Su Hyperion, a varie centinaia di anni luce, in direzione del centro galattico, dal pianeta T’ien Shan e dagli eventi che vi accadevano e dalle persone coinvolte, un vecchio e dimenticato signore uscì dal sonno senza sogni della crio-fuga a lungo termine e a poco a poco prese coscienza dell’ambiente che lo circondava. L’ambiente era un letto a sospensione senza contatto, un gruppo di moduli per sopravvivenza che lo circondavano e lo annusavano come altrettanti rapaci pasteggianti, innumerevoli tubicini, cavetti e cordoni ombelicali che concludevano il compito di nutrirlo, disintossicargli il sangue, stimolargli i reni, portare antibiotici a combattere le infezioni, controllare i segni vitali e in genere invadere il suo corpo e la sua dignità al fine di riportarlo in vita e mantenervelo.
«Ah, cazzo» gracchiò l’anziano signore. «Per i vecchi allo stadio terminale, svegliarsi è un maledetto fottuto merdoso incubo fotticadaveri. Darei un milione di marchi per scendere semplicemente dal letto e farmi una bella pisciata.»
«Buon giorno a lei, signor Sileno» disse l’androide femmina che controllava sul biomonitor sospeso i segni vitali del vecchio poeta. «Oggi pare di buon umore.»
«’fanculo tutte le puttanelle dalla pelle azzurra» biascicò Martin Sileno. «Dove sono i miei denti?»
«Ancora non le sono ricresciuti, signor Sileno» disse l’androide. Si chiamava A. Raddik e aveva poco più di tre secoli, meno di un terzo degli anni della vecchissima mummia a mezz’aria nel letto a sospensione.
«Non ne avrò bisogno» brontolò il vecchio. «Non starò merdosamente sveglio a lungo. Da quanto sono sotto?»
«Due anni, tre mesi e otto giorni» rispose A. Raddik.
Martin Sileno scrutò il cielo sopra la torre aperta. Il soffitto di tela del piano più alto della torre di pietra era stato arrotolato. Cielo turchese scuro. La bassa luce del primo mattino o della sera avanzata. Lo scintillio e il tremolio di ragnatelidi radianti che ancora non avevano acceso le loro fragili ali da farfalla larghe mezzo metro.
«Stagione?» domandò stentatamente Sileno.
«Tarda primavera» rispose l’androide. Altri servitori dalla pelle azzurra si muovevano dentro e fuori della stanza circolare, impegnati in chissà quali incarichi. Solo A. Raddik controllava gli ultimi stadi della ripresa dalla crio-fuga del vecchio poeta.
«Da quanto tempo se ne sono andati?» domandò Sileno. Non aveva bisogno di precisare a chi si riferiva. A. Raddik sapeva che il vecchio poeta si riferiva non solo a Raul Endymion, l’ultimo visitatore della loro città universitaria abbandonata, ma anche alla bambina Aenea, che Sileno aveva conosciuto tre secoli prima e che ancora sperava di rivedere un giorno o l’altro.
«Nove anni, otto mesi, una settimana e un giorno» rispose. «Tutti terrestri standard, ovviamente.»
«Hggrhh» grugnì il vecchio poeta. Continuò a scrutare il cielo. La luce del sole, filtrata dal telone a est, colpiva la parete sud della torre di pietra; il vecchio poeta non ne era colpito, ma aveva le lacrime agli occhi per la luminosità. «Sono diventato una creatura delle tenebre» brontolò. «Come Dracula. Ogni pochi anni mi alzo dalla fottuta bara per controllare il mondo dei viventi.»
«Sì, signor Sileno» convenne A. Raddik, cambiando posizione a varie manopole sul pannello di comando.
«Chiudi il becco, puttanaccia» disse il vecchio poeta.
«Sì, signor Sileno.»
Il vecchio gemette. «Fra quanto posso mettermi sulla sedia a cuscino d’aria, Raddik?»
La glabra androide sporse le labbra. «Ancora due giorni, signor Sileno. Forse due e mezzo.»
«Ah, inferno e dannazione» borbottò Martin Sileno. «Il ricupero diventa ogni volta più lento. Uno di questi giorni non mi sveglierò proprio, il macchinario di crio-fuga non mi riporterà indietro.»
«Sì, signor Sileno» convenne l’androide. «Ogni sonno freddo è più gravoso per il suo sistema. L’apparecchiatura di rianimazione e di supporto vita è piuttosto vecchia. Lei non sopravviverà a molti altri risvegli, è vero.»
«Oh, sta’ zitta» ringhiò Martin Sileno. «Sei una vecchia puttana morbosa e deprimente.»
«Sì, signor Sileno.»
«Da quanto tempo sei con me, Raddik?»
«Duecentoquaratuno anni, undici mesi, diciannove giorni. Standard.»
«E non hai ancora imparato a preparare una tazza di caffè decente.»
«No, signor Sileno.»
«Però hai messo il bricco sul fornello, giusto?»
«Sì, signor Sileno. Secondo i vostri ordini permanenti.»
«Sì, merda» disse il poeta.
«Ma per almeno altre dodici ore, signor Sileno, lei non riuscirà ad assumere oralmente liquidi.»
«Arrrggghhh!» disse il poeta.
«Sì, signor Sileno.»
Dopo parecchi minuti in cui parve che fosse scivolato di nuovo nel sonno, Martin Sileno disse: «Notizie dal ragazzo o dalla bambina?»
«No, signore» rispose A. Raddik. «Ma naturalmente al giorno d’oggi abbiamo accesso solo alla rete di trasmissioni della Pax nell’ambito del nostro sistema solare. E la maggior parte dei loro nuovi cifrari è molto buona.»
«Voci su quei due?»
«Nessuna di cui siamo sicuri, signor Sileno. La situazione è molto agitata, per la Pax — ribellioni in molti sistemi solari, guai con la crociata contro gli Ouster, un continuo movimento di navi da guerra entro i confini della Pax — e poi si parla del contagio virale, con massima circospezione e segretezza.»
«Il contagio» ripeté Martin Sileno e sorrise, mostrando gengive anziché denti. «La bambina, direi.»
«Possibilissimo, signor Sileno» disse A. Raddik. «Ma è anche possibile che ci sia una pestilenza virale vera e propria su quei pianeti dove…»
«No» disse il poeta, scuotendo la testa quasi violentemente. «È Aenea. E i suoi insegnamenti. Che si diffondono come l’influenza Beijing. Tu non ricordi la Beijing, vero, Raddik?»
«No, signore» disse l’androide, terminando il controllo dei dati e spostando sull’automatico il modulo. «Si verificò prima del mio tempo. Fu prima del tempo di chiunque. Tranne il suo, signore.»
Normalmente il poeta avrebbe reagito con qualche esclamazione oscena, ma stavolta si limitò ad annuire. «Lo so. Sono uno scherzo di natura. Paga il tuo quarto di dollaro e vieni a vedere l’attrazione, guarda l’uomo più vecchio della galassia, guarda la mummia che cammina e parla, più o meno, guarda la disgustosa creatura che si rifiuta di morire! Sono bizzarro, vero, A. Raddik?»
«Sì, signor Sileno.»
Il poeta borbottò qualcosa. «Be’» disse poi «non sperarci troppo, fata turchina. Non schiatterò prima di avere avuto notizie di Raul e di Aenea. Devo terminare i Canti e non conosco la fine, finché loro non l’avranno creata per me. Come so ciò che penso, finché non vedo ciò che fanno?»
«Precisamente, signor Sileno.»
«Smettila di darmela sempre vinta, fata turchina.»
«Sì, signor Sileno.»
«Quasi dieci anni fa, il ragazzo, Raul, mi domandò quali erano i suoi ordini. Gli dissi: salva la bambina, Aenea, rovescia la Pax, distruggi il potere della Chiesa, e riporta la Terra dov’è sempre stata, in qualsiasi fottuto posto sia finita. Disse che l’avrebbe fatto. A quel tempo, certo, era sbronzo marcio come me.»
«Sì, signor Sileno.»
«Ebbene?» disse il poeta.
«Ebbene cosa, signore?»
«C’è segno che abbia fatto davvero una delle cose che promise, Raddik?»
«Sappiamo dalle trasmissioni della Pax di nove anni e otto mesi fa che lui e la nave del console fuggirono da Hyperion» disse l’androide. «Possiamo augurarci che la bambina Aenea sia tuttora in buone condizioni.»
«Sì, sì» borbottò Sileno, agitando debolmente la mano. «Ma la Pax è stata rovesciata?»
«Non che ci risulti, signor Sileno» disse A. Raddik. «Ci sono stati quei piccoli guai di cui ho appena parlato e qui su Hyperion il turismo di cristiani rinati di altri pianeti è un po’ in crisi, ma…»
«E la fottuta Chiesa è ancora nel traffico di zombi?» domandò il poeta. La sua flebile voce era un po’ più forte.
«La Chiesa rimane dominante» disse A. Raddik. «Ogni anno un numero sempre maggiore di gente della brughiera e della montagna accetta il crucimorfo.»
«’fanculo tutti» disse il poeta. «E immagino che la Terra non sia tornata al suo posto.»
«Non abbiamo avuto notizia di quell’improbabile avvenimento» disse A. Raddik. «Naturalmente, come ho già detto, in questi giorni il nostro origliare elettronico è limitato alle trasmissioni planetarie; inoltre, da quando la nave del console è partita con il signor Endymion e la signorina Aenea, quasi dieci anni fa, le nostre capacità di decrittazione non sono state…»
«D’accordo, d’accordo» disse il poeta. Parve di nuovo terribilmente stanco. «Mettimi nella sedia a cuscino d’aria.
«Non ancora, per due giorni almeno, purtroppo» ripeté l’androide, in tono gentile.
«Piscia su per una corda» disse l’anziana figura sospesa fra tubicini e cavetti sensori. «Puoi spingermi fino alla finestra, Raddik? Per favore. Voglio guardare gli alberi chalma in primavera e le rovine di questa vecchia città.»
«Sì, signor Sileno» disse l’androide, sinceramente compiaciuta di fare qualcosa per il vecchio, oltre a tenergli funzionante il corpo.
Martin Sileno guardò dalla finestra per un’ora buona, lottando contro le ondate di sofferenza dovuta al risveglio e il terribile impulso di tornare in crio-fuga. Era mattino. Gli impianti audio gli trasmettevano il canto degli uccelli. Il vecchio poeta pensò alla giovane nipote adottiva, la bambina che aveva scelto per sé il nome Aenea, pensò alla cara amica Brawne Lamia, madre di Aenea, al lungo periodo in cui erano stati nemici e si erano odiati per una parte dell’ultimo grande pellegrinaggio allo Shrike, tanto tempo prima, alle storie che si erano raccontati e alle cose che avevano visto, lo Shrike nella valle delle Tombe del Tempo e i suoi occhi rossi e ardenti, lo studioso… come si chiamava?… Sol… Sol e la sua figlioletta in fasce che invecchiava a ritroso verso la non esistenza, e il militare, Kassad si chiamava, colonnello Kassad. Il vecchio poeta non aveva mai avuto considerazione per i militari, idioti tutti quanti, ma Kassad gli aveva raccontato una storia interessante, aveva vissuto una vita interessante, l’altro prete, Lenar Hoyt, era stato un presuntuoso e un cazzone, ma il primo, quello con gli occhi tristi e il diario rilegato in pelle, Paul Duré, ecco un uomo su cui valeva la pena scrivere…
Martin Sileno scivolò di nuovo nel sonno, mentre la luce del mattino lo inondava, illuminava le sue innumerevoli rughe e la pelle trasparente, simile a pergamena, le vene azzurre visibili e pulsanti debolmente nella ricca luce. Non sognò: ma una parte della sua mente di poeta già tracciava le prossime stanze dei Canti mai terminati.
Il sergente Gregorius non aveva esagerato. Il padre capitano de Soya era stato terribilmente ferito e ustionato nell’ultima battaglia della sua nave, la Raffaele, ed era prossimo alla morte.
Il sergente ci aveva condotti nel tempio. L’edificio era bizzarro quanto il nostro incontro: all’esterno c’era una grossa stele di pietra intatta, un liscio monolito (Aenea disse en passant che era stato portato dalla Vecchia Terra, che un tempo si trovava all’esterno dell’originario Tempio dell’Imperatore di Giada e che nel migliaio d’anni in cui era stato sul sentiero dei pellegrini nessuno vi aveva mai inciso niente) e nel cortile sigillato e pressurizzato del tempio una ringhiera di pietra correva intorno a un masso tondeggiante che era in realtà la cima del T’ai Shan, il sacro Grande Picco del Regno di mezzo. Nell’edificio c’erano a disposizione dei pellegrini alcune stanzette per dormire e per pranzare; in una di queste trovammo il padre capitano de Soya e gli altri due superstiti, Carel Shan, ufficiale dei sistemi di fuoco, gravemente ustionato e privo di conoscenza, e Hoagan Liebler, presentato da Gregorius come "l’ex comandante in seconda" della Raffaele. Liebler era il meno grave dei quattro — braccio sinistro rotto, sorretto da una fascia, ma niente ustioni né altre ferite da impatto — ma aveva un’espressione silenziosa e remota, come se fosse sotto shock o se rimuginasse qualcosa.
Aenea rivolse subito l’attenzione al capitano Federico de Soya.
Il padre capitano era disteso in una delle scomode brandine per i pellegrini, nudo fino alla cintola, forse perché era stato spogliato da Gregorius, forse perché aveva perduto la parte superiore dell’uniforme nell’esplosione e nel rientro nell’atmosfera. Aveva i calzoni a brandelli. Era scalzo. L’unico punto del corpo che non fosse coperto di terribili ustioni era il petto col parassita crucimorfo, di un sano e nauseante colore rosa. I capelli erano bruciati completamente e la faccia era schizzata di ustioni da gocce di metallo liquido e da sferzate di radiazioni. Ma vidi che era stato un uomo notevole, soprattutto per gli occhi castani, umidi e turbati, non offuscati neppure dal dolore che in quel momento di sicuro lo sopraffaceva. Qualcuno gli aveva applicato su tutta la parte visibile del corpo uno strato di crema contro le ustioni, del salvapelle temporaneo, del disinfettante liquido; poi lo aveva collegato alla flebo del medikit standard della scialuppa. Ma quelle cure non avrebbero influito molto sul risultato finale. Avevo già visto ustioni da combattimento come quelle, non tutte provocate da scontri spaziali. Tre miei amici, durante i combattimenti nell’Artiglio di ghiaccio, erano morti nel giro di alcune ore perché non eravamo riusciti a portarli via. Le loro urla erano state talmente orribili da non poterle sopportare.
Il padre capitano de Soya non urlava. Vedevo benissimo che si sforzava di non gridare per il dolore. Ma rimase silenzioso, occhi concentrati nel terribile sforzo di stare in silenzio, finché Aenea non si inginocchiò al suo fianco.
Sulle prime de Soya non la riconobbe. «Bettz?» borbottò. «Argyle? No… sei morta nella tua postazione. Anche gli altri… Pol Denish… Elijah nel tentativo di liberare la scialuppa di poppa… i giovani soldati nel cedimento dello scafo a prua… ma mi pare… di conoscerti.»
Aenea cercò di prendergli la mano, vide che a de Soya mancavano tre dita, allora appoggiò la mano accanto a quella del prete capitano, sulla coperta macchiata. «Padre capitano» disse pianissimo.
«Aenea» disse de Soya, vedendola realmente per la prima volta. «Sei la bambina… quanti mesi a darti la caccia… ti ho vista uscire dalla Sfinge. Incredibile bambina. Sono felice che tu sia sopravvissuta.» Spostò lo sguardo su di me. «Raul Endymion. Ho visto il tuo dossier della Guardia nazionale. A momenti ti prendevo, su Mare Infinitum.» Fu travolto da un’ondata di dolore, chiuse gli occhi, si morsicò le labbra ustionate e insanguinate. Dopo un istante riaprì gli occhi e si rivolse a me. «Ho una cosa che ti appartiene. Bagaglio personale sulla Raffaele. Finita l’indagine, il Sant’Uffizio mi permise di tenerlo. Il sergente Gregorius te lo darà, dopo la mia morte.»
Risposi con un cenno d’assenso, ma non sapevo di che cosa parlasse, non ne avevo la minima idea.
«Padre capitano de Soya» bisbigliò Aenea «Federico… riesce a capirmi?»
«Sì» mormorò il prete capitano. «Analgesici… ho detto no al sergente Gregorius… non volevo scivolare via per sempre nel sonno. Andarmene dolcemente.»
Il dolore tornò. Vidi che gran parte del collo e del petto di de Soya si era screpolata e aperta, come scaglie bruciate. Pus e siero colavano sulle coperte sotto di lui. Il prete capitano chiuse gli occhi, finché l’ondata di sofferenza non diminuì; occorse più tempo, stavolta. Pensai a come mi ero piegato in due per il semplice dolore di un calcolo renale e cercai di immaginare il tormento di quell’uomo. Non ci riuscii.
«Padre capitano» disse Aenea «c’è per lei un modo di vivere…»
De Soya scosse con forza la testa, malgrado il dolore che di sicuro il gesto gli procurava. Aveva l’orecchio sinistro praticamente carbonizzato: un pezzetto si staccò e cadde sul cuscino. «No!» esclamò. «Ho detto a Gregorius… niente risurrezione parziale… un idiota, un idiota asessuato…» Un colpo di tosse che forse era una risata. «Mi è bastato, come prete. Comunque… sono stanco… stanco di…» Con i moncherini anneriti delle dita si batté la rosea doppia croce sul petto squamato e purulento. «Che muoia con me.»
Aenea annuì. «Non intendevo la risurrezione, padre capitano. Voglio dire vivere! Guarire.»
De Soya cercò di battere le palpebre, ma non ci riuscì: anche quelle erano bruciate. «Non prigioniero della Pax…» ansimò. Trovava l’aria per parlare solo quando esalava il respiro in un ansito tormentoso. «Mi… giustizieranno. Lo… merito. Ho ucciso molti innocenti… per difendere… gli amici.»
Aenea si chinò su di lui, in modo da farsi guardare negli occhi. «Padre capitano, la Pax dà ancora la caccia anche a noi. Ma abbiamo una nave. Con un robochirurgo.»
Il sergente Gregorius, stancamente appoggiato alla parete, mosse un passo. Carel Shan rimase incosciente. Hoag Liebler, perduto in chissà quale miseria privata, non reagì.
Aenea fu costretta a ripetere la frase, prima che de Soya capisse.
«Nave?» disse il prete capitano. «L’antica nave dell’Egemonia che vi permise la fuga? Disarmata, vero?»
«Sì» disse Aenea. «Non è mai stata armata.»
De Soya scosse di nuovo la testa. «Saranno state… cinquanta navi… classe Arcangelo… ad assalirci. Ne abbiamo… distrutte alcune… le altre… ancora lì… Nessuna possibilità… di raggiungere… un punto… di traslazione… prima che…» Chiuse di nuovo le palpebre, travolto dal dolore. Stavolta fu quasi portato via. Si riprese, come se tornasse da un luogo remoto.
«Tutto a posto» bisbigliò Aenea. «Ci penserò io. Lei sarà nel medibox. Ma c’è una cosa che dovrà fare.»
Il padre capitano de Soya parve troppo stanco per parlare, ma spostò la testa per ascoltare.
«Deve rinunciare al crucimorfo» disse Aenea. «Deve rinunciare a questo tipo d’immortalità.»
Il prete capitano ritrasse in una smorfia le labbra annerite. «Volentieri…» gracchiò «ma non posso… una volta accettato… crucimorfo… non si può… rinunciare…»
«Sì, si può» bisbigliò Aenea. «Se lei vuole, posso farlo sparire. Il nostro robochirurgo è vecchio. Non riuscirebbe a guarirla con il corpo infestato dal parassita. A bordo non abbiamo una culla di risurrezione…»
Allora de Soya allungò la mano verso di lei, con le due dita restanti le afferrò strettamente la manica del giubbotto termico. «Non importa… non importa se muoio… toglimelo. Toglimelo! Morirò da vero… cattolico… di nuovo… se puoi… aiutarmi… toglimelo!» Quasi gridò l’ultima parola.
Aenea si rivolse al sergente. «Ha una tazza o un bicchiere?»
«C’è la tazza del medikit» borbottò il gigante, cercandola. «Ma non abbiamo acqua…»
«Io ne ho un poco» disse la mia amica. Sganciò dalla cintura la borraccia con rivestimento isolante.
Mi aspettavo il vino, invece era solo l’acqua che avevamo messo nella borraccia prima di lasciare il Tempio a mezz’aria, un’infinità di ore fa. Aenea non si preoccupò di cercare tamponi disinfettanti o bisturi sterilizzati; mi chiamò vicino a lei, mi tolse dal cinturone il coltello da caccia e si passò la lama su tre polpastrelli, con un rapido movimento che mi fece accapponare la pelle. Il suo sangue fluì, rosso. Aenea tuffò le dita nella tazza di plastica trasparente, solo per un attimo, ma bastò a provocare nell’acqua filiformi volute scarlatte.
«Beva» disse al padre capitano de Soya, aiutandolo a sollevare la testa.
Il prete capitano bevve, tossì, bevve ancora. Quando Aenea gli depose la testa sul cuscino macchiato, chiuse gli occhi.
«In ventiquattro ore il crucimorfo sarà scomparso» mormorò Aenea.
Il padre capitano de Soya ripeté quel rauco verso simile a una risata chioccia. «Fra un’ora sarò morto.»
«Fra quindici minuti sarà nel robochirurgo» disse Aenea, toccandogli la mano meno ustionata. «Ora dorma, ma non mi muoia, Federico… non mi muoia. Abbiamo molto da dirci. E lei ha un grande servizio da compiere per me… per noi.»
Il sergente Gregorius si era avvicinato. «Signorina Aenea…» disse. Si interruppe, strusciò i piedi, riprovò. «Signorina Aenea, posso prendere un po’ di quella… acqua?»
Aenea lo guardò. «Sì, sergente… ma quando avrà bevuto, non potrà mai più portare un crucimorfo. Mai più. Niente risurrezione. E poi ci sono… effetti collaterali.»
Gregorius scacciò con un gesto ogni obiezione. «Per dieci anni ho seguito il mio capitano. Lo seguirò anche adesso.» Bevve un lungo sorso di acqua rosata di sangue.
De Soya aveva gli occhi chiusi. Pensavo che si fosse addormentato o che fosse svenuto per il dolore. Ma ora li aprì e disse a Gregorius: «Sergente, ti spiace portare al signor Endymion il pacco che abbiamo tolto dalla scialuppa?»
«Subito, capitano» disse il sergente. Frugò nel mucchio di detriti in un angolo della stanzetta e mi porse un tubo sigillato, lungo poco più di un metro.
Guardai il prete capitano. De Soya pareva galleggiare fra il delirio e lo shock. «Lo aprirò quando il capitano starà meglio» dissi al sergente.»
Gregorius annuì, prese la tazza, si accostò a Carel Shan e versò un po’ d’acqua nella bocca aperta dell’ufficiale privo di conoscenza. «Carel potrebbe morire prima dell’arrivo della vostra nave» disse. Alzò gli occhi. «O a bordo ci sono due medibox?»
«No» disse Aenea. «Ma il nostro ha tre scomparti. Potrà curare anche lei.»
Gregorius scrollò le spalle. Si avvicinò all’uomo col braccio rotto, Liebler, e gli offrì la tazza. L’uomo si limitò a fissarlo.
«Forse più tardi» disse Aenea.
Gregorius annuì e le restituì la tazza. «Il comandante in seconda era prigioniero sulla nostra nave» disse. «Una spia. Un nemico del capitano. Tuttavia il padre capitano ha rischiato la vita per tirarlo fuori della cella, si è ustionato per salvarlo. Non credo che Hoag capisca che cosa è accaduto.»
Allora Liebler alzò gli occhi. «Lo capisco» disse a voce bassa. «Solo, non lo capisco.»
Aenea si alzò. «Raul, mi auguro che tu abbia ancora il trasmettitore.»
Mi frugai nelle tasche e lo trovai subito. «Vado fuori e comunico a vista» dissi. «Userò lo spinotto della dermotuta. Ordini per la nave?»
«Fare presto» disse Aenea.
Non fu facile portare nella nave il padre capitano de Soya, quasi privo di conoscenza, e Carel Shan, svenuto. I due non avevano la tuta spaziale e all’esterno c’era in pratica il vuoto. Il sergente Gregorius ci disse di avere usato un pallone di trasferimento gonfiabile per trascinarli dal relitto della scialuppa al Tempio dell’Imperatore di Giada, ma il pallone era rimasto danneggiato. Avevo circa quindici minuti per riflettere sul problema. Quando comparve la nave, che scendeva sui repulsori EM e sulla coda di azzurre fiamme di fusione, le ordinai di atterrare proprio davanti alla camera stagna del tempio, di morfizzare la rampa elevatrice fino al portello stagno e di estendere il campo di contenimento intorno al portello e alla scala. Poi fu solo questione di prendere dal reparto infermeria le barelle a levitazione e disporvi i due uomini senza far loro troppo male. Shan rimase privo di conoscenza, ma la pelle di de Soya si squamava, mentre lo spostavano sulla barella. Il prete capitano si agitò e aprì gli occhi, ma non emise lamento.
Dopo mesi trascorsi su T’ien Shan, trovavo ancora familiare l’interno della nave del console, ma familiare come un sogno ricorrente che si ha di una casa dove si è vissuti molto tempo prima. Dopo avere messo nel robochirurgo de Soya e l’ufficiale dei sistemi di fuoco, provai uno strano effetto a stare sul tappeto del ponte del pozzetto olografico, con l’antico pianoforte Steinway, in compagnia di Aenea e di A. Bettik come sempre, ma anche di un gigante ustionato che reggeva ancora il fucile d’assalto e dell’ex ufficiale in seconda che rimuginava in silenzio sui gradini del pozzetto.
"Diagnosi completate nel robochirurgo" disse la nave. "Al momento la presenza dei noduli del parassita a forma di croce rende impossibile la cura. Devo concludere la cura o iniziare la crio-fuga?"
«Crio-fuga» disse Aenea. «Fra ventiquattr’ore il medibox dovrebbe essere in grado di intervenire su di loro. Per favore, tienili in vita e in stasi fino a quel momento.»
"Signorsì" disse la nave. E poi: "Signorina Aenea? Signor Endymion?".
«Sì» dissi io.
"Devo informarvi che, da quando ho lasciato la terza luna, sono stata individuata e seguita da sensori a lungo raggio. Mentre parliamo, almeno trentasette navi da guerra della Pax si dirigono da questa parte. Una è già in orbita di parcheggio intorno a questo pianeta; un’altra ha appena intrapreso l’insolita manovra di balzare in propulsione Hawking dentro il pozzo gravitazionale del sistema."
«Va bene» disse Aenea. «Non preoccuparti.»
"Ritengo che abbiano intenzione di intercettarci e di distruggerci" disse la nave. "E possono farlo, prima che lasciamo l’atmosfera."
«Lo sappiamo» sospirò Aenea. «Te lo ripeto, non preoccuparti.»
"Senz’altro" disse la nave, nel tono più efficiente che le avessi mai sentito usare. "Destinazione?"
«La fenditura bonsai a sei chilometri a est del Hsuan-k’ung Ssu» disse Aenea. «Del Tempio a mezz’aria. Svelta.» Guardò il cronometro da polso. «Però tieniti bassa, Nave. Nello strato di nubi.»
"Le nubi di fosgene o le nubi di particelle d’acqua?" volle sapere la nave.
«Più bassa possibile» disse Aenea. «A meno che le nubi di fosgene non ti danneggino.»
"Oh, no, certo" disse la nave. "Vuole che tracci una rotta che ci porti attraverso i mari di acido? Non farebbe differenza, per i radar di profondità della Pax, ma richiederebbe solo una piccola aggiunta di tempo e…"
«No» la interruppe Aenea. «Solo le nubi.»
Guardammo nella sfera del pozzetto olografico la nave che si lanciava giù dal baratro dei Suicidi e si tuffava per dieci chilometri nelle nubi grigie e poi nelle nubi verdi. Saremmo giunti alla fenditura nel giro di qualche minuto.
Eravamo tutti seduti sui gradini del pozzetto. Mi ricordai del tubo sigillato che de Soya aveva voluto darmi. Lo rigirai tra le mani.
«Su, lo apra» disse il sergente Gregorius. Si toglieva a poco a poco gli strati esterni dell’armatura da combattimento piena di squarci. Bruciature di lancia a energia avevano fuso gli strati inferiori. Pensai con sgomento alle condizioni del petto e del braccio sinistro del sergente.
Esitai: avevo detto che avrei aspettato che il prete capitano si fosse ripreso.
«Su, lo apra» ripeté Gregorius. «Il capitano ha aspettato nove anni l’occasione per restituirglielo.»
Non riuscivo a immaginare quale potesse essere il contenuto del tubo. E poi, come mai quell’uomo sapeva che un giorno o l’altro mi avrebbe incontrato? E come poteva avere qualcosa di mio da restituire?
Ruppi il sigillo del tubo e guardai dentro. Una sorta di tessuto strettamente arrotolato. Cominciavo finalmente a capire. Estrassi l’oggetto e lo srotolai per terra.
Aenea rise, deliziata. «Oddio!» esclamò. «In tutti i miei sogni su questo periodo non l’avevo mai previsto. Fantastico!»
Era il tappeto Hawking, il tappeto volante che, quasi dieci anni fa, aveva portato Aenea e me lontano dalla valle delle Tombe del Tempo. L’avevo perduto a… Impiegai un paio di secondi per ricordare dove. L’avevo perduto su Mare Infinitum, nove anni prima, quando il tenente della Pax che avevo appena tirato in salvo sul tappeto si era avventato contro di me, aveva estratto un coltello, mi aveva ferito e spinto in mare. Poi cos’era accaduto? Gli stessi uomini dell’ufficiale della Pax, sulla piattaforma marina galleggiante, avevano ucciso il loro superiore, con un nugolo di fléchettes; il tenente era caduto nel mare violetto e il tappeto Hawking era volato via… no, qualcuno sulla piattaforma l’aveva intercettato.
«Com’è finito nelle mani del padre capitano?» domandai. Già nel fare la domanda intuii la risposta. A quel tempo de Soya era il nostro implacabile inseguitore.
Gregorius annuì. «Il padre capitano ha trovato nel tappeto campioni del suo sangue e del suo DNA. Così abbiamo ottenuto dai militari della Pax su Hyperion il suo stato di servizio. Se avessimo avuto delle tute pressurizzate, oggi avrei usato quel maledetto aggeggio per scendere da quella montagna priva d’aria.»
«Funziona ancora?» dissi, sorpreso. Toccai i fili di volo. Il tappeto Hawking, più sbrindellato di quanto non ricordassi, si librò a dieci centimetri dal pavimento. «Che il diavolo mi porti!» esclamai.
"Saliamo alla fenditura secondo le coordinate che mi avete dato" annunciò la nave.
La scena nel pozzetto olografico si schiarì e mostrò la cresta Jo-kung che scorreva velocemente sotto di noi. Rallentammo e restammo librati un centinaio di metri nel vuoto. Eravamo tornati alla stessa valle boscosa dove la nave mi aveva scaricato più di tre mesi fa. Ma ora la verde vallata era piena di gente. Vidi Theo, Lhomo, molti altri del Tempio a mezz’aria. La nave si abbassò, rimase librata, aspettò ordini.
«Cala la rampa» disse Aenea. «Lascia che salgano a bordo.»
"Posso ricordarle" disse la nave "che ho cuccette di crio-fuga e attrezzature di supporto vita per un massimo di sei persone, in caso di un lungo balzo interstellare? Vedo almeno cinquanta persone lì nella…"
«Cala la rampa e prendile a bordo» ordinò Aenea. «Immediatamente.»
La maggior parte di coloro che erano rimasti al Tempio a mezz’aria ora si trovavano nella fenditura: molti monaci del tempio, il Tromo Tachi di Dhomu, l’ex soldato Gyalo Thondup, Lhomo Dondrub (fummo lieti di vedere che il parapendio l’aveva riportato al sicuro e dai suoi sorrisi e abbracci il piacere era reciproco), l’abate Kempo Ngha Wang Tashi, Chim Din, Jigme Taring, Kuku e Kay, George e Jigme, Labsang fratello del Dalai Lama, i muratori Viki e Kim, il sovrintendente Tsipon Shakabpa, Rimsi Kyipup, meno tetro di quanto non l’avessi mai visto, i montatori Haruyuki e Kenshiro, nonché gli esperti di bambù Voytek e Janusz, perfino il sindaco di Jo-kung, Charles Chi-kyap Kempo. Ma non c’era il Dalai Lama. E non c’era neppure la Dorje Phamo.
«Rachel è tornata a prenderli» disse Theo, ultima a salire a bordo. «Il Dalai Lama ha insistito per essere l’ultimo ad andarsene e la Scrofa Folgore è rimasta a tenergli compagnia fino al momento di partire. Ma ormai dovrebbero essere scesi. Ero pronta a risalire la cornice per vedere…»
Aenea scosse la testa. «Andremo insieme.»
Non c’era modo di far sedere e sistemare tutti: chi girava per le scale, chi stava in piedi nella biblioteca, chi era andato anche nella stanza da letto all’apice della nave per guardare dalla parete trasparente, chi si era fermato nel piano delle cuccette di crio-fuga o più giù nella sala macchine.
«Andiamo, Nave» disse Aenea. «Al Tempio a mezz’aria. Approccio diretto.»
Per la nave, l’approccio diretto fu una rapida accensione dei razzi, un arco di quindici chilometri nell’atmosfera e poi una caduta verticale sui repulsori, con l’intervento del motore principale all’ultimo istante. L’intera manovra richiese circa trenta secondi; il campo di contenimento impedì che restassimo tutti spiaccicati e la vista dalla parete trasparente di sicuro disorientò chi guardava fuori. Aenea, A. Bettik, Theo e io guardavamo il pozzetto olografico e anche quello spettacolo ridotto fu sconvolgente: mi venne voglia di afferrarmi alle paratie o di aggrapparmi al tappeto. Scendemmo a grande velocità e restammo librati cinquanta metri sopra il complesso del tempio.
«Maledizione!» esclamò Theo.
Avevamo visto un uomo precipitare nelle nubi sottostanti. Anche volendo, non avremmo potuto lanciarci in picchiata e prenderlo al volo: in un attimo lo sventurato era stato inghiottito dalle nubi.
«Chi era?» disse Theo.
«Nave» ordinò Aenea «ripeti e ingrandisci.»
Lo sventurato era Carl Linga William Eiheji, la guardia del corpo del Dalai Lama.
Qualche secondo più tardi, alcune figure emersero dal padiglione della Giusta Meditazione e si fermarono sulla piattaforma più alta, quella che meno di un mese prima avevo contribuito a costruire su progetto di Aenea.
«Merda» mi lasciai scappare. Nemes portava in una mano il Dalai Lama e lo teneva oltre il margine della piattaforma, sospeso nel vuoto. Dietro di lei c’erano i due cloni, maschio e femmina. Poi dall’ombra emersero anche Rachel e la Dorje Phamo.
Aenea mi strinse il braccio. «Raul, vuoi venire fuori con me?»
Aveva ordinato alla nave di estendere la loggia dietro lo Steinway, ma capii che non si riferiva solo a quello. «Certo» risposi, pensando: "È questa, la sua morte? Ciò che ha previsto prima di nascere? O è la mia morte?". «Certo che vengo» ripetei.
A. Bettik e Theo si mossero per uscire con noi sulla loggia. «No, per favore» disse Aenea. Toccò per un istante la mano dell’androide. «Puoi vedere tutto da dentro, amico mio.»
«Preferirei essere con lei, signorina Aenea» disse A. Bettik.
Aenea annuì. «Stavolta tocca a me e a Raul soltanto.»
A. Bettik chinò brevemente la testa e tornò a guardare l’immagine olografica. Nessuno di quelli nella biblioteca e sulla scala a chiocciola disse una parola. Nella nave c’era silenzio assoluto. Uscii con la mia amica nella loggia.
Nemes teneva ancora il Dalai Lama sospeso nel vuoto. Adesso eravamo venti metri più in alto di lei e dei suoi cloni. Mi domandai a quale altezza potessero arrivare con un salto.
«Ehi!» gridò Aenea.
Nemes alzò gli occhi. Mi tornò in mente l’effetto del suo sguardo: pareva di essere fissati da due orbite vuote. In quella creatura non c’era niente di umano.
«Mettilo giù» disse Aenea.
Nemes sorrise e lasciò andare il Dalai Lama. Con la sinistra lo afferrò al volo all’ultimo istante. «Soppesa bene le parole, bambina» disse.
«Se liberi lui e le due donne, vengo giù io.»
Nemes scrollò le spalle. «Tanto da qui non andresti via in ogni caso» disse, con voce normale, che però si udiva perfettamente.
«Lasciali liberi e verrò giù.»
Nemes scrollò di nuovo le spalle, ma gettò sulla piattaforma il Dalai Lama, come se fosse carta straccia.
Rachel corse accanto al bambino, vide che era ferito e sanguinante, ma vivo; lo rialzò e si girò, furibonda, verso Nemes e i suoi cloni.
«Nò!» gridò Aenea.
Non l’avevo mai sentita usare quel tono: inchiodò sul posto Rachel e anche me.
«Rachel» disse Aenea, con voce di nuovo calma «per favore, ora porta sulla nave Sua Santità e la Dorje Phamo.» Era un ordine espresso con cortesia, ma un ordine al quale non avrei mai potuto disubbidire. Neppure Rachel disubbidì.
La nave si abbassò lentamente, morfizzò la loggia in una scaletta e la estese. Aenea iniziò a scendere. Mi affrettai a seguirla. Mettemmo piede sulla piattaforma di cedro bonsai, avevo collaborato a sistemare tutte le assi, e Rachel passò davanti a noi, guidando il bambino e la vecchia su per la scaletta. Mentre Rachel passava, Aenea le toccò la testa. La scaletta si ritirò e tornò a essere la loggia. Theo e A. Bettik uscirono e restarono con Rachel e la Dorje Phamo. Qualcuno aveva portato dentro il bambino che sanguinava da varie ferite.
Eravamo a due metri da Rhadamanth Nemes. I due cloni l’affiancarono.
«Manca qualcuno» disse Nemes. «Dov’è il tuo… ah, eccolo.»
Lo Shrike fluì dalle ombre del padiglione. Dico fluì perché, anche se si era mosso, non l’avevo visto camminare.
Continuavo ad aprire e chiudere i pugni. Tutto era sbagliato, in quella resa dei conti. Sulla nave mi ero tolto il giubbotto termico, ma portavo ancora la stupida dermotuta e l’imbracatura da scalata, priva però di gran parte degli attrezzi. L’imbracatura e gli strati multipli mi avrebbero rallentato.
"Rallentato per cosa?" Avevo già visto Nemes in azione. Per meglio dire, non l’avevo vista, tanto era veloce. Quando lei e lo Shrike si erano affrontati su Bosco Divino, c’era stato un movimento confuso, poi delle esplosioni, poi niente. Nemes avrebbe potuto tagliare la testa a Aenea e usare le mie viscere per giarrettiere nel tempo che avrei impiegato io a stringere i pugni.
"Pugni." La nave era disarmata, ma nella biblioteca c’era il fucile d’assalto del sergente Gregorius. La prima cosa che ci avevano insegnato nella Guardia nazionale era: non combattere mai a mani nude, quando potresti ramazzare un’arma.
Mi guardai intorno. La piattaforma era pulita e spoglia: nemmeno una ringhiera da staccare e usare come bastone. Troppo ben costruita per strapparne un solo pezzo di legno.
Diedi un’occhiata alla parete a strapiombo alla mia sinistra. Niente pietre scalzate. Nelle fenditure erano rimasti piantati alcuni chiodi e tasselli da rocciatore (ci erano serviti per tenerci agganciati mentre costruivamo quel piano e il padiglione, ma poi non eravamo andati in giro a toglierli tutti) ma erano ben saldi e non sarei riuscito a estrarli (a Nemes probabilmente sarebbe bastato un solo dito) per usarli come arma. E poi, che cosa me ne facevo, di un chiodo o di un tassello a espansione, contro quel mostro?
Lì non c’era niente da usare come arma. Sarei morto a mani nude. Mi augurai di mettere a segno, prima che lei mi stendesse, un colpo, o almeno un tentativo di sventola.
Aenea e Nemes avevano occhi solo l’una per l’altra. Nemes si era limitata a un solo sguardo allo Shrike, dieci passi alla sua destra. Ora disse: «Sai che non ti riporterò alla Pax, eh, puttanella?»
«Sì» disse Aenea. Ricambiò con intensità lo sguardo dell’altra.
Nemes sorrise. «Ma credi che la tua creatura spinosa ti salverà di nuovo.»
«No» disse Aenea.
«Fai bene, perché non ti salverà.» Rivolse un cenno ai suoi cloni.
Adesso so i loro nomi, Scilla e Briareo. E so che cosa vidi dopo.
In teoria non avrei dovuto vedere nulla, perché in quell’istante tutt’e tre le creature mutarono di fase. In teoria doveva esserci solo un lampo confuso color cromo, poi il caos, poi niente… Ma Aenea mi toccò la nuca. Provai il solito formicolio elettrico del contatto fra la sua pelle e la mia, ma a un tratto la luce fu diversa, più fonda, più scura, e l’aria intorno a noi divenne densa come acqua. Mi accorsi che il mio cuore pareva essersi fermato; non battevo le palpebre, non respiravo. C’era di che allarmarsi, lo so, ma in quel momento non mi pareva importante.
Aenea mi bisbigliò nell’auricolare del cappuccio ripiegato della dermotuta, o forse mi parlò direttamente con quel tocco alla nuca, non saprei. "Non possiamo mutare di fase con loro né servircene per combatterli. È un abuso dell’energia del Vuoto che lega. Ma posso fare in modo che ci sia possibile guardare."
E ciò che vedemmo era davvero incredibile.
All’ordine di Nemes, Scilla e Briareo si lanciarono contro lo Shrike, mentre il demone di Hyperion alzava le quattro braccia e scattava in direzione di Nemes, solo per essere intercettato dai due cloni. Anche con la nostra capacità visiva alterata, la nave impietrita a mezz’aria, i nostri amici sulla loggia immobili come statue, un uccello sopra il precipizio imprigionato nell’aria densa, come un insetto nell’ambra, il movimento improvviso dello Shrike e dei due cloni fu quasi troppo veloce per seguirlo.
Ci fu un urto terribile a un metro da Nemes, che si era cambiata in un’argentea effigie di se stessa e che non trasalì nemmeno. Briareo vibrò un colpo che, ne sono convinto, avrebbe spezzato in due la nostra nave. Il pugno rimbalzò sul collo munito di punte dello Shrike, con un rumore di terremoto sottomarino riprodotto alla moviola; poi con un calcio Scilla mandò a gambe all’aria lo Shrike. E lo Shrike cadde lungo disteso, ma non prima d’avere afferrato Scilla, con due delle quattro braccia, e di avere conficcato profondamente in Briareo artigli affilati come rasoi.
I cloni di Nemes parvero accogliere con piacere il corpo a corpo e si lanciarono sullo Shrike, con denti che azzannavano a vuoto e unghie che artigliavano. Il profilo delle mani e delle braccia irrigidite dei cloni era affilatissimo, una lama da ghigliottina più tagliente delle lame e delle spine dello Shrike.
Le tre creature si colpirono e si azzannarono con frenesia selvaggia, rotolarono sulla piattaforma facendo schizzare in aria schegge di cedro bonsai, andarono a sbattere contro la parete rocciosa. In un secondo furono di nuovo in piedi. Le grandi mascelle dello Shrike erano chiuse sul collo di Briareo, mentre Scilla colpiva una delle quattro braccia del demone, la piegava all’indietro e pareva spezzargli un giunto. Sempre tenendo fra le mascelle Briareo, con un digrignare e raspare di denti sull’argentea testa del clone, lo Shrike si girò di scatto per affrontare Scilla, ma intanto i due lo avevano afferrato per le lame e le spine del cranio e spingevano all’indietro, tanto che mi aspettai di sentire lo schiocco del collo rotto e di vedere la testa rotolare lontano.
Nemes, invece, in qualche modo riuscì a trasmettere un ordine e senza un attimo d’esitazione i due cloni si staccarono dalla parete rocciosa e si lanciarono verso la ringhiera sul lato della piattaforma prospiciente l’abisso. Capii la loro intenzione: scagliare lo Shrike nel vuoto, fargli fare la fine della guardia del corpo del Dalai Lama.
Forse anche lo Shrike capì, perché strinse a sé i due cloni, con tanta forza che le punte nel petto e nei polsi penetrarono profondamente nel campo di forza degli avversari che si dibattevano e artigliavano. Il tre si girarono, ruzzolarono, balzarono in piedi come un folle giocattolo a molla in tre parti, regolato sul modo "iperveloce"; alla fine lo Shrike, con i due cloni chiaramente impalati nelle spine, andò a sbattere contro la robusta ringhiera di cedro, la squarciò come se fosse di cartone bagnato, e senza smettere di lottare precipitò nell’abisso.
Aenea e io guardammo l’alta figura argentea munita di scintillanti spine e le due figure più basse che continuavano a mulinare braccia e gambe, le guardammo cadere, cadere, divenire più piccole, più piccole, precipitare nelle nubi ed esserne inghiottite. Chi guardava dalla nave, lo sapevo, non aveva visto niente, a parte l’improvvisa scomparsa di tre delle figure sulla piattaforma, dove ora restavano solo Nemes, Aenea e io. L’argentea creatura che era Nemes girò verso di noi il viso cromato e inespressivo.
La luce cambiò. La brezza riprese a soffiare, l’aria tornò sottile. Sentii il cuore che all’improvviso riprendeva a battere, a pestare forte, e mossi rapidamente le palpebre.
Nemes era di nuovo nella sua forma umana. «Allora» disse a Aenea «mettiamo fine a questa piccola farsa?»
«Sì» disse Aenea.
Nemes sorrise e mutò di fase.
Non accadde niente. Nemes corrugò la fronte e parve concentrarsi. Ancora niente.
«Io non posso impedirti di mutare di fase» disse Aenea. «Ma altri possono, e l’hanno fatto.»
Per un istante Nemes parve irritata, poi scoppiò a ridere. «Coloro che mi hanno creato rimedieranno in un secondo, ma non ho voglia di aspettare tutto quel tempo e poi non ho bisogno di mutare di fase per ucciderti, puttanella.»
«Vero» disse Aenea. Per tutti quei secondi di violenza e di caos aveva mantenuto la posizione, a gambe un po’ divaricate, piedi piantati saldamente, braccia lungo i fianchi.
Nemes le mostrò i denti, piccoli e aguzzi; ma vidi che quei denti si allungavano, diventavano più acuminati, sporgevano maggiormente dalle gengive e dall’osso mascellare. Ce n’erano almeno tre file.
Nemes alzò la mano: le unghie, già lunghe, si allungarono di altri dieci centimetri, divennero lucenti punte.
Nemes calò sul suo braccio destro quelle unghie affilate e si strappò la pelle e la carne, mettendo in mostra una sorta di endoscheletro metallico che aveva il colore dell’acciaio, ma pareva molto più affilato.
«Ora» disse. Avanzò verso Aenea.
Mi misi fra loro.
«No» dissi. Alzai i pugni, come un pugile pronto a battersi.
Nemes mostrò tutte le sue file di denti.
Tempo e movimento sembrano rallentare di nuovo, come se il mondo abbia cambiato fase, ma stavolta è solo l’effetto dell’adrenalina e della concentrazione. La mia mente cambia marcia. I miei sensi diventano vigili in modo preternaturale. Vedo, intuisco e calcolo con irreale chiarezza ogni microsecondo.
"Nemes muove un passo, verso Aenea alla mia sinistra, non verso di me."
Più che uno scontro, è una partita a scacchi. Vinco se uccido la spietata puttana o se la butto giù dalla piattaforma quanto basta per svignarmela con Aenea. Lei, per vincere, non ha bisogno di uccidermi. Deve solo neutralizzarmi il tempo sufficiente a uccidere Aenea! Aenea è il suo bersaglio. Aenea è sempre stata il suo bersaglio! Quel mostro è stato creato per uccidere Aenea.
Partita a scacchi. Nemes ha appena sacrificato due dei suoi pezzi più forti, i suoi cloni, per neutralizzare il nostro cavallo, lo Shrike. Ora quei tre pezzi non sono più sulla scacchiera. Rimangono solo Nemes, la regina nera, Aenea, la regina della specie umana, e il leale pedone di Aenea, io.
Forse questo pedone dovrà sacrificarsi, ma non prima d’avere eliminato la regina nera. Su questo è ben deciso.
"Nemes sorride. Ha denti aguzzi, almeno tre file. Tiene ancora le braccia penzoloni, lunghe unghie luccicanti, braccio destro aperto come in un’oscena esibizione chirurgica, l’interno non è umano, no, non è per niente umano. Il profilo affilato dell’endoscheletro riflette la luce del pomeriggio."
«Aenea» dico a voce bassa «fatti indietro, per favore.» Questa piattaforma, la più alta, si unisce alla passerella di pietra e alla scala che abbiamo intagliato nella roccia per salire sulla passerella della sporgenza. Voglio che la mia amica non stia sulla piattaforma.
«Raul, io…»
«Arretra immediatamente!» Non alzo la voce, ma ci metto ogni grammo di tono di comando che ho imparato e che mi sono guadagnato con i miei trentadue anni di vita.
Aenea muove quattro passi indietro sulla cornice di roccia. La nave continua a stare sospesa cinquanta metri sopra di noi, più in fuori. Molti guardano dalla loggia. Con la forza del pensiero cerco di spingere Gregorius a farsi avanti e a usare il fucile d’assalto per fare a pezzi quella puttana di Nemes, ma non vedo fra gli spettatori il viso nero del sergente. Forse è troppo debole per le ferite. Forse ritiene che lo scontro debba essere leale.
"Leale un cazzo" penso. Non voglio uno scontro leale. Voglio uccidere Nemes non importa come. Accetterei volentieri aiuto da chiunque provenga. "Lo Shrike sarà davvero morto? Possibile? I Canti di Martin Sileno non parlano della sconfitta dello Shrike in una battaglia del lontano futuro contro il colonnello Fedmahn Kassad? Ma Sileno come faceva a saperlo? E che cosa significa, il futuro, per un mostro in grado di viaggiare nel tempo?" Se lo Shrike non è morto, apprezzerei molto che tornasse adesso.
"Nemes fa un altro passo a destra, la mia sinistra. Mi sposto a sinistra per bloccarle la strada verso Aenea." Quando muta di fase, quella creatura ha forza sovrumana e può muoversi con tale rapidità da essere letteralmente invisibile. "Ora non può più mutare di fase." Prego Iddio che sia vero. Ma Nemes può essere sempre più veloce e più forte di me, di qualsiasi essere umano. Devo presumere che lo sia. E ha denti, artigli e un braccio tagliente.
«Pronto a morire, Raul Endymion?» dice Nemes. Arriccia le labbra e mette in mostra le file di denti.
I suoi punti forti: probabile velocità, forza fisica, struttura non umana. Quasi certamente è più robot o androide che umana. E sono quasi sicuro che non sente il dolore. Inoltre può avere altre armi incorporate che ancora non ha rivelato. Non so proprio come ucciderla o renderla inoffensiva, ha scheletro metallico, non osseo, i muscoli visibili nel braccio sembrano abbastanza reali, ma potrebbero essere di fibre plastiche o di filo d’acciaio color carne. Poco probabile che le normali tecniche di combattimento la fermino.
I suoi punti deboli: non ne conosco. Forse la troppa fiducia nei suoi mezzi. Forse l’abitudine a mutare di fase, a uccidere nemici che non possono replicare. Però nove anni e mezzo fa ha affrontato lo Shrike e ha concluso in pareggio, l’ha battuto a dire il vero, perché l’ha tolto di mezzo per raggiungere Aenea. Solo l’intervento del padre capitano de Soya, che dall’orbita l’ha colpita con ogni gigavolt di energia disponibile nella nave, le ha impedito di ucciderci tutti.
"Ora Nemes alza le braccia e si raccoglie in posizione d’attacco, tiene protesi gli artigli." Che balzi riesce a fare? Può scavalcarmi con un salto per attaccare Aenea?
I miei punti di forza: due anni di pugilato per il reggimento, nel periodo di ferma nella Guardia nazionale. Odiavo il pugilato, perdevo due incontri su tre, però i miei compagni continuavano a scommettere su di me. Il dolore non mi fermava mai. Lo sentivo, certo, ma non mi fermavo. I colpi in faccia mi facevano vedere rosso; i primi tempi, quando qualcuno mi colpiva in viso, dimenticavo ogni tattica; e quando la nebbia rossa della furia si diradava, se ero ancora in piedi, finivo per vincere l’incontro. Ma la furia cieca adesso non serve a niente. Se mi distraggo un solo attimo, questa creatura mi uccide.
Ero veloce, quando tiravo di boxe, ma sono passati più di dieci anni. Ero forte, ma non mi sono più allenato e non ho più combattuto in tutti questi anni. Sul ring potrei assorbire forti colpi, che è cosa diversa dal cedere al dolore. Non sono mai stato messo knock-out sul ring, anche quando un pugile migliore di me mi mandava a tappeto dieci volte prima della conclusione del combattimento.
Oltre a tirare di boxe, avevo fatto il buttafuori in uno dei più grandi casinò di Felix, nelle Nove Code. Ma lì, nella maggior parte dei casi, era questione di psicologia: saper evitare la scazzottatura, mentre si buttava fuori della porta l’ubriaco molesto. Mi ero assicurato che le poche vere scazzottature terminassero nel giro di secondi.
Nella Guardia nazionale mi avevano insegnato il combattimento a corpo a corpo e come uccidere da breve distanza; ma occasioni del genere erano rare quasi quanto una carica alla baionetta.
Mentre lavoravo come barcaiolo, ero incappato nelle zuffe più serie, una volta contro un uomo pronto a sbudellarmi con un coltellaccio. A quello ero sopravvissuto. Ma in un altro caso un barcaiolo mi aveva steso. Come guida di cacciatori, me l’ero cavata contro un cliente che mi aveva sparato con una pistola a fléchettes. Purtroppo, senza volerlo, l’avevo ucciso e lui, dopo la risurrezione, aveva testimoniato contro di me. Ora che ci penso, questa storia è iniziata proprio da lì.
Di tutti i miei punti deboli, è il più grave: in realtà non voglio fare male a nessuno. In tutti i miei scontri, con le possibili eccezioni del barcaiolo armato di coltello e del cacciatore cristiano armato di pistola a fléchettes, avevo sempre trattenuto una parte di me, non volevo colpire con tutta la forza che avevo, non volevo fare troppo male agli avversari.
Devo cambiare immediatamente questo modo di pensare. Non ho contro una persona, ma una macchina assassina; e se non la fermo o la distruggo in fretta, quella mi uccide anche più in fretta.
"Nemes balza contro di me, usa gli artigli, ritrae il braccio destro e poi lo muove come una falce.
"Salto indietro, scanso la falce, scanso quasi tutti gli artigli, vedo la camicia sull’avambraccio sinistro lacerarsi, vedo il sangue annebbiare l’aria, poi avanzo di scatto e colpisco, rapido, con forza, tre volte in pieno viso.
"Nemes balza indietro con la stessa velocità con cui si è avventata. Ha sangue sulle lunghe unghie della sinistra. Sangue mio. Ha il naso appiattito, storto di lato. Le ho rotto qualcosa, osso, cartilagine, fibra metallica, dove aveva il sopracciglio sinistro. Non ha sangue sul viso. Pare non accorgersi del danno. Continua a ghignare.
"Mi guardo il braccio sinistro. Brucia da morire." Veleno? Può anche darsi, spiegherebbe il bruciore, ma se usa veleno, dovrei essere già morto. Non avrebbe motivo di usare sostanze ad azione lenta.
"Sono ancora vivo. Solo bruciore per i tagli. Quattro, profondi, ma non tanto da danneggiare il muscolo. I tagli non hanno importanza. Devo concentrarmi sui suoi occhi. Intuire che cosa farà dopo."
Mai usare le mani nude. Insegnamento della Guardia nazionale. Trovare sempre un’arma per il combattimento a distanza ravvicinata. Se l’arma in dotazione è rovinata o perduta, trovare altro, improvvisare, un sasso, un pesante ramo, una scheggia metallica, anche ciottoli nel pugno o chiavi fra le dita sono preferibili alle mani nude. Le nocche si rompono più in fretta della mascella, ci ricordava sempre il sergente istruttore. Se sei proprio costretto a usare le mani nude, usa il piatto della mano per colpire di taglio. Usa le dita irrigidite per impalare. Usa le dita piegate ad artiglio per mirare agli occhi e al pomo d’Adamo.
Non ci sono sassi, né rami, né chiavi, nessun tipo di arma. Quella creatura non ha pomo d’Adamo. Sospetto che i suoi occhi siano freddi e duri come bilie.
"Nemes si sposta di nuovo a sinistra, guarda verso Aenea."
«Arrivo, tesoruccio» sibila alla mia amica.
Con la coda dell’occhio ho una rapida visione di Aenea, in piedi sulla cornice di roccia, appena più in là della piattaforma. Non si muove. È impassibile. Non è da lei, normalmente la mia amata tirerebbe pietre, salterebbe sulla schiena del mio avversario, qualsiasi cosa, ma non mi lascerebbe combattere da solo contro questa creatura.
"È il tuo momento, Raul, amore mio." La sua voce è chiara come un bisbiglio nella mia mente.
È davvero un bisbiglio. Proviene dagli auricolari nel cappuccio della dermotuta. Indosso ancora la maledetta tuta sotto l’inutile imbracatura da scalata. Inizio a subvocalizzare una risposta, ma ricordo di essermi collegato al trasmettitore che ho ancora nel taschino, quando ho chiamato la nave dalla vetta del T’ai Shan; se parlo, trasmetto alla nave, non solo a Aenea.
"Mi sposto a sinistra, blocco di nuovo la strada a quella creatura. Ora c’è meno spazio di manovra.
"Stavolta Nemes si muove più velocemente, finta a sinistra e mena un fendente dalla mia destra, muove a manrovescio il braccio destro verso le mie costole.
"Salto indietro, ma la lama mi taglia la carne appena sotto la costola inferiore destra. Mi scanso, ma gli artigli scattano, le unghie della sinistra cercano i miei occhi, mi scanso di nuovo, ma le sue dita mi portano via un brandello di cuoio capelluto. Per un attimo l’aria torna a riempirsi di sangue atomizzato.
"Faccio un passo e muovo il braccio destro di rovescio, colpisco come se impugnassi una mazza. Il mio pugno entra in contatto col lato del suo collo, proprio sotto la linea della mascella destra. Carne sintetica si spiaccica e si lacera. Il metallo e i tubicini interni non si piegano.
"Nemes attacca ancora di rovescio, col braccio e gli artigli della sinistra. Balzo indietro. Il colpo va completamente a vuoto.
"Torno in avanti e le mollo un calcio all’incavo delle ginocchia, con la speranza di farle mancare le gambe. Siamo a otto metri dalla ringhiera fracassata sul margine più lontano della piattaforma. Se riesco a farla rotolare, anche a costo di precipitare con lei…
"È come prendere a calci un montante d’acciaio. La gamba mi diventa insensibile per la forza del calcio, ma Nemes non si muove. Fluidi e carne le colano dall’endoscheletro, ma lei non perde l’appoggio. Pesa di sicuro due volte me.
"Risponde al calcio e mi spezza un paio di costole sul lato sinistro del torace. Sento chiaramente lo schiocco. Mi manca il fiato di colpo, dolorosamente.
"Barcollo all’indietro, mi aspetto quasi di trovare le corde del ring, ma c’è solo la parete di pietra, dura e scivolosa. Batto la schiena contro un chiodo da rocciatore e per un attimo rimango stordito."
Ora so che cosa devo fare.
"Traggo un respiro e credo di respirare fuoco: ripeto in fretta varie volte l’operazione, sempre più dolorosa, mi convinco di poter respirare, cerco di riprendere fiato. Ho avuto fortuna, non penso che le costole rotte mi si siano conficcate nel polmone sinistro.
"Nemes allarga le braccia per impedirmi di scappare e si avvicina.
"Avanzo nel suo orrendo abbraccio, entro nel raggio micidiale del braccio fatto a lama e con i pugni la colpisco ai lati della testa, ci metto tutta la mia forza. Le sue orecchie si spiaccicano, stavolta a riempire l’aria è un liquido giallastro, ma sotto la carne illividita sento il solido permacciaio del cranio. Le mani mi rimbalzano. Barcollo all’indietro e per un momento ho mani e braccia inutilizzabili.
"Nemes spicca un salto.
"Appoggio la schiena alla roccia, alzo le gambe, la prendo in pieno petto mentre scende e la spingo via, con tutta la forza che mi resta in corpo.
"Mentre vola all’indietro, Nemes mena un fendente, mi taglia una parte dell’imbracatura, gran parte del giubbotto e della dermotuta, il muscolo sopra il torace."
Non ha tagliato il cavetto della ricetrasmittente. Bene.
"Fa una capriola all’indietro e atterra in piedi, ancora a cinque metri dal margine."
Non ho modo di spingerla sul margine della piattaforma e farla cadere. Lei non giocherà di sicuro la partita secondo le mie regole.
"Mi precipito contro di lei, a pugni alzati.
"Nemes porta su la sinistra, dita piegate a mezzo, in un rapido colpo che dovrebbe sventrarmi. Mi fermo a qualche millimetro da quel colpo micidiale e mentre lei tira indietro il braccio destro, preparandosi a tagliarmi in due, faccio perno sul piede, ruoto su me stesso e con un calcio la centro in pieno petto.
"Nemes si lascia scappare un grugnito e cerca di azzannarmi la gamba: le sue mascelle avanzano e si chiudono di scatto come quelle di un cane. I denti mi strappano il tacco e la suola dello stivale, ma mancano la carne.
"Riprendo l’equilibrio, mi tuffo di nuovo e con la sinistra le afferro il polso destro per evitare che il suo braccio usato come falce mi scarnifichi la spina dorsale. L’afferro per i capelli. Lei tenta di azzannarmi il viso: ho proprio davanti agli occhi le file di denti e l’aria fra noi è piena di saliva giallastra o del suo equivalente del sangue. Le piego all’indietro la testa e intanto giriamo su noi stessi, due violenti ballerini che fanno forza l’uno contro l’altra; ma i suoi capelli lisci e corti sono scivolosi per il mio sangue e per il suo lubrificante; le mie dita perdono la presa.
"Mi lancio ancora contro di lei per non farle riprendere l’equilibrio, sposto le dita verso le orbite e da dietro tiro con tutte le mie forze.
"La sua testa si piega all’indietro, trenta gradi, cinquanta, sessanta, dovrei sentire lo schiocco della spina dorsale, ottanta gradi, novanta. Il collo è ad angolo retto con il tronco, gli occhi simili a bilie sono freddi sotto le mie dita, le sue labbra si spalancano e i denti scattano per azzannarmi il braccio.
"Lascio la presa.
"Nemes scatta in avanti come spinta da una molla gigantesca. Mi pianta nella schiena gli artigli, mi raschia l’osso delle scapole.
"Mi rannicchio e con una serie di colpi brevi e duri la colpisco alle costole e al ventre. Due, quattro, sei colpi veloci, mentre mi rigiro, con la parte alta della testa contro il suo petto lacerato e oleoso: il sangue dai tagli al mio cuoio capelluto cola su tutt’e due. Qualcosa, nel suo petto o nel diaframma, si spezza con uno schiocco metallico. Nemes mi vomita liquido giallastro sul collo e sulle spalle.
"Mi ritraggo barcollando e lei mi lancia un sogghigno: denti acuminati brillano tra le bolle di bile giallastra che le gocciolano dal mento e cadono sulla piattaforma già scivolosa.
"Nemes urla, vapore che sibila da un bollitore moribondo, e si lancia di nuovo: il braccio-falce taglia l’aria in un invisibile arco.
"Salto indietro. Tre metri dalla parete di roccia o dalla cornice dove c’è Aenea.
"Nemes colpisce di rovescio, il suo braccio è un’elica, un sibilante pendolo d’acciaio. Ora può spingermi dove vuole.
"Mi vuole morto, o fuori dei piedi. Vuole Aenea.
"Balzo ancora indietro e stavolta la lama taglia stoffa proprio sopra la cintola. Mi sono spostato a sinistra, più verso la parete rocciosa che verso la cornice di roccia.
"Per quel secondo Aenea non è protetta. Non sono più fra lei e Nemes."
Il punto debole di quella creatura. Mi gioco tutto, la stessa Aenea, su questo: Nemes è un predatore nato. Così vicina a uccidermi, non può resistere all’impulso di finirmi.
"Nemes oscilla a destra, non rinuncia alla possibilità di balzare su Aenea, ma intanto mi insegue verso la parete di roccia. La falce si muove di rovescio verso la mia testa per una rapida decapitazione.
"Inciampo e rotolo ancora a sinistra, lontano da Aenea. Ora sono sul tavolato, agito le gambe.
"Nemes è sopra di me, mi schizza di liquido giallastro il viso e il petto. Alza il braccio-falce, lancia un grido, cala il braccio."
"Nave, atterra su questa piattaforma. Immediatamente. Senza discussioni!"
"Ansimo queste parole nel microfono della dermotuta e intanto rotolo contro le gambe di Nemes. Il braccio-falce colpisce il duro cedro bonsai nel punto dove un attimo prima c’era la mia testa.
"Sono sotto Nemes. La lama del braccio è profondamente conficcata nel legno. Per qualche secondo Nemes resta piegata per artigliarmi e non può fare leva per liberare il braccio. Un’ombra cala su di noi.
"Le unghie della sua sinistra mi lacerano la parte destra della testa: quasi mi tagliano l’orecchio, mi incidono la mascella, mancano per un pelo la giugulare. Col palmo della destra le spingo indietro il mento, cerco di impedire che le fauci si aprano e serrino i denti sul mio collo e sul viso. Nemes è più forte di me.
"Devo togliermi da sotto di lei: ne va della mia vita.
"Il suo braccio è ancora conficcato nella piattaforma, ma per Nemes è un vantaggio, l’aiuta a tenermi inchiodato.
"L’ombra diventa più scura."
Dieci secondi. Non di più.
"Nemes mi strappa la mano che le blocca la testa e con uno strattone libera la lama conficcata nel legno; barcolla e si tira in piedi. Sposta gli occhi a sinistra, dove c’è Aenea, indifesa.
"Rotolo lontano da Nemes, e lontano da Aenea, lasciando indifesa la mia amica. Mi aggrappo con le unghie alla fredda roccia per tirarmi in piedi. Non posso usare la destra, un tendine reciso in quegli ultimi secondi, così alzò la sinistra, prendo dall’imbracatura la fune di sicurezza, posso solo augurarmi che sia ancora intatta, e aggancio il moschettone al chiodo da rocciatore, con uno scatto metallico, come di manette che si chiudano.
"Nemes si gira di colpo a sinistra: ora mi lascia perdere, punta su Aenea, gli occhi simili a bilie di vetro nero. La mia amica mantiene la posizione.
"La nave atterra sulla piattaforma, spegne i repulsori EM e grava con tutto il peso sul tavolato, schianta con rumore lacerante il padiglione della Giusta Meditazione, riempie con le arcaiche pinne di coda quasi tutto lo spazio, manca per un pelo sia me sia Nemes.
"La diabolica creatura lancia un’occhiata, girando solo la testa, alla gigantesca nave nera che incombe su di lei; se ne disinteressa, è chiaro, e si acquatta per balzare su Aenea.
"Per un secondo penso che il cedro bonsai reggerà, che la piattaforma sia più robusta di quanto i calcoli di Aenea e la mia esperienza lascino credere, ma poi c’è un orrendo, lacerante rumore di legno schiantato e l’intera piattaforma della Giusta Meditazione e buona parte della scala che porta al padiglione della Giusta Preoccupazione si staccano dalla montagna.
"Le persone sulla loggia, che hanno assistito allo scontro, vengono sbattute all’interno, mentre la nave precipita."
"Nave!" ansimo nel microfono della dermotuta. "Resta sospesa!" Poi riporto l’attenzione su Nemes.
"La piattaforma precipita sotto i suoi piedi. Nemes spicca un balzo verso Aenea. La mia amica non si ritrae.
"Solo la piattaforma che precipita impedisce a Nemes di completare il balzo, che così risulta corto. Ma gli artigli urtano la cornice di roccia, lanciano scintille, trovano un appiglio.
"La piattaforma crolla in mille pezzi, si disintegra mentre precipita nell’abisso; dei pezzi colpiscono la piattaforma principale più in basso e ne strappano alcune parti, in altre provocano mucchi di detriti.
"Nemes penzola dalla cornice, raspa con gli artigli e con i piedi, appena un metro più in basso di Aenea.
"Io ho otto metri di corda di sicurezza. Uso la sinistra ancora buona, mentre il mio sangue rende la corda pericolosamente scivolosa, mollo alcuni metri e con un calcio mi stacco dalla parete dove sono appeso.
"Nemes si tira un po’ più in alto e riesce a mettere le dita sopra la cornice. Trova una crepa o una fenditura, si tira su e in fuori, come un esperto rocciatore che abbia ragione di una sporgenza. Ha il corpo inarcato, con i piedi struscia la pietra e si tira più in alto in modo da lanciarsi sulla cornice e contro Aenea, che non si è mossa.
"Dondolo lontano da Nemes, rimbalzo contro la roccia, sento la liscia pietra contro la sanguinante pianta del piede da cui Nemes ha strappato lo stivale, vedo che la fune da cui dipende la mia vita si è sfilacciata nella lotta, non so se mi reggerà per qualche altro secondo.
