Il giovane Lucas Martino si allontanò dal tavolo che aveva appena ripulito, tenendo nella mano sinistra quattro tazzine con i relativi piattini, in equilibrio quasi miracoloso, come gli aveva insegnato Barbara. Nella mano destra stringeva lo straccio umido, pronto a pulire qualsiasi macchia avesse visto sui tavolini, prima di arrivare al bancone. Gli piaceva di lavorare a quel modo… era efficiente, non sprecava tempo, e il fatto che di tempo ce ne fosse a sufficienza, ora che l'ondata di clienti del tardo pomeriggio era passata, non aveva alcuna importanza per lui.
Mentre svolgeva il suo lavoro, si domandava quale fosse il motivo di quelle ondate irregolari di clienti. Non c'era alcuna ragione evidente per cui, certi giorni, l'Espresso di Lucas sr. dovesse improvvisamente riempirsi di avventori alle quattro del pomeriggio. Logicamente, a quell'ora, la gente avrebbe dovuto essere al lavoro, o a preparare la cena, o a passeggiare nel parco, in una giornata così bella. Ma no, erano venuti tutti là dentro… tutti, più o meno, alla stessa ora… e per mezz'ora, il locale era stato affollatissimo. E ora (mancava un quarto alle cinque) era di nuovo deserto, e le sedie erano di nuovo disposte in bell'ordine intorno ai tavolini puliti. Ma avevano passato un momento di punta notevole… troppo, con lui e Barbara in servizio, da soli, tanto che Carlo si era occupato personalmente del servizio, a sua volta.
Osservò le tazzine sporche che stava ammucchiando. Era molto probabile, pensò, che quasi tutti i clienti avessero ordinato la stessa cosa. Niente cappuccino, tanto per cambiare, ma espresso autentico, e anche questo era curioso, perché sembrava che, nello stesso istante, più o meno, tutti coloro che si erano trovati nelle vicinanze avessero avvertito il desiderio di uno stimolante, piuttosto che di qualcosa di dolce da bere.
Ma avevano tutti delle occupazioni diverse… erano osti e garzoni, artisti e vagabondi e turisti. C'erano dunque dei giorni nei quali tutti si stancavano, non importa quale fosse il loro lavoro? Lucas rimase perplesso. Cercò di ricordare se gli fosse mai capitato di provare qualcosa del genere, in passato. Ma un solo caso non costituiva una prova decisiva. Avrebbe dovuto metterlo da parte e pensarci… aspettare che la cosa accadesse una seconda volta.
Lasciò perdere per il momento questi pensieri, dato che Barbara aveva terminato la pulizia dei tavolini, dalla sua parte, e stava ritornando dietro al bancone. La ragazza si passò la mano sulla fronte, e ricacciò indietro una ciocca di capelli.
«Però! Immagino che giornate del genere siano belle solo quando sono finite, vero, Tedeschino?»
Lucas sorrise.
«Aspetta l'ondata di clienti della sera.» La ragazza si piegò per riporre le tazzine e i piattini sporchi, e il ragazzo arrossì lievemente, vedendo la sottana che si tendeva sui fianchi snelli. Riuscì a controllarsi, e raccolse la cesta nella quale veniva sistemata la roba sporca, e la portò in un bugigattolo in cui si trovava l'acquaio.
«La sera non è niente, Ted… ci sono Alice e Gloria. Roba da ridere, al confronto.» Barbara si voltò e gli strizzò l'occhio. «Scommetto che sarai contento di rivedere Alice.»
«Alice? E perché?» Alice era una ragazza dal viso intelligente e dal corpo formoso che prestava scarsa attenzione al lavoro, e non si occupava affatto dei clienti e dei compagni di lavoro.
Barbara abbassò lo sguardo.
«Oh, non lo so» disse, stringendo le labbra. «Ma proprio ieri mi diceva che le piaci moltissimo.»
Lucas aggrottò le sopracciglia.
«Non sapevo che tu e Alice parlaste di queste cose.» Non sembrava assolutamente in carattere con Alice. Ma doveva pensarci. Se la cosa era vera, significava guai. Era sempre assurdo avere una relazione con una ragazza dove si lavorava… per lo meno, aveva sentito dire questo, e ne capiva la logicità. Inoltre, sapeva esattamente quale fosse il tipo di ragazza adatto ai suoi scopi attuali. Non doveva essere una ragazza della quale lui avrebbe potuto innamorarsi… Alice, per questo, andava abbastanza bene… ma doveva trattarsi di una ragazza abbastanza facile, perché lui aveva poco tempo, e doveva abitare lontano, in modo che lui non avesse potuto vederla durante la giornata, quando si fosse trovato al lavoro, o intento allo studio.
«Alice non ti piace, eh?»
«Che cosa te lo fa pensare?» Non fissò direttamente il volto di Barbara.
«Si vede. Sembrava che stessi pensando a qualcosa di complicato, e le tue labbra si sono piegate in un'espressione di rifiuto. È chiaro.»
«Mi osservi con molta attenzione, vero?»
«Può darsi. Bene, se Alice non fa al caso tuo, che ne diresti di Gloria? È una bella ragazza.»
«E non troppo intelligente.» La sua ragazza avrebbe dovuto essere per lo meno capace di parlare e di ascoltarlo.
