Afferrai l’avambraccio esile, liberandomi il collo. Un corpo villoso giaceva disteso accanto a me nella gabbia di nichel e d’ottone, un magro viso occhialuto era vicino al mio, e il fetore dolciastro dei Morlock era potente.
— Nebogipfel!
Il petto del Morlock si alzava e si abbassava, ansimante: era mai possibile che avesse paura? Con voce acuta, fioca, disse: — Dunque sei fuggito. E tanto facilmente…
Aggrappato alla macchina, sembrava una bambola di stracci e di crine. Mi ricordava il mondo d’incubo da cui ero scappato. Sono certo che avrei potuto gettarlo fuori in un attimo, eppure mi trattenni. In tono tagliente, ribattei: — Forse voi Morlock avete sottovalutato la mia intraprendenza. Ma tu… sospettavi, vero?
— Sì. Proprio all’ultimo momento… Credo di aver imparato a interpretare il linguaggio inconsapevole del tuo corpo. Ho capito che intendevi azionare la macchina. Ho avuto appena il tempo di raggiungerti, prima che… — Poi Nebogipfel sussurrò: — Credi che ci potremmo sistemare meglio? Sono in una posizione piuttosto scomoda, e temo di cadere dalla macchina. — E mi osservò mentre riflettevo sulla proposta.
Capii di dover prendere una decisione: dovevo o non dovevo accogliere Nebogipfel come passeggero a bordo della macchina? Tuttavia la mia incertezza fu brevissima, perché mi conoscevo abbastanza bene per sapere che non me ne sarei sbarazzato.
Risposi: — E va bene!
Così, noi due, argonauti cronotici, eseguimmo una sorta di balletto bizzarro all’interno della gabbia della macchina: tenendo un braccio di Nebogipfel, sia per impedirgli di cadere, sia per accertarmi che non cercasse di raggiungere i comandi, mi piegai spostandomi in maniera da sedermi sul sellino. Non ero mai stato agile neppure da giovane, perciò, quando vi riuscii, ansimavo ed ero esasperato. Intanto, Nebogipfel si accomodò come meglio poté all’interno della gabbia.
— Perché mi hai seguito? — domandai.
Scrutando il paesaggio oscuro e vago del viaggio temporale, Nebogipfel non rispose.
Tuttavia, credetti di capire. Rammentavo la curiosità e la meraviglia che Nebogipfel aveva manifestato nell’ascoltare il mio resoconto del futuro, durante il viaggio interplanetario a bordo della capsula. Nel seguirmi, aveva ubbidito all’impulso di scoprire se il viaggio temporale fosse realmente possibile: un impulso provocato da una curiosità che, come la mia, discendeva da quella delle scimmie.
Tutto ciò mi suscitò un’oscura commozione: un lieve moto di simpatia nei confronti del Morlock. L’umanità era cambiata molto nel lungo intervallo di tempo che separava le nostre epoche, però il comportamento del mio compagno di viaggio dimostrava che la curiosità, la spinta implacabile alla ricerca, e la temerarietà che vi si accompagnava, non si erano del tutto estinte.
D’improvviso, sbucammo alla luce: in alto, vidi lo smantellamento della Sfera, la luce solare inondò la macchina e Nebogipfel ululò.
Mi tolsi gli occhiali. Il sole, dapprima immobile nel cielo, non tardò a spostarsi, tracciando sempre più rapidamente un arco nel cielo. Ritornò il succedersi della notte e del giorno, simile a un batter d’ali. Infine, il movimento del sole, divenuto troppo rapido per poter essere percepito, si trasformò in una striscia luminosa, e l’alternarsi del giorno e della notte fu sostituito da un crepuscolo perlaceo, uniforme e freddo.
Dunque l’asse e la rotazione terrestri erano stati nuovamente modificati.
Seduto all’interno della gabbia, Nebogipfel si raccolse in se stesso, curvando le spalle, la testa china sul petto, la schiena accesa di bianco nella luce crepuscolare: a quanto pareva, gli occhiali, che ancora indossava, non erano una protezione sufficiente.
Non potei fare a meno di ridere. Ricordavo che non mi aveva avvertito prima che la capsula diretta verso la Terra fosse espulsa dalla Sfera, nello spazio: ebbene, quella era la sua punizione.
— Nebogipfel! È soltanto la luce del sole!
Il Morlock alzò la testa. Nella luminosità divenuta più intensa, gli occhiali si erano oscurati tanto da diventare impenetrabili. La pelliccia del viso era arruffata e sembrava bagnata di lacrime. Sotto la pelliccia del corpo s’intravedeva la pelle candida. — Non si tratta soltanto degli occhi — spiegò. — Persino quando è molto debole, la luce mi fa soffrire. Se ci fermeremo in pieno giorno…
— Ti ustionerai!
Discendente di numerose generazioni di Morlock che avevano sempre vissuto nell’oscurità, Nebogipfel sarebbe stato vulnerabile al sole, persino a quello, debole, dell’Inghilterra, più di quanto lo sarebbe stata la persona più pallida e lentigginosa a quello dei tropici.
— Ecco… — aggiunsi, sfilandomi la giacca. — Questa dovrebbe proteggerti…
Raccogliendosi ancor più in se stesso, Nebogipfel si gettò addosso la giacca.
— Inoltre, fermerò la macchina di notte, così che, al nostro arrivo, non correrai rischi, e potrò trovarti un riparo. — Riflettendo, mi resi conto che sarebbe stato comunque conveniente arrivare durante la notte: sarebbe stato proprio un bello spettacolo se fossi apparso a Richmond Hill, in mezzo a una folla di passanti a bocca aperta, in compagnia di un mostro proveniente dal futuro.
La vegetazione perenne scomparve dalla collina, e il ciclo delle stagioni ricominciò. Riattraversammo l’Epoca degli Edifici Immensi, che ho già descritto. Al riparo della giacca, Nebogipfel osservò, evidentemente affascinato, i ponti che passavano come bruma sul paesaggio in rapidissima trasformazione. Quanto a me, provai un sollievo intenso nel riavvicinarmi al mio secolo.
D’improvviso, Nebogipfel emise un suono strano, una sorta di sibilo felino, e si rannicchiò ancor più contro la gabbia, con i grandi occhi fissi dinanzi a sé.
Girandomi, scoprii che si manifestavano di nuovo gli straordinari effetti ottici da me osservati durante il viaggio verso l’anno 657.208: tutt’intorno, fitte e sfarzose distese stellari tentarono d’irrompere attraverso la superficie smorzata delle cose… E a pochi metri dalla macchina si librò di nuovo il mio compagno impossibile: l’Osservatore, che mi scrutava. Mi aggrappai alla gabbia, fissando quella parodia di viso umano, quei tentacoli ciondolanti, e di nuovo mi colpì la somiglianza con l’essere che avevo visto sulla spiaggia remota, trenta milioni di anni nel futuro.
Stranamente, gli occhiali che mi erano stati tanto utili per vedere nell’oscurità dei Morlock, non mi facilitarono nello scrutare l’Osservatore: non lo vidi più chiaramente che a occhio nudo.
A un tratto, sentii un suono fievole, come un gemito: era Nebogipfel, sempre rannicchiato contro la gabbia, evidentemente in preda all’angoscia.
— Non devi avere paura — dissi, con una certa insicurezza. — Ti ho già raccontato del mio incontro con quest’essere, durante il viaggio verso la tua epoca: è strano, ma non mi sembra pericoloso.
Fra i tremiti e i gemiti, Nebogipfel replicò: — Non capisci… Ciò che stiamo vedendo è impossibile. Quello che chiami l’Osservatore sembra avere la capacità di attraversare i corridoi temporali, di passare da una versione potenziale della storia all’altra, persino di entrare nello spazio distorto intorno alla macchina del tempo in viaggio, e tutto ciò… È impossibile!
Com’era apparsa, così la distesa stellare svanì, e l’Osservatore ridivenne invisibile, mentre la macchina proseguiva il viaggio nel passato.
Dopo un lungo silenzio, dichiarai, con voce rauca: — C’è una cosa che devi sapere, Nebogipfel… Dopo quest’ultimo viaggio, non ho nessuna intenzione di tornare nel futuro.
Il Morlock avvolse le lunghe dita intorno alle sbarre della gabbia: — So di non poter tornare. Lo sapevo anche nel momento in cui mi sono gettato nella macchina. Persino se tu avessi avuto intenzione di tornare nel futuro…
— Sì?
— Tornando ancora una volta indietro nel tempo, la tua macchina è destinata a provocare un’altra modificazione della storia, in una maniera imprevedibile. — Nebogipfel si volse a guardarmi con i grandi occhi protetti dagli occhiali. — Capisci? La mia storia, il mio mondo, sono perduti: forse annientati. Sono già diventato un profugo temporale… proprio come te.
Tali parole mi raggelarono. Era mai possibile che Nebogipfel avesse ragione? Era mai possibile che con quella nuova spedizione, semplicemente stando seduto lì, a bordo della macchina, stessi infliggendo danni ulteriori al corpo della storia?
Così si rafforzò in me la determinazione a rimediare ai danni compiuti e a porre fine alla distruttività della macchina del tempo.
— Ma se sapevi tutto questo, nel seguirmi così avventatamente hai commesso una follia di prim’ordine…
— Forse — riconobbe Nebogipfel, con voce soffocata, perché si nascondeva la testa con le braccia. — Ma vedere tutto questo, viaggiare nel tempo, raccogliere tali informazioni… Nessuno della mia specie ha mai avuto un’occasione del genere!
Nel silenzio che seguì, la mia simpatia per Nebogipfel aumentò. Mi domandai come avrei reagito io se avessi avuto a disposizione un solo istante per cogliere una simile opportunità, com’era accaduto a lui.
Mentre le lancette dei cronometri continuavano a spostarsi all’indietro, mi resi conto che ci stavamo avvicinando al mio secolo. Il mondo intorno a noi assunse una conformazione più familiare, con il Tamigi che scorreva risolutamente fra le sue antiche sponde, e la comparsa fugace di ponti che mi sembrava di riconoscere.
Tirai le leve per rallentare. Il sole divenne visibile come un oggetto distinto che volava sopra di noi, simile a un proiettile luminoso, e le notti divennero percettibili come un tremolio. Le lancette di due cronometri si fermarono: restavano da percorrere soltanto alcune migliaia di giorni, ossia pochi anni.
Intanto, Richmond Hill si solidificò in una forma molto simile a quella della mia epoca. Poiché la velocità del viaggio riduceva gli alberi a una trasparenza fugace, mi fu possibile osservare i prati di Petersham e di Twickenham, cosparsi di boschetti antichi. Era tutto rassicurante e familiare, nonostante la nostra velocità fosse tale da non permetterci di distinguere le persone, o i cervi, o le vacche, o altri abitanti della collina, dei prati o del fiume. Il pulsare delle notti e dei giorni immergeva tutto il paesaggio in una luminosità innaturale. Comunque, ero quasi a casa.
Osservai il cronometro delle migliaia, con la lancetta che si avvicinava allo zero: ero a casa. E mi fu necessaria tutta la determinazione di cui disponevo per non fermare subito la macchina, tanto era smodato il mio desiderio di ritornare all’anno da cui ero partito. Tuttavia, continuai a premere sulle leve, osservando le lancette dei cronometri passare nel settore negativo.
Intorno a me, i giorni e le notti pulsarono sulla collina, chiazzata dalle macchie sparse di colore dei gruppi di gitanti che facevano picnic sull’erba, indugiando a sufficienza per essere percepibili. Infine, con i cronometri che indicavano seimilacinquecento sessanta giorni prima della mia partenza, tirai le leve.
Fermai la macchina del tempo nel cuore di una notte nuvolosa e senza luna. Se i miei calcoli erano esatti, ci trovavamo nel luglio del 1873. Per mezzo degli occhiali morlock, osservai il versante della collina e la sponda del fiume, l’erba luccicante di rugiada, e scoprii che, sebbene i Morlock avessero trasportato la macchina su un tratto sgombro del versante, a mezzo miglio da casa mia, nei dintorni non vi era nessuno ad assistere al mio arrivo. Fui felice di essere assalito dai rumori, dagli odori e dalle immagini del mio secolo, deliziosi e familiari: il profumo acre del fumo di legna proveniente da qualche graticola; il mormorio lontano del Tamigi; lo stormire della brezza tra le fronde degli alberi; i chiarori di nafta delle carrette degli ambulanti.