"Metto più forza nel dondolio e passo molto più in alto di Nemes, descrivendo un arco di pendolo.
"Nemes si tira ginocchioni sulla cornice dove c’è Aenea e si alza a meno di un metro dalla mia amata.
"Dondolo in alto, la roccia mi raschia la spalla destra, penso per un nauseante secondo di non avere velocità e corda sufficienti, ma poi sento di farcela, per un pelo, solo per un pelo.
"Nemes si gira di scatto mentre le arrivo alle spalle. Apro le gambe in un abbraccio, le chiudo intorno a lei, incrocio le caviglie.
"Nemes urla e alza il braccio-falce. Il mio inguine e il mio ventre non hanno protezione.
"Senza pensarci, senza pensare alla corda che si consuma e al dolore in tutto il corpo, tengo stretto, mentre la gravità e lo slancio ci riportano indietro, lei pesa più di me, e per un altro terribile secondo penzolo attaccato a lei e lei non si muove, ma non ha ancora ritrovato l’equilibrio, barcolla sul margine, dondolo all’indietro e cerco di spostare il centro di gravità verso le spalle sanguinanti, e Nemes si stacca dalla cornice.
"Apro immediatamente le gambe e la lascio.
"Nemes ruota il braccio, manca di un millimetro il mio ventre, mentre dondolo indietro e in fuori, ma il movimento la manda a precipitare più avanti, più lontano dalla cornice e dalla parete rocciosa, nel buco dove poco prima c’era la piattaforma.
"Striscio contro la parete dello strapiombo, cerco di arrestare lo slancio. La corda si spezza.
"Rimango a braccia larghe contro la parete, comincio a scivolare. La destra è inutile. Con le dita della sinistra trovo uno stretto appiglio, lo perdo, scivolo più velocemente, col piede sinistro trovo una sporgenza di un centimetro. Sporgenza e attrito mi trattengono contro la parete rocciosa il tempo sufficiente a dare un’occhiata da sopra la spalla sinistra.
"Mentre precipita, Nemes si torce, tenta di cambiare traiettoria quanto basta a conficcare gli artigli o il braccio-falce nel margine della piattaforma più bassa, l’unica che le resta.
"La manca di quattro o cinque centimetri. Cento metri più in basso colpisce un affioramento roccioso e riceve una spinta verso l’esterno, sopra le nubi. Un nugolo di scalini, pali, travi e piloni di piattaforma precipita un chilometro sotto di lei.
"Nemes urla, un frammentato, acuto e penetrante urlo di pura rabbia e di frustrazione, e l’eco rimbalza di roccia in roccia intorno a me."
Non riesco più a tenere la presa. Ho perduto troppo sangue e ho troppi muscoli lacerati. Sento la roccia scivolare sotto il petto, la guancia, il palmo, il piede in tensione.
Guardo alla mia sinistra per dire addio a Aenea, anche solo con gli occhi.
Il suo braccio mi afferra quando già inizio a staccarmi. Mentre guardavo Nemes precipitare, Aenea è salita in free-climbing sopra di me.
Il cuore mi batte all’impazzata: ho il terrore che il mio peso stacchi tutt’e due dalla roccia. Mi sento scivolare, sento la forte mano di Aenea scivolare, sono coperto di sangue. Aenea non mi lascia.
«Raul» dice. La voce le trema, ma di emozione, non di stanchezza o paura.
Il suo piede nella sporgenza è l’unica cosa che ci tiene contro la parete, ma Aenea libera la sinistra, la porta in alto e aggancia la sua corda di sicurezza al mio penzolante moschettone ancora attaccato al chiodo.
Scivoliamo tutt’e due in fuori, ci graffiamo. Aenea mi abbraccia subito, mi stringe con le gambe. È una ripetizione del mio abbraccio a Nemes, ma stavolta alimentato dall’amore e dalla passione di vivere, non dall’odio e dall’impulso di distruggere.
Cadiamo per otto metri, il limite della sua corda di sicurezza. Penso che il mio peso aggiunto strapperà il chiodo o spezzerà la corda.
Per il contraccolpo rimbalziamo tre o quattro volte, restiamo sospesi nel vuoto. Il chiodo tiene. La corda tiene. La stretta di Aenea tiene.
«Raul» dice di nuovo Aenea. «Mio Dio, mio Dio.» Credo che mi dia buffetti sulla testa, ma in realtà cerca di rimettere a posto i brandelli di cuoio capelluto e di impedire che l’orecchio si stacchi del tutto.
«Va tutto bene» cerco di dire, ma scopro di avere le labbra gonfie e sanguinanti. Non posso pronunciare le parole che devo dire alla nave.
Aenea capisce. Si sporge su di me e parla nel microfono della dermotuta. "Nave… vieni a prenderci. Presto."
L’ombra scende, si muove come per schiacciarci. La loggia è di nuovo affollata di persone a occhi sgranati, mentre la nave si stabilizza a tre metri da noi, grigi strapiombi da una parte e dall’altra ora, ed estende una passerella. Mani amiche ci traggono in salvo.
Aenea non smette di tenermi stretto con braccia e gambe finché non ci portano nella nave, sul tappeto della biblioteca, lontano dall’abisso.
Sento confusamente la voce della nave: "Ci sono navi da guerra che corrono nel sistema verso di noi. Una si trova proprio sopra l’atmosfera, diecimila chilometri a ovest, e si avvicina…".
«Portaci fuori di qui» ordina Aenea. «Su dritto e fuori. Tra un attimo di darò le coordinate all’interno del sistema. Vai!»
Ho le vertigini e chiudo gli occhi al ruggito dei motori a fusione. Ho la confusa impressione che Aenea mi baci, mi tenga stretto, mi baci le palpebre e la fronte insanguinata e la guancia. Piange.
«Rachel…» La voce di Aenea mi giunge come da molto lontano. «Puoi fare una diagnosi?»
Dita diverse da quelle della mia amata mi toccano brevemente. Sento fitte di dolore, ma sempre più remote. Il gelo scende su di me. Cerco di aprire gli occhi, ma non riesco: sono chiusi dal sangue rappreso o dal gonfiore o da tutt’e due.
«Le ferite che sembrano più gravi sono le meno pericolose» dice Rachel, con tono pacato ma professionale. «Le lacerazioni al cuoio capelluto e all’orecchio, la gamba rotta, eccetera. Credo però che abbia lesioni interne, non solo la frattura di costole, ma emorragie interne. E le ferite d’artiglio alla schiena arrivano al midollo spinale.»
Aenea piange ancora, ma usa un tono di comando. «Voi, Lhomo, A. Bettik, aiutatemi a metterlo nel medibox.»
"Mi spiace" mi giunge, remota, la voce della nave, appena al limite della coscienza "ma i tre scomparti del robochirurgo sono occupati. Il sergente Gregorius è crollato per le lesioni interne e si trova nel terzo scomparto. Tutti e tre i pazienti al momento sono tenuti in vita artificialmente e non possono essere rimossi."
«Maledizione» impreca sottovoce Aenea. «Raul? Amore mio, riesci a sentirmi?»
Sto per rispondere, per dire che mi sento bene, che non c’è da preoccuparsi, ma dalle labbra gonfie e dalla mascella slogata mi esce solo un gemito arruffato.
«Raul» continua Aenea «dobbiamo allontanarci dalle navi della Pax. Ti metteremo in un cubicolo di crio-fuga, amore mio. Ti faremo dormire un poco, in attesa che nel medibox ci sia uno scomparto libero. Riesci a sentirmi, Raul?»
Rinuncio a parlare e trovo la forza per un cenno di assenso. Qualcosa mi penzola sulla fronte, come un berretto umido messo di traverso. Il mio cuoio capelluto.
«Va bene» dice Aenea. Si china più vicino e bisbiglia nell’orecchio che ancora mi resta: «Ti amo, mio caro amico. Tornerai in perfetta forma. Questo lo so!»
Delle mani mi sollevano, mi trasportano, alla fine mi depongono su una superficie dura e fredda. Il dolore infuria, ma è una cosa remota e non riguarda me.
Prima che facciano scorrere il coperchio del cubicolo di crio-fuga, sento distintamente la voce della nave che annuncia con calma: "Quattro navi da guerra della Pax ci intimano l’alt. Dicono che se non ci fermiamo entro dieci minuti, ci distruggeranno. Posso far notare che siamo ad almeno undici ore da qualsiasi possibile punto di traslazione? Tutte e quattro le navi della Pax sono a tiro".
Odo la voce stanca di Aenea: «Continua la rotta verso le coordinate che ti ho dato, Nave. Nessuna risposta alle navi della Pax».
Cerco di sorridere. Un’esperienza che abbiamo già avuto: tentare di battere in velocità, con grandi probabilità contrarie, navi della Pax. Ma c’è una cosa che sto imparando e che mi piacerebbe spiegare a Aenea, se la bocca mi funzionasse e se la mente mi si schiarisse un poco: per quanto a lungo si battano, le probabilità sfavorevoli alla fine hanno sempre la meglio. La considero una rivelazione di scarsa importanza, satori atteso da troppo tempo.
Ma ora il freddo striscia su di me, dentro di me, mi gela il cuore e la mente e le ossa e le viscere. Posso solo augurarmi che si tratti delle bobine di crio-fuga che agiscono più rapidamente di quanto non ricordi dal mio ultimo viaggio. Se si tratta della morte, allora, be’, è la morte. Ma voglio rivedere Aenea.
È il mio ultimo pensiero.
"Cado!" Col cuore che mi batteva all’impazzata, mi svegliai in quello che pareva un universo differente.
Galleggiavo, non cadevo. Sulle prime pensai di essere in un oceano, un oceano salato con forte spinta idrostatica, di galleggiare come un feto in un mare color seppia; ma poi capii che non c’era gravità né onde né correnti, che l’elemento non era acqua, ma densa luce color seppia. "La nave?" No, ero in un ambiente ampio, vuoto, oscurato, ma circondato di luce, un vuoto ovoide della larghezza di quindici metri o più, con pareti di pergamena dalle quali vedevo la luce filtrata di un sole ardente e qualcosa di più complesso, una vasta struttura organica che si curvava e si allontanava da tutti i lati. Mossi debolmente le mani e mi toccai il viso, la testa, il corpo, le braccia…
Galleggiavo davvero, trattenuto da una leggera imbracatura fissata a un nastro di lappolite posto sulla ricurva parete interna. Ero scalzo, indossavo solo una morbida veste di cotone che non riconobbi… pigiama? camice d’ospedale?
La pelle del viso era molto sensibile al tatto; sentii sotto le dita nuove rughe che forse erano cicatrici. Non avevo capelli, la pelle del cranio pareva carne viva, era tutta una cicatrice; l’orecchio era ancora al suo posto, ma doleva solo a sfiorarlo. Sulle braccia avevo parecchie deboli cicatrici, visibili però anche nella fioca luce. Tirai su la veste e guardai la gamba che mi ero malamente fratturato tempo prima. Guarita e solida. Mi tastai le costole: sensibili ma intatte. In fin dei conti ero riuscito a trovare posto nel medibox.
Evidentemente espressi ad alta voce quel pensiero, perché una figura che galleggiava accanto a me disse: «Alla fine ci sei entrato, Raul Endymion. Ma una parte delle operazioni chirurgiche è stata eseguita alla vecchia maniera… da me».
Sobbalzai, galleggiai in su contro i nastri di lappolite. Non era la voce di Aenea.
La sagoma scura galleggiò più vicino e riconobbi la forma, i capelli e finalmente la voce. «Rachel» dissi. Avevo la lingua secca, le labbra screpolate. Gracchiai il nome, più che pronunciarlo.
Rachel si avvicinò ancora e mi porse una bottiglia da spremere. Le prime gocce uscirono come sferette rotolanti, gran parte mi schizzò il viso, ma presto capii il trucco e spremetti il liquido direttamente nella bocca aperta. L’acqua era fresca, meravigliosa.
«Da due settimane assumi per endovena liquidi e sostanze nutritive» disse Rachel. «Ma è meglio se bevi direttamente.»
«Due settimane?» Mi guardai intorno. «Aenea? Sta… stanno…»
«Stanno tutti bene» disse Rachel. «Aenea è indaffarata. Ha passato qui con te la maggior parte delle due settimane, ad assisterti, ma quando doveva uscire con Minmun e con gli altri mi faceva stare con te.»
«Minmun?» Scrutai dalla parete trasparente. Una stella luminosa, più piccola del sole di Hyperion. Le incredibili geometrie della struttura si curvavano e si allontanavano dalla sala ovoidale. «Dove mi trovo? Come siamo arrivati qui?»
Rachel ridacchiò. «Rispondo alla seconda domanda, perché in pochi minuti capirai da solo la risposta alla prima. Aenea ha fatto balzare qui la nave. Il padre capitano de Soya, il sergente Gregorius e l’ufficiale Carel Shan conoscevano le coordinate di questo sistema solare, ma erano privi di conoscenza. Però anche il quarto superstite, l’ex prigioniero Hoag Liebler, sapeva dove si nascondeva questo posto.»
Guardai di nuovo dalla parete. La struttura pareva enorme… un traforo di luce e di ombra che da quella sorta di capsula si estendeva in tutte le direzioni. Come potevano nascondere una cosa così grande? E chi la nascondeva?
«Come abbiamo fatto ad arrivare in tempo a un punto di traslazione?» gracchiai; mi schizzai in bocca altri globuli d’acqua. «Credevo che la navi da guerra della Pax stessero per attaccarci.»
«Ci hanno attaccato, infatti. Non saremmo mai potuti giungere a un punto di traslazione Hawking prima che ci distruggessero. Ecco… non è più necessario che tu stia appiccicato alla parete.» Staccò i nastri di lappolite e mi trovai a galleggiare liberamente. Anche a gravità zero, mi sentivo debolissimo.
Mi orientai in modo da guardare ancora in viso Rachel, nella fioca luce color seppia. «Allora come ci siamo riusciti?»
«Non c’è stata traslazione. Aenea ha indirizzato la nave in un punto dello spazio da dove ci siamo teleportati direttamente in questo sistema.»
«Teleportati?» C’era forse un teleporter spaziale funzionante? Come quelli che usavano un tempo le navi della Force per i trasferimenti? Non credevo che qualcuno di quei teleporter fosse sopravvissuto alla Caduta.
Rachel scuoteva la testa. «Non c’era nessun teleporter. Niente. Solo un punto arbitrario a qualche centinaio di chilometri dalla seconda luna. È stato un bell’inseguimento, le navi della Pax ci intimavano l’alt e minacciavano di aprire il fuoco. Alla fine l’hanno aperto: raggi di energia che saettavano verso di noi da decine di fonti. Non saremmo diventati neppure un campo di detriti, ma semplici gas in una traiettoria sempre più ampia. Invece abbiamo raggiunto il punto verso cui Aenea si dirigeva e all’improvviso ci siamo trovati… qui.»
Non dissi di nuovo: "Dov’è, qui?", ma galleggiai fino alla parete ricurva e cercai di scrutare dall’altra parte. La parete era calda al tatto, spugnosa, organica, e filtrava la maggior parte della luce del sole. Di conseguenza all’interno c’era una bella luce soffusa, che però rendeva difficile vedere fuori: si scorgeva solo la stella ardente e una traccia dell’incredibile struttura geometrica al di là della nostra capsula.
«Sei pronto a vedere dove?» disse Rachel.
«Sì.»
«Capsula, superficie trasparente, per favore.»
Di colpo più niente ci separava dall’esterno. A momenti gridai di terrore. Invece agitai braccia e gambe nel tentativo di trovare una superficie solida a cui aggrapparmi, finché Rachel non si avvicinò e con mano ferma mi stabilizzò.
Eravamo nello spazio. La capsula intorno a noi era semplicemente scomparsa. Galleggiavamo nello spazio… avevamo l’impressione di galleggiare nello spazio, a parte la presenza d’aria respirabile, ed eravamo quasi alla punta estrema di un…
Albero non è la parola esatta. Ne avevo visti di alberi. Quello non era un albero.
Ma avevo sentito parlare molto dei vecchi Alberi Mondo dei templari, avevo visto il ceppo dell’Albero Mondo su Bosco Divino, e avevo sentito parlare delle navi-albero lunghe chilometri che viaggiavano tra i sistemi solari ai tempi del pellegrinaggio di Martin Sileno.
Questo non era un Albero Mondo né una nave-albero.
Avevo sentito pazzesche leggende (da Aenea, a dire il vero, perciò con ogni probabilità non erano leggende) riguardanti un anello arboreo intorno a una stella, un anello fantasticamente intrecciato di materia vivente che si estendeva intorno a un astro del tipo del sole della Vecchia Terra. Una volta avevo provato a calcolare quanta materia vivente sarebbe stata necessaria per un anello del genere e avevo concluso che quella storia era di sicuro una balla.
Questo non era un anello arboreo.
Ciò che si estendeva all’esterno, ai miei lati, curvando all’interno su scala troppo grande per essere comprensibile alla mia mente formata a livello planetario, era una sfera di materia vivente vegetale, diramata e intrecciata: tronchi del diametro di decine o centinaia di chilometri, rami larghi chilometri, foglie larghe centinaia di metri, sistemi di radici aeree che si estendevano per centinaia, no, migliaia di chilometri nello spazio, rami ingraticciati e avviluppati che si protendevano all’interno e all’esterno in tutte le direzioni, tronchi lunghi come il Mississippi della Vecchia Terra che parevano in lontananza minuscoli fuscelli, forme arboree delle dimensioni del continente Aquila su cui ero nato che si mescolavano in migliaia di altre macchie e masse di verzura, tutte piegate in dentro e in fuori, da ogni parte, in ogni direzione; c’erano molti squarci neri, buchi nello spazio, alcuni più grandi dei tronchi e della verzura che si intrecciava intorno a essi, ma in nessun punto gli squarci erano completi, dappertutto i tronchi e i rami e le radici si intrecciavano, aprivano innumerevoli miliardi di foglie verdi alla stella che ardeva lontano nel luogo geometrico al centro del…
Chiusi gli occhi.
«Non può essere reale.»
«È reale» disse Rachel.
«Gli Ouster?»
«Sì» confermò l’amica di Aenea, la bambina dei Canti. «E i templari. E gli erg. E… altri. È vivo, ma artificiale… una cosa curata.»
«Impossibile. Occorrerebbero milioni di anni per far crescere questa… sfera.»
«Biosfera» precisò Rachel, con un sorriso.
Scossi la testa. «Biosfera è un vecchio termine, riguarda solo il sistema chiuso di vita su un pianeta e intorno a esso.»
«Questa è una biosfera» ripeté Rachel. «Solo che qui non ci sono pianeti. Comete, sì; ma non pianeti.» Indicò un punto.
Molto lontano, forse a centinaia di migliaia di chilometri, dove l’interno della sfera vivente si scoloriva in un verde confuso anche nel vuoto, una lunga striscia bianca si muoveva lentamente e attraversava uno squarcio nero fra i tronchi.
«Una cometa» ripetei come uno sciocco.
«Per l’irrigazione» disse Rachel. «Ne occorrono milioni. Per fortuna nella Nube di Oort ce ne sono parecchi miliardi. E altri miliardi sono nella Fascia di Kuiper.»
Rimasi a guardare. Là fuori c’erano altri puntini bianchi, ciascuno con una lunga coda luminosa. Mentre li guardavo, alcuni si mossero fra i tronchi e i rami, mi diedero un’idea della scala di quella biosfera. "Le traiettorie delle comete passano nelle aperture della materia vegetale. Se questa è davvero una sfera, nel percorso verso l’esterno del sistema le comete dovrebbero ripassare attraverso il globo vivente. Che sorta di fiducia occorre per fare una cosa del genere?"
«Cos’è questa cosa nel cui interno ci troviamo?» domandai.
«Una capsula ambientale» rispose Rachel. «Un bulbo di vita. Questo è fatto su misura per il servizio medico. Non si limita a monitorare flebo, segni vitali e rigenerazione dei tessuti; fa crescere e produce molte medicine e altri prodotti chimici.»
Toccai il materiale quasi trasparente. «Quanto è spesso?»
«Circa un millimetro. Ma è molto resistente. Ci può proteggere dalla maggior parte degli impatti di micrometeoriti.»
«Dove si procurano gli Ouster un simile materiale?»
«Biofabbricano i geni e quello cresce da solo. Te la senti di uscire per vedere Aenea e incontrare altre persone? Aspettano tutti il tuo risveglio.»
«Sì» dissi e poi, rapidamente: «No! Rachel?».
Lei mi galleggiò vicino, aspettando. Notai quanto erano luminosi i suoi occhi neri in quella luce sorprendente. Quasi uguali a quelli della mia amata.
«Rachel…» iniziai, impacciato.
Lei aspettò e toccò la parete trasparente per orientarsi a testa in su rispetto a me.
«Rachel, a dire il vero non abbiamo parlato molto…»
«Non ti ero simpatica» disse lei, con un sorriso gentile.
«Non è vero… cioè, era vero, in un certo senso… ma solo perché all’inizio non capivo la situazione. Per Aenea ero stato via cinque anni… era difficile… ero geloso, penso.»
Rachel inarcò il sopracciglio. «Geloso, Raul? Pensavi che Aenea e io fossimo state amanti negli anni della tua assenza?»
«Be’, no… cioè, non sapevo…»
Rachel alzò la mano, risparmiandomi altro imbarazzo. «Non eravamo amanti» disse. «Mai state. Aenea non avrebbe nemmeno immaginato una cosa del genere. Forse Theo si sarebbe trastullata con l’idea, ma sapeva dall’inizio che Aenea e io eravamo destinate ad amare certi uomini.»
La fissai. "Destinate?"
Rachel sorrise di nuovo. Potevo immaginare quel sorriso sulla bimbetta di cui Sol Weintraub parlava nei Canti di Hyperion. «Non preoccuparti, Raul. Si dà il caso che io sappia per certo che Aenea non ha mai amato nessuno tranne te. Anche quando era bambina. Anche prima di incontrarti. Sei sempre stato il suo prescelto.» Il suo sorriso divenne triste. «Fossimo tutti così fortunati!»
Aprii bocca per parlare, esitai.
Rachel tornò seria. «Oh, capisco. Ti ha parlato dell’intervallo di un anno, undici mesi, sette giorni, sei ore?»
«Sì» risposi. «E del fatto che ha avuto…» Mi interruppi. Sarebbe stato sciocco restare sconvolto davanti a quella donna così forte. Non mi avrebbe mai più guardato allo stesso modo.
«Un figlio» terminò per me Rachel.
La guardai come se cercassi una risposta nei suoi bei lineamenti. «Aenea te ne ha parlato?» Avevo la sensazione di tradire in un certo senso la mia amica, cercando di avere da altri quella informazione. Ma non potevo fermarmi. «Sapevi a quel tempo…»
«Dove si trovava?» disse Rachel, ricambiando il mio intenso sguardo. «Che cosa le accadeva? Che si sposava?»
A ogni domanda potevo solo annuire.
«Sì» disse Rachel. «Lo sapevamo.»
«Eri lì con lei?»
Rachel parve esitare, come se soppesasse la risposta. «No» disse infine. «A. Bettik, Theo e io abbiamo aspettato quasi due anni il suo ritorno. Abbiamo portato avanti il suo… ministero pastorale? la sua missione?… qualsiasi cosa sia, l’abbiamo portata avanti mentre lei non c’era, impartendo alcune sue lezioni, trovando chi voleva partecipare alla comunione, facendo sapere quando lei sarebbe tornata.»
«Allora sapevi quando sarebbe tornata?»
«Sì» disse Rachel. «Il giorno esatto.»
«Come?»
«Era il giorno in cui doveva tornare. Aveva approfittato di ogni minuto possibile senza mettere a repentaglio la missione. La Pax ci dava la caccia, il giorno seguente ci avrebbero catturati tutti, se Aenea non fosse tornata e non ci avesse teleportato via.»
Annuii, ma non pensavo al fatto che Aenea era scampata per miracolo alla Pax. «Hai conosciuto… lui?» dissi, cercando senza successo di mantenere un tono neutro.
Rachel mantenne un’espressione seria. «Il padre di suo figlio, vuoi dire? Il marito di Aenea?»
Intuivo che Rachel non voleva mostrarsi crudele, ma le sue parole mi straziarono più degli artigli di Nemes. «Sì» risposi. «Lui.»
Rachel scosse la testa. «Quando Aenea se ne andò, nessuno di noi l’aveva mai incontrato.»
«Ma sai perché decise che fosse lui il padre di suo figlio?» insistetti. Mi sentivo come il Grande Inquisitore che ci eravamo lasciati alle spalle su T’ien Shan.
«Sì» disse Rachel, ricambiando lo sguardo, senza rivelarmi altro.
«Aveva a che fare con… con la sua missione?» Mi sentivo la gola sempre più stretta, la voce sempre più tesa. «Si tratta di qualcosa che lei deve fare… di qualche ragione per cui da loro doveva nascere un figlio? Non puoi dirmi qualcosa, Rachel?»
Allora lei mi prese per il polso, stringendo forte. «Raul, sai che Aenea ti spiegherà tutto, quando sarà il momento.»
Mi liberai e sbuffai con malagrazia. «Quando sarà il momento…» brontolai. «Cristo santo, questa frase mi dà la nausea. E non ne posso più di aspettare.»
Rachel si strinse nelle spalle. «Allora affronta Aenea. Minaccia di picchiarla, se non ti dice tutto. Hai massacrato di botte quella Nemes, Aenea non dovrebbe essere un problema.»
Le lanciai un’occhiataccia.
«Parlando seriamente, Raul, questa è una faccenda fra te ed Aenea. Posso solo dirti che sei l’unico uomo di cui lei abbia mai parlato e, per quanto ne so, l’unico che abbia mai amato.»
«Come diavolo fai a…» cominciai, furioso, ma mi costrinsi a chiudere la bocca. Le diedi goffamente dei colpetti sul braccio e il movimento iniziò a farmi girare sul mio asse. Non è facile stare vicino a qualcuno, a gravità zero, senza toccarlo. «Grazie, Rachel» conclusi.
«Sei pronto a vedere tutti gli altri?»
Inspirai a fondo. «Quasi. La superficie della capsula può diventare riflettente?»
«Capsula, luminosità novanta per cento» ordinò Rachel. «Alta riflessività interna.» A me disse: «Ti controlli allo specchio prima del grande appuntamento?».
La parete era diventata riflettente quasi quanto una pozza d’acqua cheta; non uno specchio perfetto, ma abbastanza chiara e luminosa da mostrarmi un Raul Endymion con cicatrici sul viso e la testa pelata, cuoio capelluto roseo come pelle di neonato, tracce di lividi e di gonfiori intorno agli occhi, magro, molto magro. Ossa e muscoli del viso e della parte superiore del corpo parevano abbozzati a tratti di carboncino. Gli occhi parevano diversi.
«Cristo santo» ripetei.
Rachel mi rivolse un gesto. «Il robochirurgo ti voleva trattenere ancora una settimana, ma Aenea non poteva aspettare. Le cicatrici non sono permanenti, la maggior parte, almeno. I medicinali che la capsula ti ha somministrato per endovena si prendono cura della rigenerazione. Fra un paio di settimane standard cominceranno a ricrescerti i capelli.»
Mi toccai il cuoio capelluto: era come accarezzare il sedere coperto di cicatrici e ipersensibile di un orrendo neonato. «Un paio di settimane» dissi. «Magnifico. Fottutamente magnifico.»
«Non prendertela. Secondo me, hai un aspetto interessante. Resterei così, se fossi in te, Raul. E poi, pare che Aenea abbia un debole per uomini più anziani di lei. E in questo momento sembri certo più anziano.»
«Oh, grazie» dissi, ironico.
«Non c’è di che» replicò Rachel. «Capsula, apri diaframma. Accesso allo stelo connettore pressurizzato principale.»
Scalciò per darsi la spinta e mi guidò fuori, varcando l’apertura a diaframma comparsa nella parete.
Appena entrai nella stanza, o capsula, Aenea mi abbracciò così forte da farmi meravigliare che le costole rotte non avessero ceduto di nuovo. Ricambiai l’abbraccio con altrettanta forza.
Il breve viaggio nello stelo connettore pressurizzato era stato abbastanza normale, se si considera normale essere proiettati lungo una tubatura flessibile, trasparente, del diametro di due metri, a una velocità che toccava secondo la mia stima i sessanta chilometri orari (si usavano correnti di ossigeno spinte a grande velocità in direzioni opposte per favorire i movimenti del nuoto nell’aria) mentre altre persone, quasi tutte magrissime, glabre e incredibilmente alte, ti saettavano accanto, senza rumore, in senso contrario, a 120 all’ora, e ti mancavano di centimetri. Poi c’erano state le capsule del mozzo, dove io e Rachel fummo spinti a grande velocità, come corpuscoli proiettati nei ventricoli e nelle auricole di un enorme cuore, e dove rotolammo, scalciammo ed evitammo altri viaggiatori a grande velocità, per poi uscire da una delle decine di altre aperture dello stelo connettore. Nel giro di qualche minuto mi ero perso, ma Rachel pareva conoscere la strada (mi mostrò che nel tessuto vegetale sopra ogni uscita erano impressi tenui colori) e ben presto ci trovammo in una capsula non molto più grande della mia, ma piena di armadietti, di zone per sedersi sfruttando fasce di lappolite, e di persone. Alcune — Aenea, A. Bettik, Theo, la Dorje Phamo e Lhomo Dondrub — le conoscevo bene; altre — il padre capitano de Soya, chiaramente rimesso in sesto e guarito dalle terribili ferite, con indosso calzoni neri da prete, tonaca e collare rigido; il sergente Gregorius nella tuta da combattimento delle guardie svizzere — le avevo incontrate di recente e le conoscevo di vista; altre ancora, come gli alti, magri, ascetici Ouster e gli incappucciati templari, erano meravigliose e insolite, ma rientravano pur sempre nel mio campo di comprensione; mentre due dei presenti, che Aenea mi presentò come il templare Vera Voce dell’Albero Het Masteen e l’ex colonnello della Force dell’Egemonia Fedmahn Kassad, mi erano noti per fama, ma non avrei mai pensato di incontrarli di persona. Più di Rachel o della madre di Aenea, Brawne Lamia, quei due, nonché personaggi usciti dai Canti del vecchio poeta, erano archetipi del mito, morti da secoli come minimo e probabilmente mai esistiti nel fisso, quotidiano, mangia-dormi-e-usa-il-bagno, firmamento delle cose.
E infine, in quella capsula Ouster a gravità zero, c’erano altre persone che non erano affatto persone, almeno dal mio punto di vista: gli esseri verde salice che Aenea mi presentò come LLeeoonn e OOeeaall, due dei pochi empatici Seneschai sopravvissuti, originari del pianeta Hebron, alieni e intelligenti. Guardai quelle bizzarre creature, pelle e occhi del più chiaro verde acerbo; corpi così sottili che avrei potuto circondare con le dita il torace; simmetrici come noi, con due gambe, due braccia, una testa, ma nient’affatto simili a noi; membra articolate come linee singole, continue, fluide, non frutto di evoluzione da ossa incernierate e cartilagini; dita palmate come zampe di rospo e testa più simile a quella di un feto umano che di un adulto. Le pupille erano poco più di puntini in ombra nel verde incarnato del volto.
Secondo l’opinione comune, i Seneschai si erano estinti nei primi tempi dell’Egira, erano poco più di una leggenda, ancora meno reali del colonnello Kassad o del templare Het Masteen.
Quando Aenea ci presentò, una di quelle verdi leggende mi sfiorò la palma, con la mano dotata di sole tre dita.
Nella capsula c’erano altre entità non-umane, non-Ouster, nonandroidi.
Accanto alla parete quasi trasparente della capsula c’erano quelle che parevano grandi piastrine biancoverdastre, morbidi piatti tremuli di morbida materia, ciascuna del diametro di quasi due metri. Avevo già visto quelle forme di vita, sul pianeta di nuvole dove ero stato mangiato dal calamaro volante.
"No, non mangiato, signor Endymion, solo trasportato." Il commento mi echeggiò nella testa.
"Telepatia?" pensai, quasi rivolgendo alle piastrine la domanda. Sul pianeta di nuvole, ricordai, avevo percepito un’ondata di linguaggio-pensiero e mi ero domandato da dove provenisse.
Mi rispose Aenea. «Pare telepatia, ma non c’è niente di misterioso. Gli Akerataeli hanno appreso il nostro linguaggio alla vecchia maniera, i loro simbionti zeplin hanno udito le vibrazioni sonore e gli Akerataeli le hanno decifrate e analizzate. Loro controllano gli zeplin mediante una forma di impulsi concentrati di microonde a lunga portata…»
«La creatura che mi ha inghiottito sul pianeta di nuvole era uno zeplin?»
«Sì» confermò Aenea.
«Simile agli zeplin di Whirl?»
«E a quelli nell’atmosfera di Giove.»
«Pensavo che si fossero estinti per mano dei cacciatori, nei primi anni dell’Egira.»
«Su Whirl furono sterminati» disse Aenea. «E anche su Giove, prima dell’Egira. Ma quando usavi come parapendio il kayak, non ti trovavi né su Giove né su Whirl, eri su un altro gigante gassoso ricco d’ossigeno, seicento anni luce all’interno della Periferia.»
Annuii. «Scusa se ti ho interrotto. Stavi dicendo… impulsi di microonde…»
Aenea fece quel suo tipico gesto aggraziato, come per buttare via qualcosa, che conoscevo da quando lei era bambina. «Gli Akerataeli controllano le azioni dei loro simbionti zeplin mediante precisi stimoli a microonde di centri nervosi e cerebrali. Abbiamo permesso agli Akerataeli di stimolare i nostri centri del linguaggio in modo da "udire" i loro messaggi. Per loro, ritengo, è come suonare un complicato pianoforte…»
Mossi la testa in segno d’assenso, ma non ci capivo un’acca.
«Gli Akerataeli viaggiano anche nello spazio» intervenne il padre capitano de Soya. «Nel corso di eoni hanno colonizzato più di diecimila pianeti giganti gassosi ricchi di ossigeno.»
«Diecimila!» esclamai, stupito. Penso proprio d’essere rimasto qualche secondo a bocca aperta. In milleduecento anni di viaggi spaziali, noi esseri umani avevamo esplorato e colonizzato nemmeno la decima parte di pianeti, rispetto a loro.
«Gli Akerataeli hanno cominciato molto prima di noi» disse piano de Soya.
Guardai le piastrine scosse da lievi vibrazioni. Non avevano occhi che vedessi io e di sicuro non orecchie. Ci udivano? Senza dubbio: uno di loro aveva risposto ai miei pensieri. Potevano leggere la mente, oltre a stimolare pensieri-linguaggio?
Mentre fissavo gli Akerataeli, nella stanza la conversazione fra esseri umani e Ouster riprese.
«L’informazione è attendibile» disse il pallido Ouster che si chiamava, come venni a sapere più tardi, Navson Hamnim. «Almeno trecento navi classe Arcangelo si sono radunate nel sistema Lacaille 9352. In ogni nave c’è un rappresentante dell’Ordine dei cavalieri di Gerusalemme o di Malta. Si tratta decisamente di una grande crociata.»
«Lacaille 9352» ripeté de Soya, pensieroso. «Amarezza di Sibiatu. Conosco quel pianeta. A quando risale l’informazione?»
«Venti ore fa» disse Navson Hamnim. «Ci è giunta mediante l’unica navetta automatica corriere a propulsione Gideon che ci è rimasta: delle tre catturate durante la sua incursione, due sono andate distrutte. Siamo quasi sicuri che la nostra nave di ricognizione sia stata individuata e distrutta qualche secondo dopo il lancio della navetta corriere.»
«Trecento Arcangelo» disse de Soya. Si strofinò le guance. «Se sanno che siamo al corrente dei loro movimenti, possono fare un balzo Gideon da questa parte nel giro di giorni, di ore. Considerando due giorni per la risurrezione, forse abbiamo meno di tre giorni per prepararci. Le difese sono state migliorate, dopo la mia partenza?»
Un altro Ouster, Systenj Coredwell come appresi più tardi, allargò le mani in un gesto che, come avrei scoperto, significava "niente da fare". Notai in quell’occasione che aveva dita palmate. «Quasi tutte le navi da combattimento» disse «sono dovute andare alla Grande Muraglia per tenere a bada la loro task force Pesceluna. Lo scontro è durissimo. Ci si aspetta che poche navi facciano ritorno.»
«Secondo il vostro servizio segreto, la Pax sa cosa avete qui?» domandò Aenea.
Navson Hamnim allargò le mani in una leggera variazione del gesto di Coredwell. «Crediamo di no. Ma ormai sanno che questa è stata una importante base provvisoria per le nostre recenti battaglie difensive. Sarei propenso a credere che la ritengano solo una base come tante, forse con un anello parziale di foresta orbitale.»
«Possiamo fare qualcosa per distruggere la crociata prima che venga da questa parte?» disse Aenea, parlando a tutti i presenti.
«No.» Quella parola dura e semplice provenne dall’uomo alto che mi era stato presentato come colonnello Fedmahn Kassad. Kassad parlava l’inglese della Rete, ma con una cadenza bizzarra. Era alto, molto snello ma muscoloso, con una rada barbetta lungo la mascella e intorno alla bocca. Nei Canti del vecchio poeta era descritto come abbastanza giovane, ma questo guerriero era come minimo sulla sessantina standard, aveva profonde rughe intorno alla bocca e agli occhi piuttosto piccoli, carnagione resa ancora più scura dalla lunga esposizione al sole del deserto e agli ultravioletti dello spazio profondo, capelli a spazzola che parevano corti chiodi d’argento.
Tutti guardarono Kassad e aspettarono.
«Con la distruzione della nave di de Soya» disse il colonnello «è svanita anche la nostra sola possibilità di validi attacchi di sorpresa con sganciamento immediato. Le poche navi da guerra a propulsione Hawking che ci restano accumulerebbero un debito temporale di almeno due mesi per balzare al sistema di Lacaille 9352 e tornare indietro. A quell’ora, quasi certamente le Arcangelo della crociata saranno già state qui e ripartite… e noi saremmo senza difese.»
Con una spinta del piede Navson Hamnim si scostò dalla parete della capsula e si orientò col fianco destro in alto rispetto a Kassad. «Quelle poche navi da guerra non ci offrono difesa in ogni caso» disse, piano, in un inglese della Rete dalla cadenza musicale. «Non dovremmo considerare la possibilità di attacchi suicidi?»
Aenea galleggiò fra i due. «Secondo me, non dovremmo pensare affatto a morire» disse. «Né a permettere la distruzione della biosfera.»
"Sentimento positivo" disse una voce nella mia testa. "Ma non tutti i sentimenti positivi possono essere sostenuti da correnti ascensionali di azione possibile."
«Vero» disse Aenea, guardando le piastrine. «Ma forse nel caso attuale le correnti ascensionali si formeranno.»
"Buone termali a voi tutti" disse la voce nella mia testa. Le piastrine si mossero verso la parete della capsula, che aprì per loro un diaframma, e uscirono.
Aenea trasse un respiro. «Ci troviamo fra sette ore sulla Yggdrasill per pranzare e continuare la discussione? Forse a qualcuno sarà venuta un’idea.»
Non ci furono obiezioni. Esseri umani, Ouster e Seneschai uscirono da una ventina di aperture che l’attimo prima non c’erano.
Aenea mi venne vicino e mi abbracciò di nuovo. Le accarezzai i capelli.
«Amico mio» disse lei, piano. «Vieni con me.»
Era la sua personale capsula di soggiorno, la nostra capsula personale mi disse, e assomigliava molto a quella dove mi ero svegliato, a parte la presenza di scaffali di materia organica, nicchie, scrittoio, armadi ripostiglio e apparecchiature per interfaccia comlog. Alcuni miei vestiti, presi dalla nave del console, erano piegati in bell’ordine in un armadio e i miei stivali di ricambio erano conservati in un cassettone di fibroplastica.
Aenea prese del cibo da un armadio frigo e si mise a preparare panini. «Sarai affamato, amore mio» disse, spezzando un pane scuro. Vidi formaggio di zigocapra sul bancone di lappolite per gravità zero, alcune fette di roastbeef che provenivano di sicuro dalla nave del console, vasetti di mostarda e diversi boccali con coperchio contenenti birra di riso di T’ien Shan. All’improvviso mi accorsi di essere affamato come un lupo.
I panini erano grossi e ben ripieni. Aenea li mise su piatti stagni, fatti di una robusta fibra vegetale, prese il suo e un bulbo di birra, con un calcio si spinse verso la parete esterna. Comparve una porta a diaframma che cominciò ad aprirsi.
«Ah…» protestai, allarmato. Volevo dire: "Scusa, Aenea, ma là fuori c’è il vuoto dello spazio. Non esploderemo per la decompressione e faremo una morte orribile?".
Aenea si diede la spinta e varcò la porta organica. Scrollai le spalle e la seguii.
Là fuori c’erano passerelle, ponti sospesi, scale di lappolite, balconate, terrazze, tutti di fibra vegetale dura come acciaio e serpeggianti intorno alle capsule, agli steli, ai rami e ai tronchi, come tanta edera. C’era anche aria respirabile. Odorava di foresta dopo la pioggia.
«Campo di contenimento» dissi. Be’, dovevo aspettarmelo. In fin dei conti, se l’antichissima nave del console aveva una loggia esterna…
Mi guardai intorno. «Cosa lo alimenta? Pannelli solari?»
«Indirettamente» rispose Aenea. Trovò per noi una panca e una stuoia di lappolite. Non c’erano ringhiere, in quel balconcino dal fitto intreccio. Il gigantesco ramo, largo almeno trenta metri, finiva in una profusione di foglie sopra di noi e la rete traforata dei tronchi e dei rami "sotto" di noi convinse il mio orecchio interno che eravamo di molti chilometri su una parete di verdi travature incrociate. Resistetti all’impulso di gettarmi disteso sulla stuoia di lappolite e di tenermi aggrappato come se ne andasse della vita. Vidi svolazzare un ragnatelide radiante, seguito da un uccellino più piccolo dalla coda forcuta.
«Indirettamente?» ripetei a bocca piena per un grosso boccone.
«Gli erg convertono in campo di contenimento la maggior parte della luce solare» spiegò Aenea. Sorseggiò la birra e guardò la distesa all’apparenza infinita di foglie sopra di noi, sotto di noi, tutt’intorno a noi, foglie rivolte tutte in direzione della vivida stella. Non c’era aria sufficiente a darci un cielo azzurro, ma il campo di contenimento polarizzava la zona superiore quanto bastava a impedire che si restasse accecati, se si guardava verso il sole.
Rischiai di sputare il boccone; invece bene o male lo inghiottii e dissi: «Erg? Come nei leganti d’energia di Aldebaran? Parli sul serio? Come l’erg portato nell’ultimo pellegrinaggio su Hyperion?»
«Sì» disse Aenea. I suoi occhi neri adesso erano puntati su di me.
«Pensavo che fossero estinti.»
«No.»
Bevvi un lungo sorso dal bulbo di birra e scossi la testa. «Sono confuso.»
«Ne hai il diritto, mio caro amico» disse piano Aenea.
«Questo posto…» con un debole gesto indicai la parete di rami e di foglie che si estendeva lontano come un orizzonte planetario, la curva infinitamente distante di verde e di nero lontano sopra di noi «è impossibile.»
«Non proprio. I templari e gli Ouster ci hanno lavorato, su questo e su altri simili a questo, per un migliaio di anni.
Ripresi a masticare. Il formaggio e il roastbeef erano ottimi. «Così questo è il luogo dove andarono le migliaia o milioni di alberi che abbandonarono Bosco Divino al tempo della Caduta.»
«Alcuni» disse Aenea. «Ma già molto prima della Caduta, i templari lavoravano con gli Ouster per sviluppare anelli di foresta orbitale e biosfere.»
Scrutai in alto. Le distanze mi davano le vertigini. La sensazione di essere su quella piccola piattaforma fronzuta tanti chilometri sopra il nulla mi faceva barcollare. Molto più in basso, sulla nostra destra, quello che pareva un minuscolo rametto verde si mosse lentamente fra il traforo di rami. Vidi il velo del campo di energia intorno al presunto rametto e capii di avere sotto gli occhi una delle leggendarie navi-albero dei templari, quasi certamente lunga chilometri.
«Allora è un ambiente completo?» dissi. «Una vera sfera di Dyson? Un globo intorno a una stella?»
Aenea scosse la testa. «Per il completamento manca ancora molto, anche se una ventina di anni standard fa hanno collegato tutti i viticci primari del tronco. Tecnicamente è una sfera, ma a questo punto composta in gran parte di buchi, alcuni larghi molti milioni di chilometri.»
«Fottutamente fantastico» dissi, incapace di trovare un’espressione più eloquente. Mi strofinai le guance, sentii la barba lunga. «Ne sono uscito da due settimane?»
«Quindici giorni standard.»
«Di solito il medibox lavora più in fretta.» Terminai il panino, incollai il piatto stagno al piano del tavolino e mi dedicai alla birra.
«Di solito, sì. Di sicuro Rachel ti ha detto che hai trascorso un periodo relativamente breve nel robochirurgo. Ha fatto lei stessa quasi tutti i primi interventi.»
«Perché?»
«Gli scomparti erano occupati. Appena giunti qui, ti abbiamo tolto dalla crio-fuga, ma i tre nel medibox erano in pessime condizioni. De Soya è stato in punto di morte per una settimana intera. Il sergente Gregorius era ferito molto più gravemente di quanto non ci abbia fatto credere quando l’abbiamo incontrato sul Grande Picco. Il terzo, Carel Shan, è morto nonostante l’impegno del medibox e dei medici Ouster.»
«Merda» dissi, abbassando il bulbo di birra. «Mi spiace, è una brutta notizia.» Si finiva per abituarsi a pensare che i robochirurghi aggiustassero praticamente tutto.
Aenea mi guardò con una tale intensità che sentii il suo sguardo scaldarmi la pelle, come me la scaldavano in quel momento i forti raggi del sole. «Come ti senti, Raul?»
«Magnificamente. Qualche dolorino. Riesco a sentire le costole che si saldano. Le cicatrici mi prudono. E ho l’impressione di avere dormito due settimane di fila, ma per il resto sto magnificamente.»
Aenea mi prese la mano: mi accorsi che aveva gli occhi umidi. «Mi sarei incazzata davvero, se tu fossi morto per colpa mia» disse dopo un momento, con voce roca.
«Anch’io.» Le strinsi la mano, alzai gli occhi e all’improvviso balzai in piedi, mandando il bulbo di birra a cadere a spirale nel vuoto e rischiando di seguirlo. Solo le suole di lappolite delle ciabatte mi tennero ancorato. «Santa merda!» esclamai, segnando a dito.
Da quella distanza pareva un calamaro, forse lungo solo un paio di metri. Ma per esperienza personale e perché cominciavo ad abituarmi alla prospettiva in quell’ambiente, sapevo che la realtà era diversa.
«Ah, uno zeplin» disse Aenea. «Gli Akerataeli ne hanno decine di migliaia al lavoro nella biosfera. Stanno nel loro involucro di anidride carbonica e di ossigeno.»
«Non mi mangerà di nuovo, vero?»
Aenea ridacchiò. «Non credo. Quello che ti ha assaggiato di sicuro ha passato parola.»
Cercai la mia birra, vidi il bulbo rotolare un centinaio di metri più in basso, pensai di saltare a prenderlo, ci ripensai e mi sedetti sulla panchina di lappolite.
Aenea mi diede il suo bulbo. «Bevi pure. Non riesco mai a finirli, ’sti cosi.» Mi guardò bere. «Altre domande, giacché ci siamo?»
Mandai giù la sorsata e scrollai le spalle. «Be’, pare che ci sia in giro un mucchio di persone estinte, mitiche e defunte. Ti va di spiegare?»
«Con "estinte" ti riferisci a zeplin, Seneschai e templari?»
«Sì. E agli erg… anche se non li ho ancora visti.»
«I templari e gli Ouster si sono impegnati a proteggere le specie senzienti cui l’uomo dava la caccia, come i coloni su Patto-Maui hanno cercato di salvare i delfini della Vecchia Terra. All’inizio dai primi coloni dell’Egira, poi dall’Egemonia, ora dalla Pax.»
«E le persone mitiche e defunte?»
«Ti riferisci al colonnello Kassad?»
«Anche a Het Masteen. E anche, se è per questo, a Rachel. Pare che qui ci siano tutti i personaggi dei fottuti Canti di Hyperion.»
«Non tutti» disse Aenea, sottovoce e con una certa tristezza. «Il console è morto. A padre Duré non è mai stato consentito di vivere. E mia madre non c’è più.»
«Scusa, ragazzina.»
Aenea mi toccò di nuovo la mano. «Niente, niente. So che cosa vuoi dire: lascia sconcertati.»
«Conoscevi già il colonnello Kassad o Het Masteen?»
«Mia madre mi parlò di loro, naturalmente, e zio Martin aveva alcune cose da aggiungere alla descrizione data nel suo poema. Ma erano scomparsi prima che io nascessi.»
«Scomparsi» ripetei. «Non intendi dire morti?» Cercai di ricordare le stanze dei Canti. Nel racconto del vecchio poeta, Het Masteen, il templare, la Vera Voce dell’Albero, era scomparso su Hyperion durante il viaggio sul carro a vento nel mar d’Erba, poco dopo che la sua nave-albero, la Yggdrasill, era bruciata in orbita. Gli schizzi di sangue nella cabina del templare facevano pensare allo Shrike. Het Masteen aveva lasciato sul carro a vento l’erg racchiuso nel cubo di Moebius. Dopo un certo tempo, i pellegrini avevano trovato Het Masteen nella valle delle Tombe del Tempo. Il templare non aveva saputo spiegare la sua assenza, aveva solo detto che il sangue nella cabina non era suo, aveva gridato che era suo dovere essere la Voce dell’Albero della Sofferenza, ed era morto.
Il colonnello Kassad era scomparso più o meno nello stesso periodo, poco dopo l’ingresso dei pellegrini nella valle delle Tombe del Tempo; ma, secondo i Canti di Martin Sileno, il colonnello della Force aveva seguito la sua amante fantasma, Moneta, nel lontano futuro dove lui sarebbe morto combattendo contro lo Shrike. Chiusi gli occhi e recitai:
Più tardi, nel massacro della valle,
Moneta e alcuni dei guerrieri scelti
feriti tutti,
pesti e straziati dall’orda di Shrike,
videro il corpo di Fedmahn Kassad
ancora stretto in un mortale abbraccio
al muto Shrike.
Alzarono il guerriero, lo toccarono
con la reverenza dovuta alla perdita,
gli lavarono il corpo devastato,
e dentro il Monolito di Cristallo
l’accompagnarono.
Qui l’eroe fu disteso su una lastra
di marmo bianco,
con ai piedi le armi ritrovate.
Nella valle più in là, d’un grande fuoco
s’accese l’aria.
Donne e uomini umani portar torce
nel fitto buio,
mentre scendevan altri dolcemente
nel vivido mattino di turchese,
altri venivan su navi fatate,
bolle di luce,
ed altri ancor sull’ali d’energia
o avvolti in aloni d’oro e verde.
Più tardi, sotto i fuochi delle stelle,
addio disse Moneta a quegli amici
futuri ed entrò nella Sfinge. Grandi
folle cantarono.
Ratti sporsero il muso tra stendardi
caduti dove caddero gli eroi,
mentre il vento fra lame bisbigliava
e punte e spine e cromo e carapace.
E così allora,
giù nella valle,
le Grandi Tombe luccicaron tremule,
trasfigurarono dall’oro al cupo bronzo
e nel tempo si mossero a ritroso.
«Che memoria impressionante!» commentò Aenea.
«Nonna mi dava uno scappellotto a ogni errore. Non cambiare discorso. Il templare e il colonnello per me sono morti.»
«E morti saranno. E morti saremo tutti.»
Aspettai che uscisse dalla fase "oracolo di Delfi".
«I Canti dicono che Het Masteen fu portato via da qualche parte, in qualche tempo, dallo Shrike» riprese Aenea. «Più tardi, dopo essere tornato, morì nella valle delle Tombe del Tempo. Il poema non dice se restò via un’ora o trent’anni. Zio Martin non lo sapeva.»
La guardai con l’aria di chi non abbocca. «E Kassad, ragazzina? Nel suo caso i Canti sono precisi: il colonnello segue Moneta nel lontano futuro, attacca battaglia contro lo Shrike…»
«Legioni di Shrike, in realtà» mi corresse Aenea.
«Già.» Non avevo mai capito quella parte. «Ma pare che non ci siano interruzioni temporali: il colonnello segue Moneta, combatte, muore. Il suo corpo senza vita è deposto nel Monolito di Cristallo e inizia con Moneta il grande viaggio indietro nel tempo.»
Aenea annuì e sorrise. «Con lo Shrike, anche.»
Esitai. Lo Shrike era emerso dalle Tombe, Moneta chissà come aveva viaggiato con lui, e così, per quanto i Canti dicessero chiaramente che Kassad aveva distrutto lo Shrike in quella grande battaglia finale, il mostro era inspiegabilmente ancora vivo e viaggiava con Moneta e con il corpo di Kassad nel…
"Oh, maledizione" pensai "il poema diceva davvero che Kassad era morto?"
«Zio Martin ha dovuto falsificare parti della storia, sai» disse Aenea. «Si è fatto raccontare alcune cose da Rachel, ma si è preso licenze poetiche nelle parti che non capiva.»
«Ah» dissi. "Rachel" pensai. "Moneta." I Canti avevano chiaramente suggerito che la ragazza-bambina Rachel, che con il padre Sol andò avanti nel futuro, sarebbe tornata come la donna Moneta. L’amante fantasma del colonnello Kassad. La donna che lui avrebbe seguito nel futuro, incontro al proprio destino… E che cosa mi aveva detto Rachel, qualche ora prima, quando avevo espresso il sospetto che lei ed Aenea fossero amanti? "Si dà il caso che io sia legata a un certo soldato, maschio, che incontrerai oggi. Be’, in realtà, un giorno sarò legata a lui. Cioè… merda, è complicato."
Proprio complicato. Avevo il mal di testa. Posai il bulbo di birra e mi presi la testa fra le mani.
«È ancora più complicato» disse Aenea.
La scrutai, guardando tra le dita. «Ti va di spiegare?»
«Sì, ma…»
«Lo so, lo so. In un altro momento.»
«Sì» disse Aenea, mentre le prendevo la mano.
«C’è una ragione per cui non possiamo parlarne adesso?»
Aenea annuì. «Adesso dobbiamo andare nella nostra capsula e rendere opache le pareti.»
«Andiamo?»
«Sì.»
«E poi che facciamo?»
«Poi» disse Aenea, staccandosi dalla stuoia di lappolite e tirandomi con sé «facciamo l’amore per ore.»
Gravità zero. Assenza di peso.
Mai in precedenza avevo apprezzato realmente quei termini e quella realtà.
La nostra capsula di soggiorno era opaca al punto che la ricca luce della sera pareva filtrare da spessa pergamena. Ancora una volta ebbi l’impressione di trovarmi in un cuore caldo. Ancora una volta capii quanto Aenea fosse nel mio cuore.
All’inizio l’incontro sfiorò l’imparzialità scientifica: Aenea mi tolse con cautela i vestiti, esaminò le cicatrici chirurgiche in via di guarigione, mi sfiorò le costole rotte e saldate, mi passò la mano lungo la schiena.
«Dovrei radermi» dissi. «E fare la doccia.»
«Sciocchezze» mormorò lei. «Ti ho fatto spugnature e bagno sonico ogni giorno, anche stamattina. Sei perfettamente pulito, amore mio. E mi piace la barba lunga.» Mi accarezzò la guancia.
Galleggiavamo sopra i ripiani-armadio, cedevoli e smussati. Aiutai Aenea a togliersi camicetta, calzoni e biancheria. Ogni capo restava a mezz’aria ed Aenea lo spingeva con un calcio nel cassetto dell’armadio; quando tutto fu dentro, chiuse col piede il pannello di fibra vegetale. Ci mettemmo a ridere. I miei vestiti galleggiavano ancora nell’aria tranquilla, le maniche della camicia parevano gesticolare lentamente.
«Prendo il…» cominciai.
«No, non prendi niente» disse Aenea. Mi tirò a sé.
Anche il bacio richiede nuove tecniche, a gravità zero. I capelli di Aenea si raccolsero intorno alla testa come una corona illuminata dal sole, mentre le tenevo fra le mani il viso e la baciavo: labbra, occhi, guance, fronte, labbra di nuovo. Cominciammo a rotolare lentamente, sfiorando la parete liscia e luminosa. Uno di noi diede una spinta e rotolammo insieme nel centro della capsula ovale.
I nostri baci divennero più convulsi. Ogni volta che uno dei due si muoveva per tenere più stretto l’altro, cominciavamo a girare intorno al nostro invisibile centro di massa, braccia e gambe intrappolate mentre ci stringevamo più forte e giravamo più rapidamente. Senza liberarci e interrompere il bacio, protesi il braccio, aspettai che la parete tiepida come carne fosse a portata e fermai il movimento. Il contatto ci spinse via dalla parete e ci mandò di nuovo a roteare, piano piano, verso il centro.
Aenea interruppe il bacio e scostò per un attimo la testa, continuando a tenermi per le braccia e guardandomi. L’avevo vista sorridere diecimila volte negli ultimi dieci anni della sua vita, credevo di conoscerli tutti i suoi sorrisi, ma quello fu il più profondo, più antico, più misterioso e più birbante che avessi mai visto.
«Non muoverti» bisbigliò Aenea; facendo leggermente leva sul mio braccio, ruotò a mezz’aria.
«Aenea…» riuscii solo a dire e poi non potei dire niente. Chiusi gli occhi, dimentico di tutto tranne le sensazioni. Sentivo le sue mani, strette sulla parte posteriore delle gambe, tirarmi verso di lei.
Dopo un attimo le sue ginocchia si posarono sulle mie spalle, le sue cosce mi urtarono lievemente il petto. Allungai la mano verso l’incavo della sua schiena e tirai Aenea più vicino, strusciando la guancia contro il sodo muscolo della coscia interna. A Taliesin West, una delle cuoche aveva un gatto soriano. Spesso, la sera, quando me ne stavo seduto da solo sulla terrazza sud a guardare il tramonto e a sentire le pietre cedere il calore accumulato durante il giorno, aspettando il momento in cui Aenea e io ci saremmo seduti nel suo soggiorno a parlare di tutto e di niente, guardavo il gatto lappare la ciotola di panna. Ora visualizzai quel gatto, ma nel giro di qualche minuto non riuscii più a visualizzare niente, tranne l’immediata e irresistibile sensazione della mia amata che si apriva a me, del tenue sapore di mare, dei nostri movimenti simili al montare della marea, di tutti i miei sensi incentrati nella lenta ma crescente sensazione nel nucleo di me stesso.
Non saprei dire per quanto tempo continuammo a galleggiare a quel modo. Un eccitamento così irresistibile è come un fuoco che bruci tempo. L’intimità assoluta è una dispensa dalle esigenze spaziotemporali dell’universo. Solo le crescenti priorità della nostra passione e l’ineluttabile bisogno di aumentare sempre più la nostra vicinanza segnarono i minuti del nostro atto d’amore.
Aenea allargò ancora le gambe, si spostò, mi lasciò con la bocca ma non con la mano. Roteammo ancora nella luce sfumata, le sue dita e la mia erezione al centro del nostro lento giro. Ci baciammo, labbra umide, mentre Aenea rafforzava la stretta intorno a me. «Ora» bisbigliò. Ubbidii.
Se c’è un vero segreto per l’universo, è questo: quei primi secondi di ardore, di penetrazione, di completa accoglienza da parte dell’amata. Ci baciammo ancora, dimentichi del nostro lento rotolare, nella ricca luce che assumeva intorno a noi una calda intensità di cuore. Aprii gli occhi quanto bastava a vedere i capelli di Aenea ondeggiare come il mantello di Ofelia nel mare d’aria scuro come vino dove galleggiavamo. Avevo davvero l’impressione di tenere la mia amata nell’acqua di un mare salato e profondo, spinto a galla e privo di peso, il suo calore intorno a me come la marea montante, il nostro movimento regolare come i frangenti contro calda sabbia.
«Oops…» bisbigliò Aenea, dopo solo un momento di simile perfezione.
Interruppi per un attimo il bacio, quanto bastava a stabilire che cosa ci aveva separati. «Legge di Newton» bisbigliai contro la sua guancia.
«A ogni azione…» bisbigliò Aenea, ridacchiando piano, tenendomi la spalla come una nuotatrice che si riposi un poco.
«… una reazione uguale e contraria» terminai, sorridendo, finché lei non mi baciò di nuovo.
«Soluzione» bisbigliò Aenea. Con le gambe mi circondò i fianchi. I suoi seni galleggiarono fra noi, i capezzoli mi titillarono il petto.
Poi si distese, di nuovo la nuotatrice, ora tenendosi solo a galla, braccia larghe ma dita ancora intrecciate alle mie. Continuammo a ruotare lentamente intorno al nostro comune centro di gravità, un lento ruzzolio, la mia testa che si girava e scendeva e girava come un cavaliere su un delfino che facesse lente capriole sotto l’acqua illuminata dal sole; ma non ero interessato all’elegante balistica del nostro atto d’amore, non ne ero nemmeno consapevole, ero semplicemente immerso nell’amore. Ci muovemmo più velocemente nel caldo mare d’aria.
Alcuni minuti più tardi Aenea mi lasciò le mani, si mosse in alto e in avanti, mentre continuavamo a ruzzolare insieme, mi piantò le unghie nella schiena senza smettere di baciarmi con folle urgenza; poi staccò la bocca per ansimare e mandare un grido, una volta, sottovoce. Nello stesso istante del suo grido, sentii il suo caldo universo chiudersi intorno a me, con quel breve, stretto fremito, quell’intimo impulso condiviso. Dopo un attimo fui io ad ansimare, ad aggrapparmi a lei mentre fremevo in lei, a bisbigliarle contro il collo salato e l’aureola di capelli: «Aenea… Aenea». Una preghiera. La mia unica preghiera allora. La mia unica preghiera adesso.
Galleggiammo insieme a lungo, anche dopo essere tornati di nuovo due persone anziché una sola. A gambe ancora intrecciate, ci accarezzavamo e tenevamo stretti. Le baciai la gola e sentii la sua pulsazione come il ricordo di un’eco sulle mie labbra. Le passai le dita fra i capelli sudati.
In quel momento, capii, nessun evento del passato contava. Nessun terribile evento nel futuro contava. Ciò che contava era la sua pelle contro la mia, la sua mano che mi teneva, il profumo dei suoi capelli e della pelle, il tepore del suo alito sul mio petto. Quello era satori. Quella era verità.
Con una spinta del piede Aenea si accostò all’armadietto, il tempo necessario per prendere un piccolo asciugamano caldo e bagnato. A turno ci togliemmo un po’ del sudore. La camicia mi passò vicino: pareva che le maniche vuote tentassero di nuotare nella lieve corrente d’aria. Aenea rise e si attardò nel ripulire e asciugare, semplice atto che divenne rapidamente tutt’altra cosa.
«Oops!» Mi sorrise. «Com’è accaduto?»
«Legge di Newton?» dissi.
«Ipotesi sensata» bisbigliò lei. «Quale sarebbe allora la reazione, se facessi… così?»
Il risultato istantaneo del suo esperimento lasciò sorpresi, penso, tutt’e due.
«Mancano delle ore alla riunione con gli altri sulla nave-albero» mormorò Aenea. Disse qualcosa alla capsula e la parete ricurva divenne trasparente. Fu come galleggiare fra gli innumerevoli rami dalle foglie grandi come vele, un momento bagnati dal calore del sole e poi, appena guardavamo l’altro lato della capsula trasparente, sommersi nella notte e nelle stelle.
«Non preoccuparti» disse Aenea. «Noi vediamo fuori, ma dall’esterno la parete è opaca. Riflettente.»
«Come fai a esserne sicura?» Le baciai di nuovo il collo, cercai la morbida pulsazione.
Aenea sospirò. «Non possiamo esserne sicuri, immagino, senza uscire e guardare dentro. Un problema alla David Hume.»
Cercai di ricordare le letture di filosofia a Taliesin West, ricordai le nostre discussioni su Berkeley, Hume e Kant, ridacchiai. «C’è un altro modo per controllare» dissi, strofinandole con i piedi i polpacci e la parte posteriore delle gambe.
«Quale?» mormorò Aenea, a occhi chiusi.
«Se si vede dentro» dissi, galleggiando dietro di lei, strofinandole la schiena senza lasciare che lei si allontanasse «nel giro di trenta minuti qui fuori ci sarà una gran folla di angeli Ouster e di navi-albero templari e di coltivatori di comete.»
«Già» disse Aenea, occhi ancora chiusi. «E perché sarebbe qui?»
Cominciai a mostrarle il perché.
Aenea aprì gli occhi. «Oddio» disse piano.
Temetti di averla sconvolta.
«Raul?»
«Mmmm?» mugolai, senza smettere ciò che facevo. Chiusi gli occhi.
«Forse hai ragione sulla superficie esterna riflettente della capsula» bisbigliò lei. Poi sospirò di nuovo, più a fondo.
«Mmmhmm?» mugolai.
Mi afferrò le orecchie, si rigirò, si tirò più vicino. «Perché non lasciamo trasparente l’esterno e rendiamo riflettente la parete interna?»
Spalancai di colpo gli occhi.
«Scherzavo» bisbigliò Aenea. Si scostò dalla parete della capsula e mi tirò con sé nella sfera centrale di aria calda.
Le stelle fiammeggiarono intorno a noi.
Per la cena e la successiva discussione sulla Yggdrasill ci vestimmo formalmente di nero. Ero teso per l’entusiasmo di trovarmi a bordo di una delle leggendarie navi-albero e rimasi un po’ deluso quando capii di non essermi accorto del momento in cui eravamo passati dai rami della biosfera al tronco della nave-albero. Solo quando vidi centinaia di noi radunati su una serie di piattaforme e di capsule aperte, quando vidi la nave-albero allontanarsi dalle circostanti foglie grandi come città e dai rami grandi come province e dai tronchi grandi come continenti, solo allora capii che eravamo a bordo e che ci muovevamo.
Di sicuro la Yggdrasill era lunga più di un chilometro, dalla stretta chioma d’albero al luminoso sistema di radici di ribollente energia di fusione. Dopo la partenza, sulla nave tornò una certa gravità, probabilmente solo una piccola percentuale di microgravità, che comunque riuscì a sconcertarmi, dopo tanto tempo a gravità zero. Però fu utile per sistemarci e così riuscimmo a sederci ai tavoli e a guardarci in faccia, anziché galleggiare alla ricerca di una posizione educata; pensai a Aenea e alle nostre ultime ore insieme e diventai tutto rosso. Nelle piattaforme a gradinata c’erano tavoli e sedie; molti ospiti che non si erano seduti sui gradini affollavano i fragili ponti sospesi tra le piattaforme e rami molto più esterni o le scale a chiocciola che salivano a spirale tra rami e foglie e legavano come liane il tronco centrale; oppure se ne stavano appollaiati su liane dondolanti e sui rigogliosi pergolati.
Aenea e io eravamo seduti al rotondo tavolo centrale, con la Vera Voce dell’Albero Het Masteen, i capi Ouster e una quarantina fra templari, profughi da T’ien Shan e altri. Io ero subito alla sinistra di Aenea. I dignitari templari erano alla sua destra. Ancora adesso ricordo il nome di molti dei presenti intorno al tavolo centrale.
Oltre al capitano della nave-albero, Het Masteen, c’erano altri sei templari, compreso Ken Rosteen, presentato come Vera Voce dell’Albero Stella, sommo sacerdote del Muir e portavoce della confraternita. La decina di Ouster comprendeva Systenj Coredwell e Navson Hamnim, ma anche altri che assomigliavano ben poco a quei due alti e magri archetipi Ouster: Am Chipeta e Kent Quinkent, due Ouster più bassi e più scuri (marito e moglie, pensai) con occhi vivaci e dita prive di membrana; Sian Quintana Ka’an, una Ouster che o indossava una risplendente veste di lucide piume oppure era nata con quelle, e i suoi compagni piumati di azzurro Paul Uray e Morgan Bottoms. Altri due, Drivenj Nicaagat e Palou Koror, rispecchiavano meglio la tipologia Ouster, perché erano adattati al vuoto spaziale e per tutta la cena mantennero l’argentea dermotuta.
Erano presenti anche quattro Seneschai Aluit di Hebron: LLeeoonn e OOeeaall, che avevo già conosciuto nella precedente riunione, e un’altra coppia di flessuose figure verdi che Aenea mi presentò come AAllooee e NNeelloo. Immaginai che i quattro fossero imparentati o legati da qualche complicata relazione matrimoniale.
Pensai che gli alieni Akerataeli fossero assenti, ma Aenea mi indicò un punto molto distante fra i rami, dove la microgravità era ancora minore; lassù, fra ragnatelidi e fulgidi carenidi, si libravano gli esseri simili a piastrine. Anche gli erg che controllavano il campo di contenimento della nave-albero erano presenti per procura, sotto forma di tre cubi di Moebius con dischi traduttori incastonati nelle matrici.
Il padre capitano Federico de Soya sedeva alla mia sinistra e il suo aiutante, sergente Gregorius, un posto più in là. Accanto al sergente c’era il colonnello Fedmahn Kassad in grande uniforme nera della Force: pareva un ologramma del passato dell’Egemonia. Dopo Kassad sedeva la Scrofa Folgore, austera e orgogliosa come il vecchio militare della Force, mentre accanto a lei, occhi vispi e attenti, sedeva Getswang Ngwang Lobsang Tengin Gyapso Sisunwangyur Tshungpa Mapai Dhepal Sangpo, il piccolo Dalai Lama.
