LIBRO QUARTO Il mare paleocenico

1 Diatryma Gigantica

Mi ritrovai supino a fissare la pianta che aveva sfondato la vettura temporale mentre rallentava. Non riuscivo a vedere Nebogipfel, benché ne sentissi il respiro lieve accanto a me.

L’albero, ormai congelato nel tempo, s’innalzava insieme ai suoi compagni per formare, a grande altezza, una volta di fronde, fitta e uniforme. Pianticelle e virgulti spuntavano intorno alla base del fusto, nonché fra i rottami del veicolo fracassato. Nel calore intenso e nell’aria umida, stentavo a respirare. La giungla intorno a me era piena di trilli, di sospiri, di rumori simili a colpi di tosse, i quali si sovrapponevano a un rumoreggiare cupo e profondo, che mi fece sospettare la presenza, nelle vicinanze, di un grande fiume (magari una versione primeva del Tamigi), oppure di un mare.

Più che in Inghilterra, sembrava di essere ai tropici!

Mentre rimanevo sdraiato ad osservare, scese lungo il tronco dell’albero una creatura simile a uno scoiattolo, lunga circa venticinque centimetri, con la pelliccia ampia e fitta che l’avvolgeva come un mantello. Fra le mandibole piccole teneva un frutto. Giunto a circa tre metri dal suolo, ci vide, rizzò la testa di scatto, aprì la bocca, lasciando cadere il frutto, e sibilò, rivelando che gli incisivi, in punta, si dividevano in cinque rebbi, poi si tuffò a capofitto dall’albero. Quando spalancò gli arti all’improvviso, quello che sembrava un mantello di pelliccia si aprì con uno schiocco, trasformandolo in una sorta di aquilone villoso. Così, si allontanò veleggiando nell’oscurità fino a scomparire alla vista.

— Che benvenuto… — sospirai. — Sembrava un lemure volante. Ma… Hai visto i denti?

— Era un planetatherium — rispose Nebogipfel, che ancora non riuscivo a vedere. — E l’albero è un dipterocarps: non è molto diverso dalle piante che sopravvivranno nelle foreste della tua epoca.

Appoggiando le mani al suolo viscido e marcescente, riuscii a girarmi in modo da guardare il mio compagno: — Sei ferito, Nebogipfel?

Il Morlock giaceva su un fianco, con la testa girata a guardare il cielo: — No — sussurrò. — Suggerisco d’iniziare a cercare…

Tuttavia, non l’ascoltai, perché proprio in quel momento vidi spuntare dal fogliame alle sue spalle una testa grande come quella di un cavallo, munita di becco, che subito si abbassò verso il suo corpo fragile e indifeso.


Per un attimo rimasi paralizzato dalla sorpresa e dal terrore. Il becco uncinato si aprì con una sorta di schiocco liquido, mentre gli occhi discoidali mi fissavano rivelando inequivocabilmente una forma d’intelligenza.

Di scatto, con un ampio movimento, la testa enorme afferrò con il becco una gamba di Nebogipfel, il quale strillò, artigliando il suolo con le dita piccole: notai che aveva pezzi di foglie impigliati nella pelliccia.

Strisciai all’indietro, scostando le fronde a calci, finché fui addossato a un albero.

Con un rumore di rami schiantati, l’uccello si fece largo pesantemente fra la vegetazione. Era alto più di due metri, coperto di penne nere e scagliose, con le zampe robuste, dalla pelle gialla e floscia, munite d’artigli. Percuotendo l’aria con le ali atrofizzate, sproporzionatamente piccole rispetto al corpo enorme, tirò indietro la testa, trascinando il povero Morlock sul suolo molliccio.

— Nebogipfel!

— È una Diatryma — ansimò il mio compagno. — Una Diatryma Gigantica… Oh!

Lascia perdere la filogenesi! Scappa!

— Temo… di non poter… Oh! — Di nuovo, la voce di Nebogipfel si spezzò in un ululato di sofferenza.

Scuotendo la testa, l’animale cercò di fracassare la testa del Morlock contro un albero: senza dubbio intendeva poi banchettare con le sue carni pallide.

Consapevole di avere bisogno di un’arma, riuscii a pensare soltanto alla chiave inglese di Mosè. Mi rialzai ed entrai nel guazzabuglio di lamiere, di nervature e di fili del relitto della vettura temporale: l’acciaio luccicante e il legno lustro del 1938 apparivano singolarmente fuori posto in quella foresta antica. Comunque, non vidi la chiave. Affondai le braccia nel terriccio fino al gomito, e per lunghi secondi dolorosi frugai, mentre la Diatryma si allontanava nella foresta trascinando la sua preda.

Infine trovai ciò che cercavo: ritirai il braccio destro dal terriccio con la chiave inglese stretta nel pugno.

Con un ruggito, brandendo l’attrezzo, avanzai nel fango. La Diatryma mi fissò con gli occhi luccicanti, scuotendo la testa più lentamente, ma senza allentare la presa del becco sulla gamba di Nebogipfel. Naturalmente, non aveva mai visto esseri umani prima di allora: non si rendeva conto che potevamo costituire una minaccia. Andai all’assalto, cercando d’ignorare la spaventevole pelle scagliosa degli artigli, il becco immenso, il fetore di carne decomposta che emanava da tutto l’animale.

Come se la chiave inglese fosse stata una mazza da cricket, tirai un colpo alla testa della Diatryma: le penne e la carne l’attutirono, però sentii un bell’urto contro il cranio.

Nel lasciarsi sfuggire un grido rauco e aspro, simile a uno squarciarsi di lamiera, l’uccello aprì il becco, e Nebogipfel cadde. Poi, però, fui io a trovarmi in pericolo. Anche se l’istinto mi esortava a scappare, mi resi conto che, se lo avessi fatto, sarebbe stata la mia fine. Così, sollevai di nuovo il braccio per percuotere ancora il cranio enorme, ma questa volta la Diatryma schivò e fu colpita soltanto di striscio. Senza esitare, la picchiai di nuovo sotto il becco.

Si udì uno schianto. L’uccello sollevò la testa di scatto, barcollò, quindi mi fissò con gli occhi luccicanti di ponderazione. Emise un verso tanto cupo da sembrare quasi un brontolio, infine, d’improvviso, scrollò le penne nere, si girò, e si allontanò con andatura saltellante nella foresta.

Infilata la chiave inglese nella cintura, m’inginocchiai accanto a Nebogipfel, il quale, tramortito, aveva la gamba rotta e insanguinata, la pelliccia intrisa della bava dell’uccello mostruoso.

— Be’, mio compagno nel tempo — sussurrai — in certe occasioni, dopotutto, è utile avere a portata di mano un selvaggio primordiale…

Ritrovati i suoi occhiali nel terriccio, li pulii su una delle mie maniche e glieli rimisi.


Scrutando nella semioscurità della foresta, mi chiesi che cosa fare. Nonostante i miei viaggi temporali, e quelli che avevo compiuto nella Sfera dei Morlock, non mi ero mai recato, nel mio secolo, nei paesi tropicali. Come guida per la sopravvivenza, disponevo soltanto dei vaghi ricordi di relazioni di viaggiatori e di resoconti comparsi nelle pubblicazioni popolari.

Dissi però a me stesso, per consolarmi, che almeno le sfide che mi attendevano sarebbero state relativamente semplici: non sarei stato costretto ad affrontare un me stesso più giovane, e neppure, giacché la vettura temporale era distrutta, le ambiguità filosofiche e morali della molteplicità della storia. Dovevo semplicemente cercare cibo e riparo dalla pioggia, nonché difendere me stesso e il mio compagno dai mostruosi predatori di quell’epoca primordiale.

Decisi di cercare innanzitutto acqua fresca e potabile: anche senza considerare le necessità di Nebogipfel, io stesso ero tormentato dalla sete, perché avevo bevuto per l’ultima volta prima del bombardamento di Londra.

I rottami della vettura temporale mi parvero offrire un riparo non meno sicuro di qualunque altro. Vi deposi Nebogipfel, accanto all’albero, sopra la mia giacca distesa, per proteggerlo dall’umidità del terriccio, nonché da qualunque essere nocivo che vi strisciasse. Dopo breve esitazione, mi sfilai dalla cintura la pesante chiave inglese e gliela misi in una mano.

Riluttante a rimanere disarmato, frugai tra i rottami sino a trovare un pezzo di nervatura in ferro, corto e solido, che sembrava adatto alla bisogna. Lo piegai fino a spezzarlo, staccandolo dall’intelaiatura, quindi lo soppesai: non mi procurò una sensazione di solidità tanto rassicurante quanto quella suscitata dalla chiave inglese, ma giudicai che fosse meglio di niente.

Finalmente, con la mazza in spalla, m’incamminai attraverso la foresta nella direzione da cui giungeva il fragore dell’acqua, opposta a quella in cui si trovava il sole in quel momento.

2 Il mare paleocenico

Non mi fu difficile procedere, perché gli alberi erano radi e il suolo era pianeggiante: la fitta volta di fronde, intercettando la luce del sole, impediva la crescita del sottobosco.

Sugli alberi la vita prosperava, multiforme. I rampicanti e le epifite, come le orchidee, crescevano sui fusti, e le liane pendevano dai rami. Vi erano uccelli appartenenti a numerose specie, nonché colonie di scimmie, e di quelli che a un primo sguardo mi parvero altri primati. Un animale simile a una martora, lungo circa venti centimetri, con il corpo molto agile e articolato e la coda dalla folta pelliccia cespugliosa, correva e balzava da un ramo all’altro, lanciando grida rauche. Un altro animale arboricolo, più grande, lungo poco meno di un metro, era dotato di artigli e di coda prensile. Quest’ultimo non fuggì quando mi avvicinai: restando aggrappato alla parte inferiore di un ramo, mi scrutò in maniera inquietante.

Continuai a camminare. La fauna non conosceva gli esseri umani, tuttavia aveva evidentemente sviluppato forti istinti di conservazione grazie alla presenza della Diatryma, e senza dubbio anche di altri predatori, perciò non si sarebbe lasciata cacciare facilmente.

Allorché mi fui abituato alla semioscurità, ai colori e alle forme della foresta, mi resi conto che il mimetismo era universale. Per esempio, notai sul tronco di un albero quella che mi sembrò una foglia in decomposizione. Quando mi avvicinai, però, la “foglia” rivelò all’improvviso di essere dotata di zampe: era un insetto simile a un grillo, che si allontanò saltellando. Sopra un masso, vidi sfavillare come piccoli gioielli, nella luce che filtrava dalle fronde, quelle che mi parvero alcune gocce di pioggia sparse: allorché mi curvai ad osservarle, scoprii che si trattava invece di alcuni insetti dai carapaci trasparenti. Non mi sorprese, dunque, quando ciò che aveva tutto l’aspetto di essere una macchia bianca e nera di escrementi sulla corteccia di un fusto, srotolò languidamente zampe di ragno.

Dopo circa mezzo miglio, gli alberi si diradarono. Attraversata una frangia di palme, sbucai alla luce accecante del sole, sentendo sotto gli stivali una sabbia grossa: ero all’estremità di una spiaggia. Oltre la striscia di sabbia bianca scintillava una distesa d’acqua tanto ampia che non vidi la sponda opposta. Basso nel cielo alle mie spalle, il sole era molto luminoso: ne sentivo il calore premermi il cuoio capelluto e il collo.

Lontano, sulla lunga spiaggia diritta, vidi una famiglia di uccelli della specie Diatryma. I due adulti si pulivano a vicenda le penne, intrecciando i colli, mentre i tre giovani diguazzavano goffamente, lanciando grida, o stavano accoccolati nell’acqua, a scrollarsi e a bagnarsi le penne impermeabili. Nell’insieme, con il piumaggio nero, il corpo sgraziato, le ali minuscole, apparivano buffi, tuttavia continuai a tenerli d’occhio, perché il pulcino più piccolo era alto circa un metro, e molto robusto.

Avvicinatomi alla battigia, mi bagnai le dita, quindi le leccai: l’acqua era salata, marina.

Il sole era calato oltre la foresta, quindi quello doveva essere l’occidente. Di conseguenza, avevo percorso circa mezzo miglio a oriente del luogo in cui si trovava la vettura temporale. Giudicai perciò di trovarmi nei pressi dell’incrocio fra Knightsbridge e Sloane Street, che, nell’era paleocenica, si trovava sul bordo di un mare. Nell’osservare tale oceano, che sembrava coprire tutta Londra a oriente di Hyde Park Corner, pensai che potesse essere il Mare del Nord, o la Manica. Quale che fosse, il mare, in quel periodo, si estendeva a coprire la regione in cui sarebbe sorta la città. Se avevo ragione, Nebogipfel ed io eravamo stati molto fortunati, perché se il livello delle acque fosse stato anche soltanto poco più alto, saremmo emersi dal tempo nelle profondità marine, anziché sull’isola.

Mi tolsi gli stivali, v’infilai le calze, me li legai alla cintura per mezzo dei lacci, e mi addentrai per breve tratto nell’acqua, che era fredda. Resistetti alla tentazione d’immergere la faccia per timore delle conseguenze del sale sulle ferite. Affondai le mani in una depressione sabbiosa, che molto probabilmente con la bassa marea si trasformava in una pozza, e subito le ritirai cariche di bivalvi, di gasteropodi, e di quelle che sembravano ostriche. Pareva che vi fosse poca varietà di specie, in quel mare pieno di vita, tuttavia vi era una grande abbondanza di esemplari.

Là, sulla riva dell’oceano, mentre l’acqua gorgogliante mi accarezzava le dita delle mani e dei piedi, con il sole caldo sulla nuca, una grande sensazione di pace calò su di me. Quando, da ragazzino, i miei genitori mi avevano condotto a compiere gite di alcuni giorni a Lympne e a Dungeness, ero stato solito passeggiare sino alla riva del mare, proprio come quel giorno, e immaginare di essere solo al mondo. Ebbene, in quel momento era quasi vero! Era straordinario pensare che nessuna nave veleggiava sugli oceani del mondo, e che non esistevano città umane oltre la giungla alle mie spalle, e che davvero le uniche scintille d’intelligenza sul pianeta eravamo io e il povero Morlock ferito. Eppure non era una prospettiva sgradevole: non lo era affatto, dopo l’ottenebramento e il caos spaventevoli del 1938, a cui ero sfuggito tanto di recente.

Mi alzai. Il mare era incantevole, ma l’acqua salata non era potabile. M’impressi nella mente il punto in cui ero uscito dalla giungla, giacché non desideravo affatto perdere Nebogipfel nell’oscurità arborea, e m’incamminai a piedi nudi sul bagnasciuga, allontanandomi dalla famiglia di Diatryma.

Avevo percorso circa un miglio, allorché trovai un ruscello che usciva chioccolando dalla foresta e scendeva, sottile, la spiaggia, sino a sfociare nel mare. Assaggiandola, scoprii che l’acqua dolce era fresca e sembrava pulita. Ciò suscitò in me un grande sollievo: almeno per quel giorno non saremmo morti. In ginocchio, immersi la testa fino al collo nel liquido fresco e gorgogliante. Bevvi a grandi sorsi, prima di togliermi la giacca e la camicia per lavarmi. Il sangue fosco ed essiccato si sciolse, fuggendo verso il mare. Mi rialzai sentendomi grandemente ristorato.

Non mi restava che una sfida da affrontare: come portare quel dono a Nebogipfel. Insomma, mi occorreva un recipiente.

Rimasi seduto per qualche minuto accanto al ruscello a guardare intorno, perplesso. Sembrava che con l’ultima caduta nel tempo tutta la mia ingegnosità si fosse esaurita: la mia mente stanca non riusciva ad affrontare il problema più immediato che mi si presentava.

Alla fine, staccai gli stivali dalla cintura, li lavai e li risciacquai come meglio potei, quindi li riempii d’acqua fresca. Ripercorrendo la spiaggia e riattraversando la foresta, tomai al relitto temporale. Nel lavare il volto pesto al mio compagno, e nel cercare di destarlo affinché bevesse, promisi a me stesso che il giorno successivo avrei trovato recipienti più adatti dei vecchi stivali.

In seguito all’aggressione della Diatryma, Nebogipfel era rimasto ferito gravemente alla gamba destra: il ginocchio sembrava rotto, il piede formava un angolo innaturale. Non avevo più il coltello, perciò fui costretto a servirmi di un pezzo di lamiera poco affilato per effettuare una rudimentale rasatura della pelliccia bionda intorno alle ferite, che poi lavai come meglio mi fu possibile. Le ferite superficiali sembravano in via di rimarginazione, e non vi era traccia d’infezione.

Intanto che lo medicavo, e goffamente, giacché non avevo nessuna preparazione in questo campo, Nebogipfel, sempre privo di conoscenza, mugolò e miagolò di dolore, come un gatto.

Palpando la gamba destra, non riuscii a individuare fratture al femore, né alla tibia. Come ho riferito, sembravano danneggiati il ginocchio e la caviglia, ciò che mi riempì di sgomento, perché, mentre avrei potuto risistemare una tibia rotta, non sapevo proprio come curare quel genere di fratture. Comunque, frugai tra i rottami sino a trovare due pezzi diritti di nervatura che potessero fungere da stecche. Con il coltello improvvisato, tagliai a strisce la giacca, di cui, dato il clima, non prevedevo di avere necessità estrema; poi lavai le bende così ottenute.

Infine, presi il coraggio a due mani: raddrizzai il ginocchio e la caviglia di Nebogipfel, e steccai la gamba con una fasciatura stretta.

Le grida del Morlock, echeggianti fra gli alberi, furono terribili a udirsi.

Quella sera, tanto spossato da non avere neppure la forza di accendere il fuoco, cenai con ostriche crude, poi mi addossai al tronco dell’albero, accanto a Nebogipfel, con la chiave inglese di Mosè in pugno.

3 Come sopravvivemmo

Per il nostro accampamento, scelsi un luogo sulla riva del mare paleocenico, vicino al ruscello d’acqua potabile che avevo trovato. Decisi che, sia dal punto di vista della salute, sia da quello della sicurezza, sarebbe stato preferibile vivere là, anziché nell’oscurità della foresta. Costruii una tenda per Nebogipfel, utilizzando alcuni pezzi della vettura temporale per la struttura e usando alcuni indumenti come teli.

Portai in braccio Nebogipfel, che era leggero come un bambino, fino alla tenda. Aveva ripreso conoscenza, ma era ancora intontito. Mentre mi guardava, indifeso, attraverso gli occhiali rotti, stentai a ricordare che apparteneva a una specie la quale aveva imbrigliato l’energia solare ed era in grado di viaggiare nello spazio interplanetario.

La nostra prima necessità era il fuoco. La legna disponibile, ossia i rami caduti che si potevano raccogliere nella foresta, era umida e ammuffita, perciò presi l’abitudine, in seguito, di trasportarne carichi alla spiaggia affinché si seccasse. Non mi fu difficile accendere il fuoco servendomi di foglie secche come esca e di una lamiera della vettura temporale percossa con un sasso per far scoccare la scintilla. Dapprima ripetei quotidianamente il rituale dell’accensione, tuttavia non tardai a riscoprire l’espediente indubbiamente antico di conservare le braci calde per tutto il giorno, in maniera che fosse semplice riaccendere la fiamma ogni volta che era necessario.

La convalescenza di Nebogipfel fu lenta. La perdita di conoscenza, per un individuo appartenente a una specie che non conosceva il sonno, fu grave e nociva. Allorché si riprese, Nebogipfel rimase seduto all’ombra per alcuni giorni, apatico, per nulla incline a conversare. Anche se con profonda riluttanza, si dimostrò capace di nutrirsi delle ostriche e delle bivalvi che gli portai dal mare. Con il trascorrere del tempo, riuscii a variare la nostra dieta per mezzo della carne cotta di tartaruga, giacché le testuggini abbondavano lungo tutta la spiaggia. Esercitandomi, imparai a staccare grappoli di frutta dalle palme della spiaggia, lanciando pezzi di metallo o sassi in alto fra i rami. Le noci di cocco si rivelarono molto utili: il latte e la polpa ci consentirono di variare la dieta, i gusci ci servirono da contenitori per gli scopi più diversi, mentre le fibre marroni del mesocarpo potevano essere intrecciate a formare tessuti rozzi. Comunque, non ero mai stato portato per eseguire lavori tanto raffinati, perciò non riuscii a confezionarmi altro che un copricapo ampio, simile a un cappello da coolie.

Nonostante la munificenza del mare e delle palme, la nostra dieta rimase monotona. Osservavo dunque con invidia gli animali succulenti che si arrampicavano sui rami degli alberi, in alto, al di fuori della mia portata.

Nell’esplorare la spiaggia, scoprii che il mondo marino era abitato da molti esseri. Vidi scivolare sulla superficie ombre romboidali che giudicai essere razze, e in due occasioni vidi pinne verticali alte almeno trenta centimetri, che fendevano risolutamente le onde e che potevano appartenere soltanto a grossi squali.

A mezzo miglio dalla riva scorsi un animale dal corpo allungato che nuotava in superficie, con la bocca grande e bianca, irta di piccoli denti crudeli. Era lungo circa un metro e mezzo e nuotava mediante le ondulazioni del corpo sinuoso. Quando glielo descrissi, Nebogipfel, recuperando una parte delle conoscenze enciclopediche archiviate nel suo piccolo cranio, lo identificò come un Champsosaurus: un animale antico, imparentato con il coccodrillo, superstite dell’epoca dei dinosauri, che si era conclusa molto tempo prima dell’era paleocenica.

I mammiferi marini della mia epoca, come le balene e i lamantini, non erano ancora del tutto adattati alla vita acquatica, spiegò Nebogipfel, quindi vivevano ancora sulla terra, benché fossero grandi e lenti. Cercai dunque qualche balena sdraiata a prendere il sole, sicuro che sarei riuscito ad uccidere una preda tanto impacciata; però non ne vidi mai nessuna.

Allorché rimossi per la prima volta la fasciatura e le stecche, scoprimmo che la gamba rotta mostrava segni di guarigione, ma Nebogipfel, tastandosi le articolazioni, dichiarò che non si erano saldate correttamente, e ciò non mi stupì affatto. Comunque, nessuno dei due seppe come rimediare. Dopo qualche tempo, Nebogipfel riuscì a camminare zoppicando per mezzo di una gruccia ricavata da un ramo.

Viceversa, l’occhio che gli avevo ferito quando lo avevo picchiato nell’officina delle vetture temporali, non guarì: con mio grande rammarico e profonda vergogna, rimase cieco.

Data la sua natura morlock, il povero Nebogipfel si trovò tutt’altro che a suo agio nella luce e nel calore del sole. Prese dunque l’abitudine di dormire durante il giorno, nella tenda che gli avevo costruito, e di vegliare durante la notte. Io, invece, mantenni le mie abitudini diurne, talché ciascuno di noi trascorse in solitudine la maggior parte delle ore di veglia. C’incontravamo a conversare al tramonto e all’alba, anche se debbo riconoscere che vivendo all’aperto, al caldo, faticando fisicamente, arrivavo molto stanco al calar del sole.

Pensai di servirmi delle grandi fronde di palma per costruire una capanna, ma nonostante tutti i miei sforzi, la tecnica che mi consentiva di procurare la frutta non si rivelò altrettanto efficace in quel caso, né disponevo di alcun mezzo per abbattere le palme stesse. Fui dunque costretto a mettermi a torso nudo e ad arrampicarmi come una scimmia. Una volta giunto alla chioma, fu questione di pochi momenti strappare le fronde e gettarle al suolo. Nella fresca aria del mare e nella luce del sole, ero diventato più sano e più robusto, ma non ero più giovane, quindi non tardai a scoprire che le mie capacità atletiche erano limitate: le arrampicate, insomma, mi spossavano.

Intrecciando le fronde procurate in questo modo, fabbricai il tetto per una capanna costruita con i rami caduti raccolti nella foresta. Sempre con le fronde di palma, confezionai un ampio cappello per Nebogipfel, il quale, seduto all’ombra, nudo, con quell’affare legato sotto il mento, aveva un aspetto davvero assurdo.

Quanto a me, che sono sempre stato di carnagione chiara, mi bastarono pochi giorni di esposizione al sole per ustionarmi e per suggerirmi di usare prudenza. Il naso, le braccia e la schiena mi si spellarono. Anche se mi lasciai crescere una barba folta a proteggere il viso, le labbra mi si coprirono di vesciche in una maniera assai spiacevole a vedersi. L’ustione peggiore, tuttavia, fu quella al cocuzzolo pelato. Presi l’abitudine di bagnarmi la pelle bruciata, nonché d’indossare sempre il cappello e ciò che restava della mia camicia.

Un giorno, dopo circa un mese di quella vita, mentre mi radevo servendomi di due pezzi di lamiera della vettura temporale, uno come lama e l’altro come specchio, mi resi conto improvvisamente di quanto fossi cambiato: nel viso abbronzato, scuro come mogano, gli occhi e i denti brillavano bianchi; lo stomaco era tanto piatto quanto lo era stato ai tempi dell’università. Inoltre, indossavo soltanto, con la più assoluta naturalezza, un cappello di fronde di palma e un paio di calzoni tagliati corti. Per il resto, me ne andavo in giro a torso nudo, e scalzo.

Mi volsi a Nebogipfel: — Guardami! I miei amici mi riconoscerebbero a stento: sto diventando un aborigeno.

Il volto senza mento del Morlock rimase privo di espressione: — Sei un aborigeno. Non ricordi che questa è l’Inghilterra?


Quando Nebogipfel propose di recuperare il relitto della vettura temporale, non mi opposi: capivo che in futuro avremmo avuto bisogno di ogni minima quantità di materiale grezzo, soprattutto i metalli. Raccogliemmo così tutti i pezzi dei veicolo in una fossa scavata nella sabbia.

Soddisfatte tutte le necessità più urgenti della sopravvivenza, Nebogipfel dedicò gran parte del proprio tempo ai rottami. Sulle prime, non indagai troppo sulle sue attività, perché immaginavo che intendesse migliorare la nostra capanna, o magari costruire un’arma per la caccia.

Una mattina, però, quando si fu addormentato, esaminai il suo lavoro, scoprendo che aveva ricostruito la struttura della vettura temporale: aveva spianato il fondo, aveva fabbricato una gabbia con le nervature legate con pezzi di filo, e aveva persino ritrovato l’interruttore azzurro che aveva avuto la funzione di chiudere il circuito della plattnerite.

Al suo risveglio, lo affrontai: — Stai cercando di costruire una nuova macchina del tempo, vero?

— No. — Nebogipfel affondò i denti nella polpa di una noce di cocco. — Ne sto ricostruendo una.

— La tua intenzione è evidente: hai rifatto la struttura che conteneva il circuito della plattnerite.

— Come hai appena detto, è ovvio.

