sono sembrati fragili e indifesi quanto preziosi per il reame.

Il lieve sorriso di lui si smorzò. — Soltanto una cosa: dare loro ciò che vogliono.

La Morgol si fermò sulla soglia di una grande camera ben illuminata, con tappeti e divani dalle tinte dorate e avorio. La indicò a Morgon e a Raederle. — I servi porteranno tutto ciò di cui avrete bisogno per mettervi a vostro agio. Ci sono guardie scaglionate in tutta la casa. Quando sarete a vostro agio raggiungeteci nello studio di Iff. Così potremo parlare un poco.

— El — disse Morgon a voce bassa. — Non posso restare a lungo. Non sono venuto per parlare.

La donna restò in silenzio, e sebbene non mutasse espressione di un filo Morgon intuì il lavorio della sua mente. Gli poggiò una mano su un braccio. — Ho riunito qui tutte le guardie dislocate nei paesi e sui confini; Goh le sta organizzando per spostarle a sud, se è questo che potrà servirti.

— No! — esclamò appassionatamente lui. — Ho visto fin troppe delle tue ragazze morire, a Lungold.

— Morgon, siamo costretti a usare le forze di cui disponiamo.

— Non le armi. C’è ben altro potere qui a Herun. — Stavolta vide il suo volto mutare. Era conscio della presenza del mago dietro di lei, immobile come un’ombra, e pur sapendo che non c’era risposta si chiese se non stava accumulando potere soltanto per il divertimento del falco. — È per questo che sono qui. Ne ho bisogno.

Le dita di lei irrigidirono la presa sul suo braccio. — Il potere della legge della terra? — sussurrò, incredula. Lui annuì in silenzio, consapevole che il minimo segno di sfiducia in lei gli avrebbe sfregiato il cuore per sempre. — Tu hai il potere di prenderlo?

— Sì. Ho bisogno di questa conoscenza. Non toccherò la tua mente. Lo giuro. Sono entrato nella mente di Har, col suo permesso, ma tu… ci sono angoli della tua mente dove io non ho il diritto di penetrare.

Dietro gli occhi di lei stava prendendo forma qualche pensiero. Ferma com’era, quasi aggrappata a lui, sembrava incapace di parlare. Morgon si sentì come se dinnanzi a lei stesse mutando forma in qualcosa di antico quanto il mondo, qualcosa intorno a cui enigmi e leggende s’intrecciavano ingioiellandolo coi colori fantastici dell’alba e della notte. E fu tentato di entrare nei suoi pensieri, per scoprire cosa ci fosse nel suo misterioso passato da indurla a guardarlo in quel modo. Ma lei lo lasciò e disse: — Prendi dalla mia terra, e da me, tutto ciò che vuoi.

Lui rimase sulla soglia, seguendola con gli occhi mentre s’allontanava nel corridoio a braccetto con Yrth. L’arrivo dei servi lo distolse dai suoi pensieri. Mentre accendevano il fuoco e mettevano a scaldare l’acqua e il vino speziato, si accostò a Raederle.

— Devo lasciarti sola. Non so quanto starò assente. Nessuno di noi può dirsi veramente al sicuro, comunque Yrth e Iff sono qui, e Yrth… almeno mi preferisce vivo. Questo lo so.

Lei gli poggiò le mani sulle spalle, fissandolo con apprensione. — Morgon, durante il volo tu ti sei legato a lui. L’ho sentito.

— Lo so. — Le prese le mani e se le strinse al petto. — Lo so — ripeté, incapace di sostenere il suo sguardo. — È come se stesse giocando con me. E ti ho già detto che questa è una partita che potrei perdere.

— Forse.

— Veglia sulla Morgol. Non so chi o cosa io le abbia portato in casa.

— Lui non le farebbe mai del male.

— Le ha mentito e l’ha ingannata già una volta. E questo è fin troppo. Se hai bisogno di me, chiedi alla Morgol dove mi trovo. Lei lo saprà.

— Va bene. Morgon…

— Che c’è?

