6

Una giornata interminabile, di inattività logorante per i nervi, ebbe inizio.

Harris attese per tutta la mattina un messaggio di Carver, ma non ricevette niente. Neanche gli agenti di Medlin si erano messi in contatto con lui. Verso mezzogiorno percorse il corridoio fino alla camera di Beth Baldwin, ma quando suonò, nessuno andò ad aprire.

Scese nell’atrio dell’ingresso e si recò al bureau. «Vorrei lasciare un messaggio per la signorina Baldwin» disse.

«Che stanza, signore?»

«Cinque-otto-due-zero.»

L’impiegato controllò il quadro. «Spiacente, signore. La camera è libera dalle prime ore di oggi.»

Harris tamburellò nervosamente con le dita sul piano della scrivania, pensando con tristezza che cominciava a trovare naturali perfino i gesti che nei Terrestri tradivano irritazione e impazienza. «Ha lasciato per caso il suo nuovo indirizzo?»

Un’altra occhiata al quadro.

«No, signore. Mi spiace.»

Harris sospirò. «Va bene. Grazie, comunque.»

Se ne andò. Pensò che era logico che lei avesse troncato ogni legame a quel modo. Era rimasta in albergo quel tanto che bastava per entrare in contatto con lui. A missione compiuta, era sparita senza lasciare tracce.

Pensò con rammarico che, dopo tutto, gli sarebbe piaciuto poter fare quell’esperimento biologico con lei. Un pensiero perverso, perché Beth — sotto l’involucro di carne — era un’abitante di Medlin. Ma per quanto lei fosse medlinese, il corpo di lui, di Harris, adesso era sintonizzato sulla Terra e l’intero sistema ghiandolare aveva subito modifiche e adattamenti. Per questo sarebbe stata un’esperienza interessante.

Be’, non era più il caso di pensarci. Tanto meglio, comunque. Unirsi a un nemico era sempre un delitto contro lo Spirito, a prescindere dal tipo di corpo di cui si era rivestiti.

Lasciò l’albergo, demoralizzato, con un gran bisogno di aria fresca e di movimento. Su Darruu era abituato a farsi una lunga nuotata ogni mattina: estate o inverno, nebbia rossa o nebbia rosa. Lì, in quella mostruosa giungla d’asfalto e di cemento, non poteva permettersi un esercizio del genere; i suoi muscoli si andavano atrofizzando e dolevano per l’inattività.

Così si mise a camminare.

Percorse strade strette, vecchie di duemila anni, vicoli tortuosi che scendevano al fiume puzzolente e inquinato che scorreva nel cuore della gigantesca metropoli. Sostò sulla riva del corso d’acqua, guardando la corrente pigra e fangosa correre verso il mare. Il cielo pullulava di elitassì, non di uccelli. La frenesia del lavoro contagiava ogni cosa.

Pensò che la Terra fosse un mondo ricco. Un mondo di negozianti, di mercanti, di finanzieri e di ladri. Non esistevano valori morali, lì: neppure il senso della disciplina militare. La Terra era un curioso miscuglio di individui spietati oppure deboli, e Harris ormai disperava di riuscire a comprendere questo tipo di civiltà.

Il puzzo del fiume lo opprimeva. Si allontanò, premendosi il fazzoletto contro il naso e tornò verso il centro. Un numero esorbitante di autorobot gli giostravano intorno, da ogni parte. Era sconvolto dall’onnipresenza della folla, una folla indaffarata, che infestava tutti i luoghi. Nove miliardi di individui sopra un solo mondo, e piccolo per giunta… Roba da vertigini. Eppure sapeva che c’erano ancora vaste zone della Terra dove non viveva nessuno, distese incolte e foreste intricate che non erano state ancora bonificate, anche se i villaggi dei coloni cominciavano ormai a rosicchiarne i contorni.

I Terrestri preferivano ammucchiarsi in enormi città, e lasciare che il terreno all’intorno andasse alla malora. Perché? Perché quell’inurbamento pazzesco?

Avevano paura di restare soli?

Harris si strinse nelle spalle. Su quel mondo si sentiva soffocare. Sarebbe stato felice di abbandonarlo, di tornare su Darruu, di rivedere un campo aperto e respirare l’aria pura, di rabbrividire alla carezza dell’acqua fresca nelle prime ore dell’alba.

