LIBRO TERZO La guerra contro i tedeschi

1 Una nuova immagine di Richmond

Il mio ultimo viaggio nel tempo fu sobbalzante come sempre e ancora più disorientante del solito, probabilmente a causa della distribuzione ineguale della plattnerite nel corazzato, ma almeno fu breve, e poco a poco la sensazione di precipitare scomparve.

Ritratto perfetto della sofferenza, Filby rimase seduto per un poco con le braccia conserte e la testa china sul petto, poi guardò quello che mi sembrava un orologio alla parete, e con una mano si percosse un ginocchio ossuto: — Ah! Eccoci! Siamo di nuovo nel 16 giugno dell’anno 1938. — E cominciò a slacciare le proprie cinghie di sicurezza.

Alzatomi dalla sedia, osservai meglio l’”orologio”, scoprendo che, oltre alle normali lancette, conteneva alcuni piccoli cronometri. Sbuffando, ne picchiettai il vetro con un dito, dicendo a Mosè: — Guarda! Questo cronometro mostra anche gli anni e i mesi! È un eccesso, tipico dei progetti governativi. Mi sorprende che non abbia anche piccoli automi con gli impermeabili e i cappellini per indicare le stagioni!

Poco dopo, arrivò la capitana Hilary Bond, con il giovane ufficiale che ci aveva raccolti a Richmond Hill, il quale ci fu presentato come Harry Oldfield. Così, l’ambientino divenne alquanto affollato.

— Ho ricevuto istruzioni che vi riguardano — annunciò Bond. — Ho l’incarico di scortarvi all’Imperial College, dove si svolgono le ricerche sulla guerra di dislocamento cronotico.

Non formulai alcuna domanda, benché non avessi mai sentito parlare di quella università.

— Ecco… — disse Oldfield, che portava una cassetta contenente alcune maschere antigas e diverse paia di spallacci metallici. — Conviene che indossiate questi…

Con disgusto, Mosè prese una maschera antigas: — Non vi aspetterete certo che infili la testa in quest’oggetto bizzarro!

— Deve farlo — disse ansiosamente Filby, che già si stava applicando la maschera al viso dalle guance flosce. — Dobbiamo percorrere un breve tragitto all’aperto, e non è sicuro: non è affatto sicuro!

— Suvvia… — dissi a Mosè, prendendo con torva risolutezza una maschera e un paio di spallacci. — Temo proprio che non siamo più nella nostra epoca, vecchio mio.

Sebbene fossero pesanti, gli spallacci si applicarono agevolmente alla giacca. La maschera, invece, si rivelò molto scomoda, anche se si adattava bene senza essere troppo stretta. Gli occhiali rotondi si appannarono subito, mentre la gomma e il cuoio non tardarono a raccogliere il sudore. Dichiarai: — Non mi ci abituerò mai.

— Spero che non rimarremo qui tanto a lungo da doverci abituare — sibilò Mosè, con veemenza, la voce soffocata dalla maschera.

Guardai Nebogipfel, che oltre al ridicolo abito da studente indossava una maschera grottesca, di alcune misure troppo grande per lui: quando muoveva la testa, la scatola portafiltri oscillava come una proboscide. Gli accarezzai la testa: — Così, almeno, ti mescolerai alla folla, Nebogipfel.

Il Morlock si astenne dal replicare.


Finalmente, uscimmo dal ventre metallico del Raglan, verso le due pomeridiane di una luminosa giornata estiva, con il sole che ravvivava i colori cupi del corazzato. Gli occhiali mi si appannarono di nuovo e il facciale mi si riempì subito di sudore, suscitando in me un gran desiderio di togliere la maschera pesante e aderente.

Il cielo, immenso e azzurro cupo, era sgombro di nubi, anche se qua e là si scorgevano esili strisce e volute bianche: tracce di vapore o di cristalli di ghiaccio, incise nel cielo. A un’estremità di una scia scorsi uno scintillio: forse il metallo di una macchina volante che luccicava al sole.

Il corazzato sostava in una Petersham Road molto diversa da quella del 1873, e persino da quella del 1891. Riconobbi molte case della mia epoca: vidi anche la mia, oltre una ringhiera arrugginita e coperta di verderame. I giardini e le aiuole erano stati sostituiti da campi in cui si coltivava un vegetale che non conoscevo. Notai inoltre che parecchi edifici erano molto danneggiati: di alcuni restavano soltanto le mura esterne e cumuli di macerie; altri erano anneriti e sventrati dagli incendi; altri ancora erano interamente crollati. Anche la mia casa era devastata, e il laboratorio era demolito. A giudicare dalla vegetazione cresciuta all’interno di molti fabbricati, i danni non erano recenti: il muschio e le erbacce tappezzavano i resti delle stanze e dei corridoi, l’edera pendeva sulle finestre in festoni simili a tende bizzarre.

Neppure il bosco sul versante che scendeva al Tamigi era indenne: si vedevano fusti caduti, alberi dai rami spezzati, tronchi anneriti, e così via: sembrava che fosse passato un uragano, oppure un incendio. Il molo era intatto, ma del ponte di Richmond restavano soltanto i piloni, anneriti e spezzati. Anche i prati delle rive in direzione di Richmond erano stati sostituiti dalle strane coltivazioni che mi erano ignote. Sul fiume stesso galleggiava una schiuma scura.

Intorno non si vedeva nessuno: né persone, né veicoli. Le erbacce spuntavano dalla pavimentazione della strada. Non si udivano risa né grida di bambini che giocavano, e neppure voci di persone, o di cani, o di cavalli, e nemmeno canti di uccelli.

Nulla restava della gaiezza che un tempo aveva caratterizzato i pomeriggi di giugno in quei dintorni: il lampeggiare dei remi, le risa dei gitanti in barca sul fiume…

Tutto era scomparso, in quell’anno lugubre, e forse per sempre. Richmond era un luogo deserto e morto. «Rammentai le rovine splendide del mondo paradisiaco dell’anno 802.701. Avevo creduto che esso fosse ormai lontano da me: non avrei mai immaginato di trovare la mia patria in condizioni persino peggiori.

— Gran Dio — esclamò Mosè. — Quale catastrofe! Quale distruzione! L’Inghilterra è forse abbandonata?

— Oh, no — rispose allegramente Oldfield. — Semplicemente, le campagne non sono più sicure. Ci sono i gas e le torpedini aeree: la popolazione si è ritirata nelle Cupole. Capite?

— Ma è tutto distrutto — protestai. — Che cosa ne è stato dello spirito del nostro popolo, Filby? Dov’è finita la volontà di ricostruzione? Ricostruire sarebbe possibile…

Allora Filby mi posò una mano guantata su un braccio: — Un giorno, quando questa guerra terribile sarà finita, ricostruiremo ogni cosa, e tutto tornerà come prima. Per il momento, tuttavia… — La sua voce si ruppe, e io avrei voluto vedere la sua espressione. — Venite… Conviene mettersi al riparo.


Allontanandoci dal Raglan, ci affrettammo a percorrere la strada in direzione del centro cittadino: Mosè, Nebogipfel e io, con Filby e i due militari. I nostri compagni del 1938 camminavano curvi, lanciando continuamente occhiate nervose al cielo. Di nuovo notai che Bond zoppicava vistosamente con la gamba sinistra.

Gettai uno sguardo nostalgico al corazzato perché conteneva la mia macchina del tempo: il mio unico mezzo per sfuggire al dispiegarsi dell’incubo della molteplicità della storia, e per tornare nella mia epoca. Tuttavia sapevo di non avere, almeno per il momento, nessuna possibilità di recuperarla: non potevo fare altro che attendere gli eventi.

Percorremmo Hill Street, prima di svoltare in George Street, priva della vivacità e dell’eleganza che avevano caratterizzato la strada di negozi della mia epoca. I grandi magazzini, come Gosling’s e Wright’s, erano chiusi da tempo: persino le tavole che sigillavano le vetrine erano sbiadite da anni di esposizione al sole. Una vetrina di Gosling’s era stata forzata in un angolo, evidentemente da alcuni saccheggiatori, i quali vi avevano praticato un’apertura che sembrava dovuta al morso di un ratto di dimensioni umane. Passammo dinanzi a una tettoia bassa, con il tetto inclinato, accanto alla quale stava una colonnina a strisce gialle e nere, dalla pittura tutta screpolata, con una vetrinetta infranta.

— Era un rifugio contro le incursioni aeree — spiegò Filby, in risposta alla mia domanda. — Appartiene a uno dei primi modelli, del tutto inadeguati: se l’esplosione avveniva frontalmente… Be’! La colonnina era una stazione di pronto soccorso, equipaggiata con respiratori e maschere. Si usavano prima che iniziasse il grande esodo nelle Cupole.

Incursioni aeree… Non è certo un mondo felice, questo, che ha dovuto coniare termini del genere…

— I tedeschi — sospirò Filby — dispongono di torpedini aeree. Si tratta di macchine volanti capaci di volare per duecento miglia, sganciare una bomba, e tornare! Sono interamente meccaniche: non hanno alcun bisogno d’intervento umano. È un mondo di portenti, questo, perché la guerra fornisce stimoli vigorosi all’ingegno umano. Ti piacerà, vedrai!

— I tedeschi… — ripeté Mosè. — Non abbiamo mai avuto altro che guai, dai tedeschi, fin dall’avvento di Bismarck… È ancora vivo quel vecchio furfante?

— No. Però ha lasciato successori capaci — rispose torvamente Filby.

Non avevo nulla da commentare. Dal mio punto di vista, ormai tanto diverso da quello di Mosè, persino un bruto come Bismarck non sembrava giustificare neppure la perdita di un solo essere umano.

Con frasi spezzate, ansimando, Filby mi parlò delle altre prodigiose e gigantesche macchine da guerra di quell’epoca ottenebrata, che immaginai stessero devastando i mari e le pianure d’Europa: per esempio, i sommergibili progettati appositamente per la guerra chimica, dotati di autonomia pressoché illimitata, ciascuno equipaggiato con sei missili e una provvista formidabile di bombe a gas; e i corazzati di diverso tipo, capaci di spostarsi sottoterra o di navigare sia in emersione che in immersione. A tutto ciò si opponevano sbarramenti ugualmente formidabili di mine e di artiglierie d’ogni genere.

Evitai lo sguardo di Nebogipfel, giacché non ero in grado di sopportare il suo giudizio. Non si trattava, infatti, di un territorio nell’Interno della Sfera, popolato da lontani discendenti della mia stirpe, non più umani, bensì del mio mondo e della mia specie, in preda alla follia bellica. Quanto a me, conservai almeno in parte il punto di vista che avevo sviluppato nell’Interno della Sfera. Sopportavo a stento di vedere il mio paese abbruttito da quella follia, e i commenti di Mosè, viziati dai preconcetti meschini della sua epoca, mi addoloravano. D’altronde, non potevo certo attribuire la responsabilità a lui! Eppure m’inquietava pensare che la mia stessa immaginazione fosse stata un tempo tanto limitata, tanto malleabile.

2 Un viaggio in treno

Giungemmo a una rozza stazione ferroviaria, diversa da quella, che avevo conosciuto nel 1891, sulla linea che da Richmond andava a Waterloo, passando per Barnes: era lontana dal centro cittadino, a breve distanza da Kew Road. Inoltre, era ben strana, come stazione: non aveva biglietterie, era priva d’insegne, la banchina era una spoglia striscia di cemento. Una nuova linea era in costruzione. Ci attendeva un treno composto da una sola carrozza, trainata da una locomotiva sciatta e scura, priva di luci e persino dei contrassegni della compagnia ferroviaria, la quale tetramente eruttava vapore dalla caldaia sporca di fuliggine.

Nell’aprire la porta della carrozza, che era pesante, munita tutt’intorno di una guarnizione in gomma, Oldfield, i cui occhi erano visibili attraverso gli occhiali, dardeggiò occhiate tutt’ intorno: in un soleggiato pomeriggio del 1938, Richmond non era un luogo sicuro.

La carrozza, priva di qualunque ornamento, dipinta di un marrone spento, uniforme e anonimo, conteneva soltanto file di dure panche lignee senza imbottitura. I finestrini, chiusi, potevano essere schermati con le tendine.

Piuttosto goffamente, prendemmo posto gli uni di fronte agli altri. In quella giornata di sole, un caldo soffocante regnava all’interno della carrozza.

Appena Oldfield ebbe richiuso la porta, il treno partì con uno scossone.

— Evidentemente siamo gli unici passeggeri — mormorò Mosè.

— Be’, è uno strano treno — commentai. — Scarseggia alquanto di comodità, eh, Filby?

— Quest’epoca non offre molto in fatto di comodità, vecchio mio.

Per alcune miglia, attraversammo una campagna desolata simile a quella che circondava Richmond. Il paese, occupato quasi interamente dalle coltivazioni agricole, era deserto, a parte i pochi contadini che si scorgevano qua e là, al lavoro nei campi. Avrebbe potuto essere un paesaggio del quindicesimo secolo, anziché del ventesimo, se non fosse stato per le case bombardate e diroccate, nonché per i rifugi antiaerei, simili a giganteschi carapaci in cemento, semisepolti. Le zone intorno ai rifugi erano pattugliate da soldati armati, che guardavano trucemente il mondo attraverso gli occhiali delle maschere antigas, simili a musi d’insetti, come se sfidassero i profughi ad avvicinarsi.

Nei pressi di Mortlake, vidi quattro uomini impiccati ai pali del telegrafo lungo la strada: i cadaveri lividi e flosci erano stati evidentemente straziati dagli uccelli. Allorché gli dissi quanto mi sembrasse orribile lo spettacolo che lui stesso e i militari non avevano neppure notato, Filby volse gli occhi acquosi in quella direzione, mormorando qualcosa a proposito del fatto che senza dubbio quei disgraziati erano stati sorpresi a rubare rape svedesi, o qualcosa del genere.

Capii che simili scene erano consuete, nell’Inghilterra del 1938.

Proprio allora, senza preavviso, il treno, che procedeva in discesa, entrò in una galleria. Si accesero due deboli lampadine elettriche, nella cui luce gialla rimanemmo seduti a guardarci tetramente.

— È una sotterranea? — chiesi. — Ci troviamo in una diramazione della metropolitana, immagino.

Apparentemente confuso, Filby rispose: — Suppongo che la linea abbia un numero…

— Almeno — Mosè fece per slacciarsi la maschera — possiamo sbarazzarci di questi arnesi tremendi…

Subito Bond gli posò una mano su un braccio: — No, non è sicuro.

— I gas arrivano ovunque — annuì Filby. Mi sembrò che fosse scosso da un tremito, ma non potei esserne sicuro a causa dell’uniforme ampia che indossava. — Finché non l’avrete passata…

Poi, con poche, vivide frasi ci descrisse un’incursione di cui era stato testimone all’inizio della guerra, a Knightsbridge, quando le bombe venivano ancora lanciate a mano dagli aerostati, e la popolazione non vi si era ancora abituata.

Ci rendemmo conto che simili spettacoli orrendi erano diventati comuni in quel mondo di guerra interminabile!

— Mi stupisce — osservai — che il morale non sia già crollato.

— Sembra che la popolazione resista. Naturalmente, non sono mancati i momenti duri — rispose Filby. — Ricordo, ad esempio, l’agosto del 1918… Vi fu un momento in cui sembrò che gli Alleati Occidentali fossero in procinto, dopo tanto tempo, di avere la meglio sui dannati tedeschi e di porre fine alla guerra. Poi vi fu la battaglia del kaiser, la Kaiserschlacht, la grande vittoria di Ludendorff, il quale si aprì la strada fra le linee inglesi e francesi… Dopo quattro anni di guerra di trincea, fu una grande avanzata per i tedeschi. Naturalmente, il bombardamento di Parigi, in cui perirono tanti generali dello stato maggiore francese, non ci fu d’aiuto…

— La rapida vittoria in occidente — annuì Bond — consentì ai tedeschi di volgere la loro attenzione ai Russi, in oriente. Poi, nel 1925…

— Nel 1925 — riprese Filby — i dannati tedeschi avevano ormai fondato la Mitteleuropa che avevano tanto sognato.

Insieme, Filby e Bond mi descrissero la situazione. La Mitteleuropa, l’Europa dell’Asse, era un unico grande mercato che si stendeva dalla costa atlantica fin oltre gli Urali. Entro il 1925, il kaiser aveva esteso il proprio dominio dall’Atlantico al Baltico, attraverso la Polonia russa fino alla Crimea. La Francia, indebolita, privata di gran parte delle proprie risorse, era diventata l’avanzo di se stessa. Il Lussemburgo era stato annesso alla federazione tedesca. Il Belgio e l’Olanda erano stati obbligati a porre i loro porti a disposizione dei tedeschi. Le miniere francesi, belghe e rumene erano state sfruttate per alimentare l’ulteriore espansione del Reich in oriente, gli Slavi erano stati scacciati, e milioni di non Russi erano stati “liberati” dal dominio di Mosca…

Il racconto continuò così, in tutti i suoi dettagli privi, per noi, di significato.

— Poi, nel 1926 — raccontò Bond — gli Alleati, ossia l’Impero Britannico e l’America, riaprirono il fronte occidentale. L’invasione dell’Europa: fu il più grande trasferimento di truppe e di materiali, per cielo e per mare, che si fosse mai veduto. All’inizio andò tutto bene. Le popolazioni della Francia e del Belgio insorsero, e i tedeschi furono respinti…

— Ma non per molto — intervenne di nuovo Filby. — In breve tempo, si ritornò alla situazione del 1915, con due eserciti immensi immobilizzati nei pantani della Francia e del Belgio.

Così era iniziato l’assedio all’Europa. Nel frattempo, le risorse disponibili per la guerra erano notevolmente aumentate: sia il sangue dell’Impero Britannico e del continente americano, sia quello della Mitteleuropa, erano stati interamente versati nella sentina terribile della guerra.

Poi erano iniziate le operazioni ai danni dei civili, per mezzo delle torpedini aeree e dei gas.

Trucemente, Mosè citò: — “Le guerre dei popoli saranno più terribili di quelle dei re.”

— Ma… E le popolazioni, Filby! Come hanno reagito le popolazioni?

Attutita dalla maschera, la voce del mio vecchio amico mi sembrò al tempo stesso familiare ed estranea: — Scoppiarono sommosse popolari: soprattutto sul finire degli anni Venti, ricordo. Poi fu emanata l’Ordinanza 1305, che rese illegali gli scioperi, le serrate e tutto il resto. E così, ogni opposizione cessò. Da allora… Be’, abbiamo sempre tirato avanti e sopportato, suppongo…

Intanto, mi accorsi che la galleria si allargava, come se il treno stesse entrando in un ambiente sotterraneo più spazioso.

Con evidente sollievo, Bond e Oldfield si slacciarono le maschere. Filby fece altrettanto, e quando la sua povera vecchia testa fu libera da quella prigione umida, vidi i segni bianchi che il facciale gli aveva lasciato sul mento: — Ora va meglio! — commentò.

— Siamo al sicuro, adesso?

— Dovremmo esserlo, per quanto è possibile!

A mia volta mi tolsi la maschera. Mosè si affrettò a imitarmi, quindi aiutò Nebogipfel. Quando il visino del Morlock rimase scoperto, Oldfield, Bond e Filby lo fissarono apertamente (e io non potei certo biasimarli), finché Mosè lo aiutò a risistemarsi il berretto e gli occhiali.

— Dove siamo? — domandai.

— Non la riconosci? — Filby accennò all’oscurità che si vedeva attraverso il finestrino.

— Io…

— È Hammersmith, vecchio mio. Abbiamo appena attraversato il fiume.

Allora Bond spiegò: — Ci troviamo ad Hammersmith Gate. Siamo entrati nella Cupola di Londra.

3 Londra in guerra

La Cupola di Londra!

Nulla di ciò che avevo conosciuto nella mia epoca mi aveva preparato a quella stupenda realizzazione architettonica. Immaginate una volta di cemento e d’acciaio del diametro di quasi due miglia, che copriva la città da Hammersmith a Stepney, e da Islington a Clapham, sostenuta da colonne, puntoni e contrafforti, conficcati nell’argilla londinese, che interrompevano ovunque le strade, dominando e imprigionando la popolazione come le gambe di una folla di giganti.

Proseguendo oltre Hammersmith e Fulham, il treno si addentrò nella Cupola. Quando la mia vista si fu adattata all’oscurità, scoprii che l’illuminazione stradale tracciava un’immagine di Londra che potevo ancora riconoscere. Individuai Kensington High Street, oltre una recinzione, e Holland Park, e così via.

Nonostante i nomi di strade e di luoghi che mi erano noti, quella era però una Londra nuova, di notte eterna, che non poteva più godere della luce del cielo estivo. Tuttavia, Filby mi spiegò che la città aveva accettato tutto ciò come prezzo per la sopravvivenza: le bombe e le torpedini rimbalzavano sulla Cupola, oppure esplodevano innocue nell’aria, lasciando illesa la sottostante e popolosa Cobbett.

Ovunque, le città un tempo splendenti di luci, che avevano trasformato l’emisfero notturno del mondo in un gioiello scintillante, erano state coperte con le Cupole: ormai, le persone si spostavano di rado dall’una all’altra, preferendo rimanere rintanate nell’oscurità artificiale.

La nuova linea ferroviaria che stavamo percorrendo attraversava le vecchie strade, le quali erano molto affollate, ma di pedoni o di ciclisti: a differenza di quanto mi ero aspettato, non vidi vetture a cavalli, né a motore. Vidi invece parecchi risciò trainati da magri e sudati Cockney, spesso costretti a girare intorno alle colonne della Cupola.

Nel guardare la folla dal finestrino del treno che rallentava, percepii, nonostante l’attività, un’atmosfera di scoraggiamento e di disillusione: teste chine, volti stanchi e segnati, spalle curve. Mi sembrò di cogliere una perseveranza nello svolgimento delle attività quotidiane, a cui si accompagnava però ben poca gioia, ciò che non era affatto sorprendente.

Stranamente, non si vedevano bambini. Bond mi spiegò che, per maggiore protezione dalle bombe, i figli avevano nelle scuole sotterranee, mentre i genitori lavoravano nelle fabbriche di munizioni o nei grandi aerodromi costruiti intorno a Londra, a Balham, ad Hackney e a Webley. Forse dal punto di vista della sicurezza era un’organizzazione adeguata, ma quanto era tetra la città senza le risa dei bambini che giocavano: ero disposto a riconoscerlo persino io, che ero uno scapolo soddisfatto! E quale preparazione alla vita potevano mai ricevere i poveri giovani nei sotterranei?

Ancora una volta i miei viaggi mi avevano condotto in un mondo di oscurità senza barlumi: un mondo che i Morlock avrebbero apprezzato. I costruttori della Cupola, tuttavia, non erano morlock: appartenevano alla mia specie, ed erano stati costretti dalla guerra a rinunciare alla luce che spettava loro per diritto di nascita. Fui invaso da una depressione profonda, che mi avrebbe afflitto durante tutto il mio soggiorno nel 1938.