«Bene. Non ti piace Alice, Gloria non ti va… chi ti piace? Hai una ragazza, da qualche parte? La porti fuori, domani? Domani è il gran giorno, per queste cose, lo sai. È lunedì.»
Lucas si strinse nelle spalle. Lo sapeva. Gli altri tre lunedì che aveva trascorso a New York, li aveva passati girando per la città, da solo.
«No. Non avevo neppure pensato che il locale sarebbe rimasto chiuso, domani, per dire la verità.»
«Oggi riceviamo la paga, no? Non credere che io me ne sia dimenticata. Uhm, ragazzo… domani ho un appuntamento di quelli importanti, sai…»
Lucas si accorse di avere stretto le labbra.
«Un ragazzo fisso?»
«Non ancora. Ma può darsi… col tempo. Ti dico come è… è il migliore ragazzo con il quale sia mai uscita. Gentile, maturo, fine, e sa ballare divinamente. È difficile incontrare ragazzi simili. Quando se ne trova uno, si ha il desiderio di tenerselo stretto. Ma a volte ci si chiede se, dando tempo al tempo, non ne possa capitare uno anche migliore… se gli offri la possibilità di farsi avanti.» Osservò attentamente Lucas. «Immagino che tu mi capisca.»
«Sì… be', penso di sì.» Strinse ancora le labbra, abbassò lo sguardo, poi si voltò di scatto. «Bene, adesso devo lavare le tazze e i piattini.» Entrò nello sgabuzzino, mise le tazzine e i piattini nell'acquaio, aprì il rubinetto dell'acqua calda, e rimase in attesa, con lo sguardo fisso nel nulla. Ma dopo qualche istante si sentì meglio, anche se il pensiero che Barbara aveva un ragazzo fisso non poteva assolutamente uscirgli di mente.
Ma la logica gli diceva che Barbara era la ragazza sbagliata.
Quel lunedì il tempo fu buono.
Il sole splendeva e il suo calore si riversava piacevolmente sulle strade, e i marciapiedi del Village erano pieni di sedie occupate da vecchi che trascorrevano la giornata al sole, parlando tra loro e salutando i vecchi amici che erano usciti a loro volta a passeggio. I giovani, che erano liberi da impegni di lavoro, indugiavano appoggiati alle macchine in sosta, o semplicemente sedevano per terra, e le ragazze del Village passeggiavano tranquillamente, godendosi la bella giornata e gli sguardi di ammirazione degli uomini. Molta gente portava a passeggio il cane, sull'erba di Washington Square Park, i campi da tennis e gli impianti sportivi della zona erano pieni di gente.
Lucas Martino uscì dal suo appartamento poco dopo le due e mezzo; indossava una camicia leggera e un paio di pantaloni di tela. Si tuffò nel bel mezzo di questa animazione, camminando lentamente. Camminò a testa bassa verso la stazione della sotterranea, senza guardarsi intorno, agitato e inquieto. Sperava di trovare la ragazza giusta quel giorno, e nello stesso tempo, il problema del come avvicinarla lo rendeva inquieto. Aveva osservato il sistema usato dagli altri, a scuola, ed era convinto di potercela fare anche lui. Inoltre, aveva accompagnato due o tre volte delle ragazze al cinema, e quindi non era completamente digiuno del particolare codice sociale che veniva applicato nei rapporti tra ragazze e ragazzi. Ma non stava cercando una compagna per la sua vita sociale.
E poi, c'era anche la questione di Barbara, e in questo caso soltanto una rigida autodisciplina avrebbe potuto aiutarlo. Non voleva prendere impegni, non voleva imbarcarsi in avventure a lunga scadenza. Non poteva permettere che una ragazza restasse ad aspettarlo, durante i lunghi anni di studio che lo attendevano. E poi, con gli ultimi avvenimenti asiatici dell'anno precedente, sembrava più che mai che tutti gli specialisti di fisica sarebbero stati assorbiti dal governo. E questo significava vita in un laboratorio di ricerca sperduto chissà dove, senza eccessive comodità e con quasi tutto il tempo assorbito dal lavoro. Lucas si conosceva bene… una volta iniziato un lavoro, vi avrebbe dedicato ogni suo pensiero, escludendo tutto il resto.
No, pensò, ricordando l'espressione di sua madre, quando le aveva annunciato la sua intenzione di partire per New York. No, un uomo che aveva delle persone che dipendevano da lui non poteva avere scelta, all'infuori di questa: o fare del male a loro, o fare del male a se stesso… e molte volte, le due cose si univano. Non avrebbe potuto chiedere a Barbara di affrontare una situazione simile.
Raggiunse la stazione della sotterranea e prese il primo treno per Columbus Circle, e soltanto quando l'ebbe raggiunto sollevò lo sguardo e cominciò a guardare le ragazze.
Entrò camminando lentamente a Central Park, dirigendosi verso la Quinta Avenue. Si mosse con andatura decisa, e fu certo che per lo meno qualcuno, tra coloro che sedevano sulle panchine, si sarebbe chiesto quali fossero le sue intenzioni.