Passò davanti a un edificio talmente lucido, che le pareti sembravano specchi di pietra. La sua faccia riflessa, appena un poco deformata, lo guardò di rimando. No, non la sua faccia, non la faccia di Aar Khiilom, ma quella di Abner Harris. Cominciava a dimenticare le sue vere fattezze. Aar Khiilom, della città di Helasz, era uno straniero per lui, ora. Abbassò un attimo le palpebre e rivide il suo viso di un tempo, con gli occhi rossi, la pelle dorata e senza peli, gli zigomi angolosi che sporgevano bruscamente lasciando le occhiaie nell’ombra.

Un giorno riavrò il mio corpo, la mia faccia, il mio aspetto si disse, pieno di speranza. Gli avrebbero strappato il roseo strato superficiale, avrebbero rimosso l’oscena foresta di peli bestiali che ci spuntava sopra e avrebbero tolto l’imbottitura che nascondeva le lame taglienti degli zigomi. I chirurghi avrebbero innestato di nuovo i «viticci». Non sarebbero stati più funzionali, e non lo avrebbero avvertito in anticipo delle variazioni della pressione barometrica, ma quello era un sacrificio relativamente piccolo. Un Servo dello Spirito doveva essere pronto a donare tutto: gli occhi, il cuore, e perfino la vita, se Darruu gliel’avesse chiesto. Il privilegio della nobiltà comportava anche degli obblighi, e lui non lo aveva mai messo in dubbio.

Ma languiva dal desiderio di tornare a casa.

Languiva dal desiderio di riprendere le proprie sembianze.

Carver ha ragione pensò. Dobbiamo colpire in fretta, eliminare i Medlinesi e le loro trame. E poi, a casa. A Darruu!

Mentre le ombre pomeridiane cominciavano ad addensarsi, Harris tornò all’albergo. Mangiò solo, nel ristorante. Non aveva molto appetito, così scelse piatti semplici, evitando le voci più esotiche del menu. Poiché quel posto accoglieva una vasta gamma di clienti provenienti da ogni parte dello spazio, la lista proponeva ghiottonerie di ogni angolo dell’Universo… perlomeno fin dove i commercianti terrestri svolgevano la loro attività. Ma non c’erano piatti di Darruu, né dei pianeti limitrofi, e Harris in quel momento non aveva voglia di assaggiare specialità sconosciute.

Dopo mangiato, tornò in camera sua e si sdraiò sul letto. Prese istintivamente la posizione più comoda per un darruuese, cioè sul dorso, con le gambe in aria e le ginocchia flesse; ma riflettendo che poteva trovarsi sotto l’occhio di un dispositivo-spia, si distese nella tradizionale posizione di riposo terrestre. E cercò di rilassarsi.

Verso sera, l’amplificatore del segnale si fece vivo con il caratteristico suono. Lui allungò un braccio e azionò il comunicatore.

«Qui Harris.»

«Carver. Appuntamento tra un’ora.»

«Dove?»

«Ottantanove-sessantatré Aragon Boulevard. All’ottavo piano.»

Harris ripeté l’indirizzo. Carver chiuse. Con un senso di piacevole eccitazione per il termine di quella forzata e noiosa inattività, Harris si alzò, si vestì, prese le sue armi e uscì.

Chiamò un elitassì e diede l’indirizzo al pilota. L’uomo si girò sulla sua poltroncina. «Ripetetemi l’indirizzo» disse.

«Aragon Boulevard. Ottantanove-sessantatré.»

«E chi lo sa dov’è? Aspettate che chiedo informazioni al calcolatore.»

Harris aspettò. Pensò con rabbia che quella era una città insopportabile. Neanche i piloti sapevano orizzontarcisi! La metropoli era troppo grande, certo, ma ciò non aveva niente a che fare col problema in se stesso. Perché non esisteva un elenco sistematico delle strade? Mai sentito parlare di piani regolatori urbani, sulla Terra? Non sapevano che cosa fosse un reticolo stradale? E perché davano un nome alle vie, invece di indicarle con un numero?

Pensò che era proprio un pianeta assurdo.