Qua e là vidi testimonianze più dirette dell’orrore della guerra. In Kensington High Street vidi camminare, con l’aiuto indispensabile di una giovane donna magra, un uomo con gli occhi piccoli e lustri come perle, infossati nelle orbite smunte, e le labbra sottili e contratte, nel viso grigio cosparso di chiazze bianche e purpuree.

Quando glielo indicai, Filby sbuffò: — Ustioni belliche. Hanno sempre lo stesso aspetto, gli ustionati… Quello è un aviatore, probabilmente: un giovane gladiatore, uno di coloro di cui noi tutti ammiriamo le imprese, quando le chiacchieratrici ne parlano! Eppure dove possono andare, dopo? — Mi guardò, posandomi una mano avvizzita su un braccio. — Non voglio sembrarti spietato, mio caro amico… Sono ancora il Filby che conoscevi. È soltanto che… Dio! È soltanto che siamo costretti a indurirci.

Molti degli antichi edifici di Londra erano sopravvissuti, però era stato necessario abbattere i più alti per costruire la Cupola: mi domandai se la colonna di Nelson fosse rimasta! Gli edifici nuovi erano bassi e sciatti. Restavano inoltre le cicatrici del periodo iniziale della guerra, prima che la Cupola fosse completata: i crateri aperti dalle esplosioni, simili a gigantesche orbite vuote, e i cumuli di macerie che nessuno aveva ancora avuto l’energia o la volontà di rimuovere.

La sommità della Cupola, a circa sessanta metri d’altezza, sovrastava Westminster, nel cuore di Londra: dalle strade del centro scaturivano raggi che la illuminavano. Ovunque, dalle strade e dal fiume, spuntavano, a sostenere la volta come diecimila Atlanti di cemento, le colonne, fitte, rozze, strombate o rinforzate, che avevano trasformato Londra in una sorta d’immenso tempio moresco.

Mi domandai se il suolo gessoso e argilloso su cui la città era costruita fosse in grado di sostenere quel peso colossale. E se la Cupola fosse sprofondata nel fango insieme al suo carico prezioso di milioni di vite? Pensai con desiderio alla futura Epoca degli Edifici Immensi, in cui il dominio sulla gravità, del quale avevo intravisto i risultati, avrebbe reso futili le costruzioni come la Cupola.

Eppure, nonostante la rozzezza e la fretta con cui era stata costruita, e la sua funzione lugubre, rimasi impressionato dalla Cupola: interamente realizzata in pietra, con una tecnica di poco superiore a quella della mia epoca, mi sembrò più notevole di tutti i portenti che avevo osservato nell’anno 657.208.


Evidentemente eravamo ormai prossimi alla fine del viaggio, perché il treno rallentò sin quasi a passo d’uomo. I negozi erano aperti, ma le vetrine erano scarsamente illuminate, e spesso danneggiate; i manichini indossavano abiti sciatti; e i negozianti guardavano fuori: la guerra lunga e aspra aveva cancellato quasi completamente la moda e l’eleganza.

Finalmente il treno si fermò.

— Eccoci arrivati — annunciò Bond. — Siamo a Canning Gate. In pochi minuti di cammino giungeremo all’Imperial College.

Quando Oldfield aprì la porta della carrozza, si udì uno schiocco, come se nella Cupola la pressione fosse alta, e un’ondata di rumore c’investì. Sulla banchina attendevano soldati nell’uniforme oliva della fanteria.

Così, afferrata la maschera antigas che mi era stata prestata, entrai nella Cupola di Londra.

Innanzitutto, rimasi sconcertato dal rumore: fu come scendere in una cripta immane dove già si trovavano milioni di persone: il vociare, lo stridere delle ruote dei treni, il ronzare dei tram, rimbalzavano sull’immensa volta buia e ricadevano a percuotermi. Era più caldo che all’interno del Raglan. Moltissimi odori si mescolavano, non tutti piacevoli: quello del cibo, quello dell’ozono delle macchine, quelli del vapore e del lubrificante dei treni, e soprattutto quello della gente: milioni di persone che respiravano e sudavano nella coltre d’aria immota.

Le luci installate nella Cupola erano sufficienti a lasciarne intravedere la struttura, anche se non bastavano a illuminare le strade. Vidi svolazzare in alto piccole ombre che, come mi spiegò Filby, erano i piccioni di Londra: si erano adattati all’oscurità, diventando quasi albini, e sopravvivevano insieme alle colonie di pipistrelli che si erano rese impopolari in alcuni quartieri.

A settentrione vidi uno schermo illuminato da cui giungevano gli echi di una voce amplificata. Filby disse che si trattava della “chiacchieratrice”: mi sembrò di capire che fosse una sorta di cinematografo pubblico, ma era troppo lontano perché potessi osservarne i particolari.

Notai che la nuova linea ferroviaria che avevamo percorso era stata rozzamente costruita sfondando la vecchia superficie stradale, e che la “stazione” era poco più di una gettata di cemento in mezzo a Canning Place. Tutti i cambiamenti di cui era costituito quel mondo a me nuovo rivelavano fretta e panico.

I soldati si disposero in una formazione a rombo intorno a noi per scortarci dalla stazione, attraverso Canning Place, in direzione di Gloucester Road. Mosè stringeva i pugni, e nel suo abbigliamento sgargiante appariva spaventato e vulnerabile: mi sentii dolorosamente colpevole di averlo condotto in quel mondo spietato di spallacci metallici e di maschere antigas.

Guardai lungo De Vere Gardens, verso il Kensington Park Hotel, dov’ero stato solito pranzare in tempi più lieti: il portico era indenne, ma la facciata era decrepita, e molte finestre erano chiuse. Sembrava che l’albergo fosse stato inglobato nella nuova stazione ferroviaria.

Svoltammo in Gloucester Road, dove transitava molta gente, sia sui marciapiedi sia in strada. Il suono dei campanelli di bicicletta faceva da contrappunto allegro all’atmosfera di sconforto. Il nostro gruppetto, e soprattutto Mosè, a causa del suo abbigliamento, attirarono lunghe occhiate, ma nessuno ci avvicinò o ci parlò. I soldati erano numerosi: alcuni indossavano uniformi simili a quelle dell’equipaggio del corazzato, ma molti ne indossavano di semplici e mal confezionate, che non sarebbero parse fuori posto nel 1891.

Le donne portavano camicette e gonne fini, semplici e funzionali. L’unica cosa sorprendente era che le gonne erano molto corte: arrivavano poco sotto il ginocchio, talché in pochi metri vidi esposti più polpacci e caviglie femminili di quanti ne avessi mai visti prima in tutta la vita. Ciò non m’interessò granché, inserito in quel contesto che includeva tanti mutamenti, però sembrò risultare alquanto più affascinante per Mosè, il cui modo di guardare mi parve poco degno di un gentiluomo.

Tutti i pedoni, comunque, indossavano gli strani spallacci metallici e portavano, nonostante il calore estivo, pesanti borse di tela con le maschere antigas.

Mi accorsi che tutti i soldati della nostra scorta avevano le fondine aperte, ma non intendevano servirsi delle armi contro di noi: guardinghi, scrutavano la folla che ci circondava.

Svoltammo a oriente, in Queen’s Gate Terrace. Era una strada di Londra che conoscevo bene, ampia ed elegante, fiancheggiata da case alte che non erano cambiate molto dalla mia epoca: le facciate ostentavano ancora le decorazioni in stile greco-romano che ricordavo, come le colonne scolpite a motivi floreali, e lungo il marciapiede correvano le inferriate dipinte di nero.

Allorché giungemmo a metà della strada, Bond ci fermò dinanzi a una casa, salì un gradino, e con una mano guantata bussò alla porta, che fu aperta da un soldato semplice in uniforme da battaglia: — Tutte queste case sono state requisite qualche tempo fa dal ministero dell’aria — spiegò la capitana. — Avrete tutto ciò che vi occorre: non dovrete fare altro che chiedere ai soldati. E Filby rimarrà con voi.

Scambiai un’occhiata con Mosè: — Ma che cosa dobbiamo fare, adesso?

— Soltanto aspettare. Ristoratevi, riposate… Sa il cielo che ora sia, secondo i vostri organismi. Ho ricevuto disposizioni: il ministero dell’aria è molto interessato a conoscerla — mi disse Bond. — Uno scienziato del ministero è incaricato di occuparsi del suo caso: verrà domattina a incontrarla. Be’, buona fortuna. Forse ci rivedremo. — Ciò detto, strinse virilmente la mano a me e a Mosè, quindi chiamò Oldfield, e con lui si allontanò lungo la strada: erano due giovani guerrieri, coraggiosi e dal portamento eretto, nonché in tutto e per tutto tanto fragili quanto il derelitto ustionato che avevo visto in Kensington High Street.

4 La casa in Queen’s Gate Terrace

La casa, che Filby ci condusse a visitare, aveva stanze ampie, pulite e luminose, benché le tende fossero tirate. L’arredamento, confortevole, era in uno stile semplice, che si sarebbe adattato al 1891: la differenza principale stava nella dotazione di una gran quantità di nuovi apparecchi elettrici, come le lampade di diverso genere, la cucina, i refrigeratori, i ventilatori e i riscaldatori.

Quando scostai la tenda pesante, scoprii che la finestra della sala da pranzo era dotata di doppi vetri, nonché, al pari delle porte, di guarnizioni in gomma e cuoio. Fuori, nella sera inglese di giugno, si vedeva soltanto l’oscurità della Cupola, tagliata dai lontani raggi luminosi della volta. Sotto la finestra, in un vano chiuso da un pannello intarsiato, trovai alcune maschere antigas.

Nondimeno, con le tende tirate e le luci accese, era possibile dimenticare per un poco la tetraggine del mondo esterno.

La sala da fumo era ben fornita di libri e di giornali. Nebogipfel osservò con particolare attenzione questi ultimi, evidentemente incerto sulla loro funzione. Un armadio chiuso da griglie multiple rivelò, quando Mosè lo aprì, un assemblaggio sconcertante di valvole, rotoli e coni di carta annerita. Ci fu spiegato che si trattava di un apparecchio chiamato fonografo. Aveva la forma e le dimensioni di un orologio, ed era dotato di alcuni barometri, di un cronometro e di un calendario elettrici, oltre che di alcuni congegni promemoria. Era in grado di ricevere i discorsi e persino la musica trasmessi, con alta fedeltà di riproduzione, da una sofisticata estensione del telegrafo senza fili della mia epoca. Mosè ed io ci dedicammo per un poco a studiare e a sperimentare quell’apparecchio. Poteva essere sintonizzato in maniera tale da ricevere onde radio di frequenza diversa mediante un condensatore regolabile, che consentiva all’ascoltatore di scegliere la frequenza di risonanza dei circuiti sintonizzati. Per giunta, esisteva un numero notevole di stazioni di trasmissione: almeno tre o quattro!

Dopo essersi servito un whisky con acqua, Filby osservò con indulgenza i nostri esperimenti: — Il fonografo è un apparecchio meraviglioso. Non credete anche voi che faccia di tutti noi un unico popolo? Naturalmente, tutte le stazioni sono midi.

— Midi?

— È un acronimo che indica il ministero dell’informazione. — Ciò detto, Filby tentò di suscitare il nostro interesse descrivendoci un nuovo tipo di fonografo capace di trasmettere immagini. — È stato di moda per poco tempo prima della guerra, poi gli effetti di distorsione delle Cupole ne hanno bloccato la diffusione. E se si desiderano immagini, c’è sempre la chiacchieratrice, no? Anche tutti i suoi notiziari e i suoi spettacoli sono midi, naturalmente, ma sono l’ideale per coloro che apprezzano i discorsi appassionanti dei politici e dei militari, oppure le omelie d’incoraggiamento dei religiosi. — Bevve un sorso di whisky e fece una smorfia. — Ma che cosa ci si può aspettare? Dopotutto, è la guerra!

In breve, stanchi dei notiziari tediosi e della fiacca musica d’orchestra trasmessi dalle varie stazioni, Mosè ed io spegnemmo il fonografo.

Ciascuno di noi, persino il Morlock, ebbe una camera da letto e un cambio di biancheria, ma si trattava d’indumenti inadatti, che erano stati evidentemente procurati in tutta fretta. Un giovane soldato dal viso lungo e magro, di nome Puttick, aveva l’incarico di rimanere con noi nella casa. Pur indossando sempre l’uniforme da battaglia, costui si dimostrò perfetto come cuoco e come domestico. All’esterno, la strada e i dintorni dell’edificio furono sempre pattugliati da altri soldati: con tutta evidenza, ci sorvegliavano, per garantire la nostra incolumità, o per tenerci prigionieri.

Verso le sette, quando Puttick ci chiamò a cena, Nebogipfel non si unì a noi: dopo avere chiesto un bicchiere d’acqua e un piatto di vegetali crudi, rimase nella sala da fumo, con gli occhiali aderenti sul volto villoso, ad ascoltare il fonografo e a leggere le riviste.

La cena fu semplice ma gustosa: un piatto di quello che sembrava arrosto, con contorno di patate, cavoli e carote. La sostanza che pareva carne era tenera, dalle fibre corte, che si separavano facilmente. — Che cos’è? — domandai.

— Soia.

— Cosa?

— Soia: una leguminosa che cresce in tutto il paese, fuori delle Cupole. Persino l’Ovale, il campo da cricket, è stato destinato alla sua coltivazione. La carne, infatti, non è facile da ottenere, di questi tempi: è difficile persuadere le pecore e i bovini a indossare le maschere antigas! — Filby tagliò una fetta di vegetale trattato e se la ficcò in bocca. — Assaggia! È abbastanza gustosa. La scienza gastronomica moderna è molto ingegnosa.

Il surrogato di arrosto mi parve secco e friabile, con un sapore che mi ricordò quello del cartone bagnato.

— Non è tanto male — aggiunse coraggiosamente Filby. — Ti ci abituerai.

Non sapendo che cosa rispondere, bevvi il vino. Benché avesse un sapore da Bordeaux decente, preferii non chiederne la provenienza. Il resto della cena fu consumato in silenzio.

Feci un breve bagno, approfittando dell’acqua calda che sgorgava a volontà dai rubinetti. Dopo avere brevemente fumato un sigaro e bevuto un brandy in compagnia, ci ritirammo tutti. Soltanto Nebogipfel rimase sveglio, perché i Morlock non dormono come noi, e chiese un taccuino e alcune matite: fu necessario insegnargli ad usare il temperino e la gomma.

Giacqui accaldato nel letto stretto, con l’aria che diventava sempre più soffocante nella stanza dalle finestre sigillate. All’esterno, i rumori della Londra devastata dalla guerra echeggiavano nella Cupola. Attraverso le fessure fra le tende vidi brillare nella notte le luci dei proiettori d’informazione del ministero.

Per quanto strano possa sembrare, i rumori dei passi felpati di Nebogipfel e della matita sulla carta, provenienti dalla sala da fumo, mi furono di conforto.

Infine, mi addormentai.


L’orologio sul tavolo accanto al letto segnava le sette, la mattina successiva, quando mi svegliai. All’esterno, naturalmente, l’oscurità era ancora densa come nella notte più nera.

Dopo essermi alzato, indossai la camicia e i calzoni leggeri e malmessi che avevano ormai visto tante avventure, sopra alcuni indumenti puliti: la biancheria, la camicia e la cravatta. Sebbene fosse presto, l’aria era greve: mi sentivo intontito e intorpidito.

Scostai la tenda e vidi la chiacchieratrice ancora accesa. Mi sembrò di udire brani di musica esaltante: forse una marcia, indubbiamente intesa ad esortare i lavoratori riluttanti a dedicarsi a un’ altra giornata di lavoro per contribuire allo sforzo bellico.

Al piano inferiore, in sala da pranzo, trovai soltanto Puttick, il soldato domestico, che mi servì la colazione: pane tostato, salsicce composte di qualche inidentificabile surrogato di carne, e ciò che secondo Puttick era un’autentica rarità, ossia un uovo leggermente fritto.

Inghiottendo un ultimo pezzo di pane tostato, mi recai nella sala da fumo, dove Mosè e Nebogipfel erano curvi sulla scrivania spaziosa, ingombra di libri, di mucchi di carte, e di tazze di tè ormai freddo.

— Non si è visto Filby? — domandai.

— Non ancora — rispose Mosè, che aveva la chioma scompigliata, il volto non rasato, e indossava ancora la vestaglia.

Sedetti alla scrivania: — Dannazione, Mosè… Sembra che tu non abbia chiuso occhio.

Sorridendo, Mosè si passò una mano nel ciuffo irto sulla fronte ampia: — Be’, è proprio così… Non ce l’ho fatta. Credo di averne viste troppe. Mi sembrava di essere in preda alla vertigine, e sapevo che Nebogipfel era ancora alzato, così sono sceso qui. — Mi guardò, con gli occhi arrossati e le occhiaie scure. — Abbiamo trascorso una notte affascinante: davvero affascinante! Nebogipfel mi ha introdotto ai misteri della meccanica quantistica.

— Della… che?!

Proprio così — intervenne Nebogipfel. — E Mosè, a sua volta, mi ha insegnato a leggere l’Inglese.

— Per giunta, lui apprende maledettamente in fretta — riprese Mosè. — Una volta imparati l’alfabeto e i fondamenti della fonetica… è partito!

Frugai nella confusione della scrivania, notando alcuni fogli di taccuino scritti con strani simboli criptici: immaginai che fosse la scrittura morlock. Esaminando un foglio, mi resi conto che Nebogipfel aveva usato molto goffamente le matite: in alcuni punti la carta era strappata. D’altronde, il poveretto non aveva mai dovuto servirsi prima di un attrezzo tanto rozzo quanto una penna o una matita: mi domandai come me la sarei cavata io a maneggiare gli arnesi di selce dei miei antenati, che erano meno lontani da me nel tempo di quanto lo fosse il 1938 dalla sua epoca.

— Mi sorprende che tu non abbia acceso il fonografo, Mosè — commentai. — Non t’interessa informarti sul mondo in cui ci troviamo?

— Trasmette quasi esclusivamente musica, o storie moralistiche, di propaganda, del genere che non ho mai trovato digeribile, come tu ben sai. Mi hanno completamente stufato anche le continue sciocchezze che vengono spacciate per notizie. Si vorrebbe affrontare gli interrogativi fondamentali, vale a dire dove siamo, come siamo arrivati qui, dove siamo diretti, e invece si viene sommersi da un profluvio di assurdità sui ritardi dei treni, e sui problemi di approvvigionamento, o sui dettagli incomprensibili delle più remote campagne militari, di cui si dovrebbe già conoscere il contesto.

Percossi amichevolmente un braccio del mio giovane alter ego: — Che cosa ti aspettavi? Pensa… Noi siamo immersi nelle profondità nella storia, come turisti temporali. Ma la gente comune, di solito, è interessata soltanto alla superficie delle cose, e giustamente! Quando mai, nella tua epoca, trovavi i quotidiani zeppi di profonde analisi sulle origini dell’essere e del divenire? Quanta parte della tua conversazione concerneva le interpretazioni delle condizioni generali di vita nel 1873?

— Hai ragione. — Mosè pareva poco interessato al dialogo e per nulla disposto a dedicare grande attenzione al mondo circostante. Infatti, cambiò subito discorso: — Ascolta… Devo parlarti della nuova teoria che mi è stata spiegata dal tuo amico morlock… — Gli occhi gli s’illuminarono, la voce gli si schiarì, perciò compresi che quell’argomento gli era decisamente più congeniale: immaginai che fosse un modo per fuggire, dalle complessità della nostra situazione, agl’immacolati misteri della scienza.

Dato che nei giorni a venire Mosè avrebbe avuto tempo a sufficienza per affrontare il mondo, decisi di accontentarlo: — Se ben capisco, tutto ciò ha qualcosa a che fare con la nostra attuale condizione…

— Proprio così — confermò Nebogipfel, passandosi le dita tozze sulle tempie in un gesto eloquente, e molto umano, di stanchezza. — La meccanica quantistica è il contesto all’interno del quale debbo costruire una teoria che ci consenta di comprendere la molteplicità della storia, di cui stiamo facendo esperienza.

— È uno sviluppo teorico straordinario — si entusiasmò Mosè. — Era del tutto imprevedibile nella mia epoca: anzi, persino inimmaginabile! È sbalorditivo che l’ordine delle cose possa essere rovesciato tanto rapidamente!

Posai il foglietto di Nebogipfel: — Spiegatemi tutto.

5 L’interpretazione della molteplicità dei mondi

Quando Nebogipfel si accinse a incominciare, Mosè sollevò una mano: — No. Lascia parlare me. Voglio vedere se ho capito bene. Ascolta… Tu immagini che il mondo sia fatto di atomi, vero? Non ne conosci la composizione, perché sono troppo piccoli per poter essere osservati, ma in sostanza si tratta di parecchie minuscole particelle che girano e rimbalzano come bocce da biliardo.

L’eccessiva semplificazione mi fece accigliare: — Dovresti ricordare, credo, con chi stai parlando.

— Oh, lasciami fare a modo mio! Ascoltami attentamente, adesso, perché debbo spiegarti che questo punto di vista è sbagliato in ogni particolare.

— Com’è possibile? — chiesi, sempre più accigliato.

— Tanto per cominciare, lascia perdere la particella, perché una bestia del genere non esiste. Si è scoperto che, nonostante la convinzione di Newton, non si può mai stabilire esattamente dove sia una particella, né dove sia diretta.

— Ma se si disponesse di microscopi abbastanza potenti, sicuramente si potrebbero osservare le particelle con un grado di precisione…

— Lascia perdere! — ordinò Mosè. — Esiste un limite invalicabile alle misurazioni, stabilito da quello che viene definito, se ho ben capito, principio di indeterminazione. Per quanto riguarda il mondo, dobbiamo dimenticarci di qualunque natura precisa, di qualunque determinatezza. Dobbiamo pensare in termini di probabilità: la possibilità di trovare un oggetto fisico nel luogo tale, alla velocità tale, e così via. Tutto è per così dire sfuocato, in maniera tale che…

— Un momento! — interruppi risolutamente. — Supponiamo che io esegua un esperimento semplicissimo. Servendomi di un microscopio di una certa precisione, potrei determinare la posizione di una particella in un dato istante. Spero che tu non voglia negare la validità di un simile esperimento… Ebbene, ho la misura che cercavo! Dove sta l’incertezza in tutto questo?

— Il punto è che — intervenne Nebogipfel — se si potesse tornare indietro a ripetere l’esperimento, esisterebbe una possibilità limitata di trovare la particella in un altro luogo, forse molto lontano dal primo…

Per un poco, i miei due compagni seguitarono ad argomentare su quel problema, finché li interruppi: — Basta così. Per amore di discussione, riconosco la validità del vostro punto di vista. Ma quale importanza ha in rapporto alla nostra situazione?