Non c'erano molte ragazze nei giardini pubblici, quasi tutte giravano a coppie, e non gli prestavano alcuna attenzione. Quasi tutte si dirigevano verso la pista di schettinaggio, dove, probabilmente, avevano appuntamento con i rispettivi ragazzi, o magari speravano di incontrare un paio di ragazzi. Pensò di andare a sua volta verso la pista di schettinaggio, ma l'idea di muoversi in circolo al suono di una dannata musichetta era così desolante, insensata, che rinunciò subito alla possibilità. Decise di percorrere un altro viale, e passò davanti all'uccelliera, senza neppure rendersi conto di che cosa fosse o di quale fosse lo scopo dell'alto reticolato che la proteggeva. Quando a un tratto vide un pavone mostrarsi al sole, e spiegare le sue magnifiche piume, rimase incantato a fissarlo per almeno dieci minuti, fino a quando l'uccello non fu nuovamente scomparso. Allora si voltò e riprese a camminare lentamente, dirigendosi sempre verso est.
I giardini pubblici erano pieni di gente, e la luce del sole era calda e carezzevole. Tutte le panchine erano occupate, e sull'erba si trovavano carozzelle da bambini e ragazzini che correvano dietro ai piccioni. Le bambinaie sedevano sulle panchine, e parlavano animatamente tra di loro, mentre i vecchi leggevano i loro giornali e fumavano. C'erano molte vecchie vestite di nero che sedevano con le borsette in grembo, gli occhi fissi sul laghetto, e le dita in continuo movimento, come se stessero lavorando con aghi e uncinetti.
Le ragazze sole che passeggiavano lungo i vialetti erano poche. Le osservò tutte, con la coda dell'occhio, ma nessuna lo guardò direttamente. Quando passava accanto a loro, voltava il capo e affrettava il passo, e quando doveva passare accanto a ragazze che venivano dalla direzione opposta, si fermava e dava un'occhiata all'orologio.
Sapeva che la sua ragazza giusta avrebbe dovuto essere particolare… nel modo di vestire, o di camminare, o di guardarsi intorno… sarebbe stata diversa, insomma, dalla maggior parte delle altre ragazze. Gli sembrava logico che una ragazza, la quale si fosse lasciata fermare da giovanotti sconosciuti, ai giardini pubblici, avrebbe dovuto avere un aspetto particolare… quale, non sapeva, ma era sicuro di riconoscerlo, al momento giusto. Gli era già capitato, un paio di volte, di vedere ragazze del genere per la strada: ma quando si era avvicinato aveva scoperto che stavano masticando del chewing-gum, o che il loro trucco era troppo pesante, e aveva ricevuto un'impressione spiacevolissima, tanto da fargli decidere di allontanarsi al più presto possibile, senza attirare la loro attenzione.
Finalmente, raggiunse lo zoo. Camminò avanti e indietro, davanti alla gabbia dei leoni, per qualche tempo. Poi entrò nel bar vicino e prese un bicchiere di latte, che bevve lentamente all'esterno, seduto a un tavolino che si trovava sul terrapieno, dal quale si poteva vedere il laghetto delle foche. Di minuto in minuto la sua stanchezza aumentava, come sempre gli accadeva nel corso di quelle spedizioni, e per bere il bicchiere di latte impiegò un tempo spropositato. Osservò nuovamente l'orologio: le tre e mezzo. Dovette guardare per due volte il quadrante prima di convincersene, perché gli sembrava di trovarsi ai giardini pubblici da molto più tempo. Si accese una sigaretta, la fumò lentamente, e a questo punto si accorse di avere impiegato soltanto cinque minuti.
Si mosse leggermente sulla sedia metallica. Non riusciva a star fermo. Doveva alzarsi e riprendere la sua ricerca, ma sapeva benissimo che, se lo avesse fatto, i suoi passi lo avrebbero portato direttamente fuori dai giardini pubblici, e nel giro di pochi minuti si sarebbe trovato davanti alla stazione della sotterranea.
Si passò una mano sulla fronte. Stava sudando. C'era una donna seduta al tavolino vicino. Stava bevendo del tè freddo. Poteva avere trentacinque anni al massimo, e i suoi abiti dovevano essere molto costosi. La donna lo stava osservando in modo strano, e Lucas frettolosamente abbassò lo sguardo. Si alzò in piedi, e scese rapidamente nella piazzetta che ospitava anche il laghetto delle foche.
Rimase a osservare le evoluzioni degli animali per alcuni minuti, con le mani strette sulla balaustra. Era sconvolto dalla consapevolezza di essere sul punto di lasciare perdere l'intera faccenda.
Dopotutto, aveva considerato dal punto di vista logico l'intera faccenda, in precedenza, e aveva preso una decisione logica. Prima d'ora aveva sempre agito secondo le sue decisioni logiche, e non si era mai pentito dei risultati.
No, pensò, doveva trattarsi della faccenda di Barbara. Non c'era nulla di male, se lui si era innamorato di quella ragazza… le cose illogiche erano contemplate dalla logica… ma si trattava di una complicazione, per i suoi piani immedati. Sì, era naturale, lui avrebbe dovuto procedere per la sua strada, senza lasciarsi fuorviare da questo fatto irrazionale. Barbara, o qualche altra ragazza come Barbara, be', ci sarebbe stato posto per loro in seguito, quando la sua vita si fosse già avviata lungo binari ben definiti. Doveva separare il presente e il futuro.