— Ed è anche inutile! — Mi guardai le mani callose e insanguinate, rendendomi conto che mi contrariava il fatto che il mio compagno sprecasse in tal modo le sue energie, mentre io faticavo per provvedere alla nostra sopravvivenza. — L’unica plattnerite che abbiamo è esaurita, e comunque è sparsa nella foresta. E non abbiamo nessun mezzo per produrne altra.

— Se costruiremo una macchina del tempo, forse non riusciremo ad abbandonare quest’epoca. Ma se non la costruiremo, sicuramente non riusciremo ad andarcene.

— Nebogipfel — brontolai, — credo che dovresti affrontare la realtà. Siamo isolati nelle profondità del tempo. Non riusciremo mai a procurarci altra plattnerite, qui, giacché non è una sostanza naturale. Non possiamo produrla, e nessuno ce ne porterà una quantità sufficiente, per il semplice fatto che nessuno ha la più pallida idea che siamo sperduti all’inizio del terziario!

Per tutta risposta, Nebogipfel leccò la polpa succulenta della noce.

Bah! — Frustrato e irato, mi misi a camminare intorno alla capanna. — Converrebbe che tu dedicassi la tua intelligenza e le tue energie a fabbricarmi un’arma da fuoco, per poter abbattere qualcuna di quelle scimmie.

— Non sono scimmie: le specie più comuni sono miacis e chriacus.

— Be’, a qualunque specie appartengano… Bah! — Furibondo, me ne andai.

Nonostante le mie obiezioni, naturalmente, Nebogipfel perseverò nella sua paziente ricostruzione. In ogni modo, mi assistette in molti modi nel compito di assicurare la sopravvivenza ad entrambi. Dopo qualche tempo, finii per accettare la presenza della macchina rudimentale, scintillante e squisitamente inutile, posata sulla spiaggia paleocenica.

Dissi a me stesso che tutti gli esseri umani avevano bisogno di speranze, che conferissero scopo e ordine alle loro esistenze: e la macchina, tanto incapace di volare quanto una grande Diatryma, rappresentava l’ultima speranza di Nebogipfel.

4 Malattia e guarigione

Mi ammalai.

Divenni incapace persino di alzarmi dal rozzo giaciglio di fronde e di foglie secche che mi ero preparato. Costretto ad accudirmi, Nebogipfel espletò tale dovere senza troppe smancerie, ma con pazienza e con costanza.

Una volta, nel buio fitto della notte, mi accorsi, nel dormiveglia, che le dita morbide del Morlock mi palpavano il viso e il collo. Immaginando di trovarmi ancora una volta intrappolato nel basamento della Sfinge Bianca, circondato dai Morlock intenzionati a uccidermi, gridai. Allora Nebogipfel si affrettò a indietreggiare, ma non prima che riuscissi a colpirlo con un pugno al petto. Benché indebolito, dimostrai di avere ancora forza sufficiente per atterrarlo.

Ciò fatto, ricaddi, spossato, nell’incoscienza.

Allorché mi ridestai, Nebogipfel era di nuovo accanto a me, pazientemente intento a cercare di farmi inghiottire un sorso di zuppa di molluschi.


Recuperata finalmente la lucidità, scoprii di trovarmi semisdraiato sul giaciglio, solo nella nostra piccola capanna. Benché il sole fosse basso, il calore del giorno mi parve ancora opprimente. Bevvi l’acqua che Nebogipfel mi aveva lasciato in un guscio di noce accanto al giaciglio.

La luce del giorno si spense poco a poco, mentre la calda oscurità della sera tropicale si addensava sulla nostra capanna. Il tramonto fu lungo e magnifico, a causa, come mi aveva spiegato Nebogipfel, della cenere eruttata nell’atmosfera dai vulcani a occidente della Scozia. Un giorno, tali fenomeni vulcanici avrebbero condotto alla formazione dell’Oceano Atlantico. La lava scorreva fino all’Artico, alla Scozia, all’Irlanda, mentre la regione a clima caldo in cui ci trovavamo si estendeva a settentrione fino alla Groenlandia.

Nel paleocene, la Britannia era già un’isola, ma il suo angolo nordoccidentale, rispetto alla sua forma nel diciannovesimo secolo, era spostato a una latitudine superiore. Il Mare d’Irlanda non si era ancora formato, perciò la Britannia e l’Irlanda costituivano ancora un’unica terra, ma la regione sudoccidentale dell’Inghilterra era coperta dal mare, sulla cui riva abitavamo. Il mare paleocenico era un’estensione del Mare del Nord. Con un veliero, avremmo potuto attraversare la Manica e navigare sino al cuore della Francia nel Bacino Aquitano: un braccio di mare che conduceva a sua volta al Mare di Teti, un oceano che copriva i paesi mediterranei.

Al cadere della notte, Nebogipfel sbucò dall’ombra più fosca della foresta. Si sgranchì, più come un gatto che come un umano, e si massaggiò la gamba fratturata, quindi dedicò alcuni minuti a pettinarsi con le dita la pelliccia del volto, del torace e del dorso.

Finalmente, mi si avvicinò zoppicando, mentre la luce purpurea del tramonto scintillava sui suoi occhiali incrinati, per portarmi altra acqua.

Dopo essermi inumidito la bocca, sussurrai: — Quanto tempo?

— Tre giorni.

Nell’udire la voce aliena del mio compagno, fui costretto a reprimere un brivido. Si potrebbe pensare che mi fossi ormai abituato al Morlock, però, dopo tre giorni che giacevo malato e indifeso, quella voce mi turbò, rammentandomi che ero solo in un mondo ostile, con l’esclusiva compagnia di un alieno proveniente dal futuro remoto.

Quando ebbi mangiato la zuppa preparatami da Nebogipfel, il tramonto era dileguato: l’unica luce proveniva da una scheggia di luna che pendeva bassa nel cielo. Poiché il mio compagno si era tolto gli occhiali, vedevo i suoi occhi rosso-grigi librarsi come ombre traslucide di luna nell’oscurità della capanna.

Allora ruppi il silenzio: — Vorrei sapere perché mi sono ammalato…

— Non ne sono certo.

— Non ne sei certo? — Rimasi sorpreso da quell’insolita ammissione d’ignoranza, giacché Nebogipfel possedeva conoscenze di una vastità e di una profondità straordinarie. Immaginavo la mente di un uomo del diciannovesimo secolo come qualcosa di analogo al mio vecchio laboratorio: piena d’informazioni archiviate in maniera casuale, con libri aperti, fogli d’appunti e disegni sparsi su qualunque superficie piana. Per contrasto, supponevo che la mente morlock, in virtù delle progredite tecniche educative dell’anno 657.208, fosse ordinata come un’enciclopedia eccellente, con volumi d’esperienza e di erudizione perfettamente ordinati e catalogati. Tutto ciò innalzava il livello pratico dell’intelligenza e della conoscenza a vette che l’umanità della mia epoca non avrebbe potuto neppure sognare.

— Comunque — rispose Nebogipfel — il fatto che ti sei ammalato non dovrebbe sorprenderci. Invece, mi sorprende che tu non ti sia ammalato prima.

— Che cosa intendi dire?

Nebogipfel si volse a scrutarmi: — Che sei un uomo estraniato dalla tua epoca.

In un lampo, capii.

Le malattie avevano afflitto da sempre l’umanità, inclusi persino i suoi antenati preumani che vivevano in quell’epoca antica. Ma proprio a causa di tale selezione spietata, la nostra specie aveva sviluppato le necessarie difese: l’organismo umano, insomma, lottava contro tutti i germi, e ad alcuni era completamente immune.

Immaginai tutte le generazioni umane che si sarebbero evolute dopo l’epoca antica in cui mi trovavo, e le fugaci anime umane che avrebbero brillato come faville nell’oscurità prima di estinguersi per sempre. Ebbene, nessuna delle minuscole lotte di quella lunga serie sarebbe stata vana, perché pagando il pedaggio di miliardi di morti, l’umanità avrebbe acquistato il diritto a sopravvivere sulla Terra.

Per il Morlock era diverso. Nel suo secolo, ben poco era rimasto della forma umana archetipa. Nel suo organismo, come spiegò lui stesso, le ossa, gli organi interni, i muscoli, tutto, insomma, si era adattato, mediante la tecnica, in maniera tale da consentire un equilibrio ideale fra la longevità e la pienezza di vita. Io stesso ero stato testimone del fatto che Nebogipfel poteva essere ferito, tuttavia il suo corpo, come sosteneva lui stesso, non aveva più probabilità d’infettarsi di quante ne avrebbe avute un’armatura. In verità né il suo occhio ferito né la sua gamba fratturata avevano dato segni d’infezione. Come ricordavo, il mondo originale degli Eloi e dei Morlock si era evoluto in maniera diversa: non trovando neppure là tracce di malattia o d’infezione, e notando soltanto pochi segni di decomposizione, avevo ipotizzato che quel mondo fosse privo di batteri nocivi.

Io, invece, ero senza difese.

Superata la fase più grave della mia malattia, Nebogipfel dedicò la propria attenzione ai problemi della sopravvivenza. Incaricò me di raccogliere noci, tuberi, frutta e funghi commestibili, per integrare la nostra dieta basata sui molluschi, nonché sulla carne dei mammiferi e degli uccelli tanto stupidi da lasciarsi abbattere dalle mie rudimentali armi da caccia: la fionda e i sassi. Lui stesso, intanto, tentò di produrre medicamenti semplici, come impiastri e infusi.

La malattia suscitò in me una tetraggine profonda e persistente, giacché si trattava di un pericolo dei viaggi temporali che non avevo mai preso in considerazione. Rabbrividendo, indebolito, con le braccia strette intorno al busto, pensai che la forza e l’intelligenza mi consentivano di difendermi dalle Diatryma e da altri grossi animali del paleocene, ma non dai mostruosi predatori invisibili presenti nell’aria, nell’acqua e nel cibo.

5 La tempesta

Forse, se avessi avuto qualche esperienza degli ambienti tropicali prima di naufragare nel paleocene, sarei stato pronto ad affrontare la tempesta.

Quella giornata fu più umida e più afosa del solito. Vicino al mare, l’aria aveva quella strana luminosità e quella peculiare umidità che preannunciano un cambiamento di tempo. La sera, spossato dai lavori, inquieto, fui felice di lasciarmi cadere sul giaciglio, però il caldo era tale che tardai ad addormentarmi.

Mi destò il lento picchiettare della pioggia sul tetto di fronde di palma. Poi sentii il fragore prodotto dalle gocce che percuotevano come proiettili le foglie della foresta e la sabbia della spiaggia. Era l’ora più buia della notte: non vidi Nebogipfel, né lo udii.

Poco dopo, la tempesta crollò su di noi.

Fu come se fosse stato tolto un coperchio dal cielo: la pioggia precipitò con una tale violenza da sfondare in pochi istanti il tetto di fronde. La capanna fragile mi crollò attorno. Supino e fradicio, fissai le gocce che cadevano come lance dal cielo nuvoloso.

Mentre mi sforzavo di alzarmi, intralciato dalle fronde bagnate, il giaciglio si trasformò in una palude. In breve fui coperto di fango, accecato dai rovesci che mi sferzavano il cranio e dall’acqua che mi ruscellava sugli occhi.

Allorché finalmente fui di nuovo in piedi, constatai con sgomento che la capanna si era sfaldata con una rapidità sbalorditiva: la struttura era quasi interamente crollata e i pezzi avevano sepolto parzialmente la macchina del tempo ricostruita da Nebogipfel.

Frugando tra le fronde, i pali, e gli stracci bagnati e viscidi, trovai Nebogipfel, il quale, con la pelliccia fradicia incollata al corpo e le ginocchia raccolte contro il petto, sembrava un topo gigantesco. Aveva perso gli occhiali e tremava, del tutto indifeso. Dato che solitamente lavorava di notte, e che di conseguenza avrebbe potuto essere ovunque nel raggio di circa un miglio dalla capanna, fui lieto di averlo trovato tanto facilmente.

Quando mi curvai per prenderlo in braccio, si volse a me, con l’occhio cieco simile a una fossa d’oscurità: — La vettura temporale! Dobbiamo salvare la vettura temporale! — La sua voce aliena si udì a stento nella tempesta. Debolmente si sottrasse, allorché feci per sollevarlo di peso.

Percosso dalla pioggia, emisi un brontolio di protesta, però mi feci arditamente strada fra i resti della capanna e liberai la macchina dalle fronde che la coprivano, scoprendo che era incastrata nella melma, piena d’indumenti e dei nostri oggetti d’uso quotidiano. Afferrata la gabbia, cercai di liberarla ricorrendo alla forza bruta, ma riuscii soltanto a piegarla, e poi a spaccarne un angolo.

Mi raddrizzai per guardare attorno. La capanna era del tutto demolita. L’acqua piovana scorreva dalla foresta sulla spiaggia verso il mare. Il ruscello che ci aveva consentito di sopravvivere si stava gonfiando rabbiosamente e minacciava di straripare dalle sue rive basse, nonché di travolgerci.

Abbandonata la vettura temporale, tomai da Nebogipfel: — È finita! — gridai. — Dobbiamo andarcene da qui!

— Ma la macchina…

— Dobbiamo abbandonarla! Non vedi? Se continua così, l’inondazione ci travolgerà, gettandoci in mare!

Con le ciocche di pelliccia che pendevano come cenci fradici, Nebogipfel si alzò a fatica. Cercò di liberarsi dalla mia presa, quando lo afferrai, e forse, se non avesse avuto la gamba rotta, ci sarebbe riuscito.

— Non posso salvarla! — gli urlai in faccia, trattenendolo. — Saremo fortunati se riusciremo a salvare la stramaledetta pelle! — Ciò detto, me lo caricai in spalla e, allontanandomi dai resti della capanna, m’incamminai verso la foresta.

Subito mi trovai a procedere a guado in parecchi centimetri d’acqua fredda e fangosa. Più di una volta scivolai sulla sabbia viscida, senza però lasciare il Morlock che si dibatteva nella stretta del mio braccio.

Nella foresta, la pioggia, intercettata dalle chiome degli alberi, era Più rada. Proseguii il cammino nell’oscurità assoluta, inciampando nelle radici sporgenti, sbattendo contro i fusti, scivolando sul suolo fradicio e infido. Intanto, Nebogipfel si abbandonò immoto sulle mie spalle, rinunciando a dibattersi.

Finalmente, giunsi a un albero che mi sembrava di ricordare: era antico, con il fusto enorme, e i rami più bassi a un’altezza di poco superiore alla mia. Posai sopra un ramo Nebogipfel, che vi si aggrappò come una giacca inzuppata. Con un certo sforzo, giacché era ormai da molto tempo che non mi dedicavo più a quell’esercizio, mi arrampicai a mia volta su un ramo, dove rimasi seduto, addossato al tronco.

Rimanemmo là in attesa che la tempesta cessasse. Io tenni una mano posata sulla schiena di Nebogipfel, per assicurarmi che non cadesse o che non cercasse di tornare alla macchina. Nel frattempo fui costretto a sopportare l’acqua che, ruscellando giù lungo il tronco, m’investiva le spalle e la schiena.

L’appressarsi dell’alba conferì una bellezza sovrannaturale alla foresta. Scrutando le chiome, vidi la pioggia gocciolare dalle foglie, le cui forme si erano evolute anche per assolvere a quella funzione, e scorrere giù lungo i fusti. Non sono granché come botanico, però in quel momento compresi che la foresta era simile a una macchina immensa, progettata per sopravvivere, anche agli assalti delle tempeste, di gran lunga meglio di quanto lo fossero le rozze costruzioni umane.

Mentre la luce si diffondeva, strappai una striscia da ciò che restava dei miei calzoni (non avevo più camicie), poi, mentre Nebogipfel restava immobile, gliela legai sul viso per proteggergli l’occhio.

Spiovve a mezzogiorno. Allora giudicai che non vi fosse più alcun pericolo a scendere dall’albero. Aiutai Nebogipfel a smontare dal ramo: era in grado di camminare, però era del tutto cieco, senza gli occhiali, quindi fui costretto a tenerlo per mano, per guidarlo.

Era una giornata luminosa e fresca. Dal mare spirava una brezza gradevole, e nuvole lievi correvano in un cielo quasi inglese. Sembrava che il mondo fosse stato ricreato: nulla restava dell’atmosfera opprimente del giorno precedente.

Con una certa riluttanza mi avvicinai alla capanna, perché fra i resti semisepolti nella sabbia bagnata, inclusi gli oggetti, come i recipienti e gli attrezzi, razzolava con il becco enorme e goffo un pulcino di Diatryma. Gridando e battendo le mani sopra la testa, avanzai di corsa. L’uccello scappò, con la pelle gialla e floscia delle zampe che oscillava.

Frugai nello sfacelo, constatando che ciò che ci era appartenuto era stato in gran parte spazzato via dall’inondazione. La capanna era stata piccola e fragile, i nostri pochi oggetti erano stati ricavati alla meglio dai materiali fomiti dalla natura e dalla vettura temporale, eppure provai una sconcertante impressione di profanazione e di spoliazione, perché si era trattato della nostra casa e dei nostri effetti personali.

— E la macchina? — chiese Nebogipfel, cieco, volgendo il viso qua e là. — Che cosa è successo alla vettura temporale?

Con una breve ricerca, disseppellii qualche nervatura, qualche tubo e qualche lamiera, più storti e più danneggiati di prima. Il resto dell’apparecchio, però, era stato portato in mare.

Ad occhi chiusi, palpando i rottami, Nebogipfel commentò: — Be’, dovrà bastare… — Seduto sulla sabbia, cercò a tastoni pezzi di tessuto e di fili, per cominciare pazientemente a ricostruire ancora una volta la macchina del tempo.

6 Cuore e corpo

Dopo la tempesta, non riuscimmo mai a ritrovare gli occhiali, di conseguenza Nebogipfel si trovò in grave svantaggio. In ogni modo, non si lamentò. Come aveva sempre fatto in precedenza, durante il giorno rimase all’ombra, e se per qualche ragione fu costretto ad esporsi alla luce del crepuscolo o dell’alba, indossò l’ampio cappello, nonché una specie di maschera di pelle con due fessure per gli occhi, che gli avevo confezionato appositamente, in maniera che potesse vedere pur avendo la vista protetta.

La tempesta non mi turbò soltanto fisicamente, bensì anche mentalmente, perché in precedenza avevo cominciato a convincermi di essere in grado di proteggermi da tutte le calamità con cui il mondo primitivo avrebbe potuto aggredirmi. Decisi dunque che occorreva garantire maggiore sicurezza alle nostre vite. Dopo qualche riflessione, giudicai che la prima necessità fosse una solida palafitta, in grado di salvarsi dalle inondazioni provocate in futuro dai monsoni. Però, sia per l’irregolarità delle loro forme, sia perché talvolta erano marcescenti, non potevo servirmi dei rami caduti. Mi occorrevano tronchi d’albero, ma per procurarmeli avevo bisogno di una scure.

Così, trasformandomi per qualche tempo in un geologo dilettante, mi misi alla ricerca di formazioni rocciose adeguate. Finalmente, in uno strato ghiaioso nella zona di Hampstead Heath, che mi sembrò il deposito alluvionale di qualche fiume ormai scomparso, trovai alcune selci, fosche e arrotondate, insieme a un po’ di calcedonia.

Trasportai al nostro accampamento quei tesori con la massima cura, come se si trattasse d’oro: anzi, con maggior cura ancora, perché una quantità equivalente di oro non avrebbe avuto alcun valore, per me.

Sulla spiaggia, dopo parecchi esperimenti e uno spreco considerevole di materiale, imparai come spaccare la selce lungo le venature e come affilarla. Nel lavorare, mi sentivo goffo e inesperto. Avevo sempre osservato con grande meraviglia le punte di freccia e le lame di scure esposte nelle bacheche dei musei, ma soltanto dopo avere provato personalmente a fabbricarle mi resi conto di quale abilità e quale intuizione tecnica avessero posseduto i nostri progenitori dell’età della pietra.

Finalmente, riuscii a fabbricare una lama che mi soddisfacesse. Servendomi di strisce di pelle, la fissai a un corto manico di legno ricavato da un ramo, quindi m’incamminai, entusiasta, verso la foresta.

Meno di un quarto d’ora più tardi tornai con la scure spezzata: si era spaccata al secondo colpo, scalfendo a malapena la corteccia dell’albero che avevo scelto.

In seguito a un altro breve periodo di sperimentazione, tuttavia, riuscii a fabbricare una scure adeguata, che mi consentì di abbattere alcuni alberelli diritti.

Scelsi per la nuova capanna un luogo presso la spiaggia, inaccessibile all’alta marea e ai possibili straripamenti del ruscello. Impiegai parecchio tempo a scavare fondamenta abbastanza profonde, ma alla fine costruii una solida palafitta, alta circa un metro. La piattaforma era tutt’altro che piana, ma mi proponevo d’imparare a costruire tavole decenti, prima o poi. Comunque, allorché mi ci coricai, la sera, essa mi parve sicura, tale da porre me e il mio compagno al riparo dai pericoli del suolo. Quasi desiderai che un’altra tempesta si abbattesse su di noi, per mettere alla prova la mia nuova creazione.

Servendosi di una piccola scala che avevo costruito per lui, Nebogipfel trasportò sulla palafitta i pezzi della vettura temporale e ne riprese ostinatamente l’assemblaggio.


Mentre passeggiavo nella foresta, un giorno, mi accorsi che, da un ramo basso, mi osservava un paio di occhi luminosi.

Rallentai, poi, badando a non compiere movimenti bruschi, imbracciai l’arco che portavo appeso alla schiena.

L’essere che mi scrutava con occhi sospettosi, lungo circa dieci centimetri, sembrava un lemure minuscolo. Aveva la coda e il muso da roditore, con grossi incisivi sporgenti e le zampe munite d’artigli. Se non era tanto intelligente da credere di potermi indurre, mediante la propria immobilità, a ignorarmi, allora era tanto stupido da non rendersi conto che ero pericoloso.

Fu l’affare di un attimo incoccare una freccia e scagliarla.

Con la pratica, avevo imparato a cacciare. Ottenevo risultati discreti con la fionda e con le trappole, ma con l’arco ero molto meno bravo. Avevo costruito frecce decenti, ma non ero ancora riuscito a trovare, per l’arco, un legno che fosse dotato della flessibilità adeguata. Di solito, nel tempo che impiegavo a incoccare goffamente la freccia, le prede, divertite dalle mie stramberie, riuscivano a scappare al riparo senza difficoltà alcuna.

Invece il piccolo lemure rimase ad osservare con curiosità spiccata la freccia storta che gli volava contro, indecisa. Per una volta, mirai giusto: la punta di selce inchiodò il corpicino all’albero.

Tomai da Nebogipfel fiero della mia preda, perché i mammiferi ci erano molto utili, non soltanto per la carne che ci fornivano, bensì anche per la pelliccia, i denti, il grasso e le ossa.

In silenzio, attraverso le fessure sottili della maschera, Nebogipfel osservò Tesserino simile a un roditore.

— Forse dovrei cacciarne altri — dichiarai. — Ho avuto l’impressione che questo animaletto si sia reso conto di essere in pericolo soltanto quando era ormai troppo tardi. Povera bestia!

— Sai cos’è?

— Dimmelo tu.

— Credo che sia un Purgatorius.

— Vale a dire?

— È un primate — spiegò Nebogipfel, lasciando trapelare un certo divertimento. — È il più antico che si conosca.

Imprecai: — Credevo che fosse finita, e invece… Persino nel paleocene non si può evitare d’incontrare parenti! — Esaminai il cadaverino. — Dunque questo è l’antenato della scimmia, dell’uomo e del Morlock! È l’insignificante, minuscolo seme da cui germoglierà una quercia che getterà la sua ombra opprimente su altri mondi oltre a questo… Mi chiedo quanti individui, quanti popoli, quante specie, sarebbero stati generati da questo esserino, se non l’avessi ucciso… Ancora una volta, forse, ho distrutto il mio stesso passato!

— Non possiamo fare a meno d’interagire con la storia, tu ed io — rispose Nebogipfel. — Con ogni nostro respiro, con ogni albero che tu abbatti, con ogni animale che uccidiamo, creiamo un nuovo mondo nella molteplicità dei mondi. È semplicemente così, ed è inevitabile.

Dopo tale rivelazione, non ebbi il coraggio di macellare il povero, piccolo primate, perciò andai a seppellirlo nella foresta.


Un giorno, decisi di risalire il ruscello verso le sue sorgenti, addentrandomi nel paese, ad occidente.

Partii all’alba. Lontano dalla costa, gli odori del sale e dell’ozono svanirono, sostituiti da quelli, caldi e umidi, della foresta di dipterocarps, fra cui era soverchiarne il profumo dei fiori che crescevano fitti. Il cammino era difficile a causa del sottobosco denso. L’umidità aumentò tanto da impregnare il mio cappello di fibre intrecciate. Nell’aria densa, i rumori della foresta, il frusciare della vegetazione, i trilli e i suoni rauchi che si udivano sempre, assunsero una tonalità più grave.

Verso metà mattina, percorse due o tre miglia, giunsi nei pressi di Brentford, dove trovai un lago ampio e poco profondo, di cui il ruscello era uno degli emissari. Gli immissari erano alcuni altri ruscelli e torrenti. Intorno al lago isolato, gli alberi crescevano fitti, con i tronchi e i rami bassi coperti di rampicanti, fra cui la lagenaria e la luffa, che riconobbi. L’acqua, calda, era salmastra, perciò non mi azzardai a berla, ma il lago pullulava di vita. La superficie era coperta da gruppi di ninfee gigantesche, simili nella forma a bottiglie rovesciate, del diametro di circa un metro e ottanta, che mi rammentarono le piante che avevo visto una volta nella serra dei gigli d’acqua del Giardino Botanico Reale, a Kew. Per ironia, il luogo in cui sarebbe sorta Kew era a meno di un miglio da dove mi trovavo. Le foglie sembravano abbastanza rigogliose e robuste da sostenermi, tuttavia preferii non metterle alla prova.

In pochi minuti, con il fusto lungo e diritto di un alberello, improvvisai una canna da pesca. Avevo con me la lenza, e un amo ricavato da una lamiera della vettura temporale. Come esca, usai alcuni lombrichi.

Fui ricompensato, in breve tempo, da alcune stratte alla lenza. Sorrisi, immaginando l’invidia che avrebbero provato alcuni miei amici pescatori, come, ad esempio, il povero vecchio Filby, se avessero saputo che avevo scoperto quella riserva incontaminata.

Quella sera, accesi un fuoco e cenai ottimamente con pesce e tuberi alla brace.

Poco prima dell’alba fui destato da un verso strano. Mi alzai a sedere, guardando attorno. Il fuoco era quasi spento, il sole non era ancora sorto, e il cielo aveva quella sfumatura sovrannaturale d’azzurro acciaio che prefigurava il nuovo giorno. Nell’assenza di vento, neppure una foglia si muoveva. Una bruma densa gravava immobile sulla superficie del lago.