— Esiste, anzi, esisterà — rispose Nebogipfel — una nuova filosofia, chiamata l’interpretazione della molteplicità dei mondi della meccanica quantistica. — Questa frase enigmatica, pronunciata dalla strana voce aliena del Morlock, mi fece correre una serie di brividi lungo la spina dorsale. — Devono trascorrere ancora dieci o vent’anni prima della pubblicazione degli studi fondamentali: ricordo il nome di Everett…

— È così — riprese Mosè, — Supponi di avere una particella che può stare soltanto in due luoghi: qui o là, diciamo. E a ciascun luogo è associato un certo numero di probabilità. È chiaro? Osservando con il microscopio, scopri che la particella si trova qui…

— Secondo la concezione della molteplicità dei mondi — spiegò Nebogipfel — la storia si divide in due allorché si compie un esperimento del genere. Nell’altra storia, esiste un altro osservatore, che ha appena scoperto l’oggetto là, anziché qui.

— Un’altra storia?

— Tanto reale e coerente quanto questa — sorrise Mosè. — Esiste un altro osservatore: anzi, un numero infinito di osservatori, che prolificano come conigli in ogni momento!

— È spaventoso — osservai. — Credevo che due fossero già più che sufficienti. Però… Ascolta, Nebogipfel… Non ce ne accorgeremmo, se venissimo scissi in questo modo?

— No, perché qualunque misurazione, nell’una o nell’altra storia, avverrebbe dopo la scissione. Sarebbe impossibile misurare le conseguenze della scissione medesima.

— Si potrebbe individuare l’esistenza di altre storie? Oppure, potrei recarmici, per incontrare un altro degli infiniti gemelli che secondo voi ho?

— No — affermò Nebogipfel. — È del tutto impossibile. A meno che… — Sì?

— A meno che qualche elemento della meccanica quantistica si dimostri falso.

— Sicuramente — disse Mosè — capisci perché questi concetti possono aiutarci a comprendere i paradossi che abbiamo scoperto. Se davvero può esistere più di una storia…

— Allora è facile affrontare le violazioni della causalità — continuò Nebogipfel. — Consideriamo la seguente ipotesi… Tu ritorni nel passato, munito di un’arma, e ammazzi Mosè. — Questi, nell’ascoltare, impallidì un poco, ma il Morlock non se ne curò. — Questo sarebbe un classico, semplicissimo, paradosso causale. Se morisse, Mosè non costruirebbe la macchina del tempo, non diventerebbe te, quindi non potrebbe tornare nel passato a compiere l’omicidio. Ma se l’omicidio non fosse commesso, Mosè costruirebbe la macchina e temerebbe nel passato a uccidere se stesso, e allora non costruirebbe la macchina, e l’omicidio non potrebbe essere commesso, e…

— Basta così — interruppi. — Abbiamo capito, credo.

— Sarebbe un fallimento causale patologico — concluse Nebogipfel. — Un circolo vizioso interminabile. Ma se il concetto della molteplicità dei mondi è corretto, allora non esiste nessun paradosso. La storia si divide in due: in una, Mosè sopravvive; nell’altra, muore. Tu, come viaggiatore temporale, sei semplicemente passato dall’una all’altra.

— Capisco — risposi, sbalordito. — E sicuramente il fenomeno della molteplicità dei mondi è proprio ciò a cui abbiamo assistito tu ed io, Nebogipfel: abbiamo già osservato lo svolgimento di diverse versioni della storia… — Tutto ciò mi rassicurò enormemente: per la prima volta, intravidi un barlume di logica nella tempesta di storie in conflitto che mi flagellava la mente da quando avevo compiuto il mio secondo viaggio nel tempo. Trovare una struttura teorica in grado di spiegare i fenomeni era tanto importante per me quanto lo sarebbe stato per una persona in procinto di annegare sentire il suolo solido sotto i piedi. Tuttavia, non riuscivo ancora ad immaginare quali applicazioni pratiche avremmo potuto trarne.

Inoltre, pensai che, se Nebogipfel aveva ragione, forse dopotutto non ero responsabile della distruzione di tutta la storia di Weena: forse, in un certo senso, quella storia esisteva ancora. Concepire questa possibilità mi sgravò un poco dal mio fardello di colpa e di sofferenza.

In quel momento, la porta della sala da fumo si aprì rumorosamente, e Filby entrò a precipizio, senza essersi lavato né rasato, indossando ancora una vecchia vestaglia: non erano nemmeno le nove del mattino.

— C’è una visita per te — annunciò Filby. — Quello scienziato del ministero dell’aria, di cui ha parlato Bond…


Spingendo indietro la sedia, mi alzai. Nebogipfel tornò ai suoi studi, e Mosè, con la chioma ancora scompigliata, mi guardò. Lo osservai a mia volta con una certa preoccupazione, perché cominciavo a rendermi conto che la nostra condizione di dislocazione temporale lo stava mettendo a dura prova. — A quanto pare, debbo mettermi al lavoro — gli dissi. — Perché non mi accompagni? Sarei lieto di beneficiare della tua capacità di osservazione.

Senza allegria, Mosè sorrise: — La mia capacità di osservazione è la tua capacità di osservazione. Non hai bisogno di me.

— Però apprezzerei la tua compagnia. Dopotutto, questo potrebbe diventare il tuo futuro. Non credi che ti gioverebbe cominciare ad ambientarti?

Gli occhi profondi di Mosè parvero esprimere la stessa nostalgia di casa che era tanto intensa in me: — Non oggi. Ma ci sarà tempo… domani, forse. — Con un cenno della testa, Mosè salutò: — Sii prudente.

In quel momento, non seppi cos’altro dire.

Lasciai che Filby mi guidasse nell’atrio. Colui che attendeva sulla soglia della porta aperta era alto e sgraziato, con la zazzera brizzolata. Alle sue spalle, in strada, stava un soldato.

Quando mi vide, l’uomo di alta statura mi venne incontro con una goffaggine adolescenziale che contrastava con la sua corporatura. Mi salutò per nome, stringendomi la mano con una delle sue, forti e callose. Capii che era un pragmatico, uno sperimentatore: forse saremmo andati d’accordo.

— Sono felice di conoscerla: davvero felice. — L’uomo dimostrava una cinquantina d’anni. Aveva i lineamenti fini, il naso diritto, e, dietro gli occhiali dalla montatura metallica, lo sguardo schietto. — Sono assegnato al Diguerdiscron, il direttorio per la guerra di dislocamento cronotico del ministero dell’aria. — Era evidentemente un civile, perché, ad eccezione della maschera antigas e degli spallacci che tutti portavano, indossava un completo semplice, abbastanza sciatto, con la cravatta a strisce e la camicia ingiallita. Aveva su un risvolto un distintivo con un numero.

— Molto lieto — risposi. — Purtroppo, temo di non conoscerla…

— Perché mai dovrebbe conoscermi? Avevo soltanto otto anni quando il suo prototipo VDC partì per il futuro… Oh, mi scusi! VDC sta per “veicolo di dislocamento cronotico”. Immagino che si abituerà a tutti questi nostri acronimi… O forse no! Io non mi ci sono mai abituato. E si dice che lo stesso lord Beaverbrook stenti a rammentare tutti i direttori subordinati al suo ministero. Io non sono un personaggio noto: non sono per nulla famoso quanto lei. Fino a poco tempo fa ero soltanto vicecapo progettista alla Vickers-Armstrong Company, nel Bunker Weybridge. Quando le mie proposte sulla guerra cronotica iniziarono ad attirare l’attenzione, fui trasferito al quartier generale del Diguerdiscron, qui all’Imperiale. Senta… — aggiunse seriamente. — Sono davvero felice che lei sia qui. È stato un caso eccezionale a condurla fra noi. Credo che noi, ossia lei ed io, potremo forgiare una collaborazione in grado di cambiare la storia, e forse di porre fine una volta per tutte a questa dannata guerra!

Non potei fare a meno di rabbrividire, perché ne avevo già avuto abbastanza di cambiare la storia. E tutto quel gran parlare di guerra temporale, suggerendo che la mia macchina, la quale aveva già inflitto tanti danni, potesse essere usata deliberatamente per arrecare distruzione, suscitò in me un autentico terrore, tanto che non seppi come comportarmi.

— E adesso… Dove preferisce andare a parlare? Vorrebbe venire nel mio ufficio all’Imperiale? Ho certi documenti che…

— In seguito. Senta… Potrà sembrarle strano, ma… Sono arrivato da poco nel vostro mondo, quindi sarei lieto di poterlo visitare un po’ meglio. È possibile?

Il volto dell’uomo s’illuminò: — Naturalmente! Potremo conversare camminando. — E si girò per lanciare un’occhiata al soldato, che concesse il suo permesso annuendo.

— Grazie, signor…

— Per la verità, sono il dottor Wallis: Barnes Wallis.

6 Hyde Park

Come scoprii, l’Imperial College era situato a South Kensington, a pochi minuti di cammino da Queen’s Gate Terrace. Era stato fondato poco dopo la mia epoca, nel 1907, mediante la fusione di tre istituti che conoscevo: il Royal College of Chemistry, la Royal School of Mines, e il City and Guilds College. In verità, da giovane avevo insegnato per breve tempo alla Normal School of Science, che a sua volta era stata successivamente assorbita dall’Imperial College. Nell’entrare a South Kensington, rammentai di avere trascorso gran parte del mio tempo, a Londra, visitando luoghi deliziosi come l’Empire, a Leicester Square. Comunque, avevo imparato a conoscere bene la zona… E quanto la trovai trasformata!

Dopo avere percorso Queen’s Gate Terrace in direzione dell’università, ci dirigemmo a Kensington Gore, a sud di Hyde Park. Eravamo scortati da sei soldati che ci circondavano in silenzio, ma mi chiesi quanti militari sarebbero intervenuti se fosse accaduto qualcosa. Era come trovarsi in un edificio tanto vasto quanto caldo, perciò non passò molto tempo prima che la calura umida cominciasse a fiaccarmi, così mi tolsi la giacca e mi allentai la cravatta. Seguendo il consiglio di Wallis, mi applicai gli spallacci alla camicia e mi appesi la maschera antigas alla cintura.

Mi colpì, nell’osservare le strade trasformate, che non tutti i mutamenti intercorsi dalla mia epoca erano stati dannosi. L’abolizione dei cavalli, con i loro escrementi, nonché del fumo dei focolari e delle esalazioni dei motori, motivata dalla necessità di salvaguardare la qualità dell’aria sotto la Cupola, aveva avuto conseguenze positive. Le strade principali erano pavimentate da una nuova sostanza vetrosa, elastica, che veniva tenuta pulita da squadre di spazzini che manovravano filoveicoli elettrici muniti di spazzole e d’innaffiatoi. Le strade erano affollate di biciclette, di risciò e di tram, con i trolley che sibilavano e suscitavano faville azzurre nell’oscurità. Per i pedoni esistevano le cosiddette “passerelle”, installate lungo le facciate delle case all’altezza del primo, del secondo, e talvolta persino del terzo piano. Ponti alti e leggeri varcavano le strade, unendo spesso le passerelle e conferendo a Londra, persino in quell’oscurità stigea, un qualcosa d’italiano.

In seguito, quando ebbe conosciuto un po’ meglio di me la vita cittadina, Mosè mi riferì che i negozi del West End prosperavano nonostante le ristrettezze imposte dalla guerra, e così pure i nuovi teatri intorno a Leicester Square, con le facciate di porcellana rinforzata e le insegne luminose. Nondimeno, vi si rappresentavano spettacoli noiosi, educativi, o propagandistici, che suscitarono le lamentele di Mosè. Due teatri erano dedicati esclusivamente a un ciclo perpetuo di drammi shakespeariani.

Nella mia epoca, avevo sempre considerato la Royal Albert Hall come una mostruosità: una sorta di cappelliera rosa. Quando vi passai dinanzi con Wallis, nell’oscurità della Cupola, il memorabile ammasso era illuminato da una serie di raggi, proiettati da lampade Aldis, come mi spiegò la mia guida, che lo rendevano ancora più grottesco e pomposo. All’Alexandre Gate, entrammo nel parco, poi tornammo all’Albert Memorial, e percorremmo Lancaster Walk verso settentrione. Dinanzi a noi, vidi guizzare sulla volta i raggi della chiacchieratrice, mentre da lontano giungevano gli echi delle voci amplificate.

Nel passeggiare, Wallis commentò ciò che ci stava intorno, dimostrandosi un compagno abbastanza gradevole: mi resi conto che era proprio il tipo d’uomo che, in una storia diversa, avrei potuto considerare amico.

Rammentavo Hyde Park come un luogo civile, attraente e calmo, con i suoi viottoli ampi e i suoi alberi sparsi. Riconobbi alcune caratteristiche che avevo conosciuto, come la cupola verderame del Bandstand, da cui un coro di minatori gallesi cantava inni burrascosamente. Il parco del futuro, tuttavia, era pieno di ombre, spezzate dalle isole di luce dei lampioni. L’erba era scomparsa, senza dubbio perché la Cupola nascondeva il sole, e il suolo era coperto in gran parte di tavole lignee. Quando gli chiesi perché la zona del parco non fosse stata semplicemente edificata, Wallis mi spiegò che ai londinesi piaceva credere che un giorno sarebbe stato possibile demolire la brutta Cupola e riportare la città alla bellezza di un tempo, inclusi i parchi.

Una zona di Hyde Park, intorno al Bandstand, era stata trasformata in una sorta di baraccopoli, con centinaia di tende raggruppate intorno a rozzi edifici in cemento, che ospitavano cucine e bagni comuni. Sul suolo arido e calpestato, fra le tende, adulti, bambini e cani, si aprivano la strada nel tetro e infinito processo del vivere.

— La povera vecchia Londra ha accolto molti profughi negli ultimi anni — spiegò Wallis. — La densità della popolazione è aumentata moltissimo… Eppure c’è lavoro utile per tutti. È vero che in quelle tende, comunque, si soffre, ma purtroppo non c’è altro modo di ospitare i profughi.

Lasciato Lancaster Walk, ci avvicinammo a Round Pond, nel cuore del parco. Un tempo, quella era stata una zona attraente e tranquilla, da cui si godeva una bella vista su Kensington Palace. Benché esistesse ancora, il lago era recintato, in quanto, come disse Wallis, era stato trasformato in un bacino per servire alle necessità della popolazione accresciuta. Quanto al palazzo, ne restava soltanto un guscio: evidentemente, era stato abbandonato dopo essere stato semidistratto dai bombardamenti.

Sostammo a un chiosco, dove ci servirono limonata piuttosto calda. La zona era affollata, non soltanto di pedoni, ma anche di ciclisti. A breve distanza era in corso una partita di calcio, con mucchi di maschere antigas al posto dei pali delle porte. Di quando in quando si udivano persino brevi risate. Wallis mi raccontò che la gente si recava ancora a Speaker’s Corner per ascoltare l’Esercito della Salvezza, o la Società Laica Nazionale, o l’Associazione per la Dimostrazione Cattolica, o la Lega Contro la Quinta Colonna, che era impegnata in una campagna contro le spie, i traditori, e chiunque sostenesse in qualsiasi modo il nemico.

Quella fu la condizione più felice in cui vidi la popolazione in quell’epoca ottenebrata: a parte gli spallacci e le maschere antigas, nonché il suolo morto e la spaventevole volta incombente sopra le teste di noi tutti, poteva sembrare di vivere in un giorno festivo di qualunque epoca. Ancora una volta rimasi colpito dall’adattabilità dello spirito umano.

7 La chiacchieratrice

A settentrione di Round Pond erano state collocate parecchie file di sporche sedie a sdraio in tela per coloro che desideravano assistere ai notiziari proiettati sulla volta. Le sedie erano quasi tutte occupate. Quando Wallis ebbe pagato a un inserviente, con monete metalliche molto più piccole di quelle della mia epoca, ci accomodammo in due posti liberi, sdraiandoci con le teste reclinate all’indietro.

I soldati silenziosi della nostra scorta si disposero tutt’intorno, sorvegliando noi e la folla circostante.

Come dita di luce polverose, i raggi delle lampade Aldis installate, come mi spiegò Wallis, a Portland Place, dipingevano sulla volta immagini grigie e bianche, mentre voci e musiche amplificate sommergevano il pubblico passivo. Una zona della volta era stata dipinta di bianco proprio affinché fosse possibile proiettarvi nitidamente le immagini cinematografiche. La prima sequenza mostrò un uomo magro e stralunato che scambiava una stretta di mano con un altro e poi si metteva in posa accanto a quello che sembrava un blocco di mattoni. Le voci non erano perfettamente coordinate al movimento delle labbra, ma la musica era emozionante, e nell’insieme l’effetto era facilmente decodificabile.

— Siamo fortunati — commentò Wallis, accostando la testa alla mia. — È un servizio sull’Imperial College. Quello è Kurt Gödel, un giovane scienziato austriaco. Forse lo conoscerà. Di recente siamo riusciti a sottrarlo al Reich. Sembra che Gödel abbia accettato di cambiare bandiera a causa dell’assurda convinzione che il kaiser sia morto e sia stato sostituito da un impostore. Detto fra noi, è un tipo alquanto strano, però è un genio.

— Gödel? — La notizia suscitò il mio interesse. — Non è forse colui che ha dimostrato l’imperfettibilità della matematica, e via dicendo?

— Be’, sì… — Incuriosito, Wallis mi guardò. — Ma come lo sa? È successo dopo la sua partenza per il futuro… Comunque, non era per le sue scoperte nell’ambito della filosofia matematica, che lo volevamo. A Princeton, gli abbiamo fatto conoscere Einstein. Riprenderà una ricerca — proseguì Wallis, giacché non mi curai d’interromperlo per chiedergli chi fosse quell’Einstein — che aveva iniziato a compiere per il Reich. Speriamo di ricavarne una nuova tecnica per viaggiare nel tempo. È stato un gran bel colpo. Immagino che i ragazzi del kaiser siano furibondi…

— E cos’è la costruzione di mattoni che gli sta accanto?

— Oh, un esperimento. — Prudentemente, Wallis guardò attorno. — Non dovrei dire troppo. La chiacchieratrice lo trasmette soltanto per fare un po’ di scena. È qualcosa che concerne la fissione atomica. Le spiegherò tutto più tardi, se le interessa. Sembra che Gödel sia particolarmente desideroso di sperimentarla: anzi, credo che siano già stati compiuti alcuni esperimenti per lui.

Sullo schermo apparve l’immagine di alcuni vecchi, abbigliati con uniformi militari sgraziate, i quali sorridevano alla cinepresa. — E la milizia territoriale — spiegò Wallis. — È composta di persone anziane d’ambo i sessi che prestano servizio e si mantengono a disposizione, nell’eventualità che l’Inghilterra venga invasa. — Poi fu inquadrato in primo piano un uomo magro, dall’espressione assorta. — Quello è Orwell, George Orwell: un bravo scrittore. Immagino che lei non lo conosca…

Terminato il notiziario, apparve sullo schermo un filmato divertente, a disegni animati, dal vivace sottofondo musicale, che aveva come protagonista un certo Dan il Disperato, il quale viveva in un Texas rozzamente disegnato. Dopo avere divorato una torta enorme, Dan cercò di confezionarsi un maglione di fili telegrafici usando due pali come ferri da calza, ma involontariamente fece una catena, che poi gettò in mare, dove essa affondò. Quando la recuperò, Dan scoprì che aveva affondato nientemeno che tre corazzati sommergibili tedeschi. Un gentiluomo della marina, che aveva assistito allo spettacolo, gli consegnò una ricompensa di cinquanta sterline. Poi, il personaggio visse una serie di altre avventure dello stesso genere.

Avrei pensato che quel divertimento fosse adatto soltanto ai bambini, se non avessi visto ridere anche gli adulti. Personalmente, mi sembrò uno spettacolo propagandistico tra i più rozzi, perciò decisi che l’appellativo colloquiale di “chiacchieratrice” si addiceva perfettamente a quella forma di cinematografo.

Fu proiettato in seguito un altro notiziario, con le immagini di una città, che avrebbe potuto essere Glasgow o Liverpool, devastata da incendi giganteschi che illuminavano il cielo notturno, e fanciulli evacuati da una Cupola crollata nelle Midlands. Sporchi, sorridenti, con stivali troppo grandi, questi ultimi mi parvero tipici ragazzini di città abbandonati, del tutto indifesi, in balia delle correnti della guerra.

Una didascalia annunciò l’inizio di una rubrica intitolata “Poscritto”. La prima immagine fu un ritratto del re: rimasi sconcertato nel vedere un uomo magro, di nome Egbert, lontano parente della vecchia regina che ricordavo. Era stato uno dei pochi membri della famiglia reale a sopravvivere alle audaci incursioni compiute dai tedeschi all’inizio della guerra.

Un attore dalla voce impostata recitò un componimento poetico:

“Tutto andrà bene.

“In ogni modo, tutto si risolverà per il meglio,

“Quando le lingue di fiamma saranno intrecciate

“Nel nodo coronato di fuoco,

“E la rosa e il fuoco saranno una sola cosa…”

E così via. A quanto potei capire, la poesia descriveva la guerra come una sorta di purgatorio, da cui l’umanità sarebbe uscita purificata. Un tempo avrei forse potuto essere d’accordo, ma dopo il mio soggiorno nell’Interno della Sfera ero giunto a considerare la guerra né più né meno che un tumore maligno, una pecca dell’anima umana, per la quale ogni giustificazione non poteva essere altro, appunto, che una mera scusa a posteriori.

Capii che Wallis non attribuiva importanza a quel genere di discorsi. Scrollando le spalle, disse: — Eliot — come se ciò spiegasse tutto.

Apparve quindi l’immagine di un vecchio dall’espressione afflitta sul viso dagli occhi stanchi, le guance flosce, le orecchie brutte, i baffi incolti, e maniere che rivelavano ira e frustrazione. Seduto accanto a un caminetto, con in mano una pipa evidentemente spenta, recitò con voce fievole una sorta di commento agli eventi del giorno. Il suo aspetto mi parve familiare, anche se dapprima non riuscii a riconoscerlo. Non sembrava molto impressionato dall’offensiva del Reich: — La grande macchina bellica dei tedeschi non può creare neppure una favilla di quella poesia dell’azione che distingue la guerra dallo sterminio di massa: è una macchina, dunque è priva d’anima.

In un tono che mi sembrò contenere una sfumatura di gioia apocalittica, esortò la popolazione a compiere sforzi ancora più grandi, ravvivò il mito della campagna inglese (“le verdi colline arrotondate che si dissolvono nella foschia azzurra del cielo”), invitò il pubblico a immaginare quel paesaggio inglese devastato “come a rivelare il vecchio fronte delle Fiandre, con le trincee e i crateri delle bombe, le città in rovina, i campi deturpati, il cielo che erutta morte, e i volti dei bambini assassinati”.

D’improvviso, lo riconobbi: era il mio amico di un tempo, lo Scrittore, ormai invecchiato.

Subito chiesi: — Ma quello non è forse il signor…? — pronunciando il suo nome.

— Sì. Lo conosceva? È possibile… Ma certo! Fu lui a scrivere un resoconto dei suoi viaggi nel tempo, che divenne molto popolare. Se ben ricordo, comparve dapprima a puntate su The New Review, e poi fu ristampato in volume. Fu un evento fondamentale, per me, scoprire che… Il poveretto sta invecchiando, naturalmente, e credo che non abbia mai goduto di molta salute. La sua narrativa non è più quella di un tempo, a mio avviso.

