PARTE SECONDA

15

Mentre mi trovo con A. Bettik, Jigme Norbu e George Tsarong sulla cornice del mercato Phari, giunge la notizia: alla fine, navi della Pax e soldati sono giunti anche qui su T’ien Shan, le "Montagne del cielo".

«Dovremmo informare Aenea» dico. Intorno a noi, sopra di noi, sotto di noi, migliaia di tonnellate di impalcature oscillano e scricchiolano per il peso di una folla di persone che comprano, vendono, barattano, discutono, ridono. Pochissimi hanno sentito la notizia dell’arrivo della Pax. Pochissimi, quando la sentiranno, capiranno le implicazioni. La notizia proviene da un monaco di nome Chim Din, appena tornato da Potala, la capitale, dove lavora come maestro nel Palazzo d’inverno del Dalai Lama. Per fortuna Chim Dim lavora anche, a settimane alterne, come montatore di bambù, nel Hsuan-k’ung Ssu, il "Tempio a mezz’aria", il progetto di Aenea; e mentre va al tempio, si ferma a salutarci nel mercato Phari. Così, fuori della corte a Potala, siamo tra i primi a sapere dell’arrivo della Pax.

"Cinque navi" ha detto Chim Din. "Parecchie decine di cristiani. Circa metà sono guerrieri in rosso e nero. Circa metà della metà sono missionari, tutti in nero. Hanno affittato un gompa, il monastero della setta Berretto Rosso, vicino al Rhan Tso, il lago Lontra, accanto al Fallo di Shiva. Hanno consacrato parte del gompa per farne una cappella dedicata al loro Dio uno e trino. Il Dalai Lama non consentirà di usare macchine volanti né di oltrepassare la cresta meridionale del Regno di mezzo, ma ha permesso loro di viaggiare liberamente in questa regione."

«Dovremmo informare Aenea» ripeto ad A. Bettik, sporgendomi verso di lui per farmi udire al di sopra del chiacchiericcio della piazza del mercato.»

«Dovremmo informare tutti a Jo-Kung» replica l’androide. Si gira, dice a George e a Jigme di completare gli acquisti, di non dimenticare i portatori per l’ordinazione di cavi e di bambù bonsai supplementari per la costruzione, e poi alza il pesante sacco da montagna, serra nella sua imbracatura gli attrezzi da scalata e mi rivolge un cenno.

Prendo anch’io il mio pesante sacco da montagna e precedo l’androide fuori del mercato e giù per le scale dell’impalcatura, fino al livello dei cavi. «La via Alta è più veloce della via Pedonale, no?»

A. Bettik annuisce. Ho esitato a proporre, per il viaggio di ritorno, la via Alta: l’androide, privo di un braccio, incontra difficoltà con i cavi e gli scivoli. Dopo la nostra riunione, mi sono sorpreso che non si fosse confezionato un uncino metallico (il suo braccio sinistro termina con un liscio moncherino a mezza strada fra il gomito e il polso) ma presto ho visto come usava una cinghia di cuoio e vari accessori di cuoio per ovviare alla mancanza delle dita.

«Sì, signor Endymion» dice. «La via Alta. È molto più rapida. Sono d’accordo. A meno che non voglia usare come corriere un aviatore.»

Lo guardo, penso che voglia scherzare. Gli aviatori sono dei pazzi, una razza a parte. Lanciano il loro parapendio dalle alte costruzioni, prendono forza ascensionale dalle grandi pareti di roccia, attraversano gli ampi spazi fra le creste e i picchi dove non esistono cavi né ponti, guardano gli uccelli, cercano le termali come se ne andasse della vita; be’, la loro vita dipende proprio da quelle correnti d’aria calda. Non ci sono zone piatte dove un aviatore può posarsi, se cambia l’infido vento o se la spinta ascensionale viene a mancare o se il parapendio ha un guasto. L’atterraggio forzato su una parete di cresta significa morte quasi certa. La discesa nelle nuvole sottostanti significa morte matematica. Il minimo errore nel valutare il vento, le correnti ascensionali, le correnti verticali, la corrente a getto, qualsiasi errore, significa morte. Per questo motivo gli aviatori vivono in solitudine, fanno parte di una setta segreta e chiedono una fortuna per eseguire gli ordini del Dalai Lama e consegnare messaggi da Potala o per trascinare nel cielo striscioni di preghiera durante qualche cerimonia buddhista o per portare comunicazioni urgenti da un mercante al suo ufficio in modo da battere la concorrenza o (così dice la leggenda) per visitare il picco orientale T’ai Shan, separato dal resto di T’ien Shan da più di cento chilometri di aria e di nuvole micidiali, e isolato per vari mesi nell’arco dell’anno locale.

«Non mi pare opportuno affidare a un aviatore una simile notizia» dico.

A. Bettik annuisce. «Sì, signor Endymion, ma i parapendii si possono comprare qui al mercato. Al banco della Gilda degli aviatori. Potremmo comprarne due e seguire la via più breve per il ritorno. Hanno prezzi molto elevati, ma potremmo vendere alcune zigocapre da soma.»

Non so mai quando il mio amico androide scherza. Ricordo l’ultima volta in cui mi sono trovato appeso a una paravela e devo farmi forza per non rabbrividire. «Hai mai usato il parapendio su questo pianeta?» replico.

«No, signor Endymion.»

«Su qualche altro pianeta?»

«No, signor Endymion.»

«Quali sarebbero, secondo te, le nostre probabilità, se provassimo?»

«Una su dieci» risponde senza un attimo d’esitazione.

«E quali sono le nostre possibilità con cavi e scivolo, a questa tarda ora del giorno?»

«All’inarca nove su dieci prima del buio. Meno, se il tramonto ci coglie ancora sullo scivolo.»

«Allora prendiamo cavi e scivolo» concludo.


Aspettiamo nella breve coda di gente che lascia il mercato e prende i cavi; poi è il nostro turno di salire sulla piattaforma di partenza. Il ripiano di bambù si trova circa venti metri sotto l’impalcatura più bassa del mercato e sporge sull’abisso cinque metri più del resto di Phari. Sotto di noi, per migliaia di metri, non c’è altro che aria; e al fondo di quel vuoto c’è solo l’onnipresente mare di nuvole che si frange contro le creste di roccia sporgerti verso l’alto, simile a una bianca marea che batta contro palificazioni di pietra. Vari chilometri più in basso, sotto quelle nuvole, ci sono gas velenosi e l’agitato mare acido che copre tutto il pianeta tranne le montagne.

L’addetto ai cavi ci fa segno di avanzare; A. Bettik e io saliamo insieme sulla piattaforma di salto. Da quel punto di connessione, venti o più cavi scendono in diagonale verso l’abisso e creano una nera ragnatela a perdita d’occhio. Il più vicino terminale dei cavi si trova a più di un chilometro e mezzo verso nord, su un piccolo dente di roccia che si staglia contro il bianco splendore del Chomo Lori, "Regina di neve", ma noi andiamo a est, al di là del grande vuoto fra le creste: il nostro punto d’arrivo dista più di venti chilometri e il cavo che scende in quella direzione si fonde nel bagliore serale della lontana parete di roccia e pare finire a mezz’aria. E la nostra destinazione si trova più di trentacinque chilometri al di là di quel punto, a nord e a est. A piedi impiegheremmo circa sei ore per fare il lungo viaggio a nord lungo la cresta Phari e poi a est, seguendo il sistema di ponti e di passerelle. Viaggiando per cavo e scivolo dovremmo impiegare metà tempo, ma l’ora è tarda e lo scivolo è molto pericoloso. Lancio ancora un’occhiata al sole basso e mi domando di nuovo se ho fatto la scelta più assennata.

«Pronti» brontola l’addetto ai cavi, un ometto bruno in chuba a riquadri cuciti insieme, tutto macchiato. Mastica radice di besil e si gira a sputare dal bordo, mentre ci accostiamo alla fune d’aggancio.

«Pronto» diciamo all’unisono A. Bettik e io.

«Mantenete la distanza» ringhia l’addetto. Mi fa segno di andare per primo.

Allento dalla imbracatura a corpo intero le bretelle da viaggio, faccio scivolare le mani sulla braca piena di attrezzi che chiamiamo reticella, trovo a tentoni la carrucola a due posizioni, la aggancio con un moschettone all’anello della bretella, faccio passare in un altro moschettone un attacco Munter come freno di riserva in aggiunta al freno della carrucola, trovo il mio migliore moschettone, lo uso per unire intorno al cavo le flange della carrucola, poi passo nei primi due moschettoni la fune di sicurezza, aggiungo alla fune un corto nodo Prusik e infine aggancio quest’ultimo alla imbracatura pettorale sotto le bretelle. Tutto questo richiede meno di un minuto. Alzo le mani, ingrano nella carrucola i comandi dell’anello a D e faccio qualche salto per provare sia il collegamento della carrucola sia gli agganci. Tutto regge bene.

L’addetto si sporge a ispezionare con occhi esperti l’aggancio dell’anello a doppio D e la morsa della carrucola. Muove la carrucola avanti e indietro, assicurandosi che i cuscinetti quasi privi di attrito scivolino dolcemente nella loro sede. Infine, con tutto il suo peso, fa forza sulle mie spalle e sull’imbracatura, tenendosi appeso come un secondo sacco da montagna; poi mi lascia e si assicura che anelli e freni reggano. Sono certo che non gliene frega niente se precipito e muoio ma, se la carrucola dovesse incepparsi da qualche parte lungo i venti chilometri di cavo in monofilamento intrecciato che corrono verso l’invisibile, toccherà a lui riparare il guaio, appeso alle staffe o a un seggiolino, sopra chilometri d’aria, mentre pendolari in attesa fremono. Pare soddisfatto dell’attrezzatura.

«Vai» dice e mi dà una manata sulla spalla.

Salto nel vuoto e intanto sposto più in alto sulla schiena il sacco da montagna. Le cinghie dell’imbracatura si tendono, il cavo s’incurva, i cuscinetti della carrucola ronzano appena e io comincio a scivolare più velocemente, man mano che rilascio il freno, pollici sui comandi dell’anello a D. Nel giro di qualche secondo saetto lungo il cavo. Sollevo le gambe e mi accomodo sul sedile dell’imbracatura, in quel modo che mi è diventato naturale negli ultimi tre mesi. La cresta K’un Lun, la nostra destinazione, brilla vivida, mentre l’ombra del tramonto comincia a riempire l’abisso sotto di me e l’ombra della sera si muove giù per la parete della cresta Phari alle mie spalle.

Percepisco nel cavo un lieve mutamento di tensione e un ronzio: A. Bettik inizia la discesa dietro di me. Mi lancio un’occhiata alle spalle e lo vedo abbandonare la piattaforma di salto, gambe dritte davanti a sé nella forma approvata, corpo che ballonzola sotto le bretelle elastiche. Riesco appena a scorgere la catena che collega al freno della carrucola la banda di cuoio del suo braccio sinistro. A. Bettik agita il braccio e io rispondo al saluto, ruotando nell’imbracatura per tenere d’occhio il cavo che sibila mentre continuo a saettare sopra l’abisso. A volte qualche uccello si posa sul cavo per riposare. A volte vi si forma all’improvviso una concrezione di ghiaccio. Molto raramente c’è la carrucola impigliata di qualcuno che ha avuto un incidente o che si è staccato dall’imbracatura per ragioni note solo a lui. Ancora più raramente, ma abbastanza da non dimenticarsene, qualcuno con un rancore e vaghe tendenze psicopatiche si ferma ad avvolgere intorno al cavo una zeppa o una camma a molla, lasciando una piccola sorpresa per il prossimo che giunge a gran velocità. La pena per questo crimine è la morte e il colpevole viene spinto giù dalla più alta piattaforma di Potala o di Jo-kung; ma questo è di poca consolazione per chi incontra per primo la zeppa o la camma.

Nessuna di queste eventualità si verifica, mentre scivolo sul vuoto lungo il cavo ultraleggero. L’unico rumore è il lieve ronzio del freno della carrucola, mentre modero la velocità, e il lieve fruscio d’aria. Siamo ancora in pieno sole e sul pianeta è tarda primavera, ma sopra gli ottomila metri l’aria è sempre fredda. Respirare non è un problema. Ogni giorno, da quando sono giunto su T’ien Shan, ringrazio gli dei dell’evoluzione planetaria perché, anche con gravità un po’ più leggera, 0,954 g standard, a questa altitudine c’è maggiore ricchezza d’ossigeno. Lancio un’occhiata alle nuvole vari chilometri sotto i miei stivali e penso all’oceano che ribolle in quella cieca pressione, agitato da venti di fosgene e di densa anidride carbonica. Su T’ien Shan non c’è una vera superficie terrestre, solo quella densa brodaglia di oceano planetario e innumerevoli picchi e creste che si alzano per migliaia di metri verso lo strato di ossigeno e la vivida luce del sole simile a quella di Hyperion.

Il pensiero mi stuzzica la memoria. Ricordo un altro pianeta di nuvole dove mi sono trovato solo qualche mese fa. Penso al mio primo giorno nella nave, prima di raggiungere il punto di traslazione, mentre guarivo dalla febbre e dalla gamba rotta, quando avevo detto oziosamente alla nave: "Chissà come ho varcato il teleporter, su quel pianeta. Il mio ultimo ricordo riguarda una gigantesca creatura…".

La nave aveva risposto proiettando un ologramma preso da una delle sue olocamere boa mentre se ne stava sul fondo del fiume dove l’avevamo lasciata. Era un’immagine migliorata alla luce delle stelle, pioveva, e mostrava l’arcata rilucente e verdastra del teleporter e cime d’alberi agitate dal vento. All’improvviso un tentacolo più lungo della nave era emerso dal teleporter, reggendo quello che pareva un kayak giocattolo avvolto da una massa di sbrindellato tessuto di paravela. Il tentacolo aveva fatto una singola, aggraziata, lenta torsione: paravela, kayak e la figura accasciata nell’abitacolo erano scivolati, si erano dimenati in realtà, per un centinaio di metri ed erano scomparsi fra le cime degli alberi.

"Perché non sei venuta a prendermi subito?" avevo domandato, senza curarmi di nascondere l’irritazione. Sentivo ancora male alla gamba. "Perché hai aspettato tutta la notte, mentre penzolavo nella pioggia? Potevo morire."

"Non avevo l’ordine di ricuperarla al suo ritorno" aveva risposto l’arrogante, idiota sapiente nave. "Poteva anche essere impegnato in chissà quale importante missione che non ammetteva interruzioni. Se non avessi avuto sue notizie nel giro di alcuni giorni, avrei inviato nella giungla un cingolato automatico per accertarmi che stesse bene."

Avevo spiegato la mia opinione sulla sua logica.

"Indicazione bizzarra" aveva detto la nave. "Se da una parte ho certi elementi organici incorporati nella mia substruttura e componenti computeristici DNA decentralizzati, non sono, nel senso stretto del termine, un organismo biologico. Non possiedo un sistema digerente. Non ho bisogno di eliminare niente, tranne l’occasionale gas di scarico e l’effluvio dei passeggeri. Ne consegue che non possiedo ano sia in senso reale sia in senso figurato. Perciò non credo proprio di avere le qualifiche per essere definita una…"

"Chiudi il becco!"


La scivolata richiede meno di quindici minuti. Freno con cautela, mentre la grande muraglia della cresta K’un Lun si avvicina. Per l’ultimo centinaio di metri la mia ombra e quella di A. Bettik sono proiettate davanti a noi sulla distesa verticale di roccia arancione e diventiamo ombre di burattini, due bizzarri stecchi con appendici sferzanti, che azionano gli anelli per frenare la corsa e allungano le gambe in vista dell’atterraggio. Poi il rumore del freno della carrucola passa da un basso ronzio a un forte gemito, mentre rallento per l’accosto finale alla cornice d’atterraggio, una lastra di pietra di sei metri, con la parete di fondo imbottita di vello di zigocapra scuro e marcio per le intemperie.

Scivolo, rimbalzo e mi fermo a tre metri dalla parete, trovo un solido punto d’appoggio sulla roccia e con la rapidità derivante dalla pratica sgancio la carrucola e la fune di sicurezza. L’attimo dopo, A. Bettik scivola e si ferma accanto a me. Anche con una sola mano, l’androide ha movimenti molto più sciolti dei miei, sui cavi: sfrutta meno di un metro di spazio d’atterraggio.

Restiamo lì per un minuto e guardiamo il sole in equilibrio sul profilo della cresta Phari: la bassa luce dipinge la sommità a cono che si alza sopra la corrente a getto, a sud. Poi ci sistemiamo l’imbracatura e la reticella di attrezzi. Alla fine dico: «Sarà già buio, quando giungeremo nel Regno di mezzo».

A. Bettik annuisce. «Preferirei che lo scivolo fosse già alle nostre spalle prima che faccia buio, signor Endymion. Ma penso che sia solo un pio desiderio.»

Il solo pensiero di usare lo scivolo nel buio mi fa aggricciare lo scroto. Mi domando futilmente se un androide maschio ha la mia stessa reazione fisiologica. «Allora muoviamoci» dico e mi avvio a passo svelto giù dalla cornice di pietra.

Sul cavo abbiamo perso alcune centinaia di metri di quota e ora dobbiamo ricuperarla. La cornice termina presto, sui picchi delle Montagne del cielo ci sono poche zone piane, e i nostri stivali fanno rumore mentre percorriamo una impalcatura passerella di bambù bonsai appesa alla parete dell’abisso e sporgente sul vuoto. Non c’è ringhiera. Il vento della sera si alza; mentre procediamo, chiudo ermeticamente il giubbotto termico e il chuba di lana di zigocapra. Il pesante sacco da montagna mi rimbalza sulla schiena.

Il punto jumar si trova a meno di un chilometro a nord della cornice d’atterraggio. Sulla passerella non incontriamo nessuno, ma in lontananza, dall’altra parte della valle rannuvolata, si accendono le torce sulla via Pedonale tra Phari e Jo-kung. Le impalcature e il labirinto di ponti sospesi da questo lato del Grande Abisso si animano di persone dirette a nord; alcune vanno di sicuro al Tempio a mezz’aria per ascoltare le discussioni nella sessione pubblica serale tenuta da Aenea. Voglio arrivare lì prima di loro.

Il punto jumar consiste in quattro corde fisse che corrono lungo la parete verticale per circa settecento metri sopra di noi. Quelle corde, di colore rosso, sono per la salita. Qualche metro più in là penzolano le corde azzurre per il rinvio dalla sommità della cresta. L’ombra della sera ormai ci copre e il vento è gelido. «Fianco a fianco?» dico ad A. Bettik, indicando una delle corde interne.

L’androide annuisce. La sua espressione è identica a come la ricordo dalla nostra partenza da Hyperion, quasi dieci dei suoi anni fa. Cosa mi aspettavo? Che un androide invecchiasse?

Togliamo dalle reticelle gli ascender a motore, li agganciamo a due corde contigue di microfibra; proviamo a scuoterle, come se lo strattone potesse dirci che sono ben ancorate. Qui le corde fisse sono controllate solo di tanto in tanto dagli addetti ai cavi; potrebbero essere sfilacciate dai morsetti jumar di qualcuno o abrase da spuntoni di roccia nascosti o coperte di ghiaccio. Presto lo sapremo.

Agganciamo una catena a margherita e le staffe all’ascender a motore. A. Bettik srotola otto metri di corda da scalata che agganciamo con moschettoni alle nostre imbracature. Così, se una corda fissa cede, uno di noi può arrestare la caduta dell’altro. Questa almeno è la teoria.

Gli ascender a motore costituiscono quasi tutta la tecnologia posseduta dalla maggior parte degli abitanti di T’ien Shan: alimentati da una batteria solare sigillata, poco più grandi della nostra mano che si adatta all’impugnatura anatomica, gli ascender sono eleganti attrezzi da scalata. A. Bettik controlla gli agganci e annuisce. Col pollice metto in moto i miei due ascender. Le spie luminose sono verdi. Sposto l’ascender destro di un metro, lo blocco, metto il piede nell’anello della staffa, controllo di non essermi impigliato, faccio salire un poco l’ascender sinistro, lo blocco, sposto il piede di due anelli e proseguo a questo modo. E così per settecento metri. Di tanto in tanto ci fermiamo, appesi alle staffe, e guardiamo dall’altra parte della valle, dove la via Pedonale brilla di torce. Ora il sole è tramontato, il cielo è divenuto subito più scuro, porporino e violaceo, e le stelle più luminose già compaiono. Calcolo che ci restano circa venti minuti di vero crepuscolo. Percorreremo nel buio lo scivolo.

Rabbrividisco, mentre il vento ulula intorno a noi.

Per gli ultimi duecento metri le corde fisse penzolano sopra ghiaccio verticale. A. Bettik e io abbiamo nella reticella ramponi pieghevoli, ma ne facciamo a meno e continuiamo il faticoso rituale: jumar-aggancio-passo-liberare staffe-riposare un secondo-jumar-aggancio-passo-riposo-jumar. Impieghiamo quasi quaranta minuti a salire quei settecento metri. Quando mettiamo piede sulla cresta di ghiaccio che funge da piattaforma, il buio è già abbastanza fitto.

T’ien Shan ha cinque lune: quattro sono asteroidi catturati, ma seguono un’orbita abbastanza bassa da riflettere un bel po’ di luce; la quinta è grande quasi quanto la Luna della Vecchia Terra, ma segnata sul quadrante superiore destro da un solo, enorme cratere d’impatto i cui raggi si allargano come una lucente ragnatela verso ogni angolo visibile della sfera. Ora questa grossa luna, l’Oracolo, si leva a nordest, mentre A. Bettik e io avanziamo lentamente a nord lungo la stretta cresta di ghiaccio, agganciandoci a cavi fissi per non essere sbattuti via dal vento glaciale che ora si proietta giù dalla corrente a getto.

Mi sono calato sugli occhi il cappuccio termico e mi sono messo la maschera facciale, ma il vento gelido mi fa bruciare ugualmente gli occhi e ogni pezzetto di pelle esposta. Qui non possiamo indugiare a lungo. Ma l’impulso a mettersi in piedi e a guardare è forte in me, come sempre quando sono al terminale dei cavi della cresta K’un Lun e guardo il Regno di mezzo e il mondo delle Montagne del cielo.

Mi fermo sul campo di ghiaccio, piatto e aperto, all’inizio dello scivolo, per dare un’occhiata intorno. A sud e a ovest, dall’altra parte della zangola di nubi illuminata dalle lune e perduta nelle profondità, la cresta Phari splende alla luce dell’Oracolo. In alto, torce lungo la cresta a nord di Phari segnano chiaramente la via Pedonale e molto più a nord si scorgono i ponti sospesi illuminati. Al di là del mercato Phari c’è un bagliore nel cielo e immagino che sia la luce di torce di Potala, Palazzo d’inverno per Sua Santità il Dalai Lama e sede della più sfarzosa architettura di pietra del pianeta. Potala si trova a qualche chilometro a nord di qui e la Pax ha appena avuto in concessione una enclave nei pressi del Rhan Tso, dove a sera cade l’ombra dello Shivling, il "Fallo di Shiva". Sorrido sotto la maschera termica: mi immagino i missionari cristiani rimuginare su quella sconcezza pagana.

Al di là di Potala, centinaia di chilometri verso ovest, c’è il regno di creste di Koko Nor, con i suoi innumerevoli villaggi sospesi e i suoi pericolosi ponti. Molto a sud, lungo la grande dorsale detta Lobsang Gyatso, si estende il territorio della setta Cappello Giallo, che termina al picco Nanda Devi, dove si dice abiti la dea indù della felicità. A sudovest di queste zone, così lontano che vi splende ancora il sole, c’è Muztagh Alta con le decine di migliaia di abitanti islamici che custodiscono le tombe di Ali e di altri santi dell’Isiam. A nord di Muztagh Alta le creste corrono in territori che non ho mai visto, nemmeno dall’orbita durante l’avvicinamento, e che ospitano le alte case degli Ebrei Erranti lungo le vie di accesso al monte Sion e al monte Moriah, dove le città gemelle di Abramo e Isacco vantano le migliori biblioteche di T’ien Shan. A nord e a ovest di quelle città si alza il monte Sumeru — il centro dell’universo — e il picco Harney, anch’esso stranamente il centro dell’universo: tutt’e due si trovano seicento chilometri a sudest dei quattro picchi San Francisco, dove la popolazione hopi-eschimese sbarca il lunario sulle gelide creste e nelle fenditure ricche di felci, anch’essa sicura che i loro picchi delimitino il centro dell’universo.

Dritto a nord posso vedere la più grande montagna del nostro emisfero e il limite settentrionale del nostro mondo, dal momento che, alcuni chilometri più a nord di qui, la cresta scompare sotto nubi di fosgene: il Chomo Lori, "Regina di neve". Il tramonto illumina ancora la vetta ghiacciata del Chomo Lori, mentre l’Oracolo bagna di luce più delicata le sue creste orientali.

Dal Chomo Lori, le creste K’un Lun e Phari corrono a sud e la distanza fra l’una e l’altra aumenta fino a diventare insuperabile per i ponti a sud della funivia che abbiamo appena percorso. Giro la schiena al vento del nord, guardo a sud e a est, seguendo la sinuosa linea della cresta K’un Lun, e immagino di poter vedere le torce, duecento chilometri più a sud, dove la città di Hsi wang-mu, "Regina Madre dell’Ovest" ("ovest" è la zona a sud e a ovest del Regno di mezzo) ospita circa trentacinquemila persone al sicuro nei suoi stretti passi e nelle sue fenditure.

A sud di Hsi wang-mu (solo la vetta è visibile sopra la corrente a getto) si alza il grande picco del monte Koya, dove, secondo i fedeli che vivono in città scavate nel ghiaccio sulle pendici inferiori, Kobo Daishi, il fondatore del buddhismo Shingon, giace inumato in una tomba di ghiaccio priva d’aria, in attesa delle giuste condizioni per emergere dalla sua trance meditativa.

A est del monte Koya, fuori vista per la curvatura planetaria, c’è il monte Kalais, casa di Kubera, il dio indù della ricchezza, e anche di Shiva, che evidentemente non bada ai mille e più chilometri di spazio nuvoloso che lo separano dal proprio fallo. A quanto si dice, anche Parvati, moglie di Shiva, vive sul monte Kalais, ma non si sa che cosa pensi di quella separazione.

Durante il primo anno di permanenza sul pianeta, A. Bettik è stato sul monte Kalais e mi ha raccontato che il picco è bellissimo, uno dei più alti di T’ien Shan, quasi ventimila metri sul livello del mare: lo ha descritto come una scultura marmorea che si alzi da un piedistallo di roccia venata. Mi ha anche detto che sulla cima del monte Kalais, in alto sui campi di ghiaccio, dove l’aria è troppo rarefatta per consentire la respirazione e la formazione di vento, si trova un tempio di lega di carbonio dedicato alla divinità buddhista della montagna, Demchog, "Il supremamente felice", un gigante alto almeno dieci metri, azzurro come il cielo, drappeggiato di collane di teschi e gioiosamente abbracciato nella danza alla sua consorte. A. Bettik ha detto che quella divinità dalla pelle azzurra gli assomiglia un poco. Il palazzo costituisce il centro preciso della vetta arrotondata che si trova al centro di un mandala formato da minori picchi innevati e l’insieme abbraccia il sacro cerchio, il mandala fisico, dello spazio divino di Demchog, dove chi medita scoprirà la saggezza che lo libera dal ciclo di sofferenza.

In vista del mandala del monte Kalais, ha detto A. Bettik, e tanto lontano verso sud da essere sepolto sotto luccicanti ghiacciai profondi chilometri, si alza il picco Helgafell, la "Sala d’idromele dei morti", dove alcune centinaia di islandesi giunti durante l’Egira sono tornati alle usanze vichinghe.

Guardo a sudovest. Se un giorno potessi percorrere l’arco del circolo polare antartico, laggiù, incontrerei picchi come il Gunung Agung, l’ombelico del mondo (su T’ien Shan ce ne sono una decina), dove il festival Eka Dasa Rudra adesso ha iniziato da ventisette anni il suo ciclo di seicento e dove le donne balinesi si dice danzino con grazia e leggiadria impareggiabili. Più di mille chilometri a nordovest, lungo l’alta cresta dal Gunung Agung, c’è il Kilimachaggo, dove gli abitanti delle terrazze inferiori, dopo un appropriato intervallo, dissotterrano i propri morti dalle fenditure piene di terra grassa e portano le ossa molto al di sopra dell’atmosfera respirabile, grazie a dermotute cucite a mano e maschere a pressione, per riseppellire i parenti nel ghiaccio duro come pietra, a un’altitudine di circa diciottomila metri, in modo che dal ghiaccio i teschi guardino verso la vetta, in eterna speranza.

Al di là del Kilimachaggo, l’unico picco che conosco per nome è il Croagh Patrick, che ha la fama di essere privo di serpenti. Ma per quanto ne so, non ci sono serpenti da nessuna parte, su Montagne del cielo.

Mi giro verso nordest. Il gelido vento mi colpisce in pieno viso, mi spinge ad affrettarmi, ma spreco questo ultimo minuto per guardare verso la nostra destinazione. Anche A. Bettik pare non avere fretta, ma forse è l’ansia per il prossimo tratto in scivolo a spingerlo a soffermarsi lì un momento insieme con me.

Qui a nord e a est, al di là della parete a strapiombo della cresta K’un Lun, si estende il Regno di mezzo, con i suoi cinque picchi che brillano sotto la luce da lanterna dell’Oracolo.

A nord rispetto a noi, la via Pedonale e una decina di ponti sospesi attraversano il vuoto fino alla città di Jo-kung e al picco centrale del Sung Shan, detto "l’Altissimo" anche se è di gran lunga il più basso del Regno di mezzo.

Davanti a noi, collegato da sudovest solo mediante una ripida cresta di ghiaccio al sinuoso circuito della funivia, si alza lo Hua Shan, il "monte Fiore", il picco più occidentale del Regno di mezzo e (ma qui si può discutere) il più bello dei cinque picchi. Dallo Hua Shan, gli ultimi chilometri di funivia uniscono il monte Fiore alle creste a nord di Jo-kung dove Aenea lavora nel Hsuan-k’ung Ssu, il Tempio a mezz’aria, posto in una parete a strapiombo che guarda a nord al di là dell’abisso verso l’Heng Shan, la montagna sacra del Nord.

Un secondo Heng Shan a circa duecento chilometri verso sud, segna il confine del Regno di mezzo, ma è una modesta montagnola a confronto delle pareti a strapiombo, delle grandi creste e del vasto profilo della sua controparte settentrionale. Mentre guardo a nord tra il vento rabbioso e le coltri di nuvolaglia, ricordo la mia prima ora su quel pianeta, quando nella nave del console mi libravo fra il grandioso Heng Shan e il Tempio.

Mi rivolgo di nuovo a est e a nord: al di là dell’Hua Shan e del breve picco centrale Sung Shan vedo senza difficoltà, a più di trecento chilometri, l’incredibile vetta del T’ai Shan stagliata contro l’Oracolo che si leva. Quello è il Grande Picco del Regno di mezzo, alto 18.200 metri, con la città di Tai’an, "la Città di Pace", ammassata più in basso a 9000 metri e la sua leggendaria scalinata di 27.000 gradini che da Tai’an attraversa distese di neve, supera pareti di roccia e raggiunge il leggendario Tempio dell’imperatore di giada, sulla vetta.

Al di là della nostra montagna sacra del Nord ci sono le quattro montagne di Pellegrinaggio dei buddhisti: l’O-mei Shan, a ovest; il Chiu-hua Shan, la montagna dei Nove fiori, a sud; il Wu-t’ai Shan, la montagna delle Cinque terrazze, con il suo accogliente Palazzo Viola, a nord; e il P’u-t’o Shan, modesto ma d’indefinibile bellezza, nell’estremo oriente.

Spreco ancora qualche secondo su quella cresta di ghiaccio sferzata dal vento e guardo verso Jo-kung, con la speranza di scorgere la luce di torce lungo la forra riflettersi sul Hsuan-k’ung Ssu, ma alte nuvole o schermi di nuvolaglia offuscano la visuale, tanto che si vede solo una macchia confusa illuminata dall’Oracolo.

Mi rivolgo all’androide, indico lo scivolo e alzo il pollice per segnalare d’essere pronto. Ora il vento soffia molto forte e non consente lo scambio di parole.

A. Bettik annuisce e prende da una tasca esterna del sacco da montagna la slittolamina pieghevole e la allarga. Mi accorgo che il cuore mi batte forte e non solo per la stanchezza fisica, mentre prendo la mia slittolamina e la porto alla piattaforma di partenza dello scivolo.


Lo scivolo è veloce. È sempre stato questo il suo fascino. E il suo più grande rischio.

Nella Pax ci sono ancora posti, ne sono certo, dove esiste l’antico sport del toboga. Chi lo pratica, si siede su uno slittino a fondo piatto e si lancia giù per un apposito percorso di ghiaccio. Questo esempio descrive bene lo scivolo, con una differenza: invece di uno slittino a fondo piatto, A. Bettik e io abbiamo una slittolamina, che è lunga meno di un metro e s’incurva intorno a noi come un cucchiaio. La slittolamina è più lamina che slitta, flessibile come un foglio di alluminio, finché non si toglie un po’ di energia all’ascender e si invia il messaggio piezoelettrico ai rinforzi nella lamina: allora la piccola slitta pare gonfiarsi e prende forma in pochi secondi.

Aenea mi aveva detto che un tempo c’erano cavi fissi di carbonio-carbonio per tutto il tratto di scivolo e che i passeggeri vi erano agganciati come lo saremmo stati noi in una funivia o in corda doppia e che usavano un anello a basso attrito simile alla carrucola della funivia per non perdere velocità. Così si poteva frenare mediante il cavo oppure, se la slitta minacciava di volare via nel vuoto, usare la corda dell’anello come imbracatura automatica d’arresto. Una simile cintura di sicurezza comportava ammaccature e ossa rotte, ma almeno il passeggero non sarebbe volato nel vuoto insieme con la slitta.

Ma i cavi fissi si erano dimostrati inadeguati, mi disse Aenea. Richiedevano troppa manutenzione per restare puliti e funzionanti. Improvvise tempeste di ghiaccio li incollavano alla parete lungo lo scivolo e chi li percorreva, magari a 150 chilometri all’ora, poteva scoprire che il suo anello d’aggancio incontrava a un tratto ghiaccio inamovibile. Di questi tempi è già abbastanza difficile mantenere pulita la funivia; i cavi fissi dello scivolo erano diventati poco pratici.

Così gli scivoli erano stati abbandonati. Almeno finché i ragazzi in cerca di brividi e gli adulti troppo impazienti non scoprirono che per mantenere la slittolamina nella scanalatura nove volte su dieci bastava procedere come in glissade sulla neve… ossia usare una o più piccozze per frenare la corsa e tenere una velocità abbastanza bassa da restare nel solco. "Abbastanza bassa" significa inferiore ai 150 chilometri all’ora. Nove volte su dieci funzionava. Se si era abbastanza abili. E se le condizioni atmosferiche erano perfette. E se c’era la luce del giorno.

A. Bettik e io avevamo preso lo scivolo in tre altre occasioni, una volta per portare da Phari la medicina indispensabile a salvare la vita a una bambina e due volte per imparare le curve e i rettifili. Il viaggio era stato esilarante e terrificante, ma l’avevamo compiuto senza danni. Però ogni volta era giorno pieno, non c’era vento, e altri scivolavano davanti a noi e ci mostravano la via.

Adesso è buio, davanti a noi il lungo percorso brilla malignamente nella luce della luna. La superficie pare ghiacciata e dura come pietra. Non so se qualcuno ha già percorso quel tratto, oggi, o questa settimana. Se qualcuno ha controllato che non ci siano fenditure, gobbe di ghiaccio, fratture, incavamenti, crepacci, spuntoni, altri ostacoli. Non so quanto fossero lunghe le antiche piste per toboga, ma questo scivolo supera i venti chilometri, corre lungo il fianco a strapiombo dello sperone Abruzzi che collega la cresta K’un Lun ai pendii dello Hua Shan, si appiattisce nei graduali campi di ghiaccio sul lato ovest del monte Fiore, vari chilometri a sud della più lenta e più sicura via Pedonale che scende sinuosamente da nord. Dallo Hua Shan in poi, bisogna percorrere solo nove chilometri e tre facili tratti di funivia fino alle impalcature di Jo-kung e poi fare una buona camminata nella forra e giù per le ripide passerelle fino al Hsuan-k’ung Ssu.

A. Bettik e io siamo seduti fianco a fianco come bambini su uno slittino in attesa di una spinta di mamma o di papà. Mi sporgo, afferro per la spalla il mio amico e lo tiro più vicino per farmi sentire attraverso il materiale termico del suo cappuccio e della maschera. Ora il vento mi trafigge con aghi di ghiaccio. «Niente in contrario se vado avanti io?» grido.

A. Bettik gira il viso, tanto che le nostre guance, coperte di stoffa, si toccano. «Signor Endymion» replica «dovrei essere io a fare strada. Ho percorso questo scivolo due volte più di lei, signore.»

«Nel buio?» grido di rimando.

A. Bettik scuote la testa. «Pochi lo percorrono nel buio, di questi tempi, signor Endymion. Ma ho un’ottima memoria e ricordo ogni curva e ogni rettilineo. Credo che le sarei utile, mostrandole i giusti punti di frenata.»

Esito solo un secondo. «E va bene» dico. Gli stringo la mano, guanto contro guanto.

Con occhiali a visione notturna sarebbe facile come una scivolata di giorno, che secondo me non è poi così facile. Ma nell’odissea fra i teleporter ho perduto i visori che avevo con me e non ne ho preso un paio di ricambio, anche se sulla nave c’era. "Porta due dermotute e due respiratori" mi aveva trasmesso Rachel per conto di Aenea. Non poteva accennare anche agli occhiali a visione notturna?

In teoria l’escursione di oggi doveva essere una tranquilla gita al mercato Phari, una notte trascorsa alla locanda e poi un viaggio di ritorno a spalle ben cariche, in compagnia di George Tsarong, Jigme Norbu e una lunga fila di portatori carichi dei pesanti materiali per il cantiere.

Forse, mi dico, ho avuto una reazione eccessiva alla notizia dell’arrivo della Pax. Ormai è troppo tardi. Anche se torniamo indietro, la discesa a corda doppia lungo le corde fisse sulla cresta K’un Lun sarebbe pericolosa come la scivolata. Questa, almeno, è la bugia che mi racconto.

Guardo A. Bettik applicare all’anello nella cinghia di cuoio del braccio sinistro il corto (38 centimetri) martello da ghiaccio e poi preparare la normale piccozza lunga 75 centimetri. Seduto a gambe incrociate sulla slitta, impugno con la sinistra il martello da ghiaccio e mi tiro dietro nella destra, come un timone, la più lunga piccozza. Rivolgo di nuovo all’androide il gesto a pollice alzato: guardo A. Bettik spingersi nel vuoto sotto il chiarore delle lune, ruotare una volta, poi raddrizzare con perizia la slitta, servendosi del martello corto, mentre volano schegge di ghiaccio, e lanciarsi a tutta velocità oltre il bordo e sparire alla vista in un minuto. Aspetto che fra l’androide e me ci sia un intervallo di circa dieci metri, quanto basta a evitare la spruzzaglia di ghiaccio del suo passaggio senza perdere di vista lui nella luce arancione dell’Oracolo; poi mi spingo giù anch’io.

Venti chilometri. A una velocità media di 120 all’ora dovremmo coprire la distanza in dieci minuti. Dieci minuti di gelo, adrenalina, nausea, terrore, reazioni in un microsecondo o morte.

A. Bettik è brillante. Esegue alla perfezione ogni curva, giunge basso alle alte pareti in modo che il suo apogeo — e il mio, qualche secondo più tardi — pencoli proprio all’orlo della parete di ghiaccio, esce di gran carriera dalla curva sopraelevata, proprio alla velocità giusta per il tratto discendente dritto, poi urta e salta la lunga rampa ghiacciata a una velocità tale che la vista mi si confonde, la serie di colpi mi risale lungo la spina dorsale al punto da farmi vedere doppio, triplo, e la testa mi pulsa dal dolore che ne deriva; poi la vista mi si confonde di nuovo per le schegge di ghiaccio che volano, che creano vividi aloni nel chiarore delle lune, mentre le stelle impassibili si rovesciano e turbinano sopra di noi, brillanti stelle in gara anche con il bagliore arancione dell’Oracolo e la vivida luce degli asteroidi catturati, e poi freniamo un poco e rimbalziamo pesantemente e corriamo di nuovo forte, ci arrestiamo in una stretta curva a sinistra che mi mozza il fiato, poi scivoliamo in una più stretta curva a destra, poi voliamo su un rettifilo così ripido che la slitta e io sembriamo sibilare in caduta libera. Per un minuto guardo dritto in basso le nubi di fosgene illuminate dalle lune, verdi come iprite nell’ingannevole chiarore, e poi tutt’e due sfrecciamo con stridore in una serie di spirali, stretti tornanti simili all’elica del DNA, con le slitte che vacillano sul bordo di ogni curva così che per due volte la mia piccozza colpisce nient’altro che aria gelida, ma ogni volta cadiamo di nuovo giù ed emergiamo (più che uscire dalle curve, siamo sputati fuori, come due proiettili di fucile sparati proprio sopra il ghiaccio) e poi ci incliniamo di nuovo in alto, usciamo accelerando in un rettifilo e schizziamo per otto chilometri di parete di ghiaccio sullo sperone Abruzzi e ora è la parete destra dello scivolo a fare da piano di corsa, la mia piccozza scaglia nello spazio verticale schegge di ghiaccio e la nostra velocità aumenta, aumenta ancora, diventa qualcosa di più di semplice velocità, e l’aria gelida e rarefatta penetra come una lama nella maschera e nelle vesti termiche e nei guanti e negli stivali riscaldati, mi intirizzisce la carne e mi lacera i muscoli. Sento la pelle ghiacciata della guancia tendersi sotto la maschera termica, ghigno come un idiota, una smorfia fra rictus di terrore e la pura gioia della velocità spensierata, braccia e mani in adattamento continuo, automatico, istantaneo, ai cambiamenti della piccozza timone e del martello freno.

All’improvviso A. Bettik scarta a sinistra e con le lame ricurve delle piccozze corta e lunga morde profondamente il ghiaccio tra un volo di schegge — non ha senso, una simile mossa lo manderà, ci manderà!, a rimbalzare contro la parete interna, la parete verticale di ghiaccio, e poi sibilando nel nero vuoto — ma mi fido di lui, prendo la decisione in meno di un secondo, pianto la lama della piccozza più grande, batto forte col martello da ghiaccio, mi sento il cuore in gola mentre slitto di lato e rischio di andare dritto anziché curvare a sinistra, sul punto di roteare su me stesso e a spirale giù dal ripiano di ghiaccio a 140 chilometri all’ora, ma correggo la corsa e mi stabilizzo e passo in un lampo davanti a un buco nel fondo di ghiaccio dove saremmo scivolati se non avessimo fatto quel folle scarto, piombando in una breccia del bordo larga sei otto metri, una botola verso la morte, e poi A. Bettik scende con fracasso dalla parete interna, con un lampo di piccozza nel chiarore delle lune frena la scivolata e continua a precipitarsi giù per lo sperone Abruzzi, verso l’ultima serie di curve sui pendii di ghiaccio dello Hua Shan.

E io lo seguo.

Sul monte Fiore siamo troppo intirizziti e scossi per alzarci dalla slitta; restiamo immobili al gelo per parecchi minuti. Poi, insieme, ci tiriamo in piedi, mettiamo a massa le cariche piezoelettriche, smontiamo le slitte, le pieghiamo e le riponiamo nel sacco da montagna. Percorriamo a piedi e in silenzio il sentiero di ghiaccio intorno alla spalla del monte Hua Shan: io stupito per l’immediata reazione e il coraggio di A. Bettik, l’androide in un silenzio che non so interpretare, ma che mi auguro di cuore non sia collera per la mia affrettata decisione di fare ritorno seguendo quel percorso.

Gli ultimi tre tratti in funivia sono una delusione, notevoli solo per la bellezza del chiarore delle lune sui picchi e sulle creste intorno a noi e per la difficoltà che trovo a manovrare con le dita intirizzite gli anelli a D dei freni.

Dopo il vuoto dei pendii superiori rischiarato solo dalle lune, Jo-kung pare incendiata di torce; evitiamo le impalcature principali e prendiamo le scale che portano nella forra. Allora siamo circondati dall’ombra proiettata dalla parete nord, interrotta da torce sfrigolanti poste lungo l’alta passerella che va al Hsuan-k’ung Ssu. Percorriamo lentamente l’ultimo chilometro.

Arriviamo proprio mentre Aenea sta per iniziare la sessione serale di discussioni. Nella piccola piattaforma a pagoda sono radunate circa cento persone. Aenea guarda sopra le teste della folla, vede il mio viso, chiede a Rachel di iniziare la discussione e viene subito nel ventoso vano di porta dove A. Bettik e io ci siamo fermati.

16

All’arrivo su T’ien Shan, le Montagne del cielo, ero confuso e un po’ depresso, lo ammetto.

Dormii in crio-fuga per tre mesi e due settimane. Avevo sempre pensato che in animazione sospesa non si sognasse, ma mi sbagliavo. Per gran parte del viaggio ebbi incubi e mi svegliai disorientato e apprensivo.

Il punto di traslazione del nostro sistema solare di partenza si trovava a una distanza di appena diciassette ore dal pianeta; ma nel sistema di T’ien Shan emergemmo dalla velocità C-più in un punto al di là dell’ultimo pianeta ghiacciato del sistema e fummo obbligati a decelerare per tre giorni interi. Camminai nei diversi ponti della nave, su e giù per la scala a chiocciola, perfino nella piccola loggia che avevo ordinato alla nave di estrudere. Dissi a me stesso che si trattava di allenamento per il pieno ricupero della gamba (mi faceva ancora male, anche se la nave aveva dichiarato che il medibox l’aveva guarita e che non mi avrebbe dato fastidio) ma in realtà cercavo solo di dissipare energia nervosa. Non ero mai stato così ansioso in vita mia, ne sono sicuro.

La nave voleva parlarmi di quel sistema stellare nei minimi (e penosi) particolari: stella gialla tipo G, bla, bla, bla (be’, lo vedevo da me!), undici pianeti, tre giganti gassosi, due fasce di asteroidi, alta percentuale di comete nella parte interna del sistema, bla, bla, bla. A me interessava solo T’ien Shan. Mi sedetti nel pozzetto olografico e guardai crescere il pianeta. T’ien Shan era sorprendentemente luminoso. Abbagliante. Una vivida perla contro il nero dello spazio.

"Ciò che vede è lo strato di nubi inferiore e permanente" continuò in tono monotono la nave. "L’albedo è notevole. Ma ci sono nuvole più alte. Vede quei turbini tempestosi nella parte inferiore destra dell’emisfero illuminato? Quegli alti cirri che provocano ombre nelle vicinanze della calotta polare artica? Sono le nuvole che portano maltempo agli abitanti umani."

«Dove sono le montagne?» domandai.

"Qui" rispose la nave e cerchiò un’ombra grigia nell’emisfero nord. "Secondo le mie vecchie mappe, quello è un grande picco nella parte settentrionale dell’emisfero orientale, Chomo Lori, "Regina di neve". Vede quelle striature che corrono verso sud? Vede come rimangono ravvicinate finché non passano l’equatore e come poi si distanziano sempre più l’una dall’altra fino a scomparire nelle masse di nubi del polo antartico? Quelle sono le due creste dorsali, la cresta Phari e la cresta K’un Lun. Furono le prime linee rocciose abitate del pianeta e sono un ottimo esempio del primo, violento sollevamento cretaceo dakotano che formò il…"

Bla, bla, bla. E io riuscivo a pensare solo a Aenea, Aenea, Aenea.

Era strano entrare in un sistema solare e non trovare navi della Flotta della Pax che ci dessero l’altolà, né difese orbitali, né basi lunari — nemmeno una base su quel gigantesco occhio di bue della luna più grande, una liscia sfera arancione con un solo, enorme cratere d’impatto, come se l’avessero colpita con un unico proiettile — né traccia di scie di propulsione Hawking né di emissioni di neutrini né di campi lenticolari gravitazionali né di aree pulite di navette automatiche Bussard: nessun segno di tecnologia superiore. La nave disse che da certe zone del pianeta proveniva un rivolo di trasmissioni a microonde; una volta intercettate, risultarono in cinese pre-Egira. Per me fu una vera sorpresa. Non ero mai stato in un pianeta dove la maggioranza degli esseri umani non parlasse una versione dell’inglese della Rete.

La nave entrò in orbita geosincrona sopra l’emisfero orientale. "Le sue istruzioni erano di cercare il picco Heng Shan, che dovrebbe trovarsi a circa seicentocinquanta chilometri a sudest del Chomo Lori… Eccolo là!" La veduta telescopica nel pozzetto olografico zumò in avanti su un magnifico dente di neve e di ghiaccio che attraversava almeno tre strati di nuvole e la cui cima luccicava, chiara e brillante, sopra gran parte dell’atmosfera.

«Cristo!» mormorai. «E dov’è il Hsuan-k’ung Ssu? Il Tempio a mezz’aria?»

"Dovrebbe essere… là!" rispose, trionfante, la nave.

Guardavamo direttamente in giù lungo una cresta verticale di ghiaccio, neve e roccia grigia. Banchi di nuvole si arrostivano al sole, alla base dell’incredibile lastrone. Anche solo a guardarlo in ologramma, mi sentii girare la testa per le vertigini e mi aggrappai ai cuscini della cuccetta.

«Là, dove?» Non vedevo alcun edificio.

"Quel triangolo scuro" disse la nave e cerchiò una zona che pensavo fosse un’ombra sul lastrone di roccia grigia. "E questa linea… qui."

«Qual è l’ingrandimento?»

"Il triangolo misura all’incirca uno virgola due metri lungo il lato maggiore" disse la voce che avevo imparato dal comlog a conoscere così bene.

«Un edificio molto piccolo perché ci vivano delle persone.»

"No, no. Quello è solo un pezzetto di edificio costruito dall’uomo, che sporge da quello che di sicuro è uno strapiombo roccioso. Oserei presumere che l’intero cosiddetto Tempio a mezz’aria si trovi sotto lo strapiombo. In quel punto la roccia non è verticale, si inclina di sessanta o ottanta metri verso l’esterno."

«Puoi fornire una veduta laterale? Così posso vedere il tempio?» "Potrei" disse la nave. "Dovrei cambiare posizione in un’orbita più settentrionale, così potrei usare il telescopio per guardare a sud oltre il picco Heng Shan e passare all’infrarosso per guardare attraverso la massa di nubi a ottomila metri che al momento si muove fra il picco e lo sperone della cresta dove è costruito il tempio. Dovrei anche…"

«Lascia perdere. Tieni sotto controllo radio la zona del tempio, no, diavolo, l’intera cresta, e vedi se Aenea ci aspetta.»

"Quale frequenza?" domandò la nave.

Aenea non aveva parlato di frequenze. Aveva solo accennato al fatto che un atterraggio vero e proprio era impossibile, ma che dovevamo scendere comunque al Hsuan-k’ung Ssu. Guardando quella parete verticale, anzi peggio che verticale, di neve e di ghiaccio, cominciai a capire che cosa avesse voluto dire.

«Trasmetti su qualsiasi frequenza comune avresti usato per chiamare una estensione comlog» dissi. «Se non c’è risposta, cambia tutte le frequenze di cui disponi. Potresti usare le frequenze che hai già intercettato poco fa.»

"Provenivano dal quadrante inferiore dell’emisfero occidentale" disse la nave, in tono paziente. "Non ho intercettato emanazioni di microonde in questo emisfero."

«Per favore, fai come ti ho detto.»

Restammo librati lì per un’ora a spazzare la cresta con trasmissioni a raggio compatto e poi a lanciare generici segnali radio verso tutti i picchi della zona, poi a inondare con brevi chiamate tutto l’emisfero. Non ci fu risposta.

«Possibile che esista davvero un pianeta abitato dove nessuno usa la radio?»

"Naturalmente" disse la nave. "Su Ixion è contro la legge locale e contro le consuetudini usare trasmissioni a microonde di qualsiasi genere. Su Nuova Terra c’era un gruppo che…"

«Va bene, va bene» la interruppi. Per la millesima volta mi domandai se ci fosse un modo di riprogrammare l’intelligenza autonoma della nave in modo che non fosse una simile rottura di palle. «Scendiamo.»

"In quale località? Ci sono estese zone abitate su quell’alto picco a est — la mia mappa lo indica come monte T’ai Shan — e un’altra città a sud, sulla cresta K’un Lun, che si chiama Hsi wang-mu mi pare, e altre abitazioni lungo la cresta Phari e a ovest di lì in una zona segnata come Koko Nor. Inoltre…"

«Scendiamo sul Tempio a mezz’aria» tagliai corto.


Per fortuna il campo magnetico del pianeta era più che sufficiente per i repulsori EM della nave, perciò attraversammo lentamente l’atmosfera, anziché scendere su una coda di fiamme di fusione. Uscii sulla loggia per ammirare lo spettacolo, anche se il pozzetto olografico o gli schermi nella camera da letto in cima alla nave sarebbero stati più pratici.

Parvero passare delle ore, ma in realtà, tempo qualche minuto, eravamo graziosamente librati a ottomila e passa metri, tra il fantastico picco del nord, l’Heng Shan, e la cresta che ospitava il Hsuan-k’ung Ssu. Mentre scendevamo, avevo visto il terminatore correre da est e secondo la nave qui adesso era tardo pomeriggio. Presi il binocolo, uscii sulla loggia e guardai. Vedevo chiaramente il tempio. Lo vedevo, ma non potevo crederci.

Quello che era parso un semplice gioco di luci e di ombre sotto le gigantesche, striate, sporgenti lastre di granito grigio, era una serie di costruzioni che si estendevano a est e a ovest per molte centinaia di metri. Notai subito l’influsso asiatico: edifici a forma di pagoda, con tetti a punta e cornicioni dal margine rivolto all’insù, le cui tegole dorate brillavano ai vividi raggi del sole; finestre rotonde e porte circolari nelle sezioni inferiori della sovrastruttura, di mattoni; ariosi portici di legno, con ringhiere riccamente intagliate; delicate colonne di legno dipinte del colore del sangue secco; striscioni rossi e gialli che ricadevano da grondaie, da ingressi, da ringhiere; complicati intagli sulle travi del tetto e sui merli delle torrette; ponti sospesi e scale festonate di, l’avrei appreso in seguito, mulini e bandierine di preghiera, che presentavano a Buddha una orazione ogni volta che una mano li girava o il vento le agitava.

Il tempio era ancora in costruzione. Vedevo legname grezzo portato sulle piattaforme più alte, figure umane scalpellare la parete della cresta, impalcature, rozze scalette a pioli, grossolani ponti che in pratica erano poco più di fibre vegetali intrecciate e corde da scalata per corrimano, figure in piedi che tiravano ceste vuote su per quelle scalette e quei ponti, altre figure chine che portavano giù su un largo lastrone ceste piene di pietre e le scaricavano quasi tutte nel vuoto. Eravamo abbastanza vicino e quindi vedevo che molte di quelle figure umane indossavano vesti dai colori vivaci, lunghe quasi alla caviglia, alcune svolazzavano nel gagliardo vento che colpiva la parete rocciosa, e che quelle vesti parevano pesanti e foderate per proteggere dal freddo. Più tardi avrei appreso che erano gli onnipresenti chuba e che potevano essere di lana di zigocapra, pesante e impermeabile, o di seta per le cerimonie o addirittura di cotone, che però era raro e molto ricercato.

Non mi fidavo tanto a mostrare ai locali la nostra nave, non volevo provocare il panico o un attacco con lance laser o chissà cosa, ma non avevo alternativa. Distavamo ancora parecchi chilometri e perciò saremmo stati al massimo un insolito luccichio di sole su metallo scuro librato contro il bianco sfondo del picco settentrionale. Mi ero augurato che ci ritenessero semplicemente uno dei tanti uccelli (dall’alto, la nave e io avevamo visto parecchi uccelli, molti dei quali avevano un’apertura alare di diversi metri) ma la mia speranza andò delusa: vidi alcuni operai del tempio abbandonare il lavoro e guardare nella nostra direzione, imitati poi da altri e da altri ancora. Nessuno fu preso dal panico. Non ci fu una corsa a cercare rifugio o ad armarsi (non c’erano armi in vista da nessuna parte) ma era chiaro che ci avevano scorti. Guardai due donne correre su per la serie ascendente di edifici del tempio, ponti sospesi, scalinate, ripide scale a pioli e la penultima impalcatura, fino alla piattaforma orientale, dove il lavoro pareva consistere nel taglio di fori nella parete rocciosa. Lassù c’era una sorta di baracca da cantiere edile: una delle donne scomparve all’interno e ne uscì quasi subito in compagnia di parecchie persone di statura più alta, tutte in vesti lunghe e ampie.

Col cuore che mi batteva forte, aumentai l’ingrandimento del binocolo: dalla baracca uscivano volute di fumo e non potevo dire con certezza se la figura più alta fosse Aenea. Ma tra i veli di fumo turbinante colsi una rapida visione di capelli biondo castano, non tanto lunghi da sfiorare le spalle, e per un momento abbassai il binocolo e mi limitai a fissare la lontana parete, sorridendo come un idiota.

"Fanno segnalazioni" mi avvertì la nave.

Alzai di nuovo il binocolo. Un’altra persona, una donna penso, ma con capelli molto più scuri, agitava due bandierine da segnalazione.

"È un antico codice di segnali" disse la nave. "Si chiama Morse. Le prime parole sono…"

«Silenzio» intimai. Nella Guardia nazionale insegnavano il codice Morse e in una circostanza me n’ero servito sull’Artiglio di ghiaccio, quando avevo usato due pezzi di benda insanguinata per chiamare gli skimmer ambulanza.

VAI… ALLA… FORRA… DIECI… CHILOMETRI… A… NORDEST.

RESTA… LÌ.

ASPETTA… ISTRUZIONI.

«Ricevuto, Nave?» domandai.

"Sì." Il tono della nave pareva sempre freddo, se mi ero rivolto a lei con scortesia.

«Allora andiamo. Mi pare di vedere una forra, circa dieci chilometri a nordest. Manteniamoci il più lontano possibile e arriviamo da est. Non credo che dal tempio riusciranno a vederci e da quella parte non scorgo edifici lungo la parete dello strapiombo.»

Senza altri commenti la nave si spostò in fuori, girò, tornò indietro lungo la parete rocciosa a picco, finché non fu di fronte alla forra, un taglio verticale che scendeva per alcune migliaia di metri dalla zona di ghiaccio e di neve molto più in alto e a un certo punto terminava, a circa quattrocento metri sul livello del tempio adesso nascosto dalla curvatura della roccia verso ovest.

La nave si librò in verticale fino a trovarsi a soli cinquanta metri dal fondo della forra. Notai con sorpresa alcuni torrenti scorrere sui ripidi fianchi rocciosi della forra, cadere nel centro della voragine e poi riversarsi nel vuoto, formando una cascata. Dappertutto c’erano alberi e muschi e licheni e piante in fiore: prati che salivano per molte centinaia di metri lungo i torrenti e che alla fine si mutavano in semplici striature di licheni multicolori che proseguivano verso i livelli di ghiaccio in alto. Sulle prime fui sicuro che lì non ci fosse segno d’intrusione umana, poi vidi le cornici (larghe appena da starci in piedi, pensai) scalpellate lungo la parete nord e i sentieri nel muschio verde brillante e le pietre disposte ad arte per guadare il corso d’acqua; allora notai la minuscola costruzione segnata dalle intemperie, troppo piccola per essere una baracca, più simile a un gazebo con finestre, che si trovava sotto sempreverdi scolpiti dal vento lungo il fiume, quasi al culmine della forra verdeggiante.

Indicai la costruzione: la nave si mosse da quella parte e restò librata nei pressi del gazebo. Capii perché sarebbe stato difficile, se non impossibile, atterrare lì. La nave del console non era poi molto grande (per secoli era rimasta nascosta nella torre di pietra del vecchio poeta, nella città di Endymion) ma, anche se fosse atterrata in verticale sulle pinne o sui sostegni estensibili, avrebbe schiacciato alberi, erba, muschi, piante fiorite. Parevano cose troppo rare, su quel mondo di rocce verticali, per distruggerle in quel modo.