Con circospezione, Nebogipfel si alzò. Aveva indossato la giacca, che gli pendeva addosso, troppo grande, come se fosse un bambino: — È questo il 1891?
— No.
— Che cosa vuoi dire?
— Voglio dire che sono tornato ancora più indietro nel tempo. — Guardai la collina, in direzione della mia casa. — In un laboratorio, lassù, un giovane impetuoso sta conducendo una serie di esperimenti che alla fine lo condurrà a creare la macchina del tempo…
— Stai dicendo…
— Che questo è l’anno 1873, e che prevedo d’incontrare, fra poco, me stesso da giovane.
Sbalordito, il Morlock girò verso di me il volto occhialuto e senza mento.
— Forza, Nebogipfel, aiutami a trovare un nascondiglio per la macchina.
Non so descrivere quanto mi parve strano passeggiare per Petersham Road nell’aria notturna, tornando finalmente a casa mia, con un Morlock accanto.
La casa, l’ultima della fila, aveva ampi balconi chiusi a vetrate, la cornice della porta scolpita in maniera assai poco ambiziosa, e un portico con colonne in stile neoclassico. Lungo la facciata, una scala con una sottile ringhiera dipinta di nero scendeva al seminterrato. Nell’insieme, sembrava un’imitazione delle ville di Green, o Terrace, in cima alla collina. Comunque, era un’abitazione spaziosa e comoda, che avevo acquistato a buon prezzo da giovane, e da cui non avevo mai avuto intenzione di trasferirmi.
Superata la porta principale, girai verso il retro della casa, dove i balconi dalle delicate ringhiere in ferro dipinte di bianco erano rivolti a occidente. Nel vedere che le finestre della sala da fumo e della sala da pranzo erano buie, mi resi conto di non sapere che ora fosse. Mi accorsi che presso la sala da fumo mancava qualcosa, ma poiché un’assenza inaspettata è più difficile da individuare di una presenza incongrua, tardai un poco a ricordare che si trattava del bagno che avrei fatto costruire in seguito. Nel 1873, ero ancora obbligato a lavarmi in un semicupio, che un domestico mi portava in camera da letto.
Con un brivido di emozione, vidi che nel laboratorio, ricavato dalla serra sproporzionata che sporgeva dal retro della casa, brillava ancora una luce. Gli ospiti, se ne avevo avuti a cena, se n’erano andati, i domestici si erano ormai ritirati da tempo, ma il padrone di casa, cioè io, era ancora al lavoro.
Ero in preda a una ridda di emozioni che nessuno, credo, aveva mai provato prima: quella era la mia casa, eppure non potevo reclamarne la proprietà.
Tornai alla porta principale. Un po’ in disparte dalla strada deserta, Nebogipfel sembrava maldisposto ad avvicinarsi alla scala, che scendeva in un’oscurità molto fitta persino per gli occhiali morlock.
— Non devi avere paura — spiegai. — È del tutto consueto, in case come questa, avere le cucine nel seminterrato. I gradini e le ringhiere sono abbastanza solidi.
Impassibile, con gli occhi celati dagli occhiali, Nebogipfel esaminò sospettosamente i gradini. Immaginai che tale diffidenza derivasse dall’ignoranza sulla robustezza degli oggetti prodotti nel diciannovesimo secolo: non avevo tenuto conto di quanto dovesse sembrargli strana la mia epoca primitiva. Nondimeno, vi era nel suo atteggiamento qualcosa che mi turbava.
Ricordai, sconcertato, uno strano episodio della mia fanciullezza. La casa in cui ero cresciuto era vasta e labirintica, scomoda, in verità, con corridoi sotterranei che conducevano alle stalle, alla dispensa, e così via, com’era consueto negli edifici di quell’epoca. Grate rotonde, dipinte di nero, chiudevano i condotti di ventilazione che salivano dai sotterranei. In quel momento ricordai dunque la paura che i pozzi avevano suscitato in me quand’ero fanciullo. Benché ne conoscessi la funzione, l’immaginazione mi aveva indotto a chiedermi che cosa sarebbe accaduto se una mano ossuta fosse spuntata dalle sbarre larghe ad afferrarmi una caviglia…
Oltre a suscitare tale ricordo, qualcosa nell’atteggiamento circospetto di Nebogipfel mi fece notare una somiglianza tra i pozzi della mia fanciullezza e quelli, sinistri, dei Morlock: era forse per tale motivo, alla fin fine, che avevo aggredito con tanta violenza i piccoli Morlock nell’anno 657.208?
Non sono uomo tale da gioire di siffatte analisi del proprio carattere, perciò, del tutto ingiustamente, aggiunsi, in tono tagliente: — Comunque, pensavo che a voi Morlock piacesse il buio! — E mi allontanai, salendo i gradini che conducevano alla porta principale.
Tutto era familiare, eppure al tempo stesso diverso in maniera sconcertante. Persino a un primo sguardo individuai mille piccole differenze rispetto alla mia epoca, diciotto anni nel futuro: per esempio, l’architrave cadente che avrei sostituito in seguito, e lo spazio vuoto in cui, esortato dalla signora Watchet, avrei fatto installare un lampioncino arcuato.
Ancora una volta mi resi conto di quanto fosse sconcertante viaggiare nel tempo. Quando si affrontava un viaggio di migliaia di secoli, era ovvio aspettarsi cambiamenti drastici, di cui io stesso ero stato testimone; ma anche un breve viaggio di pochi decenni rendeva anacronistico colui che lo eseguiva.
— Che cosa devo fare? — chiese Nebogipfel. — Devo aspettarti?
Meditai sulla presenza silenziosa del Morlock accanto a me: con i suoi occhiali e con la mia giacca, aveva un aspetto tanto comico quanto allarmante. — Credo che sarebbe più pericoloso se tu rimanessi qui fuori — risposi. — Se un poliziotto ti vedesse, potrebbe scambiarti per un ladro. E se tu venissi arrestato… — Non sapevo se in una stazione di polizia del 1873 un Morlock sarebbe stato considerato comico o pericoloso. Senza le sue macchine sofisticate, Nebogipfel era inerme: si era lanciato nel viaggio temporale senza alcuna preparazione, proprio come avevo fatto io la prima volta. — E se ti vedesse un cane, o un gatto? Non so come si comporterebbe un animale maschio degli anni Settanta del diciannovesimo secolo nei confronti di un Morlock: forse lo considererebbe un buon pasto… No, Nebogipfel: tutto sommato, credo che sarai più al sicuro se rimarrai con me.
— E come reagirà il giovane a cui stai per fare visita?
Sospirai: — Be’, ho sempre avuto il dono di una mentalità aperta ed elastica… O almeno, così mi piace credere! Forse lo scoprirò tra poco. Inoltre, la tua presenza potrebbe contribuire a convincere me, o meglio lui, della veridicità del mio resoconto.
Senza concedermi ulteriori esitazioni, suonai il campanello.
All’interno udii uno sbattere di porte e un grido, pronunciato in tono d’irritazione: — Va bene, va bene… Arrivo! — Seguì un rumore di passi nel breve corridoio che collegava il laboratorio al resto della casa.
— Sono io — sussurrai a Nebogipfel. — È lui. I servi sono a letto: dev’essere tardi.
La chiave girò nella serratura.
— Gli occhiali — sussurrò Nebogipfel.
Subito mi tolsi l’anacronistico oggetto dal viso, ficcandolo in una tasca dei calzoni, proprio mentre l’uscio si apriva.
Apparve un giovane dal viso splendente alla luce dell’unica candela che portava. Guardò brevemente me, che ero in maniche di camicia, e ancora più superficialmente esaminò Nebogipfel, liquidando così la capacità di osservazione di cui andavo tanto fiero. — Che cosa diavolo volete? Sapete che è già passata l’una del mattino?
Mentre aprivo la bocca per parlare, il discorsetto di presentazione che mi ero preparato si cancellò dalla mia mente.
Fu così che affrontai me stesso all’età di ventisei anni.
Da quando ho avuto quell’esperienza, sono persuaso che noi tutti, senza eccezione, usiamo lo specchio per ingannare noi stessi. Il riflesso che vediamo in esso è completamente sotto il nostro controllo: privilegiamo inconsciamente i nostri tratti migliori e interpretiamo i nostri vezzi in una maniera che il nostro più intimo amico non riconoscerebbe. E naturalmente non abbiamo nessuna inclinazione a osservarci da punti di vista meno favorevoli: per esempio, da dietro, o con il naso che sporge in tutto il suo glorioso profilo.
Ebbene, in quel momento mi trovai dinanzi a un riflesso che non era sotto il mio controllo, e l’esperienza mi turbò.
Il giovane che mi stava dinanzi era alto come me, naturalmente: semmai mi accorsi, sbalordito, di essermi abbassato un po’, nei diciotto anni che ci separavano. La sua fronte era strana: era particolarmente ampia, come molte persone mi hanno sempre detto poco gentilmente, con un ciuffo di sottili capelli castani, non ancora diradati né brizzolati. Avevo gli occhi grigio chiaro, il naso diritto, la mandibola risoluta, ma di certo non ero bello: il suo pallore naturale era accentuato dalle lunghe ore trascorse fin dall’adolescenza negli studi, nelle biblioteche, nelle aule, nei laboratori.
Provai una vaga repulsione: avevo davvero qualcosa del Morlock. E davvero le mie orecchie erano così prominenti?
Ma furono gli indumenti ad attirare la mia attenzione: gli indumenti!
Il giovane indossava quello che ricordavo come un costume da damerino: giacca corta e scarlatta, con un fiore all’occhiello, sopra un panciotto giallo e nero dai grossi bottoni d’ottone, e alti stivali gialli.
Avevo mai indossato indumenti simili, io? Sicuramente! Ma qualunque abbigliamento si discostasse dal mio attuale stile sobrio era difficile da immaginare.
— Dannazione! — Non potei fare a meno di commentare. — Sei vestito come un pagliaccio da circo!
Sebbene incerto, evidentemente perché scorgeva a sua volta qualcosa di strano nel mio viso, il giovane ribatté abbastanza prontamente: — Forse dovrei chiuderle la porta in faccia, signore. È salito fin quassù soltanto per insultarmi a causa del mio abbigliamento?
Allora notai che il fiore all’occhiello era alquanto appassito, ed ebbi l’impressione che il suo alito puzzasse di brandy: — Dimmi… È forse giovedì?
— È una domanda molto strana. Dovrei… — Ebbene?
Sollevando la candela, il giovane mi scrutò in viso. Era talmente affascinato da me, ossia da colui che vagamente riconosceva come se stesso, che ignorò Nebogipfel, un essere proveniente dal lontano futuro, che si trovava a meno di due metri da lui. Mi domandai se quell’incontro contenesse qualche rozza metafora: nonostante tutto, avevo forse viaggiato nel tempo soltanto alla ricerca di me stesso?
Ma non ho tempo per l’ironia, e mi sento piuttosto imbarazzato per essermi abbandonato a una simile riflessione letteraria.
— Guarda caso, è proprio giovedì, o meglio, lo era, visto che sono già le prime ore di venerdì. Ma che importa? E tanto per cominciare, perché lei non lo sa? Anzi, chi è lei, signore?
— Ti dirò chi sono, e ti dirò anche — indicai Nebogipfel, facendo sgranare gli occhi al nostro ospite riluttante — chi è costui, e perché non so né l’ora né il giorno. Ma prima… Possiamo entrare? Gradirei un po’ del tuo brandy.
Per circa mezzo minuto, il giovane rimase impalato, con lo stoppino della candela che scoppiettava nella sua pozza di cera, mentre, da lontano, giungeva il sospiro del Tamigi che scorreva languidamente sotto i ponti di Richmond. Finalmente, rispose: — Dovrei ricacciarvi in strada! Eppure…
— Lo so — convenni gentilmente, osservando con indulgenza il giovane me stesso. Non sono mai stato restio alle speculazioni più sfrenate, perciò potevo immaginare quali ardite ipotesi si stessero già agitando in quella sua mente feconda e indisciplinata.