Sulla riva, a meno di cento metri di distanza, vidi uno stormo di uccelli dalle penne di colore marrone grigiastro e dalle zampe simili a quelle dei fenicotteri. Nell’acqua bassa lungo la sponda, camminavano lentamente, oppure stavano immobili su una zampa sola, come sculture squisite. Avevano la testa simile a quella delle anatre moderne, immergevano il becco fra le onde scintillanti, e lo muovevano, evidentemente alla ricerca di nutrimento.

Quando la bruma si alzò un poco a rivelare una parte più estesa del lago, scoprii che gli uccelli, successivamente identificati da Nebogipfel come Presbyornis, erano migliaia: formavano una grande colonia e si muovevano come spettri nella foschia vaporosa.

Il lago si trovava in una località non più esotica dell’incrocio fra Gunnersbury Avenue e Chiswick High Road, eppure sarebbe stato arduo evocare una visione più dissimile dall’Inghilterra.


Con il trascorrere dei giorni, in quel paesaggio caldo e lussureggiante, i miei ricordi dell’Inghilterra del 1891 parvero divenire sempre più remoti e irrilevanti. I lavori per la costruzione della capanna, nonché la caccia e la raccolta, mi procurarono le più grandi soddisfazioni. Il calore del sole e la frescura del mare contribuirono a restituirmi una sensazione di salute e di vigore, nonché una vividezza di percezione, che avevo perduto sin dalla fanciullezza.

Decisi di smettere di pensare. In tutta la complessa panoplia della vita paleocenica esistevano soltanto due esseri dotati di ragione, però mi sembrava che ormai la mia ragione potesse servire esclusivamente a consentirmi di continuare a sopravvivere.

Era tempo che in me prevalessero il cuore e il corpo. E con il susseguirsi dei giorni, acquistai una consapevolezza sempre maggiore della vastità del mondo, dell’immensità del tempo, e di quanto fossimo piccini io e le mie preoccupazioni, nel grande panorama molteplice della storia. Non ero più importante neppure per me stesso, e tale comprensione fu come una liberazione dell’anima.

In seguito, persino la morte di Mosè cessò di affliggermi.

7 Pristichampus

Uno strillo di Nebogipfel mi destò di soprassalto. La voce morlock, quando diventava acuta, si trasformava in una sorta di strano gorgoglio agghiacciante.

Mi alzai a sedere nell’oscurità fresca, e per un attimo immaginai di essere di nuovo a letto, nella mia casa di Petersham Road. Ma gli odori e le forme della notte paleocenica mi riportarono subito alla realtà.

Lasciato il giaciglio, balzai giù dalla palafitta, nella sabbia. Era una notte senza luna: le ultime stelle sbiadivano nel cielo all’appressarsi del sole. Le onde del mare rotolavano placide, il muro della foresta appariva nero e immoto.

Sbucando dalla fresca quiete intrisa di blu, con la pelliccia scompigliata e svolazzante, Nebogipfel corse zoppicando sulla spiaggia verso la capanna. Eppure non era certo in condizioni di correre: sembrava a malapena in grado di reggersi in piedi. Aveva perso la gruccia, e anche la maschera: era costretto a proteggersi con le mani gli occhi grandi e ipersensibili.

Poi vidi che era inseguito…

Era un animale lungo circa tre metri. Simile nella forma a un coccodrillo, correva però come un cavallo grazie alle zampe lunghe e agili. Evidentemente era un predatore: con gli occhi sottili fissava il Morlock, e quando aprì la bocca, vidi che era munita di alcune file di denti acuminati.

E soltanto pochi metri, ormai, separavano il mostro da Nebogipfel!

Con uno strillo, spiccai la corsa, agitando le braccia, pur sapendo che il mio compagno non aveva scampo. La prospettiva di perderlo mi addolorò, tuttavia sono costretto ad ammettere con vergogna che il mio primo pensiero fu per me stesso, perché la sua morte mi avrebbe condannato alla solitudine nel paleocene, privo di vita intelligente…

Proprio in quel momento, con una limpidezza sbalorditiva, dal margine della foresta giunse una fucilata echeggiante.


La pallottola non andò a segno, credo, ma fu sufficiente per indurre la bestia a girare la testa enorme e a rallentare l’andatura delle zampe possenti.

Intanto, Nebogipfel cadde bocconi nella sabbia, e subito si alzò sui gomiti per continuare la fuga strisciando sul ventre.

Seguirono una seconda e una terza fucilata. Il rettile sussultò, percosso dai proiettili, quindi si volse in atteggiamento di sfida verso la foresta. Spalancando la bocca zannuta, emise un ruggito che echeggiò fra gli alberi come un tuono. Spinto dalle lunghe zampe, corse risolutamente verso la causa delle punture che lo avevano fatto inaspettatamente soffrire.

Un uomo basso e tarchiato, che indossava un’uniforme chiara, sbucò dalla foresta, imbracciò il fucile per prendere la mira, e rimase audacemente immobile a fronteggiare la belva che si avvicinava.

Nel frattempo, raggiunsi Nebogipfel per aiutarlo a rialzarsi: tremava tutto. Restammo l’uno accanto all’altro sulla spiaggia in attesa della fine del dramma.

Il rettile si trovava a meno di dieci metri dall’uomo, allorché il fucile sparò per la quarta volta. Vidi il sangue schizzare dalla bocca, tuttavia la bestia vacillò per non più di un attimo, perdendo soltanto una scheggia della propria velocità. Il fucile fece fuoco ripetutamente, conficcando i proiettili l’uno dopo l’altro nel corpo immenso.

Infine, a meno di tre metri dall’uomo, il rettile crollò, con le fauci che azzannavano l’aria. Dimostrando una freddezza ineguagliabile, l’uomo si spostò lateralmente d’un passo per non essere schiacciato.

Ritrovata la maschera, la restituii a Nebogipfel. Insieme, seguimmo le tracce lasciate nella sabbia dagli artigli del rettile, salendo il declivio dolce della spiaggia: sulle ultime impronte erano cadute scie di bava, di muco e di sangue. Da vicino, la belva era ancora più spaventevole che da lontano: gli occhi erano aperti e fissi, le mascelle erano spalancate, e le zampe posteriori dai muscoli possenti sussultavano e si contraevano, artigliando la sabbia, mentre le ultime vestigia di vita defluivano dal mostro.

Nell’osservare il mostro ancora caldo, Nebogipfel commentò, in un cupo gorgoglio: — Pristichampus…

Il nostro salvatore stava immobile, calcando con un piede il rettile ancora fremente. Dimostrava circa venticinque anni. Aveva lo sguardo franco e il volto ben rasato. Benché la morte lo avesse sfiorato, appariva del tutto rilassato: ci gratificò persino di un sorriso affascinante, che rivelò i denti radi. Vestiva con un berretto azzurro portato alla brava, una giacca cachi, un paio di calzoni marroni, e stivali pesanti. Avrebbe potuto provenire da qualunque epoca e da qualsiasi versione della storia, però non mi sorprese affatto quando parlò in puro Inglese dall’accento neutro:

— Un mostro dannatamente brutto, vero? Però era duro a morire… Avete visto che ho dovuto cacciargli una pallottola in bocca? E non è bastata per abbatterlo! Bisogna riconoscergli che era coraggioso!

Dinanzi alle sue maniere disinvolte da ufficiale, mi sentii goffo e stupido, barbuto e vestito di pelli com’ero, nell’offrirgli la mano: — Signore… Credo di esserle in debito per la vita del mio compagno…

Il giovane mi strinse vigorosamente la mano: — Non ci pensi neppure.

— Il suo sorriso si allargò. Quindi aggiunse, pronunciando il mio nome: — Il signor…, suppongo? Sa una cosa? Ho sempre desiderato pronunciare questa frase!

— Chi ho il piacere di conoscere?

— Oh, mi scusi… Il mio nome è Gibson: comandante di gruppo Guy Gibson. E sono felice di averla trovata.

8 L’accampamento

Si scoprì che Gibson non era solo. Si mise il fucile in spalla, poi si girò per fare un cenno di richiamo alle ombre della foresta.

Ne sbucarono due militari dalle camicie intrise di sudore, i quali, nell’uscire alla luce sempre più intensa del giorno, sembrarono più diffidenti nei nostri confronti, nonché più a disagio in quell’ambiente, del comandante di gruppo. Mi sembrarono Indiani: sepoy, soldati dell’Impero. Avevano gli occhi neri e fieri, scintillanti, e le barbe corte, ben curate. Ognuno indossava un turbante, una camicia e un paio di calzoncini cachi. Uno dei due portava in spalla un’arma da fuoco pesante, e aveva due grosse borse di cuoio che contenevano evidentemente le munizioni. Accigliati, i due soldati osservarono con manifesta ferocia la carogna del Pristichampus, mentre i loro spallacci argentei sfavillavano nella luce del sole paleocenico.

Il comandante Gibson spiegò di essere stato incaricato di compiere una spedizione esplorativa e di provenire da un campo base situato nell’interno, a circa un miglio. Mi sembrò strano che non ci presentasse i suoi due sottoposti. Tale piccola scortesia, provocata da un tacito ma evidente riconoscimento delle differenze di razza e di rango, mi sembrò del tutto assurda su quella spiaggia isolata del paleocene, quando in tutto il mondo esistevano soltanto pochissimi umani.

Comunque, ringraziai Gibson per avere salvato Nebogipfel, e lo invitai ad accompagnarci alla nostra palafitta per fare colazione con noi: — È là, presso la spiaggia — indicai.

Ombreggiandosi gli occhi con una mano, Gibson osservò la palafitta: — Be’, sembra… Ehm… Sembra proprio una costruzione solida.

— Solida? Direi! — risposi, prima d’incominciare un racconto lungo e piuttosto incoerente su come avevo costruito la palafitta ancora incompleta, di cui ero smodatamente fiero, e su come eravamo sopravvissuti nel paleocene.

Il comandante Guy Gibson ascoltò con le mani unite dietro la schiena e un’espressione d’intenzionale cortesia sul viso. I sepoy mi osservarono perplessi e sospettosi, senza allontanare mai le mani dalle armi.

Dopo qualche minuto mi resi conto, piuttosto tardivamente, del disinteresse di Gibson, perciò posi gradualmente fine alle mie chiacchiere.

Con allegria, Gibson osservò la spiaggia: — Credo proprio che ve la siate cavata notevolmente bene, qui: notevolmente. Suppongo che poche settimane di questa vita da Robinson Crusoe mi avrebbero fatto impazzire di solitudine. Voglio dire, i pub apriranno soltanto fra altri cinquanta milioni di anni!

Sorrisi alla battuta, anche se non la capii. Inoltre, dinanzi all’efficienza vivace ed elegante dell’ufficiale, mi sentii alquanto imbarazzato per l’orgoglio esagerato che suscitavano in me i nostri successi meschini.

— Tuttavia — proseguì Gibson, con gentilezza — non crede che vi converrebbe seguirci al corpo di spedizione? Dopotutto, siamo venuti fin qui per ritrovarvi. E disponiamo di viveri decenti, nonché di attrezzature moderne, e così via. — Lanciando un’occhiata a Nebogipfel, aggiunse, un po’ più dubbioso: — E il doc potrebbe fare qualcosa per questo poveraccio. Se qui c’è qualche oggetto di cui avete bisogno, potremo sempre tornare a prenderlo in seguito.

Naturalmente, non c’era nulla: pensai che non avrei mai più avuto bisogno di ripercorrere quelle poche centinaia di metri di spiaggia! Tuttavia mi rendevo conto che, con l’arrivo di Gibson e del suo reparto, il mio breve idillio era concluso. E nell’osservare il volto franco e pragmatico dell’ufficiale, compresi che non avrei mai potuto trovare le parole adatte per esprimergli quella mia sensazione di perdita.

Così, con i sepoy che ci precedevano, e Nebogipfel che si appoggiava al mio braccio, Gibson e io ci addentrammo nella foresta.

Lontano dalla costa, l’aria era calda e appiccicosa. Camminammo in fila indiana, con un sepoy in testa, l’altro in coda, e nel mezzo Gibson, Nebogipfel ed io. Per gran parte del tragitto, portai in braccio il debole Morlock. Anche se continuarono a lanciarci fosche occhiate sospettose, i due sepoy, dopo un poco, allontanarono le mani dalle fondine. Durante tutta la marcia, non dissero una sola parola a Nebogipfel, né a me.

La spedizione di Gibson proveniva dal 1944, ossia sei anni dopo la nostra partenza durante l’assalto tedesco alla Cupola di Londra.

— E la guerra continua ancora?

— Temo proprio di sì — rispose Gibson, torvo. — Naturalmente abbiamo risposto a quell’attacco brutale a Londra, facendolo pagare ai Tedeschi con gli interessi.

— Anche lei ha partecipato alla rappresaglia?

Nel camminare, Gibson abbassò lo sguardo, come involontariamente, ai nastrini che portava cuciti sul petto dell’uniforme. In quel momento non li riconobbi, sia perché non sono mai stato appassionato di cose militari, sia perché, in ogni caso, alcune decorazioni non erano ancora state inventate nella mia epoca. In seguito, però, scoprii che si trattava della decorazione per anzianità di servizio e della croce e barra al merito di aviazione: erano onorificenze davvero prestigiose, soprattutto per un militare tanto giovane.

Senza drammatizzare, Gibson spiegò: — Sì, ho partecipato a qualche bella missione, e sono molto fortunato ad essere qui a poterlo raccontare: un sacco di bravi ragazzi non lo sono stati altrettanto.

— E tali missioni hanno avuto successo?

— Direi di sì. Senza aspettare troppo a ricambiare il favore ai tedeschi, siamo andati ad annientare le loro Cupole!

— E le città sottostanti?

Il comandante mi osservò: — Lei che cosa ne pensa? Senza cupola, ogni città è pressoché indifesa rispetto agli attacchi dall’aria. Certo, si può sparare con gli ottantotto…

— Gli ottantotto?

— I tedeschi hanno artiglieria contraerea calibro ottantotto, molto utile anche come artiglieria da campo e contro i corazzati: una gran tecnica… Comunque, se il pilota riesce a sottrarre il bombardiere al fuoco di sbarramento, può sganciare tutto quello che vuole nel ventre di una città senza cupola.

— E quali sono i risultati, dopo sei anni di tutto questo?

— Immagino — scrollò le spalle Gibson — che non resti granché delle città, almeno in Europa.

Giunti, secondo la mia stima, nelle vicinanze di South Hampstead, sbucammo in una radura circolare, di circa un quarto di miglio di diametro, che non era affatto naturale: come dimostravano le ceppaie, la foresta era stata abbattuta. Squadre di fanti a torso nudo, muniti di seghe e di machete, stavano ampliando la radura. Il suolo umido, sgombro di sottobosco, era coperto da strati di fronde di palma calpestati.

In mezzo alla radura, quattro corazzati simili a quello che mi aveva trasportato dal 1873 al 1938 stavano immobili agli angoli di un quadrato di trenta metri di lato, con i portelli spalancati come bocche di animali assetati, le catene antimina che pendevano inutili dai tamburi anteriori, la blindatura mimetica verde e nera incrostata di escrementi e di foglie cadute. Tutt’intorno erano sparsi altri veicoli e altro equipaggiamento, inclusi alcuni corazzati leggeri, e piccoli pezzi di artiglieria montati su carrelli dalle solide ruote.

In quella località, nel 1944, come spiegò Gibson, era situata un’officina di riparazione e di manutenzione per corazzati temporali.

Allorché entrai nella radura insieme a Gibson, con lo zoppicante Nebogipfel appoggiato a me, tutti i soldati interruppero i lavori in cui erano impegnati, per fissarci con aperta e assoluta curiosità.

Al centro del quadrilatero protetto dai corazzati, da un palo dipinto di bianco pendeva, sgargiante, floscia e incongrua, la bandiera del Regno Unito. Gibson c’invitò a sedere sugli sgabelli pieghevoli accanto alla tenda più grande fra quelle che erano montate nel quadrilatero. Un soldato magro e pallido, che evidentemente sopportava male il caldo, uscì da un corazzato. Immaginai che fosse l’attendente di Gibson, perché questi gli ordinò di servirci un rinfresco.

Intanto, i soldati ripresero a svolgere i loro incarichi: nell’accampamento, come sempre in tutte le postazioni militari, le attività fervevano come in un alveare. Benché i soldati fossero discinti a causa del calore, la loro uniforme comprendeva diversi indumenti: copricapi flosci di feltro, avvolti in leggere sciarpe cachi che pendevano sul dietro, o cappelli, che Gibson definì di foggia australiana; camicie verde giungla, con spallacci pesanti del tipo che avevo visto e portato nel 1938; distintivi cuciti ai cappelli o alle camicie; bandoliere, giberne e fondine; calzoni con fasce alle caviglie.

Alla fiancata aperta di un corazzato lavorava un soldato, con la testa completamente racchiusa da un casco leggero munito di visiera, il quale indossava una tuta bianca, completa di guanti spessi. Immaginai che, in quel caldo, il poveretto si stesse sciogliendo, così vestito, ma Gibson mi spiegò che la tuta era di amianto e serviva a proteggerlo dalle fiammate dei motori.

I due quinti, all’incirca, della guarnigione, composta da un centinaio di militari, erano donne. Molti soldati recavano tracce di ferite e di ustioni, alcuni erano muniti di protesi agli arti. Ciò mi fece comprendere che il massacro spaventevole della gioventù d’Europa, continuato dopo il 1938, aveva reso necessario richiamare in servizio i feriti, e un maggior numero di ragazze.

Dopo essersi sfilato gli stivali, Gibson mi fece un sorriso riluttante, e cominciò a massaggiarsi i piedi affaticati. Nebogipfel sorseggiò acqua da un bicchiere, mentre l’attendente, secondo la tradizione inglese, serviva tazze di tè al comandante e a me: tè, nel paleocene!

— Avete creato proprio una bella, piccola colonia — commentai.

— Immagino di sì. Comunque, si tratta soltanto di addestramento. — Gibson si rimise gli stivali. — Naturalmente, apparteniamo ad armi diverse, come suppongo che lei abbia notato. — Ciò detto, sorseggiò il tè.

— Temo di no — risposi, sinceramente.

— Be’, molti di noi appartengono alla fanteria, naturalmente. — Gibson indicò un militare giovane e snello, che aveva un distintivo cachi cucito alla camicia. — Ma alcuni di noi, come lui ed io, appartengono alla RAF.

— La RAF?

— Royal Air Force. I burocrati hanno finalmente capito che siamo i più adatti a manovrare questi mostri metallici. — Gibson sorrise con noncuranza a un fante che, nel passare, fissò Nebogipfel a occhi strabuzzati. — Naturalmente, non ci dispiace dare un passaggio a questi ciabattoni. Meglio che lasciarvi fare da soli, eh, Stubbins?

Magro, con la chioma rossa e il viso schietto, il soldato Stubbins sorrise a sua volta, quasi con timidezza, ma evidentemente compiaciuto dell’attenzione di Gibson. E tutto ciò benché fosse parecchio più alto dell’ufficiale di bassa statura, oltre che di alcuni anni più vecchio. Nella flemma del comandante, riconobbi qualcosa della baldanza del capo nato.

— Siamo qui già da una settimana — riprese Gibson. — È sorprendente che ci siamo imbattuti in voi soltanto oggi.

— Non ci aspettavamo visite — risposi seccamente. — In caso contrario, immagino che avremmo acceso un falò, o trovato qualche altro modo di segnalare la nostra presenza.

Il comandante mi strizzò l’occhio: — Noi abbiamo avuto parecchio da fare. È stata dura, i primi due giorni. Siamo ben equipaggiati, naturalmente. Gli scienziati ci hanno spiegato chiaro e tondo, prima della partenza, che il clima della cara, vecchia Inghilterra è molto mutevole, se lo si considera da una prospettiva abbastanza ampia. Perciò ci siamo muniti di tutto, dai pastrani ai calzoncini. Tuttavia non ci aspettavamo affatto di trovare proprio qui, nel centro di Londra, un clima tropicale! Sembra che gli indumenti ci marciscano addosso, letteralmente, e tutto ciò ch’è metallico arrugginisce, e gli stivali scivolano nella melma: mi si sono ristrette persino le dannate calze! E i ratti divorano qualsiasi cosa. — Accigliato, aggiunse: — O almeno, credo che siano i ratti…

— Probabilmente non lo sono affatto — replicai. — E i corazzati? Sono di classe Kitchener?

Evidentemente sorpreso dalla mia piccola ostentazione di nozionismo, Gibson mi guardò inarcando un sopracciglio: — Per la verità, i corazzati si muovono a stento, perché le loro dannate zampe di elefante affondano nel fango che si trova ovunque…

In quel momento, una voce limpida e familiare si udì alle mie spalle: — Lei non è aggiornato, signore: i corazzati di classe Kitchener, incluso il caro vecchio Raglan, sono in disuso ormai da diversi anni…

Mi girai ad osservare l’ufficiale, che abbigliato nella semplice uniforme composta di berretto e tuta che era tipica degli equipaggi dei corazzati, si avvicinò zoppicando in maniera accentuata, poi mi offrì la mano.

Sorrisi, stringendo la mano piccola, ma forte: — Capitano Hilary Bond…

— Ha un aspetto un po’ più lacero, signore — commentò Bond, nello scrutarmi da capo a piedi, soffermando lo sguardo sulla barba lunga e folta, nonché sugli indumenti di pelle, — però è del tutto inconfondibile. È sorpreso di rivedermi?

— Dopo qualche esperienza di viaggio temporale, nulla mi sorprende più molto, Hilary!

9 Il corpo di spedizione cronotico

Nel seguito della conversazione, Gibson e Bond mi spiegarono quale fosse la missione del corpo di spedizione cronotico.

Grazie allo sviluppo delle pile a fissione con carolinum, la Gran Bretagna e l’America erano riuscite a produrre la plattnerite poco tempo dopo la mia fuga nel tempo, talché gli ingegneri non avevano più dovuto dipendere esclusivamente dai rimasugli del mio vecchio laboratorio.

Oltre a nutrire ancora il timore che i guerrieri cronotici tedeschi intendessero attaccare a tradimento il passato britannico, si era capito, in base alle tracce che avevamo lasciato all’Imperial College e ad altri indizi, che Nebogipfel e io ci eravamo recati qualche decina di milioni di anni nel passato. Quindi, era stata rapidamente allestita una flotta di corazzati temporali, muniti di strumenti molto sensibili, in grado d’individuare la presenza della plattnerite, in base, come mi fu spiegato, all’origine radioattiva della sostanza medesima. Così, il corpo di spedizione stava esplorando il passato a balzi di cinque milioni di anni, o più.

La sua missione consisteva nientemeno che nel proteggere la storia britannica dagli attacchi nemici anacronistici.

Ad ogni sosta, si sforzava valorosamente di studiare il periodo. A tale scopo, parecchi soldati, mediante un addestramento specifico, anche se frettoloso, erano stati trasformati in scienziati dilettanti: climatologi, ornitologi, e così via. Costoro effettuavano indagini, rapide ma accurate, sulla flora, sulla fauna, sul clima e sulla geologia dell’epoca, e Gibson, ogni giorno, dedicava gran parte del proprio tempo a redigere compendi di tali osservazioni. Notai che i militari, uomini e donne, affrontavano allegramente il duro compito, e mi sembrò che fossero sinceramente interessati alle peculiarità della valle del Tamigi nell’era paleocenica.

Nondimeno, le sentinelle pattugliavano il perimetro dell’accampamento durante la notte, e soldati muniti di binocolo si alternavano ad osservare perennemente il cielo e il mare. Quando erano impegnati in questi compiti, i militari non manifestavano affatto l’umorismo e la curiosità che li caratterizzavano mentre svolgevano gl’incarichi scientifici o d’altro genere: invece, i loro sguardi e le loro espressioni lasciavano trapelare il timore e l’attenzione.

Dopotutto, il corpo di spedizione si trovava nel passato non per studiare botanica, bensì per cercare i tedeschi: nemici umani in grado di viaggiare nel tempo, nascosti fra le meraviglie del passato.


Quantunque fossi fiero delle imprese che avevo compiuto nel tentativo di sopravvivere in quell’epoca aliena, fu con sollievo considerevole che abbandonai il mio vestiario di cenci e di pelli per indossare un’uniforme tropicale da soldato temporale, leggera e comoda. Dopo essermi rasato e lavato (con sapone e con acqua calda e pulita!), mangiai di gusto il surrogato di carne di soia in scatola. La sera, fu con una sensazione di pace e di sicurezza che mi coricai sotto una tenda e una zanzariera, protetto dalle spalle possenti dei corazzati.

Invece, Nebogipfel non rimase sempre all’accampamento. Anche se il nostro incontro con Gibson stupì e fu festeggiato, giacché il nostro ritrovamento era stato fra gli obiettivi principali della spedizione, il Morlock non tardò a diventare l’oggetto di un interesse chiassoso da parte dei soldati, nonché, sospettai, di qualche punzecchiatura maliziosa. Così, tornò alla nostra palafitta sulla sponda del mare paleocenico. Non mi opposi, sapendo quanto bramasse continuare la ricostruzione della macchina temporale: infatti, prese persino a prestito alcuni attrezzi. Rammentando però quanto avesse rischiato di essere massacrato dal Pristichampus, insistetti affinché non rimanesse solo, bensì si facesse accompagnare da me o da qualche soldato armato.

Quanto a me, che di natura non sono affatto pigro, mi stancai, dopo un paio di giorni, di rimanere ozioso nell’accampamento, dove l’attività ferveva. Chiesi di partecipare alla missione, e potei rendermi utile comunicando ai soldati ciò che avevo dolorosamente imparato sulla flora, sulla fauna e sulla geografia locali. Inoltre, i malati erano parecchi, perché i soldati non erano più immuni ai germi paleocenici di quanto lo fossi stato io, quindi assistetti l’unico medico dell’accampamento: un naik alquanto giovane e perennemente esausto, aggregato al Nono Fucilieri Gurkha.

Dopo il giorno del nostro incontro, frequentai poco Gibson. Con suo sommo scontento, il comandante era assillato ogni giorno dai dettagli delle operazioni del corpo di spedizione, nonché da un grave fardello burocratico di moduli, di registri e di rapporti da compilare, per giunta a beneficio di una Whitehall che sarebbe esistita soltanto dopo cinquanta milioni di anni. Ebbi l’impressione che la missione temporale irritasse e spazientisse Gibson, il quale, molto probabilmente, sarebbe stato più felice di tornare a compiere incursioni aeree sulla Germania, come quelle che mi aveva descritto con chiarezza sconvolgente. Invece, Hilary Bond, che era impegnata soprattutto allorché i grandi corazzati temporali si aprivano la strada attraverso i secoli, non mancava di tempo libero, quindi poté dedicarsi come ospite a me e a Nebogipfel.