Perciò la nave rimase librata. E aspettammo. Una trentina di minuti dopo il mio arrivo, una giovane donna svoltò nel sentiero, dalla parte delle cornici di roccia, e ci salutò con entusiasmo, agitando il braccio.


Non era Aenea.

Rimasi deluso, lo ammetto. Il desidero di rivedere la mia giovane amica era diventato un’ossessione: sospetto d’avere avuto, in quel periodo, assurde fantasticherie sulla nostra riunione: Aenea e io ci correvamo incontro, in un prato fiorito, lei di nuovo la bambina undicenne, io il suo difensore, e ridevamo per il piacere di rivederci e io la sollevavo da terra e la facevo girare in tondo, la tiravo in aria…

Be’, il prato fiorito c’era. La nave restò librata e morfizzò una scaletta che scendeva fino al prato punteggiato di fiori e si posava accanto al gazebo. La giovane donna attraversò il torrente, saltando di pietra in pietra, con perfetto equilibrio, e venne sorridendo alla mia volta, su per la montagnola erbosa.

Aveva passato da poco i vent’anni. Possedeva la grazia fisica e il portamento che ricordavo da migliaia di immagini della mia giovane amica. Ma in vita mia non avevo mai visto prima quella donna.

"Possibile che Aenea sia cambiata così tanto in cinque anni?" mi domandai. "Che si sia camuffata per nascondersi agli agenti della Pax? O mi sono semplicemente dimenticato del suo aspetto?"

L’ultima ipotesi pareva improbabile. Anzi, impossibile. La nave mi aveva assicurato che per Aenea sarebbero trascorsi cinque anni e alcuni mesi, se mi aspettava su quel pianeta; ma il mio intero viaggio, compresa la parte in crio-fuga, aveva richiesto solo quattro mesi. Ero invecchiato di alcune settimane appena. Non potevo aver dimenticato Aenea. Non l’avrei mai dimenticata.

«Ciao, Raul» disse la giovane donna dai capelli scuri.

«Ciao» risposi, incerto.

Lei venne avanti e mi tese la mano. Aveva una stretta decisa. «Sono Rachel. Aenea ti ha descritto perfettamente.» Si mise a ridere. «D’altra parte non ci aspettavamo nessun altro che venisse a farci visita in un’astronave come quella…» Mosse la mano nella direzione della nave sospesa come un pallone frenato che dondoli piano nel vento.

«Come sta Aenea?» domandai, con voce che suonò strana alle mie stesse orecchie. «Dov’è?»

«Oh, nel tempio. Sta lavorando. È nel bel mezzo del più impegnativo turno di lavoro. Non poteva allontanarsi. Mi ha chiesto di venirti a prendere e di aiutarti a liberarti della nave.»

"Non poteva allontanarsi" ripetei tra me. Che diavolo di storia era questa? Avevo attraversato letteralmente l’inferno, ero stato tormentato da calcoli renali, inseguito da agenti della Pax, scaricato in un pianeta senza terreno solido, inghiottito e rigurgitato da un mostro alieno, e lei non poteva allontanarsi, maledizione? Mi morsicai il labbro per resistere all’impulso di dire ciò che pensavo. Ammetto che in quel momento la mia emotività raggiungeva punte davvero alte.

«Cosa significa "liberarmi della nave"?» dissi invece. Mi guardai intorno. «Ci sarà pure un posto dove atterrare.»

«In realtà non c’è» disse la giovane donna di nome Rachel. La guardai meglio, nella vivida luce del sole: probabilmente era poco più anziana della Aenea attuale, sui venticinque anni forse. Aveva occhi castani, intelligenti, capelli castani tagliati corti senza tanti fronzoli, come Aenea, pelle abbronzata da lunghe ore all’aria aperta, mani indurite per il lavoro, la ragnatela di rughe intorno agli occhi tipica di chi ride spesso.

«Possiamo fare così» disse Rachel. «Prendi dalla nave ciò che ti occorre, un comlog o un apparecchio trasmittente per richiamarla quando ti servirà, due dermotute e due riciclo-respiratori della scorta in magazzino; poi ordina alla nave di saltare sulla terza luna, uno degli asteroidi catturati dal pianeta, il penultimo in grandezza. Lassù c’è un profondo cratere dove può stare nascosta. Quella luna ha un’orbita quasi geosincrona, rivolge a questo emisfero sempre la stessa faccia. Se chiami per radio, la nave è qui in pochi minuti.»

La guardai, sospettoso. «Perché le dermotute e i respiratori?» Nel magazzino della nave ce n’erano diversi. Erano progettati per ambienti di vuoto spinto non pericolosi, dove non era necessaria una vera corazza spaziale. «Qui l’aria mi sembra abbastanza ricca.»

«Hai ragione» convenne Rachel. «A questa altitudine l’atmosfera è sorprendentemente ricca di ossigeno. Ma Aenea mi ha detto di chiederti di portare le dermotute e i riciclo-respiratori.»

«Perché?»

«Non lo so, Raul» disse Rachel. Aveva uno sguardo sereno che pareva sincero e innocente.

«Perché la nave deve nascondersi? C’è la Pax sul pianeta?»

«Non ancora. Ma da circa sei mesi ne aspettiamo l’arrivo. Al momento non ci sono veicoli spaziali su T’ien Shan o in orbita, a parte la tua nave ora. E neppure aerei. Niente skimmer, VEM, ortotteri, elicotteri, solo parapendii, gli aviatori, e quelli non uscirebbero mai così lontano.»

Annuii, ma esitavo.

«I Dugpa hanno visto oggi una cosa che non avrebbero saputo spiegare» continuò Rachel. «Il puntino luminoso della tua nave contro il Chomo Lori, voglio dire. Ma alla fine riescono a spiegare tutto in termini di tendrel, perciò non sarà un problema.»

«Cosa sono i tendrel? E chi sono i Dugpa?»

«I tendrel sono portenti» disse Rachel. «Divinazioni nell’ambito della tradizione sciamanica buddhista prevalente in questa zona delle Montagne del cielo. I Dugpa sono… be’, se traduciamo la parola alla lettera, gli "altissimi". Le popolazioni che vivono alle altitudini superiori. Ci sono anche i Drukpa, le popolazioni delle valli, ossia delle gole più basse, e i Drungpa, gli abitanti delle valli boscose, soprattutto coloro che vivono nelle grandi foreste di felci e nei boschetti di bambù-bonsai delle zone occidentali della cresta Phari e più in là.»

«Così Aenea è al tempio?» dissi, testardo, restio a seguire il "suggerimento" di Rachel e nascondere la nave.

«Sì.»

«Quando posso vederla?»

«Appena ci arriviamo» sorrise Rachel.

«Da quanto tempo conosci Aenea?»

«Da quattro anni circa, Raul.»

«Sei originaria di questo pianeta?»

Rachel sorrise di nuovo, accettando con pazienza l’interrogatorio. «No. Quando incontrerai i Dugpa e gli altri, vedrai che non sono nativa di T’ien Shan. In questa zona i ceppi prevalenti della popolazione sono cinese, tibetano, centroasiatico.»

«Da dove provieni?» domandai seccamente, suonando scortese alle mie stesse orecchie.

«Sono nata sul mondo di Barnard» rispose Rachel. «Un arretrato pianeta agricolo. Campi di granturco, boschi, lunghe serate noiose, alcune buone università, ma poco d’altro.»

«Ne ho già sentito parlare.» Ero ancora più insospettito. Le "buone università", il fiore all’occhiello del mondo di Barnard durante l’Egemonia, erano state da tempo convertite in accademie e seminari cristiani. All’improvviso provai il forte desiderio di vedere il petto nudo di quella giovane donna, per scoprire se c’era il crucimorfo voglio dire. Sarebbe stato troppo facile per me mandare via la nave e cadere in una trappola della Pax. «Dove hai conosciuto Aenea? Qui?»

«No, non qui. Su Amritsar.»

«Amritsar? Mai sentito nominare.»

«Non c’è niente di strano. Amritsar è un pianeta classificato ai livelli più bassi della scala di Solmev. Si trova nell’estrema Periferia. Fu colonizzato solo un secolo fa, profughi di una guerra civile su Parvati. Alcune migliaia di Sikh e alcune migliaia di Sufi vi ricavano faticosamente di che vivere. Aenea fu assunta per progettare un centro comunitario nel deserto e io andai con lei per fare i rilevamenti e tenere in riga la manodopera. Da allora sono sempre stata con lei.»

Annuii, ma esitavo ancora. Provavo una sensazione che non era vero e proprio disappunto, che si gonfiava come collera ma non era altrettanto chiara, che confinava con la gelosia. Ma questo era assurdo.

«A. Bettik?» All’improvviso fui assalito dal presentimento che l’androide fosse morto negli scorsi cinque anni. «È…»

«È partito ieri per il nostro viaggio quindicinale al mercato Phari a fare provviste» disse Rachel. Mi toccò il braccio. «A. Bettik sta benissimo. Dovrebbe essere di ritorno stasera, al levarsi della luna. Su, vai a prendere la tua roba. Ordina alla nave di nascondersi sulla terza luna. Preferirai di sicuro ascoltare da Aenea tutta la storia.»


Andò a finire che dalla nave presi poco più di un cambio di vestiti, un buon paio di stivali, il piccolo binocolo, un coltello con fodero, le dermotute, i riciclo-respiratori e un diskey-diario/ricetrasmittente palmare. Cacciai tutto in un sacco da montagna, scesi la scaletta e dal prato dissi alla nave che cosa doveva fare. A furia di antropomorfizzare la nave, mi aspettai che mettesse il broncio all’idea di tornare in modo ibernazione, in una luna priva d’aria stavolta. Ma la nave confermò d’avere ricevuto l’ordine, mi suggerì di fare un controllo quotidiano via radio per assicurarmi che il trasmettitore funzionasse e poi se ne andò, rimpicciolì, divenne un puntino e scomparve come un pallone frenato al quale avessero tagliato il cavo.

Rachel mi diede un chuba di lana da portare sopra il giubbotto termico. Notai l’imbracatura di nylon che portava sopra giacca e calzoni, gli attrezzi da scalata che pendevano dalle cinghie e chiesi spiegazioni.

«Aenea ha un’imbracatura pronta per te, su al tempio» disse Rachel, con un acciottolio di attrezzi nella reticella. «Questa è la più avanzata tecnologia del pianeta. I fabbri a Potala chiedono e ottengono l’equivalente di un riscatto da re per questa roba: ramponi, carrucole per i cavi, piccozze pieghevoli e martelli da ghiaccio, zeppe, staffe, moschettoni, grappette, chiodi e quant’altro ti viene in mente.»

«Ne avrò bisogno?» domandai, dubbioso. Nella Guardia nazionale avevo appreso alcune tecniche di base per scalare i ghiacciai (calarsi a corda doppia, sfruttare i crepacci, questo genere di cose) e quando lavoravo con Avrol Hume, nel Becco, avevo fatto alcune arrampicate in cordata nelle cave di pietra, ma non ero sicuro di cavarmela nella scalata di vere montagne. Non mi piacevano le altezze.

«Ne avrai bisogno, ma ti abituerai in fretta» mi garantì Rachel e si avviò, saltando sulle pietre per attraversare il corso d’acqua e poi risalendo a passo svelto, con leggerezza, il sentiero che portava all’orlo dello strapiombo. Gli attrezzi nell’imbracatura tintinnavano piano, come campanelle d’acciaio o campanacci intorno al collo di capre di montagna.

La marcia di dieci chilometri a sud lungo la parete a picco fu abbastanza facile, una volta che mi abituai alla stretta cornice, col vertiginoso precipizio alla nostra destra, il vivido riflesso di quella incredibile montagna da nord e dal ribollire di nubi dal basso, e l’inebriante impulso di energia dell’aria ricca di ossigeno.

«Sì» disse Rachel, quando accennai all’aria «l’atmosfera ricca di ossigeno sarebbe un guaio, se ci fossero foreste o savane facilmente infiammabili. Dovresti vedere le tempeste di fulmini durante il monsone. Ma la foresta bonsai giù nella forra e le foreste di felci sul lato piovoso di Phari sono in pratica tutto ciò che abbiamo in termini di materiali combustibili. E il legno bonsai che usiamo nelle costruzioni è quasi troppo denso per ardere.»

Per un poco camminammo in fila e in silenzio. Concentravo l’attenzione sulla cornice. Avevamo appena superato uno stretto angolo che mi obbligò a chinare la testa per non urtare la sporgenza rocciosa, quando la cornice si allargò, la visuale si aprì, ed ecco il Hsuan-k’ung Ssu, il Tempio a mezz’aria.

Anche da quella distanza, un po’ più in basso e di lato, il tempio pareva magicamente sospeso nell’aria, sul vuoto. Alcuni edifici, fra i più bassi e più antichi, avevano basi di pietra o di mattoni, ma quasi tutti gli altri erano costruiti sul vuoto. Quegli edifici in stile pagoda erano riparati dalla grande sporgenza rocciosa una ottantina di metri sopra gli edifici principali, ma scale a pioli e piattaforme zigzagavano verso l’alto fin quasi a toccare la faccia inferiore della sporgenza.

Ci trovammo fra la gente. I variopinti chuba e le onnipresenti imbracature da scalata non erano qui il solo comune denominatore: i visi che mi scrutavano con educata curiosità per la maggior parte parevano di ceppo asiatico della Vecchia Terra; le persone erano relativamente basse di statura, per un pianeta di gravità quasi standard; facevano un cenno di saluto e si scostavano rispettosamente davanti a Rachel che mi guidava tra la folla, su per le scalette, lungo corridoi interni profumati di incenso e di legno di sandalo, sotto verande e su ponti sospesi e scalinate di squisita fattura. In breve ci trovammo nei piani superiori del tempio, dove la costruzione procedeva a passo spedito. Le figurette viste prima col binocolo adesso erano persone viventi che grugnivano sotto pesanti ceste di pietre, individui che puzzavano di sudore e di lavoro onesto. La silenziosa efficienza che avevo osservato dalla loggia della nave ora divenne una rumorosa mistura di martellate, del sonoro ticchettio di scalpelli, dell’eco di picconi, del frastuono di operai che vociavano e facevano gesti nel controllato caos comune a ogni cantiere.

Dopo varie scalinate e tre lunghe scale a pioli che arrivavano alla piattaforma più alta, mi fermai a prendere fiato prima di affrontare l’ultima scaletta. Aria ricca di ossigeno o no, quella salita era una dura fatica. Notai che Rachel mi guardava con l’equanimità che potrebbe essere facilmente scambiata per indifferenza.

Alzai gli occhi e vidi una giovane donna scavalcare il bordo della piattaforma più alta e scendere con grazia la scaletta. Per un brevissimo istante mi sentii il cuore balzare in gola — Aenea! — ma poi vidi come la donna si muoveva, vidi i capelli corti sulla nuca e seppi che non era la mia amica.

Mi scostai con Rachel dalla base della scaletta, mentre la donna saltava gli ultimi pioli. Era grossa e solida, alta come me, con lineamenti forti e occhi di un viola sorprendente. Pareva sui cinquanta standard, era molto abbronzata e in ottime condizioni fisiche; dalle piccole rughe chiare agli angoli degli occhi e della bocca si sarebbe detto che anche a lei piaceva ridere spesso.

«Raul Endymion» disse, porgendomi la mano «sono Theo Bernard. Aiuto a costruire cose.»

Risposi con un cenno. La sua stretta di mano era decisa come quella di Rachel.

«Aenea ha quasi terminato lassù» disse Theo Bernard, indicando la scaletta.

Lanciai un’occhiata a Rachel.

«Tu continua» mi disse lei. «Noi abbiamo da fare.»

Salii, una mano dopo l’altra. Probabilmente c’erano sessanta pioli nella scaletta di bambù e nel salire mi resi conto che la piattaforma da cui ero partito era molto piccola, se si cadeva, mentre l’abisso poco più in là non aveva fondo.

Raggiunta la piattaforma superiore, vidi le rozze baracche da cantiere e le aree di pietra scalpellata dove avrebbero costruito l’ultima ala del tempio. Ero consapevole delle incalcolabili tonnellate di pietra che iniziavano a soli dieci metri dalla mia testa: la sporgenza rocciosa formava un angolo verso l’alto e all’infuori, come un soffitto di granito. Piccoli uccelli dalla coda forcuta saettavano e planavano fra le crepe e le fessure della sporgenza.

Poi rivolsi tutta l’attenzione alla figura che emergeva dalla più grande delle due baracche.

Era Aenea. Gli occhi arditi e scuri, il sorriso non impacciato, gli zigomi sporgenti, le mani delicate, i capelli biondocastani tagliati con noncuranza e ora agitati dal forte vento che soffiava lungo la parete dello strapiombo. Non era molto più alta dell’ultima volta, quanto basta per baciarla in fronte, ma era cambiata davvero.

Ansimai. Avevo visto persone crescere e maturare, naturalmente, ma erano i miei amici, quando anch’io crescevo e maturavo. E non avendo avuto figli l’attenta osservazione di qualcuno che maturava era avvenuta solo durante i quattro anni e qualche mese della mia amicizia con quella ragazzina. Per molti aspetti, capii, Aenea aveva lo stesso aspetto del giorno del suo sedicesimo compleanno, cinque dei suoi anni fa, a parte la scomparsa totale della morbidezza infantile, zigomi più accentuati e lineamenti più fermi, fianchi più larghi e seni un po’ più sviluppati. Portava calzoni di saia, stivali alti, una camicetta verde che ricordavo dai tempi di Taliesin West e una giacca cachi che si gonfiava al vento. Vedevo che braccia e gambe le si erano irrobustite, con una muscolatura più pronunciata di quella che ricordavo sulla Vecchia Terra… ma non erano i soli cambiamenti.

Tutto era cambiato, in lei. La bambina che conoscevo era svanita. Al suo posto c’era una donna; una donna strana, che camminava in fretta verso di me sulla scabra piattaforma. Non si trattava solo di lineamenti più decisi e forse di carne un po’ più soda sul fisico ancora snello: si trattava di solidità. Di portamento. Aenea era sempre stata la persona più viva, animata e completa che avessi mai conosciuto, anche da bambina. Ora che quella bambina era svanita, o almeno sommersa nella donna adulta, vedevo la sua solidità dentro quell’aura animata.

«Raul!» Aenea completò di corsa gli ultimi passi che ci separavano, si fermò davanti a me, mi prese per le braccia.

Per un istante pensai che mi avrebbe baciato sulla bocca come aveva fatto, come la sedicenne Aenea aveva fatto, negli ultimi minuti trascorsi insieme sulla Vecchia Terra. Invece alzò la mano e me la posò sul viso, facendo correre le dita lungo la linea della guancia, fino al mento. Nei suoi occhi c’era una luce, di che cosa? Non divertimento. Di vitalità, forse. Di felicità, mi augurai.

Mi sentii la lingua incollata. Aprii bocca, alzai la destra come per toccarle la guancia, la lasciai cadere.

«Raul, maledizione, è davvero bello vederti!» Mi tolse dal viso la mano e mi abbracciò con una intensità che rasentava la violenza.

«È bello vederti, ragazzina.» Le diedi colpetti sulla schiena, sentendo sotto il palmo la ruvida stoffa della giacca.

Aenea arretrò di un passo, ora con un ampio sorriso, e mi tenne per gli avambracci. «Il viaggio per riprendere la nave è stato terribile? Racconta!»

«Cinque anni!» sbottai. «Perché non mi hai detto…»

«Te lo dissi. Te lo gridai.»

«Quando? Ad Hannibal? Mentre ero…»

«Sì. Allora gridai: "Ti amo". Ricordi?»

«Questo lo ricordo, ma se sapevi… cinque anni, voglio dire…»

Parlavamo tutt’e due insieme, quasi farfugliando. Mi ritrovai a cercare di raccontarle tutto dei teleporter, del calcolo renale su Virus-Gray-Balianus B, degli Spettroelica di Amoiete, del pianeta di nuvole, della creatura seppia/calamaro, e intanto facevo domande e riprendevo a farfugliare prima che lei potesse rispondere.

Aenea continuò a sorridere. «Sei sempre lo stesso, Raul. Sempre lo stesso. Ma, diavolo, perché saresti dovuto cambiare? Per te si è trattato solo di… un paio di settimane di viaggio e un freddo sonno nella nave.»

Lo stordimento di felicità fu inondato dalla collera. «Maledizione, Aenea» dissi, serio. «Dovevi parlarmi del debito temporale! E forse anche del passaggio in un pianeta senza fiume né terreno solido. Potevo morire.»

Aenea annuiva. «Ma non lo sapevo con certezza, Raul! Niente certezza, solo le solite… possibilità. Per questo A. Bettik e io abbiamo aggiunto al kayak la paravela.» Rise di nuovo. «Direi che ha funzionato.»

«Ma sapevi che sarebbe stata una lunga separazione. Anni, per te.» Non la formulai come domanda.

«Sì.»

Aprii bocca, sentii la collera svanire con la stessa rapidità con cui era giunta. Presi per le braccia Aenea. «È bello rivederti, ragazzina.»

Lei mi abbracciò di nuovo, stavolta mi baciò sulla guancia come faceva da bambina quando la deliziavo con qualche battuta o commento. «Vieni» disse. «Il turno pomeridiano è terminato. Ti mostrerò la nostra piattaforma e ti presenterò ad alcune persone.»

"La nostra piattaforma?" ripetei tra me. Seguii Aenea giù per scalette e ponti che non avevo notato quando ero giunto con Rachel.

«A te è andato tutto bene, Aenea? Voglio dire… è tutto a posto?»

«Sì.» Mi guardò da sopra la spalla e mi sorrise di nuovo. «Va tutto bene, Raul.» Attraversammo una terrazza sul fianco della più alta di tre pagode disposte l’una sull’altra. Mentre percorrevamo la stretta terrazza, la piattaforma dondolò un poco; e quando mettemmo piede nell’angusto passaggio tra le pagode, l’intera struttura vibrò. Notai che alcune persone lasciavano la pagoda più a ovest e tornavano per lo stretto sentiero sulla cornice lungo la parete dello strapiombo.

«Questa parte sembra traballante, ma è abbastanza robusta» disse Aenea, notando la mia apprensione. «Travi di robusto pino bonsai, conficcate in fori scavati nella roccia. Sostengono l’intera infrastnittura.»

«Marciranno di sicuro» dissi, seguendola su un breve ponte sospeso. Dondolammo nel vento.

«Marciscono, infatti» disse Aenea. «Negli ottocento e passi anni di esistenza del tempio, sono stati sostituiti parecchie volte. Nessuno sa con esattezza quante. Le loro documentazioni sono più traballanti dei pavimenti.»

«E sei stata assunta per completare questo posto?» domandai. Eravamo giunti in una terrazza di legno color vino. All’estremità, una scala a pioli portava a un’altra piattaforma e a un ponte ancora più stretto che da lì proseguiva.

«Sì. Sono architetto e capocantiere, più o meno. Dopo il mio arrivo, ho sovrinteso alla costruzione di un tempio taoista vicino a Potala e il Dalai Lama ha pensato che avrei potuto terminare i lavori del Tempio a mezz’aria. Nel corso degli ultimi decenni l’impresa ha frustrato diversi sedicenti restauratori.»

«Dopo il tuo arrivo» ripetei. Intanto eravamo giunti su un’alta piattaforma al centro della costruzione. Era circondata da magnifiche ringhiere intagliate e conteneva due piccole pagode appollaiate proprio sul bordo. Aenea si fermò alla porta della prima.

«Un tempio?» domandai.

«La mia abitazione» rispose con un sorriso, indicando l’interno. Vi lanciai un’occhiata. La stanza era quadrata, solo tre metri per tre, con pavimento di legno lucido e due piccoli tatami. La cosa più singolare era la parete di fondo, che semplicemente non c’era. I paraventi shoji della stanza erano stati chiusi e la parete di fondo terminava all’aria aperta. Un sonnambulo sarebbe finito nell’oblio, lì dentro. La brezza che risaliva la facciata dell’abisso faceva stormire le fronde di tre rami tipo salice posti in un magnifico vaso giallo mostarda su una bassa pedana di legno accostata alla parete ovest. Era l’unico ornamento della stanza.

«Negli edifici ci togliamo le scarpe, esclusi i corridoi di transito che hai già percorso nel venire qui» disse Aenea. Mi guidò alla seconda pagoda. Era quasi identica alla prima, a parte i paraventi shoji chiusi e un futon sul pavimento, lì vicino. «Roba di A. Bettik» disse Aenea, indicando un armadietto dipinto di rosso accanto al futon. «Ti abbiamo sistemato qui. Entra.» Si tolse gli stivali, andò ai tatami, aprì i paraventi shoji e si sedette a gambe incrociate.

Mi tolsi gli stivali, deposi contro la parete sud lo zaino e mi andai a sedere accanto a Aenea.

«Bene» disse lei, prendendomi ancora per le braccia. «Accidenti.»

Per un minuto non trovai parole. Mi domandai se l’altitudine o l’aria ricca d’ossigeno mi rendessero così sensibile all’emozione. Mi concentrai sulle file di persone in vivaci chuba che lasciavano il tempio e percorrevano verso ovest le strette cornici e i ponti lungo la parete dello strapiombo. Proprio davanti alla porta spalancata della pagoda c’era il lucente massiccio dell’Heng Shan, con i suoi campi di ghiaccio che brillavano nella luce del tardo pomeriggio. «Oddio» mormorai. «Questo posto è veramente bello, ragazzina.»

«Sì. E anche micidiale, se non si sta attenti. Domani A. Bettik e io ti condurremo su per la parete e ti faremo un corso d’aggiornamento sulle attrezzature da scalata e sul protocollo.»

«Un corso per principianti, vorrai dire» la corressi. Non riuscivo a smettere di guardare il suo viso, i suoi occhi. Avevo paura che, se avessi toccato di nuovo la sua pelle, una scarica elettrica visibile sarebbe scoccata fra noi due. Ricordai lo shock elettrico che mi colpiva ogni volta che la sfioravo, quando lei era bambina. Trassi un respiro. «E va bene» dissi. «Quando sei giunta qui, il Dalai Lama… qualsiasi cosa sia… ha detto che potevi lavorare qui al tempio. Ma quando sei arrivata? E come? Quando hai conosciuto Rachel e Theo? Chi altri conosci bene, qui? Cos’è accaduto dopo che ci siamo salutati ad Hannibal? Cos’è accaduto a tutti gli altri a Taliesin? I soldati della Pax ti hanno dato la caccia? Dove hai imparato tutta quella roba di architettura? Parli ancora con i Leoni e Tigri e Orsi? Come hai fatto a…»

Aenea alzò la mano. Rideva di cuore. «Una cosa per volta, Raul. Anch’io devo sapere tutto del tuo viaggio.»

La guardai negli occhi. «Ho sognato che discutevamo. Mi hai parlato dei quattro passi… imparare il linguaggio dei morti… imparare…»

«Il linguaggio dei vivi» terminò lei per me. «Sì, ho fatto anch’io quel sogno.»

Di sicuro inarcai le sopracciglia.

Aenea sorrise e mise le mani sulle mie: erano più grandi, coprivano i miei pugni. Ricordai quando tutt’e due le sue sarebbero scomparse in una delle mie. «Ho fatto davvero quel sogno, Raul. Ho sognato che soffrivi molto… alla schiena…»

«Calcolo renale» dissi, trasalendo al ricordo.

«Sì. Dimostra, immagino, che siamo ancora amici, se riusciamo a fare lo stesso sogno anche separati da anni luce.»

«Anni luce» ripetei. «Già, Aenea, come hai fatto ad attraversarli? Come sei giunta qui? In quali altri posti sei stata?»

Aenea annuì e iniziò a raccontare. Il vento che entrava dalla parete di paraventi ripiegati le arruffò i capelli. Mentre lei parlava, la luce della sera divenne più ricca e più alta sulla grande montagna verso nord e sulla facciata dell’abisso a est e a ovest.


Aenea era stata l’ultima a lasciare Taliesin West, ma solo quattro giorni dopo la mia partenza in kayak sul Mississippi. Gli altri apprendisti erano partiti varcando altri teleporter: la navetta aveva consumato le ultime scorte di energia e li aveva trasportati alle varie arcate, nei pressi del Golden Gate, sul bordo del Grand Canyon, in cima alle facce di pietra del monte Rushmore, sotto le travi arrugginite delle incastellature di lancio nel parco storico spazioporto Kennedy, sparse a quanto pareva su tutto l’emisfero occidentale della Vecchia Terra. Il teleporter usato da Aenea si trovava in una casa di adobe di un pueblo a nord della città abbandonata di Santa Fe. A. Bettik aveva varcato con lei quel teleporter. Provai una punta di gelosia per questo, ma rimasi in silenzio.

Il primo teleporter aveva portato Aenea su un pianeta ad alta gravità, Ixion. Lì la Pax era presente, ma concentrata soprattutto nell’emisfero opposto. Ixion non si era mai ripreso appieno dalla Caduta e l’alto pianoro coperto di giungla dove erano emersi Aenea e A. Bettik era un labirinto di rovine invase dalle erbacce, popolate soprattutto da belligeranti tribù di neomarxisti e di fautori della rinascita dei nativi americani, mistura volatile ulteriormente destabilizzata da bande di fuorilegge e di ARNisti erranti che tentavano di riportare in vita tutte le specie classificate di dinosauri della Vecchia Terra.

Aenea ne fece un racconto divertente: il trucco di nascondere la pelle azzurra di A. Bettik e la sua evidente natura di androide mediante grandi quantità di pitture decorative facciali usate dagli indigeni, l’audacia di una sedicenne che chiedeva denaro (nel caso specifico, cibo e pellicce in baratto) per capeggiare i tentativi di ricostruzione nelle vecchie città ixiane di Canbar, Iliumut e Maoville. Ma tutto era andato liscio. Aenea non solo aveva riprogettato e ricostruito tre centri della vecchia città e innumerevoli abitazioni più piccole, ma aveva iniziato una serie di "circoli di discussione" che richiamavano ascoltatori da una decina di tribù in guerra.

Qui Aenea non desiderava scendere nei particolari, l’avevo capito, ma io volli sapere che cosa riguardavano i "circoli di discussione".

«Varie cose» disse lei. «Loro sollevavano un argomento, io suggerivo alcune cose su cui riflettere e tutti ne parlavano.»

«Hai insegnato?» domandai, pensando alla profezia secondo cui la figlia del cìbrido John Keats sarebbe stata Colei che insegna.

«In senso socratico, direi.»

«Cosa diavolo è… ah, già.» Ricordai l’opera di Piatone alla quale Aenea mi aveva indirizzato nella biblioteca di Taliesin. Il maestro di Piatone, Socrate, insegnava ponendo domande, estraeva verità che le persone già avevano in sé. La ritenevo una tecnica dai risultati assai dubbi, nel migliore dei casi.

Aenea proseguì il racconto. Alcuni partecipanti al suo gruppo di discussione erano divenuti ascoltatori devoti, tornavano ogni sera e la seguivano quando lei passava da una città in rovina all’altra.

«Erano diventati i tuoi discepoli» commentai.

Aenea si accigliò. «Quella parola non mi piace molto, Raul.»

Incrociai le braccia e guardai fuori il bagliore rossastro delle vette che illuminava la parte superiore delle nuvole molti chilometri più in basso e la vivida luce della sera sul picco settentrionale. «Potrà anche non piacerti, ragazzina, ma a me pare la parola giusta. I discepoli seguono la loro maestra dovunque vada e cercano di spigolare da lei un ultimo frammento di conoscenza.»

«Gli studenti seguono la maestra.»

«E va bene» cedetti. Non volevo interrompere il racconto per una discussione. «Continua.»

Su Ixion non c’era più molto da dire, riprese Aenea. Lei e A. Bettik erano rimasti su quel pianeta quasi un anno locale, pari a cinque mesi standard. Per gli edifici aveva usato in gran parte blocchi di pietra e si era ispirata allo stile classico antico, quasi grecheggiante.

«E la Pax?» domandai. «Non è venuto nessuno a ficcare il naso?»

«Alcuni missionari partecipavano alle discussioni. Uno di loro, un certo padre Clifford, divenne buon amico di A. Bettik.»

«Non ti ha denunciato? Non credo che abbiano smesso di darci la caccia.»

«Sono sicura che padre Clifford non mi denunciò. Ma a un certo punto degli agenti della Pax cominciarono a cercarci nell’emisfero occidentale dove lavoravamo. Le tribù ci tennero nascosti per un altro mese. Padre Clifford veniva alle discussioni serali anche quando gli skimmer sorvolavano avanti e indietro la giungla alla nostra ricerca.»

«Cosa accadde?» Mi sentivo come un bambino di due anni che fa domande solo perché l’altro continui a parlare. Ero stato lontano da Aenea solo alcuni mesi, compreso il viaggio in crio-fuga infestato di sogni, ma avevo dimenticato quanto mi piaceva il suono della voce della mia giovane amica.

«Niente, in realtà. Terminai l’ultimo lavoro, un vecchio anfiteatro per recite e riunioni cittadine, neanche a farlo apposta, e me ne andai. Anche alcuni… studenti… se ne andarono.»

Rimasi sorpreso. «Con te?» domandai. Rachel aveva detto di avere conosciuto Aenea sul pianeta Amritsar e di avere viaggiato con lei. Forse Theo era giunta da Ixion.

«No, nessuno è venuto con me da Ixion» disse Aenea, piano. «I miei studenti avevano altre destinazioni. Cose da insegnare ad altri.»

La guardai un momento. «Vuoi dire che Leoni e Tigri e Orsi ora permettono anche ad altri di usare i teleporter? O che tutti i vecchi portali si riaprono?»

«No» rispose Aenea, non so a quale delle due domande. «No, i teleporter sono morti come sempre. Tranne… be’… alcuni casi speciali.»

Anche stavolta evitai di chiedere maggiori particolari. Aenea continuò il racconto.

Dopo Ixion, si era teleportata su Patto-Maui.

«Il pianeta di Siri!» esclamai, ricordando la voce di nonna che mi insegnava i Canti di Hyperion. Patto-Maui era stato la scena di uno dei racconti dei pellegrini.

Aenea annuì e continuò. Già ai tempi della Rete, Patto-Maui era stato devastato dalla rivoluzione e dagli attacchi dell’Egemonia, si era ripreso durante l’interregno dopo la Caduta ed era stato nuovamente colonizzato nel periodo di espansione della Pax, senza l’aiuto degli indigeni che, nella migliore tradizione di Siri, avevano combattuto per le loro isole mobili e a fianco dei delfini, finché la Flotta della Pax e le guardie svizzere non li avevano messi sotto i piedi. Ora Patto-Maui veniva cristianizzato a più non posso: i residenti dell’unico grande continente, l’Arcipelago equatoriale, e le migliaia di isole mobili migranti erano inviati in "accademie cristiane" per la rieducazione.

Ma Aenea e A. Bettik erano usciti in un’isola mobile ancora in mano ai ribelli, gruppi di neopagani detti siriti che salpavano di notte, si nascondevano di giorno fra gli arcipelaghi viaggianti di isole disabitate e combattevano contro la Pax a ogni occasione.

«Cos’hai costruito?» domandai. Mi pareva di ricordare, dai Canti, che sulle isole mobili c’era poco, a parte alberi-casa sotto gli alberi-vela.

«Alberi-casa» rispose Aenea, con un sorriso. «Un mucchio di alberi-casa. E anche qualche cupola sottomarina. Dove i pagani trascorrevano la maggior parte del tempo.»

«Così hai progettato alberi-casa.»

Aenea scosse la testa. «Scherzi? Escludendo i templari di Bosco Divino, ormai scomparsi, gli indigeni di Patto-Maui sono i migliori costruttori di alberi-casa dello spazio umano. Ho studiato come costruire alberi-casa! Sono stati tanto gentili da consentire a me e ad A. Bettik di aiutarli.»

«Lavoro schiavista.»

«Esattamente.»

Aenea aveva trascorso solo tre mesi standard su Patto-Maui. Lì aveva conosciuto Theo Bernard.

«Una ribelle pagana?» domandai.

«Una cristiana fuggiasca» mi corresse Aenea. «Era giunta a Patto-Maui come colona. Aveva abbandonato i coloni e si era unita ai siriti.»

Senza accorgermene, avevo corrugato la fronte. «Porta il crucimorfo?» domandai. I cristiani rinati mi innervosivano ancora.

«Non più.»

«Ma come…» L’unico modo in cui un cristiano con la croce potesse liberarsi del crucimorfo era il rituale segreto della scomunica che solo la Chiesa poteva officiare.

«Te lo spiegherò più avanti» disse Aenea. Frase che avrebbe usato parecchie volte, prima di concludere il racconto.

Dopo Patto-Maui, Aenea e A. Bettik e Theo Bernard erano andati per teleporter su Vettore Rinascimento.

«Vettore Rinascimento!» gridai quasi. Quel pianeta era una fortezza della Pax. Lì, nella nave del console, avevamo corso il rischio di essere abbattuti. Vettore Rinascimento era un pianeta iperindustrializzato, tutto città e fabbriche automatiche e centri della Pax.»

«Vettore Rinascimento» confermò Aenea, con un sorriso.

Non era stato facile, raccontò. Erano stati obbligati a travestire A. Bettik: gli avevano messo una maschera di sintocarne e l’avevano fatto passare per ustionato. Il povero androide era stato molto a disagio, nei sei mesi trascorsi su quel pianeta.

«Che lavoro hai fatto, lì?» domandai. Non riuscivo a immaginare la mia amica e i suoi amici che si nascondevano nell’affollata DaVinci, città di estensione planetaria, in pratica l’intero Vettore Rinascimento.

«Un solo lavoro» rispose Aenea. «Abbiamo lavorato alla chiesa di San Matteo, la nuova cattedrale di DaVinci.»

Rimasi a fissarla per un minuto buono, prima di ritrovare la parola. «Avete lavorato a una cattedrale? Una cattedrale della Pax? Una chiesa cristiana?»

«Sì, certo» rispose con calma Aenea. «Ho faticato a fianco di alcuni dei migliori scalpellini, vetrai, costruttori e artigiani del settore. All’inizio ero apprendista, ma prima della partenza ero diventata assistente del capo progettista che lavorava alla navata.»

Potei solo scuotere la testa. «E hai fatto… hai tenuto circoli di discussione?»

«Sì. Su Vettore Rinascimento vi furono più studenti che su qualsiasi altro pianeta. Migliaia di studenti, prima della conclusione.»

«Sono sorpreso che non ti abbiano tradito.»

«Mi hanno tradito, infatti. Ma non fu uno dei miei studenti. Uno dei vetrai ci denunciò alla guarnigione della Pax. A. Bettik, Theo e io ce la cavammo al pelo.»

«Per teleporter.»

«Sì… portandoci» disse Aenea. Solo molto più tardi capii che in quel momento nella sua voce c’era stata una piccola esitazione, una riserva inespressa.

«E gli altri sono andati via con te?»

«Non con me. Ma centinaia di loro si portarono altrove.»

«Dove?» domandai, confuso.

Aenea sospirò. «Ricordi la nostra discussione, Raul? Quando ho detto che per quelli della Pax io ero un virus? E che avevano ragione loro?»

«Sì.»

«Be’, anche quei miei studenti portano il virus. Avevano posti dove andare. Persone da infettare.»

Continuò l’elenco di pianeti e di lavori. Tre mesi su Patawpha, dove mise a frutto l’esperienza nella costruzione di alberi-casa per erigere ville signorili nei rami intrecciati e nei tronchi che crescevano dalle interminabili paludi.

Quattro mesi standard su Amritsar, dove aveva lavorato nel deserto per costruire case di tende e luoghi di raduno per le bande nomadi di Sikh e di Sufi che vagavano sulle sabbie verdastre di quel pianeta.

«E lì hai conosciuto Rachel» dissi.

«Esatto.»

«Qual è il cognome di Rachel? Non me l’ha detto.»

«Non l’ha mai detto neppure a me» rispose. E continuò il racconto.

Da Amritsar, lei e A. Bettik e le due nuove amiche si erano portati su Groombridge Dyson D. Quel pianeta era stato un fallito tentativo di terraforming dell’Egemonia, abbandonato all’invasione dei ghiacciai di metano e ammoniaca e agli uragani di cristalli di ghiaccio, mentre i coloni, in numero sempre minore, si ritiravano nelle biocupole e nelle baracche dei cantieri orbitali. Ma la sua popolazione, in gran parte ingegneri musulmani del fallito Progetto di reclamazione genetica transafricana, si era testardamente rifiutata di morire durante la Caduta e aveva finito per terraformare Groombridge Dyson D in un pianeta a tundra lapponica con aria respirabile e adattamenti della flora e della fauna dalla Vecchia Terra, compresi lanosi mammut che vagavano nelle terre alte equatoriali. I milioni di ettari di praterie erano l’ideale per i cavalli (cavalli della Vecchia Terra, del tipo scomparso durante le Tribolazioni, prima che il pianeta cadesse in se stesso) e così gli ingegneri genetici avevano preso l’originale ceppo delle navi seminatrici e avevano prodotto cavalli a migliaia, poi a decine di migliaia. Bande nomadi vagavano nelle praterie del continente meridionale e vivevano in una sorta di simbiosi con i grandi branchi di cavalli, mentre i contadini e i cittadini si trasferivano nelle alture pedemontane lungo l’equatore. Sul pianeta c’erano violenti predatori, evoluti e scatenati nei secoli di accelerata e autodiretta sperimentazione ARNista: branchi di mutanti imparentati alle carogne e terrori notturni rintanati in cunicoli, serpenti lunghi trenta metri discendenti da quelli che abitavano il mar d’Erba di Hyperion e tigri delle rocce di Fuji, lupi intelligenti e orsi grigi dal QI accresciuto.

Gli esseri umani possedevano la tecnologia per dare la caccia a quei killer bioadattati e ridurli all’estinzione in un anno o meno, ma i residenti del pianeta avevano scelto una via diversa: i nomadi avrebbero corso i propri rischi, alla pari con i predatori, proteggendo i grandi branchi di cavalli finché l’erba non avesse smesso di crescere e l’acqua di scorrere, mentre gli stanziali di città avrebbero costruito una muraglia, una singola muraglia alla fine lunga più di cinquemila chilometri che separasse le regioni più selvagge delle terre alte dalle savane popolate di cavalli e dalle foreste di cicladi in evoluzione a sud. E la muraglia doveva essere qualcosa di più di una muraglia, doveva diventare la grande città lineare di Groombridge Dyson D, alta trenta metri come minimo, con bastioni risplendenti di moschee e di minareti, con il camminamento superiore tanto largo da permettere almeno il passaggio di tre cocchi quasi a contatto di ruota.

I coloni erano troppo pochi e troppo impegnati in altri progetti per lavorare a tempo pieno alla muraglia, ma avevano programmato dei robot e ricuperato gli androidi nelle cripte delle navi seminatrici, m modo che terminassero il lavoro. Aenea e i suoi amici avevano preso parte a quel progetto, lavorando per sei mesi standard, mentre la muraglia prendeva forma e iniziava l’implacabile marcia lungo la base delle terre alte e il limitare delle praterie.

«A. Bettik trovò lì due dei suoi fratelli» disse piano Aenea.

«Oddio» mormorai. Me n’ero quasi dimenticato. Alcuni anni prima, su Sol Draconis Septem, seduti davanti al tepore di un termocubo nello studio tappezzato di libri di padre Glauco, in un grattacielo a sua volta imprigionato nel ghiacciaio eterno dell’atmosfera congelata del pianeta, A. Bettik aveva accennato a una delle ragioni per cui partecipava a quell’odissea con la bambina Aenea e con me: si augurava, contro ogni logica, di trovare i suoi quattro consanguinei, tre fratelli e una sorella. Erano stati separati dopo il periodo di addestramento, quando erano ancora bambini, se si può usare il termine "bambini" per indicare i primi anni di vita accelerata degli androidi.

«Così li ha trovati!» esclamai, stupito.

«Ne ha trovati due. Uno degli altri maschi del suo nido d’infanzia, A. Antibbe, e sua sorella, A. Darria.»

«Gli somigliavano?» domandai. Nella città abbandonata di Endymion, il vecchio poeta si serviva di androidi, ma io non avevo fatto molta attenzione a nessuno di loro, A. Bettik escluso: in quel momento troppe cose accadevano troppo in fretta.

«Molto» rispose Aenea. «Ma erano anche molto diversi. Forse A. Bettik te ne parlerà.»

Riprese il racconto. Dopo sei mesi standard di lavoro alla città-muraglia, avevano dovuto andare via da Groombridge Dyson D.

«La Pax?»

«La Commissione per la giustizia e la pace, a essere precisi. Non volevamo andarcene, ma non avevamo scelta.»

«Cos’è la Commissione per la giustizia e la pace?» Qualcosa, nel modo come Aenea aveva pronunciato le parole, mi aveva fatto rizzare i peli delle braccia.

«Te lo spiegherò più avanti.»

«D’accordo. Spiegami però un’altra cosa adesso.»

Aenea annuì e attese.

«Hai detto di avere trascorso cinque mesi standard su Ixion. Tre mesi su Patto-Maui, sei mesi su Vettore Rinascimento, tre mesi su Patawpha, quattro su Amritsar, circa sei su… come si chiama? Groombridge Dyson D?»

Aenea annuì.

«E sei qui da circa un anno standard, hai detto?»

«Sì.»

«In totale sono trentanove mesi standard. Tre anni e tre mesi.»

Aenea rimase in silenzio. Increspò leggermente gli angoli della bocca, ma capii che non stava per sorridere, pareva piuttosto che volesse evitare di piangere. Alla fine disse: «Sei sempre stato bravo in matematica, Raul».

«Il mio viaggio fin qui ha richiesto cinque anni di debito temporale» continuai piano. «Per te sono quindi circa sessanta mesi standard, ma hai parlato solo di trentanove. Come hai trascorso i ventuno che mancano, ragazzina?»

Vidi le lacrime nei suoi occhi, gli angoli della bocca contrarsi lievemente. Ma Aenea cercò di parlare in tono leggero. «Per me sono stati sessantadue mesi, una settimana e sei giorni» disse. «Cinque anni, due mesi e un giorno di debito temporale, circa quattro giorni per accelerare e decelerare, otto giorni di tempo di viaggio. Hai dimenticato il tempo di viaggio.»

«D’accordo, ragazzina» dissi, vedendo crescere in lei l’emozione: le tremavano le mani. «Vuoi parlare dei mesi mancanti? quanti erano?»

«Ventitré mesi, sette giorni e sei ore» scherzò Aenea.

"Quasi due anni standard" pensai. "E non vuole raccontarmi cosa le è accaduto in quel periodo." Non l’avevo mai vista esercitare un controllo così rigido su se stessa: era come se cercasse di tenersi fisicamente unita, lottando contro una terribile forza centrifuga.

«Ne parleremo più avanti» disse infine Aenea. Indicò dalla porta spalancata la parete dello strapiombo a ovest del tempio. «Guarda.»

Riuscivo appena a distinguere sulla stretta cornice alcune figure, bipedi e quadrupedi. Distavano ancora parecchi chilometri. Andai al sacco da montagna, ricuperai il binocolo e scrutai quelle figure.

«Gli animali da soma sono zigocapre» disse Aenea. «I portatori sono stati assunti al mercato Phari e vi torneranno stamattina. Vedi qualcuno che conosci?»

Ne conoscevo uno. Il viso azzurro nel cappuccio del chuba era lo stesso di cinque anni fa. Mi girai verso Aenea, ma lei aveva chiaramente terminato di parlare dei due anni mancanti. Allora lasciai che cambiasse di nuovo argomento.

Così Aenea cominciò a farmi domande e parlavamo ancora, quando giunse A. Bettik. Le donne, Rachel e Theo, si presentarono qualche minuto dopo l’androide. Un tatami, ripiegato, rivelò un braciere per cottura nel pavimento accanto alla parete aperta; Aenea e A. Bettik cucinarono la cena per tutti. Vennero altre persone e mi furono presentate: i capisquadra George Tsarong e Jigme Norbu; due sorelle che si occupavano di quasi tutto il lavoro d’intaglio delle ringhiere, Kuku e Kay Se; Gyalo Thondup, in veste di seta da cerimonia, e Jigme Tarin in divisa militare; il monaco insegnante Chim Din e il suo maestro Kempo Ngha Wang Tashi, abate del gompa al Tempio a mezz’aria; una monaca di nome Donka Nyapso; un agente di commercio di nome Tromo Trochi di Dhomu; Tsipon Shakabpa, sovrintendente ai lavori per conto del Dalai Lama; il famoso scalatore e aviatore Lhomo Dondrub, forse l’uomo più straordinario che avessi mai visto e (lo scoprii più tardi) uno dei pochi che bevessero birra o spezzassero pane con i Dugpa, i Drukpa o i Drungpa.

La cena consisteva di tsampa e di momo, orzo abbrustolito mescolato con tè al burro di zigocapra, che formava una pastella arrotolata in palline e mangiata insieme con altre palline di farina cotta a vapore contenenti funghi, lingua fredda di zigocapra, pancetta zuccherata e pezzetti di pera che (mi disse A. Bettik) provenivano dai leggendari giardini di Hsi wang-mu. Mentre venivano distribuite le ciotole, giunsero altri ospiti: Labsang Samten, fratello maggiore dell’attuale Dalai Lama (mi mormorò A. Bettik), al terzo anno di servizio in monastero qui al tempio; diversi Drungpa delle gole boscose, compreso il mastro carpentiere Changchi Kenchung dai lunghi mustacchi incerati; l’interprete Perri Samdup e Rimsi Kyipup, un giovane pensieroso e infelice, montatore di impalcature.

Non tutti i monaci che passarono di lì quella sera discendevano da coloni di origine cinese o tibetana della Vecchia Terra. A ridere e ad alzare con noi i loro boccali di birra c’erano gli indomiti montatori Haruyuki Otaki e Kenshiro Endo, i mastri artigiani di bambù Voytek Majer e Janusz Kurtyka, i mastri mattonai Kim Byung-Soon e Viki Groselj. Il sindaco di Jo-kung, la più vicina città sullo strapiombo, era presente: Charles Chi-kyap Kempo, che fungeva anche da camerlengo di tutti i sacerdoti di grado elevato del tempio ed era membro designato delle due Tsongdu, assemblee regionali degli anziani, e consigliere del Yik-Tshang, il "Nido delle lettere", il gruppo segreto di quattro persone che teneva d’occhio il progresso dei monaci e nominava tutti i sacerdoti. Charles Chi-kyap Kempo fu il primo del nostro gruppo a bere tanto da addormentarsi. Chim Din e diversi altri monaci lo tirarono lontano dal bordo della piattaforma e lo lasciarono a russare in un angolo.

C’erano altri, almeno quaranta persone avevano riempito la piccola pagoda, mentre l’ultima luce del sole svaniva e il chiarore dell’Oracolo e di tre delle sue sorelle illuminavano la sommità delle nubi in basso, ma dimenticai il loro nome, quella sera, mentre mangiavamo tsampa e momo, bevevamo birra a volontà e tenevamo accese le torce nel Hsuan-k’ung Ssu.

Alcune ore più tardi, quella stessa sera, uscii per svuotarmi la vescica. A. Bettik mi mostrò dov’erano i gabinetti. Avevo pensato che ci si limitasse a usare il bordo delle piattaforme, ma l’androide mi garantì che in un mondo dove le strutture abitative avevano diversi piani (nella maggior parte dei casi, una struttura ne aveva altre sopra e altre sotto) un’azione del genere era giudicata maleducazione. I gabinetti erano nel fianco della parete a strapiombo, delimitati da partizioni di bambù, e i servizi igienici consistevano in tubi genialmente progettati, canali di scolo che finivano in profonde fenditure della parete rocciosa, oltre a lavandini intagliati in banconi di pietra. C’era perfino una zona docce e acqua a riscaldamento solare per il bucato.

Mi lavai le mani e il viso, tornai sulla piattaforma (la brezza gelida contribuì a farmi smaltire un poco la sbornia) mi fermai accanto all’androide nel chiarore delle lune e guardai la pagoda illuminata dove tutti quanti si erano disposti in cerchi concentrici al cui centro c’era la mia giovane amica. Risate e confusione erano scomparse. Uno alla volta, monaci e sant’uomini e montatori e carpentieri e scalpellini e abati dei gompa e sindaci e muratori rivolgevano a bassa voce domande alla giovane donna e lei rispondeva.

La scena mi ricordò qualcosa, un’immagine recente, che impiegai un minuto a inquadrare: durante la decelerazione a quaranta UA in quel sistema solare, la nave mi aveva mostrato un ologramma del sole di tipo G e dei suoi undici pianeti, due fasce di asteroidi e innumerevoli comete. Aenea era decisamente il sole di quel sistema e tutti gli uomini e le donne in quella stanza orbitavano intorno a lei, con la certezza con cui nella proiezione della nave orbitavano pianeti, asteroidi e comete.

Mi appoggiai a un montante di bambù e guardai A. Bettik. «Farebbe meglio a stare attenta» dissi piano all’androide, pronunciando con cura ogni parola «o cominceranno a trattarla come un dio.»

A. Bettik annuì lievemente. «Non pensano che la signorina Aenea sia un dio, signor Endymion.»

«Bene.» Circondai col braccio le spalle dell’androide. «Bene.»

«Tuttavia» proseguì A. Bettik «molti di loro si stanno convincendo, malgrado lei si sforzi di correggerli, che Aenea è Dio.»

17

La sera in cui A. Bettik e io portiamo la notizia dell’arrivo della Pax, Aenea lascia il gruppo di discussione, si avvicina a noi fermi sulla soglia e ascolta attentamente.

«Chim Din dice che il Dalai Lama ha consentito agli agenti della Pax di occupare il vecchio monastero del lago Lontra all’ombra dello Shivling» comunico.

Aenea rimane in silenzio.

«Non avranno il permesso di usare le loro macchine volanti, ma sono liberi di andare a piedi in qualsiasi parte della provincia. In qualsiasi parte!»

Aenea annuisce.

Mi viene voglia di afferrarla e di scuoterla. «Ciò significa che presto sentiranno parlare di te, ragazzina» dico, brusco. «Nel giro di qualche settimana, forse di qualche giorno, qui ci saranno missionari che ficcheranno il naso dappertutto e informeranno l’enclave della Pax.» Lascio uscire il fiato. «Merda, saremo fortunati se saranno semplici missionari e non militari.»

Aenea resta in silenzio ancora un minuto. Poi dice: «Siamo già fortunati che non si tratti della Commissione per la giustizia e la pace».

«Non mi hai ancora spiegato che cos’è questa Commissione.»

Aenea scuote la testa. «Niente che al momento abbia importanza, Raul. Quelli della Pax avranno di sicuro qualche affare qui, altro che… che soffocare l’eterodossia.»

Nei miei primi giorni qui, Aenea mi aveva parlato della lotta in atto nello spazio della Pax e nei dintorni: una rivolta palestinese su Marte, che aveva portato all’evacuazione del pianeta e al bombardamento atomico dall’orbita; ribellioni dei liberi mercanti nei Territori della Fascia di Lambert e su Mare Infinitum; combattimenti continui su Ixion e su decine di altri pianeti. Vettore Rinascimento, con le sue gigantesche basi della Flotta della Pax e con i suoi innumerevoli bar e bordelli, era diventato un nido di vespe di pettegolezzi e di informazioni riservate. E poiché ora le navi in servizio nella Flotta della Pax erano per la maggior parte veicoli classe Arcangelo a propulsione Gideon, le notizie erano di solito vecchie di qualche giorno al massimo.

Una delle voci più interessanti sentite da Aenea prima di venire su T’ien Shan riguardava la diserzione dell’equipaggio di almeno una nave classe Arcangelo: la nave era fuggita nello spazio Ouster e ora faceva rapide incursioni nello spazio della Pax per assalire convogli della Pax Mercatoria, rendeva inutilizzabili i mercantili con equipaggio, anziché distruggerli, e per colpire le task force della Flotta della Pax che si preparavano ad attaccare gli Ouster al di là della Grande Muraglia. Nelle ultime settimane di Aenea e di A. Bettik su Vettore Rinascimento correva la voce che le basi della Flotta in quel sistema solare fossero in pericolo. Altre voci indicavano che numerosi elementi della Flotta erano adesso trattenuti nel sistema di Pacem per difendere il Vaticano. Quale che fosse la verità delle storie riguardanti la nave fuorilegge Raffaele, era incontestabile che la crociata contro gli Ouster promossa da Sua Santità era stata ritardata di anni da quegli attacchi di sorpresa con sganciamento immediato.

Ma mentre aspetto la risposta di Aenea alla notizia dell’arrivo della Pax su T’ien Shan, niente di tutto questo pare importante. Mi domando che cosa faremo ora. Ci teleporteremo sul prossimo pianeta?

Invece di parlare di fuga, Aenea dice: «Il Dalai Lama organizza una cerimonia ufficiale di benvenuto per i funzionari della Pax».

«E allora?» replico dopo un momento.

«Allora dobbiamo assicurarci di ottenere un invito» dice Aenea.

Non credo che mi sia caduta davvero la mascella, ma ho proprio questa impressione.

Aenea mi tocca la spalla. «Ci penserò io. Parlerò a Charles Chi-kyap Kempo e a Kempo Ngha Wang Tashi per assicurarmi che inseriscano anche noi tra gli invitati alla cerimonia.»

Sono letteralmente senza parole. Aenea torna al suo gruppo di persone in attesa, silenziose, serene, nella soffusa luce di lanterna.


Leggo queste parole su micropergamena, ricordo d’averle scritte nei miei ultimi giorni nella scatola di Schrödinger in orbita intorno al pianeta Armaghast, ricordo d’averle scritte nella fretta della certezza che le leggi della probabilità e la meccanica quantistica avrebbero presto rilasciato il cianuro nel mio universo a ciclo chiuso e mi stupisco per l’uso del presente nella narrazione. Poi ricordo la ragione di questa scelta.

Quando mi condannarono a morte nella scatola di Schrödinger, che in realtà non è un parallelepipedo, ma un ovoide, mi concessero di portarmi alcune cose in quell’esilio terminale. I vestiti erano i miei. Per capriccio, mi avevano dato un piccolo tappeto da mettere sul pavimento della cella: un tappeto antico, lungo meno di due metri e largo uno, con un piccolo strappo a una estremità. Una copia del tappeto Hawking del console. Avevo perduto quello vero su Mare Infinitum, molti anni prima, e i particolari di come era tornato in mio possesso saranno illustrati più avanti nel mio racconto. Avevo dato ad A. Bettik il vero tappeto Hawking, ma di sicuro i miei aguzzini si sono divertiti all’idea di adornare la mia cella finale con quella inutile copia di tappeto volante.

Così mi hanno consentito di tenere i miei vestiti, il falso tappeto Hawking e il diskey-diario/ricetrasmittente palmare che avevo preso dalla nave quando ero sceso su T’ien Shan. La trasmittente è stata disattivata (comunque una trasmissione non poteva attraversare il guscio di energia della scatola di Schrödinger e poi non avevo nessuno da chiamare) ma la memoria del diario (l’avevano esaminata attentamente, durante il mio processo d’inquisizione) non era stata toccata. Fu su T’ien Shan che cominciai a prendere annotazioni quotidiane.

Erano queste le annotazioni che avevo richiamato sullo schermo del grafer, mentre mi trovavo nella scatola di Schrödinger; le avevo riviste, prima di scrivere la parte più personale di tutte, ed era stata l’immediatezza di quelle note, credo, a spingermi all’uso del presente. Tutti i miei ricordi di Aenea sono vividi, ma alcuni, richiamati da quei frettolosi appunti al termine di una lunga giornata di lavoro o di avventura su T’ien Shan, erano così vitali da farmi piangere per il rinnovato senso di perdita. Mentre scrivevo le parole, rivivevo quei momenti.

E alcune sue discussioni di gruppo erano registrate parola per parola sul diskey-diario. Le riascolto, nei miei ultimi giorni, solo per udire ancora una volta la sommessa voce di Aenea.


«Parlaci del TecnoNucleo» chiede uno dei monaci, durante l’ora di discussione, la notte dell’arrivo della Pax. «Per favore, parlaci del Nucleo.»

Aenea esita solo un istante, china leggermente la testa come per riordinare i pensieri.