Arrivato a una decisione, il giovane indietreggiò.
Con un gesto, invitai Nebogipfel a entrare. Il Morlock avanzò silenziosamente sul parquet del corridoio, con i piedi rivestiti soltanto di pelliccia, ricambiando con interesse lo sguardo del giovane, che nuovamente lo fissava.
— È… ehm… è tardi — disse il padrone di casa. — Non voglio svegliare i domestici. Andiamo in sala da pranzo: probabilmente, è l’ambiente più caldo.
Il corridoio, con lo zoccolo dipinto e una fila di pioli per appendere i cappelli, era buio. La testa grande del nostro ospite riluttante spiccava alla luce della candela, mentre ci guidava oltre la porta della sala da fumo. Nel caminetto della sala da pranzo ardeva ancora un letto di braci. Con quella candela, il giovane ne accese un’altra dozzina: due nei candelieri d’ottone sulla mensola, fra cui troneggiava il vaso panciuto del tabacco, e le altre nei candelabri a muro.
Osservai la stanza comoda e confortevole, illuminata dalle candele: mi era assai familiare, eppure mi sembrava molto diversa a causa di lievi differenze nella disposizione dell’arredamento. Accanto alla porta stava il tavolino, carico di giornali, che senza dubbio erano pieni di tetri commenti sugli ultimi discorsi del signor Disraeli, o magari di cupissime analisi sulla questione orientale. Vicino al caminetto era collocata la mia poltrona, bassa e comoda. Tuttavia non vi era traccia dei miei tavolini ottagonali, né delle mie lampade d’argento a incandescenza, a forma di giglio.
Il padrone di casa si avvicinò al Morlock e si curvò in avanti, posandosi le mani sulle ginocchia: — Cos’è questo? Sembra una specie di scimmia, o un bimbo deforme… E quella che indossa è forse la sua giacca?
Il suo tono, con mia stessa sorpresa, m’irritò: — “Questo” è in realtà “costui”, cioè una persona. E sa parlare.
— Davvero? — Il giovane si girò di nuovo a guardare il Morlock. — Accidenti! — E continuò a scrutare la faccia villosa del povero Nebogipfel, mentre io, in piedi sul tappeto della sala da pranzo, cercavo di non tradire l’impazienza, per non dire l’imbarazzo, che tanta scortesia suscitavano in me. Finalmente, rammentò i doveri dell’ospitalità: — Oh! Scusate… Accomodatevi, prego: sedete.
Impacciato dalla giacca, Nebogipfel rimase in piedi al centro del tappeto, davanti al caminetto, a osservare il pavimento, e poi la stanza. Notai che sembrava in attesa di qualcosa, e alla fine capii: era talmente abituato alla tecnica morlock della sua epoca, che aspettava di veder spuntare mobili e strumenti dal tappeto. Anche se in seguito si sarebbe dimostrato intelligente, sensibile e di mentalità aperta, in quel momento rimase tanto sconcertato quanto lo sarei stato io cercando un impianto a gas in una caverna dell’età della pietra.
— Nebogipfel — spiegai, — questa è un’epoca primitiva: le forme sono fisse. — E indicai il tavolo e le sedie, maitre il giovane me stesso ascoltava e osservava con evidente curiosità. — Devi scegliere una di queste.
Dopo breve esitazione, Nebogipfel si avvicinò a una delle sedie più robuste.
Ma io lo precedetti: — Per la verità, non questa — aggiunsi, gentilmente. — Non credo che la troveresti comoda: potrebbe cercare di farti un massaggio, però non è progettata per una persona del tuo peso…
Sbalordito, il padrone di casa mi fissò.
Sentendomi come un genitore imbarazzato, aiutai Nebogipfel a montare su una semplice sedia, dove rimase con le gambe ciondolanti come un bambino villoso.
— Come sapeva delle mie sedie attive? — chiese il giovane me stesso. — Le ho mostrate soltanto a pochi amici. Non ho neppure brevettato il progetto…
Mi limitai a scrutarlo negli occhi per un lungo momento, in silenzio, rendendomi conto che la risposta sbalorditiva alla sua domanda si stava già formando nella sua mente.
Infine, il padrone di casa distolse lo sguardo: — Si sieda, prego. Vado a prendere il brandy.
Mi accomodai accanto a Nebogipfel, ben consapevole di essere nuovamente seduto al tavolo della mia sala da pranzo in compagnia di un Morlock, e mi guardai nuovamente attorno. In un angolo, sul treppiede, stava il telescopio che avevo portato dalla casa dei miei genitori: benché fosse uno strumento molto rozzo, che consentiva di scorgere soltanto immagini confuse, nella mia fanciullezza era stato una finestra sui mondi portentosi del cielo e sulle meraviglie affascinanti della fisica ottica. Poiché le porte che si aprivano sul corridoio buio erano state lasciate negligentemente aperte, intravidi gli oggetti allettanti che stavano nel laboratorio: gli apparecchi sui banchi, i disegni sparsi sul pavimento, gli attrezzi più diversi.
Al ritorno, il nostro ospite portò goffamente un vassoio con tre bicchieri da brandy e una caraffa. Mentre versava tre dosi generose, il liquore scintillò alla luce delle candele: — Ecco… avete freddo? Volete che riaccenda il fuoco?
— No, grazie — risposi. Sollevai il bicchiere, fiutai il brandy, e bevvi un sorso, trattenendolo per un poco sulla lingua.
Anziché prendere il bicchiere, Nebogipfel intinse un dito pallido nel liquore, ne leccò una goccia sul polpastrello, e sembrò rabbrividire. Cautamente, allontanò il bicchiere, come se fosse pieno fino all’orlo della bevanda più nociva che si potesse immaginare.
Dopo aver osservato la scena con curiosità, il padrone di casa con uno sforzo evidente si rivolse a me: — Lei è in vantaggio: io non la conosco, ma lei, a quanto pare, conosce me.
— Sì — sorrisi. — Tuttavia, mi sento imbarazzato: non so come chiamarti.
— Non capisco come ciò possa essere un problema — replicò il giovane, accigliato, a disagio. — Il mio nome è…
Alzai una mano, colto da un’ispirazione: — No. Se me lo permetti, ti chiamerò Mosè.
Bevve un lungo sorso di brandy e mi scrutò con gli occhi grigi colmi di autentica rabbia: — Come lo sa?
Da quando avevo lasciato la casa dei miei genitori, tenevo segreto il mio primo nome, Mosè, che odiavo, perché a scuola mi aveva causato tormenti infiniti.
— Non importa — risposi. — Con me, il tuo segreto è al sicuro.
— Senta… mi sto stancando di questi giochetti… Lei arriva qui, con il suo… compagno, si prende la libertà di denigrare il mio abbigliamento, e io non conosco ancora il suo nome!
— Forse sì, invece.
Il giovane serrò le lunghe dita intorno al bicchiere. Era consapevole che stava succedendo qualcosa di strano e di portentoso, ma non sapeva che cosa. Gli vedevo in viso, chiaro come il giorno, il misto di entusiasmo, d’impazienza e di timore, che avevo provato tanto spesso nell’affrontare l’ignoto.
— Ascolta… sono pronto a dirti tutto quello che vuoi sapere, come promesso. Ma prima…
— Sì?
— Sarei lieto di visitare il tuo laboratorio. E anche Nebogipfel, ne sono certo. Parlaci di te, e intanto imparerai qualcosa su di me.
Per un poco, Mosè rimase seduto con il bicchiere in mano, poi con gesti bruschi rimise i bicchieri sul vassoio, si alzò, e prese la candela dalla mensola del caminetto: — Seguitemi.
Tenendo alta la candela, Mosè ci guidò lungo il gelido corridoio fino al laboratorio. Quei pochi secondi sono ancora vividi nella mia memoria: l’ombra gettata dalla testa grande di Mosè nella luce incerta, la giacca e gli stivali che luccicavano, i passi silenziosi di Nebogipfel che mi seguiva, il nauseabondo e dolciastro fetore morlock che lo spazio chiuso accentuava…
Spostandosi fra i banchi, Mosè accese le candele e le lampade a incandescenza per illuminare il laboratorio. Le pareti erano imbiancate e prive di ornamenti, a eccezione di alcuni foglietti appuntati e una libreria zeppa di riviste, testi scientifici, volumi di tavole matematiche e dati di fisica. Era freddo, per me, che ero in maniche di camicia: tutto tremante, mi strinsi le braccia intorno al busto.
Avvicinatosi alla libreria, Nebogipfel si accosciò a osservare i dorsi malmessi dei volumi. Poiché sulla Sfera non avevo visto libri né carta, e non avevo riconosciuto nulla di familiare nelle lettere sugli schermi azzurri presenti ovunque, mi domandai se sapesse leggere l’Inglese.
— Non sono molto interessato — dichiarò Mosè — a fornirvi un resoconto succinto della mia vita. — Poi in tono più tagliente, aggiunse: — Inoltre, non capisco perché siete tanto interessati a me. Però sono disposto a stare al vostro gioco. Vi interessano i risultati dei miei esperimenti più recenti?
Sorrisi. Era davvero in accordo con il mio, e il suo, carattere, concentrare l’attenzione esclusivamente sull’ultimo problema che lo assillava.
— Vi sarei grato se non toccaste nulla — riprese Mosè, avvicinatosi a un banco su cui storte, lampade, reticoli e lenti sembravano disposti a casaccio. — Vi sembrerà una gran confusione, però vi assicuro che tutto è disposto in un ordine ben preciso. Posso aggiungere che fatico tremendamente a tenere alla larga da qui la signora Penforth, i suoi stracci e le sue scope.
La signora Penforth? pensai. Fui sul punto di chiedere che cosa ne fosse stato della signora Watchet, quindi rammentai che quest’ultima era stata preceduta appunto dalla signora Penforth. L’avevo licenziata una quindicina d’anni prima di partire per il primo viaggio nel tempo, dopo averla sorpresa a rubare dalla mia piccola riserva di diamanti industriali. Rinunciai a preavvisare Mosè, perché tutto sommato i furti non erano stati gravi. Inoltre, spinto da una sorta di strano sentimento paterno nei confronti del giovane me stesso, decisi che probabilmente avrebbe giovato a Mosè seguire maggiormente la conduzione della casa, una volta tanto, invece di lasciare tutto al caso.
— Il mio campo è la fisica ottica — proseguì. — Concerne le proprietà fisiche della luce, che…
— Lo sappiamo — interruppi gentilmente.
— Bene. — Mosè si accigliò. — Di recente, mi sono interessato a uno strano enigma: lo studio di un campione di un nuovo minerale, di cui entrai casualmente in possesso due anni fa. — Mostrò una comunissima fiala graduata da otto once, chiusa con un tappo di gomma, piena a metà di una finissima polvere verdastra, stranamente scintillante. — Guardate… vedete com’è insolitamente traslucida, come se brillasse dall’interno? — In verità, sembrava si trattasse di perline di vetro. — Ma qual è la fonte di tale luminescenza? Ho cominciato a compiere ricerche, dapprima nei ritagli di tempo, perché debbo anche lavorare. Dipendo da commesse e finanziamenti, che a loro volta dipendono dalla qualità e dalla regolarità dei risultati che sono in grado di offrire: non ho tempo per inseguire i miraggi. Poco a poco, però, la plattnerite — giacché ho deciso di chiamarla così, dal nome del tizio misterioso che me la procurò, e che si presentò come Gottfried Plattner — ha finito per assorbire gran parte del mio tempo. Non sono un chimico: anche ai livelli più semplici, la mia pratica è sempre stata piuttosto approssimativa. Nondimeno, mi sono messo all’opera: ho comprato provette, becchi a gas, cartine al tornasole, una provvista di gas, e tutto il fetido equipaggiamento. Versata la polvere verde nelle provette, l’ho fatta reagire con l’acqua e con gli acidi — solforico, nitrico e cloridrico — senza scoprire alcunché. Poi ne ho vuotato un poco sull’ardesia e l’ho collocata sul becco a gas. — Mosè si sfregò il naso. — Be’, l’esplosione ha fracassato il lucernario e ha semidistrutto una parete.