Un giorno, mentre passeggiava con me lungo il margine della foresta, vicino alla spiaggia, nel folto sottobosco, con andatura zoppicante, ma risoluta e vigorosa, Bond mi narrò come si era svolta la guerra dopo il 1938.

— Credevo che la distruzione delle Cupole avesse posto fine al conflitto — dichiarai. — Non capite… Voglio dire, che cosa resta per cui combattere, dopo quello che accadde?

— Intende dire che la guerra avrebbe dovuto concludersi così? Oh, no! Il bombardamento ha posto fine temporaneamente alla vita cittadina, e la popolazione ha sofferto molto, però esistono ancora i Bunker, dove si trovano i nostri organi di governo e gran parte delle nostre industrie. Direi proprio che non è un gran secolo per le città…

Ricordando la campagna primitiva che avevo visto intorno a Londra, cercai d’immaginare come fosse vivere sempre in un rifugio sotterraneo: bambini dagli occhi vacui che giocavano nelle gallerie buie, una popolazione che il terrore aveva ridotto alla servitù e alla barbarie…

— E che cosa è successo al fronte? — chiesi. — L’assedio all’Europa…

— Be’ — Bond scrollò le spalle — le chiacchieratrici parlano parecchio di grandi avanzate qua e là: “ancora un ultimo sforzo”, e discorsi di questo genere. — E abbassò la voce. — Tuttavia, e non credo che abbia grande importanza discuterne qui, gli aviatori vedono parecchio dell’Europa, anche se volano di notte, alla luce dei bombardamenti, e le voci si diffondono… Ebbene, io personalmente credo che le trincee fangose non si siano spostate di un centimetro dal 1935. Siamo in stallo: ecco qual è la situazione.

— Non riesco proprio a immaginare per quale scopo stiate combattendo. Tutti i paesi sono devastati, prostrati industrialmente ed economicamente. Di sicuro, nessuno è più in grado di costituire una grave minaccia per gli altri, e nessuno può più avere risorse che valga la pena conquistare.

— Forse questo è vero — concesse Bond. — Credo che, una volta finita la guerra, la Gran Bretagna avrà soltanto le forze per ricostruire il paese: per parecchio tempo non potremo più dedicarci a nessuna conquista. E dato che si trova più o meno nella nostra stessa situazione, Berlino deve avere un punto di vista molto simile.

— Allora perché continuare a combattere?

— Perché non possiamo permetterci di smettere. — L’abbronzatura sviluppata nelle profondità temporali del paleocene non riusciva a nascondere le tracce dell’antico, stanco pallore di Bond. — Riceviamo rapporti d’ogni genere. Talvolta si tratta soltanto di voci, ma in alcuni casi, come ho sentito dire, si tratta di notizie fondate, a proposito di certi progressi tecnici dei tedeschi…

— Progressi tecnici? Armi, vorrà dire.

In silenzio, ci allontanammo dalla foresta per scendere al mare, nell’aria calda che scottava la pelle, e lasciammo che le onde ci lambissero gli stivali.

Intanto, immaginai l’Europa del 1944: le città demolite, milioni di uomini e di donne che, dall’Olanda alle Alpi, tentavano d’infliggersi a vicenda danni irreparabili… Nella tranquillità tropicale, sembrava tutto assurdo: un incubo suscitato da una febbre!

— Ma che cosa potete sperare d’inventare — ripresi — che sia in grado di produrre danni più gravi di quelli che avete già arrecato?

— Si parla di bombe di nuovo tipo, più potenti di qualunque altra sia mai esistita: bombe, si dice, che contengono il carolinum.

Ricordai i progetti di quel genere di cui mi aveva parlato Wallis nel 1938.

— E naturalmente — aggiunse Bond — c’è sempre la guerra di dislocamento cronotico. Capisce? Non possiamo smettere di combattere, perché ciò significherebbe lasciare ai tedeschi il monopolio di tali armi. — La sua voce assunse un tono di disperazione pacata: — Riesce a capire, vero? Ecco perché c’è stata la corsa alla costruzione delle pile atomiche e alla produzione di carolinum, in modo da procurare altra plattnerite. Ed ecco perché sono state investite tante risorse nella fabbricazione dei corazzati temporali.

— E tutto ciò allo scopo di precedere i tedeschi nel passato, e di aggredire loro prima che loro aggrediscano voi?

La capitana protese il mento in atteggiamento di sfida: — O per riparare ai danni che infliggono. Questo potrebbe essere un altro punto di vista.

A differenza di quanto avrebbe forse fatto Nebogipfel, non discussi della vanità fondamentale dell’impresa, giacché era evidente che i filosofi del 1944 non erano ancora giunti a comprendere la molteplicità della storia, come avevo potuto fare io grazie agli insegnamenti del Morlock.

— Però il passato è vasto — protestai comunque. — Siete venuti a cercare noi… Ma come sapevate che eravamo finiti in quest’epoca? E come avete potuto individuare la nostra ubicazione con esattezza, anziché con un’approssimazione di un milione di anni?

— Disponevamo di alcuni indizi.

— Che genere d’indizi? Si riferisce forse alle tracce lasciate all’Imperial College?

— In parte. Ma disponevamo anche d’indizi archeologici.

— Archeologici?

Scherzosamente, Bond mi guardò: — Senta… Non sono certa che voglia sapere…

Naturalmente, ciò fece divampare la mia curiosità, perciò insistetti affinché la capitana parlasse.

— Benissimo. Gli scienziati, naturalmente, sapevano da quale zona eravate partiti per il passato, ossia dall’Imperial College, quindi hanno compiuto una ricerca archeologica sistematica, scavando…

— Accidenti! Cercavate i miei resti fossili!

— E quelli di Nebogipfel. Si pensò che se si fossero trovate anomalie, come ossa o attrezzi, sarebbe stato possibile, in base allo strato geologico, individuare l’epoca con precisione sufficiente…

— E avete trovato qualcosa? Di nuovo, Bond tacque.

Fui costretto a insistere affinché rispondesse: — Hilary…

— Fu trovato un teschio. — Umano?

— In un certo senso. — Bond esitò. — Era piccolo e alquanto deforme, situato in uno strato di cinquanta milioni di anni più remoto dell’epoca in cui avrebbero dovuto trovarsi le vestigia umane più antiche. E sembrava che fosse stato spaccato in due da un morso.

Piccolo e deforme, pensai. Compresi che doveva essersi trattato del teschio di Nebogipfel. Era mai possibile che il Morlock fosse stato ucciso dal Pristichampus, in un’altra storia, in cui Gibson non era intervenuto?

E le mie ossa giacevano forse nel futuro, frantumate e fossilizzate, in qualche altro luogo non lontano, senza essere state scoperte?

Benché il sole mi scaldasse la testa e la schiena, fui scosso da un brivido gelido. D’improvviso, il mondo fulgido del paleocene parve sbiadire in una trasparenza che lasciava filtrare la luce spietata del tempo.


— Dunque ci avete trovati dopo avere individuato le tracce della plattnerite… Immagino però che siate rimasti delusi nel trovare, ancora una volta, soltanto me, e nessuna orda di prussiani guerrafondai. Comunque, non le sembra di scorgere un paradosso? Avete costruito i corazzati temporali nel timore che i tedeschi facessero lo stesso… Benissimo. La situazione, tuttavia, è simmetrica: dal loro punto di vista, i tedeschi temono sicuramente che voi inventiate per primi le macchine temporali. Ciascuna delle due parti si comporta precisamente in modo tale da provocare la reazione peggiore da parte dell’avversario. E dunque entrambe scivolano verso la situazione peggiore per tutti.

— Può darsi — convenne Bond. — Ma il possesso della tecnica temporale da parte dei tedeschi sarebbe catastrofico per la causa degli Alleati. La nostra spedizione ha lo scopo d’individuare i viaggiatori temporali tedeschi e d’impedire che infliggano qualunque danno alla storia.

Gesticolai, alzando le mani, mentre le onde del mare paleocenico s’increspavano intorno alle mie caviglie: — Ma… Dannazione, capitano Bond! Siamo cinquanta milioni di anni prima di Cristo! Quale importanza può mai avere, qui, la guerra fugace che l’Inghilterra e la Germania combattono nel futuro remoto?

— Non possiamo abbassare la guardia — rispose Bond, con torva stanchezza. — Non capisce? Dobbiamo braccare i tedeschi fino all’alba della creazione, se necessario.

— E quando cesserà questa guerra? Consumerete forse tutta l’eternità, prima di concluderla? Non capite che questo… — Agitai una mano, per indicare con un solo gesto tutto quel futuro spaventevole di città devastate e di popolazioni affollate nei rifugi sotterranei. — Non capite che tutto questo è impossibile? Oppure intendete continuare fino a quando rimarranno due persone, soltanto due, e l’ultima spaccherà il cranio all’altra con una maceria?

La luce riflessa dal mare accentuò le rughe sul suo viso, quando Bond si girò per allontanarsi, senza replicare.


Il periodo di calma, dopo il nostro primo incontro con Gibson, durò cinque giorni.

10 L’apparizione

Era il mezzodì di una giornata luminosa e senza nubi, e avevo trascorso la mattina ponendo le mie capacità grossolane d’infermiere al servizio del medico gurkha. Con sollievo, accettai l’invito di Hilary Bond a compiere un’altra delle nostre passeggiate fino alla spiaggia.

Attraversammo facilmente la foresta, perché ormai i soldati avevano aperto diversi sentieri che si dipartivano a raggiera dall’accampamento.

Alla spiaggia, mi tolsi gli stivali e le calze, lasciandoli cadere al margine della foresta, e corsi al bagnasciuga. Bond m’imitò, collocando più decorosamente gli stivali sulla sabbia assieme alla sua pistola. Mentre si arrotolava i calzoni, vidi che aveva la gamba sinistra deforme e la pelle corrugata da una vecchia ustione. Infine mi seguì nella risacca schiumeggiante.

Tutti, uomini e donne, eravamo molto informali, in quell’accampamento nella foresta antica, perciò non esitai a togliermi la camicia e ad immergere la testa e il busto nell’acqua trasparente, senza curarmi che i calzoni mi si bagnassero. Inspirai profondamente, godendo del calore del sole sul viso, del luccichio dell’acqua, della morbidezza della sabbia fra le dita dei piedi, degli odori pungenti del sale e dell’ozono.

— È felice di essere qui, vedo — commentò Bond, con un sorriso.

— In verità, sì. — Dopo averle detto di avere trascorso la mattinata ad aiutare il medico, aggiunsi: — Come sa, sono disposto, anzi, più che disposto, ad aiutare. Ma oggi, verso le dieci, ero talmente nauseato dagli odori del cloroformio, dell’etere e di vari antisettici, nonché da fetori ben più umani, che…

La capitana sollevò le mani: — Capisco.

Ci allontanammo dal mare. Mentre mi asciugavo con la camicia, Bond andò a riprendere la propria arma. Lasciando gli stivali al bordo della foresta, passeggiammo sul bagnasciuga. Qualche decina di metri più avanti, notai alcune fossette che tradivano la presenza della corbicula: una bivalve, molto diffusa sulla spiaggia, che si nascondeva nella sabbia. Ci accosciammo, e mostrai a Bond come dissotterrare i molluschi. In pochi minuti, ne raccogliemmo una quantità rispettabile, che ammucchiammo ad asciugare al sole.

Mentre Bond estraeva i molluschi, affascinata come una bambina, il suo viso, con la chioma corta e bagnata che aderiva alla pelle, appariva raggiante di gioia per il successo in quell’impresa semplice. Eravamo soli sulla spiaggia, anzi, avremmo potuto essere gli unici due esseri umani in tutto il mondo paleocenico. Percepivo lo scintillio di ogni goccia di sudore sul mio cuoio capelluto, lo sfregamento di ogni granello di sabbia contro le gambe, e tutto era pervaso dal calore animale della donna accanto a me: era come se la molteplicità dei mondi attraverso la quale avevo viaggiato si fosse contratta in quell’unico momento di vividezza, ossia il qui e l’ora.

Dunque tentai di comunicare almeno in parte tale sentimento alla mia compagna: — Hilary…

Di scatto, Bond alzò la testa, volgendo il viso al mare: — Ascolti!

Perplesso, osservai il bordo della foresta, le onde che si rompevano sulla spiaggia, la vacuità sconfinata del cielo, mentre si udivano soltanto il fruscio della brezza tra le fronde e il fragore gentile della risacca: — Che cosa?

Il volto di Bond aveva assunto un’espressione dura e sospettosa, ridiventando quello, intelligente e allarmato, della guerriera: — Un motore singolo — dichiarò, con evidente concentrazione. — È un Daimler-Benz DB: un dodici cilindri, credo. — Balzò in piedi, accostando le mani alla fronte per ombreggiarsi gli occhi.

Allora anche le mie vecchie orecchie percepirono il rumore udito dalla giovane capitana: un ronzio lontano, simile a quello di un insetto gigantesco, che giungeva a raffiche dal mare.

— Guardi — indicò Bond. — Là! Lo vede?

Scrutai nella direzione indicata, e fui ricompensato intravedendo una sorta di distorsione che si librava sul mare, lontano, ad oriente: era una chiazza di alterità, un disco non più grande della luna piena, una sorta di rifrazione scintillante tinta di verde.

Poi ebbi l’impressione di qualcosa di solido, al centro dell’apparizione, che si condensava e roteava. D’improvviso, un oggetto pesante e fosco, a forma di croce, sbucò a gran velocità dal cielo orientale, dalla direzione di quella parte del mondo che un tempo sarebbe diventata la Germania. Il ronzio divenne molto più forte.

— Mio Dio — esclamò Bond. — È un Messerschmitt: un’Aquila. Sembra un Bf 109F…

— Messerschmitt… È un nome tedesco… — commentai, alquanto stupidamente.

La capitana mi guardò: — Certo che è un nome tedesco. Non capisce?

— Cosa?

— Quello è un aereo tedesco: die Zeitmaschine, venuta a cercare noi!


Nell’avvicinarsi alla costa, l’aeroplano s’inclinò come un gabbiano in volo, quindi proseguì parallelamente alla spiaggia. Con uno spostamento d’aria rumoroso, tanto celermente che Bond ed io fummo costretti a ruotare di scatto sulla sabbia per seguirlo con lo sguardo, passò sopra le nostre teste, a meno di trenta metri di quota.

Era lungo circa nove metri, e aveva un’apertura alare di poco superiore. Sul muso roteava un’elica. La parte superiore era dipinta a chiazze verdi e marroni, quella inferiore, invece, d’azzurro-grigio, inclusa la bomba appesa al ventre liscio, lunga circa un metro e ottanta. Sulla fusoliera e sulle ali erano dipinti sgargianti simboli militari, fra cui una testa d’aquila e una spada brandita, nonché torve croci nere, che simboleggiavano il paese d’origine.

Per alcuni istanti, Bond e io restammo immobili, storditi da quell’apparizione improvvisa come da una visione mistica.

Il giovane entusiasta che era sepolto in me, lo spettro del povero Mosè perduto, si esaltò alla vista della macchina elegante. Che avventura, Per il pilota di quell’aereo! Che visione gloriosa! E quale coraggio straordinario doveva essere stato necessario per salire, nel cielo annerito dal fumo della Germania del 1944, tanto in alto da ridurre il cuore dell’Europa a una sorta di mappa, un piano coperto di terra, di mare e di foreste, popolato di persone piccole come soldatini, e allora fare scattare l’interruttore che lanciava l’aeroplano nel tempo. Immaginai il sole che si trasformava in un arco luminoso come la traiettoria di un meteorite sopra il velivolo, mentre, al di sotto, il paesaggio si scioglieva e si trasformava, rimodellato dal tempo.

Intanto, le ali scintillanti s’inclinarono di nuovo e il fragore del motore si abbatté su di noi. L’aereo s’innalzò e si allontanò sulla foresta, verso l’accampamento del corpo di spedizione.

Con la gamba zoppa che lasciava tracce asimmetriche nella sabbia, Bond si allontanò di corsa.

— Dove sta andando?

Senza curarsi d’infilare le calze, Bond indossò frettolosamente gli stivali: — All’accampamento, naturalmente.

— Ma… — Fissai il nostro mucchietto patetico di bivalvi. — Non può arrivare prima del Messerschmitt. Che cosa intende fare?

Impugnata la pistola, Bond si raddrizzò e, per tutta risposta, mi guardò con espressione vacua; poi attraversò la frangia di palme lungo il bordo della foresta e scomparve fra le ombre dei dipterocarps.

Il fragore del Messerschmitt svanì in lontananza, assorbito dalle chiome degli alberi. Rimasi solo sulla spiaggia, con le bivalvi e la risacca.

Sembrava tutto assolutamente irreale: la guerra, importata in quell’idillio paleocenico? Non provavo paura: nulla, se non un senso di dislocamento bizzarro.

Scuotendomi dall’immobilità, seguii Bond nella foresta.

Tuttavia, non giunsi neppure agli stivali, prima che arrivasse alle mie orecchie, come fluttuando al di sopra della sabbia, una vocina aliena: — No! No! In acqua!

Era Nebogipfel, che si avvicinava zoppicando, con la gruccia che lasciava una serie di fossette piccole e profonde sulla spiaggia, e un lembo della maschera che pendeva, sventolando.

— Cosa vuoi dire? Non vedi che cosa sta succedendo? Die Zeitmaschine…

— In acqua… — Debole come una bambola di stracci, Nebogipfel si appoggiò alla gruccia. Ansimava tanto violentemente da sussultare, e le sue parole si comprendevano a stento. — In acqua… Dobbiamo entrare…

— Non è il momento di nuotare! — gridai, indignato. — Non capisci…

Tu non capisci — replicò Nebogipfel, trafelato. — Tu non… Vieni…

Distratto, mi volsi ad osservare il cielo sopra la foresta, dove la forma sfuggente di die Zeitmaschine sfiorava il fogliame, con cui contrastavano le sue vivide macchie verdi e azzurre. Procedeva a velocità straordinaria, e di nuovo il suo rumore lontano somigliava al ronzio d’un insetto furente.

Si udirono poi il ritmico tossire delle artiglierie e i fischi delle granate.

— Si stanno difendendo — dissi, avvampando a causa di quella scintilla di guerra. — Non capisci? Evidentemente, la macchina volante ha individuato il corpo di spedizione, che però sta contrattaccando con l’artiglieria…

— In mare. — Con dita deboli quanto quelle di un bambino, Nebogipfel mi afferrò un braccio, in un gesto di tale urgenza, tanto implorante, che m’indusse a staccare lo sguardo dalla battaglia aerea. I suoi occhi, attraverso le fessure sottili della maschera rozza, erano visibili soltanto come schegge, e la bocca, inarcata verso il basso, sembrava una ferita palpitante. — È l’unico riparo abbastanza vicino. Forse basterà…

— Riparo? Ma la battaglia dista due miglia! Come potremmo rimanere feriti, restando qua, su questa spiaggia deserta?

— Ma la bomba… La bomba dei tedeschi… Non l’hai vista? — la chioma pendeva liscia dal cranio piccolo di Nebogipfel. — In questa versione della storia, le bombe non sono sofisticate: sono poco più che grumi di carolinum puro. Nondimeno, sono abbastanza efficaci. Non puoi fare nulla per il corpo di spedizione: non adesso! Dobbiamo attendere che la battaglia sia finita. — Il Morlock mi fissò. — Capisci? Andiamo! — E mi tirò per un braccio. Poi lasciò cadere la gruccia, appoggiandosi a me.

Come un bambino, mi lasciai condurre in mare.

In breve, giungemmo a una profondità di un metro e venti, o più. Immerso fino alle spalle, Nebogipfel mi esortò ad accosciarmi in maniera da sprofondare quasi interamente nell’acqua salata.

Il Messerschmitt virò per eseguire un altro passaggio sopra la foresta, simile a un predatore di metallo, lustro di lubrificante, mentre le granate gli esplodevano intorno in nubi di fumo, che poi si dissolvevano poco a poco nell’atmosfera paleocenica.

Ammetto che quella battaglia aerea, la prima a cui assistevo, mi entusiasmò. Nella mia mente si susseguirono immagini di scontri fra numerosi velivoli, come dovevano essere quelli che affollavano i cieli d’Europa nel 1944: uomini che cavalcavano nel vento, e roteavano e cadevano come gli angeli di Milton.

Pensai che fosse l’apoteosi della guerra: che cos’era mai lo squallore brutale delle trincee rispetto a quel trionfo aereo, con le sue cadute vertiginose verso la gloria o la morte?

Quasi pigramente, il Messerschmitt si allontanò con un volo a spirale dallo sbarramento di granate, salendo di quota. Giunto al culmine della manovra, parve librarsi, per un momento soltanto, a parecchie decine di metri dal suolo.

Poi vidi la bomba, ferale baccello metallico dipinto d’azzurro, staccarsi dal velivolo con assoluta delicatezza, per iniziare la sua caduta verso la terra.

Una granata s’innalzò dalla foresta a tracciare un arco nell’aria e perforò un’ala dell’aereo. Le fiamme divamparono e die Zeitmaschine fuggì con un volo sussultante, avviluppata nel fumo.

Lanciai un grido di esultanza: — Bel tiro! Nebogipfel… Hai visto?

Per tutta risposta, il Morlock protese le braccia dal mare per premermi le mani morbide sulla testa: — Giù… Sott’acqua…

La mia ultima immagine fugace della battaglia fu la traccia di fumo che segnava il tragitto del Messerschmitt che precipitava, ma subito prima vidi una stella ardente, già quasi troppo luminosa perché la si potesse fissare, la quale era la bomba che cadeva.

Infine, immersi anche la testa nel mare.

11 La bomba

In un istante, la luce morbida del sole paleocenico fu scacciata.

Un lampo purpureo e cremisi inondo l’aria sopra la superficie del mare, seguito da un rumore immane, eterogeneo, composto dallo schianto di una grande esplosione, avvolto da un ruggito, un tonfo e uno strappo. Benché attutito dallo strato d’acqua poco profondo in cui ero immerso, il fragore fu tale da indurmi a premermi le mani sulle orecchie. Gridai, e le bolle dell’aria sfuggitemi dalla bocca mi sfiorarono il viso.

Lo schianto iniziale cessò, ma il ruggito si protrasse a lungo. Esaurita la mia scorta d’aria, fui costretto a lasciar emergere la testa, ansimando, poi mi tersi l’acqua dagli occhi.

Il fragore era assordante. Benché la luce che proveniva dalla foresta fosse abbacinante, vidi una sfera gigantesca di fuoco cremisi roteare al di sopra del cuore della foresta, quasi come un essere vivente. Tutt’ intorno, gli alberi erano stati abbattuti come birilli, e i fusti schiantati di dipterocarps turbinavano nell’aria come fiammiferi. Gli animali fuggivano terrorizzati dalla foresta: corsero verso il mare una famiglia di Diatryma, con le penne arruffate e strinate, e un bell’esemplare di Pristichampus adulto, con le zampe artigliate che percuotevano la sabbia.

La sfera di fuoco aggredì il suolo spoglio come se volesse seppellirvisi. Dal centro della foresta devastata s’innalzarono nel cielo densi vapori incandescenti e frammenti di roccia, tutti evidentemente saturi di carolinum, giacché ognuno era un nucleo di energia ardente: fu come assistere alla nascita di un popolo di meteoriti.

In risposta al tocco distruttivo del carolinum, di potenza quasi divina, divampò un incendio immane, con fiamme alte decine e decine di metri, il quale, all’epicentro dell’esplosione, si trasformò in un cono di luce fluttuante. Una nube di fumo e di cenere, carica di detriti volanti, si formò come un banco di nubi tempestose al di sopra dell’incendio. Aprendosi la strada come un pugno di luce, s’innalzò dal cratere dell’esplosione una colonna di vapore surriscaldato illuminata di rosso dal basso, come da un vulcano in miniatura.

Io e Nebogipfel non potemmo fare altro che ripararci sott’acqua e rimanervi il più a lungo possibile. Negli istanti in cui fummo costretti a riemergere per respirare, sollevammo le braccia a proteggerci la testa dalla pioggia di detriti incandescenti.


Infine, dopo alcune ore, Nebogipfel dichiarò che potevamo tornare a terra.

Ero spossato. Mi sentivo le membra pesanti, avevo il volto e il collo ustionati, la sete mi tormentava. Nondimeno fui costretto a trasportare il Morlock fino a riva, perché dopo il primo, breve tratto della nostra fatica tormentosa, esaurì le sue poche forze.

La spiaggia non era quasi più riconoscibile come la bella riva dove, non molte ore prima, avevo disseppellito bivalvi in compagnia di Hilary Bond. Rivoletti fangosi serpeggiavano sulla sabbia, butterata di avvallamenti e cosparsa di rami e di tronchi fracassati e fumanti. Dalla foresta, in cui ardevano parecchi incendi, emanava un calore insopportabile. L’alta colonna purpurea suscitata dal carolinum spandeva la sua luce sul mare agitato. Oltre la carogna carbonizzata di quello che sembrava un pulcino di Diatryma, trovai una zona sabbiosa quasi sgombra. Spazzato via lo strato di cenere che vi si era accumulato, deposi Nebogipfel.

Quando trovai un ruscelletto fangoso e chiazzato di fuliggine nera, sicuramente inquinato dai resti delle piante e degli animali bruciati, la mia sete era tale che non ebbi scelta: immersi le mani a giumella e bevvi l’acqua sporca a grandi sorsate.

Con voce stridula a causa del fumo e dello sforzo, dissi: — Be’, questa è proprio una bella impresa! L’umanità è stata presente nel paleocene per meno di un anno, e già… Questo!

Nel tentativo di alzarsi, Nebogipfel spinse con le braccia, ma riuscì a sollevare a stento la testa. Perduta la maschera, aveva le grandi palpebre morbide degli occhi delicati tutte incrostate di sabbia. Allora fui commosso da una tenerezza strana. Ancora una volta il disgraziato Morlock era rimasto coinvolto, soffrendone gravemente, nelle devastazioni della guerra fra gli umani della mia specie, tanto meschina quanto presuntuosa.

Gentilmente, come se si trattasse di un bambino, lo sollevai, lo girai supino e lo aiutai ad alzarsi a sedere: — Rilassati, vecchio mio. Sei al sicuro, adesso.

Incapace di vedere, con le gambe distese, inerti come stringhe, Nebogipfel volse la testa nella mia direzione, mentre grosse lacrime gli sgorgavano dall’unico occhio non cieco, e mormorò alcune sillabe nella sua lingua aliena.

— Come? — Chinai la testa. — Cosa stai dicendo? In Inglese, Nebogipfel disse: — Non è sicuro…

— Cosa?

— Non… siamo al sicuro, qui… Niente affatto…

— Ma perché? Il fuoco non può raggiungerci, adesso.