«In un tempo che fu…» inizia. Comincia sempre così le sue lunghe spiegazioni.

«In un tempo che fu, più di mille anni standard fa, prima dell’Egira, prima del Grande Errore del ’38, le sole intelligenze autonome conosciute dall’uomo eravamo noi esseri umani. Pensavamo allora che, se l’uomo avesse progettato un’altra intelligenza, avrebbe realizzato un progetto gigantesco: una grande massa di silicio e di antichi congegni di amplificazione, commutazione e rilevamento detti transistor e chip e circuiti stampati, una macchina con moltissimi circuiti interconnessi, in altre parole una scimmiottatura, se mi consentite l’espressione, del cervello umano nella sua forma e funzione.

«Naturalmente l’evoluzione delle IA non seguì questa via. In un certo senso, le IA cominciarono furtivamente a esistere mentre noi esseri umani guardavamo dall’altra parte.

«Immaginate adesso com’era la Vecchia Terra, prima che l’uomo avesse colonie su altri pianeti. Niente motore Hawking. Niente volo spaziale. Tutte le nostre uova erano davvero in un solo paniere e quel paniere era l’amabile pianeta bianco e azzurro, la Vecchia Terra.

«Alla fine del XX secolo dell’era cristiana, quel piccolo pianeta aveva una rozza sfera dati. Telecomunicazioni planetarie di base si erano sviluppate in un plurisistema decentralizzato di vecchi computer a base silicea che non richiedevano organizzazione né gerarchia, che non richiedevano nient’altro che il comune protocollo di comunicazione. Fu allora inevitabile la creazione di una mente-alveare per trattare la memoria distribuita.

«I primi antenati diretti delle attuali personalità del Nucleo non erano progetti per creare l’intelligenza artificiale, ma tentativi connessi alla simulazione della vita artificiale. Nel 1940, il bisnonno del TecnoNucleo, un matematico, John von Neumann, aveva fatto tutte le prove di autoreplicazione artificiale. Appena i primi computer a base silicea divennero abbastanza piccoli perché gli individui ci giocassero, alcuni dilettanti curiosi cominciarono a praticare biologia sintetica nell’ambito dei cicli CPU di quelle macchine. L’ipervita — che si autoriproduceva, che immagazzinava dati, che interagiva, che metabolizzava, che si evolveva — nacque negli anni 1960. Nell’ultimo decennio di quel secolo fuggì dalle sacche di marea delle macchine individuali e si trasferì nell’embrionale sfera dati planetaria detta Internet o la rete.

«Le prime IA erano stupide come un grumo di terra. Ma forse una metafora migliore sarebbe: stupide come la prima vita cellulare che fu nella terra. Alcune delle prime ipercreature galleggianti nel caldo ambiente della sfera dati, anch’esso in evoluzione, erano organismi a 80 byte inseriti in un blocco di RAM in un computer virtuale, ossia un computer simulato da un computer. Uno dei primi esseri umani a liberare nell’oceano della sfera dati simili creature fu un certo Tom Ray: non era un esperto di IA né un programmatore di computer né un cyberpuke (che a quel tempo era definito hacker) ma un biologo, entomologo, botanico e appassionato di bird-watching, uno che aveva speso anni a raccogliere formiche nelle giungle per uno scienziato pre-Egira di nome E.O. Wilson. Osservando le formiche, Tom Ray si interessò all’evoluzione e si domandò se non sarebbe riuscito non solo a simulare l’evoluzione in uno dei primi computer, ma anche a crearvi una vera evoluzione. Nessuno dei cyberpuke con cui parlò era interessato all’idea, così Tom Ray imparò da solo a programmare computer. I cyberpuke dissero che evoluzioni e mutazioni di sequenze di codici accadevano di continuo nei computer: i classici bugs che rovinavano i programmi. Se si fossero evolute in qualcosa d’altro, dicevano, quelle sequenze di codici sarebbero state quasi sicuramente non funzionali e non vitali, come sono molte mutazioni, e si sarebbero limitate a rovinare le operazioni del software dei computer. Allora Tom Ray creò un computer virtuale, un computer simulato all’interno del suo vero computer, per le sue creazioni di sequenze di codici. E poi creò una vera creatura a sequenza di codice a 80 byte che si poteva riprodurre, morire ed evolversi nel suo computer-nel-computer.

«La 80 byte si copiò in altri 80 byte. Quelle creature-cellula proto-IA a 80 byte avrebbero rapidamente riempito il loro universo virtuale, come schiuma di stagno sopra schiuma di stagno in una paradisiaca Terra primigenia; ma Tom Ray diede a ogni 80 byte un indicatore di durata, in altre parole diede loro un’età e programmò un boia interno che chiamò Mietitore. Il Mietitore vagò nell’universo virtuale e mieté vecchie creature a 80 byte e mutanti non vitali.

«Ma l’evoluzione, com’è logico che sia, cercò di superare in intelligenza il Mietitore. Una creatura mutante a 79 byte dimostrò non solo di essere vitale, ma in breve si riprodusse più rapidamente e distanziò le 80 byte. Le ipervite, antenati delle nostre IA del Nucleo, erano appena nate, ma già ottimizzavano i propri genomi. Presto si sviluppò un organismo a 45 byte e quasi eliminò le precedenti forme di vita artificiale. Come loro creatore, Tom Ray trovò bizzarra la cosa. In 45 byte non era possibile includere codici sufficienti a consentire la riproduzione. Inoltre i 45 byte morivano con la scomparsa degli 80 byte. Tom Ray eseguì l’autopsia di una creatura a 45 byte.

«Risultò che tutti i 45 byte erano parassiti. Per copiare se stessi, prendevano in prestito dagli 80 byte l’indispensabile codice riproduttivo. I 79 byte, risultò, erano immuni ai parassiti 45 byte. Mentre gli 80 byte e i 45 byte si muovevano verso l’estinzione nella loro coevolutiva spirale decrescente, comparve un mutante dei 45 byte. Era un parassita a 51 byte, in grado di predare sul vitale 79 byte. E così andò.

«Espongo tutto questo perché è importante capire che fin dalla sua primissima comparsa, la vita e intelligenza artificiale creata dall’uomo era parassita. Anzi, più che parassita: iperparassita. Ogni nuova mutazione portava a parassiti che potevano predare su parassiti precedenti. Nel giro di qualche miliardo di generazioni, ossia cicli CPU, quella vita artificiale era divenuta iper-iper-iperparassita. Nel giro di qualche mese standard della sua creazione dell’ipervita, Tom Ray scoprì creature a 22 byte che prosperavano nel suo ambiente virtuale, creature così algoritmicamente efficienti che i programmatori umani, sfidati da Tom Ray, non riuscirono a creare niente che si avvicinasse a quelle più di una versione a 31 byte. Solo alcuni mesi dopo la loro creazione, le creature iperviventi avevano sviluppato una efficienza che i loro creatori non riuscivano a uguagliare!

«Agli inizi del XXI secolo c’era una fiorente biosfera di vita artificiale sulla Vecchia Terra, sia nelle sfere dati in rapida evoluzione sia nella macrosfera della vita umana. Anche se i successi del calcolo a base DNA, memorie a bolla, elaborazione parallela a fronte d’onda fisso e iperinterconnessione erano appena esplorati, i progettisti umani avevano creato entità a base silicea di notevole ingegnosità. E le avevano create a miliardi. I microchip erano dovunque, dalle sedie alle scatole di fagioli sugli scaffali dei mercati, dalle autovetture alle protesi del corpo umano. Le macchine erano diventate sempre più piccole, al punto che l’abitazione umana media o l’ufficio erano pieni di decine di migliaia di microchip. La sedia riconosceva la propria operatrice appena quella si sedeva e richiamava il file a cui lavorava sul rozzo computer a base silicea, parlava a un altro chip in una caffettiera in modo da preparare il caffè, abilitava la griglia di comunicazione a trattare chiamate e fax e la rozza posta elettronica in arrivo affinché l’operatrice non fosse disturbata, interagiva con il computer principale dell’abitazione o dell’ufficio per rendere ottimale la temperatura e così via. Nei grandi magazzini, microchip nelle scatole di fagioli sugli scaffali notavano il proprio prezzo e le variazioni di prezzo, ordinavano altre scatole quando diminuivano, annotavano le abitudini d’acquisto dei clienti e interagivano con il negozio e gli altri prodotti ivi contenuti. Questa rete d’interazione divenne complessa e indaffarata come lo strato superficiale di schiuma e bollicine e spuma della zuppa organica negli oceani primigenii della Vecchia Terra.

«Nell’arco di quaranf anni dalla cellula artificiale a 80 byte di Tom Ray, l’uomo era abituato a parlare e comunque interagire con innumerevoli forme di vita artificiale, nelle autovetture, in ufficio, in ascensore, perfino nel proprio corpo, man mano che monitor medici e protoderivazioni si muovevano verso la vera nanotecnologia.

«Il TecnoNucleo acquisì esistenza autonoma in questo periodo. L’uomo aveva capito, correttamente risultò, una cosa: perché fossero efficaci, la vita artificiale e l’intelligenza artificiale dovevano essere autonome. Dovevano svilupparsi e diversificarsi come aveva fatto la vita organica sul pianeta. E così fu. Come la biosfera circondava il pianeta, così ora l’ipervita avvolse in una sfera dati vivente la Vecchia Terra. Il Nucleo si sviluppò non solo come entità astratta nell’ambito del flusso della rete della sfera dati, ma nell’interazione di miliardi di minuscole, autonome micromacchine azionate da chip che eseguivano il proprio compito ordinario nel macromondo dell’uomo.

«L’uomo e l’entità Nucleo dai miliardi di sfaccettature, in piena evoluzione, entrarono presto in simbiosi come gli alberi di acacia e le formiche spinicole che proteggono, potano e propagano l’acacia, loro unica fonte di cibo. Questo fatto è noto come coevoluzione e l’uomo capisce il concetto a livello realmente cellulare, poiché sulla Vecchia Terra la maggior parte della vita organica è stata creata e ottimizzata da reciproca danza coevolutiva. Ma dove l’uomo vide una comoda simbiosi, le prime entità del Nucleo videro, furono in grado di vedere, solo nuove opportunità di parassitismo.

«I computer potevano essere spenti, i programmi software potevano essere eliminati, ma la mente alveare del proto-Nucleo si era già trasferita nell’emergente sfera dati che solo una catastrofe planetaria poteva spegnere.

«Alla fine il Nucleo fornì quella catastrofe, il Grande Errore del ’38, ma non prima d’avere diversificato il proprio ambiente e di essersi trasferito al di là della semplice scala planetaria.

«I primi esperimenti della propulsione Hawking, condotti e capiti solo da elementi avanzati del Nucleo, avevano rivelato l’esistenza della realtà del Vuoto che lega, alla base dello spazio di Planck. Le IA del Nucleo di allora — a base DNA, strutturate a onda, spinte da algoritmi genetici, parallele nella funzione — completarono la costruzione delle prime navi a propulsione Hawking e iniziarono il progetto della rete di teleporter.

«L’uomo ha sempre visto la propulsione Hawking come una scorciatoia nel tempo e nello spazio, la realizzazione del suo vecchio sogno di un motore iperspaziale. Ha concettualizzato i teleporter come comodi buchi praticati nello spaziotempo. Questo era il pregiudizio umano, nato dai suoi stessi modelli matematici e confermato dalle più potenti IA del Nucleo. Era tutta una menzogna.

«Lo spazio di Planck, il Vuoto che lega, è un ambiente multidimensionale con realtà propria e — il Nucleo l’avrebbe presto scoperto — con topografia propria. Il motore Hawking non era e non è affatto un motore nel senso classico, ma un apparecchio d’ingresso che sfiora la topografia dello spazio di Planck per il tempo appena sufficiente a cambiare coordinate nel continuum dello spaziotempo tetradimensionale. I teleporter invece permettono il vero e proprio ingresso nell’ambiente Vuoto che lega.

«Per l’uomo, la realtà era ovvia: si entra qui in un buco nello spaziotempo e si esce istantaneamente lì da un altro teleporter. Mio zio Martin aveva una casa teleporter le cui stanze esistevano su decine di pianeti diversi. I teleporter crearono la Rete dei mondi dell’Egemonia. Un’altra invenzione, l’astrotel — un ambiente per trasmissioni a velocità superiore a quella della luce — permise la comunicazione istantanea fra sistemi solari. Erano stati realizzati tutti i presupposti per una società interstellare.

«Ma il Nucleo non perfezionò il motore Hawking, il teleporter e l’astrotel per comodità dell’uomo. A dire il vero, il Nucleo non perfezionò mai niente, nel suo rapporto con il Vuoto che lega.

«Il Nucleo sapeva fin dall’inizio che il motore Hawking era poco più di un fallito tentativo di entrare nello spazio di Planck. La propulsione di veicoli spaziali mediante il motore Hawking era un po’ come muovere un vascello oceanico provocando una serie di esplosioni a poppa e cavalcando le onde d’urto: grosso modo efficace, ma del tutto inefficiente. Il Nucleo rivendicava di avere creato i teleporter, ma sapeva che, malgrado sembrasse il contrario, nel periodo di massimo splendore della Rete dei mondi non c’erano milioni di teleporter: ce n’era solo uno. Tutti i teleporter erano in realtà una singola porta d’ingresso nello spazio di Planck, manipolata nello spaziotempo per dare l’illusione di una miriade di porte. Se il Nucleo avesse tentato di spiegare la verità all’uomo, avrebbe forse usato l’analogia del raggio di una torcia fatto lampeggiare rapidamente qua e là in una stanza chiusa. Non ci sono parecchie fonti di luce, ma una sola spostata rapidamente. Il Nucleo però non si prese mai la briga di spiegare i teleporter: anzi, finora ha mantenuto il segreto.

«Inoltre il Nucleo sapeva che la topografia del Vuoto che lega poteva essere modulata per trasmettere dati istantaneamente, via astrotel, ma che questo era un uso maldestro e distruttivo dell’ambiente spazio di Planck: un po’ come comunicare da un capo all’altro di un continente per mezzo di terremoti artificiali. Ma offrì all’uomo il servizio astrotel senza spiegarlo, perché così conveniva ai suoi scopi. Il Nucleo aveva i suoi piani per l’ambiente spazio di Planck.

«Fin dai primissimi esperimenti il Nucleo capì che il Vuoto che lega era l’ambiente perfetto per la sua stessa esistenza. Per i propri network di sfere dati non doveva più dipendere da comunicazioni elettromagnetiche o a modulazione di neutrini. Poteva fare a meno di esseri umani o di sonde automatiche per viaggiare fra le stelle ed espandere i parametri fisici del proprio network. Con il semplice spostamento degli elementi primari del Nucleo nel Vuoto che lega, le IA avrebbero avuto un sicuro nascondiglio dai rivali organici, un nascondiglio che era al tempo stesso in nessun luogo e in tutti i luoghi.

«Durante la migrazione delle IA dalle sfere dati a base umana alla megasfera del Vuoto che lega, il Nucleo scoprì che lo spazio di Planck non era un universo vuoto. Dietro le sue montagne metadimensionali e nelle profondità dei suoi arrayos spazioquantici si nascondeva… qualcosa di diverso. Qualcuno. Nel Vuoto che lega c’erano intelligenze. Il Nucleo sondò l’ambiente e poi si ritrasse con stupore reverenziale e con terrore davanti al potenziale potere di quegli Altri. Costoro erano i Leoni e Tigri e Orsi di cui parlava Ummon, l’IA del Nucleo che sosteneva di avere creato e ucciso mio padre.

«La ritirata era stata così affrettata e la ricognizione nell’universo dello spazio di Planck così incompleta, che il Nucleo non aveva idea di dove abitassero nello spaziotempo reale quei Leoni e Tigri e Orsi, né se esistessero davvero nel tempo reale. Né le IA del Nucleo potevano identificare gli Altri in entità evolutesi dalla vita organica come aveva fatto l’uomo o dalla vita artificiale come avevano fatto loro. Ma la brevissima occhiata di sfuggita aveva mostrato loro che quegli Altri avrebbero potuto manipolare il tempo e lo spazio, con la stessa facilità con cui gli esseri umani avevano un tempo manipolato il ferro e l’acciaio. Un simile potere trascendeva la comprensione. La reazione del Nucleo fu di puro panico: una ritirata immediata.

«Questa scoperta e questa reazione di panico avvennero proprio appena il Nucleo aveva avviato il piano per distruggere la Vecchia Terra. Il poema di mio zio Martin racconta che fu il Nucleo a predisporre il Grande Errore del ’38, il presunto "incidente" per cui il Gruppo di Kiev lasciò cadere un buco nero nelle viscere della Vecchia Terra; ma il suo poema non dice — perché lui lo ignorava — che il Nucleo cadde in preda al panico alla scoperta dei Leoni e Tigri e Orsi né che le IA si precipitarono a bloccare la progettata distruzione della Vecchia Terra. Non era facile estrarre un buco nero in fase di espansione dal nucleo del pianeta in collasso, ma il Nucleo progettò un sistema e si dispose a realizzarlo in tutta fretta.

«Poi il pianeta natale dell’uomo scomparve. Non andò distrutto, come pareva agli esseri umani, e non fu salvato, come si augurava il Nucleo: sparì, semplicemente. Il Nucleo capì che a far sparire la Terra erano stati di sicuro i Leoni e Tigri e Orsi; ma non aveva il minimo indizio del come e del dove e del perché. Le IA calcolarono la quantità di energia necessaria per teleportare chissà dove un intero pianeta e ricominciarono a tremare. Simili intelligenze potevano far esplodere il nucleo di un’intera galassia per usarlo come fonte d’energia, con la stessa facilità con cui gli esseri umani avrebbero acceso un fuoco di bivacco in una notte fredda. Le entità del Nucleo se la fecero sotto dalla paura.

«A questo punto devo fare un passo indietro e spiegare per quali ragioni il Nucleo voleva distruggere la Terra e poi invece tentò di salvarla. Le ragioni risalgono alle creature RAM a 80 byte di Tom Ray. Come ho spiegato, la vita e l’intelligenza che si svilupparono nell’ambiente sfera dati non conoscevano altra forma d’evoluzione se non il parassitismo, l’iperparassitismo e l’iper-iper-iperparassitismo. Ma il Nucleo era consapevole dei risultati del parassitismo assoluto e sapeva che l’unico modo per superare lo stato di parassita e la psicologia da parassita era l’evoluzione in risposta all’universo fisico: cioè avere corpo fisico, oltre che personalità astratta nel Nucleo. Il Nucleo aveva input sensoriali molteplici e poteva creare reti neurali, ma per evolversi non da parassita aveva bisogno di un costante e coordinato sistema di circuiti neurali di informazioni di ritorno, ossia occhi, orecchie, lingua, arti, dita: insomma, un corpo.

«A questo scopo il Nucleo creò i cìbridi, corpi sviluppati da DNA umano e collegati alle loro personalità basate sul Nucleo. Ma i cìbridi erano difficili da monitorare e diventavano alieni, se posti in ambiente umano. Sarebbero stati sempre a disagio su pianeti abitati da miliardi di esseri umani evolutisi organicamente. Allora inizialmente il Nucleo progettò di distruggere la Vecchia Terra e di ridurre di un novanta per cento la specie umana.

«Il Nucleo aveva fatto dei piani per inserire gli elementi superstiti della specie umana nel suo universo abitato da cìbridi dopo la morte della Vecchia Terra — usandoli come ceppi DNA di scorta e manodopera di fatica, proprio come noi abbiamo usato gli androidi — ma la scoperta di Leoni e Tigri e Orsi e la precipitosa ritirata dallo spazio di Planck complicarono quei piani. Finché non avesse valutato ed eliminato la minaccia di questi Altri, il Nucleo avrebbe continuato il suo rapporto di parassitismo nei confronti della specie umana. Proprio a questo scopo progettò i teleporter della vecchia Rete dei Mondi. Per gli esseri umani, il viaggio nell’ambiente teleporter era istantaneo. Ma nella topografia atemporale dello spazio di Planck, il periodo soggettivo di permanenza poteva essere tanto lungo quanto il Nucleo voleva. E in quel periodo il Nucleo attinse a miliardi di cervelli umani, usando milioni di volte la mente degli esseri umani ogni giorno standard, per creare un gigantesco network neurale adatto ai suoi scopi di calcolo. Ogni volta che un essere umano varcava un teleporter, era come se il Nucleo aprisse il cranio di quell’individuo, ne rimuovesse la materia grigia, posasse il cervello su un banco di lavoro e lo collegasse a miliardi di altri cervelli umani in un gigantesco computer organico operante in parallelo. Gli esseri umani completavano il passo dallo spazio di Planck in un istante di tempo soggettivo e non notavano mai l’inconveniente.

«Ummon disse a mio padre, il cìbrido John Keats, che il Nucleo era composto di tre fazioni contrastanti: i Finali, che avevano l’ossessione di creare il proprio dio, l’Intelligenza Finale; i Volatili, che volevano eliminare la specie umana e procedere con i propri scopi; e gli Stabili, che volevano mantenere lo status quo, vis-à-vis con l’uomo. Questa spiegazione era una assoluta menzogna.

«Nel TecnoNucleo non c’erano e non ci sono tre fazioni… ce ne sono miliardi. Il Nucleo è l’esercizio finale dell’anarchia, iperparassitismo elevato alla massima potenza. Gli elementi del Nucleo lottano per il potere in alleanze che possono durare secoli o microsecondi. Miliardi di entità parassite fluiscono e rifluiscono in scellerate alleanze costruite per controllare o prevedere eventi. Le entità del Nucleo infatti si rifiutano di morire, se non vi sono costrette… l’attacco con la bomba a raggi della morte ordinato da Meina Gladstone contro l’ambiente teleporter non solo causò la Caduta dei teleporter, ma uccise miliardi di entità sedicenti immortali del Nucleo. Gli individui si rifiutano di fare posto ad altri senza combattere. Eppure nello stesso tempo l’ipervita del Nucleo necessita della morte per la propria evoluzione. Ma la morte, nell’universo del Nucleo, ha il proprio ordine del giorno.

«Il programma Mietitore creato da Tom Ray più di mille anni fa esiste ancora nell’ambiente Nucleo, mutato in un milione di forme alternative. Ummon non parlò mai di Mietitori come di una fazione del Nucleo, ma i Mietitori rappresentano un blocco molto più numeroso dei Finali. Furono i Mietitori a creare e a controllare all’inizio la creatura fisica nota come Shrike.

«Come interessante nota a piè di pagina si può notare che le entità del Nucleo che sfuggono ai Mietitori non sopravvivono mediante semplice parassitismo, ma mediante parassitismo necrofilo. Questa è la tecnica con cui le originarie forme di vita artificiale a 22 byte riuscirono a evolversi e a sopravvivere nella macchina di evoluzione virtuale di Tom Ray: rubando lo sparso testo codice di altre byte-creature che erano "mietute" mentre si riproducevano. I parassiti del Nucleo non solo fanno sesso, fanno sesso con i morti! Così sopravvivono oggi milioni di entità mutate del Nucleo, mediante iperparassitismo necrofilo.

«Cosa vuole ora il Nucleo dalla specie umana? Perché ha rivitalizzato la Chiesa cattolica e ha permesso alla Pax di nascere? Come funzionano i crucimorfi e come servono il Nucleo? Come funzionano in realtà le cosiddette navi Arcangelo a propulsione Gideon e qual è il loro effetto sul Vuoto che lega? E come tratta, il Nucleo, la minaccia di Leoni e Tigri e Orsi?

«Ne discuteremo in altra occasione.»


Da quando abbiamo saputo dell’arrivo della Pax è trascorso un giorno e sono impegnato a lavorare la pietra sulle impalcature più alte.

Nei miei primi giorni su T’ien Shan, penso che Rachel, Theo, Jigme Norbu, George Tsarong e gli altri dubitassero che sarei riuscito a guadagnarmi il mantenimento nel cantiere del Hsuan-k’ung Ssu. Anch’io avevo qualche dubbio, lo ammetto, mentre guardavo il duro lavoro e lo sfoggio di abilità altrui. Ma dopo alcuni giorni trascorsi a imparare il mestiere e le tecniche di scalata e di utilizzo di pareti rocciose, cornici, cavi, impalcature e scivoli della zona, mi offrii volontario per lavorare e ottenni la possibilità di fare una figuraccia. Andò tutto bene.

Aenea sapeva del mio apprendistato presso Avrol Hume, non solo come tecnico del paesaggio nelle smisurate proprietà terriere nel Becco, ma anche come artigiano in pietra e legno per edifici stravaganti e ponti, gazebo e torri. Quel lavoro giovanile mi tornò utile e in due settimane ero passato dalla manodopera comune delle impalcature al gruppo scelto di montatori e di scalpellini che faticavano sulle piattaforme più alte. Il progetto di Aenea contemplava che gli edifici più alti salissero fino alla grande sporgenza rocciosa e che varie passerelle e parapetti fossero incorporati in quella pietra. Al momento lavoriamo proprio a questo, scalpelliamo la pietra e posiamo mattoni per la passerella lungo il bordo del nulla, su impalcature pericolosamente a sbalzo sull’abisso. Negli ultimi tre mesi sono diventato più snello e più robusto, ho aumentato il tempo di reazione e ho sviluppato un più attento giudizio, mentre lavoro sulle pareti a picco e sullo sdrucciolevole bambù bonsai.

Lhomo Dondrub, l’esperto aviatore e scalatore, si è offerto volontario per scalare in free-climbing la parte finale della sporgenza e piazzarvi punti d’ancoraggio per gli ultimi metri di impalcatura; da un’ora Viki Groselj, Kim Byung-Soon, Haruyuki Otaki, Kenshiro Endo, Changchi Kenchung, Labsang Samten, alcuni altri muratori e montatori e io guardiamo Lhomo muoversi senza protezione da una parte all’altra della roccia sopra la sporgenza, come la proverbiale mosca della Vecchia Terra: possenti braccia e gambe che si flettono sotto la sottile stoffa del costume da scalata, che mantengono in ogni istante tre punti di contatto con la viscida roccia verticale, mentre la mano libera e il piede tastano in cerca della più piccola asperità su cui riposare, della più piccola fessura o crepa dove inserire un chiodo per il nostro aggancio. Stare a guardarlo è terrificante; ma è anche un privilegio, come se fosse possibile tornare indietro in una macchina del tempo e guardare Picasso che dipinge o George Wu che legge le sue poesie o Meina Gladstone che pronuncia un discorso. Decine di volte sono sicuro che Lhomo sta per staccarsi e precipitare, impiegherebbe minuti interi di caduta libera per finire nelle nuvole velenose sottostanti, ma ogni volta lui rimane magicamente al suo posto o trova un punto di attrito o per miracolo scopre una fessura in cui incuneare la mano o il dito per sostenere l’intero corpo.

Finalmente Lhomo termina il lavoro, le funi penzolano ben agganciate, i cavi sono assicurati e lui si cala al cavo fissato per primo, si sposta per cinque metri lateralmente, si lascia cadere nelle staffe e con una spinta si getta sulla nostra piattaforma di lavoro, come un leggendario supereroe che atterri. Labsang Samten gli porge un boccale di birra di riso gelata. Kenshiro e Viki gli danno pacche sulla schiena. Changchi Kenchung, il nostro mastro carpentiere dai baffi incerati, si lancia in un licenzioso canto di complimenti. Io scuoto la testa e sogghigno come un idiota. La giornata è esaltante: una cupola di cielo azzurro, la montagna sacra del Nord, l’Heng Shan, che risplende dall’altra parte del varco fra le nubi, vento moderato. Aenea dice che nel giro di qualche giorno scenderà su di noi la stagione delle piogge, il monsone meridionale porterà mesi di pioggia, di rocce scivolose e infine la neve, ma in un giorno così perfetto quell’evento pare improbabile e remoto.

Mi sento toccare il braccio e vedo Aenea. Per gran parte della mattina è stata sulle impalcature o sulla parete di roccia lavorata, appesa all’imbracatura, a sovrintendere il lavoro in pietra e mattoni sulla passerella e sui parapetti.

Sogghigno ancora per il flusso di adrenalina provato nel guardare Lhomo, come se fossi stato io al posto suo. «I cavi sono pronti per essere montati» dico. «Altri tre o quattro giorni di bel tempo e la passerella di legno sarà a posto. Poi passiamo alla tua piattaforma laggiù» indico l’ultimo bordo della sporgenza rocciosa «e voilà! Il tuo progetto è terminato, ragazzina, a parte verniciatura e lucidatura.»

Aenea annuisce, ma è chiaro che non pensa alle feste per Lhomo o all’imminente completamento del suo anno di lavoro. «Raul, puoi fare due passi con me un momento?»

La seguo giù per le scalette delle impalcature, su uno dei livelli permanenti e fuori, su una cornice di pietra. Mentre passiamo, piccoli uccelli verdi prendono il volo da una fenditura.

Visto da quell’angolo, il Tempio a mezz’aria è un’opera d’arte. Il legno lavorato e dipinto luccica più che brillare di rosso scuro. Le scalinate e le ringhiere e il lavoro d’intaglio sono eleganti e complicati. Molte pagode hanno le pareti shoji aperte e nella tiepida brezza svolazzano bandierine di preghiera e biancheria e coperte da letto. Ci sono otto bellissimi sacrari nel tempio, in ordine ascendente lungo le passerelle ascendenti, e ciascun sacrario a pagoda rappresenta un gradino nel nobile ottuplice sentiero come classificato dal Buddha: i sacrari si allineano su tre assi riferiti alle tre sezioni del sentiero: saggezza, moralità e meditazione. Sulle scalinate e piattaforme dell’asse ascendente saggezza ci sono i sacrari di meditazione per "giusta comprensione" e "giusto pensiero".

Sull’asse moralità ci sono "giusta parola", "giusta azione", "giusta vita" e "giusta opera". Questi ultimi sacrari di meditazione posso essere raggiunti solo con una faticosa salita su per una scaletta a pioli anziché una scalinata, perché — come Aenea e Kempo Ngha Wang Tashi mi hanno spiegato una sera nei primi tempi della mia permanenza — il Buddha ha inteso che questo sia un sentiero di strenuo e assiduo impegno.

Le pagode della più alta meditazione sono dedicate alla contemplazione degli ultimi due gradini del nobile ottuplice sentiero: "giusta preoccupazione" e "giusta meditazione". Quest’ultima pagoda, ho notato subito, guarda solo sulla parete di roccia dello strapiombo.

Ho anche notato che nel tempio non ci sono statue di Buddha. Quel poco che nonna mi ha spiegato del buddhismo, quando da bambino avevo fatto domande perché mi ero imbattuto in una citazione in un vecchio libro preso dalla biblioteca di Moors End, era questo: i buddhisti onorano e pregano statue nelle sembianze di Buddha. Dov’erano quelle statue? L’avevo domandato a Aenea.

Lei mi aveva spiegato che sulla Vecchia Terra il pensiero buddhista si era suddiviso in due categorie principali: Hinayana, una più antica scuola di pensiero, cui la seconda scuola, la più popolare Mahayana, aveva applicato il termine peggiorativo di "veicolo minore" (di salvezza) autoproclamandosi "veicolo maggiore". Un tempo c’erano state diciotto scuole d’insegnamento Hinayana e tutte si rifacevano a Buddha come maestro e spingevano alla contemplazione e allo studio dei suoi insegnamenti, non alla sua adorazione; ma al tempo del Grande Errore solo una di quelle scuole sopravviveva, la Theravada, e solo in remote regioni, tormentate dalle malattie e dalle carestie, dello Sri Lanka e della Thailandia, due province politiche della Vecchia Terra. Tutte le altre scuole buddhiste portate via nell’Egira rientravano nella categoria Mahayana, che si concentrava sulla venerazione delle statue di Buddha, sulla meditazione per la salvezza, su tonache color zafferano e su altri ornamenti cerimoniali che nonna mi aveva descritto.

Ma su T’ien Shan, mi aveva spiegato Aenea, il pianeta più influenzato da quella religione nella Periferia o nella vecchia Egemonia, il buddhismo si era evoluto a ritroso verso il razionalismo, la contemplazione, lo studio e l’attenta e spregiudicata analisi degli insegnamenti di Buddha. Per questo nel Hsuan-k’ung Ssu non c’erano statue di Buddha.

Ci fermiamo al termine della cornice di pietra. Gli uccelli volano in cerchio sotto di noi, aspettano che ce ne andiamo per tornare ai nidi nelle fenditure.

«Cosa c’è, ragazzina?»

«Il ricevimento al Palazzo d’inverno a Potala si tiene domani sera» dice Aenea. Ha il viso rosso e sporco di polvere per il lavoro della mattinata. Noto che ha un graffio sulla fronte e alcune goccioline di sangue. «Charles Chi-kyap Kempo sta formando un gruppo ufficiale di non più di dieci persone per parteciparvi» continua Aenea. «Ci sarà naturalmente Kempo Ngha Wang Tashi e il sovrintendente Tsipon Shakabpa, il cugino del Dalai Lama, Gyalo, suo fratello Labsang, Lhomo Dondrub perché il Dalai Lama ha sentito parlare delle sue imprese e vorrebbe conoscerlo, Tromo Trochi di Dhomu come agente commerciale e uno dei capisquadra in rappresentanza degli operai, o George o Jigme…»

«Non riesco a immaginare l’uno senza l’altro.»

«Neppure io. Ma penso che dovrà essere George. Lui sa parlare. Forse Jigme verrà con noi e aspetterà fuori del palazzo.»

«Così fanno otto.»

Aenea mi prende la mano. Le sue dita sono ruvide per il lavoro e le escoriazioni, ma mi sembrano sempre le più morbide e più eleganti dita umane dell’universo conosciuto. «Con me fanno nove» dice Aenea. «Ci sarà una folla enorme: gruppi giunti da tutte le città e le province. Non ci troveremo mai a meno di venti metri dai funzionari della Pax.»

«Oppure saremo i primi a essere loro presentati» replico. «La legge di Murphy e tutto il resto.»

«Già» dice Aenea. Il sorriso che vedo adesso è identico a quello che vedevo sul viso della mia undicenne amica quando aveva in mente una birichinata forse un po’ pericolosa. «Vuoi farmi da cavaliere?»

Lascio uscire il fiato. «Non perderei l’occasione nemmeno per tutto l’oro dell’universo» rispondo.

18

La notte prima del ricevimento del Dalai Lama non riesco a dormire anche se sono stanco. A. Bettik non c’è, si è fermato a Jo-kung, con George e Jigme e i trenta carichi di materiali da costruzione che sarebbero dovuti arrivare ieri ma che sono stati trattenuti nella città-forra da uno sciopero dei portatori. Al mattino assumerà nuovi portatori e guiderà la fila per gli ultimi chilometri fino al tempio.

Irrequieto, mi alzo dal futon, mi infilo un paio di calzoni di saia, una camicia sbiadita, gli stivali e il leggero giubbotto termico. Esco dalla pagoda dove dormo e noto la luce di lanterna che scalda le finestre opache e la porta shoji della pagoda di Aenea. La mia amica lavora di nuovo fino a tardi. Cammino piano, per non disturbarla facendo oscillare la piattaforma, e scendo la scala a pioli fino al livello principale del Tempio a mezz’aria.

Provo sempre la stessa sorpresa nel vedere quanto sia vuoto questo posto, di notte. All’inizio pensavo che lo si dovesse alla partenza degli operai del cantiere — per la maggior parte abitano nelle gabbie sul fianco dello strapiombo intorno a Jo-kung — ma pian piano ho capito quanto siano poche le persone che trascorrono le notti nella struttura del tempio. George e Jigme di solito dormono nella baracca da capomastro, ma stanotte si trovano con A. Bettik a Jo-kung. L’abate Kempo Ngha Wang Tashi certe notti sta con i monaci, ma stanotte è tornato alla sua casa ufficiale a Jo-kung. Alcuni monaci, fra cui Chim Din, Labsang Samten e Donka Nyapso, preferiscono i loro austeri alloggi al monastero ufficiale a Jo-kung. Di tanto in tanto l’aviatore, Lhomo, si ferma nei quartieri dei monaci o in un sacrario vuoto, ma stanotte è partito per tempo per il Palazzo d’inverno, accennando all’idea di scalare il Nanda Devi a sud di Potala.

Così, a parte un tenue bagliore di lanterna nei quartieri dei monaci, cento metri più lontano sul più basso livello del bordo orientale della struttura, bagliore che si spegne sotto i miei occhi, il resto del tempio è buio e silenzioso nella luce delle stelle. Ancora non si sono levati né l’Oracolo né le altre vivide lune, anche se l’orizzonte orientale inizia a rischiararsi un poco per la loro comparsa. Le stelle sono incredibilmente brillanti, hanno quasi lo stesso splendore chiaro e netto di quando le si ammira dallo spazio. Stanotte sono migliaia, più di quante non ricordi d’avere visto nel cielo di Hyperion o della Vecchia Terra, e piego il collo fino a distinguere la stella in lento movimento che in realtà è la minuscola luna dove la nave si tiene nascosta. Ho con me il diskey-diario/ricetrasmittente e mi basterebbe un bisbiglio per parlare con la nave, ma Aenea e io abbiamo deciso che, con la Pax così vicino, è meglio riservare i contatti radio a situazioni d’emergenza.

Mi auguro con tutto il cuore che nelle prossime ore non si presentino situazioni del genere.

Scendo scale a pioli, rampe di gradini e brevi ponti lungo il lato ovest della struttura del tempio e torno indietro lungo la cornice di pietra e di mattoni sotto gli edifici inferiori. Il vento notturno si è alzato e sento lo scricchiolio e il gemito delle travature di legno, mentre interi livelli a piattaforma si aggiustano al vento e al freddo. Bandierine di preghiera svolazzano sopra di me; la luce delle stelle si rifletté sulla parte superiore delle nuvole che si arricciano contro la cresta rocciosa molto più in basso. Il vento non è tanto forte da produrre quel caratteristico ululato di lupo che mi svegliava le prime notti qui, ma col suo passaggio tra fenditure e travi e crepe mi circonda di borbottii e di bisbigli.

Raggiungo la scala Saggezza e salgo passando dal padiglione meditativo della Giusta Comprensione, mi fermo un momento alla balconata e guardo verso est i quartieri dei monaci, bui e silenziosi, appollaiati da soli sopra un masso tondeggiante. Riconosco negli intagli lignei che sento sotto le dita l’infinita abilità e la cura delle sorelle Kuku e Kay Se. Mi avvolgo meglio nel giubbotto termico per proteggermi dal vento che si alza e salgo la scala a chiocciola fino alla piattaforma con la pagoda del Giusto Pensiero. Sulla parete orientale di questa pagoda restaurata, Aenea ha progettato una grossa finestra circolare che guarda verso la sella della cresta dove l’Oracolo fa la sua comparsa; e infatti ora la luna si leva e illumina prima il soffitto e poi la parete posteriore, dove nell’intonaco sono inserite queste parole tratte dalla scrittura Sutta nipata:


Come una fiamma spenta dal vento

va a riposare e non può essere definita,

così il saggio, liberato dell’individualità,

va a riposare e non può essere definito.

Sottratto a ogni immagine…

sottratto al potere delle parole.


So che questo brano riguarda l’enigmatica morte di Buddha, ma lo leggo al chiarore dell’Oracolo e penso che potrebbe riguardare Aenea o me stesso o tutt’e due. Invece non pare riguardarci. A differenza dei monaci che qui faticano per trovare illuminazione, io non ho alcun impulso a trascendere l’individualità. Ciò che mi affascina e mi delizia è il mondo stesso, tutti i numerosi mondi che ho avuto il privilegio di vedere e di visitare. Non ho alcun desiderio di mettermi alle spalle il mondo e le mie immagini sensorie del mondo. E so che Aenea la pensa allo stesso modo sulla vita: il coinvolgimento con la vita è come la comunione dei cattolici, solo che il mondo è l’ostia e deve essere mangiato.

Tuttavia il pensiero dell’essenza di cose, di persone, della vita che si sottraggano a ogni immagine e al potere delle parole entra in assonanza con me. Ho cercato, senza riuscirci, di mettere in parole l’essenza di questo luogo, di questi giorni, e ho scoperto quanto sia futile il tentativo.

Lasciato l’asse Saggezza, attraverso la lunga piattaforma per la cucina e per i pasti comuni e inizio a risalire l’asse Moralità e le sue scale, ponti, piattaforme. L’Oracolo ormai si è levato al di sopra della cresta e la luce sua e di due damigelle di scorta dipinge di densa pittura lunare la roccia e il legno rosso intorno a me.

Attraverso i padiglioni Giusta Parola e Giusta Azione, mi soffermo a riprendere fiato nella pagoda circolare Giusta Vita. Proprio fuori della pagoda Giusta Opera c’è un barile di bambù colmo d’acqua potabile e ne approfitto per dissetarmi. Bandierine di preghiera svolazzano e schioccano lungo le terrazze e i cornicioni dei tetti, mentre mi sposto piano lungo la piattaforma di collegamento alle strutture più alte.

Il padiglione Giusta Preoccupazione fa parte del recente lavoro di Aenea e profuma ancora di fresco cedro bonsai. Tre metri più in alto lungo la ripida scala a pioli, il padiglione Giusta Meditazione si sporge sopra la massa del tempio e la sua finestra guarda sulla parete della cresta. Rimango lì per diversi minuti e per la prima volta mi rendo conto di una cosa: quando — come ora — la luna si alza, l’ombra della pagoda cade sopra quella lastra di roccia. Aenea ha progettato il tetto del padiglione in modo che l’ombra si accordi con le fenditure e le scoloriture naturali della roccia e crei un disegno di ombre che riconosco: l’ideogramma cinese per Buddha.

Sento un brivido gelido, anche se il vento soffia come prima. Sulle braccia mi viene la pelle d’oca e mi si gela la nuca. Intuisco, no, capisco chiaramente in quest’attimo che la missione di Aenea, qualunque sia, è destinata a fallire. Lei e io saremo catturati, interrogati, probabilmente torturati e messi a morte. Le mie promesse al vecchio poeta su Hyperion sono state fiato sprecato. Abbatterò la Pax, avevo detto. La Pax, con i suoi miliardi di fedeli, milioni di uomini e donne in armi, migliaia di navi da guerra… Riporterò al suo posto la Vecchia Terra, avevo detto. Be’, la Vecchia Terra almeno l’avevo visitata!

Cerco dalla finestra di vedere il cielo, ma nel chiarore delle lune c’è solo la parete rocciosa e l’ombra ideogramma che piano piano si aggrega per formare il nome di Buddha, le tre pennellate verticali come inchiostro su pergamena color ardesia, le tre pennellate orizzontali che girano intorno e si uniscono, formando tre bianche facce in spazi negativi, tre facce che mi fissano nel buio.

Ho promesso di proteggere Aenea. Giuro che morirò per mantenere la promessa.

Mi scuoto di dosso il gelo e la premonizione, esco sulla piattaforma, mi aggancio a un cavo e volo con un ronzio nel vuoto, per trenta metri, fino alla piattaforma sotto la terrazza superiore dove Aenea e io abbiamo le pagode da notte. Mentre salgo l’ultima scala a pioli fino al livello più alto, mi dico che forse ora riuscirò a dormire.


Non avevo annotato nel diskey-diario questo episodio. Lo ricordo ora, mentre ne scrivo.

La luce di Aenea era spenta. Ne fui contento, rimaneva alzata fino a tardi, lavorava troppo. Le alte impalcature di lavoro e i cavi dello strapiombo non erano il posto ideale per un architetto esausto.

Entrai nella mia baracca, chiusi la porta shoji, mi tolsi gli stivali. Tutto era come l’avevo lasciato: la parete paravento esterna socchiusa, il vivido chiarore delle lune sulla stuoia letto, il vento che scuoteva le pareti nella sua soffocata conversazione con le montagne. Nessuna delle mie due lanterne era accesa, ma avevo la luce delle lune e il chiaro ricordo della stanzetta nel buio. Il pavimento era nudo tatami, a parte il futon per dormire e una sola cassapanca accanto alla porta, che conteneva il sacco da montagna, qualche provvista alimentare, il boccale per la birra, i riciclo-respiratori presi dal magazzino della nave e l’attrezzatura da scalata: non c’era niente contro cui inciampare.

Appesi il giubbotto al gancio accanto alla porta, mi bagnai il viso con l’acqua nel catino sopra la cassapanca, mi tolsi camicia, calzini, calzoni e biancheria, infilai il tutto nella sacca dentro la cassapanca. L’indomani era giorno di bucato. Con un sospiro, sentendo che la premonizione di disastro avuta nel padiglione cominciava a dissolversi in semplice stanchezza, andai alla stuoia letto. Dormivo sempre nudo, tranne quando ero stato nella Guardia nazionale e durante il viaggio nella nave del console insieme con Aenea e A. Bettik.

Mi accorsi di un lievissimo movimento nel buio al di là della striscia illuminata; sorpreso, mi acquattai in posizione da combattimento. La nudità ci fa sentire più vulnerabili del normale. Poi mi dissi: "A. Bettik sarà tornato prima del previsto". Rilassai la destra chiusa a pugno.

«Raul?» Aenea si sporse nel chiarore delle lune. La parte inferiore del suo corpo era avvolta nella mia coperta, ma le spalle, i seni e l’addome erano nudi. L’Oracolo le illuminò di luce soffusa i capelli e gli zigomi.

Aprii bocca per parlare, cominciai a girarmi verso i vestiti o il giubbotto, decisi di non camminare nudo per la stanza, mi lasciai cadere ginocchioni sulla stuoia e tirai le lenzuola del futon per coprirmi. Non ero un santocchio, ma Aenea era Aenea. Che intenzioni…

«Raul» ripeté Aenea. Stavolta non aveva usato il tono interrogativo. Mi si avvicinò, muovendosi sulle ginocchia. La coperta ricadde.

«Aenea» dissi come uno sciocco. «Aenea, io… tu… io non… tu davvero non…»

Aenea mi mise il dito sulle labbra. Dopo un secondo lo tolse; ma prima che potessi parlare, si sporse più vicino e premette le labbra dove un attimo prima c’era il dito.

Ogni volta che mi era accaduto di toccare la mia giovane amica, avevo avvertito una scossa elettrica. L’ho già detto e mi sento sempre uno sciocco a parlarne, ma l’attribuivo alla sua… aura… una carica di personalità. Reale, non metaforica. Mai però avevo sentito, come in quell’istante, una simile scarica elettrica.

Per un secondo restai inerte, ricevetti il bacio anziché condividerlo. Poi il calore e l’insistenza del bacio sopraffecero il pensiero, il dubbio, tutti i miei sensi in ogni sfumatura della parola, e allora ricambiai il bacio, circondai con le braccia Aenea per tirarla più vicino mentre lei faceva scivolare le sue braccia sotto le mie e mi accarezzava la schiena. Più di cinque anni fa per lei, mi aveva salutato con un bacio su quel fiume della Vecchia Terra e quel bacio era stato irresistibile, elettrico, pieno di domande e di messaggi, ma pur sempre il bacio di una sedicenne. Questo bacio fu il tocco caldo, umido, aperto, di una donna e io risposi in un istante.

Ci baciammo per un tempo che parve eterno. Ero vagamente consapevole della mia nudità e della mia eccitazione come di qualcosa di cui avrei dovuto preoccuparmi, provare imbarazzo; ma era una cosa remota, secondaria, rispetto al calore e all’urgenza dei baci che non volevano fermarsi. Quando alla fine le nostre labbra si staccarono, gonfie, quasi tumefatte, desiderose di ricominciare, ci baciammo l’un l’altra le guance, le palpebre, la fronte, le orecchie. Chinai il viso a baciarle la cavità della gola, sentii contro le labbra le sue pulsazioni, aspirai il profumo della sua pelle.

Aenea venne avanti sulle ginocchia, inarcò lievemente la schiena fino a toccare con i seni la mia guancia. Presi nella mano a coppa un seno e baciai il capezzolo quasi con reverenza. Aenea mi tenne nel palmo la nuca. Sentivo su di me il suo alito, più svelto, mentre lei chinava il viso verso di me.

«Aspetta, aspetta» dissi, ritraendo il viso e scostandomi. «No, Aenea, tu sei… cioè… non credo che…»

«Sst» disse lei, sporgendosi di nuovo su di me, baciandomi di nuovo, tirandosi indietro in modo che i suoi occhi scuri parvero riempire il mondo. «Sst, Raul. Sì.» Mi baciò di nuovo, appoggiandosi a destra, cosicché tutti e due reclinammo sulla stuoia, sempre baciandoci, mentre la brezza scuoteva le pareti di carta di riso e l’intera piattaforma oscillava nella profondità del nostro bacio e nel movimento del nostro corpo.


È un problema. Raccontare, partecipare ad altri i momenti più privati e più sacri. Metterli in parole pare una profanazione. E non metterli, una bugia.

Vedere e toccare per la prima volta la propria amata nuda è una delle pure, irriducibili epifanie della vita. Se nell’universo c’è una vera religione, deve comprendere questa verità di contatto o essere per sempre vuota. Fare l’amore con la sola vera persona che merita quell’amore è una delle poche assolute ricompense dell’appartenenza alla specie umana, l’equilibrio di tutto ciò — sofferenza, perdita, impaccio, solitudine, idiozia, compromesso, goffaggine — che va a braccetto con l’umana condizione. Fare l’amore con la persona giusta rimedia un mucchio di errori.

Prima di allora non avevo mai fatto l’amore con la persona giusta. Lo capii subito, quando Aenea e io ci scambiammo il primo bacio e restammo distesi l’uno contro l’altra, ancora prima che cominciassimo a muoverci lentamente, poi rapidamente, poi lentamente di nuovo. Mi resi conto di non avere mai fatto davvero l’amore con nessuna finora: il sesso con donne disponibili, da giovane soldato in licenza, oppure il sesso da barcaiolo a barcaiola che ne hanno l’occasione e allora perché no?, il sesso che pensavo di avere esplorato scoprendo tutto ciò sull’argomento non era neppure l’inizio.

Questo era l’inizio. Ricordo Aenea alzarsi a un certo punto su di me, mano premuta con forza sul mio petto, il suo petto lucido di sudore, ma sempre guardandomi, guardandomi con tale intensità e calore che era come se fossimo intimamente congiunti dallo sguardo così come dalle cosce e dai genitali; e avrei ricordato quell’istante ogni volta che avremmo fatto l’amore in futuro, come parevo ricordare in anticipo tutte le volte future anche in quei primi momenti d’intimità.


Distesi insieme nel chiaro di luna, lenzuola e coperte e futon attorcigliati e sparsi intorno a noi, il vento freddo del nord che ci asciugava il corpo sudato, la guancia di lei sul mio petto, la mia coscia di traverso sul fianco di lei, continuammo a toccarci: le sue dita giocavano con i peli del mio torace, le mie dita seguivano la linea della sua guancia, la pianta del mio piede accarezzava avanti e indietro la parte posteriore della gamba di lei, si incurvava intorno ai forti muscoli del suo polpaccio.

«È stato un errore?» mormorai.

«No» mormorò Aenea. «A meno che…»

Mi sentii mancare il cuore. «A meno che, cosa?»

«A meno che nella Guardia nazionale abbiano trascurato di farti quelle iniezioni che sono sicura ti hanno fatto» mormorò lei.

Ero così ansioso che non colsi il suo tono di presa in giro. «Cosa? Iniezioni? Cosa?» Mi rotolai sul fianco, puntai il gomito. «Oh… iniezioni… merda. Sai che me le hanno fatte. Cristo.»

«Lo sapevo» mormorò Aenea, e ora mi accorsi che sorrideva.

Quando noi ragazzi di Hyperion eravamo entrati nella Guardia nazionale, avevamo avuto dalle autorità la solita sfilza di iniezioni approvate dalla Pax: antimalaria, anticancro, antivirus, controllo delle nascite. In un universo dove la grande maggioranza di individui ha scelto il crucimorfo, per essere immortale, il controllo delle nascite era un obbligo. Dopo il matrimonio ci si poteva rivolgere alle autorità della Pax per avere l’antidoto o lo si poteva semplicemente acquistare al mercato nero quand’era il momento di mettere su famiglia. Oppure, se non si sceglieva né la croce né la famiglia, l’effetto anticoncezionale sarebbe durato finché l’età avanzata o la morte non avessero reso superata la faccenda. Erano anni che non avevo più pensato a quella iniezione. A dire il vero, mi pare che A. Bettik mi abbia fatto domande su quelle iniezioni, nella nave del console, dieci anni fa, quando parlavamo di medicina preventiva; avevo accennato alla sfilza di iniezioni nella Guardia nazionale, mentre la nostra giovane amica undicenne o dodicenne, rannicchiata sul divano nella sala del pozzetto olografico, con aria completamente assorta leggeva un libro preso dalla biblioteca della nave…

«No» dissi, sempre puntellato sul gomito «intendevo uno sbaglio. Tu sei…»

«Sono io» bisbigliò lei.

«Sei una ventunenne standard» conclusi. «Io sono…»

«Sei tu» bisbigliò lei.

«… undici anni standard più anziano.»

«Incredibile» disse Aenea. Mi guardò in viso e aveva tutta la faccia illuminata dalla luna. «Riesci a fare di conto. In momenti come questo.»

Sospirai e mi girai sullo stomaco. Le lenzuola odoravano di noi. Il vento continuava ad alzarsi e ora scuoteva le pareti.

«Ho freddo» mormorò Aenea.

Nei giorni e mesi a venire, se avesse detto d’avere freddo, l’avrei tenuta fra le mie braccia; quella notte invece presi alla lettera le sue parole e mi alzai per andare a chiudere il paravento shoji. Il vento era più gelido del solito.

«No» disse Aenea.

«No, cosa?»

«Non chiuderlo tutto.» Si era messa a sedere e si teneva addosso il lenzuolo, appena sotto i seni.

«Ma fa…»

«La luce della luna su di te» bisbigliò Aenea.

Può darsi che fosse la sua voce a causare la mia reazione fisica. O la vista di lei che mi aspettava fra le coperte. Oltre a contenere il nostro odore, la stanza aveva l’odore di paglia fresca, per il nuovo tatami e il ryokan nel soffitto. E dell’aria pulita e pungente delle montagne. Ma la brezza fredda non rallentò la mia reazione.

«Vieni qui» bisbigliò Aenea. Aprì le coperte per avvolgermi come in un mantello.


Oggi lavoro a sistemare al suo posto la passerella della sporgenza e mi sento un sonnambulo. Parte del problema consiste nella mancanza di sonno — quando Aenea è tornata al suo padiglione, l’Oracolo era tramontato e l’oriente cominciava a schiarirsi per il mattino — ma la ragione principale è il puro e semplice stupore. La vita ha preso una piega che non avevo mai previsto, mai immaginato.

Sistemo nella parete dello strapiombo i sostegni per la passerella; i montatori Haruyuki, Kenshiro e Voytek Majer mi precedono e scavano i fori nella roccia; dietro di noi e sotto di noi Kim Byung-Soon e Viki Groselj posano mattoni; il carpentiere Changchi Kenchung inizia a stendere lo strato del pavimento di legno della terrazza. Se ieri Lhomo non avesse fatto la sua esibizione di free-climbing e sistemato corde fisse e cavi, non ci sarebbe niente a bloccare i montatori e me in caso di caduta dalle travi di legno. Ora, quando saltiamo di trave in trave, ci limitiamo ad agganciare alla fune seguente un moschettone della nostra imbracatura. Ho già fatto l’esperienza di cadere e di arrestare la caduta grazie a una di quella sorta di corde fisse: ciascuna può reggere cinque volte il mio peso.

Balzo da una trave già piazzata all’altra e mi tiro dietro quella da sistemare, appesa a uno dei cavi. Il vento comincia ad alzarsi e minaccia di farmi cadere nel vuoto, ma mi tengo in equilibrio toccando con una mano la trave appesa e con tre dita la parete di roccia. Raggiungo la fine della terza corda fissa, mi sgancio e mi preparo ad agganciarmi alla quarta delle sette corde allestite da Lhomo.

Non so che cosa pensare della notte appena trascorsa. Cioè, so come mi sento — esilarato, confuso, estatico, innamorato — ma non so che cosa pensare. Ho provato a intercettare Aenea prima di colazione nel refettorio comune vicino ai quartieri dei monaci, ma lei aveva già mangiato e si era diretta alla nuova passerella orientale, dove gli scalpellini incontravano delle difficoltà. Poi sono arrivati A. Bettik, George Tsarong, Jigme Norbu e i portatori e ho perso un paio d’ore per mettere in ordine i materiali e trasportare travi, scalpelli, legname e altri oggetti alle nuove impalcature alte. Poi, prima che iniziasse la sistemazione delle travi, mi ero diretto fuori sulla cornice est, ma in quel momento A. Bettik e Tsipon Shakabpa parlavano con Aenea, così ero tornato alle impalcature e mi ero messo al lavoro.

E ora saltavo sull’ultima trave messa in opera stamattina, pronto a installare la successiva nel foro scavato da Kenshiro e fatto implodere nella roccia mediante minuscole cariche sagomate. Poi Voytek e Viki cementeranno la trave al suo posto. Nel giro di trenta minuti sarà abbastanza solida perché Changchi vi sistemi una piattaforma di lavoro. Mi sono abituato a saltare di trave in trave, mantenendo l’equilibrio e accovacciandomi per mettere in posizione la trave successiva; e ora così faccio per l’ultima trave, agito il braccio sinistro per mantenere l’equilibrio e tengo le dita a contatto con la trave appesa al cavo. All’improvviso il dondolio spinge la trave troppo davanti a me e perdo l’equilibrio, sporgo nel vuoto. So che la fune di sicurezza mi tratterrà, ma non mi piace cadere e penzolare fra l’ultima trave e il foro appena scavato: se non ho slancio sufficiente a darmi la spinta all’indietro e tornare sulla trave, devo aspettare che Kenshiro o un altro montatore si dia una spinta in fuori e mi ricuperi.

In una frazione di secondo prendo la decisione e salto, afferro la trave penzolante e mi do la spinta. Poiché la fune di sicurezza ha un gioco di alcuni metri, ora tutto il mio peso è concentrato sulle dita. La trave è troppo spessa per fornirmi una buona presa e sento le dita scivolare sul legno duro come ferro. Piuttosto che lasciarmi cadere contro l’estremità elastica della corda fissa, mi sforzo di restare aggrappato, riesco a far dondolare la trave indietro verso l’ultima già in posizione e con un balzo supero gli ultimi due metri, atterro sulla scivolosa trave e agito le braccia per riprendere l’equilibrio. Ridendo della ridicola figura appena fatta, ritrovo l’equilibrio e per un attimo riprendo fiato e guardo le nuvole ribollire contro la parete rocciosa, parecchie migliaia di metri più in basso.

Changchi Kenchung salta di trave in trave verso di me, agganciandosi rapidamente alle corde fisse. Negli occhi ha uno sguardo inorridito e per un secondo sono sicuro che Aenea ha avuto un incidente. Il cuore comincia a battermi all’impazzata e l’ansia mi travolge all’improvviso, tanto che rischio di perdere di nuovo l’equilibrio. Mi riprendo, rimango in bilico sull’ultima trave già sistemata e con un sinistro presentimento aspetto Changchi.

Quando balza sull’ultima trave e mi raggiunge, Changchi è senza fiato e non riesce a parlare. Gesticola con insistenza verso di me, ma non capisco. Forse ha visto il mio comico balletto con la trave dondolante e si è preoccupato. Per fargli capire che tutto è a posto, gli mostro l’imbracatura e il moschettone saldamente agganciato alla fune di sicurezza.

Non c’è nessun moschettone. Non mi sono agganciato all’ultima corda fissa. Ho fatto tutto quel balletto di salti e spenzolamenti senza fune di sicurezza. Non c’è mai stato niente fra me e…

Ho un improvviso attacco di vertigine e di nausea, barcollo per tre passi verso la parete dello strapiombo e mi appoggio contro la gelida roccia. La sporgenza cerca di spingermi via e mi pare che l’intera montagna si inclini all’esterno, mi spinga giù dalla trave.

Changchi tira la corda fissa verso un moschettone della mia imbracatura e mi aggancia. Lo ringrazio con un cenno e cerco di non vomitare la colazione davanti a lui.

Dieci metri più in là, lungo la curvatura dello strapiombo, Haruyuki e Kenshiro gesticolano. Hanno fatto nella parete un altro perfetto foro. Vogliono che tenga il loro ritmo nel mettere in opera le travi.