Poiché ricordavo che si trattava della parete sudoccidentale, non potei fare a meno di lanciarvi un’occhiata. La riparazione, tuttavia, era stata tale da cancellare ogni traccia dei danni.
Mosè s’incuriosì, perché non aveva indicato la parete danneggiata: — Dopo tale fallimento — proseguì, — non avevo neppure sfiorato i misteri della plattnerite. In seguito, però — il suo tono si caricò d’entusiasmo, — cominciai a procedere in maniera più razionale: dopotutto, la traslucidità è un fenomeno ottico. Così, pensai che il segreto della plattnerite non fosse nelle sue proprietà chimiche, bensì in quelle ottiche.
Provai una strana sensazione, una sorta di vago amor proprio, nell’udire quella sintesi del mio limpido ragionamento. E capii che Mosè godeva dell’impeto del proprio racconto; mi è sempre piaciuto narrare una buona storia, quale che fosse il pubblico, e credo che in me vi sia qualcosa dell’uomo di spettacolo.
— Accantonai dunque il mio ingombrante corredo da piccolo chimico — riprese Mosè — e iniziai una nuova serie di esperimenti. Molto rapidamente individuai alcune anomalie sbalorditive sull’indice di rifrazione della plattnerite che, come forse sapete, dipende dalla velocità della luce all’interno della sostanza. Insomma, ho scoperto che nell’attraversare la plattnerite, i raggi luminosi si comportano in maniera molto particolare. Ecco… guardate qui… — Indicò gli oggetti collocati sul banco. — Questa è la dimostrazione più chiara che sono riuscito a escogitare delle anomalie ottiche della plattnerite.
Sistemato fra uno schermo bianco e uno specchio curvo nel quale si rifletteva la luce di una lampadina elettrica, c’era un foglio di cartone con due fessure. La lampadina era collegata per mezzo di alcuni fili a un elettromotore situato sotto il banco.
Era un’apparecchiatura di semplice concezione: ho sempre cercato di fornire la dimostrazione più diretta possibile per ogni nuovo fenomeno, allo scopo di focalizzare meglio il fenomeno medesimo, anziché i difetti dell’apparecchiatura sperimentale o, come può sempre accadere, qualche trucco a vantaggio dello sperimentatore.
Azionando un interruttore, Mosè accese la lampadina: una stellina gialla nell’ambiente illuminato dalle candele. Il cartone impediva alla luce di raggiungere lo schermo, tranne i raggi che passavano per le fessure.
— È luce al sodio — spiegò Mosè. — È di un colore quasi puro, contrariamente alla luce bianca del sole, che è una mescolanza di tutti i colori. Lo specchio dietro la lampada è parabolico, perciò riflette tutta la luce verso il cartone. — Indicò i raggi luminosi in direzione del cartone. — Ho aperto qui due fessure, distanti l’una dall’altra meno di due centimetri, ma data la struttura della luce sono separate da circa trecento lunghezze d’onda. I raggi escono dalle fessure — continuò a indicare con il dito — e viaggiano verso lo schermo. Orbene, tali raggi interagiscono: le creste e i fondi d’onda si rafforzano e si cancellano a vicenda, in spazi successivi. — Incerto, mi guardò: — Capisce il concetto? Si otterrebbe un effetto molto simile gettando due sassi in uno stagno e osservando il congiungersi delle increspature che si propagano sulla superficie…
— Capisco.
— Be’, allo stesso modo, queste onde di luce che s’increspano nell’etere interagiscono, creando un’immagine che si può osservare qui sullo schermo. — Mosè indicò la macchia di luce gialla sullo schermo. — Vedete? Per la verità, occorre una lente… Proprio qui, al centro, si possono osservare fasce di luce e di ombra che si alternano, a pochi decimi di pollice l’una dall’altra. Be’, sono i punti dove si uniscono i raggi. — E si raddrizzò. — Tale interazione è un effetto ben noto. Questo esperimento si usa di solito per determinare la lunghezza d’onda della luce al sodio. Si calcola che sia di un cinquanta millesimo di pollice, se v’interessa.
— E la plattnerite? — chiese Nebogipfel.
Nell’udire l’accento alieno del Morlock, Mosè trasalì, tuttavia proseguì arditamente nella dimostrazione. Sempre dal banco, prese un doppio vetro di circa quindici centimetri quadrati, montato verticalmente su un supporto e chiazzato di verde. — Ecco un pizzico di plattnerite schiacciato fra due vetri. Guardate che cosa succede quando metto la plattnerite fra il cartone e lo schermo…
Dopo alcuni tentativi, Mosè riuscì a collocare il doppio vetro in maniera che venisse attraversato da un solo raggio luminoso: sullo schermo, l’immagine delle fasce d’interazione sbiadì, si tinse di verde e parve trasformata… distorta.
— I raggi sono resi meno puri, naturalmente — spiegò Mosè. — Una parte della luce al sodio, rifratta dalla plattnerite, assume lunghezze d’onda appropriate alla parte più verde dello spettro. Comunque filtra dalla plattnerite una quantità di luce al sodio non rifratta, sufficiente per garantire la persistenza del fenomeno d’interazione. Tuttavia… Vedete quali cambiamenti ha provocato?
Quando Nebogipfel si curvò innanzi per osservare più da vicino, la luce al sodio scintillò sui suoi occhiali.
— Il cambiamento di forma di alcune macchie luminose su un cartone potrà non sembrare tanto importante a un profano — proseguì Mosè, — ma gli effetti sono estremamente significativi, se analizzati correttamente. Infatti, e posso esibire i calcoli matematici che lo dimostrano — senza risultare molto convincente, indicò un mucchio di appunti sul pavimento — i raggi luminosi, filtrati dalla plattnerite, subiscono una distorsione temporale. È un effetto minimo, però misurabile: si manifesta con una distorsione della configurazione d’interazione.
— Una “distorsione temporale”? — ripeté Nebogipfel, alzando lo sguardo. — Vuoi dire…
— Sì. — Il volto di Mosè era freddamente rischiarato dalla luce al sodio. — Credo che i raggi luminosi, nel filtrare attraverso la plattnerite, subiscano uno spostamento temporale.
Osservai con aria estatica quella rozza dimostrazione ottenuta per mezzo di una lampada, di un cartone, e di pochi supporti, perché si trattava dei primi, ingenui passi sul lungo e difficile percorso, teorico e sperimentale, che aveva portato infine alla costruzione della macchina del tempo!
Non potevo lasciar trapelare tutto ciò che sapevo, naturalmente, perciò feci del mio meglio per simulare sorpresa e sgomento a quell’annuncio: — Be’… Accidenti!
Insoddisfatto, Mosè mi lanciò un’occhiata. Evidentemente, si stava formando l’opinione che fossi uno sciocco privo d’immaginazione. Si girò, per risistemare l’apparecchiatura.
Approfittai dell’occasione per trarre in disparte il Morlock: — Che cosa ne hai ricavato? È stata una dimostrazione ingegnosa…
— Sì — rispose Nebogipfel. — Però mi sorprende che non abbia notato la radioattività della tua misteriosa sostanza, la plattnerite. Gli occhiali hanno percepito chiaramente…
— Radioattività?
Il mio compagno crononauta mi guardò: — Non conosci questo termine? — Poi mi spiegò brevemente il fenomeno: a quanto pareva, riguardava la disgregazione a cui, secondo lui, erano soggetti tutti gli elementi, e che avveniva in tempi più o meno lunghi: in alcuni, come il radio, si manifestava in maniera abbastanza rapida ed evidente da risultare misurabile, purché si sapesse che cosa cercare.
Tutto ciò mi fece riaffiorare alla memoria alcuni ricordi: — Rammento uno strumento chiamato spintariscopio, in cui il radio viene collocato vicino a uno schermo rivestito di solfuro di zinco…
— E lo schermo diventa fluorescente. Sì, è un fenomeno prodotto dalla disintegrazione dei nuclei degli atomi di radio.
— Ma l’atomo è indivisibile, o almeno, così si credeva…
— L’esistenza della struttura subatomica è stata dimostrata da Thomson, a Cambridge, soltanto pochi anni dopo la tua partenza per il primo viaggio temporale, se ben ricordo.
— La struttura subatomica… scoperta da Thomson! Ho incontrato personalmente Joseph Thomson diverse volte: l’ho sempre giudicato un imbecille presuntuoso. Ed è più giovane di me di pochi anni soltanto…
Anche se non era la prima volta, provai un profondo rammarico per la mia precipitosa fuga nel tempo. Se soltanto fossi rimasto, avrei potuto trovarmi al centro di quella rivoluzione del pensiero, anche senza gli esperimenti sul viaggio temporale. E di sicuro sarebbe stata un’esperienza così avventurosa da bastare per una vita intera.
Intanto Mosè fece per spegnere la lampada al sodio e di scatto, con un grido, ritirò la mano: Nebogipfel gli aveva toccato le dita con il proprio palmo glabro.
— Mi dispiace.
Mosè si massaggiò la mano: — Il suo tocco… è tanto… gelido. — E fissò il Morlock come se lo vedesse per la prima volta in tutta la sua stranezza.
Di nuovo, Nebogipfel si scusò: — Non intendevo spaventarti, ma…
— Sì? — intervenni.
Con un dito vermiforme, Nebogipfel indicò il doppio vetro con la plattnerite: — Guardate…
Io e Mosè ci curvammo a osservare il doppio vetro illuminato.
Dapprima non vidi altro che il riflesso puntiforme della lampada al sodio, un velo di polvere finissima sul vetro… E finalmente distinsi una luminosità sempre più intensa che scaturiva dalle profondità della plattnerite stessa: una luce verde che brillava come se il doppio vetro fosse una finestra su un altro mondo.
La luce aumentò d’intensità e trasse riflessi luccicanti dalle provette, dai vetri e dal resto delle attrezzature del laboratorio.
Quando ritornammo in sala da pranzo, il fuoco era spento ormai da parecchie ore e la stanza era fredda, ma Mosè non parve accorgersene. Mi versò un altro brandy e mi offrì un sigaro, che accettai. Nebogipfel chiese un bicchiere d’acqua. Con un sospiro, accesi il sigaro, mentre Nebogipfel mi osservava con quello che mi parve puro sbalordimento, dimentico di tutti i vezzi umani che aveva imparato.
— Ebbene — domandai — quando intendi pubblicare una relazione sulle tue sensazionali scoperte?
Prima di rispondere, Mosè si grattò la testa e si allentò il nodo della cravatta vistosa: — Non lo so ancora — rispose francamente. — Il mio è solo un catalogo di osservazioni sulle anomalie di una sostanza di provenienza ignota. Forse esistono persone più brillanti di me in grado di ricavarne qualcosa: magari di scoprire come produrre altra plattnerite…
— No — intervenne enigmaticamente Nebogipfel. — I mezzi per produrre sostanze radioattive verranno scoperti soltanto fra diversi decenni.
Incuriosito, Mosè guardò Nebogipfel, ma senza fare commenti.
— Comunque, tu non hai nessuna intenzione di pubblicare una relazione — dichiarai.
Abbandonandosi a un altro, spiacevole vezzo, Mosè mi strizzò l’occhio con aria da cospiratore: — Tutto a suo tempo. Per certi versi, non sono affatto un vero scienziato. Sa che cosa intendo, vero? Mi riferisco a quegli individui meschini e puntigliosi che finiscono con l’essere definiti dalla stampa “distinti scienziati”. Quando un tizio del genere tiene la sua piccola conferenza su qualche oscura proprietà degli alcaloidi tossici, nel buio che circonda la lanterna magica si sente leggere un brano strano, s’intravede il luccichio degli occhiali dalla montatura d’oro…
Esortai: — Ma tu…
— Oh, non intendo denigrare i lenti e pazienti sgobboni che esistono al mondo! E non temo di affermare che negli anni a venire dovrò anch’io procedere a rilento; però sono anche dotato di una certa impazienza: voglio sempre scoprire come va a finire. — Mosè sorseggiò il proprio brandy. — Ho già pubblicato alcuni articoli: uno persino nelle Philosophical Transactions. Ho scritto anche altri studi che molto probabilmente saranno pubblicati. Ma le ricerche sulla plattnerite…
— Sì?