— Non il fuoco… Le radiazioni… Persino dopo l’esplosione… Per settimane, o per mesi… Le particelle radioattive rimarranno… Le radiazioni penetrano nell’organismo… Non siamo al sicuro, qui…

Con una mano, accarezzai una guancia magra e delicata di Nebogipfel. In quel momento, ustionato, assetato oltre il credibile, provai il desiderio di dimenticare tutto, di rimanere seduto sulla spiaggia devastata senza curarmi degli incendi, delle bombe, delle particelle radioattive, in attesa di essere inghiottito dall’oscurità finale. Tuttavia, alcuni rimasugli di energia e di volontà si coagularono intorno alla preoccupazione suscitata in me dal turbamento del Morlock prostrato.

— Allora — dichiarai — ce ne andremo, e cercheremo un luogo in cui poter riposare.

Ignorando la sofferenza della pelle che mi si screpolava sul viso e sulle spalle, afferrai con entrambe le braccia il mio compagno privo di forze, e lo sollevai di peso.

Era ormai tardo pomeriggio, e la luce sbiadiva nel cielo. A circa un miglio dal luogo dell’esplosione, l’atmosfera era priva di fumo, ma la colonna cremisi che s’innalzava dal cratere illuminava il firmamento che incupiva, in maniera molto simile al modo in cui le lampade Aldis avevano illuminato la Cupola di Londra.

A un tratto, fui spaventato da un giovane Pristichampus che sbucò dalla foresta, con la bocca dalle zanne ingiallite spalancata nel tentativo di rinfrescarsi, trascinandosi dietro una zampa ferita: era quasi cieco, e assolutamente terrorizzato. Il rettile fuggì con andatura zoppicante, lanciando strida ultraterrene.

Di nuovo i miei piedi nudi calpestarono la sabbia pulita, e la brezza salmastra scacciò il fetore di fumo e di cenere che mi opprimeva. Nell’osservarne la superficie luccicante alla luce del carolinum, mi sentii grato al mare, placido e immobile nonostante la follia dell’umanità, perché mi aveva accolto e cullato, salvandomi la vita, mentre i miei simili si annientavano a vicenda a colpi di bombe.

Il mio sogno ad occhi aperti fu interrotto da un richiamo lontano, che echeggiò sulla spiaggia: — Ooohé!

Circa un quarto di miglio dinanzi a me, vidi una persona che mi camminava incontro agitando le braccia. Per un attimo rimasi del tutto incapace di muovermi, probabilmente perché in qualche recesso morboso dell’anima avevo ritenuto che il corpo di spedizione cronotico fosse stato sterminato dall’esplosione atomica, e che Nebogipfel ed io fossimo rimasti ancora una volta soli nel tempo.

Evidentemente, il superstite si era trovato abbastanza lontano dall’accampamento per rimanere illeso. Era un soldato alto, magro, con la chioma rossa, che mi sembrò di ricordare. Indossava un feltro verdazzurro, una camicia verde-cupa, alcune giberne, un paio di calzoni fasciati alle caviglie, e portava una mitragliatrice leggera.

Nell’osservare il soldato, mi chiesi quale fosse il mio aspetto. Non ne avevo idea, ma immaginavo di essere in condizioni spaventevoli, con i capelli strinati, il visto ustionato e annerito, gli occhi bianchi e stralunati, seminudo, con il fagotto inumano del Morlock in braccio.

Il militare si spinse indietro il cappello: — Gran brutto pasticcio, eh, signore? — commentò, nel brusco accento tedesco dell’Inghilterra nordorientale.

Allora lo riconobbi: — Sei Stubbins, vero?

— Proprio io, signore. — Stubbins si volse per accennare alla spiaggia.

— Stavo cartografando in quella direzione. Ero a sei o a sette miglia, quando ho visto arrivare i crucchi. Appena ho veduto innalzarsi quella grande colonna di fuoco… Be’, ho capito cos’era successo. — Dubbioso, guardò in direzione dell’accampamento.

Spostai il peso da una gamba all’altra, nel tentativo di celare la fatica:

— Non possiamo tornare al campo. Ci sono ancora gli incendi, e Nebogipfel dice che le radiazioni sono molto pericolose.

— Chi?

Per tutta risposta, sollevai un poco il Morlock.

— Oh, lui… — Stubbins si grattò la nuca, con un raspare della chioma corta e irta.

— Non puoi fare nulla per aiutare i tuoi compagni, Stubbins… almeno per il momento.

Il soldato sospirò: — Be’, e allora, signore, che cosa facciamo?

— Credo che dovremmo allontanarci ancora lungo la spiaggia e cercare un rifugio per la notte. Non credo che correremo rischi: dubito che qualunque animale del paleocene sarebbe tanto poco saggio da aggredire gli umani, stanotte, dopo tutto quello che è successo. Ma forse converrà accendere un fuoco. Hai fiammiferi, Stubbins?

— Oh, sì, signore. — Il soldato si percosse un taschino, scuotendo rumorosamente una scatola di fiammiferi. — Non si preoccupi.

— Non mi preoccupo affatto.

Ripresi a camminare sulla spiaggia, benché le braccia mi dolessero in maniera quasi insopportabile e le gambe mi tremassero.

Notata la mia spossatezza, Stubbins, con silenziosa gentilezza, si mise la mitragliatrice ad armacollo e prese in braccio il Morlock svenuto. Era magro, ma molto robusto: parve portare Nebogipfel senza fatica.

Continuammo la marcia finché trovammo al bordo della foresta una radura adatta, dove dormimmo all’addiaccio.

12 Le conseguenze del bombardamento

La mattina successiva albeggiò serena e fresca.

Mi destai prima di Stubbins. Invece, Nebogipfel rimase privo di conoscenza. Mi recai alla spiaggia, fino alla battigia, mentre il sole s’innalzava al di sopra del mare dinanzi a me, già diffondendo un calore intenso. Si udivano gli schiocchi e i trilli prodotti dalla fauna della foresta, già assorta nelle sue piccole preoccupazioni. Una forma nera e liscia, che mi parve una razza, scivolò nell’acqua a poche centinaia di metri dalla riva.

In quei primi istanti del nuovo giorno, fu come se il mondo paleocenico fosse tanto vigoroso e indenne quanto era stato prima dell’arrivo di Gibson e del suo corpo di spedizione. Eppure la colonna di fuoco purpureo s’innalzava ancora dalla ferita al cuore della foresta, sino a un’altezza di oltre trecento metri, scagliando grumi di roccia o di terra incandescente, che tracciavano parabole luminose nell’aria. Al di sopra indugiava ancora la nube di polvere e di vapore a forma di ombrello, sfrangiata ai bordi a causa della brezza.

Facemmo colazione con acqua e con polpa di noci di cocco. Debole e avvilito, parlando con voce fioca e rauca, Nebogipfel consigliò a Stubbins e a me di non ritornare all’accampamento bombardato, sostenendo che, per quanto ne sapevamo, noi tre eravamo gli unici esseri umani superstiti nel paleocene, e dovevamo preoccuparci della nostra sopravvivenza. A suo parere, avremmo dovuto trasferirci ad alcune miglia di distanza e accamparci in qualche altro luogo adatto, al sicuro dalle radiazioni del carolinum.

Tuttavia, gli occhi di Stubbins, nonché le profondità stesse della mia interiorità, dicevano che agire così sarebbe stato impossibile per entrambi.

Finalmente, con una schiettezza che sopraffece la sua deferenza naturale, Stubbins dichiarò: — Io torno. Capisco quello che sta dicendo, signore, ma il fatto è che là potrebbero esservi feriti e moribondi. Semplicemente, non posso abbandonarli. — E si volse a me, con il viso onesto e sincero corrugato per la preoccupazione. — Non sarebbe giusto, vero, signore?

— No, Stubbins: non lo sarebbe affatto.

Fu così che, mentre il giorno era ancora giovane, Stubbins e io ripercorremmo la spiaggia in direzione dell’accampamento devastato. Il soldato vestiva ancora l’uniforme verde, che aveva superato pressoché indenne le traversie del giorno precedente. Io, naturalmente, portavo soltanto ciò che restava dei calzoni cachi che avevo indossato al momento del bombardamento. Avevo perduto persino gli stivali, quindi mi sentivo peculiarmente male equipaggiato. Non avevamo neppure una cassetta del pronto soccorso: soltanto la piccola quantità di bende e di unguenti di cui era fornito Stubbins. Però ciascuno di noi portava a tracolla cinque o sei gusci di noce di cocco pieni d’acqua, con cui avremmo forse potuto arrecare sollievo agli eventuali superstiti.

Dal luogo dell’esplosione proveniva un rumore cupo, continuo e monotono, simile al fragore di una cascata, che faceva tremare il suolo. Avevamo promesso a Nebogipfel di fermarci a un miglio dal cratere. Quando ciò avvenne, il sole era alto nel cielo. La nube letale a forma di ombrello gettava su di noi la sua ombra. La luminosità purpurea e cremisi prodotta dalla reazione perdurante macchiava la spiaggia dinanzi a me.

Ci bagnammo i piedi nel mare. Mi riposai le ginocchia e i polpacci dolenti, godendo del calore del sole sul viso. Per colmo d’ironia, la giornata rimase bella, con il cielo sereno e il mare immerso nella luce. Notai che la marea aveva già riparato in gran parte ai danni inflitti alla spiaggia dalle attività umane il giorno precedente: per esempio, le bivalvi si nascondevano di nuovo nella sabbia fuligginosa, e una tartaruga passò tanto vicino, sulla battigia, che avremmo potuto toccarla.

Mi sentii vecchissimo, incommensurabilmente stanco, per nulla in armonia con l’alba del mondo.

Lasciata la spiaggia, ci addentrammo timorosamente nell’oscurità della foresta devastata, con l’intenzione di girare intorno all’accampamento tenendoci alla distanza di sicurezza di un miglio. Bastava la più rudimentale conoscenza della geometria per calcolare che avremmo dovuto percorrere sei miglia prima di completare il cerchio tornando alla spiaggia. Sapevo però che sarebbe stato difficile, se non impossibile, tracciare una circonferenza precisa, quindi prevedevo che ci attendesse una marcia considerevolmente più lunga, di alcune ore in tutto.

Anche a quella distanza dal luogo dell’esplosione, molti alberi, che altrimenti sarebbero diventati piante secolari, erano stati sradicati e schiantati in un istante. Fummo dunque costretti a scavalcare tronchi carbonizzati e ad attraversare ammassi di fronde bruciate. Più lontano, si vedevano interi gruppi di dipterocarps spogli e anneriti, trasformati dalle fiammate in quelli che sembravano mazzi di fiammiferi bruciati. Dagli squarci aperti nella volta delle fronde, la luce del sole penetrava a fasci e cascate fino al suolo, eppure rimanevano zone d’oscurità e di penombra. La luce purpurea del carolinum diffondeva ovunque una sfumatura sinistra.

Naturalmente, gli animali superstiti, i mammiferi, gli uccelli e persino gli insetti, erano fuggiti, lasciando una quiete sovrannaturale, turbata soltanto dal fruscio dei nostri passi, oltre che dal respiro caldo e ininterrotto della conflagrazione.

Molti alberi caduti fumavano ancora, o rosseggiavano come braci. Per non scottarmi, mi fasciai d’erba i piedi, ricordando di avere fatto lo stesso per uscire dalla foresta che avevo incendiato nell’anno 802.701. Incontrammo numerosi corpi di animali rimasti coinvolti in una catastrofe che superava la loro comprensione. La decomposizione era già iniziata, diffondendo un fetore di morte.

Una volta, calpestai i resti putrefatti di quello che mi parve un planetetherium, e il povero Stubbins fu costretto ad aspettare mentre, con grugniti di disgusto, mi raschiavo i resti dell’animaletto dalla pianta del piede.

Dopo circa un’ora, trovammo un corpo curvo e immoto. Il fetore era tale che fui costretto a coprirmi il viso con il fazzoletto. Sul momento, ebbi l’impressione che quell’essere bruciato e sfigurato fosse un animale, forse una giovane Diatryma, ma Stubbins si lasciò sfuggire un’esclamazione. Affiancandomi a lui, vidi, all’estremità di un ramo annerito, una mano di donna che, per effetto di qualche bizzarra casualità, non era neppure lievemente ustionata: aveva le dita piegate come nel sonno, e un gioiello d’oro che luccicava all’anulare.

Il povero Stubbins, allontanatosi fra gli alberi, vomitò, mentre io mi sentivo sciocco, impotente e sgomento, là, nella foresta devastata, con i gusci pieni d’acqua a tracolla.

— E se fosse successo a tutti, signore? — chiese Stubbins. — Se fossero tutti… così? — Nel dir questo, non riuscì a guardare la salma, e neppure a indicarla. — E se non ci fosse nessun superstite? Se fossero tutti morti, bruciati… così?

Gli posai una mano sopra una spalla, cercando di attingere a una forza che non sentivo di possedere: — In tal caso, torneremo alla spiaggia e tenteremo di sopravvivere. Faremo del nostro meglio. Non abbiamo altra scelta, Stubbins. Ma non devi cedere, adesso: la nostra ricerca è appena incominciata.

Gli occhi del soldato sembravano bianchi, nel viso nero di fuliggine come un camino: — Ha ragione: non bisogna cedere. Faremo del nostro meglio: non c’è altra scelta. Eppure…

— Sì?

— Oh… Nulla. — Così dicendo, Stubbins si risistemò i gusci di noce ad armacollo, preparandosi a rimettersi in marcia.

Affinché capissi, non fu necessario che il soldato mi esprimesse il suo sentimento. Se il corpo di spedizione fosse stato sterminato, se noi due e il Morlock fossimo stati gli unici superstiti, allora, come anche Stubbins sapeva bene, non avremmo potuto fare altro che restare seduti nelle nostre capanne sulla spiaggia in attesa della morte. Poi, la marea avrebbe coperto le nostre ossa, e se fossimo stati fortunati avremmo lasciato qualche fossile, che forse, un giorno, dopo cinquanta milioni di anni, sarebbe stato trovato da qualche cittadino curioso intento a vangare in un orto o in un giardino di Hampstead o di Kew.

Sarebbe stato un destino lugubre e vano. Sicuramente, anche Stubbins si domandava quale fosse il meglio che si potesse trarre da un’esistenza simile.

In un silenzio tetro, ci allontanammo dal corpo carbonizzato della giovane donna.


Nella foresta, non avevamo nessun riferimento per calcolare il trascorrere del tempo: il sole sembrava immobile nel cielo, le ombre dei ceppi anneriti non sembravano accorciarsi né spostarsi. Ci sembrò di attraversare quella devastazione spaventevole per un tempo interminabile, ma in realtà fu forse soltanto un’ora più tardi che udimmo rumori di vegetazione schiantata provenire dalle profondità della foresta.

Sulle prime non vedemmo che cosa li provocasse. Attendemmo, trattenendo il fiato, Stubbins con gli occhi sgranati di paura, bianchi come l’avorio nella semioscurità.

Dall’ombra fra le piante carbonizzate, inciampando e sbattendo contro i ceppi, emerse un essere snello, evidentemente sofferente, e indubbiamente umano.

Gli corsi incontro con il cuore in gola, senza curarmi del sottobosco bruciato che si sfaldava sotto i miei piedi. Accanto a me corse Stubbins.

Era una donna, irriconoscibile con la testa e il busto anneriti dalle ustioni. Mi cadde fra le braccia con un sospiro soffocato, che parve di sollievo.

Nell’aiutarmi a farla sedere, addossata a un ceppo, Stubbins mormorò frasi spezzate d’incoraggiamento: — Non preoccuparti… Guarirai… Ti curerò io… — E continuò così, con voce strozzata.

Dell’uniforme della donna restavano soltanto brandelli anneriti. Le braccia erano ustionate, soprattutto nella parte inferiore degli avambracci.

Anche il viso, che doveva avere guardato l’esplosione, era ustionato, però era parzialmente illeso intorno agli occhi e alla bocca. Era evidente che, al momento della conflagrazione, la donna si era protetta il viso con le braccia.

Finalmente, la donna aprì gli occhi, che erano di un azzurro penetrante, poi dischiuse la bocca, esalando un sussurro da insetto. Reprimendo la ripugnanza e l’orrore suscitati in me dal naso e dalle orecchie sfigurati dalle fiamme, accostai un orecchio alle labbra.

— Acqua… — mormorò la sopravvissuta. — In nome d’Iddio… Acqua…

Era Hilary Bond.

13 Il racconto di Bond

Per alcune ore, Stubbins e io restammo con Hilary, facendole sorseggiare acqua dai gusci. Di quando in quando, Stubbins si allontanò per compiere brevi perlustrazioni circolari nella foresta, chiamando ad alta voce per attirare l’attenzione di altri eventuali superstiti. I medicinali di cui disponeva Stubbins, adatti a curare lesioni lievi come gli ematomi e i tagli, furono del tutto inadeguati per le ustioni di Bond, che erano tanto gravi quanto estese.

Debole, ma in pieno possesso delle sue facoltà, Hilary riuscì a fornirmi un resoconto coerente di ciò che aveva visto.

Dopo avermi lasciato alla spiaggia, si era addentrata il più possibile nella foresta, tuttavia si era trovata a non meno di un miglio dall’accampamento allorché il Messerschmitt vi era giunto.

— Ho visto cadere la bomba — sussurrò Bond. — Da come ardeva ho capito che era carolinum… Non avevo mai visto bombe come quella, ma ne avevo sentito parlare… Ho pensato che fosse finita per me… Sono rimasta paralizzata come un coniglio in preda al terrore… O come una pazza… Quando ho ripreso il controllo di me stessa, ho capito di non avere il tempo di gettarmi al suolo o dietro un albero… Ho alzato le braccia a proteggere il viso… Il lampo è stato accecante, di un’intensità sovrannaturale… Mi ha ustionata… È stato come se si spalancassero le porte dell’inferno… Ho sentito le guance sciogliersi… Ho visto la punta del naso ardere, come una candelina… È stata l’esperienza più… — Hilary s’interruppe, in preda a un accesso di tosse.

L’esplosione era stata “come un vento immane”. Catapultata all’indietro, Hilary era rotolata al suolo fino a sbattere contro un albero, quindi era svenuta.

Allorché aveva ripreso conoscenza, la colonna di fiamma cremisi e porpora s’innalzava dalla foresta come un demone, circondata dagli spiriti familiari del suolo fuso e del vapore. Tutt’ intorno, gli alberi erano schiantati e bruciati, anche se Bond si era trovata per puro caso abbastanza lontano dall’epicentro della conflagrazione per evitare i danni peggiori. Per giunta, non era stata colpita da rami caduti o da altri oggetti.

Si era toccata il naso, e ricordava di avere provato soltanto una curiosità appannata nel sentirsene staccare un pezzo.

— Non ho provato dolore, però… È stato molto strano… Anche se — aggiunse torvamente Bond — non ho tardato ad essere ricompensata, per questo…

Ascoltai in un silenzio lugubre, con il ricordo, vivo nella mente, della ragazza snella e piuttosto impacciata con cui avevo raccolto bivalvi, poche ore prima di quell’esperienza terribile.

In seguito, Hilary aveva dormito. Al risveglio, aveva trovato la foresta molto più buia, perché molti incendi si erano estinti. Per qualche ragione, la sua sofferenza si era attenuata, tanto da indurla a chiedersi se ciò fosse dovuto alla distruzione delle connessioni nervose.

Con uno sforzo enorme, perché era ormai molto indebolita dalla sete, era riuscita ad alzarsi e ad avvicinarsi all’accampamento.

— Ricordo la luce del carolinum, sovrannaturale e purpurea, che diventava sempre più intensa mentre avanzavo fra gli alberi… Il calore aumentava… Mi sono chiesta quanto avrei potuto avvicinarmi, prima di essere costretta a tornare indietro… Sono arrivata al bordo della radura… La luce del carolinum mi rendeva quasi cieca… Sentivo un fragore, come di una cascata… La bomba era caduta proprio al centro dell’accampamento… I tedeschi hanno la mira precisa… Era come un piccolo vulcano che eruttava fumo e fiamme… Il campo era distrutto, spazzato dal fuoco e dallo spostamento d’aria… Tre corazzati erano rovesciati come giocattoli, e dilaniali… Il quarto era sventrato, ma per il resto quasi intatto… Non ho visto nessuno… Mi aspettavo, credo… — Bond esitò. — Orrori… Mi aspettavo orrori… Ma non c’era nulla… Non è rimasto nulla di nessuno… Tranne una cosa… La cosa più strana… — Mi posò su un braccio una mano che il fuoco aveva trasformato in un artiglio. — La vernice del corazzato quasi intatto era tutta gonfia e screpolata… tranne in una zona, una sagoma… Sembrava l’ombra di un uomo rannicchiato… — Mi guardò, con gli occhi scintillanti nel volto sfigurato. — Capisce? Era l’ombra… di un soldato… Non so chi fosse… Stava così, al momento dell’esplosione… che l’ha interamente dissolto, carne e ossa… Eppure è rimasta l’ombra sul metallo verniciato… — La voce rimase calma e impassibile, mentre gli occhi di Hilary si colmavano di lacrime. — Non è strano?

Per qualche tempo, Bond aveva camminato, vacillando, lungo il bordo della radura. Ormai convinta che non vi fossero superstiti, aveva pensato a cercare acqua, cibo, medicinali. Ma era stata troppo disorientata, troppo confusa, nonché afflitta da una sofferenza tale da minacciare di sopraffarla.

Con le mani ustionate, non aveva potuto frugare sistematicamente tra i resti carbonizzati del campo.

Così, si era allontanata, con l’intenzione di cercare di giungere al mare.

Di ciò che le era accaduto in seguito aveva soltanto ricordi confusi e frammentari. Aveva vagato nella foresta per tutta la notte, però si era allontanata tanto poco dal luogo dell’esplosione, da indurmi a supporre che avesse vacillato in cerchio fin quando Stubbins e io l’avevamo trovata.

14 Superstiti

Il meglio che si potesse fare, decidemmo Stubbins ed io, era trasportare Hilary fuori della foresta, lontano dalle emissioni dannose del carolinum. Al nostro accampamento sulla spiaggia, Nebogipfel, con le sue vaste conoscenze, avrebbe forse potuto trovare un modo per lenire le sue sofferenze. Era chiaro, tuttavia, che Hilary non aveva più la forza di camminare. Con due rami caduti, lunghi e diritti, con i miei calzoncini e con la camicia di Stubbins, costruimmo una barella, su cui, badando a farla soffrire il meno possibile, adagiammo Hilary. Quando la sollevammo, ella gridò, ma poi, una volta distesa sulla barella, si sentì meglio.

Così, riattraversammo la foresta bruciata per tornare alla spiaggia. Stubbins mi precedeva, mostrandomi la schiena nuda e magra, lustra di sudore, sporca di fuliggine e di polvere. Nella semioscurità, aprì la strada, urtando le liane e i rami bassi, però senza lamentarsi, continuando a reggere saldamente la barella. Quanto a me, lo seguii barcollando, seminudo, spossato, con i muscoli tremanti di sforzo. Talvolta mi parve impossibile poter sollevare una gamba per compiere un altro passo, o continuare a stringere le mani intorpidite intorno ai rami scabri. Eppure la risolutezza incrollabile di Stubbins m’indusse sempre a proseguire la marcia, nascondendo la fatica.

Priva di conoscenza, le membra scosse da tremiti convulsi, Hilary si lasciò sfuggire di quando in quando gemiti e grida fioche, mentre echi di sofferenza le si diffondevano nel sistema nervoso.

Giunti alla spiaggia, deponemmo Hilary all’ombra, al margine della foresta. Tenendole sollevata la testa con una mano, Stubbins le fece sorseggiare un po’ d’acqua. La sensibilità e la gentilezza predominavano sulle sue maniere rozze: sembrava infondere tutto il proprio essere nelle più semplici gentilezze nei confronti di Bond. Mi sembrava che in ciò fosse motivato soprattutto da pura e semplice compassione, in quanto era fondamentalmente buono e gentile. D’altronde, compresi che gli sarebbe stato insopportabile sopravvivere a tutti i suoi compagni soltanto perché gli era stato assegnato, per puro caso, un incarico che lo aveva allontanato dall’accampamento proprio prima dell’attacco nemico. Prevedevo dunque che avrebbe dedicato in gran parte i giorni che gli restavano ad atti di contrizione di quel genere.

Seminudi, imbrattati di fuliggine e di cenere, con la donna sofferente sulla barella, Stubbins ed io riprendemmo la marcia sulla sabbia umida e solida del bagnasciuga, fresca fra le nostre dita, con la risacca spumeggiante che ci lambiva le caviglie.

All’accampamento, Nebogipfel si dedicò subito a curare Hilary. Intralciato dalla sollecitudine smaniosa di Stubbins, mi lanciò una serie di occhiatacce ostili, finché mi decisi a prendere il soldato per un braccio: — Ascolta, vecchio mio… Il Morlock potrà sembrarti un po’ strano, però di medicina sa molto più di me, e anche di te, direi. Credo quindi che sia meglio andarcene, e lasciare la capitana alle sue cure.

Per tutta risposta, Stubbins aprì e chiuse minacciosamente le mani enormi.

Allora ebbi un’idea: — Potremmo compiere un ultimo tentativo per scoprire se vi sono eventuali altri superstiti. Perché non accendiamo un falò? Usando legna verde, si produrrà un fumo visibile da miglia di distanza.

Senza indugio, Stubbins si addentrò nella foresta per seguire alacremente il suggerimento. Nell’osservarlo mentre trascinava rami fuori della foresta, come un animale da soma, per poi ammassarli sulla spiaggia, fui lieto di avere escogitato un lavoro che gli consentisse di sfogare utilmente l’energia di cui traboccava.

Frattanto, Nebogipfel collocò saldamente nella sabbia, in fila, alcuni gusci di noce, ciascuno contenente un preparato latteo di sua invenzione. Preso a prestito il coltello a serramanico di Stubbins, tagliò gli abiti per spogliare Bond, poi, con le sue morbide dita morlock, incominciò a spalmare gli unguenti sulle ustioni.

Ancora priva di conoscenza, Hilary dapprima si lamentò, ma dopo un poco sembrò smettere di soffrire, per passare a un sonno più profondo e più tranquillo.

— Che cos’è quella specie di pomata?

— Un unguento di latte di cocco, di olio di bivalve e di piante raccolte nella foresta — spiegò Nebogipfel, continuando a spalmare e a massaggiare. — Allevia la sofferenza provocata dalle ustioni. — Nel risistemarsela più comodamente sul viso, lasciò sulla maschera tracce lustre di unguento.

— Sono impressionato dalla previdenza che hai dimostrato nel prepararlo.

— Dopo la catastrofe che vi siete autoinflitti ieri — rispose freddamente Nebogipfel — non era necessario essere molto previdenti, per capire che vi sarebbero state ustioni da curare.