Ed era la prima volta in vita sua nella quale si sentiva assolutamente incapace di agire secondo logica, e questo lo rendeva terribilmente nervoso, lo faceva quasi star male. E provava una rabbia irragionevole verso se stesso. Si allontanò bruscamente dal laghetto delle foche, e si avviò verso l'uscita, passando davanti alla gabbia dei leoni.
Mentre egli aveva bevuto il latte, una ragazza aveva sistemato uno sgabello davanti alla gabbia, e ora vi sedeva sopra, intenta a dipingere. La notò con la coda dell'occhio, si avvicinò direttamente, senza neanche darle una occhiata, e disse con aria di sfida:
«Non ci siamo visti da qualche parte, prima d'oggi?»
La ragazza aveva più o meno la sua età. Capelli biondi, sbiaditi, lisci e non troppo lunghi. Zigomi alti, naso sottile, guance un po' scavate, bocca ampia e piena, con il rossetto distribuito male. Le sopracciglia erano nere e folte, e il trucco degli occhi sembrava più da palcoscenico che normale cosmetico. Le scarpe che portava erano senza tacchi, la gonna ampia e lunga, la camicetta piuttosto pesante. Aveva gli occhi castani, e quegli occhi avevano una vaga espressione di meraviglia.
Lucas capì che era quasi impossibile giudicare quale fosse il suo aspetto, che, di conseguenza, si trattava di una ragazza scialba, comunissima, e, infine, che era agli antipodi del tipo di ragazza adatto a lui. Notò che il disegno che la ragazza stava tracciando era completamente senza vita. Era una leonessa, e i contorni erano precisi, ma sembrava un oggetto preparato accuratamente e sistemato sotto vetro, piuttosto che l'immagine di una cosa viva.
Provò una sorda rabbia nei confronti della ragazza per il suo aspetto, per la mancanza di talento, e per la sua presenza in quel posto.
«No, credo di no» disse, e si voltò, deciso ad andarsene.
«Può darsi, invece» disse la ragazza. «Mi chiamo Edith Chester. E voi?»
Si fermò. La voce della ragazza era stata incredibilmente gentile, e il solo fatto che avesse reagito con calma lo fece sentire un perfetto idiota.
«Luke» disse, e, chissà perché, si strinse nelle spalle.
«Frequentate il Circolo delle Belle Arti?» domandò lei.
Scosse il capo.
«No.» Si interruppe, e poi disse, tutto d'un fiato. «A dire il vero, non vi conosco affatto. Stavo soltanto…» Si interruppe nuovamente, sentendosi più stupido che mai, e l'ira tornò, sorda e violenta.
Stranamente, la ragazza emise una risatina nervosa.
«Be', penso che non ci sia nulla di male. Non avete intenzione di mangiarmi, vero?»
L'associazione d'idee era evidente. Lucas osservò il disegno e disse:
«Non somiglia molto a una leonessa.»
Anche la ragazza osservò il disegno.
«Be', no. Credo proprio di no.»
La sua intenzione era stata quella di provocare una reazione ostile da parte della ragazza, di iniziare una discussione, dalla quale lui avrebbe potuto trarre un motivo logico per andarsene. E invece adesso c'era ancora, e più che mai, e non sapeva che fare.
«Sentite… stavo andando al cinema. Volete venire anche voi?»
«D'accordo» rispose lei, e Lucas si sentì più in trappola che mai.
«Volevo andare a vedere La Regina d'Egitto» dichiarò lui, scegliendo il film che più si allontanava dai gusti di qualsiasi persona intelligente.
«Non l'ho visto» rispose lei. «Va bene. E poi, possiamo darci del tu.» Ripose colori e pennelli, mise la tela nella custodia, e piegò lo sgabello portatile. «Questa roba possiamo lasciarla al Circolo» disse. «Ti dispiace portare lo sgabello? Dobbiamo percorrere solo un paio d'isolati.»
Lui prese l'oggetto senza dire una parola, e i due ragazzi uscirono dai giardini pubblici insieme. Nell'attraversare lo spazio che conduceva all'uscita sulla Quinta Avenue, Lucas si voltò indietro, per guardare i tavolini del bar, in alto; ma la donna elegantemente vestita, che si era seduta al tavolino accanto al suo, era scomparsa.
Rimase di fronte al grande edificio del Circolo, fumando una sigaretta, in attesa del ritorno della ragazza. E ancora non sapeva cosa fare.
Gli era venuta l'idea di voltare l'angolo e prendere un autobus. Aveva perfino trovato la moneta per il biglietto, frugando nella tasca. Ma ormai aveva capito di avere scelto una ragazza alla quale, verosimilmente, ben pochi ragazzi avrebbero fatto la corte, e che se avesse deciso di andarsene, a questo punto, le avrebbe provocato un immenso dolore. Tutto quel che era accaduto non era colpa di lei… e Lucas avrebbe desiderato il contrario… e lui doveva assolutamente continuare. E così rimase ad attenderla, giocherellando nervosamente con il nichelino, e ben presto la ragazza uscì.
Lucas provò vergogna di se stesso. La ragazza uscì dall'edificio frettolosamente, e appena vide Lucas, sorrise per la prima volta da quando lui l'aveva conosciuta… un sorriso che per un istante trasformò il suo volto, prima che lei ricordasse che era poco opportuno dimostrare apertamente il sollievo che provava nell'avere visto che il ragazzo la stava ancora aspettando. Allora Edith abbassò lo sguardo.
