PARTE PRIMA

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«Il papa è morto! Lunga vita al papa!»

Il grido echeggiò per tutto il cortile vaticano di San Damaso, subito dopo la scoperta, negli appartamenti papali, del corpo senza vita di papa Giulio XIV. Il Santo Padre era morto nel sonno. Nel giro di qualche minuto la notizia si diffuse nel gruppo di edifici male assortiti tuttora noto come Palazzo Vaticano e poi si sparse fuori, in tutto lo Stato del Vaticano, con la velocità di una scintilla elettrica in un ambiente di ossigeno puro. La notizia della morte del papa esplose nel complesso di uffici del Vaticano, balzò dalla gremita porta di Sant’Anna al Palazzo apostolico e all’adiacente Palazzo del governo, trovò orecchie attente tra i fedeli nella basilica di San Pietro, tanto da spingere l’arcivescovo celebrante messa a girare la testa per scoprire la causa di quei bisbigli e mormoni senza precedenti nella folla di fedeli; poi si riversò con i fedeli fuori della basilica e si diffuse nella più fitta folla in piazza San Pietro, dove da ottanta a centomila visitatori, turisti e funzionari della Pax, reagirono come una massa critica di plutonio spinta alla fissione.

Varcata la porta carraia principale dell’Arco delle Campane, la notizia accelerò alla velocità degli elettroni, poi raggiunse quella della luce e infine si precipitò fuori del pianeta Pacem e si propagò alla velocità della propulsione Hawking, mille volte superiore a quella della luce. Sul posto, appena fuori delle antiche mura del Vaticano, telefoni e comlog trillarono da un capo all’altro del massiccio Castel Sant’Angelo, montagna di pietra costruita in origine come mausoleo di Adriano e ora sede del Sant’Uffizio dell’Inquisizione. Per tutto il mattino, fra tintinnii di coroncine del rosario e fruscii di abiti talari inamidati, funzionari del Vaticano tornarono di corsa nei propri uffici per tenere d’occhio le linee criptate in attesa di una nota dall’alto. Trasmettitori personali squillarono, trillarono e vibrarono nell’uniforme e negli impianti di migliaia di amministratori della Pax, di comandanti militari, di politici e di funzionari della Pax Mercatoria. Entro trenta minuti dalla scoperta del corpo del papa, le agenzie d’informazione intorno al pianeta Pacem si misero in moto: prepararono le olocamere automatiche, misero in linea lo spiegamento di satelliti relè interplanetari, inviarono nell’ufficio stampa del Vaticano i loro migliori cronisti umani e rimasero in attesa. In una società interstellare sotto il controllo quasi assoluto della Chiesa, le notizie, per esistere, aspettavano non solo conferma indipendente, ma anche il permesso ufficiale.

Due ore e dieci minuti dopo la scoperta del corpo senza vita, la Chiesa confermò la morte di papa Giulio XIV, con un annuncio dell’ufficio del segretario di Stato del Vaticano, il cardinale Lourdusamy. In pochi secondi, l’annuncio registrato fu diffuso a ogni radio e olovisore sul brulicante pianeta Pacem. La popolazione di Pacem, un miliardo e mezzo di anime, tutti cristiani rinati che avevano accettato il crucimorfo, in gran parte impiegati nel Vaticano o nella smisurata burocrazia civile, militare e commerciale della Pax, si fermò ad ascoltare con un certo interesse.

Ancora prima dell’annuncio ufficiale, dodici delle nuove astronavi classe Arcangelo avevano lasciato le basi orbitali ed erano traslate da un capo all’altro della piccola sfera occupata dall’uomo nel braccio della galassia: il sistema di propulsione quasi istantaneo aveva ucciso gli equipaggi, ma le navi portavano al sicuro, in computer e transponder in codice, la notizia della morte del papa a una sessantina dei più importanti pianeti arcidiocesi e sistemi solari. Quelle navi corriere Arcangelo avrebbero riportato su Pacem, in tempo per l’elezione, alcuni dei cardinali con diritto di voto; ma quasi tutti gli elettori sarebbero rimasti sul proprio pianeta, evitando la morte nonostante la certezza della risurrezione, e avrebbero inviato invece il proprio wafer olografico interattivo criptato con l’eligo per il prossimo pontefice.

Altre ottantacinque navi classe Hawking della Pax, quasi tutte navi torcia ad alta accelerazione, si prepararono a raggiungere la velocità relativistica e a disporsi nella configurazione per il balzo, con un tempo di viaggio che andava da giorni a mesi, mentre il debito temporale relativo sarebbe andato da settimane a interi anni. Quelle navi sarebbero rimaste in attesa nello spazio di Pacem per i quindiciventi giorni standard necessari all’elezione del nuovo papa e poi avrebbero portato la notizia ai circa 130 sistemi della Pax meno importanti, dove arcivescovi si prendevano cura di altri miliardi di fedeli. Quei pianeti arcidiocesi a loro volta sarebbero stati incaricati di inoltrare a sistemi minori, a pianeti remoti e alla miriade di colonie nella Periferia, la notizia della morte del papa, della sua risurrezione e della sua rielezione.

Un’ultima flotta di più di duecento navette automatiche senza equipaggio fu tratta dai depositi nella gigantesca base asteroide della Pax nel sistema di Pacem: una volta inserito nei chip per i messaggi l’annuncio ufficiale della rinascita di papa Giulio e della sua rielezione, le navette avrebbero raggiunto la velocità necessaria alla propulsione Hawking e avrebbero portato la notizia a elementi della Flotta della Pax impegnati in pattugliamento o in combattimento contro gli Ouster, gli Espulsi, lungo la sfera difensiva detta Grande Muraglia, molto al di là dei confini dello spazio della Pax.

Papa Giulio era già deceduto otto volte. Aveva il cuore in cattive condizioni, ma non permetteva ai medici di rimetterlo in sesto, né con la chirurgia né con la nanoplastica. Era convinto che un papa dovesse vivere la propria vita naturale e che, alla sua morte, bisognasse eleggere un nuovo papa. Lui stesso era stato rieletto otto volte, ma non per questo aveva cambiato opinione.

Ora, mentre gli addetti preparavano il corpo di papa Giulio per la formale esposizione solenne nella camera ardente, prima di portarlo nella cappella privata dietro la basilica di San Pietro e farlo rinascere, i cardinali e i loro sostituti si disponevano all’elezione del nuovo pontefice.

La Cappella Sistina fu chiusa ai turisti e preparata per la votazione che avrebbe avuto luogo dopo meno di tre settimane. Furono approntati antichi stalli a baldacchino per gli ottantatré cardinali che avrebbero presenziato di persona e furono sistemati proiettori olografici e collegamenti interattivi al piano dati per i cardinali che avrebbero votato per procura. Davanti all’altare della cappella fu posto il tavolo per gli scrutatori. Sul tavolo furono sistemate con cura piccole schede, aghi, filo, un contenitore, un piatto, pezzuole di lino e altri oggetti, il tutto coperto con un panno di lino. Il tavolo per gli invalidatori e per i revisori fu posto di fianco all’altare. La porta principale della Cappella Sistina fu chiusa a catenaccio e sigillata. Drappelli di guardie svizzere in uniforme da combattimento e con le armi più moderne presero posto davanti alla porta della cappella e ai battenti a prova d’esplosivo della dipendenza di San Pietro per la risurrezione del papa.

Seguendo l’antico protocollo, l’elezione si sarebbe tenuta entro non meno di quindici giorni e non più di venti. I cardinali che risiedevano su Pacem o nel raggio di tre settimane di debito temporale da quel pianeta, annullarono ogni impegno e si predisposero al conclave. Tutto il resto era in preparazione.


Alcuni uomini grassi considerano la propria mole una debolezza, un segno di indulgenza verso se stessi e di accidia. Altri l’accettano con regalità, come segno esteriore di crescente potere. Il cardinale Simon Augustino Lourdusamy apparteneva a quest’ultima categoria. Gigantesco, una vera montagna scarlatta nell’abito cardinalizio, pareva prossimo ai sessant’anni standard e manteneva quell’aspetto da più di due secoli di vita attiva e di riuscite risurrezioni. Guance cascanti, completa calvizie, propensione a parlare con un pacato brontolio di basso che poteva assurgere a un divino ruggito in grado di riempire la basilica di San Pietro senza bisogno di altoparlante, Lourdusamy rimaneva l’incarnazione della buona salute e della vitalità nel Vaticano. Molti, nella cerchia più ristretta della gerarchia ecclesiastica, attribuivano a Lourdusamy, a quel tempo giovane funzionario della macchina diplomatica vaticana, il merito di avere guidato l’angosciato e tormentato ex pellegrino di Hyperion, padre Lenar Hoyt, alla scoperta del segreto che aveva reso il crucimorfo lo strumento della risurrezione. Attribuivano a lui, tanto quanto al papa appena deceduto, il merito di avere salvato la Chiesa già sull’orlo dell’estinzione.

Vera o no quella leggenda, Lourdusamy era in buona forma, quel primo giorno dopo la nona morte del Santo Padre in carica, a cinque giorni dalla sua risurrezione. Come cardinale segretario di Stato, presidente del comitato supervisore delle dodici Sacre congregazioni e prefetto di quella più temuta ed equivocata, la Sacra congregazione per la dottrina della fede (ora ufficialmente conosciuta di nuovo, dopo un intervallo di più di mille anni, come il Sant’Uffizio dell’Inquisizione universale), era la persona di maggior potere nella Curia pontificia. In quel momento, mentre Sua Santità papa Giulio XIV era solennemente esposto nella basilica di San Pietro, in attesa di essere trasferito, al calar della sera, nella cappella per la risurrezione, il cardinale Simon Augustino Lourdusamy poteva essere ritenuto a ragione il più potente essere umano dell’intera galassia.

Cosa di cui il cardinale era ben consapevole, quel mattino.

«Sono già qui?» rombò Lourdusamy all’uomo che da più di duecento anni si impegnava come suo aiutante e factotum. Monsignor Luca Oddi era tanto magro, ossuto, anziano d’aspetto e scattante, quanto il cardinale Lourdusamy era grasso, opulento, senza età, placido. Il titolo esatto di Oddi in qualità di sottosegretario di Stato del Vaticano era sostituto e segretario della Cifra, ma in genere era noto come il sostituto. "Cifra" sarebbe stato un nomignolo altrettanto valido per l’alto e spigoloso amministratore benedettino, perché in ventidue decenni di abile servizio padre Luca Oddi non aveva lasciato capire a nessuno, neppure allo stesso Lourdusamy, le proprie opinioni ed emozioni. Era stato il braccio forte di Lourdusamy per tanto di quel tempo che il cardinale ormai pensava a lui come a una estensione della sua stessa volontà.

«Si sono appena accomodati nella sala d’attesa interna» rispose monsignor Oddi.

Il cardinale Lourdusamy annuì. Da più di mille anni — da molto tempo prima dell’Egira, quando la specie umana aveva abbandonato la Terra morente e si era disseminata fra le stelle — era usanza del Vaticano tenere importanti riunioni nella sala d’attesa di importanti funzionari anziché nell’ufficio privato dei medesimi. La sala d’attesa interna del segretario di Stato cardinale Lourdusamy era piccola, non più di cinque metri quadrati, e disadorna, a parte un tavolo di marmo, rotondo, senza apparecchiature di trasmissione, una sola finestra che se non avesse avuto vetri polarizzati avrebbe mostrato una loggia esterna con mirabili affreschi, e due quadri del genio del XXX secolo Karotan: l’Agonia di Cristo nell’orto di Getsemani e papa Giulio (nella sua identità prepontificia di padre Lenar Hoyt) che riceveva il primo crucimorfo da un arcangelo d’aspetto vigoroso ma androgino, mentre Satana (nella forma dello Shrike) assisteva, impotente.

Le quattro persone nella sala d’attesa, tre uomini e una donna, rappresentavano il consiglio esecutivo della Lega pancapitalista delle organizzazioni commerciali transtellari cattoliche indipendenti, più nota come Pax Mercatoria. Due degli uomini, Helvig Aron e Kennet Hay-Modhino, parevano padre e figlio: erano molto simili, perfino nell’elegante e costoso abito con cappa, nel taglio di capelli, costoso e tradizionale, nei lineamenti nordeuropei della Vecchia Terra abilmente bioscolpiti e nelle ancora più raffinate spille rosse indicanti l’appartenenza al Sovrano ordine militare dell’ospedale di San Giovanni di Gerusalemme, di Rodi e di Malta, l’antica società nota comunemente col nome Cavalieri di Malta. Il terzo uomo, di ascendenza asiatica, indossava una semplice veste di cotone, lunga e ampia. Si chiamava Kenzo Isozaki e quel giorno era, dopo il cardinale Simon Augustino Lourdusamy, il secondo uomo più potente della Pax. L’ultimo rappresentante della Pax Mercatoria era una donna sulla cinquantina, Anna Pelli Cognani — capelli neri dal taglio poco curato, viso molto magro, economico abito da lavoro di fibroplastica pettinata -, generalmente ritenuta l’erede designata di Isozaki e, a dar retta ai pettegolezzi, da anni l’amante di un’altra donna, l’arcivescovo di Vettore Rinascimento.

I quattro si alzarono e salutarono con un lieve inchino il cardinale Lourdusamy che prendeva posto al tavolo. Monsignor Luca Oddi era l’unico spettatore; si teneva a una certa distanza dal tavolo, mani congiunte sul grembo, mentre, dietro la sua spalla coperta dal nero abito talare, gli occhi sofferenti del Cristo a Getsemani di Karotan scrutavano il piccolo gruppo riunito.

Aron e Hay-Modhino si avvicinarono al cardinale e piegarono il ginocchio per baciare l’anello ornato da uno zaffiro tagliato a unghia, ma con un gesto Lourdusamy dispensò tutti da ogni formalità, prima che si avvicinassero anche Kenzo Isozaki e Anna Pelli Cognani. Quando i quattro rappresentanti della Pax Mercatoria si furono nuovamente accomodati, il cardinale disse: «Siamo tutti vecchi amici, anche se in questa riunione rappresento la Santa Sede per la temporanea assenza del Santo Padre. Ogni argomento discusso oggi, lo sapete, rimarrà fra queste mura». Sorrise. «E queste mura, amici miei, sono le più sicure della Pax, assolutamente a prova di intercettazione.»

Aron e Hay-Modhino sorrisero a denti stretti. L’amabile espressione di Isozaki non cambiò. La ruga sulla fronte di Anna Pelli Cognani divenne più marcata. «Eminenza» disse la donna «posso parlare liberamente?»

Lourdusamy mosse la mano grassoccia, palma in alto. Diffidava sempre di chi chiedeva di parlare liberamente o di chi giurava di parlare con la massima sincerità o di chi usava espressioni come "in tutta franchezza". Disse: «Ma certo, mia cara amica. Mi spiace solo che le attuali urgenti circostanze ci concedano così poco tempo».

Anna Pelli Cognani annuì: aveva capito l’ordine di essere concisa. «Eminenza» disse «abbiamo chiesto questo incontro per parlarle non solo in qualità di membri leali della Lega pancapitalista di Sua Santità, ma come amici della Santa Sede e suoi.»

Lourdusamy annuì affabilmente e increspò le labbra in un lieve sorriso. «Certo» disse.

Helvig Aron si schiarì la voce. «Eminenza, la Pax Mercatoria ha un comprensibile interesse nell’imminente elezione del papa.»

Lourdusamy attese in silenzio.

«Il nostro obiettivo, oggi» disse Hay-Modhino «è rassicurare sua eminenza, sia come segretario di Stato sia come potenziale candidato al soglio pontificio, che dopo la prossima elezione la Lega continuerà a portare avanti con la massima lealtà la politica del Vaticano.»

Lourdusamy annuì in maniera quasi impercettibile. Capiva perfettamente la situazione. Chissà come, la Pax Mercatoria — o meglio, il servizio segreto di Isozaki — aveva subodorato una possibilità d’insurrezione nelle gerarchie del Vaticano. In qualche modo i servizi avevano origliato i bisbigli più soffocati in stanze a prova di bisbiglio come quella: era tempo che un nuovo pontefice prendesse il posto di papa Giulio. E Isozaki sapeva che Simon Augustino Lourdusamy sarebbe stato quel nuovo pontefice.

«In questo spiacevole interregno» disse Anna Pelli Cognani «noi sentiamo il dovere di offrire private e pubbliche assicurazioni che la Lega continuerà a servire gli interessi della Santa Sede e della Santa Madre Chiesa, così come ha fatto per più di due secoli standard.»

Il cardinale Lourdusamy annuì di nuovo e aspettò, ma i quattro capi della Pax Mercatoria non aggiunsero altro. Per un momento Lourdusamy si concesse di fare ipotesi sul motivo per cui Isozaki era venuto di persona. "Per vedere la mia reazione, anziché fidarsi del rapporto dei suoi subordinati" pensò. "Il vecchio si fida dei propri sensi e delle proprie intuizioni più di quanto non si fidi di qualsiasi altra cosa." Sorrise. "Buona politica" riconobbe tra sé. Lasciò che il silenzio si protraesse per un altro minuto buono.

«Amici miei» rombò alla fine «non potete sapere quanto mi scaldi il cuore che quattro persone così impegnate e importanti facciano visita a questo povero prete nel momento del cordoglio da noi tutti condiviso.»

Isozaki e la Cognani rimasero impassibili, inerti come l’argon; ma il cardinale scorse il malcelato luccichio d’anticipazione negli occhi degli altri due uomini della Pax Mercatoria: accettando il loro sostegno in quel momento, Lourdusamy avrebbe posto la Pax Mercatoria a pari livello dei cospiratori del Vaticano, l’avrebbe resa un congiurato gradito e de facto coeguale al prossimo papa.

Lourdusamy si sporse sul tavolo. Notò che Isozaki non aveva battuto ciglio durante l’intero scambio di battute. «Amici miei» riprese «come buoni cristiani rinati…» accennò ad Aron e Hay-Modhino «e come Cavalieri di Malta, senza dubbio conoscete la procedura per l’elezione del nostro prossimo papa. Ma permettetemi di rinfrescarvi la memoria. Una volta che i cardinali e le loro controparti interattive saranno riuniti e chiusi nella Cappella Sistina, abbiamo tre modi per eleggere il papa: per acclamazione, per delega, per scrutinio. Per acclamazione, tutti i cardinali elettori sono spinti dallo Spirito Santo a proclamare supremo pontefice un candidato. Ciascuno di noi proclama: Eligo, eleggo, e fa il nome della persona dai noi unanimemente eletta. Per delega, affidiamo ad alcuni di noi, una decina di cardinali, il compito di fare la scelta. Per scrutinio, i cardinali elettori esprimono con voto segreto la propria preferenza e procedono finché un candidato non ottiene la maggioranza di due terzi più uno. Allora è eletto il nuovo papa e i miliardi di fedeli in attesa vedono la fumata bianca, che significa che la famiglia della Chiesa ha di nuovo un Santo Padre.»

I quattro rappresentanti della Pax Mercatoria rimasero in silenzio. Ciascuno di loro conosceva bene la procedura per l’elezione del papa; non solo gli antiquati meccanismi, ovviamente, ma anche gli aspetti politici, le pressioni, gli accordi, gli inganni, i veri e propri ricatti che spesso avevano accompagnato nei secoli l’elezione. E cominciavano a capire perché ora il cardinale Lourdusamy sottolineasse l’ovvio.

«Nelle ultime nove elezioni» continuò il cardinale, con la sua voce profonda «il papa è stato eletto per acclamazione, per la diretta intercessione dello Spirito Santo.» Esitò qualche secondo, in un pesante silenzio. Dietro di lui, monsignor Oddi osservava la scena, immobile come il Cristo dipinto alle sue spalle, impassibile come Kenzo Isozaki.

«Non ho motivo di credere» proseguì finalmente Lourdusamy «che la prossima elezione sia diversa dalle precedenti.»

I rappresentanti della Pax non si mossero. Alla fine Kenzo Isozaki chinò impercettibilmente la testa: il messaggio era stato ricevuto e capito. Non ci sarebbe stata insurrezione tra le mura del Vaticano. O, se ci fosse stata, Lourdusamy la teneva saldamente sotto controllo e non aveva bisogno del sostegno della Pax Mercatoria. Se la prima ipotesi era quella giusta e ancora non era giunto il momento del cardinale Lourdusamy, papa Giulio avrebbe di nuovo governato la Chiesa e la Pax. Il gruppo di Isozaki aveva corso un terribile rischio, giustificato dagli incalcolabili vantaggi e dal potere che avrebbe ricavato se avesse avuto successo nell’allearsi con il futuro pontefice. Ora doveva affrontare le conseguenze di quel terribile rischio. Un secolo prima, papa Giulio aveva scomunicato il predecessore di Kenzo Isozaki per un errore di calcolo molto meno importante di quello: gli aveva revocato il sacramento del crucimorfo e l’aveva condannato a una vita priva di contatti con la comunità cattolica, che ovviamente comprendeva ogni uomo, donna e bambino di Pacem e della maggior parte dei pianeti della Pax, seguita dalla vera morte.

«Ora» rombò il cardinale Lourdusamy «rimpiango che pressanti doveri mi debbano sottrarre alla vostra amabile compagnia.»

Prima che il cardinale potesse alzarsi, con un gesto che andava contro il protocollo per congedarsi da un principe della Chiesa, l’anziano miliardario della Pax Mercatoria Kenzo Isozaki avanzò rapidamente, si inginocchiò e baciò l’anello di Lourdusamy. «Eminenza» mormorò.

Stavolta Lourdusamy non si alzò; prima di lasciare la stanza, aspettò che ciascun primo funzionario esecutivo della Pax Mercatoria venisse avanti e gli mostrasse il proprio rispetto.


Il giorno dopo la morte di papa Giulio, un’astronave classe Arcangelo traslò nel sistema del pianeta Bosco Divino. Era l’unica Arcangelo non assegnata al servizio di corriere; più piccola delle nuove navi della stessa classe, si chiamava Raffaele.

Alcuni minuti dopo che la Raffaele si fu sistemata in orbita intorno a quel pianeta color della cenere, una navetta si staccò dal corpo principale e scese rombando nell’atmosfera. A bordo c’erano due uomini e una donna. Parevano fratelli: corporatura snella, colorito smorto, capelli scuri e corti, occhi socchiusi, labbra sottili. Indossavano disadorne tute spaziali rosse e nere, con elaborati comlog da polso. La loro presenza nella navetta era una bizzarria: a causa della violenta traslazione nello spazio di Planck, le navi classe Arcangelo causavano invariabilmente la morte degli esseri umani trasportati e le culle di risurrezione di bordo richiedevano in genere tre giorni per riportare in vita l’equipaggio umano.

Quei tre non erano umani.

La navetta morfizzò due ali, modificò in un guscio aerodinamico la propria struttura esterna, attraversò il terminatore e passò a velocità 3 mach nella parte illuminata del pianeta. Bosco Divino, un tempo il mondo dei templari, era un susseguirsi di cicatrici d’incendi, di campi di ceneri, di colate di fango, di ghiacciai in ritirata, di verdi sequoie che si sforzavano di riprendere possesso del territorio desertificato. La navetta rallentò a velocità subsonica, volò sopra la stretta fascia del clima temperato, nei pressi dell’equatore, coperta di vitale vegetazione, e seguì il corso di un fiume fino al ceppo di quello che era stato l’Albero Mondo. Il ceppo, del diametro di ottantatré chilometri e alto ancora un chilometro malgrado lo scempio dell’albero originario, si alzava sull’orizzonte meridionale come una nera mesa. La navetta evitò il ceppo dell’Albero Mondo e seguì il fiume, verso ovest; diminuì gradualmente quota e atterrò su un macigno tondeggiante nei pressi del punto dove il fiume entrava in una stretta gola.

I due uomini e la donna scesero dalla scaletta e passarono in rassegna la scena. In quella parte del pianeta era metà mattino: il fiume rumoreggiava sulle rapide, gli uccelli e gli arboricoli lanciavano i loro richiami nascosti nei fitti alberi più lontano a valle. L’aria profumava di aghi di pino, di inclassificabili odori alieni, di terriccio bagnato e di cenere. Più di due secoli e mezzo prima, Bosco Divino era stato bombardato dallo spazio e devastato. Gli alberi dei templari, alti duecento metri, erano stati distrutti; quelli che non erano fuggiti nello spazio erano bruciati in un grande incendio durato per la maggior parte di un secolo, estinto alla fine solo da un inverno nucleare.

«Attenti» disse uno degli uomini, mentre i tre scendevano alla riva del fiume. «I monofilamenti piazzati qui da lei dovrebbero essere ancora al loro posto.»

La donna annuì e dallo zaino di flussoschiuma che portava in spalla tolse un’arma laser. Selezionò su massima dispersione il raggio del laser e sventagliò il fiume. Filamenti così sottili da sfuggire alla vista brillarono come una tela di ragno nella rugiada del mattino, una tela che intersecava il fiume, girava intorno ai massi, si immergeva nell’acqua coperta di spuma e ne riemergeva.

«Dove dobbiamo lavorare non ce ne sono» disse la donna, spegnendo il laser. I tre attraversarono una depressione lungo il fiume e risalirono un pendio roccioso. Lì il granito aveva raggiunto la fusione ed era affluito a valle come lava durante la distruzione di Bosco Divino, ma in un punto del terreno a terrazze c’erano segni di una catastrofe più recente. Accanto alla sommità di un macigno, dieci metri sopra il fiume, c’era un cratere scavato dal fuoco nella solida roccia. Perfettamente circolare, profondo mezzo metro, il cratere aveva un diametro di cinque metri. Nel lato a sudest, dove una cascata di roccia fusa si era riversata fra mille zampilli nel fiume, si era formata una sorta di scalinata di pietra nera. La roccia che riempiva la cavità circolare in cima al masso era più scura e più liscia del resto: pareva lucida onice posta in un crogiolo di granito.

Uno degli uomini scese nella cavità, si distese sulla liscia pietra e accostò l’orecchio alla roccia. Dopo un secondo si alzò e rivolse agli altri due un cenno di assenso.

«Fatevi indietro» disse la donna. Toccò il comlog da polso.

I tre erano arretrati di cinque passi, quando la lancia di pura energia saettò dallo spazio. Uccelli e arboricoli fuggirono tra gli alberi, schiamazzando di terrore. L’aria si ionizzò e si surriscaldò in pochi secondi, produsse un’onda d’urto in ogni direzione. Rami e foglie presero fuoco a cinquanta metri dal punto di contatto del raggio di energia. Il conoide di vivido splendore coprì esattamente il diametro della conca circolare nel masso e ne mutò la liscia superficie in un lago di fuoco fuso.

I due uomini e la donna non trasalirono. Le tute spaziali cominciarono a fumare nel calore intenso come al centro di una fornace, ma il tessuto speciale non prese fuoco. Nemmeno la carne dei tre.

«Ora» disse la donna, superando il ruggito del raggio d’energia e della tempesta di fuoco in espansione. Il raggio dorato svanì di colpo. Aria calda si precipitò a riempire il vuoto, con la violenza di una raffica di tempesta. La conca nella roccia era un cerchio di lava ribollente.

Uno degli uomini piegò il ginocchio e parve tendere l’orecchio. Poi rivolse agli altri un cenno e mutò di fase. L’attimo prima era carne e ossa e sangue e pelle e capelli; l’attimo seguente era una scultura di cromo e argento, a forma d’uomo. Il cielo azzurro, la foresta ardente e il lago di fuoco fuso si riflettevano alla perfezione sulla sua pelle argentata e cangiante. L’uomo tuffò un braccio nel lago, si piegò sulle ginocchia per arrivare più a fondo, estrasse qualcosa. La sagoma argentea della sua mano parve essersi amalgamata nella superficie di un’altra argentea sagoma umana, quella di una donna. Tra sibili e zampilli, la scultura maschile tirò fuori dal calderone di lava la scultura femminile e la trasportò per cinquanta metri, in un punto dove l’erba non aveva preso fuoco e la pietra era abbastanza fredda da reggere il loro peso. Il secondo uomo e la donna lo seguirono.

Il primo uomo mutò di fase e non fu più una sagoma argento e cromo; l’attimo dopo la donna da lui trasportata lo imitò. Quella che emerse dalla forma d’argento liquido pareva la gemella della donna dai capelli corti in tuta spaziale.

«Dov’è la piccola bastarda?» domandò la donna appena ripescata dalla roccia fusa. Un tempo aveva un nome: Rhadamanth Nemes.

«Tutti spariti» rispose l’uomo che l’aveva ripescata. Lui e il suo compagno parevano fratelli o cloni della stessa persona. «Hanno raggiunto l’ultimo teleporter.»

Rhadamanth Nemes reagì con una smorfia. Fletteva le dita e muoveva le braccia come per riprendersi dai crampi. «Almeno ho ucciso il maledetto androide» commentò.

«No» disse l’altra donna, la sua gemella. Non aveva nome. «Sono partiti nella navetta della Raffaele. L’androide ha perduto un braccio, ma è sopravvissuto grazie al robochirurgo.»

Nemes annuì e riportò lo sguardo sull’altura rocciosa dove scorreva ancora la lava. Il bagliore del fuoco mostrava sul fiume il luccichio della rete di monofilamenti. Alle spalle dei quattro, la foresta era in fiamme.

«Non era… piacevole… là dentro» disse Nemes. «Non ho potuto muovermi, schiacciata dalla forza del raggio d’energia della nave, e poi non ho potuto mutare di fase, circondata com’ero dalla roccia. È stata necessaria una concentrazione immensa, per ridurre al minimo l’energia e mantenere ancora attiva un’interfaccia di mutamento di fase. Per quanto tempo sono rimasta sepolta?»

«Quattro anni terrestri» disse l’uomo che fino a quel momento non aveva aperto bocca.

Rhadamanth Nemes inarcò il sopracciglio, non tanto per la sorpresa quanto per chiedere spiegazioni. «Eppure il Nucleo sapeva dov’ero…»

«Il Nucleo sapeva dov’eri» confermò l’altra donna. Aveva la stessa voce e la stessa espressione di quella appena salvata. «E sapeva che hai fallito.»

Nemes sorrise a denti stretti. «Allora i quattro anni sono stati un castigo.»

«Un promemoria» precisò l’uomo che l’aveva estratta dalla roccia fusa.

Rhadamanth Nemes mosse due passi, come per saggiare l’equilibrio. Parlò in tono neutro. «Perché siete venuti a prendermi?»

«La ragazza» spiegò l’altra donna. «Sta tornando. Dobbiamo riprendere la tua missione.»

Nemes annuì.

L’uomo che l’aveva ricuperata le posò la mano sulla spalla. «Tieni presente che quattro anni in una tomba di fuoco e di roccia saranno roba da ridere a confronto di ciò che puoi aspettarti nel caso di un secondo fallimento.»

Nemes lo fissò a lungo, senza parlare. Poi tutti e quattro, girando le spalle alla roccia fusa e alle fiamme, con un movimento che pareva disposto da una precisa coreografia, all’unisono, tornarono alla navetta.


Sul pianeta desertico Madrededios, nell’alto pianoro chiamato Llano Estacado a causa dei piloni generatori di atmosfera che ritagliavano il deserto a intervalli di dieci chilometri formando una griglia regolare, padre Federico de Soya si preparò per la messa di primo mattino.

La piccola città di Nuevo Atlan contava meno di trecento abitanti — in gran parte minatori di bauxite della Pax in attesa di morire prima di tornare a casa, più alcuni marianisti convertiti che si guadagnavano stentatamente da vivere facendo i pastori di corgor nelle tossiche terre desolate — e padre de Soya sapeva con esattezza quante persone avrebbe trovato nella cappella per la prima messa: quattro, ossia la vecchia signora Sanchez, una vedova molto anziana che si diceva avesse ucciso il marito durante una tempesta di sabbia, sessantadue anni prima; i gemelli Perell, che per ignote ragioni preferivano la vecchia e cadente chiesetta alla cappella della compagnia, pulitissima e munita d’aria condizionata, nella riserva mineraria; e il misterioso vecchio dal viso segnato dalle radiazioni che se ne stava inginocchiato nell’ultimo banco e non faceva mai la comunione.

Soffiava una tempesta di sabbia, ne soffiava sempre una, e padre de Soya superò di corsa gli ultimi trenta metri, dalla parrocchia di mattoni crudi alla sacrestia, coprendosi la testa e le spalle con una mantella di fibroplastica trasparente per proteggere l’abito talare e la berretta, e tenendo il breviario infilato nella tasca della tonaca per mantenerlo pulito. Non funzionò. Ogni sera, quando si toglieva la tonaca o appendeva a un gancio la berretta, la sabbia si riversava in una cascatella rossastra, simile a sangue secco da una clessidra rotta. E ogni mattina, quando apriva il breviario, la sabbia crepitava tra le pagine e gli si attaccava alle dita.

«Buon giorno, padre» disse Pablo, mentre il prete entrava di corsa in sacrestia e faceva scivolare i frusti sigilli antivento sull’intelaiatura della porta.

«Buon giorno, Pablo, il mio più fedele chierichetto» rispose padre de Soya. In realtà, si corresse tra sé, il mio unico chierichetto. Pablo era un bambino semplice — nell’antico senso della parola, ossia lento di mente oltre che onesto, sincero, fedele e amichevole — e serviva messa ogni giorno della settimana, alle sei e mezzo, e due volte la domenica, anche se alla prima messa domenicale assistevano sempre le stesse quattro persone e alla seconda messa sei o sette minatori di bauxite.

Pablo annuì e sorrise; per un attimo il sorriso scomparve sotto la cotta pulita e inamidata che infilò sulla tonaca da chierichetto.

Padre de Soya passò davanti al bambino, gli arruffò i capelli neri e aprì l’alta cassapanca dei paramenti sacri. Il mattino era diventato scuro come la notte nel deserto: la tempesta di sabbia aveva inghiottito l’alba e l’unica luce della stanza spoglia e fredda proveniva dalla tremolante lampada della sacrestia. De Soya si mise in ginocchio, pregò con zelo per alcuni secondi, poi cominciò a indossare i paramenti.

Per due decenni, in qualità di padre capitano nella Flotta della Pax, comandante di navi torcia come la Baldassarre, Federico de Soya aveva portato uniformi dove la croce e il collare erano gli unici segni della sua condizione di prete. Aveva portato l’armatura da battaglia di plastiridio, tute spaziali, impianti ricetrasmittenti tattici, visori per il piano dati, waldoguanti, tutti gli accessori di un capitano di nave torcia, ma nessuno di quegli oggetti l’aveva toccato e commosso come quei semplici paramenti da prete di parrocchia. In quei quattro anni, da quando era stato privato del grado di capitano e rimosso dal servizio nella Flotta, il padre capitano de Soya aveva riscoperto la propria vocazione originaria.