— Io non so… — rispose lei, come aveva fatto spesso in quei giorni. — Solo che talvolta ripenso a ciò che Yrth ha detto sul fuoco e sulla notte, e a come siano semplici cose quando le vedi chiaramente. E mi son detta che tu non sai chi è Yrth perché non l’hai mai visto davvero: tu hai visto soltanto oscuri ricordi…

— In nome di Hel, cosa ti aspetti che io veda? Lui è più che un arpista, più che un mago. Raederle, io sto cercando di vedere. Io sto…

Accorgendosi che i servi li sbirciavano lei gli mise una mano sulla bocca. D’improvviso lo abbracciò con forza, e lui s’accorse di tremare. — Non voglio irritarti, ma… taci, e ascoltami. Sto cercando di riflettere. Tu non capisci il fuoco finché non dimentichi te stesso per diventare fuoco. Hai imparato a vedere nel buio quando sei diventato una grande montagna col cuore di tenebra. Hai capito Ghisteslwchlohm solo assorbendo i suoi poteri. Così, l’unico modo di capire quell’arpista è forse quello di lasciare che ti attiri in suo potere, finché non diventerai parte del suo cuore e comincerai a vedere il mondo coi suoi occhi…

— A questo modo potrei distruggere il reame.

— Forse. Ma se è pericoloso, come puoi combatterlo senza conoscerlo? E se non fosse affatto pericoloso?

— Se non lo fosse… — Tacque. Il mondo sembrava vibrare intorno a lui: tutta Herun, i regni delle montagne, le terre del sud, l’intero reame gli si mostrava come attraverso gli occhi del falco. Vide l’ombra del predatore correre nel suo volo potente e silenzioso, la sentì cadere su di sé. Quella visione durò una frazione di secondo. Poi l’ombra si trasformò nel ricordo della tenebra notturna, e i suoi pugni si strinsero. — È pericoloso — mormorò. — Lo è sempre stato. Perché sono così legato a lui?

Quella sera lasciò la Città dei Cerchi, e trascorse i giorni successivi isolato dal mondo e in un certo senso anche da se stesso, senza badare allo scorrere del tempo, immerso nella legge della terra di Herun. Si spinse privo di forma nelle nebbie, penetrò nei profondi stagni e nelle sabbie mobili delle paludi, e sentì il freddo del mattino gelargli la crosta di fango sulla faccia mentre vagava fra le canne. Emise il solitario grido dell’uccello palustre, e guardò le stelle con gli occhi di pietra dei macigni millenari. Percorse le colline legando la sua mente alle rocce, agli alberi, ai torrenti, frugando nei giacimenti di ferro, di rame e di pietre preziose di cui le alture erano ricche. Diramò tentacoli di pensieri in una vasta rete attraverso i campi addormentati ed i pascoli nebbiosi, allacciandosi ai viticci delle radici morte e alle zolle su cui brucavano le pecore. L’amenità di quella terra gli ricordava Hed, ma lì c’era un’oscura e inquieta forza che s’era solidificata nelle forme dei colli e dei monoliti. Si aggirò sempre più vicino alla mente della Morgol e la esplorò; seppe che la sua perpetua e attenta sorveglianza era nata dalla necessità, l’eredità creata in lei da una terra dove le sabbie mobili e le nebbie fittissime erano un pericolo per chi doveva aggirarvisi. C’erano misteri inattesi in quelle strane rocce, e ricchezze nel loro interno; la mente della Morgol s’era plasmata su tutto ciò. Mentre Morgon si compenetrava anch’egli in quella legge sentì nascere in sé una gran pace, una nitida consapevolezza e una visione chiara legate alle necessità dell’esistenza agreste. E infine, quando poté vedere come la Morgol attraverso le cose e nel loro intimo, fece ritorno alla Città dei Cerchi.

Rientrò nella forma in cui era sparito: un silenzioso e sgusciante refolo di nebbia, invisibile nell’immobile notte di Herun. Seguì il suono della voce della Morgol e riprese le sembianze umane. Riaprendo gli occhi si trovò in piedi, fra le ombre e i riflessi del fuoco, nel piccolo ed elegante salotto di lei. Mentre si materializzava, la Morgol stava parlando con Yrth e a lui parve d’essere ancora legato alla tranquillità della sua mente. Non fece alcuno sforzo per troncare il contatto con quella calma psichica. Lyra era seduta accanto alla madre; Raederle s’era accovacciata vicino al fuoco. Avevano appena cenato, e presso di loro c’erano caraffe di vino e boccali.