«Sono pronta.»
«Benissimo.» Fu travolto nuovamente dalla noia. Quella ragazza era troppo facile da capire. Poteva leggere sul suo volto come in un libro aperto. E lui voleva una ragazza profonda… da scoprire a poco a poco, sempre interessante, mai del tutto prevedibile. E invece, ecco Edith Chester.
Eppure, non era colpa di lei. Era colpa sua, e doveva sopportare le conseguenze.
«Senti…» disse «non vorrai vedere quell'accozzaglia di colori e di cattivo gusto.» Fece cenno in direzione di un cinema che si trovava dall'altra parte della strada, un locale elegante e costoso, in cui si proiettava un film europeo. «Che ne diresti di andare a vedere quello?»
«Se vuoi, sono d'accordo.»
Ed era così dannatamente facile comandarla a bacchetta! Fu sul punto di provare a vedere le sue reazioni, cambiando per la terza volta idea, ma si trattenne, e disse: «Andiamo, allora» e fece per attraversare la strada. La ragazza lo seguì immediatamente, come se fosse stata sicura che lui non si sarebbe fermato ad aspettarla.
Davanti alla cassa, la ragazza si fermò, aspettando che lui avesse acquistato i biglietti, e poi rimase seduta in silenzio accanto a Lucas durante la proiezione del film. Lui non si mosse, non cercò di prenderle la mano né di posare il braccio sullo schienale della poltrona, e a metà del film Lucas si rese conto improvvisamente che non avrebbe saputo cosa fare, una volta uscito dal cinema. Sarebbe stato troppo presto per accompagnarla a casa e ringraziarla del “magnifico pomeriggio”, e troppo tardi per riuscire a piantarla in asso, anche se fosse riuscito a trovare una scusa valida. Ebbe la tentazione di agire in maniera molto semplice, alzandosi e scusandosi uscendo dal locale. Forse, per la sua rapidità e anche per la sua crudeltà, quella sarebbe stata la sola cosa da fare. Ma dopo qualche istante, comprese che non avrebbe mai potuto agire così.
Perché no? Si chiese. Sono un individuo tanto meraviglioso da sconvolgere per sempre la sua vita?
Ma non era questo. Non si trattava di lui, ma di lei. Avrebbe potuto essere il gobbo di Notre Dame, e la situazione sarebbe sempre stata la stessa. Lui aveva trascinato la ragazza in quella situazione, e lui doveva fare in modo che ne uscisse senza soffrire per colpa sua.
Ma che cosa doveva fare con lei? Fumò ininterrottamente, per il resto del film, muovendosi nervosamente.
Sullo schermo apparvero le immagini della scena durante la quale erano arrivati, e la ragazza si voltò dalla sua parte:
«Vuoi andare, adesso?»
La voce di Edith, dopo novanta minuti di silenzio, lo stupì. Era gentile, come lo era stata la prima volta, prima che la comprensione di quanto stava accadendo avesse fatto perdere il controllo di se stessa alla ragazza. Ora, con novanta minuti a disposizione, aveva avuto modo di calmarsi nuovamente.
«Benissimo.» Provò una certa riluttanza di fronte all'idea di andarsene. Una volta in istrada, sarebbe giunta l'inevitabile domanda, “Che facciamo, adesso?”, e lui non avrebbe saputo cosa rispondere. Ma Lucas si alzò egualmente, e uscì dal cinema.
Quando furono sul marciapiedi, la ragazza disse:
«È stato bello, vero?»
Lui si infilò una sigaretta tra le labbra, preoccupato.
«Devi andare a casa… o hai qualche impegno?» riuscì a borbottare.
Lei scosse il capo.
«No, vivo da sola. Ma probabilmente, tu hai già degli impegni per la serata. Prenderò l'autobus, qui all'angolo. Grazie per avermi portata al cinema.»
«No… no, è tutto a posto» disse in fretta. Accidenti, lei si era aspettata che lui tentasse di liberarsene. «Non fare niente del genere.» E adesso aveva qualcosa da proporre. «Hai fame?»
«Un po'.»
«Benissimo, allora, cerchiamo un posto in cui mangiare qualcosa.»
«C'è un localino bellissimo, subito dopo l'angolo.»
«Bene, allora.» Chissà per quale motivo le prese la mano. Era piccola, ma non fragile. Lei non sembrò né sorpresa né colpita. Chiedendosi perché diavolo lo aveva fatto, egli si lasciò guidare fino alla tavola calda.
Il locale era ancora quasi deserto; Lucas condusse Edith verso il fondo del locale, e si accomodò a sedere. La ragazza sedette davanti a lui. Arrivò un cameriere a prendere le loro ordinazioni. Quando se ne fu andato, Lucas comprese che avrebbe dovuto rendersi conto di quanto sarebbe accaduto in un posto del genere.
Erano isolati dagli altri. L'alto schienale dietro di lui lo separava dal resto del locale. Da una parte c'era una parete, e dall'altra il condizionatore d'aria lasciava appena lo spazio per entrare e uscire. Si erano infilati in un buco nel quale avrebbero potuto soltanto sedere e guardarsi negli occhi, in attesa di essere serviti.
Cosa c'era da dire, o da fare? Guardando l'acconciatura della ragazza e lo smalto rosato delle unghie, Lucas capì che Edith non avrebbe potuto parlare di cose per lui interessanti. Ne fu sicuro, per lo meno.