Ora indossò l’amitto, infilandoselo da sopra come una camicia da notte, che gli ricadde fino alle caviglie. L’amitto era di lino bianco e immacolato, malgrado le incessanti tempeste di sabbia; altrettanto pulito era il camice sacerdotale che indossò dopo. Poi si strinse alla vita la cintura e intanto mormorò una preghiera. Prese dalla cassapanca dei paramenti sacri la stola bianca di seta e se la mise al collo, incrociandola sul petto. Dietro di lui, Pablo si affaccendava per la piccola stanza, riponeva gli stivali sporchi di sabbia e metteva le economiche scarpe da corsa di fibroplastica che sua madre gli aveva detto di tenere lì proprio per la messa.

Padre de Soya si sistemò la dalmatica con una croce a T sul davanti. Era bianca, con un sottile bordino viola: quel mattino avrebbe detto una messa di benedizione e chiesto silenziosamente perdono per la presunta vedova e assassina nel primo banco e per il misterioso vecchio segnato dalle radiazioni nell’ultimo.

Pablo si affrettò a raggiungerlo; sorrideva ed era senza fiato. Padre de Soya gli mise la mano sulla testa e cercò di appiattire la zazzera ribelle, mentre rassicurava e calmava il bambino. Alzò il calice, tolse la destra dalla testa del chierichetto, la tenne sopra il calice coperto e disse piano: «È tutto a posto».

Pablo tornò serio, consapevole infine della gravità del momento, e guidò il corteo di due persone fuori della sacrestia, verso l’altare.

De Soya notò subito che nella cappella c’erano cinque persone, non quattro: i suoi soliti fedeli — tutti in ginocchio, si alzarono e tornarono a inginocchiarsi, ciascuno al suo posto abituale — più qualcun altro, una persona alta e silenziosa, in piedi nella penombra più fitta, dove il piccolo atrio si apriva nella navata centrale.

Per tutta la Messa Rinnovata, padre de Soya non riuscì a levarsi di mente l’estraneo, pur tentando di allontanare ogni pensiero e concentrarsi sul sacro mistero del quale era parte.

«Dominus vobiscum» intonò. Per più di tremila anni, credeva, il Signore era stato davvero con loro, con tutti loro.

«Et cum spiritu tuo» disse ancora padre de Soya; e mentre Pablo ripeteva le sue parole, girò un poco la testa per vedere se la luce avesse illuminato la sagoma alta e magra nell’angolo buio all’ingresso della navata centrale. L’estraneo era sempre poco visibile.

Durante il canone, padre de Soya dimenticò la persona misteriosa e riuscì a concentrare l’attenzione sull’ostia consacrata che alzò fra le dita tozze. «Hoc est enim corpus meum» disse, scandendo bene le parole, sentendo il loro potere, pregando per la decimillesima volta che i suoi peccati di violenza nel periodo in cui era stato capitano della Flotta fossero lavati dal sangue e dalla misericordia del Salvatore.

Al momento della comunione, si presentarono solo i gemelli Perell. Come sempre. De Soya recitò le parole e offrì la particola ai due giovani. Resistette all’impulso di lanciare un’occhiata allo sconosciuto nella penombra in fondo alla chiesa.

La messa terminò quasi nell’oscurità. L’ululato del vento soffocò le ultime preghiere e le risposte. La piccola chiesa non aveva elettricità, non l’aveva mai avuta, e la tremolante fiammella delle dieci candele alla parete era sopraffatta dalle tenebre. Padre de Soya diede la benedizione finale e portò il calice sul piccolo altare della buia sacrestia. Pablo si affrettò a togliersi la cotta e a infilarsi l’anorak per proteggersi dalla tempesta.

«A domani, Padre!»

«Sì, grazie, Pablo. Non dimenticare…» Troppo tardi. Il bambino era già uscito e correva allo stabilimento di spezie, dove lavorava col papà e con gli zii. Sabbia rossastra riempì l’aria intorno alla porta mal sigillata.

In un giorno normale, ora padre de Soya si sarebbe tolto i paramenti e li avrebbe riposti nella cassapanca. Più tardi li avrebbe portati nella casa parrocchiale per ripulirli. Ma quel mattino rimase in dalmatica e stola, camice e cintura e amitto. Per chissà quale ragione sentiva di averne bisogno, proprio come aveva sentito di avere bisogno dell’armatura da battaglia di plastiridio durante gli abbordaggi nella campagna del Sacco di Carbone.

L’alta figura, ancora in ombra, comparve sulla porta della sacrestia. Padre de Soya la guardò e attese in silenzio, resistendo all’impulso di farsi il segno della croce o di alzare l’ultima particola consacrata come per proteggersi da un vampiro o dal demonio. Fuori, gli ululati del vento si mutarono in urla di anime spettrali.

La figura mosse un passo nella luce color rubino diffusa dalla lampada della sacrestia. De Soya riconobbe allora il capitano Marget Wu, aiutante personale e ufficiale di collegamento dell’ammiraglio Marusyn, comandante della Flotta della Pax. Per la seconda volta, quel mattino, de Soya si corresse: adesso la donna era diventata ammiraglio, come indicavano le stellette sul colletto, appena visibili nella luce rossastra.

«Padre capitano de Soya?» disse l’ammiraglio Wu.

Il gesuita scosse lentamente la testa. Erano soltanto le sette e mezzo del mattino in quel pianeta dal giorno di ventitré ore, ma lui si sentiva già stanco. «Solo padre de Soya» rispose.

«Padre capitano de Soya» ripeté Wu e stavolta non era una domanda. «Da questo momento lei è richiamato in servizio attivo. Ha dieci minuti per raccogliere le sue cose e venire con me. Il richiamo ha effetto immediato.»

Federico de Soya sospirò e chiuse gli occhi. Aveva voglia di piangere. "Ti prego, Signore, allontana da me questo calice." Quando riaprì gli occhi, il calice era ancora sul piccolo altare e l’ammiraglio Marget Wu era sempre in attesa.

«Sissignore» disse piano de Soya. Lentamente, con cura, iniziò a togliersi i paramenti sacri.


Il terzo giorno dopo la morte e la sepoltura di papa Giulio XIV, nella culla di risurrezione ci fu movimento. I sottili cavetti e le sonde della macchina si ritrassero e scomparvero. Sulle prime, il corpo disteso sulla lastra di marmo rimase immobile, come inanimato, a parte l’alzarsi e abbassarsi del petto nudo, poi si contrasse visibilmente, poi gemette; dopo parecchi minuti si alzò sul gomito e alla fine si mise a sedere, mentre il sudario di seta e di lino, tutto ricamato, gli scivolava giù dai fianchi.

Per diversi minuti l’uomo rimase seduto sul bordo della lastra di marmo, tenendosi la testa fra le mani ancora tremanti. Poi, quando un pannello segreto nella parete della cappella di risurrezione si aprì come un frullo d’ali, alzò lo sguardo. Un cardinale in tonaca rossa si mosse nel locale scarsamente illuminato, con un fruscio di seta e un tintinnio di grani del rosario. Lo accompagnava un uomo alto, bello, coi capelli brizzolati e gli occhi grigi. L’uomo indossava un semplice ma elegante completo di flanella grigia. Tre passi dietro il cardinale e l’uomo in grigio venivano due guardie svizzere nella classica uniforme medievale blu e arancio. Non portavano armi.

L’uomo nudo sulla lastra di marmo batté le palpebre, come se non si fosse ancora abituato alla luce soffusa della cappella. Alla fine mise a fuoco la vista. «Lourdusamy» disse.

«Padre Duré» salutò il cardinale Lourdusamy. Reggeva un calice d’argento di misura superiore al normale.

L’uomo nudo mosse le labbra e la lingua come se si fosse svegliato con un orribile sapore in bocca. Era più anziano del cardinale, aveva viso magro e ascetico, occhi tristi, vecchie cicatrici sul corpo appena riportato in vita. Sul petto gli rilucevano due tumidi crucimorfi. «In che anno siamo?» domandò infine.

«Nell’anno di Nostro Signore 3131» rispose il cardinale, sempre in piedi davanti all’altro, seduto sulla lastra di marmo.

Padre Paul Duré chiuse gli occhi. «Cinquantasette anni dalla mia ultima risurrezione. Duecentosettantanove anni dalla Caduta dei teleporter.» Aprì gli occhi e guardò il cardinale. «Duecentosettanta anni da quando mi avvelenasti, uccidendo così papa Teilhard I.»

Il cardinale Lourdusamy rise, con voce da basso. «Ti riprendi in fretta dal disorientamento della risurrezione, se riesci a fare così bene i conti.»

Padre Duré spostò lo sguardo dal cardinale all’uomo in grigio. «Albedo» disse. «Vieni per essere testimonio? O devi dare coraggio al tuo Giuda addomesticato?»

L’uomo in grigio rimase in silenzio. Il cardinale Lourdusamy aveva già stretto le labbra sottili, al punto da farle scomparire tra le floride guance. «Hai altro da dire, prima di tornare all’inferno, antipapa?»

«Non a voi» mormorò padre Duré. Chiuse gli occhi, in preghiera.

Le due guardie svizzere lo afferrarono per le braccia. Padre Duré non oppose resistenza. Una delle guardie lo prese per la fronte e gli spinse indietro la testa, obbligandolo a inarcare il collo.

Il cardinale si avvicinò con grazia di mezzo passo. Dalle pieghe della manica di seta estrasse un coltello dal manico d’avorio. Mentre la guardia teneva fermo l’ancora passivo Duré, il cui pomo d’Adamo pareva schizzare dal magro collo a causa del piegamento della testa, Lourdusamy mosse il braccio in un fluido gesto, come per allontanare qualcosa. Il sangue sgorgò dalla carotide recisa di Duré.

Indietreggiando per non macchiarsi la tonaca, Lourdusamy rimise nella manica il coltello, sollevò il grande calice e vi raccolse i fiotti di sangue. Quando il calice fu quasi pieno e il sangue smise di sgorgare a fiotti, rivolse un cenno alla guardia, che subito lasciò andare la testa di padre Duré.

L’uomo appena risuscitato era di nuovo un cadavere: testa ciondoloni, occhi ancora chiusi, bocca aperta, la ferita alla gola simile a labbra dipinte in un orribile ghigno. Le due guardie svizzere sistemarono sulla lastra di marmo il cadavere e tolsero il sudario. L’uomo nudo pareva cereo e vulnerabile: gola tagliata, petto segnato di cicatrici, lunghe dita livide, ventre pallido, flaccidi genitali, gambe magre come chiodi. La morte, pur in un’epoca di risurrezione, lascia ben poca dignità anche in chi ha vissuto una vita di ininterrotto autocontrollo.

Mentre le guardie tenevano scostato il magnifico sudario, il cardinale Lourdusamy versò il sangue contenuto nel pesante calice sugli occhi del morto, sulla bocca spalancata, sulla ferita aperta, sul petto, sul ventre, sull’inguine: la macchia rossa, sempre più larga, uguagliò e sorpassò in intensità il colore della veste del cardinale.

«Sie aber seid nich fleischlich, sondern geistlich» disse il cardinale Lourdusamy. «Non siete fatti di carne, ma di spirito.»

L’uomo alto inarcò il sopracciglio. «Bach, vero?»

«Naturalmente» rispose il cardinale, deponendo accanto al cadavere il calice ora vuoto. Rivolse un cenno alle due guardie svizzere, che stesero sul cadavere il sudario di seta e di lino. Il sangue inzuppò immediatamente i magnifici tessuti.

«Jesus, meine Freund» soggiunse Lourdusamy.

«Lo pensavo» disse l’uomo alto. Rivolse al cardinale un’occhiata interrogativa.

«Sì» convenne il cardinale Lourdusamy. «Ora.»

L’uomo in grigio girò intorno alla lastra di marmo e si pose alle spalle delle due guardie svizzere, che terminavano di rimboccare il sudario inzuppato di sangue. Quando si raddrizzarono e arretrarono di un passo, l’uomo in grigio alzò le mani e le portò alla nuca dei due uomini. I due spalancarono occhi e bocca, ma non ebbero il tempo di emettere suono: in un secondo, occhi e bocca sfolgorarono di luce incandescente, la pelle divenne traslucida e lasciò scorgere la fiamma arancione dentro il corpo; poi i due sparirono, particelle volatilizzate e sparpagliate, più sottili della cenere.

L’uomo in grigio si strofinò le mani per ripulirle del sottile strato di cenere molecolare.

«Un vero peccato, consigliere Albedo» mormorò il cardinale Lourdusamy, con la sua vociona da basso.

L’uomo in grigio guardò la traccia di polvere posarsi nella fioca luce, poi riportò lo sguardo sul cardinale. Inarcò il sopracciglio, con aria interrogativa.

«No, no, no» rombò Lourdusamy. «Mi riferivo al sudario. Le macchie non verranno mai via. Dopo ogni risurrezione bisogna tesserne uno nuovo.» Si girò con un fruscio di tonaca e guardò il pannello segreto. «Venga, Albedo. Dobbiamo parlare e prima di mezzogiorno devo ancora celebrare una messa di ringraziamento.»

Il pannello si chiuse alle spalle dei due; la camera di risurrezione rimase silenziosa e vuota, a parte il cadavere coperto dal sudario e una lievissima traccia di foschia grigia nella debole luce, una nebbiolina mutevole e sempre più sfumata che faceva pensare al distacco dell’anima dei due morti più recenti.

2

Nella settimana in cui papa Giulio morì per la nona volta e padre Duré fu assassinato per la quinta, Aenea e io eravamo a 160.000 anni luce di distanza, sul pianeta trafugato, la Terra — la Vecchia Terra, la Terra vera -, in orbita intorno a una stella di tipo G che non era il Sole, nella Piccola Nube di Magellano, una galassia che non era la galassia della Terra.

Per noi era stata una settimana bizzarra. Non sapevamo, naturalmente, che il papa era morto, perché non esistevano contatti fra la Terra e lo spazio della Pax, a parte i teleporter ormai inattivi. A dire il vero, adesso lo so, Aenea sapeva della dipartita del papa, per tramiti che a quel tempo non sospettavamo, ma a noi non parlò degli eventi accaduti nello spazio della Pax e nessuno pensò di farle domande al riguardo. La nostra vita sulla Terra, in quegli anni d’esilio, era semplice e pacifica e attiva, e ci dava emozioni che ora sono difficili da sondare e quasi dolorose da ricordare. Comunque, quella particolare settimana per noi era stata intensa, ma niente affatto semplice né pacifica: il lunedì era morto il Vecchio Architetto con cui Aenea aveva studiato negli ultimi quattro anni e il suo funerale era stato una faccenda triste e frettolosa nel deserto, quella sera d’inverno, martedì. Il mercoledì Aenea aveva compiuto sedici anni, ma l’evento fu messo in ombra dalla cappa di cordoglio e di confusione che pesava sulla Compagnia Taliesin; solo A. Bettik e io avevamo tentato di festeggiare con Aenea il suo compleanno.

L’androide aveva messo in forno una torta al cioccolato, la preferita di Aenea, e io avevo lavorato per giorni per ricavare da un robusto ramo trovato in una delle gite obbligatorie sulle vicine montagne, volute dal Vecchio Architetto, un bastone da passeggio finemente intagliato. Quella sera mangiammo la torta e bevemmo un po’ di champagne nel piccolo rifugio costruito dall’apprendista Aenea nel deserto; ma lei era mogia mogia, turbata per la morte del vecchio e per il panico della Compagnia. Mi rendo conto adesso che gran parte del suo turbamento derivava di sicuro dalla consapevolezza della morte del papa, dei violenti eventi che si ammassavano all’orizzonte futuro e della fine di quelli che sarebbero stati i più pacifici quattro anni che avessimo mai conosciuto insieme.

Ricordo la conversazione, la sera del suo sedicesimo compleanno. Il buio era calato presto e l’aria era gelida. Fuori della comoda casa di pietra e di tela che lei aveva costruito quattro anni prima, come esame per essere accolta fra gli apprendisti, la polvere soffiava e le piante di artemisia e di yucca stormivano e si torcevano nella stretta del vento. Seduti accanto alla sibilante lanterna, mettemmo da parte i bicchieri di champagne in favore di tazze di tè caldo e parlammo a bassa voce, mentre la sabbia raspava sulla tela.

«È strano» dissi. «Sapevamo che era vecchio e malato, ma nessuno credeva davvero che sarebbe morto.» Mi riferivo ovviamente al Vecchio Architetto, non al lontanissimo papa che per noi significava ben poco. Inoltre, come tutti noi nella Terra esiliata, il Vecchio Architetto mentore di Aenea non aveva il crucimorfo: la sua morte, al contrario di quella del papa, era definitiva.

«Pareva saperlo» disse piano Aenea. «Nell’ultimo mese ha chiamato a uno a uno tutti i suoi apprendisti. Per spartire le ultime briciole di sapienza.»

«Qual è l’ultima briciola di sapienza che ha spartito con te? Se non si tratta di un segreto o di faccende personali.»

Aenea sorrise dietro la tazza di tè fumante. «Mi ha ricordato che il cliente è sempre disposto a pagare il doppio del preventivo, se gli mandi le fatture extra un po’ per volta, quando la costruzione è già iniziata e l’edificio prende forma. Ha detto che con questo sistema si supera il punto di non ritorno: il cliente è preso all’amo come una trota da sei libbre.»

A. Bettik e io ci mettemmo a ridere. Non era una risata irriverente: il Vecchio Architetto era stato una di quelle rare persone che uniscono al vero genio una personalità irresistibile; ma pur ricordandolo con tristezza e affetto non potevamo non riconoscere che era stato anche un uomo egoista e subdolo. E non intendo essere elusivo, riferendomi a lui solo come al Vecchio Architetto: la personalità stampo per quel cìbrido era stata ricostruita da un architetto vissuto prima dell’Egira, Frank Lloyd Wright, attivo tra il XIX e il XX secolo. Tutti, nella Compagnia Taliesin, lo chiamavano rispettosamente signor Wright, compresi gli apprendisti più anziani, suoi coetanei; ma io ho sempre pensato a lui come al Vecchio Architetto, a causa di ciò che Aenea aveva detto del suo futuro mentore, prima che giungessimo sulla Vecchia Terra.

Come se avesse seguito la linea dei miei pensieri, A. Bettik disse: «È curioso, no?».

«Cosa?» domandò Aenea.

L’androide sorrise e si strofinò il braccio sinistro che terminava, appena sotto il gomito, in un liscio moncherino: un’abitudine che ha preso negli ultimi anni. Il robochirurgo della navetta con cui avevamo attraversato il teleporter su Bosco Divino aveva tenuto in vita A. Bettik, ma la particolare biochimica dell’androide non aveva consentito al macchinario di fargli crescere un braccio nuovo. «Voglio dire che, malgrado l’influenza della Chiesa negli affari della specie umana, la domanda se l’uomo abbia o no un’anima che lascia il corpo dopo la morte non ha ancora avuto una risposta precisa» spiegò A. Bettik. «Però, nel caso del signor Wright, sappiamo che la sua personalità cìbrida esiste ancora separata dal suo corpo… o almeno è esistita per un certo tempo, dopo il momento della sua morte.»

«Lo sappiamo con certezza?» obiettai. Il tè era caldo e buono: Aenea e io l’avevamo comprato (barattato, in realtà) al mercato indiano, nel deserto, dove si sarebbe dovuta trovare la città di Scottsdale.

Fu Aenea a rispondermi. «Sì. La personalità cìbrida di mio padre sopravvisse alla distruzione del corpo e fu memorizzata nel disco d’iterazione Schrön impiantato nel cranio di mia madre. Anche dopo, ha avuto un’esistenza separata nella megasfera e poi per un certo periodo è stata nell’astronave del console. Una personalità cìbrida sopravvive come una sorta di fronte d’onda olistico propagato lungo le matrici del piano dati o della megasfera, finché non ritorna alla fonte IA nel Nucleo.»

Conoscevo quella spiegazione, ma non l’avevo mai capita. «D’accordo» dissi «ma dove è andato il fronte d’onda della personalità IA del signor Wright? Non può esserci nessun collegamento con il Nucleo, qui nella Nube di Magellano. Non esistono sfere dati, qui.»

Aenea posò la tazza vuota. «Un collegamento c’è di sicuro, altrimenti il signor Wright e le altre personalità cìbride riunite sulla Terra non esisterebbero. Non dimenticare che il TecnoNucleo sfruttava lo spazio di Planck fra i teleporter come proprio ambiente e nascondiglio, prima che la moribonda Egemonia distruggesse i portali.»

«Il Vuoto che lega» dissi, ripetendo l’espressione usata dal vecchio poeta Martin Sileno nei suoi Canti.

«Già» disse Aenea. «Ma l’ho sempre ritenuta un’espressione sciocca.»

«Quale che sia il nome» replicai «non capisco come possa estendersi fin qui… in un’altra galassia.»

«L’ambiente utilizzato dal TecnoNucleo per i teleporter si estende dappertutto» disse Aenea. «Permea lo spazio e il tempo.» Corrugò la fronte. «No, non è esatto: spazio e tempo sono legati in esso. Il Vuoto che lega trascende lo spazio e il tempo.»

Mi guardai intorno. La luce di lanterna bastava a riempire la piccola costruzione a tenda, ma fuori era buio e il vento ululava. «Allora il Nucleo può davvero arrivare fin qui?»

Aenea scosse la testa. Avevamo già discusso quell’argomento. Non avevo capito il concetto allora e non lo capivo adesso.

«Questi cìbridi sono collegati a Intelligenze Artificiali che non fanno realmente parte del Nucleo» disse Aenea. «La personalità del signor Wright non ne faceva parte. E neppure mio padre… il secondo cìbrido di Keats.»

Questo era il passaggio che non avevo mai capito. «I Canti dicono che i cìbridi di Keats, tuo padre incluso, furono creati da Ummon, una IA del Nucleo. Ummon disse a tuo padre che i cìbridi erano un esperimento del Nucleo.»

Aenea si alzò e si accostò all’apertura della sua casa da apprendista. La tela ai lati si increspava nel vento, ma manteneva la forma e impediva alla sabbia di entrare. Aenea l’aveva costruita bene. «Nei suoi Canti zio Martin raccontò la verità come meglio poteva» disse. «Ma c’erano elementi che non capiva.»

«Nemmeno io.» Lasciai cadere l’argomento. Mi accostai a Aenea e la circondai col braccio, sentendo gli indefinibili cambiamenti nella sua schiena, spalla e braccio, dalla prima volta che l’avevo stretta in quel modo, quattro anni prima. «Buon compleanno, ragazzina.»

Aenea mi diede un’occhiata e poi mi appoggiò sul petto la testa. «Grazie, Raul.»

Nella mia giovane amica c’erano stati altri cambiamenti dal nostro primo incontro, quando lei aveva solo dodici anni standard. Vedevo benissimo che ormai era diventata donna; però, malgrado i fianchi più arrotondati e il chiaro rigonfiamento dei seni sotto la vecchia felpa, non la vedevo ancora come donna. Non più bambina, certo, ma non ancora donna. Era… Aenea. I suoi luminosi occhi neri erano sempre uguali, intelligenti, curiosi, un po’ tristi per chissà quale conoscenza segreta; e l’effetto di contatto fisico, quando ti guardava, era intenso come sempre. Negli ultimi anni i capelli castani si erano un po’ scuriti e lei li aveva tagliati, la primavera scorsa: adesso erano più corti di come li avevo io una decina d’anni fa, durante il mio servizio nella Guardia nazionale su Hyperion; quando le accarezzai la testa, erano lunghi appena da sollevarsi fra le dita… ma vi scorgevo qualche traccia delle vecchie striature bionde, rilasciate dai lunghi giorni di lavoro sotto il sole dell’Arizona.

Mentre ce ne stavamo lì ad ascoltare il brusio della sabbia sulla tela (A. Bettik, alle nostre spalle, pareva un’ombra silenziosa) Aenea mi prese la mano fra le sue. Quel giorno compiva sedici anni, forse era già una giovane donna, non più una ragazzina, ma le sue mani erano sempre minuscole a confronto delle mie.

«Raul?»

La guardai in silenzio.

«Farai per me una cosa?» domandò lei piano, molto piano.

«Sì» risposi senza esitare.

Mi strinse la mano e mi guardò dritto negli occhi. «Farai per me una cosa domani?»

«Sì.»

Non staccò lo sguardo né allentò la stretta. «Farai per me qualsiasi cosa?»

Stavolta esitai. Sapevo che cosa poteva comportare una simile promessa, anche se quella insolita e meravigliosa ragazzina non mi aveva mai chiesto di fare qualcosa per lei, non mi aveva nemmeno chiesto di accompagnarla in quella folle odissea. L’avevo fatta al vecchio poeta Martin Sileno, quella promessa, prima ancora di conoscere Aenea. Sapevo che c’erano cose che non avrei mai potuto fare, in coscienza, per il meglio o per il peggio. Ma, prima di tutto, non ero capace di dire no a Aenea.

«Sì» risposi. «Farò qualsiasi cosa tu chieda.» In quel momento capii di essere perduto… e riportato in vita.

Aenea non disse niente, si limitò ad annuire, a stringermi la mano un’ultima volta e a girarsi verso la luce, la torta e il nostro amico androide. L’indomani avrei scoperto che cosa significava realmente la sua richiesta e quanto mi sarebbe stato difficile onorare la promessa.


Faccio una piccola interruzione. Mi rendo conto che forse non sapete nulla di me, se non avete letto le prime centinaia di pagine della mia storia che, dovendo riciclare i fogli di micropergamena su cui scrivevo, ormai esistono solo nella memoria di questo grafer. Ho detto la verità, in quelle pagine perdute. Almeno, la verità come la conoscevo a quel tempo. In ogni caso, ho cercato di dire la verità. Quasi sempre.

Poiché ho riciclato le pagine di micropergamena su cui avevo stampato il primo tentativo di raccontare la storia di Aenea e poiché ho sempre avuto sott’occhio il grafer, devo presumere che nessuno le abbia lette. Il fatto che le abbia scritte mentre mi trovavo in un ovoide per condannati a morte basato sul principio della scatola del gatto di Schrödinger, in orbita intorno al mondo sterile di Armaghast (l’ovoide era poco più di un guscio d’energia a posizione fissa, contenente l’aria da respirare, l’apparecchiatura di riciclaggio dell’aria e del cibo, il letto, il tavolo, il grafer e una fiala di gas cianuro pronto a uscire alla prima casuale emissione di isotopi) in teoria dovrebbe garantire che non abbiate letto quelle pagine.

Ma non ne sono sicuro.

A quel tempo accadevano cose bizzarre. Da allora sono accadute cose bizzarre. Perciò mi riservo il giudizio: non faccio ipotesi sul fatto che quelle — e queste — pagine siano state lette o saranno mai lette.

Nel frattempo, mi presento di nuovo. Mi chiamo Raul Endymion. Il mio cognome deriva dalla città universitaria "abbandonata", Endymion, sullo stagnante pianeta Hyperion. Ho messo fra virgolette "abbandonata" perché proprio in quella città in quarantena incontrai il vecchio poeta Martin Sileno, l’anziano autore del poema epico messo al bando, i Canti, e lì iniziò la mia avventura. Uso con una certa ironia questa parola, nel senso che tutta la vita è avventura. Così il viaggio che iniziò come un’avventura — il tentativo di salvare dalla Pax la dodicenne Aenea e di scortarla sana e salva nella lontana Vecchia Terra — da allora è divenuto un’intera vita di amore, perdita e meraviglia.

Comunque, al tempo di questo racconto, nella settimana della morte del papa, della morte del Vecchio Architetto e dell’infausto sedicesimo compleanno in esilio di Aenea, avevo trentadue anni: sempre di alta statura, sempre con fisico robusto allenato soprattutto nella caccia e nelle zuffe e nel dar retta agli altri, sempre sprovveduto e ora prossimo al precipizio di innamorarmi per sempre della bambina che avevo protetto come una sorella minore e che — nell’arco di una notte, pareva — era diventata una donna che ora riconoscevo come amica.

Dovrei anche dire che le altre cose di cui scrivo qui — gli eventi nello spazio della Pax, l’assassinio di Paul Duré, il salvataggio della creatura nota col nome di Rhadamanth Nemes, i pensieri di padre Federico de Soya — non sono congetture o ipotesi o invenzioni, sul genere dei romanzi del tempo di Martin Sileno. Conosco davvero queste cose, fino ai pensieri di padre de Soya e all’abbigliamento del consigliere Albedo quel giorno, non perché sia onnisciente, ma per eventi e rivelazioni successive che mi diedero accesso a una tale onniscienza.

Più avanti tutto avrà senso. Almeno, me lo auguro.

Mi scuso per questa impacciata nuova introduzione. L’originale del cìbrido che generò Aenea, un poeta di nome John Keats, scrisse nell’ultima lettera di addio agli amici: "Sono sempre stato goffo a fare l’inchino". Vale anche per me: sia in partenza, sia in saluto, sia, come forse è in questo caso, durante un improbabile incontro.

Perciò torno alle mie memorie e vi chiedo indulgenza se non hanno senso del tutto compiuto, nel mio primo tentativo di condividerle e di formularle.


Il vento ululò e soffiò sabbia per tre giorni e tre notti dopo il sedicesimo compleanno di Aenea. La ragazza fu assente per tutto quel tempo. Negli ultimi quattro anni mi ero abituato alle sue "pause", come le chiamava lei, e in genere non mi preoccupavo più come mi era accaduto all’inizio, quando spariva per giorni filati. Stavolta però ero più preoccupato del solito: la morte del Vecchio Architetto aveva lasciato ansiosi e inquieti i ventisette apprendisti e i più di sessanta collaboratori nel campo in pieno deserto che il Vecchio Architetto chiamava Taliesin West. La tempesta di sabbia accresceva l’ansia, come sempre fanno le tempeste. La maggior parte delle famiglie e del personale stava nelle vicinanze, in uno dei dormitori in muratura ricavata dai materiali del deserto che il signor Wright aveva fatto costruire a sud degli edifici principali e il comprensorio del campo in sé era simile a un fortino con mura e cortili e camminamenti coperti, buoni per passare tra gli edifici durante una tempesta di sabbia; ma ogni giorno senza luce del sole e senza Aenea mi rendeva sempre più nervoso.

Varie volte al giorno andavo nella sua casa da apprendista: era la più lontana dal comprensorio principale, quasi un quarto di miglio a nord, verso le montagne. Aenea non c’era mai — non aveva legato il telo della porta e aveva lasciato un biglietto dove diceva di non preoccuparmi, che era solo una delle sue escursioni e che aveva portato con sé un mucchio d’acqua — eppure a ogni visita apprezzavo di più quel suo rifugio.

Quattro anni prima, quando lei e io eravamo giunti in quel deserto a bordo di una navetta rubata alla Flotta della Pax, tutt’e due esausti, coperti di lividi e di ustioni, per non parlare dell’androide ancora chiuso nello scomparto del robochirurgo in attesa di guarire, il Vecchio Architetto e gli altri apprendisti ci avevano accolti con calore e benevolenza. Il signor Wright non era rimasto sorpreso, pareva, che una bambina di dodici anni avesse attraversato per teleporter un pianeta dopo l’altro, cercando proprio lui per chiedergli di accettarla come apprendista. Ricordo bene quel primo giorno. Quando il Vecchio Architetto le aveva domandato cosa sapesse di architettura, Aenea aveva risposto: "Nulla, a parte che lei è la persona da cui dovrei imparare".

Evidentemente era stata la risposta giusta. Il signor Wright le aveva detto che a tutti gli apprendisti giunti prima di lei (tutti gli altri ventisei, si scoprì) era stato chiesto di progettare e costruire la propria casa nel deserto, come una sorta di esame d’ammissione. Le aveva fornito alcuni materiali grezzi conservati nel comprensorio — tela, pietra, cemento, un po’ di legname scartato — ma progetto e costruzione toccavano a lei.

Prima di iniziare i lavori (non essendo apprendista, mi accontentai di una tenda nelle vicinanze del comprensorio principale) Aenea e io facemmo il giro delle case degli altri apprendisti. Per la maggior parte erano variazioni sul tema tenda-baracca. Erano funzionali e alcune mostravano stile — una in particolare sfoggiava un’eleganza di progettazione, ma, come notò Aenea, non avrebbe tenuto fuori la sabbia o la pioggia in caso di vento anche minimo — ma nessuna era davvero memorabile.

Aenea lavorò undici giorni per costruire la propria casa. L’aiutai in alcuni dei lavori più pesanti e negli scavi (A. Bettik a quel tempo era ancora convalescente, prima nel robochirurgo e poi nell’infermeria del comprensorio) ma Aenea concepì tutto il progetto ed eseguì la maggior parte del lavoro. Il risultato era quel meraviglioso rifugio che in quel periodo, la sua ultima pausa nel deserto, visitavo quattro volte al giorno.

Aenea aveva fatto uno scavo per le sezioni principali, cosicché il rifugio si trovava quasi tutto sotto il livello del suolo. Poi vi sistemò delle lastre di pietra, assicurandosi che combaciassero bene, in modo da avere un liscio pavimento. Sulle lastre di pietra dispose tappeti dai vivaci colori e coperte barattate al mercato indiano distante quindici miglia. Intorno al nucleo della casa eresse pareti alte circa un metro che, con la stanza principale interrata, parevano più alte. Erano fatte della stessa grossolana "muratura del deserto" adoperata dal signor Wright per costruire le mura e le sovrastrutture degli edifici del comprensorio principale. Aenea usò la stessa tecnica, anche se non aveva mai sentito il Vecchio Architetto descriverla.

Per prima cosa raccolse pietre dal deserto e dai molti arroyos e torrenti in secca intorno all’altura del comprensorio. Quei sassi erano di tutte le dimensioni e di tutti i colori — viola, nero, rosso ruggine, terra d’ombra — e in qualche caso avevano petroglifi o fossili. Raccolti i sassi, Aenea costruì forme di legno e vi sistemò le pietre più grandi, col lato piatto contro la faccia interna della forma. Poi trascorse giorni sotto il sole ardente a spalare sabbia dai torrenti in secca e a trasportarla con una carriola al luogo della costruzione; lì la mischiò al cemento ed ebbe il conglomerato che, indurito, avrebbe tenuto a posto le pietre. Era una mistura cemento/pietra — muratura del deserto, la chiamava il signor Wright — rozza ma di insolita bellezza, perché i colori delle pietre trasparivano dal conglomerato e dappertutto c’erano crepe e tessiture di roccia. Una volta a posto, le pareti erano alte circa un metro e abbastanza spesse da non far entrare il calore del deserto di giorno e trattenere il calore interno di notte.