Raederle girò la testa e lo vide; sorrise a qualcosa che gli lesse negli occhi e non volle disturbarlo. Morgon spostò la sua attenzione su Lyra. Per la cena la ragazza aveva indossato un abito leggero e fluttuante; sui capelli, intrecciati in modo complesso, portava un diadema d’oro. Il suo volto aveva perso la consueta fiera sicurezza di sé; negli occhi, più saggi e vulnerabili, sembrava aleggiare il ricordo delle ragazze che aveva visto battersi e morire nella difesa di Lungold. Disse alla madre qualcosa che Morgon non udì. La sovrana si limitò a risponderle:

— No.

— Io andrò a Ymris. — Testardi gli occhi scuri di lei fronteggiarono quelli della Morgol, ma la sua voce suonò calma. — Se non con la Guardia, al tuo fianco.

— No!

— Madre, io non faccio più parte della tua Guardia. Al nostro ritorno da Lungold ho rassegnato le dimissioni, perciò non puoi pretendere che ti ubbidisca senza pensare. Ymris è un terribile campo di battaglia, più sanguinoso di Lungold. Andrò a…

— Tu sei la mia Erede della terra — disse la Morgol. Manteneva un’espressione calma, ma Morgon avvertì nel profondo della sua mente il brivido della paura, gelido come la nebbia di Herun. — Io condurrò tutta la Guardia oltre i confini di Herun, alla Piana del Vento. Goh ne sarà la comandante. Tu hai dichiarato che non prenderai mai più una lancia in mano, e sono stata lieta di questa decisione. Non c’è alcun bisogno che tu combatta a Ymris, anzi la necessità impone che tu resti qui.

— Nel caso che tu sia uccisa? — disse Lyra, rigida. — Io non capisco perché tu insista per andare, ma voglio cavalcare al tuo fianco.

— Lyra…

— Madre, questa è la mia decisione. Ubbidirti non è più un obbligo d’onore. Io faccio le mie scelte, e ho scelto di cavalcare con te.

Le dita della Morgol si strinsero con forza attorno al boccale. Poi si costrinse alla calma. — Benissimo — disse. — Se in questa circostanza non c’è onore nelle tue azioni, non ce ne sarà neppure nelle mie. Tu rimarrai a Herun, con le buone o con le cattive.

Lyra sbatté le palpebre. — Madre! — protestò, incerta. La donna la interruppe:

— Proprio così. La Morgol sono io. Herun è in grave pericolo. Se Ymris cadrà, voglio che tu sia qui a proteggere la nostra gente nel miglior modo che ti sarà possibile. Se entrambe dovessimo morire a Ymris, per Herun sarebbe il disastro.

— Ma perché devi andare?

— Perché — disse sottovoce la Morgol, — così faranno, Har, Danan e Mathom, i sovrani del reame, costretti a combattere per la nostra sopravvivenza… o per altre ragioni più imperative ancora. Nel cuore del reame c’è un groviglio di enigmi; io voglio vederlo districato. Perfino a rischio della vita. Voglio delle risposte.

Lyra tacque. Nella penombra rosata i loro volti erano quasi identici, ambedue fini e attraenti. Ma la Morgol celava i suoi pensieri dietro occhi d’oro imperscrutabili, mentre quelli di Lyra erano specchi aperti sul suo tormento interiore.

— L’arpista è morto — sussurrò. — Se è questa la cosa a cui vuoi una risposta.

La Morgol abbassò lo sguardo. Dopo un momento allungò una mano a sfiorare una guancia della figlia. — Nel reame ci sono ben altri dilemmi che questo — disse. — E quasi tutti più importanti. — Ma la sua bocca si contorse in una smorfia di sofferenza. Poi aggiunse: — Gli enigmi senza risposta possono essere terribili. Con alcuni è possibile vivere ugualmente. Con altri… ciò che il Portatore di Stelle farà alla Piana del Vento sarà vitale. Così dice Yrth.

— E dice anche che tu devi per forza essere là? E se la Piana del Vento è così vitale, dov’è il Supremo? Perché ignora il Portatore di Stelle e l’intero reame?

— Non lo so. Forse Morgon potrà rispondere a qualche… — D’un tratto si volse e lo vide, immobile nella penombra e completamente immerso nei suoi pensieri.

La donna sorrise e gli tese una mano in gesto di benvenuto. Yrth si raddrizzò mentre Morgon si accostava al tavolo, forse guardandolo attraverso gli occhi di lei. Per un attimo Morgon lo vide strano, come qualcosa di affine alle nebbie e ai monoliti di Herun che la sua mente poteva esplorare e comprendere. Poi, intanto che sedette, il mago parve guardare se stesso attraverso gli occhi di lui. Senza parlare gli rivolse un cenno col capo. La Morgol domandò: — Hai trovato ciò che eri venuto a cercare?