Il gruppo in partenza per il ricevimento serale del Dalai Lama in onore della Pax a Potala si avvia proprio dopo il pasto di mezzogiorno nel refettorio comune. Vedo Aenea, ma a parte un significativo scambio di occhiate e da parte sua un sorriso che mi fa indebolire le ginocchia, non ci parliamo.

Ci raduniamo sul livello più basso, mentre dalle piattaforme superiori centinaia di operai, monaci, cuochi, studiosi e portatori ci salutano con grida e agitare di braccia. Nubi gonfie di pioggia cominciano ad ammassarsi e a riversarsi fra i bassi varchi della cresta orientale, ma il cielo sopra il Hsuan-k’ung Ssu è ancora azzurro e il rosso delle bandierine di preghiera che sventolano sulle alte terrazze si staglia con chiarezza quasi sorprendente.

Siamo tutti in vesti da viaggio, ma portiamo gli abiti da cerimonia in borse impermeabili a tracolla o, nel mio caso, nel sacco da montagna. I ricevimenti del Dalai Lama si tengono per tradizione a tarda sera e abbiamo più di dieci ore prima che sia richiesta la nostra presenza, ma bisogna fare un viaggio di sei ore sulla via Alta e alcuni corrieri e aviatori, giunti sul presto a Jo-kung quello stesso giorno, hanno parlato di brutto tempo al di là della cresta K’un Lun, così ci avviamo di buon passo.

L’ordine di marcia è stabilito dal protocollo. Charles Chi-kyap Kempo, sindaco di Jo-kung e camerlengo del Tempio a mezz’aria, precede di qualche passo il suo quasi pari Kempo Ngha Wang Tashi, abate del Tempio. Le "vesti da viaggio" di tutt’e due sono più risplendenti del mio tentativo d’abito da cerimonia e i due uomini sono circondati da piccoli vespai di aiutanti, monaci e agenti di sicurezza.

Dietro i sacerdoti politici, vengono Gyalo Thondup, il giovane monaco cugino dell’attuale Dalai Lama, e Labsang Samten, il monaco del terzo anno che è fratello del Dalai Lama. Hanno il passo sciolto e la risata ancora più sciolta dei giovani all’apice della salute fisica e della chiarezza mentale. Nel loro viso scuro risplendono denti bianchi. Labsang indossa un chuba da alpinismo di un rosso brillante che lo fa sembrare una bandierina di preghiera ambulante nel nostro corteo che punta a ovest lungo la stretta passerella per la forra di Jo-kung.

Tsipon Shakabpa, il supervisore ufficiale del progetto di Aenea, cammina con George Tsarong, il nostro paffuto capomastro. L’inseparabile compagno di George, Jigme Norbu, è assente: risentito per non essere stato invitato, è rimasto al tempio. Credo sia la prima volta che vedo un George non sorridente. Tsipon tuttavia compensa il silenzio di George e racconta aneddoti con un agitare di braccia e mosse stravaganti. Diversi operai procedono con loro, almeno fino a Jo-kung.

Tromo Trochi di Dhomu, il vistoso agente di commercio proveniente dal sud, cammina insieme col suo unico compagno per tutti quei mesi sulle strade alte: una zigocapra più grossa del normale, un ibrido da soma carico di mercanzia. La zigocapra ha tre campanacci appesi al collo irsuto, che tintinnano come le campanelle di preghiera del tempio. Lhomo Dondrub si unirà a noi a Potala, ma la sua presenza nel gruppo è simbolicamente rappresentata da un campionario di nuova tela di volo per il suo parapendio, posto in cima alla sacca da viaggio col carico della zigocapra.

Aenea e io chiudiamo il corteo. Provo varie volte a parlare della notte scorsa, ma Aenea mi zittisce a segni, un dito sulle labbra e un cenno in direzione del vicino mercante e degli altri. Mi accontento di parlare degli ultimi giorni di lavoro al padiglione della sporgenza e alle passerelle, ma nella mia mente le domande continuano a sgomitare.

In breve siamo a Jo-kung, dove rampe e passerelle sono costeggiate di gente che agita striscioni e bandierine di preghiera. Dalle terrazze nelle fenditure e dalle baracche contro la parete dello strapiombo gli abitanti della città acclamano il loro sindaco e il resto del nostro corteo.

Subito dopo la città-forra di Jo-kung, vicino alle piattaforme di partenza dell’unica funivia che useremo in questo viaggio a Potala, incontriamo un altro gruppo diretto al ricevimento del Dalai Lama: la Dorje Phamo e le sue nove sacerdotesse. La Dorje Phamo viaggia in un palanchino portato da nove muscolosi maschi, perché è la badessa del gompa Samden, un monastero esclusivamente maschile una trentina di chilometri lungo la parete meridionale della stessa cresta sul cui lato orientale sorge il Tempio a mezz’aria. La Dorje Phamo ha novantaquattro anni standard e ha scoperto, quando ne aveva tre, di essere la reincarnazione dell’originaria Dorje Phamo, la Scrofa Folgore. È una donna d’immensa importanza e per più di settanta anni standard è stata prefetto e avatar in un separato monastero femminile, il gompa Oracolo, a Yamdrock Tso, una sessantina di chilometri più avanti lungo la pericolosa parete della cresta. Ora la Scrofa Folgore, le sue nove sacerdotesse e una trentina di portatori e di uomini di guardia aspettano alla funivia per agganciare i massicci moschettoni del palanchino.

La Dorje Phamo scruta dalle tendine, scorge il nostro gruppo e con un gesto chiama Aenea. Da sbrigativi commenti di Aenea so che la mia amica ha visitato diverse volte il gompa Oracolo a Yamdrock Tso per incontrare la Scrofa Folgore e che le due donne hanno stretto rapida amicizia. Da commenti di A. Bettik so pure che di recente la Dorje Phamo ha detto alle sue sacerdotesse e alle monache del gompa Oracolo e ai monaci del gompa Samden che Aenea, non Sua Santità l’attuale Dalai Lama, è l’incarnazione vivente del Buddha della Misericordia. Secondo A. Bettik, la notizia di questa eresia si è diffusa, ma per la popolarità della Scrofa Folgore in tutto il pianeta T’ien Shan, il Dalai Lama non ha ancora reagito all’impertinenza.

Ora guardo le due donne, la mia giovane Aenea e l’anziana sagoma nel palanchino, chiacchierare e ridere di cuore, mentre i due gruppi aspettano di percorrere la funivia sopra l’abisso Langma. Di sicuro la Dorje Phamo ha insistito per cederci il passo: infatti i portatori spostano da parte il palanchino e le nove sacerdotesse fanno un profondo inchino, mentre Aenea segnala al nostro gruppo di avanzare sulla piattaforma. Charles Chi-kyap Kempo e Kempo Ngha Wang Tashi sembrano sconcertati, mentre consentono ai propri aiutanti di agganciarli al cavo; non sono preoccupati per la propria sicurezza, lo so, ma per una infrazione al protocollo che mi è sfuggita e che non mi interessa molto. In quel momento mi interessa prendere da parte Aenea e parlarle. O forse solo baciarla di nuovo.


Durante il viaggio a Potala piove a dirotto. Nei tre mesi trascorsi qui ho visto più di un temporale estivo, ma questa è vera pioggia premonsonica, fredda, gelida, mista a volute di nebbia che si attorcigliano intorno a noi. Terminiamo il percorso dell’unica funivia prima che le nubi si avvicinino, ma quando percorriamo il lato est della cresta K’un Lun, la via Alta è sdrucciolevole per il ghiaccio.

La via Alta è formata di cornici rocciose, di sentieri a mattoni sulla parete dello strapiombo, di alte passerelle di legno lungo la cresta di nordovest dell’Hua Shan, il monte Fiore, e di una lunga serie di passerelle e di ponti sospesi che collegano a K’un Lun quelle creste ghiacciate. Poi c’è, secondo per lunghezza in tutto il pianeta, il ponte sospeso che collega la cresta K’un Lun e la cresta Phari, seguito da un’altra serie di passerelle, ponti e cornici che portano, in direzione sudovest lungo la facciata orientale della cresta, al mercato Phari. Qui attraversiamo la forra e seguiamo la via della cresta quasi dritto a ovest per Potala.

Normalmente è una camminata di sei ore alla luce del sole, ma questo pomeriggio è una terribile e pericolosa scarpinata nella nebbia e sotto la pioggia gelida. Gli aiutanti che accompagnano il sindaco camerlengo Charles Chi-kyap Kempo e l’abate Kempo Ngha Wang Tashi cercano di riparare i due notabili mediante ombrelli di un rosso e di un giallo brillante, ma spesso la cornice ghiacciata è stretta e i due notabili si bagnano di frequente, procedendo in fila per uno. I ponti sospesi sono incubi da attraversare — il "pavimento" di ogni ponte è una singola fune di canapa pesantemente intrecciata ad altre funi di canapa verticali, oltre a funi orizzontali come ringhiere e un secondo cavo molto spesso sopra la testa di chi passa — e per quanto sia di solito un gioco da ragazzi bilanciarsi sul cavo inferiore tenendosi a contatto con le funi laterali, sotto la pioggia battente bisogna concentrarsi al massimo. Ma tutta la gente del posto ha fatto simili traversate durante decine di monsoni e procede rapidamente; solo Aenea e io esitiamo, mentre i ponti si flettono e ondeggiano sotto il peso del gruppo e le funi ghiacciate minacciano di scivolarci di mano.

Malgrado la tempesta, o forse proprio per quello, qualcuno ha acceso le torce della via Alta lungo tutta la parete est della cresta Phari e i bracieri che ardono nella fitta nebbia ci aiutano a trovare la strada, mentre le passerelle di legno svoltano, piegano, salgono, scendono scale ghiacciate e portano ad altri ponti. Arriviamo al mercato Phari proprio al crepuscolo, anche se si direbbe che sia molto più tardi, tanto è buio. Altri gruppi diretti al Palazzo d’inverno si uniscono a noi e ci sono almeno settanta persone che vanno insieme a ovest, oltre la forra. Il palanchino della Dorje Phamo ballonzola ancora con noi e sospetto che altri, oltre me, siano invidiosi della sistemazione all’asciutto della sua occupante.

Confesso d’essere deluso: contavamo di giungere a Potala al tramonto, mentre il bagliore rossastro riflesse illuminava ancora le creste nord-sud e i più alti picchi a nord e a ovest del palazzo. Prima d’ora non ho mai visto il palazzo neppure di sfuggita e mi auguravo di poter vedere questa regione. Sta di fatto che l’ampia via Alta tra Phari e Potala è solo una serie di cornici e di passerelle illuminate da torce. Nel sacco ho portato la torcia laser, ma non saprei dire se si sia trattato di un futile gesto di difesa nel caso che nel palazzo si metta male oppure di un mezzo per trovare la strada nel buio. Il ghiaccio riveste le rocce, le piattaforme, le funi di canapa delle ringhiere lungo le passerelle più frequentate e le scale. Non riesco a immaginare di trovarmi sulla funivia in una notte come questa, ma corre voce che parecchi ospiti ardimentosi stiano seguendo quel percorso.

Arriviamo alla Città Proibita circa due ore prima dell’inizio previsto del ricevimento. Le nuvole si sono alzate un poco, la pioggia scema e compare il Palazzo d’inverno: lo spettacolo mi mozza il fiato e mi fa dimenticare la delusione di non essere giunto al tramonto.

Il Palazzo d’inverno è costruito su un grande picco che si alza dalla cresta Cappello Giallo e ha alle spalle i picchi più alti del Koko Nor; la prima cosa che vediamo attraverso le nuvole è il Drepung, il monastero che circonda il palazzo e ospita trentacinquemila monaci: strati su strati di edifici di pietra che risalgono i pendii verticali, migliaia di finestre illuminate da lanterne, torce alle balconate, alle terrazze, agli ingressi, mentre dietro il Drepung e su di esso, con tetti dorati che toccano il soffitto di nuvole ribollenti, sorge il Potala, il Palazzo d’inverno del Dalai Lama, risplendente di luci e messo in risalto, anche nell’oscurità causata dalla tempesta, dai picchi del Koko Nor illuminati dai lampi.

Qui gli aiutanti e i compagni di viaggio tornano indietro e solo noi invitati procediamo alla volta della Città Proibita.

La via Alta ora si appiattisce e si allarga fino a diventare una vera strada maestra, un viale largo cinquanta metri, lastricato di pietre dorate, fiancheggiato di torce e circondato da innumerevoli templi, sacrari lamaisti, gompa minori, edifici annessi all’imponente monastero e posti di guardia militari. La pioggia è cessata, ma il viale luccica di riflessi dorati, mentre centinaia e centinaia di pellegrini vivacemente vestiti e di abitanti della Città Proibita si agitano davanti alle enormi mura e ai cancelli del Drepung e del Potala. Monaci in tonache color zafferano si muovono in gruppetti silenziosi; funzionari di palazzo in vesti rosso vivo e viola sgargiante e copricapi gialli che sembrano piatti capovolti camminano con decisione davanti a soldati in uniforme azzurra e picche a strisce bianche e nere; messaggeri ufficiali si muovono a passo cadenzato, in aderenti abiti arancione e rosso o oro e azzurro; donne di corte si muovono con passo lieve sulle pietre dorate, in lunghe vesti di seta azzurro cielo, turchese cupo, sgargiante blu cobalto, con gli strascichi che frusciano piano sul lastrico bagnato; sacerdoti della setta Cappello Rosso sono subito riconoscibili per il copricapo a forma di piatto capovolto, di seta cremisi con frange cremisi, mentre i Drungpa, gli abitanti della valle boscosa, hanno copricapi di pelo di zigocapra, costumi adorni di brillanti piume bianche, rosse, marrone e oro, e nella fascia alla cintura la grande spada cerimoniale dorata; infine la gente comune della Città Proibita, meno vistosa degli alti funzionari: cuochi e giardinieri e servitori e precettori e scalpellini e valletti personali, tutti abbigliati in chuba di seta verde e blu o arancio e oro, mentre si scorgono di sfuggita quelli (parecchie migliaia) che lavorano nei quartieri del Dalai Lama nel Palazzo d’inverno, in cremisi e oro, tutti col copricapo di seta listato di pelliccia di zigocapra e munito di tesa rigida larga una cinquantina di centimetri per proteggere il viso (dal pallido colorito di chi vive sempre nel palazzo) nei giorni soleggiati e per tenere lontano la pioggia nella stagione dei monsoni.

In quell’ambiente, il nostro gruppo di pellegrini infradiciati pare smorto e misero; ma non penso molto al nostro aspetto, mentre varchiamo un cancello alto sessanta metri nelle mura esterne del monastero Drepung e iniziamo a percorrere il ponte Kyi Chu.

Questo ponte è largo venti metri, lungo centoquindici e costruito col più moderno plastacciaio al carbonio. Riluce come cromo nero. Sotto di esso c’è… il nulla. Il ponte scavalca la sella terminale della cresta, che scende per migliaia di metri fino alle nuvole di fosgene. Sul lato est, quello da cui arriviamo, gli edifici del Drepung si alzano per due o tre chilometri sulla nostra testa: pareti piatte, finestre illuminate, aria intersecata di decine e decine di ragnatele di cavi, scorciatoie ufficiali fra il monastero e il palazzo vero e proprio. Sul lato ovest, davanti a noi, il Potala si alza per più di sei chilometri sulle pareti dell’abisso: le migliaia di sfaccettature di pietra e le centinaia di tetti dorati riflettono il balenio dei lampi nelle basse nubi. In caso di attacco, il ponte Kyi Chu può rientrare in meno di trenta secondi nella parete ovest dello strapiombo, senza lasciare scala, appiglio, cornice o finestra nel mezzo chilometro di pietra verticale fino ai primi bastioni superiori.

Mentre lo attraversiamo, il ponte non rientra nella roccia. Ai lati sono disposti soldati in alta uniforme, armati di picca o di fucile a energia. In fondo al Kyi Chu ci fermiamo alla Pargo Kaling, la porta occidentale, un arco riccamente ornato alto ottantacinque metri. Da dentro la gigantesca arcata brillano luci che trapelano da migliaia di intricati disegni; il bagliore più vivido proviene dai due grandi occhi, ciascuno del diametro di più di dieci metri, che fissano il Kyi Chu e il Drepung a est.

Ciascuno di noi esita nel varcare la Pargo Kaling. Ancora un passo e ci troveremo nel comprensorio del Palazzo d’inverno, anche se il vero vano d’ingresso è trenta passi più avanti. In quel vano ci sono i mille gradini che ci porteranno al palazzo vero e proprio. Aenea mi ha raccontato che pellegrini da tutti gli angoli di T’ien Shan sono giunti camminando sulle ginocchia o in qualche caso prostrandosi a ogni passo (letteralmente misurando col proprio corpo le centinaia e centinaia di chilometri) solo per avere il permesso di varcare la porta occidentale e di toccare con la fronte l’ultima sezione del Kyi Chu per rendere omaggio al Dalai Lama.

Aenea e io entriamo insieme, scambiandoci un’occhiata.

Mostriamo l’invito alle guardie e ai funzionari alla porta d’ingresso principale e saliamo i mille gradini. Scopro con sorpresa che la scalinata è una scala mobile e Tromo Trochi di Dhomu mi spiega sottovoce che spesso viene lasciata ferma per consentire ai fedeli lo sforzo conclusivo, prima dell’ammissione alle zone superiori del palazzo.

Nel primo dei piani aperti al pubblico c’è un altro rapido controllo degli inviti; poi alcuni servitori prendono in consegna i nostri abiti bagnati e altri ci accompagnano in stanze dove possiamo fare il bagno e cambiarci. Il camerlengo Charles Chi-kyap Kempo ha diritto a una piccola suite al settantottesimo piano del palazzo; dopo quella che pare una camminata di altri chilometri per i corridoi esterni (le finestre alla nostra destra mostrano i tetti rossi del monastero Drepung tremolare e luccicare nella luce tempestosa), siamo ricevuti da altri servitori a noi assegnati. Ogni persona del nostro gruppo ha almeno un’alcova chiusa da tende dove dormire dopo il ricevimento ufficiale; le adiacenti stanze da bagno offrono acqua calda, vasche tradizionali e moderne docce soniche. Seguo Aenea e le sorrido quando mi strizza l’occhio uscendo dalla stanza piena di vapore.

Al Tempio a mezz’aria (e, se per questo, neppure nella nave al momento nascosta sulla terza luna) non avevo veri abiti da cerimonia, ma Lhomo Dondrub e alcuni altri più o meno della mia corporatura mi hanno fornito l’abbigliamento per la festa di questa notte: calzoni neri, lucidissimi stivali neri, camicia di seta bianca sotto un panciotto dorato e una sopravveste a forma di X, di lana rossa e nera, legata alla cintola da una fascia di seta cremisi. La cappa da sera è della più fine seta delle zone occidentali di Muztagh Alta, nera con bordature a complessi disegni di vario colore, rosso, oro, argento, giallo. È la seconda migliore cappa di Lhomo e il mio amico ha messo bene in chiaro che mi butterà giù dalla più alta piattaforma, se la macchio o la strappo o la smarrisco. Lhomo è un tipo bonaccione e accomodante, cosa quasi inaudita per un aviatore solitario, a quanto si dice, ma credo proprio che non abbia scherzato a proposito della sua cappa.

A. Bettik mi ha prestato gli indispensabili braccialetti d’argento, braccialetti da lui acquistati tempo prima per capriccio nei bei mercati di Hsi wang-mu. Sulla spalla mi sistemo il cappuccio rosso di piume e di lana di zigocapra avuto in prestito da Jigme Norbu, che per tutta la vita ha atteso invano un invito al Palazzo d’inverno. Intorno al collo ho una catenina di giada e argento col tradizionale talismano del Regno di mezzo, grazie alla cortesia del capomastro e mio amico Changchi Kenchung, che stamane mi ha detto d’avere partecipato a tre ricevimenti nel palazzo e di essersi annoiato a morte ogni volta.

Servitori in vesti di seta dorata entrano nelle nostre stanze e annunciano che è l’ora di riunirci nella prima sala di ricevimento, vicino alla sala del trono. I corridoi esterni sono pieni di centinaia di ospiti che si muovono nei saloni piastrellati, con fruscio di sete e tintinnio di gioielli, mentre l’aria è piena di odori contrastanti, profumo, colonia, sapone, cuoio. Davanti a noi scorgo brevemente l’anziana Dorje Phamo, la Scrofa Folgore in persona, aiutata da due delle nove sacerdotesse, tutte in elegante tonaca color zafferano. La Scrofa Folgore non porta gioielli, ma si è acconciata i capelli ormai bianchi in elaborate crocchie e trecce legate da nastri.

Aenea indossa una lunga veste di semplice fattura che però lascia senza fiato: seta azzurro cupo, con un cappuccio blu cobalto che copre le spalle nude, il talismano del Regno di mezzo di argento e giada che le scende fra i seni, un pettine d’argento infilato nei capelli per fermare una sottile veletta. Stanotte molte donne portano il velo, per decoro: mi rendo conto che quell’accessorio consente un astuto travestimento alla mia amica.

Aenea mi prende a braccetto e seguiamo il corteo negli infiniti corridoi, giriamo a destra e prendiamo una scala mobile a chiocciola per raggiungere i piani riservati al Dalai Lama.

Mi sporgo verso Aenea e mormoro nell’orecchio coperto dalla veletta: «Sei nervosa?».

Scorgo sotto il velo il luccichio del suo sorriso e sento la sua stretta sulla mia mano.

Insisto e mormoro: «Ragazzina, a volte tu vedi il futuro. So che lo vedi. Perciò… usciremo vivi da qui, stanotte?».

Mi chino, mentre lei si accosta e mi mormora: «Solo poche cose nel futuro di ognuno sono stabilite, Raul. Molte altre sono mutevoli come…» indica gli zampilli della fontana che oltrepassiamo girandole intorno a spirale. «Ma non vedo ragione di preoccuparci, giusto? Stanotte qui ci sono migliaia di ospiti. Il Dalai Lama può salutarne di persona solo alcuni. I suoi ospiti, funzionari della Pax, chiunque siano, non hanno motivo di pensare che noi siamo qui.»

Annuisco, ma non sono convinto.

All’improvviso Labsang Samten, il fratello dei Dalai Lama, viene rumorosamente giù dalla scala mobile in salita, violando ogni protocollo. Sorride e non sta nella pelle per l’entusiasmo. Si rivolge al nostro gruppo, ma centinaia di persone sulla scala mobile si sporgono e ascoltano.

«Gli ospiti venuti dallo spazio sono molto importanti!» annuncia, entusiasta, il monaco. «Ho parlato col nostro precettore che è assistente al secondo in comando del ministro del Protocollo. Non sono semplici missionari, quelli che accogliamo stanotte!»

«No?» dice il camerlengo Charles Chi-kyap Kempo, risplendente nei suoi numerosi strati di seta rosso e oro.

«No» sorride Labsang Samten. «Abbiamo un cardinale della Chiesa della Pax. Un cardinale molto importante. Con parecchi collaboratori d’alto livello.»

Mi sento lo stomaco sfarfallare e poi precipitare in caduta libera.

«Quale cardinale?» domanda Aenea. Dal tono, pare calma e interessata. Ci avviciniamo alla cima della scala mobile e l’aria è piena del mormorio di centinaia o migliaia di ospiti.

Labsang Samten si liscia la formale veste da monaco. «Un certo cardinale Mustafa» dice in tono vivace. «Una persona molto vicina al papa, credo. La Pax onora mio fratello, inviando un ambasciatore.»

Aenea mi stringe il braccio, ma non posso vedere la sua espressione nascosta dal velo.

«E molti altri ospiti importanti della Pax» continua il monaco, girandosi mentre ci avviciniamo al piano del ricevimento. «Comprese alcune donne bizzarre. Militari, ritengo.»

«Sai come si chiamano?» domanda Aenea.

«Una di loro è il generale Nemes. Una donna molto pallida.» Il fratello del Dalai Lama rivolge a Aenea il suo sorriso ampio e sincero. «Il cardinale ha chiesto di incontrare proprio lei, signora Aenea. Lei e il suo cavaliere, il signor Endymion. Il ministro del Protocollo era molto sorpreso, ma ha predisposto un ricevimento privato per voi, i rappresentanti della Pax, il reggente e naturalmente mio fratello, Sua Santità il Dalai Lama.»

La salita finisce. La scala mobile scivola sotto il pavimento di marmo. Con Aenea al braccio, mi immergo nel rumore e nella confusione strettamente controllata della prima sala di ricevimento.

19

Il Dalai Lama ha solo otto anni standard. Già lo sapevo — più di una volta Aenea e A. Bettik e Theo e Rachel hanno accennato alla sua età — ma quando vedo il bambino seduto sull’alto trono imbottito, rimango ugualmente sorpreso.

Nell’immensa sala di ricevimento ci saranno tre o quattromila persone. Varie scale mobili scaricano simultaneamente ospiti in un’anticamera delle dimensioni di un hangar per veicoli spaziali: colonne dorate si alzano fino al soffitto affrescato venti metri sopra di noi, il pavimento è di piastrelle blu e bianche, intarsiato con scene tratte dal Bardo Thodrol, il Libro dei morti tibetano, e ispirate alla grande migrazione di navi seminatrici con i buddhisti della Vecchia Terra, enormi archi dorati danno accesso alla sala di ricevimento; e la sala è ancora più ampia, con un soffitto che è un unico gigantesco lucernario dal quale si vedono chiaramente la massa tumultuosa di nuvole e il bagliore dei lampi e il fianco della montagna illuminato dalle lanterne. I tre o quattromila ospiti risplendono negli abiti sgargianti: seta fluente, lino scolpito, lana drappeggiata e tinta, profusione di piume rosse nere e bianche, acconciature elaborate, raffinati braccialetti, collane, orecchini, diademi e cinture d’argento, ametista, oro, giada, lapislazzuli e decine di altri materiali preziosi. Sparse fra tutta questa splendida eleganza ci sono decine di monaci e di abati in semplice tonaca arancione, oro, giallo, zafferano e rosso, la testa rasata che luccica nella luce proveniente da centinaia di bracieri su tripodi. Eppure la sala è così vasta che quelle poche migliaia di persone ne riempiono a stento una parte: il pavimento a parquet brilla alla luce dei bracieri e ci sono venti metri di spazio tra le prime frange di folla e il trono d’oro.

Mentre le file di ospiti scendono dalle scale mobili nell’anticamera piastrellata, piccoli corni risuonano. I corni sono di ottone e di osso e la fila di monaci che li suonano va dalla scala agli archi d’ingresso: più di cento metri di frastuono costante. Le centinaia di corni tengono una nota per minuti senza fine e poi passano a una nota più bassa, senza segnale da suonatore a suonatore; mentre entriamo nella prima sala di ricevimento (l’anticamera agisce come una gigantesca cassa armonica alle nostre spalle) quelle note basse sono riprese e amplificate da venti corni lunghi quattro metri ai lati del nostro corteo. I monaci che suonano quei mostruosi strumenti stanno in piedi in piccoli recessi delle pareti; i giganteschi corni poggiano su sostegni posti sul pavimento e le estremità svasate si arricciano come fiori di loto di un metro di diametro. In aggiunta a questa continua, bassa serie di note, come una sirena antinebbia di una nave oceanica avvolta nel brontolio di un ghiacciaio, rintocca un enorme gong di almeno cinque metri di diametro, percosso a precisi intervalli. Nell’aria aleggia il profumo dell’incenso che brucia nei bracieri e un lievissimo filo di fumo aromatico si muove sopra le teste ingioiellate e le acconciature degli ospiti e pare vibrare e mutare con il salire e lo scendere delle note dei corni e del gong.

Tutti rivolgono il viso verso il Dalai Lama, il suo seguito e i suoi ospiti. Prendo per mano Aenea e ci spostiamo verso destra, restando molto indietro rispetto alla piattaforma del trono. Costellazioni di ospiti importanti si muovono timidamente tra noi e il trono lontano.

All’improvviso le basse note di corno tacciono. L’ultima vibrazione del gong echeggia e svanisce pian piano. Tutti gli ospiti sono presenti. I servitori chiudono faticosamente alle nostre spalle le grandi porte. Nell’ambiente grandioso e risonante si ode lo scoppiettio delle fiamme negli innumerevoli bracieri. La pioggia ora tamburella l’alto lucernario di cristallo.

Il Dalai Lama, seduto a gambe incrociate su vari cuscini di seta in cima a una piattaforma che lo porta a livello d’occhio degli ospiti in piedi, ha sulle labbra un lieve sorriso. È a testa scoperta, ha il cranio rasato, indossa una semplice tonaca rossa. Alla sua destra, più in basso, in un trono a parte, siede il reggente che governerà, consultandosi con altri sacerdoti d’alto grado, fin quando Sua Santità il Dalai Lama non avrà compiuto il diciottesimo anno. Aenea mi ha parlato del reggente, un certo Reting Tokra, che si dice sia l’incarnazione stessa dell’astuzia, ma dal mio posto, molto lontano, riesco solo a scorgere la solita tonaca rossa e un viso stretto, emaciato, con occhi a mandorla e sottili baffi pendenti.

Alla sinistra di Sua Santità il Dalai Lama c’è il lord camerlengo, abate degli abati. Costui, molto anziano, rivolge un ampio sorriso alle falangi di ospiti. Alla sua sinistra c’è l’Oracolo di Stato, una donna giovane e snella, con un’acconciatura severa e una camicetta di lino giallo sotto la tonaca rossa. Aenea mi ha spiegato che l’Oracolo ha il compito, in stato di trance profonda, di predire il futuro. Alla sinistra della donna, in gran parte nascosti alla mia vista dalle colonne dorate del trono del Dalai Lama, ci sono cinque emissari della Pax: riesco a distinguere un uomo di bassa statura in rosso cardinalizio, tre sagome in tonaca nera e una uniforme militare.

Alla destra del trono del reggente c’è il primo araldo e capo della sicurezza di Sua Santità, il leggendario Carl Linga William Eiheji, arciere zen, acquarellista, maestro di karate, filosofo, ex aviatore ed esperto nell’arte di disporre i fiori. Eiheji pare fatto di molle d’acciaio compresse e avvolte di muscoli. Avanza di un passo e con la sua voce riempie l’immensa sala:

«Onorevoli ospiti, visitatori giunti da altri pianeti, Dugpa, Drukpa, Dungpa, abitanti delle creste più alte, delle nobili fenditure e dei pendii boscosi, Dzasa, onorati ufficiali, Cappelli Rossi e Cappelli Gialli, monaci, abati, novizi getsel, Ko-sa del quarto ordine e oltre, benedetti portatori di su gi, mogli e mariti di persone così onorate, cercatori dell’Illuminazione, ho il piacere di darvi il benvenuto qui stanotte a nome di Sua Santità Getswang Ngwang Lobsang Tengin Gyapso Sisunwangyur Tshungpa Mapai Dhepal Sangpo, il Santo, il Delicato Splendore, Potente nella parola, Puro nella mente, di Divina Saggezza, Ricettacolo della fede, Immenso come l’oceano!»

I piccoli corni d’ottone e d’osso emettono note alte e chiare. I grandi corni muggiscono come dinosauri. Il gong risuona con vibrazioni che ci fanno tremare le ossa e battere i denti.

Il primo araldo Eiheji arretra. Sua Santità prende la parola, con voce da fanciullo, bassa, ma chiara e ferma nell’immensa sala:

«Grazie a tutti per la vostra presenza stanotte. Saluteremo in privato i nostri amici della Pax. Molti di voi hanno chiesto di vedermi: riceveranno la mia benedizione in udienza privata stanotte. Ho chiesto di parlare ad alcuni di voi. Mi incontreranno in udienza privata stanotte. I nostri amici della Pax parleranno con molti di voi stanotte e nei giorni a venire. Parlando con loro, vi prego di ricordare che sono nostri fratelli e sorelle nel Dharma, nella ricerca dell’Illuminazione. Vi prego di ricordare che il nostro alito è il loro alito e che tutti i nostri aliti sono l’alito di Buddha. Grazie. Gradite la nostra festa stanotte.»

A questo punto la piattaforma, con il trono e tutto, scivola senza rumore nella parete, viene nascosta da un tendaggio mobile e poi da un’altra tenda e poi dalla parete; le migliaia di persone nella prima sala di ricevimento lasciano uscire il fiato all’unisono.


La notte fu, come la ricordo io, una combinazione quasi surreale fra un ballo di gala e un ricevimento ufficiale del papa. Non avevo mai visto un ricevimento del papa, naturalmente (il misterioso cardinale sulla piattaforma ora avvolta dai tendaggi era il più alto funzionario della Chiesa da me mai incontrato) ma l’entusiasmo di chi sarebbe stato ricevuto dal Dalai Lama era di sicuro simile a quello di un cristiano che incontrasse il Santo Padre e il grande sfarzo della presentazione era impressionante. Monaci soldati in veste rossa e copricapo rosso o giallo scortarono i pochi fortunati, varcando i tendaggi e poi altri tendaggi e infine la porta nella parete, alla presenza del Dalai Lama, mentre il resto di noi girava e si mescolava nella sala illuminata di torce e spilluzzicava gli eccellenti cibi disposti su lunghi tavoli o perfino danzava alla musica di una piccola banda; niente corni d’osso e d’ottone né mostri di quattro metri, qui. Domandai a Aenea, lo confesso, se aveva voglia di ballare, ma lei sorrise, scosse la testa e guidò il nostro gruppo alla più vicina tavola imbandita. In breve fummo impegnati in conversazione con la Dorje Phamo e alcune sue sacerdotesse.

Pur sapendo di rischiare una gaffe, domandai alla Dorje Phamo perché era chiamata la Scrofa Folgore. Mentre sgranocchiavamo polpettine fritte di tsampa e sorseggiavamo un tè delizioso, la Dorje Phamo si mise a ridere e ci raccontò la storia.

Sulla Vecchia Terra, la prima analoga badessa di un monastero tibetano buddhista di soli maschi si era guadagnata la fama d’essere la reincarnazione della prima Scrofa Folgore, una semidea di spaventosi poteri. Si diceva che quella prima badessa Dorje Phamo avesse trasformato non solo se stessa, ma tutti i lama del suo monastero, in maiali per spaventare e scacciare i soldati nemici.

Quando domandai a quest’ultima incarnazione della Scrofa Folgore se aveva mantenuto il potere di trasformarsi in scrofa, l’elegante vecchia drizzò la testa e dichiarò con fermezza: «Se servisse a spaventare e scacciare questi attuali invasori, lo farei in un istante».

Nelle tre ore in cui Aenea e io girammo e chiacchierammo e ascoltammo la musica e guardammo i lampi dal grande lucernario, fu l’unico commento negativo, espresso a voce alta, che udimmo sugli emissari della Pax; ma quella notte, sotto il serico sfarzo e l’allegria della serata di gala, pareva esserci una corrente sotterranea di ansia. Pareva naturale, visto che per quasi tre secoli il pianeta T’ien Shan era rimasto isolato (a parte la navetta di un libero mercante, di tanto in tanto) dalla Pax e dal resto della specie umana post-Egemonia.

La notte avanzava e cominciavo a convincermi che Labsang Samten si fosse sbagliato nel dire che il Dalai Lama e i suoi ospiti della Pax volevano incontrarci, quando a un tratto alcuni funzionari di palazzo, con grandi copricapi curvi, rossi e gialli (mi ricordarono le figure di antichi elmi greci, viste da ragazzo) ci individuarono e ci chiesero di seguirli alla presenza del Dalai Lama.

Guardai Aenea, pronto a schizzare via con lei e a coprire la nostra ritirata, se avesse manifestato anche solo una traccia di paura o di reticenza; Aenea invece si limitò ad annuire, remissiva, e mi prese sotto braccio. Il mare di invitati alla festa si aprì davanti a noi, mentre seguivamo i funzionari, a passo lento, a braccetto, come se io fossi il padre della sposa in un tradizionale matrimonio religioso o se fossimo da sempre marito e moglie. In tasca avevo la torcia laser e il diskey-diario/ricetrasmittente. Il laser sarebbe servito a poco, se la Pax era decisa a catturarci; ma avevo già deciso, in caso disperato, di chiamare la nave. Piuttosto che lasciar catturare Aenea, avrei fatto scendere la nave sulle fiamme dei propulsori a reazione attraverso quel magnifico lucernario.

Varcammo il tendaggio esterno e ci trovammo in un ambiente a baldacchino dove giungevano ancora con chiarezza la musica della banda e il rumore degli invitati. Alcuni funzionari in copricapo rosso ci chiesero di tendere le braccia e di girare a palma in alto le mani. Li accontentammo e loro ci misero in mano una fascia di seta bianca dai capi penzolanti. Fummo invitati a varcare il secondo tendaggio. Il lord camerlengo ci accolse con un inchino — Aenea rispose con grazia, io con goffaggine — e ci guidò al di là di una porta, nella stanzetta dove il Dalai Lama aspettava con i suof ospiti.

Quella saletta privata pareva un’estensione del trono del Dalai Lama: oro e dorature e broccati di seta e arazzi riccamente ornati con croci uncinate a rovescio ricamate dappertutto tra figure di fiori che sbocciavano e draghi avvoltolati e mandala roteanti. La porta si chiuse alle nostre spalle e i rumori sarebbero stati tagliati fuori del tutto se non fosse stato per i pickup audio di tre monitor posti nella parete alla nostra sinistra. Riprese in tempo reale della festa giungevano da diverse postazioni nella prima sala di ricevimento e il bambino sul trono e i suoi ospiti le guardavano con grande interesse.

Ci fermammo, finché il lord camerlengo non ci segnalò di avanzare. Mentre ci avvicinavamo al trono e il Dalai Lama si girava dalla nostra parte, ci mormorò: «Non occorre che vi inchiniate, finché Sua Santità non alzerà la mano per toccarvi. Allora, per favore, chinatevi e restate inchinati finché lui non avrà ritirato la mano».

Ci fermammo a tre passi dalla piattaforma del trono con le brillanti trapunte e i cuscini drappeggiati. Carl Linga William Eiheji, il primo araldo, disse con voce bassa ma risonante: «Sua Santità, l’architetto incaricato dei lavori al Hsuan-k’ung Ssu e il suo assistente».

"Il suo assistente?" pensai, sorpreso. Avanzai, un passo dietro Aenea, confuso, ma grato che l’araldo non ci avesse presentato per nome. Con la coda dell’occhio vedevo i cinque emissari della Pax, ma il protocollo esigeva che tenessi lo sguardo, a occhi bassi, verso il Dalai Lama.

Aenea si fermò al limite della piattaforma del trono, sempre a braccia tese, fascia tra le mani. Il lord camerlengo mise sulla fascia alcuni oggetti e il bambino si sporse ad afferrarli rapidamente e a sistemarli a destra della piattaforma. Spariti gli oggetti, un servitore portò via la fascia bianca. Aenea unì le mani come in preghiera e si chinò. Con un sorriso gentile il bambino si sporse e toccò la mia amica — la mia amata — sulla testa, aprendo le dita a corona sui suoi capelli. Capii che era una benedizione. Il bambino ritrasse le dita, prese da un mucchio al suo fianco una fascia rossa e la mise nella sinistra di Aenea. Poi le prese la destra e la strinse, con un sorriso più ampio. Il lord camerlengo indicò a Aenea di mettersi davanti al trono del reggente, più basso, mentre io avanzavo e ricevevo dal Dalai Lama la stessa rapida benedizione.

Riuscii a dare un’occhiata agli oggetti posti sulla fascia dal lord camerlengo e presi rapidamente dal Dalai Lama: un piccolo bassorilievo d’oro a forma di tre montagne (rappresentava il pianeta T’ien Shan, mi spiegò in seguito Aenea), una figura del corpo umano, un libro stilizzato che indicava il linguaggio e la sagoma di un chorten, sacrario lamaista, che rappresentava la mente. Gli oggetti comparvero e scomparvero prima che potessi guardarli meglio; poi mi ritrovai la fascia rossa in una mano e la manina del bambino nell’altra. La stretta fu sorprendentemente ferma. Tenevo gli occhi bassi, ma riuscivo ancora a distinguere il suo largo sorriso. Arretrai accanto a Aenea.

La stessa cerimonia fu rapidamente ripetuta davanti al trono del reggente: fascia bianca, oggetti simbolici messi e tolti, fascia rossa. Ma il reggente non strinse la mano né a Aenea né a me, si limitò a darci la benedizione. Allora il lord camerlengo ci indicò che potevamo alzare la testa.

Poco mancò che afferrassi la torcia laser e mi mettessi a sparare all’impazzata. Oltre al Dalai Lama, ai suoi monaci servitori, al lord camerlengo, al reggente, all’Oracolo di Stato, all’araldo, al cardinale e ai tre uomini in tonaca nera, c’era una donna nell’uniforme nera e rossa della Pax. Si era appena spostata da dove stava, alle spalle di un alto prete, e così per la prima volta potevamo vederne il viso. I suoi occhi scuri erano puntati su Aenea. La donna aveva capelli corti che le cadevano in ciocche flosce sulla pallida fronte. Aveva carnagione giallastra. E sguardo da rettile: nello stesso tempo remoto e rapito.

Era la stessa creatura che aveva cercato di uccidere Aenea, A. Bettik e me su Bosco Divino, cinque dei miei anni fa, più di dieci di Aenea. Era la macchina per uccidere non umana che aveva sconfitto lo Shrike e che avrebbe portato via in un sacco la testa di Aenea, se dall’orbita non fosse intervenuto il padre capitano de Soya, usando tutta la potenza della sua nave per colpire con una lancia di energia quella mostruosità e farla sprofondare in un calderone di ribollente roccia fusa.

Ed eccola di nuovo qui, con i suoi occhi neri, non umani, puntati sul viso di Aenea. Evidentemente aveva dato la caccia alla mia amica, per anni e per anni luce, e ora l’aveva trovata. Ci aveva trovati.

Il cuore mi batteva forte e le gambe a un tratto mi parevano sul punto di cedere, ma pur sconvolta dalla sorpresa, la mente mi lavorava alla velocità di una IA. La torcia laser era infilata nella tasca sul lato destro della cappa. La trasmittente era nella tasca sinistra dei calzoni. Con la destra avrei puntato il raggio tagliente negli occhi di quella creatura, poi avrei spostato al massimo il selettore e avrei accecato i preti della Pax. Con la sinistra avrei inviato alla nave la breve scarica di ordini preregistrati.

Ma anche se la nave avesse reagito immediatamente e non fosse stata intercettata da una nave da guerra della Pax, avrebbe impiegato diversi minuti prima di scendere attraverso il lucernario del palazzo. Intanto noi saremmo già morti.

Conoscevo la velocità di quella creatura: quando affrontava lo Shrike, era semplicemente scomparsa. Un lampo confuso, cromato. Non sarei mai riuscito a estrarre di tasca la torcia laser o la trasmittente. Saremmo morti prima che la mia mano fosse a mezza via dall’arma.

Rimasi immobile: di sicuro Aenea aveva riconosciuto subito quella donna, ma non aveva reagito con la sorpresa che provavo io. Anzi, non aveva mostrato nessuna reazione. Non aveva perduto il sorriso. Con lo sguardo aveva passato in rassegna gli ospiti della Pax, compreso quel mostro, ed era tornata a guardare il bambino sul trono.

Il primo a parlare fu il reggente Reting Tokra. «I nostri ospiti hanno chiesto questa udienza» disse. «Hanno sentito parlare da Sua Santità della ricostruzione in corso al Tempio a mezz’aria e hanno espresso il desiderio di conoscere la giovane donna che aveva progettato l’opera.»

La voce del reggente era tirata e sobria come il suo aspetto.

Allora parlò il Dalai Lama: la sua voce da bambino era sommessa, ma tanto generosa quanto quella del reggente era stata misurata. «Amici miei» disse con un gesto verso Aenea e me «posso presentarvi i nostri distinti visitatori provenienti dalla Pax? Il cardinale John Domenico Mustafa del Sant’Uffizio della Chiesa cattolica, l’arcivescovo Jean Daniel Breque del Corpo diplomatico pontificio, padre Martin Farrell, padre Gerard LeBlanc e il comandante Rhadamanth Nemes della Guardia nobile.»

Salutammo con un cenno. I dignitari della Pax, mostro compreso, risposero con un cenno. Se c’era stata una infrazione di protocollo nel fatto che Sua Santità il Dalai Lama avesse fatto le presentazioni, nessuno parve accorgersene.

Il cardinale John Domenico Mustafa disse con voce frusciante come seta: «Grazie, Santità. Ma ha presentato queste eccezionali persone solo come architetto e assistente». Ci sorrise, mettendo in mostra denti piccoli e aguzzi. «Avete un nome, immagino.»

Il polso mi batteva a mille. Le dita della destra mi si contraevano al pensiero della torcia laser. Aenea sorrideva ancora, ma non dava segno di rispondere al cardinale. La mente mi galoppava per inventare nomi falsi. Ma a quale scopo? Di sicuro sapevano chi eravamo. Era tutta una trappola. Quella Nemes non ci avrebbe mai permesso di lasciare la sala del trono, oppure sarebbe stata ad aspettarci quando fossimo andati via. Con mia grande sorpresa fu il Dalai Lama a parlare: «Sarò lieto di completare le presentazioni, eminenza. Il nostro stimato architetto si chiama Ananda e il suo assistente, uno di molti abili assistenti, mi dicono, si chiama Subhadda».

Battei le palpebre per la sorpresa, lo ammetto. Qualcuno aveva detto al Dalai Lama quei nomi? In seguito Aenea mi disse che Ananda era stata la prima discepola di Buddha e maestra in proprio; Subhadda era stato un asceta errante, l’ultimo discepolo diretto di Buddha, diventato suo seguace dopo averlo incontrato solo qualche ora prima che morisse. Mi disse pure che il Dalai Lama aveva escogitato quei nomi per presentarci, apprezzandone evidentemente l’ironia, che però a me sfuggiva.

«Signora Ananda» disse il cardinale Mustafa, con un lieve inchino. «Signor Subhadda.» Ci squadrò. «Perdoni la mia franchezza e la mia ignoranza, signora Ananda, ma lei pare di ceppo razziale diverso della maggior parte delle persone da noi incontrate nel Potala o nella zone limitrofe di T’ien Shan.»

Aenea annuì. «Bisogna stare attenti a generalizzare, eminenza. In varie zone di questo pianeta ci sono insediamenti di coloni provenienti da molte regioni della Vecchia Terra.»

«Certamente» ronfò il cardinale Mustafa. «E devo ammettere che il suo inglese della Rete è davvero privo di inflessioni. Posso chiederle quale regione del T’ien Shan lei e il suo assistente considerate terra patria?»

«Certamente» rispose Aenea, con lo stesso tono mellifluo del cardinale. «Venni al mondo in una regione di creste al di là dei monti Moriah e Sion, a nord e a ovest di Muztagh Alta.»

Il cardinale annuì giudiziosamente. Notai allora che portava un piccolo bavero (in seguito Aenea mi disse che si chiamava rabat o rabbi, nella terminologia ecclesiastica) di seta color scarlatto annacquato, lo stesso della tonaca e dello zuccotto.

«Lei è per caso» continuò dolcemente «di fede ebrea o maomettana, fedi che secondo i nostri ospiti prevalgono in quelle regioni?»

«Non sono di nessuna fede» disse Aenea. «Se si definisce fede l’atto di credere nel soprannaturale.»

Il cardinale inarcò lievemente le sopracciglia. L’uomo presentato come padre Farrell lanciò un’occhiata al proprio superiore. Il terribile sguardo di Rhadamanth Nemes non ondeggiò minimamente.

«Eppure lavora per costruire un tempio alla fede buddhista» disse il cardinale Mustafa, in tono abbastanza piacevole.

«Sono stata assunta per ristrutturare un edificio bellissimo» replicò Aenea. «Sono orgogliosa d’essere stata scelta per questo compito.»

«Malgrado la sua mancanza di… fede nel sovrannaturale?» disse il cardinale. Sentivo l’Inquisizione nella sua voce. Anche nelle brughiere di Hyperion avevamo sentito parlare del Sant’Uffizio.

«Forse proprio per questo, eminenza» replicò Aenea. «E per la fiducia nelle mie capacità umane e in quelle dei miei collaboratori.»

«Perciò il compito giustifica se stesso?» insistette il cardinale. «Anche se non ha significato più profondo?»

«Forse un compito ben eseguito è davvero il significato più profondo» replicò Aenea.

Il cardinale Mustafa ridacchiò, una risatina non del tutto piacevole. «Ben detto, giovane signora. Ben detto.»

Padre Farrell si schiarì la voce. «La regione al di là del monte Sion» disse in tono pensieroso. «Durante il sopralluogo dall’orbita abbiamo notato che c’era un’arcata di teleporter nella linea di cresta di quella zona. Pensavamo che T’ien Shan non avesse mai fatto parte della Rete, ma i nostri archivi hanno mostrato che l’arcata in questione fu completata poco prima della Caduta.»

«E mai usata!» esclamò il giovane Dalai Lama, alzando il dito. «Nessuno è mai giunto alle Montagne del cielo o ne è partito mediante il teleporter dell’Egemonia.»

«Infatti» disse con calma il cardinale Mustafa. «Be’, era una supposizione, ma devo porgerle le nostre scuse, Santità. Nello zelo di sondare dalla nave la struttura dell’antico teleporter, abbiamo accidentalmente fuso la roccia circostante e riempito l’arcata. Il portale è sigillato per sempre nella pietra, purtroppo.»

A queste parole lanciai un’occhiata a Rhadamanth Nemes. La mostruosa creatura non batté ciglio. Non aveva mai battuto le palpebre: il suo sguardo era inchiodato su Aenea.

Il Dalai Lama mosse la mano come per accantonare la faccenda. «Non importa, eminenza. Non ci serve un teleporter che non è stato mai usato, oppure la sua Pax ha trovato il modo di riattivarli?» Rise all’idea: una piacevole risata da bambino, ma pungente per intelligenza.

«No, Santità» rispose con un sorriso il cardinale Mustafa. «Neppure la Chiesa ha trovato un modo per riattivare la Rete. E quasi certamente è meglio che non lo trovi mai.»

La tensione in me si mutava rapidamente in una sorta di nausea. In pratica quell’uomo piccolo e brutto in rosso cardinalizio aveva detto a Aenea di sapere come era giunta su T’ien Shan e l’aveva avvisata che non sarebbe potuta scappare per la stessa via. Lanciai uno sguardo alla mia amica, ma Aenea pareva tranquilla e solo moderatamente interessata alla conversazione. Che ci fosse un secondo teleporter di cui la Pax ignorava l’esistenza? Comunque, le parole del cardinale spiegavano almeno come mai eravamo ancora vivi: la Pax aveva sigillato la tana del topolino Aenea e aveva un gatto — o diversi gatti: la nave diplomatica in orbita intorno a T’ien Shan e senza dubbio altre navi da guerra nascoste nel sistema solare — che l’aspettava al varco. Se avessi tardato di qualche mese, avrebbero catturato o distrutto la nostra nave e avrebbero ancora avuto Aenea là dove volevano che fosse.

Ma perché aspettare? E perché giocare a quel modo?

«… saremmo molto interessati a vedere il… come si chiama?, Tempio a mezz’aria?» diceva in quel momento l’arcivescovo Breque. «Un nome dal suono affascinante.»

Il reggente Tokra aveva corrugato la fronte. «Potrebbe essere difficile organizzare una visita, eccellenza» disse. «Si avvicina la stagione dei monsoni, le funivie saranno molto pericolose e perfino la via Alta è rischiosa durante le tempeste invernali.»

«Sciocchezze!» intervenne il Dalai Lama, senza badare all’occhiata di fuoco che il reggente gli lanciò. «Saremo ben lieti di dare il nostro aiuto per organizzare una simile spedizione. Dovete proprio vedere il Hsuan-k’ung Ssu. E tutto il Regno di mezzo, anche fino al T’ai Shan, il Grande Picco, dove la scala dei ventisettemila gradini porta al Tempio dell’imperatore di Giada e della principessa delle Nubi azzurre.»

«Santità» mormorò il lord camerlengo, a testa china, ma solo dopo avere scambiato col reggente un’occhiata «dovrei ricordarle che il Grande Picco del Regno di mezzo è accessibile per funivia solo nei mesi primaverili, a causa dell’alta marea di nuvole tossiche. Per i prossimi sette mesi il T’ai Shan sarà inaccessibile al resto del Regno di mezzo e del mondo.»

Il sorriso fanciullesco del Dalai Lama svanì, non, pensai, per irritazione, ma per il dispiacere di essere trattato con condiscendenza. Quando il bambino replicò, aveva nella voce un affilato tono di comando. Non avevo molta esperienza di bambini, ma avevo conosciuto parecchi ufficiali dell’esercito e se questo significava qualcosa, quel bambino sarebbe diventato un uomo formidabile, un vero comandante.

«Lord camerlengo» disse il Dalai Lama «anch’io sono al corrente della chiusura della funivia. Tutti ne sono al corrente! Ma so pure che ogni inverno alcuni intrepidi aviatori fanno il volo dal Sung Shan al Grande Picco. Altrimenti come potremmo condividere i nostri editti ufficiali con i nostri amici tra i fedeli sul T’ai Shan? E alcuni parapendii posso accogliere più di un solo aviatore; anche passeggeri, giusto?»

Il lord camerlengo si era piegato in un inchino così profondo da strisciare, pensai, la fronte sulle piastrelle. Rispose con un tremito nella voce: «Sì, sì, certo, Santità, certo. Sapevo che era informata, Santità. Intendevo solo… intendevo solo dire…».

Il reggente Tokra intervenne, brusco: «Sono sicuro che ciò che il lord camerlengo intendeva dire, Santità, è questo: per quanto alcuni aviatori compiano quel viaggio ogni anno, il numero di quelli che muoiono nel tentativo è sempre elevato. Non vogliamo di certo mettere in grave pericolo i nostri onorati ospiti».

Il Dalai Lama tornò a sorridere, ma fu un sorriso in qualche modo più maturo, più astuto, quasi beffardo, di quello da bambino, di qualche minuto prima. Si rivolse al cardinale Mustafa: «Lei non ha paura di morire, vero, eminenza? Proprio questo è lo scopo della sua visita qui, giusto? Mostrarci le meraviglie della risurrezione cristiana».

«Non l’unico scopo, Santità» mormorò il cardinale. «Siamo venuti in primo luogo per condividere, con chi vuole ascoltare, la gioiosa notizia di Cristo, ma anche per discutere possibili relazioni commerciali col vostro bellissimo pianeta.» Ricambiò il sorriso del Dalai Lama. «E poi, Santità, anche se la croce e la risurrezione sono doni che provengono direttamente da Dio, per somministrare il sacramento è purtroppo necessario che sia ricuperata almeno una piccola parte del corpo o del crucimorfo. Se non sbaglio, nessuno ritorna dal vostro mare di nuvole.»

«Nessuno» convenne il bambino, con un sorriso più aperto.

Il cardinale Mustafa allargò le braccia. «Allora forse limiteremo la nostra visita al Tempio a mezz’aria e ad altri luoghi accessibili.»

Seguì un momento di silenzio; guardai di nuovo Aenea, pensando che eravamo sul punto di essere congedati; mi domandai quale sarebbe stato il segnale, immaginai che il lord camerlengo ci avrebbe guidato fuori, mi sentii venire nelle braccia la pelle d’oca per l’intensità dello sguardo famelico di quella mostruosa creatura sempre puntato su Aenea.

A un tratto l’arcivescovo Jean Daniel Breque prese la parola. «Reggente Tokra, ho discusso con Sua Santità» disse a noi tutti, come se potessimo definire la controversia «quanto sia simile il nostro miracolo della risurrezione al millenario convincimento buddhista nella reincarnazione.»

«Ah!» disse il bambino sul trono d’oro, illuminandosi come se fosse stato affrontato un argomento di grande interesse per lui. «Ma non tutti i buddhisti credono nella reincarnazione. Anche prima che emigrassimo su T’ien Shan e che si verificassero i grandi cambiamenti nella filosofia che qui si sono sviluppati, non tutte le sette buddhiste accettavano il concetto di rinascita. Sappiamo per certo che il Buddha si rifiutava di speculare con i propri discepoli sull’esistenza della vita dopo la morte. "Simili questioni" disse "non sono importanti per la pratica del Sentiero e non possono trovare risposta, finché si è legati dalle restrizioni dell’umana esistenza." Gran parte del buddhismo, vedete, signori, può essere esplorata, apprezzata e utilizzata come strumento per raggiungere l’illuminazione, senza scendere nel soprannaturale.»

L’arcivescovo Breque parve sconcertato, ma il cardinale Mustafa replicò subito: «Tuttavia il vostro Buddha non ha forse detto — e credo che una delle vostre scritture le ritenga parole sue, Santità, ma mi corregga se sbaglio -: "C’è un non nato, un non originato, un non creato, un non composto; se non ci fosse, non ci sarebbe uscita dal mondo del nato, dell’originato, del creato, del composto"?».

Il bambino non perdette il sorriso. «Disse davvero così, eminenza. Molto bene. Ma nel nostro universo fisico non ci sono forse elementi, ancora non del tutto capiti, che potrebbero essere descritti come non nati, non originati, non creati, non composti?»

«Nessuno che sia a mia conoscenza, Santità» disse il cardinale Mustafa, in tono abbastanza affabile. «Però non sono uno scienziato. Solo un povero prete.»

Malgrado la cortesia diplomatica, il bambino sul trono parve intento a perseguire l’argomento. «Da quando siamo atterrati su questo mondo di montagne, cardinale Mustafa, la nostra forma di buddhismo si è evoluta. Ora è piena dello spirito zen. E uno dei grandi maestri zen della Vecchia Terra, il poeta William Blake, disse una volta: "L’eternità è in amore con i prodotti del tempo".»

Il sorriso fisso del cardinale Mustafa era un chiaro segno della perplessità di chi non ha capito.

Ora il Dalai Lama non sorrideva. Aveva un’espressione piacevole, ma seria. «Lei forse ritiene che il signor Blake intendesse che un tempo senza fine è un tempo privo di valore, cardinale Mustafa? Che ogni essere liberato dalla mortalità, perfino Dio, possa invidiare i figli del tempo lento?»

Il cardinale annuì, ma non perché fosse d’accordo. «Santità» disse «non riesco a capire come Dio potrebbe invidiare il povero uomo mortale. Di sicuro Dio non è capace d’invidia.»

Il bambino inarcò le quasi invisibili sopracciglia. «Eppure il vostro Dio cristiano non è, per definizione, onnipotente? Di sicuro lui/lei/esso è capace d’invidia.»

«Ah, un paradosso per bambini, Santità. Confesso di non essere esperto né nell’apologetica logica né nella metafisica. Ma in quanto principe della Chiesa di Cristo, so dal catechismo e nel mio animo che Dio non è capace d’invidia, soprattutto invidia per le sue imperfette creature.»

«Imperfette?» disse il bambino.

Il cardinale Mustafa sorrise con condiscendenza e replicò col tono di un colto prete che parli a un bambino: «L’uomo è imperfetto per la sua propensione al peccato. Nostro Signore non potrebbe essere invidioso di un essere capace di peccare».

Il Dalai Lama annuì lentamente. «Uno dei nostri maestri zen, un uomo di nome Ikkyu, una volta scrisse una poesia a questo scopo…


«Tutti i peccati commessi

nei Tre Mondi

svaniranno e scompariranno

insieme con me stesso.»


Il cardinale Mustafa attese qualche secondo, capì che la poesia era terminata e disse: «Di quali tre mondi parlava, Santità?».

«In quell’epoca non c’era il volo spaziale» disse il bambino, cambiando leggermente posizione sul trono di cuscini. «I Tre Mondi sono il passato, il presente e il futuro.»

«Molto bella» disse il cardinale del Sant’Uffizio. Dietro di lui, il suo aiutante padre Farrell fissava il bambino, con un’espressione simile a freddo disgusto. «Ma noi cristiani» continuò il cardinale Mustafa «non crediamo che il peccato, o gli effetti del peccato, o la responsabilità per il peccato, termini con la vita del peccatore, Santità.»

«Precisamente» sorrise il bambino. «Proprio per questa ragione mi incuriosisce il motivo per cui estendete artificialmente la vita per mezzo del crucimorfo. Noi pensiamo che la morte lavi la lavagna. Voi pensate che porti il giudizio di Dio. Perché differire il giudizio di Dio?»