Quella casa era più complicata di quanto non sembrasse a prima vista: passarono mesi, prima che apprezzassi gli ingegnosi accorgimenti che Aenea aveva usato nella progettazione. Ci si doveva chinare per entrare nel vestibolo e attraversare un’antiporta di pietra e di tela, con tre larghi scalini che portavano in basso e giravano intorno fino alla porta di legno e muratura che serviva da ingresso alla stanza principale. Quel vestibolo a chiocciola in discesa agiva come una sorta di camera stagna, tenendo fuori la sabbia e l’asprezza del deserto; e il modo in cui Aenea aveva montato la tela, quasi come vele di fiocco sovrapposte in parte, migliorava l’effetto camera stagna. La "stanza principale" misurava solo tre metri per cinque, ma pareva molto più ampia. Aenea aveva disposto delle panche incassate intorno a un tavolo di pietra per creare una zona pranzo e soggiorno, poi aveva sistemato altre nicchie e sedili di pietra accanto al focolare nella parete nord. Nella parete c’era un vero camino di pietra, che in nessun punto toccava la tela o il legno. Fra le pareti di pietra e la tela, circa ad altezza d’occhio di una persona seduta, Aenea aveva montato finestre schermate che correvano lungo i lati nord e sud della casa. Quelle feritoie panoramiche potevano essere coperte da scuri mobili sia di tela sia di legno, azionati dall’interno. Per il tetto Aenea aveva adoperato vecchi tondini di fibra di vetro trovati nel mucchio di cianfrusaglie del comprensorio e aveva sagomato la tela in dolci archi, in cuspidi improvvise, in voltoni da cattedrale, in bizzarre nicchie pieghevoli.

Per sé aveva preparato una vera camera da letto, separata dalla stanza principale mediante due scalini sfasati ad angoli di sessanta gradi: una nicchia nel lieve pendio, alla quale faceva da parete di fondo un enorme masso trovato sul posto. La casa non aveva acqua né impianti igienici — tutti usavamo le docce e i gabinetti della comunità, posti nella dipendenza del comprensorio principale — ma Aenea aveva costruito vicino al letto — una piattaforma di compensato, con materasso e coperte — una piccola graziosa vasca da bagno e varie volte alla settimana scaldava l’acqua nella cucina del campo e la portava al suo rifugio, secchio per secchio, per un bagno caldo.

Le luce che entrava dal soffitto e dalle pareti di tela era calda all’alba, pastosa a mezzodì, arancione alla sera. Aenea poi aveva studiato con cura la posizione della casa in rapporto a saguari, fichi d’India e cactus ramificati, in modo che differenti ombre cadessero su differenti piani di tela in differenti periodi della giornata. Era un posto comodo, piacevole. E terribilmente vuoto, quando la mia giovane amica si assentava.

Ho già detto che gli apprendisti e i collaboratori erano ansiosi, dopo la morte del Vecchio Architetto. Sconvolti sarebbe forse una definizione migliore. Per la maggior parte dei tre giorni di assenza di Aenea rimasi ad ascoltare il chiacchiericcio preoccupato di quasi novanta persone — mai insieme, poiché perfino i turni nel refettorio erano distanziati, dal momento che al signor Wright non piaceva folla a pranzo — e il livello di panico pareva salire col susseguirsi dei giorni e delle tempeste di sabbia. L’assenza di Aenea contribuiva notevolmente ad accrescere l’isteria: lei era la più giovane degli apprendisti a Taliesin (la più giovane di tutti, in realtà) ma gli altri si erano abituati a chiederle consiglio e ad ascoltarla, quando parlava. In una sola settimana avevano perduto il loro mentore e la loro guida.

Il quarto mattino dopo il compleanno di Aenea, le tempeste di sabbia cessarono ed Aenea ritornò. Per combinazione ero fuori nel deserto a fare jogging proprio dopo l’alba e la vidi giungere dalla direzione dei monti McDowell: si stagliava nella luce del mattino, una figura sottile dai capelli corti contro lo splendore della corona solare; in quell’attimo pensai alla prima volta che l’avevo vista, nella valle delle Tombe del Tempo, su Hyperion.

Quando mi vide, Aenea mi sorrise. «Ehi, Buh» mi gridò: un vecchio scherzo basato su un libro per bambini da lei letto quand’era piccola.

«Ehi, Scout» le gridai di rimando, assecondandola nello scherzo.

Ci fermammo a cinque passi l’uno dall’altra. Provavo l’impulso di abbracciarla, tenerla stretta, supplicarla di non sparire di nuovo. Mi trattenni. La ricca e bassa luce del mattino proiettava lunghe ombre di opunzie, di cespugli di chenopodio e di artemisia, e bagnava di splendore arancione la nostra pelle già bruciata dal sole.

«Come se la passano le truppe?» domandò Aenea. Vedevo che, malgrado le promesse, in quei tre giorni aveva digiunato. Era sempre stata magra, ma ora mostrava le costole sotto la sottile camicetta di cotone. Aveva labbra secche e screpolate. «Sono agitate?» domandò ancora Aenea.

«Cacano mattoni» risposi. Per anni avevo evitato di usare in sua presenza i modi di dire imparati nella Guardia nazionale, ma ormai Aenea aveva sedici anni. E poi aveva sempre avuto un vocabolario più pepato del mio.

Aenea sorrise. La vivida luce le illuminava le striature color sabbia dei capelli. «Non sarebbe male, per un gruppo di architetti.»

Mi sfregai il mento: avevo la barba lunga. «Parlando seriamente, ragazzina, sono molto smarriti.»

Aenea annuì. «Già. Non sanno cosa fare né dove andare, ora che il signor Wright è morto.» Socchiuse gli occhi e scrutò nella direzione del comprensorio della Compagnia, che sembrava un aggregato di asimmetrici pezzi di pietra e di tela appena visibili sopra i cactus e gli arbusti nani. La luce del sole si rifletteva su finestre fuori vista e su una delle fontane. «Raduniamo tutti nel padiglione musicale e discutiamo» disse Aenea. Si avviò, decisa, verso Taliesin.

Così iniziò il nostro ultimo giorno pieno insieme sulla Terra.


Qui mi interrompo. Odo la mia stessa voce nel grafer e ricordo l’esitazione nel racconto, a questo punto. Ciò che volevo fare qui era raccontare tutto dei quattro anni d’esilio sulla Vecchia Terra, tutto degli apprendisti e delle altre persone alla Compagnia Taliesin, tutto del Vecchio Architetto e dei suoi capricci e delle sue piccinerie, oltre che della sua genialità e dei suoi infantili entusiasmi. Volevo riportare le conversazioni con Aenea in quei quarantotto mesi locali (che, come non mancavo mai di stupirmi, corrispondevano esattamente ai mesi standard dell’Egemonia e della Pax!) e il mio lento processo di comprensione delle sue incredibili intuizioni e capacità. Infine, volevo parlare di tutte le mie escursioni in quel periodo — il viaggio intorno alla Terra, nella navetta; le stimolanti avventure nel Nordamerica; il fuggevole contatto con le altre isole di umanità raccolte intorno a cìbridi del passato (la comunità in Israele e nella Nuova Palestina, raccolta intorno al cìbrido di Gesù di Nazareth, era un memorabile gruppo da visitare) — ma in primo luogo, quando odo nel grafer il breve silenzio che prese il posto di quei racconti, ricordo il motivo della mia omissione.

Come ho già detto, ho scritto queste parole nella cella/scatola di Schrödinger in orbita intorno al pianeta Armaghast, mentre aspettavo la simultanea emissione di una particella isotopica e l’attivazione del rivelatore di particelle. Appena i due eventi si fossero verificati nello stesso istante, il gas cianuro inserito nel campo di energia statica intorno all’apparecchiatura di riciclaggio sarebbe stato liberato. La mia morte non sarebbe stata istantanea, ma quasi. Se in precedenza ho detto che me la sarei presa comoda nel raccontare la nostra storia — di Aenea e di me — ora mi rendo conto che ci fu una certa revisione, un certo tentativo di arrivare agli elementi importanti, prima che la particella decadesse e il gas fuoruscisse.

Non starò ora a rivedere quella decisione, se non per dire che di quei quattro anni sulla Terra meriterebbe parlare in altre circostanze: le novanta persone della Compagnia erano simpatiche, complesse, ambigue e interessanti come tutti gli esseri umani intelligenti e la loro storia andrebbe raccontata. Allo stesso modo, le mie esplorazioni della Terra, sia con la navetta sia con la station-wagon Woody del 1948 avuta in prestito dal Vecchio Architetto, potrebbero essere materia di un poema epico tutto loro.

Ma non sono un poeta. Però ero un cercatore di piste, quando facevo la guida di cacciatori, e il mio compito qui è quello di seguire la pista della crescita di Aenea fino alla maturità e alla messianicità, senza divagare in troppi sentieri laterali. E così farò.


Il Vecchio Architetto si riferiva sempre al comprensorio della Compagnia come al "campo nel deserto". Quasi tutti gli apprendisti lo chiamavano Taliesin, che il gallese significa "Ciglio Splendente". (Il signor Wright era di estrazione gallese. Passai settimane nel tentativo di ricordare un pianeta della Pax o della Periferia chiamato Galles, prima di ricordare che il Vecchio Architetto era vissuto e morto quando il volo spaziale non era ancora iniziato.) Aenea spesso si riferiva a quel luogo chiamandolo "Taliesin West", cosa che suggeriva, perfino a un tipo ottuso come me, l’esistenza almeno di un Taliesin East.

Quando la interrogai a questo proposito, Aenea mi spiegò che il signor Wright originale aveva costruito la sua prima Compagnia Taliesin nei primi anni Trenta del 1900, a Spring Green, nel Wisconsin (il Wisconsin era una delle unità politico-geografiche dell’antica nazione nordamericana detta Stati Uniti d’America). Quando le domandai se il primo Taliesin era come questo, Aenea mi rispose: «Non proprio. Ci fu una serie di Taliesin nel Wisconsin, sia abitazioni sia complessi della Compagnia, e la maggior parte fu distrutta da incendi. Questa è una delle ragioni per cui il signor Wright ha installato in questo comprensorio un gran numero di laghetti e di fontane, riserve d’acqua per combattere gli inevitabili incendi».

«E il primo Taliesin fu costruito negli anni Trenta?» domandai.

Aenea scosse la testa. «Il signor Wright aprì la prima Compagnia Taliesin nel 1932. Ma era soprattutto un modo per avere lavoro gratuito dagli apprendisti, per realizzare il suo sogno e per procurarsi cibo, durante la Depressione.»

«Cos’era la Depressione?»

«Un periodo di difficoltà economiche nella loro nazione basata sul puro capitalismo. Non dimenticare che a quei tempi l’economia non era realmente globale, si basava su istituzioni di finanziamento privato dette banche, su riserve auree e sul valore del denaro effettivo, vere monete e pezzi di carta che si presumeva valessero qualcosa. Naturalmente era tutta un’allucinazione collettiva e nel 1930 l’allucinazione si mutò in incubo.»

«Gesù» dissi.

«Già» convenne Aenea. «Comunque, molto prima della Depressione, nel 1909, il signor Wright, ormai di mezz’età, abbandonò la moglie e i sei figli e fuggì in Europa in compagnia di una donna sposata.»

Ammetto di avere battuto le palpebre per lo stupore. Il pensiero che il Vecchio Architetto, un uomo fra gli ottanta e i novanta quando lo avevamo conosciuto quattro anni prima, avesse una vita sessuale, per giunta scandalosa, richiedeva un certo tempo per essere assimilato. Mi domandavo pure che cosa avesse a che fare, quella storia, con la mia domanda su Taliesin East.

Aenea stava per arrivarci. «Quando tornò con l’altra donna» disse, sorridendo nel vedere che ascoltavo con grande attenzione «iniziò a costruire il primo Taliesin, la sua casa nel Wisconsin, per Mamah…»

«Sua madre?» dissi, completamente confuso.

«Mamah Borthwick» spiegò Aenea, sillabando i nomi. «La moglie del signor Cheney. L’altra donna.»

«Oh.»

«Lo scandalo» proseguì Aenea, tornando seria «aveva distrutto la sua carriera di architetto negli Stati Uniti e l’aveva segnato. Ma lui costruì Taliesin e tirò avanti, sforzandosi di trovare nuovi clienti. La sua prima moglie, Catherine, gli rifiutò il divorzio. I giornali — banche dati stampate su carta e distribuite con regolarità quotidiana — prosperavano su simili pettegolezzi e alimentarono le fiamme dello scandalo, mantenendolo vivo.»

Quando avevo posto a Aenea la semplice domanda su Taliesin, stavamo passeggiando nel cortile e a quel punto ci soffermammo presso la fontana. Mi stupivo sempre nel vedere quante cose conosceva quella ragazzina.

«Poi» continuò Aenea «il 15 agosto del 1914, un uomo che lavorava a Taliesin impazzì, uccise con un’ascia Mamah Borthwick e i suoi figli John e Martha, bruciò i cadaveri, appiccò fuoco al comprensorio, ammazzò quattro amici e apprendisti del signor Wright e infine si suicidò bevendo dell’acido. L’intero insediamento fu distrutto dal fuoco.»

«Dio mio!» mormorai, guardando verso la sala da pranzo, dove, mentre noi parlavamo, il cìbrido Vecchio Architetto faceva colazione in compagnia di alcuni apprendisti più anziani.

«Non si diede mai per vinto» riprese Aenea. «Pochi giorni dopo, il 18 agosto, mentre faceva il giro di un lago artificiale della tenuta Taliesin, la diga su cui si trovava cedette e lui fu trascinato in un torrente ingrossato dalla pioggia. Contro ogni probabilità, uscì a nuoto dal torrente. Alcune settimane dopo, iniziò a ricostruire.»

Credetti allora di capire che cosa Aenea mi diceva del Vecchio Architetto. «Perché non siamo in quel Taliesin?» domandai, mentre ci allontanavamo dalla gorgogliante fontana.

«Buona domanda» disse Aenea. «Non credo che quel Taliesin esista, in questa versione ricostruita della Terra. Era importante per il signor Wright, però. Lui morì qui, presso Taliesin West, il 9 aprile del 1959, ma fu seppellito nelle vicinanze del Taliesin del Wisconsin.»

Allora smisi di camminare. Il pensiero del Vecchio Architetto morente era nuovo e mi turbava. Ogni cosa riguardante il nostro esilio era stata senza fluttuazioni, tranquilla e ripetitiva; ma ora Aenea mi aveva ricordato che ogni cosa e ognuno finiscono. O erano finiti, prima che la Pax offrisse all’uomo il crucimorfo e la risurrezione fisica. Ma nessuno nella Compagnia, forse nessuno nella Terra trafugata, si era affidato a un crucimorfo.

Questa conversazione era avvenuta tre giorni fa. Oggi, una settimana dopo la morte del cìbrido Vecchio Architetto e dell’incongrua sepoltura nel piccolo mausoleo da lui costruito nel deserto, eravamo pronti ad affrontare le conseguenze della morte senza risurrezione e la fine di ogni cosa.


Mentre Aenea andava a rinfrescarsi nel padiglione bagno e lavanderia, trovai A. Bettik e insieme ci occupammo di passare la voce dell’incontro nel padiglione di musica. L’androide non si sorprese che Aenea, la più giovane di tutti noi, convocasse e presiedesse la riunione. Negli ultimi anni A. Bettik e io avevamo guardato in silenzio la ragazza diventare il centro della Compagnia.

Passai dai campi ai dormitori, dai dormitori alla cucina, lì suonai la grossa campana posta nella fantastica torre sopra la scala che portava al ponte degli ospiti. Gli apprendisti e i collaboratori che non avevo contattato di persona avrebbero sentito i rintocchi e sarebbero venuti a vedere di che cosa si trattava.

Lasciai la cucina, dove le cuoche e alcuni apprendisti si toglievano il grembiule e si asciugavano le mani, andai ad annunciare la riunione a quelli che prendevano il caffè nella grande sala da pranzo della Compagnia (dalla magnifica sala si vedevano i picchi dei monti McDowell, perciò di sicuro alcuni avevano notato il ritorno mio e di Aenea e sapevano che qualcosa bolliva in pentola), poi sporsi la testa nella piccola sala da pranzo privata del signor Wright — vuota — e poi andai nella sala da disegno. Questa era probabilmente la più attraente sala del comprensorio, con le lunghe file di tavoli da disegno e classificatori sotto il tetto spiovente di tela, con la luce del mattino che entrava a profusione da due file di finestre rientrate. Ora il sole era abbastanza alto da cadere sul tetto e l’odore della tela riscaldata era piacevole come la luce pastosa. Una volta Aenea aveva detto che quella sensazione di essere accampati all’aperto, di lavorare entro confini di luce e tela e pietra, era la vera ragione per cui il signor Wright era andato a ovest a fondare il secondo Taliesin.

Nella sala da disegno c’erano dieci o dodici apprendisti, tutti in piedi; nessuno lavorava, ora che il Vecchio Architetto non era più in giro a suggerire progetti. Dissi che Aenea gradiva che ci riunissimo nel padiglione da musica. Nessuno protestò. Nessuno brontolò né fece commenti su una sedicenne che diceva a novanta persone più anziane di riunirsi nel bel mezzo di una giornata lavorativa. Parve anzi che gli apprendisti accogliessero con sollievo il fatto che Aenea era tornata e prendeva il comando.

Dalla sala da disegno andai nella libreria dove avevo trascorso tante ore felici e nella sala conferenze, illuminata solo da quattro pannelli luminosi posti nel pavimento, e informai della riunione tutti quelli che trovai. Poi percorsi il sentiero di cemento sotto il passaggio coperto di muratura del deserto e guardai nel teatro cabaret dove, il sabato sera, il Vecchio Architetto si era compiaciuto di proiettare dei film. Quel locale mi aveva sempre stuzzicato: le spesse pareti e il tetto di pietra, la lunga sala in discesa, con sedili di compensato coperti di cuscini rossi, il logoro tappeto rosso per terra, le centinaia di bianche lampadine di Natale che correvano avanti e indietro sul soffitto. Al nostro arrivo, Aenea e io avevamo scoperto con stupore che il Vecchio Architetto esigeva che al sabato i suoi apprendisti e i loro familiari si "vestissero da pranzo": antiquati smoking e cravatte nere, come si vede nei più vecchi olodrammi storici. Le donne indossavano bizzarri vestiti del passato. Il signor Wright aveva fornito gli abiti da cerimonia a quelli che non li avevano portati con sé nell’esodo sulla Terra attraverso le Tombe del Tempo o i teleporter.

Il primo sabato Aenea si era presentata in smoking, camicia e cravatta nera, anziché in uno degli abiti femminili messi a sua disposizione. Appena vidi l’espressione stupita del Vecchio Architetto, fui sicuro che ci avrebbe sbattuti fuori della Compagnia e costretti a sbarcare il lunario nel deserto; ma poi sul suo viso grinzoso comparve un sorriso e infine il signor Wright rideva di gusto. Non chiese mai a Aenea di vestirsi in altro modo.

Dopo il pranzo del sabato, c’era o il concerto di un gruppo musicale nel teatro cabaret o la proiezione di un film, uno di quegli antichi film su celluloide, proiettati da una macchina. Era come imparare a gustare l’arte delle caverne. A noi due, Aenea e io, piacevano i film scelti dal Vecchio Architetto, antiche opere del XX secolo, su schermo piatto, spesso in bianco e nero; per qualche ragione che non spiegò mai, il signor Wright preferiva guardarli con la "colonna sonora", tremolii e oscillazioni ottiche, visibile sullo schermo. A dire il vero guardavamo film già da un anno, quando un altro apprendista ci rivelò che erano stati fatti per essere visti senza la colonna sonora proiettata sullo schermo.

Oggi il teatro cabaret era vuoto, le luci di Natale erano spente. Continuai il giro, passai di sala in sala, di edificio in edificio, e avvisai apprendisti, collaboratori e loro familiari; alla fine incontrai A. Bettik accanto alla fontana e mi unii agli altri nel padiglione per la musica.

Era un ampio locale con un grande palcoscenico e sei file di sedili imbottiti, diciotto per fila. Le pareti erano di legno di sequoia dipinto di rosso mattone (colore preferito del Vecchio Architetto) e della solita spessa muratura da deserto. Un pianoforte a coda e alcune piante in vaso erano gli unici oggetti sul palco rivestito di tappeto rosso. In alto, ben stesa su una griglia di legno e di centine di ferro, c’era la solita tela bianca. Una volta Aenea mi disse che, dopo la morte del primo signor Wright, la plastica aveva preso il posto della tela che altrimenti andava sostituita ogni paio d’anni. Ma dopo il ritorno di questo signor Wright, la plastica fu strappata via e fu eliminato pure il soffitto di vetro della sala da disegno principale, in modo che dominasse di nuovo la pura luce diffusa dalla tela bianca.

A. Bettik e io ci fermammo in fondo al padiglione; tra i mormoni, apprendisti e collaboratori presero posto; alcuni degli addetti alle costruzioni restarono in piedi sui gradini del passaggio centrale o in fondo alla sala, con l’androide e me, come se ci tenessero a non sporcare di fango e di polvere il tappeto e i sedili imbottiti. Quando Aenea entrò dal tendaggio laterale e saltò sul palcoscenico, il mormorio cessò.

L’acustica era buona, ma Aenea era sempre stata capace di proiettare la propria voce senza dare l’impressione di alzarla. Ora disse piano: «Grazie per essere venuti. Pensavo che avremmo dovuto parlare».

Nella quinta fila di poltroncine si alzò subito Jaev Peters, uno degli apprendisti più anziani. «Eri andata via, Aenea. Di nuovo nel deserto.»

La ragazza sul palcoscenico annuì.

«Hai parlato ai Leoni e Tigri e Orsi?»

Nessuno ridacchiò. La domanda era stata posta con la massima serietà e la risposta era attesa da novanta persone altrettanto serie. Perciò è meglio che spieghi.

Tutto risale ai Canti che il poeta Martin Sileno scrisse più di due secoli fa. In quella storia dei pellegrini su Hyperion, dello Shrike e della battaglia fra la specie umana e il TecnoNucleo, era spiegato come le prime reti ciberspaziali si erano evolute in sfere dati planetarie. Al tempo dell’Egemonia, le Intelligenze Artificiali del TecnoNucleo avevano usato le loro tecnologie segrete, teleporter e astrotel, per tessere centinaia di sfere dati in un unico e segreto ambiente informatico interstellare detto megasfera. Ma, secondo i Canti, il padre di Aenea, il cìbrido John Keats, era andato come persona incorporea nel Nucleo della megasfera e aveva scoperto l’esistenza di un più vasto ambiente dati, forse più vasto della nostra galassia, che perfino le IA del Nucleo non osavano esplorare, perché pullulava — secondo le parole dell’IA Ummon — di "Leoni e Tigri e Orsi". Questi erano gli esseri — o le intelligenze, o le divinità, per quanto ne sapevamo — che un millennio fa avevano trafugato la Terra e l’avevano spostata nella Nube di Magellano, prima che il Nucleo la distruggesse. Quei Leoni e Tigri e Orsi erano gli spauracchi protettori del nostro mondo. Nessuno, nella Compagnia, aveva mai visto quegli esseri o parlato con loro, né aveva valide prove della loro esistenza. Nessuno, tranne Aenea.

«No» disse la ragazza sul palcoscenico. «Non ho parlato con loro.» Abbassò lo sguardo, come imbarazzata. Era sempre evasiva, se affrontava quell’argomento. «Ma credo di averli uditi.»

«Ti hanno parlato?» domandò Jaev Peters.

«No» rispose Aenea. «Non ho detto questo. Li ho solo… uditi. Un po’ come quando si ode la conversazione di altri attraverso la parete del dormitorio.»

Il paragone suscitò un brusio di divertimento. Per quanto fossero spessi i muri di pietra degli altri locali della Compagnia, le pareti del dormitorio erano notoriamente sottili.

«D’accordo» disse Bets Kimbal, dalla prima fila. Bets, una donna generosa e piena di buon senso, era la capocuoca. «Raccontaci cosa hanno detto.»

Aenea si avvicinò al bordo del palcoscenico e guardò i presenti, più anziani di lei e suoi colleghi. «Posso dirvi questo» rivelò a bassa voce. «Non ci saranno più cibi e provviste al mercato indiano. Sparito.»

Fu come se avesse lasciato cadere una bomba nel padiglione della musica. Quando il chiacchiericcio si attenuò, uno dei più robusti operai, un certo Hussan, alzò la voce. «Cosa significa, sparito? Dove prenderemo il cibo?»

Il panico era giustificato. Ai tempi del signor Wright, nel XX secolo, il campo desertico della Compagnia si trovava a una cinquantina di chilometri da una grande città, Phoenix. A differenza del Taliesin del Wisconsin negli anni della Depressione, dove gli apprendisti coltivavano il ricco terreno mentre lavoravano ai progetti del signor Wright, quel campo desertico non era mai riuscito a produrre il proprio cibo. Perciò si andava a Phoenix e si barattavano o si compravano con le primitive monete e banconote le indispensabili provviste. Per sopravvivere di mese in mese, il Vecchio Architetto aveva sempre dovuto contare sulla generosità dei clienti… grossi prestiti che non avrebbe mai restituito.

Nel nostro ricostruito campo desertico non c’erano città. L’unica strada — due solchi ghiaiosi — portava a ovest, in centinaia di miglia di vuoto. Lo sapevo perché avevo sorvolato la zona a bordo della navetta e l’avevo anche percorsa nell’automobile del Vecchio Architetto. Ma a circa trenta chilometri dal comprensorio, una volta alla settimana c’era un mercato indiano dove barattavamo oggetti d’artigianato in cambio di cibo e di materiali indispensabili. Era lì da anni, già prima del nostro arrivo; evidentemente tutti si aspettavano che restasse lì per sempre.

«Cosa significa, sparito?» ripeté Hussan, con un rauco grido. «Dove sono andati gli indiani? Erano semplici illusioni cìbride come il signor Wright?»

Aenea mosse le mani in un gesto a cui mi ero abituato nel corso degli anni: un aggraziato modo per accantonare la faccenda, che sono giunto a considerare l’analogo fisico dell’espressione zen mu, che nel giusto contesto può significare "dis-fai la domanda".

«Il mercato è sparito perché non ne abbiamo più bisogno» disse Aenea. «Gli indiani sono veri — Navajo, Apache, Hopi e Zuni — ma devono vivere la loro vita, condurre i loro esperimenti. Il commercio con noi era… un favore.»

A queste parole i presenti si arrabbiarono, ma ben presto tornò la calma. Bets Kimbal si alzò. «Cosa facciamo, bambina?»

Aenea si sedette sul bordo del palcoscenico, come se cercasse di diventare tutt’uno con l’ansioso pubblico in attesa. «La Compagnia è finita» disse. «Questa parte della nostra vita deve terminare.»

Dal fondo, uno degli apprendisti più giovani gridò: «No che non è finita! Il signor Wright può tornare! Era un cìbrido, non dimenticarlo, era costruito! Il Nucleo, o i Leoni e Tigri e Orsi, chiunque l’abbia creato, può rimandarlo da noi».

Aenea scosse la testa, con aria triste ma ferma. «No. Il signor Wright è svanito. La Compagnia è finita. Senza il cibo e i materiali che gli indiani portavano da tanto lontano, questo campo nel deserto non può durare neanche un mese. Dobbiamo andarcene.»

Nel silenzio risuonò, piano, la voce della giovane apprendista Peret. «Dove, Aenea?»

Forse proprio in quel momento mi resi conto per la prima volta che l’intero gruppo si era affidato alla giovane donna che avevo conosciuto da bambina. Quando c’era ancora il Vecchio Architetto, che teneva lezioni e faceva sproloqui durante i seminari e le chiacchierate fra uomini nella sala da disegno, che guidava il suo gregge in scampagnate ed escursioni balneari fra le montagne, che pretendeva sollecitudine e i cibi migliori, la reale supremazia di Aenea era stata in qualche modo mascherata. Ma adesso era evidente.

«Sì» disse un altro, al centro della fila di sedili. «Dove, Aenea?»

La mia amica allargò le mani in un altro gesto che avevo imparato a conoscere. Anziché: "Dis-fai la domanda", quel gesto significava: "Devi rispondere tu stesso alla tua domanda".

«Ci sono due possibilità» disse Aenea. «Ciascuno di voi è giunto qui o per teleporter o attraverso le Tombe del Tempo. Potete tornare indietro per teleporter…»

«No!»

«Com’è possibile?»

«Mai. Piuttosto la morte!»

«No! La Pax ci troverà e ci ucciderà!»

Le proteste furono immediate e convinte. Erano terrore fatto parole. Fiutai la paura nella sala, come un tempo la fiutavo negli animali presi al laccio, nelle brughiere di Hyperion.

Aenea alzò la mano e le proteste svanirono. «Potete tornare nello spazio della Pax mediante teleporter oppure potete restare sulla Terra e cercare di resistere da soli.»

Ci furono altri mormoni e notai il sollievo per la possibilità di non fare ritorno. Capivo quella sensazione: la Pax era diventata anche per me uno spauracchio. Il pensiero di tornare nello spazio della Pax mi faceva svegliare, senza fiato, almeno una notte a settimana.

«Ma se restate qui» proseguì Aenea «sarete degli emarginati. Tutti gli altri gruppi di esseri umani qui sulla Terra sono coinvolti in loro progetti, in loro esperimenti. Voi non rientrerete nello schema.»

Queste parole provocarono domande espresse a gran voce, richieste di spiegazione di misteri non compresi durante la lunga permanenza in quel campo nel deserto. Ma Aenea proseguì nel suo discorso.

«Restando qui, sprecherete ciò che il signor Wright vi ha insegnato e ciò che siete giunti a imparare su voi stessi. La Terra non ha bisogno di architetti e di costruttori. Non ora. Dobbiamo fare ritorno.»

Parlò di nuovo Jaev Peters, con voce tesa, ma calma. «E la Pax ha bisogno di costruttori e di architetti? Per costruire le sue maledette chiese?»

«Sì» rispose Aenea.

Peters colpì col pugno lo schienale del sedile davanti a lui. «Ma ci cattureranno o ci uccideranno, se scopriranno chi siamo, dove siamo stati!»

«Sì» ammise Aenea.

«E tu, bambina, fai ritorno?» domandò Bets Kimbal.

«Sì» rispose Aenea. Scese dal palcoscenico.

Ora tutti erano in piedi, gridavano o parlavano col vicino. Fu Jaev Peters a dare voce ai pensieri dei novanta orfanelli della Compagnia: «Aenea, possiamo venire con te?».

Aenea sospirò. Sul viso, che pure quel mattino appariva abbronzato e vigile, aveva anche un’aria stanca. «No» rispose. «Penso che lasciare questo posto sia come morire o nascere: ciascuno deve farlo per proprio conto.» Sorrise. «O in gruppi molto piccoli.»

Nella sala scese allora il silenzio. Quando Aenea riprese a parlare, fu come se un singolo strumento riprendesse dal punto dove l’orchestra si era fermata. «Raul partirà per primo. Stasera. A uno a uno, tutti voi troverete il giusto teleporter. Vi aiuterò io. Sarò l’ultima a lasciare la Terra. Ma la lascerò anch’io, tempo qualche settimana. Dobbiamo andare via tutti.»

I presenti, sempre silenziosi, si accalcarono intorno a Aenea. «Ma alcuni di noi si incontreranno ancora» riprese lei. «Ne sono sicura.»

Intuii l’altra faccia di quella rassicurante predizione: alcuni di noi non sarebbero sopravvissuti per incontrarsi di nuovo.

«Bene» tuonò Bets Kimbal, tenendo il braccio intorno alle spalle di Aenea «in cucina abbiamo cibo sufficiente per un’ultima festa. Il pranzo di oggi sarà un pasto che ricorderete per anni! Non viaggiare mai a pancia vuota, diceva sempre mia mamma. Chi viene ad aiutarmi in cucina?»

L’assembramento allora si frammentò, familiari e amici in gruppo, i solitari come intontiti, tutti più vicino a Aenea, mentre cominciavamo a sfilare fuori del padiglione. In quel momento avrei voluto afferrare Aenea, scuoterla fino a farle cadere i denti del giudizio e chiederle: "Che diavolo significa: Raul partirà per primo, stasera? Chi diavolo sei, per dirmi di lasciarti qui? E come pensi di costringermi?". Ma Aenea era troppo distante, circondata da troppe persone. Potei soltanto camminarle a lato, dietro la folla che si muoveva verso la cucina e la sala pranzo, con la collera scritta in viso, pugni, muscoli, andatura.

Vidi Aenea lanciarsi un’occhiata alle spalle e cercarmi, sopra il mare di teste che la circondava. Nei suoi occhi c’era una preghiera: "Lascia che ti spieghi".

Ricambiai l’occhiata, impassibile, senza trasmetterle niente.


Era quasi il crepuscolo, quando Aenea mi raggiunse nel grande garage fatto costruire dal signor Wright a mezzo chilometro dal comprensorio. L’edificio era aperto sui lati, con teloni a fare da pareti, ma aveva massicce colonne di pietra che sostenevano un solido soffitto di legno di sequoia. Era stato costruito per tenere al riparo la navetta con cui eravamo giunti Aenea, A. Bettik e io.

Avevo scostato il tendone della porta principale e mi trovavo nel vano del portello della navetta, quando Vidi Aenea attraversare il deserto e venire nella mia direzione. Al polso avevo il braccialetto comlog che non portavo da più di un anno: quell’affare conteneva gran parte della memoria della nostra ex nave spaziale, la nave del console di alcuni secoli fa, ed era stato il mio collegamento e il mio maestro, quando avevo imparato a guidare la navetta. Ora non mi occorreva — la memoria del comlog era stata scaricata nella navetta ed ero diventato un pilota piuttosto abile — ma mi dava un senso di maggiore sicurezza. Il comlog azionava anche un controllo di sistema sulla nave: chiacchierava con se stesso, si potrebbe dire.

Aenea si fermò sotto il tendone ripiegato. Il tramonto lanciava lunghe ombre dietro di lei e dipingeva di rosso la tela.

«Com’è la navetta?» mi domandò Aenea.

Lanciai un’occhiata ai dati sul comlog. «Tutto in ordine» borbottai, senza guardare dalla sua parte.

«Ha carburante e carica sufficienti per un altro volo?»

Sempre senza alzare gli occhi, armeggiai con le piastre sensibili al tocco poste sul bracciolo del sedile di pilotaggio; alla fine risposi: «Dipende dalla destinazione».

Aenea si avvicinò alla scaletta e mi toccò la gamba. «Raul?»

Stavolta fui obbligato a guardarla.

«Non essere in collera. Dobbiamo farlo.»