Eppure, nonostante la loro inefficienza e irrazionalità, i Terrestri erano penetrati nella galassia assai più in fretta di qualsiasi altra specie nella storia degli esseri intelligenti. Era una constatazione agghiacciante. Che disastri combineranno si chiese, se messi in condizione di sfruttare tutte le loro facoltà?

Che sarebbe successo, quando i nuovi superuomini avrebbero dominato il pianeta?

Rabbrividì preoccupato. Imprecò di nuovo contro i Medlinesi. Erano completamente privi di buonsenso? Non vedevano la minaccia che li sovrastava?

L’elitassì si alzò nell’aria. Harris si appoggiò allo schienale e cercò di calmarsi. La situazione presto sarebbe stata sotto controllo. Presto avrebbero eliminato gli agenti Medlinesi, e non ci sarebbe stato più niente da temere dalla Terra e dalla nuova razza.


L’Aragon Boulevard, nonostante il suo nome altisonante, si rivelò una strada contorta e polverosa all’estremità est della città, sulla riva del fiume. Non c’era neppure una rampa per elitassì in vista, e il pilota aveva dovuto lasciare Harris al centro di una piazza, qualche isolato più in là.

Nelle tenebre che andavano addensandosi, Harris si diresse verso l’isolato 8963 e trovò l’edificio vecchio e rovinato dalle intemperie. Non c’era nessuno di guardia, nell’atrio dell’ingresso. Lui prese l’ascensore.

Salì fino all’ottavo piano — nella scricchiolante imitazione di ascensore che vibrava tanto da fargli temere di ritrovarsi al pianterreno da un momento all’altro — e si fece strada lungo un corridoio polveroso e malamente illuminato, fino a una porta scrostata e sgangherata da cui provenivano il debole sibilo e il chiarore giallastro che indicavano la presenza di un campo protettivo.

Harris sentì nell’addome il delicato pizzicorino che lo avvertiva di essere osservato da un dispositivo di controllo elettronico. Aspettò, paziente.

Finalmente, la porta si aprì.

«Entrate» disse Carver.

Harris entrò. C’erano altre quattro persone, nella stanza, oltre a lui stesso e al capo degli agenti di Darruu.

«Questo è il maggiore Abner Harris, signori» disse Carver, parlando in terrestre, chiaramente deciso a non ricorrere in nessun modo al suo passato darruuese.

Gli altri quattro si presentarono, uno alla volta: Reynolds, un tipo grassoccio e calvo. Tompkins, un giovanotto sorridente. McDermott, basso di statura e dallo sguardo gelido. E Patterson, un individuo magro e dinoccolato, che parlava strascicando la erre. Ciascuno, pronunciando il proprio nome, faceva anche il segno di riconoscimento darruuese, a cui Harris rispondeva.

«Gli altri quattro agenti si trovavano nell’emisfero orientale della Terra» disse Carver. «Ma noi sei dovremmo riuscire a controllare la situazione.»

Harris lanciò un’occhiata ai cinque colleghi. Avevano tutti un aspetto comune, pacifico. A un osservatore estraneo sarebbe sembrato che l’unico del gruppo capace di dominare una situazione qualsiasi fosse lui, Harris, con la sua impeccabile uniforme e il suo portamento marziale.

Ma quella sarebbe stata una valutazione superficiale. Quei cinque erano stati appositamente progettati in modo da sembrare comuni e per niente speciali. Sotto l’aspetto esteriore terrestre, tutti erano Servi dello Spirito e capaci di comportarsi degnamente nei momenti difficili.

«Che progetti avete?» chiese Harris.

«Quelli di cui abbiamo parlato ieri. Attaccheremo gli agenti Medlinesi, naturalmente. Dobbiamo eliminarli tutti, fino all’ultimo.»

Harris annuì. Ma con sua stessa sorpresa si sentì turbato e sgomento. L’immagine di Beth Baldwin uccisa per sua mano gli attraversò la mente. Aggrottò la fronte e cercò di scacciare quei pensieri pericolosi. Prima era stato sinceramente convinto della necessità di eliminare i Medlinesi, tuttavia ora gli sembrava che avessero agito in buona fede liberandolo.

Sapeva che ciò era assurdo e allontanò quell’idea dalla mente.