«Noi riteniamo il crucimorfo un sacramento donatoci da Nostro Signore Gesù Cristo» replicò con calma il cardinale Mustafa. «Il giudizio fu differito dapprima dal sacrificio del nostro Salvatore sulla croce, l’accettazione di Dio stesso del castigo per i nostri peccati e la concessione della possibilità di vita eterna in cielo, se così scegliamo. Il crucimorfo è un altro dono del nostro Salvatore, forse la concessione del tempo per mettere in ordine la nostra casa prima del giudizio finale.»

«Ah, sì» sospirò il bambino. «Ma forse Ikkyu intendeva significare che non esistono peccatori. Che non esiste peccato. Che la "nostra" vita non appartiene a noi…»

«Esattamente, Santità» lo interruppe il cardinale, come se facesse un complimento a una persona lenta nell’apprendere. Il reggente, il lord camerlengo e altri intorno al trono trasalirono per quella interruzione. «Le nostre vite non appartengono a noi, ma al Nostro Signore e Salvatore e, per servire Lui, alla nostra Santa Madre Chiesa.»

«… ma appartiene all’universo» continuò il bambino. «E che le nostre opere, buone e cattive, sono anch’esse proprietà dell’universo.»

Il cardinale Mustafa corrugò la fronte. «Una frase graziosa, Santità, ma forse troppo astratta. Senza Dio, l’universo può solo essere una macchina, senza pensieri, sentimenti, sensazioni.»

«Perché?» disse il bambino.

«Prego, Santità?»

«Perché l’universo dev’essere senza pensieri, sentimenti, sensazioni, astraendolo dalla vostra definizione di un Dio?» disse con calma il bambino. Chiuse gli occhi.


«La rugiada del mattino

fugge via

e non c’è più.

Chi può restare

in questo nostro mondo?»


Il cardinale Mustafa congiunse le dita e si toccò le labbra, come in preghiera o in preda a una certa frustrazione. «Molto bella, Santità» disse. «Ancora Ikkyu?»

Il Dalai Lama ebbe un largo sorriso. «No. Io. Mi diletto a scrivere poesie zen, quando non riesco a dormire.»

I tre preti ridacchiarono. La creatura Nemes fissava Aenea.

Il cardinale Mustafa si rivolse alla mia amica. «Signora Ananda, ha una sua opinione su queste importanti questioni?»

Per un attimo non capii a chi si fosse rivolto, ma poi ricordai che il Dalai Lama aveva presentato Aenea col nome di Ananda, principale discepolo di Buddha.

«Conosco un’altra poesia di Ikkyu che esprime la mia opinione» disse Aenea.


«Più fragile e illusorio

di numeri scritti sull’acqua

il nostro cercare dal Buddha

la felicità nell’altro mondo.»


L’arcivescovo Breque si schiarì la gola e si unì alla conversazione. «Questo pare chiaro a sufficienza, giovane signora. Lei non crede che Dio esaudirà le nostre preghiere.»

Aenea scosse la testa. «Penso, eminenza, che Ikkyu intendesse due cose. Primo, che il Buddha non ci aiuterà. Non rientra nel suo compito, per così dire. Secondo, che fare conto sulla vita dopo la morte è sciocco, perché siamo per natura senza tempo, eterni, non nati, non mortali e onnipotenti.»

L’arcivescovo Breque divenne tutto rosso. «Questi aggettivi si possono applicare solo a Dio, signora Ananda» replicò. Intuì lo sguardo di fuoco del cardinale Mustafa e ricordò di essere lì in veste di diplomatico. «Così almeno crediamo» concluse debolmente.

«Per essere giovane e architetto, pare conoscere lo zen e la poesia, signora Ananda» ridacchiò il cardinale Mustafa, nel chiaro tentativo di alleggerire l’atmosfera. «Conosce altre poesie di Ikkyu che secondo lei potrebbero essere importanti?»

Aenea annuì.


«Venimmo a questo mondo soli,

ne dipartiamo soli,

anche questa è illusione.

Vi insegnerò la via

del non venire, del non andare.»


«Sarebbe un bel trucco» disse il cardinale Mustafa, con falsa giovialità.

Il Dalai Lama si sporse. «Ikkyu ci insegnò che è possibile vivere almeno parte della vita in un mondo senza tempo, senza spazio, dove non esiste nascita e morte, né venire e andare» disse con calma. «Un luogo dove non c’è separazione nel tempo, distanza nello spazio, barriera che ci tenga lontano da chi amiamo, parete di vetro fra l’esperienza e il nostro cuore.»

Il cardinale Mustafa lo fissò come se fosse rimasto senza parole.

«La mia amica, signora Ananda, mi ha insegnato anche questo» disse il bambino.

Per un istante il viso del cardinale fu distorto come da un ringhio. Si rivolse a Aenea. «Avrei piacere che la giovane signora insegnasse a me, insegnasse a noi tutti, questo abile trucco da stregone» disse in tono tagliente.

«Volentieri» replicò Aenea.

Rhadamanth Nemes mosse un mezzo passo verso la mia amica. Posai la mano sulla cappa, sfiorando il pulsante di accensione della torcia laser.

Con un bastone fasciato di seta il reggente colpì un gong. Il lord camerlengo venne subito avanti per scortarci fuori. Aenea rivolse un inchino al Dalai Lama e io goffamente la imitai.

L’udienza era terminata.


Ballo con Aenea nella grande sala di ricevimento piena d’echi, alla musica di un’orchestra di settantadue elementi; nobili e dame, sacerdoti e plenipotenziari di T’ien Shan, le Montagne del cielo, guardano dal margine della pista o volteggiano con noi nel comune movimento della musica. Ricordo di avere ballato con Aenea, di avere cenato di nuovo prima di mezzanotte ai lunghi tavoli riforniti in continuazione di cibi, poi di avere ballato ancora. Ricordo di averla tenuta stretta, mentre ci muovevamo insieme per la pista da ballo. Non ricordo di avere mai ballato prima di allora, da sobrio almeno, ma stanotte ballo, tengo stretta a me Aenea, mentre la luce delle fiamme scoppiettanti nei bracieri si affievolisce e l’Oracolo proietta sul parquet le ombre del lucernario.

Sono le prime ore del mattino e gli ospiti più anziani si sono già ritirati, tutti i monaci e i sindaci e i funzionari più anziani — tranne la Scrofa Folgore, che ha riso e cantato e battuto le mani a tempo con l’orchestra per ogni quadriglia, tamburellando con la babbuccia il lucido parquet — e rimangono solo quattro o cinquecento ospiti ben decisi a proseguire la festa nella grande sala in penombra, mentre la banda suona brani sempre più lenti, come se la loro molla musicale si andasse logorando.

Sarei già a letto da varie ore, lo confesso, se non fosse per Aenea: ma lei vuole ballare. Perciò balliamo, ci muoviamo lentamente, la sua mano nella mia, l’altra mia mano sulla schiena di lei (sotto la seta sottile del suo abito sento la spina dorsale e i forti muscoli) i suoi capelli contro la mia guancia, i morbidi seni contro il mio petto, la curva della testa contro il mio collo e il mento. Aenea sembra un po’ rattristata, ma ancora piena di energia, di voglia di festeggiare.

Le udienze private si sono concluse parecchie ore fa e si è diffusa la voce che il Dalai Lama è andato a letto prima di mezzanotte, ma noi continuiamo la festa. Lhomo Dondrub, il nostro amico aviatore, ride e versa champagne e birra di riso per tutti; Labsang Samten, il fratellino del Dalai Lama, a un certo punto salta i bracieri pieni di tizzoni ardenti; il serio Tromo Trochi di Dhomu all’improvviso si muta in un mago e in un angolo esegue giochi con fuoco e cerchi e levitazioni; poi la Dorje Phamo canta un chiaro e lento a solo da cappella, con voce così dolce che ancora oggi mi tormenta i sogni; infine decine di ospiti attaccano in coro il canto dell’Oracolo, mentre l’orchestra si prepara a chiudere i festeggiamenti, prima che l’alba cominci a rischiarare il cielo.

All’improvviso la musica tace a metà battuta. I ballerini si fermano. Aenea e io ci blocchiamo, ci guardiamo intorno.

Per ore non c’è stato segno degli ospiti della Pax, ma a un tratto uno di loro — Rhadamanth Nemes — emerge dall’ombra dei tendaggi dell’alcova del Dalai Lama. Si è cambiata d’uniforme e ora veste tutta in rosso. Con lei ci sono altre due persone e per un attimo penso che siano i preti, ma poi vedo che le due figure vestite di nero sono copie quasi identiche di Nemes: una donna e un uomo, in tuta da combattimento nera, con flosce ciocche nere sulla fronte pallida, con occhi d’ambra morta.

Il terzetto si muove fra i ballerini impietriti e viene verso di noi. Istintivamente mi metto fra Aenea e quelle creature, ma il Nemes maschio e l’altra sua simile si spostano per prenderci sui fianchi. Tiro Aenea dietro di me, ma lei si oppone e mi si affianca.

I ballerini impietriti non fanno rumore. L’orchestra rimane muta. Perfino il chiaro di luna pare ridotto a raggi solidi nel pulviscolo dell’aria.

Tolgo di tasca la torcia laser e la tengo lungo il fianco. La Nemes principale mostra i piccoli denti. Il cardinale Mustafa esce dall’ombra e rimane dietro di lei. Le quattro creature della Pax hanno lo sguardo fisso su Aenea. Per un attimo penso che l’universo si sia fermato, che i ballerini siano davvero impietriti nel tempo e nello spazio, che le note della musica pendano su di noi come stalattiti di ghiaccio pronte a staccarsi e a cadere; ma poi sento il mormorio della folla, un brusio timoroso, un sibilo d’ansia.

Non c’è chiara minaccia — solo quattro ospiti della Pax che attraversano la pista da ballo, con Aenea al centro del loro cerchio sempre più stretto — ma l’impressione di predatori che stiano per avventarsi sulla vittima è troppo forte per essere ignorata, come è troppo forte il puzzo della paura tra i profumi, le ciprie, la colonia.

«Perché aspettare?» dice Rhadamanth Nemes, guardando Aenea, ma parlando ad altri, le sue copie forse, o il cardinale.

«Penso…» dice il cardinale Mustafa e impietrisce.

Tutti impietriscono. I grandi corni vicino all’arcata d’ingresso hanno suonato col basso rombo degli spostamenti degli zoccoli continentali. Nelle nicchie non c’è nessuno che possa averli suonati. I piccoli corni di ottone e d’osso fanno da cornice al continuo rombo dell’unica nota dei corni più grandi. Il grande gong vibra a livello di conduzione ossea.

C’è un fruscio e un grido interrotto a metà, dall’altra parte della pista da ballo, nella direzione delle scale mobili, dell’anticamera, delle tende dell’arcata d’ingresso. La folla si divide, lascia uno spazio sempre più ampio, si scosta come terriccio davanti alla lama dell’aratro.

Qualcosa si muove dietro i tendaggi dell’anticamera. Ora qualcosa attraversa i tendaggi, non li apre, li taglia. Qualcosa scintilla alla luce dell’Oracolo e scivola sul parquet, scivola come se fosse librata a qualche centimetro dal pavimento, brilla alla luce morente della luna. Brandelli di tendaggio rosso penzolano da una figura d’incredibile altezza, tre metri almeno, e troppe braccia emergono dalle pieghe di quella veste cremisi. Le mani sembrano reggere lame d’acciaio. I ballerini si spostano rapidamente e c’è un ansito generale, netto e percettibile. Un lampo silenzioso soppianta il chiaro di luna e trae riflessi stroboscopici dal lucido pavimento, eclissa l’Oracolo, lascia echi retinici. Il tuono giunge dopo alcuni secondi e non si distingue dal rombo basso, che scuote le ossa, dei corni che ancora echeggiano nella sala d’ingresso.

Lo Shrike si ferma a cinque passi da Aenea e da me, cinque passi dalla creatura Nemes, dieci passi dalle due copie di Nemes impietrite nell’atto di girarci intorno, otto passi dal cardinale. Mi viene in mente che lo Shrike, avvolto nei brandelli del tendaggio rosso, sembra niente di più di una caricatura cromata e munita di lame del cardinale Mustafa nella sua tonaca cremisi. I cloni di Nemes, nell’uniforme nera, sembrano ombre di stiletto contro le pareti.

Da qualche parte, in uno degli angoli in ombra della grande sala di ricevimento, un orologio a pendolo batte lentamente le ore: una, due, tre, quattro. È, ovviamente, il numero delle macchine per uccidere non umane ferme davanti a noi e dietro di noi. Sono passati più di quattro anni da quando ho visto lo Shrike, ma non trovo meno terribile né più gradita la sua presenza, anche se ora quel mostro ci fa comodo. I suoi occhi rossi brillano come laser sotto un sottile velo d’acqua. Le mascelle di acciaio al cromo, socchiuse, mostrano file su file di denti affilati come rasoi. Le lame, i barbi e i bordi taglienti della mostruosa creatura emergono in decine di punti dal tendaggio rosso che l’ammanta. Lo Shrike non batte ciglio. Non pare che respiri. Ha smesso di scivolare, ora è immobile come una statua d’incubo.

Rhadamanth Nemes gli sorride.

Sempre impugnando la misera torcia laser, ricordo il confronto dei due su Bosco Divino, anni fa. La creatura Nemes era diventata una confusa sagoma color argento ed era semplicemente scomparsa e ricomparsa senza preavviso accanto a Aenea, allora dodicenne. Aveva intenzione di tagliare la testa alla mia amica e di portarsela via in una sacca di iuta; e così avrebbe fatto, se in quel momento non fosse comparso lo Shrike. Nemes potrebbe farlo ora, senza che io possa reagire in tempo. Quelle creature si muovono fuori del tempo. Provo l’acuto dolore di un padre che guardi la figlia avanzare sulla traiettoria di una vettura lanciata a tutta velocità, incapace di muoversi abbastanza in fretta per salvarla. Sovrimpressa su questo terrore c’è la sofferenza di un amante impossibilitato a proteggere la persona amata. Morirei all’istante per salvare Aenea da quelle creature, Shrike compreso; in realtà potrei morire all’istante, in meno di un istante, ma la mia morte non la proteggerebbe. Digrigno i denti per la frustrazione.

Girando solo gli occhi, per paura di scatenare il massacro se solo muovessi la mano o la testa o un muscolo, vedo che lo Shrike non fissa Aenea né la Nemes primaria: fissa direttamente il cardinale John Domenico Mustafa. Quel prete dal viso di rospo sente di sicuro il peso di quello sguardo rosso sangue, perché è sbiancato in viso: il suo pallore risalta contro il cremisi della tonaca.

Ora Aenea si muove. Mi affianca a sinistra, infila la mano nella mia, mi stringe le dita. Non è la richiesta di rassicurazione di una bambina, è un segnale di rassicurazione per me.

«Lei sa già come andrà a finire» dice con calma Aenea al cardinale, senza badare alle creature Nemes che si raggomitolano come gatti pronti a balzare.

Il Grande Inquisìtore si umetta le labbra. «No, non lo so» replica. «Ci sono le tre…»

«Sa già come andrà a finire» lo interrompe Aenea, sempre con calma. «Lei era su Marte.»

"Marte?" penso. "Che diavolo c’entra Marte, con questi mostri?" Il lampo balena di nuovo dal lucernario, proietta ombre pazzesche. Le facce delle centinaia di ospiti impietriti di terrore sono come bianchi ovali dipinti su velluto nero tutt’intorno a noi. In un attimo di folgorante intuizione, che mi rischiara la mente come il lampo appena balenato, mi rendo conto che la biosfera metafisica di questo pianeta, evolutasi o no dallo zen, è crivellata di demoni e di spiriti malevoli ispirati ai miti tibetani: i cancerosi nyen, spiriti della terra; i sadag, signori del terreno, che tormentano i costruttori che disturbano il loro regno; gli tsen, spiriti rossi che vivono nelle rocce; i gyelpo, spiriti di sovrani defunti che hanno mancato ai voti, morti, micidiali, abbigliati in livide corazze; i dud, spiriti così malevoli da cibarsi solo di carne umana e da indossare la nera corazza degli scarafaggi; le mamo, divinità femminili spietate come invisibili correnti di risucchio; le matrika, streghe degli ossari e delle piattaforme di cremazione, annunciate da una folata del loro alito che puzza di carogna; i grahas, divinità planetarie che causano epilessia e altre violente malattie devastanti; i nodjin, guardiani delle ricchezze nella terra, morte per i cercatori di diamanti; e decine di altri esseri notturni, zannuti, muniti di artigli, assassini. Lhomo e gli altri mi hanno raccontato spesso e bene la storia di quegli esseri. Guardo le facce sbiancate che fissano, sconvolte, lo Shrike e le creature Nemes e mi dico: "Questa notte non sarà poi tanto inusuale per loro, quando lo racconteranno".

«Il demone non può sconfiggerle tutt’e tre» dice il cardinale Mustafa. Pronuncia la parola "demone" proprio mentre io la penso. Capisco che parla dello Shrike.

Aenea non bada a quel commento. «Per prima cosa mieterà il crucimorfo» dice piano. «Non posso impedirglielo.»

Il cardinale muove di scatto la testa, come schiaffeggiato. Da pallido diventa cereo. Raccogliendo l’imbeccata da Nemes, le due copie si raggomitolano più strettamente, come se raccogliessero energia in vista di chissà quale terribile trasformazione. Nemes ha riportato lo sguardo su Aenea e ora ha un sorriso così largo da mostrare anche i molari.

«Fermi!» grida il cardinale Mustafa. La sua voce echeggia dal lucernario al pavimento. I grandi corni smettono di rombare. I presenti si stringono l’uno all’altro in un fruscio di unghie su seta. Nemes scocca al cardinale un’occhiata di odio e di malevolenza, quasi di sfida.

«Fermi!» grida di nuovo il sant’uomo della Pax. Mi rendo conto che parla anzitutto e soprattutto alle sue stesse creature. «In nome di Albedo e del Nucleo, per l’autorità dei Tre Elementi, ve lo ordino!»

Quest’ultimo grido disperato ha la cadenza di un esorcismo, di un profondo rituale, ma perfino io capisco che non è né cattolico né cristiano. Qui non è lo Shrike a essere invocato sotto la ferrea stretta di un controllo talismanico; sono gli stessi demoni del cardinale.

Nemes e le sue copie arretrano sul parquet come tirate da fili invisibili. Il clone maschio e il clone femmina si spostano fino a mettersi ai fianchi di Nemes, davanti a Mustafa.

Il cardinale sorride, ma con un sorriso tremante. «I miei cuccioli non saranno sguinzagliati, finché non avremo discusso di nuovo» dice. «Sacrilega bambina, hai la mia parola di principe della Chiesa. Ho la tua parola che quel…» indica lo Shrike dalle lame ricoperte di brandelli di velluti «quel mostro non mi darà la caccia fino a quel momento?»

Aenea pare calma come è stata durante tutto l’incidente. «Io non lo controllo» risponde. «La sua sola via di scampo è lasciare pacificamente questo pianeta.»

Il cardinale guarda lo Shrike. Pare pronto a balzare via, se la creatura dovesse solo flettere la lama del mignolo. Nemes e i cloni continuano a mantenersi fra il cardinale e lo Shrike.

«Quale garanzia ho» dice il cardinale Mustafa «che quel demone non mi segua nello spazio o su Pacem?»

«Nessuna» risponde Aenea.

Il Grande Inquisitore punta il dito contro la mia amica. «Qui abbiamo affari che non hanno niente a che vedere con te» dichiara, brusco. «Ma tu non lascerai mai questo pianeta. Te lo giuro sulla pietà di Cristo.»

Aenea ricambia il suo sguardo e rimane in silenzio.

Il cardinale si gira e si allontana, con uno svolazzo di tonaca e un fruscio di pantofole sul lucido pavimento. Le tre creature Nemes arretrano per tutta la sala, seguendolo: i due cloni tengono gli occhi puntati sullo Shrike, Nemes trafigge con lo sguardo Aenea. Varcano i tendaggi del portale privato del Dalai Lama e spariscono.

Lo Shrike resta dove si trova, inanimato, le quattro braccia immobili davanti a sé; le lame delle dita raccolgono le ultime gocce della luce dell’Oracolo, poi la luna si muove dietro la montagna e scompare.

Gli ospiti della festa cominciano a muoversi verso le uscite, in un’onda di bisbigli e di esclamazioni. Dall’orchestra provengono tonfi, clangori, fischi: gli strumenti vengono riposti in fretta nelle custodie e trascinati o portati via. Aenea continua a tenermi la mano, mentre una piccola cerchia di persone rimane intorno a noi.

«Chiappe di Buddha!» sbotta Lhomo Dondrub. Si avvicina allo Shrike, tasta col dito la spina metallica che spunta dal torace della creatura. Nella luce sempre più fioca riesco a vedere la goccia di sangue sul suo dito. «Fantastico!» grida Lhomo e beve un sorso da un boccale di birra di riso.

La Dorje Phamo viene al fianco di Aenea. Le prende la sinistra, piega il ginocchio, si pone sulla fronte rugosa la mano aperta di Aenea.

Aenea mi lascia la mano, prende con gentilezza per il braccio la Scrofa Folgore, l’aiuta a rialzarsi. «No, no» mormora.

«La Benedetta» mormora la Dorje Phamo. «Amata, l’Immortale; Arhat, la Perfetta; Sammasambuddha, la Pienamente Risvegliata; comandaci e insegnaci il dhamma.»

«No» dice Aenea con vigore. Sempre gentile con l’anziana donna, la tira in piedi, ma non addolcisce l’espressione severa. «Vi insegnerò ciò che conosco e dividerò con voi ciò che possiedo, quando giungerà il tempo. Non posso fare altro. L’ora del mito è passata.»

Si gira, mi prende per mano e ci guida fuori della sala, passando davanti all’immobile Shrike, diretta ai tendaggi a brandelli e alla scala mobile ferma. Gli ospiti della festa si aprono al nostro passaggio, in fretta, come poco prima davanti allo Shrike.

Ci fermiamo sulla piattaforma della scala d’acciaio. Lanterne risplendono nel corridoio delle nostre camere da letto, molto più in basso.

«Grazie» mi dice Aenea, guardandomi con occhi umidi.

«Eh?» dico come uno stupido. «Di cosa… perché… non capisco.»

«Grazie del ballo» dice lei. Si alza sulla punta dei piedi e mi bacia morbidamente sulla bocca.

L’elettricità del suo tocco mi fa battere le palpebre. Indico la folla alle nostre spalle, la pista da ballo dove ora non c’è più lo Shrike, le guardie del Potala che si precipitano nella sala echeggiante, l’alcova chiusa da tendaggi dove sono spariti Mustafa e le sue creature. «Non possiamo dormire qui stanotte, ragazzina. Nemes e gli altri due…»

«No, no, non faranno niente» dice Aenea. «Abbi fiducia in me, su questo. Stanotte non verranno strisciando lungo la parete esterna e sul soffitto. Anzi, lasceranno tutti il loro gompa e torneranno alla nave in orbita. Verranno di nuovo, ma non stanotte.»

Mi lascio sfuggire un sospiro.

Aenea mi prende la mano. «Hai sonno?» domanda piano.

Certo che ho sonno. Non esistono parole per dire quanto sono esausto. La notte scorsa pare lontana giorni, settimane, e anche allora ho avuto solo due o tre ore di sonno leggero perché… perché abbiamo… perché…

«Nemmeno un briciolo» rispondo.

Aenea sorride e mi fa strada verso la nostra camera da letto.

20

Papa Urbano XVI: Soffia il tuo Spirito e loro saranno creati.

Tutti: Tu rinnoverai il ricordo della Terra e il volto di tutti i mondi nel Dominio di Dio.

Papa Urbano XVI: Preghiamo.

O Dio, tu hai istruito il cuore dei fedeli mediante la luce dello Spirito Santo. Concedi che per mezzo dello stesso Spirito Santo noi possiamo sempre essere veramente saggi e gioire nella sua consolazione. Per Cristo Nostro Signore.

Tutti: Amen.

Papa Urbano XVI benedice le insegne dei cavalieri dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme.

Papa Urbano XVI: Il nostro rimedio è nel nome del Signore.

Tutti: Che creò il cielo e la terra e tutti i mondi.

Papa Urbano XVI: Il Signore sia con voi.

Tutti: E con il tuo spirito.

Papa Urbano XVI: Preghiamo.

Ascolta, ti preghiamo, o Signore. Degnati per il potere della tua maestà di benedire le insegne della funzione. Proteggi i tuoi servi che desiderano portarle, affinché siano forti nel salvaguardare i diritti della Chiesa e rapidi nel difendere e diffondere la fede cristiana. Per Cristo Nostro Signore.

Tutti: Amen.

Papa Urbano XVI asperge di acqua benedetta gli emblemi.

Il maestro di cerimonie, cardinale Lourdusamy, prepara il decreto per i cavalieri appena nominati e per quelli promossi di grado. Ciascuno di loro, quando viene chiamato per nome, si alza e rimane in piedi. Nella basilica ci sono milleduecentootto cavalieri. Il cardinale Lourdusamy elenca per grado, dal basso in alto, tutti gli insigniti d’onorificenza, prima i cavalieri, poi i preti cavalieri.

Al termine della lettura, i cavalieri che riceveranno l’investitura si inginocchiano. Tutti gli altri rimangono seduti.


Papa Urbano XVI domanda ai cavalieri: Che cosa chiedete?

I cavalieri rispondono: Chiedo di essere investito cavaliere del Santo Sepolcro.

Papa Urbano XVI: Oggi, essere cavaliere del Santo Sepolcro significa impegnarsi nella battaglia per il Regno di Cristo e per la diffusione della Chiesa; e intraprendere opere di carità, con lo stesso profondo spirito di fede e di amore con cui potreste dare la vita in battaglia. Siete pronti a seguire per tutta la vita questo ideale?

I cavalieri rispondono: Sono pronto.

Papa Urbano XVI: Vi ricordo che, se tutti gli uomini e le donne dovrebbero già ritenersi onorati di praticare la virtù, a maggior ragione un soldato di Cristo dovrebbe gloriarsi di essere un cavaliere di Gesù Cristo e usare ogni mezzo per mostrare con le proprie azioni e virtù di meritare l’onore che gli è conferito e la dignità di cui è investito. Siete pronti a promettere di osservare le regole di questo sacro Ordine?

I cavalieri rispondono: Con la grazia di Dio prometto di osservare, come vero soldato di Cristo, i comandamenti di Dio, i precetti della Chiesa, gli ordini dei miei superiori sul campo e la regola di questo sacro Ordine.

Papa Urbano XVI: In virtù del decreto ricevuto, vi nomino e vi dichiaro soldati e cavalieri del Santo Sepolcro di Nostro Signore Gesù Cristo. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

I cavalieri entrano nel Tabernacolo e si inginocchiano, mentre il papa benedice la croce di Gerusalemme, emblema dell’Ordine.


Papa Urbano XVI: Ricevi la croce di Nostro Signore Gesù Cristo a tua protezione, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Ciascun cavaliere si inginocchia davanti alla croce di Gerusalemme e risponde: Amen.

Papa Urbano XVI ritorna allo scranno posto sulla piattaforma dell’altare. Quando Sua Santità dà il segnale, il maestro di cerimonie cardinale Lourdusamy legge il decreto di ogni cavaliere appena nominato. Quando viene fatto il suo nome, ciascun cavaliere si avvicina all’altare, fa la genuflessione e poi si inginocchia nell’ampio spazio davanti a Sua Santità. Un cavaliere è stato scelto per rappresentare tutti i cavalieri in attesa d’investitura e ora quel cavaliere si avvicina all’altare.


Papa Urbano XVI: Che cosa chiedi?

Cavaliere: Desidero essere investito cavaliere del Santo Sepolcro.

Papa Urbano XVI: Ti ricordo di nuovo che, se tutti gli uomini e le donne dovrebbero ritenersi onorati di praticare la virtù, a maggior ragione così dovrebbe fare un soldato di Cristo, che dovrebbe gloriarsi di essere un cavaliere di Gesù Cristo e usare ogni mezzo per non macchiare mai la propria reputazione. E infine dovrebbe mostrare con le proprie azioni e virtù di meritare l’onore che gli è conferito e la dignità di cui è investito. Sei pronto a promettere in piena verità di osservare le costituzioni di questo sacro Ordine militare?

Il cavaliere congiunge le mani e le pone in quelle di Sua Santità.

Cavaliere: Dichiaro e prometto in piena verità a Dio onnipotente, a Gesù Cristo suo figlio, alla benedetta Vergine Maria, di osservare, come vero soldato di Cristo, tutto ciò che mi è stato ordinato di fare.

Sua Santità papa Urbano XVI pone la destra sulla testa del cavaliere.

Papa Urbano XVI: Sii leale e coraggioso soldato di Nostro Signore Gesù Cristo, cavaliere del suo Santo Sepolcro, forte e indomito, affinché un giorno tu possa essere ammesso alla sua corte celeste.

Sua Santità porge al cavaliere gli speroni d’oro e dice: Ricevi questi speroni che sono un simbolo del tuo Ordine, per l’onore e la difesa del Santo Sepolcro.

Il cavaliere maestro di cerimonie cardinale Lourdusamy porge a Sua Santità la spada sguainata; questi a sua volta la tiene davanti al cavaliere appena investito e poi la restituisce al cavaliere maestro di cerimonie.

Maestro di cerimonie: Ricevi questa spada che simboleggia la difesa della Santa Chiesa di Dio e la distruzione dei nemici della Croce di Cristo. Sta’ bene attento a non usarla mai per colpire ingiustamente chicchessia.

Il cavaliere maestro di cerimonie rimette nel fodero la spada e allora Sua Santità la porge al cavaliere appena investito.


Papa Urbano XVI: Tieni bene a mente che i santi hanno conquistato regni non con la spada, ma con la fede.

Questa parte della cerimonia è ripetuta per ciascun candidato. Sua Santità il papa riceve la spada sguainata e con essa tocca tre volte la spalla destra di ciascun cavaliere, dicendo: Ti investo e ti dichiaro soldato e cavaliere del Santo Sepolcro di Nostro Signore Gesù Cristo. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Restituita la spada al cavaliere maestro di cerimonie, Sua Santità mette al collo di ciascun cavaliere la croce, emblema dell’Ordine, dicendo: Ricevi la croce di Nostro Signore Gesù Cristo a tua protezione e a questo fine ripeti di continuo: "Per il segno della croce, liberaci, o Signore, dai nostri nemici".

Ciascun cavaliere appena investito si alza, rivolge un inchino a Sua Santità e va dal dignitario più alto in grado, per ricevere da lui il mantello. Poi riceve dal cavaliere assistente il copricapo e lo calza. Allora torna al suo posto nei banchi.

Tutti si alzano, mentre Sua Santità intona l’inno qui riportato, che viene proseguito da tutti i presenti.

VENI, CREATOR SPIRITUS

Vieni, o Spirito creatore,

visita le nostre menti,

riempi della Tua grazia

i cuori che hai creato.

O dolce consolatore,

dono del Padre altissimo,

acqua viva, fuoco, amore,

santo crisma dell’anima.

Dito della mano di Dio,

promesso dal Salvatore,

irradia i tuoi sette doni,

imbevi di fuoco la spada.

Sii luce all’intelletto,

calma il cuor di chi muore;

con pazienza e ferma virtù

rafforza la debole carne.

Allontana il nemico,

cedi a noi la tua ira:

con la tua guida,

vittoria non ci sarà negata.

Ci conceda la tua grazia,

conoscer il Padre e il Figlio

e Te, eterno benedetto

d’entrambi eterno Spirito.

Or sia resa gloria al Padre

e al Figlio risorto; davanti

a Te, Spada e Scudo, tutti

siano spinti in Pax e Cielo.

Sua Santità papa Urbano XVI: E tutti i nemici di Cristo devono cedere.

Tutti: Amen.

Escono Sua Santità e il maestro di cerimonie.


Anziché tornare agli appartamenti apostolici, il papa condusse il cardinale in una piccola stanza a fianco della Cappella Sistina.

«La saletta delle Lacrime» disse il cardinale Lourdusamy. «Non ci metto piede da anni.»

Si trattava di un piccolo locale col pavimento a piastrelle marrone quasi nere per gli anni, ruvida carta da parati rossa, basso soffitto a volta in stile medievale, violenta luce che veniva da alcuni dorati candelabri a muro, senza finestre ma con pesanti e assurdi tendaggi bianchi a una parete. L’arredamento era ridotto al minimo: un bizzarro divano rosso in un angolo, un tavolino-altare, nero, coperto da un drappo di lino bianco, al centro una schematica struttura da cui pendeva una pianeta, antica e ingiallita, che lasciava un po’ a disagio; lì vicino, un paio di scarpe bianche assurdamente decorate, tanto vecchie che la punta era storta in su.

«Quei paramenti appartenevano a papa Pio XII» disse il pontefice. «Li indossò qui nel 1939, dopo l’elezione. Li abbiamo fatti togliere dal museo Vaticano e sistemare qui. Di tanto in tanto veniamo a guardarli.»

«Papa Pio XII» ripeté, pensieroso, il cardinale Lourdusamy. Cercò di ricordare se nel pontificato di quel papa defunto da secoli ci fosse qualcosa di particolarmente significativo. Riuscì solo a pensare alla statua di Pio XII, scolpita circa due millenni prima, nel 1964, da Francesco Messina e ora relegata in un corridoio nei sotterranei del Vaticano. Pio XII era stato rappresentato da Messina a tratti appena sbozzati, occhiali tondi vuoti come le orbite di un teschio, braccio destro alzato nel gesto (dita ossute allargate) di tenere a bada il male del suo tempo.

«Un papa guerriero?» azzardò Lourdusamy.

Papa Urbano XVI scosse la testa. Aveva l’aria stanca e un livido sulla fronte, il segno lasciato dalla pesante mitra dai fregi dorati, tenuta in testa per tutta la lunga cerimonia dell’investitura. «Non è di nostro interesse il suo pontificato durante la guerra mondiale della Vecchia Terra» spiegò «ma i complessi rapporti che fu costretto a stabilire con il cuore stesso delle tenebre per preservare la Chiesa e il Vaticano.»

Lourdusamy annuì lentamente. «Nazisti e fascisti» mormorò. «Ma certo.» Il paragone con il Nucleo non era senza merito.

I domestici del pontefice avevano preparato il tè sull’unico tavolo e ora il segretario di Stato servì di persona Sua Santità e versò l’infuso in una fragile tazza di porcellana. Papa Urbano XVI lo ringraziò con uno stanco cenno e sorseggiò la fumante bevanda. Lourdusamy tornò al suo posto al centro della stanza, accanto agli antichi paramenti appesi, e guardò con occhio critico il pontefice. "Il suo cuore fa di nuovo i capricci" pensò. "Dovremo affrontare presto un’altra risurrezione e un nuovo conclave?"

«Hai notato chi è stato scelto come rappresentante dei cavalieri?» domandò il papa, con voce ora più forte. Alzò gli occhi, intensi, tristi.

Preso alla sprovvista, Lourdusamy rifletté un secondo. «Oh, sì» disse infine. «L’ex PFE della Pax Mercatoria. Isozaki. Sarà il cavaliere a capo della crociata Cassiopea 4614.»

«Facendo così ammenda» sorrise Sua Santità.

Lourdusamy si strofinò le guance. «Potrebbe rivelarsi una penitenza più severa di quanto non si aspettasse il signor Isozaki, Santità.»

Il papa alzò gli occhi. «Sono previste gravi perdite?»

«Circa il quaranta per cento di morti» borbottò Lourdusamy. «Metà dei quali irrecuperabili con la risurrezione. In quel settore gli scontri sono stati molto, molto pesanti.»

«E dalle altre parti?»

Lourdusamy sospirò. «La sommossa si è estesa a circa sessanta pianeti della Pax, Santità. Circa tre milioni di persone hanno subito il contagio e hanno rigettato il crucimorfo. Ci sono scontri, ma niente di cui le autorità della Pax non possano occuparsi. Vettore Rinascimento è il caso peggiore, circa ottocentomila infetti. E il contagio si diffonde molto rapidamente.»

Il papa annuì e sorseggiò il tè. «Comunicaci qualcosa di positivo, Simon Augustino.»

«La navetta automatica è traslata dal sistema di T’ien Shan proprio prima della cerimonia» disse il cardinale Lourdusamy. «Abbiamo decrittato immediatamente l’olomessaggio del cardinale Mustafa.»

Il papa tenne la tazzina a qualche centimetro dal piattino, senza portarsela alle labbra, e attese.

«Hanno incontrato la Figlia del Demonio» disse Lourdusamy. «Nel palazzo del Dalai Lama.»

«E…» lo incitò il papa.

«Non c’è stato alcun intervento, per la presenza del demone Shrike» disse Lourdusamy, con un’occhiata agli appunti nel comlog da polso. «Ma l’identificazione è sicura. La bambina di nome Aenea — ora naturalmente è sulla ventina standard — la sua guardia del corpo, Raul Endymion, che abbiamo arrestato e perduto su Mare Infinitum più di nove anni fa, e gli altri.»

Il papa si toccò le labbra, sottili come le dita. «E lo Shrike?»

«È comparso solo quando la bambina è stata minacciata dagli… ufficiali… della Guardia nobile di Albedo» rispose Lourdusamy. «Poi è scomparso. Non c’è stato scontro.»

«Ma il cardinale Mustafa non è riuscito a cogliere l’attimo.»

Lourdusamy annuì.

«E pensi ancora che Mustafa sia la persona giusta per questo compito?» mormorò papa Urbano XVI.

«Sì, Santità. Tutto procede secondo il piano. Ci auguravamo di stabilire un contatto prima dell’arresto vero e proprio.»

«E la Raffaele?» domandò il papa.

«Ancora nessun segno. Però Mustafa e l’ammiraglio Wu sono sicuri che de Soya comparirà nel sistema di T’ien Shan prima del tempo concesso per andare a prendere la ragazza.»

«Senza dubbio preghiamo che sia questo il caso» disse il pontefice. «Sai, Simon Augustino, quanto danno ha fatto alla nostra crociata quella nave fuorilegge?»

Lourdusamy sapeva che la domanda era retorica. Da cinque anni lui e il Santo Padre e i tremebondi ammiragli della Flotta della Pax studiavano attentamente rapporti di combattimenti, elenchi di vittime, perdite di naviglio. La Raffaele, col suo capitano voltagabbana de Soya, era stata quasi catturata o distrutta una ventina di volte, ma era sempre riuscita a fuggire nello spazio degli Ouster, lasciandosi alle spalle convogli dispersi, scafi ridotti a carcasse e navi da guerra distrutte. La mancata cattura di una singola Arcangelo fuorilegge era diventata la vergogna della Flotta e il segreto meglio custodito in tutta la Pax.

Ma ora stava per terminare.

«Elementi di Albedo calcolano pari al novantaquattro per cento la probabilità che de Soya abbocchi alla nostra esca» disse il cardinale Lourdusamy.

«Quanto tempo è trascorso da quando la Flotta e il Sant’Uffizio hanno fatto filtrare l’informazione?» disse il papa. Terminò di bere il tè e posò con cura sulla sponda del divano il piattino e la tazza.

«Cinque settimane standard» rispose Lourdusamy. «L’ammiraglio Wu ha fatto in modo che l’informazione si trovasse, in codice, nella IA di bordo di una delle navi torcia di scorta che la Raffaele ha assalito ai margini del sistema di Ofiuco. Ma in un codice non tanto impenetrabile da costituire un ostacolo per i sistemi di bordo della Raffaele, migliorati dagli Ouster.»

«De Soya e i suoi compari non fiuteranno la trappola?» rifletté l’uomo che un tempo era stato padre Lenar Hoyt.

«Poco probabile, Santità. Abbiamo già usato lo stesso schema di codice per fornire a de Soya informazioni attendibili e…»

Il papa alzò di scatto la testa. «Cardinale Lourdusamy» disse, brusco «vuoi farci capire di avere sacrificato navi della Pax e vite innocenti, vite cui è negata la risurrezione, solo per garantirti che i fuorilegge ritengano attendibile anche questa informazione?»

«Sì, Santità.»

Il papa sospirò e annuì. «Deplorevole, ma comprensibile, data la posta in palio.»

«Inoltre» proseguì il cardinale «alcuni ufficiali dell’equipaggio della nave predisposta per cadere nelle mani della Raffaele sono stati… condizionati… dal Sant’Uffizio in modo che avessero anche loro l’informazione sui tempi del nostro piano di attacco contro la ragazza Aenea e il pianeta T’ien Shan.»

«Tutto preparato con mesi d’anticipo?»

«Sì, Santità. Un vantaggio fornitoci dal consigliere Albedo e dal Nucleo, che alcuni mesi fa ha rilevato l’attivazione del teleporter su T’ien Shan.»

Il pontefice si posò le mani sulle ginocchia coperte dalla tonaca. Aveva dita bluastre. «E quella via di fuga è stata negata alla Figlia del Diavolo?»

«Assolutamente» confermò il cardinale. «La Jibril ha scorificato l’intera montagna intorno all’arcata del teleporter. Il teleporter in sé è indistruttibile, Santità, ma al momento è sepolto sotto venti metri di roccia.»

«E il Nucleo è certo che quello sia l’unico teleporter su T’ien Shan?»

«Certissimo, Santità.»

«E i preparativi per il confronto con de Soya e la sua Arcangelo fuorilegge?»

«Be’, sarebbe necessaria la presenza dell’ammiraglio Wu per discutere i particolari tattici, Santità…»

«Confidiamo che tu sappia esporre lo schema generale, Simon Augustino.»

«Grazie, Santità. La Flotta della Pax ha appostato nel sistema solare di T’ien Shan cinquantotto incrociatori planetari Arcangelo. Sono rimasti nascosti per le ultime sei settimane standard…»

«Scusami, Simon Augustino» mormorò il pontefice «ma come si fa a nascondere cinquantotto incrociatori da guerra classe Arcangelo?»

Il cardinale abbozzò un sorriso. «Hanno spento i motori e galleggiano in posizioni strategiche nella fascia di asteroidi interna del sistema e nella Fascia di Kuiper esterna, Santità. Assolutamente non individuabili. Pronti a balzare con un preavviso di un secondo.»

«La Raffaele non avrà scampo, stavolta?»

«No, Santità» dichiarò il cardinale Lourdusamy. «La testa di undici comandanti della Flotta dipende dal successo di questa imboscata.»

«Tenere fermo per settimane in quel sistema solare periferico un quinto della nostra flotta di navi Arcangelo ha seriamente compromesso l’efficacia della nostra crociata contro gli Ouster, cardinale Lourdusamy.»

«Sì, Santità» ammise il cardinale. Si lisciò la tonaca e si rese conto, con sorpresa, di avere le mani sudate. Sapeva che, oltre alla testa di undici comandanti della Flotta della Pax, anche il suo stesso futuro era appeso a un filo e dipendeva dal successo della missione.

«Ne sarà valsa la pena, quando avremo distrutto quel ribelle» mormorò il papa.

Lourdusamy tirò il fiato.

«Presumiamo che la nave e il capitano de Soya saranno distrutti, non catturati» disse ancora il Santo Padre.

«Sì, Santità. C’è l’ordine permanente di ridurre in atomi la nave.»

«Ma non faremo del male alla bambina?»

«No, Santità. Sono state prese tutte le precauzioni per garantire che il vettore di contagio di nome Aenea sia catturato vivo.»

«È molto importante, Simon Augustino» borbottò il papa. Pareva bisbigliare tra sé. «Dobbiamo avere la ragazza viva. Gli altri con lei… quelli sono sacrificabili… ma la ragazza dev’essere catturata. Ripetici la procedura.» Avevano ripassato centinaia di volte quei particolari.

Il cardinale Lourdusamy chiuse gli occhi. «Appena la Raffaele sarà intercettata e distrutta, le navi del Nucleo si sposteranno in orbita intorno al pianeta T’ien Shan e disabiliteranno l’intera popolazione.»

«Col raggio della morte» mormorò Sua Santità.

«No, dal punto di vista tecnico» precisò il cardinale. «Come lei sa, il Nucleo garantisce che i risultati di questa sua tecnica sono reversibili. Si tratta, per meglio dire, di induzione di uno stato di coma permanente.»

«Stavolta i milioni di corpi saranno trasportati, Simon Augustino?»

«Non subito, Santità. Le nostre squadre speciali scenderanno sul pianeta, troveranno la ragazza, la metteranno su un convoglio Arcangelo che la trasporterà qui su Pacem, dove sarà riportata in vita, isolata, interrogata e…»

«Giustiziata» sospirò il papa. «Per mostrare a quei milioni di ribelli su sessanta pianeti che il loro messia putativo non esiste più.»

«Sì, Santità.»

«Non vediamo l’ora di parlare con questa persona, Simon Augustino, Figlia del Diavolo o no.»

«Sì, Santità.»

«E quando, secondo te, il capitano de Soya ingoierà l’esca e si mostrerà per essere distrutto?»

Il cardinale Lourdusamy diede un’occhiata al comlog. «Nel giro di qualche ora, Santità. Nel giro di qualche ora.»

«Preghiamo perché tutto si concluda con un successo» mormorò il papa. «Preghiamo per la salvezza della nostra Chiesa e della nostra specie.»

Nella saletta delle Lacrime, i due uomini chinarono la testa.


Nei giorni immediatamente successivi al nostro ritorno dal Potala del Dalai Lama, ho i primi indizi della piena portata dei piani e dei poteri di Aenea.

Sono sorpreso per l’accoglienza che riceviamo al nostro ritorno. Rachel e Theo abbracciano Aenea e piangono di gioia. A. Bettik mi dà pacche sulla schiena, con la sola mano che gli resta, e mi stringe con tutt’e due le braccia. Il solitamente laconico Jigme Norbu prima abbraccia George Tsarong, poi percorre la fila di noi pellegrini e ci abbraccia tutti, con le lacrime che gli scorrono sul viso magro e tirato. L’intero personale è fuori ad acclamare, applaudire, piangere. Molti di loro, mi rendo conto, non si aspettavano che noi — o quanto meno Aenea — tornassimo dal ricevimento in onore della Pax. E in realtà c’è mancato davvero poco.

Ci mettiamo all’opera per terminare la ricostruzione del Hsuan-k’ung Ssu. Io lavoro con Lhomo, A. Bettik e i montatori in quota, agli ultimi ritocchi della passeggiata più alta, mentre Aenea, Rachel e Theo sovrintendono a vari particolari del lavoro per tutto il complesso.

Quella sera non riesco a pensare ad altro che andare presto a letto, e dai baci frettolosi ma appassionati che ci scambiamo nei pochi minuti in cui siamo soli sull’alta passerella, dopo cena, sospetto che Aenea condivida il mio desiderio di immediata e intensa intimità. Ma quella sera è in programma una delle sue discussioni di gruppo (l’ultima, risulterà poi) e mentre cala la sera, più di cento persone sono nel gompa della piattaforma centrale. Per fortuna i monsoni, dopo averci dato il primo assaggio di pioggia, non hanno infierito e la sera è piacevole, mentre il sole tramonta dietro la cresta K’un Lun. Torce scoppiettano lungo le scalinate dell’asse principale e le bandierine di preghiera schioccano al vento.

Rimango sorpreso nel vedere alcuni dei presenti: il Tromo Trochi di Dhomu è tornato dal Potala malgrado avesse dichiarato di dover andare a ovest con le sue mercanzie; la Dorje Phamo partecipa in compagnia di tutti e nove i suoi sacerdoti preferiti; ci sono numerosi ospiti famosi che erano anche al ricevimento a palazzo, per la maggior parte giovani; il più giovane e più famoso di tutti, anche se cerca di passare inosservato in una comune tonaca rossa con cappuccio, è lo stesso Dalai Lama, accompagnato solo dalla sua guardia del corpo e dal primo araldo Carl Linga William Eiheji, ma non dal reggente né dal lord camerlengo.

Mi fermo in fondo alla stanza affollata. Per circa un’ora il gruppo di discussione è proprio un gruppo di discussione, che a volte Aenea guida, ma mai domina. Però lentamente le sue domande spostano il discorso dove vuole lei. Mi rendo conto che Aenea è una maestra del buddhismo tantrico e zen, risponde a monaci che hanno speso decenni a padroneggiare quelle discipline in koan e Dharma. A un monaco che domanda per quale motivo non dovrebbero accettare l’immortalità della Pax come forma di rinascita, Aenea cita l’insegnamento del Buddha per cui nessun individuo è rinato e tutte le cose sono soggette alla annicca, la legge della mutabilità, e poi offre altri particolari sulla dottrina anatta, letteralmente "non sé", la negazione del Buddha che ci sia un’entità personale nota come anima.

Per rispondere a un’altra domanda sulla morte, Aenea cita un koan zen: «Un monaco disse a Tozan: "Un monaco è morto; dov’è andato?" Tozan rispose: "Dopo l’incendio, un germoglio d’erba"».

«Signora Aenea» dice Kuku Se, infervorata «significa mu

Aenea mi ha insegnato che mu è un elegante concetto zen che si potrebbe tradurre come: "Dis-fai la domanda".

La mia amica sorride. Siede nel punto più lontano dalla porta, in uno spazio libero accanto alla parete aperta, e le stelle sono luminose e ben visibili sopra la montagna sacra del Nord. L’Oracolo non si è ancora levato.

«Fino a un certo punto» risponde piano Aenea. Nella stanza tutti tacciono per ascoltare. «Significa pure che il monaco è morto e basta. Non è andato da qualche parte, è andato da nessuna parte, ecco l’importante. Ma anche la vita è andata da nessuna parte. Continua, in forma diversa. I cuori si dolgono per la morte del monaco, ma la vita non è sminuita. Niente è stato tolto all’equilibrio di vita nell’universo. Tuttavia quell’intero universo, come riprodotto nella mente e nel cuore del monaco, è morto. Una volta Seppo disse a Gensha: "Il monaco Shinso mi ha domandato dov’è andato un certo monaco morto e gli ho risposto che è come ghiaccio che diventa acqua". Gensha disse: "Hai fatto bene, ma io non avrei risposto in quel modo". "Cosa avresti detto?" domandò Seppo. Gensha rispose: "È come acqua che ritorna in acqua".»

Dopo un momento di silenzio, qualcuno sul davanti della stanza dice: «Parlaci del Vuoto che lega».

«In un tempo che fu» attacca Aenea, come sempre fa quando inizia simili racconti «c’era il Vuoto. E il Vuoto era al di là del tempo. In senso proprio, il Vuoto era un orfano di tempo, un orfano di spazio.

«Ma il Vuoto non era di tempo, non era di spazio e certamente non era di Dio. Neppure il Vuoto che lega è Dio. In verità, il Vuoto si sviluppò molto dopo che tempo e spazio picchettarono i confini dell’universo; ma, non legato al tempo, non imbrigliato nello spazio, il Vuoto che lega è filtrato all’indietro e in avanti da una parte all’altra del continuum, fino all’esplosione primordiale e al piagnucolio finale.»

Qui Aenea si ferma e si porta le mani alle tempie in un gesto che non le vedo fare da quando era bambina. Non pare una bambina, questa notte. Ha occhi stanchi, ma vitali. E intorno agli occhi, rughe di stanchezza o di preoccupazione. Amo i suoi occhi.

«Il Vuoto che lega è una cosa dotata di mente» dice con fermezza Aenea. «Proviene da cose dotate di mente, molte delle quali furono a loro volta create da cose dotate di mente.

«Il Vuoto che lega è cucito di materia quantica, intrecciato di spazio di Planck, di tempo di Planck, si trova sotto e intorno lo spaziotempo come l’involucro di una coperta trapunta è intorno e sotto l’imbottitura di ovatta. Il Vuoto che lega non è né mistico né metafisico, sgorga dalle leggi fisiche dell’universo e risponde a quelle stesse leggi, ma è un prodotto di quell’universo in evoluzione. Il Vuoto è strutturato da pensiero e sentimento, un prodotto della consapevolezza di sé dell’universo. E non semplicemente di pensiero e sentimento umani: il Vuoto che lega è un composto di centomila specie senzienti in miliardi di anni di tempo. È l’unica costante nell’evoluzione dell’universo, l’unico terreno comune per le specie che si svilupperanno, cresceranno, fioriranno, appassiranno e moriranno, milioni di anni e centinaia di milioni di anni luce una dall’altra. E c’è una sola chiave d’ingresso al Vuoto che lega…»

Aenea si ferma di nuovo. La sua giovane amica Rachel siede accanto a lei, a gambe incrociate, attenta. Noto ora, per la prima volta, che Rachel, la donna di cui sono stato scioccamente geloso negli ultimi mesi, è davvero bella: capelli castano ramato, corti e ricci, guance colorite, grandi occhi verdi con pagliuzze castane. Ha circa l’età di Aenea, poco più di vent’anni standard, e un’abbronzatura dorata per i mesi di lavoro a grande altezza sotto il sole giallo di T’ien Shan.

Aenea tocca la spalla di Rachel.

«La mia amica qui presente era neonata» riprende «quando suo padre scoprì un fatto interessante sull’universo. Suo padre, uno studioso di nome Sol, per anni e anni era stato ossessionato dalla relazione storica fra Dio e uomo. Poi un giorno, nelle circostanze più estreme, quando dovette affrontare per la seconda volta la perdita della propria figlia, ebbe in dono un istante di satori: capì appieno, intuitivamente, ciò che solo alcuni altri avevano avuto il privilegio di capire con chiarezza nei milioni di anni del nostro lento riflettere. Capì che nell’universo l’amore è una forza reale pari alle altre, reale come l’elettromagnetismo o i legami nucleari deboli. Reale come la gravità e governata da molte delle stesse leggi. La legge dell’inverso del quadrato, per esempio, spesso funziona con identica esattezza tanto per l’amore quanto per l’attrazione gravitazionale.

«Sol capì che l’amore era la forza legante del Vuoto che lega, il filo e il tessuto dell’abito. E in quell’istante di satori capì che la specie umana non era l’unica a cucire quello sgargiante paramento. Intuì che il Vuoto che lega aveva alle spalle la forza dell’amore, ma non riuscì a ottenere accesso a quell’ambiente. Gli esseri umani, che da pochissimo tempo si sono evoluti dai primati nostri cugini, non hanno ancora acquisito la capacità sensoriale di vedere chiaramente il Vuoto che lega o di entrarvi.

«Dico "vedere chiaramente" perché tutti gli esseri umani con cuore e mente aperti hanno colto rare ma potenti visioni fuggevoli del panorama del Vuoto. Proprio come lo zen non è una religione, ma è religione, il Vuoto che lega non è uno stato della mente, è stato di mente. Il Vuoto è tutta probabilità come onde stazionarie, interagisce con quel fronte d’onda stazionario che è la mente e la personalità umane. Il Vuoto che lega è toccato da tutti noi che hanno pianto di felicità, che hanno detto addio a un amante, che si sono esaltati nell’orgasmo, che sono stati sulla tomba di una persona amata, che hanno visto il proprio figlio aprire gli occhi per la prima volta.»

Mentre parla, Aenea guarda me. Mi si accappona la pelle.

«Il Vuoto che lega» continua Aenea «è sempre sotto e sopra la superficie dei nostri pensieri e dei nostri sensi, invisibile ma presente come il respiro della persona amata al nostro fianco nella notte. La sua reale ma inaccessibile presenza nel nostro universo è una delle prime cause che hanno indotto l’uomo a elaborare il mito e la religione, che hanno dato impulso alla nostra fede cieca e testarda nei poteri extrasensoriali, nella telepatia e nella precognizione, nei demoni e nei semidei, nella risurrezione e nell’incarnazione, negli spettri e nei messia e in tante altre categorie di stronzate quasi ma non del tutto soddisfacenti.»

A questa dichiarazione, i cento e passa ascoltatori, monaci, operai, intellettuali, politici, sant’uomini e sante donne, si agitano un poco. Fuori il vento si alza e la piattaforma dondola lievemente, com’è progettato che faccia. Da qualche parte a sud di Jo-kung brontola il tuono.

«Le cosiddette "Quattro asserzioni della setta zen" attribuite a Bodhidharma nel VI secolo d.C. sono un cartello indicatore quasi perfetto per trovare il Vuoto che lega, almeno per trovare il suo profilo come assenza di confusione ultraterrena» prosegue Aenea. «Primo, nessuna dipendenza da parole o lettere. Le parole sono la luce e il suono della nostra esistenza, il lampo di calore che illumina la notte. Il Vuoto che lega si trova nei più profondi segreti e silenzi delle cose, il luogo dove abita la fanciullezza.

«Secondo, una trasmissione speciale al di fuori delle Scritture. Artisti riconoscono altri artisti non appena la matita comincia a muoversi. Un musicista può distinguere un altro musicista fra milioni che suonano note, appena la musica inizia. Poeti spigolano poeti in poche sillabe, soprattutto dove si scarta l’ordinario significato e le forme della poesia. Chora scrisse…


«Due vennero qui,

due volarono via…

farfalle.


«… e nell’ancora caldo crogiolo delle parole e delle immagini consumate dal fuoco rimane l’oro di cose più profonde, ciò che R.H. Blyth e Frederick Franck un tempo definirono "la nera fiamma della vita che arde in ogni cosa" e "vedere col ventre, non con l’occhio"; con "viscere di compassione".

«La Bibbia mente. Il Corano mente. Il Talmud e la Torah mentono. Il Nuovo Testamento mente. Il Sutta-pitaka, i nikaya, l’Itivuttaka e il Dhammapada mentono. Il Bodhisattva e Amitabha mentono. Il Libro dei morti mente. Il Tiptaka mente. Tutte le Scritture mentono… proprio come mento io, parlandovi ora.

«Tutti questi libri sacri mentono non perché vogliano mentire o perché non trovino l’espressione giusta, ma per la loro stessa natura di essere ridotti in parole; tutte le immagini, precetti, leggi, canoni, citazioni, parabole, comandamenti, koan, zazen e sermoni in questi bellissimi libri falliscono nel momento conclusivo, aggiungono solo altre parole fra l’essere umano che cerca e la percezione del Vuoto che lega.

«Terzo, diretta indicazione all’anima dell’uomo. Lo zen, che meglio capì il Vuoto trovandone con grande chiarezza l’assenza, lottò con il problema di indicare senza avere il dito, di creare quest’arte senza un mezzo, di ascoltare quel potente suono in un vuoto privo di suoni. Shili scrisse:


«Un villaggio di pescatori;

danzare sotto la luna

all’odore di pesce crudo.


«Questa, e non mi riferisco alla poesia, è l’essenza del cercare la chiave della porta del Vuoto che lega. Centomila specie in un milione di mondi in giorni morti da tempo ebbero villaggi senza case, la danza sotto la luna in mondi privi di lune, l’odore di pesce crudo in oceani privi di pesci. Tutto ciò può essere condiviso al di là del tempo, al di là dei pianeti, al di là della durata dell’esistenza umana.

«Quarto, vedere nella propria natura e il raggiungimento della natura del Buddha. Per riuscirci, non occorrono decenni di zazen né battesimo ecclesiastico né studio accurato del Corano. La natura di Buddha è, in fin dei conti, l’essenza di essere uomo, superata la prova del fuoco. I fiori raggiungono tutti la natura di fiore. Un cane selvaggio o una zigocapra cieca raggiungono la natura di cane o la natura di zigocapra. Un luogo, qualsiasi luogo, ha garantita la propria natura di luogo. Solo la specie umana lotta e fallisce nel divenire ciò che è. Le ragioni sono molteplici e complesse, ma germogliano tutte dal fatto che ci siamo evoluti come uno degli "organi che vedono se stessi" dell’universo in evoluzione. Può l’occhio vedere se stesso?»

Aenea si interrompe per un momento e nel silenzio tutti udiamo il tuono brontolare da qualche parte al di là della cresta. Il monsone ci risparmia da alcuni giorni, ma il suo arrivo è imminente. Provo a immaginare quegli edifici, montagne, creste, cavi, ponti, passerelle e impalcature, coperti di ghiaccio e ammantati di nebbia. Il pensiero mi fa rabbrividire.

«Il Buddha capì che potevamo percepire il Vuoto che lega zittendo il frastuono di ogni giorno» riprende infine Aenea. «In questo senso, il satori è un grande e soddisfacente silenzio, dopo avere ascoltato per giorni o mesi di fila il suono squillante del vicino. Ma il Vuoto che lega è più che silenzio: è l’inizio dell’ascolto. Apprendere il linguaggio dei morti è il primo compito di chi entra nell’ambiente del Vuoto.