Tutti gli altri profughi da T’ien Shan erano da qualche parte nella piattaforma da pranzo; vidi Lhomo Dondrub, Labsang Samten, George e Jigme, Haruyuki, Kenshiro, Viki, Kuku, Kay e altri al tavolo principale. Accanto ai templari, dall’altra parte del tavolo rispetto a noi, c’erano A. Bettik, Rachel e Theo Bernard. Rachel non staccava gli occhi dal colonnello Kassad se non per guardare Aenea che parlava. Era come se per lei tutti gli altri non ci fossero.
Minuscoli servitori templari (cloni d’equipaggio, mi spiegò sottovoce Aenea) servirono acqua e bevande più forti; per un poco ci fu la solita educata conversazione che precede il pranzo. Poi ci fu un silenzio quasi tangibile, come di preghiera. Quando Ken Rosteen, la Vera Voce dell’Albero Stella, si alzò per prendere la parola, tutti si alzarono.
«Amici miei» disse la figura incappucciata «colleghi fratelli nel Muir, onorevoli alleati Ouster, sorelle e fratelli senzienti del finale Albero della Vita, profughi dalla Pax e…» si inchinò in direzione di Aenea «riverita maestra.»
«Come la maggior parte di noi qui riuniti sa, quelli che la Chiesa Shrike un tempo chiamò i giorni della redenzione finale, che ci hanno accompagnato per quasi tre secoli, sono quasi terminati. La Vera Voce della Confraternita del Muir ha seguito il sentiero della profezia e della conservazione, aspettando gli eventi man mano che si verificavano, piantando semi quando il terriccio della rivelazione si dimostrava fertile.
«Nei prossimi mesi e anni si deciderà il futuro di molte specie, non solo della specie umana. Fra noi c’è chi ha ricevuto il dono di scorgere frammenti del futuro, probabilità lanciate come dadi sull’irregolare tappeto dello spaziotempo; ma anche questi particolari individui sanno che nessun preciso futuro è stato preordinato per noi o per i nostri posteri. Gli eventi sono fluidi. Il futuro è come fumo di una foresta in fiamme, aspetta il vento di specifici eventi e il coraggio personale per soffiare da questa o da quella parte le scintille e le braci della realtà.
«Oggi, su questa nave-albero, la rinata e ribattezzata Yggdrasill, noi decideremo i nostri sentieri verso il nostro futuro. La mia preghiera alla Forza Vitale intravista dal Muir è non solo che la biosfera Albero Stella sopravviva, non solo che i nostri fratelli Ouster sopravvivano, non solo che i nostri perseguitati e tormentati cugini Seneschai e Akerataeli ed erg e zeplin sopravvivano, non solo che la specie conosciuta come Uomo sopravviva, ma che le nostre profezie comincino oggi a realizzarsi e che tutte le specie dell’amata vita — l’uomo non più della tartaruga dal guscio molle o della bocca a lampada di Mare Infinitum, del ragno saltatore e degli alberi tesla, del procione della Vecchia Terra e del tommifalco di Patto-Maui — tutte le amate specie di vita si uniscano nella rinascita del rispetto come distinti compagni nel crescente ciclo di vita dell’universo.»
Si rivolse a Aenea e si inchinò. «Riverita maestra, siamo riuniti qui oggi proprio per te. Dalle nostre profezie — da quelli, nella nostra confraternita e altrove, che hanno toccato l’ambiente Vuoto che lega — sappiamo che sei la migliore e unica speranza di riconciliazione fra Uomo e Nucleo, fra Uomo e Altro. Sappiamo pure che il tempo è breve e che l’immediato futuro possiede il potenziale sia per l’inizio di questa riconciliazione e nostra liberazione, sia per la distruzione quasi totale. Prima che si possa decidere, ci sono fra noi coloro che dovranno formulare le domande finali. Ti unirai con noi in discussione adesso? È questo il tempo di parlare delle cose di cui bisogna parlare e che bisogna capire, prima che tutti i mondi e dimore di Ouster e templari e Pax e varia umanità si lancino nella battaglia finale per l’anima dell’Uomo?».
«Sì» disse Aenea.
La Vera Voce dell’Albero Stella si sedette. Aenea si alzò, attese. Io tolsi di tasca il mio grafer.
Ouster Systenj Coredwell: Signora Aenea, stimatissima maestra, può dirci con una qualche certezza se alla biosfera, il nostro Albero Stella, saranno risparmiati la distruzione e l’attacco della Pax?
Aenea: Non posso, cittadino Coredwell. E se potessi, farei un errore a parlarne. Non ho il ruolo di predire probabilità nei grandi epicicli del caos che sono i futuri. Posso dire senza dubbio che i prossimi giorni determineranno se questa stupefacente biosfera sopravviverà o no. Le nostre stesse azioni determineranno in larga misura questo evento. Ma non esiste un singolo corso d’azione corretto.
E se posso fare una richiesta, poiché sono qui presenti alcuni miei amici che non hanno mai visto l’Albero Stella e lo spazio Ouster, sarebbe un aiuto alla discussione se uno dei nostri ospiti spiegasse il retroterra sociale della specie Ouster, della biosfera e degli altri progetti, nonché della filosofia Ouster e templare.
Ouster Siati Quintana Ka’an: Sarò lieta di parlare ai nostri nuovi ospiti, amica Aenea. È importante che tutti i presenti a questo dibattito capiscano quale posta mettiamo in gioco.
Come tutti i nostri fratelli Ouster e templari ben sanno, la specie Ouster fu creata più di ottocento anni fa, in decine di sistemi solari assai distanti l’uno dall’altro. Navi seminatrici umane, con coloni addestrati nelle arti genetiche, furono inviate lontano dal sistema della Vecchia Terra nella grande espansione pre-Egira. Quelle navi seminatrici erano, per la maggior parte, veicoli più lenti della luce: flottiglie di rozzi autoreattori Brussard, navi a vela solare, a presa ionica, a impulso nucleare, sfericole Dyson a lancio gravitazionale, navi con vela di contenimento a spinta laser; solo alcune decine delle più tarde navi seminatrici avevano la propulsione Hawking C-più.
Quei coloni, nostri antenati — per la maggior parte viaggiando nel sonno dell’animazione sospesa, più profondo della crio-fuga — erano fra i migliori ARNisti, nanotecnici e ingegneri genetici che la Vecchia Terra potesse offrire. Avevano la missione di trovare mondi abitabili e, in assenza della tecnologia del terraforming, di bio-nano-modificare i milioni di forme di vita della Vecchia Terra in animazione sospesa a bordo delle navi e di renderli adatti per questi mondi.
Come sappiamo, poche navi seminatrici raggiunsero pianeti abitabili: Nuova Terra, Tau Ceti, il mondo di Barnard. Molte però raggiunsero pianeti dove nessuna forma di vita poteva sopravvivere. I coloni avevano una scelta: continuare il viaggio, con la speranza che i sistemi di mantenimento vita della nave li sostenessero per altri decenni o secoli di viaggio, oppure usare la propria abilità nell’ingegneria genetica per adattare se stessi e gli embrioni presenti nella loro arca a condizioni molto più dure di quelle immaginate dagli originari progettisti delle navi seminatrici.
Scelsero questa seconda possibilità. Usando i più avanzati metodi di nanotecnologia — metodi messi al bando dal TecnoNucleo sulla Vecchia Terra e nella prima Egemonia — quegli esseri umani adattarono se stessi a mondi pazzescamente inospitali e perfino all’ancora meno ospitale vuoto fra mondi e stelle. Nel corso dei secoli l’uso della propulsione Hawking si era diffuso in molti di quei remoti sciami di coloni Ouster, ma l’urgenza di trovare pianeti più adatti all’uomo si era affievolita. Ora quegli uomini volevano continuare ad adattarsi, dare a tutti gli orfani della Vecchia Terra la possibilità di adattarsi, a qualsiasi condizione i luoghi e lo spazio offrissero.
E questa missione produsse la loro filosofia, la nostra filosofia, quasi religiosa per fervore, di diffondere vita in tutta la galassia, in tutto l’universo. Non solo vita umana, non solo forme di vita della Vecchia Terra, ma vita in tutte le sue infinite e complesse variazioni.
Alcuni nostri visitatori qui stasera potrebbero ignorare che la meta finale di noi Ouster e dei nostri fratelli templari non è solo la biosfera Albero Stella che vediamo sopra di noi in questo stesso momento, ma il giorno in cui aria e acqua e vita riempiano quasi tutto lo spazio fra l’Albero Stella e il sole giallo che arde sopra di noi.
La confraternita del Muir e le nostre libere confederazioni di Ouster non vogliono nient’altro che rendere verdeggiante di vita la superficie, i mari e l’atmosfera di ogni pianeta intorno a ogni stella. E non basta! Lavoriamo per vedere la galassia verdeggiante, viticci che si allungano verso le galassie vicine, supersequenze di vita.
Una conseguenza di tale filosofia, nonché la ragione per cui la Chiesa e la Pax cercano di distruggerci, è questa: per secoli abbiamo continuato a modificare l’evoluzione umana in modo che si adatti alle esigenze dell’ambiente. Finora non ci sono specie di umanità distinte e separate, diverse dall’Homo sapiens; tutti noi qui presenti potremmo incrociarci con ogni essere umano della Pax o dei templari. Ma le differenze crescono, il distacco genetico si allarga. Già esistono forme di umanità Ouster tanto diverse da confinare con nuove specie umane, e queste differenze sono trasmesse geneticamente alla nostra prole!
Cosa, questa, che la Chiesa non può tollerare. Perciò siamo impegnati in questa terribile guerra, per decidere se l’umanità deve rimanere per sempre una sola specie o se può continuare la nostra celebrazione della diversità nell’universo.
Aenea: Grazie, cittadina Sian Quintana Ka’an. Sono sicura che la sua spiegazione è stata utile ai miei amici che ancora non conoscevano lo spazio Ouster, ma anche a tutti noi, come importante promemoria mentre prendiamo queste gravi decisioni. Qualcun altro desidera la parola?
Dalai Lama: Amica Aenea, avrei un commento e una domanda per te. Con la sua promessa d’immortalità, la Pax ha indotto perfino me a considerare, solo per un istante, la conversione alla fede cristiana. Tutti qui amiamo la vita, è il filo luminoso della nostra comunità. Puoi dirci perché il crucimorfo è male per noi? La sua natura di simbionte o parassita, devo aggiungere, non lo rende poi così inverosimile, a me o a tanti altri. Nel nostro corpo esistono molte forme di vita, i batteri nell’intestino, per esempio, che si nutrono di noi e tuttavia ci permettono di vivere. Amica Aenea, cos’è in realtà il crucimorfo? E perché dovremmo sfuggirlo?
Aenea (chiude gli occhi per un secondo, sospira, li riapre e guarda in viso il bambino): Santità, il crucimorfo è nato dalla disperazione delle entità del TecnoNucleo, nelle ore che precedettero la Caduta dei teleporter, a causa dell’attacco di Meina Gladstone.
Il TecnoNucleo, come ho discusso con tutti voi in dibattiti diversi, vive e pensa solo come parassita. In questo senso, la specie umana è stata a lungo un compagno simbiotico del Nucleo. La nostra tecnologia è stata creata e limitata da progetti del Nucleo. Le nostre società sono state create, modificate e distrutte da piani del Nucleo e da paure del Nucleo. La nostra esistenza come esseri umani è stata largamente determinata dal continuo balletto di paura e di parassitismo con le IA del Nucleo.
Dopo la Caduta, perduto il controllo dell’Egemonia mediante le sfere dati e i teleporter, perduta la più grande macchina da calcolo, ossia lo sfruttamento parassitico diretto dei miliardi di cervelli umani che transitavano nel Vuoto che lega per mezzo dei cosiddetti teleporter, le entità del TecnoNucleo hanno dovuto trovare un nuovo modo di sfruttare la specie umana. E trovarlo in fretta.
Ecco dunque il crucimorfo. Si tratta di nanotecnologia del livello più raffinato e più dannoso. Mentre i nostri amici Ouster usano l’ingegneria genetica avanzata, combinata con la nanotecnologia, per promuovere la causa della vita nell’universo, il TecnoNucleo usa le stesse cose per favorire la causa del proprio iperparassitismo.
Ogni crucimorfo è composto di miliardi di entità nanotec collegate al Nucleo, ciascuna in contatto con altri crucimorfi e col Nucleo mediante un uso terribilmente scorretto del Vuoto che lega. Il Nucleo conosce da un millennio il Vuoto che lega e lo ha usato, male, per quasi altrettanto tempo. La cosiddetta propulsione Hawking ha provocato buchi nel Vuoto. Poi i teleporter hanno lacerato il tessuto essenziale del Vuoto. La metasfera dati azionata dal Nucleo e l’astrotel istantaneo hanno rubato informazioni dal Vuoto che lega, in modi che hanno accecato intere specie, distrutto millenni di memoria. Ma proprio il crucimorfo è il più cinico e terribile uso scorretto del Vuoto.
Ciò che a molti di noi fa sembrare miracoloso il crucimorfo non è la capacità di ripristinare la vita — la tecnologia ha offerto per secoli variazioni sul tema — ma la capacità di ripristinare il carattere e i ricordi della persona defunta. Se si considera che questo richiede una capacità di memoria superiore a 6 x 1023 bytes per ogni individuo risuscitato, il crucimorfo pare davvero miracoloso. Quei pochi nella gerarchia della Chiesa cattolica al corrente del ruolo segreto del Nucleo in tutte le risurrezioni ascrivono questo sconvolgente, impossibile, potere di calcolo al potenziale di memoria della megasfera del Nucleo.
Ma il TecnoNucleo non possiede niente che si avvicini a quel potere di calcolo. In realtà, perfino nel pieno rigoglio del tentativo dei Finali di creare la perfetta entità calcolatrice, l’Intelligenza Finale, l’analizzatore di tutte le variabili, nessuna IA o serie di IA aveva la capacità di memoria sufficiente a registrare e risuscitare anche un solo corpo/personalità umano. In realtà, anche se il Nucleo avesse avuto quella capacità di memoria, non avrebbe mai avuto l’energia necessaria per riformare atomi e molecole nella precisa entità vivente che è il corpo di un essere umano, né tanto meno di riprodurre l’intricata danza forma-onda che è la personalità umana.
Per il Nucleo, la risurrezione di un solo individuo era e rimane impossibile.
A meno, cioè, di danneggiare ancora il Vuoto che lega, l’ambiente transtemporale e interstellare per la memoria e le emozioni di tutte le specie senzienti.
Cosa che il TecnoNucleo ha fatto senza pensarci due volte. Il Vuoto che lega è ciò che registra l’individuale fronte d’onda della personalità di quegli esseri umani che portano il crucimorfo; il crucimorfo in sé è poco più di un congegno nanotecnologico per trasferire dati, prodotto dal Nucleo.
Ma ogni volta che una persona viene risuscitata, parti di migliaia di personalità, umane e non umane, vengono cancellate dalla registrazione permanente, il Vuoto che lega. Quelli di voi che hanno fatto comunione con me, che hanno appreso il linguaggio dei morti e dei vivi, che hanno tentato di udire la musica delle sfere e hanno soppesato la potenzialità di muovere quel primo passo nel Vuoto che lega, capiscono quale terribile barbarie questo vandalismo rappresenti. Deve fermarsi. Io devo fermarlo.
(Aenea chiude gli occhi per qualche momento, li riapre e continua.)
Ma questo non è l’unico male del crucimorfo.
Lo ripeto, le IA del Nucleo sono parassiti. Non possono cambiare la propria natura. Hanno dato alla specie umana la risurrezione mediante il crucimorfo sia per poterla controllare tramite la Chiesa — anche, in caso disperato, somministrando dolore agli individui per mezzo del crucimorfo — sia per un’altra ragione…
La Caduta dei teleporter pose fine all’uso di triliardi di neuroni umani nel tentativo di ottenere l’Intelligenza Finale collegata alla sfera dati. Senza il trucco dei teleporter che consentiva di attaccarsi come sanguisughe ai cervelli umani ospiti per rubare la stessa energia vitale dei neuroni e dei fronti d’onda olistici e per collegare miliardi di menti umane in calcolatori in parallelo, il progetto Intelligenza Finale fu costretto a fermarsi. Con i crucimorfi, il parassitismo a danno del cervello umano è ripreso.
Ma ora è più complesso del puro e semplice collegamento in spazio dati di miliardi di menti umane in parallelo per gli scopi del Nucleo. Molti anni fa, nel lontano XX secolo, ricercatori umani che trattavano simili reti neurali composte di intelligenze silicee pre-IA, scoprirono che il modo migliore per rendere creativa una rete neurale era di ucciderla. In quei secondi di morte, perfino negli ultimi nanosecondi di esistenza di una coscienza senziente o quasi-senziente, il processo lineare, essenzialmente binario, di rete neurale calcolatrice saltava le barriere e diventava follemente creativo nella quasi mortale liberazione dal calcolo a base binaria spento-acceso.
Le simulazioni computerizzate di scontri militari, risalenti al tardo XX secolo, mostravano che reti neurali moribonde prendevano decisioni inaspettate ma altamente creative: per esempio, una IA primitiva pre-senziente che controllava una flotta danneggiata in una simulazione di battaglia navale all’improvviso affondava le proprie navi colpite in modo che i resti della flotta riuscissero a fuggire. A questo punto giungeva il genio della creatività a rete neurale non lineare moribonda.
Il Nucleo non ha mai avuto una simile creatività. Ha in essenza la struttura lineare seriale dell’unità centrale d’elaborazione da cui si è evoluto, accoppiata alla mentalità ossessiva, non creativa, del parassita finale.
Ma con il crucimorfo, il grande congegno calcolatore di rete neurale del Nucleo che è la parte cristiano-crucimorfica della specie umana, ha trovato una fonte di creatività quasi illimitata. Tutto ciò di cui le entità del Nucleo hanno bisogno come catalizzatore di creatività è la morte di gran parte della rete neurale. E gli esseri umani forniscono in abbondanza quel catalizzatore.
Le IA del Nucleo volteggiano come vampiri, aspettano di nutrirsi dei cervelli umani morenti, succhiano il midollo della creatività dalle ossa mentali dell’uomo. E quando le morti scendono sotto il livello necessario o quando la domanda di soluzioni creative cresce, le IA orchestrano qualche milione di altri decessi.
Accadono incidenti bizzarri. La salute dell’uomo non è quella che era qualche secolo fa. Le morti per rumori, cardiopatie e simili sono in aumento. E vi sono altre forme più subdole di mortalità accomodata. Anche se la Pax ha imposto la pace nell’impero interstellare umano, crescono le occasioni di morte violenta. Si introducono nuove forme di morte. Le navi Arcangelo sono un primo esempio. Per i cristiani rinati la morte è un bene a buon mercato. Ma per il Nucleo è una ricca fonte di creatività orchestrata.
Ecco quindi il crucimorfo. Ed ecco quindi, credo, almeno una ragione per eliminare quella mostruosità dal corpo umano e dall’anima umana.
(Aenea termina di parlare. Segue un lungo silenzio. Le foglie mormorano nel soffio dell’aria fatta circolare sulla nave-albero. Non uno delle centinaia di esseri umani o umanoidi sulle varie piattaforme, rami, ponti o scale, pare battere ciglio, tanto sono intensi gli sguardi puntati sulla mia amica. Alla fine una voce decisa si alza…)
Padre capitano de Soya: Porto ancora l’abito talare e non ho rinunciato ai voti di prete cattolico. C’è qualche speranza per la mia Chiesa, non la Chiesa della Pax, soggetta al controllo del TecnoNucleo e alla vanità di avidi uomini e donne, ma la Chiesa di Gesù Cristo e delle centinaia di milioni che hanno seguito la sua parola?
Aenea: Federico, padre de Soya, la risposta tocca a lei. A lei e ai fedeli come lei. Ma posso dirle che oggi miliardi di uomini e donne, alcuni col crucimorfo, molti altri senza, desiderano ardentemente il ritorno a una Chiesa che si occupi di faccende spirituali, degli insegnamenti di Cristo e delle più profonde questioni del cuore, anziché essere ossessionata da questa falsa risurrezione.
Templare Het Masteen: Riverita maestra, se posso cambiare argomento, dal cosmico e teologico al personale e insignificante…
Aenea: Niente di cui lei parla potrebbe essere insignificante, Vera Voce dell’Albero Het Masteen.
Het Masteen: Riverita maestra, ho partecipato al pellegrinaggio su Hyperion, con sua madre…
Aenea: Mi parlò spesso di lei, Vera Voce dell’Albero Het Masteen.
Het Masteen: Allora sa, maestra, che mentre attraversavamo sul carro a vento il mar d’Erba, il Signore della Sofferenza, lo Shrike, venne a me. E mi portò avanti nel tempo e in là nello spazio… in questo tempo, in questo luogo.
Aenea: Sì.
Het Masteen: Nelle conversazioni con lei e con i miei fratelli nella confraternita del Muir, ho capito che è mio destino servire in questa epoca il Muir e la causa della vita, come fu profetizzato secoli fa da quelli tra noi in grado di vedere nel Vuoto che lega. Ma in questi giorni e malgrado gli sforzi dei miei fratelli e di altri amici fra gli Ouster, ho sentito parlare del poema epico di Martin Sileno e ho trovato una edizione dei Canti…
Aenea: Purtroppo, Vera Voce dell’Albero Het Masteen, mio zio Martin scrisse quel poema al meglio delle sue conoscenze, ma le sue conoscenze erano incomplete.
Het Masteen: Ma nei Canti, riverita maestra, il poeta dice che nel fatidico giorno i pellegrini, e il mio amico colonnello Kassad me l’ha confermato, mi trovano su Hyperion, nella valle delle Tombe del Tempo e che muoio poco dopo…
Aenea: Ciò è vero nel contesto dei Canti, ma…
Het Masteen (alza la mano per interrompere la mia amica): Ciò che mi preoccupa, reverenda maestra, non è il mio inevitabile ritorno nel tempo al pellegrinaggio su Hyperion né la mia inevitabile morte. Capisco che questo per me è solo uno dei possibili futuri, per quanto probabile o auspicabile. Ma vorrei sapere se le mie ultime parole furono quelle riportate nei Canti dal vecchio poeta. È vero che immediatamente prima di morire griderò: "Sono il Vero Prescelto. Devo guidare l’Albero della Sofferenza nel tempo della redenzione finale"?
Aenea: Questo è ciò che è scritto nei Canti, Vera Voce dell’Albero Het Masteen.
Het Masteen (sorride sotto il cappuccio): E quel tempo è vicino, reverenda maestra? Userà questa Yggdrasill come l’Albero della Sofferenza per la nostra redenzione finale, secondo quanto attestano le profezie?
Aenea: La userò, Vera Voce dell’Albero Het Masteen. Tra poco partirò per realizzare nel giro di qualche giorno quella redenzione finale. Chiedo formalmente che la Yggdrasill sia lo strumento del nostro viaggio e lo strumento della redenzione finale. Inviterò molti dei presenti a unirsi a me in questo viaggio conclusivo. E le chiedo formalmente, Vera Voce dell’Albero Het Masteen, di comandare la nave-albero Yggdrasill, d’ora in poi conosciuta per sempre come l’Albero della Sofferenza, in questo viaggio.
Het Masteen: Accetto formalmente l’invito, reverenda maestra, e sono pronto a prendere il comando della nave-albero Yggdrasill in questa missione. (Seguono alcuni minuti di silenzio.)
Capomastro Jigme Norbu: Aenea, George e io avremmo una domanda.
Aenea: Sì, Jigme?
Jigme Norbu: Ci hai parlato del genocidio effettuato senza clamore dal TecnoNucleo su pianeti come Hebron, Qom-Riyadh e altri. Be’, non è vero e proprio genocidio, perché le popolazioni sono state poste in uno stato di sonno simile alla morte, ma è un terribile sequestro di milioni di persone.
Aenea: Sì.
Jigme Norbu: La stessa cosa è avvenuta anche sul nostro amato T’ien Shan, dopo la nostra partenza? I nostri amici e i nostri familiari sono stati zittiti con le neuroverghe del Nucleo e portati via in uno dei pianeti labirinto?
Aenea: Sì, Jigme, mi rattrista dire che è accaduto. Mentre parliamo, i corpi vengono portati via dal pianeta.
Kuku Se: Perché? Per quale motivo sequestrano quelle popolazioni? Gli ebrei, i musulmani, gli indù, gli atei, i marxisti… e ora è toccato anche al nostro bellissimo mondo buddhista. La Pax è forse impegnata a eliminare tutte le altre fedi?
Aenea: Questo è il motivo che spinge la Pax e la Chiesa, Kuku. Per il TecnoNucleo, la faccenda è molto più complicata. Senza il parassita crucimorfo su quelle popolazioni non cristiane, il Nucleo non può usare quegli esseri umani nella propria rete neurale di moribondi. Ma se immagazzina quei miliardi di individui nella loro falsa morte, può utilizzare la loro mente in gigantesche reti neurali funzionanti in parallelo. Un accordo vantaggioso per tutt’e due le parti: la Chiesa, che esegue la maggior parte del lavoro di rimozione, non è più minacciata da non credenti; il Nucleo, che provoca il sonno/morte e immagazzina i corpi nei pianeti labirinto, ottiene nuovi circuiti nella sua rete Intelligenza Finale.
Capomastro George Tsarong: Allora non c’è speranza? Non possiamo fare niente per aiutare i nostri amici?
Ouster Navson Hamnim: Scusatemi se vi interrompo, signor Tsarong, signora Aenea, ma dovremmo spiegare ai nostri amici che quando per noi sciami Ouster e alleati templari sarà tempo di passare all’offensiva contro la Pax, il nostro primo obiettivo è di liberare i vari pianeti labirinto e di riportare in vita, se possibile, quelle popolazioni.
La Dorje Phamo (ad alta voce): Riportarle in vita? Com’è possibile? Come si potrebbero riportare in vita?
Aenea: Colpendo direttamente il TecnoNucleo.
Lhomo Dondrub: E dov’è il TecnoNucleo, Aenea? Dimmelo e ci andrò subito a dare battaglia a quelle vigliacche IA.
Aenea: La vera sede del TecnoNucleo, Lhomo, è il segreto meglio custodito fin da quando le IA lasciarono la Vecchia Terra, mille anni standard fa. Da allora hanno tenuto nascosta la loro reale ubicazione fisica: la segretezza è la loro migliore difesa contro una eventuale ribellione degli ospiti contro i parassiti.
Colonnello Fedmahn Kassad: Meina Gladstone era convinta che il Nucleo si trovasse negli interstizi dell’ambiente teleporter, che le IA fossero simili a invisibili ragni in una invisibile tela. Proprio per questo autorizzò la distruzione della rete teleporter spaziale, per colpire il Nucleo. Si sbagliava? I teleporter furono distrutti per nulla?
Aenea: Si sbagliava, Fedmahn. L’ubicazione fisica del Nucleo non era nell’ambiente teleporter, che è poi il tessuto del Vuoto che lega. Ma la distruzione dei teleporter non fu inutile: privò il Nucleo dell’ambiente parassitico che consentiva alle IA di nutrirsi delle menti umane e nello stesso tempo ridusse al silenzio una parte della megasfera.
Lhomo Dondrub: Ma, Aenea, tu sai dove il Nucleo risiede?
Aenea: Credo di saperlo.
Lhomo Dondrub: Ce lo dirai, così potremo attaccarli con unghie e denti e proiettili e armi al plasma?
Aenea: Non lo dirò per ora, Lhomo. Aspetto di essere sicura. In ogni caso, il Nucleo non può essere attaccato con armi fisiche, così come non può essere invaso da entità fisiche.
Fedmahn Kassad: Perciò ancora una volta è impenetrabile ai nostri attacchi? Inaccessibile al confronto?
Aenea: No, non è impenetrabile né inaccessibile. Se il fato lo consente, porterò di persona l’attacco al Nucleo fisico. Anzi, l’attacco è già iniziato in modi che mi auguro di chiarire più tardi. E vi prometto che affronterò le IA nella loro tana.
Fedmahn Kassad: Signora Aenea, figlia di Brawne, posso farle ancora una domanda sul mio destino e sul mio futuro?
Aenea: Proverò a rispondere, colonnello; ma sono riluttante, ripeto, a discutere particolari di un argomento così fluido come il nostro futuro.
Fedmahn Kassad: Riluttante o no, bambina, credo di meritare una risposta a questa domanda. Anch’io ho letto i maledetti Canti. C’è scritto che seguii nel futuro l’apparizione Moneta, mentre combattevo lo Shrike, nel tentativo di impedirgli di massacrare gli altri pellegrini. Questo è vero: alcuni mesi fa sono giunto qui. Moneta scomparve, ma è ricomparsa nella versione più giovane, Rachel Weintraub. Però i Canti dicono pure che presto combatterò una terribile battaglia contro legioni di Shrike, che morirò e che sarò sepolto nella Tomba del Tempo costruita di recente, il Monolito di Cristallo, dove il mio corpo viaggia indietro nel tempo, accompagnato da Moneta. Com’è possibile, signora Aenea? Sano venuto nel tempo sbagliato? Nel luogo sbagliato?
Aenea: Colonnello Kassad, amico mio e difensore di mia madre e degli altri pellegrini, sappia con certezza che tutto procede secondo il piano, quale che sia. Zio Martin scrisse i Canti basandosi sulle rivelazioni che gli furono concesse. Non disponeva di tutti i particolari della sua vita, colonnello, né della mia. Anzi, gli fu detto ben poco di ciò che sarebbe emerso più tardi.
Posso però confermarle questo, colonnello Kassad: la battaglia contro lo Shrike è vera, per quanto metaforicamente resa. Uno dei suoi possibili futuri contempla la morte nella battaglia contro lo Shrike, contro molti guerrieri simili allo Shrike, e la sepoltura nel Monolito di Cristallo, dopo funerali da eroe. Ma questo possibile futuro, se dovesse avverarsi, si verificherebbe dopo molti anni e molte battaglie. C’è del lavoro per lei, nei prossimi giorni, mesi, anni, decenni. E ora le chiedo di venire con me sulla Yggdrasill, quando fra tre giorni partirò: sarà il primo passo verso quelle battaglie.
Fedmahn Kassad (con un sorriso): In qualche modo ha girato intorno alla mia domanda, signora Aenea. Mi dica: lo Shrike sarà sul suo Albero della Sofferenza, quando l’Albero partirà fra tre giorni?
Aenea: Credo che ci sarà, colonnello Kassad.
Fedmahn Kassad: Non ci ha detto, qui, stasera, signora Aenea, che cos’è lo Shrike. Da dove veramente proviene, quale ruolo ha in questo gioco di secoli già trascorsi e a venire.
Aenea: È vero, colonnello. Non l’ho detto a nessuno, qui, stasera.
Fedmahn Kassad: L’ha mai detto a qualcuno, bambina?
Aenea: No.
Fedmahn Kassad: Ma sa qual è l’origine dello Shrike.
Aenea: Sì.
Fedmahn Kassad: Ce lo dirà, figlia di Brawne Lamia?
Aenea: Preferirei non dirlo, colonnello.
Fedmahn Kassad: Ma lo direbbe, se lo chiedessi di nuovo, vero? O almeno risponderebbe alle mie domande dirette su questo argomento?
Aenea (annuisce in silenzio… vedo lacrime nei suoi occhi).
Fedmahn Kassad: Lo Shrike compare per la prima volta nello stesso lontano futuro nel quale combatto contro di lui, come è detto nei Canti, non è vero, signora Aenea? Quel futuro dove il Nucleo fa disperata resistenza contro i suoi nemici?
Aenea: Sì.
Fedmahn Kassad: E lo Shrike, è… sarà… un manufatto, vero? Una cosa creata. Una creatura del Nucleo.
Aenea: Descrizione abbastanza precisa.
Fedmahn Kassad: Sarà un bizzarro amalgama di stregoneria tecnologica del Nucleo, di energia del Vuoto che lega e di personalità riciclata nel cìbrido di un reale essere umano, vero, signora Aenea?
Aenea: Sì, colonnello. Sarà tutto questo e altro ancora.
Fedmahn Kassad: E lo Shrike sarà costruito dal Nucleo, ma diventerà il servitore e l’incarnazione di altri… poteri… di altre entità. Esatto?
Aenea: Sì.
Fedmahn Kassad: In verità, Aenea, ammetterebbe che lo Shrike sarà un pedone di entrambe le parti, di tutte le parti, in questa guerra per l’anima della specie umana, questa guerra che salta avanti e indietro nel tempo come in una partita di scacchi quadridimensionale?
Aenea: Sì, colonnello… ma non un pedone. Un cavallo, forse.
Fedmahn Kassad: D’accordo, un cavallo. E questo cavallo cìbrido, associato al Vuoto che lega, ARNizzato, DNA-manipolato, nanotecno-migliorato… si basa sulla personalità di un ben preciso guerriero, giusto? Forse un avversario in questo gioco di millenaria durata?
Aenea: Deve proprio saperlo, colonnello? Non c’è peggiore inferno che conoscere gli esatti particolari del proprio…
Fedmahn Kassad (piano): Del proprio futuro? Della propria morte? Lo so, Aenea, figlia della mia amica Brawne Lamia. So che hai portato con te queste terribili certezze e visioni fin da prima della nascita, fin dai giorni in cui tua madre e io attraversammo i mari e le montagne di Hyperion verso quello che ritenevamo il nostro destino con lo Shrike. So che è stato molto difficile per te, Aenea, mia giovane amica… più difficile di quanto chiunque di noi qui possa immaginare. Nessuno di noi sarebbe potuto nascere con un simile fardello.
Ma voglio sapere comunque questa parte del mio destino. E credo che i miei anni di servizio alla causa di questa battaglia, anni passati e anni ancora da venire, mi abbiano fatto guadagnare il diritto a una risposta.
Lo Shrike si basa sulla personalità di un ben preciso guerriero umano?
Aenea: Sì.
Fedmahn Kassad: La mia? Dopo la mia morte in battaglia, elementi del Nucleo… o altri poteri… incorporeranno la mia volontà, la mia anima, la mia personalità, in quel… mostro… e la manderanno indietro nel tempo mediante il Monolito di Cristallo?
Aenea: Sì, colonnello. Alcune parti della sua personalità, ma solo alcune parti, saranno incorporate nel manufatto vivente chiamato Shrike.
Fedmahn Kassad (ridendo): Ma posso anche vivere per vincerlo in battaglia?
Aenea: Sì.
Fedmahn Kassad (ridendo più forte, ora, con tono che suona sincero, non forzato): Per Dio… per il volere di Allah… se l’universo ha un’anima, è l’anima dell’ironia! Uccido il mio nemico, gli mangio il cuore e quel nemico diviene me… e io divengo lui. (Seguono vari altri minuti di silenzio. Vedo che la nave-albero Yggdrasill si è girata e che ci avviciniamo di nuovo alla grande curvatura della biosfera Albero Stella.)
Rachel Weintraub: Amica Aenea, amata maestra, negli anni in cui ti ho ascoltato insegnare e ho imparato da te, sono stata tormentata da un grande mistero.
Aenea: Quale, Rachel?
Rachel Weintraub: Nel Vuoto che lega tu hai udito le voci degli Altri, le specie senzienti al di là del nostro spaziotempo, le cui memorie e personalità risuonano nell’ambiente del Vuoto. Con la comunione col tuo sangue, alcuni di noi hanno appreso a udire il bisbiglio dell’eco di quelle voci… Leoni e Tigri e Orsi, alcuni li chiamano.
Aenea: Tu sei una dei miei migliori studenti, Rachel. Un giorno udrai chiaramente quelle voci. E imparerai a sentire la musica delle sfere e a muovere quel primo passo.
Rachel Weintraub (scuotendo la testa): La mia domanda non è questa, amica Aenea. Il mistero per me è la presenza nello spazio umano di uno o più osservatori inviati da quegli… Altri… quei Leoni e Tigri e Orsi… a studiare la specie umana e a fare rapporto a quelle specie lontane. La presenza di un osservatore… o di osservatori… è reale?
Aenea: Sì.
Rachel Weintraub: E gli osservatori sono in grado di assumere la forma di un essere umano o di un Ouster o di un templare?
Aenea: L’osservatore o gli osservatori non sono in grado di cambiare forma, Rachel. Hanno scelto di venire fra noi in una sorta di forma umana, è vero… un po’ come mio padre era umano ma cìbrido per nascita.
Rachel Weintraub: E questi osservatori ci osservano da secoli?
Aenea: Sì.
Rachel Weintraub: Uno di questi osservatori… è qui con noi, oggi, su questa nave-albero o a questo tavolo?
Aenea (esita): Rachel, è meglio che non dica altro, per il momento. Ci sono coloro che ucciderebbero all’istante un simile osservatore, per proteggere la Pax o per difendere ciò che ritengono significhi essere "umano". Anche solo ammetterne l’esistenza mette in grande pericolo quell’entità. Mi spiace… Ti prometto che questo… questo mistero… sarà svelato in un futuro non troppo lontano e che sarà rivelata l’identità dell’osservatore o degli osservatori. Non da me, ma da lui o da loro stessi.
Vera Voce dell’Albero Ket Rosteen: Fratelli nel Muir, rispettati alleati Ouster, onorati ospiti umani, amati amici senzienti, riverita maestra, termineremo questa discussione in un altro momento e in un altro luogo. Ritengo che nessuno abbia obiezioni alla richiesta della signora Aenea di andare sulla nave-albero Yggdrasill nello spazio della Pax fra tre giorni standard. Mi auguro quindi che, con fortuna e coraggio, così si compiano le antiche profezie templari dell’Albero della Sofferenza e del tempo della redenzione finale per tutti i figli della Vecchia Terra.
Ora proseguiremo il pranzo e parleremo di altro. La seduta ufficiale è aggiornata: ciò che rimane del nostro breve viaggio sia quindi amichevole conversazione, buon cibo e il sacramento di vero caffè cresciuto da baccelli raccolti sulla Vecchia Terra, nostra patria comune, la buona Terra.
La seduta è aggiornata. Ho detto.
Più tardi quella sera, nella calda luce del nostro cantuccio privato, Aenea e io facemmo l’amore, parlammo di cose personali e consumammo uno spuntino notturno, vino, formaggio di zigocapra e pane fresco.
Aenea era andata per un attimo allo scomparto cucina; tornò con due bulbi di cristallo pieni di vino. Me ne offrì: «Tieni, Raul, amore mio… prendi e bevi».
«Grazie» dissi, senza riflettere, e cominciai a portarmi il bulbo alle labbra. Poi mi bloccai. «È… ci hai messo…»
«Sì» disse Aenea. «La comunione che per te ho rimandato così a lungo. Ora è a tua disposizione, se decidi di bere. Ma non sei obbligato, amore mio. Ciò che provo per te non cambierà, anche se non berrai.»
Guardandola negli occhi, bevvi fino all’ultima goccia. Sapeva solo di vino.
Aenea si era messa a piangere. Scostò la testa, ma avevo già visto le lacrime nei suoi magnifici occhi neri. La strinsi nelle mie braccia e insieme galleggiammo nella luce calda come un grembo.
«Ragazzina?» mormorai. «Cosa c’è?»
Sentivo un peso sul cuore, mi domandavo se lei pensasse all’altro uomo nel suo passato, al matrimonio, al figlio… Il vino mi aveva intontito e un po’ nauseato. O forse non era colpa del vino.
Aenea scosse la testa. «Ti amo, Raul.»
«Ti amo, Aenea.»
Mi baciò sul collo, si aggrappò a me. «Per ciò che hai appena fatto, per me, in nome mio, ti daranno la caccia e ti perseguiteranno…»
Ridacchiai controvoglia. «Ehi, ragazzina, mi hanno dato la caccia e mi hanno perseguitato dal giorno che volammo insieme sul tappeto Hawking per fuggire dalla valle delle Tombe del Tempo. Non c’è niente di nuovo. Se la Pax smettesse di darci la caccia, mi sentirei sperso.»
Aenea non sorrise. Sentii le sue lacrime contro la gola e il petto, mentre lei mi stringeva più forte. «Sarai il primo fra coloro che mi seguono, Raul» disse Aenea. «Sarai il capo carismatico, nei decenni e decenni di lotta che verranno. Sarai rispettato e odiato, ubbidito e disprezzato… di te vorranno fare un dio, amore.»
«Stronzate» mormorai fra i capelli della mia amata. «Sai che non sono un capo, ragazzina. Non ho fatto niente, a parte seguirti, in tutti gli anni da quando ci conosciamo. Diavolo… passo la maggior parte del tempo solo a cercare di starti dietro.»
Aenea alzò il viso e mi guardò negli occhi. «Prima ancora che io nascessi, Raul Endymion, tu eri già il mio prescelto. Quando cadrò, continuerai per noi. Tutt’e due dobbiamo vivere tramite te…»
Le misi il dito sulle labbra. Le asciugai a baci le lacrime sulle guance e sulle ciglia. «Non parlare di cadere o di vivere l’uno senza l’altra» le ordinai. «Il mio piano è semplice: stare con te per sempre, in ogni circostanza, condividere tutto. Ciò che accade a te accade a me, ragazzina. Ti amo, Aenea.» Galleggiamo insieme nell’aria calda. La cullavo tra le braccia.
«Sì» mormorò Aenea, stringendomi con ferocia. «Ti amo, Raul. Insieme. Tempo. Sì.»
Allora smettemmo di parlare. Sentii nei nostri baci il sapore del vino e del sale delle sue lacrime. Ci amammo per altre ore e poi andammo a dormire insieme, galleggiammo intrecciati l’una nell’abbraccio dell’altro come due creature marine, come una sola, complessa, creatura marina, alla deriva in una marea calda e favorevole.
Il giorno seguente portammo fuori la nave del console, verso il sole.
Mi ero svegliato aspettandomi di sentire una sorta di illuminazione, un improvviso satori dovuto al vino eucaristico, una più profonda comprensione dell’universo nel caso peggiore, onniscienza e onnipotenza nel caso migliore. Invece mi svegliai con la vescica gonfia e un leggero mal di testa, ma con piacevoli ricordi della notte appena trascorsa.
Aenea era già sveglia; quando uscii dal bagno, aveva preparato caffè bollente nel bulbo caffettiera, frutta nel globo di portata e panini appena fatti, belli caldi.
«Non aspettarti un servizio così tutte le mattine» mi disse con un sorriso.
«D’accordo, ragazzina. Domani preparo io la colazione.»
«Frittata?» domandò, porgendomi un bulbo di caffè.
Spezzai il sigillo, inalai l’aroma, strizzai una goccia, attento a non scottarmi le labbra e a non far volare via il globulo di caffè bollente. «Certo» risposi. «Quello che più ti piace.»
«Cerca le uova e buona fortuna» disse Aenea. Terminò in due bocconi il panino. «Questo Albero Stella è fantastico, ma a corto di galline.»
«Peccato» dissi, guardando dalla parete trasparente della capsula. «Con tanti di quei posti per appollaiarsi!» Cambiai tono, divenni serio. «Ragazzina, a proposito del vino… voglio dire, sono già passate otto ore standard e…»
«E non ti senti diverso» disse Aenea. «Uhm, immagino che tu sia uno di quei rari individui sui quali la magia non funziona.»
«Davvero?»
Di sicuro sembrai allarmato, o sollevato, o l’uno e l’altro, perché Aenea scosse la testa. «No, no, scherzavo. Circa ventiquattro ore standard. Qualcosa sentirai. Te lo garantisco.»
«E se saremo… occupati, quando verrà il momento?» dissi, muovendo su e giù le sopracciglia per sottolineare la frase. Mi ritrovai a galleggiare liberamente a qualche centimetro dal tavolo di lappolite.
Aenea sospirò. «Giù, ragazzo, se non vuoi che inchiodi al loro posto quelle sopracciglia.»
«Uhm.» Le sorrisi da sopra il bulbo di caffè. «Ti amo, quando parli male.»
«Sbrigati» disse Aenea. Mise il suo bulbo vuoto nella lavastoviglie a ultrasuoni e riciclò il sottopiatto.
Mi accontentai di mangiare il panino e di guardare dalla parete l’incredibile panorama esterno. «Sbrigarmi? Perché? Andiamo da qualche parte?»
«Riunione sulla nave» disse Aenea. «Sulla nostra. Poi dobbiamo tornare qui e provvedere all’ultimo approvvigionamento della Yggdrasill per partire domani sera.»
«Perché sulla nostra nave? Non sarà affollata, a confronto di tutto lo spazio che c’è qui?»
«Vedrai» disse Aenea. Aveva indossato morbidi calzoni azzurri da gravità zero, stretti alla caviglia, con una camicetta bianca rimboccata e varie tasche con chiusura a lappolite. Calzava pantofole grigie. Mi ero abituato a girare scalzo nel nostra capsula privata e nei vari steli.
«Cerca di sbrigarti» disse di nuovo Aenea. «La nave decolla fra dieci minuti e ci aspetta una lunga corsa sulle liane per arrivare alla capsula di attracco.»
La nave era davvero affollata. Il campo di contenimento interno manteneva la gravità a un sesto del normale, ma dopo avere dormito in caduta libera, avevo l’impressione di trovarmi su un pianeta di tipo gioviano. Faceva uno strano effetto stare affollati tutti insieme in un solo piano dimensionale, lasciando che andasse sprecato il vasto spazio aereo più in alto. Nel ponte della biblioteca della nave del console, seduti al pianoforte, sulle panche, nelle poltrone superimbottite e sui gradini della piazzuola olografica, c’erano gli Ouster Navson Hamnim, Systenj Coredwell, Sian Quintana Ka’an dal risplendente piumaggio, i due argentei Ouster spazio-adattati Palou Koror e Drivenj Nicaagat, nonché Paul Uray e Am Chipeta. C’era Het Masteen e c’era il suo superiore, Ket Rosteen. C’era il colonnello Kassad, alto come i torreggianti Ouster, e la Dorje Phamo, con l’aria di vecchia e regale signora nella lunga veste grigio ghiaccio che si gonfiava elegantemente nella bassa gravità, e anche Lhomo, Rachel, Theo, A. Bettik, il Dalai Lama. Gli altri esseri senzienti non c’erano.
Parecchi di noi uscirono sulla loggia per guardare la superficie interna dell’Albero Stella rimpicciolire man mano che la nave saliva verso il sole centrale, sulla colonna di azzurra fiamma di fusione.
"Bentornato, colonnello Kassad" disse la nave, quando ci riunimmo nella biblioteca.
Inarcai il sopracciglio in direzione di Aenea, sorpreso che la nave riuscisse a ricordare un passeggero di tanti anni fa.
«Grazie, Nave» disse il colonnello. Pareva turbato, quasi al punto di rimuginare.
La risalita lontano dal guscio interno della biosfera Albero Stella mi diede un senso di vertigine diverso da quello che provavo nel guardare la sfera di un pianeta diventare sempre più piccola e restare indietro. Qui eravamo dentro la struttura orbitale; e mentre la vista da dentro i rami dell’Albero Stella era stata uno scenario di varchi aperti tra le foglie e i tronchi, fuggevoli visioni di campi di stelle sul lato opposto al sole e grandi spazi dappertutto, la vista da un centinaio di chilometri e in salita dava l’impressione di una superficie solida, con le enormi foglie ridotte a una distesa scintillante, in tutto simile a un grande oceano verde, concavo; la sensazione di trovarsi in una enorme ciotola senza la possibilità di uscirne era quasi opprimente.
I rami luccicavano di blu per l’aria intrappolata nei campi di contenimento e conferivano una sorta di bagliore azzurrino alle migliaia di chilometri di legno color del vino e di foglie tremolanti, come se l’intera superficie interna della biosfera avesse una carica elettrica. Da ogni parte c’era vita e movimento: angeli Ouster con ali di un chilometro non solo svolazzavano fra i rami e al di là delle foglie, ma erano lanciati in profondità nello spazio, all’interno verso il sole, più velocemente all’esterno, al di là dei sistemi di radici lunghe diecimila chilometri; una miriade di forme di vita più piccole luccicava nell’azzurro involucro di atmosfera: ragnatelidi radianti, magicinzie, pappagalli, arboricoli azzurri, scimmie della Vecchia Terra, grandi banchi di pesci tropicali che nuotavano in gravità zero alla ricerca delle regioni appannate dalle comete, aironi azzurri, stormi di oche e di colombacci marziani, focene della Vecchia Terra… Fummo portati fuori prima che potessi classificare una minima frazione di ciò che vedevo.
Più avanti divennero palesi le dimensioni delle forme di vita più grandi e degli sciami di forme di vita. Da alcune migliaia di chilometri vedevo, in "alto", i luccicanti armenti di piastrine azzurre in compagnia dei senzienti Akerataeli. Dopo il primo incontro lì con le due creature del pianeta di nuvole, avevo domandato a Aenea se nella biosfera erano presenti altri Akerataeli. "Ce n’è ancora qualcuno" aveva risposto Aenea. "Circa seicento milioni." Adesso li vedevo muoversi senza fatica nelle correnti d’aria da tronco a tronco, estensioni di centinaia di chilometri, in sciami di migliaia, forse decine di migliaia.
E con essi c’erano gli ubbidienti servitori: calamari celesti e zeplin e meduse trasparenti ed enormi sacche di gas munite di tentacoli, simili a quella che mi aveva mangiato nel pianeta di nuvole. Ma più grandi. Sul pianeta di nuvole avevo stimato che il mostruoso calamaro fosse lungo forse dieci chilometri, ma questi animali da lavoro simili a dirigibili erano di sicuro lunghi parecchie centinaia di chilometri, forse di più, contando gli innumerevoli tentacoli, viticci, flagelli, fruste, code, sonde e proboscidi. Capii, guardandoli, che tutte le gigantesche bestie da soma degli Akerataeli erano impegnate in lavori: intrecciare rami e steli e capsule in elaborati biodisegni, potare dall’Albero Stella rami morti e foglie larghe come città, sistemare strutture progettate dagli Ouster o trasportare materiali da una parte all’altra della biosfera.
«Quanti sono gli zeplin controllati dagli Akerataeli qui sull’Albero Stella?» domandai a Aenea, approfittando di un momento in cui era libera.
«Non so» mi rispose. «Chiediamo a Navson.»
«Non ne abbiamo idea» ci disse Navson. «Si riproducono secondo le necessità di lavoro. Gli stessi Akerataeli sono un perfetto esempio di organismo sciame, di mente alveare: le entità disco, singolarmente, non sono senzienti… in parallelo, sono brillanti. Qui i calamari celesti e altre creature di pianeti gioviani si sono riprodotti secondo necessità, per più di settecento anni standard. Azzarderei che ce ne siano parecchie centinaia di milioni al lavoro nella biosfera… forse un miliardo, a questo punto.»
Fissai le minuscole forme sulla superficie sempre più piccola della biosfera. Un miliardo di creature, ciascuna grande come l’altopiano punta d’Ala del mio pianeta natale…
Ancora più avanti, divennero evidenti gli spazi vuoti fra i rami, un milione di chilometri sopra di noi e mezzo milione sotto di noi. La sezione da dove eravamo partiti era la più antica e la più fitta, ma a grande distanza lungo la curvatura interna della biosfera c’erano interruzioni e divisioni, alcune progettate, altre ancora da riempire con materiale vivente. Comunque anche lì lo spazio era pieno di lavoro e di movimento: comete descrivevano archi fra radici, rami, foglie e tronchi, secondo precise traiettorie, e il loro carico d’acqua in superficie era volatilizzato con raggi di calore, regolati dagli Ouster e alimentati dagli erg, emessi dai tronchi e da foglie riflettenti geneticamente adattate che creavano specchi larghi centinaia di chilometri. Mutata l’acqua in vapore, grandi nuvole andavano alla deriva fra le radici striscianti e inumidivano i miliardi di chilometri quadrati di fogliame.
Più grandi delle comete erano le decine di asteroidi accuratamente posizionati e di lune custodi che si muovevano qualche migliaio o decine di migliaia di chilometri sopra la superficie interna ed esterna della sfera vivente: rettificavano la deriva orbitale, creavano maree e forze d’attrazione per favorire la corretta crescita dei rami, facevano ombra sulla superficie interna della biosfera dove l’ombra era necessaria, servivano da basi d’osservazione e da baracche per gli innumerevoli giardinieri Ouster e templari che sorvegliavano il progetto di decennio in decennio e di secolo in secolo.
E ora, a mezzo minuto luce dalla biosfera, accelerando verso il sole come in cerca del punto di traslazione Hawking, nella vasta cavità della sfera verde si vedeva altro traffico: navi da guerra Ouster, tutte obsolete per gli standard della Pax, con bolle per il motore Hawking o con enormi campi di contenimento a endoreattore; cacciatorpediniere ad alta accelerazione di tipo antiquato e navi C3 di un’epoca da tempo passata; eleganti mercantili sunjammer con grandi vele curve di monofilm luccicante, e dappertutto singoli angeli Ouster che battevano le ali scintillanti per bordeggiare verso il sole o per tornare a precipizio verso la biosfera.
Aenea e gli altri rientrarono nella nave per continuare la discussione. L’argomento era importante: escogitare un modo per impedire alla Pax di attaccare, una finta o una manovra diversiva che impedisse alla flotta in formazione di precipitarsi da questa parte. Ma io avevo in mente cose più importanti.
Quando A. Bettik si girò per lasciare la loggia, gli toccai il braccio. «Puoi restare qui a parlare un minuto?»
«Certo, signor Endymion.» La voce dell’androide era gentile come sempre.
Attesi di essere solo con lui nella loggia (il brusio di conversazione all’interno ci consentiva riservatezza all’esterno) e mi appoggiai alla ringhiera. «Mi spiace che non abbiamo avuto tante occasioni di parlare, dal nostro arrivo qui sull’Albero Stella» dissi.
Il cranio calvo di A. Bettik luccicava nella ricca luce del sole. Il suo sguardo era calmo e amichevole. «Va bene lo stesso, signor Endymion. Dal nostro arrivo, il susseguirsi di eventi è stato abbastanza frenetico. Convengo tuttavia che questo manufatto…» mosse l’unica mano a indicare la gigantesca curvatura dell’Albero Stella che pareva svanire nei pressi dello splendore del sole centrale «invita alla ricerca di occasioni per parlarne.»
«Non volevo parlare dell’Albero Stella né degli Ouster» dissi piano, sporgendomi dalla sua parte.
A. Bettik annuì e aspettò in silenzio.
«Tu hai accompagnato Aenea su tutti i pianeti che ha visitato, dalla Vecchia Terra a T’ien Shan, vero?» dissi. «Ixion, Patto-Maui, Vettore Rinascimento e gli altri.»
«Sì, signor Endymion. Ho avuto il privilegio di viaggiare con lei durante tutto il tempo in cui lei permise ad altri di accompagnarla nel viaggio.»
Mi mordicchiai il labbro; mi rendevo conto che stavo per fare la figura dello sciocco, ma non avevo scelta. «E quando lei non ti permise di accompagnarla nel viaggio?»
«Quando la signora Rachel, la signora Theo e gli altri rimasero con me su Groombridge Dyson D? Continuammo il lavoro della signora Aenea, signor Endymion. Sono stato particolarmente impegnato nella costruzione del…»
«No, no» lo interruppi. «Volevo domandarti che cosa sai della sua assenza.»
A. Bettik esitò. «Virtualmente nulla, signor Endymion» disse poi. «La signora Aenea ci comunicò di doversi assentare per qualche tempo. Aveva provveduto al nostro impiego e alla continuazione del lavoro con i suoi… studenti. Un giorno andò via e rimase via per quasi due anni standard…»
«Un anno, undici mesi, sette giorni e sei ore.»
«Sì, signor Endymion. Esatto.»
«E al suo ritorno non ti ha mai detto dov’era stata?»
«No, signor Endymion. Per quanto ne so, non l’ha mai rivelato a nessuno di noi.»
Avrei voluto afferrare A. Bettik per le spalle, fargli capire perché quella informazione era d’importanza vitale per me. Ma l’androide avrebbe capito? Non lo sapevo. Invece, sforzandomi di usare un tono calmo, quasi disinteressato (e fallendo miseramente) dissi: «Hai notato qualcosa di diverso in Aenea, quando tornò da quella vacanza, A. Bettik?».
Il mio amico androide esitò: non per riluttanza a parlare, pareva, ma per la difficoltà di ricordare sfumature d’emozione umana. «Subito dopo il suo ritorno partimmo per T’ien Shan, signor Endymion» disse poi. «Se ben ricordo, per alcuni mesi la signora Aenea fu soggetta a forti sbalzi d’umore… euforica un minuto, in preda alla più nera disperazione il minuto dopo. Ma quando lei è giunto su T’ien Shan, quella crisi emotiva pareva essersi già attenuata.»
«E non ha mai detto che cosa la provocasse?» Mi sentivo un porco a parlare così alle spalle della mia amata, ma sapevo che lei non avrebbe toccato con me quell’argomento.
«No, signor Endymion. Non mi parlò mai della causa. Presumo che si trattasse di uno o più eventi accaduti durante il periodo di assenza.»
Inspirai a fondo. «Prima che partisse, sugli altri pianeti, Amritsar, Patawpha, uno qualsiasi dei pianeti prima della sua partenza da Groombridge Dyson D… ha avuto… è stata… c’è stato qualcuno?»
«Non capisco, signor Endymion.»
«C’è stato un uomo nella sua vita, A. Bettik? Qualcuno verso il quale mostrasse affetto? Qualcuno che sembrasse in grande intimità con lei?»
«Ah» disse l’androide. «No, signor Endymion, non mi pare che ci fosse qualche maschio che mostrasse uno speciale interesse per la signora Aenea, se non come insegnante e possibile messia, naturalmente.»
«Già. E nessuno tornò con lei, dopo un anno, undici mesi, sette giorni e sei ore?»
«No, signor Endymion.»
Strinsi la spalla di A. Bettik. «Grazie, amico mio. Mi dispiace di averti fatto queste stupide domande. Solo che… non capisco… da qualche parte c’è un… merda, non importa. È solo una stupida emozione umana.» Mi girai per andarmi a unire agli altri.
A. Bettik mi prese per il polso e mi fermò. «Signor Endymion» disse piano «se l’emozione a cui si riferisce è l’amore, nella mia esistenza ho osservato la specie umana abbastanza a lungo da sapere che l’amore non è mai un’emozione stupida. Credo che la signora Aenea abbia ragione, quando insegna che potrebbe essere la principale energia dell’universo.»
Rimasi a guardarlo a bocca aperta, mentre lasciava la loggia e tornava nell’affollata biblioteca.
Erano sul punto di prendere una decisione.
«Secondo me» diceva Aenea, mentre entravo nella sala «dovremmo mandare un messaggio per mezzo della navetta a propulsione Gideon. Mandarlo direttamente e subito.»
«Confischeranno la navetta» disse Sian Quintana Ka’an, nel suo musicale contralto. «Ed è l’unica nave a propulsione istantanea che ci resta.»
«Bene» disse Aenea. «Quelle navi sono un abominio. Ogni volta che le si usa, si distrugge una parte del Vuoto che lega.»
«Tuttavia» disse Paul Uray, nel suo rauco dialetto Ouster, dando l’impressione di qualcuno che parlasse per radio fra scariche di statica «resta la possibilità di usare la navetta come mezzo di tiro.»
«Per lanciare testate nucleari o armi al plasma contro l’armada?» replicò Aenea. «Mi pareva che avessimo accantonato questa eventualità.»
«È il nostro unico modo di colpirli prima che ci colpiscano» disse il colonnello Kassad.
«Non sarebbe di alcun vantaggio» disse la Vera Voce dell’Albero Stella Ket Rosteen. «Le navette automatiche non sono costruite per la precisione. Una nave da guerra Arcangelo la distruggerebbe a minuti luce dal bersaglio. Sono d’accordo con Colei che insegna. Mandiamo il messaggio.»
«Ma il messaggio fermerà il loro attacco?» domandò Systenj Coredwell.
Aenea mosse la mano in quel gesto che conoscevo bene. «Non ci sono garanzie… ma se il messaggio li spiazza, almeno useranno le loro navette automatiche istantanee per rinviare l’attacco. Il tentativo vale la pena, ritengo.»
«E cosa dirà il messaggio?» domandò Rachel.
«Per favore, passatemi quella pergamena e lo stilo» disse Aenea.
Theo andò a prendere l’occorrente e lo depose sullo Steinway. Tutti, compreso me, si affollarono intorno a Aenea, che scrisse:
A papa Urbano XVI e al cardinale Lourdusamy.
Vengo su Pacem, al Vaticano.
«Ecco» disse la mia giovane amica, passando la pergamena a Navson Hamnim. «Per favore, appena avremo attraccato, mettila nella navetta corriere; predisponi il radarfaro su "Contiene messaggio scritto" e invia la navetta nel sistema di Pacem.»
L’Ouster prese la pergamena. Non avevo ancora imparato l’arte di leggere l’espressione facciale degli Ouster, ma capivo che qualcosa rendeva incerto Navson Hamnim. Forse era una forma ridotta dello stesso confuso timore che in quel momento mi riempiva il petto.
"Vengo su Pacem" pensai. Che diavolo significava, maledizione? Come poteva, Aenea, andare su Pacem e restare viva? Impossibile. E dovunque lei andasse, ero certo di una sola cosa: sarei stato al suo fianco. Ciò significava che Aenea avrebbe ucciso anche me, se era di parola. Com’era sempre stata. "Vengo su Pacem." Era solo un trucco per trattenere la loro flotta? Una vuota minaccia? un modo di tenerli in stallo? Avevo voglia di scuotere la mia amata fino a farle cadere i denti, o finché non mi avesse spiegato tutto.
«Raul» disse Aenea. Con un gesto mi invitò ad avvicinarmi.
Forse, pensai, questa era la spiegazione che volevo, forse dall’altra parte della stanza aveva letto la mia espressione e aveva visto il mio tumulto interiore. Invece Aenea disse solo: «Palou Koror e Drivenj Nicaagat mi mostreranno cosa si prova a volare come un angelo. Vuoi venire con me? Lhomo ha già accettato».
"Volare come un angelo?" Per un momento fui sicuro che straparlasse.
«Hanno una dermotuta in più, se vuoi venire» diceva intanto Aenea. «Ma dobbiamo muoverci subito. Siamo quasi tornati all’Albero Stella e la nave attraccherà fra qualche minuto. Het Masteen deve continuare il carico e l’approvvigionamento della Yggdrasill e io ho cento cose da fare prima di domani.»
«Va bene» dissi, senza sapere a che cosa acconsentissi. «Vengo anch’io.» In quel momento ero abbastanza ingrugnito da pensare che la risposta era una meravigliosa metafora per tutti i miei dieci anni di odissea: "Va bene, non so cosa faccio né dove mi caccio, ma conta anche me nel gruppo".
Uno degli Ouster adattati allo spazio, Palou Koror, ci diede le dermotute. Avevo già usato le dermotute, naturalmente… l’ultima volta risaliva solo a qualche settimana prima (anche se mi parevano mesi o anni) quando con Aenea e A. Bettik avevo scalato il T’ai Shan, il Grande Picco del Regno di mezzo… ma non avevo mai visto né toccato una dermotuta come quelle.
L’invenzione delle dermotute risale a parecchi secoli fa e si basa sull’idea che il modo migliore per non esplodere nel vuoto non è l’ingombrante tuta pressurizzata dei primi giorni del volo spaziale, ma un rivestimento così sottile da consentire la traspirazione anche mentre protegge la pelle dal terribile calore, dal freddo e dal vuoto dello spazio. In tutti questi secoli le dermotute non sono cambiate molto, se non per incorporare filamenti per riciclare l’aria e pannelli osmotici. La mia ultima dermotuta era un manufatto dell’Egemonia, abbastanza efficiente, prima che con le sue unghie Rhadamanth Nemes la riducesse a brandelli.
Ma questa non era una dermotuta normale. Argentea, malleabile come mercurio, mi diede la sensazione, quando Palou Koror me la passò, di un caldo grumo di protoplasma privo di peso. Si muoveva davvero come mercurio. No, si muoveva e scorreva come una fluida creatura vivente. Per la sorpresa la lasciai quasi cadere; la presi al volo con l’altra mano e me la vidi rifluire di alcuni centimetri su per il polso e il braccio, come un alieno che assorbisse carne.
Di sicuro mi lasciai sfuggire un’esclamazione, perché Aenea disse: «Sì, Raul, è viva. Quella dermotuta è un organismo, geni modificati su misura e interventi di nanotecnologia, ma un organismo spesso solo tre molecole».
«Come faccio a metterla?» dissi, guardandola rifluire su per il braccio fino alla manica e poi ritrarsi. Sospettai che quella creatura fosse più un carnivoro che un indumento. E poi, il guaio delle dermotute è che vanno portate a contatto della pelle: non si possono tenere strati di stoffa sotto una dermotuta. In nessuna parte del corpo.
«Ah, è facile» disse Aenea. «Niente acrobazie, come per le vecchie dermotute. Basta spogliarsi, restare immobili e lasciarsela cadere sulla testa. La dermotuta rifluisce addosso. Dobbiamo sbrigarci.»
La spiegazione non mi ispirò grande entusiasmo.
Aenea e io chiedemmo permesso, salimmo la scala a chiocciola e andammo nella stanza da letto in punta della nave. Ci spogliammo rapidamente. Guardai la mia amata, in piedi, nuda, accanto all’antico (e comodo, come ben ricordavo) letto del console, e fui sul punto di suggerirle un modo migliore di passare il tempo prima dell’attracco. Ma Aenea agitò il dito per ammonirmi, alzò sopra la testa il grumo di argenteo protoplasma e se lo lasciò cadere nei capelli.
Era allarmante, guardare quell’organismo color argento inghiottire Aenea, fluire su di lei dai capelli come metallo liquido, coprirle gli occhi e la bocca e il mento, scorrerle lungo il collo come lava riflettente, poi coprirle spalle, seni, ventre, fianchi, pube, cosce, ginocchia… Alla fine Aenea alzò prima un piede, poi l’altro, e il rivestimento fu completo.
«Tutto a posto?» dissi, con una voce preoccupata, mentre il mio grumo mi pulsava nella mano, ansioso di mettere le grinfie su di me.
Aenea, o la statua cromata che era stata Aenea, alzò il pollice e poi si indicò la gola. Capii che cosa voleva dire: come per le dermotute dell’Egemonia, da ora in poi ci saremmo parlati mediante i microfoni di subvocalizzazione.
Sollevai a due mani la massa pulsante, trattenni il fiato, chiusi gli occhi, me la lasciai cadere sulla testa.
Occorsero meno di cinque secondi. Per un terribile istante fui sicuro di non poter respirare, sentendo la massa viscida coprirmi il naso e la bocca; ma poi ricordai di inspirare e respirai ossigeno fresco e puro.
"Mi senti, Raul?" La voce di Aenea era molto più distinta di quanto non fosse stata attraverso gli auricolari della vecchia dermotuta.
Risposi con un cenno affermativo, poi subvocalizzai: "Sì. Fa uno strano effetto!"
"Signora Aenea, signor Endymion, siete pronti?"
Impiegai un secondo per capire che era la voce del secondo Ouster spazio-adattato, Drivenj Nicaagat, sulla banda della dermotuta. Avevo già udito la sua voce, ma trasmessa mediante sintetizzatore di linguaggio. Sulla linea diretta, era perfino più chiara e melodiosa del cinguettio di Sian Quintana Ka’an.
"Siamo pronti" rispose Aenea. Scendemmo la scala a chiocciola, passammo in mezzo alla folla e uscimmo sulla loggia.
"Buona fortuna, signora Aenea, signor Endymion." Era A. Bettik, che ci parlava per mezzo della nave. L’androide toccò la spalla a tutt’e due mentre noi ci avvicinavamo alla balaustra della loggia dove aspettavano Koror e Nicaagat.
Anche Lhomo ci aspettava: l’argentea dermotuta gli metteva in rilievo i muscoli delle braccia e delle cosce, il ventre piatto. Per un attimo mi sentii impacciato: da un lato avrei voluto indossare qualcosa sopra lo strato di fluido argenteo spesso millesimi di millimetro, dall’altro rimpiangevo di non essermi impegnato per mantenere in forma il fisico. Aenea era bellissima, pareva una statua cromata. Ero lieto che nessuno, a parte l’androide, ci avesse seguito sulla loggia.
Ora la nave si trovava a meno di duemila chilometri dall’Albero Stella e decelerava forte. Palou Koror saltò con facilità sulla sottile balaustra della loggia, tenendosi in equilibrio nella gravità un sesto del normale. Drivenj Nicaagat seguì il suo esempio, imitato da Lhomo e poi da Aenea; per ultimo, con molta meno grazia, mi unii a loro. Avevo la schiacciante sensazione di trovarmi a grande altezza e allo scoperto: il grande bacino verde dell’Albero Stella sotto di noi, le pareti di foglie che si alzavano a distanze incommensurabili su tutti i lati, la massa della nave che descriveva una curva e spariva sotto di noi in equilibrio sulla sottile colonna di fiamma di fusione come un edificio traballante su un fragile pilastro azzurrino. Provai un senso di nausea: stavamo per saltare nel vuoto.
"Non preoccupatevi, staccherò il campo di contenimento nel preciso istante in cui lo attraverserete e passerò ai repulsori EM finché non sarete lontano dai gas di scarico del motore." Capii che a parlare era la nave. Non avevo idea di che cosa stavamo per fare.
"Le tute dovrebbero darvi una rozza idea del nostro adattamento" diceva intanto Palou Koror. "Certo, per quelli fra noi che hanno scelto l’integrazione totale, non sono le tute semisenzienti e i loro microprocessori molecolari e consentirci di vivere e muoverci nello spazio, ma i circuiti adattati nella nostra pelle, sangue, occhi, cervello."