— Davvero?

— Troppo moralismo, e troppa poca azione: sa cosa intendo! Comunque, le sue opere di divulgazione scientifica e di storia sono state bene accolte. È buon amico di Churchill, cioè il primo lord dell’ammiragliato, e sospetto che eserciti un’influenza notevole sulla concezione, da parte delle autorità, di come dovranno andare le cose dopo la guerra, quando giungeremo sugli “altopiani del futuro” — proseguì Wallis, citando qualche altro discorso del mio amico di un tempo. — Sta lavorando a una dichiarazione dei diritti dell’uomo, o qualcosa del genere, a cui dovremo aderire tutti allorché la guerra sarà finita. Sa bene anche lei come sono questi sogni. Comunque, il nostro autore non è tanto bravo come oratore. Personalmente, il mio preferito è Priestley.

Le perorazioni dello Scrittore continuarono per alcuni minuti. Fui lieto di scoprire che il mio vecchio amico era sopravvissuto alle vicissitudini di quella storia terribile, trovandosi persino un ruolo sociale importante, tuttavia mi rattristò invincibilmente scoprire quanto il tempo avesse trasformato il giovane entusiasta che avevo conosciuto! Come quando avevo incontrato Filby, provai una fitta di compassione per le moltitudini anonime che mi circondavano, imprigionate nel tempo che scorreva lentamente e destinate a un decadimento inesorabile. Pensai inoltre che fosse un’ironia spaventevole che un individuo con una fede tanto vigorosa nella perfettibilità dell’uomo dovesse trascorrere gran parte della propria esistenza in un mondo dominato dalla guerra più vasta e sanguinosa della storia.

— Andiamo — riprese a un tratto Wallis. — Passeggiamo ancora un po’. Gli spettacoli e i notiziari sono molto ripetitivi.


Nel camminare, Wallis mi parlò più dettagliatamente di se stesso. Nel Bunker Waybridge, lavorando per la Vickers-Armstrong Company, era diventato un progettista aeronautico di buona reputazione: lui stesso dichiarò di essere conosciuto come il “mago scienziato”.

Con il protrarsi della guerra, aveva dedicato il proprio ingegno, evidentemente fertile, ad escogitare piani su come accelerarne la conclusione. Aveva pensato, per esempio, di distruggere le fonti energetiche del nemico, ossia i bacini, le dighe, le miniere, e così via, mediante immani quantità di esplosivo sganciate nella stratosfera da macchine volanti chiamate “mostri bombardieri”. A tale scopo, aveva studiato le variazioni della velocità dei venti in rapporto all’altezza, la visibilità degli oggetti dalle grandi altitudini, gli effetti delle onde telluriche sui pozzi minerari, e così via.

— Capisce quali possibilità sono implicite in tutto ciò, vero? Occorre avere soltanto il tipo giusto d’immaginazione. Con dieci tonnellate di esplosivo si potrebbe deviare il corso del Reno!

— E come sono state accolte queste proposte?

La mia guida sospirò: — Le risorse sono sempre scarse, in tempo di guerra, persino per i progetti di massima priorità. Quanto alle imprese nuove e rischiose… Dissero che si trattava di un’assurdità, di una sciocchezza immane, e i militari fecero un gran parlare del fatto che gli “inventori” come me “sprecano” le vite dei “loro ragazzi”. — Era chiaro che Wallis era addolorato dal ricordo. — Lei sa che gli uomini come noi debbono aspettarsi lo scetticismo… e tuttavia!

Perseverando nei propri studi, Wallis aveva finalmente ottenuto il permesso di costruire un bombardiere mostro: — è stato battezzato Vittoria — spiegò. — Ha un carico di bombe da nove tonnellate e può volare a una quota di dodicimila metri, a oltre trecento miglia orarie, con un’autonomia di quattromila miglia. È magnifico quando decolla, con sei motori Hercules che fiammeggiano. Ha bisogno di non meno di due terzi di miglio per prendere il volo. E le bombe sismiche che sgancia hanno già cominciato a seminare la distruzione nel cuore del Reich! — Dietro le lenti impolverate, i begli occhi profondi dello scienziato scintillarono.

Dopo essersi dedicato per alcuni anni alla progettazione dell’aeromobile Vittoria, Wallis aveva letto il popolare resoconto dei miei viaggi nel tempo e aveva subito concepito la possibilità di adattare la mia macchina alla guerra.

In quel caso, non aveva avuto difficoltà a farsi ascoltare, perché non occorreva molta immaginazione per rendersi conto dell’illimitato potenziale militare della macchina del tempo. Così, il direttorio della guerra di dislocamento cronotico lo aveva nominato capo civile della ricerca, poi, per prima cosa, aveva sequestrato la mia vecchia casa, che era rimasta abbandonata a Richmond sin dall’epoca della mia partenza, e aveva recuperato la documentazione relativa ai miei studi e ai miei esperimenti.

— Ma che cosa volete da me? Avete già una macchina del tempo: il corazzato che mi ha condotto qui.

Con le mani unite dietro la schiena, il volto lungo e grave, Wallis rispose: — Il Raglan, certo… Ma lei stesso ha visto quel mostro… Per quanto concerne le sue capacità di viaggio temporale, ha potuto beneficiare soltanto dei resti trovati nel suo laboratorio: pezzi di quarzo e d’ottone cosparsi di plattnerite. Impossibile da equilibrare o da calibrare, il Raglan è una macchina goffa e pesante che può allontanarsi al massimo di mezzo secolo dal presente. Abbiamo osato mettere a repentaglio il corazzato soltanto per cercare di garantire che i nostri nemici non interferissero cronoticamente con l’invenzione della macchina del tempo originale. Ma adesso, per puro caso, il Raglan ci ha portato lei! E abbiamo già fatto qualche progresso: abbiamo recuperato la plattnerite. Quanto alla sua vecchia macchina, l’abbiamo collocata nel Museo Imperiale della Guerra. Le piacerebbe vederla? Sarà esposta al pubblico con tutti gli onori.

Addolorato che il mio cocchio fedele avesse fatto quella fine, nonché turbato dalla neutralizzazione dell’unico mezzo che mi avrebbe consentito di abbandonare il 1938, scossi silenziosamente la testa.

— Ci occorre che lei produca altra plattnerite. Mi mostri come fabbricarne a tonnellate!

Nell’udire queste parole, mi resi conto che Wallis credeva che fossi stato io a creare la plattnerite; tuttavia continuai a tacere.

— Vogliamo sviluppare la sua tecnica del viaggio temporale, e applicarla in modi che forse superano i suoi sogni più sfrenati. Con un VDC, si potrebbe bombardare la storia e cambiarne il corso: è proprio come il mio progetto per modificare il corso del Reno! Perché no? Se è concepibile, dev’essere realizzabile. È la sfida tecnica più entusiasmante che si possa immaginare. [TAGID]E [TAGIF]andrebbe tutto a beneficio dello sforzo bellico.

Bombardare la storia?

— Ci pensi… Si potrebbe tornare indietro nel tempo e intervenire all’inizio della guerra. Oppure si potrebbe assassinare Bismarck… Perché no? Che scherzo sarebbe! E così s’impedirebbe la creazione della Germania. Non capisce? La macchina del tempo è un ‘arma contro cui non esiste difesa. La potenza che per prima svilupperà una tecnica affidabile di dislocamento cronotico dominerà il mondo. — Con gli occhi scintillanti, Wallis concluse: — E bisogna che la dominatrice del mondo sia la Gran Bretagna!

Osservandolo, pensai che il suo entusiasmo spropositato nei confronti della distruzione e del potere fosse notevolmente inquietante.

8 Gli altopiani del futuro

Tornati al Lancaster Walk, proseguimmo la passeggiata verso il confine meridionale del parco, sempre discretamente scortati dai soldati.

— Mi dica qualcosa di più — chiesi — di quello che accadrà quando la Gran Bretagna e i suoi alleati vinceranno questa guerra temporale. Mi parli degli “altopiani del futuro”.

Manifestando incertezza, Wallis si massaggiò il naso: — Non sono un politico. Non posso…

— No, no… Mi spieghi con le sue parole…

— Benissimo. — Wallis alzò lo sguardo alla Cupola. — Tanto per cominciare, questa guerra ci ha spogliati di molte delle nostre care illusioni…

— Davvero? — Tale preambolo mi sembrò di cattivo augurio, e infatti i miei timori non tardarono a rivelarsi giustificati.

— In primo luogo, ci ha svelato la fallacia della democrazia. È ormai chiaro che non serve a nulla chiedere alla gente che cosa voglia: bisogna prima capire che cosa dovrebbe volere per la salvaguardia della società, e poi dirle che cosa vuole, e fare in modo che l’ottenga. So che ciò può sembrare strano a un uomo della sua epoca, ma questo è il pensiero moderno. E poco fa, al fonografo, ho sentito il suo famoso amico abbracciare in gran parte il medesimo punto di vista. E anche lui appartiene alla stessa epoca da cui proviene lei, vero? Conosco poco la storia, ma mi sembra che lo stato moderno che stiamo sviluppando in Gran Bretagna e in America, l’organizzazione che intendiamo condividere con il resto del mondo, somigli molto alle repubbliche antiche, come Cartagine, Atene, Roma, che erano essenzialmente aristocratiche. I parlamentari esistono ancora, però non vengono più scelti con un metodo tanto rozzo quanto il suffragio popolare. E l’antiquato istituto dell’opposizione… Be’! A tutto questo abbiamo rinunciato. Senta… Uomini come me e come lei sanno che a proposito della maggior parte dei problemi non possono esistere due opinioni rispettabili e opposte. Esistono soltanto un unico modo corretto e un’infinità di modi sbagliati per fare le cose. Ogni governo tenta di agire nel modo giusto, oppure è criminale: è tutto qui. L’opposizione, in passato, faceva più che altro ostruzionismo per ottenere determinati vantaggi particolari, ostacolando il progresso. Ebbene, il sabotaggio deve cessare. Certi giovani si spingono molto oltre nel concepire il futuro. Per esempio, dicono che la famiglia sta scomparendo. Un tempo, quando la società era prevalentemente agricola, la famiglia ne era l’unità fondamentale: la cellula, per così dire. Ma oggi, nel mondo moderno, sta perdendo la sua specificità, per dissolversi in sistemi di relazione più ampi. Fra i giovani, incluse le donne, il senso della famiglia sta diminuendo enormemente.

Rammentando la capitana Hilary Bond, domandai: — Ma che cosa sostituirà la famiglia?

— Be’, i lineamenti fondamentali non sono ancora chiari, ma i giovani parlano della formazione di nuclei sociali nuovi e diversi. Gli studiosi, gli scrittori, gli oratori, insomma, gli intellettuali, ci guideranno verso un nuovo modo di pensare, verso un’organizzazione sociale nuova e migliore, liberandoci dal tribalismo antico.

— Gli “altopiani”… Davvero… — Non credevo che Wallis fosse tra i fondatori di quella filosofia: era evidente che si limitava a rispecchiare i punti di vista della sua epoca, diffusi dal chiacchiericcio dei creatori di opinione in seno al governo e alla cultura. Comunque, chiesi: — E lei, che cosa pensa di tutto questo?

— Io? — Wallis rise, in tono di autodisapprovazione. — Io sono troppo vecchio per cambiare, e… — La sua voce vacillò. — Non vorrei mai perdere le mie figlie. Nondimeno, non voglio vederle crescere in un mondo… — Accennò alla Cupola, al parco arido, ai soldati. — Come questo! E se ciò significa cambiare la natura umana, allora così sia! E adesso, capisce perché abbiamo bisogno della sua collaborazione? Con un’arma come un VDC, una macchina del tempo, la fondazione dello stato moderno cui ho accennato diverrà, se non semplice, almeno più realizzabile. E se dovessimo fallire…

— Sì?

In prossimità del confine meridionale del parco, dove si trovavano soltanto poche persone, Wallis si fermò: — Si dice — riprese, sottovoce — che i tedeschi stiano costruendo una loro macchina del tempo. E se saranno i primi a riuscirci, se il Reich si procurerà mezzi efficaci per la guerra di dislocamento cronotico…

— Ebbene?

Allora Wallis pronunciò a mio beneficio una breve ma agghiacciante descrizione, evidentemente basata su anni di propaganda, della guerra temporale che sarebbe stata combattuta: i capi militari tedeschi dagli occhi gelidi avrebbero inviato nel nostro nobile passato i loro guerrieri temporali, giovani soldati folli e fanatici, descritti dallo stesso Wallis come bombe semoventi, i quali sarebbero intervenuti ferocemente in cento delle nostre battaglie antiche, come automi seminatori di morte.

— Distruggerebbero l’Inghilterra, strangolandola nella culla. Ecco ciò che dobbiamo impedire — concluse Wallis. — Capisce, vero?

Del tutto incapace di rispondere, scrutai il volto assorto e fervido dello scienziato.


Dopo avermi ricondotto alla casa in Queen’s Gate Terrace, Wallis dichiarò: — Non voglio forzarla a decidere di collaborare con me, vecchio mio. Capisco quanto tutto ciò debba essere difficile per lei: dopotutto, è la nostra guerra. Però il tempo stringe. D’altronde, che cosa significa il “tempo” in queste circostanze?

Ritornato nella sala da fumo, dov’erano riuniti i miei compagni, accettai il bicchiere di whisky con acqua che Filby mi offrì, poi mi gettai sopra una sedia. — Si soffoca, là fuori, con quella dannata Cupola — commentai. — Sembra la Birmania! È una strana sensazione… è buio pesto, benché sia soltanto ora di pranzo.

Sollevando lo sguardo dal libro che stava leggendo, Mosè citò: — “L’esperienza concerne l’intensità, non la durata.” — Quindi sorrise. — Non sarebbe un epitaffio perfetto per un viaggiatore temporale? L’intensità: ecco ciò che conta.

— Chi è l’autore?

— Thomas Hardy. Non era quasi un tuo contemporaneo?

— Non ho mai letto le sue opere.

— Be’, ormai è morto… — Mosè guardò la data della prefazione. — 1928… — E chiuse il libro. — Che cos’hai saputo da Wallis?

Dopo avere riassunto la mia conversazione con lo scienziato, conclusi: — Sono lieto di essermi sbarazzato di lui e di tutta quella farragine di propaganda e di rozza politica, per non parlare della confusione assoluta sulla causalità, e così via.

I discorsi di Wallis avevano aggravato la depressione che mi affliggeva da quando ero giunto nel 1938. Ho l’impressione che nel cuore umano esista un conflitto fondamentale. Giacché meglio di chiunque altro sono stato testimone dell’azione spietata delle correnti evolutive che pulsano nell’umanità, risalenti alle epoche primordiali, credo che l’uomo sia dominato dalle forze della propria natura. Eppure, i giovani inglesi e americani, intelligenti ma induriti dalla guerra, erano decisi a pianificare, a controllare, a lottare contro la natura, a collocare se stessi e i loro simili in una sorta di stasi: un’utopia raggelata.

Sapevo che, se fossi stato un cittadino del nuovo stato moderno che intendevano fondare, non avrei tardato a diventare uno degli spiriti contestatori che si sarebbero dibattuti nella sua morsa tanto benevola quanto spietata.

Tuttavia mi chiesi, nel profondo del cuore, fino a che punto avrei condiviso il parere di Wallis sullo stato moderno dominatore e pianificatore, prima che le esperienze di viaggio temporale mi aprissero gli occhi sui limiti dell’umanità.

— Fra l’altro — ripresi — mi sono imbattuto in un tuo vecchio amico, Nebogipfel: Kurt Gödel.

Lasciandosi sfuggire una strana parola gorgogliante nella sua lingua, Nebogipfel si girò di scatto sulla sedia e si alzò, con un movimento rapido e fluido che lo fece sembrare più animale che umano. In quel momento, Filby impallidì, e Mosè rinserrò la presa sul libro che aveva in mano.

Gödel… È qui?

— Sì, si trova nella Cupola. In verità, lavora a meno di un quarto di miglio da qui, all’Imperial College. — Ciò detto, descrissi il notiziario della chiacchieratrice in cui era comparso il famoso matematico.

Una pila a fissione — sibilò Nebogipfel. — Certo, adesso capisco… È lui la chiave: Gödel è la chiave di tutto. Dev’essere stato lui, con la sua comprensione degli universi rotanti…

— Non capisco di che cosa tu stia parlando.

— Ascolta… Vuoi sfuggire a questa storia terribile?

Naturalmente, lo volevo eccome, e per valide ragioni: intendevo sottrarmi a quel conflitto spaventevole, cercare di tornare nella mia epoca, e tentare d’impedire la scoperta del viaggio temporale prima dell’inizio della folle guerra temporale. — Ma per questo — obiettai — dobbiamo procurarci una macchina del tempo…

— Esatto. Ecco perché devi portarci da Gödel: devi farlo assolutamente. Adesso capisco la verità.

— Quale verità?

— Barnes Wallis sbaglia a proposito dei tedeschi. La loro macchina del tempo è più che una minaccia: è già stata costruita!

Tutti quanti balzammo in piedi, cominciando a parlare tutti insieme.

— Cosa?

— Che cosa stai dicendo?

— Come…?

— Ci troviamo già in un flusso storico — dichiarò Nebogipfel — che è stato provocato dai tedeschi.

— Come lo sai? — chiesi.

— Come ricorderai, quando vivevo nella mia storia studiavo la tua epoca — spiegò Nebogipfel. — E nella mia storia non era mai esistita una guerra come questa, che dura già da decenni. Nella mia storia, era scoppiata una guerra nel 1914, che però si era conclusa nel 1918 con la vittoria degli alleati sui tedeschi. Una nuova guerra era scoppiata nel 1939, a causa di una nuova forma di governo sviluppatasi in Germania, e…

In preda a una strana vertigine, cercai a tastoni la sedia che avevo alle spalle e mi ci lasciai cadere.

— Quei dannati tedeschi! — Filby sembrava terrorizzato. — Lo avevo detto! Lo sapevo che non fanno altro che combinare guai!

— Mi chiedo — intervenne Mosè — se la battaglia decisiva descritta da Filby, la Kaiserschlacht, non sia stata in qualche modo modificata a favore dei tedeschi. Forse potrebbero esservi riusciti con l’assassinio di un comandante alleato…

— Il bombardamento di Parigi — esclamò Filby, confuso e sbalordito. — È mai possibile che abbia avuto simili conseguenze?

Rammentai l’orrenda descrizione che Wallis mi aveva fatto dei robotici soldati tedeschi inviati nel passato britannico: — Che cosa possiamo fare? Dobbiamo porre fine a questa devastante guerra cronotica! — Dobbiamo incontrare Gödel — affermò Nebogipfel.

— Ma perché?

— Perché può essere stato soltanto Gödel a fabbricare la plattnerite per i tedeschi!

9 L’Imperial College

Dopo pranzo, Wallis tornò a trovarmi, e subito mi esortò a decidere se collaborare al suo progetto di guerra temporale. Allora gli chiesi di essere condotto all’Imperial College per incontrare Kurt Gödel.

Dapprima, Wallis esitò: — Gödel è un tipo difficile… Non capisco che cosa potrebbe ricavare, lei, da un simile incontro… E poi c’è un sistema di sicurezza molto complesso… — Tuttavia, non tardò a cedere dinanzi alla mia formidabile risolutezza: — Mi conceda mezz’ora per organizzare tutto.


Sembrava che la riorganizzazione e il trascorrere del tempo avessero cambiato ben poco gli istituti che erano confluiti nell’Imperial College, rispetto a come li ricordavo. Gli edifici in mattoni rossi, dall’aspetto alquanto sciatto, ma funzionali, circondavano ancora la Queen’s Tower, in pietra bianca, fiancheggiata dai leoni. Alcuni altri fabbricati erano stati annessi all’università, che aveva avuto bisogno di espandersi per lo sviluppo delle ricerche belliche: in particolare, il Museo delle Scienze era stato assegnato al Direttorio per la guerra di dislocamento cronotico. Alcuni nuovi edifici, bassi e semplici, evidentemente costruiti in fretta, sotto l’incalzare della necessità, senza tanti riguardi per la bellezza architettonica, erano collegati da gallerie, che attraversavano il campus come cunicoli in rilievo.

Dopo avere guardato l’orologio, Wallis disse: — Ci resta ancora un po’ di tempo prima che Gödel sia pronto a riceverci. Venga… Sono autorizzato a mostrarle qualcos’altro… — E sorrise con entusiasmo fanciullesco. — Il nostro orgoglio e la nostra gioia!

Così, Wallis mi condusse in una galleria di cemento grezzo, illuminata da singole lampadine elettriche installate a notevole intervallo l’una dall’altra. Ricordo che la luce incerta accentuava il portamento curvo e l’andatura goffa della mia guida, la quale mi precedeva nel labirinto. Superammo alcuni cancelli, presso ognuno dei quali Wallis fu tenuto a mostrare il proprio distintivo, a fornire alcuni documenti, a lasciare le impronte digitali, a sottoporre il proprio viso a un raffronto con alcune fotografie, e così via. Anche la mia identità fu accertata. Entrambi fummo interamente perquisiti due volte.

Eseguimmo diverse svolte, ma io badai a non perdere l’orientamento, tracciando una mappa mentale dell’istituto.

— L’università è stata notevolmente ampliata — spiegò Wallis. — Purtroppo, abbiamo perso i dipartimenti di musica e d’arte, e persino il museo di storia naturale. Che maledetta guerra, eh? Come può constatare lei stesso, è stato necessario sgombrare parecchio terreno per gli ampliamenti. Esistono ancora alcuni validi centri scientifici sparsi per il paese, come le fabbriche d’armi di Chorley e di Woolwich, quelle della Vickers-Armstrong a Newcastle, a Barrow, a Weybridge, a Burhill e a Crawford, lo Stabilimento Aeronautico Reale di Farnborough, lo Stabilimento Sperimentale di Armamenti e di Aeronautica di Boscombe Down, e così via. Molte industrie sono state trasferite nei Bunker e nelle Cupole. Comunque, l’Imperiale, così potenziata, è diventata il centro di ricerca scientifica e di tecnologia militare più importante della Gran Bretagna.

Superati altri controlli di sicurezza, entrammo in uno stabilimento bene illuminato, con un sano odore di grasso, di gomma e di metallo surriscaldato, in cui parecchi uomini in tuta, alcuni dei quali fischiettavano, stavano lavorando intorno a diversi veicoli a motore, in diversi stadi di assemblaggio, sparsi sul pavimento di cemento sporco. Allora provai un certo sollievo dall’oppressione che mi affliggeva da quando mi trovavo nella Cupola: ho spesso osservato che nulla può turbare troppo coloro che hanno l’opportunità di lavorare manualmente.

— Questa — annunciò Wallis — è la nostra divisione di sviluppo VDC.

— VDC? Ah, sì! Ricordo: veicolo di dislocamento cronotico.