«Sei in città da molto?» domandò Lucas.
Lei scosse il capo.
«No.» E fu tutto.
Aveva gettato via la sigaretta, lungo la strada. Si frugò in tasca, alla ricerca del pacchetto, ne estrasse una e l'accese, desiderando che il cameriere si affrettasse, in modo che, almeno, avessero potuto mangiare qualcosa. Lanciò uno sguardo all'orologio. Erano soltanto le sei.
«Senti… potresti… potresti darmi una sigaretta, per piacere?» domandò la ragazza, con voce ed espressione incerte. Lucas sobbalzò.
«Che cosa?» Estrasse il pacchetto di tasca, con un gesto maldestro e frettoloso. «Oh… senti, Edith, mi dispiace! Certo… ecco. Io non…» Non… che cosa? Non le aveva neppure offerto una sigaretta. Non si era neppure preocupato di chiedere se fumava o no. L'aveva trattata come fosse stata un cagnolino.
Si sentì terribilmente imbarazzato, e colpevole. E adesso era peggio di prima.
Edith si infilò la sigaretta tra le labbra, e lui gliel'accese subito.
Lei sorrise, un po' nervosamente.
«Grazie. Io vengo dal Connecticut. E tu, Luke?»
Deve averlo sempre saputo, come la consideravo, pensò Lucas. Deve essere stato una specie di alone che si irradiava dalla mia persona. Ma mi ha permesso di andare avanti, perché… perché, poi? Perché io sono l'uomo dei suoi sogni?
«Dal New Jersey» disse. «Da una fattoria.»
«Il mio desiderio è sempre stato di vivere in una fattoria. Lavori qui in città?»
Perché, probabilmente, io sono il primo che le ha parlato, da quando si trova qui. Ecco il perché. Posso rappresentare poco, ma poco è meglio di niente.
«Per ora. Lavoro in un caffè, nel Village.»
Capì di cominciare a dirle delle cose che non aveva avuto la minima intenzione di dire. Ma ormai doveva parlare, e lui non aveva pensato di agire così… al contrario.
«Sono stata nel Village un paio di volte soltanto» stava dicendo la ragazza. «Un posto affascinante.»
«Penso che, in un certo senso, tu abbia ragione. Ma l'anno prossimo inizierò a studiare, e non potrò godermi molto il posto.»
«Oh… che studi hai intenzione di intraprendere, Luke?»
E così, pezzo dopo pezzo, sempre più rapidamente, il ragazzo parlò. Continuarono a parlare mangiando, e le parole sembravano insetti impazziti che uscivano dalle labbra di Lucas senza che lui potesse far niente per fermarle. Le parlò della fattoria, e della scuola superiore che aveva frequentato, e del caffè nel quale lavorava.
Finirono di mangiare e uscirono. Decisero di fare una passeggiata fino a Central Park, lo percorsero e continuarono, e lui parlava e parlava senza stancarsi. Lei camminava accanto a lui, silenziosamente.
Dopo qualche tempo, giunse il momento di riaccompagnarla a casa. Viveva al terzo piano di un grande casamento, vicino alla centrale del gas della zona. Lui la accompagnò su per le scale, fino alla porta dell'appartamento, continuando a parlare. Una volta arrivato, smise improvvisamente di parlare.
Si interruppe, bruscamente come aveva iniziato, e rimase a guardarla, chiedendosi che diavolo gli fosse successo. Vide che i capelli della ragazza erano molto scuri, alla radice.
«Io ti ho annoiata» disse, a disagio.
Lei scosse il capo.
«No. No, sei molto interessante, invece. Ne sono stata felice. È…» Sollevò lo sguardo, e lasciò cadere ogni parvenza di difesa. «È bello che qualcuno mi parli.»
E lui non aveva niente da rispondere. Rimasero fermi, davanti alla porta, e tacquero.
«È stato un pomeriggio bellissimo» disse lei, finalmente.
No, non è vero, pensò lui. È stato un pomeriggio orribile, per te. La cosa peggiore che ti sia mai capitata è stata la mia decisione di parlarti, davanti alla gabbia dei leoni. E ora io sto per scendere queste scale e non ti verrò mai più a trovare e non ti vedrò mai più, e questo sarà anche peggio, temo. Ho rovinato tutto, veramente.
«Senti… hai il telefono?» Si accorse di avere pronunciato queste parole con un sussulto.
Annuì subito.
«Sì, ce l'ho. Vuoi il numero?»
«Lo scrivo subito.» Trovò un pezzo di carta nel portafogli, e una matita nella tasca interna della giacca. Scrisse il numero, rimise al loro posto portafogli e matita, e il silenzio cadde nuovamente tra loro.
«Lunedì è il mio giorno di libertà» disse dopo un po'. «Ti telefonerò.»
«D'accordo, Luke.»
La fissò, pensando: No, no, perdio, non ho intenzione di darle la buonanotte con un bacio, non voglio provare. Non è così. È un affare pazzesco. Lei non è così.
«Buonanotte, Edith.»
Allungò la mano e le toccò la spalla, e sentì di essere ridicolo. Lei alzò la mano e carezzò quella di Lucas. Poi il ragazzo si voltò e discese in fretta le scale, sentendosi un idiota e un selvaggio, e uno stupido, e quasi ogni cosa, all'infuori di un ragazzo di diciott'anni.