"Come facciamo a…" iniziai, trovando una certa difficoltà a subvocalizzare, come se la bocca asciutta avesse effetto sui muscoli della gola.
"Tranquilli" disse Nicaagat. "Non apriremo le ali finché non saremo alla distanza giusta. Le ali non si urteranno: i campi non lo permetterebbero. I comandi sono del tutto intuitivi. I sistemi visivi della tuta dovrebbero interfacciarsi col vostro sistema nervoso e con i neurosensori, richiamando i dati quando occorre."
"Dati? Quali dati?" Nelle mie intenzioni era solo un pensiero, ma la trasmittente della tuta diffuse la mia voce.
Aenea mi prese la mano. "Sarà divertente, Raul. Gli unici minuti liberi che avremo oggi, credo. O per un bel pezzo."
In quel momento, in equilibrio sulla balaustra, sull’orlo di una terrificante caduta verticale nelle fiamme di fusione e nel vuoto, non capii esattamente il significato delle sue parole.
"Venite" disse Palou Koror e saltò dalla ringhiera.
Aenea e io saltammo insieme, tenendoci per mano.
Aenea mi lasciò la mano e ruotammo lontano l’uno dall’altra. Il campo di contenimento si aprì e ci proiettò a distanza di sicurezza; il motore a fusione si spense, mentre noi cinque roteavamo lontano dalla nave, e poi si riaccese: la nave parve precipitare verso l’alto e lontano da noi, per la diversa velocità di decelerazione; e continuammo a cadere, una sensazione opprimente, cinque sagome argentee, a braccia e gambe larghe, che si separavano sempre più in fretta l’una dall’altra, che precipitavano insieme verso il traliccio dell’Albero Stella ancora parecchie migliaia di chilometri più indietro. Poi le ali si aprirono.
"Per i nostri scopi di oggi, bastano ali-luce larghe un chilometro" disse nel mio orecchio la voce di Palou Koror. "Se dovessimo viaggiare più lontano o a velocità maggiore, sarebbero molto più estese… anche parecchie centinaia di chilometri."
Quando alzai le braccia, i pannelli di energia estrusi dalla dermotuta si srotolarono come ali di farfalla. Sentii davvero l’improvvisa spinta della luce del sole.
"Sentiamo soprattutto la corrente della linea del campo magnetico primario che seguiamo" disse Palou Koror. "Se posso intervenire sulla vostra tuta per un secondo… ecco fatto."
La visione mutò. Guardai a sinistra, dove Aenea era in caduta libera, già distante vari chilometri, una lucente crisalide argentea contro ali dorate in espansione. Gli altri brillavano dietro di lei. Vedevo davvero il vento solare, la particelle cariche e le correnti di plasma che fluivano a spirale verso l’esterno lungo la geometria infinitamente complessa della eliosfera: rosse linee di campo magnetico distorto, disposte a spire, come dipinte sulla superficie interna della conchiglia di un nautilo in continuo mutamento; e tutto quel ritorto, multistrato, variegato fremito di fiumi di plasma rifluiva verso un sole che non pareva più una pallida stella, ma il punto focale di milioni di linee di campo convergenti, distese di plasma espulse a 400 chilometri al secondo e attratte in quelle forme dai pulsanti campi magnetici negli equatori nord e sud. I festoni viola delle linee magnetiche sfrecciavano verso l’interno, si intrecciavano con il rosso cremisi delle correnti di campo che esplodevano verso l’esterno. Vedevo i vortici azzurri dell’onda d’urto eliosferica intorno ai margini esterni dell’Albero Stella, le lune e le comete che tagliavano il plasma come navi che solcassero di notte le onde fosforescenti di un oceano, e vedevo le nostre ali dorate interagire con quell’ambiente di plasma e di correnti magnetiche, afferrare fotoni come miliardi di lucciole nelle nostre reti: vele che si gonfiavano alle correnti di plasma, i nostri corpi argentei che acceleravano lungo le grandi pieghe scintillanti e le geometrie magnetiche a spirale della matrice eliosferica.
In aggiunta a questa visione accresciuta, sul quadro visivo della tuta si sovrapponevano dati di traiettoria e di calcolo che per me non avevano significato, ma che per quegli Ouster spazio-adattati rappresentavano senza dubbio la differenza fra la vita e la morte. Equazioni e funzioni passavano in un lampo, parevano galleggiare lontano nel punto focale critico; ne ricordo solo qualche esempio:
Non capii nessuna di quelle equazioni, ma capii che ci avvicinavamo all’Albero Stella a velocità troppo elevata. In aggiunta alla velocità della nave, avevamo ricevuto la spinta del vento solare e del fiume di plasma. Cominciavo a capire che quelle ali di energia potevano spingere lontano da una stella, anche a velocità impressionante; ma come ci si fermava in uno spazio che pareva inferiore a mille chilometri?
"È fantastico." La voce di Lhomo. "Stupefacente."
Ruotai la testa e vidi il nostro amico aviatore di T’ien Shan, molto lontano a sinistra e vari chilometri più in basso. Lhomo era già entrato nella zona delle foglie, planava e risaliva proprio sopra la confusa macchia azzurrina del campo di contenimento che circondava come membrana osmotica i rami e gli spazi fra i rami.
"Come diavolo ci riesce?" mi stupii.
Anche stavolta, senza accorgermene, subvocalizzai il pensiero, perché udii la profonda, caratteristica risata di Lhomo e subito dopo ricevetti: "Usa le ali, Raul. E collabora con l’albero e con gli erg!".
Collabora con l’albero e con gli erg? Il mio amico aveva di sicuro perduto la ragione.
Poi vidi Aenea estendere le ali, manovrarle sia col pensiero sia col movimento delle braccia. Più avanti rispetto a lei, il mondo di rami si avvicinava a velocità terrificante. Allora cominciai a capire il trucco.
"Così va bene." La voce di Drivenj Nicaagat. "Prendi il vento repulsore. Bene."
Vidi i due Ouster svolazzare come farfalle e il torrente di plasma che si alzava dall’Albero Stella a circondarli; all’improvviso li sorpassai a grande velocità, come se loro avessero aperto il paracadute e io fossi ancora in caduta libera.
Ansimando nel campo della dermotuta, col cuore che batteva forte, allargai braccia e gambe e ordinai mentalmente alle ali di diventare più grandi. Le pieghe di energia baluginarono e si espansero di almeno due chilometri. Sotto di me, una distesa di foglie si spostò, si girò con lentezza diretta a uno scopo ben preciso, come in un documentario al rallentatore di fiori che cerchino la luce; le foglie si piegarono e si sovrapposero, formarono un liscio disco parabolico del diametro di almeno cinque chilometri e divennero perfettamente riflettenti.
La luce del sole mi colpì col suo splendore. Se avessi guardato senza protezione agli occhi, sarei stato accecato all’istante. Invece i visori della tuta si polarizzarono. Io udii la luce del sole colpire la dermotuta e le ali, con un forte picchiettio come di pioggia contro un tetto di lamiera. Distesi le ali per cogliere l’ardente folata di luce nello stesso istante in cui gli erg sull’Albero Stella più in basso chiudevano la matrice dell’eliosfera, ripiegavano contro di noi il torrente di plasma, facevano decelerare rapidamente ma non dolorosamente Aenea e me. Battemmo le ali e passammo nei pergolati di rami esterni dell’Albero Stella, mentre i visori della dermotuta continuavano a far balenare dati davanti ai miei occhi:
La qual cosa in qualche modo mi assicurò che l’albero forniva il giusto quantitativo di luce solare basato sulla sua massa e luminosità, mentre l’erg forniva la giusta quantità di plasma eliosferico e di ritorno magnetico per portarci a un delta-v prossimo a zero prima che colpissimo uno degli enormi rami principali o incrociassimo il campo di contenimento.
Aenea e io seguimmo gli Ouster, usando le ali come loro usavano le proprie, risalendo e poi battendole, frenando e poi espandendole per catturare la luce del sole per una nuova accelerata, calando a precipizio fra i rami esterni, risalendo sopra il frondoso strato esterno dell’Albero Stella, poi tuffandoci di nuovo in profondità fra i rami, ripiegando le ali per passare fra capsule o ponti coperti, al di là dei campi di contenimento, precipitando intorno ad affaccendati calamari celesti i cui tentacoli erano dieci volte più lunghi della nave del console che ora decelerava con prudenza nel livello delle foglie, poi riaprendo le ali per saettare al di là di banchi di migliaia di piastrine Akerataeli di un azzurro pulsante che parvero salutarci al nostro passaggio.
Proprio sotto il baluginio del campo di contenimento c’era un enorme ramo piattaforma. Non sapevo se le ali avrebbero funzionato nel campo, ma Palou Koror attraversò con un semplice scintillio la barriera, come un tuffatore che tagli con eleganza l’acqua, seguito da Drivenj Nicaagat, da Lhomo, da Aenea, infine da me; ripiegai le ali fino a ridurne il diametro a una decina di metri, attraversai la barriera di energia e tornai di nuovo in un ambiente di aria, di suoni, di odori, di brezze.
Atterrammo sulla piattaforma.
«Davvero bravi, per il primo volo» disse Palou Koror, con voce ora sintetizzata per l’atmosfera. «Volevamo condividere con voi un breve momento della nostra vita.»
Aenea disattivò la dermotuta intorno al viso e lasciò che rifluisse in un collare di mercurio fluido. Aveva occhi luminosi, pieni di vita come mai li avevo visti. Era rossa d’entusiasmo, aveva i capelli madidi. «Meraviglioso!» esclamò. Si girò, mi prese per la mano, mi tenne stretto. «Meraviglioso… Grazie infinite. Grazie, grazie, grazie, cittadino Nicaagat, cittadino Koror.»
«È stato un piacere, riverita maestra» disse Nicaagat, con un inchino.
Alzai gli occhi e mi accorsi che la Yggdrasill era ormeggiata proprio sopra di noi: il chilometro di rami e tronchi della nave-albero si fondeva perfettamente con i rami della biosfera. La notai solo perché un calamaro spaziale aveva ormeggiato la nave del console e in quel momento la tirava lentamente in una capsula hangar. Cloni d’equipaggio, impegnati in un febbrile lavoro, portavano nella nave di Het Masteen carichi di provviste e cubi di Moebius; decine di cordoni ombelicali di supporto vita e di steli vegetali di collegamento correvano dall’Albero Stella alla nave-albero.
Aenea mi stringeva ancora la mano. Quando girai lo sguardo dalla nave-albero sospesa sopra di noi alla mia amica, Aenea si sporse e mi baciò sulle labbra. «Riesci a immaginarlo, Raul? Milioni di Ouster spazio-adattati vivono realmente là fuori, vedono in continuazione tutta quella energia, volano per settimane e mesi nel vuoto dello spazio, corrono nelle tumultuose rapide delle sfere magnetiche e nei vortici intorno ai pianeti, cavalcano le onde d’urto del vento solare, per dieci o più UA, e poi volano ancora oltre, ai confini dell’eliosfera, da settantacinque a centocinquanta UA dalla stella, là dove il vento solare cessa e inizia l’ambiente interstellare. Odono davvero il sibilo e i bisbigli e il rombo dei frangenti dell’oceano dell’universo. Riesci a immaginarlo?»
«No» risposi. Non ci riuscivo. Non sapevo di che cosa parlasse. A quel tempo, almeno.
A. Bettik, Rachel, Theo, Kassad e gli altri scesero da una liana di transito. Rachel portò gli abiti per Aenea. A. Bettik aveva quelli per me.
Ouster e altri circondarono di nuovo la mia amica, cercarono risposte a domande urgenti, chiarimenti di ordini, fecero rapporti sull’imminente lancio della navetta automatica a propulsione Gideon. La pressione della folla ci separò.
Aenea girò la testa e mi salutò col braccio. Alzai la mano, ancora argentata dalla dermotuta, per ricambiare il saluto, ma lei era già sparita.
Quella sera alcune centinaia di noi presero una capsula di trasporto trainata da un calamaro celeste per raggiungere un sito a molte migliaia di chilometri a nordest sul piano dell’eclittica lungo il guscio interno della biosfera Albero Stella; ma il viaggio durò meno di trenta minuti, perché il calamaro usò una scorciatoia, tagliando un arco nello spazio dalla nostra sezione di sfera a quella di destinazione.
Il complesso di capsule viventi e di piattaforme pubbliche, di rami torre e di ponti di collegamento in quella sezione dell’albero ancora molto vicina alla nostra regione, per la geografia di quella gigantesca struttura, pareva diversa — più ampia, più barocca, davvero aliena — e gli Ouster e i templari di quella zona parlavano un dialetto leggermente diverso, mentre gli Ouster spazio-adattati si ornavano con bande di colore scintillante che non avevo ancora visto. Lì, nelle zone fornite di atmosfera, c’erano altri tipi di uccelli e di animali: pesci esotici che nuotavano nell’aria nebbiosa, grandi branchi di creature simili alle orche della Vecchia Terra, munite però di corte braccia e di eleganti mani. E questa zona distava solo poche migliaia di chilometri da quella che conoscevo. Non riuscivo a immaginare la diversità di culture e di forme di vita in tutta quella biosfera. Per la prima volta capii ciò che Aenea e gli altri avevano continuato a ripetermi: le sezioni già ultimate della biosfera avevano maggiore superficie di tutti i pianeti scoperti dall’uomo nei suoi mille anni di volo interstellare. Una volta completato l’Albero Stella e accelerata la biosfera interna, il volume di spazio vivibile,avrebbe superato quello di tutti i pianeti abitabili della Via Lattea.
Fummo accolti da funzionari locali, festeggiati per qualche momento su affollate piattaforme a un sesto di gravità, fra centinaia di dignitari Ouster e templari, poi condotti in una capsula così vasta che poteva benissimo essere una piccola luna.
Parecchie centinaia di migliaia di Ouster e di templari erano in attesa, insieme con alcune centinaia di Seneschai Aluit e una moltitudine di Akerataeli librati nei pressi della piattaforma centrale. Mi resi conto con sorpresa che gli erg avevano portato il campo di contenimento interno a un comodo valore di un sesto di g, spingendo tutti verso la superficie della sfera; ma poi notai che i sedili continuavano in alto e sopra e intorno a tutto l’interno della sfera. Cambiai la stima della folla: i presenti superavano facilmente il milione di individui.
Il cittadino Ouster Navson Hamnim e la Vera Voce dell’Albero Stella Ket Rosteen presentarono Aenea e dissero che aveva portato con sé il messaggio che il loro popolo attendeva da secoli.
La mia giovane amica salì sul podio, guardò in alto e intorno e in basso, come per stabilire contatto visivo con ogni persona presente nella smisurata sala. Pareva calma. Il sistema acustico era così sofisticato che saremmo riusciti a sentirla deglutire o respirare.
«Scegli ancora» disse Aenea. Si girò, si allontanò dal podio e si accostò al lungo tavolo dove erano disposti i calici.
Centinaia di noi donarono il sangue, solo alcune gocce, e i calici di vino vennero fatti circolare tra i presenti in attesa. Non c’era modo, capii, che un milione di Ouster e di templari in attesa di comunicarsi potessero essere serviti dalle poche centinaia di noi che avevano già ricevuto da Aenea la comunione; ma gli aiutanti trassero gocce di sangue, usando bisturi sterilizzati, le gocce furono trasferite al serbatoio di vino, decine e decine di aiutanti passarono sotto gli zipoli i bulbi a calice e nel giro di un’ora tutti coloro che desideravano fare la comunione col sangue-vino di Aenea furono accontentati. La grande sfera cominciò a svuotarsi.
Dopo le due parole di Aenea, nient’altro era stato detto per l’intera serata. Per la prima volta in quel lungo giorno che pareva eterno, ci fu silenzio nella capsula di trasporto diretta a casa. Casa: la nostra regione dell’Albero Stella all’ombra della Yggdrasill destinata a partire entro venti ore.
Mi ero sentito un impostore. Avevo bevuto il vino quasi ventiquattro ore prima, ma non provavo niente, quel giorno, a parte il solito amore per Aenea, cioè il mio assolutamente insolito, unico amore per Aenea, senza precedenti né uguali.
Tutti quelli che volevano bere, avevano bevuto. La grande sfera si era svuotata, nel silenzio anche di chi non era venuto per accettare la comunione, e non so dire se il silenzio fosse dovuto alla delusione per quel discorso di due parole o alla riflessione su qualcosa che andava al di là e al di sotto del discorso stesso.
Prendemmo la capsula di trasporto per fare ritorno alla nostra regione dell’Albero Stella e restammo anche noi in silenzio, a parte le frasi indispensabili. Non era un silenzio impacciato o deluso, era piuttosto un silenzio di stupore reverenziale confinante con la paura, al termine di una parte della propria vita e all’inizio, speranza di inizio, di un’altra.
Scegli ancora. Aenea e io facemmo l’amore nella capsula soggiorno oscurata, malgrado la stanchezza e l’ora tarda. Fu un atto lento e tenero e quasi insopportabilmente dolce.
Scegli ancora. Furono le ultime parole che avevo in mente, quando infine andai alla deriva, alla lettera, nel sonno.
Scegli ancora. Avevo capito. Avevo scelto Aenea e la vita con Aenea. E credo che lei avesse scelto me.
E avrei scelto lei e lei avrebbe scelto me di nuovo, l’indomani, e il giorno dopo ancora, e in ogni ora di tutti i giorni a venire.
Scegli ancora. Sì. Sì.
Mi chiamo Jacob Schulmann. Scrivo questa lettera ai miei amici di Lodz:
"Carissimi amici, ho aspettato a scrivervi per avere conferma di ciò che ho sentito dire. Ahimè, con nostro grande dolore, ormai sappiamo tutto. Ho parlato con un testimone oculare che riuscì a fuggire. Mi ha raccontato ogni cosa. Li sterminano a Chelmno, presso Dombie, e li sotterrano tutti nella foresta di Rzuszow. Uccidono gli ebrei in due modi: con un colpo d’arma da fuoco o con il gas. È appena accaduto a migliaia di ebrei di Lodz. Non crediate che le mie siano le parole di un pazzo. Purtroppo dicono la tragica, orribile verità.
"Orrore, orrore! Uomo, svesti i panni, cospargiti il capo di cenere, corri per le vie e danza nella follia. Sono così stanco da non riuscire più a usare la penna. Creatore dell’universo, aiutaci!"
Scrivo la lettera il 19 gennaio 1942. Alcune settimane più tardi, durante un disgelo di febbraio che è un falso segno di primavera per i boschi intorno a Grabow, la nostra città, noi uomini nel campo veniamo caricati su furgoni. Su alcune fiancate sono dipinti, a colori vivaci, disegni di alberi tropicali e di animali della giungla. Sono i furgoni per i bambini, preparati la scorsa estate, quando portarono via dal campo i più giovani. Durante l’inverno il colore è sbiadito e i tedeschi non si sono presi la briga di ritoccare i disegni, così quegli allegri quadretti paiono svanire come i sogni dell’estate scorsa.
Ci portano a Chelmno, che i tedeschi chiamano Kulmhof, un percorso di quindici chilometri. Qui ci ordinano di uscire dai furgoni e di andare nella foresta a fare i bisogni. Non ci riesco, non sotto gli occhi delle guardie e degli altri, ma fingo di orinare e mi riabbottono i calzoni.
Ci rimettono nei grossi furgoni e ci portano a un vecchio castello. Qui ci ordinano di nuovo di uscire, ci fanno attraversare un cortile disseminato di vestiti e di scarpe, ci fanno scendere in uno scantinato. Sulla parete dello scantinato c’è una scritta in yiddish: "Da qui nessuno esce vivo". Ora nello scantinato siamo centinaia, tutti maschi, tutti polacchi, molti provenienti dai villaggi vicini come Gradow e Kolo, molti da Lodz. L’aria puzza di umidità e di marciume, di pietra gelida e di muffa.
Dopo alcune ore, mentre la luce svanisce, lasciamo vivi lo scantinato. Sono giunti altri furgoni, più grandi, con portellone a due battenti. Sono dipinti di verde. Non hanno disegni sulle fiancate. Le guardie aprono il portellone e vedo che molti di questi furgoni più grandi sono quasi pieni; ciascuno contiene da settanta a ottanta uomini. Non ne riconosco nessuno.
I tedeschi ci spingono e ci picchiano per farci entrare in fretta nei grandi furgoni. Molti di quelli che conosco si mettono a piangere; allora li guido nella preghiera, mentre ci ammucchiano nei furgoni puzzolenti. "Shema Israel" preghiamo. Preghiamo ancora, quando chiudono con un tonfo le portiere.
Fuori, i tedeschi gridano all’autista polacco e ai suoi aiutanti polacchi. Sento uno degli aiutanti gridare: "Gas!" in polacco; mi giunge il rumore di un tubo o di una manichetta, innestato da qualche parte sotto il nostro furgone. Il motore si riaccende con un rombo.
Alcuni di quelli intorno a me continuano a pregare con me, ma molti si mettono a urlare. La macchina comincia a muoversi, molto lentamente. Capisco che prendiamo la stretta strada asfaltata costruita dai tedeschi, quella che da Chelmno si inoltra nella foresta. Gli abitanti dei villaggi sono rimasti stupiti, perché la strada non porta da nessuna parte: si ferma nella foresta e forma uno spiazzo che consente agli autocarri di girare. Ma lì non c’è niente, solo la foresta e i forni che i tedeschi hanno ordinato di costruire e i pozzi che hanno ordinato di scavare. Ce l’hanno detto gli ebrei del campo che lavorarono a quella strada e che scavarono i pozzi e che costruirono i forni. Non ci credemmo, quando ne parlarono; ma poi quelli sparirono, deportati.
L’aria diventa viziata. Le urla crescono. Il cuore mi sanguina. Diventa difficile respirare. Il cuore mi batte forte. Con la sinistra tengo per mano un giovane, anzi un ragazzo, e con la destra un uomo anziano. L’uno e l’altro pregano con me.
Da qualche parte nel nostro furgone qualcuno canta più forte delle urla, canta in yiddish, canta con voce da baritono educata per l’opera Urica:
Mio Dio, mio Dio,
perché ci hai dimenticato?
Siamo stati gettati nel fuoco già una volta,
ma non abbiamo mai negato la tua sacra Legge.
«Aenea! Mio Dio! Cosa mi succede?»
«Sst. È tutto a posto, amore. Sono qui.»
«Non capisco… cosa?»
Mi chiamo Kaltryn Cateyen Endymion e sono la moglie di Trorbe Endymion, morto cinque mesi fa in un incidente di caccia. Sono anche la madre del piccolo Raul, che ora ha tre anni di Hyperion e al momento gioca vicino al fuoco di bivacco al centro dei carrozzoni, sotto l’occhio vigile delle zie.
Risalgo il pendio erboso della vallata dove i carrozzoni si sono disposti in cerchio per la notte. Ci sono alcuni tripioppi tremuli lungo il ruscello nella vallata, ma per il resto le brughiere sono prive di segni di riferimento, solo erba, erica, artemisia, pietre, sassi arrotondati, licheni. E pecore. Si vedono e si odono centinaia di pecore della carovana, sulle alture verso est: si muovono e si spostano, spinte dai cani da pastore.
Seduta su un affioramento roccioso che consente una bella visuale della valle verso ponente, nonna rammenda vestiti. Una foschia vela l’orizzonte occidentale, significa acqua aperta, il mare; ma il mondo intorno a noi è delimitato da brughiere, dal cielo di un turchese sempre più scuro per il calare della sera, dalle scie di meteoriti che segnano e risegnano silenziosamente quel cielo, dal fruscio dell’erba mossa dal vento.
Mi accomodo su un sasso accanto a nonna. È la madre della mia defunta madre, la sua faccia è la nostra, ma più vecchia, con la pelle segnata dalle intemperie, capelli bianchi e corti, ossa ben marcate in un viso forte, naso affilato, occhi castani circondati da rughe d’allegria.
«Finalmente sei tornata» dice nonna. «Il viaggio è andato bene?»
«Sì» dico. «Tom ci ha portato lungo la costa, da Port Romance, e poi su per la strada del Becco, anziché pagare la tariffa del traghetto e attraversare le paludi. La prima notte ci siamo fermati alla locanda Benbroke, la seconda ci siamo accampati lungo il Suiss.»
Nonna annuisce. Muove abilmente le dita nel lavoro di rammendo. Accanto a sé sulla roccia ha un cesto di vestiti. «E i medici?»
«L’ospedale era molto grande» dico. «I cristiani l’hanno ampliato, dall’ultima volta che siamo stati a Port Romance. Le sorelle, le infermiere, sono state molto gentili, durante gli esami.»
Nonna rimane in silenzio, aspetta.
Guardo giù nella vallata, dove il sole comincia a trovare varchi fra le nubi scure. La luce illumina i fianchi della valle, lancia ombre sottili dietro i bassi macigni e le alture sassose, incendia l’erica.
«Cancro» dico. «Il nuovo ceppo.»
«Questo l’aveva già detto il medico di Moor’s Edge» replica nonna. «Qual è la loro prognosi?»
Prendo una camicia, una di quelle di Trorbe, ma ora appartiene a suo fratello Ley, zio di Raul. Tolgo dalla tasca del grembiule ago e filo e comincio a riattaccare il bottone che Trorbe aveva perso proprio prima della sua ultima spedizione di caccia su a nord. Divento rossa, al pensiero che ho dato a Ley la camicia senza un bottone. «Mi consigliano di accettare la croce» rispondo.
«Non c’è una cura?» dice nonna. «Con tutte le loro macchine e i loro sieri?»
«Una volta c’era. Ma si basava sulla tecnologia molecolare…»
«Nanotec» dice nonna.
«Sì. La Chiesa l’ha messa al bando qualche tempo fa. Sui pianeti più progrediti ci sono altre cure.»
«Ma su Hyperion non ci sono» dice nonna. Mette da parte gli indumenti che aveva in grembo.
«Già.» Mentre parlo, mi sento molto stanca, ho ancora un po’ di nausea per gli esami e per il viaggio, e molto calma. Ma anche tanto triste. La brezza mi porta le risate di Raul e degli altri bambini.
«E consigliano di accettare la croce» dice nonna. L’ultima parola pare tronca e tagliente.
«Sì. Ieri un giovane prete molto gentile mi ha parlato per delle ore.»
Nonna mi guarda negli occhi. «E tu accetterai la croce, Kaltryn?»
Ricambio lo sguardo. «No.»
«Sei sicura?»
«Sicurissima.»
«Trorbe sarebbe di nuovo vivo e con noi, ora, se la scorsa primavera avesse accettato il crucimorfo come supplicava il missionario.»
«Non il mio Trorbe!» dico e giro la testa. Per la prima volta da quando sono iniziati i dolori, sette settimane fa, piango. Non per me, lo so, ma perché rivedo Trorbe sorridere e salutarmi col braccio, quel suo ultimo giorno, al levar del sole, prima di andare con i fratelli a caccia di ribonie di palude vicino alla costa.
Nonna mi tiene la mano. «Pensi a Raul?»
Scuoto la testa. «Ancora no. Fra qualche settimana non penserò ad altro.»
«Non ti devi preoccupare per lui» dice piano nonna. «Non ho ancora dimenticato come si allevano i bambini. Ho sempre storie da raccontare e cose da insegnare. E terrò vivo in lui il ricordo di te.»
«Sarà ancora così giovane, quando…» Mi interrompo.
Nonna mi stringe forte la mano. «I giovani ricordano più a fondo» dice piano. «Quando siamo vecchi e incerti, rivediamo con maggiore chiarezza proprio i ricordi dell’infanzia.»
Il tramonto è brillante, ma offuscato dalle mie lacrime. Tengo la testa girata a mezzo, per non incontrare lo sguardo di nonna. «Non voglio che mi ricordi solo da vecchio. Voglio vederlo… ogni giorno… vederlo giocare e crescere.»
«Ricordi la poesia di Ryokan che ti insegnai quando avevi solo qualche mese più di Raul?»
Non posso fare a meno di ridere. «Mi hai insegnato decine di poesie di Ryokan, nonna.»
«La prima» dice lei.
Mi basta un momento per ricordarla. La recito, evitando il tono cantilenante, proprio come nonna mi insegnò quando avevo qualche mese più di Raul adesso:
«Quanto sono felice
mentre man nella mano
vado con i miei bimbi
a cogliere verdure
nei campi a primavera!»
Nonna ha chiuso gli occhi: vedo quant’è sottile la pergamena delle sue palpebre. «Quella poesia ti piaceva, Kaltryn.»
«Mi piace sempre.»
«E dice qualcosa sulla necessità di raccogliere verdure la prossima settimana o il prossimo anno o fra dieci anni, per essere felice adesso?»
Sorrido. «Per te è facile dirlo, vecchia» replico, con voce bassa e affettuosa per addolcire la mancanza di rispetto nelle parole. «Tu stai raccogliendo verdure da settantaquattro primavere e conti di continuare per altre settanta.»
«Non ne verranno così tante, credo.» Mi dà un’ultima stretta e mi lascia la mano. «Ma la cosa importante è andare con i bimbi adesso, nel sole di questa sera primaverile, e raccogliere in fretta le verdure, per la cena di stasera. Preparo la tua minestra preferita.»
Batto le mani. «La minestra tramontana? Ma non ci sono i porri.»
«Ci sono, nei prati meridionali, dove ho mandato Lee e i suoi ragazzi a cercarli. Ne hanno una pentola piena. Ora vai a prendere le verdure primaverili da aggiungere alla minestra. Porta con te il tuo bambino e torna prima che sia davvero buio.»
«Ti voglio bene, nonna.»
«Lo so. E Raul ti vuole bene, piccolina. Penserò io a fare in modo che il cerchio non si spezzi. Vai, ora, presto.»
Mi sveglio in caduta libera. Sono sempre stato sveglio. Le foglie dell’Albero Stella hanno fatto ombra alle capsule per la notte e le stelle sul lato esterno del sistema risplendono. Le voci non diminuiscono. Le immagini non svaniscono. Non è come sognare. È un gorgo di immagini e di voci… migliaia di voci in coro, tutte schiamazzanti per farsi udire. Fino a questo istante non ho mai ricordato la voce di mia madre. Quando il rabbino Schulmann gridava in polacco della Vecchia Terra e pregava in yiddish, ho capito non solo la sua voce, ma anche i suoi pensieri.
Divento pazzo.
«No, amore mio, non diventi pazzo» bisbiglia Aenea. Galleggia con me accanto alla calda parete della capsula, mi tiene stretto. Il cronometro del comlog mi dice che il periodo di sonno in questa regione della biosfera Albero Stella è quasi terminato, che fra meno di un’ora le foglie cambieranno posizione per lasciar passare la luce del sole.
Le voci bisbigliano e mormorano, discutono e piangono. Le immagini mi svolazzano in fondo alla mente come colori dopo un terribile colpo sulla testa. Sono tutto rigido, serro i pugni, stringo i denti, faccio sporgere le vene del collo, come per resistere a un vento terribile o a un’ondata di dolore.
«No, no» dice intanto Aenea, accarezzandomi la guancia e le tempie. Goccioline di sudore galleggiano intorno a me come una sgradevole aureola. «No, Raul, rilassati. Sei molto sensibile, amore, proprio come pensavo. Rilassati e lascia che le voci smettano. Puoi controllarle, caro. Puoi ascoltarle quando vuoi, zittirle quando devi.»
«Ma non andranno mai via?»
«Non si allontaneranno molto» bisbiglia Aenea. Angeli Ouster aleggiano nella luce del sole al di là della barriera di foglie rivolta alla stella.
«E tu le hai ascoltate fin da quando eri piccolissima?»
«Fin da prima di nascere» mi risponde il mio tesoro.
«Mio Dio, mio Dio» dico, tenendo i pugni sugli occhi. «Mio Dio.»
Mi chiamo Amnye Machen Al Ata e ho undici anni standard, quando la Pax viene nel mio villaggio su Qom-Riyadh. Il villaggio è lontano dalle città, lontano dalle poche autostrade e sopraelevate, lontano perfino dalle carovaniere che incrociano il deserto roccioso e le piane Ardenti.
Per due giorni i cieli della sera hanno mostrato le navi della Pax, puntini simili a braci luminose, passare da est a ovest in quello che secondo mio padre è un posto sopra l’aria. Ieri la radio del villaggio ha trasmesso ordini dell’imam di Al-Ghazali, che sulle linee telefoniche ha saputo da Omar che tutti, nelle terre Alte e nei campi Oasi delle piane Ardenti, devono radunarsi fuori della propria yurt e aspettare. Mio padre è andato alla riunione degli uomini nella moschea dai muri di fango del nostro villaggio.
Il resto della mia famiglia aspetta fuori della nostra yurt, la tenda circolare di pelli. Anche le altre trenta famiglie aspettano. Il nostro poeta locale, Farad ud-Din Attar, gira fra noi e cerca di calmarci recitando versi, ma anche gli adulti sono impauriti.
Mio padre è tornato. Dice a mia madre che il mullah ha deciso: non possiamo aspettare che gli infedeli ci uccidano. La radio del villaggio non è riuscita a mettersi in contatto con la moschea di Al-Ghazali né con Omar. Mio padre pensa che la radio sia di nuovo rotta, ma il mullah crede che gli infedeli abbiano ucciso tutti a ovest delle piane Ardenti.
Sentiamo il rumore di spari davanti alle altre yurt. Mia madre e la mia sorella più anziana vogliono scappare via, ma mio padre ordina loro di restare. Ci sono delle grida. Guardo il cielo, mi aspetto che le navi degli infedeli della Pax ricompaiano. Quando abbasso di nuovo gli occhi, le guardie del mullah girano intorno alla nostra yurt e mettono nuovi caricatori nelle carabine. Hanno un’espressione sinistra.
Mio padre ci dice di alzare le mani. «Dio è grande» dice e noi rispondiamo: «Dio è grande». Perfino io so che "Islam" significa sottomissione alla misericordia di Allah.
All’ultimo istante vedo le braci nel cielo, le navi della Pax che vanno da est a ovest tagliando lo zenit, altissime.
«Dio è grande!» grida mio padre.
Sento gli spari.
«Aenea, non so cosa significano queste cose.»
«Raul, non significano, esistono.»
«Sono reali?»
«Reali come può esserlo qualsiasi ricordo, mio caro.»
«Ma come posso sentire le voci… tante voci… appena… con la mente tocco una… questi sono ricordi più forti dei miei, più chiari.»
«Nondimeno sono ricordi, amore.»
«Dei morti…»
«Sì, dei morti.»
«Apprendere il linguaggio dei…»
«In molti modi dobbiamo apprendere il loro linguaggio, Raul. La loro lingua — inglese, yiddish, polacco, parsi, tamal, greco, cinese mandarino — ma anche il loro cuore. L’anima della loro memoria.»
«Sono voci di spettri, Aenea?»
«Non ci sono spettri, amore. La morte è definitiva. L’anima è quell’ineffabile combinazione di memoria e di personalità che portiamo con noi durante la vita; quando la vita se ne va, anche l’anima muore. A parte ciò che lasciamo nel ricordo di coloro che ci hanno amato.»
«E questi ricordi…»
«Risuonano nel Vuoto che lega.»
«Come? Tutti quei miliardi di vite…»
«E migliaia di specie e miliardi di anni, amore mio. Alcuni ricordi di tua madre… e di mia madre… sono qui, ma ci sono anche le impressioni di vita di esseri lontanissimi da noi nello spazio e nel tempo.»
«Posso toccare anche loro, Aenea?»
«Forse. Col tempo e con la pratica. Io ho impiegato anni a capirli. Perfino le impressioni sensoriali di forme di vita dall’evoluzione così diversa sono difficili da capire, figuriamoci i pensieri, i ricordi, le emozioni.»
«Ma tu ci sei riuscita?»
«Ho tentato.»
«Forme di vita aliene come i Seneschai Aluit o gli Akerataeli?»
«Molto più aliene, Raul. I Seneschai vissero per generazioni nascosti su Hebron in prossimità dei coloni umani. E sono empatici, le emozioni sono il loro linguaggio primario. Gli Akerataeli sono del tutto diversi da noi, ma non così diversi dalle entità del Nucleo che mio padre andò a trovare.»
«La testa mi duole, ragazzina. Puoi aiutarmi a fermare queste voci e queste immagini?»
«Posso aiutarti a quietarle, amore. Non si fermeranno mai realmente, finché vivremo. È la benedizione e il fardello della comunione col mio sangue. Ma prima di mostrarti come quietarle, ascolta ancora qualche minuto. È quasi il momento del volgersi delle foglie e del sorgere del sole.»
Mi chiamavo Lenar Hoyt, prete, ma ora sono papa Urbano XVI e celebro la messa di risurrezione per il cardinale John Domenico Mustafa, nella basilica di San Pietro, alla presenza di oltre cinquecento fra i più importanti fedeli del Vaticano.
In piedi davanti all’altare, a mani protese, leggo dalla Preghiera dei fedeli:
Invochiamo con fede Dio nostro padre onnipotente
che richiamò dai morti Cristo suo figlio
per la salvezza di tutti.
Il cardinale Lourdusamy, che per questa messa mi fa da diacono, intona:
Possa Egli riportare nella perpetua compagnia dei fedeli,
questo cardinale deceduto, John Domenico Mustafa
che un tempo ricevette col battesimo il seme della vita eterna.
Preghiamo il Signore.
Possa egli, che esercitò in vita l’ufficio episcopale
nella Chiesa e nel Sant’Uffizio,
servire di nuovo Dio, nella sua vita rinnovata.
Preghiamo il Signore.
Possa Egli dare all’anima dei nostri fratelli, sorelle, parenti
e benefattori
la ricompensa per le loro fatiche.
Preghiamo il Signore.
Possa Egli accogliere nella luce del suo sostegno
tutti coloro che dormono in attesa della risurrezione
e garantire loro la risurrezione
affinché possano meglio servirlo.
Preghiamo il Signore.
Possa Egli assistere e benevolmente consolare
i nostri fratelli e sorelle che patiscono dolore
per gli attacchi dei senza Dio
e la derisione di chi è caduto.
Preghiamo il Signore.
Possa Egli un giorno chiamare nel suo glorioso regno
tutti gli uomini qui riuniti in fede e preghiera
e dare a noi come ricompensa lo stesso dono benedetto
della risurrezione temporale nel nome di Cristo.
Preghiamo il Signore.
Ora, mentre il coro canta l’antifona dell’Offertorio e i fedeli si inginocchiano nel silenzio pieno d’echi in attesa della sacra eucaristia, giro le spalle all’altare e dico:
«Ricevi, Signore, questi doni che ti offriamo in nome del tuo servo, cardinale John Domenico Mustafa; Tu hai dato la ricompensa dell’alta carica sacerdotale in questo mondo; possa egli essere brevemente unito alla compagnia dei tuoi santi nel regno dei cieli e tornare a noi tramite il tuo sacramento di risurrezione. Per Cristo Nostro Signore.»
I fedeli rispondono all’unisono:
«Amen.»
Mi avvicino alla bara e culla di risurrezione del cardinale Mustafa accanto all’altare dell’eucaristia, la aspergo con acqua santa e recito:
Padre, onnipotente e sempiterno Dio,
facciamo bene sempre e ovunque a renderti grazie
per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore.
In lui, che risorse dai morti,
albeggiò la nostra speranza di risurrezione.
La tristezza della morte lascia posto
alla luminosa promessa d’immortalità.
Signore, per il tuo popolo fedele la vita è cambiata e rinnovata, non finita.
Quando il corpo della nostra dimora terrena giace nella morte
confidiamo che la tua misericordia e il tuo miracolo lo rinnovino a noi.
E così, con tutti i cori di angeli in Cielo
proclamiamo la tua gloria
e ci uniamo al loro eterno inno di lode.
Il grande organo della basilica tuona, mentre il coro comincia subito a cantare il Sanctus:
Santo, santo, santo è il Signore Dio dell’universo.
I cieli e la terra sono pieni della tua gloria.
Osanna nell’alto dei cieli,
Benedetto è colui che viene nel nome del Signore.
Osanna nell’alto dei cieli.
Dopo la comunione, terminata la messa e usciti i fedeli, vado lentamente nella sacrestia. Sono triste, il cuore mi duole, alla lettera. La cardiopatia è peggiorata ancora, mi intasa le arterie, mi rende doloroso ogni passo, ogni parola. Penso: "Non devo parlarne a Lourdusamy".
Proprio quel cardinale compare, mentre accoliti e chierichetti mi aiutano a svestire i paramenti.
«È giunta una navetta corriere, Santità.»
«Da quale fronte?»
«Non proviene dalla Flotta, Santità» dice il cardinale. Guarda, accigliato, la copia a stampa del messaggio.
«Da dove, allora?» Tendo con impazienza la mano. Il messaggio è scritto su pergamena sottile.
Vengo su Pacem, al Vaticano.
Guardo il segretario di Stato. «Puoi fermare la Flotta, Simon Augustino?»
Le sue guance hanno come un tremolio. «No, Santità. Le navi hanno fatto il balzo da più di ventiquattro ore. Dovrebbero avere quasi terminato il programma di risurrezione accelerata e fra qualche minuto dovrebbero iniziare l’attacco. Non possiamo attrezzare una navetta automatica che arrivi in tempo per richiamarle.»
Mi accorgo che mi trema la mano. Restituisco il messaggio al cardinale Lourdusamy. «Convoca Marusyn e gli altri comandanti della Flotta» dico. «Ordina che riportino nel sistema di Pacem tutte le navi da guerra che ancora ci restano. Immediatamente.»
«Ma Santità» dice Lourdusamy, in tono deciso «al momento sono in corso molte importanti missioni di task force…»
«Immediatamente!» ordino, brusco.
Lourdusamy china la testa. «Immediatamente, Santità.»
Mentre mi giro, sento male al petto e respiro con difficoltà, come se Dio mi avvertisse che c’è poco tempo.
«Aenea! Il papa…»
«Calma, caro. Sono qui.»
«Ero con il papa… Lenar Hoyt… ma lui non è morto, no?»
«Impari anche il linguaggio dei vivi, Raul. È sorprendente che il tuo primo contatto con i ricordi di un’altra persona ancora in vita riguardi proprio lui. Penso…»
«Non c’è tempo, Aenea! Non c’è tempo. Il suo cardinale, Lourdusamy, gli ha portato il tuo messaggio. Il papa voleva richiamare la Flotta, ma Lourdusamy ha detto che era troppo tardi: le navi hanno fatto il balzo da ventiquattro ore e attaccheranno da un momento all’altro. Potrebbero attaccare qui, Aenea. Forse si tratta della flotta che si radunava nel sistema di Lacaille 9352…»
«No!» Il grido di Aenea mi strappa alla cacofonia di immagini e di voci, ricordi e sovrapposizione di sensi; non la elimina completamente, ma la fa decrescere in qualcosa di non dissimile a musica ad alto volume in una stanza adiacente.
Aenea ha fatto uscire dallo scaffale armadietto un apparecchio comlog e chiama nello stesso tempo la nostra nave e Navson Hamnim.
Cerco di concentrarmi sulla mia amica e su ciò che accade; intanto mi vesto, ma come una persona che emerga da un vivido sogno: il mormorio di voci e di ricordi altrui è ancora con me.
Il padre capitano Federico de Soya è inginocchiato in preghiera nella sua capsula privata sulla nave-albero Yggdrasill. Non pensa più a se stesso come padre capitano, ma semplicemente come padre, e non ne è neppure tanto sicuro, mentre prega, prega come ha fatto per ore stanotte e per molte altre ore nei giorni e nelle notti da quando la comunione col sangue di Aenea gli ha rimosso dal petto il crucimorfo.
Padre de Soya prega per un perdono di cui, lo sa al di là di ogni dubbio, è immeritevole. Implora il perdono per i suoi anni da capitano nella Flotta della Pax, per le sue molte battaglie, per le vite che ha tolto, per le magnifiche opere dell’uomo e di Dio che ha distrutto. Padre Federico de Soya sta in ginocchio nel silenzio e nella bassa gravità della sua capsula personale, e chiede al suo Signore e Salvatore, il Dio di misericordia nel quale ha imparato a credere e del quale ora dubita, di perdonarlo, non per se stesso, ma perché i suoi pensieri e le sue azioni nei mesi e negli anni a venire, o anche ore, se la sua vita sarà così breve, possano meglio servire il suo Signore.
Mi ritraggo da questo contatto, con l’improvvisa ripugnanza di chi si accorge di diventare a poco a poco un guardone. Capisco subito che Aenea, se ha conosciuto per anni, per tutta la vita, il "linguaggio dei vivi", ha speso di sicuro più energia nel rifiutarlo, nell’evitare quelle non richieste intrusioni nella vita di altre persone, che nel padroneggiarlo.
Vedo che Aenea ha fatto comparire un’apertura a diaframma nella parete della capsula e ha portato il comlog nel piccolo balcone di sostanza organica. Librato a mezz’aria, varco l’apertura, raggiungo Aenea e scendo lentamente sul pavimento, sotto la lieve attrazione di un decimo di gravità generata dal campo di contenimento. Varie facce galleggiano nel diskey del comlog — Het Masteen, Ket Rosteen, Navson Hamnim — ma tutte non guardano la videocamera, nemmeno Aenea.
Impiego un secondo per girare gli occhi e guardare ciò che guarda lei.
Al di là di magnifici rosoni di fiamma rossa e sanguigna, scie ardenti tagliano l’Albero Stella. Per un attimo penso che siano dovute al girarsi delle foglie al sorgere del sole lungo la curva interna della biosfera, che calamari e angeli e comete d’irrigazione riflettano la luce come abbiamo fatto noi alcune ore prima, mentre correvamo sulla matrice dell’eliosfera. Poi capisco.
Navi della Pax penetrano nell’Albero Stella in centinaia di punti, code di fusione simili a gelidi e lucidi coltelli recidono rami e tronchi.
Esplosioni di foglie e di detriti, centinaia di migliaia di chilometri più lontano, fanno vibrare come per terremoto il ramo e la capsula e il balcone dove ci troviamo.
Confusione di luce. Lance di energia saettano nello spazio, visibili grazie ai miliardi di particelle d’aria che sfugge, di materia organica polverizzata, di foglie in fiamme, di sangue di Ouster e di templari. Tagliano e bruciano qualsiasi cosa tocchino.
A meno di qualche chilometro, altre esplosioni sbocciano verso l’esterno. Il campo di contenimento regge ancora e il rumore ci spinge contro la parete della capsula che si increspa come la carne di un animale ferito. Il comlog di Aenea si spegne nello stesso istante in cui la curvatura dell’Albero Stella sopra di noi divampa ed esplode in spazio muto. Si odono grida e urla e rombi, ma so che entro pochi secondi il campo di contenimento cederà ed Aenea e io saremo risucchiati nello spazio insieme con altre tonnellate di detriti.
Cerco di tirare via Aenea, di riportarla nella capsula che intanto si autosigilla nel vano tentativo di sopravvivere.
«No, Raul, guarda!»
Guardo dove mi indica. Sopra di noi, poi sotto di noi e intorno a noi, l’Albero Stella brucia ed esplode: liane e rami si spezzano, angeli Ouster si consumano nelle fiamme, calamari lunghi dieci chilometri implodono, navi-albero avvampano nel tentativo di salpare.
«Uccidono gli erg!» grida Aenea, superando il rombo dell’aria e delle esplosioni.
Batto i pugni sulla parete della capsula, grido ordini. La porta a diaframma si apre giusto per un secondo, quanto mi basta per tirare dentro la mia amata.
Non c’è riparo, qui. Le esplosioni al plasma sono visibili dalle pareti polarizzate della capsula.
Aenea ha tirato fuori dell’armadietto la sua sacca e se la tira dietro. Prendo in fretta la mia e m’infilo nella cintura il fodero col coltello, come se potesse aiutarmi a combattere gli assalitori.
«Dobbiamo raggiungere la Yggdrasill!» grida Aenea.
Con una spinta ci lanciamo verso la parete dello stelo pressurizzato, ma la capsula non ci fa uscire. Il guscio ci trasmette un rombo.
«Lo stelo è squarciato» ansima Aenea. Ha ancora il comlog, vedo che è l’antiquato apparecchio della nave del console, e richiama dati dalla griglia dell’Albero Stella. «I ponti sono fuori uso. Dobbiamo raggiungere la nave-albero.»
Guardo dalla parete. Fiori di fiamma arancione. La Yggdrasill si trova dieci chilometri più in alto verso est lungo la superficie interna. Senza i ponti sospesi e lo stelo pressurizzato, potrebbero essere anche a mille anni luce da noi.
«Fai venire la nave» dico. «La nave del console.»
Aenea scuote la testa. «Het Masteen fa già salpare la Yggdrasill, non c’è tempo di far uscire la nostra nave. Dobbiamo essere lì entro tre quattro minuti, altrimenti… Ci sarebbero le dermotute Ouster! Possiamo arrivarci a volo.»
Tocca a me scuotere la testa. «Non sono qui. Quando le abbiamo tolte, sulla piattaforma di atterraggio, ho detto a A. Bettik di portarle sulla nave-albero.»
La capsula si scuote violentemente. Aenea si gira. La parete è di un rosso vivido, fonde.
Apro il mio armadio, getto da parte vestiti e attrezzi, prendo l’unico altro manufatto che posseggo e lo tolgo dalla custodia di cuoio. Il regalo del padre capitano de Soya.
Tocco i fili d’accensione. Il tappeto Hawking diventa rigido e si libra a gravità zero. Il campo EM in questa sezione dell’Albero Stella è ancora intatto.
«Vieni» grido, mentre la parete si liquefa. Sollevo sul tappeto Hawking la mia amata.
L’aria ci scaraventa fuori dello squarcio, nel vuoto e nella follia.
I campi magnetici sagomati dagli erg erano ancora in funzione, ma tutti scombussolati. Invece di volare lungo e sopra la zona del ramo, larga come un boulevard, verso la Yggdrasill, il tappeto Hawking si allineava ad angoli retti, tanto che il nostro viso pareva puntare in basso, mentre il tappeto si alzava come un ascensore fra rami agitati, ponti penzolanti, steli recisi, globi di fiamme, orde di Ouster che si lanciavano nello spazio per dare battaglia e morire. Visto che ci avvicinavamo comunque alla nave-albero, lasciai che il tappeto Hawking facesse ciò che voleva.
C’erano ancora bolle di aria racchiusa in campi di contenimento, ma i campi creati dagli erg erano per la maggior parte morti insieme con gli erg che li tenevano un funzione. Malgrado riserve multiple, lungo tutta quella zona dell’Albero Stella l’aria si disperdeva lentamente o esplodeva per decompressione. Non avevamo tute spaziali. Nella capsula, proprio all’ultimo avevo ricordato che l’antico tappeto Hawking aveva un proprio campo di contenimento di basso livello per trattenere aria e passeggeri. Il tappeto non era progettato come apparecchiatura di pressurizzazione a lungo termine, ma nove anni prima l’avevamo usato sul pianeta giungla, quando eravamo saliti a una quota dove era impossibile respirare; mi ero augurato che funzionasse ancora.
Funzionava, più o meno. Appena uscimmo dalla capsula e come in un aliante iniziammo a salire nel caos, il campo di contenimento si accese. Ma quasi sentivo l’aria sottile sfuggire via: mi dissi che sarebbe durata quanto bastava per arrivare alla Yggdrasill.
Rischiammo di non arrivare mai alla Yggdrasill.
Avevo già visto altre battaglie spaziali, non molti giorni prima (eoni, parevano) Aenea e io ci eravamo trovati sulla piattaforma più alta del Tempio a mezz’aria a guardare lo spettacolo di luce nello spazio cislunare, la task force della Pax che distruggeva la nave di padre de Soya, ma questa era la prima battaglia in cui cercavano di uccidere me.
Dove c’era aria, il rumore era assordante: esplosioni, implosioni, crollo di tronchi e di steli, schianti di rami e agonia di calamari, ululati di sirene d’allarme, farfugli e sibili di comlog e di altri apparecchi di comunicazione. Dove c’era il vuoto, il silenzio era ancora più assordante: corpi di Ouster e di templari scagliati senza rumore nello spazio, donne e bambini, soldati non in grado di raggiungere le armi o il posto di combattimento, sacerdoti del Muir in tonaca che ruzzolavano verso il sole nell’oltraggio finale della morte violenta, fiamme senza scoppiettio, urla senza suono, cicloni senza il preavviso del soffio impetuoso del vento.
Mentre salivamo nel vortice, Aenea usò l’antico comlog di Siri. Vidi Systenj Coredwell gridare dal piccolo display olografico del diskey e poi Kent Quinkent e Sian Quintana Ka’an parlare animatamente. Ero troppo impegnato a guidare il tappeto Hawking, per ascoltare i loro disperati discorsi.
Non riuscivo più a scorgere la coda di fusione delle navi Arcangelo della Pax, vedevo solo le lance d’energia tagliare le nubi di gas e i campi di detriti, incidere l’Albero Stella come un bisturi nella carne viva. Gli enormi tronchi e i sinuosi rami sanguinavano davvero: la loro linfa e altri fluidi vitali si mischiavano con chilometri di liana fibro-ottica e sangue Ouster, mentre esplodevano nello spazio o evaporavano nel vuoto. Un calamaro di dieci chilometri fu tagliato di netto sotto i miei occhi e poi tagliato di nuovo: i suoi delicati tentacoli si agitarono in una danza spasmodica mentre la creatura moriva. Angeli Ouster presero il volo a migliaia e morirono a migliaia. Una nave-albero cercò di salpare e in un istante fu trapassata da lance d’energia: la sua atmosfera ricca di ossigeno prese fuoco dentro il campo di contenimento e tutto l’equipaggio morì nel poco tempo che occorse al globo di energia per riempirsi di fumo turbinante.
«Non è la Yggdrasill» gridò Aenea.
Risposi con un cenno d’assenso: la nave-albero morente proveniva dalla parte nord della sfera. La Yggdrasill ormai non doveva essere distante, forse un chilometro sopra di noi, lungo il ramo che vibrava e si scheggiava.
A meno che non avessi sbagliato una curva. O che la nave-albero non fosse già stata distrutta. O che non fosse già partita senza di noi.
«Ho parlato con Het Masteen» gridò Aenea. Ora ci trovavamo in un globo d’aria che si svuotava e il frastuono era terribile. «Solo circa trecento su mille sono a bordo.»
«Ah, sì» dissi. Chissà di che cosa parlava. Quali mille? Non c’era tempo per le domande. Scorsi di sfuggita il verde più scuro di una nave-albero, poche centinaia di metri sopra di noi verso sinistra, in tutta un’altra spirale di rami, e spostai il tappeto in quella direzione. Anche se non fosse stata la Yggdrasill, dovevamo comunque cercare riparo lì. I campi EM dell’Albero Stella cominciavano a cedere e il tappeto Hawking perdeva energia e inerzia.
Il campo EM cedette. Il tappeto Hawking ondeggiò un’ultima volta e cominciò a rotolare nel buio fra i rami distrutti, lontanissimo dal più vicino stelo in fiamme. Molto in basso e dietro di noi vedevo il gruppo di capsule ambientali da dove eravamo partiti: erano tutte in rovina, lasciavano uscire aria e cadaveri, mentre gli steli e i rami di collegamento si agitavano in una cieca reazione newtoniana.
«Capolinea» dissi, a voce bassa, perché ormai non c’era altra aria né rumore all’esterno della nostra inutile bolla di energia. Il tappeto Hawking era stato progettato sette secoli fa per convincere una nipote giovinetta ad amare un vecchio zio, non per mantenere in vita nel vuoto spaziale i suoi passeggeri. «Ci abbiamo provato, ragazzina.» Mi spostai dai fili di volo e circondai col braccio Aenea.
«No» disse lei. Non respingeva il mio gesto, ma la sentenza di morte. Mi strinse il braccio con tale forza da affondare le dita nella carne. «No, no» disse tra sé, battendo il diskey del comlog.
Contro il campo di stelle turbinanti comparve il viso incappucciato di Het Masteen. «Sì» disse «vi vedo.»
L’enorme nave-albero incombeva su di noi, un singolo, enorme soffitto di rami e di verdi foglie dietro il tremolante violetto del campo di contenimento, una massa che si staccava piano piano dall’Albero Stella in fiamme. Sentii un improvviso e violento strattone: per un attimo fui sicuro che una lancia d’energia delle Arcangelo ci avesse trovato.
«Gli erg ci tirano dentro» disse Aenea, continuando a stringermi il braccio.
«Gli erg? Credevo che una nave-albero avesse solo un erg a bordo per manovrare il motore e i campi.»
«Di solito, sì. Due, a volte, se è un viaggio eccezionale… per esempio nell’involucro esterno di una stella o nell’onda d’urto dell’eliosfera di una binaria.»
«Allora sulla Yggdrasill ce ne sono due?» dissi, guardando l’albero crescere e riempire il cielo. Esplosioni al plasma fiorirono in silenzio dietro di noi.
«No» disse Aenea. «Ventisette.»
Il campo esteso ci attirò nel suo interno. L’alto si riaggiustò e tornò basso. Fummo calati su un alto ponte, appena sotto la piattaforma vicino alla chioma della nave-albero. Ancora prima che toccassi i fili di volo per spegnere il nostro misero campo di contenimento, Aenea aveva già raccolto il comlog e lo zaino e si era lanciata di corsa verso la scala.
Arrotolai per bene il tappeto Hawking, lo infilai nella custodia di cuoio, me lo misi in spalla e corsi a raggiungere Aenea.
Solo il templare Het Masteen, capitano della nave-albero, e alcuni suoi aiutanti erano sul ponte di chioma, ma le piattaforme e le scale più in basso erano affollate di persone che conoscevo e che non conoscevo: Rachel, Theo, A. Bettik, padre de Soya, il sergente Gregorius, Lhomo Dondrub e le decine di altri profughi da T’ien Shan a me ben noti; ma c’erano anche molti uomini, donne e bambini non-Ouster e non-templari che non conoscevo.
«Profughi di un centinaio di pianeti della Pax» mi spiegò Aenea «raccolti sulla Raffaele da padre capitano de Soya negli ultimi anni. Altre centinaia dovevano arrivare oggi, prima della partenza, ma ormai è troppo tardi.»
Seguii Aenea fin sul ponte. Het Masteen era al centro di un cerchio di diskey organici di comando: schermi video delle nervature di fibra ottica che correvano per tutta la nave-albero, immagini olografiche della nave-albero da bordo, da poppa e da prua, un gruppo di ricetrasmittenti per tenersi in contatto con i templari di servizio con gli erg nel nucleo di contenimento della singolarità, nelle radici di propulsione e altrove, e il simulacro olografico centrale della nave, che lui poteva toccare per richiamare funzioni interattive o per cambiare rotta. Il templare alzò lo sguardo, mentre Aenea attraversava rapidamente il sacro ponte verso di lui. Sotto il cappuccio i suoi lineamenti, derivati dal ceppo asiatico della Vecchia Terra, erano calmi.
«Sono contento che non sia rimasta qui, maestra» disse, ironico. «Dove desidera che ci dirigiamo?»
«Fuori sistema» rispose senza esitare Aenea.
Het Masteen annuì. «Attireremo il fuoco nemico, naturalmente. La potenza di fuoco della Flotta della Pax è formidabile.»
Aenea si limitò ad annuire. Il simulacro della nave-albero si girò lentamente e vidi in alto il campo di stelle ruotare sopra di noi. Ci eravamo spostati all’interno del sistema solare solo di alcune centinaia di chilometri e ora giravamo verso la devastata superficie interna della biosfera Albero Stella. Dove poco prima c’erano le capsule ambientali e di riunione, adesso si apriva un foro sfrangiato nell’intreccio di rami. Per tutte le migliaia di chilometri quadrati di quella zona c’erano squarci e rami spogli. La Yggdrasill si mosse lentamente fra miliardi di foglie in caduta libera, quelle ancora nell’aria trattenuta da campi di contenimento ardevano, vivide, e con la cenere dipingevano di grigio la superficie interna del campo. Raggiunse di nuovo la parete della sfera e l’attraversò con cautela.
Emerse dall’altra parte e, mentre il motore a fusione controllato dagli erg divampava, acquistò velocità. Ora vedevamo altri particolari della battaglia. Qui lo spazio era una miriade di palpitanti puntini luminosi, infuocate scintille che parevano campi di contenimento difensivi infiammati dall’attacco di lance d’energia, innumerevoli esplosioni termonucleari e al plasma, code di fusione di missili, armi ipercinetiche, piccoli mezzi d’assalto, navi Arcangelo. La superficie esterna dell’Albero Stella pareva un fibroso vulcano che eruttava fiamme e geyser di detriti. Comete d’irrigazione e asteroidi pastori, deviati dal loro perfetto equilibrio dall’esplosione delle armi della Pax, laceravano l’Albero Stella come palle di cannone contro un cumulo di sterpi. Het Masteen richiamò ologrammi tattici e vedemmo l’immagine di tutta la biosfera, butterata ora da diecimila incendi (molti dei quali avevano la dimensione del mio pianeta natale Hyperion) e da centomila strappi e lacerazioni ben visibili nel tessuto della sfera per la cui creazione erano occorsi quasi mille anni. Migliaia di oggetti a bassa velocità erano rilevati dal radar e dai sensori a grandissima distanza, ma diminuivano di secondo in secondo, man mano che le possenti Arcangelo centravano astrovedette Ouster, navi torcia, cacciatorpediniere e navi-albero, con lance d’energia proiettate da varie UÀ. Milioni di Ouster spazio-adattati si lanciavano contro gli assalitori, ma morivano come falene davanti a un lanciafiamme.
Lhomo Dondrub comparve sul ponte. Indossava una dermotuta Ouster e portava un lungo fucile d’assalto classe quattro. «Aenea, dove diavolo andiamo?»
«Via» rispose la mia amata. «Dobbiamo andarcene, Lhomo.»
L’aviatore scosse la testa. «No, non dobbiamo andarcene. Dobbiamo restare e combattere. Non possiamo semplicemente abbandonare i nostri amici ai mangiacarogne della Pax.»
«Lhomo, non possiamo aiutare l’Albero Stella. Per combattere la Pax, devo andare via di qui.»
«Scappa di nuovo, se devi» replicò Lhomo, col viso imbruttito dalla smorfia di rabbia e di frustrazione. Si modellò intorno alla testa il cappuccio della dermotuta. «Io resto e combatto!»
«Ti uccideranno, amico mio» disse Aenea. «Non puoi combattere contro navi Arcangelo.»
«Sta’ a vedere» disse Lhomo, ora tutto coperto dalla dermotuta, a parte il viso. «Buona fortuna, Raul.»
«Anche a te» dissi. Sentivo un groppo in gola e il rossore sulle guance, per la vergogna della fuga e per l’addio a quel coraggioso.
Aenea toccò il robusto braccio argenteo di Lhomo. «Puoi essere più utile in questa guerra se vieni con noi…»
Lhomo Dondrub scosse la testa e si calò il fluido cappuccio. La sua voce risuonò metallica negli auricolari. "Buona fortuna, Aenea. Dio e il Buddha ti aiutino. Ci aiutino tutti." Andò sul bordo della piattaforma e si girò a lanciare un’occhiata a Het Masteen. Il templare annuì, toccò il simulacro di comando in un punto accanto alla chioma e mormorò in un fibrotrasmettitore.
Sentii diminuire la gravità. Il campo esterno baluginò e mutò. Lhomo fu sollevato, girato e catapultato nello spazio al di là dei nostri rami, aria, luci. Vidi aprirsi le sue ali argentee, vidi la luce riempirle, vidi Lhomo unirsi a una ventina di altri angeli Ouster che con le loro misere armi volavano sulla spinta della luce solare contro l’Arcangelo più vicina.
Altri venivano ora sul ponte — Rachel, Theo, la Dorje Phamo, padre de Soya e il suo sergente, A. Bettik, il Dalai Lama — ma si tennero tutti a rispettosa distanza dall’indaffarato capitano templare.
«Ci hanno intercettato» disse Het Masteen. «Sparano.»
Il campo di contenimento avvampò di rosso. Udivo lo sfrigolio. Pareva d’essere caduti nel cuore di una stella.
I display tremolarono. «Tengono» disse la Vera Voce dell’Albero Het Masteen. «Tengono.»
Si riferiva ai campi difensivi. Ma anche la Pax teneva duro, ci tempestava di lance d’energia anche mentre acceleravamo fuori sistema. A parte i display olografici, non c’era segno di nostro movimento, non si vedevano stelle, solo lo scoppiettante, sibilante, ribollente ovoide di energia distruttiva che gorgogliava e strisciava qualche decina di metri sopra di noi e intorno a noi.
«La rotta, prego?» chiese Het Masteen a Aenea.
La mia amica si toccò appena la fronte, come se si sentisse stanca o smarrita. «Solo fuori, dove possiamo vedere le stelle.»
«Non arriveremo mai a un punto di traslazione, sotto un attacco così violento.»
«Lo so» disse Aenea. «Solo… fuori… dove posso vedere le stelle.»
Het Masteen alzò gli occhi verso l’inferno sopra di noi. «Forse non vedremo mai più le stelle.»
«Dobbiamo vederle» disse semplicemente Aenea.
Ci fu un improvviso trambusto di grida. Guardai verso l’origine di quella confusione.
Più in alto del ponte di comando c’erano solo alcune piccole piattaforme che parevano coffe di navi pirata da olodramma o la capanna sui rami di un albero che ricordavo d’avere visto una volta nelle paludi di Hyperion. Proprio in una di quelle piattaforme era comparsa una figura. Cloni d’equipaggio la indicavano e gridavano. Het Masteen scrutò la piattaforma quindici metri più in alto e si rivolse a Aenea. «Il Signore della Sofferenza viaggia con noi.»
I colori dell’inferno scatenato all’esterno del campo di contenimento si riflettevano sulla fronte e sul torace dello Shrike.
«Credevo che fosse morto su T’ien Shan» dissi.
Aenea pareva più stanca di quanto non l’avessi mai vista. «Quella creatura si muove nel tempo più facilmente di quanto noi non ci muoviamo nello spazio, Raul. Può essere morta su T’ien Shan, può morire fra mille anni in uno scontro col colonnello Kassad, può non essere in grado di morire… non lo sapremo mai.»
Come evocato dal suo nome, il colonnello Fedmahn Kassad salì le scale del ponte di comando. Indossava un’arcaica tenuta da guerra dell’Egemonia e portava il fucile d’assalto che ricordavo d’avere visto nell’armeria della nave del console. Fissò, come invasato, lo Shrike.
«Posso salire lassù?» domandò al capitano templare.
Sempre impegnato a dare ordini e a controllare i display, Het Masteen indicò alcune griselle e scale di corda che arrivavano alla piattaforma più alta.
«Niente sparatorie su questa nave» disse poi. Kassad annuì e iniziò a salire.
Tornammo a guardare i display. Almeno tre Arcangelo dirigevano una parte del proprio fuoco contro di noi, da una distanza di meno di un milione di chilometri. Facevano a turno a colpirci e poi prendevano di mira altri bersagli. Ma il nostro insolito rifiuto a morire pareva accrescere la loro collera e le loro lance di energia tornavano a colpire noi, strisciavano nella distanza che ci separava, da quattro a dieci secondi luce, ed esplodevano contro il nostro campo protettivo. Una delle navi stava per oltrepassare la curvatura dell’Albero Stella in fiamme, ma le altre due deceleravano ancora all’interno del sistema verso di noi e avevano campo di fuoco sgombro.
«Lancio di missili contro di noi» disse uno dei luogotenenti del capitano templare, con la stessa calma che avrei usato io per annunciare l’arrivo della cena. «Due… quattro… nove. Velocità sub-luce. Presumibili testate al plasma.»
«Possiamo sopravvivere a quei missili?» domandò Theo. Rachel si era spostata, guardava Kassad salire verso lo Shrike.
Het Masteen era troppo impegnato per rispondere. «Non sappiamo» disse Aenea. «Dipende dagli erg.»
«Sessanta secondi all’impatto» annunciò lo stesso luogotenente templare, nello stesso tono piatto.
Het Masteen toccò una barra di comunicazione. La sua voce era quella di sempre, ma capii che veniva amplificata per tutto il chilometro della nave-albero. «Ciascuno si schermi gli occhi ed eviti di guardare verso il campo. Gli erg polarizzeranno al massimo il lampo dell’esplosione, ma per favore nessuno guardi in alto. La pace del Muir sia con noi.»
Guardai Aenea. «Ragazzina, questa nave-albero è armata?»
«No» mi rispose. La sua espressione era stanca come la voce.
«Perciò non combattiamo… fuggiamo e basta?»
«Sì, Raul.»
Digrignai i denti. «Allora sono d’accordo con Lhomo. Abbiamo fatto troppe fughe. È tempo di aiutare i nostri amici qui. È tempo di…»
Almeno tre missili esplosero. La luce fu così accecante, ricordai in seguito, che fui sicuro di vedere il cranio e le vertebre di Aenea sotto la pelle e la carne, ma è assurdo. Provai un’impressione di caduta, di capovolgimento, e poi la gravità fu ripristinata. Un rombo subsonico mi causò dolorose vibrazioni ai denti e alle ossa.
Battei le palpebre per smaltire le immagini residue. Il viso di Aenea era sempre davanti a me — guance arrossate e madide, capelli tirati indietro da un nastro annodato alla buona, occhi stanchi ma vivi, braccia nude e abbronzate — e in un torbido momento di sentimentalità mi dissi che non sarebbe stato poi impensabile morire così, con il viso di Aenea impresso a fuoco nell’anima e nel ricordo.
Altre due testate al plasma squassarono la nave-albero. Poi altre quattro. «Tengono» disse il luogotenente di Het Masteen. «Tutti i campi tengono.»