Autoinflitti? pensai, irritato. Nessuno di noi ha chiesto ai maledetti tedeschi di viaggiare nel tempo per venirci a bombardare con il carolinum! E sbottai: — Accidenti a te! Stavo soltanto cercando di congratularmi per quello che stai facendo per questa ragazza!

— Io, invece, preferirei non dover esercitare la mia compassione e le mie capacità terapeutiche sulle vittime sofferenti di simili follie.

— Oh… Dannazione! — Ciò detto, pensai che talvolta il Morlock era davvero impossibile: del tutto inumano!


Alimentando il falò con legna verde, che sibilava e crepitava, Stubbins ed io innalzammo al cielo una colonna di fumo, bianca come una nuvola. Quando il soldato ebbe compiuto alcune ricerche brevi e vane nella foresta, fui costretto a promettergli che, se l’espediente del falò non avesse prodotto risultati entro pochi giorni, saremmo ritornati sul luogo dell’esplosione.

Il quarto giorno dopo il bombardamento cominciarono ad arrivare altri superstiti attirati dal nostro segnale: soli o a coppie, ustionati e avviliti, con le uniformi a brandelli. In breve, Nebogipfel si trovò a dirigere un ospedale da campo di dimensioni rispettabili: una fila di giacigli di fronde di palma all’ombra dei dipterocarps. Coloro che ne erano in grado lo assistettero, sia improvvisandosi infermieri, sia procurando acqua, cibo e piante medicinali.

Per qualche tempo sperammo che vi fosse altrove un altro accampamento meglio equipaggiato del nostro. Pensai che Guy Gibson potesse essere sopravvissuto, e che in tal caso, con la sua calma e con il suo pragmatismo, avesse organizzato eventuali altri superstiti.

Da questo punto di vista, suscitò un breve scoppio di ottimismo la comparsa, sulla spiaggia, di un veicolo leggero a motore, guidato da due militari: due giovani donne. Restammo però delusi nell’apprendere che si trattava soltanto delle due ragazze a cui era stata affidata la ricognizione più estesa: percorrere la spiaggia in direzione ovest alla ricerca di un passaggio per l’interno.

Per alcune settimane, perlustrammo sistematicamente la spiaggia e la foresta, trovando talvolta le spoglie di qualche misera vittima del bombardamento, che sembrava essere sopravvissuta all’esplosione soltanto per morire poco tempo dopo in seguito alle ferite, senza riuscire ad allontanarsi o a chiedere aiuto. In alcuni casi riuscimmo a recuperare qualcosa dell’equipaggiamento del corpo di spedizione. Nebogipfel attribuiva la massima importanza a qualunque pezzo di metallo, perché era convinto che sarebbe trascorso parecchio tempo prima che la nostra piccola colonia fosse in grado di estrarre e di lavorare i metalli. Comunque, non trovammo nessun altro superstite: le due donne del veicolo furono le ultime ad unirsi a noi.

Anche quando avevamo ormai perduto da tempo ogni speranza ragionevole di trovare altri sopravvissuti, però, continuammo a lasciare acceso il falò giorno e notte.

In tutto, su oltre cento militari del corpo di spedizione, ne sopravvissero al bombardamento e alle sue conseguenze soltanto ventidue: undici donne, nove uomini, e Nebogipfel. Le salme di Guy Gibson e del medico gurkha non furono mai trovate.

Così, ci dedicammo a curare i feriti, a procurare tutto ciò che era necessario per consentirci di sopravvivere giorno dopo giorno, e a meditare su come avremmo organizzato la nostra colonia in futuro. In conseguenza della distruzione dei corazzati, infatti, fu presto evidente a noi tutti che non avremmo potuto tornare ai nostri secoli di provenienza: dopotutto, il mondo paleocenico avrebbe accolto le nostre ossa.

15 Il villaggio

Quattro di noi morirono a causa delle ustioni e di altre ferite, poco tempo dopo essere arrivati all’accampamento. Se non altro, non parvero soffrire molto, e io mi chiesi se Nebogipfel non avesse modificato i medicinali di sua composizione in maniera tale da alleviare e abbreviare l’agonia di quei poveretti.

Tuttavia, non comunicai a nessuno i miei sospetti.

Ogni perdita aggravò l’afflizione della nostra piccola colonia. Personalmente mi sentivo intorpidito, ormai incapace di reazioni emotive, come se la mia interiorità fosse stracolma d’orrore. Nell’osservare i giovani militari scoraggiati dalle lacere uniformi insanguinate, impegnati nelle loro tetre attività, compresi che quelle nuove morti, nello squallore brutale e primitivo in cui eravamo costretti a lottare per sopravvivere, obbligava ciascuno di loro a confrontarsi nuovamente con la propria mortalità.

La situazione peggiorò alcune settimane più tardi, allorché una nuova malattia si diffuse fra le nostre schiere sparute. Oltre ad assalire alcuni feriti, essa, in maniera assai inquietante, contagiò anche alcuni di coloro che sembravano essere sopravvissuti indenni al bombardamento. I sintomi erano violenti: vomito, emorragia, caduta dei capelli, delle unghie e persino dei denti.

— È come temevo — sussurrò Nebogipfel, dopo avermi tratto in disparte. — Sono le conseguenze dell’esposizione alle radiazioni di carolinum.

— Qualcuno di noi riuscirà a salvarsi, oppure… soccomberemo tutti?

— Non possiamo curare i malati in nessun modo: possiamo soltanto alleviare le sofferenze più gravi. Per il resto…

— Sì?

Il Morlock infilò le dita sotto la maschera per massaggiarsi gli occhi: — Non esiste nessun livello di radioattività che sia sicuro: esistono soltanto fattori di rischio, e possibilità. Potremmo sopravvivere tutti, oppure… perire tutti.

Tali notizie, naturalmente, aumentarono la mia angoscia. Vedere quei giovani, che già portavano le cicatrici di numerosi anni di guerra, giacere inerti sulla sabbia per colpa dei loro simili, affidati esclusivamente alle cure inesperte di un Morlock, un alieno naufrago nel tempo, mi faceva vergognare della specie alla quale appartenevo, nonché di me stesso.

— Credo che, un tempo, una parte di me avrebbe forse affermato che in definitiva questa guerra viene combattuta a fin di bene, perché potrebbe distruggere il vecchio ordine fossilizzato e aprire il mondo al mutamento. E ancora, un tempo credevo che l’umanità fosse dotata di una saggezza innata, quindi avrei detto che, dopo tante distruzioni, il buon senso avrebbe finito col prevalere, ponendo fine alla guerra.

— Il buon senso? — chiese Nebogipfel, massaggiandosi la faccia villosa.

— Be’, così credevo… Tuttavia, non avevo nessuna esperienza reale della guerra. Una volta che gli umani hanno incominciato a darsele di santa ragione, ben poco è in grado di fermarli prima che siano sopraffatti dalla spossatezza e dalle perdite. Adesso capisco che la guerra è assolutamente insensata, quale che ne possa essere l’esito…

D’altra parte, confidai a Nebogipfel di essere profondamente impressionato dall’altruismo e dalla devozione che i pochi superstiti del corpo di spedizione dimostravano nell’aiutarsi a vicenda. Ridotta la nostra situazione all’essenziale, ossia alla semplice sofferenza umana, si erano dissolte le tensioni di classe, di razza, di credo e di rango, che avevo potuto osservare all’interno del corpo di spedizione prima del bombardamento.

Adottando il punto di vista neutro di un Morlock, osservai il complesso contraddittorio di forze e di debolezze insito nell’animo della mia specie, e scoprii così che gli umani erano al tempo stesso più brutali e, sotto certi aspetti, più angelici, di quanto fossi stato indotto a credere dalla scarsa esperienza dei miei primi quattro decenni di vita.

— È un po’ tardi — ammisi — per imparare lezioni tanto profonde sulla stirpe con cui ho diviso il pianeta per oltre quarant’anni… Nondimeno, è così: ora mi sembra che, se l’umanità vorrà mai ottenere la pace e la stabilità, almeno prima di evolversi in qualche nuova razza, come i Morlock, allora il suo processo di unificazione, in quanto specie, dovrà cominciare dal fondo, ossia dalla costruzione delle fondamenta più solide: le uniche vere fondamenta, cioè la solidarietà istintiva nei confronti dei propri simili. — Ciò detto, scrutai Nebogipfel: — Capisci che cosa intendo dire? Credi che il mio discorso abbia un senso?

Senza approvare né contraddire la mia ultima razionalizzazione, Nebogipfel si limitò a ricambiare il mio sguardo con calma analitica.


Le radiazioni uccisero altri tre di noi.

Altri ancora, come per esempio Hilary Bond, che perse molti capelli, manifestarono alcuni sintomi, nondimeno sopravvissero. Altri, invece, incluso colui che più di ogni altro si era avvicinato al luogo dell’esplosione, non parvero subire le conseguenze dell’esposizione alle radiazioni. In ogni modo, Nebogipfel mi avvertì che non potevamo ancora considerarci al sicuro dal carolinum: chiunque di noi avrebbe potuto essere afflitto, negli anni successivi, da altre gravi malattie, come i tumori.

Fra i superstiti, Hilary Bond era la più alta in grado. Così, non appena fu in grado di alzarsi dal suo giaciglio, assunse il comando, dimostrando una calma autorità. Spontaneamente, il nostro gruppo si sottopose a una sorta di disciplina militare, anche se molto semplificata, giacché i soldati superstiti erano soltanto tredici. Ebbi l’impressione che ritrovarsi in un contesto familiare fosse di notevole conforto ai militari, in particolare ai più giovani. Naturalmente, tale organizzazione non era destinata a durare. Se la nostra colonia avesse prosperato, creando una nuova generazione, allora una gerarchia di tipo militare non sarebbe stata desiderabile né praticabile. Per il momento, comunque, assolveva alle necessità, e tanto bastava.

I soldati, che avevano coniugi, genitori, amici, e persino figli, “a casa”, nel ventesimo secolo, dovettero abituarsi al fatto che nessuno di noi avrebbe potuto ritornarvi. Mentre ciò che restava loro dell’equipaggiamento militare si disfaceva lentamente nell’umidità della giungla, si resero conto che, in futuro, avrebbero potuto contare esclusivamente sui prodotti del loro lavoro e della loro ingegnosità, nonché sull’aiuto reciproco.

Sempre preoccupato dai pericoli delle radiazioni, Nebogipfel insistette affinché costruissimo un villaggio più lontano, lungo la costa. Sfruttando al meglio il veicolo a motore fin tanto che disponeva di combustibile, effettuammo alcune perlustrazioni. Alla fine, scegliemmo il delta di un fiume situato cinque miglia a sudovest del campo del corpo di spedizione, ossia, giudicai, nelle vicinanze di Surbiton: in futuro, la pianura alluvionale, fertile e irrigata, ci avrebbe consentito di sviluppare l’agricoltura.

Il trasferimento fu compiuto in maniera graduale, perché fu necessario trasportare parecchi feriti per gran parte del viaggio. Dapprima usammo il veicolo, la cui provvista di carburante, però, non tardò ad esaurirsi. Su insistenza di Nebogipfel, non lo abbandonammo, perché avrebbe costituito un’autentica miniera di gomma, di vetro, di metallo e di altri materiali. Così, per l’ultimo viaggio, lo spingemmo come una carriola sulla sabbia, carico di feriti e di provviste.

Mentre noi quattordici superstiti, laceri e rozzamente bendati, procedevamo faticosamente sulla spiaggia, pensai che un osservatore distaccato avrebbe difficilmente capito che eravamo, in quell’epoca, gli unici rappresentanti di una specie che in futuro avrebbe distrutto interi pianeti.

Nei pressi del villaggio, la foresta era pressoché indenne, ma ciò non bastò a farci dimenticare il bombardamento: di notte, ad oriente, si vedeva ancora la luce purpurea, che, secondo Nebogipfel, sarebbe rimasta visibile ancora per molti anni. Spesso, spossato dal lavoro quotidiano, sedetti alla periferia del villaggio, in disparte dalle luci e dalle conversazioni, ad osservare le stelle che si accendevano sopra il vulcano creato dall’uomo.

All’inizio costruimmo soltanto una fila di tettoie di rami e di fronde. Una volta assicurata una provvista costante e sufficiente di cibo e di acqua, ci dedicammo a un programma più ambizioso. Per prima cosa, concordammo di costruire una casa comune abbastanza spaziosa da ospitarci tutti in caso di tempeste o di altri disastri. Risolutamente, iniziammo la costruzione di un fabbricato simile a quello che avevo incominciato per me e per Nebogipfel, però di grandi dimensioni: una palafitta.

Non lontano dal fiume disboscammo un campo, affinché Nebogipfel potesse dirigere la coltivazione e la selezione dei vegetali indigeni, da cui si sarebbero sviluppate in futuro, con pazienza, molte piante utili. Per pescare, costruimmo una piroga.

Con molti sforzi, catturammo una famiglia di Diatryma, che chiudemmo in un recinto costruito appositamente. Gli uccelli fuggirono diverse volte, causando disastri nella comunità, tuttavia li ricatturammo ogni volta, e perseverammo nel tentativo di addomesticarli, perché allevarli allo scopo di ricavarne carne e uova era una prospettiva assai gradevole. Effettuammo persino alcuni esperimenti allo scopo di stabilire se fosse possibile indurli a trainare l’aratro.

Nei miei confronti, i coloni manifestarono una cortese deferenza, sia perché si confaceva alla mia età (com’ero il primo a riconoscere), sia perché avevo maggiore esperienza del paleocene. Ciò consentì che mi fosse affidato, all’inizio, l’incarico di dirigere alcuni progetti. In breve tempo, però, i giovani mi surclassarono, grazie alla loro inventiva, nonché all’esperienza, rapidamente accumulata, nel sopravvivere nella giungla. Non tardai a rendermi conto che manifestavano nei miei riguardi una certa divertita tolleranza. In ogni modo, continuai a partecipare con entusiasmo alle attività della colonia.

Quanto a Nebogipfel, rimase, abbastanza naturalmente, isolato all’interno della comunità di giovani umani.

Una volta guariti i feriti e i malati, e divenuta meno necessaria la sua opera, Nebogipfel trascorse gran parte del suo tempo lontano dal villaggio, visitando la nostra vecchia capanna, rimasta sulla spiaggia, alcune miglia a nordest, ed esplorando la foresta. Però non mi accordò la sua confidenza a proposito degli scopi delle sue perlustrazioni. Memore della vettura temporale a cui si era dedicato prima dell’arrivo del corpo di spedizione, sospettai che ne avesse ripreso la ricostruzione. Mi parve, tuttavia, che ciò fosse del tutto inutile, in quanto la plattnerite dei corazzati era stata distrutta dal bombardamento. In ogni modo, non cercai di ostacolare Nebogipfel nelle sue attività, perché giudicavo che fra noi tutti fosse il più isolato, il più privo della compagnia dei suoi simili, e dunque, forse, il più bisognoso di tolleranza.

16 La fondazione di Prima Londra

Nonostante l’esperienza terribile che avevano dovuto sopportare, i coloni erano giovani, avevano grandi capacità di recupero, e sapevano essere fiduciosi, risoluti, perseveranti. Poco a poco, una volta cessati i decessi provocati dalle radiazioni e una volta chiaro che non ci trovavamo in pericolo imminente di morire di fame o di essere travolti da una piena, riacquistammo, almeno in parte, l’allegria e la voglia di vivere.

Una sera, mentre le ombre dei dipterocarps si allungavano in direzione del mare, Stubbins mi trovò seduto, come al solito, alla periferia del villaggio, intento ad osservare la luce sinistra della bomba. Con una timidezza imbarazzante, mi chiese, sbalordendomi, se fossi disposto a partecipare a una partita di calcio. Replicare che non avevo mai giocato neppure una volta in vita mia non valse a nulla, così che mi ritrovai a camminare sulla spiaggia insieme a Stubbins verso il campo da calcio di cui erano stati rozzamente tracciati i confini nella sabbia. Le porte erano state fabbricate con gli avanzi della costruzione della casa comune. La palla” era una noce di cocco vuota. Otto fra uomini e donne erano pronta giocare.

Non mi aspetto di certo che la battaglia ostinata che seguì passi agli annali della storia sportiva. Il mio contributo fu trascurabile, tranne la riconferma dell’assoluta mancanza di coordinazione fisica che aveva trasformato i miei giorni di scuola in un’ordalia. Il più abile fra tutti fu di gran lunga Stubbins. Soltanto tre giocatori, inclusi lui ed io, erano sani, e io rimasi completamente sfinito dopo soli dieci minuti di gioco. Gli altri erano un’accozzaglia di feriti bendati, nonché di mutilati con o senza arti artificiali, ciò che fu, al tempo stesso, comico e patetico. Nondimeno, la partita fu giocata, finendo con il suscitare risa e grida d’incoraggiamento.

Mi sembrò che gli altri giocatori, sofferenti, smarriti, naufraghi in quell’epoca antica, fossero in realtà poco più che bambini.

Mi chiesi allora quale specie fosse mai la nostra, capace di nuocere tanto alla sua stessa progenie.

Terminata la partita, lasciammo il campo, esausti ma sorridenti, e Stubbins mi ringraziò.

— Di nulla — risposi. — Sei un ottimo giocatore, Stubbins. Forse avresti dovuto diventare professionista.

— Ah, be’… In realtà, lo ero — rispose Stubbins, meditabondo. — Ero allievo nel Newcastle United, ma… La guerra, allora, era incominciata da poco. Non passò molto tempo prima che ponesse fine persino al calcio. In realtà, si è giocato qualche campionato anche in seguito: quelli regionali, e la coppa bellica. Negli ultimi cinque o sei anni, però, anche questi sono stati sospesi.

— Be’, è un vero peccato. Hai un grande talento, Stubbins.

Con la delusione che si mescolava alla modestia innata, Stubbins scrollò le spalle: — Era destino…

— Adesso, però, hai fatto qualcosa di molto più importante — lo consolai. — Hai partecipato alla prima partita di calcio della storia del mondo, e hai segnato parecchi goal. — Ciò detto, gli percossi amichevolmente la schiena. — E questo sarebbe un onore per chiunque!


Con il trascorrere del tempo, divenne sempre più evidente, al livello spirituale al di sotto dell’intelletto in cui risiede la vera conoscenza, che in verità non saremmo mai ritornati nel nostro secolo. Gradualmente, e immagino che ciò fosse inevitabile, i rapporti formatisi nel ventesimo secolo divennero ricordi sempre più remoti. Fra i coloni, sepoy, gurkha e inglesi, si formarono nuove coppie, senza alcun riguardo per il rango, la classe o la razza. Soltanto Hilary Bond, che conservava un residuo di autorità, rimase sola.

Allorché le dissi che in virtù del suo grado avrebbe potuto celebrare matrimoni, come avrebbe potuto fare un capitano con i passeggeri della sua nave, Hilary mi ringraziò cortesemente del suggerimento, ma in tono scettico, perciò lasciai cadere l’argomento.

Nuove capanne furono costruite presso la spiaggia e lungo la riva de fiume. Hilary assistette ai lavori con occhio tollerante: l’unica condizione da lei posta fu che, almeno per il momento, ogni abitazione doveva essere costruita in vista di almeno un’altra, e nessuna a più di un miglio di distanza dalla casa comune. Tali restrizioni furono accettate di buon grado dai coloni.

In breve tempo, divenne evidente che, nei confronti del matrimonio, l’atteggiamento di Bond era tanto saggio quanto il mio era scriteriato. Un giorno, vidi Stubbins passeggiare sulla spiaggia con le braccia sulle spalle di due giovani donne. Nell’incrociarli, li salutai cordialmente tutti quanti, ma subito dopo mi resi conto di non sapere quale delle due donne fosse la “moglie” di Stubbins.

Quando mi recai da lei a protestare, Hilary minimizzò con malcelato divertimento.

— Al ballo — insistetti — ho visto Stubbins con Sarah, ma poi, una mattina della settimana scorsa, quando sono andato a fargli visita, ho trovato l’altra ragazza nella sua capanna…

Allora Bond scoppiò a ridere: — Mio caro amico — rispose, posandomi le mani cicatrizzate sulle braccia — hai veleggiato sui mari dello spazio e del tempo, hai conosciuto diversi corsi della storia, sei indubbiamente un genio, eppure… Quanto poco conosci le persone!

Imbarazzato, chiesi: — Che cosa intendi dire?

— Rifletti. — Hilary si passò una mano sul cuoio capelluto cicatrizzato, dove crescevano ciuffi di capelli ingrigiti. — Siamo in tredici, senza contare il tuo amico Nebogipfel, e le donne sono otto, mentre gli uomini sono cinque. — Mi scrutò. — Per giunta, siamo soli. Non ci sono isole all’orizzonte, da cui potrebbero arrivare giovani maschi a sposare le nostre ragazze. Se celebrassimo matrimoni, cioè se adottassimo la monogamia, come tu suggerisci, la nostra piccola società non tarderebbe a disgregarsi. Otto e cinque, infatti, non sono in rapporto pari. Credo dunque che una certa scioltezza nei rapporti sia conveniente, per il bene di tutti. Non credi? Inoltre, tutto ciò è positivo anche nei confronti della “diversificazione genetica” di cui ci parla tanto Nebogipfel.

Rimasi sconvolto, ma non, come credo fermamente, e forse ingenuamente, per l’aspetto morale della situazione, bensì per il calcolo che vi era sotteso.

Mi accingevo ad andarmene, turbato, allorché fui colto da una consapevolezza improvvisa: — Ma… Hilary… Io sono uno dei cinque uomini di cui parli…

— E ovvio — rispose Bond, prendendosi manifestamente gioco di me.

— Ma io non… Voglio dire, non ho…

— Allora — sorrise Hilary — è forse tempo che rimedi. Continuando così, non faresti che peggiorare la situazione. Me ne andai, confuso. Era evidente che, fra il 1891 e il 1944, la società si era evoluta in modi che non avevo mai neppure sognato.


Nel frattempo, la costruzione della casa comune progredì rapidamente: pochi mesi dopo il bombardamento, fu terminata. Hilary Bond annunciò che avremmo celebrato l’evento con una cerimonia d’inaugurazione. Sulle prime, Nebogipfel rifiutò di presenziare, perché, con l’eccessiva razionalità che era tipica dei Morlock, non comprendeva lo scopo di tale cerimonia. Tuttavia finì col lasciarsi persuadere da me che, dal punto di vista delle future relazioni fra i coloni, sarebbe stato saggio partecipare.

Lavato e sbarbato, cercai di apparire il più elegante possibile, tenuto conto che indossavo soltanto un paio di calzoncini laceri. Nebogipfel si spuntò e si spazzolò la pelliccia bionda. Data la situazione, i coloni avevano ormai preso l’abitudine di andarsene in giro seminudi, vestiti soltanto di strisce di tessuto o di pelle, come suggeriva la decenza. Il giorno dell’inaugurazione, invece, indossarono i resti delle uniformi, lavati e rammendati per quanto possibile. Anche se ad Aldershot non avrebbero di certo superato l’ispezione, riuscirono a sfoggiare un’eleganza e una disciplina che io per primo trovai commovente.

Saliti i pochi gradini sconnessi, entrammo nell’interno buio della nuova casa comune. Il pavimento, ugualmente sconnesso, era pulito. I raggi del sole mattutino entravano obliqui dalle finestre senza vetri. Nonostante la rozzezza del progetto e della realizzazione, la casa comunicava una sensazione di solidità e d’intenzione a durare che suscitò in me una sorta di timore reverenziale.

In piedi sopra il serbatoio del veicolo, utilizzato come podio, Hilary Bond si appoggiava con una mano a una delle ampie spalle di Stubbins. Il suo volto sfigurato, con le ciocche bizzarre di capelli sul cranio, aveva un’espressione di semplice dignità.

Ormai, annunciò Hilary, la nuova colonia era fondata, ed era pronta a ricevere un nome. Dopo avere proposto di battezzarla Prima Londra, chiese a tutti noi di unirsi a lei in una preghiera. Come gli altri, chinai la testa e giunsi le mani. Poiché ero cresciuto in una famiglia di stretta osservanza anglicana, le parole di Bond ebbero su di me un effetto nostalgico, riportandomi a un periodo più semplice della mia vita: un periodo di certezze e di sicurezza.

Poco a poco, mentre Hilary continuava il suo discorso semplice ed efficace, rinunciai ad ogni tentativo di analisi, abbandonandomi alla condivisione di quella semplice celebrazione comune.

17 Figli e discendenti

I primi frutti delle nuove unioni giunsero entro l’anno, sotto la supervisione di Nebogipfel.

Il primo neonato della colonia fu esaminato appunto da Nebogipfel. La madre protestò, riluttante ad affidare la propria bambina a un Morlock, ma Hilary Bond, che era presente, placò le sue paure. Infine, Nebogipfel annunciò che si trattava di una femmina perfettamente sana e restituì la neonata ai genitori.

In un periodo di tempo molto breve, o almeno così mi parve, nacquero altri bambini. Divenne consueto vedere Stubbins portare sulle spalle il suo figlioletto, con gioia evidente di quest’ultimo: ero sicuro che entro breve tempo lo avrebbe portato sulla spiaggia a tirare calci ai gusci di bivalve per insegnargli a giocare a calcio.

I bambini furono una fonte di gioia immensa per i coloni. Alcuni di costoro, prima delle nuove nascite, erano stati inclini ad abbandonarsi alla depressione, causata dalla nostalgia e dalla solitudine. Ma i bambini, oltre ad avere bisogno di cure, conoscevano una casa soltanto, ossia Prima Londra, e la loro prosperità futura forniva ai loro genitori, nonché a noi tutti, uno scopo.

Quanto a me, nell’osservare i bimbi dalle membra morbide e sane, cullati dalle braccia cicatrizzate dei genitori ancora giovani, vedevo finalmente fuggire da questi ultimi l’ombra della guerra spaventevole, scacciata dalla luce abbondante del paleocene.

Comunque, Nebogipfel continuò ad esaminare ogni neonato.

E un giorno, infine, il Morlock non restituì un bambino alla madre. Il lieto evento si trasformò in una sofferenza privata, in cui noialtri non c’intromettemmo. In seguito, Nebogipfel scomparve nella foresta e, impegnato nelle sue attività segrete, rimase assente per lunghi giorni.


Il Morlock dedicava gran parte del proprio tempo a dirigere quelli che definiva “gruppi di studio”. Questi corsi erano aperti a tutti i coloni, anche se in pratica vi partecipavano soltanto tre o quattro persone alla volta, a seconda dell’interesse e degli altri impegni. Nebogipfel insegnava ad affrontare i problemi posti dalla vita nel paleocene, come, ad esempio, la produzione delle candele e dei tessuti: aveva inventato persino un sapone ruvido a base di soda e di grasso animale. Tuttavia, si dedicava anche all’insegnamento delle scienze: la medicina, la fisica, la matematica, la chimica, la biologia, i principi del viaggio temporale.