In quello stabilimento, gli allegri operai stavano costruendo macchine del tempo: e su scala industriale, a quanto pareva.

La mia guida mi condusse a un veicolo che appariva pressoché completo. La vettura temporale, di un metallo simile a quello delle armi, non dipinto, che luccicava alla luce delle lampade, era alta circa un metro e mezzo, di forma quadrangolare, ed era munita, a ogni angolo, di una fiasca con coperchio a vite, larga circa cinque centimetri. Aveva un abitacolo ampio a sufficienza per ospitare quattro o cinque persone, ed era dotata di tre paia di ruote cingolate, nonché di fanali e di altri accessori.

— È piuttosto diversa dal suo prototipo, vero? — commentò Wallis. — Infatti, è simile a un veicolo militare standard, detto “autoveicolo universale”, e naturalmente funziona anche come un’autovettura a motore. Guardi… Mediante questi rulli dentati, i cingoli sono azionati da un motore Ford V8. E si può guidare mediante lo spostamento di questo avantreno, così… — E mimò il movimento. — Oppure, se si deve compiere una svolta più brusca, si possono frenare i cingoli. Tutto il veicolo è corazzato…

Massaggiandomi il mento, mi chiesi quanto avrei visto dei mondi che avevo visitato, se li avessi scrutati ansiosamente dall’interno di un autoveicolo temporale corazzato come quello.

— Naturalmente, la plattnerite è essenziale — continuò Wallis. — Non crediamo, però, che sia necessario cospargere i componenti della macchina, come fece lei. Dovrebbe bastare, invece, riempire queste fiasche…

— E svitò il tappo di uno dei contenitori installati agli angoli della macchina. — Vede? Così, dall’interno dell’abitacolo, il veicolo può essere guidato nel tempo, ammesso che guidare sia il verbo adatto.

— E avete provato?

— Naturalmente no! — Wallis si passò le dita fra i capelli, scompigliandosi una ciocca. — Infatti, non abbiamo plattnerite. — Quindi mi percosse una spalla. — E qui entra in giuoco lei!


Percorsa una galleria e superati ulteriori controlli, entrammo in un ambiente lungo e stretto, da cui, attraverso una parete interamente di vetro, era possibile osservare una sala delle dimensioni di un campo da tennis. Sette ricercatori, tre dei quali donne, ognuno seduto a una scrivania e abbigliato con il camice bianco sporco che era tipico della categoria, sorvegliavano e manipolavano diversi strumenti. Quando entrammo, i ricercatori mi guardarono. Rimasi colpito dall’affaticamento e dalla tensione nervosa che i loro volti e i loro atteggiamenti esprimevano, benché fossero giovani. Wallis mi spiegò che alcuni strumenti, i quali ticchettavano incessantemente, erano “contatori di radiazioni”.

La sala oltre la vetrata, tutta di cemento armato, con le pareti non imbiancate, era vuota, tranne un parallelepipedo di mattoni grigio-chiari e grigio-scuri a strati alterni, alto tre metri e largo un metro e ottanta, situato, immobile e silenzioso, al centro, sopra un basamento di spessi lastroni, e collegato mediante alcuni fili ad altrettanti orifizi sigillati nelle pareti.

— È notevole, vero? — commentò Wallis, guardando attraverso la vetrata. — Voglio dire, è notevole che qualcosa di tanto brutto e di tanto semplice abbia effetti tanto immani. Il vetro è piombato, perciò dovremmo essere al sicuro, qui. Inoltre, la reazione in questo momento è bassa.

Allora riconobbi l’oggetto mostrato nel notiziario della chiacchieratrice: — È quella la macchina a fissione?

— È il secondo reattore a grafite del mondo — spiegò Wallis. — È una copia del primo, costruito da Fermi all’Università di Chicago. — Sorrise.

— Se non sbaglio, lo installò in un campo di squash. È una storia interessante.

— Sì — risposi, cominciando a irritarmi. — Ma cosa reagisce a cosa?

— Ah… — Wallis si tolse gli occhiali per pulire le lenti con l’estremità della cravatta. — Cercherò di spiegarle…

È inutile dire che Wallis andò per le lunghe, tuttavia compresi abbastanza il suo discorso da riuscire a distillarne l’essenza.

Avevo già imparato da Nebogipfel che l’atomo contiene un’infrastruttura, e che Thomson sarebbe stato uno dei primi a comprenderla. Wallis dichiarò che tale infrastruttura poteva essere mutata, mediante la fusione di due nuclei, oppure per mezzo della disintegrazione di un atomo, definita fissione atomica. E poiché l’infrastruttura determinava l’identità dell’atomo, il risultato di tali modificazioni, naturalmente, era nientedimeno che la trasformazione di un elemento in un altro: l’antico sogno degli alchimisti!

— Ebbene, non la sorprenderà sapere — proseguì Wallis — che ad ogni disintegrazione atomica si accompagna la liberazione di una certa quantità di energia, giacché gli atomi sono sempre alla ricerca di una condizione più stabile, a più bassa energia. Mi segue?

— Naturalmente.

— Questa pila è composta da sei tonnellate di carolinum, cinquanta tonnellate di ossido di uranio, quattrocento tonnellate di grafite, e anche in questo stesso momento sta emanando un flusso invisibile di energia…

Carolinum? Non ne ho mai sentito parlare.

— È un nuovo elemento artificiale prodotto dai bombardamenti. Il suo periodo di dimezzamento è di diciassette giorni: in tale periodo, cioè, perde la metà dell’energia immagazzinata.

Di nuovo, osservai quel blocco di mattoni apparentemente insignificante: aveva un aspetto tanto scialbo e antipatico! Eppure, pensai, se quello che Wallis ha detto a proposito dell’energia del nucleo atomico fosse vero… Poi chiesi: — Quali sono le applicazioni di questa energia?

Prima di rispondere, Wallis spinse indietro gli occhiali, che gli erano scesi sulla punta del naso: — Abbiamo individuato tre vasti campi… In primo luogo, l’energia potrebbe essere applicata alla propulsione: dotati di pile del genere, i corazzati sommergibili potrebbero percorrere gli oceani per mesi senza bisogno di rifornirsi di carburante, oppure sarebbe possibile costruire bombardieri d’alta quota in grado di compiere dozzine di volte il giro della Terra senza dover atterrare, e così via. In secondo luogo, stiamo già usando la pila per irradiare diversi materiali. Siamo in grado di utilizzare i sottoprodotti della fissione dell’uranio per trasmutare altri materiali: anzi, ne abbiamo qui alcuni campioni, che servono al professor Gödel per certi suoi misteriosi esperimenti. Naturalmente, non può esaminarli perché i contenitori si trovano all’interno della pila.

— E la terza applicazione?

— Ah… — Di nuovo, gli occhi di Wallis assunsero un’espressione assorta, calcolatrice.

— Ho già capito — ripresi, in tono truce. — Con l’energia atomica si realizzerebbe una bomba perfetta.

— Naturalmente, vi sono gravi problemi pratici da risolvere: la produzione degli isotopi adatti in quantità sufficienti, la sincronizzazione delle esplosioni preliminari… Però… Sì, sembra proprio che si potrebbe fabbricare una bomba abbastanza potente da annientare una città intera, con Cupola e tutto. E sarebbe una bomba tanto piccola da poter essere trasportata con una valigetta!

10 Il professor Gödel

Percorrendo altre strette gallerie in cemento, entrammo finalmente nell’edificio principale dell’università, che ospitava gli uffici, poi giungemmo a un corridoio con un’elegante passatoia felpata e ritratti di eminenti uomini del passato alle pareti: quello che si sarebbe potuto definire un mausoleo per scienziati defunti. Era presidiato da parecchi soldati, che però riuscivano a rendere molto discreta la loro presenza.

Là era stato assegnato un ufficio a Kurt Gödel.

Concisamente, Wallis mi raccontò la vita dello scienziato. Nativo dell’Austria, Gödel si era laureato in matematica a Vienna. Influenzato dallo schiamazzo dei filosofi positivisti (personalmente, non ho mai avuto molto tempo da dedicare alla filosofia), aveva incominciato a interessarsi della logica e dei fondamenti della matematica.

Nel 1931, a soli venticinque anni, Gödel aveva pubblicato la sua tesi sorprendente sull’eterna incompletezza della matematica.

In seguito, si era interessato ai nuovi studi di fisica sullo spazio e sul tempo, producendo saggi speculativi sulla possibilità del viaggio temporale: immaginai che si trattasse degli studi di cui mi aveva parlato Nebogipfel. Qualche tempo più tardi, a causa delle pressioni del Reich, si era trasferito a Berlino, dove aveva iniziato a lavorare alle applicazioni militari del viaggio cronotico.

Ci fermammo dinanzi a una porta, a cui una targa d’ottone con il nome di Gödel era stata applicata tanto di recente, che notai i trucioli della trapanatura caduti sul tappeto.

Prima di bussare, Wallis mi avvertì che mi sarebbe stata concessa soltanto una visita breve.

Una voce esile e acuta rispose: — Avanti!

Entrammo in un ufficio spazioso, dal soffitto alto, con un bel tappeto, una lussuosa carta da parati, e una scrivania con il sottomano in cuoio verde. Un tempo, la stanza doveva essere stata soleggiata: infatti le ampie finestre, chiuse da tende, guardavano a occidente, in direzione, fra l’altro, della casa in cui alloggiavo.

Colui che sedeva alla scrivania continuò a scrivere, con un braccio piegato intorno alla pagina, evidentemente per impedirci di vedere. Era basso, magro, dall’aria malaticcia, con la fronte alta e fragile: giudicai che fosse sulla trentina. Indossava un completo di lana tutto sgualcito.

Con un sopracciglio inarcato, Wallis mi guardò, sussurrando: — È un tipo strambo, ma ha un intelletto notevole.

Le scaffalature che coprivano le pareti erano vuote. Sul tappeto erano ammucchiate parecchie casse, da cui si erano riversati cumuli di libri e di riviste, prevalentemente in Tedesco. In una cassa intravidi alcuni attrezzi scientifici, nonché alcuni recipienti di campioni, uno dei quali conteneva una sostanza che mi fece palpitare d’entusiasmo.

Distolsi risolutamente lo sguardo dalla cassa, nel tentativo di dissimulare la mia emozione.

Finalmente, con un sospiro d’esasperazione, l’uomo alla scrivania scagliò rumorosamente la penna contro una parete, appallottolò con entrambe le mani i fogli su cui aveva scritto, quindi li gettò tutti quanti nel cestino. Come se si accorgesse della nostra presenza soltanto in quel momento, alzò lo sguardo: — Ah… Wallis… — Infilò le mani sotto la scrivania e parve rimpicciolire.

— È stato molto gentile a riceverci, professor Gödel. Questi è… — E Wallis mi presentò.

Ah! — ripeté Gödel, sorridendo a mostrare i denti irregolari. — Naturalmente… — Si alzò, con movimenti bruschi, rigidi, e girò intorno alla scrivania per offrirmi la mano. Mentre gliela stringevo, sentendola magra, ossuta e fredda, aggiunse: — Sono lieto di conoscerla. Prevedo che avremo parecchie lunghe discussioni. — Parlava un buon Inglese, con un lieve accento.

Prendendo l’iniziativa, Wallis c’invitò ad accomodarci nelle poltrone accanto alle finestre.

— Spero che si ambienterà in questa nuova epoca — mi disse sinceramente Gödel. — Può darsi che sia un po’ più violenta del mondo che ricorda, ma forse anche lei, come me, sarà tollerato in quanto utile eccentrico. Vero?

Con veemenza, Wallis intervenne: — Suvvia, professore…!

— Eccentrico — ribadì Gödel. — Ekkentros: fuori centro. — Di nuovo guardò me. — È proprio quello che siamo entrambi, sospetto: un po’ esterni al centro delle cose. Suvvia, Wallis… So bene che voi inglesi conformisti mi considerate un po’ strano.

— Be’…

— Il povero Wallis non riesce ad adattarsi alla mia abitudine di riscrivere più volte la corrispondenza — mi disse Gödel. — Talvolta eseguo dieci o dodici revisioni, e finisco comunque per buttare via tutto, come lei stesso ha visto poco fa. È strano? Be’, comunque è così.

— Immagino che rimpianga di aver dovuto lasciare la sua patria…

— No, niente affatto. — A voce bassa, in tono da cospiratore, Gödel aggiunse: — Sono stato costretto ad abbandonare l’Europa.

— Perché?

Per via del kaiser, naturalmente.

In silenzio, Wallis mi lanciò un’occhiataccia d’avvertimento.

— Ho le prove, sa? — continuò Gödel, assorto. — Ho due fotografie, una del 1915 e una di quest’anno, dell’uomo che finge di essere il kaiser Guglielmo. Misurando la lunghezza del naso e calcolando il rapporto con la distanza fra la punta del naso medesimo e la punta del mento… si scopre la differenza!

— Io… Accidenti!

— Proprio così. E con un millantatore al timone… Chi può sapere dove si sta dirigendo la Germania?

— Esatto — si affrettò a intervenire Wallis. — Comunque, quali che siano le sue ragioni, siamo felici che lei abbia accettato l’incarico che le abbiamo offerto, e che abbia scelto la Gran Bretagna come sua nuova patria.

— Già — aggiunsi. — Non avrebbe potuto stabilirsi in America, magari a Princeton, oppure…?

— Certamente. — Gödel parve sconvolto. — Ma sarebbe inconcepibile: del tutto inconcepibile.

— Perché?

— Per via della costituzione, naturalmente! — Ciò detto, lo stravagante scienziato si lanciò in una lunga e incoerente disquisizione su come aveva scoperto nella costituzione americana una lacuna che avrebbe consentito d’istituire legalmente la dittatura.

Seduti in silenzio, Wallis ed io sopportammo la concione.

— Be’ — chiese Gödel, quando ebbe concluso, — che cosa ne pensa?

Nonostante le severe occhiate di Wallis, decisi di essere sincero: — Non riesco a trovare difetti nella sua logica, ma la sua applicazione mi sembra estremamente bizzarra.

— Be’… forse! — sbuffò Gödel. — Ma la logica è tutto, non crede? Il metodo assiomatico è potentissimo. — E sorrise. — Ho trovato anche una prova ontologica dell’esistenza di Dio: è del tutto inattaccabile, a quanto posso giudicare, e ha precedenti onorevoli che risalgono all’arcivescovo Anselmo, ottocento anni fa. Ascolti…

— Forse un’altra volta, professore — interruppe Wallis.

— Ah, sì… Benissimo… — Gödel ci guardò entrambi, l’uno dopo l’altro, con occhi penetranti, assolutamente inquietanti. — Dunque, il viaggio temporale… La invidio davvero molto, sa?

— Per i miei viaggi?

— Sì, ma non per tutto il tedioso saltellare avanti e indietro nella storia… — Gli occhi di Gödel divennero acquosi, scintillanti nell’intensa luce elettrica.

— E per cosa, allora?

— Be’, per avere intravisto altri mondi, altre possibilità… Capisce? La capacità di comprensione dello scienziato, straordinaria, quasi telepatica, mi raggelò: — Mi spieghi che cosa intende…

— L’esistenza reale di altri mondi, la quale implica un significato che travalica la nostra breve esistenza, mi sembra evidente. Chiunque abbia fatto esperienza delle meraviglie della scoperta matematica deve sapere che le verità matematiche hanno un’esistenza indipendente dalle menti in cui trovano ricetto: tali verità sono schegge del pensiero di qualche mente superiore. Ascolti… Le nostre vite, qui, sulla Terra, hanno soltanto un significato dubbio, dunque il loro vero significato deve risiedere fuori di questo mondo. Capisce? Fin qui, si tratta di logica pura e semplice. Il concetto secondo cui tutto al mondo ha un significato ultimo è l’analogo esatto del principio secondo cui tutto ha una causa: un principio su cui si basa tutta la scienza. Ne consegue immediatamente che da qualche parte oltre la nostra storia esiste il mondo assoluto in cui tutto il significato si risolve. Il viaggio temporale, per sua stessa natura, provoca perturbazioni nella storia, e dunque la generazione, o la scoperta, di altri mondi oltre al nostro. Perciò il compito del viaggiatore temporale è quello di cercare, e di continuare a cercare, il mondo assoluto, fino a trovarlo, o  costruirlo!

Allorché lasciammo Gödel, la mia mente era in tumulto. Decisi che non mi sarei beffato mai più dei filosofi matematici, perché quello strano ometto, senza lasciare il suo ufficio, aveva viaggiato più oltre, nel tempo, nello spazio e nella comprensione, di quanto avessi mai fatto io con la macchina del tempo. E sapevo che presto avrei dovuto davvero recarmi di nuovo a visitare Gödel, perché ero convinto di avere veduto in quella cassa un flacone di plattnerite grezza!

11 Il nuovo ordine mondiale

Verso le sei, riaccompagnato al nostro alloggio, entrai lanciando grida di saluto e trovai i miei compagni nella sala da fumo. Quando varcai la soglia, Nebogipfel, che stava ancora studiando i suoi appunti, apparentemente impegnato a tentare di ricostruire tutta la futura scienza della meccanica quantistica in base alla propria memoria imperfetta, balzò in piedi: — Hai incontrato Gödel?

— Sì — sorrisi. — E inoltre… Sì, avevi ragione… — Lanciai un’occhiata a Filby, però il povero vecchio non poteva sentirci, perché si era appisolato leggendo una rivista. — Credo che Gödel possegga un po’ di plattnerite.

— Ah… — Benché impassibile come sempre, Nebogipfel si percosse il palmo di una mano con il pugno dell’altra, in un gesto decisamente umano. — Allora c’è speranza.

Intanto, Mosè si avvicinò per offrirmi un bicchiere di whisky allungato con acqua. Mentre bevevo con sollievo, perché il pomeriggio non era stato meno caldo della mattinata, Mosè mi si accostò maggiormente: — Sono giunto a una conclusione…

Così, riuniti in conciliabolo, a testa china, gli uni vicini agli altri, Nebogipfel, Mosè ed io, discutemmo sottovoce.

— Vale a dire? — chiesi.

— Dobbiamo davvero andarcene da qui, e con ogni mezzo!

Ciò detto, Mosè ci raccontò come aveva trascorso la giornata. Annoiato, si era messo a conversare con i giovani militari, alcuni dei quali erano ufficiali. Al pari di tutti coloro che erano in servizio nella zona universitaria, i soldati che avevano avuto l’incarico di sorvegliarci erano intelligenti e istruiti. A quanto sembrava, avevano preso in simpatia Mosè: infatti lo avevano invitato alla locanda Queen’s Arms, che si trovava nelle vicinanze, a Queen’s Gate Mews. In seguito, con alcuni risciò, lo avevano condotto nel West End. Dopo avere bevuto alcuni bicchieri, i giovani militari avevano discusso volentieri, con lo straniero proveniente dal passato, delle loro idee e delle loro concezioni del nuovo stato moderno.

Contento di sentire che Mosè si era liberato della sua timidezza e si era interessato al mondo in cui eravamo stati trasportati, ascoltai affascinato il suo racconto.

— Sono tutti giovani molto simpatici — dichiarò Mosè. — Sono competenti, pratici, ed evidentemente coraggiosi. Però hanno certe idee!

Come Mosè aveva scoperto, il concetto fondamentale del futuro era la pianificazione. Una volta fondato lo stato moderno, diretto dai vincitori, ossia i britannici e i loro alleati, il controllo aereo e marittimo si sarebbe impossessato di tutti i porti, di tutte le miniere, di tutti i pozzi petroliferi e di tutte le centrali energetiche. Allo stesso modo, il controllo dei trasporti si sarebbe impossessato dei cantieri navali di tutto il mondo, per convertirli dalla produzione bellica a quella civile. Il controllo alleato degli approvvigionamenti avrebbe organizzato la produzione del ferro, dell’acciaio, della gomma, del cotone, della lana e delle sostanze vegetali, e similmente avrebbe operato il controllo delle risorse alimentari.

— Insomma, avete capito — continuò Mosè. — Diventerà un mondo di dominio assoluto: il nuovo Stato Mondiale Alleato s’impadronirà di tutte le risorse planetarie, organizzandone lo sfruttamento innanzitutto per la ricostruzione postbellica, e in seguito per il miglioramento dell’umanità. Come vedete, è tutto pianificato da un gruppo dirigente onnisciente, onnipotente, e per giunta autoeletto!

— A parte quest’ultimo particolare — commentai, pensoso — non mi sembra poi tanto male…

— Può anche darsi. Ma questa pianificazione non si limiterà all’organizzazione planetaria dello sfruttamento delle risorse materiali, bensì anche di quelle umane. Ed è qui che inizia il problema. Consideriamo innanzitutto il comportamento. — Mosè mi guardò. — Questi giovani non giudicano molto favorevolmente la nostra epoca: sono stato informato, infatti, che noi soffriamo di una “profonda dissolutezza nella condotta privata”! Loro, invece, sono tornati alla più rigorosa morigeratezza, soprattutto per quanto concerne la sessualità. Pensare agli affari: questo è l’ordine del giorno!

Con un empito di nostalgia, replicai: — Immagino che tutto ciò lasci presagire poco di buono per il futuro dell’impero… Leicester Square…

— E già stata chiusa, demolita, per far posto a un ufficio di pianificazione ferroviaria! E non intendono certo fermarsi a questo. La prossima fase sarà un po’ più attiva. Assisteremo allo sterminio indolore degli “anormali in condizioni più pietose” (e non sono parole mie!), nonché alla sterilizzazione di coloro che altrimenti trasmetterebbero tendenze che sono, cito: “del tutto indesiderabili”. Sembra che in alcune regioni della Gran Bretagna questo processo di epurazione sia già incominciato. Dispongono, ad esempio, di un gas chiamato “cinetogeno di Pabst”. Insomma, potete capire che intendono manipolare il corredo genetico dell’umanità.

— Mmm… Diffido profondamente di una normalizzazione di questo genere — dichiarai. — È davvero tanto desiderabile che il futuro della specie umana debba essere filtrato attraverso la “tolleranza” degli inglesi del 1938? La loro lunga ombra dovrebbe dunque protendersi su milioni di anni a venire?

— Secondo loro — riprese Mosè — tutto dipende dalla pianificazione, senza la quale l’umanità ricadrebbe inevitabilmente nel caos e nella barbarie, che la condurrebbero all’estinzione.

— E gli uomini moderni sarebbero capaci di compiere una tale impresa epocale?

— Sicuramente vi saranno conflitti e spargimenti di sangue senza precedenti, persino in confronto a questa guerra tetra e spaventevole, giacché la maggior parte dei paesi del mondo non intende subire l’imposizione della pianificazione dei tecnocrati alleati.

Scrutando Mosè negli occhi, riconobbi in lui il furore morale nei confronti dell’insensatezza umana, che era stato parte integrante di me in gioventù. Avevo sempre diffidato dell’avanzamento della civiltà a tutti i costi, perché mi sembrava un edificio instabile, destinato a crollare prima o poi sulle teste dei suoi sciocchi costruttori. E il progetto dello stato moderno era sicuramente il più folle, ad eccezione della guerra in corso, di cui avessi udito parlare da qualche tempo. Sbarazzatosi della paura e dello scoramento, Mosè era diventato una versione più giovane e più determinata di me: in quel momento, in cui fu come se gli leggessi negli occhi grigi quello che stava pensando, mi sentii più che mai legato a lui da un’intimità profonda.