«Lhomo e Raul hanno ragione, Aenea» disse la Dorje Phamo. Avanzò di un passo, con regale eleganza pur nella semplice veste di cotone. «Per anni sei scappata dalla Pax. È ora che tu combatta, che tutti noi combattiamo.»
Guardai intensamente l’anziana donna, in un modo che rasentava la maleducazione. Intorno a lei c’era un’aura… no, è la parola sbagliata, troppo mistica… da lei emanava una forte sensazione di colore, un carminio carico, forte come la personalità della Scrofa Folgore. Avevo già notato la stessa cosa, quella sera, in tutti i presenti sulla piattaforma — l’azzurro vivo del coraggio di Lhomo, l’oro della sicurezza nel comando di Het Masteen, lo scintillante violetto dello sconcerto del colonnello Kassad nel vedere lo Shrike — e mi domandai se non fosse una conseguenza dell’apprendere il linguaggio dei vivi. O forse era un risultato del sovraccarico di luminosità dovuto alle esplosioni al plasma. Qualsiasi cosa fosse, i colori non erano reali, lo sapevo, non avevo allucinazioni né offuscamento della vista, ma sapevo pure (o pensavo di sapere) che la mia mente creava quei collegamenti, quelle stenografiche occhiate fugaci nel vero spirito della persona, a un livello inferiore e superiore alla vista.
E sapevo che i colori intorno a Aenea si estendevano per tutto lo spettro e oltre: un bagliore così penetrante da riempire la nave-albero, sicuro come le esplosioni di plasma riempivano il mondo esterno.
Intervenne padre de Soya. «No, signora» disse alla Dorje Phamo, con tono calmo e rispettoso. «Lhomo e Raul non hanno ragione. Malgrado tutta la nostra rabbia e il desiderio di rispondere agli attacchi, ha ragione Aenea. Forse Lhomo imparerà, se resterà vivo, ciò che tutti noi impareremo, se resteremo vivi: dopo la comunione con Aenea, condividiamo la sofferenza di quelli che assaliamo. La condividiamo davvero. Letteralmente. Fisicamente. La condividiamo come parte dell’apprendimento del linguaggio dei vivi.»
La Dorje Phamo guardò il prete, più basso di lei. «Ciò che dici è vero, cristiano» replicò. «Ma non significa che non possiamo reagire contro chi ci fa del male!» Mosse il braccio in un gesto che comprendeva il campo di contenimento in fase di lenta schiarita e, oltre, lo spazio trapunto di code di fusione e di braci ardenti. «Questi… mostri… della Pax distruggono una delle maggiori conquiste della specie umana. Dobbiamo fermarli!»
«Non ora» disse padre de Soya. «Non combattendoli qui. Abbia fiducia in Aenea.»
Il gigantesco sergente Gregorius si intromise. «Ogni fibra del mio essere, ogni attimo del mio addestramento, ogni cicatrice dei miei anni di battaglia, ogni cosa mi spinge a combattere adesso» ringhiò. «Ma ho avuto fiducia nel mio capitano. Ora ho fiducia in lui come mio confessore. E se lui dice che dobbiamo avere fiducia in questa giovane donna… allora dobbiamo avere fiducia in lei.»
Het Masteen alzò la mano. Tutti tacquero subito. «Questa discussione è una perdita di tempo» disse il templare. «Come ha già spiegato Colei che insegna, la Yggdrasill non ha armi. Gli erg sono la nostra unica difesa; però non possono azionare il motore a fusione e nello stesso tempo fornire il livello di schermatura necessario in questo momento. In pratica non abbiamo propulsione: seguiamo per inerzia la rotta precedente e siamo solo a qualche minuto luce dalla posizione originaria. E cinque navi Arcangelo hanno cambiato rotta per intercettarci.» Si girò a guardarci in viso. «Pregherei tutti, tranne la reverenda maestra e il suo amico Raul, di lasciare la piattaforma del ponte e di aspettare di sotto.»
Senza una parola, tutti lasciarono il ponte. Rachel, prima di scendere, lanciò un’occhiata verso l’alto. Me ne accorsi e guardai anch’io. Nella coffa più alta, il colonnello Kassad era in piedi accanto allo Shrike: la statua di cromo e lame e spine, alta tre metri, lo faceva sembrare un nanerottolo. Né il colonnello né quella macchina di morte si muovevano: continuavano a fissarsi, a meno di un metro l’uno dall’altra.
Tornai a guardare i display: le navi della Pax, puntini ardenti, si avvicinavano a grande velocità. Sopra di noi, il campo di contenimento si schiarì.
«Prendi la mia mano, Raul» disse Aenea.
Le presi la mano, ricordando tutte le altre volte che avevo fatto quel gesto negli ultimi dieci anni standard.
«Le stelle» mormorò Aenea. «Guarda le stelle. E ascoltale.»
La nave-albero Yggdrasill era in orbita bassa intorno a un pianeta rosso-arancione, con bianche calotte polari, antichi vulcani più grandi dell’altopiano punta d’Ala sul mio Hyperion, e una vallata fluviale che si estendeva per più di cinquemila chilometri, simile a una cicatrice di appendicectomia intorno al ventre del pianeta.
«Quello è Marte» disse Aenea. «Qui il colonnello Kassad ci lascerà.»
Dopo il balzo quantico, il colonnello aveva smesso l’esame ravvicinato dello Shrike ed era sceso. Non c’era una parola o frase per indicare che cosa avevamo fatto: l’attimo prima la nave-albero era nel sistema della biosfera, procedeva per inerzia a bassa velocità, a motori spenti, sotto l’attacco di uno stormo di navi Arcangelo; l’attimo dopo, eravamo in orbita bassa e stabile intorno a quel pianeta morto del sistema della Vecchia Terra.
«Come hai fatto?» domandai a Aenea, l’attimo dopo che l’aveva fatto. Non avevo alcun dubbio che fosse stata lei a… spostarci… lì.
«Ho imparato a udire la musica delle sfere» rispose lei. «E poi a muovere un passo.»
Continuai a fissarla. Le tenevo ancora la mano. Non avevo intenzione di lasciarla, finché Aenea non mi avesse risposto in linguaggio normale.
«Si può capire un luogo, Raul» disse Aenea, sapendo che in quel momento molti altri di sicuro ascoltavano. «E quando accade, è come udire la sua musica. Ogni pianeta è un accordo diverso. Ogni sistema solare è una sonata diversa. Ogni luogo specifico è una nota chiara e distinta.»
Non le lasciai la mano. «E teleportarsi senza teleporter?»
Aenea annuì. «Traslarsi. Un balzo quantico, nel senso reale del termine. Muoversi nel macro-universo come un elettrone si muove nel micro-universo. Fare un passo, con l’aiuto del Vuoto che lega.»
Scuotevo la testa. «Energia. Da dove proviene l’energia, ragazzina? Niente viene da niente.»
«Ma tutto viene da tutto.»
«E questo cosa significa?»
Liberò la mano, mi toccò la guancia. «Ricordi la nostra discussione, tantissimo tempo fa, sulla fisica newtoniana e l’amore?»
«L’amore è una emozione, ragazzina, non una forma di energia.»
«È l’una e l’altra, Raul. Veramente. Ed è l’unica chiave per aprire la più grande provvista di energia dell’universo.»
«Parli di religione?» dissi, piuttosto infuriato per la sua poca chiarezza o per la mia poca intelligenza o tutt’e due.
«No» disse Aenea. «Parlo di quasar deliberatamente accese, di pulsar addomesticate, parlo di nuclei in esplosione di galassie sfruttati per produrre energia, come delle turbine a vapore. Parlo di un progetto d’ingegneria vecchio di due miliardi e mezzo di anni e appena iniziato.»
Potevo solo fissarla come un idiota.
Aenea scosse la testa. «Più tardi, amore mio. Per ora ti basti sapere che teleportarsi senza un teleporter è possibile. Non sono mai esistiti veri e propri teleporter, magiche porte che si aprivano su pianeti diversi, solo una perversione impressa dal TecnoNucleo al secondo meraviglioso dono del Vuoto.»
Avrei dovuto dire: "Qual è il primo meraviglioso dono del Vuoto?", ma immaginai che fosse l’apprendimento del linguaggio dei morti, quella faccenda di registrare i ricordi delle specie senzienti… la voce di mia madre, per essere precisi.
Dissi invece: «Allora ecco come hai spostato Rachel e Theo e te di pianeta in pianeta senza accumulo di debito temporale».
«Sì.»
«E come hai portato la nave del console dal sistema di T’ien Shan alla biosfera senza propulsione Hawking.»
«Sì.»
Fui sul punto di dire: "E come sei andata sul pianeta, chissà quale, dove hai conosciuto il tuo amante, vi siete sposati e avete fatto un figlio", ma non riuscii a formare le parole.
«Quello è Marte» disse Aenea, riempiendo il silenzio. «Qui il colonnello Kassad ci lascerà.»
Il colonnello venne al fianco di Aenea. Rachel si avvicinò, si alzò in punta di piedi e lo baciò.
«Un giorno ti chiamerai Moneta» disse piano Kassad. «E saremo amanti.»
«Sì» disse Rachel e si ritrasse.
Aenea prese la mano del colonnello. Kassad era ancora nella sua caratteristica tenuta da guerra, fucile d’assalto nell’incavo del braccio. Con un lieve sorriso lanciò uno sguardo alla piattaforma più alta: lo Shrike era sempre lì, immobile, con la sanguigna luce di Marte che gli si rifletteva sul petto.
«Raul» disse Aenea «vuoi venire anche tu?»
Le presi l’altra mano.
Il vento mi soffiava sabbia negli occhi e non potevo respirare. Aenea aveva portato due maschere osmotiche e me ne diede una. Le infilammo.
La sabbia era rossa, le rocce erano rosse, il cielo era di un rosa tempestoso. Ci trovavamo nella valle di un fiume prosciugato, stretta da pareti rocciose. Il letto del fiume era disseminato di massi tondeggianti, alcuni grossi come la nave del console. Il colonnello Kassad si infilò il cappuccio-casco della tuta da combattimento. Dagli auricolari mi giunse il crepitio della statica.
«Da dove ho iniziato» disse Kassad. «I bassifondi di trasferimento Tharsis, qualche centinaio di chilometri da quella parte.» Indicò un punto delle pareti rocciose dove il sole si librava, piccolo e basso. La figura in tuta, minacciosa per dimensioni e massa, con il pesante fucile d’assalto che pareva proprio obsoleto, lì, nella piana di Marte, si girò verso Aenea. «Cosa vorresti che facessi, donna?»
Aenea parlò con rapido, secco, sicuro tono di comando: «Le forze della Pax si sono temporaneamente ritirate da Marte e dal sistema solare della Vecchia Terra a causa della rivolta dei palestinesi locali e della rinascita della Macchina da guerra marziana nello spazio. Qui non c’è niente che abbia interesse strategico sufficiente a trattenerle, mentre le loro risorse sono così assottigliate».
Kassad annuì.
«Ma torneranno» disse Aenea. «Torneranno con ricchezza di mezzi, non solo per pacificare Marte, ma per occupare l’intero sistema solare.» Si guardò intorno. Seguii il suo sguardo e vidi le scure sagome umane che si muovevano nella distesa di massi e venivano verso di noi.
«Devi tenere la Pax lontano da questo sistema, colonnello» riprese Aenea. «Fai ciò che è necessario, sacrifica chi devi sacrificare, ma tieni la Pax fuori del sistema della Vecchia Terra per i prossimi cinque anni standard.»
Non avevo mai udito Aenea pronunciare parole così ferree o spietate.
«Cinque anni standard» ripeté il colonnello Kassad. Sorrise dietro il visore del cappuccio. «Nessun problema. Fossero stati cinque anni marziani, mi sarei dovuto impegnare un poco.»
Aenea sorrise. Nel turbinio di sabbia, le sagome scure si avvicinavano. «Dovrai prendere il comando del movimento di resistenza marziano» disse Aenea, con tono terribilmente serio. «Trova il modo di farcela, qualunque esso sia.»
«Ce la farò» disse Kassad. Il suo tono deciso pareggiava quello di Aenea.
«Consolida le varie tribù e le varie fazioni.»
«Ce la farò.»
«Stabilisci un’alleanza permanente con gli spaziali della Macchina da guerra.»
Kassad annuì. Ora le sagome scure erano a meno di cento metri da noi. Scorgevo le armi pronte.
«Proteggi la Vecchia Terra» disse Aenea. «Tieni lontano la Pax, a qualsiasi costo.»
Ero sorpreso. Anche Kassad rimase di sicuro sorpreso. Obiettò infatti: «Il sistema della Vecchia Terra, vuoi dire».
Aenea scosse la testa. «La Vecchia Terra, Fedmahn. Tieni lontano la Pax. Hai a disposizione circa un anno per consolidare il controllo di tutto il sistema solare. Buona fortuna.»
Si strinsero la mano.
«Tua madre era una donna brava e coraggiosa» disse il colonnello. «Tenevo in gran conto la sua amicizia.»
«E lei la tua.»
Le sagome scure si avvicinavano ancora, tenendosi al riparo dei massi e delle dune. Il colonnello Kassad si diresse verso di loro, tenendo alta la destra e nell’incavo del braccio, con noncuranza, il fucile d’assalto.
Aenea mi si accostò e mi prese di nuovo la mano. «Fa freddo, vero, Raul?»
Faceva freddo. Ci fu un lampo di luce simile a un colpo indolore alla nuca e fummo di nuovo sul ponte di comando della Yggdrasill. I nostri amici arretrarono alla nostra comparsa: la paura della magia è dura a morire, in una specie. Marte continuò a girare, rosso e freddo, al di là dei rami e del campo di contenimento.
«Quale rotta, reverenda maestra?» domandò Het Masteen.
«Vai solo dove possiamo vedere chiaramente le stelle» rispose Aenea.
La Yggdrasill proseguì. L’Albero della Sofferenza, la chiamava il suo capitano templare Vera Voce dell’Albero Het Masteen. Non avrei potuto dargli torto. Ogni balzo costava altra energia alla mia Aenea, alla mia cara, povera, esausta Aenea, e ogni distacco riempiva con una crescente riserva di tristezza la sempre più sfruttata pozza di energia. E intanto lo Shrike se ne stava, inutile e solo, sull’alta piattaforma, come un orribile bompresso su una nave condannata o un macabro angelo tenebroso in cima a un malinconico albero di Natale.
Lasciato su Marte il colonnello Kassad, la nave-albero traslò e si pose in orbita intorno a Patto-Maui. Il pianeta era in rivolta, ma si trovava nel cuore dello spazio della Pax, perciò mi aspettavo che orde di navi da guerra venissero a intimarci l’alto là; invece, nelle poche ore che restammo in quel sistema solare, non subimmo nessun attacco.
«Uno dei vantaggi dell’assalto contro la biosfera Albero Stella» disse Aenea, con triste ironia. «Per formare l’armada hanno requisito quasi tutte le navi da guerra dei sistemi più interni.»
La persona destinata a fermarsi su Patto-Maui era Theo. Aenea la prese per mano e io le accompagnai.
Battei le palpebre per eliminare gli effetti dell’accecante lampo luminoso: eravamo su un’isola mobile con gli alberi-vela gonfi di caldo vento tropicale, tra mare e cielo di un azzurro da togliere il fiato. Altre isole mantenevano la stessa andatura e i delfini battistrada lasciavano bianche scie ai lati del convoglio.
Sull’alta piattaforma c’erano alcune persone. Parvero confuse per la nostra apparizione, ma non si allarmarono. Theo abbracciò l’uomo alto e biondo che venne ad accoglierci in compagnia della moglie, una donna dai capelli scuri.
«Aenea, Raul, sono lieta di presentarvi Merin e Deneb Aspic-Coreau.»
«Merin?» dissi. Notai nella stretta di mano la forza di quell’uomo.
Merin sorrise. «Dieci generazioni mi separano da quel Merin Aspic, ma sono un suo discendente diretto. Come Deneb discende dalla nostra famosa Siri.» Posò la mano sulla spalla di Aenea. «Come avevi promesso, sei tornata. E hai portato con te la nostra più fiera combattente.»
«Sì, l’ho portata» disse Aenea. «E dovete tenerla al sicuro. Nei prossimi mesi non dovrete avere contatti con la Pax.»
Deneb Aspic-Coreau si mise a ridere. Era forse la donna più bella e più in forma che avessi mai visto. «A dire il vero, maestra, scappiamo per salvare la pelle. Per tre volte abbiamo tentato di distruggere le piattaforme petrolifere a tre correnti e per tre volte ci hanno battuti come tommifalchi. Adesso ci auguriamo solo di raggiungere l’Arcipelago equatoriale, nasconderci fra le isole migranti e poi riorganizzarci alla base sottomarina di Lat Zero.»
«Proteggetela a tutti i costi» ripeté Aenea. Si rivolse a Theo. «Sentirò la tua mancanza, amica mia.»
Theo Bernard cercava chiaramente di trattenere le lacrime, ma non ci riuscì e abbracciò forte Aenea. «Tutto questo tempo… è stato bello» disse, staccandosi. «Prego che tu abbia successo. E prego che tu fallisca… per il tuo stesso bene.»
Aenea scosse la testa. «Prega per il nostro completo successo.» Alzò la mano in segno di saluto e tornò con me alla piattaforma inferiore.
Sentivo l’intossicante profumo sale-e-pesce del mare. Il sole brillava con tale intensità da farmi socchiudere gli occhi, ma la temperatura dell’aria era perfetta. L’acqua sulla pelle dei delfini era chiara come il sudore sulle mie braccia. Non avrei avuto difficoltà a rimanere per sempre su quel pianeta.
«Dobbiamo andare» disse Aenea. Mi prese la mano.
Mentre uscivamo dal pozzo gravitazionale di Patto-Maui, comparve sul radar una nave torcia, ma non ce ne preoccupammo. Aenea, da sola sul ponte di comando, fissava le stelle.
Mi avvicinai a lei.
«Riesci a sentirli?» mormorò Aenea.
«Gli astri?»
«I pianeti. Le popolazioni sui pianeti. I loro segreti e i loro silenzi. Tutti quei battiti di cuore.»
Scossi la testa. «Quando non mi concentro su qualcosa d’altro» dissi «sono ancora tormentato da voci e immagini provenienti da altri luoghi. Da altri tempi. Mio padre a caccia nelle brughiere in compagnia dei suoi fratelli. Padre Glauco scaraventato incontro alla morte da Rhadamanth Nemes.»
Aenea mi guardò. «L’hai visto?»
«Sì. È stato orribile. Padre Glauco non poteva vedere chi l’aveva assalito. La caduta… le tenebre… il gelo… i momenti di dolore prima della morte. Padre Glauco si era rifiutato di accettare il crucimorfo. Per questo la Chiesa lo aveva inviato su Sol Draconis Septem, in esilio fra i ghiacci.»
«Sì. Negli ultimi dieci anni ho toccato varie volte quei suoi ultimi ricordi. Ma ci sono altri ricordi di padre Glauco, Raul. Ricordi belli e pieni di calore umano… pieni di luce. Mi auguro che tu li trovi.»
«Voglio solo che le voci smettano» dissi sinceramente. «Tutto questo…» Indicai la nave-albero, le persone che conoscevamo, Het Masteen ai comandi. «Tutto questo è troppo importante.»
Aenea sorrise. «Tutto è troppo importante. Ecco il maledetto guaio, no?» Tornò a guardare le stelle. «No, Raul, ciò che devi udire prima di muovere un passo non è la risonanza del linguaggio dei morti, e neppure dei vivi. È… l’essenza delle cose.»
Esitai, per non fare la figura da sciocco, ma poi recitai:
«… Quindi
milioni di maree devono muoversi
vessando lui. Eppur non morirà,
quest’opere compiute. Che se a fondo…»
Intervenne Aenea:
«… sonda della magia gli abissi e spiega
il senso d’ogni moto, forma e suono,
s’egli indaga ogni forma e ogni sostanza
dritto fino al suo emblema e alla sua essenza,
non morirà…»
Sorrise di nuovo. «Chissà come sta zio Martin. Trascorre gli anni nel gelo dell’animazione sospesa? Sbraita contro quei poveracci dei suoi servi androidi? Lavora sempre per completare i Canti? Nei miei sogni non riesco mai a vedere zio Martin.»
«Sta morendo» dissi.
Aenea mi guardò, sorpresa e sconvolta.
«L’ho sognato… l’ho visto… stamattina. Si è fatto decongelare per l’ultima volta, così ha detto ai suoi fedeli servitori. I macchinari lo tengono in vita. Ormai il trattamento Poulsen è inefficace. Resterà…»
«Dimmi!»
«Resterà in vita finché non ti rivedrà. Ma è molto debole.»
Aenea distolse lo sguardo. «È strano» disse. «Mia madre litigò con zio Martin per tutto il pellegrinaggio. A volte si sarebbero uccisi l’un l’altro. Ma prima che lei morisse, lui era il suo migliore amico. Ora…» Si fermò, con voce velata.
«Devi solo restare viva, ragazzina.» Avevo anch’io una voce strana. «Viva e in buona salute, per tornare a fare visita al vecchio. Glielo devi.»
«Prendimi la mano, Raul.»
La nave si teleportò nel lampo di luce.
Intorno a Tau Ceti Centro fummo immediatamente attaccati non solo da navi della Pax, ma anche da navi torcia dei ribelli che lottavano per la secessione del pianeta propugnata dall’ambizioso arcivescovo Achilia Silvaski. Il nostro campo di contenimento avvampò come una nova.
Aenea tese le mani al Tromo Trochi di Dhomu e a me.
«Non ti puoi teleportare attraverso questo inferno» protestai.
«Non ci si teleporta attraverso qualcosa» replicò la mia amica; ci prese per mano e ci trovammo nell’ex capitale della compianta e non rimpianta Egemonia.
Il Tromo Trochi non era mai stato su Tau Ceti, anzi non si era mai allontanato da T’ien Shan, ma i suoi interessi commerciali erano stati stuzzicati dai racconti su quella che un tempo era stata la capitale del capitalismo dell’universo umano.
«Peccato che non abbia niente da vendere» disse l’abile mercante. «In sei mesi, su un pianeta così fecondo, avrei creato un impero commerciale.»
Aenea frugò nella sacca che portava in spalla e ne tolse un pesante lingotto d’oro. «Questo dovrebbe bastare ad avviarti» disse. «Ma non dimenticare i tuoi veri compiti qui.»
Tenendo nella mano il lingotto, il piccolo mercante le rivolse un inchino. «Non li dimenticherò mai, maestra. Non ho penato ad apprendere il linguaggio dei morti per niente.»
«Cerca solo di cavartela per i prossimi mesi. Poi sarai in grado di andare su qualsiasi pianeta di tua scelta, ne sono sicura.»
«Andrei dovunque ci sei tu, Aenea» disse il mercante e fu l’unica volta che lo vidi mostrare le proprie emozioni. «E pagherei tutte le mie ricchezze, passate, future e fantasticate, per farlo.»
Rimasi un po’ sorpreso a queste parole. Per la prima volta mi venne in mente che molti discepoli di Aenea erano forse, anzi probabilmente, un po’ innamorati di lei, oltre che pieni di timore reverenziale. Ma ascoltare quella dichiarazione di un mercante ossessionato dal denaro fu una vera sorpresa.
Aenea gli toccò il braccio. «Non correre rischi e passatela bene.»
Quando tornammo, la Yggdrasill era ancora sotto attacco. Ed era sotto attacco quando Aenea ci teleportò lontano dal sistema di Tau Ceti.
Il pianeta-città Lusus non era cambiato molto da come lo ricordavo dal mio breve soggiorno: una serie di torri alveare sopra canyon di metallo grigio. Lì George Tsarong e Jigme Nerbu ci salutarono. Il tozzo e muscoloso George (piangeva, mentre abbracciava Aenea) poteva passare per un lusiano medio, se non lo si guardava troppo da vicino, ma il filiforme Jigme sarebbe risaltato nella folla. Lusus però era abituato a visitatori di altri pianeti e i nostri due capisquadra se la sarebbero cavata bene, se avessero avuto denaro. Ma Lusus era uno dei pochi pianeti della Pax che erano tornati alle carte di credito ed Aenea non ne aveva, nella sua sacca.
Tuttavia, appena usciti dai corridoi del vuoto alveare Dreg, fummo avvicinati da sette figure in mantello cremisi. Mi frapposi fra Aenea e le inquietanti figure, ma i sette, anziché assalirci, si inginocchiarono sul pavimento unto, chinarono la testa e intonarono:
BENEDETTA SIA LEI
BENEDETTA SIA LA FONTE DELLA NOSTRA SALVEZZA
BENEDETTO SIA LO STRUMENTO DELLA NOSTRA REDENZIONE
BENEDETTO SIA IL FRUTTO DELLA NOSTRA RICONCILIAZ1ONE
BENEDETTA SIA LEI.
«Il culto Shrike» dissi stupidamente. «Pensavo che fosse scomparso, spazzato durante la Caduta.»
«Preferiamo che ci si riferisca a noi come alla Chiesa della redenzione finale» disse il primo dei sette, rialzandosi, ma sempre a capo chino in direzione di Aenea. «E, no, non siamo stati "spazzati", per usare la tua parola, ma semplicemente costretti alla clandestinità. Benvenuta, figlia della Luce. Benvenuta, sposa dell’Avatar.»
Aenea si limitò a scuotere la testa, con chiara impazienza. «Non sono la sposa di nessuno, vescovo Duruyen. Ho portato questi due uomini e li affido alla sua protezione per i prossimi dieci mesi.»
Il vescovo chinò la testa. «Proprio come dicono le profezie, figlia della Luce.»
«Non profezie» replicò Aenea. «Promesse.»
Si girò e diede un ultimo abbraccio a George e a Jigme.
«Ti rivedremo, architetto?» disse Jigme.
«Questo non posso prometterlo. Ma prometto che, se è in mio potere, saremo in contatto di nuovo.»
Seguii Aenea negli umidi e deserti corridoi dell’alveare Dreg, dove la nostra partenza non sarebbe parsa così miracolosa da essere inserita nel già fertile canone del culto Shrike.
Sul pianeta Tsingtao-Hsishuang Panna salutammo il Dalai Lama e suo fratello, Labsang Samten. Labsang pianse. Il Dalai Lama no.
«Il dialetto mandarino della popolazione locale è atroce» disse il Dalai Lama.
«Ma la gente riuscirà a capirti, Santità» disse Aenea. «E ti darà ascolto.»
«Ma tu sei la mia insegnante» disse il bambino, con voce prossima alla collera. «Come posso insegnare loro, senza il tuo aiuto?»
«Ti aiuterò» disse Aenea. «Cercherò di aiutarti. E poi, è il tuo compito. E il loro.»
«Ma possiamo condividere la comunione con questi?» domandò Labsang.
«Se lo chiedono» rispose Aenea. Al bambino disse: «Mi daresti la tua benedizione, Santità?».
Il piccolo Dalai Lama sorrise. «Dovrei chiederti io la benedizione, maestra.»
«Per favore» disse Aenea e di nuovo sentii la stanchezza nella sua voce.
Il Dalai Lama chinò la testa e, a occhi chiusi, disse: «Queste sono parole della preghiera di Kuntu Sangpo, a me rivelate mediante la visione del mio terton in una vita precedente:
«Oh! Il mondo fenomenico e tutta l’esistenza, samsara e nirvana,
hanno un solo fondamento, ma ci sono due sentieri e due risultati:
sfoggio d’ignoranza e conoscenza insieme.
Mediante l’aspirazione di Kuntu Sangpo,
nel Palazzo dello spazio primevo del Vuoto,
raggiungano tutti gli esseri perfetto compimento e stato di Buddha.
«Il fondamento universale è incondizionato
sorge spontaneo, vasta distesa immanente, al di là dell’espressione,
dove non esiste né samsara né nirvana.
La conoscenza di questa realtà è lo stato di Buddha,
mentre gli esseri ignoranti vagano in samsara.
Tutti gli esseri senzienti dei tre regni
raggiungano conoscenza della natura dell’ineffabile fondamento.»
Aenea chinò la testa verso il bambino. «Il Palazzo dello spazio primevo del Vuoto» mormorò. «Una espressione molto più elegante della mia goffa descrizione del Vuoto che lega. Grazie, Santità.»
Il bambino si inchinò. «Grazie a te, reverenda maestra. Possa la tua morte essere più rapida e meno dolorosa di quanto tutti e due ci aspettiamo.»
Aenea e io tornammo sulla nave-albero. Misi le mani sulle spalle di Aenea e la guardai negli occhi. «Cosa diavolo voleva dire?» domandai. «Morte più rapida e meno dolorosa? Che diavolo significa? Conti di farti crocifiggere? Questa maledetta imitazione di messia deve finire nello stesso modo stravagante? Parla, Aenea!» Mi resi conto di scuoterla, di scuotere la mia cara amica, la mia amata ragazza. Lasciai cadere le mani.
Aenea mi circondò con le sue. «Stai semplicemente con me, Raul. Stai con me, per quanto puoi.»
«Certo» dissi. «Te lo giuro.»
Sul pianeta Fuji salutammo Kenshiro Endo e Haruyuki Otachi. Su Deneb Drei salutammo una bambina che non conoscevo… una certa Katherine, di dieci anni, che rimase da sola e non parve per niente spaventata. Su Sol Draconis Septem, quel pianeta di aria congelata e di micidiali spettri, dove padre Glauco e i nostri amici Chitchatuk erano stati vilmente assassinati, il triste e pensieroso montatore d’impalcature, Rimsi Kyipup, fu quasi lieto di offrirsi volontario per restare. Su Nevermore salutammo un altro uomo che non avevo avuto l’onore di conoscere: un tipo piuttosto anziano, dalla voce calma, che pareva un fratello più giovane e più gentile di Martin Sileno. Su Bosco Divino, dove dieci anni prima A. Bettik aveva perduto parte del braccio, i due luogotenenti templari di Het Masteen si teleportarono con Aenea e con me sul pianeta e non tornarono alla Yggdrasill. Su Hebron, privo ora dei coloni ebrei, ma pieno di buoni cristiani inviati dalla Pax, i due Seneschai Aluit, LLeeoonn e OOeeaall, si teleportarono con noi e ci salutarono, di sera, in un vuoto deserto dove le rocce conservavano ancora il bagliore del giorno.
Su Parvati, le sorelle Kuku Se e Kay Se, solitamente allegre, piansero e ci abbracciarono nel salutarci. Su Asquith lasciammo una famiglia intera, padre, madre e cinque biondissimi figli. In orbita intorno al pianeta dalle bianche nubi turbinanti e dall’oceano azzurro, Mare Infinitum, un mondo il cui semplice nome mi tormentava con ricordi di sofferenza e di amicizia, Aenea chiese al sergente Gregorius se era disposto a scendere con lei per unirsi ai ribelli e sostenere la loro causa.
«E lasciare il capitano?» disse il gigantesco sergente. La proposta, era chiaro, l’aveva sorpreso e sconvolto.
«Non esiste più il capitano, sergente, mio caro amico» intervenne de Soya. «Esiste solo questo prete senza Chiesa. E penso che d’ora in poi avremo più occasioni di fare del bene lontano l’uno dall’altro che insieme. Ho ragione, Aenea?»
La mia amica annuì. «Avrei voluto che il mio rappresentante su Mare Infinitum fosse Lhomo» disse. «Contando che i contrabbandieri e i ribelli e i cacciatori di Bocche di Lanterna avrebbero rispettato un uomo forte. Sarà un compito difficile e pericoloso… la rivolta infuria ancora sul pianeta e la Pax non prende prigionieri.»
«Il pericolo non c’entra!» esclamò Gregorius. «Sono disposto a morire mille volte della vera morte, per una buona causa.»
«Lo so, sergente» disse Aenea.
Il gigante guardò il suo ex capitano e poi di nuovo Aenea. «Ragazza, so che non ti piace rivelare il futuro, anche se sappiamo che lo scruti di tanto in tanto. Ma dimmi una cosa: c’è una possibilità che mi riunisca al capitano?»
«Sì» disse Aenea. «Ed è possibile che tu ritrovi anche una persona che ritieni morta: il caporale Kee.»
«Allora vado. Farò come vuoi. Ormai non appartengo più alle guardie svizzere, ma l’ubbidienza che mi hanno insegnato è ben radicata.»
«Non chiediamo ubbidienza, ora» disse padre de Soya «ma qualcosa di più difficile e di più profondo.»
Il sergente Gregorius rifletté un istante. «Sì» accettò infine e per un attimo voltò la schiena a tutti. «Andiamo, ragazza» disse, porgendo la mano a Aenea.
Lo lasciammo su una piattaforma abbandonata, da qualche parte nel litorale sud; ma Aenea gli disse che dei sommergibili sarebbero comparsi in giornata.
In orbita intorno al pianeta Madrededios, padre de Soya venne avanti, ma Aenea alzò la mano e lo fermò.
«Questo è sicuramente il mio pianeta» disse de Soya. «Ci sono nato. C’era la mia diocesi. Immagino che morirò qui.»
«Forse» disse Aenea «ma ho bisogno di te per un posto più difficile e per un compito più pericoloso, Federico.»
«Quale?»
«Pacem» rispose Aenea. «La nostra ultima fermata.»
Mi avvicinai. «Aspetta, ragazzina. Verrò con te su Pacem, se proprio insisti per andarci. Hai detto che potevo stare con te.» Perfino a me il tono parve lamentoso e disperato.
«Sì» disse Aenea. Sentii sul polso il freddo delle sue dita. «Ma vorrei che padre de Soya venisse con noi, quando sarà il momento.»
Il gesuita parve sconcertato e un po’ deluso, ma chinò la testa. Evidentemente nella Compagnia di Gesù l’ubbidienza era ancora più radicata che nelle guardie svizzere.
Alla fine, per fermarsi su Madrededios si offrirono volontari Voytek Majer, che aveva lavorato il bambù su T’ien Shan, e la sua nuova fidanzata, la mattonaia Viki Groselj.
Su Freeholm salutammo Janusz Kurtyka. Su Kastrop-Rauxel, terraformato di nuovo di recente e colonizzato dalla Pax, fu il soldato Jigme Paring a offrirsi volontario per trovare le popolazioni ribelli. In orbita intorno a Parsimony, mentre navi da guerra della Pax rendevano un torrente di fragore e di luce il nostro campo di contenimento, una certa Helen Dean O’Brien venne avanti a prendere la mano di Aenea. Su Esperance, Aenea e io salutammo l’ex sindaco di Jo-kung, Charles Chi-kyap Kempo. Su Grass, immersi fino alle spalle nelle giallastre praterie di quel pianeta, salutammo Isher Perpet, uno dei più coraggiosi ribelli liberati tempo prima da una galea prigione della Pax e accolti da padre de Soya. Su Qom-Riyadh, dove le moschee cadevano rapidamente sotto i bulldozer o erano convertite in cattedrali dai nuovi coloni della Pax, ci teleportammo nel cuore della notte e mormorammo un saluto a un ex profugo di quel pianeta, Merwin Muhammed Ali, e al nostro ex interprete su T’ien Shan, l’abile Perri Samdup.
In orbita intorno a Rinascimento Minore, mentre un’orda di navi da guerra planetarie accelerava con intenti omicidi verso di noi, fu il pallido e silenzioso ex prigioniero, Hoagan Liebler, a farsi avanti.
«Ero una spia» disse. Parlava a Aenea, ma guardava in viso padre de Soya. «Ho venduto per denaro la mia lealtà, per tornare sul mio pianeta e ricuperare le terre perdute e le ricchezze della mia famiglia. Ho tradito il mio capitano e la mia anima.»
«Figlio mio, da tempo quei peccati, se peccati erano, ti sono stati rimessi dal tuo capitano e, cosa più importante, da Dio» disse padre de Soya. «Nessun male è stato commesso.»
Liebler annuì lentamente. «Le voci che continuo ad ascoltare da quando ho bevuto il vino della comunione con la signora Aenea…» Lasciò morire la frase. «Su questo pianeta conosco molte persone» riprese, con voce più forte. «Vorrei tornare a casa per iniziare questa nuova vita.»
«Sì» disse Aenea e gli offrì la mano.
Dall’orbita intorno a Vitus-Gray-Balianus B, Aenea, la Dorje Phamo e io ci teleportammo in una zona desertica, lontano dal fiume con i suoi campi coltivati e le casette dai colori vivaci che fiancheggiavano la via dove il gentile popolo Spettroelica di Amoiete mi aveva curato e aiutato a sfuggire alla Pax. In quella zona c’erano solo distese di massi e crepe disseccate, labirinti di ingressi di cunicoli nella roccia e tempeste di sabbia che soffiavano dall’insanguinato tramonto all’orizzonte nero di nuvolaglia. Quel deserto mi ricordò Marte con aria più calda e ricca e inquinata da un non trascurabile puzzo di morte e di cordite.
Figure ammantate ci circondarono quasi subito, tenendoci sotto tiro di pistole a fléchettes e di frustalaser. Cercai di nuovo di frappormi tra Aenea e il pericolo, ma le figure si avvicinarono, pronte a sparare.
«Fermi!» gridò una voce che conoscevo. Una donna avvolta nel mantello si lasciò scivolare da una duna e si fermò davanti a noi. «Fermi!» gridò ancora ai compagni ansiosi di aprire il fuoco. Si tolse il cappuccio.
«Dem Loa!» esclamai e abbracciai la donna nell’ingombrante tenuta da battaglia. Vidi le lacrime lasciare striature fangose sulle guance.
«Sei tornato qui con la tua amata» disse la donna che mi aveva salvato. «Come avevi promesso.»
La presentai a Aenea e alla Dorje Phamo, sentendomi sciocco e felice nello stesso tempo. Dem Loa ed Aenea si guardarono per un istante, poi si abbracciarono.
Guardai le altre figure che ancora si tenevano discoste nel sanguigno crepuscolo. «Dov’è Dem Ria?» domandai. «Alem Mikail Dem Alem? E i tuoi figli, Bin e Ces Ambre?»
«Morti» disse Dem Loa. «Tutti morti, tranne Ces Ambre, che è fra i dispersi, dopo l’ultimo attacco della Pax di Bombasino.»
Rimasi stordito, senza parole.
«Bin Ria Dem Loa Alem è morto di malattia» continuò Dem Loa «ma gli altri sono morti nella nostra guerra contro la Pax.»
«Guerra contro la Pax» ripetei. «Spero davanti a Dio di non essere stato io a iniziarla…»
Dem Loa alzò la mano. «No, Raul Endymion. Non l’hai iniziata tu. Quelli fra noi nella Spettroelica di Amoiete che tenevano in conto le tradizioni hanno rifiutato la croce, e questo rifiuto ha provocato la guerra. La rivolta era già cominciata, mentre ti trovavi con noi. Dopo la tua partenza, pensavamo di avere vinto. I vigliacchi della base militare di Bombasino hanno sollecitato la pace, ignorato gli ordini dei loro comandanti nello spazio e stretto patti con noi. Ma sono giunte altre navi della Pax. Hanno bombardato la loro stessa base, poi si sono scagliate contro i nostri villaggi. Da allora è guerra. Gli uomini della Pax atterrano e cercano di occupare il territorio. Ne uccidiamo parecchi. E la Pax ne manda altri.»
«Dem Loa, mi dispiace, mi dispiace davvero.»
Lei mi mise la mano sul petto e annuì. Vidi il sorriso che ricordavo dalle ore trascorse insieme. Dem Loa guardò di nuovo Aenea. «Sei quella di cui lui parlava nel delirio e nella sofferenza» disse. «Sei quella che amava. Lo ami anche tu, bambina?»
«Lo amo» disse Aenea.
«Bene. Sarebbe triste, se un uomo convinto di essere in punto di morte esprimesse un tale amore per una persona che non sentisse per lui lo stesso sentimento.» Guardò la Scrofa Folgore, silenziosa e regale. «Sei una sacerdotessa?»
«Non sacerdotessa» rispose la Scrofa Folgore. «Madre superiora di un monastero, il gompa Samden.»
Dem Loa sorrise. «Comandi sui monaci? Sugli uomini?»
«Li… consiglio» rispose la Dorje Phamo. Il vento le scompigliò i capelli grigi come ferro.
«Vale quanto comandarli» rise Dem Loa. «Benvenuta, allora, Dorje Phamo.» Si rivolse a Aenea. «Resti con noi, bambina? O ci sfiori soltanto e tiri dritto, come dicono le nostre profezie?»
«Devo andare avanti» disse Aenea. «Però mi piacerebbe lasciare qui la Dorje Phamo, come vostra alleata e nostro… collegamento.»
Dem Loa annuì. «Adesso qui è pericoloso» disse alla Scrofa Folgore.
La Dorje Phamo le sorrise. La forza delle due donne pareva energia palpabile nell’aria intorno a noi.
«Bene» disse Dem Loa. Mi abbracciò. «Sii gentile con la tua amata, Raul Endymion. Sii buono con lei nelle ore che vi concederanno i cicli di vita e di caos.»
«Senz’altro» assicurai.
Dem Loa si rivolse a Aenea. «Grazie per essere venuta, bambina. Era nostro desiderio. Era nostra speranza.» Le due donne si abbracciarono di nuovo. A un tratto mi sentii impacciato, come se avessi portato Aenea a casa a conoscere mia madre o nonna.
La Dorje Phamo ci benedisse. «Kale pe a» soggiunse a Aenea.
Ce ne andammo nella tempesta di sabbia al crepuscolo e ci teleportammo nel lampo di luce bianca. Nella quiete del ponte della Yggdrasill, domandai a Aenea: «Cos’ha detto?».
«Kale pe a» ripeté Aenea. «Un antico saluto tibetano, quando una carovana parte per salire i picchi più alti. Significa: "Vai lentamente, se vuoi tornare".»
Continuò così per un centinaio di altri pianeti, ciascuno visitato solo per qualche minuto; ma ogni saluto fu commovente e toccante, diverso dagli altri. Mi è difficile dire quanti giorni e quante notti furono spesi in quel viaggio finale con Aenea, perché c’era solo il teleportarsi giù e teleportarsi su, la nave-albero entrava nella luce in un punto ed emergeva altrove; e quando tutti erano troppo stanchi per continuare, la Yggdrasill andava alla deriva nello spazio vuoto per alcune ore, mentre gli erg si riposavano e noi cercavamo di dormire.
Ricordo almeno tre di questi periodi di sonno, perciò forse viaggiammo solo tre giorni e tre notti. O forse viaggiammo per una settimana o più e dormimmo solo tre volte. Ma ricordo che Aenea e io dormimmo poco e ci amammo teneramente, come se ogni volta che ci tenevamo stretti potesse essere l’ultima.
In uno di questi brevi interludi intimi le mormorai: «Perché fai tutto questo, ragazzina? Non lo fai solo perché tutti possiamo diventare come gli Ouster e volare sotto la spinta della luce del sole sulle ali. Voglio dire… è stato magnifico… ma a me piacciono i pianeti! Mi piace il terreno sotto le suole. Mi piace essere… umano, ecco. Essere un uomo».
Aenea ridacchiò e mi accarezzò la guancia. La luce era fioca, ricordo, ma vedevo il sudore che le imperlava l’incavo dei seni. «Anche a me piace che tu sia un uomo, Raul caro.»
«Volevo dire…» cominciai, impacciato.
«So cosa volevi dire. Anche a me piacciono i pianeti. E mi piace essere umana, essere semplicemente donna. Non è solo per una utopistica evoluzione della specie umana in angeli Ouster e in empatici Seneschai che faccio… ciò che devo fare.»
«E allora perché?» le mormorai nei capelli.
«Per la possibilità di scegliere» disse piano. «Per l’opportunità di restare umani, qualsiasi cosa ciò significhi per chi sceglie.»
«Per scegliere ancora?»
«Sì. Anche se significa scegliere ciò che si è già avuto prima. Anche se significa scegliere la Pax, il crucimorfo, l’alleanza col Nucleo.»
Non capii, ma in quel momento ero più interessato a tenerla stretta che a capire.
Dopo un momento di silenzio Aenea disse: «Raul… piace anche a me il terreno sotto le suole, il fruscio del vento nell’erba. Faresti una cosa per me?»
«Qualsiasi cosa!» risposi, deciso.
«Se morirò prima di te, riporterai sulla Vecchia Terra le mie ceneri e le spargerai nel posto dove siamo stati più felici insieme?»
Se mi avesse pugnalato al cuore, avrei sofferto meno. «Hai detto che potevo restare con te» sbottai infine, con voce rauca, adirata, perduta. «Che potevo andare dovunque andassi tu.»
«Ed ero sincera, amore mio. Ma se ti precedo nella morte, mi farai quel favore? Aspetterai qualche anno e poi disperderai le mie ceneri là dove siamo stati più felici, sulla Vecchia Terra?»
Avevo voglia di stringerla fino a farla piangere. Fino a farla rinunciare alla richiesta. Invece bisbigliai: «E come diavolo tornerei sulla Vecchia Terra, maledizione? Si trova nella Nube di Magellano, no? Centosessantamila anni luce da qui, no?».
«Sì.»
«Riaprirai i teleporter perché possa arrivarci?»
«No. Quelle porte sono chiuse per sempre.»
«Allora come diavolo ti aspetti che io…» Chiusi gli occhi. «Non chiedermi di farlo, Aenea.»
«Te l’ho già chiesto, amore mio.»
«Chiedimi invece di morire al posto tuo.»
«No. Ti chiedo di vivere per me. Di farlo per me.»
«Merda.»
«Significa sì?»
«Significa merda. Odio i martiri. Odio la predestinazione. Odio le storie d’amore che terminano male.»
«Anch’io» bisbigliò Aenea. «Lo farai per me?»
Sospirai. «Dove siamo stati più felici, sulla Vecchia Terra?» dissi infine. «Ti riferisci di sicuro a Taliesin West, perché insieme non abbiamo visto molti altri posti.»
«Al momento buono lo saprai. Ora dormiamo.»
«Non ho voglia di dormire» replicai sgarbatamente.
Mi circondò con le braccia. Era stato delizioso dormire insieme, a gravità zero, sull’Albero Stella. Era ancora più delizioso, nel nostro piccolo letto nel nostro stanzino privato nel lieve campo gravitazionale della Yggdrasill. Non riuscivo a immaginare un tempo in cui avrei dovuto dormire senza lei al fianco.
«Spargere le tue ceneri, eh?» borbottai a un certo punto.
«Sì» mormorò Aenea, più appisolata che sveglia
«Ragazzina, amore mio, tesoro mio» dissi. «Sei una morbosa piccola puttana.»
«Sì» mormorò la mia Aenea. «Ma sono la tua morbosa piccola puttana.»
Piano piano prendemmo sonno.
L’ultimo giorno Aenea ci teleportò in un sistema solare con una nana rossa tipo M3 al centro e un pianeta simile alla dolce Terra in orbita bassa.
«No» disse Rachel, mentre il nostro piccolo gruppo si trovava sul ponte di Het Masteen. In trecento ci avevano lasciato, uno per volta; i numerosi discepoli di Aenea erano stati sparpagliati fra i pianeti della Pax come bottiglie gettate in un grande oceano, ma senza un messaggio all’interno. Ora sulla Yggdrasill restavano padre de Soya, Rachel, Aenea, il capitano Het Masteen, A. Bettik, i cloni dell’equipaggio, gli erg in fondo alla nave e io. E lo Shrike, muto e immobile, sulla piattaforma più alta.
«No» ripeté Rachel. «Ho cambiato idea. Voglio continuare con te.»
Aenea incrociò le braccia. Era rimasta particolarmente silenziosa per tutta quella mattinata di spostamenti e di saluti ai discepoli. «Come vuoi» disse ora, con calma. «Sai che non ti obbligherei mai a fare una cosa, Rachel.»
«Accidenti a te» imprecò sottovoce Rachel.
«Sì» disse Aenea.
Rachel strinse i pugni. «Questa storia arriverà mai alla fottuta fine?»
«Che vuoi dire?»
«Lo sai che voglio dire. Mio padre, mia madre, tua madre, la loro vita è stata piena di questa storia. La mia vita… vissuta due volte, ora… un continuo combattimento contro un invisibile nemico. Scappare e scappare, aspettare e aspettare. Indietro e avanti nel tempo, come una sciagurata trottola che ti ha preso la mano… oh, maledizione.»
Aenea rimase in silenzio.
«Una sola richiesta» disse Rachel. Guardò me. «Senza offesa, Raul. Mi sei diventato molto simpatico. Ma vorrei che Aenea mi portasse da sola sul mondo di Barnard.»
Guardai Aenea. «Per me va bene» dissi.
Rachel sospirò. «Di nuovo su quell’arretrato pianeta… campi di granturco e tramonti e piccole cittadine con grandi case bianche e ampi porticati. Mi annoiava già quando avevo otto anni.»
«Lo amavi, quando avevi otto anni» disse Aenea.
«Sì. Lo amavo.» Strinse la mano al prete, poi a Het Masteen, poi a me.
D’impulso, ricordando i più oscuri versi dei Canti del vecchio poeta, ricordando d’averne riso ai margini del cerchio di luce del fuoco di bivacco mentre nonna me li faceva ripetere parola per parola, chiedendomi se qualcuno avesse mai detto davvero simili cose, dissi a Rachel: «Ciao ciao, maramao».
Rachel mi lanciò un’occhiata bizzarra e nei suoi occhi verdi si riflette la luce del pianeta sospeso sopra di noi. «A fra poco, bel topo.»
Prese la mano di Aenea e svanì con lei. Non c’era lampo di luce, se non si viaggiava con Aenea. Solo un’improvvisa… assenza.
Aenea tornò dopo cinque minuti. Het Masteen uscì dal cerchio di comando e rimase a braccia conserte, mani nelle ampie maniche della veste. «Maestra?»
«Il sistema solare di Pacem, per favore, Vera Voce dell’Albero Het Masteen.»
Il templare non si mosse. «Lei sa già, cara amica e maestra, che ormai la Pax avrà richiamato nel sistema del Vaticano metà delle sue navi da guerra.»
Aenea alzò lo sguardo e lo girò sulle foglie lievemente fruscianti del magnifico albero in cui viaggiavamo. Un chilometro dietro di noi, il bagliore del motore a fusione ci spingeva lentamente fuori del pozzo gravitazionale del mondo di Barnard. Qui nessuna nave della Pax ci aveva intimato l’alto là.
«Gli erg riusciranno a tenere attivi i campi finché non saremo vicino a Pacem?» domandò Aenea.
Il capitano allargò le braccia, mani a palme in alto. «Non ne sono sicuro» disse. «Sono sfiniti. Il tributo che questi attacchi hanno preteso da loro…»
«Lo so» disse Aenea. «E mi spiace davvero. Ti dovrai trattenere nel sistema di Pacem solo un paio di minuti. Forse se acceleri adesso e ti tieni pronto a manovrare a tutto motore appena compariremo nel sistema, la nave-albero riuscirà a teleportarsi via prima che i campi cedano.»
«Tenteremo» disse Het Masteen. «Ma tenetevi pronti a teleportarvi via immediatamente. La vita della nave-albero potrebbe essere misurata in secondi, dopo il nostro arrivo.»
«Prima dobbiamo mandare via la nave del console» disse Aenea. «Dobbiamo farlo subito, qui. Solo qualche istante, Het Masteen.»
Il templare annuì e tornò ai quadri comando.
«Oh, no» dissi, quando Aenea si girò dalla mia parte. «Non vado su Hyperion nella nave del console.»
Aenea parve sorpresa. «Pensavi che ti mandassi via, dopo averti detto che potevi restare con me?»
Incrociai le braccia. «Abbiamo visitato gran parte dei pianeti della Pax e della Periferia, tranne Hyperion. Qualsiasi cosa tu progetti, non credo che lascerai fuori il nostro pianeta natale.»
«Non lo lascio fuori, infatti» disse Aenea. «Ma non andremo di persona su Hyperion.»
Non capivo.
Aenea si rivolse all’androide. «A. Bettik, la nave dovrebbe essere pronta a partire. Hai con te la lettera che ho scritto per zio Martin?»
«Certo, signora Aenea.» L’androide non pareva contento, ma neanche addolorato.
«Per favore, digli che gli voglio bene.»
«Un momento, un momento» intervenni. «A. Bettik è il tuo… il tuo inviato… su Hyperion?»
Aenea si lisciò la guancia. Intuii che era più sfinita di quanto non immaginassi, ma risparmiava le forze per qualcosa d’importante ancora da venire. «Il mio inviato?» disse. «Intendi come Rachel e Theo e la Dorje Phamo e George e Jigme?»
«Già. E come gli altri trecento.»
«No. A. Bettik non sarà il mio inviato su Hyperion. Non in quel senso. E con la propulsione Hawking, la nave del console accumulerà un grosso debito temporale. La nave e A. Bettik non arriveranno prima di alcuni dei nostri mesi.»
«Allora chi è l’inviato, il collegamento, su Hyperion?» domandai, sicuro che quel pianeta non sarebbe stato esentato.
«Non lo indovini?» sorrise Aenea. «Il caro zio Martin. Il poeta e critico diventa ancora una volta un giocatore in questa infinita partita a scacchi contro il Nucleo.»
«Ma gli altri hanno tutti preso la comunione con te e…» Mi fermai.
«Sì. Quando ero ancora bambina. Zio Martin capì. Bevve il vino. Non fu difficile per lui adattarsi: da secoli, nel suo modo da poeta, udiva il linguaggio dei morti e dei vivi. Così giunse a scrivere i Canti. Per questo pensò che lo Shrike fosse la sua musa.»
«Allora perché A. Bettik riporta su Hyperion la nave? Solo per consegnare il tuo messaggio?»
«Per questo e altro» disse Aenea. «Se tutto funzionerà, vedremo.» Abbracciò l’androide. A. Bettik, con l’unica mano, le diede goffe pacche sulla schiena.
L’attimo dopo, più emozionato di quanto non ritenessi possibile, strinsi la mano all’androide. «A. Bettik, mi mancherai» dissi stupidamente.
L’androide mi guardò a lungo, annuì, si girò verso la nave in attesa.
«A. Bettik!» chiamai, proprio mentre lui stava per entrare nella nave.
L’androide si girò e attese che corressi al mio piccolo mucchio di bagaglio sulla piattaforma inferiore e tornassi di corsa. «Prendilo tu, ti spiace?» Gli porsi la custodia di cuoio.
«Il tappeto Hawking. Sì, certo, signor Endymion. Sarò lieto di conservarlo per lei finché non ci rivedremo.»
«E se non ci rivedremo…» Esitai. Stavo per dire: "Consegnalo per favore a Martin Sileno", ma sapevo dalle mie visioni da sveglio che il vecchio poeta era in punto di morte. «Se per caso non dovessimo più vederci, A. Bettik, ti prego di tenere il tappeto come ricordo del nostro viaggio. E della nostra amicizia.»
A. Bettik mi guardò in silenzio ancora un momento, annuì di nuovo ed entrò nella nave del console. Quasi m’aspettavo che la nave ci salutasse, un addio pieno di parole usate a sproposito e di informazioni sbagliate, ma quella si limitò a conferire con gli erg della nave-albero, si sollevò silenziosamente sui repulsori fino a uscire dal campo di contenimento e poi si allontanò senza forzarli, fino a distanza di sicurezza da noi. Mentre accelerava lontano dal mondo di Barnard e dalla Yggdrasill, la sua coda di fusione era così luminosa che mi vennero le lacrime. Desiderai allora con tutto il cuore che Aenea e io tornassimo un giorno su Hyperion, con A. Bettik, pronti a dormire per giorni nel largo letto in cima alla nave e poi ascoltare la musica dello Steinway e nuotare in una piscina a gravità zero sopra la loggia…
«Dobbiamo andare» disse Aenea a Het Masteen. «Ti spiace avvertire gli erg di ciò che incontreremo?»
«Come desidera, maestra» disse la Vera Voce dell’Albero.
«Ancora una cosa, Het Masteen…»
Il templare si girò, in attesa di nuovi ordini.
«Grazie, Het Masteen» disse Aenea. «A nome di tutti quelli che sono venuti con te in questo viaggio e di tutti quelli che parleranno del tuo viaggio nelle generazioni future, grazie, Het Masteen.»
Il templare le rivolse un inchino a tornò ai quadri di comando. «Motore a nove-due per cento, pronti per manovre evasive» disse ai suoi amati erg avvolti intorno all’invisibile singolarità, quasi un chilometro sotto di noi. «Pronti per il sistema di Pacem.»
Padre de Soya era rimasto in silenzio nei pressi, ma ora prese nella sinistra la destra di Aenea. Con la destra diede al templare e ai cloni d’equipaggio una silenziosa benedizione: «In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti».
«Amen» dissi, prendendo la sinistra di Aenea.
«Amen» disse Aenea.
Ci colpirono meno di due secondi dopo la nostra apparizione nel sistema: navi torcia e Arcangelo, che convergevano su di noi come una volta gli squali arcobaleno avevano fatto con me nell’oceano di Mare Infinitum.
«Andate!» gridò la Vera Voce dell’Albero Het Masteen, superando il torrente di fragori che ci travolgeva. «Gli erg stanno morendo! Il campo cederà in pochi secondi. Andate! Il Muir guidi i vostri pensieri. Andate!»
Aenea aveva avuto solo due secondi per dare un’occhiata alla stella gialla al centro del sistema di Pacem, ma bastò. Tenendoci per mano, ci teleportò tra la luce e il frastuono, come se sorgessimo dal calderone di fuoco che faceva ribollire i campi della nave: spiriti che si levavano dai laghi ardenti dell’inferno.
La luce svanì e poi tornò sotto forma di diffuso chiarore di sole. Il cielo era nuvoloso, sopra il Vaticano, e freddo, quasi invernale; una pioggerellina gelida cadeva su vie selciate con ciottoli. Quel giorno Aenea aveva indossato una morbida camicetta marrone chiaro, un giubbotto di pelle marrone e calzoni neri, i più ricercati che le avessi mai visto portare. Aveva i capelli pettinati all’indietro e fissati da due fermagli di tartaruga. La sua pelle pareva fresca, pulita, giovane, e i suoi occhi, così affaticati negli ultimi giorni, erano vivaci e calmi. Mi teneva ancora la mano, mentre ci giravamo a guardare le vie e la gente intorno a noi.
Eravamo sul lato di una viuzza che sbucava in un ampio viale. Piccoli gruppi di persone — uomini e donne in nero, gruppi di preti, stuoli di suore, una fila di bambini al seguito di due suore, dappertutto ombrelli neri e rossi — si muovevano da una parte e dall’altra nei passaggi pedonali, mentre bassi autoveicoli neri scivolavano silenziosamente per le vie. Vidi di sfuggita vescovi e arcivescovi nel sedile posteriore degli autoveicoli: viso distorto da rivoletti di pioggia sulla capote a bolla delle vetture. Nessuno parve accorgersi di noi o del nostro arrivo.
Aenea guardava in direzione delle basse nubi. «La Yggdrasill si è appena teleportata fuori sistema» disse. «Non l’avete percepito?»
Chiusi gli occhi per concentrarmi sul fiume di voci e di immagini oniriche che adesso era sempre sotto la superficie. Percepii una… un’assenza. L’immagine di fiamme, mentre i rami più esterni prendevano fuoco. «I campi hanno ceduto proprio nel momento della traslazione» dissi. «Come hanno fatto a teleportarsi senza di te, Aenea?» Appena formulata la domanda, intuii la risposta. «Lo Shrike.»
«Sì» disse Aenea. Mi teneva ancora la mano. La pioggia era fredda e dietro di noi sentivo gorgogliare grondaie e canali di scolo. Aenea parlò a voce molto bassa. «Lo Shrike porterà la Yggdrasill e la Vera Voce dell’Albero lontano nello spazio e nel tempo. Al loro… destino.»
Ricordai brani dei Canti. La nave-albero che bruciava, mentre i pellegrini guardavano dal mar d’Erba, poco prima che Het Masteen scomparisse misteriosamente con lo Shrike, durante la traversata sui carri a vento. Il templare che ricompariva in presenza dello Shrike, alcuni giorni dopo, nelle vicinanze della valle delle Tombe del Tempo, moribondo per le ferite, senza avere mai avuto il tempo di raccontare la sua storia durante il pellegrinaggio. I pellegrini su Hyperion: il colonnello Kassad; il console dell’Egemonia; Sol Weintraub, padre di Rachel: Brawne Lamia, madre «di Aenea; il templare Het Masteen; Martin Sileno; padre Hoyt, l’attuale papa, tutti incapaci a quel tempo di spiegare gli eventi. Per me, da bambino, solo vecchie parole di un mito. Versi riguardanti estranei. Di sicuro avevano creduto che le loro fatiche e le loro avventure fossero terminate e si erano ritrovati a portare di nuovo il proprio fardello. Troppo spesso, mi rendevo conto ora, da adulto, troppo spesso avviene proprio così, nella vita di noi tutti.
«Vedete quella chiesa dall’altra parte della strada?» disse de Soya.
Scossi la testa per concentrarmi sul presente e non badare alle voci che mi bisbigliavano nella testa. «Sì» dissi, asciugandomi la fronte bagnata di pioggia. «È la basilica di San Pietro?»
«No» disse il prete. «Quella è la chiesa parrocchiale di Sant’Anna. E vicino alla chiesa c’è la Porta Sant’Anna, che permette di entrare nel Vaticano. L’ingresso principale per piazza San Pietro si trova in fondo a quel viale, girando intorno a quelle file d’alberi.»
«Andiamo in piazza San Pietro?» domandai a Aenea. «Nel Vaticano?»
«Se ci riusciamo» rispose lei.
Imboccammo il passaggio pedonale: un uomo e una ragazza che camminavano con un prete in un giorno freddo e piovoso. Dalla parte opposta della via un’insegna indicava che l’imponente edificio privo di finestre era la caserma delle guardie svizzere. Agenti in uniforme da cerimonia, mantello nero del Rinascimento, bianco colletto crespato, lunghe ghette a strisce gialle e nere, reggevano la picca davanti alla Porta Sant’Anna e agli incroci, mentre agenti della sicurezza della Pax, in pratica tuta blindata nera, formavano blocchi stradali e si libravano in alto su skimmer neri.
Piazza San Pietro era chiusa al traffico pedonale, tranne alcuni posti di controllo dove guardie della sicurezza esaminavano con attenzione i lasciapassare e i chip di identità.
«Da lì non passeremo mai» disse padre de Soya. Si era fatto buio: le luci sopra il colonnato del Bernini erano accese e illuminavano le statue e lo stemma araldico papale in pietra. Padre de Soya indicò due finestre illuminate sopra il colonnato, a destra della facciata di San Pietro, sormontata da statue di Cristo, di Giovanni Battista e degli apostoli. «Quelli sono gli uffici privati del papa.»
«A un tiro di schioppo» dissi, ma non pensavo certo di sparare al papa.
Padre de Soya scosse la testa. «Campo di contenimento classe dieci» disse. Lanciò un’occhiata in giro. Gran parte delle persone a piedi aveva varcato i cancelli della sicurezza ed era entrata in piazza San Pietro. Cominciavamo a dare nell’occhio, lì nella via. «Se non facciamo qualcosa» disse padre de Soya «verranno a controllarci i documenti.»
«È il normale livello di controllo?» domandò Aenea.
«No. Può darsi che sia dovuto al messaggio, ma è più probabile che sia il normale servizio di sicurezza per le occasioni in cui Sua Santità celebra una messa ufficiale. Le campane che abbiamo udito poco fa erano un richiamo alla messa pomeridiana celebrata dal papa.»
«Come lo sa?» domandai, stupito che riuscisse a ricavare tanto da un semplice rintocco di campane.
«Lo so perché oggi è giovedì santo» disse padre de Soya. Pareva sorpreso, forse perché non sapevamo un fatto così elementare o forse perché anche lui fino a quel momento l’aveva dimenticato. «Siamo nella settimana santa» soggiunse, parlando piano, come fra sé. «Per tutta questa settimana Sua Santità deve assolvere i doveri papali e diocesani. Oggi, questo pomeriggio, di sicuro durante questa messa, lava i piedi a dodici preti che simboleggiano i dodici discepoli cui Gesù lavò i piedi nell’ultima cena. La cerimonia si teneva sempre nella chiesa diocesana del papa, a San Giovanni in Laterano, che si trovava fuori delle mura vaticane; ma da quando il Vaticano è stato trasferito su Pacem, si tiene in San Pietro. San Giovanni in Laterano non è stata portata via durante l’Egira perché fu distrutta nella guerra delle Sette Nazioni nel XXI secolo e…» Interruppe quelle che avevo ritenuto chiacchiere provocate dal nervosismo. Il suo viso era diventato inespressivo, come accade spesso a chi soffre di una lieve forma epilettica o a chi è immerso in profonda riflessione.
Aenea e io aspettammo che riprendesse a parlare. Guardavo con una certa ansia, lo ammetto, la pattuglia di agenti della sicurezza della Pax, in tuta corazzata nera, che si muoveva verso di noi lungo il viale.
«So come possiamo entrare nel Vaticano» disse padre de Soya. Si girò verso una viuzza dall’altra parte del viale.
«Bene» disse Aenea e si affrettò a seguirlo.
Il gesuita si fermò di colpo. «Penso che riusciremo a entrare» disse «ma non ho la minima idea di come faremo a uscire.»
«Cominciamo a entrare» disse Aenea.
La porta era sul retro di una cappella di pietra in rovina, priva di finestre, a tre isolati dal Vaticano. Era d’acciaio, chiusa con un piccolo lucchetto e una grossa catena. Il cartello sulla porta diceva:
«Riesce a spezzare quella catena?» mi domandò padre de Soya.
Tastai la grossa catena e il robusto lucchetto. Come unico utensile, o arma, avevo il coltello da caccia nel fodero alla cintura. «No» risposi. «Ma forse posso forzare il lucchetto. Guardate se riuscite a trovare un pezzo di fil di ferro in quel cassonetto per la spazzatura, il fil di ferro da imballaggio andrebbe bene.»
Restammo lì sotto la pioggerella per almeno dieci minuti, mentre la luce diminuiva e il rumore di traffico nei vicini viali pareva aumentare, aspettandoci che da un momento all’altro le guardie svizzere o gli agenti della sicurezza piombassero su di noi. Tutte le mie conoscenze sull’arte di forzare lucchetti provenivano da un vecchio giocatore d’azzardo sui battelli fluviali del Kans, che si era dato al gioco dopo che le autorità di Port Romance gli avevano mozzato due dita per furto. Mentre mi davo da fare, pensai ai nostri dieci anni di traversie, al lungo viaggio di padre de Soya per arrivare lì, alle centinaia di anni luce percorsi e alle decine di migliaia di ore di tensione e di sofferenza, di sacrificio e di terrore.
E quel fottuto lucchetto da dieci fiorini non faceva una piega!
Alla fine la punta del coltello si spezzò. Imprecai, gettai via il coltello e sbattei contro il muro di pietra quel puzzolente pidocchioso pezzo di merda di lucchetto con tutta la sua catena. Il lucchetto scattò e si aprì.
L’interno della cappella era buio. Se c’era un interruttore, non riuscimmo a trovarlo. Se da qualche parte c’era una stupida IA per il controllo delle luci, non rispose ai nostri ordini. Nessuno di noi aveva una torcia. Dopo averla portata con me per anni, proprio quel giorno avevo lasciato nello zaino la torcialaser. Giunto il momento di lasciare la Yggdrasill, avevo preso la mano di Aenea, senza un pensiero ad armi o ad altri oggetti necessari.
«Questa è San Giovanni in Laterano?» domandò sottovoce Aenea. L’opprimente oscurità induceva a parlare solo a bisbigli.
«No, no» rispose padre de Soya. «È solo una piccola cappella commemorativa, costruita accanto alla basilica nel XXI…» Si interruppe e immaginai benissimo che gli fosse tornata l’espressione pensierosa di prima. «Però è ancora utilizzata, credo. Aspettate qui.»
Aenea e io restammo a contatto di spalla, mentre padre de Soya si muoveva per il piccolo edificio. Sentimmo cadere qualcosa di pesante, con rumore di ferro su pietra, e trattenemmo il fiato. Un minuto più tardi udimmo il rumore delle mani di de Soya che scivolavano di nuovo lungo la parete e il fruscio della tonaca. Ci fu un: «Ahhh…» soffocato e dopo un istante balenò una luce.
Il gesuita, a meno di dieci metri da noi, teneva fra le dita un fiammifero acceso. Nella sinistra aveva una scatola di fiammiferi. «Le cappelle» spiegò «hanno ancora il banchetto per le candele votive.» Ora vedevo che le candele erano consumate fino al moccolo e non erano state sostituite, ma i ceri e quell’unica scatola di fiammiferi erano rimasti per Dio sa quanto tempo in quel luogo buio e abbandonato. Ci unimmo a de Soya nel piccolo cerchio di luce, aspettammo che il prete accendesse un altro fiammifero e andammo a una porta di legno massiccio posta dietro una tenda che cadeva a pezzi.
«Padre Baggio, il mio cappellano di risurrezione, mi parlò di questo giro turistico, quando ero agli arresti domiciliari qui vicino, alcuni anni fa» bisbigliò padre de Soya. La porta non era chiusa, ma si aprì con un cigolio di vecchi cardini arrugginiti. «Forse» continuò il prete «padre Baggio credeva che la visita solleticasse il mio senso del macabro.» Ci guidò per una stretta scala a chiocciola di pietra, non più larga delle mie spalle. Aenea seguiva il prete. Io mi tenni vicino a Aenea.
La scala a chiocciola continuò a scendere, scese ancora, scese ancora un poco. Quando terminò, stimai che eravamo almeno venti metri sotto il livello stradale. Percorremmo una serie di stretti corridoi e sbucammo in uno più ampio, saturo d’echi. A quel punto de Soya aveva già consumato una decina di fiammiferi, spegnendoli solo quando si scottava le dita. Non gli domandai quanti ne rimanessero nella scatola.