Io stesso partecipai a numerose lezioni. Nonostante la sua voce e i suoi modi alieni, Nebogipfel spiegava con una chiarezza ammirevole e aveva il dono di porre le domande più adatte a verificare la comprensione degli allievi. Nell’ascoltarlo, mi resi conto che avrebbe avuto parecchio da insegnare alla media dei professori universitari inglesi, in quanto a tecniche pedagogiche.

Attenendosi alla terminologia del 1944, se non al gergo, sintetizzò i progressi principali ottenuti in ciascun campo scientifico nei decenni successivi. Ogni volta che fu possibile, effettuò dimostrazioni servendosi di metallo e di legno, oppure tracciò schemi nella sabbia. Ai propri “studenti” affidò il compito di trascrivere in forma codificata le sue conoscenze, utilizzando tutti i pezzi di carta che eravamo riusciti a recuperare e a conservare.

Discussi di questo problema con Nebogipfel, intorno alla mezzanotte di una sera buia e senza luna. Con un rozzo pestello, il Morlock era intento a ridurre in poltiglia nel mortaio alcune fronde di palma, insieme a qualche liquido: — Abbiamo bisogno di carta — annunciò. Si era tolto la sua nuova maschera, e i suoi occhi rosso-grigi sembravano luminescenti. — Dobbiamo fabbricare carta, o qualcosa di simile. La vostra memoria verbale umana non è abbastanza fedele e precisa: in pochi anni dimenticherete tutto, quando me ne sarò andato…

Erroneamente, pensai che si riferisse al timore o alla possibilità della morte. Dopo essermi seduto accanto a lui, gli presi dalle mani il mortaio e il pestello: — Ma ha senso tutto ciò, Nebogipfel? Siamo a malapena in grado di sopravvivere, e tu insegni la meccanica quantistica e la teoria del campo unificato! Che bisogno hanno i nostri compagni di tutte queste conoscenze?

— Nessuno. Ma i loro figli ne avranno, per sopravvivere. Ascolta… Secondo la teoria accettata, qualunque specie di grossi mammiferi ha bisogno di una popolazione di alcune centinaia d’individui, affinché si crei una diversità genetica sufficiente a garantire la sopravvivenza a lungo termine.

— La diversità genetica… Hilary me ne ha accennato…

— È evidente che la popolazione della colonia è di gran lunga troppo poco numerosa per assicurare la sopravvivenza dell’umanità in quest’epoca, anche combinando tutto il potenziale genetico.

— Ebbene?

— Ebbene, questa gente avrà la possibilità di sopravvivere per più di due o tre generazioni soltanto se effettuerà un rapido progresso tecnico. In tal modo, potrà padroneggiare il proprio destino genetico e non dovrà subire le conseguenze delle degenerazione dovuta agli incroci fra consanguinei, o i perduranti danni genetici inflitti dalla radioattività del carolinum. Come vedi, hanno bisogno della meccanica quantistica e di tutto il resto.

Smisi di pestare nel mortaio: — Sì, ma c’è una domanda implicita in tutto questo… Deve sopravvivere la razza umana nel paleocene? Voglio dire… Non dovremmo essere qui adesso, bensì dovremmo comparire soltanto fra cinquanta milioni di anni.

Il Morlock mi scrutò: — Ma quale altra scelta abbiamo? Vorresti lasciar morire questa gente?

In quel momento, rammentai che avevo deciso d’impedire che la macchina del tempo fosse ideata e realizzata, in modo da porre fine all’infinita ramificazione della storia. Invece, i miei pasticci avevano causato indirettamente la fondazione di una colonia umana nelle profondità del passato, ciò che a sua volta avrebbe sicuramente provocato una frattura storica gravissima. D’improvviso, con una sensazione di precipitare alquanto simile alla vertigine indotta dal viaggio temporale, compresi che quella nuova divergenza della storia doveva essere ormai ben al di là delle mie possibilità di controllo.

Subito dopo, osservai l’espressione con cui Stubbins ammirava il suo primogenito.

Sono un uomo, non un dio!

Dovevo lasciarmi influenzare dagli istinti umani, perché di certo ero incapace di dirigere consapevolmente l’evoluzione della storia molteplice. Ciascuno di noi poteva fare ben poco per cambiare il corso degli eventi: anzi, molto probabilmente qualunque nostro tentativo sarebbe stato tanto incontrollato da arrecare più danni che benefici. D’altronde, non potevamo lasciarci sopraffare dalla vastità del paleocene e dalla molteplicità della storia. La prospettiva di tale molteplicità rendeva ognuno di noi, e le sue azioni, piccino, ma non insignificante; e ciascuno di noi doveva condurre la propria vita con stoicismo e con coraggio, come se tutto il resto, il destino ultimo dell’umanità e l’infinita molteplicità, non esistesse.

Quali che potessero essere le conseguenze sui futuri cinquanta milioni di anni, mi sembrava che la colonia umana nel paleocene fosse giusta. Dunque la mia risposta alla domanda di Nebogipfel fu inevitabile: — No. Naturalmente, dobbiamo fare tutto ciò che possiamo per aiutare i coloni e i loro discendenti a sopravvivere.

— Perciò…

— Sì?

— Perciò debbo trovare un modo per fabbricare la carta.

In silenzio, ripresi a pestare nel mortaio.

18 La festa, e ciò che seguì

Un giorno, Hilary Bond annunciò che mancava una settimana al primo anniversario del bombardamento, e che si sarebbe celebrata una festa per commemorare la fondazione del villaggio.

I coloni risposero con entusiasmo, dedicandosi alacremente ai preparativi. La casa comune fu decorata con liane e con immense ghirlande di fiori della foresta. Un Diatryma del prezioso allevamento della colonia fu scelto per essere ucciso e cucinato.

Quanto a me, recuperati alcuni imbuti e pezzi di tubo, mi ritirai nell’intimità di una vecchia capanna per dedicarmi con fervore, in privato, a un certo esperimento. Tale attività suscitò la curiosità dei coloni, quindi fui costretto a dormire nella capanna per mantenere il segreto sull’apparecchio che avevo costruito. Avevo deciso che era arrivato il momento di sfruttare le mie conoscenze scientifiche a fin di bene, una volta tanto!

Il giorno della festa, ci radunammo dinanzi alla casa comune nel mattino luminoso, in un’atmosfera entusiastica da grande occasione. Gli ex militari indossavano ancora una volta i resti delle uniformi, lavati appositamente. I loro figli portavano i tessuti nuovi che erano stati prodotti, seguendo le indicazioni di Nebogipfel, con un tipo di cotone che cresceva nella zona e con tinture vegetali di colore scarlatto e porpora.

Mi stavo aggirando nel gruppo, alla ricerca dei miei amici più intimi, allorché si udì un rumore di vegetazione schiantata, accompagnato da un brontolio.

Subito si levarono grida d’allarme. — Attenti! Attenti!

Pristichampus! Pristichampus!

In verità, il brontolio era tipico del grande coccodrillo terricolo e corridore. Mentre i coloni fuggivano di corsa, sparpagliandosi, guardai attorno alla ricerca di un’arma, maledicendo me stesso per essermi lasciato cogliere impreparato.

Poi giunse fluttuando sino a noi una voce gentile, e nota a tutti: — Ehi! Non abbiate paura! Guardate!

Il panico si placò in un istante, e uno spruzzo di risate si diffuse nel gruppo.

Indietreggiammo tutti per fare spazio a un feroce Pristichampus maschio, che entrò nella radura dinanzi alla casa comune, con le zampe artigliate che lasciavano orme grandi nella sabbia. Lo cavalcava, con la chioma rossa fiammeggiante al sole e un gran sorriso sul volto, Stubbins.

Mi avvicinai al rettile dalla pelle scagliosa che puzzava di carne decomposta, scrutato da un occhio gelido che ruotava per seguire miei movimenti. Stubbins, che lo montava senza sella, stringendo nelle mani magre e vigorose le redini di liane intrecciate che gli imbrigliavano la testa, mi sorrise.

— È davvero una bella impresa, Stubbins…

— Oh, sì… Be’, so che ci proponiamo di usare i Diatryma per arare, ma questo animale è molto più agile, e… Be’, cavalcandolo si può viaggiare per parecchie miglia: è meglio di un cavallo…

Comunque, fai molta attenzione — ammonii. — Ah, Stubbins… Se vuoi venire a trovarmi, più tardi…

— Sì?

— Forse ho anch’io una sorpresa per te.

Con uno sforzo considerevole, tirando le redini, Stubbins riuscì a indurre il rettile a girarsi. Con le zampe dalla muscolatura possente che si alzavano e si abbassavano come pistoni, il Pristichampus lasciò la radura per rientrare nella foresta.

Intanto, Nebogipfel mi si avvicinò, con la testa che scompariva quasi interamente sotto un cappellone dalla falda amplissima.

— Sì, è davvero una bella impresa — ripetei. — Però controlla a stento quel mostro…

— Vincerà — commentò Nebogipfel. — Gli umani vincono sempre. — Mi si accostò maggiormente, con la pelliccia bianca che scintillava nel sole mattutino. — Ascoltami…

Il suo sussurrare, improvviso e incongruo, mi sconcertò: — Che cosa c’è?

— Ho terminato la costruzione della mia macchina.

Quale macchina?

— Parto domani. Se vuoi unirti a me, sei il benvenuto. — Ciò detto, Nebogipfel si voltò e s’incamminò silenziosamente verso la foresta: in un istante, la sua schiena bianca si perse nell’oscurità degli alberi. Rimasi immobile, con il sole sulla nuca, a fissare la zona in cui era scomparso l’enigmatico Morlock… E fu come se la giornata si fosse trasformata, perché il significato delle sue parole, chiarissimo, mi aveva lasciato la mente in tumulto.

Una mano vigorosa mi percosse la schiena: — Ebbene, qual è dunque il grande segreto che mi devi svelare? — chiese Stubbins.

Mi girai a guardarlo, tuttavia per alcuni secondi mi fu difficile mettere a fuoco il suo viso: — Vieni con me — risposi finalmente, con tutto il vigore e con tutta l’allegria che riuscii a racimolare.

Pochi minuti più tardi, Stubbins e gli altri coloni brindarono con gusci colmi sino all’orlo di una bevanda alcolica di mia produzione, ricavato dal latte di cocco.


Il resto della giornata trascorse in un’ebbrezza gioiosa. La mia bevanda alcolica incontrò il massimo favore, anche se, per parte mia, avrei preferito di gran lunga riuscire a procurare abbastanza tabacco da riempire la pipa! Si ballò molto, con un accompagnamento di canti e di batter di mani che riproduceva imperfettamente una musica vivace del 1944: Stubbins la chiamava “swing”, e credo che mi sarebbe piaciuto conoscerla meglio. I coloni cantarono per me The Land of the Leal, ed io, con la mia solennità consueta, mi esibii in una danza manifestamente improvvisata, che suscitò grande ammirazione e grande allegria. Fu impiegato quasi tutto il giorno per arrostire il Diatryma, così che la sera ci vide rilassati sulla sabbia calpestata, con i piatti carichi di carne succulenta.


Quando il sole fu scivolato oltre la foresta, la festa terminò rapidamente, perché ci eravamo ormai abituati a svegliarci all’alba e a coricarci al crepuscolo.

Dopo avere augurato la buonanotte per l’ultima volta, mi ritirai nella capanna che avevo trasformato in distilleria. Seduto sulla soglia, a sorseggiare ciò che restava della mia bevanda alcolica, osservai le ombre della foresta che si allungavano sul mare paleocenico. Forme fosche scivolavano fra le onde: razze, o forse squali.

Ripensando alla conversazione con Nebogipfel, esaminai la mia situazione per tentare di prendere una decisione.

Dopo un poco, sentii un rumore attutito di passi zoppicanti sulla sabbia.

Mi volsi. Per qualche ragione, nel vedere Hilary Bond, i cui lineamenti si scorgevano a stento nel crepuscolo, non rimasi affatto sorpreso.

— Posso farti compagnia? — chiese Bond. — Hai ancora un po’ di quella specie di acquavite?

Con un cenno, la invitai a sedere sulla sabbia accanto a me, quindi le offrii il mio guscio.

Dopo avere bevuto con una certa grazia, Hilary osservò: — È stata una bella giornata…

— Grazie a te.

— No, grazie a tutti noi. — Del tutto senza preavviso, Bond allungò un braccio a posare una mano sulla mia, e il tocco della sua pelle fu come una scossa elettrica. — Voglio ringraziare te e Nebogipfel per tutto quello che avete fatto per noi.

— Non abbiamo…

— Senza di voi, non aedo che saremmo riusciti a sopravvivere, nei primi giorni dopo il bombardamento. — La voce di Bond era morbida, pacata, e al tempo stesso del tutto irresistibile. — E ora, con tutto quello che tu e Nebogipfel ci avete insegnato… Be’, credo che abbiamo ogni possibilità di costruire un nuovo mondo…

Mentre le sue dita lunghe e delicate indugiavano sul mio palmo, sentii il tessuto cicatriziale delle ustioni: — Ti ringrazio per gli elogi, ma… Parli come se stessimo per andarcene…

— Infatti è così, vero?

— Conosci i progetti di Nebogipfel?

Hilary scrollò le spalle: — In sostanza…

— Allora ne sai più di me. Per esempio, se ha costruito una vettura temporale, come si è procurato la plattnerite? I corazzati sono stati distrutti…

— L’ha recuperata dai rottami di die Zeitmaschine, naturalmente. — Hilary sembrò divertita. — Non ci avevi pensato? — Tacque un momento. — E tu vuoi partire con lui, vero?

Scossi la testa: — Non lo so… Talvolta mi sento strano, e stanco… come se ne avessi già viste abbastanza!

Sprezzantemente, Bond sbuffò: — Sciocchezze! Ascolta… Tu hai dato inizio a tutto… — Fece un ampio gesto con la mano. — A tutto questo: il viaggio temporale, e tutti i mutamenti che ha provocato. — Volse la testa ad osservare il mare placido. — E adesso, questo è il cambiamento più importante, vero? — Scosse la testa. — Sai… Ho avuto abbastanza a che fare con gli strateghi del Diguerdiscron, e sono sempre rimasta scoraggiata dalla loro ristrettezza mentale: intervenire in una battaglia, assassinare un personaggio di secondo piano… Se si dispone di un mezzo come il veicolo di dislocamento cronotico, e se si sa, come noi sappiamo, che la storia può essere cambiata, ci si può forse, ci si deve mai, limitare a obiettivi e scopi tanto sciocchi? Perché limitarsi a pochi decenni e intervenire nella fanciullezza di Bismarck o del kaiser, quando si può tornare indietro di milioni di anni, come abbiamo fatto noi? Ora i nostri figli avranno cinquanta milioni di anni a disposizione per cambiare il mondo… Stiamo modificando la specie umana, vero? — Si girò a guardarmi. — Ma per te non è ancora finita. Quale credi che sia il cambiamento definitivo? Puoi tornare all’alba della creazione e cambiare tutto dalle origini? Fin dove possono giungere i cambiamenti?

Rammentai Gödel, e i suoi sogni del mondo assoluto: — Non so fin dove possano giungere — risposi, sinceramente. — Non riesco neppure a immaginarlo.

Il viso di Hilary era grande accanto a me, e i suoi occhi erano pozzi di oscurità nel buio che si addensava: — Allora devi rimetterti in viaggio e scoprirlo.

Mentre Bond mi si accostava maggiormente, sentii la mia mano stringersi intorno alle sue, e il suo respiro caldo sulla mia guancia. Al tempo stesso, percepii in lei una sorta di reticenza, che ella sembrava decisa a vincere, anche se soltanto per forza di volontà.

Quando le accarezzai un braccio cicatrizzato, Hilary rabbrividì come se le mie dita fossero di ghiaccio, ma poi mi afferrò la mano, per premersela sulla pelle: — Perdonami… L’intimità non è facile per me…

— Perché? A causa delle responsabilità del comando?

— No. — Il tono di Bond mi fece sentire sciocco e goffo. — A causa della guerra. Capisci? A causa di tutti coloro che sono morti… È difficile dormire, talvolta. Si soffre dopo: è questa la tragedia, per i sopravvissuti. Ci si rende conto che non si può dimenticare, e persino che è sbagliato continuare a vivere… Se tradirete la fiducia di noi defunti / Non riposeremo, anche se i papaveri crescono / Nei campi delle Fiandre…

L’attirai a me, e Hilary si abbandonò contro il mio corpo, essere fragile e ferito.

All’ultimo momento, sussurrai: — Perché, Hilary? Perché adesso?

— Diversità genetica — rispose Bond, con il respiro che diventava lieve. — Diversità genetica…

E in breve tempo viaggiammo, non sino ai confini del tempo, bensì fino ai limiti della nostra umanità, là, presso la spiaggia del mare primevo.


Quando mi destai, era ancora buio, e Hilary se n’era andata.


Era già giorno allorché arrivai alla nostra vecchia capanna. Con il viso protetto dalla maschera, Nebogipfel mi degnò appena di un’occhiata nel momento in cui varcavo la soglia: evidentemente, la mia decisione non lo sorprese più di quanto avesse sorpreso Hilary.

La macchina temporale era terminata. Intorno vidi frammenti di un metallo che non conoscevo: probabilmente, si trattava di resti del Messerschmitt, recuperali dal Morlock. La macchina era costituita da una sorta di cassa di un metro e mezzo di lato, con una panca di legno di dipterocarps, e un piccolo, rozzo pannello di controllo munito d’interruttori e di pulsanti, incluso l’interruttore azzurro della vettura temporale originale, salvato da Nebogipfel.

— Ho qualche indumento per te… — Ciò detto, Nebogipfel mi mostrò una camicia, un paio di calzoni e un paio di stivali, del tutto accettabili. — Dubito che i coloni si accorgeranno che mancano.

— Grazie. — Mi tolsi i calzoncini di pelle, per poi cambiarmi rapidamente.

— Dove vuoi andare?

Scrollai le spalle: — Nella mia epoca, nel 1891.

Il Morlock fece una smorfia: — E perduta nella molteplicità.

— Lo so. — Presi posto nella scialuppa temporale. — Comunque, addentriamoci nel futuro, e vediamo che cosa troviamo.

Lanciai un’ultima occhiata al mare paleocenico, pensando a Stubbins, ai Diatryma addomesticati, al riflesso del sole mattutino sulle onde… Sapevo di essermi approssimato alla felicità, in quel mondo: a una felicità che mi era sfuggita per tutta la vita. Però Hilary aveva ragione: non era sufficiente.

Provavo ancora un grande desiderio di casa: era un richiamo che mi giungeva sul Fiume del Tempo, e mi sembrava tanto forte quanto l’istinto che spinge i salmoni a risalire la corrente per riprodursi.

Tuttavia sapevo che, come aveva appena detto Nebogipfel, il mio 1891, la mia Richmond Hill, il mondo in cui mi ero trovato a mio agio, erano smarriti nella molteplicità fratturata.

Ebbene, decisi che, se non potevo tornare a casa, avrei continuato il viaggio, seguendo la strada del mutamento, sino a quando non avrebbe potuto condurmi oltre.

Il Morlock mi guardò: — Sei pronto?

In quel momento, pensai a Hilary. Tuttavia, non sono incline agli addii.

— Sono pronto.

Con una certa difficoltà, a causa della frattura che si era rinsaldata, ma non correttamente, Nebogipfel montò a bordo della scialuppa temporale. Senza cerimonie, si recò ai comandi e premette l’interruttore azzurro.

19 Luci nel cielo

Intravidi due persone, un uomo e una donna, entrambi nudi, che sembravano sfrecciare attraverso la spiaggia. Un’ombra cadde per un istante sulla macchina, gettata forse da uno degli animali immensi dell’epoca, poi iniziammo a muoverci troppo rapidamente perché tali dettagli continuassero ad essere percepibili. Così, precipitammo nel tumulto incolore del viaggio temporale.

Mentre il pesante sole paleocenico balzava attraverso il cielo, immaginai che la Terra, dal punto di vista della nostra traslazione attraverso il tempo, sarebbe parsa vorticare come una trottola sul suo asse, e al tempo stesso roteare intorno alla sua stella. Anche la luna era visibile come un disco sfrecciarne, oscurata dal guizzare delle sue fasi. In breve, il tragitto quotidiano del sole si trasformò in un arco argenteo che oscillava fra gli estremi equinoziali, mentre il giorno e la notte si fondevano nell’uniforme crepuscolo grigio-azzurro che ho già descritto.

I dipterocarps della foresta si scossero nell’alternarsi della crescita e della morte, scacciati dal rigoglio delle piante più giovani. Tuttavia il paesaggio circostante di foresta e di mare, trasformato in una pianura vetrosa per effetto dell’accelerazione temporale, rimase sostanzialmente statico. Perciò mi domandai se, nonostante tutti gli sforzi miei e di Nebogipfel, l’umanità avesse dopotutto fallito nella sua lotta per la sopravvivenza nel paleocene.

Senza preavviso, la foresta avvizzì e scomparve: fu come se un rivestimento di vegetazione fosse stato strappato dal suolo. Quest’ultimo, tuttavia, non rimase spoglio, bensì venne subito ricoperto da un insieme di blocchi marroni e grigi: gli edifici di Prima Londra. Espandendosi, la città invase le colline spoglie e scese fino al mare, dove si ramificò in moli e porti. Con un processo tanto rapido da risultare percepibile a stento, ogni singolo fabbricato rabbrividì e scomparve, tranne alcuni che durarono abbastanza a lungo, forse alcuni secoli, per diventare quasi opachi, come abbozzi. Il mare perse l’azzurro, mutandosi in una sorta di lenzuolo grigio sporco, mentre l’accelerazione temporale rendeva indistinguibili il movimento delle onde e il susseguirsi delle maree. Riscaldandosi, l’atmosfera assunse invece una sfumatura fosca, simile alla nebbia londinese degli anni Novanta del diciannovesimo secolo, che conferì al paesaggio una sorta di lurida luminosità crepuscolare.

Fu sorprendente osservare che, con il trascorrere dei secoli, e nonostante il destino dei singoli edifici, la città rimaneva pressoché immutata nei propri contorni. Il nastro del fiume che l’attraversava, ossia il precursore del Tamigi, e le cicatrici delle strade principali, non subirono cambiamenti sostanziali. Fu una dimostrazione sbalorditiva di come l’umanità, nelle sue realizzazioni, deve adattarsi alla conformazione del suolo.

— Evidentemente i nostri coloni sono sopravvissuti — commentai. — Hanno dato origine a una nuova razza umana, e stanno cambiando il mondo.

— Sì. — Nebogipfel si risistemò la maschera sul viso. — Ma ricorda che stiamo viaggiando alla velocità di alcuni secoli al secondo, quindi ci troviamo nel cuore di una città che esiste già da alcune migliaia di anni. Suppongo che resti ben poco di Prima Londra.

Guardai attorno, estremamente incuriosito. Il gruppetto di esuli al quale avevo appartenuto doveva essere già tanto lontano dalla Nuova Umanità quanto lo erano stati, per esempio, i Sumeri dal 1891. Mi chiesi dunque se in quel vasto ed alacre processo di civilizzazione fosse rimasto qualche ricordo delle fragili origini della specie umana nella più remota antichità.

Mi accorsi di un cambiamento nel cielo: una strana pulsazione verde nella luce. Non tardai a rendermi conto che si trattava della luna. Benché orbitasse ancora intorno alla Terra, con la successione delle sue fasi resa impercettibile dall’accelerazione temporale, il satellite era chiazzato di verde e di azzurro: i colori della Terra e della vita.

La luna, dunque, era diventata simile al suo pianeta, ed era abitata! Evidentemente la Nuova Umanità, servendosi di macchine spaziali, aveva viaggiato sino alla sorella paziente della Terra, poi l’aveva trasformata e l’aveva colonizzata. Forse si era persino evoluta in una nuova specie, di uomini lunari alti e sottili, simili ai Morlock, abitanti dei territori a bassa gravità, che avevo incontrato nell’anno 657.208. Ovviamente non riuscii a discernere alcun dettaglio, a causa della rapidità con cui la luna percorreva la sua orbita nel cielo, e me ne rammaricai. Mi sarebbe piaciuto possedere un telescopio ed osservare i nuovi oceani che lambivano le sponde degli antichi crateri profondi, e le foreste che si diffondevano sui grandi maria sabbiosi. Mi domandarono cosa si provasse a trovarsi su quelle pianure rocciose, dopo avere reciso ogni legame con la Madre Terra. Nella gravità bassa, ogni passo si sarebbe trasformato in un volo attraverso l’aria fredda e sottile. Il paesaggio doveva essere come di sogno, con il sole ardente e immoto nel cielo, la luce intensa, le piante meno simili alla flora terrestre degli esseri che immaginavo fra le rocce degli abissi marini…

Ebbene, fu una vista che non avrebbe mai dovuto essermi concessa. Con uno sforzo, distolsi la mente dalla luna per concentrarmi sulla nostra situazione.

Vidi un movimento nel cielo occidentale, in basso, all’orizzonte: luci fugaci che prendevano vita, guizzavano attraverso il firmamento, si posavano e restavano immobili per lunghi millenni, prima di scomparire e di essere sostituite da altre luci.

In breve si accesero numerosissime faville, che si coagularono in una sorta di ponte, il quale varcò il cielo da un orizzonte all’altro: al culmine della sua parabola, contai alcune dozzine di luci in quella città celeste.

— Sono stelle? — chiesi, indicandole a Nebogipfel.

— No — rispose il Morlock, calmo. — La Terra continua a ruotare, e le stelle debbono essere tanto offuscate da risultare invisibili. Le luci che vediamo sono sospese in una posizione fissa al di sopra del pianeta…

— Allora che cosa sono? Lune artificiali?

— Forse. Di sicuro sono state collocate lassù dall’umanità. Può darsi che si tratti di oggetti artificiali, costruiti con materiali trasportati dalla Terra, o dalla luna, la cui gravità è molto inferiore. Ma può anche darsi che si tratti di oggetti naturali, trainati in orbita per mezzo di razzi: forse asteroidi catturati in qualche modo, oppure comete.

Osservai quel grappolo di luci con lo stesso timore reverenziale con cui un cavernicolo avrebbe fissato la luce di una cometa che gli percuotesse la testa ignorante gettata all’indietro.

— Quale potrebbe essere la funzione di simili stazioni spaziali?