Ritrassi la gamba. «Maledizione, smettila di dire a me e a ogni altro cosa dobbiamo fare! Sei solo una ragazzina. Forse ci sono cose che alcuni di noi non devono fare! Forse andarmene per conto mio e lasciarti qui è una di queste.»

Scesi dalla scaletta e toccai il comlog. La scaletta rientrò nello scafo. Lasciai il garage e mi avviai verso la mia tenda. All’orizzonte il sole era una perfetta sfera rossa. Negli ultimi raggi di luce, le pietre e i teloni del comprensorio principale parevano in fiamme, il massimo terrore del Vecchio Architetto.

«Raul, aspetta!» Aenea si mise a correre per raggiungermi. Una sola occhiata nella sua direzione mi disse quanto la ragazza era sfinita. Per tutto il pomeriggio aveva incontrato persone, parlato, spiegato, rassicurato, abbracciato. Ero giunto a ritenere la Compagnia un covo di vampiri d’emozioni ed Aenea la loro unica fonte d’energia.

«Hai detto che avresti…» cominciò Aenea.

«Sì, sì» la interruppi. A un tratto ebbi l’impressione che l’adulto fosse lei e io il bambino petulante. Per nascondere la confusione, le girai le spalle e guardai il tramonto. Per un paio di secondi restammo in silenzio a guardare la luce che svaniva nel cielo sempre più scuro. Avevo stabilito che i tramonti sulla Terra erano più lunghi e più belli dei tramonti su Hyperion che ricordavo da bambino e che quelli nel deserto erano particolarmente belli. Quanti tramonti avevo condiviso con Aenea in quei quattro anni? Quante serate, pigramente trascorse a cenare e a chiacchierare sotto le vivide stelle del deserto? Possibile che quello fosse davvero l’ultimo tramonto che avremmo ammirato insieme? Il pensiero mi provocò un senso di nausea e di rabbia.

«Raul» disse di nuovo Aenea, quando le ombre si furono estese dappertutto e l’aria cominciò a raffreddarsi «vuoi venire con me?»

Non risposi, ma la seguii nella pietraia, evitando nell’oscurità le spine simili a baionette delle piante di yucca e quelle dei bassi cactus, finché non fummo nella zona illuminata del comprensorio. "Quanto tempo ci resta" mi domandai "prima che il combustibile per i generatori si esaurisca?" Conoscevo la risposta: era compito mio tenere in buone condizioni i generatori e rifornirli di carburante. Avevamo un quantitativo sufficiente per sei giorni nei serbatoi principali e per altri dieci giorni in quelli di riserva, che non bisognava toccare se non in caso di emergenza. Sparito il mercato indiano, non ci sarebbero stati rifornimenti. Quasi tre settimane di luce e di corrente per i frigoriferi e gli impianti elettrici e poi… che cosa? Tenebra, decadimento e fine dell’incessante attività di costruzione e abbattimento e ricostruzione, che era stato il rumore di fondo a Taliesin negli ultimi quattro anni.

Pensai che forse saremmo andati nel refettorio, invece passammo davanti alle finestre illuminate — gruppi di persone sedute ancora a tavola, intente a discutere con ansia, al nostro passaggio alzarono la testa per rivolgere occhiate solo a Aenea (per loro, nell’ora del panico, io ero invisibile) — e ci avvicinammo allo studio e ufficio privato del signor Wright. Non ci fermammo neppure lì. Né ci fermammo nella piccola e bella sala per conferenze, dove un gruppetto guardava un ultimo film (ancora tre settimane e poi il proiettore avrebbe smesso di funzionare) né entrammo nella sala di disegno principale.

La nostra destinazione era un laboratorio di pietra e di tela, situato in fondo al viale sul lato sud, utile per lavorazioni con l’impiego di gas tossici o di macchinari rumorosi. Vi avevo lavorato spesso nei primi due anni, ma non negli ultimi mesi.

A. Bettik aspettava sulla soglia. L’androide dalla pelle azzurra aveva sul viso un sorriso lieve e sereno, simile a quello che sfoggiava quando aveva portato la torta nella festa a sorpresa per il compleanno di Aenea.

«Cosa c’è?» dissi, ancora irritato, girando lo sguardo dal viso esausto di Aenea a quello, compiaciuto di sé, dell’androide.

Aenea entrò nel laboratorio e accese le luci.

Sul banco da lavoro al centro del piccolo locale c’era una barchetta lunga non più di due metri. Aveva la forma di un seme dalle estremità appuntite, compatto, a parte l’apertura rotonda dell’unico abitacolo munito di una falda di nylon che chiaramente poteva essere stretta intorno alla cintola dell’occupante. Una pagaia a due pale era posata sul banco, accanto alla barca. Mi avvicinai e passai la mano sullo scafo di lucida fibra di vetro, con rinforzi e accessori interni di alluminio. Solo una persona nella Compagnia avrebbe potuto fare un lavoro così accurato. Lanciai ad A. Bettik un’occhiata quasi d’accusa. L’androide annuì.

«Si chiama kayak» disse Aenea, passando anche lei la mano sullo scafo levigato. «Un antico modello terrestre.»

«Ho visto delle variazioni sul tema» replicai, per niente impressionato. «Su Hyperion, i ribelli dell’Artiglio di ghiaccio di Ursa usavano piccole barche simili a questa.»

Aenea accarezzava ancora lo scafo, concentrata, come se non avessi aperto bocca. «Ho chiesto ad A. Bettik di fabbricarlo per te» disse. «Ha lavorato qui per varie settimane.»

«Per me» ripetei debolmente. Sentii una stretta allo stomaco: avevo capito che cosa stava per accadere.

Aenea si avvicinò. Si trovava proprio sotto la luce sospesa e le ombre sotto gli occhi e gli zigomi la facevano sembrare più vecchia dei suoi sedici anni. «Non abbiamo più la zattera, Raul.»

Sapevo a quale zattera si riferiva: quella che ci aveva trasportato per molti pianeti e che era stata fatta a pezzi nell’imboscata dove per poco non morivamo tutti, su Bosco Divino. La zattera che ci aveva trasportato sul fiume sotto i ghiacci perenni di Sol Draconis Septem e fra i deserti di Hebron e di Qom-Riyadh e per il pianeta oceanico Mare Infinitum. Sapevo a quale zattera Aenea si riferiva. E sapevo che cosa significava la barca.

«Allora devo ripercorrere con questa barca il percorso che abbiamo seguito per giungere qui?» Alzai la mano, come per toccare il kayak, ma non completai il gesto.

«No, non lo stesso percorso» disse Aenea. «Ma un percorso lungo il fiume Teti. Toccando pianeti diversi. Quanti ne occorreranno per trovare la nave.»

«La nave?» ripetei. Avevamo lasciato la nave spaziale del console nascosta in fondo a un fiume, impegnata ad autoripararsi dai danni subiti nella fuga dalla Pax, su un pianeta di cui non conoscevamo il nome e la dislocazione.

La mia giovane amica annuì: le ombre sotto i suoi occhi sparirono e tornarono a formarsi. «Avremo bisogno di quella nave, Raul. Se sei d’accordo, porta questo kayak lungo il fiume Teti, ritrova la nave e poi torna con quella sul pianeta dove A. Bettik e io saremo ad aspettarti.»

«Un pianeta nello spazio della Pax?» Lo stomaco mi si strinse ancora di una tacca, al pensiero dei pericoli insiti in quella semplice frase.

«Sì.»

«Perché io?» Lanciai verso A. Bettik un’occhiata piena di significato. Pensai: "Perché mandare un essere umano, il tuo migliore amico, dove potrebbe andare l’androide?". Me ne vergognai e abbassai lo sguardo.

«Sarà un viaggio pieno di pericoli» disse Aenea. «Sono convinta che ce la farai, Raul. Confido che troverai la nave e poi noi.»

Lasciai cadere le spalle. «D’accordo» sospirai. «Ora torniamo nel punto dove siamo usciti dal teleporter?» Fuggendo da Bosco Divino, eravamo sbucati in un piccolo torrente nelle vicinanze del capolavoro del Vecchio Architetto, la Casa sulla Cascata. Distava da lì un terzo del continente.

«No» disse Aenea. «Più vicino. Sul Mississippi.»

«D’accordo» ripetei. Avevo sorvolato il Mississippi. Si trovava a circa duemila chilometri da lì. «Quando parto? Domani?»

Aenea mi toccò il polso. «No» disse, in tono stanco ma fermo. «Stasera. Subito.»

Non protestai. Non discussi. Senza aprire bocca, presi la prua del kayak; A. Bettik prese la poppa, Aenea sorresse il centro e insieme, nella sera del deserto sempre più buia, portammo sulla navetta quel maledetto catorcio.

3

Il Grande Inquisitore era in ritardo.

Il controllo del traffico aerospaziale del Vaticano deviò il veicolo elettromagnetico (VEM) dell’Inquisitore in uno spazio aereo in genere chiuso, nei pressi dello spazioporto, interruppe tutto il traffico aereo nel lato est del Vaticano e tenne in orbita d’avvicinamento finale un robocargo da trentamila tonnellate, finché la vettura non sorvolò l’angolo sudest della griglia di atterraggio.

Nel veicolo elettromagnetico superblindato, il Grande Inquisitore, sua eminenza il cardinale John Domenico Mustafa, non guardò dal finestrino né dai videomonitor il piacevole spettacolo del Vaticano in avvicinamento, con le mura soffuse di rosa per la luce del mattino, e neppure l’autostrada a venti corsie, piena di traffico, che in basso superava il ponte Vittorio Emanuele e scintillava come un fiume illuminato dal sole per i raggi riflessi dai parabrezza e dalle capote a bolla. L’attenzione del Grande Inquisitore era concentrata unicamente sulle ultime informazioni dei servizi segreti che scorrevano sul suo comlog.

L’ultimo paragrafo scomparve, affidato alla sua memoria e all’oblio; il Grande Inquisitore si rivolse al suo aiutante, padre Farrell. «Non ci sono stati altri incontri con la Pax Mercatoria?»

Padre Farrell, un uomo magro dagli occhi grigi e spenti, non sorrideva mai, ma ora, con una contrazione del muscolo facciale, trasmise al cardinale una parvenza di sorriso. «Nessun altro incontro.»

«Ne sei sicuro?»

«Sicurissimo.»

Il Grande Inquisitore si appoggiò allo schienale imbottito e si concesse un breve sorriso. La Pax Mercatoria aveva effettuato solo quel prematuro e disastroso approccio nei confronti di uno dei candidati al soglio pontificio — tastare il polso al cardinale Lourdusamy — e lui aveva ascoltato la registrazione completa di quell’incontro. Si concesse ancora alcuni secondi di sorriso compiaciuto: Lourdusamy aveva ragione di ritenere che la sua sala conferenze fosse a prova di "cimici", del tutto sicura da intercettazioni di ogni tipo. Qualsiasi apparecchiatura nella sala, anche impiantata in uno dei presenti, sarebbe stata rilevata e scoperta. Ogni tentativo di trasmissione all’esterno sarebbe stato rilevato e bloccato. Il Grande Inquisitore aveva vissuto uno dei suoi momenti più belli, quando aveva avuto la registrazione audiovisiva completa di quell’incontro.

Due anni prima, monsignor Luca Oddi era entrato nella clinica vaticana per una normale sostituzione periodica di occhi, orecchie e cuore. Il chirurgo era stato avvicinato da padre Farrell e minacciato: se non voleva sentire sulle proprie spalle tutto il peso del Sant’Uffizio, doveva impiantare nel corpo del paziente alcune apparecchiature d’avanguardia. Il chirurgo aveva accettato l’incarico e poco dopo era morto della vera morte, senza possibilità di risurrezione, in un incidente d’auto sopra la Grande Secca Nord.

Monsignor Luca Oddi non aveva nel suo organismo cimici elettroniche o meccaniche, ma al suo nervo ottico erano collegati sette nanoregistratori video totalmente biologici. Quattro nanoregistratori audio erano inseriti nel suo sistema nervoso uditivo. Quei bioregistratori non trasmettevano dall’interno del corpo, ma memorizzavano i dati in forma chimica e li trasportavano fisicamente nel flusso sanguigno fino al trasmettitore a emissione concentrata, anch’esso completamente organico, inserito nel ventricolo sinistro. Dieci minuti dopo che monsignor Oddi lasciava la zona protetta dell’ufficio del cardinale Lourdusamy, il trasmettitore inviava una registrazione compressa a uno dei vicini transponder relè del Grande Inquisitore. Non era come origliare in tempo reale nella sala a prova d’intercettazione del cardinale Lourdusamy, fatto che ancora preoccupava il cardinale Mustafa, ma era quanto di più simile l’attuale tecnologia spionistica permettesse.

«Isozaki ha paura» disse padre Farrell. «Pensa che…»

Il Grande Inquisitore alzò il dito. Padre Farrell si interruppe a metà della frase. «Tu non sai che ha paura» disse il cardinale. «Tu non sai cosa pensa. Tu sai solo ciò che dice e ciò che fa; da questo deduci il suo pensiero e le sue reazioni. Non fare mai ipotesi non comprovabili sui tuoi nemici, Martin. Potrebbe rivelarsi una fatale indulgenza nei tuoi stessi confronti.»

Padre Farrell chinò la testa per mostrare d’essere d’accordo, ma anche in segno di sottomissione.

Il VEM atterrò nell’apposita area in cima a Castel Sant’Angelo. Il Grande Inquisitore uscì dal portello e scese la scaletta, con tale rapidità che Farrell fu costretto a correre per raggiungerlo. Agenti della sicurezza, nella rossa uniforme corazzata del Sant’Uffizio, si disposero a passo di scorta davanti a loro e dietro di loro, ma il Grande Inquisitore li allontanò con un gesto. Voleva terminare il discorso con padre Farrell. Toccò il braccio sinistro del suo aiutante, non come gesto amichevole, ma per chiudere i circuiti a conduzione ossea, in modo da poter parlare senza emissione di suono. «Isozaki e i capi della Pax Mercatoria non hanno paura, Martin» disse. «Se Lourdusamy avesse voluto la loro epurazione, a quest’ora sarebbero già morti. Isozaki doveva trasmettere il messaggio di sostegno al cardinale e l’ha trasmesso. Ad avere paura sono i militari della Pax.»

Farrell corrugò la fronte e replicò sul circuito osseo. «I militari? Ma ancora non hanno giocato la loro carta. Non hanno fatto niente di eversivo.»

«Appunto» ammise il Grande Inquisitore. «I capi della Pax Mercatoria hanno fatto la loro mossa e sanno che a tempo debito Lourdusamy penserà a loro. Per anni i militari della Flotta della Pax e delle altre forze armate hanno avuto paura di fare la scelta sbagliata. Ora hanno paura di avere atteso troppo.»

Farrell annuì. Avevano preso un ascensore gravitazionale per scendere nel ventre di pietra di Castel Sant’Angelo; ora oltrepassarono guardie armate e attraversarono letali campi di forza posti lungo un corridoio buio. Davanti a una porta priva di targhe, due agenti in uniforme rossa scattarono sull’attenti, sollevando il fucile a energia.

«Lasciateci qui» disse il Grande Inquisitore. Posò la palma sulla piastra di identificazione. Il pannello d’acciaio scivolò sulle guide e scomparve.

Il corridoio era stato pietra e ombre. L’interno della sala era vivida luce, strumenti e superfici sterili. All’ingresso del Grande Inquisitore e di Farrell, alcuni tecnici alzarono lo sguardo. Una parete della stanza era occupata da sportelli quadrati che parevano proprio contenitori per cadaveri umani, come in un’antica morgue. Uno sportello era aperto e un uomo nudo era disteso su un lettino a rotelle estratto dal cassetto frigorifero.

Il Grande Inquisitore e Farrell si fermarono ai lati del lettino.

«Ritorna in vita senza problemi» disse il tecnico al quadro comandi. «Lo teniamo appena sotto la superficie. Possiamo rianimarlo anche subito.»

«Quanto tempo è durato il suo ultimo crio-sonno?» domandò padre Farrell.

«Sedici mesi locali» rispose il tecnico. «Tredici e mezzo standard.»

«Rianimatelo» ordinò il Grande Inquisitore.

Nel giro di qualche secondo l’uomo cominciò a battere le palpebre. Era piccolo, muscoloso ma compatto, e non aveva segni o lividi sul corpo. Ai polsi e alle caviglie portava ceppi di lappolite. Uno shunt corticale gli era stato impiantato proprio dietro l’orecchio sinistro e un fascio quasi invisibile di microfibre correva dallo shunt al quadro comandi.

L’uomo sul lettino gemette.

«Caporale Bassin Kee» disse il Grande Inquisitore «mi senti?»

Il caporale Kee emise un suono incomprensibile.

Il Grande Inquisitore annuì, come soddisfatto. «Caporale Kee» disse in tono piacevole, da conversazione «dobbiamo ricominciare dal punto in cui ci eravamo interrotti?»

«Quanto tempo…» borbottò Kee, con labbra secche e irrigidite. «Quanto tempo sono stato…»

Padre Farrell si era spostato accanto al tecnico davanti al quadro di comando. Ora rivolse un cenno di assenso al Grande Inquisitore.

Senza fare caso alla domanda del caporale, il cardinale John Domenico Mustafa disse piano: «Perché tu e il padre capitano de Soya avete lasciato andare la bambina?».

Il caporale Kee aveva aperto gli occhi, battendo le palpebre come se la luce gli ferisse dolorosamente la vista; ora li richiuse. Rimase in silenzio.

Il Grande Inquisitore rivolse un cenno al suo aiutante. Padre Farrell passò la mano su alcune icone nel diskey del quadro di comando, ma per il momento non ne attivò nessuna.

«Te lo ripeto» disse il Grande Inquisitore. «Perché tu e de Soya avete permesso alla bambina e ai suoi alleati criminali di fuggire da Bosco Divino? Per chi lavoravate? Quali erano i vostri motivi?»

Il caporale Kee rimase supino, mani strette a pugno e occhi serrati. Non rispose.

Il Grande Inquisitore piegò impercettibilmente la testa a sinistra e padre Farrell mosse due dita sopra una delle icone. A un occhio non addestrato, quelle icone erano astratte come geroglifici, ma Farrell le conosceva bene. Quella da lui scelta poteva essere interpretata come "testicoli schiacciati".

Sul lettino il caporale Kee ansimò e spalancò la bocca per urlare, ma gli inibitori neurali bloccarono la sua reazione. Il caporale spalancò al massimo le mascelle e padre Farrell percepì la tensione dei muscoli e dei tendini.

Il Grande Inquisitore annuì e Farrell tolse le dita dalla zona di attivazione sopra l’icona. Sul lettino a rotelle il caporale Kee era scosso da convulsioni in tutto il corpo; i muscoli addominali gli si increspavano per la tensione.

«È soltanto dolore virtuale, caporale Kee» mormorò il Grande Inquisitore. «Una illusione neurale. Il tuo corpo non ha il minimo segno.»

Sulla lastra, Kee si sforzava di alzare la testa per guardarsi l’inguine, ma la banda di lappolite glielo impediva.

«O forse no» riprese il Grande Inquisitore. «Forse stavolta siamo ricorsi a metodi più antichi e meno raffinati.» Si avvicinò di un passo al lettino a rotelle, in modo che il caporale potesse guardarlo in viso. «Di nuovo, perché tu e il padre capitano de Soya avete lasciato la bambina su Bosco Divino? Perché avete assalito la vostra collega Rhadamanth Nemes?»

Il caporale Kee storse la bocca fino a mostrare i molari. «V… v… vaffanculo» riuscì a dire, serrando le mascelle per resistere al tremito che lo squassava.

«Ma certo» disse il Grande Inquisitore e rivolse un cenno a padre Farrell.

Stavolta l’icona attivata da Farrell poteva essere interpretata come "ferro rovente dietro l’occhio destro".

Il caporale Kee spalancò la bocca in un urlo muto.

«Di nuovo» disse piano il Grande Inquisitore. «Raccontaci tutto.»

«Chiedo scusa, eminenza» disse padre Farrell, con un’occhiata al comlog «ma la messa del conclave inizia fra quarantacinque minuti.»

Il Grande Inquisitore scacciò con un gesto l’obiezione. «Abbiamo tempo, Martin. Abbiamo tempo.» Toccò l’avambraccio del caporale Kee. «Raccontaci quei pochi fatti, caporale, e sarai lavato, vestito e rilasciato. Con questo tradimento hai peccato contro la nostra Chiesa e il Tuo Signore, ma l’essenza della Chiesa è il perdono. Spiega le ragioni del tuo tradimento e tutto ti sarà perdonato.»

Sorprendentemente, con i muscoli ancora vibranti per lo shock, il caporale Kee si mise a ridere. «Vaffanculo» disse. «Mi hai già costretto a dirti tutto ciò che so. Hai usato la veritina. Sai perché abbiamo ucciso quella puttana e lasciato andare la ragazza. E non mi lascerai mai libero. Vaffanculo.»

Il Grande Inquisitore si strinse nelle spalle e arretrò. Diede un’occhiata al suo comlog d’oro e disse piano: «Abbiamo tempo. Molto tempo». Rivolse un cenno a padre Farrell.

L’icona che pareva una doppia parentesi sul quadro comando di dolore virtuale poteva essere interpretata come "lama larga e rovente nell’esofago". Con un aggraziato movimento delle dita padre Farrell la mise in funzione.


Il padre capitano Federico de Soya era stato riportato in vita su Pacem e aveva trascorso due settimane come prigioniero de facto nel presbiterio vaticano dei legionari di Cristo. Il presbiterio era comodo e silenzioso. Il piccolo e grassoccio cappellano di risurrezione che badava alle sue necessità, padre Baggio, era gentile e sollecito come sempre. De Soya odiava quel posto e quel prete.

Nessuno disse esplicitamente al padre capitano de Soya che non poteva lasciare il presbiterio, ma gli fu fatto capire che sarebbe dovuto restare lì finché non l’avessero chiamato. Dopo una settimana trascorsa a riprendere le forze e a superare il disorientamento causato dalla risurrezione, de Soya fu chiamato al quartier generale della Flotta della Pax, dove incontrò l’ammiraglio Wu e il diretto superiore della donna, l’ammiraglio Marusyn.

Durante l’incontro, il padre capitano de Soya fece ben poco, a parte salutare, stare sul riposo e ascoltare. L’ammiraglio Marusyn spiegò che un riesame del processo di corte marziale subito quattro anni prima dal padre capitano de Soya aveva mostrato varie irregolarità e incongruenze procedurali. Un ulteriore esame aveva provocato l’annullamento della decisione della corte marziale: de Soya doveva essere reintegrato immediatamente nel grado di capitano della Flotta della Pax. Si sarebbe provveduto a trovargli una nave per l’incarico di comando.

«La sua vecchia nave torcia, la Baldassarre, è in cantiere per un anno» disse l’ammiraglio Marusyn. «Riattazione completa, fino agli standard di nave scorta classe Arcangelo. Il suo sostituto, la madre capitano Stone, ha fatto un eccellente lavoro come capitano.»

«Sissignore» disse de Soya. «Stone era un eccellente subalterno. Sono sicuro che si è dimostrata un ottimo comandante.»

L’ammiraglio annuì con aria assente e sfogliò il blocco notes. «Sì, sì» disse. «Così brava, infatti, che l’abbiamo proposta come comandante di una delle nuove Arcangelo planetarie. Abbiamo in mente una Arcangelo anche per lei, padre capitano.»

De Soya batté le palpebre, sorpreso, e cercò di non mostrare reazioni. «La Raffaele, signore?»

L’ammiraglio alzò il viso, abbronzato e rugoso, e mostrò una traccia di sorriso. «Sì, la Raffaele, ma non la stessa che lei ha già comandato. Abbiamo ritirato quel prototipo per servizi di corriere e gli abbiamo cambiato nome. La nuova Raffaele classe Arcangelo è… ha già sentito parlare delle nuove Arcangelo, padre capitano?»

«Nossignore. Non proprio.» De Soya aveva udito delle voci, nel suo pianeta desertico, quando i minatori di bauxite chiacchieravano ad alta voce nell’unico bar della città.

«Quattro anni standard» mormorò l’ammiraglio, scuotendo la testa. Aveva i capelli bianchi, pettinati all’indietro sulle orecchie. «Aggiorni Federico, ammiraglio.»

Marget Wu annuì e toccò il diskey del quadro comando tattico standard inserito nella parete. Fra la donna e de Soya si materializzò l’ologramma di una nave spaziale. Il padre capitano vide subito che quella nave era più grande, più snella, più rifinita e più micidiale della sua vecchia Raffaele.

«Sua Santità ha chiesto a ogni pianeta industrializzato della Pax di costruire, o almeno di finanziare, un incrociatore da battaglia classe Arcangelo, padre capitano» disse l’ammiraglio Wu, col tono di chi tiene lezione. «Negli ultimi quattro anni, ventuno sono stati completati e messi in servizio. Altri sessanta sono quasi terminati.» L’ologramma cominciò a ruotare e ad allargarsi, finché all’improvviso mostrò in sezione il ponte di comando. Era come se una lancia laser avesse tagliato in due la nave.

«Come vede» proseguì Wu «le aree di soggiorno, i ponti di comando e i centri tattici Tre-C sono molto più spaziosi di quelli della prima Raffaele e della sua vecchia nave torcia. I motori, sia il segretissimo Gideon per velocità C-più sia quello a fusione per velocità planetaria, sono stati ridotti di un terzo in dimensione, ma sono stati migliorati in efficienza e facilità di manutenzione. La nuova Raffaele porta tre navette per spostamenti in atmosfera e un ricognitore a grande velocità. A bordo ci sono culle automatiche di risurrezione per un equipaggio di ventotto persone e fino a ventidue marines o passeggeri.»

«Difese?» domandò il padre capitano de Soya, ancora sul riposo, mani chiuse dietro di sé.

«Campi di contenimento classe dieci» rispose vivacemente Wu. «La più moderna tecnologia di segretezza. Capacità di disturbo elettronico e di interferenza classe omega. Senza contare il normale assortimento di difese ravvicinate ipercinetiche ed energetiche.»

«Capacità di attacco?» domandò de Soya. Poteva dedurle dalle aperture e dagli spiegamenti visibili nell’ologramma, ma voleva sentirle elencare.

Rispose l’ammiraglio Marusyn, in tono d’orgoglio, come se mostrasse il suo ultimo nipotino: «Tutto il campionario» disse. «Raggi di energia CPB, naturalmente, ma alimentati dal nucleo del motore C-più e non da quello a fusione. Riducono a scorie qualsiasi cosa nel raggio di mezza unità planetaria. Nuovi missili ipercinetici Hawking, miniaturizzati, circa la metà in massa e dimensioni rispetto a quelli che armavano la Baldassarre. Aghi al plasma con resa quasi doppia rispetto alle testate di cinque anni fa. Raggi della morte…»

Il padre capitano de Soya cercò di restare impassibile: i raggi della morte erano proibiti, nella Flotta della Pax.

L’ammiraglio Marusyn gli lesse qualcosa in viso. «La situazione è cambiata, Federico» spiegò infatti. «La battaglia è alla fine. Gli Ouster si riproducono come moscerini della frutta, là fuori nel buio; se non li fermiamo, fra un paio d’anni scorificheranno Pacem.»

Il padre capitano de Soya annuì. «Posso chiedere quale pianeta ha finanziato la costruzione di questa nuova Raffaele, signore?»

Marusyn sorrise e indicò l’ologramma. L’ingrandimento aumentò e lo scafo parve proiettarsi contro de Soya. La vista tagliò lo scafo, si chiuse sul ponte tattico, si mosse sul bordo del pozzetto olografico tattico, finché il padre capitano non riuscì a distinguere una piccola targa di bronzo col nome, ASS RAFFAELE, e sotto, in caratteri più piccoli, COSTRUITA E COMMISSIONATA DALLA POPOLAZIONE DI PORTA DEL PARADISO, PER LA DIFESA DI TUTTA L’UMANITÀ.

«Perché sorride, padre capitano?» domandò l’ammiraglio Marusyn.

«Ah, signore, ecco, sono stato su Porta del Paradiso, signore. Più di quattro anni fa, naturalmente. Il pianeta era disabitato, a parte una decina di cercatori minerari e una guarnigione della Pax in orbita. Dopo l’invasione degli Ouster, trecento anni fa, non c’è più stata una vera popolazione. Proprio non riesco a immaginare come un pianeta del genere riesca a finanziare la costruzione di una di queste navi. Mi sembra che per pagare una sola Arcangelo sarebbe necessario il prodotto nazionale lordo di un pianeta come Vettore Rinascimento.»

Marusyn non perdette il sorriso. «Esatto, padre capitano. Porta del Paradiso è un buco d’inferno, atmosfera velenosa, pioggia acida, fango interminabile, piane sulfuree, non si è mai ripreso dall’attacco degli Ouster. Ma Sua Santità ha ritenuto opportuno trasferire a imprese private la sovrintendenza di quel pianeta. Porta del Paradiso possiede ancora una fortuna in metalli pesanti e prodotti chimici. Così l’abbiamo venduto.»

Stavolta de Soya non riuscì a nascondere la sorpresa. «Venduto, signore? Un intero pianeta?»

Mentre Marusyn rideva apertamente, l’ammiraglio Wu precisò: «All’Opus Dei, padre capitano».

De Soya rimase in silenzio, ma fu chiaro che non aveva capito.

«Un tempo l’Opus Dei era una organizzazione religiosa di importanza secondaria» disse Wu. «Conta, credo, milleduecento anni di vita. Fu fondata nel 1920 d.C. Negli ultimi anni è divenuta non solo un grande alleato della Santa Sede, ma un degno concorrente della Pax Mercatoria.»

«Ah, certo» disse il padre capitano de Soya. Riusciva a immaginare che la Pax Mercatoria comprasse interi pianeti, ma non che permettesse a un concorrente di acquisire un tale potere nei pochi anni in cui lui era stato lontano dalla Pax e all’oscuro delle ultime novità. Non importava. Si rivolse all’ammiraglio Marusyn. «Un’ultima domanda, signore.»

L’ammiraglio diede un’occhiata al cronometro comlog e annuì, brusco.

«Da quattro anni manco dalla Flotta» disse piano de Soya. «Non ho più portato l’uniforme e non ho avuto aggiornamenti tecnologici. Il pianeta dove prestavo servizio sacerdotale è lontanissimo dai centri principali; in pratica è come se avessi passato in crio-fuga tutto questo tempo. Come potrei, signore, assumere il comando di una astronave classe Arcangelo della nuova generazione?»

Marusyn corrugò la fronte. «Procederemo ad aggiornarla, padre capitano. La Flotta della Pax sa ciò che fa. Oppure la sua è una risposta negativa a questa nomina?»

Il padre capitano de Soya esitò visibilmente. «Nossignore» disse poi. «Apprezzo la fiducia che lei e la Flotta della Pax dimostrate nei miei confronti. Farò del mio meglio, Ammiraglio.» De Soya era stato addestrato alla disciplina due volte, una come prete e gesuita, una come ufficiale della Flotta di Sua Santità.

Marusyn ammorbidi l’espressione del viso. «Sono sicuro che farà del suo meglio, Federico. Siamo lieti di riaverla con noi. Vorremmo che lei restasse nel presbiterio dei legionari, qui su Pacem, finché non saremo pronti a inviarla alla sua nave, se per lei va bene.»

"Maledizione!" pensò de Soya. "Ancora prigioniero con quei maledetti legionari." Ma rispose: «Naturalmente, signore. È un luogo piacevole».

Marusyn diede di nuovo un’occhiata al comlog: l’incontro era alla fine. «Qualche richiesta, prima che l’incarico diventi ufficiale, padre capitano?»

De Soya esitò di nuovo. Fare richieste sarebbe stato controproducente, lo sapeva. Ma non cambiò idea. «Sì, signore» disse. «Solo una. Nella vecchia Raffaele avevo tre subalterni, guardie svizzere portate con me da Hyperion. Il lanciere Rettig… è morto, signore, ma il sergente Gregorius e il caporale Kee sono stati con me fino alla fine e mi chiedevo se…»

Marusyn annuì con impazienza. «Li vuole con lei sulla nuova Raffaele. Mi pare una richiesta ragionevole. Avevo un cuoco che mi trascinavo di nave in nave… il poveraccio rimase ucciso nella seconda battaglia del Sacco di Carbone. Non so niente di quei suoi uomini.» Diede un’occhiata all’ammiraglio Wu.

«Per puro caso mi sono passati fra le mani i loro dossier, mentre rivedevo le carte per la sua reintegrazione, padre capitano» disse l’ammiraglio Wu. «Al momento il sergente Gregorius presta servizio nei Territori dell’Anello. Sono sicura che si può combinare un trasferimento. Il caporale Kee purtroppo…»

De Soya si sentì stringere lo stomaco: Kee era con lui su Bosco Divino, mentre Gregorius era stato rimesso nella culla, perché la risurrezione non era riuscita. L’aveva visto ancora una volta, dopo il ritorno nello spazio di Pacem, quando gli agenti della polizia militare li avevano arrestati e portati in celle separate. Gli aveva stretto la mano e gli aveva promesso che si sarebbero rivisti.

«… è morto due anni standard fa» proseguì Wu. «Fu ucciso durante un attacco degli Ouster nel Saliente Sagittario. Ha ricevuto la Stella d’Argento di San Michele, alla memoria, è ovvio.»

De Soya annuì sobriamente. «Grazie» disse.

L’ammiraglio Marusyn rivolse a de Soya il suo paterno sorriso da politico e gli tese la mano, da sopra la scrivania. «Buona fortuna, Federico. Usi la Raffaele per mandarli all’inferno.»


Il quartier generale della Pax Mercatoria non si trovava su Pacem, ma era — opportunamente — dislocato nel punto troiano Lagrange 5, a circa sessanta gradi dal piano dell’eclittica. Fra il pianeta del Vaticano e il gigantesco toroide cavo della Pax Mercatoria (una ciambella carbonio-carbonio spessa 270 metri, larga un buon chilometro e del diametro di 26 chilometri, dall’interno intersecato di filiformi bacini di carenaggio, antenne di trasmissione e scomparti di carico) si librava metà potenza di fuoco della Flotta della Pax, di stanza in orbita. Kenzo Isozaki aveva calcolato una volta che un tentativo di colpo di Stato partito dal toroide sarebbe durato 12,06 nanosecondi, prima di finire in vapore.