«Durante l’Egira, la Chiesa decise di spostare San Pietro e il Vaticano» disse de Soya, con voce ora abbastanza forte «e li portò en masse su Pacem, usando pesanti sollevatori e torri a campo trattore. Poiché la massa non era un problema, portò con sé mezza Roma, compreso l’enorme Castel Sant’Angelo e tutto ciò che c’era fino a sessanta metri sotto la città. Questa era la metropolitana del XX secolo.»
Cominciò a percorrere una banchina ferroviaria abbandonata. In certi punti le piastrelle del soffitto si erano staccate; dappertutto, tranne in uno stretto passaggio, c’erano secoli di polvere, pietre cadute, rottami di plastica, cartelli illeggibili gettati fra la sporcizia, panchine a pezzi. Scendemmo varie scalette di ferro arrugginito; gli ascensori, mi resi conto, si erano fermati più di mille anni prima; percorremmo uno stretto corridoio che continuava giù per una rampa e salimmo su un’altra banchina. Al termine della banchina, una scaletta di fibroplastica portava giù dove c’erano stati i binari, dove c’erano ancora i binari, sotto strati di polvere, macerie e ruggine.
Appena scesa la scaletta e imboccato il tunnel della metropolitana, il fiammifero si spense. Ma non prima che Aenea e io avessimo visto che cosa c’era più avanti.
Ossa. Ossa umane. Ossa e teschi impilati per bene fino a due metri di altezza ai lati dello stretto passaggio fra i binari arrugginiti. Grandi mucchi di ossa sistemate di piatto, crani accuratamente disposti a intervalli di un metro o in modo da formare disegni geometrici entro le scabre pareti di ossa umane.
Padre de Soya accese un altro fiammifero e si avviò fra le macabre muraglie. Il lieve spostamento d’aria del suo passaggio fece tremolare la fiammella tenuta in alto.
«Dopo la guerra delle Sette Nazioni, nei primi anni del XXI secolo» disse de Soya, parlando ora in tono normale «i cimiteri di Roma erano stracolmi. Nelle zone periferiche della città e nei parchi più grandi erano state scavate fosse comuni. Divenne un serio problema sanitario, per l’aumento globale della temperatura e le continue alluvioni. Tutte le testate biologiche e chimiche, capite. Le ferrovie sotterranee erano state abbandonate da tempo, così le autorità costituite autorizzarono il trasferimento dei resti e la loro sepoltura nei vecchi tunnel della metropolitana.»
Stavolta, quando il fiammifero si spense, ci trovavamo in una sezione dove le ossa erano impilate su cinque piani, ognuno segnato da una fila di teschi, bianche fronti che riflettevano la luce, ma orbite vuote che restavano indifferenti al nostro passaggio. Le ordinate pareti di ossa avevano una profondità di almeno sei metri e si alzavano fino al soffitto a volta, dieci metri sopra di noi. In alcuni punti c’erano state piccole valanghe di ossa e di teschi; fummo costretti a scavalcarle con cautela. Ma non potemmo eliminare lo scricchiolio sotto i piedi. Nei momenti di buio tra un fiammifero e l’altro, restavamo immobili e aspettavamo in silenzio. Non c’erano altri rumori, né zampettio di topi né sgocciolio d’acqua. Solo il nostro respiro e le nostre parole turbavano il silenzio.
«Sembrerà strano» riprese padre de Soya «ma le autorità non presero l’idea dalle antiche catacombe romane che si trovano qui intorno, ma dalle catacombe di Parigi, vecchi tunnel per l’estrazione di pietre, nelle viscere di quella città. Tra la fine del XVIII e la metà del XIX secolo, i parigini avevano dovuto spostare in quei tunnel le ossa dei loro cimiteri troppo pieni e avevano scoperto che bastava appena qualche chilometro di tunnel per sistemare facilmente sei milioni di morti. Ah… ci siamo!»
Alla nostra sinistra, al di là di un ancora più stretto corridoio fra le ossa, un sentiero polveroso segnato da qualche impronta di stivali conduceva a una porta di ferro. La porta non era sprangata, ma per aprirla ci volle la forza di tutti e tre. De Soya ci guidò giù per un’altra serie di arrugginite scale a chiocciola, fino a una profondità — stimai — di almeno trentacinque metri sotto il livello stradale. Il fiammifero si spense proprio mentre imboccavamo un altro tunnel, molto più antico della metropolitana: pareti e soffitto erano incompleti e diroccati. Avevo scorto diramazioni laterali piene di ossa alla rinfusa, teschi capovolti, brandelli di abiti marciti.
«Secondo padre Baggio» disse sottovoce de Soya «qui iniziano le vere catacombe. Quelle cristiane, che risalgono al primo secolo dopo Cristo.» Accese un altro fiammifero. Udii il rumore nella scatola e mi parve che ne restassero ben pochi.
«Da questa parte, direi» riprese padre de Soya. Ci precedette verso destra.
«Ora siamo sotto il Vaticano?» bisbigliò Aenea, qualche minuto più tardi. Sentivo la sua impazienza. Il fiammifero si spense.
«Manca poco, manca poco» disse de Soya nel buio. Accese un altro fiammifero. Dalla scatola non provenne rumore.
Dopo un altro centinaio di metri, più o meno, il corridoio terminò, semplicemente. Non c’erano ossa alla rinfusa né teschi, solo ruvide pareti di pietra e una traccia di muratura al termine del tunnel. Il fiammifero si spense. Mentre aspettavamo nel buio, Aenea mi toccò la mano.
«Mi spiace» disse de Soya. «I fiammiferi sono terminati.»
Lottai per dominare il panico che mi toglieva il fiato. Adesso ero sicuro di udire dei rumori: lontano zampettio di topi, a dir poco; stivali sui gradini, a dir peggio.
«Torniamo indietro?» Il mio bisbiglio risuonò troppo forte nel buio completo.
«Padre Baggio mi disse che verso nord queste catacombe erano un tempo collegate a quelle più antiche sotto il Vaticano» bisbigliò padre de Soya. «Sotto la basilica di San Pietro, per essere precisi.»
«Be’, pare che non…» cominciai e mi interruppi. Nei pochi istanti prima che il fiammifero si spegnesse, avevo notato che il muro di mattoni nella parete di pietra sembrava un po’ meno antico, qualche secolo, anziché i millenni delle pareti di pietra. Avanzai lentamente a mani protese, finché non sentii sotto le dita pietre, mattoni, calcina sbriciolata.
«L’hanno costruito in fretta» dissi, parlando con l’autorità che mi derivava dall’essere stato assistente tecnico paesaggista nelle proprietà terriere del Becco, anni e anni fa. «La malta è piena di crepe e alcuni mattoni sono caduti a pezzi.» Tastai rapidamente qua e là. «Datemi qualcosa con cui scavare. Maledizione, se non avessi buttato via il coltello…»
Nel buio Aenea mi porse una sorta di bastone o ramo appuntito; scavai per alcuni minuti, prima di rendermi conto di usare un femore rotto a un’estremità. Aenea e de Soya si unirono a me; scavammo con pezzi d’osso, grattammo i freddi mattoni fino a romperci le unghie e a farci sanguinare le dita. Dopo un poco, ci fermammo a riprendere fiato. Gli occhi non si erano adattati all’oscurità. Non c’era luce là sotto.
«La messa sarà già terminata» bisbigliò Aenea. Dal tono di voce, la si sarebbe detta una tragedia.
«È una messa solenne» bisbigliò de Soya. «Una cerimonia lunga.»
«Aspettate!» esclamai. Le mie dita avevano ricordato un lieve movimento dei mattoni, non di uno o di alcuni, ma dell’intero muro.
«Fatevi indietro!» dissi forte. «Strisciate sul lato del tunnel.» Arretrai anch’io, ma non di lato; alzai la spalla sinistra, abbassai la testa e mi lanciai alla carica, piegato in due, aspettandomi quasi di dare una testata alla roccia e di restare tramortito.
Colpii i mattoni, con un forte grugnito e una pioggia di polvere e di piccoli detriti. Il muro di mattoni non era crollato. Ma l’avevo sentito incavarsi.
Aenea e de Soya si unirono a me; nel giro di un minuto avevamo spinto via i mattoni centrali e fatto crollare l’intero muro.
Dall’altra parte del tunnel c’era un debolissimo barlume, sufficiente però a mostrarci una rampa di detriti che portava a un altro tunnel ancora più in basso. Strisciammo ginocchioni, trovammo spazio per stare in piedi e percorremmo il corridoio che odorava di terra. Dopo due svolte, ci trovammo in una catacomba rozzamente scavata come quella sovrastante, ma illuminata da una stretta striscia di nastro luminoso che correva sulla parete di destra all’altezza della cintola. Dopo altri cinquanta metri di curve e di svolte, sempre seguendo il passaggio principale illuminato dal nastro, ci trovammo in un tunnel più ampio, con moderni fotoglobi posti ogni cinque metri. I fotoglobi erano spenti, ma l’antico nastro luminoso continuava.
«Siamo sotto la basilica di San Pietro» bisbigliò padre de Soya. «Questa zona fu riscoperta nel 1939, dopo la sepoltura di papa Pio XI in una nicchia vicina. Gli scavi proseguirono per una ventina d’anni e poi furono abbandonati. La zona non fu mai riaperta agli archeologi.»
Entrammo in un corridoio ancora più ampio, tanto da permetterci per la prima volta di camminare affiancati. Qui le antiche pareti di pietra e scagliola, con un riquadro di marmo di tanto in tanto, presentavano affreschi e mosaici protocristiani e statue in rovina poste sopra nicchie che contenevano scheletri e teschi. Qualcuno, in chissà quale epoca, aveva sistemato su molte nicchie una copertura di plastica; la plastica, ormai giallastra e opaca, rendeva quasi invisibili i resti mortali, ma scrutando da vicino riuscivamo a vedere ossa pelviche e orbite vuote che ricambiavano il nostro sguardo.
Gli affreschi raffiguravano immagini simboliche dei primi cristiani — colombe con un ramoscello d’ulivo nel becco, donne che attingevano acqua, l’onnipresente pesce — ma erano fianco a fianco con nicchie più antiche, urne di cremazione e tombe con emblemi precristiani: Iside e Apollo, Bacco che con grandi caraffe traboccanti di vino accoglieva nell’aldilà i morti, una scena di buoi e arieti su due zampe, un’altra di satiri danzanti — notai subito quanto assomigliavano a Martin Sileno e mi girai appena in tempo per cogliere l’occhiata d’intesa di Aenea — e altri ancora, con creature che padre de Soya chiamò menadi, alcune scene campestri, una fila di pernici, un pavone che si lisciava le penne ottenute con frammenti di lapislazzuli di un vivido azzurro che ancora raccoglieva la luce.
Vedere quelle opere sotto l’antica plastica chiazzata e il plastivetro mi diede l’impressione di attraversare un mondano acquario di morte. Alla fine giungemmo a una parete rossa ad angolo retto con una parete più bassa di un blu sbiadito e screziato, che mostrava ancora resti di graffiti in latino. Lì il foglio di plastica era più recente e il piccolo contenitore di ossa all’interno risaltava. Il teschio era stato posto sull’ordinata pila di ossa e pareva guardarci con un certo interesse.
Padre de Soya si inginocchiò nella polvere, si fece il segno di croce e chinò la testa in preghiera. Aenea e io restammo più indietro a guardare col muto imbarazzo dell’agnostico in presenza di un vero credente.
Quando si rialzò, padre de Soya aveva gli occhi umidi. «Secondo la storia della Chiesa e il racconto di padre Baggio» disse «gli operai scoprirono quelle povere ossa nel 1949 dopo Cristo. In seguito le analisi mostrarono che appartenevano a un uomo robusto, morto sulla sessantina. Ci troviamo proprio sotto l’altare di San Pietro, costruito qui perché la leggenda diceva che Pietro era stato segretamente sepolto proprio in questo punto. Nel 1968 papa Paolo VI annunciò che secondo il Vaticano queste erano proprio le ossa del Pescatore, lo stesso Pietro che seguì Gesù e fu la pietra sulla quale Cristo edificò la Sua Chiesa.»
Guardammo in silenzio il mucchietto di ossa e poi di nuovo il gesuita.
«Federico» disse Aenea «sa bene che non voglio abbattere la Chiesa. Solo questa sua attuale aberrazione.»
«Sì, certo» disse padre de Soya. Si asciugò alla meglio gli occhi e lasciò sulle guance tracce di terriccio. «Lo so, Aenea.» Si guardò intorno, andò a una porta, la aprì. Una scala metallica portava in alto.
«Ci saranno delle guardie» bisbigliai.
«Non credo» disse Aenea. «Il Vaticano è vissuto ottocento anni nella paura di attacchi dallo spazio, dall’alto. Non credo che badi troppo alle catacombe.» Passò davanti a de Soya e salì rapidamente ma senza rumore i gradini metallici. Mi affrettai a seguirla. Padre de Soya lanciò un’occhiata alla nicchia buia, si fece un ultimo segno di croce e ci seguì verso San Pietro.
Dopo le catacombe, la luce nella basilica principale, pur attenuata dalla sera, dai vetri colorati e dalle candele accese, quasi ci abbagliò.
Avevamo risalito il sacrario sotterraneo, passando per un’antica basilica commemorativa romana segnata nella pietra come Trofeo di Gaio, attraversando corridoi laterali e ingressi di servizio, poi passando per l’anticamera della sacrestia, davanti a preti in piedi e chierichetti a testa china, ed eravamo usciti nel retro dell’ampia ed echeggiante navata di San Pietro. Lì c’erano decine di dignitari non tanto importanti da avere un posto nei banchi e tuttavia meritevoli dell’onore di stare in piedi in fondo alla basilica per assistere all’importante cerimonia. Bastò una sola occhiata per vedere che c’erano guardie svizzere e agenti della sicurezza davanti a tutte le entrate della basilica e in tutte le stanze esterne con uscita. Lì, in fondo alla folla di fedeli, per il momento non davamo nell’occhio: eravamo solo uno dei tanti preti con due parrocchiani vestiti non proprio da festa, cui era stato permesso di allungare il collo per vedere il Santo Padre il giovedì santo.
La messa non era terminata. L’aria odorava d’incenso e di cera. Centinaia di vescovi e di personaggi importanti riempivano le file di lucidi banchi. Alla balaustra marmorea dell’altare davanti allo splendido baldacchino barocco del trono di San Pietro, il Santo Padre in ginocchio terminava l’umile compito di lavare i piedi a dodici preti seduti, otto uomini e quattro donne. Fuori vista, un numeroso coro cantava:
O Santo Spirito, tramite te solo
noi conosciamo il Padre e il Figlio;
sia questo il nostro fermo immutabile credo,
che tu da tutt’e due procedi.
Che tu da tutt’e due procedi.
Sia lodato il Signore, Padre e Figlio
e Spirito Santo con loro in Uno;
e possa il Figlio concederci
tutti i doni che dallo Spirito fluiscono.
Tutti i doni che dallo Spirito fluiscono.
Allora esitai, mi domandai cosa ci facevamo lì, perché la battaglia senza fine di Aenea ci aveva portato al centro della fede di quelle persone. Credevo in tutto ciò che Aenea ci aveva insegnato, tenevo in gran conto qualsiasi cosa lei avesse condiviso con noi, ma tremila anni di tradizione e di fede avevano creato le parole di quel bellissimo canto e avevano costruito le pareti di quella maestosa cattedrale. Non potei fare a meno di ricordare le semplici piattaforme di legno, i solidi ma poco eleganti ponti e le scale del Tempio a mezz’aria ricostruito da Aenea. Cos’era, quel tempio, cos’eravamo noi, a paragone di quello splendore e di quella umiltà? Aenea era un architetto, in gran parte autodidatta, se si escludevano gli anni dell’adolescenza alla scuola del cìbrido Wright trascorsi a costruire muri di pietra usando sassi del deserto e mescolando a mano il cemento. Al progetto di quella basilica aveva collaborato Michelangelo!
La messa era alla fine. Varie persone fra quelle in piedi in fondo alla navata longitudinale cominciavano a uscire, camminando nel massimo silenzio per non disturbare col rumore di passi la fine della cerimonia, bisbigliando solo quando avevano raggiunto la scalinata esterna che portava alla piazza. Notai che Aenea mormorava all’orecchio di padre de Soya e mi sporsi verso di loro per sentire: non volevo perdermi qualche istruzione d’importanza vitale.
«Mi renderà un ultimo grande favore, padre?» domandò Aenea.
«Qualsiasi cosa desideri» rispose il prete.
«Per favore, lasci adesso la basilica. Per favore, se ne vada ora, con gli altri. Ci lasci ora e si confonda fra la gente di Roma finché non verrà il giorno di ricomparire.»
Padre de Soya tirò indietro la testa, inorridito; guardò Aenea, da mezzo metro, con l’espressione di chi è stato abbandonato. Poi si chinò verso di lei. «Qualsiasi altra cosa, maestra.»
«Chiedo solo questo, padre. E lo chiedo con amore e rispetto.»
Il coro iniziò un altro inno. Sopra il mare di teste davanti a me, il Santo Padre terminò la lavanda dei piedi e tornò all’altare sotto il baldacchino dorato. Nei banchi tutti si alzarono in attesa delle litanie conclusive e della benedizione finale.
Padre de Soya benedisse Aenea, si girò e lasciò la basilica insieme con un gruppo di frati che uscivano fra un tintinnio di rosari.
Fissai Aenea con intensità sufficiente a incendiare il legno, nel tentativo di inviarle un messaggio mentale:
"Non chiedere a me di andare via!"
Aenea mi chiamò con un gesto e mi mormorò all’orecchio: «Fai per me un’ultima cosa, Raul, amore mio».
"No, maledizione!" fui sul punto di gridare a pieni polmoni nella navata di San Pietro durante il più sacro momento della messa solenne del giovedì santo. Invece aspettai in silenzio.
Aenea si frugò nelle tasche e mi porse una fialetta, il cui contenuto era un liquido chiaro che pareva più denso dell’acqua. «Ti dispiace berlo?» mi bisbigliò e mi tese la fiala.
Pensai a Romeo e Giulietta, a Cesare e Cleopatra, ad Abelardo ed Eloisa, a George Wu e a Howard Sung. Tutti amanti sfortunati. Suicidio e veleno. Trangugiai in un solo sorso la pozione, misi nel taschino della camicia la fiala vuota e aspettai che Aenea tirasse fuori la sua fiala e bevesse un analogo veleno. Aenea non fece niente del genere.
«Cos’era?» domandai, senza nessun timore.
Aenea seguiva i momenti finali della messa. Si sporse molto vicino per bisbigliarmi: «Un antidoto alla medicina per il controllo delle nascite che la Pax ti ha dato quando sei entrato nella Guardia nazionale».
"Ma che diavolo!" fui sul punto di gridare, mentre il Santo Padre pronunciava le parole conclusive della messa. "Proprio ora ti preoccupi di pianificazione familiare? Sei andata fuori di testa, maledizione?"
Aenea si sporse di nuovo, il suo alito caldo sul mio collo, e mormorò: «Grazie a Dio! Ce l’ho in tasca da due giorni e ancora un po’ me ne dimenticavo! Non preoccuparti, l’antidoto impiegherà circa tre settimane a fare effetto. Poi non ti accadrà più di sparare a salve».
La fissai, sorpreso. Era una bestemmia nella basilica di San Pietro o solo un insolito cattivo gusto? Poi ingranai la quinta mentale: "È una notizia meravigliosa: qualsiasi cosa accada, Aenea vede un futuro per noi, per se stessa, vuole avere un figlio da me. Ma quel suo primo figlio? E perché presumo che desideri… perché dovrebbe… forse è la sua idea di un regalo d’addio… perché dovrebbe… perché…".
«Baciami, Raul» mormorò, a voce abbastanza alta da far girare, con espressione severa, l’anziana suora davanti a noi.
Non le posi domande. La baciai. Le sue labbra erano morbide e umide, proprio come la prima volta che ci eravamo baciati sulla riva del Mississippi, in un posto chiamato Hannibal. Il bacio parve durare un tempo lunghissimo. Prima che le nostre labbra si staccassero, Aenea mi tocco la nuca: aveva le dita fredde.
Intanto il papa si spostava davanti all’abside, si girava verso l’uno e l’altro braccio del transetto, poi verso la breve navata, infine verso la navata longitudinale, e dava la benedizione conclusiva.
Aenea avanzò nel passaggio centrale tra le file di banchi, scostando con gentilezza le persone fino a trovarsi nella parte sgombra, e avanzò verso il lontano altare.
«Lenar Hoyt!» gridò.
La sua voce echeggiò contro la cupola cento metri più in alto. Il papa esitò nella benedizione. Ci separavano da lui più di centocinquanta metri: Aenea non aveva nessuna possibilità di coprire quella distanza prima d’essere bloccata, ma le corsi dietro e la raggiunsi.
«Lenar Hoyt!» gridò di nuovo Aenea e centinaia di teste si girarono verso di lei. Scorsi movimento nelle arcate in penombra lungo la navata: le guardie svizzere entravano in azione. «Lenar Hoyt, sono Aenea, figlia di Brawne Lamia che andò con te su Hyperion per affrontare lo Shrike. Sono la figlia del cìbrido John Keats che i tuoi padroni del Nucleo hanno ucciso due volte in carne e ossa!»
Il papa rimase immobile, come paralizzato: il dito ossuto, l’attimo prima alzato nella benedizione, ora puntava e tremava come colpito da paralisi. L’altra mano stringeva i paramenti sul petto. La mitra tremava per il ciondolio della testa, avanti e indietro. «Tu!» gridò il papa, con voce alta, sottile, debole. «L’Abominio!»
«Sei tu, l’abominio» gridò Aenea, che ora correva, scostando figure vestite di scuro che si alzavano dai banchi per trattenerla. Le tolsi di dosso due uomini e lei continuò a correre. Scavalcai con un balzo una figura che si lanciava a tuffo e corsi al fianco di Aenea, mentre le guardie svizzere si facevano largo tra la folla, puntavano le picche a energia ma esitavano a usarle, con tanti dignitari del Vaticano e della Pax Mercatoria sulla linea di tiro. Se Aenea fosse giunta a dieci metri dal papa, non avrebbero più esitato, lo sapevo.
«Sei tu, l’abominio» gridò di nuovo Aenea, correndo più forte ora, scansando mani e braccia che cercavano di afferrarla e bloccarla. «Sei tu, il Giuda della Chiesa cattolica, Lenar Hoyt, tu che hai venduto la sua sacra storia al…»
Un uomo massiccio in uniforme da ammiraglio della Flotta della Pax estrasse dal fodero la spada da cerimonia e la brandì contro la testa della mia amata. Aenea evitò il colpo. Afferrai il braccio dell’ammiraglio, lo spezzai, allontanai con un calcio la spada e scaraventai l’ufficiale in fondo al banco, contro i suoi subordinati.
Ricordai una frase del colonnello Kassad: da quando aveva appreso il linguaggio dei vivi, sentiva il dolore che provocava agli altri. Anch’io facevo ora la stessa esperienza: mentre l’ammiraglio andava a sbattere contro i suoi uomini, sentii la lacerazione dei miei nervi e dei miei muscoli, la frattura dell’osso del mio braccio, l’urto del mio corpo contro quello degli altri. Ma quando guardai, il mio braccio era solido come prima e l’unica penalità era il dolore. Del dolore me ne fregavo.
Un cordone di preti, frati e vescovi si frappose tra Aenea e il papa. Il pontefice si strinse più forte il petto e cadde, ma diversi diaconi in piedi accanto a lui lo afferrarono al volo, lo sorressero, lo portarono sotto il baldacchino del trono del Bernini. Alcune guardie svizzere si precipitarono nello spazio in fondo al passaggio fra i banchi, bloccando con la picca e col corpo la strada a Aenea. Altre riempirono lo spazio alle nostre spalle, spingendo via brutalmente, a colpi di picca, gli spettatori. Agenti della sicurezza in corazza nera e cintura a repulsori accorsero volando dieci metri sopra la testa dei fedeli. Puntini laser danzarono sul viso e sul petto di Aenea.
Mi lanciai tra lei e le imminenti scariche di energia e nugoli di fléchettes. Il raggio laser mi accecò l’occhio sinistro, toccato dal puntino bersaglio. Spalancai le braccia e gridai qualcosa, una sfida forse, una sfida di certo.
«No! Prendeteli vivi!» L’ordine provenne da un gigantesco cardinale che gridava con un rombo simile alla voce di Dio.
Una guardia svizzera si lanciò verso Aenea per stordirla con un colpo di picca in testa. Aenea si gettò a terra, scivolò sulle piastrelle, colpì alle ginocchia la guardia svizzera, la mandò a gambe levate verso di me. Colpii con un calcio alla testa l’uomo disteso a terra e mi girai a strappare la picca dalle mani di un altro, spingendolo contro la folla e agitando l’arma verso le cinque guardie svizzere che accorrevano dal fondo. Queste si scostarono.
Dall’alto, un agente della sicurezza sparò due dardi e mi colpì alla spalla sinistra. Immaginai che contenessero sedativi, ma li strappai, li tirai all’agente in volo, non sentii niente. Due guardie, un uomo robusto e una donna ancora più robusta, mi afferrarono per le braccia. Li sollevai in aria, sbattei la testa dell’uno contro quella dell’altra, li lasciai cadere sulle piastrelle. «Aenea!» gridai.
Aenea era di nuovo in piedi: si liberò di una guardia, ma due agenti in armatura nera le bloccarono il passo. I fedeli gridavano. Il grande organo della basilica emise all’improvviso un gemito che pareva di donna in preda alle doglie. Un agente della sicurezza sparò a Aenea da cinque metri. Aenea si girò di scatto. Una donna in armatura nera la colpì usando l’arma come bastone, montò a cavalcioni su di lei, le piegò le braccia contro la schiena.
Con una manata scagliai all’indietro di cinque metri la puttana della sicurezza. Una guardia svizzera mi colpì con la picca allo stomaco. Un agente in volo mi centrò con uno storditore neurale. Gli storditori in teoria funzionano all’istante, sono garantiti per funzionare all’istante; ma ebbi il tempo di stringere le mani sulla gola della guardia svizzera più vicina, prima di ricevere una nuova scarica e poi una terza. In preda ai crampi, caddi a terra e mi orinai addosso, mentre tutte le funzioni volontarie cessavano: la mia ultima sensazione fu il caldo flusso di urina lungo la gamba dei calzoni e sulle perfette piastrelle di San Pietro.
Non ero realmente consapevole della decina di robuste figure che mi atterrarono sulla schiena, mi immobilizzarono le braccia, mi tirarono via. In realtà non udii né sentii il colpo sordo della mia fronte sulle piastrelle né lo squarcio che si aprì dal sopracciglio all’attaccatura dei capelli.
Negli ultimi tre o quattro secondi di semicoscienza, vidi piedi neri, stivali militari, il copricapo caduto a una guardia svizzera, altri piedi. Sapevo che Aenea era caduta alla mia sinistra, ma non potevo girare la testa per darle un’ultima occhiata.
Fui trascinato via, lasciando una scia di sangue, urina e saliva. Ormai non m’importava più di niente.
Così finisce la mia storia.
Ero cosciente, ma frenato da blocchi neurali, durante il "processo", una comparizione di dieci minuti davanti a giudici del Sant’Uffizio, vestiti di nero. Fui condannato a morte. Nessun essere umano si sarebbe sporcato l’anima per eseguire la condanna: sarei stato quindi chiuso, come il gatto nella scatola di Schrödinger, in una prigione in orbita intorno al pianeta in quarantena Armaghast. Le immutabili leggi della fisica e delle probabilità quantistiche avrebbero eseguito la sentenza.
Appena terminato il processo, mi spedirono, con una nave torcia automatica a propulsione Hawking, nel sistema di Armaghast, debito temporale due mesi. Dovunque fosse Aenea, qualsiasi cosa le fosse accaduto, quando mi svegliai proprio mentre terminavano di sigillare il guscio di energia fusa della mia prigione, ero già in ritardo di due mesi per esserle d’aiuto.
E per innumerevoli giorni, forse mesi, impazzii. E poi per altri innumerevoli giorni, sicuramente mesi, ho usato il grafer che hanno incluso nella mia minuscola cella a uovo per raccontare questa storia. Senz’altro sapevano che il grafer sarebbe stato una ulteriore punizione mentre aspettavo la morte e scrivevo la mia storia in poche pagine di micropergamena riciclata, come il serpente che si divora la coda, sapendo che mai nessuno leggerà la storia nel chip di memoria.
Ho detto all’inizio del mio racconto che tu, mio impossibile lettore, leggevi per la ragione sbagliata. Ho detto all’inizio che, se leggevi per scoprire la sorte di lei, o la mia, leggevi il documento sbagliato. Non ero con lei, quando il suo destino si compì; e il mio, fin da quando scrissi le prime parole di questa storia, è prossimo all’atto conclusivo.
Non ero con lei.
Non ero con lei.
Oh, Dio Gesù, Dio di Mosè, Allah, Buddha, Zeus, Muir, Elvis, Cristo, se uno di voi esiste o è mai esistito o serba nelle sue mani grigie e morte un brandello di potere, ti prego, lasciami morire ora. Adesso. Lascia che l’apparecchiatura rilevi la particella e liberi il gas. Adesso.
Non ero con lei.
Vi ho mentito.
Ho detto all’inizio di questa narrazione che non ero con Aenea, quando si compì il suo destino, lasciando intendere che non lo conoscessi, e ho ripetuto le stesse parole, alcuni periodi di sonno fa, quando ho scritto sul grafer quella che ero sicuro fosse l’ultima puntata di questo racconto.
Ma, come direbbero i preti della Chiesa, ho mentito per omissione.
Ho mentito perché non volevo parlarne, non volevo descriverlo, non volevo riviverlo, non volevo crederci. Ma ora so di dover fare tutte queste cose. L’ho rivissuto ogni ora della mia prigionia in questa cella a scatola di Schrödinger. Ci ho creduto dal momento in cui condivisi l’esperienza della mia cara amica, della mia cara Aenea.
Seppi, prima che mi spedissero via dal sistema di Pacem, qual era stato il destino della mia amata. Avendolo conosciuto e rivissuto, ho il dovere, per verità di cronaca e in memoria del nostro amore, di parlarne e di descriverlo.
La partecipazione al suo destino mi giunse mentre ero drogato e docile, imbrigliato in un serbatoio ad alta gravità a bordo della navetta automatica, un’ora dopo il mio processo di dieci minuti di fronte all’Inquisizione in una base della Pax, un asteroide a dieci minuti luce da Pacem. Seppi, non appena le udii e le sentii e le vidi, che queste cose erano reali, che accadevano nel momento in cui le condividevo e che solo la mia intimità con Aenea e il mio lento progresso dell’apprendere il linguaggio dei vivi mi aveva permesso una partecipazione così intensa. Quando si concluse, iniziai a urlare nel mio serbatoio ad alta gravità, strappai i tubicini del supporto vita, battei i pugni e la testa contro la paratia, finché nell’acqua che riempiva il serbatoio non turbinarono rivoli del mio sangue. Cercai di strapparmi la maschera osmotica che mi copriva il viso come un parassita che mi succhiasse il fiato; non si strappò. Per tre ore buone urlai e protestai, mi ridussi in uno stato di semicoscienza a furia di urtare le pareti, rivissi mille volte i momenti condivisi con Aenea e mille volte urlai di atroce sofferenza; poi la nave automatica mi iniettò sonniferi dai tubicini simili a sanguisughe, il serbatoio si prosciugò e passai in crio-fuga, mentre la nave raggiungeva il punto di traslazione per il balzo al non lontano sistema di Armaghast.
Mi svegliai nella scatola di Schrödinger. La nave automatica mi aveva caricato nel satellite di energia fusa e l’aveva messo in orbita senza intervento d’uomo. Per alcuni attimi rimasi disorientato, credendo che i momenti condivisi con Aenea fossero stati solo incubi. Poi mi resi conto della realtà di quei momenti e cominciai a urlare di nuovo. Credo d’avere trascorso vari mesi, prima di ritrovare il senno.
Ecco ciò che scrissi nella mia follia.
Anche Aenea, sanguinante e priva di conoscenza, era stata portata via da San Pietro, ma a differenza di me si svegliò il giorno seguente, né drogata né collegata a macchinari. Riprese conoscenza — e condivisi quel risveglio più chiaramente di quanto non abbia memoria del mio, preciso e reale come una seconda serie di impressioni sensoriali — in una enorme stanza di pietra, rotonda, del diametro di una trentina di metri, col soffitto a cinquanta metri dal pavimento. Nel soffitto c’era un luminoso vetro smerigliato che dava l’impressione di un lucernario, ma Aenea sospettava che fosse una illusione e che la stanza si trovasse nel cuore di un edificio molto più grande.
Mentre ero privo di conoscenza, gli infermieri mi avevano ripulito per quei dieci minuti di processo. Nessuno invece aveva toccato le ferite di Aenea: il lato sinistro del viso le doleva ancora, gonfio di lividi; lei era nuda, perché le avevano strappato i vestiti; aveva le labbra tumefatte, l’occhio sinistro quasi chiuso, riusciva a dischiuderlo solo a fatica e dall’occhio destro aveva la vista confusa per la commozione cerebrale, tagli e graffi sul petto, sulle cosce, sulle braccia, sul ventre. Alcuni tagli erano incrostati di sangue, ma alcuni erano tanto profondi da richiedere punti di sutura che nessuno si era preoccupato di applicare. Sanguinavano ancora.
Aenea era legata con cinghie a quella che pareva un’ossatura di ferro arrugginito a sbarre incrociate, appesa con catene all’alto soffitto, che le consentiva di appoggiarsi con la schiena per non sopportare del tutto il proprio peso, ma che la teneva praticamente in piedi, braccia basse sulle sbarre arrugginite, i polsi e le caviglie dolorosamente bloccati in morse imbullonate all’intelaiatura: un asterisco quasi verticale di gelido metallo sospeso a mezz’aria. I piedi pendevano a dieci centimetri da una grata infissa nel pavimento. Aenea poteva muovere la testa. La stanza rotonda era vuota, a parte quel marchingegno e due altri oggetti. Un largo cestino per rifiuti, posto alla destra di una sedia. Nel cestino c’era un sacchetto di plastica. Accanto al braccio destro dell’asterisco c’era anche un arrugginito vassoio metallico sul quale si trovavano vari strumenti: antiche tenaglie da dentista, lame circolari, bisturi, seghe per ossa, una sorta di lungo forcipe, pezzi di filo con barbigli a intervalli di tre centimetri, cesoie dalle lame lunghe, cesoie dalle lame più corte e dentellate, boccette di liquido scuro, tubetti di pomata, aghi, filo grosso, un martello. Ancora più impressionante era la grata rotonda del diametro di due metri e mezzo, posta sotto Aenea, dalla quale emergevano minuscole lingue di fiamma azzurrina ardenti come luci pilota. Nell’aria aleggiava un debole puzzo di gas naturale.
Aenea provò la consistenza delle morse, non cedettero minimamente, sentì pulsare polsi e caviglie per il tentativo, tornò ad appoggiare la testa contro la sbarra di ferro e aspettò. Aveva i capelli arruffati nel punto d’appoggio, sentiva un grosso bernoccolo nella parte alta della testa e un altro alla base del cranio. Fu assalita dalla nausea e si concentrò per non vomitarsi addosso.
Dopo alcuni minuti si aprì una porta nascosta nella parete di pietra; Rhadamanth Nemes entrò nella stanza e si fermò quasi a ridosso della grata, sulla destra di Aenea. Entrò una seconda Rhadamanth Nemes e prese posto alla sinistra di Aenea. Entrarono altre due Nemes e si sistemarono un poco più indietro. Le Nemes rimasero in silenzio. Aenea rimase in silenzio.
Qualche minuto più tardi, comparve in un baluginio il cardinale John Domenico Mustafa; la sua immagine olografica a grandezza naturale si consolidò proprio di fronte a Aenea. L’illusione della presenza fisica era perfetta, a parte il fatto che il cardinale era seduto e la sedia non era rappresentata nell’ologramma, e perciò sembrava fosse seduto sul nulla. John Domenico Mustafa pareva più giovane e più in forma di quanto non fosse stato su T’ien Shan. Pochi istanti dopo, fu raggiunto dall’ologramma di un cardinale molto più massiccio, in tonaca rossa, e poi da quello di un magrissimo prete d’aspetto tubercolotico. Dopo un altro istante, un uomo alto e bello, tutto vestito di grigio, varcò la porta materiale nella parete materiale della segreta e si unì agli ologrammi. Mustafa e gli altri cardinali continuarono a stare seduti su invisibili poltrone, mentre l’ologramma del monsignore e l’uomo in grigio presente in concreto rimasero in piedi dietro le sedie, come dei servitori.
«Signora Aenea» esordì il Grande Inquisitore «mi consenta di presentarle sua eminenza il segretario di Stato del Vaticano cardinale Lourdusamy, il suo aiutante monsignor Luca Oddi e il nostro stimato consigliere Albedo.»
«Dove sono?» disse Aenea. Fu costretta a ripetere la frase due volte, a causa delle labbra gonfie e della guancia ferita.
Il Grande Inquisitore sorrise. «Per il momento risponderemo a tutte le sue domande, mia cara. E poi lei risponderà a tutte le nostre. Glielo assicuro. Per rispondere alla sua prima domanda, si trova nella più bassa… sala di colloquio… di Castel Sant’Angelo, sulla riva destra del nuovo Tevere, nei pressi del ponte Sant’Angelo, molto vicino al Vaticano, sempre sul pianeta Pacem.»
«Dov’è Raul?»
«Raul?» ripeté il Grande Inquisitore. «Ah, si riferisce alla sua piuttosto inutile guardia del corpo. Credo che ormai abbia completato l’incontro con il Sant’Uffizio e si trovi a bordo di una nave che sta per lasciare il nostro bel sistema. È importante per lei, mia cara? Potremmo combinare il suo ritorno a Castel Sant’Angelo.»
«Non è importante» mormorò Aenea. Dopo il primo attimo di dolore e di angoscia per queste parole, percepii i suoi pensieri sotto di esse: preoccupazione per me, terrore per la mia sorte, speranza che non mi usassero come mezzo di coercizione nei suoi confronti.
«Come desidera» disse il cardinale Mustafa. «È lei che vogliamo intervistare oggi. Come si sente?»
Aenea si limitò a fissarli con l’occhio buono.
«Be’, non si può assalire il Santo Padre in San Pietro e sperare di farla franca» disse il Grande Inquisitore.
Aenea borbottò qualcosa.
«Cosa c’è, mia cara? Non abbiamo capito.» Il cardinale Mustafa aveva sulle labbra un lieve sorriso, il sogghigno di un rospo compiaciuto di sé.
«Non… ho… assalito… il… papa.»
Il cardinale Mustafa allargò le mani. «Se proprio insiste, Aenea, ma le sue intenzioni non parevano amichevoli. Cosa le frullava nel cervello, mentre correva tra i banchi verso il Santo Padre?»
«Avvisarlo» disse Aenea. Con una parte della mente valutò le proprie ferite, pur ascoltando le chiacchiere del Grande Inquisitore: forti contusioni, ma niente di rotto; la ferita di spada alla coscia andava suturata, come pure il taglio alla parte superiore del petto. Ma sentiva qualcosa di sbagliato nel proprio organismo… un’emorragia interna? No, non credeva. Di sicuro le avevano iniettato qualche sostanza estranea.
«Avvisarlo a quale proposito?» disse il cardinale Mustafa, con voce untuosa.
Aenea spostò la testa per guardare con l’occhio buono il cardinale Lourdusamy e poi il consigliere Albedo. Rimase in silenzio.
«Avvisarlo di cosa?» insisté il cardinale Mustafa.
Visto che Aenea non rispondeva, rivolse un cenno al più vicino clone di Nemes. La livida creatura si avvicinò lentamente al vassoio, prese le forbici più piccole, parve ripensarci, le posò di nuovo, venne più vicino, si piegò su un ginocchio accanto al braccio destro di Aenea, torse all’indietro il mignolo del mio tesoro e con un morso lo staccò. Sorrise, si alzò, si accostò al cestino dei rifiuti e vi sputò il dito sanguinante.
Aenea urlò per lo shock e per il dolore; si abbandonò contro il poggiatesta e quasi perdette i sensi.
Il clone di Nemes prese dal tubetto un po’ di crema emostatica e la spalmò sul moncherino di mignolo.
Il cardinale Mustafa parve rattristato. «Non desideriamo somministrare dolore, mia cara» disse «ma non esiteremo a farlo. Risponderai alle nostre domande rapidamente e sinceramente, o altre tue parti finiranno nel cestino. La lingua per ultima.»
Aenea lottò per dominare la nausea. Il dolore per il dito mozzato era terribile, a dieci minuti luce da lei, urlai per lo shock riflesso.
«Volevo avvisare il papa… del vostro colpo di Stato» ansimò Aenea, continuando a guardare Lourdusamy e Albedo. «Attacco di cuore.»
Il cardinale Mustafa batté le palpebre, sorpreso. «Sei davvero una strega!» disse piano.
«E tu sei un merdoso traditore» disse Aenea, con voce forte e chiara. «Tu e tutti voi. Avete venduto la nostra Chiesa. Ora vendete anche il vostro fantoccio Lenar Hoyt.»
«Ah, sì?» intervenne il cardinale Lourdusamy. Pareva leggermente divertito. «Come faremmo, bambina?»
Aenea indicò con la testa il consigliere Albedo. «Il Nucleo controlla la vita e la morte di ognuno, per mezzo dei crucimorfi. Le persone muoiono quando conviene al Nucleo che siano morte: le reti neurali in procinto di morire sono più creative di quelle viventi. State per uccidere di nuovo il papa, ma stavolta la sua risurrezione non avrà successo, vero?»
«Molto percettiva, mia cara» rombò il cardinale Lourdusamy. Scrollò le spalle. «Forse è davvero ora che ci sia un nuovo pontefice.» Mosse le mani e un quinto ologramma apparve dietro di loro nella stanza: papa Urbano XVI in coma, in un letto d’ospedale, circondato di suore infermiere, di medici e di macchinari di supporto vita. Lourdusamy mosse di nuovo la mano grassoccia e l’immagine scomparve.
«È il tuo turno di essere papa?» disse Aenea e chiuse gli occhi. Vedeva danzare puntini rossi. Quando riaprì gli occhi, Lourdusamy scrollava con modestia le spalle.
«Basta così» disse il consigliere Albedo. Attraversò gli ologrammi dei cardinali seduti e si fermò accanto alla grata, proprio di fronte a Aenea. «Come manipoli l’ambiente teleporter?» domandò. «Come ti teleporti senza i portali?»
Aenea guardò il rappresentante del Nucleo. «Sei atterrito, vero, consigliere? Proprio come i cardinali, che hanno troppa paura per stare di persona qui con me.»
Albedo sorrise, mettendo in mostra i denti perfetti. «Nient’affatto, Aenea. Ma tu hai l’abilità di teleportare te stessa, e quelli che ti stanno accanto, senza bisogno dei portali. Le loro eminenze cardinali Lourdusamy e Mustafa, nonché monsignor Oddi, non hanno nessun desiderio di svanire all’improvviso da Pacem insieme con te. In quanto a me, sarei felicissimo se tu ci teleportassi da qualche altra parte.»
Rimase in attesa. Aenea non aprì bocca. Non si mosse. Il consigliere Albedo sorrise di nuovo. «Sappiamo che sei l’unica ad avere imparato come si fa» disse con calma. «I tuoi cosiddetti discepoli sono ancora molto lontani dall’imparare la tecnica. Ma qual è questa tecnica? Abbiamo scoperto un solo modo per sfruttare il Vuoto per teleportarsi, mantenere aperti in permanenza degli squarci nell’ambiente Vuoto, ma questo richiede troppa energia.»
«E loro non ve lo lasciano più fare» mormorò Aenea. Batté le palpebre per scacciare i puntini rossi che le danzavano davanti agli occhi, in modo da incrociare lo sguardo di Albedo. Il dolore alla mano saliva e scendeva in lei e intorno a lei, come onde lunghe di un mare mosso.
Il consigliere Albedo inarcò appena il sopracciglio. «Loro non ce lo lasciano fare? Chi sono loro, bambina? Descrivici i tuoi padroni.»
«Niente padroni» mormorò Aenea. Doveva concentrarsi per tenere lontano le vertigini. «Leoni e Tigri e Orsi.»
«Basta discorsi ambigui» tuonò Lourdusamy. Rivolse un cenno al secondo clone Nemes. La creatura si avvicinò al vassoio e prese il paio di pinze rugginose; girò intorno a Aenea, le afferrò il polso sinistro, le tenne ferma la mano e strappò alla mia amata tutte le unghie.
Aenea urlò, svenne per breve tempo, si riprese, cercò di girare la testa, ma non fece in tempo: si vomitò addosso e gemette piano.
«Non c’è dignità nel dolore, figlia mia» disse il cardinale Mustafa. «Rispondi alle domande del consigliere e porremo termine a questa triste sciarada. Ti porteranno fuori di qui, ti cureranno le ferite, ti faranno ricrescere il dito, ti ripuliranno e ti rivestiranno e ti faranno riunire alla tua guardia del corpo o discepolo o quel che sia. Questo brutto episodio sarà concluso.»
In quel momento, vacillando nell’atroce sofferenza, Aenea era sempre consapevole con tutto il corpo della sostanza estranea che le avevano iniettato alcune ore prima, mentre era svenuta. Le cellule riconobbero la sostanza. Veleno. Un sicuro, lento, micidiale veleno senza antidoto si sarebbe attivato nel giro di ventiquattr’ore, qualsiasi cosa accadesse. Aenea capì allora che cosa volevano che lei facesse e perché.
Era sempre stata in contatto con il Nucleo, anche prima di nascere, tramite il disco d’iterazione Schrön impiantato nel cranio di sua madre e collegato alla personalità cìbrida di suo padre. Aveva così la capacità di toccare direttamente primitive sfere dati, e ora se ne servì: percepì il solido spiegamento di esotici macchinari del Nucleo che tappezzavano quella cella sotterranea, strumenti dentro strumenti, sensori al di là della comprensione o descrizione umana, aggeggi che operavano in quattro e più dimensioni, che aspettavano, fiutavano, aspettavano.
I cardinali e il consigliere Albedo e il Nucleo volevano che lei tentasse la fuga. Tutto si basava sul fatto che lei si teleportasse fuori da quella insopportabile situazione: era questo, il motivo della grossolana teatralità della tortura, dell’assurda e melodrammatica cella sotterranea in Castel Sant’Angelo, della mano pesante dell’Inquisizione. Le avrebbero inflitto dolore finché lei non fosse stata incapace di sopportarlo ancora; e quando si fosse teleportata, gli strumenti del Nucleo avrebbero misurato ogni cosa al miliardesimo di nanosecondo, avrebbero analizzato il suo uso del Vuoto, avrebbero trovato un modo di riprodurlo. Il Nucleo avrebbe finalmente riavuto i teleporter; non i rozzi sistemi di una volta, tipo fori di tarlo o propulsione Gideon, ma sistemi istantanei, eleganti, per loro in eterno.
Aenea non badò al Grande Inquisitore, si umettò le labbra secche e screpolate, disse distintamente al consigliere Albedo: «So dove vivi».
L’uomo in grigio contorse per un attimo la bocca. «Cosa significa?»
«So dove si trova il Nucleo, gli elementi fisici del Nucleo» disse Aenea.
Albedo sorrise, ma Aenea notò la rapida occhiata verso i due cardinali e il monsignore. «Sciocchezze» disse Albedo. «Nessun essere umano ha mai conosciuto la vera dislocazione del Nucleo.»
«All’inizio il Nucleo era una entità transitoria che galleggiava nella rozza sfera dati della Vecchia Terra, nota come Internet» disse Aenea, con voce resa solo un poco indistinta dal dolore e dallo shock. «Poi, già prima dell’Egira, voi avete trasferito le memorie a bolla e i server e il connettore di nuclei di memoria in un gruppo di asteroidi in orbita lunga intorno al sole, lontano dalla Vecchia Terra che progettavate di distruggere…»
«Fatela stare zitta» sbottò Albedo, girandosi verso Lourdusamy, Mustafa e Oddi. «Cerca di distrarci dall’interrogatorio. Questa storia non ha importanza.»
L’espressione di Mustafa, di Lourdusamy e di Oddi lasciava pensare tutto il contrario.
«Nei giorni dell’Egemonia» continuò Aenea, battendo la palpebra dell’occhio buono nel tentativo di concentrare l’attenzione e di dare fermezza alla voce, tra le lunghe lente ondate di sofferenza «il Nucleo ritenne prudente diversificare i propri componenti fisici: matrici di memoria a bolla nelle profondità dei nove pianeti labirinto, server per l’astrotel nei complessi industriali in orbita intorno a Tau Ceti Centro, personalità IA del Nucleo in movimento su bande di comunicazione teleporter e la megasfera di collegamento allacciata mediante gli squarci nel Vuoto che lega.»
Albedo incrociò le braccia. «Tu straparli.»
«Ma dopo la Caduta» continuò Aenea, tenendo spalancato l’occhio buono e sfidando con lo sguardo l’uomo in grigio «il Nucleo si preoccupò. L’attacco di Meina Gladstone contro l’ambiente teleporter vi diede da riflettere, anche se il danno alla vostra megasfera era riparabile. Avete deciso di diversificare ulteriormente. Moltiplicare le vostre personalità IA, miniaturizzare le memorie essenziali del Nucleo e rendere più diretto il vostro parassitismo sulle reti neurali umane…»
Albedo le girò la schiena e rivolse un gesto al più vicino clone Nemes. «Quella donna straparla. Cucile le labbra.»
«No!» intervenne il cardinale Lourdusamy. Aveva occhi brillanti e attenti. «Non toccarla, finché non lo ordino io!»
La Nemes alla destra di Aenea aveva già preso un ago e un rocchetto di filo grosso. Esitò e guardò Albedo per avere ordini.
«Aspetta» disse il consigliere.
«Volevate che il vostro parassitismo neurale fosse più diretto» riprese Aenea. «Così i vostri miliardi di entità del Nucleo formarono ciascuna la propria matrice contenitiva in forma di crucimorfo e si attaccarono direttamente all’ospite umano. Ciascun individuo del Nucleo aveva ora un proprio ospite umano in cui vivere e da distruggere a piacere. Voi rimanete collegati mediante le vecchie sfere dati e i nodi della nuova megasfera della propulsione Gideon, ma vi piace molto abitare così vicino alla vostra fonte di cibo…»
Albedo gettò indietro la testa e scoppiò a ridere, mettendo in mostra denti perfetti. Aprì le braccia e si girò verso i tre ologrammi. «Un meraviglioso divertimento» disse, ancora ridacchiando. «Avete preparato tutto questo per il suo interrogatorio…» agitò le dita dalle unghie ben curate per indicare genericamente la cella sotterranea, il lucernario, le sbarre trasversali su cui Aenea era stretta nelle morse «e finisce che la ragazza gioca con la vostra mente. Pure e semplici sciocchezze. Ma molto divertenti.»
Il cardinale Mustafa, il cardinale Lourdusamy e monsignor Oddi guardavano con grande attenzione il consigliere Albedo, ma ciascuno si toccava il petto.
L’ologramma di Lourdusamy si alzò dall’invisibile poltrona e si accostò al margine della grata. L’illusione era così perfetta che Aenea credette di udire il lieve fruscio della croce pettorale appesa alla funicella di seta rossa; la funicella era intrecciata con filo d’oro e terminava in un grosso fiocco rosso e oro. Aenea si concentrò sulla croce dondolante e sulla funicella di seta, per non pensare all’atroce dolore delle mani mutilate. Sentiva il veleno diffondersi silenziosamente nelle membra e nel corpo, come le metastasi e i nematodi di un crucimorfo in crescita. Sorrise: avrebbero potuto farle qualsiasi cosa, ma le cellule e il sangue del suo corpo non avrebbero mai accettato il crucimorfo.
«Ciò che dici è interessante, figlia mia, ma privo d’importanza» mormorò il cardinale Lourdusamy. «E tutto questo…» con un rapido movimento delle dita tozze e grassocce indicò le ferite e la nudità di Aenea, come se ne fosse contrariato «è molto spiacevole.» Si sporse verso di lei e parve trapassarla con lo sguardo degli occhietti porcini e intelligenti. «E niente affatto necessario. Rispondi alle domande del consigliere.»
Aenea alzò la testa e guardò negli occhi il gigantesco cardinale. «Vuole sapere come ci si teleporta senza teleporter?»
Il cardinale Lourdusamy si umettò le labbra sottili. «Sì, sì.»
Aenea sorrise. «Semplice, eminenza. Deve solo partecipare ad alcune lezioni, imparare che si può apprendere il linguaggio dei morti, il linguaggio dei vivi, che si può udire la musica delle sfere, e poi fare comunione col mio sangue o col sangue di uno dei miei seguaci che ha bevuto il vino.»
Il cardinale Lourdusamy indietreggiò come schiaffeggiato. Alzò la croce pettorale e la tenne davanti a sé come uno scudo. «Bestemmia!» sbraitò. «Jesus Cristus est primogenitus mortuorum; ipsi gloria et imperium in saecula saeculorum!»
«Gesù Cristo fu il primo a nascere dai morti» replicò piano Aenea, con l’occhio che le brillava per il riflesso luminoso della croce. «E voi dovreste rendergli gloria! E sovranità, se così scegliete. Ma non è mai stata sua intenzione che gli esseri umani fossero richiamati dalla morte come cavie di laboratorio, a seconda del capriccio di macchine pensanti…»
«Nemes» ordinò seccamente Albedo, e stavolta non vi fu contrordine. Il clone di Nemes si scostò dalla parete e si accostò alla grata, estese unghie di cinque centimetri e graffiò le guance di Aenea, proprio sotto gli occhi, recidendo i muscoli e mettendo a nudo, nell’aspra luce, l’osso degli zigomi. Aenea emise un lungo, orribile sospiro e si accasciò all’indietro contro l’intelaiatura. Nemes sporse il viso e mise in mostra i denti piccoli e acuminati in un ampio sogghigno. Il suo alito sapeva di carogna.
«Strappale a morsi il naso e le palpebre» ordinò Albedo. «Lentamente.»
«No!» gridò il cardinale Mustafa. Balzò in piedi, venne avanti, protese la mano per fermare Nemes. La mano dell’ologramma attraversò la fin troppo solida carne di Nemes.
«Un momento» disse il consigliere Albedo, alzando il dito. Nemes si fermò, a bocca aperta sopra gli occhi di Aenea.
«È mostruoso!» disse il Grande Inquisitore. «Come fu mostruoso il tuo trattamento nei miei confronti.»
Albedo si strinse nelle spalle. «Fu deciso che aveva bisogno di una lezione, eminenza.»
Il cardinale Mustafa tremava d’indignazione. «Credete davvero di essere i nostri padroni?»
Il consigliere Albedo sospirò. «Siamo sempre stati i vostri padroni. Siete carne marcia intorno a un cervello da scimpanzé, primati che balbettano e decadono verso la morte dal momento stesso della nascita. Nell’universo avete solo il ruolo di levatrici per una più alta forma di autocoscienza. Una forma di vita veramente immortale.»
«Il Nucleo…» disse con grande disprezzo il cardinale Mustafa.
«Si sposti» ordinò Albedo. «Altrimenti…»
«Altrimenti cosa?» rise il Grande Inquisitore. «Torturerai anche me come torturi quella povera visionaria? O mi farai di nuovo picchiare a morte dal tuo mostro?» Mosse il braccio avanti e indietro nel corpo di Nemes, poi in quello di Albedo. Rise ancora e si rivolse a Aenea. «Tu sei morta comunque, bambina. Rivela a questa creatura senz’anima ciò che gli serve sapere e metteremo subito fine alle tue pene, senza…»
«Silenzio!» gridò Albedo. Alzò la mano, con le dita piegate come in un artiglio.
L’ologramma del cardinale Mustafa urlò di dolore, si afferrò convulsamente il petto, rotolò sulla grata, attraversò i piedi insanguinati di Aenea e l’intelaiatura di ferro, attraversò rotolando le gambe di uno dei cloni Nemes, urlò di nuovo e svanì di colpo.
Il cardinale Lourdusamy e monsignor Oddi guardarono Albedo. Il loro viso era privo d’espressione. «Consigliere» disse il segretario di Stato, in tono basso, rispettoso «potrei interrogare per qualche momento la ragazza? Se non avremo successo, faccia pure di lei ciò che vuole.»
Albedo fissò freddamente il cardinale, ma dopo un attimo strinse la spalla della Nemes; la macchina omicida indietreggiò di tre passi e chiuse la bocca.
Lourdusamy allungò la mano verso quella mutilata di Aenea, come per stringerla. Le dita dell’ologramma parvero sprofondare nella carne martoriata del mio tesoro. «Quod petis?» mormorò il cardinale e io, lontano dieci minuti luce, urlando e torcendomi nel serbatoio, capii attraverso Aenea ciò che diceva. "Cosa cerchi?"
«Virtutes» mormorò Aenea. «Concede mihi virtutes quibus indigeo.»
Annegando nella rabbia e nel cordoglio e nello sciaguattante liquido del serbatoio, allontanandomi da Aenea di secondo in secondo, capii: "Forza. Dammi la forza che mi manca".
«Desiderium tuum grave est» mormorò il cardinale Lourdusamy. "Il tuo è un desiderio impegnativo." «Quod ultra quaeris?» "Che altro cerchi?"
Aenea batté le palpebre per eliminare dall’occhio gocce di sangue e guardare in faccia il cardinale. «Quaero pacem» rispose piano, con voce ferma. "Cerco la pace."
Il consigliere Albedo rise di nuovo. «Eminenza» disse, sarcastico «crede che non capisca il latino?»
Il cardinale guardò Albedo. «Al contrario, consigliere, ero sicuro che lo capisse. La ragazza sta per spezzarsi, sa, glielo leggo in viso. Ma sono le fiamme ciò di cui ha più paura, non la belva cui vuole darla in pasto.»
Albedo parve scettico.
«Mi dia cinque minuti per usare le fiamme, consigliere» disse il cardinale. «Se fallisco, sguinzagli pure la sua belva.»
«Tre minuti» concesse Albedo. Arretrò e si sistemò accanto alla Nemes che aveva scarnificato le guance a Aenea.
Lourdusamy indietreggiò di vari passi. «Figlia» disse, parlando di nuovo l’inglese della Rete «purtroppo questo sarà molto doloroso.» Mosse la mano e un getto di fiamma azzurrina scaturì dalla grata e diventò una colonna di fiamma che strinò le piante dei piedi di Aenea stretti nelle morse. La pelle bruciò, si annerì, si arricciò. Il puzzo di carne bruciata riempì la cella.
Aenea urlò e cercò di liberarsi. Le morse non si mossero nemmeno. Il fondo della sbarra d’acciaio alla quale Aenea era legata incominciò a risplendere, inviò ondate di dolore su per le gambe e le cosce nude. Anche lì la pelle si coprì di vesciche. Aenea urlò di nuovo.
Il cardinale Lourdusamy mosse ancora la mano e la fiamma tornò sotto la grata, divenne una luce pilota che guatava come l’occhio azzurro di un carnivoro affamato.
«Era solo un assaggio del dolore che sentirai» mormorò il cardinale Lourdusamy. «E purtroppo, nel caso di ustioni gravi, il dolore continua anche dopo che carne e nervi sono bruciati irrimediabilmente. Dicono che sia la morte più dolorosa.»
Aenea digrignò i denti per non urlare ancora. Gocce di sangue le cadevano dalle guance straziate sui pallidi seni, gli stessi seni che avevo accarezzato e baciato, su cui avevo preso sonno. Imprigionato nel serbatoio, lontano milioni di chilometri, pronto a passare a velocità C-più e nell’oblio della crio-fuga, urlai e mi agitai come una furia fino a perdere la voce.
Albedo mise i piedi sulla grata e disse alla mia amata: «Telepòrtati via da tutto questo. Telepòrtati sulla nave che conduce Raul a morte certa e liberalo. Telepòrtati sulla nave del console. Il robochirurgo di bordo ti guarirà. Vivrai per anni insieme con l’uomo che ami. L’alternativa è una lenta e orribile morte per te, qui, e una lenta e orribile morte per Raul, da un’altra parte. Non lo rivedrai mai più. Non sentirai mai più la sua voce. Telepòrtati, Aenea. Salvati, finché sei ancora in tempo. Salva la persona che ami. Fra un minuto quest’uomo ti brucerà la carne delle gambe e delle braccia fino ad annerire anche le ossa. Ma non ti lascerà morire. E io lascerò che Nemes si cibi di te. Telepòrtati, Aenea. Telepòrtati adesso.»
«Aenea» disse il cardinale Lourdusamy «es igitur parata?» "Sei pronta, dunque?"
«In nomine humanitatis, parata sum» disse Aenea, guardando negli occhi il cardinale. "In nome dell’umanità, sono pronta."
Lourdusamy mosse la mano. I getti di gas avvamparono tutti insieme. Le alte fiamme avvolsero la mia amata e il cìbrido Albedo.
Aenea si contorse in agonia, sommersa dal calore.
«No!» gridò Albedo, da dentro le fiamme. Si allontanò dalla grata rovente, con la carne sintetica che cadeva, bruciata, dalle false ossa. Il costoso abito grigio salì verso il soffitto in batuffoli ardenti di stoffa e il viso dai bei lineamenti, fuso, gli colò sul petto. «No, maledizione a te!» gridò ancora Albedo e con dita roventi cercò la gola del cardinale Lourdusamy.
Le dita attraversarono l’ologramma. Il cardinale Lourdusamy fissava il viso di Aenea tra le fiamme. Alzò la destra. «Misericordia Dei, in nomine Patris et Filiae et Spiritus Sancti…»
Furono le ultime parole che Aenea udì, mentre le fiamme le avvolgevano le orecchie, la gola, il viso. I capelli le esplosero in fiamme. La vista le risplendette di vivido arancione e svanì, mentre il calore le fondeva gli occhi.
Ma nei pochi secondi di vita che le restarono, io sentii il suo dolore. E udii il suo pensiero come un grido, no, un bisbiglio, nella mia mente.
"Raul, ti amo."
Poi il calore si espanse, il dolore si espanse, il suo senso di vita e di amore e di missione si espanse e si alzò tra le fiamme come fumo che salisse verso il lucernario e la mia amata Aenea morì.
Percepii l’istante della sua morte come una implosione di vista e di suono e di essenza dei simboli. Ogni cosa nell’universo, che meritasse amore e per cui valesse la pena vivere, scomparve in quell’istante.
Non urlai di nuovo. Smisi di battere le pareti del serbatoio. Galleggiai nell’assenza di peso, sentii il serbatoio prosciugarsi, sentii le droghe e i tubicini per la crio-fuga cadere su di me e dentro di me come larve nella carne. Non mi ribellai. Me ne fregai.
Aenea era morta.
La nave torcia traslò in stato quantico. Quando mi svegliai, ero in questa cella della morte congegnata come scatola del gatto di Schrödinger.
Non aveva importanza. Aenea era morta.
Nella mia cella non c’era orologio né calendario. Non so per quanti giorni, settimane o mesi standard rimasi nella follia. Forse trascorsi molti giorni senza dormire o dormii per settimane filate, non so. Difficile, o impossibile, dirlo.
Ma a un certo punto, poiché il cianuro e le leggi della probabilità quantistica continuavano a risparmiarmi di giorno in giorno, di ora in ora, di minuto in minuto, cominciai questo racconto. Non so perché i miei carcerieri mi diedero un grafer a lavagna e uno stilo e la possibilità di stampare qualche pagina su micropergamena riciclata. Forse pensavano che il condannato a morte scrivesse la propria confessione o usasse lo stilo del grafer per infierire inutilmente contro giudici e carcerieri. O forse che scrivesse dei propri peccati e dei propri torti, delle gioie e della perdita di gioie, come ulteriore forma di punizione. E forse in un certo modo lo era.
Ma fu anche la mia salvezza. All’inizio mi salvò dalla follia e dal suicidio per dolore e rimorso incontrollabili. Poi salvò i miei ricordi di Aenea, li trasse dalla palude d’orrore per la sua orribile morte e li portò sul più solido terreno dei giorni trascorsi insieme, della sua gioia di vivere, della sua missione, dei nostri viaggi, del suo complesso ma terribilmente schietto messaggio a me e a tutta la specie umana. Alla fine mi salvò semplicemente la vita.
Ben presto, iniziato il racconto, scoprii di poter spartire i pensieri e le azioni di ciascuno dei partecipanti alla nostra lunga odissea e alla nostra lotta fallita. Era una conseguenza di ciò che Aenea mi aveva insegnato con le discussioni e la comunione: l’apprendimento del linguaggio dei morti e del linguaggio dei vivi. Incontravo ancora i morti, nel sonno e nelle fantasticherie da sveglio: mia madre mi parlò spesso; e assaggiai la sofferenza e la saggezza di innumerevoli altri che erano vissuti e morti molto tempo fa; ma non erano quelle anime perdute a ossessionarmi ora, erano quelle con una visione parallela delle mie esperienze in tutti gli anni in cui avevo conosciuto Aenea.
Mai, durante l’attesa della morte nella scatola di Schrödinger, pensai di udire i pensieri attuali dei viventi al di là della mia prigione (presumevo che il guscio di energia fusa dell’uovo orbitale in qualche modo lo impedisse) ma ben presto imparai come escludere il clamore di tutte quelle innumerevoli voci più antiche risonanti nel Vuoto che lega e concentrarmi sui ricordi di coloro, sia morti sia ancora presumibilmente vivi, che avevano fatto parte della storia di Aenea. Così entrai nei pensieri e nei motivi (alcuni, almeno) di esseri umani così lontani dal mio modo di pensare da essere alla lettera creature aliene: i cardinali Simon Augustino Lourdusamy e John Domenico Mustafa, Lenar Hoyt nelle sue incarnazioni di papa Giulio e di papa Urbano XVI, mercanti della Pax Mercatoria come Kenzo Isozaki e Anna Pelli Cognani, preti e militari come padre de Soya, il sergente Gregorius, il capitano Marget Wu, il comandante in seconda Hoagan Liebler. Alcuni personaggi del mio racconto sono presenti nel Vuoto che lega soprattutto come cicatrici, buchi, vuoti (i cloni Nemes sono vuoti del genere, al pari del consigliere Albedo e di altre entità del Nucleo) ma riuscii a ripercorrere alcuni movimenti e azioni di costoro semplicemente grazie allo spostamento di quell’assenza nella matrice di emozione senziente che è il Vuoto che lega, un po’ come si scorgerebbe il contorno di un uomo invisibile che cammini sotto una pioggia a dirotto. Così, in combinazione con l’ascolto dei lievi mormorii dei morti umani, potei ricostruire il massacro degli innocenti Chitchatuk su Sol Draconis Septem a opera di Rhadamanth Nemes e udire i sibili di rabbia e le micidiali azioni di Scilla, Gige, Briareo e Nemes su Vitus-Gray-Balianus B. Ma per quanto fossero spiacevoli e mi disorientassero, queste discese nel vuoto morale e nell’incubo mentale erano bilanciate dalla possibilità di gustare ancora il calore di amici come Dem Loa, Dem Ria, padre Glauco, Het Masteen, A. Bettik e tutti gli altri. Trovai solo nei miei ricordi molti di questi partecipanti al mio racconto: persone meravigliose come Lhomo Dondrub, visto per l’ultima volta mentre volava su ali di pura luce nell’eroica e disperata battaglia contro le navi da guerra della Pax; e Rachel, nella seconda di varie vite che era destinata a riempire d’avventure; e la regale Dorje Phamo; e il saggio giovane Dalai Lama. In questo modo usavo il Vuoto che lega per ascoltare la mia stessa voce, per chiarire la memoria al di là della capacità e della chiarezza della memoria, e in questo senso mi vidi spesso come personaggio minore del mio stesso racconto, un compagno non geniale, un ribelle più che un capo, che spesso non faceva domande quando avrebbe dovuto o accettava risposte fin troppo inadeguate. Ma vidi anche il goffo Raul Endymion del mio racconto come un uomo che scopriva l’amore per una persona da lui attesa tutta la vita, e in questo senso la sua inclinazione a seguire senza domande era spesso bilanciata dalla disponibilità a dare all’istante la vita per la sua cara amica.
Anche se so oltre ogni dubbio che Aenea è morta, non cercai mai la sua voce fra il coro di quelli che parlavano il linguaggio dei morti. Anzi, percepii la sua presenza nel Vuoto che lega, percepii il suo tocco nella mente e nel cuore di tutte le brave persone che incapparono nella nostra odissea o la cui vita fu cambiata per sempre nella nostra lunga lotta contro la Pax. Mentre imparavo ad attenuare l’inanimato clamore e a cogliere voci specifiche dal coro dei morti, mi resi conto che spesso quelle risonanze umane nel Vuoto erano visualizzate da me come stelle, alcune fioche ma visibili, se si sapeva dove guardare, altre luminose come supernovae, altre ancora in combinazione binaria con altre ex anime viventi oppure fissate in eterno in una costellazione di amore e di rapporto con individui specifici, altre, come Mustafa e Lourdusamy e Hoyt, quasi consumate e fatte implodere dalla terribile gravità della loro ambizione o avidità o sete di potere, quasi prive del loro splendore umano mentre collassavano in buchi neri dello spirito.