— Satelliti del genere potrebbero equivalere a torri che dalla superficie terrestre s’innalzassero per ventimila miglia…

Feci una smorfia: — Che spettacolo! Da lassù si potrebbe osservare evoluzione delle condizioni atmosferiche di un intero emisfero. — La stazione potrebbe servire anche alla trasmissione di messaggi telegrafici da un continente all’altro. Oppure, più radicalmente, si potrebbe immaginare di trasferire in orbita intorno alla Terra le attività più importanti, come l’industria pesante o la produzione di energia: lassù potrebbero essere svolte in condizioni particolarmente propizie e sicure. — Nebogipfel allargò le braccia. — Puoi osservare tu stesso l’inquinamento dell’aria e dell’acqua intorno a noi. Il pianeta ha una capacità limitata di assorbire le scorie prodotte dalle attività umane: l’industria potrebbe persino svilupparsi tanto da renderlo inabitabile. In orbita, invece, lo sviluppo può essere virtualmente illimitato, come dimostra la Sfera costruita dalla mia specie.

La temperatura continuò ad aumentare insieme all’inquinamento atmosferico. La scialuppa temporale era efficace, ma poco equilibrata, perciò ondeggiava e beccheggiava. Rimasi miseramente aggrappato alla panca, in preda alla nausea suscitata dalla calura e dai dondolamenti, nonché dalla solita vertigine indotta dal viaggio nel tempo.

20 La Città Orbitale

La Città Orbitale equatoriale subì un’ulteriore evoluzione. La dislocazione caotica delle luci artificiali divenne significativamente più regolare. Si formò una fascia di sette od otto stazioni, tutte di una luminosità abbacinante, collocate a intervalli regolari intorno al pianeta: immaginai che ve ne fossero in corrispondenza di tutto l’equatore, ma che fossero per la maggior parte invisibili oltre l’orizzonte.

Delicati fili luminosi scesero poco a poco dalle stazioni brillanti, protendendosi verso la Terra come dita esitanti. Il movimento fu regolare, e abbastanza lento perché potessimo percepirlo. Mi resi conto di osservare miracoli ingegneristici: costruzioni che attraversavano lo spazio per migliaia di miglia, realizzate nel corso d’interi millenni. La tenacia e la genialità della Nuova Umanità mi colmarono di timore reverenziale.

In pochi secondi, i primi fili discesero nella bruma che offuscava l’orizzonte. Poi un filo scomparve, e la stazione a cui era connesso si spense come una candela nella brezza. Evidentemente il filo era caduto, o si era spezzato, e la stazione era andata distrutta. Nell’osservare le immagini pallide e silenziose, mi chiesi quale immenso disastro e quante morti rappresentassero. In pochi istanti, una nuova stazione fu collocata nella breccia della cintura equatoriale, e un nuovo filo fu gettato.

— Non sono certo di credere ai miei occhi — confessai. — Mi sembra che stiano tendendo quei cavi dallo spazio alla Terra!

— È quello che suppongo anch’io — rispose Nebogipfel. — Stiamo assistendo alla costruzione di un elevatore spaziale, che collega la superficie terrestre alle stazioni orbitali.

Sorrisi: — Un elevatore spaziale! Dovrebbe essere bello usare un apparecchio di tal genere, e salire attraverso le nubi, nella grandiosità silente dello spazio. Però, se l’elevatore avesse le pareti di vetro, non sarebbe un’esperienza adatta a coloro che soffrono di vertigini.

— Davvero.

Altri fili luminosi furono tesi fra le stazioni geosincrone. In breve tempo i punti luminosi furono tutti collegati tra loro e i fili s’ispessirono a formare una banda, tanto larga e luminosa quanto le stazioni medesime. Di nuovo, anche se in realtà non volevo interrompere il nostro viaggio temporale, desiderai poter osservare meglio l’immensa Città Orbitale che cingeva il pianeta.

Nel frattempo, ciò che avvenne intorno a noi non fu altrettanto spettacolare. Prima Londra cessò di svilupparsi: mi parve persino che fosse stata abbandonata. Alcuni edifici sopravvissero tanto a lungo da sembrarci solidi, anche se bui, bassi e brutti, mentre altri crollavano in rovina senza essere sostituiti. Tale processo si manifestò come la comparsa improvvisa e violenta di brecce nel profilo multiforme della città. L’aria diventò più densa, il mare paziente divenne di un grigio più scialbo. Mi chiesi se la Terra inquinata fosse stata finalmente abbandonata, a beneficio delle stelle, o forse di rifugi più gradevoli nel sottosuolo.

Quando gli ebbi espresso tale ipotesi, Nebogipfel rispose: — È possibile… Tuttavia devi tenere conto che è già trascorso più di un milione di anni dalla fondazione della colonia originale da parte di Hilary Bond e del suo gruppo. La distanza evolutiva che ti separa dalla Nuova Umanità di questa epoca è superiore a quella che ti separa da me. Dunque non possiamo fare altro che pure e semplici congetture sui modi di vivere delle razze che abitano questo pianeta, sui loro scopi, e persino sulla loro biologia.

— Sì — convenni, lentamente. — Eppure…

— Che cosa?

Eppure il sole continua a brillare. Dunque la storia della Nuova Umanità è diversa da quella dei Morlock. Anche se evidentemente possiede macchine spaziali simili alle vostre, la Nuova Umanità non ha alcuna intenzione di racchiudere il sole come avete fatto voi.

— Evidentemente no. — Sollevando una mano pallida, Nebogipfel indicò il cielo. — In verità, le loro intenzioni sembrano di gran lunga più ambiziose…

Mi volsi a guardare nella direzione indicata, scoprendo che la grande Città Orbitale si stava nuovamente trasformando. Lungo l’equatore, in corrispondenza della cintura luminosa, come foglie o frutti da un fusto, spuntavano gusci di forma irregolare, del diametro di migliaia di miglia. Non appena era completamente sviluppato, ogni guscio si staccava dal pianeta, sbocciava come un fiore di fuoco a illuminare la Terra, e svaniva. Dal nostro punto di vista, tale processo di sviluppo, paragonabile a quello che dall’embrione portava all’uccellino in grado di volare, durò un secondo o meno ancora. Di sicuro, però, ogni fioritura bagnò il globo con la sua luce per decenni.

Quello spettacolo sbalorditivo si protrasse per qualche tempo: alcune migliaia di anni, a mio giudizio.

Naturalmente, i gusci erano immense navi spaziali.

— Dunque l’umanità sta lasciando la Terra a bordo di quei grandi vascelli interplanetari… Ma dove credi che sia diretta? Forse verso gli altri pianeti, come Marte, o Giove, o…?

Con le luci delle navi spaziali che guizzavano sulla pelliccia del volto mascherato alzato al cielo, Nebogipfel sedeva, tenendo le mani in grembo: — Per compiere tragitti tanto brevi, non occorre un impiego di energia tanto grandioso quanto quello a cui abbiamo assistito. Con motori simili… Credo che la Nuova Umanità abbia ambizioni maggiori: suppongo che stia abbandonando il sistema solare, come sembra che abbia abbandonato la Terra.

Osservai con timore reverenziale le navi che partivano: — Che specie straordinaria dev’essere, questa Nuova Umanità! Non voglio affatto sminuire voi Morlock, vecchio mio, tuttavia… Quanta differenza di risorse e di ambizioni! Voglio dire, una sfera in tomo al sole è qualcosa di ben diverso che lanciare la propria progenie verso le stelle!

— È vero che le nostre ambizioni erano limitate allo sfruttamento controllato di una singola stella. Ma tutto questo aveva una logica, perché in tal modo si poteva ottenere più spazio vitale per la specie, che non per mezzo di migliaia, o di un milione, di viaggi interstellari.

— Può darsi… Però non era altrettanto spettacolare, vero?

Dopo essersi risistemato la maschera di pelle sul viso, Nebogipfel osservò la Terra devastata intorno a noi: — Forse… A quanto pare, però, la tua Nuova Umanità non si è dimostrata capace di amministrare altrettanto bene una risorsa vasta, ma finita, come il pianeta.

Compresi che il Morlock aveva ragione. Mentre le luci delle fiamme delle navi spaziali illuminavano il mare, continuava la decadenza di ciò che restava di Prima Londra: le rovine parvero liquefarsi e bollire, il mare divenne più grigio e l’aria più sporca. Nel calore sempre più intenso, mi staccai dal petto la camicia, resa aderente dal sudore.

Cambiando posizione sulla panca, Nebogipfel guardò attorno con inquietudine: — credo… Se succederà, sarà molto rapidamente…

— Che cosa?

Il Morlock non rispose.

Il caldo aumentò talmente, che non ricordavo di averne mai sofferto tanto neppure nelle foreste del paleocene. Le rovine della città, sparse sulle spoglie colline marroni, scintillarono, diventando come irreali…

D’improvviso, con un lampo tanto abbacinante da oscurare il sole, la città esplose in fiamme.

21 Instabilità

Quel fuoco che tutto consumava c’inghiottì per un’infinitesimale frazione di secondo. Mentre un calore nuovo e del tutto insopportabile pulsava intorno alla scialuppa temporale, gridai. Misericordiosamente, però, tale calore scemò non appena l’incendio si fu estinto.

In quell’istante di fiamma, la città antica scomparve: Prima Londra fu spazzata dalla faccia della Terra, lasciando soltanto qualche mucchio di cenere e di mattoni fusi, nonché alcuni sparsi tracciati di fondamenta. Ancora una volta il suolo spoglio fu colonizzato dagli alacri processi vitali: lentamente la vegetazione scivolò sulle colline e sulla pianura, e gli alberi bassi sussultarono nel ciclo della crescita al bordo del mare. Tuttavia l’avanzare di questa nuova ondata di vita fu lento, e apparentemente destinato a una permanenza stentata: una nebbia grigio perla, infatti, gravava su ogni cosa, offuscando la luminosità paziente della Città Orbitale.

— Dunque Prima Londra è distrutta — commentai, sbalordito. — Credi che sia stata una guerra? Quell’incendio dev’essere durato per decenni, finché non c’è stato più nulla da bruciare.

— Non è stata una guerra — rispose Nebogipfel. — Comunque, credo che sia stata una catastrofe provocata dall’umanità.

In quel momento, assistetti al più strano dei fenomeni. I nuovi alberi sparsi cominciarono a morire, ma non avvizzendo rapidissimamente dinanzi al mio sguardo per effetto dell’accelerazione temporale, come in precedenza era accaduto ai dipterocarps, bensì scoppiando in fiamme, bruciando come fiammiferi giganteschi: in un solo istante scomparvero, una sorta di ustione gigantesca annerì l’erba e i cespugli, permanendo per numerose stagioni, tanto che alla fine l’erba non crebbe più, e il suolo rimase spoglio, fosco.

Nel cielo, le nubi grigio perla si addensarono maggiormente, e gli archi del sole e della luna furono oscurati.

— Credo che quelle nubi lassù siano cenere — congetturai. — È come se la Terra stesse bruciando… Nebogipfel… Che cosa sta succedendo?

— È come temevo. I tuoi dissoluti amici della Nuova Umanità…

— Ebbene?

— Con le loro attività importune e con la loro incuria, hanno distrutto l’equilibrio climatico del pianeta, che consentiva la vita.


Rabbrividii di freddo, perché la temperatura si era abbassata. Era come se il calore abbandonasse il mondo, assorbito in qualche maniera impercettibile. Dapprima accolsi con piacere questo sollievo dal caldo ardente, però il freddo non tardò a diventare sgradevole.

— Stiamo attraversando una fase di eccesso d’ossigeno e di aumento della pressione al livello del mare — spiegò Nebogipfel. — Gli edifici, le piante, l’erba, persino la legna umida, bruciano spontaneamente in simili condizioni. Ma non durerà a lungo. È una transizione verso un nuovo equilibrio: è l’instabilità.

La temperatura precipitò, la regione assunse un gelido aspetto novembrino, e io mi avvolsi più strettamente nella leggera camicia tropicale. Ebbi l’impressione fugace di un pulsare bianco: le nevi e i ghiacci dell’inverno ricoprivano il suolo e si scioglievano con l’alternarsi delle stagioni. Poi il ghiaccio e il permafrost divennero perenni, senza più cedere ai cicli stagionali: tutto fu coperto da una superficie dura e grigio-bianca che aveva tutto l’aspetto di essere permanente.

Il paesaggio si trasformò. A occidente, a settentrione e a meridione, i contorni e i profili furono mascherati dallo strato di ghiaccio e di neve. A oriente, il nostro antico mare paleocenico si ritirò di alcune miglia, e la spiaggia ghiacciò, mentre lontano, a nord, un continuo luccichio bianco rivelava la presenza degli iceberg. Nell’atmosfera limpida, caratterizzata dalla luminosità perlacea che di solito si osservava nel cuore dell’inverno prima delle nevicate, potei rivedere, nel cielo, gli archi del sole e della luna verde.

Con le mani sotto le ascelle e con le gambe piegate, Nebogipfel si era tutto raccolto in se stesso. Quando gli toccai le spalle, scoprii che la sua pelle era gelida: sembrava che la sua essenza si fosse ritirata nel nucleo più caldo dell’organismo. La pelliccia, sul viso e sul petto, si era afflosciata e infittita come le penne di un uccello. La sua sofferenza mi suscitò una fitta di rimorso, perché, come forse ho lasciato intendere, mi consideravo, direttamente o indirettamente, responsabile dei patimenti che era costretto a sopportare.

— Suvvia, Nebogipfel… Abbiamo già attraversato le ere glaciali: è stata un’esperienza di gran lunga peggiore, e siamo sopravvissuti. Attraversiamo un millennio ogni due secondi. Di sicuro, fra non molto ci lasceremo alle spalle questo periodo, e il sole tornerà.

— Tu non capisci! — sibilò Nebogipfel.

— Che cosa?

— Questa non è semplicemente un’era glaciale. Non vedi? C’è una differenza qualitativa: l’instabilità… — Così dicendo, Nebogipfel chiuse nuovamente gli occhi.

— Che cosa intendi dire? Questo periodo durerà più a lungo che in precedenza? Centomila anni, forse? O mezzo milione? Insomma, quanto?

Il Morlock non rispose.

Con le braccia strette al busto, cercai di conservare il calore. Intanto, gli artigli del gelo affondarono maggiormente nella pelle della Terra, e lo spessore del ghiaccio aumentò, secolo dopo secolo, come una marea che crescesse lentamente. Il cielo illimpidì, e l’arco solare assunse una dura luminosità, apparentemente fredda. Ipotizzai che le ferite inflitte allo strato sottile dei gas che consentivano la vita stessero lentamente guarendo, giacché l’umanità non opprimeva più il pianeta. La Città Orbitale si librava ancora nel cielo, luminosa e inaccessibile, al di sopra della Terra gelata, priva di qualunque traccia di vita, e ancor meno di umanità.

Quando tale condizione durava ormai da un milione di anni, cominciai a sospettare la verità.

— Nebogipfel… Questa epoca glaciale… Non finirà mai, vero? Volgendo la testa, Nebogipfel mormorò qualcosa.

— Come? — Accostai un orecchio alla sua bocca. — Cos’hai detto? Il Morlock aveva gli occhi chiusi ed era privo di conoscenza.

Lo sollevai di peso dalla panca per posarlo sul fondo ligneo della scialuppa temporale, quindi mi sdraiai accanto a lui e lo abbracciai. Fu poco gradevole, perché il mio compagno, che sembrava un pezzo di carne macellata, mi fece sentire ancora più freddo, senza contare che fui costretto a reprimere il disgusto residuo che provavo nei confronti della razza morlock. In ogni modo, sopportai ogni cosa, nella speranza che il mio calore corporeo lo mantenesse in vita ancora per qualche tempo. Gli parlai e gli massaggiai le spalle e le braccia. Convinto che, se lo avessi lasciato privo di conoscenza, sarebbe scivolato nella morte senza rendersene conto, continuai così sino a quando riaprì gli occhi.

— Parlami dell’instabilità climatica.

Nel girare la testa, Nebogipfel mormorò: — A che serve? I tuoi amici della Nuova Umanità ci hanno uccisi…

— È semplice: preferisco sapere che cosa mi sta uccidendo. Insistendo per qualche tempo, persuasi finalmente Nebogipfel a cedere.

L’atmosfera terrestre, secondo la spiegazione del Morlock, era dinamica. Aveva soltanto due condizioni di stabilità naturali, nessuna delle quali poteva consentire la vita. Quando era troppo perturbata, cadeva appunto in una di tali condizioni, diversa e distante dalla stretta fascia di quelle che la vita poteva tollerare.

— Non capisco… Se l’atmosfera è instabile come dici, come mai si è mantenuta in una condizione favorevole alla vita per tanti milioni di anni?

L’evoluzione dell’atmosfera, spiegò allora Nebogipfel, era stata modificata enormemente dall’azione della vita medesima: — Esiste un equilibrio dei gas atmosferici, della temperatura e della pressione, che è ideale per la vita, e dunque la vita stessa opera inconsapevolmente in grandi cicli per mantenere tale equilibrio, coinvolgendo miliardi di organismi che svolgono ciecamente le loro funzioni. Tuttavia, questo equilibrio è intrinsecamente instabile. Capisci? È come una matita in equilibrio sulla punta: è perennemente sottoposta al rischio di cadere per effetto della minima perturbazione. — Nebogipfel girò la testa. — Noi Morlock abbiamo imparato che intromettersi nei cicli vitali è pericoloso, e che, se si sceglie di guastare i diversi meccanismi che mantengono la stabilità atmosferica, allora diventa necessario ripararli, oppure sostituirli. Purtroppo — aggiunse, con voce grave — i tuoi eroi della Nuova Umanità, che viaggiano verso le stelle, non hanno appreso queste semplici lezioni!

— Parlami delle due condizioni di stabilità, Morlock. Mi sembra, infatti, che stiamo per visitarne una.

Nella prima, letale condizione di stabilità, la superficie terrestre s’incendiava, spiegò Nebogipfel, e nell’atmosfera si addensavano nubi opache come quelle di Venere, che intrappolavano il calore solare. Tale strato di nubi, spesso alcune miglia, intercettava gran parte della luce, lasciando filtrare soltanto una fioca luminosità rossastra, talché dalla Terra non era più possibile vedere il sole, né le stelle, né i pianeti. I lampi guizzavano perennemente nell’atmosfera fosca, e il suolo incandescente era privo di vita.

— Sarà anche così — risposi, cercando di reprimere i tremiti, — ma rispetto a questo freddo maledetto, sembra una piacevole località di vacanza… E la seconda condizione di stabilità?

— La Terra Bianca. — Ciò detto, Nebogipfel chiuse gli occhi e rifiutò di continuare a parlare.

22 Abbandono e arrivo

Non so per quanto tempo giacemmo raggomitolati sul fondo della scialuppa temporale, aggrappandoci ai nostri frementi rimasugli di calore corporeo. Immaginai che fossimo le uniche schegge di vita rimaste sul pianeta, tranne, forse, qualche lichene particolarmente resistente, che aderiva alla superficie di qualche masso gelato.

Allorché lo scrollai, per tentare di fargli riprendere la conversazione, Nebogipfel mormorò: — Lasciami dormire…

— No — ribattei, con tutta la veemenza di cui fui capace. — I Morlock non dormono.

— Io sì. Sono stato troppo a lungo fra gli umani…

— Se ti addormenti, morirai. Nebogipfel… Credo che dovremmo fermare la scialuppa…

Per un poco, Nebogipfel tacque, prima di chiedere: — Perché?

— Dobbiamo tornare nel paleocene. La Terra è morta, stretta nella morsa di questo inverno desolato. Perciò dobbiamo tornare in un passato in cui sia possibile vivere.

— Ottima idea… — Nebogipfel tossì. — A parte un piccolo dettaglio: è impossibile. Infatti, non avevo i mezzi per dotare questa macchina di comandi complessi.

— Che cosa vuoi dire?

— Che la scialuppa temporale è sostanzialmente balistica. Avevo soltanto la possibilità d’indirizzarla nel futuro, o nel passato, per un periodo di tempo determinato. Perciò arriveremo all’incirca nell’anno 1891 di questa storia. Ma ormai che la scialuppa è stata indirizzata e lanciata, non posso più controllarne la traiettoria. Capisci? La macchina segue un tragitto nel tempo, determinato dalle coordinate iniziali e dalla potenza della plattnerite tedesca. Ci fermeremo soltanto nel 1891, un 1891 di ghiacci eterni, e non prima.

Il tremito che mi scuoteva si attenuò, non perché mi sentissi in qualche misura più confortato, bensì, come mi resi conto, perché le mie stesse forze stavano cominciando ad esaurirsi.

Nondimeno, pensai freneticamente che forse non era ancora la fine, per noi, nonostante la situazione in cui ci trovavamo: se il pianeta non era stato abbandonato, se l’umanità aveva trovato il modo di riparare ai danni inflitti, forse avremmo trovato un clima abitabile.

— E l’umanità? — insistetti. — Che cosa ne è stato dell’umanità?

Con un brontolio, Nebogipfel ruotò gli occhi chiusi: — Come avrebbe potuto sopravvivere, l’umanità? Ha sicuramente abbandonato il pianeta, oppure si è del tutto estinta…

— Abbandonato il pianeta? — protestai. — Persino voi Morlock, con la vostra Sfera intorno al sole, non ve ne siete allontanati poi tanto!

Mi scostai dal Morlock per sollevarmi sui gomiti e guardare fuori della scialuppa temporale, a meridione. Era da là, infatti, dalla direzione della Città Orbitale, che sarebbe giunta ogni possibile speranza per noi: ormai, ne ero certo.

Ma ciò che vidi mi colmò di un terrore profondo.

La cintura intorno alla Terra era rimasta, i fili tra le stazioni erano luminosi come sempre, però quelli che avevano ancorato la Città al pianeta erano scomparsi. Mentre ero impegnato a discutere con Nebogipfel, i cittadini orbitali avevano smantellato gli elevatori, recidendo così i cordoni ombelicali che li collegavano alla Madre Terra.

Intanto che osservavo, alcune stazioni brillarono di una luce intensa, riverberata dai campi ghiacciati del pianeta, come una collana di soli in miniatura. L’anello metallico si spostò dalla sua posizione sull’equatore. Dapprima tale migrazione fu lenta, poi la Città ruotò sul proprio asse, ardendo come una girandola, sempre più velocemente, finché non mi fu più possibile discernere le singole stazioni.

Infine, allontanandosi sempre più dalla Terra, la Città Orbitale scomparve nell’invisibilità.

Il significato simbolico di quell’abbandono fu sconvolgente: senza il fuoco delle macchine ciclopiche, i campi di ghiaccio del pianeta deserto parvero ancora più gelidi e più grigi di prima.

Mi adagiai di nuovo sul fondo della scialuppa: — È vero…

— Che cosa?

— Che la Terra è stata abbandonata… La Città Orbitale si è staccata e se n’è andata. La storia del pianeta è finita, Nebogipfel. E con essa lo è, temo, anche la nostra!


Nonostante tutti i miei sforzi per mantenerlo consapevole, Nebogipfel scivolò nell’incoscienza. Dopo qualche tempo, mi vennero a mancare le forze per insistere in quei tentativi. Mi raggomitolai contro di lui, cercando per quanto possibile di proteggerne dal gelo il corpo umido e freddo, anche se temevo che non sarebbe servito a molto. Tenuto conto della velocità del nostro viaggio attraverso il tempo, sapevo che esso non avrebbe potuto durare più di trenta ore in tutto. Era possibile, però, che la plattnerite tedesca, o la scialuppa costruita da Nebogipfel con i pochi mezzi a sua disposizione, si dimostrassero meno efficaci del previsto. Avrei potuto rimanere intrappolato per sempre in quella dimensione liminare, a congelare lentamente, oppure avrei potuto precipitare da un momento all’altro sui ghiacci eterni.

Assorto in tali riflessioni, mi addormentai, o forse svenni.

Ebbi l’impressione d’intravedere l’Osservatore dalla testa enorme librarsi sopra di me, e oltre il suo corpo privo d’arti vidi l’elusiva distesa stellata tinta di verde. Cercai di toccare le stelle, che sembravano tanto luminose e calde, però non riuscii a muovermi. Infine, l’Osservatore scomparve.

E forse fu soltanto un sogno.


Finalmente, la plattnerite si esaurì e la scialuppa temporale, con un sussulto cigolante, precipitò di nuovo nella storia.

La luminosità perlacea del cielo si dissolse, e la pallida luce del sole svanì come se fosse stato premuto un interruttore. Sprofondai così nell’oscurità.

L’ultimo calore paleocenico fu inghiottito dalla grande sentina del cielo. Il gelo mi artigliò le carni, che parvero bruciare. Incapace di respirare anche se non sapevo se per effetto del freddo oppure a causa dell’inquinamento atmosferico, provai una grave oppressione al petto, come se stessi annegando.

Consapevole che non avrei potuto rimanere cosciente per più di pochi secondi, decisi di riuscire almeno prima di morire, a vedere quel 1891. tanto eccezionalmente diverso rispetto alla mia epoca. Benché non sentissi già più le mani, spinsi con le braccia per sollevarmi parzialmente a sedere.

Il paesaggio era illuminato da una luce argentea, che sulle prime mi sembrò essere quella della luna. Simile a un giocattolo accartocciato, la scialuppa temporale era posata al centro di una pianura di ghiaccio antico. Era notte, e non si vedevano stelle. Sul momento, pensai che il cielo fosse coperto di nubi, poi scorsi, bassa nel cielo, una scheggia di luna crescente, e non riuscii più a spiegarmi l’assenza delle stelle. Mi domandai se il freddo mi avesse in qualche modo danneggiato la vista. Notai con soddisfazione che il satellite era ancora verde: forse era ancora abitato. Quanto doveva brillare la Terra gelata, nel cielo di quel mondo giovane! Vicino alla luna, brillava una luce, ma non era una stella, perché era troppo vicina: si trattava di un riflesso del sole, forse su qualche lago lunare.

Una favilla della mia coscienza, che si stava spegnendo, mi esortò a interrogarmi sulla fonte di quella “luce lunare” argentea, la quale scintillava sul ghiaccio che già si stava formando sullo scafo della scialuppa temporale. Se era ancora verdeggiante, la luna non poteva essere la sorgente di quella luminosità fatata. Quale ne era mai, dunque, la fonte?

Con le ultime forze che mi restavano, girai la testa. E là, in alto sopra di me, nel cielo senza stelle, vidi un disco lucente, che sembrava tessuto di ragnatela sfavillante, ed era oltre dieci volte più grande della luna piena.

E dietro la scialuppa temporale, pazientemente immobile sulla pianura di ghiaccio…

Incapace di vedere distintamente, mi chiesi se la vista indebolita mi stesse ingannando. Vidi una forma piramidale, alta circa quanto un uomo, dai contorni sfumati, confusi, come per effetto di un perenne brulichio.

— Sei vivo? — volli chiedere a quella brutta apparizione. Ma subito la gola mi si chiuse, il freddo mi privò della voce, e non potei pronunciare altre domande.

La tenebra si strinse intorno a me, e finalmente il gelo si attenuò.

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