«Come li faremo fuori?» chiese.

«Si fidano di voi» disse Carver. «Siete uno dei loro agenti, ora. Almeno così credono.»

«Sì.»

«Tornerete da loro e gli direte che vi siete sbarazzato di me, come vi avevano ordinato, e che siete in attesa di un nuovo compito. Solo che porterete un dispositivo subsonico con voi. Ve lo inseriremo ora. Una volta entrato nella loro sede, azionerete il dispositivo e li tramortirete.»

«E io?»

«Voi sarete completamente schermato.»

«Capisco» disse Harris. «Allora dovrei… ammazzarli mentre sono privi di sensi?»

«Proprio così» dichiarò Carver.

Reynolds, il tipo grasso, disse lentamente: «Mi sembra di vedere una sfumatura di riluttanza nell’espressione del maggiore. O sbaglio?»

Harris lottò per dare ai suoi lineamenti ribelli una espressione seria e patriottica, come si conveniva.

«Forse il maggiore conserva ancora qualche legame sentimentale residuo nei confronti di uno dei Medlinesi?» insinuò McDermott.

Harris lo fulminò con un’occhiata furibonda. Era proprio così trasparente? Riuscivano tutti a leggergli nel pensiero?

«Qualcosa vi turba, maggiore?» chiese Carver.

«No.»

«Siete disposto a portare a termine la missione che vi è stata assegnata?»

«Sono un Servo dello Spirito» disse Harris, rigido.

Carver annuì. «Proprio così. Non avremmo mai dovuto permetterci di dubitare delle vostre intenzioni, neanche indirettamente.» Harris pensò che c’era una buona dose d’ironia nella sua voce. «Non si può essere pietosi con i Medlinesi, Harris, sapete» continuò Carver. «È un assioma, direi. Sarebbe come essere pietosi con i vampiri o i serpenti.»

Harris si sentì tremare le gambe. Cinque paia di occhi darruuesi erano fissi minacciosamente su di lui.

Che cosa stanno pensando? Sospettano qualcosa? Forse credono davvero che mi sia venduto a Medlin?

«Aspetteremo fuori del quartier generale nemico fino a che il vostro segnale non ci avviserà che avete terminato il vostro compito» disse McDermott. «Se vi occorre aiuto, fatecelo sapere.»

«Che ve ne sembra del piano?» chiese Carver.

Harris si passò la lingua sulle labbra e cercò di prendere un’aria più marziale. Quell’improvviso accesso di vigliaccheria lo turbava e sgomentava. Mai aveva reagito così prima di allora, neppure in situazioni assai più gravi. «Mi sembra che dovrebbe funzionare» disse, con un filo di voce. «Mi sembra buono.»

«Benissimo» replicò Carver, secco. «Sono lieto che lo abbiate approvato. Reynolds, inserite il dispositivo subsonico.»

Impassibile, Harris guardò l’uomo calvo prendere una pallottolina di metallo non più grande di un fagiolo, da cui sporgevano tre filamenti di tantalio. Il suo corpo, ormai, era un ammasso di congegni inseriti chirurgicamente, e lui era stoicamente pronto a ospitarne uno di più.

«I pantaloni, maggiore…»

Harris se li sfilò. Reynolds estrasse un bisturi da un astuccio che si era levato di tasca e, inginocchiatosi accanto alla coscia sinistra del collega, sollevò il brandello di carne senza nervi che serviva da sportello per accedere alla rete di dispositivi sottostante.

Guardando in giù con curiosità, Harris sbirciò negli oscuri recessi della sua gamba e vide gli avvolgimenti e i fili che ci stavano dentro. Reynolds inserì due dita e svolse un rotolino di filo di ferro.

Lui sbatté le palpebre e si controllò con uno sforzo immane, mentre un’ondata dolorosa e bruciante lo faceva barcollare.

«Scusate, maggiore» disse Reynolds, con disinvoltura, sistemando i fili. «Ho colpito i centri corticali questa volta, eh? Non succederà più.»

Harris non rispose. Il dolore diminuiva lentamente, lasciando tutto uno strascico di indolenzimenti, ma lui non volle lamentarsi. Non doveva. Continuò a guardare, mentre l’altro con dita svelte e sicure assicurava la pallina ai fili già sistemati nella gamba, chiudendo poi la ferita col mastice. Harris si rivestì. Sentiva solo un lieve prurito nel punto in cui era stata compiuta l’operazione.