— Ho una sensazione strana in proposito. Voglio scoprire fin dove riuscirò a…
Mi curvai in avanti a scrutare il volto entusiasta e vivace di Mosè. Era l’ora più tranquilla della notte. Vedevo il brandy nel bicchiere luccicare alla luce delle candele, e mi sembrava di poter osservare con una limpidezza sovrannaturale ogni dettaglio, e di udire il ticchettio di ogni orologio nella casa. — Spiegami che cosa intendi dire…
Mosè si rassettò la ridicola giacca da damerino e cominciò: — Credo che un raggio di luce filtrato dalla plattnerite subisca uno spostamento temporale. In altre parole, il raggio si muove fra due punti nello spazio senza alcun intervallo nel tempo. Ma ho l’impressione — continuò, più lentamente — che se la luce può muoversi in tal modo, allora forse anche gli oggetti materiali sono in grado di farlo. Ho pensato che se si mescolasse la plattnerite a qualche sostanza cristallina appropriata, come il quarzo, o il cristallo di rocca, allora forse…
— Sì?
D’improvviso, Mosè parve riscuotersi. Posò il bicchiere di brandy sul tavolino accanto alla sedia e si piegò in avanti, con gli occhi grigi, limpidi e ardenti, che sembravano scintillare alla luce delle candele: — Non sono certo di voler dire altro! Senta… sono stato tutt’altro che reticente, con lei. Adesso è tempo che sia lei a fornirmi qualche spiegazione con altrettanta franchezza. È disposto a farlo?
Per tutta risposta, lo scrutai negli occhi che, se anche appartenevano a un viso meno rugoso, erano indubitabilmente i miei: quelli che mi avevano sempre fissato ogni giorno dallo specchio mentre mi radevo.
Evidentemente incapace di distogliere lo sguardo, Mosè sibilò: — Chi sei?
— Sai già chi sono, vero?
Nel lungo attimo di silenzio che seguì, Nebogipfel fu una presenza spettrale di cui Mosè e io rimanemmo quasi inconsapevoli.
Alla fine, Mosè rispose: — Sì, credo proprio di sì…
Decisi di concedere a Mosè il tempo di assimilare la rivelazione: dopotutto per lui la realtà dei viaggi temporali, associata a qualunque oggetto più solido di un raggio luminoso, era ancora un’ipotesi fantastica. Trovarsi di fronte all’improvviso la prova fisica, anzi, peggio ancora, un altro se stesso proveniente dal futuro, gli aveva provocato sicuramente uno shock tremendo.
— Forse dovresti considerare la mia presenza qui come una conseguenza inevitabile delle tue ricerche — suggerii. — Un incontro del genere non sarebbe forse destinato ad avvenire, se tu seguissi fino in fondo il sentiero sperimentale che hai imboccato?
— Forse…
Allora mi resi conto che Mosè stava reagendo senza il timore reverenziale che mi ero aspettato: mi osservava in modo nuovo, esaminandomi la chioma, il viso, gli abiti.
Cercai dunque di vedermi con gli occhi di quel ventiseienne impetuoso, e assurdamente mi vergognai. Mi passai le dita fra i capelli, che non pettinavo da quando avevo lasciato l’anno 657.208, e contrassi i muscoli addominali, per cercare di rendere lo stomaco meno prominente. Tuttavia, ciò non fece scomparire la disapprovazione dal viso di Mosè. — Guardami bene! — sbottai. — È così che diventerai!
— Non fai molto esercizio, vero? — replicò Mosè, massaggiandosi il mento. — E lui? — Con un pollice, indicò Nebogipfel. — È…?
— Sì, viene dal futuro. Per essere precisi dall’anno 657.208, ed è molto evoluto rispetto a noi. L’ho portato qui con la mia macchina del tempo: la stessa che tu hai iniziato a concepire.
— Sono tentato di chiederti che cosa mi accadrà in futuro… avrò successo? Mi sposerò? E… Ma temo che mi convenga non saperne nulla. — Mosè osservò Nebogipfel. — Il futuro della specie, però, è tutt’altra questione.
— Mi credi, vero?
In silenzio, Mosè prese di nuovo il bicchiere, si accorse che era vuoto, e lo posò: — Non so… voglio dire, è fin troppo facile per un tizio qualsiasi presentarsi a casa mia dicendo di essere me stesso proveniente dal futuro.
— Ma tu stesso hai già concepito la possibilità di viaggiare nel tempo! E poi… guarda il mio viso!
— Ammetto che noto una certa superficiale somiglianza. È possibilissimo, però, che sia uno scherzo, magari organizzato con intento malevolo, per farmi fare la figura del ciarlatano. — Severamente, Mosè mi scrutò: — Se sei davvero colui che affermi di essere, vale a dire se sei me, allora sicuramente sei tornato qui con uno scopo…
— Sì. — Cercai di reprimere la collera e di ricordare che era di vitale importanza comunicare con quel giovane burbero e piuttosto arrogante. — In effetti, ho una missione da compiere.
Di nuovo, Mosè si massaggiò il mento: — Che dichiarazione melodrammatica… ma come può essere tanto importante? Sono uno scienziato… anzi, probabilmente non sono neppure questo: sono un pasticcione, un dilettante. Non sono un politico, né un profeta.
— È vero. Però sei, o diventerai, l’inventore dell’arma più potente che possa essere concepita: la macchina del tempo.
— Che cosa sei venuto a dirmi?
— Che devi distruggere la plattnerite e dedicarti a qualche altra ricerca. Non devi inventare la macchina del tempo: questo è il punto essenziale!
Unendo le punte delle dita, Mosè mi scrutò: — Be’, evidentemente hai una storia da raccontare… sarà lunga? Vuoi ancora un po’ di brandy, o magari un tè?
— No, grazie. Cercherò di essere il più sintetico possibile…
Iniziai il racconto con un breve riepilogo delle scoperte che mi avevano permesso di costruire la macchina del tempo, quindi narrai il mio primo viaggio nella dimensione di storia in cui esistevano gli Eloi e i Morlock, ciò che avevo scoperto al mio ritorno, il mio tentativo di ritornare in quello stesso futuro…
Probabilmente ero stanco: non ricordavo neppure quante ore fossero trascorse dall’ultima volta che avevo dormito. Tuttavia, procedendo nel racconto, m’infervorai sempre più, fissando il volto rotondo e sincero di Mosè alla luce delle candele.
All’inizio, avvertii la presenza di Nebogipfel, che per tutto il tempo rimase seduto in silenzio. Ogni tanto, soprattutto durante la mia descrizione dei Morlock, Mosè gli lanciava uno sguardo per avere conferma di alcuni dettagli. Dopo qualche tempo, però, decise di ignorarlo, e concentrò la sua attenzione esclusivamente su di me.
Quando terminai il mio resoconto, il primo chiarore dell’alba estiva filtrava già nella stanza.
Seduto con aria meditabonda, Mosè continuò a scrutarmi per un poco, poi come per rompere un incantesimo finalmente disse: — Bene, bene… — Si alzò per sgranchirsi e scostò le tende alle finestre, rivelando il cielo nuvoloso che si stava rischiarando. — È un racconto davvero interessante…
— È molto di più — ribattei, con voce rauca. — Non capisci? Durante il mio secondo viaggio nel futuro, ho visitato un’altra storia. La macchina del tempo è una distruttrice della storia, un’annientatrice di mondi e di specie. Capisci perché non deve essere costruita?
Allora Mosè si volse a Nebogipfel: — Se davvero sei un uomo del futuro, che cos’hai da dire, in proposito?
Benché la sua sedia fosse ancora in ombra, Nebogipfel si proteggeva già dalla luce che si diffondeva nella stanza: — Non sono un uomo — rispose, con la sua voce fredda e tranquilla, — però provengo da un futuro, tra un’infinità di varianti possibili. Sembra vero, e di sicuro è razionalmente possibile, che la macchina del tempo possa cambiare il corso della storia, generando così nuove e diverse serie di eventi. In realtà, il principio stesso del suo funzionamento sembra fondarsi sulla sua capacità di estendersi in un’altra storia parallela, mediante le proprietà della plattnerite.
Il profilo di Mosè si stagliava sullo sfondo della finestra illuminata dal sole nascente: — E dovrei abbandonare le mie ricerche soltanto sulla base di asserzioni non confermate…?
— Non confermate?! Credo di meritare un po’ più di rispetto — interruppi, con collera crescente. — Dopotutto, io sono te! Quanto sei ostinato! Ti ho portato un uomo del futuro… quale altra dimostrazione vuoi?
— Ascolta… — Mosè scosse la testa. — Sono stanco… Ho trascorso la notte in bianco, e tutto il brandy che ho bevuto non aumenta di certo la mia lucidità. E anche a voi due non guasterebbe un po’ di riposo, a giudicare dal vostro aspetto. Vi accompagno alle camere per gli ospiti…
— Conosco la strada — dichiarai in tono gelido.
Di buon grado, Mosè acconsentì: — Dirò alla signora Penforth di servirvi la colazione. O meglio… — Lanciò un’occhiata a Nebogipfel. — Forse la farò servire qui. Venite… il destino della specie può attendere ancora qualche ora.
Il mio sonno fu insolitamente profondo. Fu Mosè a svegliarmi, quando venne a portare una brocca d’acqua calda.
Dopo le mie avventure nel tempo, i miei vestiti, piegati sopra una sedia, ormai non erano più molto adatti per essere indossati. Chiesi perciò: — Potresti prestarmi qualche indumento?
— Posso prestarti una giacca da camera, se vuoi. Mi dispiace, vecchio mio, ma credo che nessuno dei miei abiti sia della tua misura!
La sua arroganza mi fece arrabbiare: — Un giorno anche tu invecchierai, e allora spero che ricorderai… oh, non importa!
— Ascolta… Farò spazzolare e rammendare i tuoi vestiti. Scendi, appena sei pronto.
In sala da pranzo, dove la colazione era stata servita a buffet, trovai Mosè e Nebogipfel. I colori variopinti degli abiti di Mosè, gli stessi del giorno prima — o almeno copie identiche — risultavano ancora più sgargianti alla luce del mattino. In paziente attesa accanto al buffet, Nebogipfel era comico nel suo abbigliamento, a partire dal berretto, per arrivare alla vecchia giacca e a un paio di calzoni corti, fino ai grandi occhiali rotondi sul volto villoso.
— Ho ordinato alla signora Penforth di non entrare qui — spiegò Mosè. — Quanto a Nebogipfel, mi sembrava che la tua giacca, che adesso è appesa allo schienale di quella sedia, non gli bastasse. Così ho recuperato una mia vecchia uniforme studentesca, vale a dire l’unico completo che gli si adattasse: puzza di naftalina, però mi sembra più a suo agio. E adesso… — Si avvicinò al Morlock. — Lascia che ti aiuti… che cosa preferisci? Come vedi, abbiamo bacon, uova, pane tostato, salsicce…
Nel suo accento pacato e alieno, Nebogipfel chiese spiegazioni sull’origine del cibo, e Mosè lo accontentò in maniera molto vivace: per esempio, prese con la forchetta una fetta di bacon e descrisse il maiale.
Terminata la spiegazione, Nebogipfel prese una mela e un bicchier d’acqua, quindi si ritirò nell’angolo più buio della stanza.
Quanto a me, dopo essermi nutrito per tanto tempo con i cibi insipidi dei Morlock, non avrei potuto gustare maggiormente la colazione se avessi saputo che sarebbe stato il mio ultimo pasto nel diciannovesimo secolo.
Consumata la colazione, Mosè ci condusse nella sala da fumo. Ancora una volta, Nebogipfel si accomodò nell’angolo più buio. Mosè e io, invece, occupammo poltrone opposte.