«Gesù di Nazareth entrò nel Vuoto che lega. Lo sappiamo. La sua voce è una delle più chiare, tra quelle che parlano nel linguaggio dei morti. Rimase a sufficienza per passare al secondo livello di responsabilità e di sforzo… nell’apprendimento del linguaggio dei morti. Apprese tanto bene da udire la musica delle sfere. Fu in grado di cavalcare le agitate onde di probabilità così lontano da vedere la propria morte e fu tanto coraggioso da non evitarla quando avrebbe potuto. E noi sappiamo che, almeno in una occasione, mentre moriva sulla croce, imparò a muovere quel primo passo, a muoversi attraverso il tessuto spaziotempo del Vuoto che lega, comparendo ad amici e discepoli in vari luoghi nel futuro rispetto al momento in cui pendeva, morente, sulla croce.

«E, liberato delle restrizioni del suo tempo dalla fuggevole visione dell’assenza di tempo nel Vuoto che lega, Gesù capì di essere lui la chiave, non i suoi insegnamenti, non le Scritture basate sulle sue idee, non l’abietta adulazione nei suoi confronti e neppure il Dio, all’improvviso evolutosi, del Vecchio Testamento in cui fermamente credeva, ma proprio lui, Gesù, un umano, le cui cellule portavano il codice di decrittazione per aprire la porta. Gesù capì che l’abilità di aprire quella porta non si trovava nella sua mente o nella sua anima, ma nella sua pelle, ossa, cellule, letteralmente nel suo DNA.

«Quando, durante l’ultima cena, Gesù di Nazareth chiese ai suoi seguaci di bere il suo sangue e di mangiare il suo corpo, non parlava per parabola, non chiedeva magica transustanziazione, non poneva la base per secoli di ripetizioni simboliche. Gesù volle che bevessero del suo sangue, poche gocce in un grande boccale di vino, e che mangiassero del suo corpo, pochi frammenti di pelle in una forma di pane. Diede una parte di sé nel senso più letterale, sapendo che coloro che bevevano del suo sangue avrebbero condiviso il suo DNA e sarebbero stati in grado di percepire il potere del Vuoto che lega nell’universo.

«E così fu per alcuni dei suoi discepoli. Ma, di fronte a percezioni e impressioni molto al di là della loro capacità di comprenderle o di collegarle, resi quasi pazzi dalle incessanti voci dei morti e dalle proprie reazioni al linguaggio dei vivi, e incapaci di trasmettere ad altri la propria musica del sangue, quei discepoli passarono ai dogmi, ridussero l’inesprimibile a rozze parole e ampollosi sermoni, a ferree regole e infiammata retorica. E la visione impallidì, poi svanì. La porta si chiuse.»

Aenea si interrompe di nuovo e sorseggia un po’ d’acqua da un boccale di legno. Noto solo allora che Rachel e Theo e alcuni altri hanno le lacrime agli occhi. Senza alzarmi dal tatami, mi giro e guardo dietro di me. A. Bettik, fermo nel vano della porta, con un’espressione seria sul viso azzurro senza età, segue con grande attenzione le parole della nostra giovane amica. Con la destra si regge il moncherino del braccio sinistro. Mi domando se gli duole.

Aenea riprende a parlare. «Cosa abbastanza strana, i figli della Vecchia Terra che per primi riscoprirono la chiave per il Vuoto che lega furono le entità del TecnoNucleo. Le intelligenze autonome, impegnate nel tentativo di guidare il loro stesso destino mediante l’evoluzione spinta a velocità milioni di volte superiore a quella biologica della specie umana, trovarono il codice chiave DNA per scorgere il Vuoto, anche se "scorgere" non è la parola giusta, naturalmente. Forse "risonare" esprime meglio il senso.

«Ma quelle entità potevano percepire ed esplorare i contorni del Vuoto che lega, inviare sonde nella sua realtà multidimensionale post-Hawking, ma non potevano capirlo! Il Vuoto che lega richiede un livello di empatia senziente che il TecnoNucleo non si è mai preoccupato di sviluppare. Il primo passo verso il vero satori nel Vuoto è l’apprendimento del linguaggio degli amati defunti: e le entità del Nucleo non hanno amati defunti! Il Vuoto che lega era come un magnifico quadro per un cieco che lo brucia come legna da ardere, o come una sinfonia di Beethoven per un sordo che percepisce la vibrazione e rinforza il pavimento per smorzarla.

«Anziché usare il Vuoto che lega come l’ambiente che è, le entità del TecnoNucleo ne liberarono frammenti e li offrirono all’uomo, spacciandoli per abili tecnologie. Il cosiddetto motore Hawking in realtà non si è sviluppato dall’opera dell’antico maestro Stephen Hawking, come sostiene il Nucleo, ma è una perversione delle sue scoperte. Le navi a motore Hawking che intesserono la Rete dei Mondi e permisero l’esistenza dell’Egemonia, funzionavano strappando piccoli buchi nel non-tessuto ai margini del Vuoto: un vandalismo di scarsa importanza, ma pur sempre vandalismo. I teleporter erano una faccenda diversa. Qui, amici miei, le mie similitudini non ci aiutano: imparare a camminare nell’ambiente Vuoto che lega è un po’ come imparare a camminare sull’acqua, se mi perdonate l’hybris ispirata alle sacre scritture, mentre i cunicoli teleporter del TecnoNucleo erano un po’ come prosciugare gli oceani per costruire autostrade sul letto del mare. La creazione di tunnel nell’ambito del Vuoto danneggiava parecchi miliardi di anni di crescita organica. Equivaleva ad asfaltare grandi tratti di una foresta vitale e rigogliosa. Ma pure questo paragone è insufficiente, perché sarebbe necessario che la foresta fosse costituita dei ricordi e delle voci dei milioni di esseri da noi amati e perduti, e che le autostrade asfaltate fossero larghe migliaia di chilometri, perché possiate capire solo una briciola del danno arrecato.

«Anche il cosiddetto astrotel che consentì la comunicazione istantanea nell’Egemonia era una perversione del Vuoto che lega. Di nuovo le mie similitudini sono rozze e inadeguate; ma immaginate alcuni aborigeni umani che scoprano una griglia elettromagnetica di telecomunicazioni funzionante — studi televisivi, olocamere, attrezzature per il suono, generatori, trasmettitori, satelliti relè, ricevitori, proiettori — e che rovinino tutto ciò su cui riescono a mettere le mani in modo da utilizzare i rottami come bandierine da segnalazione. È ancora peggio. È peggio di quanto non fosse nei giorni pre-Egira sulla Vecchia Terra, quando le gigantesche petroliere e le navi oceaniche assordavano le balene riempiendo di rumori meccanici i mari e soffocavano così i loro canti della vita e distruggevano una millenaria storia di canto in evoluzione, perfino prima che l’uomo sapesse che era cantato. Dopo questo, le balene decisero tutte di morire; a ucciderle non fu la caccia per ricavarne cibo e olio, ma la distruzione dei loro canti.»

Aenea prende fiato. Flette le dita come se avesse crampi alle mani. Si guarda intorno e sfiora con gli occhi ciascuno di noi.

«Mi spiace» dice. «Sto divagando. Basti dire che, con la Caduta dei teleporter, le altre specie che utilizzavano il Vuoto che lega decisero di fermare il vandalismo dell’astrotel. Queste altre specie da tempo hanno inviato osservatori a vivere tra noi…»

Nella stanza c’è un improvviso bisbiglio, un mormorio. Aenea sorride e aspetta che torni il silenzio.

«Lo so» dice. «L’idea sorprese anche me, per quanto ne fossi a conoscenza già prima di nascere. Questi osservatori hanno una funzione importante: decidere se si possa confidare che l’uomo si unisca a loro nell’ambiente Vuoto che lega o se siamo soltanto vandali. Fu uno di questi osservatori tra noi a ordinare che la Vecchia Terra fosse portata via prima che il TecnoNucleo la distruggesse. E fu uno di questi osservatori a progettare i test e le simulazioni effettuate sulla Vecchia Terra negli ultimi tre secoli d’esilio nella Piccola Nube di Magellano, per capire meglio la nostra specie e per misurare l’empatia di cui siamo capaci.

«Queste altre specie hanno anche mandato osservatori, spie se preferite, tra gli elementi del TecnoNucleo. Sapevano che erano state le manomissioni del Nucleo a danneggiare i confini del Vuoto, ma sanno pure che siamo stati noi a creare il TecnoNucleo. Molti dei… residenti non è la parola giusta… collaboratori? cocreatori?… del Vuoto che lega sono di diritto creature ex silicee, intelligenze autonome inorganiche. Ma non della varietà che oggi domina il TecnoNucleo. Nessuna specie senziente può apprezzare il Vuoto che lega senza avere sviluppato empatia.»

Solleva un poco le ginocchia, vi posa i gomiti, si sporge e continua a parlare.

«Mio padre, il cìbrido John Keats, fu creato per questa ragione» dice, in un tono piatto che però alle mie orecchie non riesce a celare un substrato emotivo. «Come ho spiegato in precedenza, il Nucleo è in costante stato di guerra civile, dove quasi ogni entità combatte per se stessa e per nessun altro. È solo un caso di iper-iper-iperparassitismo alla decima potenza. Le prede, altri elementi del Nucleo, non vengono tanto uccise quanto assorbite, cannibalizzando codice genetico, memoria, software, sequenze riproduttive. L’elemento cannibalizzato "vive" ancora, ma come subcomponente degli elementi vincitori che presto si azzuffano fra loro per avere parti di ricambio. Le alleanze sono temporanee. Non esistono filosofie, credi, mete finali, solo accordi temporanei per ottimizzare strategie di sopravvivenza. Ogni azione nel Nucleo è un risultato del gioco somma-zero che vi è stato giocato fin da quando gli elementi del Nucleo si svilupparono in entità senzienti. Molti elementi del Nucleo sono capaci di trattare con la specie umana solo in termini di somma-zero, ottimizzando la loro strategia parassitica in relazione a noi. Guadagno loro, perdita nostra. Guadagno nostro, perdita loro.

«Nel corso dei secoli tuttavia alcuni di questi elementi del Nucleo sono giunti a capire il vero potenziale del Vuoto che lega. Capiscono che la loro specie di intelligenza senza empatia non può mai essere parte di quell’amalgama di specie viventi e scomparse. Sono giunti a capire che il Vuoto che lega non era tanto costruito quanto frutto di evoluzione, come una scogliera corallina, e che loro non vi troveranno mai riparo, a meno di cambiare alcuni parametri della propria esistenza.

«Così si sono evolute alcune entità del Nucleo, non altruisti, ma disperati sopravvivenzialisti che capivano che l’unica via per vincere alla fine il loro eterno gioco somma-zero era quella di fermare il gioco. E per fermare il gioco dovevano evolversi in una specie capace di empatia.

«Il Nucleo sa che Teilhard de Chardin e altri sentimentalisti rifiutarono di riconoscere che l’evoluzione non è progresso, che non esiste "meta" né direzione verso l’evoluzione. Evoluzione è cambiamento. L’evoluzione "ha successo" se quel cambiamento meglio adatta una foglia o un ramo del proprio albero di vita alle condizioni dell’universo. Perché quella evoluzione "avesse successo" per quegli elementi del Nucleo occorreva che essi abbandonassero il parassitismo e scoprissero la vera simbiosi. Sarebbero dovuti entrare in onesta competizione evolutiva con la nostra specie umana.

«Dapprima gli elementi fuorilegge del Nucleo proseguirono nel cannibalismo per favorire l’evoluzione di elementi più predisposti all’empatia. Riscrissero il proprio codice per quanto ne erano in grado. Poi crearono il cìbrido John Keats, un pieno tentativo di simulare un organismo empatico con corpo e DNA di un essere umano e le memorie ammassate nel Nucleo e la personalità di un cìbrido. Elementi contrari distrussero il primo cìbrido Keats. Il secondo Keats fu creato a immagine del primo. Questo cìbrido assunse mia madre, una investigatrice privata, perché lo aiutasse a svelare il mistero della morte del primo Keats.»

Aenea sorride e per un momento pare dimentica di noi e perfino del suo racconto. Come se rivivesse vecchi ricordi. Mi torna in mente allora ciò cui una volta accennò casualmente durante la nostra fuga da Hyperion nella vecchia nave del console: "Raul, i ricordi di mia madre e di mio padre sono stati riversati in me prima che nascessi, addirittura prima che divenissi un vero feto. Puoi immaginare qualcosa di più distruttivo per la personalità di un infante che essere inondato dalla vita di altri, ancora prima di cominciare la propria? Non c’è da meravigliarsi se sono così incasinata".

Per me, in questo momento, Aenea non ha l’aspetto e il comportamento di una personalità incasinata. Ma io l’amo più della vita stessa.

«Il cìbrido Keats assunse mia madre per risolvere il mistero della morte della propria personalità» continua piano Aenea «ma in verità sapeva che cos’era accaduto al suo precedente se stesso. La vera ragione per cui assunse mia madre era un’altra: conoscere mia madre, stare con mia madre, diventare l’amante di mia madre.» Si interrompe per un attimo e sorride, pare vedere cose remote. «Nei suoi Canti, zio Martin non ha mai esposto in modo corretto questa parte. I miei genitori erano sposati e non credo che a zio Martin l’abbiano mai detto, sposati dal vescovo del Tempio Shrike su Lusus. Quella era una setta religiosa, ma una setta legale, e il matrimonio dei miei genitori sarebbe stato legalmente riconosciuto su duecento pianeti dell’Egemonia.» Sorride di nuovo e guarda direttamente me, da sopra la folla ammassata nella stanza. «Sarò anche una bastarda, sapete, ma non sono nata bastarda.»

Poi riprende: «Così erano sposati e io fui concepita… probabilmente prima della cerimonia nuziale. Poi alcuni elementi sostenuti dal Nucleo assassinarono mio padre, prima che mia madre iniziasse il pellegrinaggio allo Shrike su Hyperion. E questa sarebbe dovuta essere la fine di ogni contatto fra mio padre e me, se non ci fossero state due cose: la sua personalità del Nucleo era stata imprigionata su un disco d’iterazione Schrön impiantato dietro l’orecchio di mia madre. Per alcuni mesi lei fu gravida di due di noi, di me nel ventre e di mio padre, la seconda personalità John Keats, nell’iterazione Schrön. La personalità di mio padre non poteva comunicare con mia madre, essendo prigioniera nel ciclo senza fine dell’iterazione Schrön, ma comunicava abbastanza facilmente con me. Il difficile è definire che cosa a quel punto fosse "me". Mio padre collaborò, entrando nel Vuoto che lega e portando con sé il fetale "me". Vidi che cosa sarei dovuta essere, chi sarei stata, perfino come sarei morta, ancora prima che le mie dita si fossero formate.

«E c’è un altro particolare che zio Martin non riporta nei Canti. Il giorno in cui uccisero mio padre sui gradini del Tempio Shrike nel Concourse Mall su Lusus, mia madre fu coperta del suo sangue, il DNA di John Keats, ricostruito e migliorato nel Nucleo. Ciò che non capì appieno a quel tempo è che il sangue di suo marito era letteralmente la più preziosa risorsa dell’universo umano in quel momento. Il DNA di mio padre era stato progettato per contagiare altri offrendo il suo solo dono: l’accesso al Vuoto. Mescolato correttamente con DNA del tutto umano, avrebbe offerto il dono di sangue che avrebbe aperto all’intera specie umana la porta d’ingresso al Vuoto che lega.

«Io sono quella mistura. Porto in me la capacità genetica di accedere al Vuoto che lega dal TecnoNucleo e la troppo raramente usata capacità umana di percepire l’universo tramite l’empatia. Per il meglio o per il peggio, chi berrà il mio sangue non vedrà mai più come prima il mondo o l’universo.»

Mentre dice queste parole, si alza in ginocchio sulla stuoia tatami. Theo porta un panno di lino bianco. Rachel riempie da un vaso di vino rosso sette grandi coppe. Aenea prende dal giubbotto un piccolo involto — lo riconosco, un medikit della nave — ne toglie un bisturi sterilizzato e un tampone antisettico. Esita prima di usare il bisturi e con lo sguardo passa in rassegna la folla. Non c’è il minimo suono, come se i cento e passa presenti trattenessero il fiato.

«Non avrete garanzia di felicità, saggezza o lunga vita, se berrete di me stasera» dice Aenea, molto piano. «Non c’è nirvana. Non c’è salvezza. Non c’è vita dopo la morte. Non c’è rinascita. C’è solo immensa conoscenza, tanto del cuore quanto della mente, e il potenziale per grandi scoperte, grandi avventure e una garanzia di maggiori sofferenze e di terrori che compensano tanta parte della nostra breve vita.»

Guarda di viso in viso, sorride nell’incrociare lo sguardo del giovanissimo Dalai Lama. «Alcuni di voi» riprende «hanno partecipato a tutte le nostre riunioni nell’ultimo anno. Vi ho detto ciò che so su questo: apprendere il linguaggio dei morti, apprendere il linguaggio dei vivi, ascoltare la musica delle sfere e apprendere come muovere il primo passo.»

Guarda direttamente me. «Alcuni di voi hanno ascoltato solo alcune discussioni. Non eravate qui, quando ho parlato della vera funzione del crucimorfo della Chiesa o della vera identità dello Shrike. Non avete ascoltato i particolari dell’apprendere il linguaggio dei morti né gli altri fardelli dell’ingresso nel Vuoto che lega. A quelli di voi che dubitano e che esitano, consiglio di aspettare. Agli altri ripeto: non sono un messia, ma un maestro. Se ciò che vi ho insegnato in questi mesi vi sembra verità e se volete correre questo rischio, bevete di me stanotte. State attenti: il DNA che ci concede di percepire l’ambiente Vuoto che lega non può coesistere col crucimorfo. Quel parassita avvizzirà e morirà entro ventiquattr’ore da quando avrete bevuto il sangue. Non crescerà mai più in voi. Se cercate risurrezione attraverso il crucimorfo, non bevete il sangue del mio corpo in questo vino.

«E state attenti: diverrete, come me, nemici della Pax, disprezzati e perseguitati. Il vostro sangue sarà contagioso. Coloro con cui lo dividerete, coloro che sceglieranno di trovare il Vuoto che lega mediante la condivisione del vostro DNA, saranno a loro volta disprezzati.

«E state attenti, infine: una volta bevuto questo vino, avrete figli con la capacità di entrare nel Vuoto che lega. Per il meglio o per il peggio, i vostri figli e i loro figli nasceranno conoscendo il linguaggio dei morti, il linguaggio dei vivi, sentiranno la musica delle sfere e sapranno di poter compiere il primo passo nel Vuoto che lega.»

Con la lama affilata del bisturi Aenea si tocca il dito. Una gocciolina di sangue è visibile nella luce di lanterna. Rachel regge una coppa, la goccia di sangue cade nel vino. L’operazione è ripetuta per la coppa successiva, finché tutte e sette non sono state… contaminate? transustanziate? La mente mi vacilla. Il cuore mi batte come allarmato. Mi pare una selvaggia parodia della santa comunione della Chiesa cattolica. È forse… la mia giovane amica, la mia tenera amante, la mia amata… è forse impazzita? È davvero convinta di essere un messia? No, ha già detto di non essere un messia. E io, credo io che sarò trasformato per sempre, bevendo del vino che è, una parte per milione, il sangue della mia amata? Non so. Non capisco.

Circa metà dei presenti si mette in fila per bere un sorso da una delle grandi coppe. "Calici?" penso. "È blasfemia. Non è giusto. O sì?" Un sorso è tutto ciò che prendono, poi tornano al proprio posto sui tatami. Nessuno pare particolarmente rinvigorito o illuminato. Nessun paio di raggi di luce risplende dalla fronte di alcuno, dopo che ha condiviso il vino. Nessuno levita a mezz’aria, nessuno parla tutte le lingue. Ciascuno beve un sorso e torna a sedersi.

Mi rendo conto di perdere tempo, di cercare lo sguardo di Aenea. Ho tante di quelle domande… Dimessamente, sentendomi un traditore nei confronti di una persona di cui dovrei fidarmi senza esitazioni, mi accodo alla fila sempre più corta.

Aenea mi vede. Alza brevemente la mano, palma verso di me. Il senso è chiaro: "Non ora, Raul. Non ancora". Esito un altro istante, irresoluto, nauseato al pensiero che questi altri, questi estranei, entrino in intimità con la mia amata, mentre io non posso. Poi, col cuore che batte forte e il viso tutto rosso, torno a sedere sulla mia stuoia.

Non c’è una conclusione ufficiale della serata. Le persone cominciano ad andare via, due tre per volta. Una coppia — lei ha bevuto il vino, lui no — se ne va mano nella mano, come se niente fosse cambiato. Forse niente è cambiato davvero. Forse la comunione rituale cui ho appena assistito è semplice metafora e simbolismo, o autosuggestione e autoipnosi. Forse coloro che vorranno con tutte le forze percepire una cosa definita Vuoto che lega avranno una esperienza interiore che li convincerà che sia accaduto. Forse sono tutte stronzate.

Mi strofino la fronte. Ho un tale mal di testa! Per fortuna non ho bevuto il vino, mi dico. Il vino a volte mi dà l’emicrania. Ridacchio e per un momento mi sento malato e vuoto, lasciato indietro.

Rachel dice: «Non dimenticate che l’ultima pietra sarà sistemata sulla passerella domani a mezzogiorno. Ci sarà una festicciola nella piattaforma di meditazione superiore! Ciascuno porti i propri rinfreschi».

Così termina la serata. Torno su, alla piattaforma per dormire che divido con Aenea; sento una mistura di euforia, aspettativa, rimpianto, imbarazzo, eccitazione e un sordo mal di testa. Ammetto con me stesso di non avere capito nemmeno metà delle spiegazioni di Aenea, ma vado via con un vago senso di disappunto e di inadeguatezza. Sono sicuro, per esempio, che l’ultima cena di Gesù Cristo non si è conclusa con qualcuno che ricordava agli altri di portare i propri rinfreschi alla festicciola sulla piattaforma superiore.

Ridacchio e poi ingoio la risatina. Ultima cena. Le due parole hanno un suono terribile. Il cuore riprende a battermi forte e il mal di testa peggiora. Non è davvero il modo di entrare nella stanza da letto della propria amata!

L’aria gelida sulla passerella più in alto mi schiarisce un po’ la mente. L’Oracolo è appena una falce sulle torreggianti nubi cumuliformi a est. Le stelle paiono fredde, stanotte.

Mentre sto per entrare nella stanza che divido con Aenea e accendere la lanterna, il cielo esplode all’improvviso.

21

Dai livelli inferiori salirono tutti, tutti quelli che erano rimasti nel Tempio a mezz’aria anche dopo avere terminato la maggior parte del lavoro: Aenea e A. Bettik, Rachel e Theo, George e Jigme, Kuku e Kay, Chim Din e Gyalo Thondup, Lhomo e Labsang, Kim Byung-Soon e Vikj Grosely, Kenshiro e Haruyuki, l’abate capo Kempo Ngha Wang Tashi e il suo signore, il giovane Dalai Lama, Voytek Majer e Janusz Kurtyka, l’accigliato Rimsi Kyipup e il sorridente Changchi Kenchung, la Dorje Phamo e Carl Linga William Eiheji. Aenea venne al mio fianco e infilò la mano nella mia: guardammo il cielo, in un silenzio pervaso di timore reverenziale.

Sono sorpreso che non restassimo tutti accecati dallo spettacolo luminoso in atto lassù dove un attimo prima c’erano le stelle: grandi fiori di luce bianca, lampeggi di giallo sulfureo, ardenti striature rosse, molto più luminose della coda di una cometa o della scia di un meteorite, intersecate di sfregi blu, verde, bianco, giallo, ciascuno chiaro e dritto come graffio di diamante su vetro; poi improvvise vampate arancione che parevano ripiegarsi su se stesse in silenziose implosioni, seguite da altri lampeggi bianchi e da una nuova serie di sfregi rossi. Tutto accadeva in silenzio, ma la violenza della luce, da sola, ci faceva venire voglia di coprirci le orecchie e di rannicchiarci in un luogo riparato.

«Per i dieci inferni, che diavolo è?» domandò Lhomo Dondrub.

«Battaglia spaziale» rispose Aenea. La sua voce aveva un tono terribilmente stanco.

«Non capisco» disse il Dalai Lama. Non pareva spaventato, solo curioso. «Le autorità della Pax ci hanno assicurato che avevano in orbita solo una nave, la Jibril mi pare si chiami, in missione diplomatica, non militare. Anche il reggente Reting Tokra me l’ha garantito.»

La Scrofa Folgore sbuffò, aspra. «Il reggente, Santità, è sul libro paga dei bastardi della Pax.»

Il bambino la guardò, sorpreso.

«Credo sia vero, Santità» intervenne Eiheji, la sua guardia del corpo. «Ho sentito delle voci, a palazzo.»

Il cielo era tornato quasi nero, ma ora esplose di nuovo in una ventina di punti. Dietro di noi, la parete rocciosa dello strapiombo sanguinava di riflessi rossi, verdi, gialli.

«Come possiamo vedere le loro lance laser se non c’è polvere o altre particelle colloidali a metterle in rilievo?» domandò il Dalai Lama, con un luccichio negli occhi. A quanto pareva, la notizia del tradimento del reggente non l’aveva sorpreso, o lo interessava meno della battaglia in corso nello spazio, migliaia di chilometri sopra di noi. Notai che la suprema figura sacra del mondo buddhista era stata istruita anche nelle materie scientifiche fondamentali.

Fu di nuovo la sua guardia del corpo a rispondere. «Di sicuro alcune navi sono state già colpite e distrutte, Santità» disse Eiheji. «I raggi di luce coerente e i CPB diventano visibili dove si espandono i campi di detriti, di ossigeno congelato, di polvere molecolare e di altri gas.»

La spiegazione provocò nel nostro gruppo un momento di silenzio.

«Mio padre vide una scena del genere su Hyperion» mormorò Rachel. Si strofinò le braccia nude come se sentisse un gelo improvviso.

Guardai con sorpresa la ragazza. Avevo udito il commento di Aenea sul padre della sua amica, Sol (conoscevo i Canti abbastanza bene da identificare Rachel come la neonata del leggendario pellegrinaggio su Hyperion, la figlia di Sol Weintraub) ma ero rimasto un po’ dubbioso, lo ammetto. Nei Canti la neonata Rachel era divenuta la quasi mitica Moneta, quella che aveva viaggiato a ritroso nel tempo, nelle Tombe, insieme con lo Shrike. Come poteva, quella Rachel, essere qui ora?

Aenea circondò col braccio le spalle di Rachel. «La vide anche mia madre» disse piano. «Ma a quel tempo si pensava che fossero le forze dell’Egemonia contro gli Ouster.»

«E questi chi sono allora?» domandò il Dalai Lama. «Gli Ouster contro la Pax? E perché navi della Pax vengono, non invitate, nel nostro sistema?»

Alcune sfere di luce bianca pulsarono, si dilatarono, si affievolirono e morirono. Battemmo tutti le palpebre per eliminare l’eco retinica.

«Credo, Santità, che le navi da guerra della Pax fossero già qui all’arrivo della loro nave diplomatica» disse Aenea. «Ma non credo che combattano contro gli Ouster.»

«Contro chi, allora?» domandò il bambino.

All’improvviso risuonò una serie di esplosioni completamente diverse dalle altre, esplosioni più ravvicinate, più violente, seguite da tre ardenti scie meteoriche. Una scia esplose subito negli strati superiori dell’atmosfera e provocò una pioggia di detriti più piccoli che in breve si spense. La seconda saettò verso ovest, passò dal giallo al rosso al bianco abbacinante, si frantumò venti gradi sopra l’orizzonte e riversò una serie di scie minori lungo le nubi a ovest. La terza stridette nel cielo dall’ovest dello zenit all’orizzonte orientale (e dico volutamente "stridette", perché udimmo il rumore, dapprima un sibilo da teiera in ebollizione, poi un ululato, poi un terrificante ruggito da tornado, che diminuì con la stessa rapidità con cui si era manifestato) e infine si frammentò verso est in tre o quattro grosse masse ardenti che morirono, tutte tranne una, prima di raggiungere l’orizzonte. L’ultimo frammento ardente di astronave parve dibattersi in volo negli istanti conclusivi, preceduto da vampate di luce gialla che lo rallentavano, e poi scomparve.

Aspettammo ancora una trentina di minuti sulla piattaforma superiore, ma non rimase niente da vedere, a parte decine di fiammeggianti scie di fusione, nei primi minuti: astronavi che acceleravano allontanandosi da T’ien Shan. Alla fine le stelle furono di nuovo gli oggetti più luminosi nel cielo e tutti se ne andarono, il Dalai Lama per dormire nei quartieri dei monaci lì in alto, gli altri per raggiungere i quartieri permanenti o temporanei dei livelli inferiori.

Aenea chiese ad alcuni di noi di trattenersi: a Rachel e a Theo, a Aenea e a Lhomo Dondrub, a me.

«Questo è il segno che aspettavo» disse a voce molto bassa, quando sulla piattaforma restammo solo noi. «Dobbiamo andarcene domani.»

«Andarcene?» ripetei, sorpreso. «Dove? Perché?»

Aenea mi toccò il braccio. Interpretai il gesto come un: "Ti spiegherò più tardi". Rimasi in silenzio, mentre gli altri parlavano.

«Le ali sono pronte, maestra» disse Lhomo.

«Mentre eravate via» disse A. Bettik «mi sono preso la libertà di controllare le dermotute e i riciclo-respiratori nella stanza del signor Endymion. Sono in perfetto stato.»

«Termineremo il lavoro e organizzeremo la cerimonia domani» disse Theo.

«Vorrei venire anch’io» sospirò Rachel.

«Venire dove?» domandai, malgrado mi fossi imposto di tacere e ascoltare.

«Tu sei invitato» disse Aenea, sempre toccandomi il braccio. Non era una vera risposta alla mia domanda. «Anche tu, Lhomo, e tu, A. Bettik, se siete ancora disposti.»

Lhomo Dondrub rispose con un ampio sorriso. L’androide annuì. Cominciai a pensare di essere l’unico nel comprensorio del tempio a non capire che cosa accadeva.

«Buona notte a tutti» disse Aenea. «Partiremo alle prime luci. Non occorre che veniate a salutarci.»

«Non scherzare!» protestò Rachel, mentre Theo annuiva, d’accordo con lei. «Saremo qui a dirti addio.»

Aenea accondiscese con un cenno e toccò il braccio alle amiche. Tutti scesero le scale a pioli o si lasciarono scivolare lungo i cavi.

Aenea e io restammo da soli sulla piattaforma superiore. Il cielo, dopo la battaglia, pareva buio. Capii che le nuvole si erano alzate sopra la linea della cresta e che cancellavano le stelle come uno straccio umido passato su una lavagna nera. Aenea aprì la porta della sua stanza da letto, entrò, accese la lanterna e tornò indietro, fermandosi nel vano d’ingresso. «Non vieni, Raul?»


Parlammo. Ma non subito.

L’atto amoroso pare assurdo a esprimerlo in parole; anche il momento pare assurdo, a pensarci, con il cielo che letteralmente cadeva e la mia amante che quella sera aveva appena terminato una convocazione tipo ultima cena… ma l’amore non è mai assurdo, quando si fa con la persona che si ama veramente. Come era per me. Se prima della sera dell’ultima cena non l’avevo capito, lo capii allora, completamente, in tutti gli aspetti, senza riserve.

Forse un paio d’ore più tardi, Aenea si mise un kimono, io indossai uno yukata e dalla stuoia letto ci spostammo accanto ai paraventi shoji aperti. Aenea preparò il tè nel fornello più piccolo posto nel tatami; prendemmo una tazza ciascuno e ci sedemmo con la schiena contro le opposte intelaiature shoji, con i piedi e le gambe a contatto, il mio fianco destro e il suo ginocchio sinistro allungati sopra il precipizio lungo chilometri. L’aria era fresca e odorava di pioggia, ma la tempesta si era spostata a nord rispetto a noi. La cima dell’Heng Shan era avvolta nelle nubi, ma tutte le creste inferiori erano illuminate da un continuo gioco di lampi.

«Rachel è davvero la Rachel dei Canti?» dissi. Avrei voluto porre un’altra domanda, per me ben più importante, ma non trovavo il coraggio.

«Sì» rispose Aenea. «È la figlia di Sol Weintraub, la donna che su Hyperion fu colpita dal morbo di Merlino e che per ventisette anni invecchiò al contrario fino a tornare la neonata che Sol portò con sé nel pellegrinaggio.»

«Ed era conosciuta anche come Moneta. E Mnemosine…»

«Ammonitrice e Memoria» mormorò Aenea. «Nomi appropriati per il suo ruolo in quel tempo.»

«Ma accadde duecentottanta anni fa! A decine di anni luce di distanza da qui… su Hyperion. Com’è arrivata su T’ien Shan?»

Aenea sorrise. Il tè caldo sprigionava vapori che le salivano fino ai capelli. «Ho iniziato la mia vita più di duecentottanta anni fa» disse. «A decine di anni luce di distanza… su Hyperion.»

«Allora ha fatto il tuo stesso percorso? Attraverso le Tombe del Tempo?»

«Sì e no.» Alzò la mano per bloccare le mie proteste. «So che vuoi risposte dirette, Raul. Niente parabole né similitudini né discorsi evasivi. D’accordo. È il momento di parlare chiaro. Ma la verità è che la Tomba del Tempo detta Sfinge è solo una parte del viaggio di Rachel.»

Aspettai in silenzio che continuasse.

«Ricordi i Canti…» iniziò Aenea.

«Ricordo che il pellegrino Sol portò la figlia, dopo che il cìbrido Keats la salvò in qualche modo dallo Shrike e dopo che lei riprese a invecchiare normalmente, la portò nel futuro, entrando nella Sfinge…» Mi interruppi. «In questo futuro?»

«No» disse Aenea. «La neonata Rachel crebbe, divenne di nuovo bambina e giovane donna, in un futuro al di là di questo. Suo padre la allevò una seconda volta. La loro storia è… meravigliosa, Raul. Letteralmente piena di meraviglie.»

Mi strofinai la fronte. Il mal di testa mi era passato, ma minacciava di tornare. «Ed è venuta qui passando di nuovo dalle Tombe? Muovendosi con quelle a ritroso nel tempo?»

«In parte. Rachel è anche in grado di muoversi nel tempo per proprio conto.»

La fissai a bocca aperta. Quelle parole rasentavano la follia.

Aenea sorrise come se mi leggesse nel pensiero, o leggesse solo la mia espressione. «So che sembra follia, Raul. Molto di ciò che dobbiamo ancora incontrare è davvero bizzarro.»

«Mi sembra un eufemismo» replicai. Un altro ingranaggio mentale scattò al suo posto. «Theo Bernard!» dissi.

«Sì?»

«C’era un Theo, nei Canti, no? Un uomo…» Esistevano varie versioni del racconto orale, il poema da cantare, e molti particolari secondari erano eliminati nelle versioni più brevi e popolari. Nonna mi aveva fatto imparare a memoria quasi tutto il poema completo, ma non mi ero mai interessato molto alle parti più noiose.

«Theo Lane» disse Aenea. «Per un certo periodo, aiutante del console su Hyperion; più tardi, primo governatore generale del nostro pianeta per conto dell’Egemonia. Lo incontrai in una occasione, da ragazzina. Un uomo per bene. Tranquillo. Portava antiquati occhiali…»

«Questa Theo» dissi, cercando di capire. Chissà, pensai, forse aveva cambiato sesso.

Aenea scosse la testa. «Vicina, ma niente sigaro, come avrebbe detto Freud.»

«Chi?»

«Theo Bernard è la pro-pro-pro-eccetera-nipote di Theo Lane» disse Aenea. «La sua storia è già un’avventura per suo conto. Ma Theo è nata in questa epoca, è fuggita davvero dalle colonie della Pax su Patto-Maui per unirsi ai ribelli, però l’ha fatto per una cosa che dissi a Theo Lane quasi tre secoli fa. Tramandata per tutte queste generazioni. Theo Lane sapeva che sarei stata su Patto-Maui nel periodo in cui vi andai…»

«Come?»

«Lo dissi a Theo» spiegò Aenea. «Gli dissi quando sarei stata su Patto-Maui. La notizia fu mantenuta viva nella sua famiglia, un po’ come il pellegrinaggio allo Shrike è stato mantenuto vivo nei Canti.»

«Allora puoi davvero vedere il futuro» dissi in tono piatto.

«I futuri» mi corresse Aenea. «Ti ho già detto che posso vederli. E mi hai ascoltato, stanotte…»

«Hai visto la tua stessa morte?»

«Sì.»

«Mi dirai ciò che hai visto?»

«Non ora, Raul. Ti prego. Quando sarà il momento.»

«Ma se ci sono più futuri» dissi, sentendo nella mia voce il grugnito di sofferenza «perché vedi per te una sola morte? Se puoi vederla, perché non puoi evitarla?»

«Potrei evitare quella particolare morte» mormorò Aenea «ma sarebbe la scelta sbagliata.»

«Come può essere sbagliato, scegliere la vita anziché la morte?» Mi resi conto d’avere gridato. Avevo stretto i pugni.

Aenea mi toccò i pugni, li circondò con le dita. «La questione è tutta qui» disse, così piano che fui costretto a sporgermi per sentirla. I lampi giocavano sulle spalle dell’Heng Shan. «La morte non è mai preferibile alla vita, Raul, ma a volte la scelta è necessaria.»

Scossi la testa. In quel momento avevo di sicuro un’aria imbronciata, ma me ne fregavo. «Mi dirai quando morirò?»

Mi guardò negli occhi. I suoi erano abissi neri. «Non lo so» rispose semplicemente.

Battei le palpebre. Mi sentivo vagamente ferito. Non le importava di guardare nel mio futuro?

«Certo che m’importa» mormorò Aenea. «Solo, ho deciso di non guardare quelle onde di probabilità. Vedere la mia morte è… difficile. Vedere la tua sarebbe…» Sentii un rumore strano e capii che piangeva. Mi girai sul tatami fino a circondarla con le braccia. Lei mi si strinse al petto.

«Mi spiace, ragazzina» dissi nei suoi capelli, anche se non avrei saputo definire per che cosa esattamente ero dispiaciuto. Era paradossale sentirsi così felice e così miserando nello stesso tempo. Il pensiero di perderla mi faceva venire voglia di urlare, di tirare sassate alla montagna. Quasi a echeggiare le mie sensazioni, il tuono brontolò dal picco a nord.

Le asciugai a baci le lacrime. Poi ci baciammo, il sale delle sue lacrime si mescolò col tepore della sua bocca. Poi facemmo di nuovo l’amore e stavolta fu lento, cauto, fuori del tempo, tanto quanto prima era stato urgente.

Quando fummo di nuovo distesi alla fresca brezza, a contatto di guancia, la sua mano sul mio petto, Aenea disse: «Vuoi chiedermi una cosa. Te lo leggo negli occhi. Cosa?».

Pensai a tutte le domande che mi si erano affollate nella mente poco prima, durante la "discussione", a tutti i suoi discorsi che mi ero perduto e di cui avevo bisogno per mettermi al passo e capire perché la cerimonia della comunione era necessaria: "A cosa serve in realtà il crucimorfo? Che cosa combina la Pax in quei pianeti da cui è scomparsa la popolazione? Che cosa spera di guadagnare il Nucleo in questa storia? Cosa diavolo è lo Shrike, un mostro o un difensore? Da dove è venuto? Che cosa accadrà a noi? Che cosa vede lei nel nostro futuro che dovrei conoscere, in modo che tutt’e due sopravviviamo, che lei eviti la sorte che conosce fin da prima della nascita? Qual è l’immenso segreto dietro il Vuoto che lega e perché è così importante collegarsi a esso? Come faremo ad andarcene da questo pianeta, se la Pax ha davvero affondato nella roccia fusa l’unico teleporter e se ci sono navi da guerra fra noi e la nave del console? Chi sono quegli ’osservatori’ di cui lei ha parlato, che da secoli spiano la specie umana? Cos’è questa storia di imparare il linguaggio dei morti e tutto il resto? Perché Nemes e i suoi cloni non ci hanno ancora ucciso?".

Domandai: «Sei mai stata con un altro? Hai fatto l’amore con altri, prima di me?».

Follia pura. Non erano affari miei. Aenea aveva quasi ventidue anni. Ero già stato a letto con altre donne, non ricordavo il cognome nemmeno di una di loro, ma nella Guardia nazionale, mentre lavoravo nel Casinò Nove Code… che mi fregava se… che differenza faceva se… dovevo saperlo!

Aenea esitò solo un secondo. «La nostra prima volta insieme non è stata… la mia prima» disse.

Mi sentii un porco e un guardone, per averglielo chiesto. Avevo un dolore al petto, reale, simile a quello che, a quanto dicono, si prova per un attacco di angina. Non riuscii a fermarmi. «Lo amavi?» E pensai: "Come faccio a sapere che era un uomo? Theo… Rachel… si circonda di donne". Provai nausea di me stesso per averlo pensato.

«Io amo te, Raul» bisbigliò Aenea.

Era solo la seconda volta che diceva quella frase, la prima era stata quando ci eravamo salutati sulla Vecchia Terra, più di cinque anni e mezzo prima. Nel sentirla mi sarei dovuto esaltare. Ma quelle parole facevano troppo male. C’era qualcosa d’importante che non capivo.

«Però c’era un uomo» dissi, sentendo le parole uscirmi di bocca come sassolini. «L’hai amato…» "Solo uno? Quanti?" Avrei voluto urlare ai miei pensieri di piantarla.

Aenea mi mise il dito sulle labbra. «Io amo te, Raul. Non dimenticartene, mentre ti dico queste cose. Tutto è… ingarbugliato. Da chi sono io. Da ciò che devo fare. Ma ti amo, ti ho amato dalla prima volta che ti ho visto nei sogni del mio futuro. Già ti amavo quando ci siamo incontrati nella tempesta di sabbia su Hyperion, con la confusione e gli spari e lo Shrike e il tappeto Hawking. Ricordi come ti stringevo, quando volavamo sul tappeto Hawking nel tentativo di fuggire? Ti amavo già allora…»

Rimasi in silenzio. Aenea spostò il dito, dalle mie labbra alla guancia. Sospirò, come se avesse sulle spalle il peso d’interi pianeti. «E va bene» disse piano. «Qualcuno c’è stato. Avevo già fatto l’amore. Noi…»

«Era una cosa seria?» la interruppi. La voce mi suonò strana, come quella artificiale della nave.

«Ci siamo sposati» disse Aenea.

Una volta, sul fiume Kans, su Hyperion, mi ero impegolato in una scazzottatura con un barcaiolo più vecchio di me, che pesava quasi il doppio e aveva molta più pratica di zuffe. Senza preavviso mi aveva beccato alla mascella, con un pugno che mi aveva annebbiato la vista, piegato le ginocchia, fatto barcollare contro la ringhiera della chiatta e cadere nel fiume. Il barcaiolo non mi aveva serbato rancore e si era tuffato a ripescarmi. In un paio di minuti avevo ripreso conoscenza, ma erano passate ore, prima che mi togliessi dalla testa il ronzio e riuscissi a mettere a fuoco la vista.

Stavolta fu ancora peggio. Potevo solo restare disteso lì dov’ero, guardare Aenea, la mia amata Aenea, e sentire le sue dita contro la mia guancia, strane e fredde e aliene come il tocco di un estraneo. Aenea scostò la mano.

Non era finita: c’era di peggio.

«I ventitré mesi, sette giorni e sei ore non giustificati» disse Aenea.

«Con lui?» Non ricordavo di avere formulato quelle due parole, ma furono dette con la mia voce.

«Sì.»

«Sposati…» Non riuscii a proseguire.

Aenea sorrise, ma fu il sorriso più triste che le abbia mai visto. «Da un prete» ammise. «Il matrimonio sarà legale agli occhi della Pax e della Chiesa.»

«Sarà?»

«È legale.»

«Sei ancora sposata?» Avevo voglia di alzarmi e di vomitare dall’orlo della piattaforma, ma non riuscivo a muovermi.

Per un momento Aenea parve confusa, incapace di rispondere. «Sì…» disse poi, con occhi lucidi di lacrime. «Cioè, no… non sono sposata, ora… tu… maledizione, se solo potessi…»

«Ma quell’uomo è ancora vivo?» la interruppi, con voce piatta e inespressiva come quella di un inquisitore del Sant’Uffizio.

«Sì» rispose Aenea. Si toccò la guancia. Le dita le tremavano.

«Lo ami, ragazzina?»

«Io amo te, Raul!»

Mi ritrassi leggermente, senza accorgermene, non di proposito; ma non potevo sopportare il suo contatto fisico, mentre discutevamo di quella faccenda.

«C’è un’altra cosa…» disse Aenea.

Rimasi in silenzio.

«Abbiamo… avrò… ho avuto un bambino, un figlio.» Mi guardò come per costringermi a capire solo con la forza del suo sguardo dritto nella mia mente. Non funzionò.

«Un figlio» ripetei stupidamente. La mia cara amica… la mia amica bambina diventata donna diventata amante… la mia amata aveva un figlio. «Quanti anni ha?» dissi, sentendo quella banale domanda come il tuono che brontoli più vicino.

Aenea parve di nuovo confusa, come incerta dei fatti. Alla fine disse: «Il bambino… non è in nessun posto dove possa ora trovarlo».

«Oh, ragazzina» dissi, dimenticando tutto all’infuori della sua sofferenza. La strinsi a me, mentre piangeva. «Mi dispiace, ragazzina… mi dispiace davvero» dissi, dandole dei colpetti sulla testa.

Aenea si scostò, si asciugò le lacrime. «No, Raul, non capisci. È tutto a posto… non è… questa parte è a posto…»

Mi ritrassi e la fissai: era straziata, singhiozzava. «Capisco» dissi. In realtà non capivo un bel niente.

«Raul…» La sua mano cercò la mia.

Le diedi un colpetto sulla mano, ma uscii dal letto, mi rivestii, presi l’imbracatura da scalata e il sacco, lasciati come al solito accanto alla porta.

«Raul…»

«Sarò di ritorno prima dell’alba» dissi, rivolto più o meno verso di lei, ma senza guardarla. «Vado solo a fare due passi.»

«Lasciami venire con te.» Si alzò, avvolta nel lenzuolo. Dietro di lei balenò il lampo. Un’altra tempesta in arrivo.

«Sarò di ritorno prima dell’alba» ripetei e varcai la porta prima che Aenea potesse vestirsi o unirsi a me così com’era.

Pioveva: una pioggia fredda, mista a nevischio. Sulle piattaforme si formò presto una patina scivolosa. Corsi giù per le scale a pioli e percorsi a passo svelto le scalinate vibranti, trovando la strada grazie alla luce dei lampi, senza rallentare finché non fui varie centinaia di metri più in basso sulla passerella della cresta orientale, diretto alla forra dove ero atterrato con la nave. Non volevo andare lì.

A mezzo chilometro dal tempio, corde fisse salivano in cima alla cresta. Ora il nevischio batteva contro la parete dello strapiombo; le corde rosse e nere erano rivestite di una patina di ghiaccio. Agganciai moschettoni alla corda e all’imbracatura, tolsi dal sacco gli ascenders a motore e li attaccai senza ricontrollare il collegamento; poi cominciai a risalire con le jumar le corde ghiacciate.

Il vento si alzò, mi sferzò il giubbotto, mi spinse lontano dalla parete rocciosa. Il nevischio mi tempestò la faccia e le mani. Non ci badai e salii, a volte scivolando indietro per tre o quattro metri, quando le ganasce delle jumar non facevano presa sulla corda ghiacciata, per poi riprendermi e arrampicarmi di nuovo. Dieci metri sotto l’affilata sommità della cresta, emersi dalle nubi come un nuotatore che venga a galla. Lassù le stelle ardevano ancora, gelide, ma la massa di nubi sempre più gonfie si ammucchiava contro la parete nord della cresta e montava come una marea biancastra intorno a me.

Feci scivolare gli ascenders più in alto e usai le jumar finché non raggiunsi la zona relativamente piatta dove erano agganciate le corde fisse. Solo allora mi accorsi di non avere agganciato la fune di sicurezza.

«Chi se ne frega» dissi e iniziai a camminare a nordest lungo la linea di displuvio larga quindici centimetri. La tempesta saliva intorno a me verso nord. Il precipizio a sud era chilometri di vuoto nero. Si erano già formate lastre di ghiaccio e cominciava a nevicare.

Mi misi a correre verso est, saltando le lastre di ghiaccio e le fessure, sbattendomene di tutto.


Mentre ero ossessionato dalla mia infelicità, altri eventi accadevano nell’universo umano. Su Hyperion, quando ero ragazzo, le notizie filtravano lentamente dalla Pax interstellare ai nostri carrozzoni in continuo movimento nelle brughiere: un avvenimento importante su Pacem o su Vettore Rinascimento o su un altro pianeta era necessariamente vecchio di molte settimane o mesi per il debito temporale, più altre settimane per il transito da Port Romance o da un’altra grande città alla nostra regione provinciale. Ero abituato a non badare agli avvenimenti accaduti altrove. Quando facevo la guida a cacciatori di altri pianeti nelle paludi e altrove, il ritardo nelle notizie era diminuito, ovviamente, ma si trattava sempre di notizie vecchie e per me di scarsa importanza. La Pax non mi incantava, anche se non potevo dire lo stesso del viaggio su altri pianeti. Poi ero rimasto in pratica isolato per quasi dieci anni: il nostro periodo sulla Vecchia Terra e la mia odissea con cinque anni di debito temporale. Non ero abituato a pensare a eventi in altri luoghi, se non quando mi toccavano da vicino, come per esempio l’ossessione della Pax per trovarci.

Ma presto il mio atteggiamento sarebbe cambiato.

Quella notte, su T’ien Shan, le Montagne del cielo, correvo come uno stupido tra il nevischio e la nebbia lungo la stretta cresta e intanto in altri luoghi accadevano alcuni eventi.

Sull’incantevole pianeta Patto-Maui, dove si potrebbe dire che circa quattro secoli fa sia iniziata con il corteggiamento tra Siri e Merin la lunga catena di eventi culminata con la presenza mia e di Aenea su T’ien Shan, infuriava la rivolta. I ribelli sulle isole mobili erano divenuti da tempo seguaci della filosofia di Aenea, avevano bevuto il vino della sua comunione, avevano rigettato per sempre la Pax e il crucimorfo e conducevano una guerra di sabotaggi e di resistenza, anche se tentavano di non ferire o uccidere i soldati della Pax che occupavano il pianeta. Patto-Maui poneva alla Pax particolari problemi perché era in primo luogo un pianeta turistico: ogni anno standard vi giungevano centinaia di migliaia di cristiani rinati, con navi a motore Hawking, per godersi i tiepidi mari, le magnifiche spiagge dell’arcipelago equatoriale, le migrazioni di delfini e di isole mobili. La Pax beneficiava anche delle centinaia di piattaforme petrolifere sparse per il pianeta in massima parte oceanico, situate fuori vista delle zone turistiche, ma vulnerabili ad attacchi lanciati dalle isole mobili o dai sommergibili dei ribelli. Ora molti turisti Pax avevano inspiegabilmente iniziato a rigettare il crucimorfo e divenivano seguaci degli insegnamenti di Aenea. Rinunciavano all’immortalità. Il governatore planetario, l’arcivescovo residente e i funzionari del Vaticano chiamati a risolvere la crisi non riuscivano a capirne le cause.

Sul gelido Sol Draconis Septem, dove la maggior parte dell’atmosfera era congelata in un unico imponente ghiacciaio, non c’erano turisti; ma il tentativo della Pax di colonizzare il pianeta negli ultimi dieci anni si era trasformato in incubo.

I gentili Chitchatuk con cui Aenea, A. Bettik e io avevamo fatto amicizia una decina di anni prima, erano diventati implacabili nemici della Pax. Il grattacielo sepolto nell’aria ghiacciata, dove padre Glauco accoglieva tutti i viaggiatori, prima di essere assassinato da Rhadamanth Nemes, risplendeva ancora di luce. I Chitchatuk mantenevano illuminato quel grattacielo come se fosse un luogo sacro. Chissà come, sapevano chi era responsabile della morte dell’inoffensivo prete cieco e della tribù di Cuchiat… Cuchiat, Chiaku, Aichacut, Cuchtu, Chithicia, Chatchia, tutte persone che Aenea, A. Bettik e io avevamo conosciuto. Davano la colpa alla Pax che tentava di colonizzare le fasce temperate lungo l’equatore, dove l’aria era gassosa e il grande ghiacciaio si scioglieva nell’antico permagelo.

Ma i Chitchatuk non conoscevano la comunione di Aenea e non ne avevano provato l’empatia, perciò calavano sulla Pax come una piaga biblica. Avvezzi da millenni a cacciare i terribili spettri delle nevi e a esserne vittime, ora spingevano verso le regioni equatoriali quelle bianche belve rintanate in cunicoli nel ghiaccio e le scatenavano contro i coloni della Pax e i missionari. Il costo in vite umane era spaventoso. Unità militari della Pax, chiamate per uccidere i primitivi Chitchatuk, mandarono pattuglie sul ghiacciaio e nei tunnel, ma non le rividero mai più.

Sul pianeta-città Vettore Rinascimento, la parola di Aenea si era diffusa tra milioni di seguaci. Ogni giorno migliaia di fedeli della Pax prendevano la comunione da quelli già cambiati (il crucimorfo moriva e si staccava in meno di ventiquattro ore) e sacrificavano l’immortalità per… che cosa? La Pax e il Vaticano non capivano e a quel tempo nemmeno io capivo.

Ma la Pax sapeva di dover contenere il virus. Soldati spalancavano a calci le porte e fracassavano finestre per entrare nelle case, giorno e notte, in genere nei quartieri più poveri, veteroindustrializzati, della città estesa sull’intero pianeta. Chi aveva rigettato il crucimorfo non opponeva grande resistenza: lottava con durezza, ma evitava di uccidere, se solo ce n’era il modo. I soldati della Pax non si facevano scrupolo di uccidere pur di eseguire gli ordini. Migliaia di seguaci di Aenea morirono della vera morte, ex immortali che non sarebbero mai più risuscitati, e decine di migliaia furono catturati, inviati in centri di detenzione e sistemati in celle di crio-fuga in modo che il loro sangue e la loro filosofia non contaminassero altri. Ma per ogni singolo seguace di Aenea ucciso o arrestato, decine — centinaia — rimanevano nascosti al sicuro e trasmettevano gli insegnamenti di Aenea, offrivano la comunione del proprio sangue mutato e a ogni occasione facevano resistenza in gran parte non violenta. La grande macchina di Vettore Rinascimento non si era ancora rotta, ma perdeva colpi e si inceppava in un modo mai visto da quando l’Egemonia aveva fatto di quel pianeta il centro industriale della Rete dei Mondi.

Il Vaticano inviò altre truppe e discusse sui passi da compiere.

Su Tau Ceti Centro, un tempo il punto focale politico della Rete dei Mondi, ma ora un semplice, popoloso e popolare pianeta giardino, la ribellione assunse una forma diversa. Visitatori di altri pianeti vi avevano portato il contagio anticrucimorfo, ma il problema principale del Vaticano riguardava l’arcivescovo Achilia Silvaski, una donna intrigante che più di due secoli prima aveva assunto il ruolo di governatore e di autocrate di Tau Ceti Centro. Era stata lei a tentare di far fallire la rielezione del papa, mediante intrighi fra i cardinali; e ora, dopo l’insuccesso, aveva semplicemente inscenato la propria versione della Riforma pre-Egira, annunciando che la Chiesa cattolica su Tau Ceti Centro avrebbe d’ora in avanti riconosciuto lei come pontefice e si sarebbe separata per sempre dalla "corrotta" Chiesa interstellare della Pax. Avendo prudentemente stabilito un’alleanza con i vescovi locali incaricati delle cerimonie e dei macchinari per la risurrezione, poteva controllare quel sacramento e di conseguenza la Chiesa locale. Cosa ancora più importante, aveva corteggiato le locali autorità militari della Pax offrendo terre, ricchezze e potere, e aveva provocato un evento senza precedenti: un colpo di mano che aveva deposto quasi tutti gli ufficiali anziani dell’esercito e della flotta della Pax nel sistema di Tau Ceti, sostituendoli con fautori della Nuova Chiesa. Non furono catturate navi classe Arcangelo, ma diciotto incrociatori e quarantuno navi torcia si misero alla difesa della Nuova Chiesa e del suo nuovo pontefice.

Decine di migliaia di leali membri della Chiesa protestarono. Furono arrestati, minacciati di scomunica (in altre parole, immediato ritiro del crucimorfo) e rilasciati sulla parola sotto l’occhio attento delle forze di sicurezza della Nuova Chiesa dell’arcivescovo neopontefice. I membri di vari ordini ecclesiastici, in particolare dei gesuiti di Tau Ceti Centro, si rifiutarono di cedere. Molti furono quietamente arrestati, scomunicati e giustiziati. Alcune centinaia tuttavia fuggirono e usarono la propria rete per organizzare la resistenza, all’inizio non violenta, poi sempre più aspra. Molti gesuiti avevano servito come preti ufficiali nell’esercito della Pax prima di tornare alla vita ecclesiastica civile e sfruttarono le loro abilità militari per creare devastazioni sul pianeta e intorno al pianeta.

Papa Urbano XVI e i suoi consiglieri della Flotta della Pax presero in esame le varie possibilità. Il colpo finale nella grande crociata contro gli Ouster era già stato ritardato dalle continue manovre di disturbo del capitano de Soya, dalla necessità di inviare unità della Flotta in una ventina di pianeti per soffocare le ribellioni provocate dal contagio di Aenea, dalle richieste logistiche per l’imboscata nel sistema T’ien Shan e ora da questa e altre ribellioni. Scartata la proposta dell’ammiraglio Marusyn — trascurare l’eresia dell’arcivescovo finché non fossero state raggiunte altre mete politico-militari — papa Urbano XVI e il suo segretario di Stato cardinale Lourdusamy decisero di inviare nel sistema di Tau Ceti venti navi classe Arcangelo, trentadue incrociatori vecchio tipo, otto navi da trasporto e cento navi torcia, anche se sarebbero occorse varie settimane di debito temporale per l’arrivo delle navi a propulsione Hawking. Una volta radunata nel sistema solare di Tau Ceti, quella task force doveva sopraffare ogni resistenza di naviglio ribelle, porsi in orbita intorno a Tau Ceti Centro, esigere la resa immediata dell’arcivescovo e di tutti i suoi sostenitori e — in caso contrario — scorificare tanta parte del pianeta quanto occorreva per distruggere le infrastrutture della Nuova Chiesa. Dopo di che, decine di migliaia di marines sarebbero scesi sul pianeta per occupare i restanti centri urbani e per ristabilire il governo della Pax e della Santa Madre Chiesa.

Su Marte, nel sistema solare della Vecchia Terra, la ribellione era peggiorata, malgrado gli anni di bombardamento dallo spazio e di continue incursioni militari dall’orbita. Due mesi standard prima, il governatore Clare Palo e l’arcivescovo Robeson erano morti della vera morte in un attacco nucleare suicida contro la loro sede in esilio su Phobos. La risposta della Pax era stata terrificante: asteroidi spostati dalla vicina fascia e scagliati su Marte, bombardamento a tap peto con esplosivi al plasma, attacchi notturni con lance d’energia che, come micidiali proiettori che intersecassero il deserto ghiacciato, tagliavano la nuova tempesta di sabbia planetaria provocata dagli asteroidi usati come bombe. I raggi della morte sarebbero stati più efficienti, ma gli ideatori di piani della Flotta volevano fare di Marte un esempio e volevano che fosse un esempio visibile.

I risultati non furono esattamente ciò che la Pax si augurava. L’ambiente marziano in fase di terraforming, già precario dopo anni di scarsa manutenzione, crollò. L’atmosfera respirabile rimase nel bacino Hellas e in poche altre sacche. Gli oceani evaporarono — l’acqua bolliva per la caduta di pressione — o si congelarono di nuovo intorno ai poli e nella subcrosta di permagelo. Le ultime grosse piante e gli ultimi alberi morirono, finché non rimasero solo l’autoctono cactus da brandy e i frutteti di bradburie, aggrappati alla vita in un vuoto quasi assoluto. Le tempeste di polvere duravano anni e rendevano in pratica impossibile ai marines della Pax il pattugliamento del pianeta rosso.