Quando il giorno dopo andò al lavoro, era ancora sconvolto. Anche se ci pensava continuamente, non riusciva a dare un senso a quanto gli era accaduto il giorno prima. Lavorò con aria assente, con la mente talmente occupata, che il volto sembrava quello di un sonnambulo. Evitò di guardare Barbara, e cercò di non parlarle.
Finalmente, a metà del pomeriggio, lei lo bloccò dietro al bancone. Lui rimase immobile, senza speranza incastrato tra la macchina del caffè espresso e il registratore di cassa, con una tazzina vuota in mano.
Barbara gli sorrise:
«Ehi, senti, Tedeschino, stai pensando ai tuoi affari?» La sua espressione era però ansiosa.
«Affari?»
«Be'… lo sai. Quando si vede qualcuno con la testa perduta tra le nuvole, gli si chiede sempre se gli affari lo preoccupano.»
«Oh! No… no, niente del genere.»
«Che hai fatto ieri? Ti sei innamorato?»
Il suo volto avvampò. La tazzina gli cadde quasi di mano, come se lui fosse stato una macchina automatica, e Barbara avesse schiacciato un bottone. E lui stesso si stupì della reazione che aveva avuto nell'udire quella parola. Rimase a bocca aperta, completamente sbalordito.
«Che io sia dannata» disse Barbara. «Ci ho preso.»
Lucas non ebbe un'idea chiara sulla risposta da dare. Innamorato? No!
«Senti… Barbara… non è… come pensi…»
«E come, allora?» Era arrossita anche lei.
«Non so. Stavo solo cercando di spiegare…»
«Senti, a me non importa di come sia. Se la cosa ti sta dando dei fastidi, spero che tu riesca a uscirne. Ma io devo badare a una persona, e mi basta.»
Ripensandoci, Barbara comprese di avere detto la verità; Tommy, certo, era un ragazzo interessante e simpatico. Era un peccato, per Lucas, perché lei aveva sempre pensato che sarebbe stato bello uscire con lui, ma il mondo andava a quel modo, ed era impossibile cambiarlo: la vita offriva delle ottime possibilità, ed era illogico sperare che tutto andasse sempre a meraviglia, secondo i propri desideri.
Ormai aveva capito, e decise di non pensare mai più a rapporti con Lucas che fossero diversi da qualche amichevole appuntamento. Era una ragazza con una buona dose di raziocinio, e aveva appreso per diretta esperienza che gli scopi reconditi non portavano nulla di buono.
«Be', l'ora di punta si sta avvicinando» disse a voce alta, e andò a riempire le zuccheriere che si trovavano sui tavolini. I tacchi alti ticchettarono sul pavimento lucido.
Per un lungo istante, Lucas cercò di rimettere ordine nei suoi pensieri. Era accaduto tutto troppo in fretta.
Guardò Barbara, che si affacendava intorno ai tavolini, e capì che, per quanto riguardava la ragazza, l'intera faccenda era ormai chiusa.
Ma non per lui. Era appena l'inizio. Adesso iniziava l'analisi di se stesso e di quanto era accaduto… un'analisi accurata, paziente, minuziosa, che avrebbe riguardato il modo, il perché, le possibilità passate e future, insomma, un esame scientifico e spassionato della situazione e delle sue reazioni e delle sue implicazioni. Il giorno prima, al mattino, Lucas era stato un uomo che aveva deciso di seguire una particolare linea di comportamento, basata su una situazione concreta e ovvia.
Adesso tutto era cambiato, in un periodo così breve, ed era inconcepibile una soluzione casuale.
Doveva sapere il perché e il come.
Doveva analizzare se stesso.
Eppure Barbara aveva accettato la situazione immediatamente… senza domande né ricerche.
Lucas aggrottò le sopracciglia, considerando il problema. Era interessante.
Era qualcosa di più, sebbene lui non se ne rendesse conto che parzialmente. Era il sistema migliore per non affrontare la parte più importante… i suoi veri sentimenti nei riguardi di Edith.
Rimase immobile, dietro al bancone, pensando che tutte le persone che lui aveva conosciuto… anche quelle più intelligenti, come Barbara… si limitavano ad accettare le cose come venivano. E si disse che, se tante persone agivano così, doveva esserci un motivo serio, doveva esserci un certo valore, in quel comportamento. In effetti, era un sistema di vita semplicissimo… si perdeva meno tempo, si impiegava con maggiore efficienza l'emotività personale, si agiva in maniera più diretta.
E poi si rese conto che c'era qualcosa di inefficiente e di fondamentalmente errato in questo sistema di vita comune. Non c'era da sorprendersi, se lui era caduto in quel labirinto di emozioni, trovandosi alle prese con Barbara ed Edith.
E la sua mente era ritornata al problema fondamentale. Che cosa provava per Edith? Ecco, non riusciva a dimenticarsi il problema. Le aveva domandato il numero di telefono. E lei sarebbe rimasta in attesa di una sua chiamata. Riuscì a vederla mentalmente, tutte le sere, accanto all'apparecchio, in attesa di uno squillo. Era responsabile di questa situazione.
E Barbara. Be'… Barbara era di fibra più solida. Ma lui doveva averla ferita, almeno lievemente.