Mentre Mosè prendeva di tasca la pipa e il tabacco, la caricava e l’accendeva, l’osservai ribollendo d’impazienza: la sua calma mi esasperava. Finalmente, chiesi: — Non hai niente da dire? Ti ho portato un avvertimento tenibile dal futuro, anzi, da due futuri diversi…
— Sì, mi hai fatto un racconto drammatico; però… — Mosè compresse il tabacco nella pipa. — Non sono ancora certo che…
— Non sei certo?! — gridai, balzando in piedi. — Di quale altra prova hai bisogno, per persuaderti?
— Mi sembra che il tuo ragionamento abbia qualche punto debole. Suvvia… siediti…
Sentendomi fiacco, seguii il suggerimento: — Quali punti deboli?
— Allora, tu sostieni che siamo la stessa persona… è così, vero?
— Esatto. Siamo due fette di un’unica entità a quattro dimensioni, tagliate in punti diversi e giustapposte dalla macchina del tempo.
— Benissimo. Ma consideriamo questo aspetto: se tu una volta fossi stato me, allora dovresti condividere i miei ricordi.
— Io…
— Ebbene — riprese Mosè, con una sfumatura di trionfo nella voce — quali ricordi hai dell’imprevista visita notturna di uno sconosciuto piuttosto corpulento, con un compagno dall’aspetto molto strano?
Naturalmente, l’unica risposta possibile mi colmava d’orrore: non avevo nessun ricordo del genere. Sgomento, mi volsi a Nebogipfel: — Come ho fatto a non pensarci? La mia missione è impossibile: lo è sempre stata, fin dall’inizio. È impossibile che io sia riuscito a persuadere il giovane Mosè, perché non ricordo di essere mai stato persuaso quando ero nei suoi panni!
— Quando si tratta della macchina del tempo — replicò Nebogipfel — i concetti di causa e di effetto sono inadeguati.
Con la sua solita e fastidiosa impudenza, Mosè dichiarò: — Ecco un altro enigma da risolvere… supponiamo che io accetti il tuo racconto sui viaggi nel tempo, sui diversi futuri, e così via. E supponiamo che io accetti anche di non costruire la macchina del tempo…
Capii subito dove voleva andare a parare: — Se la macchina del tempo non venisse mai costruita…
— Se non fosse mai stata costruita, tu non avresti potuto tornare indietro per impedire che lo fosse…
— Dunque la macchina verrebbe comunque costruita…
— E torneresti di nuovo indietro nel tempo per impedire che lo fosse, e tutto continuerebbe così, come una giostra che gira in eterno!
— Sì — confermò Nebogipfel, — è un circolo causale vizioso. La macchina del tempo deve essere costruita, perché se ne possa impedire la costruzione.
Mi coprii il viso con le mani. A parte la disperazione che provavo a causa dell’impossibilità della mia missione, avevo la sensazione inquietante che il giovane Mosè fosse più intelligente di me. Io stesso avrei dovuto rendermi conto di quelle contraddizioni. Forse era vero che l’intelligenza, al pari delle facoltà fisiche, declinava con l’invecchiamento.
— Nonostante questi problemi, è nondimeno la verità — sussurrai. — E la macchina del tempo non deve essere costruita.
— Allora fornisci tu una spiegazione — esortò Mosè, con scarsa simpatia. — Sembra che essere o non essere non sia affatto il problema. Se sei me, ricordi sicuramente di essere stato costretto a recitare la parte del padre di Amleto in un’orribile recita scolastica…
— Lo ricordo bene, infatti.
— A me sembra che il problema sia più complesso: com’è possibile che le cose possano essere e simultaneamente non essere?
— Comunque sia, è vero. — Nebogipfel si avvicinò, esponendosi un poco alla luce, e ci scrutò a turno. — Mi sembra che dobbiamo ragionare in maniera diversa, cioè in modo da comprendere e spiegare l’interazione della macchina del tempo con la storia, nonché la molteplicità della storia…
Proprio in quel momento, quando la mia incertezza era maggiore, si udì un ruggito, come di un motore gigantesco, che echeggiò sulla collina, all’esterno della casa, e il suolo fu scosso da un tremito, come quello che avrebbe potuto essere suscitato dal passo di un mostro. Si udì un grido, e poi, benché un evento del genere fosse del tutto impossibile nel mattino sonnolento di Richmond, tuonò una cannonata.
Sgomenti, Mosè e io ci scambiammo un’occhiata, e lui disse: — Accidenti… cos’è stato?
Di nuovo si sentì quella che sembrava una cannonata, e un urlo si trasformò in uno strillo che s’interruppe bruscamente.
Insieme, ci precipitammo nel corridoio. Mosè aprì la porta, a cui era già stato tolto il chiavistello. Ci precipitammo in strada, dove la signora Penforth teneva con una mano uno sgargiante strofinaccio giallo, e con l’altra stringeva un braccio del magro e severo Poole, che a quell’epoca era il domestico di Mosè. Entrambi, dopo averci lanciato un’occhiata distratta, distolsero lo sguardo, ignorando il Morlock come se non avesse un aspetto più strano di quello di un francese o di uno scozzese.
Sulla Petersham Road, alcuni passanti si erano fermati a guardare. Toccandomi un braccio per attirare la mia attenzione, Mosè indicò la strada in direzione della città: — Laggiù! Ecco la causa di tutto!
Sembrava che un’ondata immane avesse prelevato dal mare una corazzata per deporta su Richmond Hill. A meno di duecento metri dalla casa, una grande macchina metallica semovente, lunga almeno ventiquattro metri, percorreva Petersham Road come un gigantesco insetto di ferro.
Non si trattava, però, di un mostro isolato dal suo ambiente. Capii che la macchina avanzava verso di noi, lentamente ma inesorabilmente, lasciando sulla strada una serie d’impronte profonde, simili alle tracce di un uccello. Nella parte superiore era dotata di parecchi portelli, che mi parvero destinati a consentire la fuoriuscita di armi o di strumenti d’osservazione.
Le vetture erano state costrette a fare strada alla macchina: due calessi erano rovesciati, come pure il carro senza sponde di un birraio, con il cavallo spaventato ancora impigliato nei finimenti, e la birra che si versava dalle botti fracassate.
Un giovane temerario, che indossava un berretto, lanciò contro la macchina un sasso del selciato, che rimbalzò sul metallo senza neppure graffiarlo, ma suscitando una risposta: la canna di un fucile spuntò da un portello e fece fuoco, con uno schianto.
Il giovane crollò sul posto e giacque immobile.
Allora la folla si disperse rapidamente, strillando. Poole riaccompagnò in casa la signora Penforth, che piangeva tenendosi lo strofinaccio sul viso.
Sulla parte anteriore della macchina, un portello si aprì con un clangore, rivelando fugacemente l’interno buio, e una persona dal volto mascherato ci scrutò.
— Viene dagli abissi del tempo — dichiarò Nebogipfel — e cerca noi.
— È vero. — Mi rivolsi a Mosè: — Ebbene, mi credi, adesso!
Con il volto più pallido del solito, la fronte larga viscida di sudore, un sorriso teso e nervoso, Mosè commentò: — Evidentemente, non sei l’unico viaggiatore del tempo!
La fortezza semovente, ammesso che la macchina fosse qualcosa del genere, risalì lentamente la strada verso la mia casa. Era lunga e piatta, simile a un coprivivande, dipinta a chiazze verdi e marroni, come se il suo ambiente naturale fosse un campo incolto. Intorno alla base aveva una blindatura che sembrava costruita per proteggere le parti più vulnerabili dalle fucilate e dalle schegge avversarie. Procedeva a una velocità di circa sei miglia orarie, e grazie a un nuovo metodo di locomozione, di cui la blindatura m’impediva di distinguere i dettagli, riusciva a mantenere un assetto quasi orizzontale, nonostante la pendenza.
A parte noi tre, e il povero cavallo del birraio, non era rimasta anima viva in strada: il silenzio era rotto soltanto dal brontolio cupo delle macchine della fortezza e dai nitriti d’angoscia dell’animale intrappolato.
— Non ricordo nulla del genere — dichiarai. — Non esisteva niente del genere nel mio 1873.
Osservando attraverso gli occhiali la fortezza in avvicinamento, Nebogipfel rispose con voce calma: — Ancora una volta dobbiamo ripensare alla molteplicità della storia. Hai visitato due versioni dell’anno 657.208. Adesso sembra che tu debba affrontare una variante del tuo secolo.
La fortezza si fermò, con un brontolio di motori che ricordava quello di uno stomaco immenso. Mentre una bandiera sventolava pigramente nella parte superiore, alcuni volti mascherati ci osservarono dai portelli.
— Dici che possiamo scappare? — sibilò Mosè.
— Ne dubito… vedi le canne di fucile che spuntano dai portelli? Non so a quale gioco stia giocando questa gente, ma è evidente che ha i mezzi, e l’intenzione, per impedirci di fuggire. Andiamo loro incontro con dignità. Dimostriamo che non abbiamo paura.
E così, c’incamminammo sull’acciottolato prosaico di Petersham Road, incontro alla fortezza.
I fucili e i cannoni, nonché gli uomini dai volti mascherati, alcuni dei quali muniti di binocolo, seguirono la nostra avanzata.
Nell’avvicinarmi, potei osservare meglio la fortezza. Come ho detto, era lunga più di ventiquattro metri, e alta forse tre. I fianchi erano blindati. Nella parte superiore spiccavano una fitta serie di portelli da cui spuntavano armi e strumenti d’osservazione. Dalla parte posteriore fuoriuscivano getti di vapore. Sotto il bordo blindato inferiore, che era largo una trentina di centimetri e non toccava il suolo, non si scorgevano ruote, bensì oggetti simili a zampe d’elefante, ma più grandi: a giudicare dalle tracce che lasciavano sulla strada, dovevano avere la superficie inferiore scanalata, per aumentare l’aderenza. Capii che era grazie a quella sorta di zampe che la macchina riusciva a mantenere un assetto orizzontale nonostante la pendenza.
Nella parte anteriore, la fortezza era munita di un rullo, fissato a due sostegni laterali, dal quale pendevano, senza toccare il suolo, pesanti catene che oscillavano producendo un clangore strano. Era evidente che il rullo poteva essere abbassato per fare in modo che le catene percuotessero il terreno, tuttavia non riuscii a immaginare quale potesse essere la funzione di quell’apparecchio.
Ci fermammo a meno di dieci metri dal muso della macchina, mentre i fucilieri ci tenevano sotto tiro e una brezza capricciosa ci soffiava il vapore addosso.
La comparsa della fortezza mi aveva colmato d’orrore, perché significava che ormai neppure il mio passato era stabile e affidabile, bensì poteva essere modificato, secondo i capricci dei viaggiatori temporali. Non potevo sfuggire agli influssi della macchina del tempo: era come se, una volta inventata, i suoi effetti si propagassero nel passato e nel futuro, come onde suscitate da un sasso gettato nel placido fiume del tempo.
Le mie riflessioni furono interrotte da Mosè: — Credo che sia inglese.
— Cosa? Perché dici questo?
— Non ti sembra un’insegna militare, quella sopra il bordo? Evidentemente, la vista del mio giovane alter ego era più acuta della mia. Scrutando con maggiore attenzione, mi sembrò, anche se non mi ero mai molto interessato agli argomenti militari, che Mosè avesse ragione.
Intanto, questi lesse le scritte in nero sulla macchina: — ‘‘Munizioni”… “Carburante”… se non appartiene a una colonia britannica, è americana, e proviene da un futuro vicino, in cui il linguaggio non è cambiato molto.
Si udì uno stridio metallico. Un volante girò sul fianco della fortezza, un portello si aprì verso l’esterno, un lustro bordo metallico scintillò, a contrasto con la tinta scura delle blinde, e s’intravide l’interno buio, simile a una caverna d’acciaio.
Fu gettata una scala di corda. Un soldato scese e s’incamminò sulla strada verso di noi. Indossava un berretto nero con un distintivo sulla fronte, un’uniforme di canapa pesante in un sol pezzo, con il collo dal bordo cachi, aperto, ed enormi spallacci metallici. Alla cintura aveva una giberna e una fondina aperta con una pistola, da cui non allontanava mai troppo le mani guantate.