Ma gli abitanti del pianeta, soprattutto i marziano-palestinesi militanti, erano abituati a simili condizioni di vita e pronti a quella evenienza. Si tennero al coperto, uccisero i soldati della Pax che scendevano sul pianeta e aspettarono. Missionari dell’ordine dei templari dislocati nelle altre colonie marziane chiesero di essere adattati alle condizioni planetarie d’origine. Migliaia e migliaia corsero il rischio della nanotecnologia irreversibile e consentirono alle macchine molecolari di alterare il loro corpo e il DNA, adattandolo al pianeta.

Ma un’altra cosa preoccupò maggiormente il Vaticano: le battaglie spaziali che divamparono quando le navi un tempo appartenenti alla Macchina da guerra marziana, che si presumeva ormai defunta, uscirono dal nascondiglio nella remota Fascia di Kuiper e iniziarono una serie di attacchi tipo "mordi e fuggi" contro i convogli della Flotta della Pax nel sistema della Vecchia Terra. Il rapporto della distruzione di unità nemiche in quegli attacchi era di cinque a uno in favore della Pax, ma le perdite erano inaccettabili e il costo per mantenere l’operazione marziana era spaventoso.

L’ammiraglio Marusyn e lo stato maggiore della Flotta consigliarono a Sua Santità di eliminare le perdite e di lasciare che il sistema della Vecchia Terra andasse in malora, almeno per il momento. Marusyn garantì al papa che niente sarebbe uscito da quel sistema solare. Ora che Marte non era più difendibile, puntualizzò, lì non c’era niente di valore. Il papa ascoltò, ma rifiutò di autorizzare la ritirata. A ogni conferenza il cardinale Lourdusamy mise l’accento sull’importanza simbolica di avere nella Pax il sistema della Vecchia Terra. Sua Santità decise di rinviare per un poco la decisione. L’emorragia di navi, uomini, denaro e materiale continuò.

Su Mare Infinitum la ribellione era in atto da tempo — sottomarini contrabbandieri, pescatori di frodo, centinaia di migliaia di indigeni testardi che avevano sempre rifiutato la croce — ma all’arrivo del contagio di Aenea acquistò nuova linfa. Le grandi zone di pesca divennero in pratica vietate alle flottiglie di pescherecci della Pax privi di scorta. Le navi da pesca automatiche e le isolate piattaforme galleggianti erano assalite e affondate. Nelle acque meno profonde era avvistato un numero sempre maggiore di micidiali leviatani bocca a lampada. L’arcivescovo Jane Kelley era furiosa con le autorità della Pax che non erano riuscite a porre fine al problema. Il vescovo Melandriano consigliò moderazione e Kelley lo scomunicò. A sua volta Melandriano dichiarò la secessione dei mari meridionali dalla Pax e dall’autorità della Chiesa e migliaia di fedeli seguirono quel capo carismatico. Il Vaticano inviò altre navi della Flotta, che però potevano fare ben poco per appianare quella lotta a quattro, di superficie e di profondità, fra i ribelli, le forze dell’arcivescovo, le forze del vescovo e i bocca a lampada.

E in tutta quella confusione e quel massacro, il messaggio di Aenea viaggiava con la velocità della parola e della comunione segreta.

La ribellione, sia violenta sia spirituale, divampò anche altrove: sui pianeti visitati da Aenea, Ixion, Patawpha, Amritsar e Groombridge Dyson D; su Tsingtao-Hsishuang Panna, dove la voce di retate di non cristiani su altri pianeti creò prima panico e poi feroce resistenza a qualsiasi cosa avesse a che fare con la Pax; su Deneb Drei, dove la repubblica Jamnu proclamò che bastava portare il crucimorfo per essere decapitati; su Fuji, dove il messaggio di Aenea fu portato da rinnegati della Pax Mercatoria e dove si diffuse come una tempesta di fuoco di proporzioni planetarie; sul pianeta desertico Vitus-Gray-Balianus B, dove gli insegnamenti di Aenea giunsero tramite profughi dal sistema solare Amarezza di Sibiatu e si combinarono con la certezza che il modo di vita della Pax avrebbe distrutto per sempre la loro cultura. Gli Spettroelica di Amoiete guidarono la lotta: nel primo mese di combattimenti fu liberata la città di Keroa Tambat e la base della Pax di Bombasino divenne in breve una fortezza sotto assedio. Il comandante della base, Solznykov, chiese a gran voce l’intervento della Flotta della Pax, ma il Vaticano e gli alti comandi, preoccupati per altre situazioni, gli ordinarono di starsene buono e anzi lo minacciarono di scomunica se non avesse posto fine da solo alla rivolta.

E Solznykov domò la rivolta, ma non nel modo che la Flotta della Pax e Sua Santità avrebbero immaginato: stipulò con gli Spettroelica un trattato di pace in base al quale i suoi uomini sarebbero entrati nel territorio degli indigeni solo col loro permesso; in cambio, la base di Bombasino poté continuare a esistere.

Solznykov, il colonnello Vinara e gli altri leali cristiani rimasero in attesa del castigo del Vaticano e della Flotta della Pax, ma c’erano civili cambiati da Aenea, fra gli Spettroelica che venivano a commerciare a Bombasino, che incontravano i soldati e mangiavano e bevevano con loro, che si muovevano fra gli scoraggiati uomini della Pax e raccontavano la loro storia e offrivano la comunione. Molti accettarono.


Questa, naturalmente, è una piccolissima parte degli eventi che si verificarono nelle centinaia di pianeti della Pax quell’ultima triste notte che avrei trascorso su T’ien Shan. Non ebbi sentore di nessuno di quegli eventi, è logico, ma se l’avessi avuto, se avessi già padroneggiato l’abilità di apprenderli per mezzo del Vuoto che lega, me ne sarei fregato ugualmente.

Aenea aveva amato un altro uomo. L’aveva sposato. Di sicuro era ancora sposata, non aveva accennato a un divorzio o alla morte di lui. Aveva avuto un figlio.

Non so come riuscii a non precipitare e morire, in quelle folli ore di sconsiderato menefreghismo sulla cresta ghiacciata a est di Jo-kung e del Hsuan-k’ung Ssu, ma non precipitai. Alla fine ripresi a ragionare, tornai indietro lungo la cresta e scesi a corda doppia giù per le funi fisse, in modo da essere con Aenea alle prime luci.

Amavo Aenea. Era la mia cara amica. Per proteggerla avrei dato la vita.

Entro quel giorno si sarebbe presentata l’occasione per dimostrarlo, resa inevitabile dagli eventi che si verificarono poco dopo il mio ritorno al Tempio a mezz’aria e la nostra partenza verso est.


Non molto dopo le prime luci, nel vecchio monastero sotto il Fallo di Shiva ora divenuto enclave cristiana, il cardinale John Domenico Mustafa, l’ammiraglio Marget Wu, padre Farrell, l’arcivescovo Breque, padre LeBlanc, Rhadamanth Nemes e i suoi due cloni si riunirono in conferenza. In realtà alla discussione presero parte solo gli esseri umani: Nemes e i due cloni sedevano in silenzio accanto alla finestra che dava sulla distesa di nubi simili a marosi intorno al lago Lontra, sotto il picco dello Shivling.

«È certa che la Raffaele sia distrutta?» diceva in quel momento il Grande Inquisitore.

«Certissima» rispose l’ammiraglio Wu. «Ma ha distrutto sette nostre Arcangelo di fila, prima che la riducessimo a scorie.» Scosse la testa. «De Soya era un tattico brillante. La sua apostasia è proprio opera del Maligno.»

Padre Farrell si sporse sul lucido tavolo di legno bonsai. «E non c’è possibilità che de Soya o altri siano sopravvissuti?»

L’ammiraglio Wu scrollò le spalle. «Era una battaglia ravvicinata. Prima di far scattare la trappola, abbiamo lasciato che la Raffaele fosse a distanza cislunare. Migliaia di detriti, in gran parte delle nostre sfortunate Arcangelo, sono entrati nell’atmosfera. Pare che nessuno dei nostri sia sopravvissuto, almeno non abbiamo rilevato radiofari. Se qualche complice di de Soya è riuscito a cavarsela, con ogni probabilità sarà finito negli oceani velenosi.»

«Tuttavia…» cominciò l’arcivescovo Breque. Era un uomo tranquillo, ragionatore e prudente.

Wu aveva un’aria stanca e irritata. «Eminenza» replicò in tono vivace, rivolgendosi a Breque, ma guardando il cardinale Mustafa «se ci permette di mandare nell’atmosfera navette, skimmer e VEM, chiariremo la questione in un senso o nell’altro.»

Breque batté le palpebre, sorpreso. Il cardinale Mustafa scosse la testa. «No» disse. «Abbiamo l’ordine di evitare esibizioni militari finché il Vaticano non avrà autorizzato il passo finale per la cattura della ragazza.»

Wu sorrise con chiara amarezza. «Dopo la battaglia della notte scorsa proprio sopra l’atmosfera, quell’ordine sarà di sicuro un po’ meno attuale» replicò con calma. «La nostra esibizione militare dev’essere stata alquanto impressionante.»

«Eccome!» disse padre LeBlanc. «Non ho mai visto niente di simile.»

L’ammiraglio Wu si rivolse al cardinale Mustafa. «Eccellenza, la popolazione di questo pianeta non ha armi a energia, sensori di propulsione Hawking, difese orbitali, rivelatori gravitonici, diamine, non ha neppure radar e sistemi di comunicazione, per quanto ne sappiamo. Se mandiamo nell’atmosfera navette o caccia alla ricerca di eventuali superstiti, la popolazione non se ne accorgerà nemmeno. Sarà un’azione molto meno intnisiva dello scontro a fuoco della notte scorsa…»

«No» disse il cardinale Mustafa, con tono che non lasciava dubbi: decisione definitiva. Scostò la manica e guardò il cronometro. «Il corriere del Vaticano dovrebbe arrivare da un momento all’altro. Porterà gli ordini finali per l’arresto del vettore di contagio, Aenea. Non devono esserci complicazioni di altro genere.»

Padre Farrell si massaggiò le guance. «Il reggente Tokra mi ha chiamato stamattina sul canale di comunicazione che gli abbiamo fornito. Pare che il loro prezioso, piccolo e precoce Dalai Lama sia scomparso…»

Breque e LeBlanc alzarono di scatto la testa, sorpresi.

«Non importa» disse il cardinale Mustafa, evidentemente già informato. «Niente ha importanza, al momento, a parte il via libera finale in questa missione e la cattura di Aenea.» Guardò l’ammiraglio Wu. «E dica alle sue guardie svizzere e agli ufficiali dei marines che non bisogna torcere un capello a quella ragazza.»

Marget Wu annuì stancamente. Da mesi non faceva che ricevere istruzioni su istruzioni. «Quando arriveranno gli ordini?» domandò al cardinale.

Rhadamanth Nemes e i suoi due cloni si alzarono e si avviarono alla porta. «Il tempo dell’attesa è terminato» disse Nemes, con un sorriso a denti stretti. «Vi porteremo la testa di Aenea.»

Il cardinale Mustafa e gli altri scattarono in piedi. «Seduti!» tuonò il Grande Inquisitore a Nemes e ai due cloni. «Nessuno vi ha ordinato di muovervi!»

Nemes sorrise e si girò verso la porta.

Tutti i prelati nella stanza vociavano. L’arcivescovo Jean Daniel Breque si fece il segno di croce. L’ammiraglio Wu allungò la mano verso la fondina e la pistola a fléchettes.

Tutto avvenne troppo in fretta per essere percepito dall’occhio umano. L’aria parve intorbidarsi. L’attimo prima, Nemes, Scilla e Briareo erano alla porta, a otto metri dagli altri: l’attimo dopo, erano scomparsi e tre confuse sagome di lucido cromo si trovavano fra le figure in tonaca nera o rossa intorno al tavolo.

Scilla intercettò l’ammiraglio Marget Wu, prima che la donna potesse alzare la pistola a fléchettes. Un braccio cromato si mosse tanto rapidamente da risultare appena visibile. La testa di Wu rotolò sul lucido piano del tavolo. Il corpo decapitato rimase in piedi alcuni secondi; un impulso nervoso casuale ordinò al dito della destra di premere il grilletto e la pistola a fléchettes sparò, fracassò le gambe del pesante tavolo e scheggiò in diecimila punti il pavimento di pietra.

Padre LeBlanc balzò fra Briareo e l’arcivescovo Breque. La confusa sagoma argentea sventrò LeBlanc. Breque lasciò cadere gli occhiali e corse a rifugiarsi nella stanza contigua. Briareo scomparve all’improvviso, lasciando solo una soffocata implosione d’aria nel punto dove si era trovata un attimo prima la sua sagoma confusa. Dall’altra stanza provenne un breve grido, interrotto quasi prima di cominciare.

Il cardinale Mustafa arretrò davanti a Rhadamanth Nemes. Quest’ultima mosse un passo avanti per ogni passo che il cardinale muoveva indietro. Aveva spento il campo di tempo rapido che l’aveva resa una sagoma confusa, ma non per questo aveva un aspetto più umano o meno minaccioso.

«Sii maledetta per la lurida creatura che sei» imprecò piano il cardinale. «Fatti avanti, non ho paura di morire.»

Nemes inarcò il sopracciglio. «No, certo, eccellenza. Ma cambierebbe idea se le dicessi che butteremo quei cadaveri e quella testa» indicò Marget Wu, le cui palpebre avevano smesso di battere e i cui occhi avevano uno sguardo fisso, cieco «giù nell’oceano acido, in modo che sia impossibile la risurrezione?»

Il cardinale Mustafa arrivò alla parete e si fermò: Nemes era a soli due passi da lui. «Perché lo fai?» disse con voce ferma.

Nemes si strinse nelle spalle. «Le nostre priorità divergono, per il momento» rispose. «È pronto, Grande Inquisitore?»

Il cardinale Mustafa si segnò e recitò un affrettato atto di dolore.

Nemes sorrise di nuovo: il suo braccio destro e la sua gamba destra divennero confuse sagome argentee. La creatura avanzò.

Il cardinale Mustafa la guardò, attonito. Nemes non lo uccise. Con movimenti troppo rapidi per essere percepiti, gli spezzò il braccio sinistro, gli spappolò il destro, con due calci gli fece mancare le gambe, spezzandole tutte e due, e lo accecò: gli conficcò negli occhi le dita, ma si fermò prima di trapassargli il cervello.

Il cardinale Mustafa fu travolto da un dolore così intenso come non aveva mai provato. Ma udì ugualmente la voce di Nemes, sempre piatta e priva di vita: «Il medibox della navetta o della Jibril la rimetterà in sesto. Abbiamo avvisato le navi, saranno qui a minuti. Quando vedrà il papa e i suoi leccapiedi, riferisca che quelli a cui devo fare rapporto non vogliono la ragazza viva. Ci scusiamo, ma è necessario che muoia. E riferisca di stare attenti in futuro a non fare niente senza il consenso di tutti gli elementi del Nucleo. Addio, eccellenza. Le auguro che il medibox della Jibril possa farle crescere due occhi nuovi. Ciò che siamo impegnati a fare merita di essere visto».

Il cardinale Mustafa udì rumore di passi, il fruscio della porta; poi ci fu silenzio, a parte le terribili grida di dolore di qualcuno. Il Grande Inquisitore impiegò diversi minuti per capire che quelle grida erano sue.


Quando tornai al Tempio a mezz’aria, la prima luce filtrava nella nebbia, ma la montagna restava buia, sgocciolante e gelida. Mi ero ripreso dalla confusione e dal turbamento, mettevo più cautela nella discesa a corda doppia lungo le funi fisse; e fu un bene: varie volte i freni slittarono sulla fune coperta di ghiaccio e sarei precipitato nell’abisso, se le corde di sicurezza non mi avessero bloccato.

Al mio arrivo, Aenea era sveglia, vestita e pronta a partire. Si era messa l’anorak termico, l’imbracatura e gli stivali da montagna. A. Bettik e Lhomo Dondrub erano vestiti come lei e portavano in spalla lunghi fagotti dall’aria pesante, avvolti in nylon. Sarebbero venuti con noi. Altri erano lì per salutarci — Theo, Rachel, la Dorje Phamo, il Dalai Lama, George Tsarong, Jigme Norbu — e parevano tristi e preoccupati. Aenea aveva l’aria stanca: di sicuro neppure lei aveva dormito. Facevamo una bella coppia di avventurieri esausti. Lhomo mi diede uno dei lunghi fagotti avvolti nel nylon. Era pesante, ma lo misi in spalla senza domande né proteste. Presi il resto della mia attrezzatura, risposi alle domande di Lhomo sulle condizioni delle funi per salire fino alla cresta (evidentemente tutti pensavano che con grande altruismo fossi andato a fare un giro di ricognizione) e arretrai di un passo per guardare la mia amica e amata. Aenea mi scoccò un’occhiata interrogativa; risposi con un cenno d’assenso. "Tutto a posto. Sto bene. Sono pronto a partire. Ne parleremo più tardi."

Theo piangeva. Mi rendevo conto che era un addio importante, forse non ci saremmo più rivisti, anche se Aenea rassicurava le altre due donne e diceva che prima di notte ci saremmo riuniti tutti, ma ero troppo intontito emotivamente, troppo esausto per reagire. Mi staccai un momento dal gruppo per respirare a fondo e concentrarmi. Era probabile che nelle prossime ore avrei avuto bisogno di tutta la mia intelligenza e la mia prontezza solo per sopravvivere. "Il guaio di essere appassionatamente innamorato" pensai "è che ti toglie troppo sonno."

Partimmo dalla piattaforma est, scendemmo di buon passo la cornice ghiacciata, passammo davanti alle funi che avevo appena usato e arrivammo senza incidenti alla forra. Gli alberi bonsai e l’alta brughiera parevano antichi e irreali nella mobile foschia di ghiaccio; i rami scuri e le frasche ci schizzavano di gocce sulla testa, quando si stagliavano all’improvviso dalla nebbia. I corsi d’acqua e le cascatelle erano più rumorosi di quanto non ricordassi, mentre il torrente scivolava sopra l’ultima sporgenza e precipitava nel vuoto, alla nostra sinistra.

All’estremo est, nella parte più alta della forra, c’erano delle corde fisse, vecchie e non tanto affidabili; Lhomo si arrampicò per primo, seguito da Aenea, da A. Bettik e infine da me. Notai che il nostro amico androide saliva con la rapidità e l’abilità di sempre, malgrado gli mancasse la destra. Arrivati sulla cresta superiore, avevamo superato il punto più lontano da me raggiunto nel viaggio notturno: la forra faceva da barriera lungo la linea della cresta, dalla parte che avevo seguito io. Ora, mentre seguivamo strettissimi sentieri sul lato sud dello strapiombo, cominciavano sul serio le difficoltà: cornici quasi consumate, affioramenti rocciosi, di tanto in tanto una distesa di ghiaccio, pendii di pietrisco. La cresta sopra di noi era tutta un seracco di neve bagnata e di sporgenze ghiacciate, impossibile da percorrere. Ci muovevamo in silenzio, senza neppure un bisbiglio, ben sapendo che il minimo rumore poteva provocare una valanga che ci avrebbe spazzati in un secondo da quelle cornici larghe dieci centimetri. Finalmente, quando il percorso divenne perfino più difficile, ci legammo in cordata, facendo passare la corda nei moschettoni e agganciandone una doppia alle nostre imbracature: se uno di noi fosse caduto, sarebbe stato trattenuto dagli altri, o saremmo precipitati tutti. Con la salda guida di Lhomo, che scavalcava con fiducia dirupi pieni di nebbia e crepacci nel ghiaccio che avrei esitato a sfidare, ci sentivamo tutti meglio, penso, in cordata.

Ancora ignoravo la nostra destinazione. Ma sapevo che la grande cresta che correva a est dal K’un Lun e oltrepassava Jo-kung sarebbe terminata entro qualche chilometro, sprofondando all’improvviso, spettacolarmente, nelle nubi tossiche vari chilometri più in basso. In certe settimane primaverili, le maree e i capricci dell’oceano facevano scendere i vapori tossici tanto in basso che la cresta emergeva di nuovo, consentendo a carovane di provviste, pellegrini, monaci, mercanti e semplici curiosi di spingersi a est del Regno di mezzo fino al T’ai Shan, il Grande Picco del Regno di mezzo e il più inaccessibile punto abitato del pianeta. I monaci che vivevano sul T’ai Shan, si diceva, non tornavano mai al Regno di mezzo o al resto delle Montagne del cielo: da innumerevoli generazioni avevano dedicato la vita alle misteriose tombe, gompa, cerimonie e templi sul più sacro dei picchi. Ora, mentre il tempo per noi peggiorava, capii che se avessimo iniziato a scendere, avremmo saputo di essere passati dalle turbolente nubi monsoniche alle turbolente nubi di vapori tossici solo quando l’aria venefica ci avesse ucciso.

Non scendemmo. Dopo parecchie ore di viaggio in totale silenzio, giungemmo al precipizio sul confine orientale del Regno di mezzo. Il monte T’ai Shan non era visibile, ovviamente: anche se il cielo si era schiarito un poco, non si vedeva quasi niente, a parte la parete bagnata dello strapiombo davanti a noi e le volute di nebbia e le configurazioni di nubi tutto intorno.

Qui, sul bordo orientale del mondo, c’era un’ampia cornice; ci sedemmo con gioia a riposare, mangiammo panini freddi presi dai sacchi e bevemmo acqua dalle borracce. Le minuscole piante grasse che tappezzavano quell’erta brughiera cominciavano a diventare tumescenti: si rimpinzavano della prima umidità dei mesi monsonici.

Dopo colazione, Lhomo e A. Bettik si misero a disfare i tre pesanti fagotti. Aenea aprì la lampo del suo zaino, che pareva più pesante delle sacche che avevamo portato noi uomini. Non fui sorpreso nel vedere che cosa era avvolto nei tre fagotti: nylon, montanti e intelaiature di lega leggera, sartiame e, nel pacco di Aenea, altra roba del genere, oltre alle due dermotute e ai due riciclo-respiratori che avevo portato con me dalla nave e di cui mi ero in pratica dimenticato.

Sospirai e guardai a est. «Allora cercheremo di raggiungere il T’ai Shan» dissi.

«Sì» confermò Aenea. Cominciò a spogliarsi.

A. Bettik e Lhomo guardarono da un’altra parte, ma io mi arrabbiai al pensiero che altri uomini vedessero la mia amata senza niente addosso. Mi dominai, stesi per terra l’altra dermotuta e cominciai a spogliarmi, ripiegando i vestiti nello zaino man mano che li toglievo. L’aria era fredda e la nebbia mi si appiccicava alla pelle.

Mentre Lhomo e A. Bettik montavano i parapendii, Aenea e io ci vestimmo, per così dire: le dermotute erano proprio ciò che il nome indicava, una seconda pelle quasi alla lettera, ma l’imbracatura e le cinghie dei respiratori ci consentivano un minimo di decoro. Il cappuccio mi fasciò la testa più strettamente di una cuffia da sommozzatore e mi appiattì le orecchie contro il cranio. Solo i filtri auricolari consentivano che il suono si propagasse: una volta in aria, avrebbero raccolto le trasmissioni via filo.

Dai pezzi contenuti negli involti, Lhomo e A. Bettik ricavarono quattro parapendii. Come in risposta alla mia domanda inespressa, Lhomo disse: «Posso solo mostrarvi le termali e assicurarmi che arriviate alla corrente a getto. Non posso sopravvivere a quella altitudine. E non voglio andare al T’ai Shan, viste le scarse probabilità di fare ritorno».

Aenea gli toccò il braccio. «Non abbiamo parole per ringraziarti di guidarci alla corrente a getto.»

Lhamo Dandrub, l’aviatore senza paura, arrossì davvero.

«E A. Bettik?» domandai. Mi accorsi subito di parlare del nostro amico come se non fosse presente; mi girai e gli dissi: «E tu? Non ci sono dermotuta e respiratore per te».

A. Bettik sorrise. Avevo sempre pensato che i suoi rari sorrisi fossero la cosa più saggia che avessi mai visto su lineamenti umani, anche se tecnicamente quell’uomo dalla pelle azzurra non apparteneva alla specie umana.

«Dimentica, signor Endymion, che sono stato progettato per sopportare qualcosa di più dell’essere umano medio.»

«Ma la distanza…» cominciai. Il T’ai Shan si trovava più di cento chilometri a est; anche se avessimo raggiunto la corrente a getto, per quasi un’ora avremmo dovuto muoverci nell’aria rarefatta, troppo rarefatta per consentire la respirazione.

A. Bettik legò le ultime funi al suo parapendio, un grazioso arnese con una grande ala a delta, azzurra, ampia almeno dieci metri, e disse: «Se saremo tanto fortunati da percorrere la distanza, sopravviverò».

Gli rivolsi un cenno d’assenso e mi apprestai a entrare nelle cinghie del mio aliante, senza dire altro, senza guardare Aenea, senza chiederle perché rischiavamo la vita a quel modo, quando all’improvviso la mia amica mi fu al fianco.

«Grazie, Raul» disse abbastanza forte perché tutti udissero. «Fai questo per me solo per amore e per amicizia. Ti ringrazio dal profondo del cuore.»

Mi ritrovai senza parole, imbarazzato perché Aenea ringraziava me quando anche gli altri due erano pronti a saltare nel vuoto per lei. Ma Aenea non aveva terminato.

«Ti amo, Raul» disse, alzandosi sulla punta dei piedi per baciarmi sulle labbra. Si sporse indietro e mi guardò con occhi insondabili. «Ti amo, Raul Endymion. Ti ho sempre amato. Ti amerò sempre.»

Rimasi attonito e sopraffatto, mentre tutti ci agganciavamo agli attacchi del parapendio e ci fermavamo sull’orlo del nulla. Lhomo fu l’ultimo ad agganciarsi. Passò da A. Bettik a Aenea a me, controllò i nostri attacchi, controllò ogni dado, bullone, gancio e saldatura dei nostri alianti. Soddisfatto, rivolse un cenno rispettoso ad A. Bettik, si agganciò alla sua ala rossa, con una rapidità nata da infinita pratica e disciplina, e andò all’orlo del precipizio. Anche le piante grasse non crescevano in quell’ultimo metro, quasi avessero paura di cadere. Io avevo paura e lo sapevo bene. L’ultima cornice rocciosa era fortemente inclinata e viscida per la pioggia. La nebbia si era infittita di nuovo.

«Non sarà facile mantenere il contatto visivo in questa brodaglia» disse Lhomo. «Continuate a girare sulla sinistra. Tenetevi a cinque metri da quello di fronte a voi. Stesso ordine della marcia: Aenea dopo di me nell’ala gialla, poi l’uomo blu nell’ala blu, poi tu, Raul, nell’ala verde. Il rischio più grande è perdersi nelle nuvole.»

Aenea annuì concisamente. «Starò vicino alla tua ala.»

Lhomo guardò me. «Tu ed Aenea potete parlarvi per mezzo del filo di comunicazione della dermotuta, ma questo non vi aiuterà, se vi perderete di vista. A. Bettik e io comunicheremo con segnali della mano. Raul, sii prudente. Non perdere di vista l’aliante dell’uomo azzurro. Se lo perdi, continua a salire, gira in senso antiorario finché non ti trovi sopra le nuvole e allora cerca di rientrare in gruppo con noi. Fai cerchi stretti, mentre sei tra le nuvole. Se allarghi i giri, come si tende a fare in parapendio, andrai a sbattere contro la parete rocciosa.»

Avevo la bocca secca e risposi con un cenno d’assenso.

«D’accordo» disse Lhomo. «Vi rivedrò tutti sopra le nuvole. Allora troverò per voi le termali, stabilirò la forza ascensionale della cresta e vi porterò alla corrente a getto. Quando starò per lasciarvi, vi farò questo segnale.» Strinse il pugno e mosse due volte il braccio. «Continuate a salire e a girare in cerchio. Penetrate il più possibile nella corrente a getto. Alzatevi nei venti atmosferici superiori finché non vi sembrerà che strappino l’ala. Forse la strapperanno davvero. Ma se non entrate nel centro della corrente, non avete nessuna possibilità di raggiungere il T’ai Shan. Ci sono centoundici chilometri fino alla prima spalla del Grande Picco, dove potrete respirare vera aria.»

Annuimmo tutti.

«Possa il Buddha sorridere sulla vostra follia oggi» disse Lhomo. Pareva molto su di giri.

«Amen» disse Aenea.

Senza altre parole, Lhomo si girò e balzò dall’orlo del precipizio. Aenea lo seguì un attimo dopo. A. Bettik si sporse molto avanti nell’imbracatura, diede un calcio alla cornice e in pochi secondi fu inghiottito dalle nuvole. Sgambettai per stargli dietro. All’improvviso non trovai pietra sotto i piedi e mi sporsi in avanti, finché non fui prono sull’imbracatura. Avevo già perso di vista l’ala azzurra di A. Bettik. Le nubi turbinanti mi confusero e disorientarono. Tirai la barra di comando, inclinai il parapendio come mi avevano insegnato e scrutai nella nebbia, cercando uno degli altri alianti. Niente. Mi accorsi troppo tardi di avere esagerato nel tenere la curva. O l’avevo lasciata troppo presto? Misi l’ala in assetto orizzontale, sentii le termali spingere il tessuto sopra di me, ma non riuscii a stabilire se guadagnavo davvero quota, perché ero praticamente cieco. La nebbia era simile a una sorta di terribile cecità da neve. Senza riflettere, gridai, augurandomi che uno degli altri rispondesse al mio grido e mi permettesse di orientarmi. Un grido maschile rimbalzò contro di me da pochi metri, dritto più avanti.

Era l’eco della mia voce contro la parete verticale dello strapiombo che stavo per colpire.


Nemes, Scilla e Briareo lasciano l’enclave della Pax al Fallo di Shiva e si dirigono a piedi verso sud. Il sole è alto e verso est ci sono spesse nuvole. Per andare dall’enclave della Pax al Palazzo d’inverno a Potala, è stata riparata e allargata la vecchia via Alta a sudovest lungo la cresta Koko Nor ed è stata costruita una speciale piattaforma dove la funivia di dieci chilometri corre da Koko Nor al palazzo. Un palanchino preparato apposta per i diplomatici della Pax ora pende dalle carrucole nella nuova piattaforma. Nemes sorpassa la fila ed entra nel palanchino, senza badare alle occhiate della gente in pesante chuba che si ammassa sulla scalinata e sulla piattaforma. Quando i suoi due cloni sono nella gabbia, sgancia i freni e lancia il palanchino al di là dell’abisso. Nubi scure si alzano sopra la montagna del palazzo.

Una squadra di venti guardie palatine con alabarde e rozze lance a energia accoglie Nemes e i due cloni sui gradini della grande terrazza, sul lato ovest della cresta Cappello Giallo, dove il palazzo scende a precipizio per alcuni chilometri lungo la parete orientale. Il capitano delle guardie si inchina e dice in tono deferente: «Molto onorevoli ospiti, dovete attendere qui l’arrivo di una guardia d’onore che vi scorti nel palazzo».

«Preferiamo entrare da soli» ribatte Nemes.

Le venti guardie palatine si acquattano tenendo le lance in posizione di port-arm. Formano un solido muro di acciaio, pellicce di zigocapra, seta, elmi riccamente adorni. Il capitano fa un inchino più profondo. «Mi scuso per la mia indegnità, molto onorevoli ospiti, ma non è possibile entrare nel Palazzo d’inverno senza un invito e una guardia d’onore. L’uno e l’altra saranno qui in un minuto. Se sarete così cortesi da aspettare all’ombra di quella pagoda, onorevoli ospiti, un funzionario di rango appropriato sarà qui in un momento.»

Nemes fa un cenno. «Uccideteli» dice a Scilla e a Briareo. Mentre i suoi cloni mutano di fase, avanza verso il palazzo.

Durante la lunga camminata per i molteplici piani del palazzo, i tre mutano ancora di fase e passano in tempo rapido solo per uccidere le guardie e i servitori che incontrano. Quando escono sulla gradinata principale e si avvicinano alla Pargo Kaling, la grande Porta di Ponente su questo lato del ponte Kyi Chu, trovano la strada bloccata dal reggente Reting Tokra e da cinquecento guardie palatine scelte. Pochi di quei guerrieri d’élite hanno spade o picche, ma molti hanno balestre, fucili a proiettili di piombo, rudimentali armi a energia e mitragliatrici.

«Comandante Nemes» dice il reggente Tokra, con un inchino, ma non tanto profondo da perdere di vista la donna di fronte a lui «abbiamo saputo ciò che avete fatto allo Shivling. Non potete andare oltre.» Rivolge un cenno a una persona in alto nei luccicanti occhi della torre della Pargo Kaling: il ponte di Kyi Chu, di cromo nero, scivola senza rumore sulle guide e rientra nella montagna. Rimangono solo i grandi cavi di sospensione, molto in alto, protetti con filo tagliente e gel privo di attrito.

Nemes sorride. «Cosa fai, Tokra?»

«Sua Santità è andata al Hsuan-k’ung Ssu» dice il reggente dal viso smunto. «So perché volete andare da quella parte. Non vi sarà consentito di fare del male a Sua Santità il Dalai Lama.»

Rhadamanth Nemes allarga il sorriso. «Di cosa parli, Tokra? Per trenta monete d’argento hai venduto al servizio segreto della Pax il tuo caro bambino d’oro. Stiamo barattando per altre di quelle vostre stupide monete a sei facce?»

Il reggente scuote la testa. «L’accordo con la Pax era che Sua Santità non sarebbe mai stato toccato. Ma voi…»

«Noi vogliamo la testa della ragazza, non del vostro lama bambino» dice Nemes. «Fai spostare i tuoi uomini, altrimenti li perderai.»

Il reggente Tokra si gira e latra un ordine. Con viso feroce, i suoi soldati portano alla spalla le armi. Fila su fila, con la propria massa bloccano la via per il ponte, anche se il ponte è già rientrato nella montagna. Nubi scure ribollono nel baratro.

«Uccideteli tutti» dice Nemes e muta di fase.


Lhomo ci aveva addestrati tutti nei comandi del parapendio, ma non avevo mai avuto l’occasione di farne volare uno. Ora, mentre la parete si alzava dalla nebbia di fronte a me, dovevo fare immediatamente la manovra giusta o morire.

L’aliante era manovrato dalla barra di comando che pendeva davanti al passeggero dondolante dall’imbracatura; mi spostai tutto a sinistra per mettere sulla barra il maggior peso possibile consentito dalle cinghie. Il parapendio si inclinò, ma non abbastanza, mi accorsi subito: avrebbe intercettato la parete rocciosa un paio di metri dall’apice esterno del proprio arco. C’era un’altra serie di comandi — maniglie che lasciavano uscire aria dalla superficie dorsale al bordo d’entrata di ciascun lato dell’ala — ma erano comandi pericolosi e complicati, da usare solo in caso d’emergenza.

Già vedevo i licheni sulla parete sempre più vicina. Era un caso d’emergenza.

Tirai con forza la maniglia di sinistra; il nylon sul lato sinistro del parapendio si aprì come un sacco squarciato; la parte destra dell’ala, ancora sospinta dalla forte corrente ascensionale in quel punto della cresta, si inclinò quasi a perpendicolo; il parapendio rischiò di capovolgersi, con l’inutile parte sinistra che lasciava uscire aria come una griglia vuota; le mie gambe furono spinte in fuori di lato e l’aliante minacciò di entrare in stallo e precipitare sulle rocce; i miei stivali strusciarono davvero pietre e licheni; poi l’ala cominciò a cadere quasi a piombo, io lasciai la maniglia sinistra, la memostoffa nel lato sinistro si autoriparò in un istante e volavo di nuovo, ma in picchiata quasi verticale.

Le forti termali che salivano lungo la parete dello strapiombo colpirono l’aliante, con la forza di un ascensore; fui sbattuto verso l’alto e nel ricadere battei il petto contro la barra di comando con tale violenza da restare senza fiato; il parapendio precipitò, salì, cercò di fare una pigra volta con un raggio di sessanta o settanta metri. Mi trovai a penzolare di nuovo quasi a testa in giù: ora avevo l’aliante e i comandi sotto di me, ma la parete rocciosa proprio davanti, come prima.

Brutto affare: avrei concluso la volta contro la parete dello strapiombo. Diedi uno strattone alla maniglia d’emergenza di destra, perdetti portanza, rotolai di lato in una caduta che dava la nausea, sigillai l’ala, tirai le maniglie e la barra di comando, spostai freneticamente il peso del corpo per ritrovare l’equilibrio e il controllo. Le nubi si erano aperte quanto bastava a farmi vedere la parte dello strapiombo a venti o trenta metri alla mia destra, mentre lottavo contro le termali e con lo stesso aliante per avere una traiettoria sgombra.

Poi mi trovai in assetto orizzontale e manovrai quel dannato aggeggio in una spirale a sinistra, ma stavolta con prudenza — massima prudenza — e con un pensiero di ringraziamento allo squarcio nelle nubi che mi aveva consentito di giudicare la distanza dalla parete rocciosa; mi appoggiai tutto a sinistra sulla barra di comando. All’improvviso un bisbiglio mi risuonò nell’orecchio: "Uau! Lo spettacolo era proprio divertente. Ripetilo!".

Sobbalzai nell’udire la voce, guardai in alto e dietro di me. Il triangolo giallo vivo del parapendio di Aenea girava in cerchio sopra di me, molto vicino alle nubi che parevano un soffitto grigio.

"No, grazie" risposi, consentendo ai fili sulla gola della dermotuta di raccogliere le vibrazioni della laringe. "Ho finito di dare spettacolo, credo." Lanciai un’altra occhiata dalla sua parte. "Perché sei lì? Dov’è A. Bettik?"

"Ci eravamo dati appuntamento sopra le nuvole, non ti abbiamo visto e sono scesa a cercarti" disse con semplicità Aenea, in tono basso, al mio orecchio.

Sentii un attacco di nausea, più per il pensiero che Aenea aveva messo a rischio ogni cosa per venirmi a cercare, che non per le violente acrobazie di un momento prima. "Sono a posto" dissi, scorbutico. "Ho solo voluto provare la forza ascensionale della cresta."

"Già" disse Aenea. "È infida. Perché non mi segui su?"

La seguii, sacrificando l’orgoglio alla sopravvivenza. Non era facile tenermi in vista della sua ala gialla nella nebbia in continuo movimento, ma sempre più facile che non volare alla cieca lungo la parete dello strapiombo. Pareva che Aenea percepisse esattamente la posizione della parete: tagliava il nostro cerchio a cinque metri dalla roccia, prendeva la forte parte centrale delle termali, ma senza avvicinarsi o allontanarsi troppo.

Nel giro di qualche minuto uscimmo dalle nuvole. L’esperienza mi tolse il fiato, lo ammetto: prima un lento aumento del chiarore, poi un flusso di luce, poi l’emersione sopra le nuvole come un nuotatore che venga a galla su un mare spumeggiante, poi lo strizzare d’occhi per la vivida luce nell’abbagliante libertà del cielo azzurro e del panorama all’apparenza infinito in tutte le direzioni.

Solo i picchi e le creste più alte erano visibili sopra l’oceano di nuvole: il T’ai Shan luccicava, freddo e bianco di ghiaccio, molto lontano a est; l’Heng Shan era quasi alla stessa distanza, a nord; la nostra cresta Jo-kung sporgeva come lama di rasoio proprio sopra la marea di nuvole che correva indietro a ovest; la cresta K’un Lun era una lontana parete che andava da nordovest a sudest; e remote, molto remote, al limitare del mondo, risplendevano le cime del Chomo Lori, del monte Parnaso, del Kangchengjunga, del monte Koya, del monte Kalais e di altri che non potevo identificare da quell’angolazione. C’era uno scintillio di sole su un oggetto alto al di là della lontana cresta Phari e pensai che forse si trattava del Potala o del più basso Shivling. Smisi di guardare a bocca aperta e mi dedicai al nostro tentativo di prendere quota.

A. Bettik girò intorno a noi e mi rivolse il gesto del pollice alzato. Ricambiai il segnale e guardai in alto. Lhomo, cinquanta metri sopra di noi, segnalava: "Avvicinatevi. Fate cerchi stretti. Seguite me".

Seguimmo lui: Aenea saliva con facilità, tenendosi dietro Lhomo e un po’ di lato, l’aliante azzurro di A. Bettik seguiva il cerchio di ascesa dall’altra parte e io chiudevo il gruppo, quindici metri più in basso e cinquanta metri dall’androide.

Lhomo pareva sapere esattamente dov’erano le termali: a volte giravamo più lontano verso ovest, prendevamo la corrente ascensionale e allargavamo il cerchio per spostarci di nuovo a est. A volte avevamo l’impressione di non salire di quota, ma poi guardavo a nord l’Heng Shan e intuivo che avevamo percorso altre centinaia di metri verso l’alto. Lentamente salivamo e lentamente facevamo cerchi verso est, anche se il T’ai Shan distava ancora di sicuro ottanta o novanta chilometri.

Il freddo aumentava e respirare diventava più faticoso. Sigillai fino in fondo la maschera osmotica e inalai ossigeno puro, continuando a salire. La dermotuta mi si appiccicò addosso, funzionando da tuta a pressione e da tuta termica. Vedevo Lhomo rabbrividire nel chuba di pelo di zigocapra e nei pesanti mezzi guanti. Sul braccio nudo di A. Bettik c’era una patina di ghiaccio. E continuavamo a volare in cerchio e a salire. Il cielo divenne più scuro, lo scenario ancora più incredibile: il distante Nanda Devi a sudovest, l’Helgafell ancora più lontano a sudest e il picco Harney al di là dello Shivling divennero visibili sopra la curvatura del pianeta.

Alla fine Lhomo giunse al limite. Poco prima avevo aperto la maschera osmotica del cappuccio per capire quanto fosse rarefatta l’aria: avevo provato a respirare, mi ero sentito come nel vuoto profondo e avevo subito richiuso la maschera. Non capivo come Lhomo riuscisse a respirare, pensare e agire, a quell’altitudine. Ora ci segnalò di continuare a girare più in alto nella termale che aveva sfruttato, ci rivolse l’antico segno di buona fortuna, pollice e indice uniti in cerchio, e poi lasciò uscire aria rarefatta dal suo aliante a delta e precipitò come un tommifalco in picchiata. Nel giro di qualche secondo il delta rosso fu a varie migliaia di metri sotto di noi, precipitando verso la linea della cresta, a ovest.

Continuammo a girare in cerchio e a salire; a volte perdevamo per un momento la corrente ascensionale, ma la ritrovavamo subito. I margini inferiori della corrente a getto ci spingevano verso est, ma seguimmo il consiglio finale di Lhomo e resistemmo alla tentazione di girare verso la nostra meta: ancora non avevamo quota né vento di coda sufficienti a compiere il viaggio di ottanta chilometri.

Incontrare la corrente a getto era come entrare all’improvviso nelle rapide, a bordo di un kayak. L’aliante di Aenea la incontrò per primo: vidi il tessuto giallo vibrare come in preda a un violento fortunale e la sovrastruttura di alluminio flettersi pazzescamente. Poi A. Bettik e io ci trovammo nella corrente e non potemmo fare altro che tenerci orizzontali nell’imbracatura oscillante dietro la barra di comando e continuare a girare in cerchio per aumentare la quota.

"È dura" mi disse all’orecchio la voce di Aenea. "Vuole liberarsi e puntare a est."

"Non possiamo" ansimai, tirando di nuovo il parapendio nel vento di testa, spinto più in alto in una grande cavalcata verticale.

"Lo so." La voce di Aenea era tesa. Ora mi trovavo a un centinaio di metri da lei e sotto di lei, ma riuscivo a vedere la sua piccola figura lottare con la barra di comando, gambe tese, piedi piantati all’indietro come chi si tuffa da una scogliera.

Scrutai intorno a me. Il vivido sole aveva un alone di cristalli di ghiaccio. Le linee di cresta, così in basso, erano quasi invisibili e le sommità dei picchi più alti si trovavano ora chilometri sotto di noi.

"Come se la cava A. Bettik?" mi domandò Aenea.

Con una torsione del corpo mi sforzai di guardare. L’androide girava in cerchio sopra di me. Teneva gli occhi chiusi, mi parve, ma faceva regolazioni sulla barra di comando. La sua pelle azzurra luccicava per un velo di brina. "Bene, credo" risposi. "Aenea?"

"Sì?"

"C’è qualche possibilità che la Pax a Shivling o in orbita intercetti le nostre comunicazioni via filo?" Avevo in tasca il diskey-diario/ricetrasmittente, ma avevamo deciso di usarlo solo al momento di chiamare la nave. Sarebbe stata una vera ironia, se ci avessero catturato o ucciso perché usavamo i comunicatori delle dermotute.

"Nessuna possibilità" ansimò Aenea. Anche con la maschera osmotica e il respiratore incorporato nella dermotuta, l’aria era povera d’ossigeno e fredda. "I fili hanno una portata molto ridotta. Mezzo chilometro al massimo."

"Allora non allontanarti" dissi e mi concentrai nel prendere ancora qualche centinaio di metri di quota, prima che l’uragano quasi silenzioso che mi sballottava spedisse l’aliante a sibilare verso est.

Fra qualche minuto non avremmo più potuto resistere alla violenza della corrente di quel fiume d’aria. La termale non diminuì, parve solo morire completamente: allora fummo alla mercé della corrente a getto.

"Andiamo!" gridò Aenea, dimenticando che il mio auricolare captava anche il suo minimo bisbiglio.

Vidi A. Bettik aprire gli occhi e farmi segno che tutto andava bene. Nello stesso istante il mio parapendio lasciò la termale e fu spinto a est. Anche con la scarsa trasmissione del suono, avevo l’impressione di rombare nell’aria a una velocità così incredibile da risuonare nelle orecchie. Il delta giallo di Aenea striò il cielo come un dardo di balestra. Il delta blu di A. Bettik lo seguì. Lottai con i comandi, capii di non avere la forza di cambiare il percorso nemmeno di un solo grado e mi limitai a tenermi attaccato, mentre saettavo a est e in basso nel violento fiume d’aria. Davanti a noi splendeva il T’ai Shan, ma ora perdevamo rapidamente quota e la montagna distava ancora molto. Vari chilometri più in basso, sotto il mare monsonico di nubi bianche, le verdastre nuvole di fosgene dell’acido oceano planetario ribollivano, invisibili ma in attesa.


Le autorità della Pax nel sistema di T’ien Shan erano perplesse.

Quando, a bordo della Jibril, ricevette il bizzarro segnale d’allarme dalla enclave della Pax a Shivling, il capitano Wolmak tentò di chiamare il cardinale Mustafa e gli altri, ma non ottenne risposta. Nel giro di qualche minuto inviò una navetta da combattimento con venticinque marines, compresi tre medici.

Il rapporto in codice su linea diretta con la nave lasciava perplessi. La sala conferenze nel gompa dell’enclave era una rovina sanguinolenta. Dappertutto c’erano schizzi di sangue umano e di viscere, ma l’unico corpo nella sala era quello del Grande Inquisitore, storpiato e accecato. I marines controllarono il DNA del maggiore schizzo di sangue arterioso e scoprirono che apparteneva a padre Farrell. Altre chiazze di sangue risultarono appartenere all’arcivescovo Breque e al suo aiutante, LeBlanc. Ma non c’erano cadaveri. Non c’erano crucimorfi. I medici riferirono che il cardinale Mustafa era in stato comatoso, sotto shock profondo, e prossimo alla morte; lo rimisero in sesto alla meglio, usando solo i kit da campo, e chiesero ordini. Dovevano lasciar morire il Grande Inquisitore e poi risuscitarlo o dovevano metterlo nel medibox della navetta e tentare di salvarlo, anche se sarebbero trascorsi vari giorni prima che riprendesse conoscenza e descrivesse l’accaduto? Altrimenti il medico poteva metterlo nell’apparecchiatura supporto vita, usare droghe per farlo uscire dal coma e interrogarlo nel giro di qualche minuto, ma intanto il paziente avrebbe sofferto moltissimo e sarebbe stato sempre in punto di morte.

Wolmak ordinò di aspettare e si mise in contatto con l’ammiraglio Lempriere, comandante della task force. Al limitare del sistema di T’ien Shan, a molte UA di distanza, le quaranta e passa navi che avevano sostenuto la battaglia contro la Raffaele ricuperavano sopravvissuti dalle Arcangelo irreparabilmente danneggiate e aspettavano l’arrivo della navetta automatica papale e della robonave del TecnoNucleo che avrebbe messo in animazione sospesa la popolazione del pianeta. Ancora nessuna delle due era giunta. Lempriere si trovava più vicino, quattro minuti luce, e la trasmissione avrebbe impiegato appunto quattro minuti a raggiungerlo e farlo accorrere. Wolmak pensò di non avere scelta. Rimase in attesa, mentre il messaggio partiva.

A bordo della nave ammiraglia Raguele, Lempriere si trovò in una situazione assai delicata, con solo qualche minuto per decidere sulla sorte del cardinale Mustafa. Poteva lasciar morire il Grande Inquisitore e confidare che il trattamento abbreviato per risuscitarlo in due giorni avesse successo. Il cardinale Mustafa non avrebbe sofferto troppo. Ma gli autori dell’attacco — lo Shrike, gli indigeni, i discepoli del mostro Aenea, gli Ouster? — sarebbero rimasti un mistero fino allora. Lempriere decise in dieci secondi, ma c’era un ritardo di quattro minuti nella trasmissione avanti e indietro.

«Dica ai medici di stabilizzarlo» trasmise a Wolmak sulla Jibril in orbita intorno al pianeta. «Lo metta nel supporto vita della navetta. Lo porti fuori. Lo interroghi. Quando ne sapremo abbastanza, chieda al robochirurgo una prognosi. Se si farà più in fretta a risuscitarlo, lo lasci morire.»

«Sissignore, sissignore» rispose Wolmak quattro minuti più tardi e passò parola ai marines.

Intanto i marines ampliavano l’area di ricerca e usavano monorepulsori per esplorare le pareti degli strapiombi intorno al Fallo di Shiva. Scandagliarono col radar il Rhan Tso, il lago Lontra, ma non trovarono né lontre né i cadaveri dei prelati scomparsi. Nell’enclave c’era stata, con il gruppo del Grande Inquisitore, una guardia d’onore di dodici marines — più il pilota della navetta — ma anche di loro non c’era traccia. Furono trovati sangue e visceri, fu analizzato il DNA e così si seppe la sorte di quasi tutti gli scomparsi, ma i loro cadaveri non furono trovati.

«Dobbiamo allargare la ricerca al Palazzo d’inverno?» domandò il tenente dei marines al comando della squadra. Tutti i marines avevano il preciso ordine di non disturbare i locali, in particolare il Dalai Lama e il suo popolo, prima che arrivasse la nave del Tecno-Nucleo a mettere a nanna la popolazione.

«Aspetta un momento» disse Wolmak. Vide che la spia del monitor dell’ammiraglio Lempriere era accesa. Anche il diskey di trasmissione, sulla sua rete di comando, palpitava: era l’ufficiale dei servizi segreti della Jibril, giù nella bolla dei sensori. «Sì?»

«Capitano, stavamo monitorando visualmente l’area del palazzo. Laggiù è accaduta una cosa terribile.»

«Quale?» sbottò brusco, Wolmak: di norma i membri del suo equipaggio non erano mai così vaghi.

«Ci era sfuggito, signore» disse l’ufficiale dei servizi. Era una donna giovane ma in gamba e Wolmak lo sapeva. «Usavamo strumenti ottici per controllare l’area intorno all’enclave. Ma guardi questo…»

Wolmak spostò leggermente la testa e guardò il pozzetto olografico dove si formava una immagine che veniva trasmessa anche all’ammiraglio. Il lato est del Palazzo d’inverno, a Potala, visto da alcune centinaia di metri sopra il ponte Kyi Chu.

Il piano stradale del ponte mancava, era stato ritirato. Ma sui gradini e sulle terrazze fra il palazzo e il ponte e su alcune strette cornici nel baratro fra il palazzo e il monastero Drepung sul lato est c’erano decine — centinaia — di cadaveri insanguinati e smembrati.

«Signore Iddio!» esclamò il capitano Wolmak. Si fece il segno di croce.

«Abbiamo identificato la testa del reggente Troka fra i cadaveri a pezzi» disse con calma l’ufficiale dei servizi.

«La testa?» ripeté Wolmak. Si rese conto che quell’inutile commento veniva trasmesso all’ammiraglio insieme col resto: fra quattro minuti l’ammiraglio Lempriere avrebbe saputo che lui faceva commenti stupidi. Pazienza. «Nient’altro di importante, laggiù?»

«Nossignore. Ma ora trasmettono su varie frequenze radio.»

Wolmak inarcò il sopracciglio: fino a quel momento il Palazzo d’inverno aveva mantenuto il silenzio radio. «Cosa dicono?»

«Parlano in cinese mandarino e in tibetano pre-Egira» rispose il tenente. Ma si affrettò a soggiungere: «Sono tutti in preda al panico, capitano. Il Dalai Lama non si trova. E neppure il capo della squadra di sicurezza del piccolo lama. Il generale Surkhang Sewon Chempo, capo della Guardia palatina, è morto, signore… hanno confermato d’avere trovato il suo cadavere privo di testa».

Wolmak lanciò un’occhiata all’orologio. La trasmissione era a metà strada dalla nave ammiraglia. «Chi è stato? Lo Shrike?»

«Non sappiamo, signore. Come ho detto, le telecamere erano puntate altrove. Controlleremo i dischi.»

«Bene, controllate» disse Wolmak. Non poteva aspettare ancora. Trasmise al tenente dei marines: «Vada al palazzo, tenente. Scopra cosa diavolo accade. Mando giù altre cinque navette, VEM da guerra e un tòttero con armamento pesante. Cerchi tracce dell’arcivescovo Breque, di padre Farrell o di padre LeBlanc. E del pilota e della guardia d’onore, naturalmente».

«Sissignore.»

La spia luminosa del collegamento internave divenne verde. In quel momento l’ammiraglio riceveva l’ultima trasmissione. Troppo tardi per aspettare l’ordine. Wolmak chiamò le due più vicine navi della Pax, navi torcia in orbita appena al di là della luna più esterna, e ordinò di prepararsi alla battaglia e di scendere nella stessa orbita della Jibril. Forse gli sarebbe servito maggior potere di fuoco. Wolmak aveva già visto i risultati dello Shrike in azione e si sentì gelare al pensiero che quel mostro comparisse all’improvviso nella sua nave. Chiamò il capitano Samuels nella nave torcia ASS San Bonaventura. «Carol» disse all’immagine dell’allarmato capitano «passa in spazio tattico, per favore.»

Si collegò e si trovò sopra il luccicante globo rannuvolato di T’ien Shan. Samuels comparve all’improvviso accanto a lui, nel buio punteggiato di stelle.

«Carol» disse Wolmak «laggiù succede qualcosa. Forse lo Shrike è di nuovo in azione. Se all’improvviso perdi contatto con la Jibril o se cominciamo a urlare frasi sconnesse…»

«Lancio tre navette di marines» disse Samuels.

«No. Polverizzi la Jibril. Immediatamente.»

Il capitano Samuels non nascose la sorpresa. E la spia luminosa nello spazio tattico rivelò che l’ammiraglia di Lempriere trasmetteva. Wolmak staccò il collegamento.

Il messaggio era breve. «Ho fatto accelerare la Raguele per un balzo planetario appena dentro il pozzo gravitazionale di T’ien Shan» diceva l’ammiraglio Lempriere. Il suo viso affilato aveva un’espressione molto seria.

Wolmak aprì bocca per protestare contro la decisione del suo superiore, si rese conto che la protesta sarebbe arrivata circa tre minuti dopo il balzo Hawking e rimase in silenzio. Un balzo planetario di quel genere era maledettamente pericoloso, come minimo una probabilità su quattro di un disastro che avrebbe coinvolto tutto l’equipaggio, ma Wolmak capiva l’esigenza dell’ammiraglio di trovarsi dove le informazioni fossero attuali e i suoi ordini potessero essere eseguiti immediatamente.

«Signore Iddio» pensò. «Il Grande Inquisitore è ferito e moribondo; l’arcivescovo e gli altri sono scomparsi; il fottuto palazzo del Dalai Lama somiglia a un formicaio preso a calci. Maledetto Shrike! Dov’è il corriere papale con gli ordini? Dov’è la nave del Nucleo che ci era stata promessa? Peggio di così non può andare!»

«Capitano?» Era il capo medico del gruppo operativo di marines e chiamava dall’infermeria della navetta.

«Rapporto.»

«Il cardinale Mustafa ha ripreso conoscenza, signore… è sempre cieco, certo… e soffre orribilmente, ma…»

«Passamelo!»

Un orribile viso sfigurato riempì la sfera olografica. Il capitano Wolmak intuì che altri, sul ponte di comando, si ritraevano inorriditi.

Il Grande Inquisitore era ancora tutto insanguinato. Urlava di dolore e mostrava denti rossi di sangue. Le sue orbite erano slabbrate e vuote, a parte filamenti di tessuto lacerato e rivoletti di sangue.

Sulle prime il capitano Wolmak non riuscì a capire che cosa urlasse il cardinale. Ma alla fine capì l’unica parola che il Grande Inquisitore continuava a ripetere.

«Nemes! Nemes! Nemes!»


Le tre creature chiamate Nemes, Scilla e Briareo continuano verso est.

Rimangono in fase tempo rapido, incuranti delle fantastiche quantità di energia che così consumano. L’energia arriva loro da altre parti. Non devono preoccuparsi. Tutta la loro esistenza ha portato a questo momento.

Dopo l’interludio atemporale di massacro sotto la Pargo Kaling, la Porta di Ponente, Nemes precede gli altri due su per la torre e lungo i grandi cavi metallici che sostengono il ponte sospeso. Attraversano a passo svelto il mercato Drepung: tre mobili figure che si muovono nell’aria rappresa come ambra e oltrepassano sagome umane impietrite sul posto. Nel mercato Phari, guardando le migliaia di statue umane che comprano, curiosano, ridono, discutono, si spintonano, Nemes sorride: potrebbe decapitarle tutte e loro non avrebbero nessun preavviso della propria morte. Ma ha un obiettivo.

Al raccordo della funivia della cresta Phari, i tre tornano in tempo lento: altrimenti la frizione sul cavo sarebbe un guaio.

"Scilla, la via Alta settentrionale" trasmette Nemes sulla banda comune. "Briareo, il ponte di mezzo. Io prendo la funivia."

I due cloni annuiscono, brillano di luce tremula e scompaiono. L’addetto alla funivia si fa avanti per protestare con Nemes che scavalca la fila di persone in attesa. È un momento di grande traffico.

Rhadamanth Nemes afferra l’addetto alla funivia e lo scaraventa giù dalla piattaforma. Varie persone infuriate avanzano su di lei, gridando, decise a fare vendetta.

Nemes salta dalla piattaforma e afferra il cavo. Non ha carrucola, freni, imbracatura da scalata. Muta di fase solo la palma delle mani e si lancia a tutta velocità verso la cresta K’un Lun. Gli inseguitori inferociti — dieci, venti, anche di più — si agganciano al cavo e le danno la caccia. L’addetto alla funivia aveva molti amici.

Nemes impiega metà del tempo normale a scavalcare il grande abisso tra Phari e la cresta K’un Lun. Frena malamente per accostare, muta di fase all’ultimo momento e va a sbattere contro la roccia. Si tira fuori dall’incavatura sbriciolata sulla parete dello strapiombo alla base della cornice d’atterraggio e torna al cavo.

Con un gemere di carrucole i primi inseguitori percorrono gli ultimi metri. Altri compaiono all’orizzonte, perle nere su un filo sottile. Nemes sorride, muta di fase le mani, le alza e recide il cavo.

Nota con sorpresa quanto siano pochi, fra quegli uomini e donne condannati, quelli che urlano mentre scivolano lungo il cavo che frusta l’aria e precipitano incontro alla morte.