Ma Aenea non era una di queste stelle. Aenea era come la luce del sole che ci aveva circondato durante una passeggiata in un caldo giorno di primavera sui prati sopra Taliesin West: costante, soffusa, proveniente da una singola fonte eppure in grado di riscaldare tutto e tutti intorno a noi, una fonte di vita e di energia. Così, quando giunge l’inverno o cade la notte, e l’assenza di luce porta buio e gelo, così noi aspettiamo la primavera e il mattino.
Ma ormai non ci sarebbe stato nessun mattino per Aenea, nessuna risurrezione per lei o per il nostro amore. Il grande potere del suo messaggio è che la risurrezione modello Pax era una menzogna, foriera di sterilità come le iniezioni obbligatorie per il controllo delle nascite. In un universo finito di immortali in potenza non c’è posto per i bambini. L’universo della Pax era ordinato e statico, immutabile e sterile. I bambini portano il caos e l’affollamento, rappresentano in potenza quel futuro che per la Pax era anatema.
Preso da questi pensieri e da quello sull’ultimo dono di Aenea, l’antidoto al meccanismo per il controllo delle nascite impiantato dalla Pax dentro di me, mi domandai se il gesto non fosse metaforico. Mi augurai che Aenea non avesse voluto suggerirmi di usarlo alla lettera, di trovarmi un altro amore, una moglie, di avere figli con un’altra. In una delle nostre numerose conversazioni avevamo affrontato una volta l’argomento — ricordo che avvenne mentre sedevamo nel vestibolo del suo rifugio nel deserto presso Taliesin, mentre il vento della sera ci portava profumo di yucca e di primule — e avevamo notato la bizzarra elasticità del cuore umano nel trovare nuove relazioni, nuove persone con cui condividere la vita, nuovi potenziali. Ma mi auguro che il dono della fertilità offertomi da Aenea in quegli ultimi minuti trascorsi insieme in San Pietro fosse in realtà una metafora per il più grande dono che lei aveva già fatto alla specie umana, l’opzione per il caos e l’affollamento e meravigliose, impreviste possibilità. Se il dono era davvero un suggerimento di trovare un nuovo amore, di avere figli da un’altra donna, allora Aenea non mi aveva conosciuto affatto. Nella stesura di questo racconto ho visto fin troppo bene dagli occhi di molti altri che Raul Endymion era un tipo abbastanza simpatico, fidato, goffamente coraggioso all’occasione, ma non rinomato per intuizione o intelligenza. Ma ero abbastanza intelligente e abbastanza intuitivo, almeno nel caso della mia stessa anima, per sapere con certezza che quell’unico amore mi sarebbe bastato per tutta la vita; e riuscivo a capire, man mano che nella mia cella della morte i giorni e le settimane e quasi sicuramente i mesi trascorrevano senza arrivare alla morte, che se per miracolo fossi tornato nell’universo dei vivi, avrei trovato di nuovo gioia e allegria e amicizia, ma nemmeno una pallida ombra dell’amore che avevo provato. Niente figli. No.
Per alcuni fantastici giorni, scrivendo il testo, mi convinsi che Aenea era tornata dai morti, che era avvenuto una sorta di miracolo. Ero alla parte del racconto in cui avevamo raggiunto la Vecchia Terra, attraverso il teleporter di Bosco Divino, dopo il terribile incontro con la prima Nemes, e avevo terminato quella parte descrivendo il nostro arrivo a Taliesin West.
Quella stessa notte sognai che Aenea era venuta a trovarmi, qui, nella scatola di Schrödinger, la mia cella della morte, e mi aveva chiamato per nome nel buio, mi aveva toccato la guancia, mi aveva bisbigliato: "Ce ne andremo di qui, Raul, amore mio. Non subito, ma appena avrai terminato la tua storia. Appena avrai ricordato tutto e capito tutto". Quando mi svegliai, scoprii che lo stilo del grafer era stato attivato e sulle sue pagine, nella caratteristica calligrafia di Aenea, c’era una lunga nota che comprendeva alcuni estratti delle poesie di suo padre.
Per giorni — settimane — fui convinto che era stata una visita reale, un miracolo come quelli che secondo i tardi apostoli erano accaduti ai discepoli dopo la crocifissione di Gesù, e lavorai febbrilmente alla stesura delle mie memorie, con la frenesia di terminarle, di riportare tutto, di capire tutto. Ma il procedimento richiese altri mesi e in quel periodo giunsi a capire che la visita di Aenea era stata di sicuro una cosa del tutto diversa, quasi certamente la prima occasione in cui udivo un suo bisbiglio fra le voci dei morti e forse, chissà come, un suo effettivo messaggio racchiuso nella memoria del grafer, che sarebbe saltato fuori quando avessi scritto quelle pagine. Non era del tutto impossibile. Una cosa era certa: la capacità della mia amica di cogliere fuggevoli visioni del futuro, dei futuri diceva sempre lei, sottolineando il plurale. Per lei sarebbe stato possibile racchiudere in un grafer quel magnifico messaggio e fare in modo che proprio quello strumento particolare fosse incluso nella mia cella/scatola di Schrödinger.
Oppure — ed è questa la spiegazione che infine ho accettato — ho scritto io stesso quel messaggio, mentre ero totalmente immerso (ma forse "posseduto" è la parola migliore) nella personalità di Aenea, seguendone l’essenza tramite il Vuoto e i miei ricordi. Questa teoria è per me la meno piacevole, ma si conforma all’unica visione della vita dopo la morte espressa da Aenea, basata più o meno sulla tradizione ebraica, secondo la quale dopo la morte una persona vive solo nel cuore e nei ricordi di coloro che ha amato e servito e salvato.
A ogni modo, scrissi per altri mesi, cominciai a capire la vera immensità, e futilità, dell’eroica missione di Aenea e del suo vano sacrificio; e poi terminai di scrivere freneticamente, trovai il coraggio di esprimere l’orribile morte di Aenea e la mia impotenza mentre lei moriva, piansi mentre stampavo le ultime pagine di micropergamena, ordinai al grafer di tenere in memoria tutta la narrazione e spensi lo stilo per quella che ritenevo l’ultima volta.
Aenea non comparve. Non mi guidò fuori di prigione. Era morta. Sentivo la sua assenza dall’universo con la stessa chiarezza con cui, fin dalla comunione, avevo percepito ogni risonanza proveniente dal Vuoto che lega.
Così giacqui nella scatola di Schrödinger, cercai di dormire, dimenticai di mangiare, aspettai la morte.
Alcune esplorazioni tra le voci dei morti mi avevano condotto a cose che non avevano diretta attinenza col mio racconto. Alcune erano personali e private: fantasticherie di mio padre, da tempo defunto, a caccia con i fratelli, per esempio, e la scoperta dell’animo generoso di quell’uomo tranquillo che non avevo mai conosciuto; oppure cronache di umana crudeltà che, come le memorie di Jacob Schulmann provenienti dal dimenticato XX secolo, fungevano solo da sottofondo per la mia più profonda comprensione della barbarie di oggi.
Ma altre voci…
Così, terminata la narrazione della mia vita con Aenea, aspettavo di morire e passavo nel sonno periodi sempre più lunghi, con la speranza che il decisivo evento quantico si verificasse mentre dormivo; sapevo che il testo era racchiuso nella memoria del grafer e mi domandavo vagamente se qualcuno avrebbe mai escogitato un modo per entrare nel guscio della scatola di Schrödinger, predisposto per esplodere se manomesso, e avrebbe trovato un giorno il mio racconto, forse tra secoli. Mi addormentai di nuovo e sognai. Capii subito che non era un sogno normale, la solita danza del fronte d’onda di possibilità, ma la visita di una delle voci dei morti.
Nel sogno, il console dell’Egemonia suonava lo Steinway sulla loggia della sua nave spaziale color ebano — la nave che così bene conoscevo — mentre grandi creature verdi simili a sauri si agitavano e mugghiavano nelle vicine paludi. Il console suonava Schubert. Non riconobbi il pianeta al di là della loggia, ma era un mondo di gigantesche piante primitive, di torreggianti nubi gonfie di pioggia, di spaventosi ruggiti animaleschi.
Il console era più basso di quanto non immaginassi. Terminò il brano e rimase in silenzio per qualche minuto nel crepuscolo, finché la nave non parlò con voce che non riconobbi, una voce più intelligente, più umana.
«Molto bello» disse la nave. «Davvero molto bello.»
«Grazie, John.» Il console si alzò dallo sgabello e portò con sé la loggia dentro la nave. Iniziava a piovere.
«Sei ancora deciso ad andare a caccia domattina?» domandò la voce incorporea della nave, che non era quella della nave come la conoscevo io.
«Sì» disse il console. «Qui vado a caccia, di tanto in tanto.»
«Ti piace la carne di dinosauro?» domandò l’IA della nave.
«Per carità, è quasi immangiabile» rispose il console. «Mi piace la caccia, ecco.»
«Il rischio, vuoi dire.»
«Anche quello, sì» ridacchiò il console. «Ma non ci bado.»
«E se non torni dalla caccia, domani?» domandò la nave. La voce era maschile, giovane, con la cadenza britannica della Vecchia Terra.
Il console si strinse nelle spalle. «Abbiamo passato… quanto?… più di sei anni a esplorare pianeti della vecchia Egemonia. Conosciamo lo schema, caos, guerra civile, carestie, frammentazione. Abbiamo visto il frutto della caduta del sistema teleporter.»
«Pensi che Meina Gladstone abbia sbagliato a ordinare l’attacco?» domandò piano la nave.
Il console si era versato un brandy; dal buffet portò il bicchiere al tavolino da scacchi accanto alla libreria. Si sedette e guardò i pezzi della partita già iniziata, sulla scacchiera di fronte a sé. «No, no» rispose. «Gladstone ha fatto la cosa giusta. Ma il risultato è triste. Passeranno decenni, forse secoli, prima che la Rete cominci a intessersi in una nuova forma.» Mentre parlava, scaldava il brandy e lo faceva roteare piano nel bicchiere; ora lo annusò e lo sorseggiò. Poi alzò gli occhi e disse: «Hai voglia di unirti a me per terminare la partita, John?».
Nella poltrona davanti a lui comparve l’ologramma di un giovanotto. Era quasi un ragazzo, con chiari occhi color nocciola, fronte bassa, guance incavate, naso compatto, mascella decisa, larga bocca che suggeriva una calma mascolinità e una traccia di spirito battagliero. Indossava una camicia piuttosto larga e calzoni alla zuava. I suoi capelli erano castano chiaro con riflessi ramati, folti, molto ricci. Un tempo avevano detto di lui che aveva "un viso vivace, vincente"; il console lo sapeva e l’aveva attribuito alla facilità con cui il giovane cambiava espressione, facilità che gli derivava dalla grande intelligenza e vitalità.
«A te muovere» disse John.
Il console studiò a lungo le varie possibilità e poi mosse un alfiere.
John rispose subito: indicò col dito un pedone. Il console lo spostò in avanti di una casella. Il giovanotto alzò lo sguardo, con una luce di sincera curiosità negli occhi. «E se non torni dalla caccia, domani?» ripeté piano.
Strappato alle proprie fantasticherie, il console trasalì e sorrise. «Allora la nave resta a te, come resterebbe in ogni caso.» Arretrò l’alfiere. «Cosa farai, John, se questa dovesse essere la fine dei nostri viaggi insieme?»
Con uguale rapidità John rispose alla mossa e alla domanda; indicò di spostare avanti la torre e disse: «Riporterei la nave su Hyperion. La programmerei per tornare da Brawne, se tutto va bene. O forse da Martin Sileno, se il vecchio è ancora vivo e continua a lavorare ai Canti».
«La programmeresti?» disse il console, guardando la scacchiera e corrugando la fronte. «Vuoi dire che lasceresti la IA della nave?» Spostò l’alfiere di una casella sull’altra diagonale.
«Sì» disse John, indicando di far avanzare di nuovo il pedone. «Lo farei comunque, nei prossimi giorni.»
Con fronte ancora più corrugata, il console guardò la scacchiera, poi l’ologramma di fronte a sé, poi di nuovo la scacchiera. «Dove andrai?» domandò, muovendo la regina a protezione del re.
«Tornerò nel Nucleo» disse John. Mosse di due caselle la torre.
«Per affrontare di nuovo il tuo creatore?» domandò il console, rinnovando l’attacco d’alfiere.
John scosse la testa. Si teneva molto impettito e aveva il vezzo di togliersi dalla fronte i ricci, con un elegante movimento all’indietro della testa. «No» rispose piano. «Per scatenare il pandemonio fra le entità del Nucleo. Per accelerare le loro interminabili guerre civili e rivalità intestine. Per essere ciò che il mio stampo era stato per la comunità dei poeti… un fastidioso importuno.» Indicò dove voleva muovere il cavallo che gli rimaneva.
Il console studiò la mossa, non la ritenne minacciosa, mosse ancora l’alfiere. «Per quale ragione?» domandò infine.
John sorrise e indicò la casella dove sarebbe dovuta andare la torre. «Mia figlia avrà bisogno d’aiuto, fra qualche anno» disse. Ridacchiò. «Be’, fra duecentosettanta e passa anni, per la precisione. Matto.»
«Cosa?» disse il console, sorpreso. Studiò la scacchiera. «Non è…»
John rimase in silenzio.
«Merda!» sbuffò alla fine il console dell’Egemonia. Rovesciò il re. «Per tutti gli strafottuti diavoli dell’inferno!»
«Sì» disse John, porgendogli la mano. «Grazie ancora per la piacevole partita. E mi auguro che la caccia di domani ti risulti più gradita.»
«Merda» ripeté il console. Senza pensarci, tentò di stringere la mano dell’ologramma. Per la centesima volta le sue dita attraversarono la mano dell’altro. «Merda» disse ancora il console.
Quella notte, nella scatola di Schrödinger, mi svegliai di colpo. Due parole mi echeggiavano nella mente: "Il bambino"!
Sapere che Aenea era già sposata, prima che la nostra amicizia si trasformasse in amore completo e totale, e che aveva messo al mondo un figlio mi aveva bruciato l’anima e le viscere come un doloroso tizzone ardente; ma a parte la mia quasi ossessiva curiosità su chi e su perché (curiosità non soddisfatta dalle domande rivolte ad A. Bettik, a Rachel e agli altri che l’avevano vista andare via, durante la loro odissea, ma ignoravano dove o con chi fosse andata) non avevo mai considerato che in realtà quel bambino viveva in qualche parte del mio stesso universo. Il figlio suo! Il pensiero mi faceva venire voglia di piangere, per varie ragioni.
"Il bambino non è dove posso trovarlo adesso" aveva detto Aenea.
Dove si trovava, adesso, quel bambino? Quanti anni aveva? Mi sedetti sul lettino e cominciai a riflettere. Quando era morta… Correzione: quando era stata brutalmente assassinata dal Nucleo e dai suoi burattini della Pax, Aenea aveva ventitré anni standard. Appena compiuto il ventesimo compleanno, era scomparsa per un anno, undici mesi, sette giorni e sei ore. Perciò il bambino aveva circa tre anni standard più il tempo che io avevo trascorso nella scatola di Schrödinger… otto mesi? dieci? Non lo sapevo, semplicemente. Ma se era ancora vivo, il bambino, o la bambina… Dio santo, non avevo mai domandato a Aenea se era un figlio o una figlia e lei, la sola volta che ne avevamo parlato, non l’aveva precisato. E io, sofferente per la ferita morale e per la fanciullesca convinzione d’avere patito una grande ingiustizia, non avevo pensato di domandarglielo. Ero stato proprio un idiota! Il bambino, il figlio o la figlia di Aenea, adesso era sui quattro anni standard. Camminava già… certamente. Parlava. Oddio, il figlio di Aenea era ormai un razionale essere umano, che parlava, che faceva domande, un mucchio di domande, se le mie poche esperienze con i bambini erano indicative, che imparava a fare passeggiate e a pescare e ad amare la natura…
Non avevo mai domandato a Aenea il nome di suo figlio. Dolorosamente consapevole di questo fatto, mi sentii bruciare gli occhi e chiudere la gola. Aenea era sempre stata reticente a parlare di quel periodo della sua vita e io non avevo fatto domande nelle settimane trascorse insieme dopo di allora: non volevo turbarla, mi dicevo, con domande o indagini che avrebbero indotto in lei il senso di colpa e in me l’istinto omicida. Ma quando mi aveva brevemente parlato del matrimonio e del figlio, Aenea non aveva mostrato alcun senso di colpa. Per essere onesti, era una delle ragioni per cui, quando l’avevo saputo, mi ero sentito così infuriato e impotente. Eppure, è incredibile, quel fatto non ci aveva impedito di essere amanti. Come diceva il messaggio trovato nel monitor del grafer mesi fa, il messaggio che ero sicuro provenisse da Aenea? "Amanti di cui canterebbero i poeti." Ecco. Il sapere del suo breve matrimonio e del figlio non ci aveva impedito di sentirci come amanti che non avessero mai provato quel sentimento per altri.
E forse lei non l’aveva provato, mi resi conto. Avevo sempre ritenuto che il suo matrimonio fosse stato una di quelle passioni improvvise, quasi un impulso; ora invece lo consideravo in un altro modo. Ma chi era il padre? Nel suo messaggio Aenea diceva di amarmi a ritroso e in avanti nel tempo, che è precisamente ciò che provavo io nei suoi confronti, come se l’avessi sempre amata, come se avessi aspettato l’intera vita per scoprire la realtà di quell’amore. E se il matrimonio di Aenea non fosse stato di passione o d’impulso ma… di convenienza? No, no, non è la parola giusta. Di necessità?
Le profezie dei templari, degli Ouster, del culto Shrike della Chiesa della redenzione finale e di altri, dicevano che Brawne Lamia avrebbe generato una figlia, Colei che insegna, Aenea, come risultò. Secondo i Canti del vecchio poeta, il giorno in cui il secondo cìbrido John Keats morì di morte fisica e Brawne Lamia si aprì combattendo la strada per rifugiarsi nel tempio dello Shrike su Lusus, i fedeli di quel culto avevano cantato: "Benedetta sia la Madre della Nostra Salvezza, benedetto sia lo Strumento della Nostra Redenzione", riferendosi proprio a Aenea.
E se Aenea fosse stata destinata ad avere un figlio per continuare la stirpe dei messia? In nessuna profezia, per quanto ne sapevo, si parlava di figli, ma nei mesi in cui avevo scritto della vita di Aenea, avevo scoperto una cosa incontrovertibile: Raul Endymion quasi sempre l’ultimo a capire. Forse c’era un’infinità di varianti sulla profezia dell’avvento di chissà quanti Colui o Colei che insegna. O forse quel figlio avrebbe avuto poteri e intuizioni del tutto diverse, forse quello che l’universo e la specie umana aspettavano da tempo.
Ovviamente non sarei stato io il padre di un tale secondo messia. L’unione del secondo cìbrido John Keats e di Brawne Lamia era stata, lo aveva detto Aenea, la grande riconciliazione fra i migliori elementi del TecnoNucleo e la specie umana. Erano occorse le abilità e le percezioni sia delle IA sia degli esseri umani, per creare l’ibrida capacità di vedere direttamente nel Vuoto che lega, in modo che l’uomo apprendesse finalmente il linguaggio dei morti e dei viventi. Empatia era un altro modo per definire quella capacità ed Aenea era stata nel senso più calzante la Figlia dell’Empatia.
Chi poteva essere il padre di suo figlio?
La risposta mi colpì come un fulmine. Per un attimo, lì nella scatola di Schrödinger, rimasi sconvolto dalla logica della risposta, tanto da essere sicuro che il rivelatore in perenne ticchettio nella parete di energia della mia prigione avesse individuato la particella emessa al momento giusto e avesse già liberato il cianuro. Quale ironia, capire come stavano le cose e morire nello stesso istante!
Ma non c’era gas venefico nell’aria, solo la crescente forza della mia certezza e l’impulso anche più forte ad agire in qualche modo.
Nella cosmica partita a scacchi che Aenea e gli altri giocavano ormai da tre secoli standard, c’era un altro partecipante: il quasi mitico osservatore delle specie aliene senzienti, che Aenea aveva menzionato brevemente in diversi contesti. I Leoni e Tigri e Orsi, gli esseri così potenti da prelevare la Vecchia Terra e trasportarla nella Piccola Nube di Magellano, anziché guardarne la distruzione, avevano (secondo Aenea) inviato tra noi negli ultimi secoli uno o più osservatori, entità che (secondo la mia interpretazione delle parole di Aenea) avevano assunto forma umana e si erano aggirate fra noi per tutto il tempo. Sarebbe stato relativamente facile, nell’era della Pax, con la diffusa immortalità virtuale garantita dal crucimorfo. E c’erano di sicuro altri che, come il vecchissimo poeta Martin Sileno, erano rimasti in vita mediante una combinazione di scienza medica della Rete dei Mondi, di trattamento Poulsen e di pura ostinazione.
Martin Sileno era vecchio, fuor di dubbio, forse il più vecchio essere umano della galassia, ma non era lui l’osservatore, altrettanto fuor di dubbio. L’autore dei Canti era troppo dogmatico, troppo attivo, troppo visibile al grande pubblico, troppo disgustoso e in genere troppo maledettamente intrattabile per essere un freddo osservatore in rappresentanza di specie aliene tanto potenti da distruggerci in un batter di ciglia. Almeno, me lo auguravo.
Ma da qualche parte, probabilmente in un luogo che non avevo mai visitato e che non sarei riuscito a immaginare, l’osservatore era rimasto in attesa e aveva investigato sotto spoglie umane. Pareva ragionevole che Aenea fosse stata costretta, sia dalla profezia sia dalla necessità di una evoluzione umana priva di intralci di cui aveva parlato e in cui aveva creduto, a teleportarsi lontano dalla sua odissea in quel remoto pianeta dove l’osservatore aspettava, incontrarlo, accoppiarsi con lui e mettere alla luce quel figlio. Così avrebbe riconciliato il Nucleo, la specie umana e i remoti Altri.
L’idea era sconvolgente, mi turbava moltissimo, ma mi elettrizzava come niente aveva più fatto, dalla morte di Aenea.
Conoscevo Aenea. Suo figlio sarebbe stato un bambino umano, pieno di vita e di allegria e di amore per qualsiasi cosa, dalla natura ai vecchi olodrammi. Non avevo mai capito come Aenea avesse potuto abbandonare il bambino, ma ora mi resi conto che non aveva avuto scelta. Lei conosceva il terribile destino che l’aspettava nella cella sotterranea di Castel Sant’Angelo. Sapeva che sarebbe morta sotto tortura, tra le fiamme, circondata da nemici non umani e da mostruosi cloni Nemes. L’aveva sempre saputo, fin da prima della nascita.
Il pensiero mi fece tremare le ginocchia. Come aveva potuto, la mia cara amica, ridere così spesso con me, affrontare con tanto ottimismo e tanta felicità il nuovo giorno, celebrare così completamente la vita, sapendo che ogni ora trascorsa la portava più vicino a una morte così terribile? Scossi la testa all’idea della forza di volontà che l’aveva sostenuta. Io non avevo quella forza, lo sapevo benissimo. Aenea l’aveva avuta.
Sapendo quando e come quella terribile fine avrebbe avuto luogo, non avrebbe mai potuto tenere con sé il figlio. Perciò era presumibile che ora il bambino venisse allevato dal padre. Dall’Altro in forma umana. Dall’osservatore.
Questa idea era più sconvolgente delle precedenti. Fui allora colpito da un’altra certezza: Aenea avrebbe voluto che io avessi un ruolo nella vita di suo figlio, se l’avesse ritenuto possibile. Era ragionevole ipotizzare che le sue fuggevoli visioni di possibili futuri terminassero tutte con la sua morte. Forse Aenea ignorava che io non sarei stato giustiziato con lei. Ma no, mi aveva chiesto di spargere le sue ceneri sulla Vecchia Terra, perciò sapeva che le sarei sopravvissuto. Forse l’aveva ritenuta una richiesta troppo grande, che io trovassi suo figlio — bambino o bambina — e lo aiutassi in ogni modo possibile mentre cresceva, che collaborassi a proteggerlo in un universo tutto spigoli taglienti.
Piangevo, mi accorsi, non piano, ma con grandi, aspri singhiozzi. Era la prima volta che piangevo a questo modo, dalla morte di Aenea, e — cosa strana — non era il dolore per la sua morte, ma il pensiero di questa seconda possibilità, di tenere per mano un bambino come un tempo avevo tenuto per mano la piccola Aenea, di proteggere quel figlio della mia amata come avevo tentato di proteggere la mia amata.
E fallito! Ad accusarmi ero io stesso.
Sì, alla fine non ero riuscito a proteggere Aenea, ma lei sapeva che avrei fallito, che lei avrebbe fallito la missione di abbattere la Pax. Aveva amato me e aveva amato la vita, pur sapendo che avrebbe fallito.
Non c’era motivo perché fallissi di nuovo, con quest’altro bambino. Forse l’osservatore avrebbe accettato con piacere il mio aiuto, la mia partecipazione all’esperienza umana di quel bambino quasi certamente più che umano. Potevo affermare con sicurezza che nessuno aveva conosciuto Aenea meglio di me. Questo sarebbe stato importante per la formazione del bambino, del nuovo messia. Avrei portato con me la narrazione ora inutilizzata nel grafer, ne avrei condiviso frammenti e parti, col bambino o la bambina che cresceva, gliel’avrei trasmessa per intero un giorno o l’altro.
Presi lavagnetta e grafer, andai avanti e indietro per la cella. C’era il piccolo particolare della mia inevitabile esecuzione. Nessuno sarebbe venuto a salvarmi. Il guscio esplosivo dell’ovoide l’aveva deciso; e se ci fosse stato un modo di aggirare il problema, ormai qualcuno si sarebbe già presentato. Solo grazie al più inverosimile gioco delle probabilità e alla fortuna ero sopravvissuto così a lungo, appeso al filo di un reiterato lancio di dadi della morte, con il rivelatore pronto a fiutare l’emissione di particelle. Per tutto questo tempo avevo battuto le leggi di probabilità quantiche, ma la fortuna non poteva durare.
Smisi di andare avanti e indietro.
L’insegnamento di Aenea sulla nuova relazione tra la nostra specie e il Vuoto che lega comprendeva quattro passi. Ancora prima di finire in questa cella, avevo sperimentato, se non padroneggiato, l’apprendimento del linguaggio dei morti e dei vivi. Nella stesura del mio racconto avevo mostrato di poter accedere al Vuoto almeno per conoscere vecchi ricordi di persone ancora viventi, anche se il guscio della cella interferiva in qualche modo con la mia capacità di percepire che cosa accadeva adesso ad amici come padre de Soya o Rachel o Lhomo o Martin Sileno.
Ma forse non c’era nessuna interferenza. Forse nel subcosciente mi rifiutavo di cercare contatto con il mondo dei vivi, almeno per cose che non riguardassero ricordi di Aenea, poiché sapevo di abitare adesso il mondo dei morti.
Non più. Volevo uscire di qui.
Nel suo insegnamento Aenea aveva citato altri due passi, ma non li aveva mai spiegati pienamente: udire la musica delle sfere e muovere il primo passo.
Ora capivo tutt’e due i concetti. Se non avessi visto Aenea teleportarsi e se non avessi provato quel grande impeto di comprensione gestaltica provocato dalla terribile partecipazione alla sua morte, non avrei mai capito. Ma ora capivo.
Avevo ritenuto che udire la musica delle sfere fosse una sorta di trucco fra paranormale e radiotelescopico, udire realmente gli scoppiettii e i sibili delle stelle, come da undici secoli consentivano i radiotelescopi. Ma Aenea non si riferiva affatto a questo. Lei non ascoltava le stelle, ma la risonanza di quelle persone, umane e non umane, che risiedevano fra quelle stelle e intorno a quelle stelle. Aveva usato il Vuoto come una sorta di faro direzionale per teleportarsi.
Molti dei suoi trasferimenti non avevano avuto senso per me. I teleporter controllati dal Nucleo erano rozzi fori praticati nel Vuoto, perciò nello spaziotempo, tenuti spalancati dai portali, simili a rozze pinze che tenessero divaricati i margini di una ferita, come nei vecchi tempi dei bisturi e della chirurgia invasiva. Il modo in cui Aenea si teleportava, capii, era un meccanismo infinitamente più elegante.
Mi ero domandato, quando nella Yggdrasill eravamo impegnati senza sosta a teleportarci su vari pianeti e a passare da sistema solare a sistema solare, come Aenea evitasse di farci comparire nel cuore di una montagna o a cinquanta metri dalla superficie o, nel caso di spostamenti della Yggdrasill, dentro una stella. Mi pareva che teleportarsi alla cieca, come un non pianificato balzo Hawking, fosse casuale e pericoloso. Invece, quando Aenea si teleportava, eravamo sempre emersi esattamente dove dovevamo emergere. Ora capivo perché.
Aenea ascoltava la musica delle sfere. Entrava in risonanza con il Vuoto che lega, che a sua volta risonava alla vita senziente e al pensiero, e poi sfruttava la quasi incontenibile energia del Vuoto per… per muovere il primo passo. Per viaggiare, tramite il Vuoto, dove quelle voci aspettavano. Una volta Aenea aveva detto che il Vuoto attingeva all’energia delle quasar, dei centri galattici in esplosione, dei buchi neri e della materia nera. Sufficiente, forse, a spostare nello spaziotempo alcune forme di vita organica e a depositarle nel posto giusto.
L’amore è il primo motore dell’universo, aveva detto una volta Aenea. Aveva scherzosamente affermato di essere il Newton che un giorno avrebbe spiegato la fisica basilare di quella fonte d’energia largamente intatta. Non era vissuta abbastanza per riuscirci.
Ma capii ora che cosa aveva voluto dire e come la faccenda funzionava. Gran parte della musica delle sfere era creata dalle eleganti armonie e dalle variazioni di accordi dell’amore. Teleportarsi liberamente dove la persona amata aspetta. Imparare un luogo dopo averlo visitato con la persona o le persone amate. Amare la vista di nuovi luoghi.
All’improvviso capii perché i nostri primi mesi insieme erano stati (così mi era parso a quel tempo) inutili vagabondaggi per teleporter da pianeta a pianeta: Mare Infinitum, Qom-Riyadh, Hebron, Sol Draconis Septem, il pianeta senza nome dove avevamo lasciato la nave, tutti gli altri, perfino la Vecchia Terra. Non c’erano teleporter ancora in funzione. Aenea aveva portato con sé A. Bettik e me su quei pianeti. Li aveva toccati, ne aveva annusato l’aria, aveva sentito sulla pelle la luce del loro sole, li aveva visitati in compagnia di amici, di qualcuno che amava, per imparare la musica delle sfere, in modo da suonarla più tardi.
E la mia odissea da solo: il kayak che dalla Vecchia Terra si teleportava su Lusus e sul pianeta di nuvole e in tutti gli altri posti. Aenea era stata l’energia dietro quei trasferimenti. Mi aveva mandato lì perché potessi assaporare quei luoghi e ritrovarli un giorno per mio conto.
Avevo pensato, anche mentre scrivevo la mia storia nel grafer che ora tengo sottobraccio qui nella cella/scatola di Schrödinger, di essere poco più che un compagno di viaggio in una serie di avventure picaresche. Ma tutto aveva uno scopo. Ero un innamorato che viaggiava con la persona amata, o verso la persona amata, in una partitura musicale di mondi. Una partitura che dovevo imparare a memoria, per poterla suonare di nuovo un giorno.
Chiusi gli occhi e mi concentrai, poi trascesi la concentrazione, passai in quello stato di vuoto mentale che avevo imparato su T’ien Shan. Ogni pianeta aveva il suo scopo. Ogni minuto aveva il suo scopo.
In quel calmo nulla mi aprii al Vuoto che lega e all’universo al quale risonava. Non avrei potuto farlo, capii, senza la comunione col sangue di Aenea, senza gli organismi nanotec su misura che ora dimoravano nelle mie cellule e che avrebbero dimorato nelle cellule dei miei figli. "No, non i miei figli" pensai subito. "Ma nelle cellule degli esseri umani che erano sfuggiti al crucimorfo. Nelle cellule dei loro figli." Non avrei potuto farlo, se non avessi imparato da Aenea. Non avrei potuto udire le voci che udii allora, cori più grandi di quanto avessi mai udito prima, se non avessi affinato la mia grammatica e la mia sintassi del linguaggio dei morti e dei vivi nei mesi di lavoro per raccontare la mia storia in attesa della morte.
Non avrei potuto farlo, capii, se fossi stato immortale. Questo grado di amore per la vita e per un’altra persona è concesso, capii una volta per tutte, non agli immortali, ma a quelli che vivono brevemente e sempre sotto l’ombra della morte e della perdita.
Mentre stavo lì ad ascoltare gli accordi sempre più vasti della musica delle sfere, in grado ora di individuare nel coro voci distinte — Martin Sileno, ancora vivo ma in pessime condizioni sul mio mondo natale; Theo, sul bellissimo pianeta Patto-Maui; Rachel, sul mondo di Barnard; il colonnello Kassad, sul rosso Marte; padre de Soya, su Pacem — e persino gli amabili accordi dei morti — Dem Ria su Vitus-Gray-Balianus B, il caro padre Glauco sul gelido Sol Draconis Septem, la voce di mia madre sul lontano Hyperion — udii anche le parole di John Keats, nella sua voce e nella voce di Martin Sileno e nella voce di Aenea:
Ma questa è l’umana vita: la guerra, le imprese,
la delusione, l’ansia,
le lotte dell’immaginazione, lontano e vicino,
tutte umane; portano in sé questo bene,
che sono ancora l’aria, il fine cibo,
per farci sentire vivi e per mostrare
quant’è quieta la morte. Dove c’è humus l’uomo cresce
sia per malerba sia per fiore; ma per me
non c’è profondità per intervenire…
In quel momento invece per me era vero il contrario: c’era profondità più che sufficiente per intervenire. In quel momento l’universo si faceva più profondo, la musica delle sfere cresceva da semplice coro a sinfonia trionfante come la Nona di Beethoven e capii che sarei stato sempre in grado di udirla quando avrei voluto o ne avessi avuto bisogno, che sarei sempre stato in grado di usarla per muovere il passo necessario per vedere colei che amavo oppure, se non ci riuscivo, per andare nel luogo dove ero stato con lei che amavo oppure, se non ci riuscivo, per trovare un posto da amare per la sua stessa bellezza e ricchezza.
Allora l’energia delle quasar e dei nuclei stellari in esplosione mi riempì. Fui trasportato su onde di energia più belle e più liriche perfino delle ali degli angeli Ouster viste scivolare lungo corridoi di luce. Il guscio di micidiale energia che era il mio carcere e cella della morte parve ora risibile, originale scherzo di Schrödinger, una corda per giochi da bambini stesa per terra intorno a me come pareti di prigione.
Mossi un passo fuori della scatola del gatto di Schrödinger e fuori del sistema solare di Armaghast.
Per un istante, mentre sentivo cadere e restare indietro per sempre i confini della prigione di Schrödinger, mentre esistevo da nessuna parte e dappertutto nello spazio, pur restando fisicamente intatto in corpo e stilo e grafer sottobraccio, provai un’ondata di vera e propria euforia, potente come i vertiginosi effetti del teleportarsi da soli. Libero! Ero libero! L’ondata di gioia fu così intensa da farmi venire voglia di piangere, di gridare nella circostante luce del non-spazio, di unire la mia voce al coro di voci dei vivi e dei morti, di cantare con le cristalline sinfonie delle sfere che salivano e ricadevano intorno a me come solidi frangenti musicali. Finalmente libero!
E allora ricordai che l’unica ragione per essere libero, l’unica persona che avrebbe giustificato quella libertà, era scomparsa. Aenea era morta. La gioia della fuga svanì all’improvviso, totalmente, sostituita da una semplice ma profonda soddisfazione per la libertà dopo tanti mesi di prigionia. L’universo mi pareva prosciugato di ogni colore, ma almeno adesso ero libero di andare dove volevo in quel reame monotono.
Dove sarei andato? Galleggiavo nella luce, mi teleportavo liberamente nell’universo, con stilo e grafer sotto il braccio, ed ero indeciso.
Hyperion? Avevo promesso di tornare da Martin Sileno. Potevo sentire la sua voce risonare con forza nel Vuoto, passato e presente; ma quella voce non avrebbe fatto parte del coro ancora a lungo. La vita che gli restava ormai poteva essere contata in giorni o meno. Ma non sarei andato su Hyperion. Non ancora.
La biosfera Albero Stella? Ero sorpreso di udire che ancora esisteva in qualche forma, anche se la voce di Lhomo mancava dalla sua corale sinfonia. L’Albero Stella era stato importante per Aenea e per me; un giorno ci sarei dovuto tornare. Ma non ora.
La Vecchia Terra? Sorpreso, udii con assoluta chiarezza la musica di quella sfera, nella voce di Aenea e nella mia, nel canto degli amici con cui eravamo stati in armonia a Taliesin. La distanza non significava niente, nel Vuoto che lega. Lì il tempo faceva invecchiare, ma non distruggeva. Però non sarei andato sulla Vecchia Terra. Non ora.
Udii decine di possibilità, decine di voci che volevo ascoltare di persona, persone da abbracciare e con cui piangere, ma la musica a cui ora reagii più intensamente era quella del mondo dove Aenea era stata torturata e uccisa. Pacem. Sede della Chiesa e covo dei nostri nemici. Due cose, capivo ora, diverse. Su Pacem non c’era niente di Aenea per me, tranne ceneri del passato.
Ma Aenea mi aveva chiesto di portare sulla Vecchia Terra le sue ceneri e di spargerle laggiù. Spargerle dove avevamo più riso e amato.
Pacem. Nel vortice d’energia del Vuoto, fuori dalla cella/scatola di Schrödinger, ma senza esistere in nessun luogo, se non come pura probabilità quantica, presi la decisione e mi teleportai su Pacem.
Il Vaticano è in rovina, come se vi fosse calato dal cielo il pugno di Dio in preda a una collera trascendente la comprensione umana. L’infinita città burocratica intorno al Vaticano è fatta a pezzi. Lo spazioporto è distrutto. I grandi viali sono scorificati e fusi e orlati di detriti. L’obelisco egiziano che un tempo si trovava al centro di piazza San Pietro è stato spezzato alla base, le decine e decine di colonne intorno allo spazio ovale della piazza sono crollate come tronchi di pietra. La cupola di San Pietro è distrutta, precipitata attraverso la loggia centrale e la grandiosa facciata, e giace in macerie sugli scalini infranti. Le mura del Vaticano sono crollate in centinaia di punti, mancano completamente per lunghi tratti. Gli edifici un tempo protetti fra quei medievali confini — il Palazzo apostolico, gli archivi segreti, le caserme delle guardie svizzere, l’ospizio di Santa Madre Teresa, gli appartamenti papali, la Cappella Sistina — sono tutti allo scoperto, schiacciati, bruciati, abbattuti, sparpagliati.
Castel Sant’Angelo da questa parte del fiume è stato scorificato. Il torreggiante cilindro, venti metri di pietra che si alzavano dalla gigantesca base quadrata, è fuso e ridotto a una montagnola di lava rappresa.
Vedo tutto questo mentre cammino lungo il viale di lastre in frantumi sul lato orientale del fiume. Davanti a me, il ponte Sant’Angelo è spezzato in tre tronconi e precipitato nel fiume. Nel letto del fiume, dovrei dire, perché pare che il Nuovo Tevere sia evaporato, lasciando vetro dove un tempo c’erano il fondo sabbioso e le rive. Qualcuno ha allestito alla buona un ponte di corde sul varco sommerso di detriti fra le rive.
È Pacem, non ho alcun dubbio. L’atmosfera sottile e fredda dà la stessa sensazione che dava quando padre de Soya, Aenea e io siamo stati lì, il giorno prima che la mia amata morisse, anche se allora pioveva e il cielo era grigio, mentre ora risplende in un tramonto che riesce a far sembrare belle perfino le macerie della cupola di San Pietro.
Camminare libero sotto il cielo aperto, dopo gli incalcolabili mesi di ermetica prigionia, è quasi soffocante. Tengo stretto a me il grafer come uno scudo, come un talismano, una Bibbia, e percorro, malfermo sulle gambe, il viale un tempo grandioso. Per mesi la mia mente ha condiviso ricordi di molti luoghi e di molte persone, ma gli occhi, i polmoni, le gambe, la pelle, hanno dimenticato la sensazione della vera libertà. Anche nella tristezza, provo una certa esultanza.
A livello superficiale, teleportarmi da solo era stato identico a quando Aenea mi teleportava con sé; ma a livello più profondo era stato molto diverso. Il lampo di luce bianca, la naturalezza del mutamento improvviso e il lieve smarrimento per la diversa pressione d’aria o gravità o luce erano stati identici. Ma stavolta avevo udito la luce, anziché vederla. Ero stato trasportato dalla musica delle stelle e della miriade di loro pianeti e avevo scelto io quello su cui volevo mettere piede. Non c’era stato sforzo da parte mia, nessuna grande spesa d’energia, a parte la necessità di concentrarmi e di scegliere con cura. E la musica non era svanita completamente, immaginai che non sarebbe mai svanita, anche ora risuonava in sottofondo, come venisse da musicisti che si esercitassero proprio al di là della collina per un concerto estivo serale.
Vedo segni di superstiti nello sfacelo che copre tutta la città. Nella dorata distanza, due carri di buoi si muovono all’orizzonte e sagome umane li seguono a piedi. Da questo lato del fiume vedo casupole, semplici edifici di mattoni fra i mucchi di pietra antica, una chiesa, un’altra chiesetta. Da qualche parte, molto lontano alle mie spalle, si spandono il profumo di una cena cucinata all’aperto e le inconfondibili risate di bambini che giocano.
Mentre mi giro verso il profumo e il rumore, un uomo spunta da dietro un cumulo di macerie che forse un tempo erano un posto di guardia all’ingresso di Castel Sant’Angelo. È un tipo piuttosto piccolo, svelto: viso seminascosto dalla barba, capelli raccolti a coda, ma occhi attenti. Porta un massiccio fucile a proiettili, del tipo un tempo usato per le cerimonie dalle guardie svizzere.
Ci fissiamo per un momento, l’uomo disarmato e indebolito che ha soltanto un grafer e l’abbronzato cacciatore con l’arma già pronta, e poi ciascuno riconosce l’altro. Non ho mai incontrato quell’uomo, né lui me, ma l’ho già visto nei ricordi di altri, tramite il Vuoto che lega, anche se la prima volta era in uniforme, portava l’armatura e non aveva la barba e l’ultima volta era nudo e sottoposto a tortura. Non so come faccia a riconoscermi, ma vedo il lampo che gli brilla negli occhi: depone il fucile e viene a stringermi la mano e il braccio.
«Raul Endymion!» esclama. «Il giorno è giunto! Grazie al cielo. Benvenuto.» Mi abbraccia, arretra, mi guarda di nuovo e sorride.
«Sei il caporale Kee» dico come uno sciocco. Ricordo più di tutto gli occhi così come li vedeva padre de Soya, mentre lui e Kee e il sergente Gregorius e il lanciere Rettig inseguivano Aenea e me, per anni, in tutto questo braccio della galassia.
«Ex caporale Kee» dice l’uomo e sorride. «Ora sono soltanto Bassin Kee, cittadino di Nuova Roma, membro della diocesi di Sant’Anna, cacciatore per il pasto di domani.» Scuote la testa e mi fissa. «Raul Endymion. Mio Dio. Alcuni pensavano che non saresti mai fuggito da quel maledetto arnese di Schrödinger.»
«Sai dell’ovoide di Schrödinger?»
«Certo» dice Kee. «Era parte del Momento Condiviso. Aenea sapeva dove ti avrebbero portato. Così lo sapevamo tutti. E naturalmente abbiamo percepito la tua presenza lì, tramite il Vuoto.»
All’improvviso sentii le vertigini e un po’ di nausea alla bocca dello stomaco. La luce, l’aria, la grande distanza fino all’orizzonte… L’orizzonte diventò instabile, come se lo guardassi da una piccola nave sopra un mare agitato, perciò chiusi gli occhi. Quando li riaprii, Kee mi sorreggeva per il braccio e mi aiutava a sedermi su una larga lastra bianca che pareva volata dalla cattedrale al di là del fiume vetrificato.
«Mio Dio, Raul» dice Kee «ti sei appena teleportato da lì? Non sei stato da nessun’altra parte?»
«Sì» rispondo. «No.» Traggo due respiri profondi. «Cos’è il Momento Condiviso?» Ripeto le parole come le ho udite, con l’iniziale maiuscola.
Il piccoletto mi scruta, sguardo luminoso e intelligente. Risponde con voce bassa. «Il Momento Condiviso di Aenea. Così lo chiamiamo, anche se ovviamente era più di un singolo momento. Tutti i momenti della sua tortura e della sua morte.»
«L’hai sentito anche tu?» esclamo. All’improvviso un pugno mi serra il cuore, ma non so se l’emozione sia gioia o terribile tristezza.
«Tutti l’hanno sentito» dice Kee. «Tutti l’hanno condiviso. Tutti, cioè, tranne coloro che la torturarono.»
«Tutti gli altri su Pacem?»
«Su Pacem. Su Lusus. Su Vettore Rinascimento. Su Marte, Qom-Riyadh, Rinascimento Minore, Tau Ceti Centro. Su Fuji, Ixion, Deneb Drei, Amarezza di Sibiatu. Sul mondo di Barnard, Bosco Divino, Mare Infinitum. Su Tsingtao Hsishuang Panna, Patawpha, Groombridge Dyson D.» Si interrompe e sorride della propria litania. «Su quasi ogni pianeta, Raul. E in luoghi fra i pianeti. Sappiamo che l’Albero Stella ha sentito il Momento Condiviso, tutte le biosfere Albero Stella l’hanno sentito.»
Batto le palpebre, sorpreso. «Ci sono altri Alberi Stella?»
Kee annuisce.
«E tutti quei pianeti… hanno condiviso il momento?» domando e già intuisco la risposta.
«Sì» mormora l’ex caporale Kee. «Tutti i luoghi visitati da Aenea, spesso in tua compagnia. Tutti i pianeti dove lasciò discepoli che hanno partecipato alla comunione e rinunciato al crucimorfo. Il suo Momento Condiviso, l’ora della sua morte, era come un segnale trasmesso e ritrasmesso per tutti quei pianeti.»
Mi strofino il viso. Mi sento intontito. «Allora solo chi aveva già preso la comunione o studiato con Aenea ha condiviso quel momento?»
Kee scuote la testa. «No, loro erano i transponder, le stazione relè. Hanno estratto dal Vuoto che lega il Momento Condiviso e l’hanno ritrasmesso a tutti.»
«A tutti?» ripeto stupidamente. «Anche alle decine e centinaia di miliardi che portano la croce della Pax?»
«Che portavano la croce» mi corregge Bassin Kee. «Molti di quei fedeli hanno deciso da allora di non portare su di sé un parassita del Nucleo.»
Comincio a capire. Gli ultimi istanti di Aenea erano stati qualcosa di più di parole e tortura, sofferenza e orrore… Io avevo percepito i suoi pensieri, condiviso la sua comprensione dei motivi del Nucleo, del vero parassitismo del crucimorfo, del cinico uso della morte degli esseri umani per alimentare le loro reti neurali, della bramosia di Lourdusamy per il potere, della perplessità di Mustafa, dell’assoluta mancanza di umanità di Albedo… Se tutti avevano condiviso lo stesso istante in cui avevo urlato e lottato nel serbatoio della mia prigione sulla nave torcia diretta all’esterno del sistema, allora quello era stato un luminoso e terribile momento per la specie umana. E ogni essere umano vivente aveva udito di sicuro le ultime parole di Aenea, "Ti amo, Raul", mentre le fiamme divampavano alte.
Il sole si avvia al tramonto. Raggi di luce dorata brillano fra le macerie sul lato ovest del fiume e lanciano un labirinto di ombre sulla riva orientale. La massa fusa di Castel Sant’Angelo scorre giù verso di noi come una montagna di vetro liquefatto. "Mi ha chiesto di spargere le sue ceneri sulla Vecchia Terra" penso. "E non posso fare nemmeno questo, per lei. La deludo anche dopo morta."
Guardo Bassin Kee. «Su Pacem? Non aveva discepoli su Pacem, quando… Oh.» Immediatamente prima della nostra carica in San Pietro, Aenea aveva mandato via padre de Soya, gli aveva chiesto di andarsene insieme con i frati, di mescolarsi tra la gente della città che così bene conosceva e di evitare la Pax, qualsiasi cosa fosse accaduto. Quando padre de Soya aveva protestato, Aenea aveva detto: "Chiedo solo questo, padre. E lo chiedo con amore e con rispetto". Padre de Soya era scomparso fuori nella pioggia. Ed era stato il relè di trasmissione, aveva portato a vari miliardi di persone su Pacem l’ultima sofferenza della mia amata e la comprensione.
«Oh» dico, guardando ancora Kee. «Ma l’ultima volta che ti ho visto… tramite il Vuoto… eri tenuto prigioniero in crio-fuga laggiù in quel…» Muovo con disgusto il braccio a indicare il cumulo fuso di Castel Sant’Angelo.
Kee annuisce di nuovo. «Ero in crio-fuga, infatti. Mi tenevano in magazzino a dormire, come una grossa fetta di carne in un freezer, in una cella sotterranea, non lontano da quella dove hanno assassinato Aenea. Ma ho sentito il Momento Condiviso. Ogni essere umano vivente lo sentì… addormentato, ubriaco, moribondo o perduto nella pazzia.»
Col cuore di nuovo spezzato dalla comprensione, posso solo guardare quell’uomo. Alla fine dico: «Come sei uscito? Da laggiù». Guardiamo tutti e due le macerie del quartier generale del Sant’Uffizio.
Kee sospira. «Pochissimo tempo dopo il Momento Condiviso ci fu una rivolta. Molte persone, la maggioranza qui su Pacem, non volevano avere più niente a che fare con i crucimorfi e con la Chiesa che li aveva impiantati. Alcuni erano ancora tanto cinici da fare quel commercio con il diavolo in cambio della risurrezione fisica, ma miliardi, centinaia di miliardi, solo nella prima settimana, cercarono la comunione e la libertà dalla croce del Nucleo. I lealisti della Pax tentarono di fermarli. Ci furono scontri, sommosse, guerre civili.»
«Di nuovo, come tre secoli fa, per la Caduta dei teleporter.»
«No, non è stato terribile come allora. Non dimenticare che, una volta imparato il linguaggio dei morti e dei vivi, è doloroso far male a un altro. I lealisti della Pax non avevano questa remora, è vero, ma erano in netta minoranza dappertutto.»
Col braccio indico quel mondo di macerie. «E questa la chiami remora? Dici che non è stato terribile come allora?»
«Non è il risultato della rivolta contro il Vaticano e la Pax e il Sant’Uffizio» replica Kee, torvo. «Tutto sommato, la ribellione non comportò grandi spargimenti di sangue. I lealisti fuggirono su navi Arcangelo. Ora il loro Nuovo Vaticano si trova su un pianeta chiamato Madhya, un vero cesso di pianeta, protetto da metà della vecchia Flotta e da alcuni milioni di lealisti.»
«Chi è stato, allora?» dico, guardando ancora la devastazione che ci circonda.
«Il Nucleo. I cloni Nemes distrussero la città e poi si impadronirono di quattro navi Arcangelo. Dopo la fuga dei lealisti, ci colpirono dallo spazio. Il Nucleo era incazzato duro. Probabilmente è ancora incazzato. Non ce ne frega niente.»
Poso con cura il grafer sulla pietra e mi guardo intorno. Altri uomini e donne escono dalle rovine, si fermano a rispettosa distanza da noi, ma ci guardano con grande interesse. Indossano abiti da lavoro e da caccia, non pelli d’orso o stracci. Sono chiaramente persone che vivono in un posto aspro, in tempi difficili, ma non dei selvaggi. Un bambino biondo mi saluta con la mano, timidamente. Ricambio il saluto.
«Non ho risposto alla tua domanda» dice Kee. «Le guardie mi rilasciarono, rilasciarono tutti i prigionieri, nella confusione di quella settimana, dopo il Momento Condiviso. Un mucchio di prigionieri in questo braccio della galassia scoprì che le porte si aprivano, quella settimana. Dopo la comunione… be’, è duro imprigionare o torturare qualcuno quando finisci per condividere il suo dolore tramite il Vuoto che lega. E da allora gli Ouster sono stati impegnatissimi a far rivivere i miliardi di ebrei e di musulmani e di altri popoli rapiti dal Nucleo e a trasportarli dai pianeti labirinto ai loro mondi natali.»
Rifletto un istante su queste parole. «Padre de Soya è sopravvissuto?» domando poi.
Kee sorride più largamente. «Puoi ben dirlo! È il nostro prete nella parrocchia di Sant’Anna. Ti conduco da lui. Ormai sa che sei qui. Sono solo cinque minuti di strada.»
De Soya mi abbraccia con tanta forza da farmi dolere le costole per un’ora. Indossa una comune tonaca nera e collare bianco. Sant’Anna non è la grande chiesa parrocchiale che abbiamo visto di sfuggita nel Vaticano, ma una piccola cappella di mattoni, in una zona sgomberata dalle macerie, sulla riva est. La parrocchia comprende un centinaio di famiglie che si procurano da vivere con l’agricoltura e la caccia in quello che era stato un ampio parco da questo lato dello spazioporto. Mi presentano alla maggior parte di quelle cento famiglie, mentre mangiamo all’aperto, nel luminoso spiazzo accanto al sagrato della chiesa. Pare che tutti mi conoscano, si comportano come se mi conoscessero di persona e sembrano tutti sinceramente contenti che sia vivo e che sia tornato al mondo dei vivi.
Mentre cala la sera, Kee, de Soya e io ci ritiriamo nella stanza privata del prete, un locale spartano comunicante con il retro della chiesa. Padre de Soya prende una bottiglia di vino e versa un bicchiere per ciascuno di noi.
«Ecco uno dei pochi vantaggi del crollo della civiltà come la conosciamo» dice. «Dovunque si scavi, si trovano cantine private piene di ottimi vini d’annata. Non è furto, è ritrovamento archeologico.»
Kee alza il bicchiere come per fare un brindisi, esita. «A Aenea?» propone.
«A Aenea» diciamo padre de Soya e io. Vuotiamo i bicchieri e de Soya versa altro vino.
«Quanto tempo sono stato fuori gioco?» domando. Il vino, come sempre, mi fa diventare rosso. Aenea mi prendeva in giro, per questo.
«Tredici mesi standard dal Momento Condiviso» risponde de Soya.
Scuoto la testa. Ho trascorso tutto quel tempo a scrivere la mia storia e ad aspettare la morte, in sessioni di lavoro di trenta ore o più, intervallate da qualche ora di sonno, e poi altre trenta o quaranta ore filate. Quella che gli scienziati del sonno chiamano corsa libera: perdita di ogni collegamento col ritmo circadiale.
«Avete contatti con altri pianeti?» domando. Guardo Kee e rispondo da solo alla mia domanda: «Sì, certo. Bassin mi parlava della reazione al Momento Condiviso su altri pianeti e del ritorno a casa dei miliardi di persone rapite».
«Alcune navi fanno scalo qui» dice de Soya. «Ma con la scomparsa delle Arcangelo, il viaggio interstellare richiede tempo. Templari e Ouster usano le navi-albero per trasportare a casa i profughi, ma agli altri non piace usare la propulsione Hawking, ora che sappiamo quanto sia dannosa al Vuoto che lega. E per quanto tutti si impegnino, pochissimi hanno imparato a udire la musica delle sfere tanto da muovere quel primo passo.»
«Non è così difficile» dico. Sorseggio il vino e ridacchio tra me. «È terribilmente difficile» mi correggo. «Scusi, padre.»
De Soya mi scusa con un cenno. «È molto difficile. Ci sono andato vicino un centinaio di volte, ma all’ultimo momento perdo sempre la concentrazione.»
Guardo il prete. «Lei è rimasto cattolico» dico alla fine.
Padre de Soya sorseggia il vino, da un antico bicchiere. «Non mi sono limitato a restare cattolico, Raul. Ho anche riscoperto cosa significa essere cattolico. Essere cristiano. Essere credente.»
«Anche dopo il Momento Condiviso di Aenea?» mi rendo conto che il caporale Kee, all’altro capo del tavolo, ci osserva. Le lampade a olio fanno danzare ombre sulle calde, rustiche pareti.
De Soya annuisce. «Avevo già riconosciuto la corruzione della Chiesa nel suo patto con il Nucleo» dice a voce molto bassa. «Le condivise intuizioni di Aenea hanno solo messo in risalto cosa significava per me essere umano e figlio di Cristo.»
Medito ancora su queste parole quando, un minuto più tardi, padre de Soya soggiunge: «Si parla di nominarmi vescovo, ma cerco di scoraggiare queste proposte. Ecco perché sono rimasto in questa regione di Pacem, anche se le comunità autosufficienti per la maggior parte si tengono lontano dalle vecchie aree urbane. Un’occhiata alle rovine della nostra bella tradizione al di là del fiume mi ricorda la follia di puntare troppo sulla struttura gerarchica».
«Allora non c’è nessun papa? Nessun Santo Padre?»
De Soya scrolla le spalle e ci versa altro vino. Dopo tredici mesi di cibo riciclato e niente alcolici, il vino mi va direttamente alla testa. «Monsignor Luca Oddi, sfuggito sia alla rivoluzione sia all’attacco del Nucleo, ha stabilito su Madhya il papato in esilio» dice padre de Soya, in tono brusco. «Non credo che nessuno nella defunta Pax, tranne i suoi immediati difensori e seguaci in quel sistema, lo onori come vero papa.» Sorseggia il vino. «Non è la prima volta che la Madre Chiesa ha avuto un antipapa.»
«E papa Urbano XVI?» domando. «È morto di attacco cardiaco?»
«Sì» dice Kee. Appoggia sul tavolo le braccia.
«Ed è stato risuscitato?»
«Non esattamente» dice Kee.
Guardo l’ex caporale e aspetto una spiegazione, ma Kee rimane in silenzio.
«Ho informato del tuo arrivo la gente che sta dall’altra parte del fiume» dice padre de Soya. «La risposta di Bassin dovrebbe risultare comprensibile da un momento all’altro.»
Infatti dopo qualche minuto la tenda all’ingresso della piccola dimora di de Soya si apre. Entra un uomo alto, in tonaca nera. Non è Lenar Hoyt. È una persona che non ho mai conosciuto, ma che ho l’impressione di conoscere bene: mani eleganti, viso allungato, occhi grandi e tristi, fronte alta, radi capelli grigi. Mi alzo per stringergli la mano, rivolgergli un inchino, baciargli l’anello, non so neanch’io cosa.
«Raul, ragazzo mio, ragazzo mio» dice padre Paul Duré. «Che piacere incontrarti. Siamo tutti emozionati per il tuo ritorno.»
L’anziano prete mi stringe la mano, una stretta decisa, e mi abbraccia per buona misura; poi va alla credenza di de Soya, come se fosse di casa, prende un boccale, pompa acqua nel lavello, sciacqua il boccale, si versa del vino e si siede di fronte a Kee, all’altro capo del tavolo.
«Stiamo aggiornando Raul su ciò che è accaduto nella sua assenza di un anno e un mese» dice padre de Soya.
«Mi sembra un secolo» dico. I miei occhi sono a fuoco su qualcosa molto al di là del tavolo e della stanza.
«Per me è stato altro che un secolo» dice il gesuita più anziano, padre Duré. Il suo modo di parlare è bizzarro, ha un certo fascino… un pianeta della Periferia, di lingua francese, forse? «Quasi tre secoli, per la precisione.»
«Ho visto cosa le facevano quando la risuscitavano» dico, con la sfrontatezza del vino nella voce. «Lourdusamy e Albedo la uccidevano, in modo che Hoyt rinascesse dal crucimorfo che spartivate.»
Padre Duré non ha ancora assaggiato il vino, ma guarda nel bicchiere come in attesa della transustanziazione. «Ancora e ancora» dice, in tono che pare più malinconico che altro. «Una vita davvero bizzarra, nascere solo per essere assassinato.»
«Aenea sarebbe d’accordo» dico. So che quei tre uomini sono amici e brave persone, ma non mi sento particolarmente ben disposto verso la Chiesa in generale.
«Sì» dice Paul Duré e alza il bicchiere in un brindisi silenzioso. Beve qualche sorso.
Bassin Kee riempie l’improvviso silenzio. «La maggior parte dei fedeli rimasti su Pacem vorrebbe avere padre Duré come nostro vero papa.»
Guardo l’anziano gesuita. Ne ho già viste di tutti i colori, perciò non mi esalto per la presenza di una leggenda, di un personaggio chiave dei Canti. Come sempre accade quando ci si trova davanti alla persona, uomo o donna, che ha raggiunto la celebrità o dato origine alla leggenda, noto un qualcosa di umano che rende la realtà un po’ inferiore al mito. In questo caso, i ciuffi di peli grigi che spuntano dalle grandi orecchie del prete.
«Papa Teilhard II?» dico. Ricordo che padre Duré, papa Teilhard I, è stato secondo l’opinione generale un ottimo pontefice, 279 anni fa, per un breve periodo, prima di essere assassinato per la prima volta.
Duré accetta altro vino da padre de Soya e scuote la testa. Ha negli occhi la stessa tristezza che vedo in quelli di de Soya, guadagnata e sentita, non ostentata per entrare nei panni del personaggio.
«Basta papato, per me» dice l’anziano gesuita. «Trascorrerò il resto dei miei anni nel tentativo di imparare gli insegnamenti di Aenea, ascoltare con grande impegno le voci dei morti e dei vivi, e intanto familiarizzarmi di nuovo con le lezioni di umiltà di Nostro Signore. Per anni ho fatto l’archeologo e l’intellettuale. È tempo di riscoprirmi come semplice prete di parrocchia.»
«Amen» dice de Soya. Fruga nella credenza, trova un’altra bottiglia. L’ex capitano d’astronave della Pax pare un po’ alticcio.
«Non portate più il crucimorfo?» domando, rivolgendomi a tutti e tre gli uomini, ma guardando Duré.
Tutti e tre paiono attoniti. Duré dice: «Solo i pazzi e i cinici irrecuperabili portano ancora quel parassita, Raul. Pochissimi, su Pacem. Pochissimi, su ognuno dei pianeti dove è stato udito il Momento Condiviso di Aenea». Si tocca il petto, come ricordando. «Per me non è stata una scelta, a dire il vero. Sono rinato, al culmine degli scontri, in una delle culle di risurrezione del Vaticano. Ho aspettato che Lourdusamy e Albedo venissero a trovarmi come sempre, per uccidermi come sempre. Invece è giunto quest’uomo» indica Kee, che china la testa e si versa altro vino «aprendosi la strada, con i ribelli, in tuta da combattimento e con antichi fucili. Mi ha portato un calice di vino. Sapevo cos’era. Avevo condiviso il Momento.»
Fisso l’anziano prete. "Anche in stato di quiescenza nella matrice di memoria a bolla del crucimorfo supplementare?" penso. "Anche durante la risurrezione?"
Come se mi leggesse lo sguardo, padre Duré annuisce. «Anche allora» dice. Mi guarda negli occhi e mi chiede: «Ora cosa farai, Raul Endymion?».
Esito solo un istante. «Sono venuto su Pacem per trovare le ceneri di Aenea… mi ha chiesto… una volta mi ha chiesto…»
«Sappiamo tutto, figliolo» dice a bassa voce padre de Soya.
«Comunque» riprendo, appena riesco a vincere il groppo in gola «non ho nessuna probabilità di trovarle, in ciò che resta di Castel Sant’Angelo. Perciò andrò avanti con l’altro mio programma prioritario.»
«Sarebbe?» domanda padre Duré, con infinita gentilezza.
All’improvviso in quella stanza dalla luce fioca, col il rozzo tavolo e il vecchio vino e l’odore maschile di sudore pulito tutt’intorno, vedo nel vecchio gesuita la potente realtà dietro i mitici Canti di zio Martin. Capisco senza ombra di dubbio che costui era davvero l’uomo di fede che si era crocifisso non una sola, ma ripetute volte, all’albero tesla carico di fulmini per non sottomettersi alla falsa croce del crucimorfo. Quest’uomo era un vero difensore della fede. Era un uomo che a Aenea sarebbe piaciuto conoscere, un uomo con cui la mia amata avrebbe gradito parlare, discutere. In quel momento sento la perdita di Aenea, con rinnovato dolore, tanto che sono costretto a guardare nel bicchiere per nascondere gli occhi allo sguardo di Duré e degli altri due.
«Una volta Aenea mi disse di avere dato alla luce un figlio» riesco a dire e mi interrompo. Non riesco a ricordare se questo fatto era compreso nella gestalt di ricordi e di pensieri trasmesso nel Momento Condiviso. Se era compreso, loro sanno già tutto. Lancio un’occhiata agli altri, ma i due preti e l’ex caporale aspettano educatamente che continui. Non sapevano niente.
«Cercherò quel bambino» continuo. «Lo troverò e collaborerò ad allevarlo, se mi sarà permesso.»
I due preti si guardano, meravigliati. Kee fissa me. «Non sapevamo di questo figlio» dice de Soya. «Sono stupefatto. Avrei scommesso qualsiasi cosa che tu eri l’unico uomo della sua vita, il suo unico amore. Non ho mai visto una giovane coppia così felice.»
«C’era un altro» dico. Alzo il bicchiere quasi con violenza per mandare giù le ultime gocce di vino e lo trovo vuoto. Lo poso piano sul tavolo. «C’era un altro» ripeto, con meno disagio ed enfasi, stavolta. «Ma questo non conta. Il bambino, il figlio, lui è importante. Voglio trovarlo, se posso.»
«Hai idea di dove si trovi?» domanda Kee.
Sospiro e scuoto la testa. «Nessuna. Ma mi teleporterò su ogni pianeta della Pax e della Periferia, su ogni mondo della galassia, se necessario. Al di là della galassia…» Mi interrompo. Sono ubriaco e l’argomento è troppo importante per parlarne in stato di ebrezza. «Comunque, comincerò a fare il giro, fra qualche minuto.»
Padre de Soya scuote la testa. «Sei sfinito, Raul. Passa qui la notte. Bassin ha un letto libero, a casa sua, qui accanto. Ci riposiamo tutti stanotte e domani ti saluteremo.»
«Devo andarmene subito» dico. Comincio ad alzarmi, per mostrare che riesco ancora a ragionare e ad agire con decisione. La stanza si inclina come se all’improvviso il terreno fosse sprofondato sul lato sud della piccola casa di padre de Soya. Mi afferro al tavolo per reggermi, quasi lo manco, mi risiedo.
«Forse è meglio domattina» dice padre Duré, alzandosi e toccandomi la spalla.
«Sì» dico. Mi alzo di nuovo, trovo che i tremori del terreno sono un po’ diminuiti. «Meglio domattina.» Stringo di nuovo la mano a tutti. Due volte. Sono disperatamente prossimo al pianto, non per l’angoscia, stavolta, anche se l’angoscia è sempre sullo sfondo, come la sinfonia delle sfere, ma per il puro e semplice sollievo della loro compagnia. Sono stato da solo per tanto di quel tempo…
«Vieni, amico mio» dice l’ex caporale Bassin Kee dei marines della Pax e delle guardie svizzere, mettendomi la mano sulla spalla; con l’ex papa Teilhard e me va nella sua piccola stanza, dove crollo su uno dei due lettini. Mentre perdo conoscenza, sento che qualcuno mi toglie gli stivali. Penso che sia l’ex papa.
Avevo dimenticato che Pacem ha un giorno di sole diciannove ore standard. Le notti sono troppo brevi. Al mattino sono ancora esilarato per la libertà ritrovata, ma ho mal di testa, mal di schiena, mal di stomaco, mal di denti, mal di tutto, e sono sicuro che un branco di piccole creature pelose mi si è stabilito in fondo alla bocca.
Il villaggio dietro la cappella ferve d’attività mattutina. Tutto è troppo rumoroso. I fuochi per cucinare scoppiettano. Donne e bambini si impegnano nei lavori domestici, gli uomini escono dalle semplici case e hanno lo stesso aspetto che offro io al mondo: un’ombra di barba, occhi arrossati, sguardo da rospo.
I due preti però sono in buona forma. Una decina di parrocchiani lascia la cappella e capisco che de Soya e Duré hanno celebrato messa mentre io ancora russavo. Arriva Bassin Kee, mi saluta a voce troppo alta e mi mostra un piccolo edificio, il bagno degli uomini. L’impianto igienico consiste in acqua pompata da un serbatoio posto in alto, che ci si può versare addosso per una breve e rapida doccia tanto fredda da gelare il midollo. Il mattino ha il freddo tipico di Pacem, molto simile ai mattini a ottomila metri di T’ien Shan; la doccia mi sveglia del tutto in meno di un secondo. Kee mi ha portato abiti puliti: calzoni da lavoro di cotone a coste, camicia di lana blu ben tessuta, alta cintura, robusti stivali molto più comodi di quelli che ho testardamente portato per più di un anno standard nella scatola di Schrödinger. Rasato, pulito, cambiato d’abito, con in mano una tazza di caffè fumante che la giovane moglie di Kee mi ha offerto, grafer a tracolla, mi sento un uomo nuovo. Il mio primo pensiero, in quell’ondata di benessere, è: "A Aenea piacerebbe questo fresco mattino", e subito per me le nubi oscurano di nuovo il sole.