Ma la caratteristica più sorprendente era una maschera che racchiudeva tutta la testa ed era dotata di grandi occhiali tondi e dalle lenti affumicate, nonché di una sorta di proboscide da insetto.
— Accidenti… — sussurrò Mosè. — Che aspetto!
— Davvero — concordai, in tono truce, giacché avevo capito subito la funzione di quell’equipaggiamento. — È per difendersi da eventuali gas. Vedi? Non ha un centimetro quadrato di pelle scoperto. E gli spallacci debbono avere la funzione di proteggerlo da dardi, magari avvelenati. Mi chiedo quali altre protezioni abbia sotto la tuta. Quale epoca mai ritiene necessario dover mandare indietro nel tempo un simile individuo, fino all’innocente 1873? Quella fortezza arriva da un futuro tenebroso, Mosè: un futuro di guerra.
Il soldato si avvicinò ancora, prima di parlare nel tono brusco che, sebbene attutito dalla maschera, era assolutamente caratteristico degli ufficiali, e in una lingua che sul momento non riconobbi.
Intanto, Mosè accostò il viso al mio: — È tedesco! Ma ha parlato con una pessima pronuncia. Che cosa diavolo sta succedendo?
Avanzai di alcuni passi, con le mani alzate: — Siamo inglesi. Ci capisce?
Non potevo vedere il suo volto, ma dal movimento delle spalle mi parve che il soldato provasse sollievo. Con una voce dal cui tono compresi che intrappolato in quel carapace da guerra stava un giovane, rispose, sempre in modo brusco: — Benissimo. Seguitemi, prego.
A quanto pareva, non avevamo molta scelta.
Il giovane militare attese presso la fortezza, con la mano sulla pistola, mentre salivamo per entrare.
— Mi dica una cosa… — domandò Mosè. — A che cosa servono le catene appese dinanzi al veicolo?
— E un apparecchio antimine — rispose l’ufficiale mascherato.
— Antimine?
— Le catene percuotono il suolo, mentre il Raglan avanza. — Con le mani guantate, l’ufficiale mimò ciò che stava descrivendo, pur senza perdere d’occhio Mosè. Era evidentemente britannico, visto che aveva creduto che noi fossimo tedeschi. — Fa esplodere in anticipo le mine interrate.
Dopo una breve esitazione, Mosè mi seguì ed entrò: — È un’ammirevole applicazione dell’ingegnosità britannica… e guarda lo spessore delle blinde: i proiettili vi si schiaccerebbero come gocce di pioggia. Di sicuro, soltanto un cannone da campo potrebbe rallentare questa macchina!
Il pesante portello si chiuse alle nostre spalle con un tonfo sordo e un rumore di guarnizioni in gomma.
Così, la luce del giorno scomparve.
Scortati, percorremmo uno stretto corridoio che attraversava la fortezza in tutta la lunghezza, illuminato in maniera del tutto insufficiente da due lampade elettriche. Nello spazio chiuso, il rumore dei motori riecheggiava in maniera assordante. Nell’aria ristagnavano gli odori di lubrificante, petrolio e cordite. Il calore era eccessivo, tanto che cominciai subito a sudare.
L’interno della fortezza mi si rivelò in una serie fugace d’impressioni tra luce fioca e oscurità. Vidi lungo i fianchi le sagome di otto ruote, ciascuna di tre metri di diametro, protette dalle blinde. Nella parte anteriore, un soldato, che occupava un’alta sedia di canapa, era circondato da leve, quadranti, e quelle che sembravano tenti di strumenti d’osservazione: immaginai che fosse il conducente. Nella parte posteriore erano situati i motori e i meccanismi di trasmissione: nell’oscurità, le macchine sembravano più ombre di mostri che oggetti costruiti dall’uomo. I soldati che le azionavano, protetti da maschere e guanti pesanti, avevano tutto l’aspetto di custodi d’idoli metallici.
In ognuno dei compartimenti stretti e scomodi situati in alto stava un soldato, visibile come un’ombra di profilo, ciascuno munito di diverse armi e di diversi strumenti ottici, quasi tutti di tipi a me ignoti, che fuoriuscivano dai portelli. I fucilieri e i macchinisti erano circa due dozzine, tutti mascherati, tutti abbigliati con berretti e uniformi simili a quelli del giovane ufficiale. E tutti ci fissarono senza nascondere la loro curiosità: si può bene immaginare quanto l’attirasse il Morlock!
Era un luogo tetro e spaventoso: un tempio semovente consacrato alla Forza Bruta. Non potei fare a meno di confrontare la sua tecnica rozza con quella raffinatissima dei Morlock della Sfera.
L’ufficiale ci raggiunse. Al sicuro nella fortezza, si era tolto la maschera, che gli pendeva sul petto come la pelle di una faccia scuoiata. Il suo viso, con le guance bagnate di sudore, confermava che era davvero giovane come avevo immaginato. — Seguitemi, prego — invitò. — Il capitano desidera darvi il benvenuto a bordo.
In fila, preceduti dall’ufficiale, c’incamminammo prudentemente, sulle strette passerelle metalliche, verso la prua della fortezza, sempre scrutati in silenzio dai soldati. A piedi nudi, Nebogipfel camminava quasi silenziosamente.
Vicino alla prua, un po’ dietro alla postazione del conducente, era installata una cupola d’ottone e di ferro che sporgeva dal tetto, all’interno della quale stava un militare mascherato, con le mani unite dietro la schiena, il quale, a giudicare dal portamento, doveva essere il comandante della fortezza. Indossava un berretto e un’uniforme simili a quelli dell’ufficiale, con gli spallacci metallici e la pistola alla cintura, ma anche due bandoliere incrociate, nonché diverse insegne e parecchie decorazioni sul petto.
Con estrema curiosità, Mosè si guardò attorno, quindi indicò una scala sospesa sopra il capitano: — Guardate… scommetto che può abbassarla mediante le leve che ha accanto, per poi salire nella cupola e guardare fuori, tutt’intorno, in modo da raccogliere ogni informazione necessaria per impartire le istruzioni ai macchinisti e agli artiglieri. — Sembrava impressionato dall’ingegnosità con cui era stato progettato e costruito quel mostro guerresco.
Il capitano si fece innanzi, zoppicando vistosamente. Quando si tolse la maschera, rivelando il proprio viso, vidi che era ancora giovane ed evidentemente ancora abbastanza sano, nonostante il pallore straordinario. Il suo volto attento, calmo, intelligente e onesto, che rivelava una competenza profonda, mi fece pensare a un ufficiale di marina. Si tolse un guanto e mi offrì la mano piccola. Stringendola come se fosse stata quella di un bambino, fissai l’ufficiale, incapace di celare il mio sbalordimento.
— Non mi aspettavo tanti passeggeri — dichiarò il comandante. — Per la verità, suppongo che non sapessimo che cosa aspettarci… Comunque, siete i benvenuti: vi garantisco che sarete trattati bene. — Aveva una voce dolce, ma era costretto a gridare per sovrastare il fragore dei motori. Con una sfumatura di divertimento negli occhi azzurri, osservò Mosè e Nebogipfel. — Benvenuti sul Lord Raglan. Il mio nome è Hilary Bond. Capitano del Nono Battaglione del Reggimento Corazzati Reali.
Era vero! Quell’ufficiale, protagonista di mille battaglie e al comando della più terribile macchina da guerra che avessi mai potuto immaginare, era una donna’.
Rivelando una cicatrice sul mento, Bond sorrise: capii che non poteva avere più di venticinque anni.
— Ascolti, capitano… — dissi. — Esigo di sapere in base a quale diritto ci ha presi prigionieri.
Per nulla turbata, Bond rispose: — Sono impegnata in una missione che ha priorità di difesa nazionale. Mi dispiace…
In quel momento si fece innanzi Mosè, che con il suo sgargiante abito da damerino sembrava straordinariamente fuori posto nel tetro e severo interno militare: — Signora capitana, non esiste alcuna necessità di difesa nazionale nell’anno 1873!
— Però esiste nell’anno 1938. — Bond emanava un’autorità incrollabile: capii che era assolutamente irremovibile. — La mia missione consiste nel proteggere la ricerca scientifica che si sta svolgendo in quella casa di Petersham Road: in particolare, debbo dissuadere da qualsiasi interferenza anacronistica con il processo che vi si deve svolgere.
— Interferenza anacronistica… — Mosè fece una smorfia. — Se non sbaglio, si riferisce ai viaggiatori temporali…
Sorrisi: — Una bella definizione, “dissuadere”! Credete di avere abbastanza armi per compiere efficacemente questa operazione di “dissuasione”?
— Capitano Bond… — intervenne lentamente Nebogipfel. — Sicuramente si rende conto che la sua missione è assurda dal punto di vista razionale. Sa chi sono costoro? Come può proteggere la ricerca quando il suo iniziatore — e con una mano villosa indicò Mosè — viene rapito dall’epoca alla quale appartiene?
Allora Bond scrutò per un lungo istante il Morlock, poi volse la propria attenzione a Mosè e a me: in quel momento, mi sembrò che notasse, come per la prima volta, la nostra somiglianza. C’interrogò tutti, per ottenere conferma della veridicità della rivelazione di Nebogipfel, nonché per stabilire l’identità di Mosè. Ritenevo che comunque avessimo poco da guadagnare, però dissi la verità, pensando che forse saremmo stati trattati con maggiore considerazione, se ci fosse stata riconosciuta un’importanza storica. In ogni modo, minimizzai la mia identità con Mosè.
Alla fine, Bond sussurrò brevi istruzioni all’ufficiale, che si allontanò. Poi dichiarò: — Al nostro ritorno, informerò di tutto ciò il ministero dell’aria: sono certa che s’interesserà molto a voi, e che allora avrete ampia opportunità di discutere il problema con le autorità.
— Ritorno?! — sbottai. — Ritorno? Intende dire… nel 1938?
— Credo, purtroppo — rispose Bond, tesa — di non essere in grado di affrontare i paradossi del viaggio temporale. Ma senza dubbio i cervelli fini del ministero risolveranno tutto.
Con una sfumatura isterica, Mosè scoppiò a ridere fragorosamente: — Oh, questa è bella! Questa è proprio bella! Adesso non ho più nessun bisogno di preoccuparmi della costruzione della dannata macchina del tempo!
— Temo — Nebogipfel mi guardò cupamente — che questa successione di colpi alla causalità ci stia allontanando sempre più dal corso originale della storia, il quale esisteva prima che la macchina del tempo iniziasse il suo primo viaggio…
— Posso capire la vostra costernazione — interruppe la capitana. — Ma vi assicuro che non vi nuoceremo in alcun modo: al contrario, la nostra missione consiste nel proteggervi. Inoltre — aggiunse amabilmente — mi sono presa il disturbo di portare qualcuno che possa aiutarvi ad ambientarvi fra noi: lo si potrebbe definire un nativo dell’epoca.
Lentamente arrivò dal corridoio buio un uomo che, come tutti gli altri soldati, portava una maschera appesa sul petto, gli spallacci, e la pistola. L’uniforme, però, era nera, semplice, quasi sciatta, priva di distintivi. Sembrava vecchio, a giudicare dalla pancia prominente e dal passo dolorante.
Con voce fievole, udibile a stento nel fragore dei motori, costui mi disse: — Buon Dio! Sei tu! Sono armato fino ai denti per affrontare i tedeschi, ma sai… Non mi aspettavo di vederti ricomparire, dopo quell’ultima cena del giovedì… E di sicuro non in circostanze come queste!
Quando la luce illuminò quell’uomo, rimasi ancora una volta costernato, perché anche se restava appena una traccia di rosso nella chioma grigia, e la fronte era sfigurata da una brutta cicatrice, che sembrava la conseguenza di un’ustione, e gli occhi erano spenti, e le spalle curve, era inequivocabilmente Filby.
— Che io sia dannato!
Ridendo, Filby mi si avvicinò. Gli strinsi la mano fragile, macchiata dalla discromia, giudicando che non avesse meno di settantacinque anni.
— Forse sei dannato tu, e forse lo siamo tutti! Nondimeno, sono felice di rivederti. — Filby lanciò a Mosè un’occhiata alquanto strana, ciò che non mi parve affatto sorprendente.