L’ufficio di Isozaki si trovava in un bulbo trasparente su uno stelo di fibrocarbonio che sporgeva di quattrocento metri dal bordo esterno del toroide. Il guscio pellicolare ricurvo del bulbo poteva essere reso opaco o lasciato trasparente a seconda del capriccio del primo funzionario esecutivo (PFE) che lo occupava. Oggi era trasparente, a parte la sezione polarizzata che attenuava il bagliore del giallo sole di Pacem. In quel momento lo spazio pareva nero ma, con la rotazione del toroide, il bulbo si sarebbe venuto a trovare nell’ombra dell’anello e Isozaki, guardando in alto, avrebbe visto la comparsa istantanea delle stelle, come se un nero sipario fosse stato tirato da parte per rivelare migliaia di candele dalla fiammella vivida e immobile. "O la miriade di fuochi di bivacco dei miei nemici" pensò Isozaki, mentre l’oscurità scendeva per la ventesima volta nella sua giornata di lavoro.

Con le pareti completamente trasparenti, l’ufficio ovale, arredato con una modesta scrivania, poltroncine e lampade dalla luce soffusa, pareva una piattaforma rivestita di moquette, isolata nell’immensità dello spazio, illuminata dalle lucenti stelle singole e dal lungo braccio della Via Lattea. Ma non fu quel ben noto spettacolo a far alzare gli occhi al PFE della Pax Mercatoria: nel campo di stelle si distinguevano tre code di fusione di astrocarghi in arrivo, simili a macchie in un ologramma di astronomia. Isozaki era così abile a giudicare le distanze e i delta-v delle code di fusione da poter dire, dopo un’occhiata, entro quanto tempo quegli astrocarghi sarebbero entrati nei bacini di carenaggio, e anche il loro nome. L’astronave della Pax Mercatoria Moldahar Effectuator si era rifornita di combustibile scremando una gigante gassosa nel sistema di Epsilon Eridani e bruciava di un rosso più vivido del solito. Il capitano dell’astronave di Sua Santità (ASS) Emma Constant aveva la solita fretta di portare al toroide il carico di metalli fissili da Pegaso 51 e decelerava a velocità superiore di un buon cinquanta per cento a quella raccomandata dalla Pax Mercatoria. Infine la macchia più piccola poteva essere solo l’ASS Elemosineria Apostolica, che aveva appena compiuto il balzo dal punto di traslazione C-più e proveniva dal sistema di Rinascimento: Isozaki le riconobbe con una sola occhiata, proprio come riconosceva gli altri trecento e passa punti di traslazione ottimale visibili nella sua parte di cielo del sistema di Pacem.

L’ascensore si alzò dal pavimento e divenne un cilindro trasparente il cui passeggero era illuminato dalla luce delle stelle. Isozaki sapeva che il cilindro era trasparente solo dalla sua parte: all’interno, il passeggero era circondato da una paratia a specchio e non avrebbe visto niente dell’ufficio del PFE, ma solo il proprio riflesso, finché Isozaki non avesse azionato l’apertura della porta.

Anna Pelli Cognani era la sola occupante dell’ascensore. Isozaki annuì e la sua IA personale azionò l’apertura. La sua collega e protégée non diede neppure un’occhiata al campo di stelle in movimento e si avvicinò. «Buon pomeriggio, Kenzo-san» disse.

«Buon pomeriggio, Anna» rispose Isozaki. Con un gesto la invitò ad accomodarsi nella più confortevole delle poltroncine, ma Anna Pelli Cognani scosse la testa e rimase in piedi. Non si sedeva mai nell’ufficio di Isozaki, ma Isozaki non mancava mai di invitarla a sedersi.

«La messa del conclave è quasi terminata» disse Anna Pelli Cognani.

Isozaki annuì. In quel momento l’IA del suo ufficio oscurò le pareti della bolla e proiettò la trasmissione a raggio compatto del Vaticano.

Quel mattino la basilica di San Pietro era inondata di rosso, viola, nero, bianco: ottantatré cardinali, che presto si sarebbero chiusi in conclave, chinavano la testa, pregavano, facevano la genuflessione, si inginocchiavano, si alzavano e cantavano. Dietro quel gregge di possibili candidati al soglio pontificio, c’erano le centinaia di vescovi e di arcivescovi, di diaconi e di membri della Curia, di ufficiali militari e di funzionari civili della Pax, di governatori di pianeti e di alte personalità che al momento della morte del papa si erano trovati per caso su Pacem o nel raggio di un debito temporale di tre settimane, di delegati dei domenicani, gesuiti, benedettini, legionari di Cristo, marianisti, salesiani e l’unico delegato in rappresentanza dei pochi francescani rimasti. Infine, nelle ultime file, c’erano gli "stimati ospiti", delegati onorari della Pax Mercatoria, dell’Opus Dei, dell’Istituto per le opere di religione (noto anche come Banca vaticana) e delegati delle ali amministrative della prefettura, del Servizio assistenziale del Santo Padre, dell’APSS (Amministrazione del patrimonio della Santa Sede), come pure della Camera apostolica del cardinale camerlengo. Inoltre, nel banchi più arretrati, c’erano onorati ospiti della Pontificia accademia delle scienze, della Commissione pontificia per la giustizia e la pace interstellare, di molte accademie pontificie come la Pontificia accademia ecclesiastica e di altre organizzazioni semiteologiche necessarie per il governo del vasto Stato della Pax. Infine c’erano le vivaci uniformi delle guardie svizzere, nonché i comandanti della Guardia palatina ricostituita da papa Giulio e, nella prima apparizione ufficiale, il comandante della finora segreta Guardia nobile, un uomo dal colorito pallido, nero di capelli, in uniforme rossa.

Kenzo Isozaki e Anna Pelli Cognani guardarono con l’occhio di chi è bene informato la sfarzosa cerimonia. Anche loro erano stati invitati alla messa, ma negli ultimi secoli era divenuta tradizione che i PFE della Pax Mercatoria onorassero con la propria assenza le più importanti cerimonie della Chiesa: vi presenziavano solo i loro delegati ufficiali presso il Vaticano. Così guardarono il cardinale Couesnongle celebrare la messa dello Spirito Santo e trascurarono il cardinale camerlengo, non a torto ritenuto un trascurabile uomo di paglia, ma dedicarono tutta l’attenzione al cardinale Lourdusamy, al cardinale Mustafa e ad altri sei intermediari del potere, nei banchi delle prime file.

La benedizione finale concluse la messa e i cardinali con diritto di voto sfilarono in processione solenne per entrare nella Cappella Sistina. Le olocamere si soffermarono a riprendere la chiusura della porta. L’ingresso al conclave fu chiuso, la porta fu sprangata col chiavistello all’interno e con un catenaccio all’esterno. Il comandante delle guardie svizzere e il prefetto della Casa Pontificia proclamarono ufficialmente la chiusura del conclave. Il commentatore vaticanista passò allora alle analisi e alle ipotesi, mentre l’olocamera continuava a inquadrare la porta sigillata.

«Basta così» disse Kenzo Isozaki. La trasmissione fu interrotta, la bolla tornò trasparente e la luce del sole inondò la stanza sotto il cielo nero.

Anna Pelli Cognani ebbe un pallido sorriso. «La votazione non dovrebbe richiedere molto tempo.»

Isozaki era tornato nella propria poltrona. Unì la punta delle dita e si picchiettò il labbro inferiore. «Anna» disse «ritiene che noi, tutti noi nella presidenza della Pax Mercatoria, abbiamo un vero potere?»

Con la sua espressione neutra Anna Pelli Cognani rivelò la propria sorpresa. «Durante lo scorso anno fiscale, Kenzo-san, la mia divisione ha prodotto un utile di trentasei miliardi di marchi.»

Isozaki tenne immobili le dita. «Signora Cognani» disse «sarebbe così gentile da togliersi la giacca e la camicetta?»

La sua protégée non batté ciglio. Nei ventotto anni standard in cui erano stati colleghi — subalterna e principale, in realtà — Isozaki non aveva fatto, detto o lasciato capire niente che si potesse interpretare come approccio sessuale. Anna Pelli Cognani esitò solo un secondo, poi aprì la giacca, se la tolse, la posò sulla spalliera della poltroncina che non occupava mai e si sbottonò la camicetta. La piegò con cura e la posò sopra la giacca.

Isozaki si alzò, girò intorno alla scrivania e si fermò a un metro dalla donna. «Anche la biancheria» disse, togliendosi la giacca e sbottonandosi la camicia di modello antiquato. Aveva torace robusto, muscoloso ma glabro.

Anna Pelli Cognani si tolse la chemise. Aveva seni piccoli ma ben formati, rosei in punta.

Kenzo Isozaki alzò la mano come per toccare la donna, si limitò a indicare, poi la spostò verso il proprio petto e toccò il crucimorfo a doppia barra che andava dallo sterno all’ombelico. «Questo» disse «è il potere.» Si girò e cominciò a rivestirsi. Dopo un attimo, Anna Pelli Cognani si strinse nelle spalle e lo imitò.

Quando si furono rivestiti tutt’e due, Isozaki tornò a sedersi alla scrivania e indicò l’altra poltroncina. Con sua sorpresa, Anna Pelli Cognani vi si accomodò.

«Ciò che vuole dire è semplice» iniziò la donna. «Per quanto successo abbiamo nel renderci indispensabili al nuovo papa, se ci sarà mai un nuovo papa, la Chiesa avrà sempre il definitivo potere della risurrezione.»

«Non proprio» precisò Isozaki, unendo di nuovo la punta delle dita, come se il precedente interludio non fosse avvenuto. «Voglio dire che il potere che controlla il crucimorfo, controlla l’universo umano.»

«La Chiesa…» iniziò Anna Pelli Cognani e si interruppe. «Certo, il crucimorfo è solo parte dell’equazione del potere. Il TecnoNucleo fornisce alla Chiesa il segreto della risurrezione coronata da successo. Ma per duecentottanta anni è stato in combutta con la Chiesa…»

«Aveva un suo obiettivo» disse piano Isozaki. «Quale, Anna?»

L’ufficio ruotò nella notte. Miriadi di stelle brillarono di colpo. Anna Pelli Cognani alzò il viso verso la Via Lattea per guadagnare un istante e riflettere. «Nessuno lo sa» rispose infine. «La legge di Ohm.»

Isozaki sorrise. «Molto bene. Nel nostro caso, seguire la linea di minore resistenza potrebbe portarci non direttamente alla Chiesa, ma direttamente al Nucleo.»

«Però il consigliere Albedo non si incontra con nessuno, tranne Sua Santità e Lourdusamy.»

«Con nessuno di cui siamo a conoscenza» la corresse Isozaki. «Ma in questo caso è il Nucleo a venire nell’universo umano.»

Anna Pelli Cognani annuì. Capiva benissimo il suggerimento implicito: le IA illegali classe Nucleo, che la Pax Mercatoria stava sviluppando, avrebbero potuto trovare la via del piano dati e seguirla fino al Nucleo. Per quasi trecento anni, il primo comandamento imposto dalla Chiesa e dalla Pax era stato: "Non costruirai una macchina pensante uguale o superiore alla mente umana". Le IA in uso nell’ambito della Pax erano più "Inanimate Apparecchiature" che "Intelligenze Artificiali" del tipo che si era evoluto distaccandosi dalla specie umana quasi un millennio prima: macchine pensanti stupide, come l’IA nell’ufficio di Isozaki o il computer nella vecchia nave di de Soya, la Raffaele. Ma nell’ultima decina d’anni, dipartimenti segreti di ricerca della Pax Mercatoria avevano ricreato le IA autonome uguali o superiori a quelle di uso comune durante l’Egemonia. I rischi e i vantaggi di quel progetto erano quasi incommensurabili: se il progetto aveva successo, il dominio assoluto del commercio e la rottura dell’antico equilibrio di potere tra la Flotta della Pax e la Pax Mercatoria; se il progetto era scoperto dalla Chiesa, la scomunica, la tortura nelle segrete del Sant’Uffizio e l’esecuzione capitale. E ora, questa prospettiva.

Anna Pelli Cognani si alzò. «Mio Dio» disse piano «sarebbe il magistrale dribbling conclusivo.»

Isozaki annuì e sorrise di nuovo. «Conosce l’origine di quel modo di dire, Anna?»

«Dribbling? No, un termine sportivo, immagino.»

«Uno sport molto antico, sostitutivo della guerra, detto soccer» spiegò Isozaki.

Anna Pelli Cognani sapeva che quella osservazione non pertinente era tutto fuorché non pertinente. Prima o poi il suo superiore le avrebbe spiegato perché quell’elemento era importante. Si limitò ad aspettare.

«La Chiesa aveva una cosa che il Nucleo voleva, di cui aveva bisogno» disse Isozaki. «Domare il crucimorfo era la parte dell’accordo di competenza del Nucleo. La Chiesa doveva dare in cambio una cosa di uguale valore.»

"Uguale in valore all’immortalità di mille miliardi di esseri umani?" pensò Anna Pelli Cognani. Disse: «Ho sempre pensato che, quando Lenar Hoyt e Lourdusamy contattarono gli elementi superstiti del Nucleo, più di due secoli fa, la Chiesa avesse offerto al TecnoNucleo, in cambio del crucimorfo, il permesso di ristabilirsi in segreto nello spazio umano.»

Isozaki allargò le mani. «A quale scopo, Anna? Dov’è il guadagno del Nucleo?»

«Quando era parte integrale dell’Egemonia e faceva funzionare la Rete dei Mondi e l’astrotel, il TecnoNucleo usava i neuroni dei miliardi di cervelli umani che transitavano nei teleporter come una sorta di rete neurale, parte del progetto Intelligenza Finale.»

«Sì, certo. Ma ora i teleporter non esistono più. Se il TecnoNucleo usa ancora esseri umani, come li usa? E dove li usa?»

Senza volerlo, Anna Pelli Cognani alzò la mano e se la portò allo sterno.

Isozaki sorrise. «Irritante, vero? Come una parola che è sulla punta della lingua e non vuole venire in mente. Un rompicapo con una tessera mancante. Ma c’è un’altra tessera che mancava ed è stata appena trovata.»

Anna Pelli Cognani inarcò il sopracciglio. «La ragazza?»

«È tornata nello spazio della Pax» disse Isozaki. «Nostri agenti molto vicini a Lourdusamy hanno confermato che il Nucleo ha trasmesso questa informazione. È accaduto dopo la morte di Sua Santità; solo il segretario di Stato, il Grande Inquisitore e i vertici della Flotta ne sono al corrente.»

«Dov’è la ragazza?»

Isozaki scosse la testa. «Il Nucleo, se lo sa, non l’ha rivelato né alla Chiesa né ad altri enti umani. Ma a causa di questa informazione la Flotta della Pax ha richiamato quel capitano… de Soya.»

«Il Nucleo predisse che sarebbe stato coinvolto nella cattura della ragazza» disse Anna Pelli Cognani. Agli angoli della bocca le comparve l’inizio di un sorriso.

«Sì?» disse Isozaki, orgoglioso della sua allieva.

«La legge di Ohm.»

«Esattamente.»

Senza rendersene conto, Anna Pelli Cognani si toccò di nuovo il petto. «Se troviamo per primi la ragazza» disse «abbiamo una leva per aprire trattative con il Nucleo. E anche i mezzi, con le nuove capacità che avremo in linea.» Nessuno dei PFE al corrente del progetto segreto IA diceva mai a voce alta quelle due lettere, malgrado gli uffici a prova di intercettazione.

«Se abbiamo la ragazza e i mezzi per negoziare» continuò Anna Pelli Cognani «abbiamo la leva necessaria per prendere il posto della Chiesa nell’accordo del Nucleo con l’umanità.»

«Ammesso di scoprire che cosa il Nucleo riceve dalla Chiesa in cambio del controllo del crucimorfo» precisò Isozaki. «E di offrire la stessa cosa, o una migliore.»

Anna Pelli Cognani annuì distrattamente. Capiva come tutto si riferiva ai suoi fini e ai suoi sforzi in qualità di Primo Funzionario Esecutivo della Pax Mercatoria. Sotto ogni aspetto, capì subito. «Nel frattempo» disse «dobbiamo trovare la ragazza prima che la trovino gli altri… di sicuro la Flotta della Pax utilizza risorse che non rivelerebbe mai al Vaticano.»

«E viceversa» precisò Isozaki. Questa sorta di gara lo compiaceva molto.

«E noi dovremo fare lo stesso» disse Anna Pelli Cognani, girandosi verso il cilindro dell’ascensore. «Ogni risorsa.» Sorrise a Isozaki. «Tre giocatori che partecipano al gioco definitivo dove l’ammontare delle vincite equivale all’ammontare delle perdite. Giusto, Kenzo-san?»

«Giusto. Al vincitore, tutto… potere, immortalità e ricchezza al di là dell’immaginazione umana. Al perdente… distruzione, vera morte e schiavitù eterna per i suoi discendenti.» Alzò il dito. «Ma non tre giocatori, Anna. Sei.»

Anna Pelli Cognani, già accanto alla porta dell’ascensore, si fermò. «Il quarto è evidente» disse. «Anche il Nucleo ha la necessità di trovare la ragazza. Ma…»

Isozaki abbassò la mano. «Dobbiamo presumere che pure la ragazza abbia i propri scopi in questo gioco, no? E chiunque ve l’abbia inserita come pedina… be’, quello è il sesto giocatore.»

«O uno degli altri cinque» sorrise Anna Pelli Cognani. Anche lei apprezzava un gioco dalla posta altissima.

Isozaki annuì e girò la poltroncina per guardare il sorgere del sole sulla striscia ricurva del toroide della Pax Mercatoria. Non si girò, quando la porta dell’ascensore si chiuse e Anna Pelli Cognani se ne andò.


In alto sopra l’altare, Gesù Cristo, severo e inflessibile, divideva gli uomini in due gruppi, i buoni e i cattivi, i premiati e i dannati. Non c’era un terzo gruppo.

Il cardinale Lourdusamy, seduto nello stallo con baldacchino, nella Cappella Sistina, guardava l’affresco di Michelangelo, il Giudizio universale. Aveva sempre pensato che quel Cristo era una figura prepotente, autoritaria, spietata, forse un’icona perfettamente adatta a sovrintendere alla scelta di un nuovo Vicario di Cristo.

Nella piccola cappella erano ammassati ottantatré stalli con baldacchino dove sedevano gli ottantatré cardinali presenti in carne e ossa. Uno spazio vuoto consentiva l’attivazione degli ologrammi che rappresentavano i trentasette cardinali assenti, un ologramma per volta, stallo e baldacchino compresi.

Era trascorso un giorno da quando i cardinali erano stati "inchiodati" nel Palazzo Vaticano. Lourdusamy aveva dormito e mangiato bene; la camera da letto, una brandina nel suo ufficio vaticano; il pasto, semplici pietanze cucinate dalle suore della foresteria vaticana: cibi senza pretese e dozzinale vino bianco, serviti nelle sfarzose Stanze Borgia. Adesso i cardinali erano tutti radunati nella Cappella Sistina, ciascuno nel suo stallo con baldacchino. Lourdusamy sapeva che quella splendida scena era mancata al conclave da molti secoli — da quando il numero dei cardinali era divenuto troppo grande per sistemare gli stalli nella piccola cappella, in un’epoca precedente l’Egira, nel XIX o nel XX secolo d.C, credeva — ma verso la fine della Caduta dei teleporter la Chiesa era divenuta così piccola che la quarantina di cardinali poteva di nuovo trovare posto agevolmente nella cappella. Papa Giulio non aveva alzato troppo il numero dei cardinali: mai più di 120, anche se la Pax era molto cresciuta. E poiché quasi quaranta erano impossibilitati a giungere in tempo al conclave, la Cappella Sistina riusciva a contenere gli stalli dei cardinali residenti su Pacem.

Il momento era giunto. Nella cappella, tutti i cardinali elettori si alzarono all’unisono. Nello spazio vuoto accanto al tavolo degli scrutatori a fianco dell’altare, comparvero i tremolanti ologrammi dei trentasette cardinali elettori non presenti di persona. A causa dello spazio limitato, gli ologrammi erano piccoli, poco più di bambole umane in stalli da casa delle bambole, e galleggiavano a mezz’aria come fantasmi di elettori del passato. Lourdusamy sorrise, come sempre faceva, pensando a quanto sembrasse appropriato il formato ridotto di quegli elettori non presenti in carne e ossa.

Papa Giulio era sempre stato eletto per acclamazione. Uno dei tre cardinali scrutatori alzò la mano: lo Spirito Santo era forse pronto a muovere quegli uomini e quelle donne, ma un certo coordinamento era pur sempre necessario. Appena lo scrutatore avesse abbassato la mano, gli ottantatré cardinali e i trentasette ologrammi avrebbero parlato come uno solo.

«Eligo padre Lenar Hoyt!» gridò il cardinale Lourdusamy e vide il cardinale Mustafa gridare le stesse parole, da sotto il baldacchino del suo stallo.

Lo scrutatore davanti all’altare esitò. L’acclamazione era stata forte e chiara, ma ovviamente non unanime. Era una novità. Per 270 anni si era avuta l’acclamazione immediata.

Lourdusamy fu ben attento a non sorridere e a non guardarsi intorno. Sapeva quali cardinali di nomina più recente non avevano gridato il nome di papa Giulio per la rielezione. Sapeva quanto fosse costato corrompere quegli uomini e quelle donne. Sapeva quale terribile rischio correvano e con quanta sofferenza l’avrebbero senza dubbio pagato. Sapeva tutto ciò perché lui stesso aveva collaborato a orchestrarlo.

Dopo un momento di consultazione con i due colleghi, lo scrutatore che aveva alzato la mano per dare il segnale dell’acclamazione annunciò: «Procederemo per scrutinio».

Mentre venivano preparate e distribuite le schede, fra i cardinali ci furono mormorii di turbamento. Una cosa del genere non era mai accaduta nella vita della maggior parte di quei prìncipi della Chiesa. Di colpo gli ologrammi dei cardinali elettori non presenti erano divenuti privi d’importanza. Alcuni di loro, a dire il vero, avevano predisposto per lo scrutinio i loro chip interattivi, ma molti non si erano presi quella briga.

I maestri delle cerimonie passarono fra gli stalli e distribuirono le schede di votazione, tre per ciascun cardinale elettore. Gli scrutatori si accertarono che ogni cardinale avesse una penna. Quando tutto fu pronto, il cardinale diacono fra gli scrutatori alzò di nuovo la mano, stavolta per indicare il momento della votazione.

Lourdusamy guardò la scheda. Nella parte superiore sinistra comparvero a caratteri di stampa le parole: "Eligo in Summum Pontificem". Sotto, c’era spazio per un solo nome. Il cardinale Simon Augustino Lourdusamy vi scrisse "Lenar Hoyt", ripiegò la scheda e la tenne in alto in modo che fosse visibile. Nel giro di un minuto, tutti gli ottantatré cardinali tenevano in alto la scheda, imitati da cinque o sei di quelli presenti in ologramma interattivo.

Lo scrutatore iniziò a chiamare i cardinali in ordine di precedenza. Il cardinale Lourdusamy fu il primo: lasciò lo stallo e si avvicinò al tavolo dello scrutatore accanto all’altare, sotto l’immutabile sguardo del terribile Cristo dell’affresco. Si inginocchiò all’altare e chinò la testa in silenziosa preghiera. Poi si rialzò e disse: «Cristo nostro Signore, che sarà mio giudice, mi sia testimonio che il mio voto va a colui che davanti a Dio ritengo debba essere eletto». Posò con solennità la scheda piegata sul piatto d’argento posto sopra l’urna. Alzò il piatto e lasciò cadere nell’urna la scheda. Il cardinale diacono fra gli scrutatori annuì: Lourdusamy si inchinò all’altare e tornò al suo stallo.

Il cardinale Mustafa, il Grande Inquisitore, si mosse maestosamente verso l’altare per dare il proprio voto.

La votazione richiese più di un’ora; alla fine si procedette al conteggio dei voti. Il primo scrutatore agitò l’urna per mescolare le schede. Il secondo scrutatore le contò, compresi i sei voti copiati dagli ologrammi interattivi, e le depositò in una seconda urna. Il totale delle schede corrispondeva al numero di cardinali con diritto di voto nel conclave. Lo scrutinio procedette.

Il primo scrutatore aprì una scheda, scrisse il nome che vi lesse e passò la scheda al secondo scrutatore; costui prese un appunto e passò la scheda al terzo e ultimo scrutatore. Questi, il cardinale Couesnongle, lesse ad alta voce il nome, prima di prendere nota.

In ciascuno stallo, un cardinale annotò il nome su un grafer per appunti fornito dagli scrutatori. Al termine del conclave, i grafer sarebbero stati rimescolati e i file sarebbero stati cancellati in modo che non rimanesse traccia della votazione.

E così la votazione procedette. Per Lourdusamy, come per tutti gli altri cardinali presenti in carne e ossa, c’era un’unica incertezza, ossia se i dissidenti che avevano fatto fallire l’acclamazione avrebbero realmente messo in gioco il nome di un altro candidato.

Dopo la lettura di ogni scheda, il terzo scrutatore infilava il foglio in un cordoncino, trapassando con un ago la parola "Eligo". Quando tutte le schede furono lette ad alta voce, lo scrutatore fece un nodo ai capi del filo su cui le aveva infilzate.

Il candidato vincente fu ammesso alla cappella. In piedi davanti all’altare, in una semplice tonaca nera, l’uomo aveva un aspetto umile e un po’ imbarazzato.

In piedi davanti a lui, il cardinale diacono anziano disse: «Accetti la canonica elezione a Supremo Pontefice?».

«Accetto» disse il prete.

A questo punto uno stallo fu spostato alle spalle del prete. Il cardinale diacono alzò le mani e intonò: «Poiché così accetti l’elezione canonica, questa assemblea, di fronte a Dio Onnipotente, ti riconosce come vescovo della Chiesa di Roma, vero papa e capo del Collegio dei vescovi. Possa Iddio consigliarti bene, poiché ti concede pieno e assoluto potere sopra la Chiesa di Gesù Cristo».

«Amen» disse il cardinale Lourdusamy e tirò il cordone che abbassava il tendaggio del suo stallo. Gli ottantatré tendaggi fisici e i trentasette in ologramma calarono allo stesso tempo; solo quello del nuovo papa rimase alzato. Il prete, ora pontefice, si sedette sotto il baldacchino papale.

«Quale nome scegli come Supremo Pontefice?» domandò il cardinale diacono.

«Scelgo il nome Urbano XVI» disse il prete seduto.

Dagli stalli provenne un mormorio. Il cardinale diacono alzò la mano e con gli altri due scrutatori accompagnò il prete fuori della cappella. Mormoni e bisbigli crebbero di volume.

Il cardinale Mustafa si sporse dallo stallo e disse a Lourdusamy: «Di sicuro pensa a Urbano II. Urbano XV era un piccolo vigliacco piagnucolone del XIX secolo che pensava solo a leggere romanzi gialli e a scrivere lettere alla sua ex amante».

«Urbano II» rifletté Lourdusamy. «Sì, naturalmente.»

Dopo alcuni minuti, gli scrutatori tornarono con il prete, ora papa, vestito di bianco abbagliante: tonaca bianca, zucchetto bianco, pettorale con la croce, fascia bianca alla cintola. Il cardinale Lourdusamy piegò le ginocchia sul pavimento di pietra della cappella, imitato dagli altri cardinali in carne e ossa e in ologramma, mentre il nuovo pontefice impartiva la sua prima benedizione.

Poi gli scrutatori e i cardinali aiutanti si accostarono alla stufa e bruciarono le schede ora legate con filo nero; vi aggiunsero un prodotto chimico per essere sicuri che la fumata fosse davvero bianca.

I cardinali sfilarono dalla Cappella Sistina e percorsero gli antichi viali e corridoi fino a San Pietro, dove il cardinale diacono anziano andò da solo sulla balconata per annunciare alle moltitudini in attesa il nome del nuovo pontefice.


Fra le cinquecentomila persone ammassate quel mattino dentro, fuori e intorno a piazza San Pietro, c’era il padre capitano Federico de Soya. Solo qualche ora prima era stato rilasciato dalla prigionia de facto nel presbiterio dei legionari. Nel tardo pomeriggio doveva presentarsi allo spazioporto della Flotta della Pax per imbarcarsi sulla navetta che l’avrebbe portato alla nave Arcangelo di cui avrebbe preso il comando. Camminando per il Vaticano, de Soya aveva seguito la folla — poi ne era stato inghiottito — di uomini, donne e bambini che fluiva come un grande fiume verso piazza San Pietro.

Un applauso scrosciante si era levato non appena dal tubo della stufa erano usciti i primi sbuffi di fumo bianco. La folla già incredibilmente fitta sotto la balconata di piazza San Pietro divenne ancora più fitta per le decine di migliaia di persone che si riversavano intorno ai colonnati e al di là delle statue. Centinaia di guardie svizzere tennero la folla lontano dall’ingresso della basilica e dalle zone riservate.

Quando il diacono anziano uscì sul balcone e annunciò che il nuovo pontefice si sarebbe chiamato papa Urbano XVI, un grande ansito salì dalla folla. De Soya si ritrovò a bocca aperta, sorpreso e sconvolto. Tutti si aspettavano che il nome prescelto fosse Giulio XV. Il pensiero che un altro cardinale fosse stato eletto papa era… be’, impensabile.

Poi il nuovo pontefice uscì sulla balconata e l’ansito si mutò in una ovazione che parve non finire mai.

Era sempre papa Giulio: il viso ben noto, l’alta fronte, gli occhi tristi. Padre Lenar Hoyt, il salvatore della Chiesa, era stato eletto ancora una volta. Sua Santità alzò la mano nella ben nota benedizione e attese che la folla smettesse di acclamare, in modo da poter prendere la parola; ma la folla non smetteva l’ovazione. Il ruggito proveniva da mezzo milione di gole e continuava senza sosta.

"Perché Urbano XVI?" si domandò il padre capitano de Soya. Negli anni da gesuita, aveva letto e studiato a sufficienza la storia della Chiesa. Rapidamente passò in rassegna i suoi appunti mentali sui papi di nome Urbano, molti dei quali meritavano solo l’oblio o peggio. Perché…

«Maledizione» esclamò a un tratto il padre capitano de Soya. La sua voce si perse nel costante ruggito dei fedeli che riempivano piazza San Pietro. «Maledizione.»

Ancora prima che la folla si chetasse abbastanza perché il nuovo-vecchio pontefice parlasse, spiegasse la scelta del nome, annunciasse ciò che andava annunciato, il padre capitano de Soya aveva già capito tutto. E si era sentito mancare il cuore.

Urbano II aveva servito la Chiesa dal 1088 al 1099. Durante il sinodo da lui indetto a Clermont — nel novembre del 1095, se de Soya ricordava bene — Urbano II aveva dichiarato la guerra santa contro i musulmani del Vicino Oriente, per soccorrere l’impero bizantino e liberare dalla dominazione musulmana tutti i luoghi sacri cristiani. Quella guerra santa sarebbe stata la prima crociata, la prima di molte e sanguinose campagne militari.

Finalmente la folla si chetò. Papa Urbano XIV iniziò a parlare: la sua voce, ben nota ma dotata di nuova energia, si alzò e ricadde sulla testa del mezzo milione di fedeli in ascolto in carne e ossa e sui miliardi in ascolto davanti ai trasmettitori in diretta.

Ancora prima che il papa iniziasse, il padre capitano de Soya si girò, si aprì a spintoni e a gomitate la strada tra la folla immobile e cercò di allontanarsi da piazza San Pietro, che ora gli dava un doloroso senso di claustrofobia.

Non riuscì ad allontanarsi. La folla era estatica e gioiosa e lui era intrappolato nella ressa. Anche le parole del pontefice erano gioiose e appassionate. Il padre capitano de Soya rinunciò ad andare via e chinò la testa. Mentre la folla cominciava ad applaudire e a gridare: "Deus le volt!", Dio lo vuole, de Soya cominciò a piangere.

Crociata. Gloria. La soluzione finale del problema Ouster. Morte al di là di ogni immaginazione. Distruzione inimmaginabile. Il padre capitano de Soya chiuse gli occhi e li serrò più forte che poteva, ma la visione di raggi di particelle ionizzate che lampeggiavano contro il nero dello spazio, la visione di interi pianeti in fiamme, di oceani mutati in vapore e di continenti ridotti a fiumi di lava, la visione di foreste orbitali che esplodevano in fumo, di corpi carbonizzati che si dissolvevano in nubi di cenere…

Mentre miliardi di persone festeggiavano, de Soya pianse.

4

L’esperienza mi aveva insegnato che le partenze e gli addii a notte fonda sono i più penosi per il morale.

I militari erano particolarmente bravi a iniziare viaggi importanti nel cuore della notte. Durante il mio servizio nella Guardia nazionale di Hyperion, pareva che tutti i maggiori movimenti di truppe iniziassero nelle ore piccole. Cominciai ad associare quella bizzarra mistura di paura e di eccitazione, di terrore e di anticipazione, con il buio prima dell’alba e con l’odore del ritardo. Aenea aveva detto che sarei partito nella notte del suo annuncio alla Compagnia, ma occorse tempo per caricare il kayak, per preparare il bagaglio e decidere che cosa abbandonare per sempre, per chiudere la tenda e la zona di lavoro nel comprensorio; così decollammo sulla navetta solo dopo le due di notte e giungemmo a destinazione quando mancava poco all’alba.

Mi sentivo, lo ammetto, tirato per la cavezza e comandato a bacchetta dall’annuncio di Aenea. Nei quattro anni trascorsi a Taliesin West, molti si erano rivolti a lei per farsi guidare e consigliare, ma io non ero uno di loro. Avevo trentadue anni. Aenea ne aveva sedici. Toccava a me badare a lei, proteggerla e, se era il caso, dirle che cosa fare e quando farla. La nuova piega degli eventi non mi piaceva nemmeno un poco.

Avevo pensato che A. Bettik ci avrebbe accompagnato nel posto da dove avrei preso il largo, ma Aenea disse che l’androide sarebbe rimasto nel comprensorio, così sprecai altri venti minuti per cercarlo e salutarlo.

«La signorina Aenea dice che a tempo debito ci incontreremo di nuovo» dichiarò A. Bettik «perciò confido che ci rivedremo, signor Endymion.»

«Raul» protestai per la millesima volta. «Chiamami Raul.»

«Naturalmente» disse A. Bettik, con quel sorriso appena accennato che suggeriva l’insubordinazione.

«Vaffanculo!» lo rimbeccai e gli tesi la mano. A. Bettik la strinse. Provai l’impulso di abbracciare il nostro vecchio compagno di viaggio, ma sapevo che l’avrei messo in imbarazzo. Gli androidi non erano programmati per essere compassati e ossequiosi — in fin dei conti, erano esseri organici viventi, non macchine — ma tra l’educazione RNA e la lunga pratica, erano creature inguaribilmente formali. A. Bettik, almeno, lo era.