— E va bene — annunciai. — Allora è deciso. Credo che nessuno di noi possa tollerare un futuro del genere.

In silenzio, Mosè scosse la testa. Da parte sua, Nebogipfel parve d’accordo. Quanto a me, rinnovai la decisione di porre fine una volta per sempre ai viaggi temporali.

— Dobbiamo fuggire, dunque. Ma come…?

D’improvviso, impedendomi di formulare la domanda, la casa tremò.

Caddi violentemente, rischiando di sbattere la testa contro la scrivania. Rimbombò un rumoreggiare cupo, simile a quello che avrebbe potuto essere prodotto dallo sbattere di una porta gigantesca nelle profondità del sottosuolo. La luce delle lampade vacillò, ma senza spegnersi. Tutt’intorno si udirono grida, i gemiti del povero Filby, uno spicinio di vetri rotti, tonfi di oggetti che cadevano.

Poi l’edificio parve ritrovare la propria stabilità. Tossendo, perché lo sconquasso aveva sollevato una quantità esorbitante di polvere, mi rialzai a fatica: — State tutti bene? Mosè? Nebogipfel?

Vedendo che Mosè stava già aiutando Nebogipfel, il quale sembrava illeso benché gli fosse caduta addosso una scaffalatura, cercai Filby.

Il mio vecchio amico era stato fortunato: non era neppure caduto dalla sedia. Alzatosi, si recò alla finestra, il cui vetro si era spaccato.

Mi avvicinai: — Filby… Mio caro amico… — E gli passai le braccia intorno alle spalle curve. — Andiamo via…

Con gli occhi cisposi e lacrimanti, il viso incrostato di polvere, ignorandomi, Filby indicò fuori della finestra con un dito nodoso: — Guarda…

Nell’accostare la testa al vetro, mi misi le mani intorno al viso per annullare il riflesso delle lampade elettriche, quindi guardai fuori. Le lampade Aldis della chiacchieratrice erano spente, al pari di gran parte dell’illuminazione stradale. Parecchie persone fuggivano di corsa, terrorizzate; una bicicletta giaceva abbandonata; un soldato con la maschera antigas sparava in alto. E dall’alto, appunto, in lontananza, un raggio di luce intensa, in cui galleggiava freneticamente il pulviscolo, cadeva verticalmente a illuminare una sezione trasversale di strade e di case, un angolo di Hyde Park, e numerosi cittadini che si proteggevano il viso con le mani, abbacinati, battendo le palpebre come civette.

Quel raggio accecante era la luce del giorno: nella Cupola era stata aperta una breccia.

12 L’assalto tedesco a Londra

La porta principale, evidentemente spalancata dall’esplosione, pendeva dai cardini. Non vi era traccia dei soldati che avevano avuto l’incarico di sorvegliarci: neppure del fedele Puttick. Fuori, in Queen’s Gate Terrace, si udivano rumori di corsa, strilli e grida rabbiose, fischi acuti. Nell’aria indugiavano gli odori della polvere, del fumo e della cordite. La lama di luce diurna di giugno incombeva su tutto, enorme, splendente e tagliente. Sgomenta e terrorizzata, la popolazione di Londra, fino a quel momento protetta dalla Cupola come da un carapace, batteva le palpebre, simile a uno stormo di civette spaventate e abbacinate.

D’improvviso, Mosè mi percosse una spalla: — Questa confusione non durerà a lungo. È la nostra occasione: dobbiamo approfittarne subito.

— Benissimo. Io vado a chiamare Nebogipfel e Filby. Tu raccogli un po’ di equipaggiamento…

— Equipaggiamento? Quale equipaggiamento?

Quale pazzo si sarebbe mai avventurato nel tempo in vestaglia e ciabatte? Irritato e spazientito, ribattei: — Candele, fiammiferi… Tutto quello che riesci a trovare. E qualunque tipo di arma: andrà bene anche un coltello da cucina, se non troverai di meglio. — Freneticamente, pensai: Cos’altro? Cos’altro? Poi aggiunsi: — Canfora, se ce n’è, e indumenti intimi! Riempiti le tasche!

— Ho capito — annuì Mosè. — Riempirò una borsa, o una valigia. — Quindi rientrò, avviandosi verso la cucina.

Mi affrettai a tornare nella sala da fumo, dove Nebogipfel, indossato nuovamente il berretto da studente, stava raccogliendo i propri appunti in una cartellina di cartone. Quel povero vecchio diavolo di Filby, invece, era accoccolato sotto la finestra, con le ginocchia ossute raccolte contro il petto concavo, e le mani sollevate dinanzi al viso, come un pugile in guardia.

Mi accosciai accanto a lui: — Filby… Filby, vecchio mio…

Quando mi allungai a toccarlo, Filby si scostò, trasalendo.

— Devi venire con noi. Non sei al sicuro, qui.

— Al sicuro? E lo sarò invece con te, vero? Tu… Cospiratore! Ciarlatano! — Con gli occhi irritati dalla polvere, colmi di lacrime, luminosi come finestre, Filby pronunciò le ultime parole come se fossero gli insulti peggiori che si potesse immaginare. — Ricordo bene la volta che ci spaventasti a morte tutti quanti con quel dannato trucco dei fantasmi, a Natale! Be’, non mi lascerò ingannare un’altra volta!

— Cerca di ragionare! — sbottai, trattenendomi dallo scrollarlo. — Il viaggio temporale non è un trucco, e di sicuro non lo è questa vostra guerra disperata!

In quel momento mi sentii toccare una spalla. Con le dita pallide che sembravano splendere nei frammenti di luce diurna che entravano dalla finestra, Nebogipfel disse gentilmente: — Non possiamo aiutarlo.

Guardando Filby, con la testa china, il viso coperto dalle mani tremanti e chiazzate dalla discromia, capii che non poteva più sentirmi: — Non possiamo abbandonarlo così…

— Che cosa vorresti fare? Riportarlo nel 1891? L’epoca che ricordi non esiste più, se non in chissà quale dimensione irraggiungibile.

Con uno zainetto stracolmo in mano, Mosè irruppe nella stanza: — Sono pronto… — ansimò. Indossava gli spallacci e aveva la maschera antigas alla cintura. Poi guardò a turno Nebogipfel e me, che tardavamo a rispondere: — Che cosa succede? Che cosa state aspettando?

In silenzio, protesi una mano a stringere affettuosamente una spalla di Filby, il quale, se non altro, non si ritrasse: lo considerai, dunque, come un ultimo brandello di contatto amichevole fra noi.

Quella fu l’ultima volta che lo vidi.


Il quartiere di Londra in cui si trovava Queen’s Gate Terrace, ricordavo, era sempre stato relativamente tranquillo. Ma quando ci affacciammo a guardare in strada, vedemmo uomini e donne che, abbandonati i luoghi di lavoro e le case, fuggivano, correndo, incespicando, urtandosi a vicenda. Molti erano protetti dalle maschere antigas. Sui volti di coloro che non le portavano, vidi sofferenza, paura e disperazione.

Evidentemente le scuole erano state chiuse: si vedevano bambini ovunque, in gran parte abbigliati con le scialbe uniformi scolastiche, i volti nascosti dalle piccole maschere antigas. Vagavano per le strade, piangendo, alla ricerca dei genitori. Dinanzi al pensiero del dolore delle madri che cercavano i figli nella città trasformata in un immenso formicaio brulicante, la mia immaginazione si ritrasse.

Vi erano persone che non avevano rinunciato alle valigette e alle borsette: oggetti familiari, d’uso quotidiano, perfettamente inutili in quella circostanza. Altri trasportavano una parte dei loro averi in valigie gonfie da scoppiare, oppure in fagotti ricavati da tende o lenzuola annodate. Un uomo magro e intenso avanzava a fatica, spingendo una bicicletta con un mobile, sicuramente pieno di oggetti preziosi, in equilibrio sul manubrio e sul sellino. Con la ruota anteriore, urtava le schiene o le gambe dei fuggiaschi che lo precedevano, gridando: — Via! Via! Largo! Largo!

Nessuno cercava di riportare l’ordine. Sembrava che i poliziotti e i soldati fossero stati sopraffatti, oppure che si fossero sbarazzati delle uniformi e che a loro volta si fossero dati alla fuga. In piedi sopra un gradino, un membro dell’Esercito della Salvezza gridava: — Eternità! Eternità!

— Guarda… — indicò Mosè. — La Cupola è spaccata a oriente, in direzione di Stepney. E così, è smentita la tanto vantata invulnerabilità di questa volta meravigliosa!

Era vero. Sembrava che una bomba enorme avesse aperto una breccia immensa nel guscio di cemento, in prossimità dell’orizzonte orientale. Al di sopra della ferita, la Cupola si era spaccata come un uovo, fin quasi alla sommità, e la fenditura, simile a un nastro azzurro gigantesco e irregolare, rivelava il cielo. Per giunta, stava continuando a rompersi: pezzi di muratura, alcuni dei quali grandi come case, piovevano sulla parte sottostante della città, dove la gravità dei danni e il numero dei defunti dovevano essere elevatissimi.

Da lontano, a settentrione, giunse una serie di tuoni attutiti, simile al rumore dei passi di un gigante. Ovunque, l’aria era straziata dai lamenti delle sirene: ‘ulla, ‘ulla, ‘ulla; nonché dai gemiti immani delle crepe che continuavano ad aprirsi nella Cupola.

Immaginai cos’avrei visto se avessi potuto guardare dall’alto della volta: Londra, città spaventata ma efficiente, trasformata in pochi istanti in un ricettacolo di caos, di panico e di morte. Di sicuro, ogni strada che conduceva a ovest, a sud o a nord, lontano dalla breccia nella Cupola, era invasa da un fiume fremente di esseri umani in preda alla sofferenza e all’angoscia: ognuno era un figlio smarrito, oppure un coniuge o un genitore straziato.

Nel tumulto assordante della strada, Mosè fu costretto a urlare: — Quella dannata Cupola sta per crollare da un momento all’altro su tutti quanti noi!

— Lo so! Dobbiamo arrivare all’Imperial College! Forza! Dobbiamo farci largo! Nebogipfel… Aiutaci, se puoi!

Riuscimmo a raggiungere il centro della strada affollata, però dovevamo andare ad oriente, ossia nella direzione opposta a quella della folla. Abbagliato dalla luce del sole, Nebogipfel fu quasi travolto da un individuo con la faccia di luna piena e con gli spallacci sopra un completo dal taglio e dal colore severi, il quale continuò la sua fuga agitando minacciosamente un pugno. In seguito, Mosè ed io proteggemmo sempre il Morlock, ciascuno di noi tenendolo per un braccio magro. Rischiando di atterrarlo, urtai un ciclista. Gridandomi un insulto incomprensibile, questi cercò di picchiarmi con un pugno ossuto, che io schivai, abbassandomi; poi proseguì la fuga insieme alla calca, con la cravatta drappeggiata sopra una spalla. Una donna grassa e vacillante camminava all’indietro, trainando un tappeto arrotolato, con la gonna sollevata fin sopra alle ginocchia, a mostrare i polpacci striati di polvere. Quando un fuggiasco a piedi o in bicicletta le passava sopra il tappeto, barcollava. Vidi le lacrime inondarle gli occhiali della maschera antigas, mentre lottava irrazionalmente per trascinare quell’oggetto ingombrante che per lei aveva tanta importanza.

I pochi volti nudi, magari di un impiegato dagli occhi arrossati o di una commessa affaticata, suscitavano in me un barlume di solidarietà, ma per il resto, con le maschere antigas, nella confusa alternanza di oscurità e di luci incerte, la folla appariva anonima, simile a una massa d’insetti, perciò mi sembrava di essere stato nuovamente trasportato lontano dalla Terra, su qualche remoto pianeta d’incubo.

A un tratto, l’aria venne trafitta da una sorta di strillo monotono, che sembrava giungere dalla breccia a oriente. Intorno a noi, la folla indugiò un istante, come in ascolto. Incapaci di comprendere il significato di quell’evento nuovo e minaccioso, Mosè ed io ci scambiammo un’occhiata di sconcerto.

Lo strillo cessò d’improvviso.

Nel silenzio che seguì, una voce gridò: — Una bomba! Sta per scoppiare una bomba!

Finalmente compresi che cosa, poco prima, avesse prodotto a settentrione quel rumore come di lontani passi giganteschi: il tuonare delle artiglierie.

Anche la pausa finì. Intorno a noi, il panico esplose più frenetico che mai. Afferrai Mosè per una spalla, quindi, senza tante cerimonie, spinsi al suolo lui e Nebogipfel. Fummo sommersi dalla calca come da un’onda di carne calda e palpitante. In quell’ultimo istante, percosso dalle gambe dei fuggiaschi, udii la voce acuta del membro dell’Esercito della Salvezza, il quale continuava a strillare: — Eternità! Eternità!

Poi brillò un lampo, vividissimo anche attraverso gli strati di corpi, e il suolo fu squassato da un tremito immane. Con violenza, fui sollevato dalla strada, sbattendo la testa contro quella di un profugo, e gettato nuovamente a terra, privo per il momento di coscienza.

13 Il bombardamento

Nel riprendere conoscenza, mi accorsi che Mosè, tenendomi con le mani sotto le ascelle, mi stava trascinando fuori da un mucchio di cadaveri. Quando il mio piede s’impigliò in quello che mi parve un telaio di bicicletta, gridai.

Dopo avermi lasciato un momento per sganciare il piede, Mosè mi liberò del tutto: — Stai bene? — Mi palpò la fronte, insanguinandosi i polpastrelli. Notai che aveva perduto lo zainetto.

Mi sentivo assalito dalla vertigine. Sembrava che un dolore grave mi si librasse sulla testa, in attesa di abbattersi con tutta la sua violenza: capii che una volta svanito l’intontimento temporaneo avrei sofferto molto. Tuttavia, non avevo il tempo di preoccuparmi per questo: — Dov’è Nebogipfel?

— Sono qui. — Il Morlock era in strada, illeso. Aveva perduto il berretto e aveva gli occhiali graffiati da qualche scheggia. Guardava volar via le pagine sparse degli appunti, cadute dalla cartellina che si era aperta.

L’esplosione e lo spostamento d’aria avevano sparpagliato i profughi come birilli: giacevano tutt’intorno nelle posizioni più strane, gli uni sugli altri, con le braccia protese, le caviglie storte, le bocche aperte, gli occhi fissi, le carni e gli indumenti chiazzati di sangue fosco, uomini vecchi sopra donne giovani, un bimbo sopra la schiena di un soldato. I feriti si muovevano, si lamentavano, cercavano faticosamente e dolorosamente di alzarsi. E quella vista mi rammentò null’altro che un mucchio d’insetti brulicanti.

— Mio Dio… — disse Mosè, commosso. — Dobbiamo aiutare questa gente…

— No — ribattei, con voce tagliente. — Non possiamo. Sono troppi: non c’è nulla che possiamo fare. Siamo fortunati ad essere sopravvissuti. Non capisci? E adesso che le artiglierie hanno trovato la gittata… Andiamo! Dobbiamo rimanere fedeli al nostro proposito: fuggire da qui, nel tempo!

— Non lo sopporto — insistette Mosè. — Non ho mai visto nulla di simile…

— Temo — commentò trucemente Nebogipfel, avvicinandosi — che vedremo ben di peggio, prima di abbandonare questo vostro secolo.

Così, continuammo la fuga, scivolando sulla strada viscida di sangue e di escrementi. Quando passammo dinanzi a un ragazzino con una gamba rotta, che piangeva e si lamentava, incapace di muoversi, Mosè ed io, nonostante ciò che avevo detto poc’anzi, fummo incapaci di resistere alle sue richieste d’aiuto. Ci curvammo a sollevarlo dal luogo in cui giaceva, accanto al cadavere di un lattaio, e lo trasportammo sul marciapiede, in modo che potesse sedere addossato al muro. Allora una donna lo vide, uscì dalla folla e gli si avvicinò, poi, con un fazzoletto, incominciò a pulirgli il viso.

— È sua madre? — chiese Mosè. — Non lo so…

Allora udimmo alle nostre spalle la strana voce aliena di Nebogipfel, simile a un richiamo da un altro monda: — Andiamo.

Riprendemmo la fuga. Giunti all’angolo in fondo alla strada, scoprimmo che quello era stato l’epicentro dell’esplosione.

— Almeno — commentai — non hanno lanciato i gas.

— No, ma… — replicò Mosè, con voce angosciata. — Oh, Dio! È abbastanza!

La strada era squarciata da un cratere di oltre un metro di diametro. Le porte erano sfondate, tutte le finestre erano fracassate, le tende pendevano inutili, le pareti e i pavimenti erano schiantati o butterati dagli shrapnel, e le persone…


Talvolta, il linguaggio non può descrivere adeguatamente l’orrore. Talvolta, la comunicazione fra persone degli eventi impressi nella memoria, su cui si basa la società umana, è impossibile. Ebbene, l’esperienza che vissi in quella occasione rientra appunto in tale categoria: non posso comunicare l’orrore di quella strada di Londra a chi non ne sia stato testimone.

Teste, braccia e gambe, molte delle quali ancora vestite, erano sparse ovunque. Una testa sembrava accuratamente posata sulla strada accanto a una valigetta. Un braccio disteso aveva ancora l’orologio al polso: mi domandai se funzionasse! Accanto al cratere, una manina che giaceva sul dorso, con le dita rattrappite, sembrava un fiore, anche se descriverla così sembra assurdo: persino comico. Anche in quel momento fui costretto a rammentare a me stesso che soltanto pochi minuti prima quei pezzi staccati di carne che si raffreddava erano appartenuti agli organismi di esseri umani senzienti, ciascuno con la propria vita e le proprie speranze. Eppure mi sembravano non più umani dei componenti di una bicicletta fracassata, che erano sparsi sulla strada.

Non avevo mai visto nulla di simile. Mi sentivo distaccato da tutto, come se mi muovessi in un paesaggio di sogno. Sapevo però che nella mia interiorità avrei rivisitato in eterno quel carnaio. Ricordai l’Interno della Sfera, immaginandola come una conca colma di milioni di nuclei d’orrore e di sofferenza, ciascuno non meno orrendo di quello in cui mi trovavo. E il pensiero che una tale follia si fosse abbattuta su Londra, la mia Londra, mi colmò di un’angoscia che mi colpì come una fitta dolorosa alla gola.

Pallido, il viso coperto da una patina fine e lustra di sudore e di polvere, Mosè lanciava occhiate tutt’intorno, con gli occhi fissi e sgranati. Nebogipfel, attraverso gli occhiali, osservava quella strage spaventevole con gli occhi grandi, senza battere le palpebre: mi domandai se incominciasse a credere che non lo avessi trasportato nel passato, bensì in qualche profondo girone infernale.

14 La rotomina

Percorse con difficoltà le ultime decine di metri, giungemmo al muro di cinta dell’Imperial College, dove, con mio sgomento, un soldato che indossava la maschera antigas, armato di fucile, c’impedì di entrare. Intrepido, ma evidentemente del tutto privo d’immaginazione, era rimasto al suo posto, mentre i rigagnoli della strada si arrossavano di sangue. Alla vista di Nebogipfel, sgranò gli occhi, protetti dagli occhiali del facciale. Non mi riconobbe, e rifiutò assolutamente di lasciarci passare senza il salvacondotto necessario.

D’improvviso, si udì un altro fischio nell’aria. Spaventati, ci raccogliemmo tutti in noi stessi, in attesa dell’esplosione: persino il soldato si portò l’arma al petto, come se fosse stata uno scudo totemico. Ma la bomba scoppiò a qualche distanza, con un lampo, un rumore di vetro fracassato, e un tremito del suolo.

A pugni serrati, Mosè si avvicinò al soldato. Sembrava che l’orrore suscitato in lui dal bombardamento si fosse trasformato in collera: — Hai sentito, dannato tirapiedi in uniforme? — ruggì. — La città è ormai in preda al caos! Che cosa stai sorvegliando? A che cosa serve, ormai? Non vedi che cosa sta succedendo?

La sentinella gli puntò il fucile al petto: — Ti avverto, amico…

— No, non vede affatto — intervenni, ponendomi tra il soldato e Mosè, deluso e sconcertato dal fatto che quest’ultimo avesse perduto il controllo, nonostante lo stato d’animo in cui si trovava.

— Possiamo trovare un altro passaggio — suggerì Nebogipfel. — Si saranno aperte brecce nel muro di cinta dell’università…

— No — insistetti, risolutamente. — Questa è la via che conosco. — A mia volta, fronteggiai la sentinella. — Ascolta, soldato… Non ho l’autorità di darti ordini, ma ti assicuro che sono importante per lo sforzo bellico.

Dietro gli occhiali della maschera, il soldato socchiuse gli occhi.

— Chiama il dottor Wallis o il professor Gödel — continuai. — Sono certo che garantiranno per me. Ti prego, almeno, di controllare.

Dopo un’ultima esitazione, ma sempre tenendoci sotto tiro, il soldato varcò la soglia, camminando all’indietro, poi staccò il ricevitore di un telefono a muro.

Nei minuti che la sentinella rimase all’apparecchio, attesi con angoscia crescente. Non sopportavo che un ostacolo tanto meschino m’impedisse di fuggire nel tempo: non dopo tutto quello che avevo passato.

Seppure con riluttanza, la guardia annunciò: — Dovete recarvi all’ufficio del dottor Wallis. — E finalmente il semplice e valoroso soldato si fece da parte.

Così, lasciammo la confusione della strada per passare nella calma relativa dell’Imperial College.

— Andiamo subito da Wallis — assicurai. — Non preoccuparti. E grazie!

Quando entrammo nel labirinto di gallerie che ho già descritto, Mosè si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo: — Con la nostra solita fortuna, ci siamo imbattuti proprio nell’unico soldato ancora al suo posto in tutta la stramaledetta Londra! Quel piccolo stupido incorreggibile…

— Come puoi essere tanto sprezzante? — interruppi, con voce tagliente. — È una persona semplice, che fa del suo meglio per svolgere l’incarico che gli è stato assegnato, in mezzo a tutta questa… questa follia, di cui non è certo responsabile! Che cosa vuoi di più da un uomo? Eh?

— Ehi! E l’immaginazione? E l’intuito, l’intelligenza, l’iniziativa…? Ci fermammo, l’uno di fronte all’altro, scrutandoci negli occhi, i volti che quasi si sfioravano.

Signori — s’intromise Nebogipfel. — Vi sembra che sia il momento di guardarsi l’ombelico?

Allora Mosè ed io ci volgemmo a fissare il Morlock, quindi ci scambiammo un’occhiata. Capii che Mosè, con la collera, mascherava paura e vulnerabilità: scrutarlo negli occhi fu come guardare un animale terrorizzato attraverso le sbarre di una gabbia. Annuii, cercando di rassicurarlo.