— Filby! Accidenti! Ho tante domande da porti, che non so da quale incominciare!
— Ci scommetto! Ecco perché mi hanno ripescato dalla casa di riposo alla Cupola di Bournemouth. Sono incaricato dell’acclimatazione, come viene definita. Insomma, debbo aiutare voi nativi dell’epoca ad ambientarvi. Capisci?
— Ma, Filby… Mi sembra soltanto ieri… Come hai potuto diventare…?
— Così? — Filby indicò il proprio corpo decrepito con un gesto di cinica noncuranza. — Come sono diventato così? Per effetto del tempo, amico mio: il fiume portentoso su cui volevi farci credere di essere in grado di navigare. Ebbene, il tempo non è amico dell’uomo comune. Io ho viaggiato nel tempo nella maniera più difficile, ed ecco le conseguenze. Per me sono trascorsi quarantasette anni da quell’ultimo incontro a Richmond, e dalla tua piccola esibizione di magia con il modellino della macchina del tempo… Lo ricordi? E dalla tua successiva scomparsa nel futuro.
— Eppure sei sempre lo stesso vecchio Filby — risposi, con affetto, afferrandogli un braccio. — Persino tu devi ammettere, infine, che avevo ragione a proposito del viaggio temporale!
— Un gran bene ha fatto a tutti noi… — brontolò Filby.
— E ora — intervenne Bond — se volete scusarmi, signori… Ho un corazzato da comandare. Saremo pronti a partire fra pochi minuti. — Con un cenno della testa a Filby, tornò al suo equipaggio.
— Venite… — sospirò Filby. — C’è un ambiente, in fondo, dove possiamo accomodarci: è un po’ meno rumoroso e sporco di questo.
Così, c’incamminammo verso la parte posteriore del fortino.
Nel percorrere il corridoio centrale, ebbi la possibilità di osservare meglio il sistema di locomozione. Sotto le passerelle, vidi che le zampe di elefante che avevo già notato erano connesse, per mezzo di quelle che sembravano gambe corte, alle ruote, le quali, lasciando cadere pezzi di fango e di acciottolato, giravano mediante una doppia serie di assi che consentiva di sollevarle o di abbassarle. Mediante pistoni pneumatici, era possibile alzare e abbassare anche le zampe. In tal modo, la macchina poteva mantenere il proprio assetto anche sul suolo più impervio o più ripido.
Indicando l’intelaiatura della macchina corazzata, Mosè osservò in tono pacato: — Guarda… Non noti qualcosa di strano, là, e là? Quella struttura sembra di quarzo… è difficile capire che funzione abbia…
Benché non potessi esserne certo, alla luce delle lontane lampade elettriche, mi sembrò, scrutando la struttura di quarzo e di nichel, di scorgere una strana traslucidità verde, la quale mi parve più che familiare!
— È plattnerite — sussurrai a Mosè. — La struttura ne è stata cosparsa. Nonostante la luce incerta, non posso sbagliare: sono convinto che quei pezzi provengano dal mio laboratorio. Sono ricambi, prototipi e scarti rimasti dalla costruzione della macchina del tempo.
— Così — annuì Mosè — sappiamo almeno che questa gente non ha ancora imparato a produrre autonomamente la plattnerite.
Allora Nebogipfel si avvicinò per indicare un oggetto collocato in un recesso buio della sala macchine. Non fu facile, ma a furia di scrutare capii che si trattava della mia macchina del tempo, intatta e indenne, con la gabbia ancora macchiata d’erba, evidentemente recuperata da Richmond Hill e trasportata a bordo del fortino. Era assicurata per mezzo di quella che sembrava una ragnatela di funi.
Alla vista di quel potente simbolo di sicurezza, ebbi l’impulso quasi irrefrenabile di sfuggire, se possibile, ai soldati, di balzare a bordo della macchina, e magari di tornare nella mia epoca…
Sapendo però che sarebbe stato un tentativo vano, mi calmai. Anche se fossi riuscito a raggiungere la macchina (e non era possibile, perché i soldati mi avrebbero abbattuto in un istante), non sarei mai riuscito a ritrovare la mia epoca. Dopo quell’incidente, non avrei più potuto recarmi in nessuna versione del 1891 che avesse una minima somiglianza con l’anno sicuro e prospero che tanto follemente avevo abbandonato. Ero naufrago nel tempo!
— Che cosa ne pensi della macchina? — chiese Filby, percuotendomi una spalla con tutta la debolezza di un vecchio. — È stata progettata da sir Albert Stern, che si è distinto in questo campo sin dall’inizio della guerra. Mi sono interessato molto a questi mostri e alla loro evoluzione nel corso degli anni… Come sai, sono sempre stato affascinato dalla meccanica. Guarda… — E indicò i comparti della sala macchine. — Un’intera serie di motori Rolls Royce del tipo Meteor! E vedi quella? È una cassa ingranaggi Merrit-Brown. Abbiamo sospensioni Horstmann, e tre carrelli…
— Sì — interruppi. — Però, caro vecchio Filby, a che cosa serve tutto questo?
— A che cosa serve? Serve alla prosecuzione della guerra, naturalmente! — Filby gesticolò. — Questo è un corazzato di classe Kitchener: uno degli ultimi modelli. I corazzati sono stati progettati principalmente allo scopo di rompere l’assedio all’Europa: anche se sono costosi, inclini a guastarsi e vulnerabili all’artiglieria, sono in grado di superare qualunque ostacolo, tranne le trincee più larghe. Non ti sembra che Raglan sia un nome piuttosto appropriato? Lord Fitzroy Raglan, infatti, era il vecchio demonio che combinò quel gran pasticcio all’assedio di Sebastopoli, in Crimea. Forse il povero vecchio Raglan avrebbe…
— L’assedio all’Europa?
Mestamente, Filby mi guardò: — Scusa… Forse non avrebbero dovuto assegnarmi questo incarico, dopotutto… Continuo a dimenticare quanto poco devi sapere. Temo di essere diventato un povero vecchio rincoglionito. Ascolta… Devo dirti innanzitutto che siamo in guerra dal 1914.
— In guerra? E con chi?
— Be’, con i tedeschi, naturalmente. Con chi altri? Ed è veramente un guaio terribile…
Quelle parole, quella visione fugace di un’Europa futura ottenebrata da ventiquattro anni di guerra, mi raggelarono il cuore.
Entrammo in un ambiente di circa tre metri quadrati, che era poco più di una scatola metallica imbullonata all’interno del corazzato. Un’unica lampadina elettrica pendeva accesa dal soffitto. Le pareti erano rivestite di cuoio imbottito, che, oltre ad attutire il rumore dei motori, che pure si udiva ovunque come un cupo e continuo pulsare, attenuavano la tetraggine metallica del fortino. Sei semplici sedie, munite di cinghie di cuoio, erano fissate al pavimento, le une di fronte alle altre. L’arredamento era completato da un basso armadietto.
Dopo averci invitati, con un gesto, ad occupare le sedie, Filby si avvicinò all’armadietto: — Dovete assicurarvi. Quest’assurdità di saltare avanti e indietro nel tempo è scombussolante.
Seduti l’uno di fronte all’altro, Mosè ed io ci allacciammo le cinghie di sicurezza. Nebogipfel ebbe qualche difficoltà con le fibbie, perciò riuscì a stringere abbastanza le cinghie soltanto grazie all’aiuto di Mosè.
Quando Filby mi portò una tazza di tè e un biscottino, su un piattino di porcellana incrinato, non potei fare a meno di ridere: — I rivolgimenti del fato non cessano mai di stupirmi, Filby. Eccoci qui, in procinto di compiere un viaggio nel tempo a bordo di questo minaccioso fortino semovente… E tu ci servi tè e biscotti!
— Be’, questa impresa è già abbastanza difficile senza le comodità della vita. Tu dovresti saperlo!
Sorseggiai il tè tiepido, quindi, così corroborato (e credo, riflettendoci, che la mia condizione mentale fosse alquanto precaria, e che non volessi affrontare il mio futuro, né la prospettiva terribile della guerra del 1938), chiesi, in maniera incongrua e piuttosto maliziosa: — Dimmi, Filby… Non noti alcunché di, ehm, strano, nei miei compagni?
— Strano?
Quando gli ebbi presentato Mosè, il povero Filby rimase a fissarlo per un poco, con il risultato che il tè gli gocciolò lungo il mento.
— Ed ecco ciò che hanno di veramente sconvolgente i viaggi temporali — ripresi, con enfasi. — Dimentica tutti i discorsi sull’origine della specie o sul destino dell’umanità: è soltanto quando ci si trova faccia a faccia con se stessi da giovani, che ci si rende conto di che cosa significhi rimanere sconvolti!
Per un poco, il buon vecchio Filby, scettico fino all’ultimo, c’interrogò a proposito della nostra identità: — Credevo d’avere visto abbastanza mutamenti e portenti, in vita mia, anche senza la faccenda dei viaggi temporali. Ma adesso… Be’! — E sospirò.
Allora sospettai che avesse visto davvero un po’ troppo nel corso della sua lunga vita, poveretto: era sempre stato incline all’eccessiva preoccupazione, persino da giovane.
Mi curvai innanzi, per quanto le cinghie me lo consentissero: — Stento a credere che l’umanità sia divenuta tanto cieca e si sia tanto degradata… Dal mio punto di vista, questa vostra dannata guerra del futuro assomiglia molto alla fine della civiltà.
— Per l’umanità della nostra epoca — dichiarò solennemente Filby — forse lo è. Ma le giovani generazioni, che sono cresciute senza conoscere altro che la guerra e che non hanno mai sentito il sole in faccia senza la paura delle torpedini aeree… Be’, credo che vi siano abituate. È come se ci stessimo trasformando in una specie sotterranea.
Non riuscii a trattenermi dal lanciare un’occhiata al Morlock: — Qual è lo scopo di questa missione temporale?
— Non si tratta tanto di te, quanto della macchina. Secondo loro, era necessario garantire che la macchina del tempo venisse costruita. Capisci? La tecnologia temporale è vitale per lo sforzo bellico, o almeno, così ritengono alcuni. Loro capirono abbastanza bene come avevi proceduto nella tua ricerca, in base agli appunti che avevi lasciato, anche se non avevi mai pubblicato nulla sull’argomento. Esisteva soltanto lo strano resoconto del tuo primo viaggio nel futuro remoto, che ci avevi narrato durante il tuo breve ritorno. Dunque il Raglan è stato mandato a proteggere la tua casa da qualunque intrusione da parte di viaggiatori temporali… come te.
Allora Nebogipfel alzò la testa: — E così si è creata ulteriore confusione nella causalità. Evidentemente gli scienziati del 1938 non hanno ancora concepito il concetto della molteplicità. Non è possibile garantire alcunché a proposito del passato. Non si può cambiare la storia: è possibile soltanto generare nuove versioni…
Accorgendomi che Filby fissava quella visione sentenziante in abiti scolastici, da cui spuntavano membra villose, interruppi Nebogipfel: — Non adesso. Dimmi, Filby… Chi sono i loro a cui ti riferisci?
Sorpreso dalla domanda, Filby rispose: — I membri del governo, naturalmente.
— Di quale partito? — intervenne Mosè, con voce tagliente.
— Partito? Oh, tutto ciò appartiene ormai al passato. — Con questa frase, pronunciata in tono noncurante, Filby ci comunicò la raggelante notizia: in Gran Bretagna, la democrazia era morta. Quindi proseguì: — Ci aspettavamo tutti di trovare qui die Zeitmaschine, in giro per Richmond Park nella speranza di ammazzare un po’ di gente… — E sembrò rattristarsi. — Si tratta dei tedeschi: i dannati tedeschi! Stanno combinando ovunque i guai più spaventevoli… Proprio come hanno sempre fatto!
In quel momento, l’unica lampada elettrica si affievolì, i motori ruggirono, e io provai l’ormai familiare sensazione di precipitare inesorabilmente, la quale mi annunciò che il Lord Raglan mi stava conducendo a compiere un altro viaggio nel tempo.