E poi ce ne andammo, Aenea e io; portammo la navetta fuori dell’hangar nella notte del deserto e decollammo col minor rumore possibile. Avevo detto addio agli apprendisti e ai collaboratori della Compagnia, tutti quelli che avevo trovato, ma era tardi e le persone erano sparse nei loro dormitori, tende e ripari. Mi auguravo di imbattermi di nuovo in alcuni di loro — soprattutto quelli delle squadre di costruzione, con cui avevo lavorato per quattro anni — ma in realtà non ero molto convinto che la mia speranza si sarebbe realizzata.

La navetta poteva raggiungere da sola la nostra destinazione — Aenea aveva inserito nel sistema di guida una serie di coordinate — ma lasciai i comandi sul semiautomatico per fingere di essere occupato durante il viaggio. Sapevo che dovevamo percorrere circa 1500 chilometri. Da qualche parte lungo il Mississippi, aveva detto Aenea. La navetta avrebbe potuto coprire la distanza in dieci minuti, se si fosse messa in orbita bassa, ma volevamo risparmiare l’energia sempre più scarsa e le scorte di carburante; così, estese al massimo le ali, mantenemmo velocità subsonica a una comoda quota di diecimila chilometri ed evitammo di morfizzare di nuovo lo scafo fino al momento dell’atterraggio. Ordinammo alla navetta di stare in silenzio se non c’erano comunicazioni importanti (molto tempo prima, dal mio comlog avevo riversato nel nucleo IA della navetta la personalità dell’astronave del console) e poi ci accomodammo, nella luce rossastra degli strumenti di bordo, per parlare e guardare il continente buio che passava sotto di noi.

«Ragazzina» dissi «come mai tanta fretta?»

Aenea mi rispose con quel gesto d’imbarazzo che le avevo visto fare per la prima volta quasi cinque anni prima. «Pareva importante mettere in moto la faccenda» disse poi, con voce pacata, quasi fredda, prosciugata della vitalità e dell’energia che avevano spinto l’intera Compagnia ad assecondarla. Forse ero l’unica persona vivente in grado di riconoscere quel tono: Aenea pareva sul punto di piangere.

«Non può essere così importante» dissi. «Costringermi a partire nel cuore della notte…»

Aenea scosse la testa e per un momento guardò dal finestrino, nel buio. Mi resi conto che piangeva. Quando infine si girò, alla tenue luce degli strumenti i suoi occhi parevano umidi e arrossati. «Se non parti stanotte» disse «mi perderò di coraggio e ti chiederò di restare. Se resti, mi perderò di coraggio di nuovo e rimarrò sulla Terra… non farò mai ritorno.»

Provai l’impulso di prenderle la mano e invece continuai a tenere la mia zampaccia sull’onnicomando. «Ehi» dissi «possiamo fare ritorno insieme. Per me non ha senso che io vada da una parte e tu dall’altra.»

«Ha senso, invece» disse Aenea, così piano che fui costretto a sporgermi per capire le parole.

«A riprendere la nave potrebbe andare A. Bettik» dissi. «Tu e io possiamo restare sulla Terra finché non saremo pronti a fare ritorno…»

Aenea scosse la testa. «Non sarò mai pronta a fare ritorno, Raul. La sola idea mi spaventa a morte.»

Pensai alla caccia disperata che ci aveva spinti a fuggire da Hyperion nello spazio della Pax, evitando al pelo navi torcia e incrociatori della Pax, marines, guardie svizzere e Dio sa cos’altro, compresa la bastarda creatura infernale che era quasi riuscita a ucciderci, su Bosco Divino, e dissi: «Mi sento come te, ragazzina. Forse dovremmo restare davvero sulla Terra. Qui non possono raggiungerci».

Aenea mi guardò e riconobbi l’espressione: non semplice testardaggine, ma la chiusura di ogni discussione in una faccenda già decisa.

«E va bene» dissi. «Ma ancora non mi hai spiegato perché A. Bettik non può prendere il kayak e ricuperare la nave, mentre io faccio ritorno con te via teleporter.»

«Sì, l’ho spiegato. Ma tu non stavi a sentire.» Cambiò posizione sul sedile. «Raul, se tu parti e ci accordiamo di incontrarci in un certo momento in un certo punto dello spazio della Pax, io sono obbligata a varcare il teleporter e a fare ciò che devo fare. E ciò che devo fare dopo devo farlo da sola.»

«Aenea…»

«Sì?»

«È una vera stupidaggine. Lo sai?»

Aenea rimase in silenzio. Sotto di noi, sulla sinistra, in un punto dell’antico Kansas, in quel momento si vedeva un cerchio di fuochi di bivacco. Fissai quelle piccole luci fra tutto quel buio. «Hai idea di quale esperimento i tuoi amici alieni fanno laggiù?»

«No. E non sono miei amici alieni.»

«Cosa non sono? Amici o alieni?»

«Né amici né alieni» rispose Aenea. Mi resi conto che quella era la sua più precisa definizione delle intelligenze quasi divine che avevano trafugato la Vecchia Terra… e rapito anche noi, avevo a volte l’impressione: mi pareva che ci avessero imbrancati come bestiame e spinti a varcare un teleporter dopo l’altro.

«Ti dispiace dirmi qualche altra cosa su questi non amici non alieni? In fin dei conti, qualcosa potrebbe andare storto. Potrei non presentarmi all’appuntamento. Prima di partire, gradirei conoscere il segreto di chi ci ospita.»

Rimpiansi subito di avere detto quelle parole. Aenea si ritrasse come se l’avessi schiaffeggiata.

«Scusa, ragazzina.» Stavolta misi la mano sulla sua. «Non dicevo sul serio. Sono solo arrabbiato, ecco.»

Aenea annuì e vidi di nuovo le lacrime nei suoi occhi.

Mi presi mentalmente a calci. «Tutti, nella Compagnia, erano sicuri che gli alieni fossero benevole creature quasi divine. Parlavano di "Leoni e Tigri e Orsi", ma pensavano "Gesù e Jahweh ed E.T.". Erano sicuri che, quando fosse giunto il momento di chiudere la Compagnia, gli alieni sarebbero comparsi e ci avrebbero guidato nella Pax in una grande nave. Niente pericolo. Niente confusione. Niente casino.»

Aenea sorrise, ma aveva ancora gli occhi lucidi. «Gli esseri umani hanno sempre aspettato che Gesù e Jahweh ed E.T. salvassero loro il culo fin da quando se lo coprivano con pelli d’orso e uscivano dalle caverne. Devono continuare ad aspettare. Questi sono affari nostri, lotta nostra; e dobbiamo pensarci noi stessi.»

«Noi stessi saremmo tu e io e A. Bettik contro ottocento malcontati miliardi di fedeli risorti?» replicai piano.

Aenea ripeté quel gesto aggraziato. «Già» rispose. «Per ora.»


Al nostro arrivo, non solo era ancora buio, ma pioveva a dirotto: una gelida pioggia torrenziale da fine autunno. Il Mississippi era un fiume notevole, uno dei più grandi della Vecchia Terra; la navetta lo sorvolò in cerchio e atterrò in una piccola città sulla riva ovest. Vidi tutto questo sullo schermo a risalto d’immagine: dal finestrino avrei visto solo buio e pioggia.

Superammo un’alta collina coperta di alberi spogli, incrociammo un’autostrada deserta che scavalcava il Mississippi su uno stretto ponte e atterrammo in un’area lastricata a circa cinquanta metri dal fiume. La città si allontanava in una valle fra montagne alberate e dal finestrino vedevamo piccole costruzioni di legno, ampi magazzini di mattoni e alcuni edifici più alti nei pressi del fiume, che forse erano silos di granaglie. Edifici di questo tipo erano stati comuni nel XIX, XX e XXI secolo in quella parte della Vecchia Terra: non riuscivo a immaginare perché quella città non avesse subito i terremoti e gli incendi delle Tribolazioni, né perché Leoni e Tigri e Orsi l’avessero ricostruita, se l’avevano ricostruita. Non c’era segno di popolazione nelle strette vie né tracce di calore nella banda a infrarossi, sia di creature viventi sia di autoveicoli con i loro motori a scoppio; ma, a ben pensarci, erano quasi le quattro di una notte gelida e piovosa. Nessuno con un grammo di sale in zucca sarebbe uscito di casa, con un tempaccio pidocchioso e puzzolente come quello.

Aenea e io ci mettemmo il poncho; presi il piccolo zaino e dissi: «Arrivederci, Nave. Non fare niente che non farei anch’io». Poi scendemmo la scaletta morfizzata e ci ritrovammo sotto la pioggia.

Aenea mi aiutò a estrarre il kayak dal magazzino nel ventre della navetta e insieme percorremmo una viuzza scivolosa, diretti al fiume. Nella nostra precedente avventura fluviale avevo occhiali per la visione notturna, un assortimento di armi e una zattera piena di fantastici marchingegni. Quella notte avevo la torcia laser, nostro unico ricordo del viaggio fino alla Terra (tenuta al minimo per risparmiare energia, illuminava circa due metri di strada), un coltello da caccia navajo nello zaino e una piccola scorta di panini e di frutta secca. Ero pronto ad affrontare la Pax.

«Come si chiama questo posto?» domandai.

«Hannibal» rispose Aenea, cercando di mantenere la presa sullo scivoloso kayak, mentre scendevamo al fiume.

Ormai ero costretto a tenere fra i denti la torcia laser per reggere con tutt’e due le mani la prua della stupida barchetta. Quando giungemmo al punto dove la via diventava una rampa di carico che finiva nel nero torrente del Mississippi, posai il kayak, mi tolsi di bocca la torcia e dissi: «St. Petersburg». Avevo trascorso centinaia di ore a leggere i libri a stampa conservati nella ben fornita libreria della Compagnia.

Nel bagliore riflesso della torcia vidi la figura incappucciata di Aenea annuire.

«È una pazzia» dissi, muovendo il raggio della torcia lungo la via, contro la muraglia di magazzini di mattoni, sul fiume scuro. Il rumore della corrente faceva paura. Il pensiero di calarvi la barca era folle.

«Sì» disse Aenea. «Una pazzia.» La gelida pioggia le batteva sul cappuccio del poncho.

Girai intorno al kayak e presi Aenea per il braccio. «Tu vedi il futuro» dissi. «Quando ci incontreremo di nuovo?»

Teneva la testa china. Scorgevo appena una piccolissima porzione della pallida guancia al riflesso della torcia. Il braccio che stringevo sotto la stoffa del poncho sarebbe potuto essere benissimo un ramo d’albero secco, per tutta la vitalità che vi sentivo. Aenea disse qualcosa, troppo piano perché capissi, col rumore della pioggia e del fiume.

«Cosa?»

«Ho detto che non vedo il futuro!» ripeté lei. «Ne ricordo qualche parte.»

«Qual è la differenza?»

Aenea sospirò e si avvicinò. Faceva talmente freddo che le nuvolette di vapore del nostro respiro si mescolarono. Sentii il flusso di adrenalina provocato dall’ansia, dalla paura, dall’anticipazione.

«La differenza» disse Aenea «è che, se vedi il futuro, lo vedi con chiarezza; se lo ricordi, è… qualcosa di diverso.»

Scossi la testa: la pioggia mi gocciolò negli occhi. «Non capisco.»

«Raul, ricordi la festa di compleanno di Bets Kimbal? Quando Jaev suonò il piano e Kikki si ubriacò tanto da cadere lungo disteso?»

«Sì» risposi, irritato per quella discussione nel cuore della notte, sotto una tempesta, nel momento dell’addio.

«Quando è stata?»

«Cosa?»

«Quando è stata, la festa?» Dietro di noi, il Mississippi emergeva dal buio e si perdeva nel buio, con la velocità di un treno a levitazione magnetica.

«Aprile» risposi. «Primi di maggio. Non so.»

Aenea annuì. «E cosa indossava il signor Wright quella sera?»

Non avevo mai avuto l’impulso di colpire, picchiare o sgridare Aenea. Mai, fino a quel momento. «Come vuoi che lo sappia? Perché dovrei ricordarmene?»

«Prova.»

Lasciai uscire il fiato e guardai dalla parte delle scure colline, nel nero della notte. «Merda, non lo so… il completo grigio di lana. Sì, lo ricordo fermo accanto al piano, vestito di grigio. Il completo grigio con i bottoni grossi.»

Aenea annuì di nuovo. «Il compleanno di Bets fu a metà marzo» disse, superando il picchiettio della pioggia sui cappucci. «Il signor Wright non era presente, aveva l’influenza.»

«E allora?» replicai, pur sapendo benissimo dove voleva arrivare.

«Allora io ricordo frammenti del futuro» disse Aenea, con voce che pareva vicina alle lacrime. «Ho paura di fidarmi di quei ricordi. Se ti dico quando ci rivedremo, potrebbe essere come per il vestito del signor Wright.»

Rimasi in silenzio per un minuto buono. La pioggia batteva col rumore di minuscoli pugni sul coperchio di una bara. Alla fine dissi: «Già».

Aenea mi mise le braccia al collo. I poncho frusciarono. Mentre ci abbracciavamo goffamente, sentii la rigidità della sua schiena e la nuova morbidezza del suo petto.

Aenea si scostò. «Mi dai un attimo la torcia?»

Gliela porsi. Aenea scostò la copertura di nylon del piccolo abitacolo del kayak e illuminò una stretta striscia di lucido legno sotto la fibra di vetro. Un pulsante rosso, protetto da un pannello trasparente, luccicò alla pioggia. «Vedi quel pulsante?»

«Sì.»

«Non toccarlo, qualsiasi cosa accada.»

Ammetto d’essere scoppiato a ridere. Fra le cose che avevo letto nella biblioteca di Taliesin West c’erano commedie dell’assurdo come Aspettando Godot. Mi parve che qui eravamo volati in una latitudine dell’assurdo e del surreale.

«Parlo sul serio» disse Aenea.

«Perché mettere un pulsante che non bisogna toccare mai?» replicai, asciugandomi dal viso le goccioline di umidità.

«Volevo dire: non toccarlo, finché non dovrai assolutamente premerlo.»

«Come saprò di doverlo assolutamente premere, ragazzina?»

«Lo saprai» replicò lei. Mi abbracciò di nuovo. «Meglio mettere in acqua il kayak.»

Mi chinai a baciarla sulla fronte. Negli ultimi anni avevo fatto decine di volte quel gesto, quando le auguravo buona fortuna prima di una delle sue sparizioni, quando le rimboccavo le coperte, quando stava male per la febbre o era mezza morta di stanchezza. Ma appena chinai la testa per baciarla, Aenea sollevò il viso e, per la prima volta da quando ci eravamo incontrati fra la sabbia e il caos nella valle delle Tombe del Tempo, la baciai sulle labbra.

Mi pare d’avere già detto che lo sguardo di Aenea è più potente e intimo del contatto fisico di molte persone, che il suo tocco è come una scarica elettrica. Quel bacio fu… qualcosa che andava al di là. Avevo trentadue anni, quella notte ad Hannibal, sulla riva ovest del fiume noto come Mississippi, su un pianeta un tempo noto come Terra e ora perduto chissà dove nella Piccola Nube di Magellano, nel buio e sotto la pioggia, e non avevo mai provato una scarica di sensazioni come per quel primo bacio.

Mi ritrassi, turbato. La torcia laser si era spostata verso l’alto fra di noi e così vidi il luccichio degli occhi scuri di Aenea: uno sguardo di chi sa d’avere combinato una marachella, forse, o forse di chi prova sollievo come per la fine di una lunga attesa e altro, forse.

«Addio, Raul» disse Aenea. Alzò il kayak dalla sua parte.

Con la mente che vacillava, misi la prua nell’acqua scura, al fondo della rampa, e mi calai nell’abitacolo. A. Bettik l’aveva fatto apposta per me, come un abito su misura. Mentre mi sistemavo, badai a non premere accidentalmente il pulsante rosso. Aenea diede una spinta e il kayak galleggiò in venti centimetri d’acqua. Aenea mi passò la pagaia, poi lo zaino, poi la torcia laser.

Puntai il raggio sull’acqua scura che ci separava. «Dov’è l’arcata del teleporter?» domandai. Udii le mie parole come da lontano, come se provenissero da una terza persona. Mente ed emozioni erano ancora sotto l’influsso del bacio. Avevo trentadue anni. Aenea ne aveva appena compiuti sedici. Il mio compito era quello di proteggerla e di tenerla in vita fino al momento in cui saremmo tornati su Hyperion dal vecchio poeta. Questa storia era pura follia.

«La vedrai» mi rispose Aenea. «A un certo punto, quando si sarà fatto giorno.»

Perciò il teleporter distava ore di viaggio. Era proprio il teatro dell’assurdo. «E cosa farò, quando avrò trovato la nave? Dove ci incontreremo?»

«C’è un pianeta che si chiama T’ien Shan» disse Aenea. «Significa "Montagne del cielo". La nave saprà come trovarlo.»

«Si trova nello spazio della Pax?»

«A malapena» rispose Aenea. Il suo respiro restava sospeso nella gelida aria. «Si trovava nella Periferia dell’Egemonia. La Pax l’ha incluso nel Protettorato e ha assicurato che vi manderà dei missionari, ma non l’ha ancora sottomesso.»

«T’ien Shan» ripetei. «D’accordo. Come ti trovo? I pianeti sono piuttosto vasti.»

Nel raggio ballonzolante della torcia vedevo i suoi occhi: erano umidi di pioggia o di lacrime o di tutt’e due. «Cerca una montagna che si chiama Heng Shan, la Sacra Montagna del Nord. Nelle vicinanze ci sarà un posto chiamato Hsuan-k’ung Ssu. Significa "Tempio a mezz’aria". Dovrei essere lì.»

Feci un gesto villano. «Magnifico! Dovrò solo presentarmi alla locale guarnigione della Pax e chiedere indicazioni per raggiungere il Tempio a mezz’aria e tu sarai lì a mezz’aria ad aspettarmi.»

«Su T’ien Shan ci sono solo poche migliaia di montagne» disse Aenea, con voce piatta e infelice. «E solo poche… città. La nave può trovare Heng Shan e Hsuan-k’ung Ssu dall’orbita. Non potrai atterrare, ma potrai sbarcare dalla nave.»

«Perché non potrò atterrare?» replicai, irritato da quella sorta di scatole cinesi: rompicapi dentro enigmi dentro codici.

«Vedrai da te, Raul» disse Aenea, con voce piena di lacrime come gli occhi. «Ti prego, vai.»

La corrente cercava di portarmi via, ma con un colpo di pagaia spinsi indietro il piccolo kayak. Aenea camminò lungo la riva, per tenersi alla mia altezza. Il cielo pareva schiarirsi un poco a oriente.

«Sei sicura che ci rivedremo lì?» gridai nella pioggia che diventava meno violenta.

«Non sono sicura di niente, Raul.»

«Neppure che sopravviveremo a questa storia?» Non saprei dire che cosa intendessi con "storia". Non saprei dire nemmeno che cosa intendessi con "sopravviveremo".

«Soprattutto di questo» disse Aenea e vidi il vecchio sorriso, pieno di malizia e di anticipazione e di qualcosa che pareva tristezza mista a involontaria saggezza.

La corrente mi tirava via. «Quanto tempo impiegherò per arrivare alla nave?»

«Solo alcuni giorni, penso» mi gridò Aenea. Ora distavamo vari metri e la corrente mi tirava verso il centro del Mississippi.

«E quando avrò trovato la nave, quanto tempo impiegherò per giungere su… T’ien Shan?» le gridai.

Aenea mi gridò la risposta, ma le sue parole andarono perse nello sciacquio delle onde contro lo scafo del kayak.

«Come?» gridai. «Non ho sentito!»

«Ti amo» gridò Aenea e la sua voce fu chiara e luminosa, sull’acqua scura.

Il fiume mi trascinò via. Non riuscivo a parlare. Quando cercai di pagaiare contro la forte corrente, le braccia non mi risposero. «Aenea?» chiamai. Puntai la torcia verso la riva, scorsi fuggevolmente il poncho che luccicava nella notte, il pallido ovale del suo viso nell’ombra del cappuccio. «Aenea!»

Lei gridò qualcosa, agitò il braccio. Risposi al saluto.

Per un momento la corrente divenne molto forte. Mossi la pagaia con violenza per non sbattere contro un albero incagliato in un banco di sabbia e mi trovai al centro della corrente, lanciato a sud. Mi guardai indietro, ma le pareti degli ultimi edifici di HannibaI avevano nascosto la mia cara ragazza.

Dopo un minuto udii un ronzio come dei repulsori EM della navetta; ma quando guardai in alto, vidi solo ombra. Forse era Aenea che sorvolava in cerchio la zona. Forse era una bassa nuvola nella notte.

Il fiume mi tirò a sud.

5

Il padre capitano de Soya lasciò il sistema solare di Pacem a bordo dell’astronave di Sua Santità (ASS) Raguele, un incrociatore classe Arcangelo simile alla nave che avrebbe comandato. Ucciso dal terribile vortice del segretissimo motore istantaneo, noto ora alla Flotta della Pax come motore Gideon, de Soya fu risuscitato in due giorni, anziché nei soliti tre (il cappellano addetto alla risurrezione corse il rischio d’insuccesso per ubbidire ai pressanti ordini del padre capitano) e si trovò nella stazione Omicron2-Epsilon3, adibita al posizionamento strategico della Flotta, in orbita intorno a un pianeta roccioso, privo di vita, che girava nelle tenebre al di là di Epsilon Eridani, nel Vecchio Vicinato, a solo una manciata di anni luce dalla zona dove un tempo si trovava la Vecchia Terra.

De Soya ebbe un giorno per riprendersi dal disorientamento e poi fu trasferito con una navetta alla base provvisoria Omicron2-Epsilon3, a centomila chilometri di distanza dalla base militare. Il cadetto che comandava la "vespa" spaziale effettuò una deviazione per offrire al padre capitano de Soya una buona panoramica della sua nuova nave; suo malgrado, a quella vista de Soya si emozionò.

L’ASS Raffaele rappresentava evidentemente una tecnologia d’avanguardia che non derivava più, come tutte le navi della Pax viste in precedenza da de Soya, da progetti dell’Egemonia riscoperti dopo la Caduta. L’insieme pareva troppo scarno per il lavoro pratico nel vuoto e troppo complesso per l’atmosfera, ma dava una generale impressione di micidiale efficienza. Lo scafo, un misto di leghe morfizzabili e di zone di pura energia solida, consentiva rapidi cambiamenti di forma e di funzioni che qualche anno prima sarebbero stati impossibili. Mentre la vespa girava intorno alla Raffaele in un lungo e lento arco balistico, de Soya guardò l’esterno della lunga astronave virare dall’argento cromo al nero metallina mimetica, in pratica scomparire alla vista. Nello stesso tempo, parecchi dei bracci di strumentazione e degli alloggiamenti abitabili furono inghiottiti dal liscio scafo centrale, finché rimasero solo bolle d’armi e sonde di campi di contenimento. O la nave si preparava ai controlli per la traslazione da quel sistema, pensò de Soya, oppure gli ufficiali a bordo sapevano bene che la vespa portava il nuovo comandante e facevano un po’ di scena.

Quasi certamente, si disse, tutt’e due le ipotesi erano vere.

Notò, prima che l’incrociatore diventasse tutto nero e invisibile, che le sfere del motore a fusione erano state raggruppate come perle intorno all’asse centrale della nave, anziché essere concentrate in un unico rigonfiamento, come nella sua vecchia nave torcia, la Baldassarre. Notò pure che l’insieme del motore Gideon era molto più piccolo su quella nave che sul prototipo Raffaele. Prima che l’incrociatore scomparisse, notò lo scintillio di luci degli alloggiamenti abitabili, trasparenti e retrattili, e la chiara cupola del ponte di comando. In combattimento (de Soya lo sapeva dalle letture fatte su Pacem e dalle iniezioni di RNA didattico ricevute al quartier generale della Flotta della Pax) quelle zone trasparenti si sarebbero morfizzate in spesse epidermidi corazzate, ma lui aveva sempre preferito una veduta panoramica e avrebbe apprezzato quella finestra nello spazio.

«Ci accostiamo alla Uriele, signore» disse il cadetto pilota, una ragazza.

De Soya annuì. L’ASS Uriele pareva un clone della nuova Raffaele; ma, mentre la vespa decelerava e si avvicinava, il padre capitano scorse i generatori supplementari a coltello omega, gli alloggiamenti extra per le conferenze, illuminati, e le più complesse antenne trasmissioni che rendevano quel vascello l’ammiraglia della task force.

«Avviso d’accostamento, signore» disse il cadetto.

De Soya annuì e si accomodò sulla cuccetta di accelerazione due. La manovra di aggancio fu così delicata che il padre capitano non sentì il minimo sussulto, quando le ganasce di collegamento si chiusero e lo scafo della nave si morfizzò intorno alla vespa. Fu tentato di complimentarsi con la giovane pilota, ma ricadde nelle vecchie abitudini di capitano.

«La prossima volta» disse «nell’approccio finale cerca di evitare la fiammata all’ultimo secondo. L’esibizionismo non piace agli ufficiali superiori di una nave ammiraglia.»

La giovane pilota ci restò male.

De Soya le posò la mano sulla spalla. «A parte questo, hai fatto un buon lavoro. Ti prenderei a bordo della mia nave come pilota di navetta in qualsiasi momento.»

La giovane pilota si ravvivò. «Quanto mi piacerebbe, signore! Questo incarico alla stazione…» Si interruppe, rendendosi conto d’essersi spinta troppo oltre.

«Lo so» disse de Soya, fermo accanto al portello che aveva iniziato il ciclo di apertura. «Lo so. Ma per ora ringrazia il cielo di non partecipare a questa crociata.»

Il portello terminò il ciclo e si aprì. Una guardia d’onore accolse de Soya a bordo dell’ASS Uriele… l’arcangelo, se il padre capitano ricordava bene, che nel Vecchio Testamento era indicato come il capo del celeste esercito degli angeli.


A novanta anni luce di distanza, in un sistema solare a soli tre anni luce da Pacem, la prima Raffaele traslò nello spazio reale, con una violenza che avrebbe fatto schizzare il midollo dalle ossa, tagliato cellule umane come una lama arroventata taglierebbe un ragnatelide radiante e rimescolato i neuroni come se fossero biglie lasciate libere giù per un ripido pendio. A Rhadamanth Nemes e ai suoi cloni la sensazione non piacque, ma nessuno di loro emise un gemito né storse la bocca in una smorfia.

«Dov’è questo posto?» disse Nemes, guardando un pianeta marrone ingrandirsi sullo schermo. La Raffaele decelerava a 230 gravità. Nemes non se ne stava nella cuccetta antiaccelerazione, ma si reggeva a una sbarra, con l’indifferenza di un pendolare in un autobus affollato.

«Su Svoboda» disse uno dei due maschi.

Nemes annuì. Nessuno dei quattro aprì ancora bocca. La nave classe Arcangelo entrò in orbita, la navetta si staccò e sibilò nella rarefatta atmosfera.

Solo allora Nemes domandò: «Lui sarà qui?». Alcuni microfilamenti le uscivano dalle tempie e si collegavano al quadro comandi della navetta.

«Oh, sì» rispose l’altra donna.

Pochi esseri umani vivevano su Svoboda, ma fin dalla Caduta si erano radunati in cupole a campo di forza, nella zona del crepuscolo, e non avevano la tecnologia necessaria per rilevare la presenza della nave Arcangelo o della sua navetta. In quel sistema non c’erano basi della Pax. Il lato del roccioso pianeta esposto al sole ribolliva al punto che il piombo vi scorreva come acqua, mentre sul lato non illuminato la rarefatta atmosfera era sempre sul punto di solidificarsi in ghiaccio. Però nelle viscere del pianeta correvano più di ottocentomila chilometri di tunnel, ciascuno dei quali aveva una sezione quadrata di trenta metri per trenta. Svoboda era uno dei nove pianeti labirinto scoperti nei primi tempi dell’Egira ed esplorati durante l’Egemonia. Hyperion era un altro di quei nove pianeti. Nessun essere umano, vivente o defunto, conosceva il segreto dei labirinti né chi li aveva creati.

Nemes pilotò la navetta in una violenta tempesta di ammoniaca sul lato oscuro, si librò un istante di fronte a uno strapiombo di ghiaccio visibile solo agli infrarossi e sugli schermi a ingrandimento, poi ritrasse nello scafo le ali e puntò all’ingresso quadrato del labirinto. Il tunnel svoltò una volta e proseguì dritto per chilometri e chilometri. Il radar di profondità mostrava un alveare di altri passaggi più in basso. Nemes volò per tre chilometri, girò a sinistra al primo incrocio di tunnel, scese a mezzo chilometro dalla superficie, percorse altri cinque chilometri in direzione sud e poi fece atterrare la navetta.

In quel punto gli infrarossi rivelavano solo tracce di calore di camini lavici, mentre gli schermi degli amplificatori non mostravano niente. Nemes corrugò la fronte nell’esaminare gli schermi radar e accese le luci esterne della navetta.

Fin dove era possibile vedere, le pareti del corridoio perfettamente dritto presentavano file di lastre orizzontali di pietra. Su ogni lastra c’era un corpo umano nudo. Lastre e corpi continuavano fino a perdersi nel buio. Nemes lanciò un’occhiata allo schermo del radar di profondità: anche i tunnel ai livelli inferiori erano striati di lastre e di corpi.

«Fuori» disse il clone che su Bosco Divino aveva estratto Nemes dalla lava solidificata.

Nemes non si prese la briga di usare la camera stagna. L’atmosfera si precipitò fuori della navetta, con un ruggito subito dissolto. Nel tunnel c’era una traccia di pressione, sufficiente a non richiedere il mutamento di fase per sopravvivere, ma l’atmosfera era più rarefatta di quella di Marte prima che il pianeta fosse terraformato. I sensori corporei di Nemes indicavano che la temperatura si manteneva a 162 gradi centigradi sotto zero.

All’esterno, nella zona illuminata dai proiettori della navetta, una sagoma umana era in attesa.

«Buona sera» disse il consigliere Albedo. Era alto, impeccabilmente vestito in un completo grigio alla moda di Pacem. Comunicò direttamente sulla banda di 75 megahertz. Non mosse le labbra, ma col sorriso lasciò vedere denti perfetti.

Nemes e i tre cloni restarono in attesa. Nemes sapeva che per lei non ci sarebbero stati altri rimproveri o punizioni. I Tre Settori la volevano viva e funzionante.

«La ragazza, Aenea, è tornata nello spazio della Pax» disse Albedo.

«Dove?» domandò il clone femmina. Nel suo tono piatto c’era qualcosa di simile all’impazienza.

Il consigliere Albedo allargò le mani.

«Il portale…» cominciò Nemes.

«Stavolta non ci dice niente» la interruppe il consigliere Albedo. Il suo sorriso era rimasto immutato.

Nemes corrugò la fronte. In tutti i secoli in cui era esistita la Rete dei Mondi dell’Egemonia, i Tre Settori di Consapevolezza del Nucleo non avevano trovato un modo di usare il portale Vuoto (quell’interfaccia istantanea che gli esseri umani conoscevano come teleporter) senza lasciare nella piega matrice una traccia di neutrini modulati.

«L’Altro…» disse Nemes.

«Ovvio» confermò Albedo. Mosse le mani in un rapido gesto, come per lasciar perdere quell’inutile argomento. «Ma possiamo ancora registrare l’attivazione. Siamo convinti che la ragazza sia fra coloro che tornano dalla Vecchia Terra sfruttando la vecchia rete di teleporter.»

«Ce ne sono altri?» disse uno dei cloni maschi.

Albedo annuì. «Pochi, all’inizio. Più numerosi, adesso. Secondo l’ultimo conteggio, ci sono state almeno cinquanta attivazioni.»

Nemes ripiegò le braccia. «Ritenete che l’Altro stia ponendo fine all’esperimento Vecchia Terra?»

«No» rispose Albedo. Si accostò alla lastra più vicina e guardò il corpo umano che vi era disteso. Si trattava di una ragazza di non più di diciassette o diciotto anni standard. Aveva capelli rossi. Un sottile strato di ghiaccio le ricopriva le pelle lattea e gli occhi aperti. «No» ripeté Albedo. «I Settori convengono sul fatto che sia solo il gruppo di Aenea a fare ritorno.»

«Come la troviamo?» domandò il clone femmina di Nemes. Era chiaro che rifletteva, anche se il suo pensiero veniva trasmesso sulla banda a 75 megahertz. «Possiamo traslarci su qualsiasi pianeta abbia avuto un teleporter durante l’Egemonia e interrogare di persona i portali.»

Albedo annuì. «L’Altro può nascondere le destinazioni teleporter» disse «ma il Nucleo è quasi sicuro che non può nascondere la piega matrice stessa.»

Quasi sicuro. Nemes notò l’insolito modificatore delle percezioni del TecnoNucleo.

«Vogliamo che tu…» cominciò Albedo, indicando il clone femmina. «Il Settore degli Stabili non ti ha dato un nome, vero?»

«No» confermò il clone femmina di Nemes. Sulla sua pallida fronte ricadeva una frangia di capelli scuri, flosci. Sulle sue labbra sottili non c’era traccia di sorriso.

Albedo ridacchiò. «Rhadamanth Nemes aveva bisogno di un nome per passare per un membro dell’equipaggio umano sulla Raffaele. Penso che pure voi dobbiate avere un nome, se non altro per mia comodità.» Indicò il clone femmina. «Scilla.» Poi indicò i due cloni maschi. «Gige. Briareo.»

Nessuno dei tre reagì a quel battesimo, ma Nemes piegò le braccia e disse: «Questo la diverte, consigliere?».

«Sì.»

Intorno a loro, l’aria uscita dalla navetta si arricciava e ribolliva come nebbia malefica. Il clone maschio ora chiamato Briareo disse: «Terremo questa Arcangelo come base di trasporto e cominceremo a ispezionare tutti i pianeti della vecchia Rete, a partire, presumo, da quelli toccati dal fiume Teti».

«Sì» disse Albedo.

Scilla batté le unghie sulla stoffa congelata della tuta spaziale. «Con quattro navi la ricerca sarà quattro volte più veloce.»

«Ovvio» disse Albedo. «Varie ragioni ci hanno indotto a decidere diversamente. La prima è che la Pax non ha molte Arcangelo libere da prestare.»

Nemes inarcò il sopracciglio. «Da quando in qua il Nucleo chiede prestiti alla Pax?»

«Da quando abbiamo bisogno del loro denaro e delle loro fabbriche e delle loro risorse umane per costruire queste navi» rispose Albedo, senza enfasi. «La seconda e conclusiva ragione è che vogliamo che voi quattro stiate insieme, nel caso incontriate qualcuno o qualcosa di cui uno solo di voi non potrebbe occuparsi.»