«Lo attiverete premendo contro la giunzione neurale del fianco sinistro» disse Carver. «Il dispositivo è autoschermante per un raggio di un metro tutto intorno a voi, perciò assicuratevi che nessuna delle vostre vittime sia troppo vicina. Per esempio… non funzionerebbe durante un abbraccio.»

Harris incassò l’allusione, impassibile.

«Come potrete constatare, emette onde subsoniche piuttosto potenti» continuò Carver. «Chiunque si trovi entro un raggio di dodici metri, sarà messo in condizioni di non nuocere.»

«È mortale?»

«Per gli organismi complessi, no. Però ucciderebbe qualsiasi essere inferiore a un primate.»

«E se i Medlinesi fossero schermati contro le onde subsoniche?»

Carver rise, con sicurezza. «Questo è un trasmettitore a ciclo variabile, maggiore. Se quelli possiedono qualcosa in grado di schermarli da un’onda così irregolare, possiamo tornarcene tutti a casa, e subito.»

«Hanno dimostrato di avere altre abilità sorprendenti» osservò Harris.

«Sono propenso a credere che non siano in grado di difendersi da questo dispositivo» dichiarò Reynolds. «Occorrerebbe una tecnologia ad altissimo livello, un livello addirittura impensabile, per mettere a punto un sistema di difesa qualsiasi contro un dispositivo subsonico. La semplicità stessa del congegno rende impossibile neutralizzarne l’azione. Volete una dimostrazione pratica?»

«Meglio di sì» disse Carver.

Reynolds fece un gesto, e Tompkins e Patterson scomparvero in una delle stanze, tornando poi con tre gabbie piene di piccoli mammiferi terrestri. Harris non era in grado di riconoscerli, ma alcuni sembravano notevolmente intelligenti.

«Noi andiamo in fondo al corridoio» disse Carver. «Vi faremo un segnale quando saremo fuori portata. Così vedrete come funziona.»

Lui annuì, con durezza. I cinque lasciarono la stanza. Harris fissò gli animaletti chiusi nelle gabbie e i loro occhietti tondi lo fissarono, quasi comprendessero che cosa stava per fare.

«Ora!» gridò Carver da fuori.

Harris esitò un attimo, poi la sua mano premette contro il fianco.

Lui non sentì niente.

Ma gli animaletti cominciarono a contorcersi e a gemere, in un’improvvisa agonia.

I più piccoli morirono senza avere il tempo di soffrire e piombarono sul fondo della gabbia. Le code vibrarono per un attimo, le zampette si tesero, rigide, gli artigli annasparono nell’aria un istante, poi tutto fu finito.

Ma quelli più grossi lottarono contro la morte. Poi anche loro cedettero, cadendo con un tonfo sordo e acciambellandosi grottescamente come se volessero dormire.

Harris staccò la mano dal fianco. Si avvicinò alle gabbie, ne aprì una, introdusse le dita. Sfiorò i cadaverini pelosi e sentì solo rigidità e morte. Gli occhi che un attimo prima erano grandi e lucenti, ora avevano una fissità innaturale e lo guardavano immobili, quasi accusandolo.

«Be’?» gridò Carver.

«Ha funzionato» disse lui. «Potete tornare. È tutto finito.»

I cinque Darruuesi rientrarono nella stanza. Reynolds tolse gli animali dalle gabbie e li esaminò.

«Morti» disse. «Tutti.»

«Ma non uccide gli esseri umani?» chiese Harris.

«Li tramortisce soltanto» rispose Reynolds. «Anche da vicino. Impossibile costruire un subsonico in grado di uccidere esseri umani risparmiando il portatore.»

«E loro non possono difendersi?»

«No» disse Carver. «L’unica difesa possibile sarebbe uno schermo a cicli irregolari come il vostro, attivato nello stesso momento in cui il vostro entra in azione. Ma l’irregolarità dei cicli è del tutto irrazionale e irripetibile. Assolutamente. Quindi ogni difesa è semplicemente impossibile, Harris. Garantisco io!»

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