— Sì. Tutto quello che potevo prendere. Sono stato assente a lungo?

— Quasi due settimane.

— Due… — Pronunciò quella parola, senza darle suono. — Tanto tempo? Ci sono state novità?

— Pochissime. Ha Hlurle sono giunti mercanti a prendere tutte le armi che potevamo dare, per portarle a Caerweddin. Io ho avvistato una nebbia che da Osterland si spostava a sud, e soltanto oggi, finalmente, ho capito di che si tratta.

— Una nebbia? — Lui ripensò alle cicatrici sulle palme di Har, aperte davanti al fuoco. — Vesta? Har sta portando i vesta a Ymris?

— Ce ne sono a centinaia che si spostano nelle foreste.

— Sono grandi combattenti — disse Yrth. Appariva stanco, poco incline a chiacchierare , ma il suo tono era paziente. — E a loro non fa paura l’inverno di Ymris.

— Tu lo sapevi! — La calma di Morgon s’era sbriciolata. — Avresti potuto fermarlo. I minatori, i vesta, le guardie della Morgol… perché stai spingendo un esercito così inesperto e vulnerabile attraverso il reame? Tu sei cieco, ma tutti noi saremo costretti a guardare il macello di uomini e di animali su quel campo di battaglia…

— Morgon — lo interruppe gentilmente la Morgol. — Non è stato Yrth a prendere questa decisione per me.

— Yrth… — Tacque e si passò una mano sul viso, rinunciando a ciò che era tentato di dire. Yrth si alzò, un po’ a tentoni avanzò fra i cuscini disposti attorno al caminetto e venne a fermarsi dinnanzi a lui, a testa bassa. Morgon vide le sue mani segnate da cicatrici stringersi con forza, chiuse a parole che non poteva pronunciare, e ripensò alle mani di Deth, contorte dal dolore nella luce del bivacco. Nella silente notte di Herun gli parve di udire l’eco della strana e breve tranquillità che aveva trovato di fronte al fuoco acceso dall’arpista, di fronte alle sue labbra mute. D’improvviso fu sopraffatto da tutto ciò che lo legava all’arpista, al falco, ai suoi pensieri e al suo incomprensibile amore. Mentre osservava le luci e le ombre plasmarsi intorno a quel volto duro e cieco, sentì che avrebbe potuto cedere tutto: i vesta, le guardie della Morgol, i sovrani e l’intero reame in quelle mani nodose, in cambio di un posto all’ombra del falco.

Quella consapevolezza riportò in lui una strana e spiacevole calma. Chinò il capo; restò a fissare il suo scuro riflesso nel lucidissimo pavimento finché Lyra si volse a scrutarlo. — Devi essere affamato. — Gli versò un boccale di vino. — Ti porterò qualcosa di caldo. — La Morgol la seguì con gli occhi mentre attraversava la stanza col suo passo morbido e flessuoso. Sembrava stanca, più stanca di quanto Morgon non l’avesse mai vista.

La donna gli disse: — I minatori e i vesta e le mie guardie potranno essere inutili a Ymris. Ma, Morgon, i sovrani stanno offrendo ogni mezzo di cui dispongono. Non c’è altro che noi possiamo fare.

— Lo so. — La guardò, conscio del suo confuso e doloroso amore per un ricordo. D’un tratto, quasi per darle qualcosa in cambio di tutto ciò che lei aveva offerto, disse: — Ghisteslwchlohm mi rivelò che nel tuo accampamento fuori Lungold aspettavi Deth. È vero?

Per quanto stupita da quella domanda improvvisa, lei annuì. — Credevo che sarebbe venuto a Lungold. Era l’unico posto in cui poteva andare, e allora avrei avuto modo di chiedergli… Morgon, tu ed io siamo stanchi, e l’arpista è morto. Forse dovremmo…

— Lui è morto… è morto per te.

Dall’altra parte del tavolo lei sbarrò gli occhi. — Morgon! — sussurrò, come un avvertimento, ma lui scosse il capo.