Nemes non abbassò il sopracciglio. Si aspettava un riferimento al suo insuccesso su Bosco Divino. Però fu Gige a replicare: «Di che cosa, in tutta la Pax, uno di noi non potrebbe occuparsi, consigliere?».

L’uomo in grigio allargò di nuovo le mani. Dietro di lui, i ribollenti vapori di nebbia prima nascosero e poi lasciarono vedere di nuovo i lividi corpi nudi sulle lastre.

«Lo Shrike» disse Albedo.

Nemes sbuffò con malagrazia. «L’ho battuto da sola.»

Albedo scosse la testa: il suo sorriso era sempre uguale, faceva impazzire. «No» disse. «Non l’hai battuto. Hai usato il congegno iperentropico di cui ti avevamo dotata e l’hai spedito di cinque minuti nel futuro. Questo non equivale a batterlo.»

Intervenne Briareo. «Lo Shrike non è più sotto il controllo dell’Intelligenza Finale?»

Ancora una volta Albedo allargò le mani. «Gli dei del futuro non ci bisbigliano più, mio costoso amico. Combattono fra loro e il clamore della loro battaglia rimanda echi nel tempo. Se l’opera del nostro dio va fatta nel nostro tempo, dobbiamo farla noi stessi.» Guardò i quattro cloni. «Gli ordini sono chiari?»

«Trovare la ragazza» disse Scilla.

«E…?»

«Ucciderla all’istante» disse Gige. «Senza esitare.»

«E se intervengono i suoi discepoli?» disse Albedo, allargando ora il sorriso e parlando con un tono che lo rendeva la caricatura di un maestro di scuola.

«Ucciderli» disse Briareo.

«E se compare lo Shrike?» disse ancora Albedo, a un tratto serio.

«Distruggerlo» disse Nemes.

Albedo annuì. «Altre domande, prima che ciascuno vada per la sua strada?»

«Quanti esseri umani si trovano qui?» domandò Scilla. Indicò le lastre e i corpi.

Il consigliere Albedo si toccò il mento. «Alcune decine di milioni, su questo mondo labirinto, in questa sezione di tunnel. Ma ci sono molti altri tunnel, qui.» Sorrise di nuovo. «E altri otto mondi labirinto.»

Nemes girò lentamente la testa, osservando su vari livelli di spettro la nebbia turbinante e la linea di lastre di pietra. Nessun corpo mostrava traccia di calore: tutti avevano la stessa temperatura ambiente del tunnel. «E questa è opera della Pax» constatò.

«Naturalmente» ridacchiò Albedo. «Perché mai i Tre Settori di Consapevolezza o la nostra futura Intelligenza Finale dovrebbero voler immagazzinare corpi umani?» Si avvicinò al corpo della ragazza e le tamburellò il seno congelato. L’aria del tunnel era troppo rarefatta per convogliare il suono, ma Nemes immaginò il rumore di unghie su marmo gelido.

«Altre domande?» disse Albedo. «Ho in programma un importante incontro.»

Senza una parola, sulla banda da 75 megahertz o su qualsiasi altra banda, i quattro cloni girarono sui tacchi e rientrarono nella navetta.


Nella bolla centrale di conferenza tattica dell’ASS Uriele erano riuniti venti ufficiali della Flotta della Pax, compresi tutti i capitani e gli ufficiali in seconda della task force Gedeone. Fra questi ufficiali in seconda c’era il comandante Hoagan "Hoag" Liebler: trentasei anni standard, rinato dopo il battesimo ricevuto su Rinascimento Minore, rampollo della ormai decaduta Famiglia Liebler le cui tenute coprivano circa due milioni di ettari (e i cui debiti attuali corrispondevano quasi a cinque marchi per ettaro) aveva dedicato la vita privata al servizio della Chiesa e la vita professionale alla Flotta della Pax. Era inoltre una spia e un potenziale assassino.

Liebler aveva guardato con interesse l’arrivo del nuovo comandante della Uriele. Tutti, nella task force (quasi tutti nella Flotta della Pax) avevano sentito parlare del padre capitano de Soya. Cinque anni prima, l’ex comandante di nave torcia aveva ricevuto un diskey papale (in pratica, autorità quasi illimitata) per un progetto segreto e non era riuscito a portare a termine la missione. Nessuno sapeva con certezza quale fosse la missione, ma l’uso del diskey papale aveva procurato a de Soya vari nemici fra gli ufficiali della Flotta in tutto lo spazio della Pax. Il fallimento del padre capitano e la sua scomparsa avevano fatto nascere altre voci nei quadrati ufficiali e nei circoli della Flotta: la teoria più comune era che de Soya fosse stato affidato al Sant’Uffizio, scomunicato senza tanto clamore e probabilmente giustiziato.

Invece era di nuovo in giro, per di più al comando di uno dei mezzi più preziosi dell’arsenale della Flotta: uno dei ventuno incrociatori operativi classe Arcangelo.

Liebler fu sorpreso dall’aspetto di de Soya: il padre capitano era basso di statura, aveva capelli scuri, occhi grandi e tristi più adatti all’icona di un santo martirizzato che al comandante di un incrociatore da guerra. Le presentazioni furono fatte rapidamente dall’ammiraglio Aldikacti, una tarchiata donna originaria di Lusus, responsabile sia di quella riunione sia della task force.

«Padre capitano de Soya» disse Aldikacti, mentre de Soya prendeva posto al tavolo grigio e rotondo nella sala grigia e rotonda «ritengo che conosca già alcuni di questi ufficiali.» L’ammiraglio era famoso per la mancanza di tatto, oltre che per la ferocia in battaglia.

«La madre capitano Stone è una vecchia amica» disse de Soya, rivolgendo un cenno al suo ex ufficiale in seconda. «Il capitano Hearn faceva parte della mia ultima task force; conosco anche il capitano Sati e il capitano Lampriere. Inoltre ho avuto l’onore di lavorare con i comandanti Uchikawa e Barnes-Avne.»

L’ammiraglio Aldikacti emise un borbottio. «Il comandante Barnes-Avne è qui in rappresentanza dei marines e delle guardie svizzere che fanno parte della task force Gedeone. Conosce già il suo ufficiale in seconda, padre capitano de Soya?»

Il prete capitano scosse la testa e Aldikacti gli presentò Liebler. Questi notò con sorpresa la sua salda stretta di mano e il suo sguardo autoritario. "Occhi da martire o no" si disse "quest’uomo è abituato al comando."

«Bene, allora cominciamo» brontolò l’ammiraglio Aldikacti. «Il capitano Sati pronuncerà la conferenza informativa.»

Per i successivi venti minuti la sala fu annebbiata da ologrammi e sovrapposizioni di traiettorie. Comlog e grafer si riempirono di dati e di appunti. La voce pacata di Sati era l’unico suono, a parte qualche rara domanda o richiesta di chiarimenti.

Liebler prese rapidi appunti, sorpreso della portata della missione della task force Gedeone e impegnato nel lavoro di ogni ufficiale in seconda: annotare tutti i fatti salienti e i particolari che forse il comandante avrebbe voluto riesaminare più tardi.

La task force Gedeone era la prima composta totalmente di incrociatori classe Arcangelo. Sette erano stati assegnati alla missione. Navi torcia convenzionali classe Hawking erano state inviate con alcuni mesi di anticipo al primo punto di raduno nella Periferia, una ventina di anni luce al di là della sfera difensiva detta Grande Muraglia, in modo da partecipare a una battaglia simulata; ma dopo quel primo balzo, la task force di sette incrociatori avrebbe operato in maniera indipendente.

«Una buona metafora sarebbe la marcia del generale Sherman nella Georgia durante la guerra civile americana del XIX secolo pre-Egira» disse il capitano Sati, inducendo metà degli ufficiali a battere sul diskey del proprio comlog per richiamare quell’arcano frammento di storia militare.

«In precedenza» proseguì Sati «le nostre battaglie contro gli Ouster si sono svolte nello "spazio di nessuno" della Grande Muraglia o ai margini dello spazio della Pax o di quello degli Ouster. Le incursioni in profondità nello spazio Ouster sono state poche.» Esitò un istante. «Una di esse è quella compiuta dalla task force del padre capitano de Soya, circa cinque anni standard fa.»

«Commenti su quella incursione, padre capitano?» disse l’ammiraglio Aldikacti.

De Soya esitò un attimo. «Incendiammo un anello di foresta orbitale» disse infine. «Non ci fu resistenza.»

Hoag Liebler credette di cogliere una traccia di vergogna nel tono del padre capitano.

Sati annuì, come soddisfatto. «Ci auguriamo che si verifichi la stessa cosa anche per questa missione. I nostri servizi segreti pensano che gli Ouster abbiano schierato il grosso delle loro forze di difesa lungo la sfera della Grande Muraglia, lasciando molto poco, in termini di resistenza armata, nel cuore delle zone colonizzate al di là della Pax. Per quasi tre secoli hanno deciso la posizione delle forze, delle basi e dei sistemi abitati tenendo presenti come fattore primario le limitazioni imposte dalla tecnologia del motore Hawking.»

Ologrammi tattici riempirono la sala conferenze.

«Il cliché è semplice» continuò Sati. «La Pax ha avuto il vantaggio di linee interne di trasporto e di comunicazione, mentre gli Ouster hanno sfruttato come forza difensiva la possibilità di nascondersi e le enormi distanze. La penetrazione profonda nello spazio Ouster è stata quasi impossibile per la vulnerabilità delle nostre linee di rifornimento e per la loro propensione a darsi alla fuga di fronte alla nostra superiore potenza, rimandando l’attacco, spesso con effetti devastanti, a quando le nostre forze si avventuravano troppo lontano dalla Grande Muraglia.»

Si interruppe e guardò gli ufficiali seduti intorno al tavolo. «Signori e signore, quei giorni sono finiti.» Altri ologrammi comparvero: la linea rossa della traiettoria della task force Gedeone usciva dalla sfera della Pax e vi tornava, tagliando come un coltello laser lo spazio fra i soli.

«Ecco la nostra missione» disse Sati, con voce calma che diventava sempre più decisa. «Distruggere ogni base di rifornimento planetaria Ouster e ogni colonia che incontriamo: fattorie cometa, città barattolo, progetti impraticabili, basi toroidali, ammassi nei punti di Lagrange, anelli di foresta orbitale, asteroidi incubatrice, alveari bolla… tutto.»

«Compresi angeli civili?» domandò il padre capitano de Soya.

Hoag Liebler rimase sorpreso per quella domanda. La Flotta della Pax usava il termine colloquiale "angeli di Lucifero", di solito abbreviato in "angeli", per indicare i mutanti dal DNA alterato per adattarsi allo spazio, con una ironia che sfiorava l’empietà; ma quel termine era usato di rado in presenza di ufficiali superiori.

Rispose l’ammiraglio Aldikacti. «Soprattutto gli angeli, padre capitano! Sua Santità papa Urbano ha lanciato questa crociata contro le parodie non umane che gli Ouster creano là fuori nelle tenebre. Sua Santità ha dichiarato nell’enciclica sulla crociata che quelle mutazioni blasfeme vanno eliminate dall’universo di Dio. Non esistono civili Ouster! Ha difficoltà a comprendere questa direttiva, padre capitano de Soya?»

Intorno al tavolo, gli ufficiali parvero trattenere il fiato. Alla fine de Soya rispose: «No, ammiraglio Aldikacti. Capisco l’enciclica di Sua Santità».

La conferenza informativa continuò. «Gli incrociatori classe Arcangelo impegnati nella missione» disse Sati «saranno l’ASS Uriele come ammiraglia e le ASS Raffaele, Michele, Gabriele, Raguele, Remiele e Sariele. Ciascuna nave userà la propulsione Gideon per compiere il balzo istantaneo al sistema solare successivo, impiegherà due giorni o più per decelerare all’interno del sistema e così consentirà la risurrezione dell’equipaggio. Sua Santità ci ha concesso la dispensa per l’uso delle nuove culle di risurrezione con ciclo di due giorni… che hanno un indice di riuscita del novantadue per cento. Raggruppata la forza d’attacco, procureremo il massimo danno a tutte le forze e le installazioni Ouster, prima di traslare al sistema solare successivo. Ogni nave della Pax che abbia subito danni irreparabili sarà abbandonata; l’equipaggio sarà trasferito su altre navi della task force e la nave danneggiata sarà distrutta. Non bisogna correre il minimo rischio che gli Ouster si impadroniscano della tecnologia Gideon, anche se per loro sarebbe inutile, senza il sacramento della risurrezione. La durata prevista della nostra crociata è di circa tre mesi standard. Domande?»

Il padre capitano de Soya alzò la mano. «Chiedo scusa» disse. «Sono stato fuori contatto per diversi anni standard, ma noto che questa task force è composta di navi classe Arcangelo che prendono il nome da arcangeli citati nel Vecchio Testamento.»

«Esatto, padre capitano» disse l’ammiraglio Aldikacti. «La domanda?»

«Semplice curiosità, ammiraglio. Se ben ricordo, gli arcangeli citati per nome nella Bibbia sono solo sette. E le altre navi Arcangelo?»

Intorno al tavolo ci furono delle risatine e de Soya capì d’avere rotto la tensione, come si era riproposto.

Sorridendo, l’ammiraglio Aldikacti disse: «Accogliamo con piacere il ritorno del nostro capitan prodigo e lo informiamo che i teologi del Vaticano hanno fatto ricerche nel Libro di Enoch e negli altri apocrifi per trovare quegli angeli che potrebbero essere promossi "arcangeli onorari" e che lo stesso Sant’Uffizio ha concesso la dispensa per l’uso del loro nome nella Flotta della Pax. Ci è parso… appropriato… che le prime sette navi Arcangelo avessero nomi tratti dalla Bibbia per portare contro il nemico il loro sacro fuoco».

Le risatine si mutarono in mormorii di approvazione e poi in un timido applauso dei comandanti e dei loro ufficiali in seconda.

Non ci furono altre domande. L’ammiraglio Aldikacti disse: «Ah, un’ultima cosa. Se vedete questa nave…». Sopra il centro del tavolo si materializzò l’ologramma di un’astronave d’aspetto bizzarro. Era piccola per gli standard della Flotta della Pax, aerodinamica come se l’avessero progettata per entrare nell’atmosfera, munita di pinne poste accanto ai tubi di scarico delle fiamme di fusione.

«Cos’è?» disse la madre capitano Stone, ancora sorridente per il buon umore nella sala. «Uno scherzo Ouster?»

«No» disse il padre capitano de Soya, in tono basso e piatto. «Tecnologia dell’epoca della Rete. Una nave privata… di proprietà di un individuo.»

Alcuni ufficiali in seconda ridacchiarono.

La tozza mano dell’ammiraglio Aldikacti attraversò l’ologramma e zittì le risate. «Il padre capitano ha ragione» brontolò la donna, con la voce bassa e forte tipica dei lusiani. «È una vecchia nave dell’epoca della Rete, appartenuta a un diplomatico dell’Egemonia.» Scosse la testa. «A quel tempo avevano la ricchezza per simili gesti. Comunque, la nave ha un motore Hawking modificato da tecnici Ouster, potrebbe essere ben armata e deve essere ritenuta pericolosa.»

«Cosa facciamo, se la incontriamo?» domandò la madre capitano Stone. «La prendiamo come trofeo?»

«No» rispose l’ammiraglio Aldikacti. «La distruggete a vista. La vaporizzate. Altre domande?»

Non ce ne furono. Gli ufficiali tornarono ciascuno alla propria nave e si prepararono alla traslazione iniziale. Nella vespa che riportava de Soya alla Raffaele, l’ufficiale in seconda Hoag Liebler chiacchierò amabilmente col suo nuovo capitano, parlando delle qualità della nave e dell’alto morale dell’equipaggio; e intanto pensava: "Mi auguro di non dovere mai uccidere quest’uomo".

6

L’esperienza personale mi ha insegnato che, subito dopo una separazione traumatica, per esempio l’abbandono della famiglia per andare in guerra o la morte di un familiare o il distacco dall’amata senza alcuna garanzia di futura riunione, sopravviene una calma bizzarra, quasi un senso di sollievo, come se il peggio sia ormai accaduto e non si debba temere nient’altro. Così mi sentivo, poco prima dell’alba, in quel piovoso mattino in cui lasciai Aenea sulla Vecchia Terra.

Il kayak, che spingevo a colpi di pagaia, era piccolo e il Mississippi era grande. All’inizio, nel buio, vogavo con un’intensa attenzione molto prossima alla paura, spinto dall’adrenalina, e aguzzavo gli occhi nel tentativo di scorgere ostacoli sommersi, banchi di sabbia, relitti trasportati dalla rabbiosa corrente. In quel tratto il fiume era molto largo, quasi un miglio, calcolai (il Vecchio Architetto usava le arcaiche unità di misura inglesi, piedi iarde miglia, e a Taliesin molti di noi avevano preso l’abitudine di imitarlo), e le rive parevano allagate; si vedevano alberi morti, dove l’acqua era salita di centinaia di metri rispetto alle sponde originarie, spingendo il fiume verso alti dirupi sui due lati.

Circa un’ora dopo essermi separato dalla mia amica, giunse lentamente la luce: dapprima separò le nuvole grigie dal dirupo nerogrigiastro alla mia sinistra, poi gettò un chiarore freddo e smorto sul fiume. Non mi ero sbagliato ad avere paura, nel buio: il fiume era intasato di tronchi sommersi e di lunghi banchi di sabbia simili a dita; grossi alberi impregnati d’acqua, con radici che parevano la testa di un’idra, imperversavano nelle correnti centrali, mi superavano e spazzavano qualsiasi cosa incontrassero con la forza di giganteschi arieti da guerra. Scelsi quella che mi augurai fosse la corrente meno violenta, vogai con forza per stare alla larga dai detriti galleggianti e cercai di godermi il sorgere del sole.

Per tutta la mattina vogai verso sud, senza vedere segno di abitazioni umane sull’una o l’altra riva, a parte una sola fugace visione di edifici antichi un tempo bianchi, sott’acqua fra alberi morti e onde salmastre in quella che un tempo era stata la riva ovest e che adesso era una palude alla base dei dirupi. In due occasioni toccai terra su un’isola: una volta per fare i bisogni e l’altra per riporre nel kayak il piccolo zaino che costituiva il mio unico bagaglio. Durante questa seconda fermata, nel tardo mattino, con il sole che scaldava il fiume e anche me, mi sedetti su un tronco d’albero in secca sulla riva sabbiosa e mangiai uno dei panini di arrosto e mostarda che Aenea aveva preparato per me durante la notte. Avevo portato due bottiglie d’acqua, una da tenere alla cintura e l’altra nello zaino; bevvi con moderazione, perché non sapevo se l’acqua del Mississippi era potabile né quando avrei trovato modo di rifornirmi.

Nel primo pomeriggio vidi davanti a me la città e l’arcata.

Qualche tempo prima, un secondo fiume confluiva nel Mississippi, alla mia destra, e aveva allargato di molto il canale. Immaginai che fosse il Missouri; consultai il comlog e la memoria della nave me ne diede conferma. Poco dopo, vidi l’arcata del teleporter.

Il portale non assomigliava a quelli che avevamo varcato nel nostro viaggio fino alla Vecchia Terra: più grande, più vecchio, più opaco, più striato di ruggine. Forse un tempo l’arcata metallica si era trovata in alto e all’asciutto sulla riva ovest, ma ora spuntava dall’acqua a centinaia di metri dalla riva. Poco lontano emergevano anche resti scheletrici di edifici inondati… bassi "grattacieli" dell’epoca pre-Egira, mi suggerì la mia nuova sensibilità architettonica.

"St. Louis" mi rispose il comlog da polso, quando interrogai l’IA della nave. "Distrutta ancora prima delle Tribolazioni. Abbandonata prima del Grande Errore del ’38."

«Distrutta?» ripetei, indirizzando il kayak verso la gigantesca arcata. Notai solo allora che la riva ovest, dietro l’arco, curvava in un perfetto semicerchio e formava un lago poco profondo. Antichi alberi seguivano la curvatura della ripida riva. Un cratere d’impatto, pensai, ma non avrei saputo dire se causato da un meteorite o da una bomba o dal guasto di un impianto per la produzione di energia o da un altro evento disastroso. «Distrutta come?» domandai al comlog.

"Nessuna informazione. Però ho alcuni dati che riguardano l’arcata davanti a noi."

«Un teleporter, no?» dissi, lottando contro la forte corrente sul lato ovest del canale principale per spingere a est il kayak, verso l’arcata.

"In origine no" disse il comlog. "Le dimensioni e l’orientamento del manufatto coincidono con la posizione e le dimensioni del cosiddetto Gateway Arch, una bizzarria architettonica costruita nella città di St. Louis ai tempi degli Stati Uniti d’America, verso la metà del XX secolo. Doveva simbolizzare l’espansione a ovest dei pionieri di ascendenza europea, egemoni e protonazionalisti che emigrarono da quelle parti nel tentativo di subentrare agli originari indigeni nordamericani pre-Riserve."

«Gli indiani» dissi, ansimando sulla pagaia per superare l’ultimo tratto di corrente contraria e mettere in linea con la gigantesca arcata il ballonzolante kayak. C’erano state un paio d’ore di sole, ma ora il vento gelido e i nuvoloni grigi erano tornati. Gocce di pioggia picchiettavano lo scafo di fibra di vetro e increspavano le creste d’onda ai lati. Ora la corrente portava il kayak verso il centro dell’arcata; mi riposai un momento, facendo attenzione a non premere accidentalmente il pulsante rosso. «Così quel portale è stato costruito per onorare la gente che uccise gli indiani» dissi, appoggiandomi sui gomiti.

"L’originale Gateway Arch non aveva funzioni teleporter" replicò la voce della nave, in tono compassato.

«Ha resistito al disastro che ha causato… questa distruzione?» domandai, indicando con la pagaia il lago derivato dal cratere d’impatto e il suo assortimento di edifici inondati.

"Nessuna informazione."

«E non sai se è un teleporter?» domandai, ansimando di nuovo, perché avevo ripreso a vogare con forza. Ora l’arcata si stagliava su di me, alta almeno cento metri all’apice. Il sole invernale traeva cupi riflessi dalle fiancate arrugginite.

"No" rispose la memoria della nave. "Non sono registrati teleporter sulla Vecchia Terra."

Era logico che non esistesse una simile registrazione. La Vecchia Terra era precipitata nel buco nero del Grande Errore, o era stata trafugata dai Leoni e Tigri e Orsi, almeno un secolo e mezzo prima che il TecnoNucleo desse alla vecchia Egemonia le conoscenze per costruire i teleporter. Ma c’era un piccolo e perfettamente funzionante teleporter su quel fiume (torrente, in realtà) della Pennsylvania occidentale dove, quattro anni fa, Aenea e io ci eravamo teleportati da Bosco Divino. E nei miei viaggi ne avevo visti altri.

«Bene» dissi, più a me stesso che alla stupida IA del comlog. «Se non è un teleporter, continueremo sul fiume. Aenea aveva un motivo per mettermi in acqua là dove mi ha messo.»

Non ne ero poi così sicuro. Sotto quell’arcata non c’era il baluginio rivelatore dei teleporter, nessuna fuggevole visione di luce del sole o delle stelle. Solo il cielo che si scuriva e, al di là del lago, la striscia nera della foresta sulla riva.

Mi appoggiai all’indietro e guardai in alto l’arcata, sorpreso di vedere le centine d’acciaio lasciate scoperte da pannelli mancanti. Il kayak era già passato sotto l’arcata e non avvertivo nessuna transizione, nessun improvviso senso di luce e di gravità e di odori alieni. Quella costruzione era solo una vecchia bizzarria architettonica in pessimo stato che per caso assomigliava a un…

Tutto cambiò.

L’attimo prima, il kayak e io ballonzolavamo sul Mississippi spazzato dal vento, diretti verso il lago poco profondo nel cratere che un tempo era la città di St. Louis; l’attimo dopo, era notte e io e la piccola imbarcazione di fibra di vetro scivolavamo lungo uno stretto canale, un canyon di edifici illuminati sotto un buio lucernario più di mezzo chilometro sopra la mia testa.

«Cristo» mormorai.

"Antica figura messianica" disse il comlog. "Le religioni basate sui suoi presunti insegnamenti comprendono il cristianesimo, il cristianesimo zen, l’antico e moderno cattolicesimo e varie confessioni protestanti come…"

«Sta’ zitto» ordinai. «Modo: bravo bambino.» Dopo questo ordine, il comlog parlava solo quando era interrogato.

Non ero il solo a navigare su quel canale, se di canale si trattava. Decine di barche a remi e di barchette a vela e di kayak simili al mio risalivano e scendevano il fiume. Più vicino, in viali e lungofiumi, in strade sopraelevate che scavalcavano in tutte le direzioni l’acqua risplendente per le luci, centinaia di persone camminavano in coppie e in gruppetti. Individui tarchiati, in abiti vivaci, procedevano lentamente da soli.

La gravità mi appesantiva le braccia: me ne accorsi quando provai a sollevare la pagaia del kayak (gravità pari a una volta e mezzo quella della Terra, fu la mia immediata impressione) e allora alzai lentamente il viso verso le centinaia, migliaia, di finestre illuminate e di torrette, di passerelle e di balconate e di piazzuole d’atterraggio, di altre luci quando treni cromati ronzavano piano in tubi trasparenti sopra il fiume o quando veicoli EM tagliavano l’aria più in alto o quando piattaforme a levitazione e aerotraghetti portavano persone da una parte all’altra dell’incredibile canyon… e capii tutto.

Lusus. Quel pianeta poteva essere solo Lusus.

Avevo già incontrato dei lusiani: ricchi cacciatori venuti su Hyperion per sparare alle anatre o ai semigirifalchi, ancora più ricchi giocatori d’azzardo che giravano nei casinò delle Nove Code dove avevo lavorato come buttafuori, perfino alcuni esuli (più verosimilmente criminali in fuga dalla giustizia della Pax) che si erano arruolati nella nostra Guardia nazionale. Avevano tutti l’aspetto tarchiato di chi è nato in un pianeta ad alta gravità, come quei tipi bassi, tozzi e muscolosi che sbuffavano nei viali lungo il fiume e nelle passeggiate, richiamando alla mente primitive e potenti macchine a vapore.

Pareva che nessuno badasse al kayak e a me. La cosa mi sorprese: dopotutto ero comparso all’improvviso, mi ero materializzato dal nulla nell’arcata del teleporter alle mie spalle.

Mi guardai indietro e capii per quale motivo la mia comparsa era forse passata inosservata. Il portale era vecchio, ovviamente, risaliva al tempo della decaduta Egemonia e dell’ex fiume Teti ed era stato incorporato nelle mura della città alveare — piattaforme e passerelle sporgevano dallo snello portale o lo scavalcavano — in modo che il tratto di canale o di fiume proprio sotto l’arco era l’unica zona buia di quella città coperta. Mentre guardavo, una piccola motobarca emerse dalla zona d’ombra e scintillò al bagliore delle lampade a vapori di sodio che sovrastavano le passerelle sul fiume: parve comparire all’improvviso dal nulla, come avevo fatto io qualche attimo prima.

Infagottato com’ero in felpa e giubbotto, strettamente infilato nella falda di nylon del piccolo abitacolo del kayak, probabilmente parevo tozzo e muscoloso come gli altri lusiani. Un uomo e una donna in scooter acquatico mi sorpassarono e agitarono il braccio.

Risposi al saluto.

«Cristo» mormorai di nuovo, più come preghiera che come bestemmia. Stavolta dal comlog non giunsero commenti.


Ora farò un’interruzione.

Sono tentato, a questo punto del racconto, malgrado la spinta a sbrigarmi rappresentata dal gas cianuro che in qualsiasi momento potrebbe sibilare nella mia personale scatola di Schrödinger, di descrivere in tutti i particolari la mia odissea sui vari pianeti. Fu in realtà la cosa più prossima alla vera avventura, da quando Aenea e io ci eravamo messi al sicuro sulla Vecchia Terra, quattro anni standard prima.

Nelle circa trenta ore dal perentorio annuncio di Aenea riguardante la mia imminente partenza via teleporter, avevo pensato che quel viaggio sarebbe stato simile all’altro: da Vettore Rinascimento alla Vecchia Terra, avevamo toccato pianeti disabitati o abbandonati, come Hebron, Nuova Mecca, Bosco Divino, e pianeti di cui nemmeno conoscevamo il nome, come il mondo giungla dove era rimasta nascosta la nave del console. In uno dei pochi pianeti dove avevamo incontrato abitanti (ironia della sorte, si trattava di un pianeta oceanico scarsamente popolato, Mare Infinitum) il contatto era risultato catastrofico per tutti: io avevo fatto saltare gran parte di una loro piattaforma galleggiante; loro mi avevano catturato, pugnalato, sparato e quasi annegato. In quelle traversie avevo perduto alcuni degli oggetti più preziosi portati con noi in quel viaggio, compreso l’antico tappeto Hawking che risaliva ai giorni della leggenda di Siri e di Merin, e l’altrettanto antico revolver calibro 45 che mi piaceva credere fosse appartenuto alla madre di Aenea, Brawne Lamia.

Ma per la maggior parte del viaggio il fiume Teti aveva portato Aenea, A. Bettik e me in pianeti disabitati (sciaguratamente disabitati, nel caso di Hebron e di Nuova Mecca, dove pareva che un qualche orrore avesse portato via l’intera popolazione) e nessuno ci aveva dato fastidio.

Qui era diverso. Lusus era vivo e formicolante di vita. Per la prima volta capii perché quelle strutture planetarie a nido d’ape fossero chiamate alveari.

Viaggiando insieme in regioni disabitate, la ragazza, l’androide e io potevamo contare esclusivamente sui nostri mezzi. Adesso, da solo e in pratica disarmato sul piccolo kayak, mi trovai a salutare col braccio gli agenti di polizia della Pax e i preti rinati lusiani che mi passavano accanto. In quel punto il canale era largo non più di trenta metri, rivestito di cemento e di plastica, senza tributari né nascondigli. C’erano zone buie sotto i ponti e i sovrappassi, come sotto l’arcata del teleporter più a monte, ma il traffico fluviale era un flusso continuo anche in quelle zone buie. Impossibile nascondersi da qualche parte.

Per la prima volta meditai sulla follia del viaggio per teleporter. I miei vestiti sarebbero stati fuori posto: non appena fossi uscito dal kayak, avrebbero dato nell’occhio. La mia costituzione fisica era sbagliata. Il mio dialetto di Hyperion sarebbe risultato bizzarro. Non avevo denaro né chip d’identità, patente VEM, carte di credito, documenti parrocchiali della Pax, luogo di residenza. Fermai per un minuto il kayak davanti a un bar sul lungofiume (dai ventilatori si diffondeva il profumo di bistecca arrosto o comunque di cibo e avevo l’acquolina per la fame; la stessa brezza portava il forte odore di lievito che faceva pensare a vasche di fermentazione e a birra fredda) ma capii che sarei stato arrestato nel giro di due minuti, se avessi messo piede in un simile locale.

Certo, c’era chi viaggiava fra i pianeti della Pax (in genere miliardari, operatori economici e avventurieri disposti a spendere mesi in crio-fuga e anni in debito temporale, viaggiando fra le stelle sui carghi della Pax Mercatoria, comodamente rincantucciati nella crucimorfica certezza che, al loro ritorno, lavoro e casa e famiglia sarebbero stati lì ad aspettare, nello stabile universo cristiano) ma non accadeva di frequente e nessuno viaggiava tra i pianeti senza denaro e senza il permesso della Pax. Appena fossi entrato in quel caffè o bar o ristorante o che diavolo era, probabilmente qualcuno avrebbe chiamato la polizia locale o i militari della Pax. La prima perquisizione avrebbe rivelato che non portavo il crucimorfo: un pagano in un universo di cristiani rinati.

Mi leccai le labbra e lasciai brontolare lo stomaco; con braccia appesantite dalla fatica per la maggiore gravità e con occhi umidi per mancanza di sonno e per la profonda frustrazione, mi allontanai dal caffè e proseguii a valle, con la speranza che il prossimo teleporter fosse vicino e non lontano.

E qui resisto alla tentazione di raccontare le cose meravigliose che vidi e ascoltai, le bizzarre persone che scorsi da lontano e in casuali incontri da vicino. Non ero mai stato su un pianeta così abitato, così affollato, così chiuso in se stesso come Lusus: avrei potuto trascorrere anche un mese a esplorare il brulicante alveare che vedevo di sfuggita dal fiume incanalato nel cemento.

Dopo sei ore di viaggio, passai finalmente sotto l’arcata del teleporter e sbucai su Freude, un pianeta pieno d’animazione, assai popoloso, di cui sapevo ben poco e al quale non sarei nemmeno riuscito a dare un nome, se non avessi potuto consultare i file di navigazione della nave. Su Freude riuscii a dormire, dopo avere nascosto il kayak in una tubatura fognaria del diametro di cinque metri, rannicchiato sotto ciocche di fibroplastica industriale impigliate in una barriera di filo spinato.

Dormii un giorno e una notte standard filati, ma su Freude i giorni sono di trentanove ore standard e così era solo la sera del giorno del mio arrivo quando trovai l’arcata seguente, meno di cinque chilometri a valle del fiume, e mi teleportai di nuovo.

Dal soleggiato Freude, pieno di cittadini della Pax in eleganti abiti di stoffa variopinta e cappe dai colori brillanti, il fiume mi portò su Nevermore, con i suoi tetri villaggi scavati nella roccia e i suoi castelli di pietra appollaiati sulle pareti dei canyon, sotto un cielo perpetuamente fosco. Di notte su Nevermore le comete striavano il cielo e creature volanti simili a corvi, più pipistrelli giganti che uccelli veri e propri, sbattevano ali coriacee sopra il fiume e oscuravano con il loro corpo scuro il bagliore delle comete.

Gli equipaggi di zattere commerciali mi diedero la voce e io risposi senza smettere di vogare verso un tratto di acqua rotta che rischiò di rovesciare il kayak e di sicuro mise a dura prova la mia scarsa abilità di canottiere. Dai castelli punteggiati di finestre come occhi penetranti proveniva l’ululato di sirene, mentre con furiosi colpi di pagaia varcavo l’arcata del teleporter. Da Nevermore mi ritrovai a sudare nel sole desertico di un laborioso piccolo pianeta che secondo il comlog si chiamava Vitus-Gray-Balianus B. Non avevo mai sentito nominare quel pianeta, neppure nei vecchi atlanti dell’epoca dell’Egemonia che nonna teneva nel suo carrozzone e che, appena potevo, consultavo a lume di fotopenna.