Ma come era successo, tutto questo? In un solo giorno, aveva provocato una specie di disastro. Avrebbe potuto dimenticarsi tutto e ricominciare da capo, ma… ne era sicuro? Avrebbe potuto vivere con un groviglio del genere in mente, senza avere trovato una soluzione?
Sono sconvolto, pensò.
Aveva creduto di aver capito se stesso, e di essersi creato una personalità capace di farlo vivere meglio nel mondo. Aveva fatto molti piani, su questa base, e li aveva trovati perfetti. Ma adesso doveva imparare nuovamente quasi tutto prima che un nuovo e migliore Lucas Martino avesse potuto emergere.
Prima di riprendere il lavoro, cercò in un istante di decidere un modo efficiente per risolvere l'intricata faccenda senza perdere tempo a esaminare le cose che non potevano essere più cambiate. Ma l'ora di punta si stava avvicinando. Gli avventori stavano già per entrare, e i tavolini a lui affidati non erano ancora sistemati.
Doveva rinunciare, ma non definitivamente. Accantonò il problema, confinandolo in un angolo della mente, là dove avrebbe potuto ritrovarlo e affrontarlo quando ne avesse avuto il tempo… dove avrebbe potuto restare per sempre, uguale e in attesa di una soluzione.
Le circostanze lo presero prigioniero. Ben presto, cominciò a frequentare la scuola. E là dovette imparare a dare risposte precise alle domande che gli venivano poste, e soltanto a quelle. Imparò, e non ci furono difficoltà per ottenere la borsa di studio per l'università del Massachusetts. Ma tutto questo assorbì gran parte della sua attenzione.
Frequentò assiduamente Edith. Ogni volta che le telefonava, aveva la speranza che quella volta sarebbe accaduto qualcosa… che avrebbero litigato, o che sarebbero fuggiti insieme, insomma, che sarebbe accaduto qualcosa di drammatico, per risolvere la faccenda una volta per tutte. I loro appuntamenti erano sempre sfibranti per questo motivo, e non riuscivano mai a parlare tranquillamente tra loro. Lui notò che con il passare del tempo Edith si lasciava crescere i capelli nel colore naturale, e che aveva smesso di vivere sull'assegno inviatole dai genitori. Ma non riuscì a capire il significato di quanto aveva notato. La ragazza trovò lavoro in un magazzino della Quattordicesima Strada, e si trasferì in un appartamento vicino, che Lucas vide diverse volte. Ma il ragazzo era entrato in un vicolo cieco, e qualsiasi cosa facesse, andava sempre peggio. Lui ed Edith si baciarono pochissime volte. Non fecero mai all'amore.
Lui rimase all'Espresso di Lucas sr. fino a quando i suoi studi non divennero troppo pressanti. Parlò spesso a Barbara, nei momenti più tranquilli della giornata. Ma ormai non erano che due persone che lavoravano nello stesso posto e cercavano di ingannare il tempo in chiacchiere. Potevano parlare solo del lavoro, degli studi di Lucas, e di quanto sarebbe accaduto al fidanzato di Edith, ora che era stato creato il Governo delle Nazioni Alleate e gli americani avrebbero potuto trovarsi in servizio governativo nei laboratori di ricerca australiani, in qualsiasi momento. Lui non avrebbe mai potuto parlare di cose importanti, a nessuno.
Nell'autunno del 1968 partì da New York per Boston. Non aveva più lavorato da gennaio, e non aveva più visto né suo zio né Barbara. La sua relazione con Edith era tale che non ci sarebbero stati argomenti da trattare in una lettera. Per qualche anno, si inviarono gli auguri, a Natale.
Il lavoro all'università di studi tecnici era massacrante. Il cinquanta per cento dei nuovi iscritti doveva essere eliminato, nelle intenzioni, e coloro che riuscivano a superare il primo anno, si trovavano perfino privi del tempo per dormire. Lucas uscì poche volte dalla città universitaria. Per tre anni studiò disperatamente, poi cominciò ad avviarsi verso la laurea. Per sette anni visse nello stesso ambiente.
Durante gli studi, vide il primo anello della lunga catena logica che lo avrebbe condotto al K-88. Quando ricevette la laurea, fu immediatamente assegnato a un progetto di ricerca americano, e per anni e anni fu impegnato nel lavoro, un lavoro sistematico, non ancora indipendente, quasi accademico. La sua ferma militare fu rinviata di continuo. Quando sottopose all'attenzione dei superiori i suoi lavori preliminari sul K-88 fu trasferito in un laboratorio Alleato. Quando i risultati degli esperimenti dimostrarono che il lavoro valeva la pena di essere proseguito, gli venne assegnato un laboratorio e del personale, e, più che mai, dovette sottoporsi alla schiavitù dei rapporti, degli orari controllati, e delle proibizioni. Sebbene fosse libero di pensare, il mondo in cui doveva vivere era uno solo, e molto ristretto.
Mentre si era trovato all'Università del Massachusetts, aveva ricevuto la partecipazione di nozze di Edith. Lucas aggiunse questo dato al problema che rimaneva, immobile e sepolto, in una parte della sua mente, in attesa di essere risolto. Un'attesa che sarebbe durata per venti anni, fino al primo momenti in cui Lucas fosse stato libero di riflettere.