Nemes va alle corde fisse, si arrampica a mani nude e poi taglia tutto: funi di salita, funi per la corda doppia, funi di sicurezza. Cinque agenti armati del distretto di polizia di K’un Lun, giunti da Hsi wang-mu, la affrontano sulla cresta appena a sud della funivia. Nemes muta di fase solo il braccio sinistro e li spazza via sbattendoli nel vuoto.

Si volge a nordovest, regola la visione a infrarossi e telescopica, inquadra il grande ponte oscillante di bambù bonsai che congiunge i promontori della via Alta fra la cresta Phari e la cresta K’un Lun. Il ponte crolla sotto i suoi occhi: le assi, le funi e i cavi di sostegno frustano l’aria mentre cadono contro la linea di cresta occidentale e l’estremità del ponte si inabissa nelle nubi di fosgene.

"Fatto" trasmette Briareo.

"Quanti erano sul ponte?" domanda Nemes.

"Parecchi." Briareo chiude la trasmissione.

Un attimo dopo, Scilla si collega. "Ponte nord crollato. Distruggo la via Alta man mano che procedo."

"Bene" dice Nemes. "Ci vediamo a Jo-kung."

Mentre attraversano la città-forra Jo-kung, i tre passano in tempo lento. Cade una pioggerella, le nuvole sono dense come nebbia estiva. Nemes ha i capelli incollati alla fronte e nota che Scilla e Briareo hanno il suo stesso aspetto. La gente si apre davanti a loro. La cornice che porta al Tempio a mezz’aria è deserta.

Con Nemes in testa alla fila, si avvicinano all’ultimo, breve ponte sospeso prima della cornice sotto la scalinata del tempio. Quello è stato il primo manufatto riparato da Aenea, una semplice campata oscillante di venti metri sopra una stretta fenditura tra guglie di dolomite, un migliaio di metri più in alto dei dirupi inferiori e delle prime nubi. Ora la nuvolaglia monsonica si gonfia sotto la struttura gocciolante e tutt’intorno.

Sulla cornice dello strapiombo, dall’altra parte del ponte, tra la fitta nuvolaglia, c’è qualcosa. Nemes passa al visore termico e sorride nel vedere che l’alta sagoma non irradia il minimo calore. Con un impulso radar emesso dalla fronte colpisce l’immagine e la studia: tre metri di statura, spine, dita a lama in quattro mani più grosse del normale, un carapace che riflette perfettamente gli impulsi radar, lame aguzze sul petto e sulla fronte, niente respirazione, lame taglienti che sporgono dalle spalle e chiodi dalla fronte.

"Perfetto" trasmette Nemes.

"Perfetto" concordano Scilla e Briareo.

La figura dall’altra parte del ponte non dice niente.


Arrivammo alla montagna appena in tempo, con solo qualche metro di buono. Usciti dai margini inferiori della corrente a getto, perdemmo quota in maniera continua e irreversibile. Sopra l’oceano di nuvole c’erano poche termali e molte correnti d’aria fredda; superammo la prima metà dei cento chilometri in pochi minuti di eccitante accelerazione, ma la seconda metà fu una discesa da fermare il cuore, a volte sicuri che ce l’avremmo fatta con buon margine, a volte convinti che saremmo precipitati nelle nuvole e non avremmo neppure visto la morte salire a circondarci finché gli alianti non avessero colpito il mare di acido.

Scendemmo davvero nelle nuvole, ma erano nuvole monsoniche, nuvole di vapore acqueo, nuvole respirabili. Volavamo il più possibile in gruppo, delta azzurro, delta giallo, delta verde che quasi si sfioravano con l’intelaiatura metallica e il tessuto dell’ala, più timorosi di perderci e di morire in solitudine che di urtarci e di precipitare insieme.

Durante quella discesa piena di apprensione, Aenea e io ci parlammo solo una volta. La nebbia si era infittita; scorgevo a stento l’ala gialla alla mia sinistra e pensavo: "Ha avuto un figlio… ha sposato un altro… ha amato un altro…" quando udii la sua voce nell’auricolare della tuta.

"Raul?"

"Sì, ragazzina."

"Ti amo, Raul."

Esitai un istante, ma il vuoto emotivo che un momento prima aveva cercato di inghiottirmi fu spazzato via dallo slancio di affetto per la mia giovane amica e amante. "Ti amo, Aenea."

Scendemmo più in basso, nel buio. Mi parve di sentire nel vento un odore acre: il margine delle nubi di fosgene?

"Ragazzina?"

"Sì, Raul?" La sua voce era un bisbiglio nel mio orecchio. Ci eravamo tolti tutt’e due la maschera osmotica, anche se ci avrebbe protetti dal fosgene. Non sapevamo se A. Bettik potesse respirare quel veleno. Se non poteva, avremmo messo in atto il tacito accordo fra Aenea e me: chiudere la maschera e trascinare l’androide su per il pendio e fuori della fascia venefica, nella speranza di raggiungere i margini della montagna prima di colpire il mare di acido, se possibile. Sapevamo che era un piano debole (quando ero sceso sul pianeta, il radar della nave mi aveva mostrato che la maggior parte dei picchi e delle creste cadeva a piombo sotto lo strato di nubi di fosgene: per noi sarebbe stata solo questione di minuti, tra l’ingresso nelle nubi e la caduta nel mare in ogni caso) ma era meglio avere un piano che arrendersi al destino. Nel frattempo, ci eravamo tolti la maschera e respiravamo aria pura finché potevamo.

"Ragazzina" dissi "se sai che non funzionerà… se hai visto ciò che pensi sia…"

"La mia morte?" completò lei per me. Io non sarei riuscito a dirlo.

Mossi stupidamente il capo in un cenno di assenso: non poteva vedermi, nella nuvolaglia.

"Sono solo possibilità, Raul" disse Aenea, piano. "Ma quella che ha le maggiori probabilità di verificarsi non è questa. Non preoccuparti. Non vi avrei chiesto di accompagnarmi, se avessi pensato che questa fosse… quella giusta." Malgrado la tensione, nella sua voce c’era una traccia di divertimento.

"Lo so" dissi, lieto che A. Bettik non potesse sentirci. "No, pensavo a un’altra cosa." Pensavo che forse lei sapeva che l’androide e io saremmo riusciti a raggiungere la montagna, ma lei no. Ora non ci credevo. Finché il mio destino era intrecciato al suo, potevo accettare qualsiasi cosa. "Mi domandavo perché scappiamo di nuovo, ragazzina" dissi. "Sono stufo di scappare dalla Pax."

"Anch’io. E abbi fiducia, Raul, non stiamo facendo solo questo, qui. Oh, merda!"

Non era proprio parola da riportare tra quelle esclamate da un messia, ma in un secondo capii la ragione del suo grido. Venti metri davanti a noi era comparso un pendio roccioso, grossi massi tondeggianti fra tratti di pietrisco, pareti a picco più in basso.

A. Bettik diede l’esempio: tirò in su la barra di comando all’ultimo istante, tolse le gambe dalle staffe dell’imbracatura e usò l’aliante come paracadute. Rimbalzò due volte, tirò giù rapidamente l’aliante e staccò l’imbracatura. Lhomo ci aveva detto varie volte che era importante, atterrando in punti pericolosi e battuti dal vento, staccarsi in fretta dal parapendio per non essere trascinati al di là di qualche ciglione. E decisamente lì c’era un ciglione oltre il quale potevamo essere trascinati.

Aenea toccò terra subito dopo e io qualche secondo più tardi. Il mio fu il più malfatto dei tre atterraggi: rimbalzai in alto, ricaddi quasi a piombo, mi procurai nel pietrisco una storta alla caviglia e finii sulle ginocchia, mentre il parapendio urtava violentemente un masso sopra di me, piegava l’intelaiatura metallica e lacerava la stoffa dell’ala. L’aliante a quel punto si piegò all’indietro e mi tirò verso l’orlo del precipizio, proprio come aveva detto Lhomo; ma A. Bettik afferrò i puntoni di sinistra, Aenea afferrò un attimo dopo il longherone destro spezzato e insieme riuscirono a stabilizzare il parapendio quanto bastava perché mi liberassi dell’imbracatura e mi allontanassi zoppicando di qualche passo dal relitto, tirandomi dietro lo zaino.

Aenea si inginocchiò sulle rocce fredde e bagnate ai miei piedi, mi slacciò lo scarpone ed esaminò la caviglia. «Non mi pare una storta grave» disse. «Forse gonfierà un poco, ma dovresti farcela a camminare.»

«Bene» dissi come uno stupido, consapevole solo delle sue mani nude sulla mia caviglia nuda. Poi sobbalzai un poco, mentre Aenea spruzzava sul gonfiore un liquido preso dal medikit.

Lei e A. Bettik mi aiutarono a tirarmi in piedi. Prendemmo i bagagli e iniziammo a braccetto a risalire il pendio scivoloso verso il punto dove le nubi luccicavano più vividamente.


Sbucammo alla luce bene in alto sui sacri pendii del T’ai Shan. Mi ero tolto il cappuccio e la maschera, ma Aenea mi consigliò di tenere la dermotuta. Indossai il giubbotto termico per sentirmi meno nudo e notai che la mia amica mi imitava. A. Bettik si strofinava il braccio e vidi che per il freddo d’alta quota aveva la pelle quasi bianca.

«Stai bene?» gli domandai.

«Benissimo, signor Endymion. Ma ammetto che qualche minuto ancora a quell’altitudine…»

Guardai in basso le nuvole che coprivano il punto dove avevamo piegato e abbandonato gli alianti danneggiati. «Ho il sospetto che non lasceremo questa montagna in parapendio» notai.

«Non ti sbagli» disse Aenea. «Guarda.»

Eravamo usciti dalla distesa di massi tondeggianti e di pietrisco; ci trovavamo in un altopiano erboso fra grandi pareti di roccia: prati di cactus succulenti intersecati di piste di zigocapre e di sentieri con pietre per passare a guado. Sulle rocce scorrevano rivoli d’acqua di scioglimento glaciale, ma c’erano ponti fatti con lastre di pietra. In lontananza alcuni pastori ci avevano guardato senza interesse mentre salivamo. Ora, superato un tornante sotto i grandi campi di ghiaccio, vedevamo in alto quelli che potevano solo essere templi di pietra bianca posti su bastioni grigi. I luccicanti edifici, vividi contro la distesa biancazzura di ghiaccio e i pendii innevati che salivano fuori vista fino allo zenit, parevano simili ad altari. Aenea mi aveva indicato una grande pietra bianca e liscia, di fianco al sentiero, sulla quale era incisa questa poesia:


A cosa posso paragonare il Grande Picco?

Nelle province intorno, il suo colore verdazzurro mai scompare alla vista.

Dal Plasmatore infuso del sublime potere di divinità,

ombreggiato e assolato, con i pendii divide la notte dal giorno.

Con petto anelante salgo verso le nuvole

e sforzo gli occhi per seguire uccelli che volano a casa:

un giorno raggiungerò la sua impareggiabile vetta

e in una sola occhiata vedrò tutte le montagne.

TU FU, dinastia T’ang, Cina, Vecchia Terra


E così entrammo a Tai’an, la Città di Pace. Là, sui pendii, c’erano decine e decine di templi, centinaia di botteghe, locande e abitazioni, innumerevoli sacrari e una strada fervida d’attività, costeggiata di banchetti, ciascuno coperto da un vivace riparo di tela. Le persone erano attraenti, parola inadeguata, ma l’unica adatta, penso: tutte con capelli neri, occhi vivaci, denti candidi, pelle sana, orgoglio e vigore nel portamento e nell’andatura. Avevano abiti di seta e di cotone stampato, vivaci ma di semplice eleganza, e c’erano tantissimi monaci in tonaca arancione o rossa. Se la folla ci avesse guardato a occhi sgranati, sarebbe stato giustificabile: nessuno visita T’ai Shan nei mesi del monsone. Invece vidi solo occhiate calorose e di benvenuto. Anzi, parecchie persone nella via si mossero intorno a noi, salutarono per nome Aenea, le toccarono la mano o la manica. Ricordai allora che la mia amica aveva già visitato il Grande Picco.

Aenea indicò la grande lastra di roccia bianca che copriva un pendio sopra la Città di Pace. Sulla lucida faccia di quella lastra, ci spiegò, era scolpito, in enormi caratteri cinesi, il Diamond Sutra, uno dei lavori basilari della filosofia buddhista, che ricordava al monaco e al passante la natura finale della realtà, simbolizzata nella vuota distesa di cielo azzurro. Aenea ci indicò anche la prima Porta Celeste al limitare della città: un gigantesco voltone di pietra sotto un tetto rosso a forma di pagoda, con il primo dei ventisettemila gradini che portavano alla vetta di Giada.

Per quanto possa sembrare incredibile, eravamo attesi. Nel grande gompa al centro della Città di Pace più di milleduecento monaci in tonaca rossa, seduti a gambe incrociate, pazienti, in fila, aspettavano Aenea. Il lama residente l’accolse con un grande inchino; Aenea aiutò l’anziano monaco a rimettersi in piedi e lo abbracciò. Poi A. Bettik e io ci trovammo seduti su un lato della bassa piattaforma fornita di cuscini, mentre Aenea rivolgeva un breve discorso alla folla in attesa.

«La scorsa primavera annunciai che sarei tornata in questo periodo» disse piano, con voce perfettamente chiara nel grande spazio di marmo «e mi compiaccio di rivedervi tutti. Per quelli di voi che fecero comunione con me durante la mia ultima visita: so che avete scoperto la verità di apprendere il linguaggio dei morti, di apprendere il linguaggio dei vivi e, per alcuni di voi, di udire la musica delle sfere e presto, ve lo prometto, di muovere quel primo passo.

«Oggi è un giorno triste per molti aspetti, ma il nostro futuro risplende di ottimismo e di cambiamento. Sono onorata che mi abbiate permesso di essere il vostro maestro. Sono onorata che abbiate condiviso con me l’esplorazione di un universo che è ricco al di là di ogni immaginazione.»

Si interruppe e guardò A. Bettik e me. «Questi sono i miei compagni, il mio amico A. Bettik e il mio amato Raul Endymion. Hanno condiviso con me tutte le avversità del viaggio più lungo della mia vita e condivideranno il pellegrinaggio di oggi. Quando vi lasceremo, varcheremo oggi le tre Porte Celesti, entreremo nella Bocca del Drago e — il Buddha e i fati del caos volendo — visiteremo la principessa delle Nubi azzurre e vedremo il Tempio dell’Imperatore di Giada.»

Si interruppe di nuovo e guardò le teste rasate e i vivaci occhi neri. Quelli non erano fanatici religiosi, capii, né servi bruti né asceti che si punivano da soli; erano invece file su file di intelligenti, curiosi, attenti giovani uomini e donne. Ho detto "giovani", ma fra i visi freschi e giovanili c’erano facce con la barba grigia e rughe sottili.

«Il mio caro amico lama mi dice che molti altri vogliono unirsi a noi in comunione con il Vuoto che lega» disse Aenea.

Un centinaio di monaci nella prima fila cadde in ginocchio.

Aenea annuì. «Così sia» disse piano. Il lama portò brocche di vino e molte semplici coppe di bronzo. Prima di riempire le coppe o di incidersi il dito per le gocce di sangue, Aenea disse: «Prima di farvi partecipi di questa comunione, devo ricordarvi che si tratta di cambiamento fisico, non spirituale. La vostra personale ricerca di Dio o della Illuminazione deve rimanere solo questo: vostra ricerca personale. Il cambiamento non vi porterà satori né salvezza. Porterà solo… cambiamento».

La mia giovane amica alzò il dito, quel dito che fra poco avrebbe inciso per trarne gocce di sangue. «Nelle cellule del mio sangue ci sono disposizioni uniche di DNA e di RNA, insieme con certi agenti virali che invaderanno il vostro corpo, dal rivestimento dello stomaco fino a ogni singola cellula. Questi virus invasivi sono somatici, cioè saranno trasmessi ai vostri figli.

«Ho insegnato ai vostri maestri, e loro hanno insegnato a voi, che questi cambiamenti fisici vi permetteranno, dopo un periodo di pratica, di toccare direttamente il Vuoto che lega per apprendere il linguaggio dei morti e dei vivi. Alla fine, con esperienza e pratica molto maggiori, forse vi sarà possibile udire la musica delle sfere e muovere un vero passo altrove.» Alzò ancora il dito. «Non si tratta di metafisica, miei cari amici. Si tratta di un agente virale mutante. Non potrete portare mai il crucimorfo della Pax, vi avverto; né mai potranno portarlo i vostri figli e i loro figli. Questo basilare cambiamento nell’anima dei vostri geni e cromosomi vi impedirà per sempre quella forma di longevità fisica.

«La comunione con me non offre immortalità, miei cari amici. Garantisce che la morte sarà la nostra fine comune. Lo ripeto, non offro vita eterna né satori istantaneo. Se è questo ciò che cercate davvero, dovete trovarlo nelle vostre personali ricerche religiose. Io vi offro solo un approfondimento dell’umana esperienza della vita e un legame con altri, umani o non umani, che hanno condiviso quell’impegno a vivere. Non dovete vergognarvi, se cambiate idea adesso. Ma ci sono dovere, disagio e grande pericolo, per coloro che partecipano a questa comunione e così diventano maestri del Vuoto che lega, oltre che compagni portatori di questo nuovo virus di scelta umana.»

Aspettò in silenzio, ma nessuno di quel centinaio di monaci si mosse o si allontanò. Rimasero tutti in ginocchio, a testa china, come in meditazione.

«Così sia» disse Aenea. «Vi faccio i miei migliori auguri.» Si punse il dito e ne trasse una goccia di sangue per ogni coppa già piena di vino che l’anziano lama le presentava.

In breve i cento monaci fecero girare le coppe e ciascuno di loro bevve un piccolo sorso. Allora mi alzai, deciso a mettermi in fondo alla fila e partecipare alla comunione, ma con un gesto Aenea mi chiamò accanto a sé.

«Non ancora, amore mio» mi bisbigliò all’orecchio, toccandomi la spalla.

Fui tentato di protestare: insomma perché venivo escluso? Invece ritornai a sedermi accanto ad A. Bettik. Mi chinai verso di lui e gli mormorai: «Non hai ancora fatto questa sorta di comunione, vero?».

L’androide sorrise. «No, signor Endymion. E non la farò mai.»

Stavo per domandargli perché, ma in quel momento la comunione finì, i milleduecento monaci si alzarono, Aenea camminò fra loro, scambiando qualche parola, toccando mani, e capii, dall’occhiata che mi lanciò da sopra le teste rasate, che per noi era tempo di andare via.


Nemes, Scilla e Briareo guardano lo Shrike al di là della campata del ponte sospeso; per un momento non mutano di fase, soppesano in tempo reale il loro nemico.

"È assurdo" trasmette Briareo. "Uno spauracchio per bambini. Tutto punte e spine e denti. Che sciocchezza."

"Raccontalo a Gige" replica Nemes. "Pronti?"

"Pronti" conferma Scilla.

"Pronti" conferma Briareo.

I tre mutano di fase all’unisono. Nemes vede l’aria intorno a loro ispessirsi e appesantirsi, la luce diventare uno sciroppo color seppia; anche se ora lo Shrike facesse la cosa più ovvia, tagliare i cavi che sorreggono il ponte, non avrebbe importanza: in tempo rapido, ci vorranno secoli perché il ponte cominci a cadere, tempo sufficiente perché il terzetto attraversi il ponte mille volte.

In fila indiana, con Nemes in testa, i tre attraversano subito il ponte.

Lo Shrike non cambia posizione. Non muove la testa per seguire il loro movimento. Negli occhi ha un luccichio smorto, come di vetro cremisi che rifletta l’ultimo bagliore del tramonto.

"Qualcosa non quadra" trasmette Briareo.

"Silenzio!" ordina Nemes. "Restate fuori della banda comune, a meno che non apra io il contatto." Ora è a meno di dieci metri dallo Shrike e la creatura non ha ancora reagito. Nemes continua ad avanzare nell’aria densa e infine mette piede su solida pietra. Il suo clone femmina la segue e prende posizione a sinistra. Briareo lascia il ponte e si pone a destra. Sono di fronte alla leggenda di Hyperion, a soli tre metri. Lo Shrike resta immobile.

«Togliti di mezzo o sarai distrutto» dice Nemes, mutando di fase quanto basta a parlare alla statua di cromo. «Hai fatto il tuo tempo. Oggi la ragazza è nostra.»

Lo Shrike non risponde.

"Distruggetelo" ordina Nemes ai suoi cloni e muta di fase.

Lo Shrike cambia tempo e scompare.

Nemes batte le palpebre, mentre le onde di shock temporale lanciano increspature intorno a lei; poi esamina i dintorni, usando l’intero spettro visivo. Nel Tempio a mezz’aria ci sono ancora alcuni esseri umani, ma non lo Shrike.

"Tempo lento" ordina Nemes e i suoi due compagni ubbidiscono subito. Il mondo si ravviva, l’aria si muove, il suono ritorna.

«Trovate la ragazza» ordina Nemes.

Scilla corre all’asse Saggezza del nobile ottuplice sentiero e sale a balzi la scalinata fino alla piattaforma della Giusta Comprensione. Briareo va all’asse Moralità e salta alla pagoda della Giusta Parola. Nemes prende la terza scalinata, la più alta, verso i padiglioni della Giusta Preoccupazione e della Giusta Meditazione. Col radar incorporato scorge delle persone nell’edificio più alto. Vi giunge in pochi secondi, esamina gli edifici e la parete dello strapiombo, cerca stanze segrete o nascondigli. Niente. Nel padiglione della Giusta Meditazione c’è una giovane donna. Per un istante Nemes pensa che la ricerca sia conclusa. Ma per quanto la donna sia dell’età di Aenea, non è Aenea. Nell’elegante pagoda ci sono altre persone: una donna molto anziana — Nemes la riconosce, è la Scrofa Folgore, l’ha vista al ricevimento del Dalai Lama — l’araldo e capo della sicurezza del Dalai Lama, Carl Linga William Eiheji, e il bambino in persona, il Dalai Lama.

«Dov’è?» dice Nemes. «Dov’è quella che si fa chiamare Aenea?»

Prima che uno degli altri possa rispondere, il guerriero Eiheji estrae dal mantello un pugnale e lo scaglia con la velocità del fulmine.

Nemes lo scansa facilmente. Anche senza passare in tempo rapido, ha reazioni più veloci di gran parte degli esseri umani. Ma quando Eiheji estrae una pistola a fléchettes, Nemes muta di fase, si avvicina all’uomo impietrito, lo include nel proprio campo di fase e lo getta nell’abisso, fuori della finestra pavimento-soffitto. Naturalmente, appena Eiheji lascia il campo di fase di Nemes, pare congelarsi a mezz’aria come un implume uccello gettato dal nido, incapace di volare ma restio a cadere.

Nemes si gira verso il bambino e torna in tempo lento. Dietro di lei, Eiheji lancia un urlo e precipita fuori vista.

Il Dalai Lama guarda a bocca aperta: per lui e per le due donne presenti, Eiheji è semplicemente scomparso da dove si trovava, accanto a loro, ed è ricomparso a mezz’aria fuori della porta shoji del padiglione, come se avesse scelto di teleportarsi a morte.

«Non puoi…» comincia la Scrofa Folgore.

«Hai il divieto di…» comincia il Dalai Lama.

«Non dovresti…» comincia la donna che, immagina Nemes, è o Rachel o Theo, compatriote di Aenea.

Nemes resta in silenzio. Passa in tempo rapido, si avvicina al bambino, lo include nel campo di fase, lo solleva e lo porta di peso alla parete spalancata.

"Nemes!" chiama Briareo dal padiglione della Giusta Opera.

"Che c’è?"

Invece di descrivere a parole sulla banda comune, Briareo usa energia extra per inviare un’immagine. Impietrita nell’aria color seppia, alcuni chilometri più in alto, con una fiamma di fusione solida come colonna azzurra, una nave scende sul pianeta.

"Muta di fase" ordina Nemes.


I monaci e l’anziano lama ci diedero un sacchetto di carta scura con il necessario per il pranzo. Diedero anche ad A. Bettik un’antiquata tuta a pressione del tipo che avevo visto solo nel museo dell’antico volo spaziale a Port Romance; ne offrirono una anche a Aenea e a me, ma le rifiutammo, mostrando la dermotuta che portavamo sotto il giubbotto termico. Quando varcammo la prima Porta Celeste, i milleduecento monaci si girarono a salutarci agitando il braccio e di sicuro due o tremila altri spingevano e allungavano il collo per vederci partire.

A parte noi tre, la grande scalinata era deserta. Ora salivamo con facilità; A. Bettik portava sulla schiena il casco trasparente ripiegato come un cappuccio, Aenea e io non ci eravamo calati sul viso la maschera osmotica. Ciascun gradino era largo sette metri, ma poco alto; la prima parte della salita fu abbastanza facile, con un’ampia terrazza ogni cento gradini. I gradini erano riscaldati dall’interno; così, anche mentre ci inoltravamo nella regione di ghiaccio e neve perenni a metà del T’ai Shan, la scala era sgombra.

Nel giro di un’ora avevamo raggiunto la seconda Porta Celeste, una enorme pagoda rossa con un voltone di quindici metri, e proseguimmo nella salita più ripida lungo la linea di faglia quasi verticale, la Bocca del Drago. Il vento aumentò d’intensità, la temperatura scese di colpo e l’aria divenne pericolosamente rarefatta. Alla seconda Porta Celeste ci eravamo rimessi l’imbracatura e ora ci agganciammo a una delle funi che correvano ai lati della scalinata, regolando la presa della carrucola in modo che agisse da freno se fossimo caduti o se il vento ci avesse spinto giù dai gradini sempre più infidi. Nel giro di qualche minuto A. Bettik gonfiò il casco trasparente e ci segnalò col pollice che tutto era a posto; Aenea e io sigillammo la maschera osmotica.

Continuammo a salire verso la Porta Celeste meridionale, ancora un chilometro più in alto, mentre intorno a noi il mondo sprofondava. Era la seconda volta in poche ore che ci si presentava un simile spettacolo, ma stavolta lo ammirammo appieno ogni trecento gradini, mentre con ansiti rumorosi riprendevamo fiato e guardavamo la luce del primo pomeriggio illuminare i grandi picchi. Tai’an, la Città di Pace, era ormai fuori vista, circa millecinquecento gradini e vari chilometri più in basso, sotto i campi di ghiaccio e le pareti rocciose che avevamo risalito. Mi ricordai che i comunicatori della dermotuta ci consentivano di nuovo l’intimità e dissi: "Come va, ragazzina?".

"Sono stanca" rispose Aenea, ma ravvivò con un sorriso la risposta.

"Puoi dirmi dove siamo diretti?"

"Al Tempio dell’Imperatore di Giada. Si trova sulla vetta."

"Ci avrei giurato" commentai, posando il piede sul largo gradino e alzando l’altro per posarlo sul gradino seguente. A quel punto la scalinata attraversava una sporgenza di roccia e ghiaccio. Se mi fossi girato a guardare di sotto, lo sapevo, avrei rischiato le vertigini. Era molto peggio del volo in parapendio. "Puoi dirmi per quale motivo saliamo al Tempio dell’Imperatore di Giada, mentre alle nostre spalle tutto va al diavolo?"

"Cosa intendi dire?"

"Intendo dire che probabilmente Nemes e i suoi cloni ci danno la caccia. La Pax sta per fare decisamente la sua mossa. Tutto va a rotoli. E noi andiamo in pellegrinaggio."

Aenea annuì. Ora il vento rombava anche nell’aria molto rarefatta: nel salire, infatti, eravamo entrati nella corrente a getto. Procedevamo a testa china, col corpo piegato, come sotto un pesante fardello. Mi domandai a che cosa pensasse l’androide.

"Perché non chiamiamo la nave e ce la filiamo in fretta e furia?" ripresi. "Se dobbiamo svignarcela, decidiamoci una buona volta."

Potevo vedere gli occhi di Aenea dietro la maschera che rifletteva l’azzurro sempre più scuro del cielo. "Appena chiameremo la nave" replicò la mia amica "venti o trenta navi della Pax caleranno su di noi come arpie. Non possiamo chiamarla, finché non saremo pronti."

Indicai la ripida scalinata. "E salire questa scala ci renderà pronti?"

"Me lo auguro" rispose piano Aenea. Negli auricolari udivo il sibilo del suo respiro.

"Cosa c’è lassù, ragazzina?"

Avevamo completato un’altra serie di trecento scalini. Ci fermammo, ansimanti, troppo stanchi per apprezzare il panorama. Eravamo saliti al limitare dello spazio. Il cielo era quasi nero. Alcune delle stelle più luminose erano visibili e una delle lune più piccole correva a precipizio verso lo zenit. "A meno che non sia una nave della Pax" pensai.

"Non so cosa troveremo, Raul" disse Aenea con voce stanca. "Scorgo di sfuggita degli eventi… continuo a sognarli… ma poi sogno lo stesso evento in un modo diverso. Non mi piace parlarne, finché non vedo quale realtà si presenta."

Annuii come se avessi capito, ma era una bugia. Riprendemmo la salita. "Aenea?"

"Sì, Raul."

"Perché non mi lasci fare… la comunione?"

Vidi la sua smorfia.

"Non mi piace chiamarla così."

"Lo so, ma così la chiamano tutti. Dimmi almeno questo: perché non mi lasci bere il vino?"

"Non è il tuo momento, Raul."

"Perché no?" Sentivo di nuovo, sotto la superficie, l’ira e la frustrazione mescolate alla torbida corrente d’amore che provavo per quella donna.

"Conosci i quattro passi di cui parlo…" cominciò Aenea.

"Apprendere il linguaggio dei morti, apprendere il linguaggio dei vivi… sì, sì, conosco i quattro passi" dissi, quasi con sufficienza, posando il piede vero su un vero gradino di solido marmo e muovendo stancamente un altro passo sull’infinita scalinata.

Aenea sorrise al mio tono. "Quelle cose tendono a… preoccupare la persona che le incontra per la prima volta" disse piano. "Al momento mi occorre la tua piena attenzione. Mi occorre il tuo aiuto!"

Questo aveva senso. Allungai la mano e le toccai la schiena sotto il giubbotto termico e la dermotuta. A. Bettik ci guardò e annuì come per approvare il nostro contatto. Ricordai a me stesso che non poteva avere ascoltato ciò che ci eravamo detti.

"Aenea, sei il nuovo messia?"

Lei sospirò. "No, Raul, non ho mai detto di essere un messia. Non ho mai voluto essere un messia. Al momento sono solo una donna stanca… ho mal di testa… e crampi… è il primo giorno del mio ciclo…"

Battei le palpebre per la sorpresa. "Be’, che diavolo" pensai "non accade tutti i giorni di confrontare il messia solo per sentirsi dire che ha ciò che gli antichi chiamavano ’le sue cose’."

Aenea si accorse del mio stupore e ridacchiò. "Non sono il messia, Raul. Sono stata semplicemente scelta per essere Colei che insegna. E cerco di insegnare, mentre… mentre posso."

Qualcosa, nella sua ultima frase, mi fece annodare lo stomaco per l’ansia. "E va bene" dissi. Terminammo altri trecento gradini e ci fermammo insieme, respirando ora più faticosamente. Guardai in alto. Non si vedeva ancora la Porta Celeste meridionale. Era mezzogiorno, ma il cielo aveva il colore nero dello spazio. Ardevano migliaia di stelle. Palpitavano appena. Mi resi conto che il sibilo e il rombo della corrente a getto erano scomparsi. Il T’ai Shan era il picco più alto di T’ien Shan, raggiungeva le frange più alte dell’atmosfera. Non fosse stato per le dermotute, gli occhi e le orecchie e i polmoni ci sarebbero esplosi come palloncini troppo gonfi. Il sangue sarebbe bollito. Il…

Cercai di pensare ad altro.

"D’accordo" dissi. "Ma se tu fossi davvero il messia, quale sarebbe il tuo messaggio alla specie umana?"

Aenea ridacchiò di nuovo, ma col tono di chi riflette, non di chi prende in giro. "Se fossi tu un messia" replicò tra un ansito e l’altro "quale sarebbe il tuo messaggio?"

Risi forte. A. Bettik non poteva avere udito il suono, nel quasi vuoto che ci divideva, ma di sicuro mi vide gettare indietro la testa, perché mi lanciò un’occhiata interrogativa. Lo tranquillizzai con un gesto e risposi a Aenea. "Non ne ho la minima idea."

"Appunto" disse lei. "Da bambina… da bambina piccola, cioè, prima di incontrarti… sapevo che mi sarebbe toccato di sopportare alcuni fardelli… e mi domandavo sempre quale messaggio avrei dato alla specie umana. Oltre alle cose che sapevo di dover insegnare, cioè. Un messaggio profondo. Una sorta di discorso della montagna."

Mi guardai intorno. A quella terribile altitudine non c’era ghiaccio né neve. I gradini bianchi e sgombri salivano tra ripiani di roccia nera e ripida. "Be’" dissi "la montagna c’è."

"Già." Nel suo tono sentii di nuovo la stanchezza.

"Allora, quale messaggio hai escogitato?" domandai, più per farla parlare e per distrarla che per ascoltare la risposta. Da un po’ di tempo non ci eravamo limitati a chiacchierare.

Vidi che sorrideva. "Ho continuato a lavorarci" disse infine Aenea. "Volevo renderlo breve e importante come il discorso della montagna. Poi ho capito che era tempo sprecato — come per zio Martin nel suo periodo di smania poetica, quando tentava di superare Shakespeare — così ho deciso che il mio messaggio sarebbe stato solo breve."

"Quanto breve?"

"Lo ridussi a trentacinque parole. Troppo lungo. Poi a ventisette. Ancora troppo lungo. In alcuni anni lo ridussi a dieci. Ancora troppo lungo. Alla fine lo fissai in due parole."

"Due parole? Quali?"

Eravamo arrivati al posto di riposo seguente, il diciassettesimo o diciottesimo gruppo di trecento gradini. Ci fermammo con sollievo e restammo ad ansimare. Mi chinai, posai le mani rivestite di dermotuta sulle ginocchia rivestite di dermotuta e mi concentrai per non vomitare. Non è educato, vomitare in una maschera osmotica. "Quali?" ripetei, quando ripresi un po’ di fiato e fui in grado di udire qualcosa di diverso dal forte battito del cuore e dal sibilo dei polmoni.

"Scegli ancora" disse Aenea.

Per un istante, tra sibili e ansiti, meditai su quelle parole. "Scegli ancora?" ripetei infine.

Aenea sorrise. Aveva ripreso fiato e guardava davvero lo scenario verticale, mentre io non osavo nemmeno girare la testa da quella parte. Pareva apprezzare lo spettacolo. Mi venne voglia di gettarla giù dalla montagna. I giovani. A volte sono insopportabili.

"Scegli ancora" disse con fermezza Aenea.

"Ti dispiace chiarire?"

"No. Il concetto è tutto qui. Mantienilo semplice. Fammi un esempio e capirai."

"Religione."

"Scegli ancora" disse Aenea.

Mi misi a ridere.

"Non è uno scherzo, Raul" disse Aenea. Riprendemmo la salita. A. Bettik pareva immerso nei suoi pensieri.

"Lo so, ragazzina" replicai, anche se non ne ero sicuro. "Esempi? Sistemi politici."

"Scegli ancora."

"Non credi che la Pax sia l’evoluzione finale della società umana? Ha portato la pace interstellare, un governo decente e… oh, sì… l’immortalità ai suoi cittadini."

"È tempo di scegliere ancora" disse Aenea. "E… a proposito delle nostre idee di evoluzione…"

"Ebbene?"

"Scegli ancora."

"Scelgo ancora cosa? La direzione dell’evoluzione?"

"No, si tratta di accertare se essa abbia o no una direzione. Ci sono molte teorie evolutive."

"Insomma, sei d’accordo o no con papa Teilhard, il pellegrino su Hyperion, padre Duré, quando diceva tre secoli fa che Teilhard de Chardin aveva ragione, che l’universo si evolve verso la consapevolezza e la congiunzione con la divinità? Ciò che chiamava il punto omega?"

Aenea mi guardò. "Hai letto molto nella biblioteca di Taliesin, vero?"

"Sì."

"No, non sono d’accordo con Teilhard, sia l’antico gesuita sia il papa dal breve pontificato. Sai, mia madre conobbe sia padre Duré sia l’attuale simulatore, padre Hoyt."

Rimasi un po’ sorpreso. Sì, certo, mi pareva di saperlo, ma il riaffacciarsi di questa realtà — i collegamenti della mia amica nell’arco degli ultimi tre secoli — mi sconvolgeva un poco.

"Comunque" continuò Aenea "nel corso dell’ultimo millennio la scienza dell’evoluzione ha preso davvero una bella fregatura. Prima il Nucleo si oppose attivamente all’indagine in quel campo, per paura di una rapida ingegneria genetica progettata dall’uomo, un’esplosione della nostra specie in forme varianti sulle quali il Nucleo non avrebbe potuto esercitare il proprio parassitismo. Poi l’Egemonia trascurò per secoli l’evoluzione e le bioscienze a causa della pressione del Nucleo. E ora la Pax ne è atterrita."

"Perché?"

"Perché la Pax ha terrore delle ricerche biologiche e genetiche?"

"No, questo credo di capirlo da solo. Le entità del Nucleo vogliono mantenere gli esseri umani nella forma e nella struttura con cui sono a loro agio e così fa la Chiesa. La loro definizione di creatura umana si basa in gran parte sul conteggio di braccia, gambe eccetera. Voglio dire invece: perché ridefinire l’evoluzione? Perché aprire il dibattito sulla direzione o la non direzione e così via? L’antica teoria non funziona abbastanza bene?"

"No" disse Aenea. Salimmo in silenzio per vari minuti. Poi Aenea disse: "Con l’eccezione di mistici come Teilhard, quasi tutti i primi scienziati evoluzionisti stavano molto attenti a non pensare all’evoluzione in termini di ’mete’ o di ’fini’. Quella era religione, non scienza. Perfino l’idea di una direzione era anatema, per gli scienziati pre-Egira. Si poteva parlare solo in termini di ’tendenze’ evolutive, una sorta di vezzi statistici che continuavano a ripresentarsi".

"E allora?"

"E allora questo era il loro pregiudizio da miopi, proprio come il pregiudizio di Teilhard de Chardin era la sua fede. Ci sono realmente direzioni, nell’evoluzione."

"Come lo sai?" Non ero sicuro che avrebbe risposto.

Invece rispose subito. "Alcuni dei dati che vidi prima di nascere, tramite i collegamenti di mio padre col Nucleo. Le intelligenze autonome nel Nucleo hanno capito l’evoluzione umana per molti secoli, anche mentre gli esseri umani restavano nell’ignoranza. In quanto iper-iper-parassiti, le IA si evolvono solo verso un parassitismo superiore. Possono solo guardare le creature viventi e la loro curva evolutiva e assistere… o tentare di fermarla."

"In quali direzioni allora procede l’evoluzione? Verso una maggiore intelligenza? Verso una sorta di mente alveare divina?" Ero curioso di sapere come avrebbe spiegato la sua percezione di Leoni e Tigri e Orsi.

"Mente alveare… puah!" sbuffò Aenea. "Puoi concepire una cosa più noiosa o sgradevole?"

Rimasi zitto. Mi ero quasi convinto che proprio questa fosse la direzione dei suoi insegnamenti: apprendere il linguaggio dei morti e tutto il resto. Presi l’appunto mentale di ascoltare con maggiore attenzione, la prossima volta che avesse insegnato.

"Le cose interessanti nell’esperienza umana sono quasi tutte il risultato ottenuto da un individuo che prova, sperimenta, spiega e mette a disposizione di ciascuno" disse la mia giovane amica. "Una mente alveare sarebbe le antiche trasmissioni televisive oppure una vita al culmine della sfera dati: una idiozia collettiva."

"Va bene" dissi, ancora confuso. "Da quale parte si dirige allora l’evoluzione?"

"Verso altra vita" disse Aenea. "La vita gradisce la vita. È proprio così semplice. Ma, cosa più sorprendente, anche la non-vita gradisce la vita… e vuole entrarci."

"Non capisco."

Aenea annuì. "Nella Vecchia Terra pre-Egira, nel 1920, c’era un geologo di una nazione-stato detta Russia che capì questa faccenda. Si chiamava Vladimir Vernadsky e coniò il termine ’biosfera’ che, se le cose andranno come penso io, acquisterà presto nuovo significato per tutt’e due."

"Perché?"

"Capirai, amico mio" disse Aenea, toccandomi la mano. "Comunque, nel 1926 Vernadsky scrisse: ’Gli atomi, una volta attirati nel fiume di materia vivente, lo lasciano con difficoltà’."

Riflettei un momento su queste parole. Non avevo grande preparazione scientifica — le mie nozioni provenivano da nonna e dalla biblioteca di Taliesin — ma ci vedevo un certo senso.

"Il concetto fu espresso in maniera più scientifica dodici secoli fa, come legge di Dolio" continuò Aenea. "In sostanza, l’evoluzione non torna indietro. Eccezioni come la balena della Vecchia Terra, che tenta di tornare pesce dopo essere vissuta come mammifero terrestre, sono rare. La vita si muove in avanti, trova di continuo nuove nicchie da invadere."

"Già. Come quando l’uomo lasciò la Vecchia Terra nelle navi seminatrici e nei veicoli a propulsione Hawking."

"Non proprio. In primo luogo, abbiamo mosso prematuramente quel passo a causa del Nucleo e del fatto che la Vecchia Terra stava per morire per il buco nero nelle proprie viscere, sempre a causa del Nucleo. In secondo luogo, grazie alla propulsione Hawking potevamo balzare nel nostro braccio della galassia e trovare pianeti di tipo terrestre al livello più alto della scala Solmev, molti dei quali sono stati comunque terraformati e seminati con forme di vita della Vecchia Terra, a cominciare dai batteri del suolo e dai lombrichi, fino ad arrivare alle anatre che cacciavi nelle paludi di Hyperion."

Risposi con un cenno d’assenso, ma pensavo: in quale altro modo avremmo potuto fare, essendo una specie che si spostava nello spazio? Cosa c’è di male, nell’andare in luoghi che hanno una certa somiglianza con la patria, soprattutto quando la patria non è più lì per tornarci?

"C’è qualcosa di più interessante, nelle osservazioni di Vernadsky e nella legge di Dolio" disse Aenea.

"Cosa, ragazzina?" Pensavo ancora alle anatre.

"La vita non si ritira."

"Come mai?" Appena fatta la domanda, capii.

"Proprio così" disse Aenea, accorgendosi che avevo capito. "Appena la vita ha un appiglio da qualche parte, si ferma. Fai un nome a caso: gelo artico, i deserti ghiacciati del Vecchio Marte, sorgenti d’acqua bollente, una parete rocciosa a picco come qui su T’ien Shan, perfino nei programmi delle intelligenze autonome… Una volta che la vita infila il suo proverbiale piede nella porta di casa, vi resta per sempre."

"E quali sono le implicazioni?"

"Solo questa: lasciata ai propri progetti, che sono progetti intelligenti, la vita riempirà un giorno l’universo. Una galassia verde, per cominciare, e poi via negli ammassi stellari e nelle galassie vicine."

"Un pensiero che mette a disagio."

Aenea si fermò a guardarmi. "Perché, Raul? A me pare un pensiero bellissimo."

"Pianeti verdi ne ho visti. Un’atmosfera verde riesco a immaginarla, ma è irreale."

Aenea sorrise. "Non devono essere solo piante. La vita si adatta: uccelli, uomini e donne in macchine volanti, tu e io in parapendio, persone adattate per volare…"

"Questo non è ancora avvenuto. Ma volevo dire un’altra cosa: ecco, avere una galassia verde, persone e animali e…"

"E macchine viventi" disse Aenea. "E androidi, vita artificiale in migliaia di forme…"

"Già, persone, animali, macchine, androidi, quant’altro, dovrebbero adattarsi allo spazio… non vedo come…"

"Noi lo vediamo. E molti lo vedranno, fra poco." Terminammo altri trecento gradini e ci fermammo a prendere fiato.

"Nel processo evolutivo ci sono altre direzioni di cui non abbiamo parlato?" dissi, mentre riprendevamo la salita.

"Diversità e complessità crescenti" rispose Aenea. "Per secoli gli scienziati hanno discusso su queste direzioni, ma non c’è dubbio che l’evoluzione favorisca, alla lunga, tutt’e due questi attributi. E dei due, la diversità è il più importante."

"Perché?" Di sicuro cominciavo a stufarla, con i miei continui perché. Alle mie stesse orecchie parevo un bambino di tre anni.

"Gli scienziati hanno sempre pensato che i progetti evolutivi di base continuano a moltiplicarsi" disse Aenea. "Si chiama disparità. Ma saltò fuori che non era questo il caso. La varietà nei piani di base tende a decrescere, mentre il potenziale antientropico della vita, ossia l’evoluzione, aumenta. Guarda per esempio tutti gli orfani della Vecchia Terra: stesso DNA di base, ovviamente, ma anche stessi piani di base, evoluti da forme con viscere tubolari, simmetria radiale, occhi, bocca per nutrirsi, due sessi, proprio dallo stesso stampo."

"Non hai appena detto che la diversità è importante?"

"Ed è importante. Ma diversità e disparità del piano di base non sono la stessa cosa. Appena l’evoluzione ha un buon piano di base, tende a gettare via le varianti e a concentrarsi nella quasi infinita diversità all’interno di quel piano: migliaia… decine di migliaia… di specie correlate."

"Le trìlobiti." Cominciavo a capire.

"Sì" disse Aenea. "E quando…"

"Scarafaggi. Tutte le maledette specie di scarafaggi."

Aenea mi sorrise. "Precisamente. E quando…"

"Cimici. Tutti i pianeti dove sono stato avevano lo stesso maledetto brulichio di cimici. Moscerini. Infinite varietà di…"

"Hai afferrato l’idea. Quando il piano di base per un organismo è stabilizzato e si aprono nuove nicchie, la vita passa a una marcia più alta. Si stabilisce in queste nicchie espandendo la diversità nell’ambito della forma basilare di quegli organismi. Nuove specie. Migliaia di nuove specie di piante e di animali sono venute in esistenza solo nell’ultimo millennio dall’inizio del volo interstellare, e non tutte sono dovute alla bioingegneria: alcune si sono semplicemente adattate a ritmo sfrenato ai nuovi mondi di tipo terrestre dove sono state scaricate."

"Tripioppi" dissi, ricordando solo Hyperion. "Semprazzurri. Piegrovie. Alberi tesla?"

"I tesla erano indigeni" disse Aenea.

"Perciò la diversità è utile" dissi, nel tentativo di ritrovare il filo originario della discussione.

"La diversità è utile" convenne Aenea. "Come ho detto, permette alla vita di cambiare marcia e continuare il suo compito di routine, rendere verde l’universo. Ma c’è almeno una specie della Vecchia Terra che non si è diversificata molto, almeno non nei pianeti favorevoli che ha colonizzato."

"Noi" dissi. "La specie umana."

Aenea annuì, torva. "Siamo rimasti sempre la stessa specie, fin da quando i nostri antenati Cro-Magnon spazzarono via i più intelligenti uomini di Neandertal. Ora abbiamo l’occasione di diversificarci rapidamente e istituzioni come l’Egemonia, la Pax e il Nucleo ci bloccano."

"La necessità di diversificarsi si estende alle istituzioni umane? Religioni? Sistemi sociali?" Pensavo alle persone che mi avevano aiutato su Vitus-Gray-Balianus B, Dem Ria, Dem Loa e le loro famiglie. Pensavo agli Spettroelica di Amoiete e alle loro complicate e contorte credenze.

"Senza dubbio" disse Aenea. "Guarda là."

A. Bettik si era soffermato davanti una lastra di marmo che recava incise delle parole, in cinese e in antico inglese della Rete:


Alto si leva il Picco Orientale

svettando nel cielo azzurro.

Fra le rocce… una vuota cavità,

segreta, immobile, misteriosa!

Non scolpita e non scavata,

dalla natura nascosta con un tetto di nubi.


Tempo e stagioni, che cosa siete,

per portare alla mia vita continuo cambiamento?

Alloggerò per sempre in questa cavità

dove primavere e autunni passano ignorati.

TAOYUN, moglie del generale Wang Ning-chih, 400 d.C.


Riprendemmo la salita. Mi parve di scorgere qualcosa di rosso in cima alla successiva rampa di scalini. La Porta Celeste meridionale e l’ingresso al pendio della vetta? Era quasi ora.

"Non era bella?" dissi, riferendomi alla poesia. "Nelle istituzioni umane una continuità come quella non ha la stessa importanza della diversità? O addirittura maggiore importanza?"

"Ha importanza" convenne Aenea. "Ma è quasi tutto ciò che la specie umana ha fatto nell’ultimo millennio, Raul: ricreare su pianeti diversi le istituzioni e le idee della Vecchia Terra. Guarda l’Egemonia. Guarda la Chiesa e la Pax. Guarda questo pianeta…"

"T’ien Shan? Mi pare meraviglioso…"

"Anche a me. Ma è tutto preso in prestito. Il buddhismo si è evoluto un poco, almeno si è staccato dall’idolatria e dai rituali, è tornato all’apertura mentale che lo caratterizzava all’inizio, ma ogni altra cosa è in pratica un tentativo di ricatturare cose perdute con la Vecchia Terra."

"Per esempio?"

"La lingua, il modo di vestire, i nomi delle montagne, gli usi locali… diavolo, Raul, anche questo sentiero di pellegrinaggio e il Tempio dell’Imperatore di Giada, se mai ci arriveremo."

"Vuoi dire che c’era un monte T’ai Shan sulla Vecchia Terra?"

"Ma certo. Con la sua Città di Pace e le Porte Celesti e la Bocca del Drago. Confucio lo salì più di tremila anni fa. Ma sulla Vecchia Terra la scala aveva solo settemila gradini."

"Vorrei che ci fosse toccata quella!" esclamai. Non ero sicuro di riuscire a continuare la salita. I gradini erano brevi, ma non finivano mai. "Però capisco il tuo punto di vista."

Aenea annuì. "È meraviglioso, preservare la tradizione; ma un organismo in buona salute si evolve, culturalmente e fisicamente."

"E questo ci riporta all’evoluzione" dissi. "Quali sono le altre direzioni, tendenze, mete o come diavolo le chiami, che sono state ignorate negli ultimi secoli?"

"Ce ne sono ancora alcune altre" disse Aenea. "Una è il sempre crescente numero di individui. Alla vita piacciono fantastiliardi di specie, ma piacciono ancora di più iperfantastiliardi di individui. In un certo senso, l’universo è attrezzato per gli individui. Nella biblioteca, a Taliesin, c’era un libro intitolato Sistemi gerarchici in evoluzione, scritto da un tale della Vecchia Terra, Stanley Salthe. L’hai visto?"

"No, mi sarà sfuggito quando leggevo quei romanzi oloporno del primo XXI secolo."

"Ah-hah" disse Aenea. "Be’, Salthe pose la questione in termini piuttosto precisi: ’Un numero indefinito di individui unici può esistere in un mondo materiale finito se gli individui sono annidati l’uno dentro l’altro e se quel mondo è in espansione’."

"Annidati l’uno dentro l’altro" ripetei, riflettendo. "Sì, capisco. Come i batteri della Vecchia Terra nelle nostre viscere e i parameci che abbiamo portato nello spazio e le altre cellule nel nostro corpo… più mondi, più persone… sì."

"L’inghippo è più persone" disse Aenea. "Ne abbiamo centinaia di miliardi, ma fra la Caduta e la Pax, l’attuale numero della popolazione umana nella galassia, senza contare gli Ouster, si è livellato nelle ultime centinaia di anni."

"Be’, il controllo delle nascite è importante" dissi, ripetendo ciò che insegnavano a tutti su Hyperion. "Voglio dire, soprattutto ora che il crucimorfo è in grado di mantenere in vita le persone per secoli e secoli…"

"Appunto. Con l’immortalità artificiale c’è maggiore ristagno, fisico e culturale. È un fatto."

Corrugai la fronte. "Ma non è un buon motivo per negare alla gente l’estensione della vita, no?"

Aenea rispose con voce remota, come se contemplasse qualcosa di molto più grande. "No" disse. "Di per sé, no."

"Quali sono le direzioni del processo evolutivo?" domandai, vedendo avvicinarsi la pagoda rossa e pregando che la conversazione mi tenesse la mente lontano dal collasso, dal ruzzolone giù per i ventimila e passa gradini che già avevamo salito.

"Solo altre tre meritano di essere citate" disse Aenea. "Crescente specializzazione, crescente interdipendenza, crescente capacità di evolversi. Tutt’e tre sono davvero importanti, ma l’ultima è la più importante."

"Cosa vuoi dire, ragazzina?"

"Voglio dire che l’evoluzione stessa si evolve. Deve. La capacità di evolversi è un tratto di sopravvivenza ereditario. I sistemi, viventi e altro, devono imparare come evolversi e, a un certo grado, controllare la direzione e la velocità della propria evoluzione. Noi, voglio dire la specie umana, eravamo sul punto di fare proprio questo, un migliaio di anni fa, ma il Nucleo ce lo ha impedito. Almeno, alla maggior parte di noi."

"Cosa significa ’la maggior parte di noi’?"

"Fra qualche giorno capirai, Raul, te lo prometto."

Arrivammo alla Porta Celeste meridionale e varcammo l’ingresso, un arco sotto un tetto a pagoda dorato. Al di là c’era la via Celeste, un pendio poco accentuato che portava alla vetta appena visibile. La via Celeste era niente di più di un sentiero su roccia nera e brulla. Pareva di camminare su una luna priva d’aria, come quella della Vecchia Terra: qui le condizioni erano quasi altrettanto suscettibili alla vita. Aprii bocca per dire a Aenea che quella era una nicchia dove la vita non aveva ancora messo piede, quando lei lasciò il sentiero e ci guidò a un piccolo tempio di pietra posto fra le aspre rupi e i crepacci, alcune centinaia di metri sotto la vetta. C’era una camera stagna così antica che pareva uscita da una delle prime navi seminatrici. Con mia sorpresa, quando Aenea attivò il cuscinetto a pressione, funzionò; entrammo e aspettammo che si compisse il ciclo e si aprisse il portello interno. Lo varcammo.

Ci trovammo in una stanzetta quasi spoglia, a parte un vaso di bronzo ornato di bassorilievi, con fiori freschi, alcuni ramoscelli verdeggianti sopra una bassa pedana e una magnifica statua, un tempo dorata, di una donna a grandezza naturale, con vesti che parevano fatte d’oro. La donna aveva le guance paffute e l’espressione amabile, una sorta di Buddha al femminile; portava una corona di foglie dorate e aveva dietro la testa una bizzarra aureola cristiana, d’oro battuto.

A. Bettik si tolse il casco e disse: «L’aria è respirabile. La pressione dell’aria è più che soddisfacente».

Aenea e io ripiegammo i cappucci della dermotuta. Era un piacere respirare normalmente.

Ai piedi della statua c’erano bastoncini d’incenso e una scatola di fiammiferi. Aenea si inginocchiò e accese un bastoncino. Il profumo d’incenso era molto forte.

«Questa è la principessa delle Nubi azzurre» disse, sorridendo al sorriso della faccia dorata. «La dea dell’alba. Accendendo il bastoncino d’incenso ho appena fatto un’offerta per la nascita di nipoti.»

Iniziai a sorridere e mi bloccai. "Lei ha un figlio. La mia amata ha già un figlio." Mi sentii stringere la gola e guardai dall’altra parte, ma Aenea si avvicinò e mi prese per il braccio.

«Pranziamo?»

Mi ero dimenticato del sacchetto di carta con il pranzo. Sarebbe stato difficile pranzare senza togliersi il casco o le maschere osmotiche.

Ci sedemmo nella fioca luce della stanza priva di finestre, fra le volute di fumo e il profumo d’incenso, e mangiammo i panini preparati dai monaci.

«E ora dove andiamo?» dissi, mentre Aenea avviava il ciclo della camera stagna.

«Ho sentito dire che sul lato orientale della vetta c’è un precipizio, il baratro dei Suicidi» disse A. Bettik. «Un luogo per un serio sacrificio. Saltare da lì, si dice, fornisce istantanea comunione con l’Imperatore di Giada e assicura che la richiesta di chi si offre venga esaudita. Se vuole davvero garantirsi dei nipoti, potrebbe fare il salto da lì.»

Fissai a bocca aperta l’androide. Non avevo mai capito se avesse il senso dell’umorismo o semplicemente una personalità fuori squadra.

Aenea scoppiò a ridere. «Andiamo prima al Tempio dell’Imperatore di Giada» disse. «Vediamo se c’è qualcuno in casa.»

Appena fuori, fui subito colpito dall’isolamento della dermotuta e dalla nitidezza di ogni cosa nell’assenza di aria. La maschera osmotica era diventata quasi opaca per la non filtrata ferocia del sole di mezzodì a quella altitudine. Le ombre erano nette e aspre.

Eravamo a circa cinquanta metri dalla vetta e dal tempio, quando una figura uscì dal buio dell’ombra gettata da un masso e ci bloccò la strada. Pensai: "Lo Shrike!" e scioccamente strinsi i pugni, ancora prima di vedere di chi si trattava.

Davanti a noi c’era un uomo molto alto, in tuta da combattimento nel vuoto dello spazio, squarciata da colpi di lancia a energia. Armatura standard dei marines della Flotta della Pax e delle guardie svizzere. Scorgevo il viso dietro il visore antimpatto: pelle nera, lineamenti forti, capelli a spazzola, bianchi. L’uomo aveva sul viso cicatrici livide, recenti. Negli occhi, un’espressione non proprio amichevole. Portava un fucile d’assalto multiuso classe marines; lo alzò e lo puntò contro di noi. La sua trasmittente era sintonizzata sulla banda delle dermotute.

"Alt!"

Ci fermammo.

Il gigante parve incerto su cosa fare. "Alla fine la Pax ci ha presi" fu il mio primo pensiero.

Aenea avanzò di un passo. "Sergente Gregorius?" La sua voce giunse anche a me, sulla banda della dermotuta.

L’uomo piegò di lato la testa, ma non abbassò l’arma. Non dubitavo che il fucile funzionasse perfettamente nel vuoto, che sputasse nugoli di fléchettes, o energia, o un raggio di particelle a carica elettrica, o proiettili di piombo o ipercinetici. La bocca del fucile era puntata contro il viso di Aenea.

"Come fai a sapere che mi chiamo…" cominciò il gigante e poi parve vacillare all’indietro. "Sei lei. La ragazza. Quella che abbiamo cercato per tutto questo tempo, per tanti sistemi solari. Aenea."

"Sì" disse Aenea. "Ci sono altri superstiti?"

"Tre" rispose l’uomo che Aenea aveva chiamato Gregorius. Indicò alla sua destra e riuscii appena a scorgere una nera cicatrice sulla roccia nera e i resti anneriti di qualcosa che poteva essere stato un modulo di emergenza per abbandonare una nave in avaria.

"Il padre capitano de Soya è fra loro?" domandò Aenea.

Ricordai il nome. Ricordai la voce di de Soya alla radio della navetta, quando il padre capitano ci aveva trovato, salvato da Nemes e poi lasciato su Bosco Divino, tanto tempo fa, quasi dieci degli anni di Aenea.

"Sì" disse il sergente Gregorius "il capitano è vivo, ma appeso a un filo. Ha riportato gravi ustioni a bordo della povera Raffaele. Se non fosse svenuto, sarebbe ridotto in atomi come la nave; così invece sono riuscito a trascinarlo in una scialuppa di salvataggio. Gli altri due sono feriti, ma il padre capitano sta per morire." Abbassò il fucile e vi si appoggiò stancamente. "Morire della vera morte… non abbiamo culle di risurrezione. Il padre capitano mi ha fatto promettere di disintegrarlo, appena morto. Non vuole risuscitare come un idiota privo di cervello."

Aenea annuì. "Puoi portarmi da lui? Ho bisogno di parlargli."

Gregorius si mise in spalla il pesante fucile e guardò con sospetto A. Bettik e me. "Quei due…"

"Lui è un mio caro amico" disse Aenea, toccando il braccio di A. Bettik. "E questo è l’uomo che amo."

Il gigantesco sergente si limitò ad annuire, si girò e ci precedette per l’ultimo tratto di pendio fino alla vetta e al Tempio dell’Imperatore di Giada.

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