Passato il momento di crisi, ci rimettemmo in cammino.

— Naturalmente — dissi, nel tentativo di rompere la tensione — tu non ti guardi mai l’ombelico, vero, Nebogipfel?

— No — rispose tranquillamente il Morlock. — Anche perché non ho l’ombelico.

Affrettandoci, giungemmo al palazzo che ospitava gli uffici e ci mettemmo alla ricerca dello studio di Wallis, percorrendo corridoi con file di porte dalle targhe d’ottone, i passi attutiti dalle passatoie. L’impianto d’illuminazione funzionava ancora: evidentemente, l’università disponeva di generatori indipendenti, o di emergenza. Non incontrammo nessuno.

Negli uffici le cui porte erano state lasciate aperte si scorgevano tracce di partenze frettolose: una tazza di tè rovesciata, una sigaretta che si spegneva in un portacenere, carte sparse sul pavimento.

Era difficile credere che il carnaio che avevamo attraversato si trovasse soltanto a poche decine di metri di distanza.

Finalmente arrivammo a un ufficio con la porta aperta, da cui usciva una luce azzurrina. Dalla soglia scoprimmo che l’unico occupante, appollaiato sopra un angolo della scrivania, era Wallis: — Oh! Siete voi… Non mi aspettavo di rivedervi. — Indossava gli occhiali dalla montatura metallica, una cravatta di lana e una giacca di tweed, e un solo spallaccio. La maschera antigas era posata sulla scrivania. Evidentemente si era lasciato distrarre da qualcosa mentre si preparava a lasciare l’edificio insieme agli altri. — È una situazione disperata — commentò. — Davvero disperata! — Poi ci osservò meglio, e fu come se ci vedesse per la prima volta. — Buon Dio! In che condizioni siete!

Entrammo nell’ufficio. La luce azzurra proveniva dallo schermo di vetro di un apparecchio più o meno cubico, su cui si vedeva l’immagine, piuttosto sgranata, di un tratto di fiume, presumibilmente il Tamigi.

Con le mani sulle ginocchia, Mosè si curvò innanzi ad osservare meglio il piccolo paesaggio: — L’immagine è parecchio sfuocata, ma… è una bella novità.

Nonostante l’emergenza della situazione, anch’io rimasi affascinato dall’apparecchio: si trattava evidentemente dell’evoluzione del fonografo, a cui aveva accennato Filby, in grado di mostrare immagini in movimento.

Quando Wallis premette un interruttore sulla scrivania, l’immagine fu sostituita da un’altra, che rappresentava lo stesso tratto di fiume che scorreva attraverso una zona edificata, però era più luminosa.

— Guardate qui… — esortò Wallis. — Ho guardato e riguardato questo filmato più e più volte, da quando è successo, e… Non riesco a credere ai miei occhi. Be’, se noi possiamo concepire cose simili, immagino che possano farlo anche loro!

— Chi? — chiese Mosè.

— I tedeschi, naturalmente: i dannati tedeschi! Guardate… Questa immagine è stata ripresa da una cinecamera installata in cima alla Cupola. L’ansa del fiume è a oriente, oltre Stepney. Guardate… Ecco che arriva…

Vedemmo un aeromobile nero, a forma di croce, arrivare da oriente e abbassarsi sul fiume.

— Dovete sapere che non è affatto facile bombardare una Cupola — spiegò Wallis. — Dopotutto, è stata progettata e costruita proprio per questo, naturalmente. È tutta in muratura molto solida, tenuta insieme dalla gravità oltre che dall’acciaio: qualunque incrinatura tende a rinsaldarsi…

L’aeromobile lasciò cadere in acqua un oggetto che, sebbene l’immagine fosse sgranata, sembrava cilindrico, e scintillava al sole roteando nella caduta.

— Le schegge di una bomba che esplode in aria semplicemente rimbalzano sul cemento — continuò Wallis. — Di solito, persino una bomba sganciata direttamente sulla Cupola non produce danni, perché la maggior parte della potenza si scarica nell’aria. Capite? Eppure c’è un modo… E io lo sapevo! È la rotomina, o torpedine di superficie. Io stesso inoltrai una proposta, che però non fu accolta. E con tutto il daffare qui al Diguerdiscron… In corrispondenza del fiume, la Cupola penetra sott’acqua, allo scopo d’impedire gli attacchi dei sommergibili. Dal punto di vista strutturale, è simile a una diga. Ebbene, se si riuscisse a collocare una bomba contro la parte immersa della Cupola… — Wallis aprì le mani grandi e fini, da studioso, a mimare l’operazione. — Allora l’acqua sarebbe d’aiuto, contenendo l’esplosione e dirigendo l’energia verso l’interno, ossia verso la struttura della Cupola.

Intanto, sullo schermo, l’oggetto, cioè la bomba tedesca, colpì l’acqua, rimbalzò, in una bruma di spruzzi argentei, poi volò sul fiume, verso la Cupola. L’aeromobile s’inclinò a destra e si allontanò con una manovra molto aggraziata, lasciando la rotomina a procedere verso l’obiettivo in una successione di archi parabolici.

— Ma come sganciare con precisione una bomba su un luogo tanto inaccessibile? — proseguì Wallis, pensoso. — Non si può semplicemente lasciarla cadere, perché anche se lo si facesse da una quota modesta, diciamo da quattromilacinquecento metri, basterebbe un vento sfavorevole di sole dieci miglia orarie per produrre uno scarto di quasi duecento metri. Ma io ho capito qual è la soluzione: basterebbe imprimere una piccola rotazione inversa, e la bomba rimbalzerebbe sull’acqua. Con qualche piccolo esperimento, si potrebbero calcolare i rimbalzi con notevole precisione. Vi ho mai parlato degli studi di questo genere che ho compiuto a casa, con le biglie di mia figlia? La mina rimbalza fino alla Cupola, scivola lungo la superficie di quest’ultima, sott’acqua, fino alla profondità necessaria… Ed è fatta: un colpo perfetto! — Raggiante, con la bianca ciocca irta e gli occhiali storti, Wallis aveva un’aria da zio, o da usuraio.

— Eppure mi sembra che questa bomba non possa arrivare — commentò Mosè, continuando a scrutare le immagini imprecise. — Anche con i rimbalzi, si fermerà prima… Ah!

Mentre un pennacchio di fumo, di un bianco acceso persino nell’immagine sgranata, scaturiva dalla sua estremità posteriore, la rotomina, come per effetto di rinnovata energia, eseguì un gran balzo sull’acqua.

— Quei tedeschi… — sorrise Wallis. — Bisogna proprio ammirarli… Nemmeno io avevo mai pensato a questo piccolo espediente…

Spinta dal razzo ancora fiammante, la rotomina passò sotto la Cupola, scomparendo dall’inquadratura; poi l’immagine fu scossa da un tremito e lo schermo si riempì di un’informe luce azzurra.

— A quanto pare — sospirò Wallis — ci hanno sconfitti…

— E il bombardamento? — chiese Mosè.

— L’artiglieria? — Wallis parve a malapena interessato. — Probabilmente sono cannoncini 42 da centocinque, paracadutati insieme alle squadre di artiglieri. Non dubito che servano a preparare l’invasione dal mare e dall’aria che sta per seguire. — Si tolse gli occhiali e cominciò a pulirli con l’estremità della cravatta. — Non siamo ancora spacciati, però è una situazione disperata: davvero grave…

— Dottor Wallis — intervenni. — E Gödel?

— Mmm? Chi? — Wallis mi guardò con gli occhi grandi, arrossati di stanchezza. — Ah, sì… Gödel… Ebbene?

— È qui?

— Sì, direi di sì. Dovrebbe essere nel suo ufficio.

Subito Mosè si avviò alla porta insieme a Nebogipfel, esortandomi con un cenno urgente a seguirli.

Ma io sollevai una mano: — Non vuole accompagnarci, dottor Wallis?

— Perché mai?

— Qualcuno potrebbe fermarci, impedendoci di arrivare da Gödel. E noi dobbiamo trovarlo.

Ridendo, Wallis si rimise gli occhiali sul naso: — Oh, penso che né la sicurezza né nulla di tutto ciò abbia più molta importanza! Non credete anche voi? Comunque… Ecco… — Si staccò dal risvolto il distintivo numerato che portava. — Prenda questo, e dica che ha la mia autorizzazione… ammesso che incontri qualcuno abbastanza pazzo da essere rimasto al suo posto.

— Sono certo — ribattei, con ardore — che rimarrebbe sorpreso.

— Mmm? — Così dicendo, Wallis si dedicò di nuovo allo schermo, che stava mostrando una successione casuale di immagini, evidentemente riprese da diverse cinecamere installate sulla Cupola: aeromobili che decollavano, simili a nere zanzare gigantesche; saracinesche che si aprivano e numerosi corazzati che uscivano dalle basi sotterranee, eruttando vapore, per schierarsi su una linea che sembrava stendersi da Leytonstone a Bromley, e avanzare, solcando il suolo, incontro agli invasori tedeschi.

A un tratto, Wallis premette di nuovo l’interruttore, per fare scomparire quelle scene di Armageddon e rivedere la registrazione dello sganciamento della rotomina: — è una situazione disperata… E avrebbe potuto accadere prima! Ma che invenzione meravigliosa… neppure io ero certo che fosse fattibile. — Gli occhi nascosti dai riflessi guizzanti e inutili delle immagini, aveva lo sguardo avvinto allo schermo.

Fu così che lo lasciai. Con uno strano impulso incline alla pietà, chiusi silenziosamente la porta dell’ufficio alle mie spalle.

15 La vettura temporale

Con le braccia conserte, Kurt Gödel stava alla finestra dell’ufficio, le cui tende erano scostate: — Almeno non hanno ancora lanciato i gas — disse, senza preamboli. — Una volta, ho assistito alle conseguenze di un attacco con i gas, sapete? Furono sganciati dai bombardieri inglesi su Berlino. Scesi la Unter den Linden, percorsi la Sieges Allee, e vidi la carneficina… Che mancanza di dignità! Il corpo si corrompe tanto rapidamente… — E si girò, per sorridermi mestamente. — I gas sono molto democratici, non crede?

— La prego, professor Gödel… — Mi avvicinai. — Sappiamo che ha un po’ di plattnerite: l’ho vista io stesso.

Per tutta risposta, Gödel si recò bruscamente a un armadietto, passando a meno di un metro da Nebogipfel senza neppure degnarlo di un’occhiata: di tutti coloro che incontrai nel 1938, fu colui che reagì con maggiore freddezza al Morlock. Dall’armadietto, prese un flacone che conteneva una sostanza verde, scintillante, che sembrava trattenere la luce.

Plattnerite… — ansimò Mosè.

— Certamente. È abbastanza facile sintetizzarla dal carolinum… se si conosce la formula e se si ha accesso a una pila a fissione per l’irradiazione. — Gödel mi lanciò un’occhiata maliziosa. — Volevo che la vedesse, e speravo che la riconoscesse. È deliziosamente facile menare per il naso questi inglesi pomposi, che, con tutti i loro dipartimenti di questo e di quello, non sanno riconoscere un tesoro quando l’hanno sotto gli occhi! E adesso, sarà il suo viatico per abbandonare questa valle di lacrime, vero?

— Lo spero — risposi, con fervore. — Lo spero proprio.

— Andiamo, allora! — gridò Gödel. — All’officina VDC! — Tenendo alto come un faro il flacone con la plattnerite, ci guidò fuori dell’ufficio.


Rientrati nel labirinto di gallerie di cemento, scoprimmo che Wallis aveva avuto ragione: tutte le guardie avevano lasciato i loro posti. I pochi tecnici e scienziati in camice bianco che incrociammo avevano molta fretta: non tentarono di fermarci, anzi, non ci chiesero neppure dove stessimo andando.

D’improvviso, si udì uno scoppio: un colpo d’artiglieria era andato a segno.

Le luci elettriche si spensero, mentre la galleria ondeggiava. Caddi, sbattendo contro il pavimento polveroso e sentendo il sangue colare caldo dal naso: ormai, la mia faccia doveva essere proprio un brutto spettacolo. Uno dei miei compagni inciampò nelle mie gambe: era leggero, quindi pensai che si trattasse di Nebogipfel.

Il tremito del suolo cessò in pochi secondi, però le luci non si riaccesero.

Nell’aria densa di polvere di cemento, fui colto da un accesso di tosse, oltre che da un residuo del mio antico terrore del buio. Si udì lo sfrigolio di un fiammifero. Con il viso largo illuminato dalla fiammella, Mosè accese subito una candela, quindi la sollevò, proteggendone la fiamma con una mano, in maniera che diffondesse una bolla di luce gialla nella galleria. Poi mi sorrise: — Ho perduto lo zaino, però ho preso la precauzione di riempirmi le tasche con ciò che poteva essere utile, come mi avevi raccomandato.

Con scarsa agilità, Gödel si rialzò. Grato, mi accorsi che teneva contro il petto il flacone, intatto, contenente la plattnerite. — Credo che questa cannonata abbia centrato l’università. Dobbiamo congratularci di essere vivi: la galleria avrebbe potuto crollarci addosso.

Riprendemmo il cammino nell’oscurità, ostacolati un paio di volte da cumuli di macerie, che però riuscimmo a superare con poca difficoltà. Ormai ero disorientato, smarrito, ma Gödel, che mi precedeva, con il flacone di plattnerite luccicante sotto un braccio, avanzava con assoluta sicurezza.

In pochi minuti giungemmo all’officina che Wallis aveva definito “divisione di sviluppo VDC”. Quando Mosè sollevò la candela, la luce ne illuminò parzialmente l’interno.

A parte il guasto all’impianto d’illuminazione e una lunga fenditura irregolare che attraversava obliquamente il soffitto, l’officina era come la ricordavo: sul pavimento erano sparsi attrezzi e parti meccaniche, contenitori di lubrificante e di combustibile, stracci e tute, mentre dalle pulegge applicate al soffitto pendevano catene che gettavano lunghi intrecci d’ombre. Una tazza mezza piena sembrava essere stata posata con cura sul pavimento: uno strato sottile di polvere di cemento galleggiava sulla superficie del tè.

Al centro dell’officina stava l’unica vettura temporale quasi completa: il metallo non verniciato scintillava alla luce della candela come quello di un’arma.

Avvicinatosi, Mosè passò la mano libera sul bordo dell’abitacolo: — È questa, dunque?

— Il culmine della tecnica degli anni Trenta del ventesimo secolo — sorrisi. — Se ben ricordo, Wallis l’ha definito “autoveicolo universale”.

— Be’ — commentò Mosè — non ha certo una forma molto elegante.

A sua volta, Gödel si avvicinò alla vettura temporale. Posato sul pavimento il flacone della plattnerite, afferrò con entrambe le mani il tappo di una fiasca d’acciaio e, con un grugnito di sforzo, cercò di svitarlo, ma invano. Indietreggiò di un passo, ansimante: — Dobbiamo trovare un modo di applicare la plattnerite, altrimenti…

Deposta la candela sopra uno scaffale, Mosè frugò in un mucchio di attrezzi, da cui trasse poi una grossa chiave inglese. — Mi lasci provare con questa… — Adattò la chiave al tappo, quindi lo svitò con un piccolo sforzo.

Mentre Gödel accostava il flacone alla fiasca per versarvi la plattnerite, Mosè girò intorno alla vettura temporale per svitare gli altri tappi.

Nella parte posteriore del veicolo trovai un portello bloccato da un perno. Rimosso quest’ultimo, aprii il portello ed entrai nell’abitacolo, che conteneva due panche lignee, ciascuna abbastanza larga da ospitare due o tre persone, nonché un sedile con schienale mobile nella parte anteriore, di fronte a una sorta di feritoia.

Seduto sul sedile di guida, posai le mani sul volante. Il piccolo pannello di controllo era dotato di quadranti, d’interruttori, di leve e di manopole. Alcuni pedali erano installati nel fondo. Tutti i comandi avevano un aspetto grezzo. I quadranti e gli interruttori non avevano targhette. Dalla parte posteriore del pannello sporgevano fili e leve di trasmissione meccanica.

Entrato a sua volta nel veicolo, Nebogipfel mi si affiancò: il suo intenso odore dolciastro di Morlock era quasi insopportabile nello spazio chiuso. Attraverso la feritoia, vedevo Gödel e Mosè intenti a riempire le fiasche.

— Capisce i principi del VDC? — chiese Gödel, a voce alta. — È stato tutto progettato da Wallis, naturalmente. Non ho avuto nulla a che fare con la sua costruzione.

Accostai il viso alla feritoia: — Sono seduto ai comandi, ma sono privi di etichetta. E non vedo nulla che assomigli a un cronometro.

Intento a versare cautamente la plattnerite, Gödel non alzò lo sguardo: — Sospetto che certe minuzie, quali i cronometri, non siano state ancora installate. Dopotutto, questo è un prototipo incompleto. Ciò la preoccupa, forse?

— Debbo ammettere che la prospettiva di perdere l’orientamento nel tempo non mi attrae molto, ma… Tutto sommato, ha poca importanza: si può sempre chiedere agli indigeni!

— Il principio su cui si basa il VDC è abbastanza semplice — riprese Gödel. — La plattnerite pervade la struttura interna attraverso una rete di distribuzione, che forma una sorta di circuito. Quando si chiude il circuito, si viaggia nel tempo. Capisce? I comandi riguardano soprattutto il motore a petrolio, la trasmissione, e così via. Il veicolo, infatti, funziona anche come vettura a motore. Comunque, il circuito temporale si chiude con l’interruttore azzurro sul cruscotto. Lo vede?

— Sì.

Riavvitato il tappo dell’ultima fiasca, Mosè girò intorno al veicolo, montò a bordo, posò la chiave inglese sul fondo, e picchiò i pugni contro le pareti interne: — È solido.

— Siamo pronti a partire, dunque — dissi.

— Ma dove, anzi, in quale epoca, andiamo?

— Che importanza ha? Ciò che conta è andarcene da qui: magari nel passato, per cercare di risistemare le cose. Abbiamo chiuso con il ventesimo secolo, Mosè. Adesso dobbiamo compiere un altro salto nel buio: la nostra avventura non è ancora finita!

Mentre la perplessità si dissolveva sul suo volto, Mosè serrò le mascelle in un’espressione di audace determinazione: — Partiamo, allora, o saremo dannati!

— Credo — rispose Nebogipfel — che molto probabilmente lo saremo.

— Professor Gödel — chiamai. — Monti a bordo.

— Oh, no! — Gödel sollevò entrambe le mani. — Il mio posto è qui.

Allora Mosè si avvicinò, alle mie spalle: — Ma la Cupola di Londra ci sta crollando addosso, le artiglierie tedesche sono installate a poche miglia… Questo non è certo un luogo sicuro, professore!

— Vi invidio, naturalmente: abbandonare questo mondo disgraziato e la sua disgraziata guerra…

— Allora parta con noi — esortai. — Andiamo a cercare il mondo assoluto di cui ha parlato…

Con il viso pallido alla luce della candela, Gödel interruppe: — Ho una moglie.

— Dov’è?

— L’ho perduta: non siamo riusciti a riunirci. Suppongo che si trovi ancora a Vienna. Non riesco a immaginare che le abbiano fatto del male per punire la mia defezione.

Queste ultime parole furono pronunciate con una sfumatura interrogativa, perciò compresi che, in quel momento estremo, quell’uomo supremamente logico mi chiedeva la più illogica delle rassicurazioni: — No, sono certo che…

Non riuscii a terminare la frase, perché, senza neppure il preavviso di un fischio nell’aria, un’altra granata esplose, più vicina di tutte le altre.


L’ultimo guizzo della candela rivelò, in uno squarcio lampeggiante di tempo congelato, la parete occidentale dell’officina che esplodeva verso l’interno, trasformandosi semplicemente, in meno di un istante, da superficie liscia e solida, in una nube turbinante di schegge e di polvere.

Poi sprofondammo nell’oscurità.

Mentre il veicolo ondeggiava, Mosè esclamò: — Dannazione — e io mi abbassai. Una tempesta letale di macerie investì la vettura temporale.

Sentii l’odore dolciastro di Nebogipfel che si avvicinava maggiormente, per afferrarmi una spalla con una mano morbida: — Chiudi il circuito.

Nel guardare fuori attraverso la feritoia, vidi soltanto oscurità, naturalmente: — E Gödel? — Poi gridai: — Professore!

Non vi fu risposta. Dall’alto giunse uno scricchiolio pesante e sinistro, seguito dal fragoroso precipitare di altre macerie.

Chiudi il circuito! — ripeté Nebogipfel, con urgenza. — Non senti? Il tetto sta crollando! Ci schiaccerà!

— Vado a prenderlo — dichiarò Mosè. Nell’oscurità impenetrabile, si udì il rumore dei suoi passi mentre attraversava l’abitacolo. — Andrà tutto bene. Ho altre candele… — La sua voce si spense in fondo al veicolo. Con un crunch, Mosè balzò sul pavimento cosparso di macerie.

Allora un gemito immane, simile a un ansito grottesco, fu seguito da una scossa e da un grido di Mosè.

Mi girai, con l’intenzione di lanciarmi fuori a soccorrerlo, ma fui azzannato a una mano dalla piccola dentatura di una bocca morlock.

Quell’istante, in cui la morte mi si avvolgeva intorno, mentre ero sprofondato ancora una volta nella tenebra primeva, alla presenza del Morlock, con i denti di quest’ultimo conficcati nella carne, la pelliccia che mi sfiorava la pelle, fu insopportabile: ruggendo, tirai un cazzotto in piena faccia a Nebogipfel.

Tuttavia, questi non gridò: mentre il mio pugno gli affondava nelle carni cedevoli, lo sentii allungare un braccio sopra di me, verso il cruscotto.

L’oscurità svanì dai miei occhi, il fragore del cemento che crollava si spense nel silenzio, e così, ancora una volta, mi trovai a precipitare nel crepuscolo grigio del viaggio temporale.

16 Precipitare nel tempo

La vettura temporale ondeggiò. Invano tentai di aggrapparmi al sedile di guida: fui catapultato sul fondo, sbattendo la testa e le spalle contro una panca. La mano mi doleva per il morso di Nebogipfel, però in quel momento non vi badai.

Come un’esplosione silenziosa, una luce bianca invase l’abitacolo. Nebogipfel gridò. Il sangue che mi colava dalla fronte sulle guance mi offuscò la vista. Dalla porta e dalle feritoie filtrò nell’abitacolo ondeggiante una luce uniforme e pallida, che dapprima variò in intensità, poi, in breve tempo, si stabilizzò in un grigio sbiadito. Mi domandai se fosse avvenuta qualche nuova catastrofe: forse l’officina si era incendiata…

Poi mi accorsi che la luce era troppo stabile e troppo neutra: capii che eravamo già molto lontani dall’epoca dell’officina bellica.