Padre Duré e padre de Soya mi fanno compagnia su un lastrone che guarda sul fiume scomparso. Le macerie del Vaticano sembrano rovine dei tempi antichi. Vedo luccicare nella vivida luce del mattino i parabrezza di autoveicoli in movimento e scorgo di tanto in tanto qualche VEM che vola alto sulla città distrutta; ancora una volta mi rendo conto che questa non è una ripetizione della Caduta, perfino Pacem non è ricaduto nella barbarie. Kee mi ha spiegato che il caffè bevuto quel mattino proviene dalle città agricole occidentali, rimaste quasi intatte. Il Vaticano e le macerie della città amministrativa assomigliano più a una circoscritta zona disastrata con i superstiti che tentano di ricostruire sulle rovine di un terremoto o di un uragano.
Kee torna da noi e porta parecchie focacce calde per colazione; tutti e quattro mangiamo in silenzio, spazziamo via qualche briciola di tanto in tanto e sorseggiamo il caffè, mentre il sole si fa più alto dietro di noi e si riflette sulle numerose colonne di fumo dei fuochi di bivacco o dei fornelli da cucina.
«Sto cercando di capire questo nuovo modo di vedere le cose» dico alla fine. «Qui su Pacem siete in pratica isolati, rispetto ai giorni della Pax, eppure siete informati di ciò che accade altrove, su altri pianeti.»
Padre de Soya annuisce. «Come tu puoi toccare il Vuoto per ascoltare il linguaggio dei vivi, anche noi possiamo metterci in contatto con coloro che conosciamo e abbiamo a cuore. Per esempio, stamane ho toccato i pensieri del sergente Gregorius, su Mare Infinitum.»
Mentre ascoltavo la musica delle sfere, prima di teleportarmi, avevo udito anch’io i caratteristici pensieri di Gregorius, ma dico: «Sta bene?».
«Sta bene» conferma de Soya. «I bracconieri e i contrabbandieri e i ribelli d’alto mare hanno rapidamente isolato i pochi lealisti della Pax, anche se gli scontri fra vari avamposti militari hanno provocato gravi danni a molte piattaforme civili. Gregorius è diventato una sorta di sindaco locale, o governatore, delle regioni del litorale mediano. Del tutto controvoglia, devo dire. Il sergente non ha mai avuto interesse per il comando, altrimenti sarebbe diventato ufficiale, già molti anni fa.»
«A proposito di comando» dico «chi è al comando di… tutto questo?» Indico le rovine, la lontana autostrada con gli autoveicoli in movimento, il VEM da trasporto che si avvicina alla riva est.
«In realtà tutto il sistema di Pacem è sotto il governo temporaneo di un ex PFE della Pax Mercatoria, un certo Kenzo Isozaki» dice padre de Soya. «Il quartier generale si trova nelle rovine del vecchio toroide Mercatorio, ma Isozaki visita di frequente il pianeta.»
Non nascondo la sorpresa. «Isozaki?» dico. «L’ultima volta che sono incappato in lui, era coinvolto nell’attacco alla biosfera Albero Stella.»
«Infatti» conferma de Soya. «Ma quando si è verificato il Momento Condiviso, l’attacco era ancora in atto. Ci fu molta confusione. Elementi della Hotta della Pax si raccolsero intorno a Lourdusamy e ai suoi, mentre altri, alcuni guidati da Kenzo Isozaki che aveva il titolo di comandante dell’Ordine dei cavalieri di Gerusalemme, si batterono per fermare il massacro. I lealisti mantennero quasi tutte le navi Arcangelo, visto che per usarle era necessaria la risurrezione. Isozaki riportò nel sistema di Pacem più di cento vecchie navi torcia a propulsione Hawking e respinse gli ultimi assalitori del Nucleo.»
«È un dittatore?» domando, senza grande interesse. Anche se lo fosse, non mi riguarda.
«Per niente» dice Kee. «Isozaki amministra pro tempore il pianeta e governa con l’aiuto dei consigli di cantone regolarmente eletti. È molto abile nelle questioni logistiche, proprio ciò che ci occorre. Intanto le amministrazioni locali vanno avanti abbastanza bene. Per la prima volta in questo sistema c’è vera democrazia. Sciatta, ma funziona. Penso che Isozaki cerchi di creare una sorta di sistema commerciale capitalista-con-coscienza, per quando cominceremo a muoverci liberamente nel vecchio spazio della Pax.»
«Mediante il libero teletrasporto?»
Gli altri tre annuiscono.
Scuoto la testa. Non è facile immaginare il prossimo futuro: miliardi, centinaia di miliardi di persone libere di spostarsi di pianeta in pianeta, senza veicoli spaziali né teleporter. Centinaia di miliardi in grado di mettersi in contatto l’un con l’altro, toccando col cuore e la mente il Vuoto che lega. Sarà come al culmine della Rete dei Mondi dell’Egemonia, senza la facciata del Nucleo dei teleporter e dei trasmettitori astrotel. No, mi ricredo, non sarà affatto come ai tempi dell’Egemonia, sarà qualcosa di completamente diverso. Qualcosa che non ha precedenti nell’esperienza umana. Aenea ha cambiato tutto per sempre.
«Parti oggi, Raul?» domanda padre Duré, con la sua morbida cadenza francese.
«Appena terminato quest’ottimo caffè» rispondo. Comincio a sentire il calore del sole sulle braccia nude e sulla nuca.
«Dove vai?» domanda padre de Soya.
Apro bocca per rispondere, la chiudo. Mi accorgo di non averne la minima idea. Dove cercherò il figlio di Aenea? E se l’osservatore ha portato il bambino, o bambina, in un remoto sistema solare che non ho mai visto e che quindi non posso raggiungere? E se è tornato sulla Vecchia Terra, posso davvero teleportarmi a centosessantamila anni luce di distanza? Aenea l’ha fatto. Ma forse ha avuto l’aiuto dei Leoni e Tigri e Orsi. Riuscirò un giorno a sentire quelle voci nel complesso coro del Vuoto? Mi pare tutto troppo smisurato e indistinto e irrilevante.
«Non so dove andrò» dico, con voce da bambino sperduto. «Volevo andare sulla Vecchia Terra, perché Aenea desiderava che… le sue ceneri… ma…» Imbarazzato ed emozionato, indico la montagna di pietra fusa che fu Castel Sant’Angelo. «Forse tornerò su Hyperion» riprendo. «A trovare Martin Sileno.» "Prima che muoia" aggiungo tra me.
Ci alziamo, beviamo le ultime gocce di caffè ormai freddo, spazziamo le briciole delle deliziose focaccine. A un tratto sono colpito da un ovvio pensiero. «Qualcuno di voi vuole venire con me?» domando. «O andare da qualche parte? Penso di ricordare come ci si teletrasporta, ed Aenea ci portava con lei semplicemente tenendoci per mano. Anzi, teleportava l’intera Yggdrasill, solo con la forza di volontà.»
«Se vai su Hyperion» dice padre de Soya «avrei piacere di accompagnarti. Ma prima ti devo mostrare una cosa. Scusateci, padre Duré, Bassin.»
Seguo padre de Soya nel villaggio e nella sua piccola chiesa. Nella sacrestia, larga appena quanto basta a contenere un guardaroba di legno per i paramenti e il piccolo altare secondario con le ostie e il vino, il prete scosta la tenda di una nicchia e ne toglie un corto cilindro metallico, più piccolo di un thermos da caffè. Me lo porge; allungo la mano, sto quasi per prenderlo e all’improvviso mi blocco come impietrito e non riesco a toccarlo.
«Sì» dice de Soya. «Le ceneri di Aenea. Tutto ciò che siamo riusciti a ricuperare. Non molto, purtroppo.»
Mi tremano le dita, ancora non riesco a toccare l’opaco cilindro metallico. Balbetto: «Come? Quando?».
«Prima dell’attacco finale del Nucleo» risponde piano de Soya. «Alcuni di noi, che liberavano i prigionieri, ritennero prudente rimuovere i resti cristiani della tua amica. C’era chi voleva conservarli come sacra reliquia, inaugurando un altro culto. Avevo la netta impressione che Aenea non avrebbe approvato. Sbagliavo, Raul?»
«No, non sbagliava» dico. La mano ora mi trema visibilmente. Non riesco ancora a toccare il cilindro e ho difficoltà a parlare. «No, assolutamente. Avrebbe detestato una cosa del genere. Avrebbe maledetto la sola idea. Non so quante volte abbiamo discusso la tragedia dei buddhisti che trattavano il Buddha come un dio e i suoi resti come reliquie. Anche il Buddha chiese che il suo corpo fosse cremato e le sue ceneri sparse, in modo che…» Non riesco più a proseguire.
«Sì» dice de Soya. Prende dall’armadio una borsa di tela nera e vi depone il cilindro. Si mette a tracolla la borsa. «Posso portarlo io, se andiamo via insieme.»
«Grazie.» Non riesco a dire altro. Non posso conciliare con quel piccolo cilindro metallico la vita e l’energia di Aenea, la sua pelle e i suoi vividi occhi e il suo profumo di pulito, il suo tocco e la sua risata e la sua voce e i suoi capelli e tutta la sua presenza fisica. Abbasso la mano prima che de Soya veda quanto forte trema.
«Pronto a partire?» dico infine.
De Soya annuisce. «Vorrei solo dire ad alcuni amici qui al villaggio che starò via per qualche giorno. Ti sarà possibile lasciarmi qui, più avanti, nel viaggio per… per dovunque andrai?»
Rimango un po’ sorpreso. Ma certo che sarà possibile. Avevo pensato al mio commiato odierno come a un viaggio conclusivo, interstellare. Ma finché avrò vita, Pacem, come qualsiasi altro posto dell’universo, sarà sempre lontano da me solo un passo. "Se ricordo come udire la musica delle sfere e teleportarmi di nuovo" penso. "Se riesco a portare con me un altro. Se non si è trattato di un dono di una sola volta, che ho già perduto senza saperlo."
Ora tremo in tutto il corpo. Mi dico che è solo colpa del troppo caffè e rispondo con voce rotta: «Sì, certo. Mentre lei si prepara, vado a fare due chiacchiere con padre Duré e con Bassin».
L’anziano gesuita e il giovane militare sono ai margini di un piccolo campo di mais e discutono se è il momento migliore per raccogliere le pannocchie. Duré ammette che propende per raccoglierle subito soprattutto perché adora le pannocchie abbrustolite. I due mi sorridono appena mi avvicino. «Padre de Soya viene con te?» domanda Duré.
Rispondo con un cenno di assenso.
«Per favore, porgi a Martin Sileno i miei più calorosi saluti» dice il gesuita. «Lui e io abbiamo condiviso per via indiretta alcune interessanti esperienze, molto tempo fa, a pianeti di distanza. Ho sentito parlare dei suoi Canti, ma sono riluttante a leggerli, confesso.» Sorride. «Se non sbaglio, le leggi dell’Egemonia sulla diffamazione a mezzo stampa sono cadute in prescrizione.»
«Credo che abbia lottato per restare in vita tutto questo tempo, al solo scopo di terminare quei Canti» dico piano. «Ora non li terminerà mai.»
Padre Duré sospira. «Nessuna vita è lunga abbastanza per chi vuole creare, Raul. O per chi vuole semplicemente capire se stesso e la propria vita. Forse è la maledizione di appartenere alla specie umana, ma è anche una benedizione.»
«In che senso?» domando. Ma prima che Duré possa rispondermi, padre de Soya e alcuni abitanti del villaggio ci raggiungono e c’è un brusio di discussioni e di saluti e di inviti a tornare. Guardo la sacca nera: il prete vi ha messo dell’altro, oltre all’urna con le ceneri di Aenea.
«Una tonaca pulita» dice de Soya, vedendo la direzione del mio sguardo. «Biancheria di ricambio. Calzini. Alcune pesche. La mia Bibbia e il messale e l’occorrente per dire messa. Non so quando tornerò.» Indica la gente che si affolla intorno a noi. «Ho dimenticato come avvenga esattamente. Occorre più spazio?»
«Non credo. Lei e io dovremmo essere fisicamente a contatto, forse. Almeno per il primo tentativo.» Mi giro, stringo la mano a Kee e a padre Duré. «Grazie di tutto.»
Kee sorride e arretra come se stessi per sollevarmi sui gas di scarico di un razzo e lui non volesse bruciarsi. Padre Duré mi stringe la spalla un’ultima volta. «Penso che ci rivedremo, Raul Endymion» dice. «Ma forse non prima di un paio d’anni.»
Non capisco, ho appena promesso di riportare padre de Soya nel giro di qualche giorno. Ma annuisco come se avessi capito, stringo di nuovo la mano al gesuita e mi scosto.
«Dobbiamo tenerci per mano?» dice de Soya.
Metto la mano sulla spalla del prete, proprio come ha fatto Duré un attimo prima nei miei riguardi, e controllo che il grafer sia appeso alla cinghia. «Così dovrebbe andare bene.»
«Omofobia?» dice de Soya, con un sorriso birichino.
«Riluttanza a fare la figura da sciocco più spesso del necessario» replico. Chiudo gli occhi, quasi sicuro che stavolta la musica delle sfere non sarà lì, quasi sicuro di avere dimenticato completamente come muovere quel passo nel Vuoto. "Se non altro" penso "qui il caffè e la conversazione sono buoni, se devo restarci per sempre."
La luce bianca ci circonda e ci racchiude.
Mi ero fatto l’idea che padre de Soya e io saremmo emersi nella città abbandonata di Endymion, forse proprio accanto alla torre del vecchio poeta; ma quando, battendo le palpebre, si estinse il bagliore del Vuoto, ci trovammo nel buio fitto, in una pianura ondulata, col vento che sibilava nell’erba che a me arrivava al ginocchio e al prete a mezza coscia.
«Ce l’abbiamo fatta?» domandò con entusiasmo il gesuita. «Siamo su Hyperion? Non mi pare di riconoscerlo, ma a quel tempo vidi solo alcune zone del continente settentrionale e da allora sono trascorsi più di undici anni. È proprio Hyperion? La gravità sembra quella che ricordo. L’aria è… più dolce.»
Per qualche istante lasciai che gli occhi si abituassero alla notte. «Siamo proprio su Hyperion» dissi poi. «Vede le costellazioni? Quella là è il Cigno. Laggiù ci sono i Gemelli. Quell’altra in realtà si chiama Acquario, ma nonna diceva a noi bambini che era il Carro di Raul, dal carretto che mi tiravo sempre dietro.» Inspirai a fondo e guardai di nuovo la pianura ondulata. «Questo era uno dei nostri punti di accampamento preferiti» continuai. «Della nostra carovana di nomadi. Quando ero bambino.» Piegai il ginocchio per esaminare il terreno, alla scarsa luce delle stelle. «Stessi segni di pneumatici. Vecchi di qualche settimana. Le carovane passano ancora da queste parti, immagino.»
Con un fruscio di tonaca nell’erba, de Soya andava avanti e indietro, agitato come un predatore notturno in gabbia. «A che distanza siamo?» domandò. «Possiamo raggiungere a piedi la residenza di Martin Sileno?»
«Circa quattrocento chilometri. Ci troviamo nella parte orientale della brughiera, a sud del Becco. Zio Martin sta nelle alture pedemontane dell’altopiano punta d’Ala.» Dentro di me, trasalii: per indicare il vecchio poeta avevo usato l’affettuoso nomignolo tipico di Aenea.
«Stia dove vuole» disse con impazienza padre de Soya. «Da quale parte andiamo?»
Era pronto a iniziare la camminata, ma lo fermai, mettendogli di nuovo la mano sulla spalla. «Non credo sia necessario andare a piedi» dissi piano. Qualcosa nascondeva le stelle a sudest: malgrado il sibilo del vento, udivo il ronzio acuto di turboventilatori. Qualche secondo dopo, scorgemmo le palpitanti luci di navigazione, rossa e verde, di uno skimmer che girava a nord sulla prateria e oscurava il Cigno.
«Buon segno?» domandò de Soya. Sentii che si irrigidiva un poco.
Scrollai le spalle. «Quando vivevo qui, non sarebbe stato buon segno» risposi. «Quasi tutti gli skimmer appartenevano alla Pax. Al servizio di sicurezza della Pax, per essere esatti.»
Aspettammo ancora solo qualche secondo. Lo skimmer atterrò, il ronzio delle turbine si affievolì e cessò, la bolla anteriore di sinistra girò sui cardini e si aprì. Ne uscì un fiotto di luce. Vidi la pelle azzurra, gli occhi azzurri, il moncherino del braccio sinistro, la destra alzata in segno di saluto.
«Buon segno» dissi.
«Come sta?» domandai ad A. Bettik, mentre volavamo in direzione sudest, a trecento metri di quota. Dallo schiarirsi dell’orizzonte sopra l’altopiano punta d’Ala calcolai che mancasse un’ora all’alba.
«Sta per morire» rispose l’androide. Per un poco, allora, volammo in silenzio.
A. Bettik mi era sembrato contento di rivedermi, anche se, quando l’avevo abbracciato, aveva mostrato un certo impaccio. Gli androidi non erano mai a loro agio per simili manifestazioni emotive nei loro riguardi da parte degli esseri umani per il cui servizio erano stati biocostruiti. Nel breve tempo del volo, gli rivolsi quante più domande potevo.
Mi espresse subito il suo cordoglio per la morte di Aenea e questo mi diede l’opportunità di rivolgergli la domanda che più mi tormentava: «Hai sentito il Momento Condiviso?».
«Non esattamente, signor Endymion» rispose A. Bettik, cosa che non mi chiarì nulla. Ma poi A. Bettik ci aggiornò sugli ultimi tredici mesi standard su Hyperion.
Martin Sileno era stato, come Aenea già sapeva, il trasponder relè del Momento Condiviso. Tutti, sul mio pianeta natale, l’avevano sentito. Per la maggior parte, cristiani rinati e militari della Pax avevano disertato immediatamente, avevano cercato la comunione per liberarsi del parassita crucimorfo ed evitato i pochi lealisti della Pax. Zio Martin aveva messo a disposizione il vino e il sangue, l’uno e l’altro dalla sua provvista personale. Da tempo ammassava il vino e conservava decilitri del proprio sangue, fin dal tempo della sua comunione con la decenne Aenea, duecentocinquant’anni prima.
I pochi lealisti della Pax erano fuggiti nelle tre astronavi rimaste e la città da loro occupata per ultima, Port Romance, era stata liberata quattro mesi dopo il Momento. Dal suo ininterrotto ritiro nella città universitaria di Endymion, zio Martin aveva cominciato a trasmettere vecchi ologrammi di Aenea, una Aenea giovanissima come non l’avevo mai conosciuta, che spiegava come usare il nuovo accesso al Vuoto che lega e lanciava appelli contro la violenza. I milioni di indigeni e di ex fedeli della Pax, che cominciavano a scoprire la voce dei propri morti e il linguaggio dei vivi, non contravvennero ai suoi desideri.
A. Bettik mi disse pure che adesso in orbita c’era solo una gigantesca nave-albero dei templari, la Sequoia sempervirens, comandata dalla Vera Voce dell’Albero Stella Ket Rosteen, con a bordo parecchi nostri amici, compresi Rachel, Theo, la Dorje Phamo, il Dalai Lama, gli Ouster Navson Hamnim e Sian Quintana Ka’an. Anche George Tsarong e Jigme Norbu erano sulla nave. Rosteen aveva chiesto al vecchio poeta il permesso di atterrare per due giorni, disse A. Bettik, ma Sileno aveva rifiutato: non voleva vedere né loro né altri, finché non fossi arrivato io.
«Io?» ripetei, sorpreso. «Martin Sileno sapeva che sarei arrivato?»
«Naturalmente» rispose A. Bettik e non aggiunse spiegazioni.
«Come hanno fatto, Rachel e la Dorje Phamo e gli altri, a salire sulla nave-albero?» domandai. «La Sequoia sempervirens ha fatto tappa sul mondo di Barnard e su Vitus-Gray-Balianus B e gli altri sistemi per raccoglierli?»
«Per quanto mi risulta, signor Endymion, gli Ouster hanno viaggiato sulla nave-albero e sono arrivati da ciò che resta della biosfera Albero Stella da noi visitata. Gli altri, come mi è dato di capire dalle sempre più frustrate trasmissioni radio del signor Rosteen al signor Sileno, si sono teleportati sulla nave, proprio come lei si è teleportato qui da noi.»
Mi drizzai a sedere. Era una novità sorprendente. Per non so quale ragione, avevo ritenuto di essere l’unico tanto intelligente, tanto benedetto o tanto quel che vi pare ad avere imparato il trucco per teleportarsi. Ora scoprivo che Rachel e Theo e l’anziana badessa avevano fatto come me, e il giovane Dalai Lama… Be’, un Dalai Lama, non c’era da stupirsi, e Rachel e Theo erano stati i primi discepoli di Aenea, ma George e Jigme? Mi sentii un po’ ridimensionato, lo ammetto, ma anche entusiasta per la notizia. Migliaia di altri, forse per primi quelli che Aenea aveva conosciuto e toccato e ammaestrato di persona, erano sul punto di compiere il primo passo. E poi… La mente mi vacillò al pensiero di tutti quei miliardi di persone che viaggiavano liberamente dovunque desiderassero.
Mentre il cielo a est dei picchi si schiariva rapidamente, atterrammo nella città abbandonata. Saltai giù dallo skimmer, tenendo contro il fianco il grafer, e per l’impazienza di vedere Martin Sileno salii di corsa i gradini della torre, lasciando indietro l’androide e il prete. Il vecchio poeta sarà felice di vedermi, mi dissi, e mi sarà grato per l’impegno nel soddisfare tutte le sue impossibili richieste — avevo salvato Aenea dalla prima imboscata della Pax nella valle delle Tombe del Tempo, poi collaborato a distruggere la Pax, a rovesciare la corrotta Chiesa, a fermare lo Shrike in modo che non facesse male a Aenea o non assalisse la specie umana — proprio come lui aveva chiesto, quell’ultima sera di sbronza insieme, più di dieci anni standard fa. Doveva essere di sicuro felice e riconoscente.
«Ci hai messo un fottuto mucchio di tempo per portare qui quel tuo culo scansafatiche» disse la mummia avvolta nella rete di tubi e cavetti di supporto vita. «Credevo di dovere venire a prenderti e trascinarti qui da dove te ne stavi a poltrire come una fottuta checca col sussidio del governo del XXI secolo.»
L’emaciata creatura nel letto a cuscino d’aria sospeso al centro di tutte quelle apparecchiature, monitor, respiratori e infermiere androidi non aveva l’aspetto dell’anziano signore ringiovanito dal trattamento Poulsen che avevo salutato tempo fa, quasi dieci dei miei anni e solo due di veglia dei suoi. Quello era un cadavere che avevano trascurato di seppellire. Anche la voce era una ricostruzione elettronica dei suoi ansiti e rantoli subvocalizzati.
«Hai finito di tenere spalancata quella fottuta bocca o vuoi comprare un altro biglietto per il baraccone dei fenomeni?» disse il sintetizzatore vocale posto sopra la testa della mummia.
«Mi scusi» borbottai, sentendomi come un bambino screanzato sorpreso a fissare spudoratamente.
«Con le scuse mi ci pulisco il culo» disse il vecchio poeta. «Ti decidi a fare rapporto o te ne stai solo lì come il fottuto bifolco che sei?»
«Rapporto?» dissi, allargando le mani e posando su un tavolino il grafer. «Credo che conosca già le cose essenziali.»
«Essenziali?» ruggì il sintetizzatore, interpretando il torrente di colpi di tosse e di rantoli. «Che cazzo ne sai tu delle cose essenziali, bamboccio?» Le infermiere androidi si erano frettolosamente allontanate.
Provai uno scatto d’ira. Forse l’età aveva imputridito il cervello del vecchio bastardo, non solo le sue buone maniere, se mai le aveva avute. Dopo un minuto di silenzio rotto solo dal raspio dei mantici meccanici sotto il letto sospeso, mantici che pompavano l’aria dentro e fuori degli inutili polmoni del moribondo, dissi: «Rapporto. D’accordo. Le sue richieste sono state in gran parte soddisfatte, signor Sileno. Aenea ha messo fine al dominio della Pax e della Chiesa. Lo Shrike pare sia scomparso. L’universo umano è cambiato per sempre».
«L’universo umano è cambiato per sempre» mi prese in giro il vecchio poeta, usando il sintetizzatore in un tentativo di falsetto sarcastico. «Cazzo, ho forse chiesto a te, o alla ragazza, di cambiare per sempre il fottuto universo, merdaccia boia?»
Ripensai alla nostra conversazione, proprio lì, una decina di anni prima. «No» ammisi infine.
«Ah, ci siamo» ringhiò il vecchio poeta. «Le tue cellule cerebrali ricominciano a dare segni di vita. Cristo, ragazzo, penso che quella scatola per figliate di gatti di Schrödinger ti abbia fatto diventare anche più stupido di prima.»
Rimasi in silenzio ad aspettare. Se avessi aspettato abbastanza, forse il vecchio poeta sarebbe morto senza tante storie.
«Cosa ti ho chiesto di fare, prima della tua partenza, eh, ragazzo prodigio?» Il tono era quello di un maestro infuriato con l’alunno.
Cercai di ricordare altri particolari che non fossero la distruzione del ferreo dominio della Pax e il rovesciamento di una Chiesa che dominava centinaia di pianeti. Lo Shrike… be’, non si riferiva a quello. Alla fine, toccando il Vuoto che lega anziché affidarmi alla mia fallibile memoria, ricuperai le sue ultime parole, prima della mia partenza sul tappeto Hawking incontro alla bambina.
"Vai pure" aveva detto il vecchio poeta. "Porta a Aenea il mio amore. Dille che zio Martin aspetta di vedere la Vecchia Terra, prima di morire. Dille che il vecchiaccio è ansioso di sentirle spiegare il senso di ogni moto, forma, suono." L’essenza delle cose.
«Oh» dissi. «Mi spiace che Aenea non sia qui per parlare con lei.»
«Spiace anche a me, ragazzo» mormorò il vecchio, con la propria voce. «Spiace anche a me. E lascia perdere quel thermos di ceneri nella borsa del prete. Non mi riferivo a quelle, quando ho detto di voler rivedere mia nipote, prima di morire.»
Potei solo muovere la testa in un cenno di assenso: sentivo il dolore nella gola e nel petto.
«E il resto?» riprese il vecchio poeta. «Ti decidi a portare a termine la mia ultima richiesta o ti limiti a lasciarmi morire, mentre te ne stai lì in piedi, col tuo grosso pollice di discepolo su per il tuo stupido culo?»
«Ultima richiesta?» ripetei. In presenza di Martin Sileno, il mio quoziente d’intelligenza pareva scendere di colpo di cinquanta punti.
La voce sintetizzata sospirò. «Dammi quel tuo stilo grafer, se vuoi che te lo metta a grosse lettere in neretto, ragazzo. Prima di schiattare voglio vedere la Vecchia Terra. Voglio tornarci. Voglio tornare a casa.»
Alla fine decidemmo di non spostarlo dalla torre. I medici androidi conferirono con i medici Ouster che finalmente avevano avuto il permesso di atterrare e questi conferirono con il robochirurgo a bordo della nave del console (parcheggiata proprio dietro la torre, esattamente dove A. Bettik l’aveva fatta scendere circa due mesi prima, dopo avere pagato il debito temporale per la traslazione dal sistema di Pacem) che conferì elettronicamente con i monitor medici che circondavano il poeta, come faceva di continuo, e il verdetto rimase sempre uguale. Spostandolo dalla torre e sottoponendolo anche a un minimo cambiamento di gravità o di pressione per trasportarlo nella nave del console o nella nave-albero, lo avremmo quasi sicuramente ucciso.
Così portammo via l’intera torre e, con essa, una buona fetta di Endymion.
Ket Rosteen e gli Ouster si occuparono dei particolari, portando giù dalla gigantesca nave-albero una decina di erg. Calcolai in seguito che in quella splendida alba di Hyperion circa dieci ettari si alzarono in aria, compresi la torre, la nave del console, i pulsanti cubi di Moebius che avevano trasportato gli erg, lo skimmer, la cucina e la lavanderia annessi alla torre, parte del vecchio istituto di chimica nel campus di Endymion, diversi edifici di pietra, la metà esatta del ponte sul fiume Punta d’Ala e alcuni milioni di tonnellate di roccia e di sottosuolo. Nemmeno ci accorgemmo del decollo: gli erg e i loro aiutanti Ouster e templari manovrarono con tale perfezione i campi di contenimento e di sollevamento che non avremmo notato la minima differenza, se sopra la nostra testa il cielo del mattino non fosse divenuto un immobile campo di stelle nell’apertura circolare della torre e gli ologrammi nella sala di cura non avessero mostrato i nostri progressi. In quella sala, con le stelle che ardevano sopra di noi, A. Bettik, padre de Soya, alcune infermiere androidi e io guardammo gli ologrammi in diretta, mentre io tenevo la mano del vecchio poeta.
Endymion, la più antica città del nostro pianeta e origine del nome della mia famiglia, scivolò silenziosamente nell’alba e nell’atmosfera, per farsi afferrare dai dieci chilometri di nave-albero in nostra attesa in orbita alta. La Sequoia sempervirens aveva schiuso i propri rami per formare un perfetto alloggiamento per noi, tanto che potevamo passare dal suolo di Hyperion ai grandi ponti e ai rami e alle passerelle della nave senza avvertire transizione. Poi la nave-albero si girò verso le stelle.
«Ora tocca a te, Raul» disse la Dorje Phamo. «Il signor Sileno non sopravviverebbe alla traslazione Hawking o alla crio-fuga o al debito temporale.»
«Questa è una nave-albero maledettamente grande» dissi. «A bordo c’è un mucchio di macchinari e di persone. Mi aiuterete, spero!»
«Certo» disse la Dorje Phamo.
«Sì» dissero il Dalai Lama e George e Jigme.
«Ti aiuteremo» disse Rachel, ferma accanto a Theo. Le due donne parevano invecchiate.
«Proveremo anche noi» disse padre de Soya, parlando anche per Ket Rosteen e gli altri radunati nei pressi.
In alto sul ponte della nave, mentre alcune centinaia di metri più in basso l’androide A. Bettik si prendeva cura del suo ex padrone, la Dorje Phamo, Rachel, Theo, il Dalai Lama, George, Jigme, padre de Soya, il capitano templare e gli altri si tennero tutti per mano. Io completai il cerchio. Chiudemmo gli occhi e ascoltammo le stelle.
Mi ero aspettato che il fiume di stelle che era la Piccola Nube di Magellano fosse sospeso sopra la nave-albero; ma quando emergemmo dal lampo luminoso fu subito ovvio che ci trovavamo ancora nel nostro braccio della Via Lattea, a non molti anni luce dal sistema di Hyperion, a dar retta alle ben note costellazioni. Da qualche parte eravamo andati, certo. Ma il pianeta che brillava sopra i rami non mostrava il blu del mare e il bianco delle nuvole della Vecchia Terra o anche di un pianeta di tipo terrestre: era un mondo rosso e desertico, privo di oceani, con sparse pustole di crateri provocati da vulcani o da impatti di meteoriti e una luccicante e candida calotta polare.
«Marte» disse A. Bettik. «Siamo tornati al sistema della Vecchia Terra, intorno alla stella chiamata Sole.»
Tutti noi udimmo nel Vuoto che lega la risonanza della voce di Fedmahn Kassad su quel pianeta. Ci teleportammo giù, trovammo Kassad, gli spiegammo il motivo del viaggio — non aveva bisogno di spiegazioni: ascoltando le voci ci aveva sentiti arrivare — e lo portammo con noi sulla Sequoia sempervirens. Martin Sileno ci avvisò di voler parlare al suo vecchio compagno di pellegrinaggio e io accompagnai il colonnello su per scale e ponti, fino alla torre.
«Il sistema della Vecchia Terra è sicuro, come mi aveva ordinato Colei che insegna» disse Kassad, quando mettemmo piede sul suolo di Hyperion, nel punto dove il frammento di città si annidava tra i rami della nave-albero. «Ormai da dieci mesi nessuna nave della Pax ha messo alla prova le nostre difese. All’interno del sistema solare nessuno, nemmeno le nostre navi da guerra, ha il permesso di avvicinarsi alla Vecchia Terra a meno di venti milioni di chilometri.»
«La Vecchia Terra?» ripetei, sorpreso. Mi fermai di colpo. Kassad si fermò e girò verso di me il suo viso magro e scuro.
«Non la riconosci?» disse. Indicò in alto, nella direzione in cui la nave-albero accelerava a pieno regime sotto la spinta uniforme degli erg.
Aveva l’aspetto di una stella doppia, come tutti i pianeti con un solo grande satellite. Ma potevo vedere il pallido splendore della Luna, più piccola, più fredda. E il bianco e azzurro pulsare di vita che era la Vecchia Terra.
A. Bettik si unì a noi all’entrata della torre. «Quando è stata… quando l’hanno… come… quand’è tornata?» dissi, senza staccare gli occhi dalla Vecchia Terra che intanto, avvicinandoci, era diventata una vera sfera.
«Nell’ora del Momento Condiviso» disse Kassad. Si lisciò l’uniforme nera per eliminare tracce di sabbia rossa e si preparò a presentarsi al vecchio poeta.
«E tutti lo sanno?» Povero stupido Raul Endymion! Sempre l’ultimo a sapere le cose.
«Ora lo sanno» disse il colonnello Fedmahn Kassad.
Salimmo la scala della torre, dal vecchio poeta morente.
Martin Sileno era di buon umore, incontrando il suo vecchio amico dopo quasi duecentottant’anni di separazione.
«Così la tua nera anima assassina diventerà il cristallo seme, quando costruiranno lo Shrike, da qui a un millennio, eh?» ridacchiò il vecchio poeta, per mezzo del sintetizzatore vocale. «Bene, una carrettata di merdosi grazie, Kassad.»
Il colonnello guardò con aria pensierosa quella mummia ghignante. «Come mai non sei già morto, Martin?» disse infine.
«Lo sono, lo sono» replicò Sileno, tossendo. «Ho smesso di respirare secoli e millenni fa. Solo, non sono stati tanto furbi da spingermi giù e seppellirmi.» Il sintetizzatore non cercò di articolare i versi soffocati e i rantoli che seguirono.
«Sei riuscito a terminare quel tuo inutile poema in prosa?» domandò il colonnello, mentre il vecchio poeta continuava a tossire, facendo tremare la rete di tubicini e di cavetti.
«No» dissi io, parlando per la figura scossa dalla tosse sul letto. «Non avrebbe potuto terminarlo.»
«Sì» disse chiaramente Martin Sileno, mediante il laringofono. «L’ho terminato.»
Restai in silenzio.
«A dire il vero» ridacchiò il poeta «lui l’ha finito per me.» Il suo braccio ossuto, rivestito di pelle simile a pergamena, si alzò un poco dal letto. Il pollice, storto dall’artrite, si mosse nella mia direzione.
Il colonnello Kassad mi lanciò un’occhiata. Scossi la testa.
«Sei proprio fottutamente ottuso, ragazzo» disse Martin Sileno, in quello che l’altoparlante tradusse come tono affettuoso. «Vedi il tuo grafer da qualche parte?»
Mi girai di scatto e guardai il tavolino accanto al letto, dove avevo lasciato il grafer. Non c’era più.
«Tutto stampato» gracchiò Sileno. «Ho tagliato circa un miliardo di ricordi superflui. L’ho mandato nella sfera dati, prima della partenza.»
«Non esiste sfera dati» dissi.
A furia di ridere Martin Sileno si procurò un accesso di tosse. Alla fine il sintetizzatore tradusse alcuni colpi, di tosse con: «Non sei solo stupido, ragazzo. Sei irrecuperabile. Cosa credi che sia il Vuoto? È la maledetta sfera dati del maledetto universo, ragazzo. La ascoltavo da secoli, prima che la bambina mi desse la comunione per ascoltarla con i bachi nanotec che circolano dentro di me. È questo, ragazzo, ciò che fanno gli scrittori, gli artisti, i creatori. Ascoltano il Vuoto e cercano di udire i pensieri dei morti. Sentire il loro dolore. Il dolore dei vivi, anche. Trovare una musa è solo il modo di un artista o di un sant’uomo per mettere un piede nella porta principale del Vuoto che lega. Aenea lo sapeva. Avresti dovuto saperlo anche tu».
«Non aveva alcun diritto di trasmettere la mia narrazione» dissi. «È mia. L’ho scritta io. Non fa parte dei suoi Canti.» Se avessi saputo con certezza quale dei tubicini collegati a lui era quello dell’ossigeno, l’avrei pestato e non avrei tolto il piede finché non fossero terminati i suoi rantoli.
«Stronzate, ragazzo» disse Martin Sileno. «Perché credi che ti abbia mandato a fare questi undici anni di vacanza?»
«Per salvare Aenea» risposi.
Il vecchio poeta ridacchiò e tossì. «Lei non aveva bisogno d’essere salvata, Raul. Maledizione, da come ho visto io, man mano che accadeva, è stata quasi sempre lei a tirare via dal fuoco il tuo inutile culo. Anche quando a fare il salvataggio era lo Shrike, solo perché quella ragazza-bambina l’aveva addomesticato un poco.» I bianchi occhi della mummia, con gli occhiali videocamera, si girarono verso il colonnello Kassad. «Ha addomesticato te, intendo dire, passata e futura macchina per uccidere.»
Mi scostai dal letto e toccai uno dei biomonitor per riprendermi. In alto, nell’ampio cerchio del soffitto aperto della torre, la Vecchia Terra divenne più grande e rotonda. La voce di Martin Sileno mi richiamò, quasi sfottendomi.
«Ma non li hai ancora terminati, ragazzo. I Canti non sono ancora completi.»
Lo fissai freddamente da quei pochi metri di distanza. «Cosa vorrebbe dire, vecchio?»
«Devi portarmi giù, così possiamo terminarli, Raul. Insieme.»
Non potevamo teleportarci sulla Vecchia Terra perché laggiù non c’era nessuno che potessi usare come faro di riferimento, così decidemmo di usare gli erg e far atterrare l’intero pezzo di città. La manovra poteva risultare fatale a Martin Sileno, ma il vecchio poeta ci aveva urlato di piantarla con i casini per l’amor di Dio e di procedere, così procedemmo. La Sequoia semperoirens si era tenuta in orbita bassa intorno alla Vecchia Terra, o semplicemente Terra, come Martin Sileno pretese che la chiamassimo, per parecchie ore. I sistemi ottici, radar e sensori della nave-albero avevano mostrato un pianeta privo di vita umana, ma ricco di animali, uccelli, pesci e piante, senza traccia di inquinamento nell’atmosfera. Avevo progettato di atterrare a Taliesin West, ma i telescopi mostrarono che gli edifici erano scomparsi. Restava solo il deserto, probabilmente così com’era negli ultimi giorni prima della teorica caduta della Terra nel buco nero causato dal Grande Errore del ’38. La Roma dove era tornato il secondo cìbrido John Keats era scomparsa. Tutte le città e gli edifici che avevo ritenuto ricostruzioni sperimentali dei Leoni e Tigri e Orsi erano scomparsi. La Terra era stata ripulita di città e di autostrade e di ogni traccia dell’uomo. Pulsava di vita e di buona salute, come se aspettasse il nostro ritorno.
Fermo nei pressi della nave del console, su suolo di Hyperion, nella città racchiusa nella nave-albero, circondato da vecchi amici di Aenea, discutevo del viaggio sulla Terra e intanto mi domandavo chi avrebbe avuto voglia di scendere sul pianeta e chi avrebbe dovuto accompagnarci, pensando per tutto il tempo solo al piccolo contenitore metallico nella borsa di padre de Soya, quando A. Bettik venne avanti e si schiarì la voce.
«Mi scusi, signor Endymion, se la interrompo.» Il mio vecchio amico androide pareva contrito al punto da arrossire malgrado la pelle azzurra, come sempre gli accadeva quando doveva contraddire uno di noi. «Ma la signora Aenea mi ha lasciato precise istruzioni, nel caso che lei, signor Endymion, fosse tornato sulla Vecchia Terra, come appunto è accaduto.»
Restammo tutti ad aspettare che continuasse. Sulla Yggdrasill non avevo udito Aenea dare istruzioni all’androide. Ma d’altra parte sulla nave-albero la situazione, verso la fine, era diventata rumorosa e caotica.
A. Bettik si schiarì di nuovo la voce. «La signora Aenea ha precisato che Ket Rosteen avrebbe guidato l’atterraggio, se atterraggio ci fosse stato, insieme con altre quattro persone da sbarcare una volta atterrati, e mi ha chiesto di presentare le sue scuse a tutti voi che vorreste scendere immediatamente sulla Vecchia Terra. Scuse speciali, ha detto, a care amiche come la signora Rachel e la signora Theo e ad altri particolarmente ansiosi di vedere il pianeta. La signora Aenea mi ha chiesto di assicurarvi che sarete i benvenuti sulla Terra, due settimane dopo il giorno dell’atterraggio, il giorno prima che la nave-albero lasci l’orbita. Mi ha chiesto ancora di dirvi che fra due anni standard, ossia due anni della Terra, chiunque sia in grado di teleportarsi qui da solo sarà il benvenuto e potrà visitare la Terra.»
«Fra due anni?» dissi. «Perché una quarantena di due anni?»
A. Bettik scosse la testa. «La signora Aenea non l’ha precisato, signor Endymion. Mi spiace.»
Allargai le braccia. «E va bene, sentiamo allora chi può scendere subito.» Se il mio nome non fosse stato nell’elenco, sarei sceso lo stesso, senza curarmi delle ultime volontà di Aenea. Avrei usato i pugni per fare parte del gruppo, se necessario. O avrei dirottato la nave del console. O mi sarei teleportato da solo.
«Lei, signore» disse A. Bettik. «Ha precisato chiaramente il suo nome, signor Endymion. E il signor Sileno, è ovvio. Padre de Soya. E infine…» Esitò, come se fosse di nuovo imbarazzato.
«Continua» lo incitai, più bruscamente di quanto non volessi.
«Io» disse A. Bettik.
«Tu?» ripetei. Ma capii subito che era una scelta sensata. L’androide aveva fatto con noi il lungo viaggio, anzi aveva trascorso con Aenea più tempo di me, considerato il debito temporale che avevo accumulato nel mio viaggio da solo. Inoltre A. Bettik aveva rischiato la vita per Aenea, per noi, e aveva perduto il braccio nell’imboscata di Nemes su Bosco Divino. Aveva ascoltato gli insegnamenti di Aenea ancora prima che Rachel e Theo, o io, ci arruolassimo come discepoli. Era logico che volesse lì il suo amico A. Bettik, quando avrei sparpagliato le sue ceneri ai venti della Vecchia Terra. Mi vergognai d’avere mostrato stupore. «Scusa» dissi. «Mi pare giusto che venga anche tu.»
A. Bettik rispose con un lieve cenno.
«Ancora due settimane» dissi agli altri, sul viso di gran parte dei quali si leggeva la delusione. «Fra due settimane saremo tutti giù sulla Terra; ci guarderemo intorno e scopriremo quali sorprese i Leoni e Tigri e Orsi hanno lasciato per noi.»
Ci salutammo. I vecchi amici, templari, Ouster e altri, lasciarono la città di Endymion e rimasero a guardare, dalle scale e dalle piattaforme della nave-albero. Rachel fu l’ultima. Con mia sorpresa, mi abbracciò forte. «Mi auguro di cuore che tu ne sia degno» mi disse all’orecchio. Non avevo la minima idea di che cosa parlasse. Quella bruna sbarazzina, come gran parte delle donne, era sempre stata un mistero per me.
«Tutto a posto» dissi, quando fummo riuniti attorno al letto di Martin Sileno. Scorgevo sopra di noi la Vecchia Terra… la Terra. La scena si annebbiò e poi scomparve, mentre i campi di contenimento si mischiavano, si ingarbugliavano e poi si separavano, i campi di guida fluivano e la città si staccava dalla nave-albero. I cloni d’equipaggio templari e gli Ouster avevano allestito dei quadri comando provvisori nella sala di rianimazione della torre, un posto dove, con tutte le apparecchiature mediche di Martin Sileno, rimaneva ben poco spazio. Era anche, pensai, un posto buono quanto un altro per aspettare che gli erg facessero atterrare una massa di rocce e di erba, una città con una torre e un’astronave parcheggiata e mezzo ponte che non portava da nessuna parte, su un pianeta fatto per tre quinti di acqua, senza spazioporti né controllo del traffico. Almeno, pensai, se eravamo destinati a precipitare e morire, avrei avuto un indizio dell’imminente catastrofe guardando, nei secondi che l’avrebbero preceduta, l’impassibile viso di Ket Rosteen sotto il cappuccio da templare.
Non sentimmo l’ingresso nell’atmosfera terrestre. Solo il graduale cambiamento del cerchio di cielo sopra di noi, da una distesa di stelle all’azzurro, ci lasciò capire che eravamo entrati con successo nell’atmosfera. Non sentimmo l’atterraggio. L’attimo prima stavamo in silenzio ad aspettare, e poi Ket Rosteen alzò gli occhi dai visori e dai monitor, mormorò nei comunicatori qualche parola ai suoi amati erg e disse a noi: «Atterraggio effettuato».
«Ho dimenticato di dire dove dovevamo scendere» replicai. Pensavo al deserto dove un tempo sorgeva Taliesin. Doveva essere il luogo dove Aenea era stata più felice; dove voleva che quelle ceneri — sapevo che erano sue, ma ancora non potevo crederci — fossero sparse ai caldi venti dell’Arizona.
Ket Rosteen lanciò un’occhiata al letto sospeso.
«Gli ho detto io dove fare il fottuto atterraggio» gracchiò il sintetizzatore vocale del vecchio poeta. «Dove sono nato. Dove conto di morire. Ora, vi dispiace darvi da fare e spingermi fuori di qui in modo che possa vedere il cielo?»
A. Bettik staccò tutti i monitor di Sileno, tranne le indispensabili apparecchiature di supporto vita, che sistemò con il vecchio nello stesso campo repulsore EM. Mentre eravamo nella nave-albero, gli androidi e i cloni di equipaggio e gli Ouster avevano costruito una lunga rampa poco inclinata che andava dalla stanza in cima alla torre al terreno, poi avevano lastricato un sentiero fino al bordo della fetta di città e oltre. Tutto era atterrato senza danni, notai, mentre accompagnavamo fuori alla luce del sole e poi a terra il letto sospeso. Nel passare davanti all’astronave color ebano, un altoparlante nello scafo disse: «Addio, Martin Sileno. È stato un onore conoscerla».
Il vecchio nel letto riuscì a sollevare il braccio scheletrico in un saluto piuttosto brioso. «Ci vediamo all’inferno, Nave!»
Uscimmo sulla rampa lastricata, lasciammo la fetta di città, e guardammo praterie e lontani dirupi non molto diversi dalle brughiere della mia infanzia, a parte la linea di foreste alla nostra destra. La gravità e la pressione dell’aria erano come le ricordavo dal soggiorno di quattro anni sulla Terra, anche se qui l’umidità era molto maggiore che nel deserto.
«Dove ci troviamo?» domandai a nessuno in particolare. Ket Rosteen era rimasto nella torre e solo l’androide, il morente poeta, padre de Soya e io eravamo all’esterno in quello che pareva un soleggiato mattino di primavera nell’emisfero settentrionale.
«Dov’era un tempo la tenuta di mia madre» mormorò il sintetizzatore vocale di Martin Sileno. «Nel cuore del cuore della Riserva nordamericana.»
A. Bettik alzò gli occhi dai dati degli strumenti medici. «Credo che questa zona si chiamasse Illinois, prima del Grande Errore. Ci troviamo al centro di quello Stato, credo. Le praterie sono tornate, a quanto vedo. Quegli alberi sono olmi e noci, estinti nel XXI secolo, se non sbaglio. Quel fiume al di là delle alture scorre a sud-sudovest e confluisce nel Mississippi. Credo che lei abbia… percorso in kayak un tratto di quel fiume, signor Endymion.»
«Già» dissi, ricordando la fragile imbarcazione e l’addio ad Hannibal e il primo bacio di Aenea.
Restammo in silenzio. Il sole si alzò ancora. Il vento agitava l’erba. Da qualche parte, al di là della linea d’alberi, un uccello protestò come solo gli uccelli sanno fare. Guardai Martin Sileno.
«Ragazzo» disse il sintetizzatore del vecchio poeta «se ti aspetti che muoia al momento giusto solo per risparmiarti una scottatura, toglitelo dalla fottuta testa. Mi tengo aggrappato con le unghie, ma le mie unghie sono vecchie e lunghe e dure.»
Sorrisi e gli toccai la spalla ossuta.
«Ragazzo?» mormorò il vecchio poeta.
«Sì, signore.»
«Anni fa mi dicesti che la tua vecchia nonna ti aveva fatto imparare a memoria i Canti fino a farteli uscire dalle orecchie. È vero?»
«Sì, signore.»
«Riesci a ricordare i versi che scrìssi su questo luogo com’era ai miei tempi?»
«Posso provarci» dissi. Chiusi gli occhi. Fui tentato di toccare il Vuoto, di cercare il suono di quelle lezioni nella voce di nonna, anziché sforzarmi di ricordare quei versi; invece seguii la via più dura, usando i trucchi mnemonici che nonna mi aveva insegnato. Lì fermo, occhi sempre chiusi, recitai i brani che riuscivo a ricordare:
«Delicati crepuscoli si stingono
da fucsia a viola sopra le arricciate
sagome d’alberi al di là del prato.
Cieli di porcellana trasparente
non sfregiati da nubi o bianche scie.
Il quieto presinfonico chiarore
dell’aurora seguito dal frastuono
di cimbali del sole che si leva.
Arancione e rossiccio in oro accendono
la discesa nel verde, lunga e fresca:
ombra di foglia, oscurità, viticci
di cipresso e di salice piangente,
della radura il verde soffocato.
«Le terre di mia madre — mie — mille acri
d’altri milioni al centro. Prati come
piccole praterie d’erba perfetta,
un invito a sdraiarsi, a sonnecchiare
su tanta morbidezza vellutata.
Nobili chiome d’albero alla Terra
fanno da meridiana, la lor ombra
gira in cerchio in solenne processione;
or si diffonde ed ora si restringe,
infin s’estende col morir del giorno.
Regale quercia.
Olmi giganti.
Pioppo e cipresso
sequoia e bonsai.
Grandi baniani calan nuovi tronchi
come lisce colonne d’un gran tempio
aperto al cielo.
Salici che costeggiano canali
ben ordinati e fiumi posti a caso,
coi loro rami
cantano antichi funebri lamenti
al dolce vento.»
Mi fermai. La parte seguente era confusa. Non mi erano mai piaciuti quei passi pseudolirici dei Canti, preferivo le scene di guerra.
Mentre recitavo, gli avevo tenuto la mano sulla spalla e avevo sentito che il vecchio poeta si rilassava. Aprii gli occhi, aspettandomi di vedere nel letto un cadavere.
Martin Sileno mi scoccò un sogghigno da satiro. «Non male, non male» gracchiò. «Non male per un vecchio poeta da strapazzo.» Puntò gli occhiali videocamera sull’androide e sul prete. «Capite perché ho scelto questo ragazzo per completare i Canti per me? Non sa scrivere niente che valga una merda, ma ha una memoria da elefante.»
Mentre stavo per domandare: "Cos’è un elefante?", lanciai un’occhiata ad A. Bettik, senza una ragione particolare. Per un istante, dopo tutti gli anni di conoscenza di quel gentile androide, lo vidi davvero. Rimasi a bocca aperta.
«Che c’è?» domandò padre de Soya, in tono allarmato. Forse credette che avessi un attacco di cuore.
«Tu» dissi ad A. Bettik. «Sei tu, l’osservatore.»
«Sì» ammise l’androide.
«Sei uno di loro… uno di loro… dei Leoni e Tigri e Orsi.»
De Soya girò lo sguardo da me all’androide, al vecchio che continuava a ghignare nel letto, poi di nuovo all’androide.
«Non ho mai apprezzato la definizione scelta dalla signorina Aenea» disse A. Bettik, a voce molto bassa. «Non ho mai visto un leone o una tigre o un orso in carne e ossa, ma so che quelle creature condividono una certa ferocia che è estranea a… alla specie aliena a cui appartengo.»
«Hai preso la forma di un androide secoli fa» dissi, continuando a fissarlo, in una comprensione sempre più profonda, netta e dolorosa come un colpo sulla testa. «Eri presente a tutti gli eventi principali — l’ascesa dell’Egemonia, la scoperta delle Tombe del Tempo su Hyperion, la Caduta dei teleporter — Dio buono, hai seguito gran parte dell’ultimo pellegrinaggio allo Shrike.»
A. Bettik chinò leggermente la testa. «Se si deve osservare, signor Endymion, bisogna trovarsi nel posto giusto.»
Mi sporsi sul letto di Martin Sileno, pronto a scuoterlo e, se era già morto, riportarlo in vita per avere una risposta. «Lei lo sapeva, vecchio?»
«Non lo sapevo, quando è partito con te, Raul» rispose il poeta. «Solo quando ho letto la tua storia e mi sono reso conto…»
Arretrai di due passi nell’erba alta e tenera. «Che idiota, sono stato! Non ho visto niente. Non ho capito niente. Che scemo!»
«No» disse padre de Soya. «Eri innamorato.»
Avanzai verso A. Bettik, pronto a strozzarlo se non mi avesse risposto immediatamente e sinceramente. Forse l’avrei strozzato davvero. «Sei tu il padre» dissi. «Hai mentito, dicendo di non sapere dove Aenea era scomparsa per quasi due anni. Sei tu, il padre di suo figlio, del prossimo messia.»
«No» replicò con calma l’androide. L’osservatore. L’osservatore con un braccio solo, l’amico che aveva rischiato con noi la vita in decine di occasioni. «No» ripeté. «Non sono il marito di Aenea. Non sono il padre.»
«Per favore, non mentire proprio a me.» Mi tremavano le mani. Sapevo che non l’avrebbe fatto. Non aveva mai mentito.
A. Bettik mi guardò negli occhi. «Non sono il padre» disse. «Non c’è nessun padre, ora. Non c’è mai stato un altro messia. Non c’è nessun figlio.»
"Morti" pensai. "Sono morti tutt’e due, il figlio di Aenea, il marito di Aenea, chiunque fosse, qualsiasi cosa fosse. La stessa Aenea. La mia cara ragazza. La mia amata. Non resta niente. Ceneri." In qualche modo, anche mentre mi ero dedicato a trovare il bambino, a supplicare l’osservatore suo padre perché mi facesse diventare l’amico e la guardia del corpo e il discepolo di quel bambino, come ero stato per Aenea, a usare questa nuova speranza come un mezzo di fuga dalla scatola di Schrödinger, nel profondo del cuore avevo sempre saputo che nell’universo non c’era figlio vivente della mia amata… Avrei udito la musica della sua anima risonare nel Vuoto come una fuga di Bach… Niente bambino. Tutto era cenere.
Mi rivolsi a padre de Soya, pronto ora a toccare l’urna di Aenea, pronto ad accettare, al primo contatto delle dita contro il freddo metallo, il fatto che lei era scomparsa per sempre. Mi sarei allontanato da solo per trovare un luogo dove spargere le ceneri. Sarei andato a piedi dall’Illinois all’Arizona, se necessario. O forse solo nel punto dove un tempo c’era Hannibal, dove ci eravamo scambiati il primo bacio. Forse era quello il luogo dove Aenea era stata più felice durante la nostra permanenza lì.
«Dov’è l’urna?» dissi, con voce rauca.
«Non l’ho portata» rispose il prete.
«Dove l’ha lasciata?» dissi. Non ero in collera, solo molto molto stanco. «Torno alla torre a prenderla.»
Padre Federico de Soya inspirò a fondo e scosse la testa. «L’ho lasciata sulla nave-albero, Raul. Non mi sono dimenticato di portarla. L’ho lasciata lì di proposito.»
Lo fissai, più perplesso che arrabbiato. Poi mi resi conto che lui, A. Bettik e perfino il vecchio poeta sul suo letto di morte avevano girato la testa verso i dirupi sopra il fiume.
Fu come se fosse passata una nuvola e poi un raggio particolarmente intenso avesse illuminato l’erba per un attimo. Le due figure rimasero immobili per lunghi secondi, poi la più bassa si diresse a passo svelto verso di noi, si mise a correre.
La più alta, naturalmente, era facile da riconoscere anche da quella distanza, riflesso di sole sul carapace di cromo, occhi rossi che si vedevano brillare anche da lontano, luccichio di spine e di punte e di dita affilate. Ma non avevo tempo da perdere per guardare l’immobile Shrike. Quella creatura aveva assolto il suo compito. Aveva teleportato avanti nel tempo se stesso e l’altra persona, con la stessa facilità con cui ormai mi teleportavo nello spazio.
Aenea superò di corsa gli ultimi trenta metri. Aveva un aspetto più giovanile, meno consumato dalle preoccupazioni e dagli eventi: capelli quasi biondi nel sole, frettolosamente legati all’indietro. Era davvero più giovane, mi resi conto, impietrito, mentre lei correva verso il nostro piccolo gruppo più in alto sul pendio. Aveva vent’anni, quattro in più di quando l’avevo lasciata ad Hannibal, ma quasi tre in meno di quando l’avevo vista per l’ultima volta.
Aenea baciò A. Bettik, abbracciò padre de Soya, si chinò sul letto a dare un bacio, con grande gentilezza, al vecchio poeta; poi si girò verso di me.
Ero ancora lì, impietrito.
Aenea si avvicinò e si alzò in punta di piedi, come aveva sempre fatto quando voleva baciarmi sulla guancia.
Mi baciò teneramente sulle labbra. «Mi spiace, Raul» mormorò. «Mi spiace che per te sia stata così dura. Per tutti.»
Così dura per me. Era lì, con piena prescienza della tortura che avrebbe patito a Castel Sant’Angelo, dei cloni Nemes che giravano come avvoltoi intorno al suo corpo nudo, delle fiamme che divampavano…
Mi toccò di nuovo la guancia. «Raul, amore mio, sono qui. Sono io. Per un anno, undici mesi, sette giorni e sei ore sarò con te. E non parlerò più di anni, mesi, giorni e ore. Abbiamo tempo infinito. Saremo sempre insieme. E anche nostro figlio sarà qui con te.»
"Nostro figlio" mi dissi. "Non un messia nato dalla necessità. Non un matrimonio con un osservatore. Nostro figlio! Il nostro figlio umano, fallibile, che cade e piange come tutti i bambini."
«Raul?» Mi toccò la guancia, con le dita indurite dal lavoro.
«Ciao, ragazzina.» L’accolsi fra le braccia.
Martin Sileno morì il giorno seguente, sul tardi, alcune ore dopo che Aenea e io fummo uniti in matrimonio. Padre de Soya, ovviamente, celebrò le nozze, così come più tardi celebrò il servizio funebre, poco prima del tramonto. Era contento, disse, d’avere portato con sé i paramenti e il messale.
Seppellimmo il vecchio poeta in uno dei dirupi erbosi sopra il fiume, dove la vista della prateria e delle lontane foreste pareva più bella. Per quanto ne sapevamo, forse un tempo la casa di sua madre si trovava nelle vicinanze. A. Bettik, Aenea e io avevamo scavato una fossa profonda, perché intorno c’erano animali selvatici, la notte precedente avevamo udito ululare i lupi, e poi avevamo ricoperto con pesanti sassi la montagnola. Nella semplice lapide Aenea aveva inciso la data di nascita e di morte del vecchio poeta, un intero millennio meno quattro mesi, il nome in altorilievo e più sotto aveva aggiunto solo:
Lo Shrike era rimasto sul dirupo erboso dove era comparso con Aenea e non si era mosso, quel giorno, né durante la cerimonia delle nostre nozze né durante il servizio funebre e la sepoltura di Martin Sileno a meno di venti metri da quella sentinella irta di punte d’argento e avvolta di spine; ma quando ci allontanammo dalla fossa, lo Shrike avanzò lentamente fino a trovarsi davanti alla tomba, a testa china, le quattro braccia lungo i fianchi, l’ultima luce del giorno riflessa dal liscio carapace e dagli occhi rossi come rubini. E non si mosse più.
Padre de Soya e Ket Rosteen ci invitarono a trascorrere un’altra notte in una stanza della torre, ma Aenea e io avevamo altri progetti. Dalla nave del console avevamo preso attrezzature da campeggio, una zattera gonfiabile, un fucile da caccia, una buona provvista di cibo surgelato nel caso che la caccia non avesse successo, ed eravamo riusciti a infilare il tutto in due grossi zaini. Ora ci fermammo al limitare della fetta di città e guardammo nel crepuscolo la distesa di erba e di boschi e il cielo sempre più scuro. Il tumulo funerario del vecchio poeta era chiaramente visibile contro il tramonto che svaniva.
«Presto sarà buio» s’inquietò padre de Soya.
«Abbiamo una lanterna» sorrise Aenea.
«Ci sono bestie feroci, là fuori» disse il prete. «Gli ululati di ieri notte… Dio solo sa quali predatori stanno per svegliarsi.»
«Questa è la Terra» dissi. «Con il fucile posso cavarmela contro qualsiasi animale, grizzly escluso.»
«E se ci fossero davvero dei grizzly?» insistette il gesuita. «E poi là fuori finirete per perdervi. Non ci sono strade né città. Non ci sono ponti. Come attraverserete i fiumi?…»
«Federico» disse Aenea, posando la mano, gentile ma ferma, sul braccio del prete. «È la nostra notte di nozze.»
«Oh» disse il prete. Le diede un rapido abbraccio, mi strinse la mano e si ritrasse.
«Posso dare un suggerimento, signora Aenea, signor Endymion?» disse timidamente A. Bettik.
Terminai di infilarmi nella cintura il fodero con il coltello e alzai gli occhi. «Potresti dirci cosa avete progettato, voi dall’altra parte del Vuoto che lega, per la Terra negli anni a venire. O finalmente volete dire un bel "ciao" alla specie umana?»
L’androide parve imbarazzato. «Ah… no» rispose. «In realtà il suggerimento è in un modesto regalo di nozze.» Ci porse la custodia di cuoio.
La riconobbi subito. Anche Aenea la riconobbe. Ci mettemmo ginocchioni per togliere dalla custodia il tappeto Hawking e srotolarlo sull’erba.
Il tappeto si attivò al primo tocco e rimase sospeso a un metro dal terreno. Ammucchiati e legati nella parte posteriore gli zaini, sistemato il fucile, c’era ancora spazio per tutti e due, se mi fossi seduto a gambe incrociate e se Aenea avesse preso posto nella nicchia formata dalle mie braccia e dalle mie gambe, schiena contro il mio petto.
«Questo dovrebbe portarci sopra i fiumi e fuori portata degli animali feroci» disse Aenea. «E stanotte non ci allontaneremo troppo per trovare il posto dove accamparci. Appena al di là di quel fiume, fuori portata d’orecchio.»
«Fuori portata d’orecchio?» disse il prete. «Ma perché stare nelle vicinanze, se non potremo udirvi in caso di necessità? Se chiedeste aiuto e… oh!» Diventò tutto rosso.
Aenea lo abbracciò. Strinse la mano a Ket Rosteen e disse: «Fra due settimane le sarei obbligata se lasciasse che Rachel e gli altri si teleportassero giù o scendessero con la nave del console, se vogliono guardarsi intorno. Li aspetteremo alla tomba di zio Martin a mezzogiorno. Potranno restare fino al tramonto. Fra due anni, chiunque sappia teleportarsi qui per proprio conto potrà esplorare a piacimento questi luoghi. Ma potrà fermarsi solo un mese, non di più. E non saranno consentite costruzioni permanenti. Niente edifici. Niente città. Niente strade. Niente steccati. Due anni». Mi sorrise. «Qualche anno fa, i Leoni e Tigri e Orsi e io abbiamo fatto alcuni interessanti piani per questo pianeta. Ma per questi due anni è nostro, di Raul e mio. Perciò, per favore, Vera Voce dell’Albero, per favore, nel viaggio di ritorno alla sua nave-albero, metta un grosso cartello "Vietato l’ingresso". D’accordo?»
«Faremo così» disse il templare. Tornò nella torre a preparare gli erg alla partenza.
Ci sistemammo sul tappeto. Con le braccia circondavo Aenea. Non avevo intenzione di lasciarla andare via per un bel mucchio di tempo. Un anno terrestre, undici mesi, sette giorni e sei ore possono essere un’eternità, se si fa in modo che lo siano. Anche un giorno. Un’ora.
Padre de Soya ci diede la benedizione. «Cosa posso fare per voi, nei prossimi mesi? Volete che faccia mandare delle provviste sulla Terra?»
Scossi la testa. «No, grazie, padre. Con l’attrezzatura per il campeggio, il medikit della nave, la zattera gonfiabile e questo fucile, dovrebbe essere tutto a posto. Non per nulla su Hyperion facevo la guida di cacciatori.»
«Una cosa ci sarebbe» disse Aenea e notai la piccola contrazione del muscolo all’angolo della bocca, infallibile segnale dell’imminenza di una birichinata.
«Qualsiasi cosa» disse padre de Soya.
«Se può tornare fra circa un anno» disse Aenea «forse mi farebbe comodo una buona levatrice. Intanto avrebbe il tempo di documentarsi al proposito.»
Padre de Soya sbiancò, aprì bocca, ci ripensò e annuì torvamente.
Aenea scoppiò a ridere e gli toccò la mano. «Scherzavo» disse. «La Dorje Phamo e Dem Loa sono già d’accordo di teleportarsi qui, se occorre.» Guardò me. «E occorrerà di sicuro.»
Padre de Soya emise il fiato, pose la mano sulla testa di Aenea per un’ultima benedizione e lentamente risalì sulla fetta di città e poi su per la rampa fino alla torre. Lo guardammo fondersi con le ombre.
«Cosa accadrà alla sua Chiesa?» domandai piano a Aenea.
Lei scosse la testa. «Qualsiasi cosa accada, ha la possibilità di cominciare da capo, di riscoprire la propria anima.» Mi sorrise da sopra la spalla. «Come noi.»
Il cuore mi batteva forte per il nervosismo, ma dissi ugualmente: «Ragazzina?».
Aenea girò la guancia contro il mio petto e mi guardò.
«Maschio o femmina? Non te l’ho mai domandato.»
«Cosa?» disse Aenea perplessa.
«Il motivo per cui fra circa un anno ci sarà bisogno della Dorje Phamo e di Dem Loa. Sarà maschio o femmina?»
«Ahhh» disse Aenea. Finalmente aveva capito. Girò di nuovo il viso, si sistemò contro di me, mise la testa contro la mia mascella. Potei sentire le parole per conduzione ossea, quando parlò. «Non lo so, Raul. Davvero, non lo so. Questa è una parte della mia vita dove ho sempre evitato di scrutare. Ogni cosa che accadrà d’ora in poi sarà nuova. Oh so, da alcuni stralci di visione, che avremo un figlio in buona salute e che lasciare mio figlio e te sarà la cosa più dura che mi toccherà mai fare, più dura di quando dovrò lasciarmi catturare in San Pietro e portare davanti agli inquisitori della Pax. Ma so anche che, quando sono di nuovo con te su T’ien Shan, nel mio futuro e tuo passato, soffrendo perché non posso dirti niente di tutto questo, so anche che sarò consolata poiché nostro figlio starà bene e che tu lo alleverai. E non lascerai mai che dimentichi chi ero e quanto vi ho amati.»
Trasse un respiro profondo. «Ma se sarà maschio o femmina, o come lo chiameremo, non so. Ho scelto di non guardare in questo periodo di tempo, il nostro tempo, ma di viverlo con te giorno per giorno. Riguardo a questo futuro, sono cieca tanto quanto te.»
Alzai le braccia sul suo petto e la strinsi contro di me.
Ci fu un imbarazzato colpo di tosse. Alzammo gli occhi e ci rendemmo conto che A. Bettik era sempre fermo accanto al tappeto Hawking.
«Vecchio amico» disse Aenea, stringendogli la mano, mentre continuavo a tenerla contro di me. «Che parole ci sono?»
L’androide scosse la testa, ma poi disse: «Ha mai letto, signora Aenea, il sonetto di suo padre intitolato A Omero?».
La mia amata rifletté, corrugò la fronte. «Credo d’averlo letto, ma non lo ricordo.»
«Forse alcuni versi rispondono alla domanda del signor Endymion sul futuro della Chiesa di padre de Soya» disse l’androide. «E anche ad altre cose. Posso?»
«Prego» disse Aenea. Capivo, dai suoi muscoli della schiena contro il mio petto e dalla stretta della sua mano sulla mia coscia, che era ansiosa quanto me di andare via e trovare un posto per accamparci. Mi augurai che A. Bettik fosse breve. L’androide recitò:
«Sulle spiagge di tenebra c’è luce
e precipizi mostran verde intatto;
sboccia un domani nella mezzanotte;
c’è tripla vista in cecità assoluta…»
«Grazie» disse Aenea. «Grazie, amico mio.» Si liberò quanto bastava per baciare l’androide per l’ultima volta.
«Ehi!» dissi, giocando al bambino escluso.
Aenea mi baciò a lungo. Molto più a lungo. Veramente a lungo.
Agitammo il braccio in un ultimo addio. Toccai i fili di volo. Il tappeto vecchio di secoli si alzò a cinquanta metri, volò sopra la vagabonda fetta di città e la torre di pietra, girò intorno alla nave spaziale del console, nera come ebano, e ci portò lontano, a ponente. Già fiduciosi nella stella Polare come guida, discutendo a bassa voce di un possibile posto per accamparci su terreno rialzato alcuni chilometri più a ovest, sorvolammo la tomba del vecchio poeta dove il silenzioso Shrike stava di sentinella, passammo sopra il fiume dove le increspature e i mulinelli luccicavano agli ultimi raggi del tramonto e prendemmo quota, guardando in basso i prati rigogliosi e le meravigliose foreste del nostro nuovo terreno di gioco, il nostro antico mondo, il nostro nuovo mondo, il nostro mondo primo e futuro e più bello di tutti.