— È vero. Raederle avrebbe potuto dirtelo. O Yrth… c’era anche lui. — Il mago lo fissò con occhi vuoti e brucianti, e la sua voce s’incrinò. Ma proseguì, per darle l’enigma senza risposta che era stata la vita dell’arpista, in cambio di niente: — Ghisteslwchlohm offrì a Deth la scelta fra prendere Raederle oppure te, come ostaggio, intanto che mi costringeva a tornare con sé al Monte Erlenstar. Lui rispose che avrebbe preferito la morte. Costrinse Ghisteslwchlohm a ucciderlo. Deth non ebbe compassione di me… forse perché io avrei potuto anche farne a meno. Ma tu e Raederle, semplicemente, vi amava. — Tacque, addolorato nel vederla coprirsi il volto con le mani. — Ti ho ferita? Non volevo…

— No.

Ma Morgon la vide piangere, e imprecò contro se stesso. Yrth stava immobile rivolto verso di lui; si chiese come il mago potesse vederlo, dato che anche il viso di Raederle era celato dai suoi capelli. Yrth ebbe un gesto strano alzando una mano aperta, quasi che stesse supplicando Morgon; poi allungò il braccio nell’aria accanto a lui e l’arpa stellata comparve dal nulla stretta nella sua mano.

Quando le prime note echeggiarono dolci, gli occhi della Morgol balzarono dapprima su Morgon, ma non era lui a imbracciare lo strumento. Il giovane fissava Yrth, muto come se le parole gli si fossero congelate in gola. Le dita forti del mago si stavano muovendo con impeccabile arte sulle corde che lui stesso aveva accordato, creando i sussurri della brezza e dell’acqua cristallina. Era la musica che aveva aleggiato nell’interminabile e tenebrosa notte del Monte Erlenstar, in tutta la sua mortale bellezza; erano gli arpeggi che per secoli avevano deliziato i sovrani di tutto il reame. Era l’esecuzione artistica di un grande mago che un tempo era stato conosciuto come l’Arpista di Lungold. E la Morgol nell’ascoltarlo apparve soltanto incerta, forse un po’ sorpresa. Poi l’arpista attaccò le note iniziali di una canzone, e il sangue le defluì di colpo dalla faccia.

Era una melodia che non aveva bisogno di parole, e che svegliò nella memoria di Morgon momenti di notte e di nebbia fra i boschi di Herun, un fuoco intorno a cui erano sedute le guardie della Morgol, la figura di Lyra che emergeva dal buio dicendo qualcosa. Si accigliò. E in quel momento, accorgendosi del pallore che rendeva vacuo lo sguardo della Morgol rivolto a Yrth, ricordò: la canzone che Deth aveva composto per lei.

Un brivido scosse Morgon. Quando l’affascinante melodia fu sul finire si chiese in che modo l’arpista si sarebbe giustificato con la donna. Le dita di lui rallentarono, trasse un ultimo accordo conclusivo dall’arpa e quindi si poggiarono sulle corde per fermarle. A capo chino restò seduto con lo strumento sulle ginocchia, le dita grevi di musica a contatto delle tre stelle. Luci e ombre scivolavano sulle pareti facendo tremolare la sua ombra stanca. Morgon si sarebbe atteso che dicesse qualcosa, ma l’uomo non parlò e non si mosse; lasciò fluire quegli istanti di tempo su di lui, silenzioso come un albero le cui radici fossero contorte nella nuda roccia, e nell’osservarlo Morgon comprese che quel silenzio non era la fuga da una risposta, ma la risposta stessa.

Chiuse gli occhi. Il cuore gli stava pulsando forte, dolorosamente; avrebbe voluto parlare ma non ci riuscì. Il silenzio dell’arpista lo circondava con la pace che doveva aver trovato sepolta in tutte le creature viventi del reame. Se lo sentì scivolare nella mente e nel cuore, finché perfino i suoi pensieri ne furono bloccati. Tutto ciò che seppe fu che qualcosa, una cosa da lui cercata tanto a lungo e tanto disperatamente, non era stata mai, neppure nei suoi momenti peggiori, molto lontana da lui.

Infine l’arpista si alzò, e le rughe del suo volto di pietra parvero i segni che deturpavano la mappa del reame. I due occhi ciechi si spostarono sulla Morgol per un interminabile istante, finché il volto di lei, così pallido da sembrare traslucido, ebbe un tremito e si chinò verso la superficie del tavolo. Poi si accostò a Morgon e gli mise l’arpa a tracolla, con un gesto che a lui parve parte di un sogno. Esitò ancora un attimo e sfiorò con dolcezza la fronte del giovane. Infine s’incamminò verso il caminetto e il suo corpo si smaterializzò nell’ondeggiare della fiamma.

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