La luce era naturalmente quella del giorno, sbiadita e resa informe dal sovrapporsi con le notti, troppo rapido perché l’occhio potesse cogliere l’alternanza. Stavamo davvero precipitando nel tempo: quel veicolo, benché rozzo e squilibrato, funzionava correttamente. Non ero in grado di stabilire se stessimo cadendo nel futuro o nel passato, ma di sicuro la vettura ci aveva già trasportati in un’epoca in cui la Cupola di Londra non esisteva più, o non esisteva ancora.

Spingendo con le mani, cercai di rialzarmi, però avevo le palme viscide di sangue, mio o del Morlock, quindi scivolai, ricaddi sul fondo duro, urtai di nuovo la testa contro la panca.

Fui sopraffatto dalla spossatezza, che m’intorpidì fino alle ossa. La sofferenza, accumulata durante il bombardamento e sedata dalla fuga affannosa, si ravvivò, moltiplicata. Con la testa posata sul fondo metallico, chiusi gli occhi. — A che cosa serve, comunque? — domandai, a nessuno in particolare. Mosè era morto, perduto, insieme al professor Gödel, sotto le tonnellate di macerie dell’officina distrutta. Non sapevo se Nebogipfel fosse vivo o morto, né me ne curavo. In quel momento, ero disposto a lasciare che la vettura temporale mi trasportasse nel futuro o nel passato, a suo piacimento, in eterno, fino a schiantarsi e a sbriciolarsi contro le mura dell’infinito e dell’eternità. Ero disposto a lasciare che tutto finisse, perché non potevo più fare nulla: — Non vale la pena — mormorai. — Non vale la pena.

Mi sembrò di essere toccato da mani morbide, il viso sfiorato da una pelliccia: protestai, e con le mie ultime forze respinsi quelle mani.

Infine, affondai in un’oscurità profonda, confortante, priva di sogni.


Fui destato da percosse violente.

Rotolai sul fondo dell’abitacolo. Quando l’oggetto soffice che avevo sotto la nuca si spostò, sbattei la testa contro l’angolo di una panca, e il dolore, improvvisamente rinnovato, mi riportò alla conoscenza. Con riluttanza, mi alzai a sedere.

Tutta la testa mi doleva, e così pure il corpo, come se fossi reduce da un estenuante incontro di pugilato o di lotta. Paradossalmente, però, il mio umore era un poco migliorato. Ero ancora ossessionato dalla morte di Mosè (un evento tragico, che col tempo avrei dovuto affrontare), ma dopo il breve periodo d’incoscienza di cui avevo beneficiato, ero in grado di distogliermene, come avrei distolto lo sguardo dalla luce accecante del sole, per dedicarmi ad altri problemi.

La fioca, perlacea commistione di giorno e di notte diffondeva ancora il suo crepuscolo nell’interno dell’abitacolo. Era molto freddo: mi accorsi di essere scosso dai tremiti, e vidi il fiato condensarsi in nebbia dinanzi al mio viso. Seduto sul sedile, Nebogipfel mi mostrava la schiena. Palpando con le dita bianche, esaminava gli strumenti del cruscotto rudimentale e i fili che pendevano dalla parte posteriore.

Mi alzai, vacillando, sia a causa dell’ondeggiare del veicolo, sia per le conseguenze di tutto ciò che mi era capitato nel 1938. Così, per sostenermi, mi aggrappai all’intelaiatura dell’abitacolo, scoprendo che il metallo era freddo come ghiaccio. Per sostenermi la testa, Nebogipfel aveva usato la sua giacca: la piegai e la posai sopra una panca. Anche la chiave inglese che Mosè aveva usato per aprire le fiasche della plattnerite era sul fondo: la raccolsi con la punta delle dita, perché era imbrattata di sangue.

I pesanti spallacci metallici, che ancora indossavo, mi disgustarono: me li strappai dagli indumenti, lasciandoli cadere rumorosamente.

Il fragore improvviso attirò un’occhiata di Nebogipfel, che aveva gli occhiali azzurri spaccati, nonché un occhio insanguinato e tumefatto: — Preparati — disse, con voce rauca.

— A cosa?

E l’abitacolo sprofondò nell’oscurità.

Avanzai incespicando, ancora una volta rischiando di cadere, mentre un freddo intenso assorbiva dall’aria, e dal mio corpo, il calore che restava. Di nuovo fui assalito da un’emicrania martellante. Con le braccia strette al busto, chiesi: — Dov’è finita la luce del giorno?

Nel buio oscillante, la voce di Nebogipfel suonò quasi aspra: — Durerà soltanto pochi secondi. Dobbiamo resistere.

Con la stessa rapidità con cui si era addensata, l’oscurità si dissipò, e il crepuscolo grigio filtrò di nuovo nell’abitacolo. Il freddo immane si attenuò un poco, tuttavia continuai a tremare violentemente. M’inginocchiai accanto a Nebogipfel: — Che cosa sta succedendo? Cos’era?

— Ghiaccio. Stiamo viaggiando attraverso un’epoca glaciale. Dal settentrione, i ghiacciai si espandono a coprire la Terra, nonché il nostro veicolo, e poi si sciolgono. Credo di potermi azzardare a supporre che talvolta siamo coperti da trenta metri di ghiaccio.

Guardando attraverso una delle feritoie anteriori, vidi la valle del Tamigi trasformata in una tundra lugubre, dove sopravvivevano soltanto erba ispida, suffrutici purpurei di brugo che sembravano fiamme vivaci, e alberi sparsi. L’alternarsi dei loro cicli annuali era troppo rapido perché potessi seguirlo, ma gli alberi mi parvero appartenere alle specie più resistenti: querce, salici, pioppi, olmi, biancospini. Non vidi alcun vestigio di Londra: neppure spettri di fabbricati evanescenti. In tutto il paesaggio grigio non scorsi la minima traccia di presenza umana o di vita animale. Persino la conformazione delle colline e delle valli non mi parve affatto familiare, come se fosse stata interamente rimodellata dai ghiacciai.

Annunciato da una breve ondata di luce bianca, il ghiaccio immane ci sopraffece di nuovo. Nell’oscurità, imprecai. Avevo le dita delle mani, che tenevo sotto le ascelle, tutte intorpidite, come pure quelle dei piedi, tanto da farmi temere un inizio di congelamento. Quando si ritirarono di nuovo, i ghiacciai lasciarono una landa desolata molto simile a quella che avevo osservato poco prima, però di conformazione diversa. Le glaciazioni modificavano il paesaggio, tuttavia non ero in grado di capire se stessimo viaggiando nel futuro oppure nel passato. Sotto i miei occhi, macigni più alti di uomini scivolarono o rotolarono lentamente, come se migrassero: a quanto pareva, si trattava di qualche strana conseguenza dell’erosione.

— Per quanto tempo sono rimasto svenuto?

— Non molto: forse trenta minuti.

— E la vettura temporale ci sta trasportando nel futuro?

— Ci stiamo addentrando nel passato. — Quando Nebogipfel si volse a guardarmi, notai che, in conseguenza delle percosse che gli avevo inflitto, si muoveva goffamente, non più con l’armoniosità che gli era caratteristica. — Ne sono certo. Ho intravisto Londra regredire fino alle sue origini. A giudicare dagli intervalli fra le glaciazioni, direi che stiamo percorrendo decine di migliaia di anni al minuto.

— Forse dovremmo cercare di capire come si può fermare questa caduta a capofitto nel tempo. Se troveremo un’epoca tranquilla, adatta…

— Non credo che vi sia modo di fermare la vettura.

Cosa?

In silenzio, Nebogipfel allargò le braccia: notai allora che aveva la pelliccia sul dorso delle mani cosparsa di brina. Subito dopo, sprofondammo di nuovo in un buio sepolcro di ghiaccio, talché la voce del Morlock mi giunse come fluttuando nell’oscurità: — Rammenta che questo è un veicolo sperimentale, rozzo e incompleto. Molti comandi e molti strumenti non sono collegati, mentre quelli che lo sono non sembrano funzionare. Anche se sapessimo come ricollegarli senza danneggiare la vettura, non vedo come potremmo uscire dall’abitacolo per eseguire le riparazioni necessarie.

Di nuovo il ghiacciaio lasciò il posto alla tundra rimodellata. Nebogipfel osservò il paesaggio dimostrando di esserne alquanto affascinato: — Pensa! I fiordi della Scandinavia non esistono ancora, mentre i laghi d’Europa e del Nord America, che si formeranno da depositi di ghiaccio sciolto, sono ancora fantasmi del futuro. Abbiamo già superato l’alba della storia umana. In Africa potremmo trovare gruppi di australopitechi: alcuni poco evoluti, altri gracili, altri carnivori, ma tutti bipedi e scimmieschi, con il cranio piccolo, i denti e le mascelle grossi.

Una solitudine immane e fredda mi avvolse. Mi ero già smarrito nel tempo in precedenza, però non avevo mai provato una sensazione d’isolamento tanto intensa. Era mai vero, poteva mai essere vero, che Nebogipfel ed io, a bordo della vettura temporale imperfetta, rappresentavamo le uniche fiamme di candela dell’intelligenza su tutto il pianeta?

— Dunque non possiamo governare il veicolo — ripresi. — Forse ci fermeremo soltanto quando giungeremo all’inizio del tempo…

— Dubito che succederà — interruppe Nebogipfel. — La plattnerite deve avere certi limiti, quindi non può consentirci di viaggiare nel tempo all’infinito: si esaurirà, prima o poi. E dobbiamo pregare che lo faccia prima di trasportarci attraverso l’ordoviciano e il cambriano: prima di condurci in un’epoca in cui non troveremo ossigeno da respirare.

— È proprio un’allegra prospettiva! E immagino che la situazione possa anche peggiorare.

— Come?

Mi alzai, per sgranchire le gambe intorpidite, poi sedetti sul freddo fondo metallico: — Non abbiamo provviste di nessun genere, né acqua né cibo, e siamo entrambi feriti. Non abbiamo neppure indumenti caldi! Per quanto potremo sopravvivere in questa gelida barca temporale? Alcuni giorni? Oppure anche meno?

Nebogipfel non rispose.

Poiché non sono tipo da sottomettermi facilmente al fato, mi dedicai per un poco a esaminare i comandi e i collegamenti, verificando in breve tempo che Nebogipfel aveva ragione: non era possibile modificare quel groviglio in maniera tale da rendere governabile il veicolo. Inoltre, non tardai ad esaurire le mie energie, già scarse, affondando di nuovo in una sorta di ottusa apatia.

Attraversata un’altra glaciazione, tanto breve quanto spietata, entrammo in un inverno lungo e tetro. Le nevicate e le gelate continuarono a susseguirsi, però l’epoca delle glaciazioni era ormai nel futuro. Millennio dopo millennio, il paesaggio cambiò ben poco: forse s’infittì la trama della vegetazione indistinta sulle colline. Un teschio immenso, che mi rammentò quello di un elefante, comparve al suolo non lontano dalla vettura temporale, scarnificato, scolorito, sgretolato, e rimase visibile per il tempo necessario a percepirne i contorni, ossia circa un secondo, prima di scomparire con la stessa repentinità con cui era apparso.

— Nebogipfel… A proposito della tua ferita al volto… Devi capire che…

Cosa? — Con l’occhio illeso, Nebogipfel mi osservò. Notai che aveva perduto l’umanità superficiale acquisita da quando mi conosceva, per tornare a maniere interamente morlock. — Che cosa debbo capire?

— Non intendevo ferirti…

Adesso non hai nessuna intenzione di nuocermi — ribatté Nebogipfel, con precisione chirurgica. — In quel momento, invece, lo volevi. Le scuse sono inutili, assurde. Tu sei ciò che sei. Apparteniamo a specie diverse. Siamo tanto differenti l’uno dall’altro, quanto entrambi lo siamo dagli australopitechi.

Dopo essermi sporcato ancora una volta i pugni di sangue morlock, mi sentivo un primitivo: — Mi fai vergognare!

— Vergognare? — Nebogipfel scosse la testa con un gesto breve, brusco. — È un sentimento privo di significato, in questo contesto.

Compresi ciò che intendeva dire: non avrei dovuto provare vergogna più di quanto avrebbe dovuto provarne un animale selvaggio della giungla. Se fossi stato assalito da una belva, mi sarei forse messo a discutere di etica con essa? Certamente no, giacché la belva, in quanto priva d’intelligenza, non poteva che comportarsi in un certo modo. Dunque, non avrei potuto fare altro che reagire alle sue azioni.

Ancora una volta avevo dimostrato a Nebogipfel di essere poco migliore dei bruti primitivi delle pianure africane, precursori dell’umanità in quell’epoca desolata.

Sdraiato sopra una panca, con la testa dolente appoggiata su un braccio piegato, osservai, dalla portiera ancora aperta della vettura temporale, il susseguirsi pulsante delle epoche.

17 L’osservatore

Il tetro gelo invernale passò e il cielo assunse una trama di sfumature. Di quando in quando la fascia oscillante del sole fu oscurata per un secondo da banchi di nubi fosche. Alberi di nuove specie crebbero nel clima mitigato: a quanto potei capire, si trattò di piante decidue, come gli aceri, i pioppi e i cedri. Talvolta le foreste antiche s’intrecciarono sopra la vettura, chiudendola in un guizzante crepuscolo verde*bruno, per poi scomparire, scostandosi come sipari.

Come mi spiegò Nebogipfel, eravamo entrati in un periodo di possenti sconvolgimenti tellurici, in cui si stavano formando le Alpi e l’Himalaya, vulcani immensi vomitavano cenere e polvere nell’atmosfera, talvolta oscurando il cielo per anni, e squali giganteschi dai denti come spade nuotavano negli oceani, mentre in Africa regredivano i primitivi antenati dell’umanità, dal cervello piccolo, le gambe storte, le dita tozze e goffe.

Per circa dodici ore precipitammo attraverso quella lunga epoca selvaggia.

Tentai d’ignorare la fame e la sete che mi artigliavano lo stomaco, mentre i secoli passavano e le foreste apparivano e scomparivano intorno al veicolo. Fu il più lungo viaggio nel tempo che avessi mai compiuto da quando mi ero recato nel futuro remoto oltre l’epoca di Weena. E la sua futile, immensa vacuità, nel susseguirsi immutabile delle ore, cominciò a deprimermi l’anima. La breve fioritura dell’umanità era ormai una scheggia luminosa, lontana nel tempo, tanto che persino la distanza fra gli uomini e i Morlock, di qualunque specie, non era, in confronto, che una frazione della grande distanza temporale che avevo percorso.

L’immensità del tempo, la fugacità dell’umanità e delle sue imprese, mi annientarono. Le mie piccole preoccupazioni mi apparvero assurdamente insignificanti. La storia stessa dell’umanità mi sembrò triviale, come un baleno fuggevole smarrito nella tenebrosa insensatezza dell’eternità.

La crosta terrestre s’innalzò come il petto di un uomo che soffocasse, e la vettura temporale si sollevò oppure cadde, in conseguenza delle modificazioni del paesaggio, come se galleggiasse sulle onde di un mare immane. L’aria divenne più calda e la vegetazione divenne più rigogliosa; intorno alla vettura temporale si ammassarono nuove foreste, che mi parvero decidue, anche se la velocità del nostro viaggio riduceva foglie e fiori a una chiazza verde uniforme e vaga.

Finalmente il dolore degli eoni di gelo abbandonò le mie dita. Mi tolsi la giacca e mi sbottonai la camicia, quindi mi sfilai gli stivali e mi massaggiai i piedi per ripristinare la circolazione. Da una tasca della giacca cadde il distintivo numerato di Barnes Wallis. Nel raccogliere quel piccolo emblema della diffidenza delle persone nei confronti dei loro simili, pensai che in quella verzura primeva non avrei potuto trovare un simbolo più perfetto della ristrettezza mentale e dell’insensatezza per cui l’umanità sprecava tante energie. Lo gettai in un angolo buio dell’abitacolo.

All’interno della vettura sospesa nel manto verdeggiante, le lunghe ore trascorsero più lentamente che mai. Al risveglio da un periodo di sonno, mi accorsi che la vegetazione era cambiata: sembrava più traslucida, con una sfumatura di colore che ricordava la plattnerite. Ebbi l’impressione d’intravedere fugacemente una distesa stellata: era come essere immersi fra gli smeraldi anziché tra le foglie.

D’improvviso, lo vidi: si librava nell’aria fosca e umida dell’abitacolo, immune agli ondeggiamenti della vettura, con gli occhi grandi, la V carnosa della bocca, e le mani simili a tentacoli che pendevano verso il pavimento senza però sfiorarlo. Non era un fantasma: non riuscivo a vedere attraverso il suo corpo la foresta retrostante. Era tanto reale quanto me, o Nebogipfel, o gli stivali che avevo posato sulla panca.

L’Osservatore mi scrutava freddamente, come per analizzarmi.

Non provai paura. Quando allungai una mano per toccarlo, si allontanò galleggiando nell’aria. Non dubitavo che i suoi occhi grigi fissassero il mio viso. Domandai: — Chi sei? Puoi aiutarci?

Se mi sentì, l’Osservatore non rispose. Ma già la luce soffusa si ritrasformava nel verde della vegetazione. Ebbi una sensazione di rotazione: come un giocattolo assurdo, la testa enorme girò sul proprio asse e scomparve.

Scavalcando con i piedi lunghi le nervature del fondo, Nebogipfel mi si avvicinò. Si era tolto gli indumenti del diciannovesimo secolo: era nudo, a parte gli occhiali rotti e la pelliccia bianca, lunga e incolta. — Che cosa c’è? — chiese. — Ti senti male?

Gli parlai dell’Osservatore, ma lui non l’aveva visto. Tornai a riposare sulla panca, non sapendo se avevo veduto un essere reale, o se si era trattato del protrarsi di un sogno.


Nel calore opprimente, l’aria dell’abitacolo divenne soffocante.

Ripensai a Gödel e a Mosè.

L’antipatico Gödel aveva dedotto l’esistenza della molteplicità della storia semplicemente in base a principi ontologici, mentre io, povero sciocco che sono, avevo avuto bisogno di compiere alcuni viaggi temporali prima di poter soltanto concepire quella possibilità. Ma ormai colui che aveva sognato il sogno magnifico del mondo assoluto, in cui tutti i significati si risolvevano, giaceva schiantato e schiacciato sotto un cumulo di macerie, ucciso dalla stupidità e dalla ristrettezza mentale dei suoi simili.

Quanto a Mosè, ero semplicemente addolorato, come lo si può essere, credo, per l’uccisione di un figlio o di un fratello minore. Mosè era morto a ventisei anni, eppure io, la stessa persona, respiravo ancora a quarantaquattro! Il mio passato mi era stato tolto, come se il suolo su cui posavo fosse svanito, lasciandomi naufrago a mezz’aria. Oltre a tutto ciò, avevo imparato a conoscere Mosè, seppure brevemente, come una persona indipendente: allegro, eccentrico, impulsivo, un po’ illogico (proprio come me!), e immensamente simpatico.

La sua morte si aggiungeva alle altre di cui ero responsabile.

La possibile argomentazione, fondata sul discorso vago e ambiguo di Nebogipfel a proposito della molteplicità dei mondi, secondo cui il Mosè che avevo conosciuto non era mai stato, alla fin fine, destinato a diventare me, bensì qualche altra versione di me, non poteva assolutamente cambiare il sentimento che provavo per avere perduto proprio lui.

Mentre le mie riflessioni si sgretolavano in frammenti quasi incoerenti, lottai per tenere gli occhi aperti, nel timore di non svegliarmi più; ma dopo un poco, consumato dalla confusione e dalla sofferenza, ancora una volta dormii.

Mi destai allorché il mio nome venne pronunciato nella strana lingua aliena dei Morlock. L’aria era sempre viziata. Nel mio cranio, un nuovo dolore pulsante, provocato dalla calura e dalla carenza di ossigeno, lottava per farsi largo fra i residui delle mie sofferenze precedenti.

Nell’oscurità arborea, Nebogipfel aveva gli occhi spalancati, incluso quello tumefatto: — Guarda fuori.

La vegetazione era sempre fitta intorno al veicolo, eppure l’intreccio appariva diverso. Mi accorsi, osservando con attenzione, di poter seguire la regressione delle singole foglie sui rami folti: ognuna si riformava dalla polvere, subiva una sorta di appassimento invertito e si ripiegava in gemma in meno di un secondo, eppure…

Sospirai: — Stiamo rallentando…

— Sì. Credo che la plattnerite si stia esaurendo.

Mormorai una preghiera di ringraziamento, giacché avevo recuperato le forze a sufficienza per non desiderare più di morire su qualche pianura rocciosa priva d’aria, all’alba del mondo.

— Sai dove siamo?

— In qualche periodo dell’era paleocenica. Abbiamo viaggiato per ventiquattro ore. Siamo forse a cinquanta milioni di anni dal presente…

— Quale presente? Il mio, il 1891, oppure il tuo?

— In un arco temporale tanto vasto — Nebogipfel si palpò il sangue che ancora gli incrostava il viso — ha poca importanza.

Il processo vitale delle foglie e dei fiori era ormai lento, quasi solenne. Mi accorsi che all’oscurità verde si sovrapponevano fugaci intrusioni di buio più denso: — Riesco a distinguere la notte e il giorno: stiamo rallentando.

— Sì. — Nebogipfel sedette sulla panca di fronte a me e ne afferrò il bordo con le lunghe dita.

Mi domandai se fosse spaventato: dopotutto, avrebbe avuto tutto il diritto di esserlo. Mi sembrò di scorgere un movimento sul fondo dell’abitacolo: una lieve convessità che si formava sotto la panca del Morlock.

— Che cosa dobbiamo fare?

Il mio compagno scosse la testa: — Possiamo soltanto attendere gli eventi. Non siamo certo in grado di controllare la situazione in alcun modo.

L’alternarsi delle notti e dei giorni rallentò ulteriormente, sino a diventare, tutt’intorno, una pulsazione regolare, simile al battito cardiaco. Il fondo cigolò, mentre segni di sollecitazione comparivano sulle piastre d’acciaio.

D’improvviso, capii: — Attento!

Mi alzai, afferrando per le spalle Nebogipfel, che non oppose resistenza. Dopo averlo sollevato come se fosse stato un bimbo magro e villoso, indietreggiai, vacillando.

Nello stesso istante, un albero comparve dinanzi a me, sfondando il metallo della vettura come se fosse stato carta. Un ramo immenso si protese verso i comandi, come il braccio di un risoluto gigante ligneo, e fracassò il cruscotto.

Evidentemente stavamo entrando nello spazio occupato da quell’albero in quell’epoca remota.

Crollai all’indietro, sopra una panca, con Nebogipfel in braccio. L’albero rimpicciolì, mentre procedevamo a ritroso verso il momento della sua nascita. La pulsazione delle notti e dei giorni continuò a rallentare, e l’alternanza si accentuò. Intanto, il tronco rimpicciolì sempre più, e poi… Con uno schianto immane, la vettura si spaccò in due parti, aprendosi dall’interno come un guscio d’uovo.

Non riuscii a trattenere Nebogipfel: entrambi cademmo sul suolo umido e morbido, in una tempesta di metallo e di legno.

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