Nel viaggio fino alla Vecchia Terra, il fiume Teti aveva già portato Aenea, A. Bettik e me su pianeti desertici, i mondi stranamente vuoti di Hebron e Nuova Mecca con i loro deserti privi di vita e le città abbandonate. Ma qui, su Vitus-Gray-Balianus B, case di mattoni crudi si ammassavano lungo il fiume e più o meno a ogni chilometro incontravo una chiusa o una diga, dove gran parte dell’acqua era aspirata per l’irrigazione dei campi verdeggianti che fiancheggiavano le rive. Per fortuna il fiume serviva da strada di grande comunicazione e io ero sbucato, dall’ombra dell’antica arcata del teleporter, nella scia di una grossa chiatta; così continuai a vogare con calma in mezzo al traffico fluviale: barche a remi, zattere, chiatte, rimorchiatori, motoscafi elettrici, case galleggianti e perfino qualche occasionale chiatta a levitazione EM librata a tre quattro metri dalla superficie del fiume.

Qui la gravità era leggera, probabilmente meno di due terzi di quella della Vecchia Terra o di Hyperion, e a volte pensavo che i colpi di pagaia avrebbero sollevato dall’acqua me e il kayak. Ma se la gravità era leggera, la luce del sole pesava su di me come un gigantesco palmo sudato. In un’ora di voga avevo esaurito la mia seconda bottiglia d’acqua e sapevo di dovermi fermare per trovare da bere.

Si penserebbe, su un pianeta a gravità inferiore, che gli abitanti siano degli spilungoni — l’antitesi dei barilotti lusiani — ma quasi tutte le persone, uomini, donne e bambini, che vidi nei viottoli e nelle alzaie lungo il fiume erano basse e tarchiate quasi come i lusiani. I loro abiti erano variopinti come quelli dei residenti di Freude, ma qui ogni persona portava un solo brillante colore: vestiti a tuta assai aderenti, rosso scarlatto dalla testa ai piedi, mantelli e cappe di un ceruleo intenso, abiti lunghi e tailleur di un verde smeraldo abbacinante accompagnati da elaborati copricapi e foulard in tinta, strascichi di chiffon giallo vivo e vividi turbanti giallo ambra. Notai che pure le porte e le persiane delle case di mattoni crudi, delle botteghe e delle locande erano dipinte di quegli stessi distinti colori e mi domandai che cosa potessero significare: caste? preferenze politiche? stato sociale o economico? una sorta di segnale di parentela? Qualsiasi cosa fosse, una volta sceso a terra per trovare da bere, non mi sarei potuto inserire nel quadro, vestito com’ero di sbiadito cotone cachi.

Ma si trattava di scendere a terra o morire di sete. Appena passata una delle numerose chiuse che consentivano il self-service, mi accostai a una banchina, vi ormeggiai il kayak, mentre dietro di me una grossa chiatta usciva dalla chiusa, e mi avviai a una struttura circolare di legno e mattoni che mi auguravo fosse anche un pozzo artesiano. Avevo visto alcune donne vestite di giallo zafferano portare via da lì quelle che parevano giare d’acqua, quindi mi sentivo abbastanza sicuro nella mia ipotesi. Viceversa, non avevo molta fiducia nella possibilità di attingere acqua senza violare qualche legge, codice, regola di casta, comandamento religioso o usanza locale. Nei viottoli e nelle alzaie non avevo visto traccia della Pax, né il nero dei preti né il rosso e nero dell’uniforme standard della polizia, ma non potevo farci conto. Perfino nella Periferia (proprio lì, secondo il comlog, si trovava Vitus-Gray-Balianus B) erano pochissimi i pianeti dove la Pax non avesse una certa ben definita presenza. Senza dare nell’occhio, avevo preso dallo zaino il fodero col coltello da caccia e l’avevo infilato nella tasca posteriore, sotto il giubbotto; il mio solo piano, se si fosse riunita una folla minacciosa, era quello di aprirmi la strada fino al kayak. Se fosse giunta la polizia della Pax, con storditori o pistole a fléchettes, il mio viaggio sarebbe terminato lì.

Ancora non sapevo che presto proprio lì sarebbe terminato (almeno per un poco) per una ragione completamente diversa. Ma di questo non ebbi alcun preavviso, a parte il mal di schiena che già mi tormentava prima ancora di lasciare Lusus, mentre mi avvicinavo con diffidenza al pozzo, se pozzo era.

Era un pozzo.

La mia alta statura e lo smorto colore dei miei vestiti non causarono reazioni. Nessuno, neppure i bambini vestiti di rosso brillante e di vivido azzurro, che interruppero i giochi per darmi un’occhiata e subito distolsero lo sguardo, interferì né parve notare l’evidente presenza di un forestiero. Mentre bevevo a sazietà e riempivo le due bottiglie, ebbi l’impressione, non so da che cosa originata, che gli abitanti di Vitus-Gray-Balianus B, o almeno di quel villaggio lungo il tratto da tempo abbandonato del fiume Teti, fossero semplicemente troppo educati per fissarmi o per interessarsi dei miei affari. Mentre tappavo la seconda bottiglia e mi giravo per tornare al kayak, mi convinsi che perfino un mutante alieno a tre teste oppure (per fare un esempio più reale, sempre nel regno del bizzarro) lo stesso Shrike avrebbe potuto bere da quel pozzo artesiano, in quel piacevole pomeriggio nel deserto, senza essere avvicinato né interrogato dagli abitanti locali.

Percorsi tre passi sul viottolo polveroso, fui colpito dal dolore. Mi piegai in due, ansimando per la sofferenza, incapace di respirare; caddi sul ginocchio, poi sul fianco. Mi rannicchiai su me stesso, in preda al dolore. Mi sarei messo a urlare, se la terribile sofferenza mi avesse lasciato il fiato e l’energia necessari. Invece no. Boccheggiando come un pesce gettato su quella riva polverosa, mi raggomitolai in posizione fetale e fui travolto da ondate di sofferenza.

Dovrei dire a questo punto che non sono del tutto estraneo al dolore e al disagio. Quando ero nella Guardia nazionale, uno studio dell’esercito di Hyperion mostrava che per la maggior parte i coscritti inviati a sud a combattere i ribelli dell’Artiglio di ghiaccio avevano poco stomaco per il dolore. Gli abitanti delle città del nord-Aquila e delle più raffinate cittadine delle Nove Code avevano sperimentato di rado, se pure l’avevano sperimentato, un dolore che non potessero eliminare ingoiando una pillola o programmando un robochirurgo o recandosi nel più vicino medibox.

In quanto pastore e ragazzo di campagna, ero un po’ più abituato a sopportare il dolore: tagli accidentali con il coltello, un piede rotto perché calpestato da un ibrido da soma, lividi e contusioni per cadute nelle regioni rocciose, una sindrome commotiva per un incontro di lotta durante il ritrovo annuale dei carrozzoni, pustole da sfregamento sulla sella, perfino labbra gonfie e occhi neri per qualche rissa intorno ai fuochi di bivacco durante l’Assemblea degli Uomini. E nell’Artiglio di ghiaccio ero stato ferito tre volte — due ferite di shrapnel di mine che avevano ucciso miei commilitoni e una ferita di laser da un cecchino a lungo raggio — e l’ultima era stata abbastanza grave da far venire un prete che quasi pretese accettassi il crucimorfo prima che fosse troppo tardi.

Ma non avevo mai provato un dolore come quello.

Gemendo, ansimando, mentre i bene educati abitanti si ritraevano da quella apparizione caduta a terra ed erano costretti a notare la presenza di uno straniero, alzai il polso e chiesi al comlog di dirmi che cosa mi accadeva. Il comlog non rispose. Fra ondate di dolore insopportabile, ripetei la richiesta. Nessuna risposta. Allora ricordai che avevo messo il maledetto aggeggio nel modo "bravo bambino" e annullai il comando.

"Posso attivare la funzione biosensoria latente, signor Endymion?" disse quell’idiota di IA.

Non sapevo che l’aggeggio avesse una funzione biosensoria, latente o attiva. Risposi con uno sgarbato borbottio d’assenso e mi piegai in due, in posizione fetale. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse pugnalato al centro della schiena e rivoltasse nella ferita una lama uncinata. Il dolore mi percorse come corrente in un fil di ferro arroventato. Vomitai nella polvere. Una donna molto bella, in abito di un bianco abbagliante, arretrò ancora di un passo e alzò il sandalo bianco.

«Cos’è?» ansimai di nuovo, in uno dei brevissimi intervalli tra una fitta e l’altra. «Cosa mi succede?» Mi tastai la schiena, cercando sangue o una ferita. Mi aspettavo una freccia o una lancia, ma non trovai niente.

"Sta per entrare in stato di shock, signor Endymion" disse quel lobotomizzato pezzetto di IA della nave del console. "Pressione sanguigna, resistenza della pelle, battito cardiaco e conteggio di atropina confermano questa diagnosi."

«Perché?» Trascinai la parola in un lungo gemito, mentre il dolore mi rotolava dalla schiena in tutto il corpo. Vomitai di nuovo. Non avevo niente nello stomaco, ma continuai a vomitare. Gli abitanti del villaggio, nei loro vestiti dai vivaci colori, si tennero a distanza: non formarono una folla di curiosi, non si mostrarono tanto maleducati da fissarmi e mormorare, ma evidentemente esitarono a proseguire per i fatti loro.

«Cosa non va?» ansimai di nuovo, cercando di bisbigliare. «Cosa potrebbe provocarmi questo dolore?»

"Colpo d’arma da fuoco" rispose la vocina metallica. "Pugnalata. Lancia, coltello, freccia, dardo. Colpo di arma a energia. Laser, stiletto omega, pulsolama. Colpo concentrato di fléchettes. Forse un ago lungo e sottile che trapassi rene superiore, fegato e milza."

Torcendomi dal male, mi tastai di nuovo la schiena, tirai via il fodero col coltello e lo gettai lontano. Al tatto, giubbotto e camicia non parevano bruciati o lacerati. Nessun oggetto acuminato mi sporgeva dalla carne.

Il dolore mi bruciò di nuovo per tutto il corpo e gemetti a voce alta. Non l’avevo fatto quando il cecchino mi aveva colpito sull’Artiglio di ghiaccio e neppure quando l’ibrido di zio Vanya mi aveva rotto il piede.

Trovai difficile formare pensieri coerenti, ma la mia mente andava in questa direzione: "I nativi di Vitus-Gray-Balianus B… chissà come… poteri mentali… veleno… l’acqua… raggi invisibili… punizione… per…".

Abbandonai il tentativo di formare un pensiero coerente e gemetti di nuovo. Una persona in gonna o toga azzurro vivo e sandali pulitissimi, unghie dei piedi smaltate di blu, mi si avvicinò.

«Mi scusi, signore» disse una voce nell’inglese della vecchia Rete, distorto da una curiosa cadenza. «Si trova forse in difficoltà?»

«Aaarrgghhhggghuhh» risposi, tra altri conati di vomito.

«Posso allora esserle di aiuto?» domandò la stessa voce da sopra la toga azzurra.

«Oh… ahhrrgghah… nnnrrehhakk» dissi e quasi svenni per l’atroce dolore. Puntini neri mi danzarono davanti agli occhi, tanto che non vidi più i sandali e le unghie blu; ma la terribile sofferenza rimase, senza concedermi la via di fuga nell’incoscienza.

Vesti e toghe frusciarono intorno a me. Sentii profumi di colonia, di sapone… mani robuste sulle mie braccia, gambe, fianchi. Il tentativo di sollevarmi produsse un solo effetto: il ferro arroventato mi lacerò la schiena e mi si conficcò alla base del cranio.

7

Il Grande Inquisitore ricevette l’ordine di presenziare con il suo aiutante a un’udienza papale, alle 08.00, ora del Vaticano. Alle 07.52 il suo VEM nero giunse al punto di controllo dell’ingresso agli appartamenti papali di via del Belvedere. L’Inquisitore e il suo aiutante, padre Farrell, superarono i portali rivelatori e i sensori manuali, prima al punto di controllo delle guardie svizzere, poi alla stazione delle guardie palatine e infine al posto delle guardie nobili.

Mentre erano sottoposti all’ultimo controllo, il cardinale John Domenico Mustafa, il Grande Inquisitore, lanciò al proprio aiutante la più impercettibile delle occhiate. Le guardie nobili parevano gemelli donati: uomini e donne con capelli lisci e flosci, colorito giallastro, sguardo privo di vita. Un millennio prima, Mustafa lo sapeva, le guardie svizzere erano state l’esercito mercenario del papa, le guardie palatine erano composte di fidati uomini del luogo, sempre romani per nascita, che fornivano la guardia d’onore per le apparizioni in pubblico di Sua Santità, e le guardie nobili erano scelte nell’aristocrazia ed erano una forma di ricompensa per la fedeltà al papa. Al giorno d’oggi, le guardie svizzere erano le migliori forze regolari della Flotta della Pax, le palatine erano state ripristinate solo un anno prima da papa Giulio XIV e ora pareva che papa Urbano, per la propria sicurezza, contasse su quella curiosa confraternita, le nuove guardie nobili.

Il Grande Inquisitore sapeva che le guardie nobili erano davvero dei cloni, primi esemplari della segreta Legione in fieri e avanguardie di una nuova forza combattente richiesta dal papa e dal suo segretario di Stato e progettata dal Nucleo. L’Inquisitore aveva pagato moltissimo per questa informazione e sapeva che avrebbe perduto la carica, o perfino la vita, se Lourdusamy o Sua Santità avesse scoperto che lui sapeva.

Superati i posti di guardia inferiori, con padre Farrell che si lisciava la tonaca dopo la perquisizione, il cardinale Mustafa allontanò con un gesto l’assistente papale che si offrì di guidarli ai piani superiori. Aprì personalmente la porta dell’antico ascensore che li avrebbe portati negli appartamenti papali.

Quella privata via d’accesso alle stanze del papa in realtà cominciava nello scantinato, poiché il nuovo Vaticano era costruito su una collina e l’ingresso di via del Belvedere si trovava sotto il normale pianterreno. Salendo nella gabbia cigolante dell’ascensore, padre Farrell tormentò nervosamente il grafer e la cartellina di documenti; il Grande Inquisitore invece si rilassò, mentre oltrepassavano il cortile di San Damaso al pianterreno. Superarono anche il primo piano, con le magnifiche Stanze Borgia e la Cappella Sistina. Tra gemiti e cigolii sorpassarono il secondo piano con gli appartamenti papali, la sala del concistoro, la biblioteca, la sala delle udienze e le bellissime Stanze di Raffaello. Al terzo piano si fermarono e la porta dell’ascensore si spalancò rumorosamente.

Il cardinale Lourdusamy e il suo aiutante, monsignor Luca Oddi, li salutarono con un cenno e un sorriso.

«Domenico» disse Lourdusamy, stringendo con forza la mano del Grande Inquisitore.

«Simon Augustino» disse il Grande Inquisitore, con un inchino. Notò che, proprio come aveva immaginato e temuto, il segretario di Stato avrebbe partecipato all’incontro. Uscì dall’ascensore. Mentre andava con gli altri verso gli appartamenti privati del papa, lanciò un’occhiata nel corridoio verso gli uffici del segretario di Stato e per la millesima volta provò invidia per la posizione ufficiale di quell’uomo.

Il papa incontrò il gruppetto nell’ampia e luminosa galleria che univa gli uffici del segretario di Stato ai due piani di stanze che erano il dominio privato di Sua Santità. Il pontefice, di solito serio, sorrideva. Quel giorno indossava la tonaca dalla cappa bianca, zucchetto bianco e fascia bianca alla cintola. Le scarpe bianche facevano solo un lievissimo fruscio sul pavimento piastrellato.

«Ah, Domenico» disse papa Urbano XVI, porgendo la mano con l’anello da baciare. «Simon. Sono contento che siate venuti.»

Padre Farrell e monsignor Oddi attesero, ginocchio piegato, che il Santo Padre si girasse verso di loro, così avrebbero potuto baciare l’anello di San Pietro.

Sua Santità pareva in buone condizioni, pensò il Grande Inquisitore: decisamente ringiovanito e più riposato di quanto non fosse prima della recentissima morte. La fronte alta e gli occhi ardenti erano sempre gli stessi, ma quel mattino, pensò Mustafa, nell’aspetto del papa risuscitato c’era qualcosa di più pressante e nello stesso tempo di più soddisfatto.

«Stavamo per fare la nostra passeggiata mattutina in giardino» disse Sua Santità. «Avreste voglia di accompagnarci?»

I quattro annuirono e si adeguarono al rapido passo del papa. Sua Santità percorse la galleria e salì la liscia e larga scala che portava al tetto. Gli aiutanti personali di Sua Santità si tennero a distanza, le guardie svizzere all’entrata del giardino scattarono sull’attenti, sguardo fisso avanti; Lourdusamy e il Grande Inquisitore procedettero un passo più indietro rispetto al Santo Padre, mentre monsignor Oddi e padre Farrell si tennero due passi più indietro.

I giardini papali consistevano in un labirinto di pergolati in fiore, di fontane zampillanti, di siepi perfettamente regolate, di alberi potati in forme bizzarre, provenienti da trecento pianeti della Pax, di vialetti di pietra e di fantastici arbusti fioriti. Sopra il giardino, un campo di contenimento di decimo grado, trasparente da quel lato, opaco agli occhi di osservatori esterni, forniva riservatezza e protezione. Il cielo di Pacem, quel mattino, era di un azzurro luminoso, privo di nuvole.

«Ricordate» iniziò Sua Santità, con la tonaca che frusciava, mentre percorrevano di buon passo il vialetto «quando il nostro cielo qui era giallo?»

Il cardinale Lourdusamy emise il basso brontolio che per lui era una risatina. «Oh, sì» rispose. «Ricordo quando il cielo era di un giallo nauseante, l’aria era irrespirabile, faceva sempre freddo e la pioggia non finiva mai. Pianeta marginale, a quel tempo, Pacem. L’unico motivo per cui l’Egemonia aveva permesso alla Chiesa di sistemarsi qui.»

Papa Urbano XVI sorrise debolmente e indicò il cielo azzurro e il caldo sole. «Allora c’è stato un certo miglioramento durante il nostro periodo di servizio qui, Simon Augustino?»

I due cardinali risero piano. Avevano fatto un rapido giro del tetto; ora Sua Santità prese un altro percorso al centro del giardino. Passando di pietra in pietra sullo stretto sentiero, i due cardinali e i loro aiutanti seguirono in fila il pontefice. All’improvviso Sua Santità si fermò e si girò. Alle sue spalle una fontana borbottava piano.

«Avete saputo» disse, senza più traccia di scherzosità nella voce «che la task force dell’ammiraglio Aldikacti ha compiuto la traslazione al di là della Grande Muraglia?»

I due cardinali annuirono.

«Questa è solo la prima delle diverse incursioni previste» disse il Santo Padre. «Non è una speranza, non è una predizione, è un dato di fatto.»

Il capo del Sant’Uffizio e il segretario di Stato e i loro aiutanti attesero in silenzio.

Il papa li guardò in viso, uno per uno. «Questo pomeriggio, miei cari, contiamo di andare a Castel Gandolfo…»

Il Grande Inquisitore si trattenne dal lanciare un’occhiata in alto, ben sapendo che l’asteroide papale era invisibile durante il giorno. Sapeva pure che il pontefice usava il pluralis maiestatis e che le sue parole non erano quindi un invito ad accompagnarlo, rivolto ai due cardinali.

«… dove pregheremo e mediteremo per alcuni giorni, mentre comporremo la nostra prossima enciclica» continuò il papa. «Sarà intitolata Redemptor hominis e sarà il più importante documento del nostro periodo come pastore della nostra Santa Madre Chiesa.»

Il Grande Inquisitore chinò la testa. "Redentore dell’umanità" pensò. "Potrebbe riguardare qualsiasi cosa."

Quando il cardinale Mustafa rialzò lo sguardo, Sua Santità sorrideva come se gli avesse letto nel pensiero. «Riguarderà il nostro sacro obbligo di mantenere umana l’umanità, Domenico» disse. «Estenderà, chiarirà e allargherà quella che è nota come la nostra enciclica della crociata. Definirà il desiderio… no, il comandamento… di Nostro Signore: che l’umanità conservi forma e aspetto umani, che non sia profanata da deliberate mutazioni e mutilazioni.»

«La soluzione finale del problema Ouster» mormorò il cardinale Lourdusamy.

Sua Santità annuì con impazienza. «Questo e altro. Redemptor hominis guarderà al ruolo della Chiesa nel definire il futuro, miei cari. In un certo senso, stabilirà un programma per i prossimi mille anni.»

"Madre misericordiosa!" pensò il Grande Inquisitore.

«La Pax è stata un utile strumento» continuò il Santo Padre «ma nei giorni e mesi e anni a venire porremo le basi del modo in cui la Chiesa diventerà più attiva nella vita quotidiana di tutti i cristiani.»

"Mettendo sotto un controllo più ferreo i mondi della Pax" interpretò il Grande Inquisitore, di nuovo a occhi bassi, pensieroso e attento alle parole del papa. "Ma come… con quale meccanismo?"

Papa Urbano XVI sorrise di nuovo. Il cardinale Mustafa notò, non per la prima volta, che i sorrisi del Santo Padre non arrivavano mai agli occhi, sofferenti e guardinghi. «Alla pubblicazione dell’enciclica» disse Sua Santità «potrete percepire con maggiore chiarezza il ruolo che prevediamo per il Sant’Uffizio, per il nostro servizio diplomatico e per enti e istituzioni sottoutilizzati come l’Opus Dei, la Commissione pontificia per la giustizia e la pace e il Cor unum.»

Il Grande Inquisitore cercò di nascondere la sorpresa. "Cor unum?" si stupì. La Commissione pontificia, ufficialmente nota come Pontificum consilium "Cor unum" de humana et christiana progressione fovenda, per secoli era stata poco più che un comitato privo di poteri. Mustafa dovette sforzarsi per ricordare chi ne era presidente… il cardinale Du Noyer, gli pareva. Una burocrate secondaria del Vaticano. Una donna anziana che in precedenza non aveva mai figurato nella politica vaticana. "Ma che diavolo succede?" si domandò.

«Viviamo in tempi interessanti» commentò il cardinale Lourdusamy.

«Davvero» disse il Grande Inquisitore, ricordando l’antica maledizione cinese.

Il papa riprese a camminare e i quattro si affrettarono per stargli al passo. Dal campo di contenimento giunse un refolo di vento che agitò i fiori dorati di una santaquercia potata e sagomata.

«La nostra nuova enciclica tratterà anche il crescente problema dell’usura nella nostra nuova era» disse Sua Santità.

"Usura?" pensò il Grande Inquisitore. "Per tre secoli la Chiesa è stata severissima nel regolare il commercio della Pax civile e della Mercatoria — non si voleva né si permetteva il ritorno all’epoca del capitalismo puro — ma la mano di controllo è stata leggera. E questa una mossa per consolidare sotto il controllo della Chiesa tutta la vita politica ed economica? Giulio… Urbano… farebbe solo adesso la mossa di abolire l’autonomia civile della Pax e la libertà di commercio della Mercatoria? E quale sarà la posizione dei militari?"

Sua Santità si soffermò accanto a un magnifico cespuglio di fiori bianchi e di foglie azzurro vivo. «La nostra genziana illirica cresce bene, qui» disse piano. «È un regalo dell’arcivescovo Poske di Galabia Pescassus.»

"Usura!" continuò a pensare il Grande Inquisitore, confuso e perplesso. "Pena di scomunica, perdita del crucimorfo, per violazione di stretti controlli di commercio e di guadagno. Intervento diretto del Vaticano. Madre di Cristo…"

«Ma non è per questo che vi ho chiamati qui» disse papa Urbano XVI. «Simon Augustino, saresti così gentile da riferire al cardinale Mustafa l’inquietante informazione che hai ricevuto ieri?»

"Hanno scoperto l’esistenza delle nostre biospie" pensò Mustafa, in preda al panico. Sentiva il cuore battergli forte. "Sanno degli agenti attivi, del tentativo del Sant’Uffizio di mettersi direttamente in contatto col Nucleo, del sondaggio dei cardinali prima dell’elezione, sanno tutto!" Mantenne comunque l’espressione appropriata: attento, interessato, allarmato solo dal punto di vista professionale per l’uso del termine "inquietante" da parte di Sua Santità.

La grande massa del cardinale Lourdusamy parve ergersi. Il basso rombo delle sue parole parve provenire dal petto o dal ventre, non dalla bocca. Dietro di lui, la figura di monsignor Oddi ricordò a Mustafa gli spaventapasseri visti da ragazzo sul suo pianeta d’origine, il mondo agricolo Rinascimento Minore.

«Lo Shrike è ricomparso» disse il cardinale Lourdusamy.

"Lo Shrike? Cosa c’entra con…" La mente di solito molto acuta di Mustafa pareva vacillare, incapace di tenersi al passo con tutti i cambiamenti d’argomento e le rivelazioni. Il Grande Inquisitore sospettava ancora una trappola. Si rese conto che il segretario di Stato aveva fatto una pausa in attesa di un commento e disse piano: «Le autorità militari di Hyperion non possono occuparsi di quel demone, Simon Augustino?»

Lourdusamy scosse la testa, con un tremolio di guance. «Il demone non è ricomparso su Hyperion, Domenico.»

Mustafa si mostrò giustamente sorpreso. "L’interrogatorio del caporale Kee ha rivelato che quel mostro è comparso su Bosco Divino quattro anni standard fa, per sventare l’assassinio della ragazzina Aenea" pensò. "Per saperlo, ho dovuto predisporre la falsa morte e il rapimento di Kee, dopo che l’avevano reintegrato nella Flotta della Pax. Loro lo sanno? E perché me ne parlano ora?" Era sempre in attesa che la metaforica lama gli cadesse sul collo, quello vero.

«Otto giorni standard fa» proseguì Lourdusamy «su Marte è comparsa una creatura mostruosa che poteva essere solo lo Shrike. Il tributo in vite umane, vite irrecuperabili, perché quella creatura strappa alle vittime il crucimorfo, è stato altissimo.»

«Marte» ripeté come uno stupido il cardinale Mustafa. Guardò il Santo Padre per avere spiegazioni, guida, perfino la condanna che temeva; ma il pontefice era intento a esaminare i boccioli di un cespuglio di rose. Padre Farrell mosse un passo avanti, ma il Grande Inquisitore gli indicò di restare al suo posto. «Marte» disse ancora. Da decenni, forse da secoli, non si sentiva così stupido e male informato.

Lourdusamy sorrise. «Sì, uno dei pianeti terraformati nel sistema solare della Vecchia Terra. Prima della Caduta, la Force vi aveva il centro di comando, ma ora quel pianeta è di scarsa utilità e importanza per la Pax. Troppo distante. Non c’è ragione che tu ne conosca l’esistenza, Domenico.»

«So benissimo dove si trova Marte» replicò il Grande Inquisitore, con un tono più secco di quanto non intendesse. «Solo, non capisco come il demone Shrike possa trovarsi lì.» Tra sé soggiunse: "E non capisco, per l’inferno di Dante, che cosa c’entro io, in questa storia".

Lourdusamy annuiva. «È vero che, per quanto ne sappiamo, il demone Shrike non ha mai lasciato Hyperion, prima d’ora. Ma non possono esserci dubbi. Il panico su Marte, il governatore che ha proclamato lo stato d’emergenza e l’arcivescovo Robeson che ha chiesto personalmente aiuto a Sua Santità…»

Il Grande Inquisitore si strofinò la guancia e annuì, preoccupato. «La Flotta della Pax…»

«Elementi della Flotta già presenti nel Vecchio Vicinato sono stati inviati su Marte, naturalmente» disse il segretario di Stato. Il pontefice era chino su un albero bonsai, la mano sui piccoli rami contorti, come se concedesse la benedizione. Pareva non ascoltare.

«Le navi avranno un complemento di marines e di guardie svizzere» proseguì Lourdusamy. «Ci auguriamo che sopraffacciano e/o distruggano quella creatura…»

"Mia madre mi ha insegnato a non fidarmi mai di chi usa l’espressione e/o" pensò Mustafa. «Ma certo» disse. «Celebrerò una messa tenendo in mente questa preghiera.»

Lourdusamy sorrise. Il Santo Padre alzò gli occhi dall’albero in miniatura.

«Per l’appunto» disse Lourdusamy e in quelle parole Mustafa udì il ronfare di un gatto troppo nutrito che balzasse su quello sventurato sorcio del Grande Inquisitore. «Concordiamo che sia più una faccenda di fede che di Flotta. Lo Shrike, come fu rivelato al Santo Padre più di due secoli fa, è un vero demone, forse il principale agente del Tenebroso.»

Mustafa poté solo annuire.

«Riteniamo che solo il Sant’Uffizio sia adeguatamente addestrato, attrezzato e preparato, spiritualmente e materialmente, a investigare nel giusto modo su questa comparsa… e a salvare la sventurata popolazione di Marte.»

"Eccomi elegantemente fottuto" pensò il cardinale John Domenico Mustafa, Grande Inquisitore e prefetto della Sacra congregazione per la dottrina della fede, altrimenti nota come Suprema congregazione della Santa Inquisizione dell’Errore eretico. Automaticamente recitò tra sé un atto di dolore per quel pensiero osceno.

«Capisco» disse, in realtà senza capire niente, ma sorridendo per l’ingegnosità dei suoi nemici. «Designerò immediatamente una commissione…»

«No, no, Domenico» intervenne Sua Santità, avvicinandosi a toccare il braccio del Grande Inquisitore. «Devi partire all’istante. Questa… materializzazione… del demone minaccia l’intero Corpo di Cristo.»

«Partire…» ripeté come uno stupido il cardinale Mustafa.

«Una nave classe Arcangelo, una delle più recenti, è stata requisita alla Flotta della Pax» disse vivacemente Lourdusamy. «Ha un equipaggio di ventotto persone, ma puoi portare con te fino a un massimo di ventuno membri del tuo staff e del servizio di sicurezza, ventuno oltre te, naturalmente.»

«Naturalmente» ripeté il cardinale Mustafa e sorrise davvero. «Naturalmente.»

«Al momento la Flotta della Pax combatte contro gli agenti materiali di Satana, gli Ouster» rombò Lourdusamy. «Ma questa demoniaca minaccia va affrontata, e sconfitta, dal sacro potere della Chiesa stessa.»

«Naturalmente» disse il Grande Inquisitore. "Marte" pensò. "Il più remoto foruncolo nel buco del culo dell’universo civilizzato. Tre secoli fa, avrei potuto usare l’astrotel, ma ora sarò tagliato fuori, finché mi terranno laggiù. Niente informazioni segrete. Nessuna possibilità di dirigere i miei uomini. E lo Shrike… Se il mostro è sempre controllato dalla blasfema Intelligenza Finale del Nucleo, può anche essere programmato per uccidermi appena mi presento. Splendido piano."

«Naturalmente» ripeté. «Santo Padre, quando parto? Se potessi avere qualche giorno, un paio di settimane, per sistemare le questioni correnti del Sant’Uffizio…»

Il papa sorrise e gli strinse il braccio. «L’Arcangelo aspetta di trasportare te e i tuoi collaboratori entro oggi, Domenico. Sei ore da questo momento sarebbe l’ideale, ci dicono.»

«Naturalmente» disse per l’ultima volta il cardinale Mustafa. Piegò il ginocchio per baciare l’anello del papa.

«Dio ti accompagni e ti protegga sempre» disse il Santo Padre, toccando la testa china del Grande Inquisitore e impartendogli in latino la benedizione formale.

Baciando l’anello, sentendo sulle labbra il freddo della pietra e del metallo, il cardinale Mustafa sorrise tra sé ancora una volta al pensiero dell’astuzia di coloro che aveva contato di raggirare e mettere nel sacco.


Il padre capitano de Soya non ebbe l’occasione di parlare col sergente Gregorius fino agli ultimi minuti del primo balzo della Raffaele al di là della Periferia.

Quel primo balzo era un’azione di addestramento in un sistema non riportato sulle carte, a venti anni luce dalla Grande Muraglia. Come Epsilon Eridani, la stella di quel sistema era un sole tipo K; a differenza di Epsilon Eridani, una nana arancione, quel sole era una gigante azzurra tipo Arcturus.

La task force Gedeone traslò senza incidenti, le nuove culle automatiche per la risurrezione in due giorni funzionarono senza intoppi e il terzo giorno le sette navi classe Arcangelo si trovarono a decelerare nel sistema solare della stella gigante, giocando a gatto e topo tattico con le nove navi torcia classe Hawking che le avevano precedute dopo mesi di viaggio con debito temporale. Le navi torcia avevano ricevuto l’ordine di nascondersi nel sistema solare. Il compito delle Arcangelo era di scoprirle e di distruggerle.

Tre delle navi torcia erano molto lontane, nella Nube di Oort, librate tra le protocomete lì esistenti, a motore spento; mantenevano il silenzio radio e tenevano al minimo i sistemi interni. La Uriele le individuò da una distanza di 0,86 anni luce e lanciò tre missili ipercinetici virtuali Hawking. De Soya si mantenne con gli altri capitani nello spazio tattico (il sole di quel sistema era a livello della loro cintola, le code di fiamma lunghe duecento chilometri dei sette motori a fusione delle Arcangelo, simili a graffi di diamante su vetro nero, erano a livello del petto) e guardò gli ologrammi appannarsi, formarsi e smaterializzarsi nella Nube di Oort, seguì la traslazione dallo spazio Hawking dei teorici missili ipercinetici a ricerca automatica e la successiva ricerca delle navi torcia in stasi, e registrò sulla tabella del totalizzatore tattico due unità nemiche virtualmente distrutte e una con "gravi danni sicuri, distruzione molto probabile".

Quel sistema solare non aveva veri e propri pianeti, ma quattro delle restanti navi torcia furono scoperte in agguato all’interno del disco di accrescimento planetario sul piano dell’eclittica. La Remiele, la Gabriele e la Raffaele attaccarono da molto lontano e registrarono unità nemiche distrutte, prima che i sensori delle navi torcia potessero rilevare la presenza degli intrusi.

Le ultime due navi torcia si nascondevano nell’eliosfera della stella gigante tipo K: si erano schermate con campi di contenimento classe dieci e dissipavano il calore mediante monofilamenti a strascico lunghi un milione di chilometri. La Flotta della Pax non vedeva di buon occhio quel genere di manovra durante un attacco simulato, ma de Soya sorrise suo malgrado per l’audacia dei due capitani: era il genere di mossa che lui stesso avrebbe fatto, dieci anni standard prima.

Quelle ultime navi torcia sbucarono dalla stella a grande velocità, dissipando calore sullo spettro visibile, due ardenti protostelle sputate fuori dal proprio gigantesco genitore, e cercarono di attaccare la task force che nello stesso istante saettava per il sistema a tre quarti della velocità della luce. La Arcangelo più vicina, la Sariele, le distrusse senza sottrarre un erg di energia al campo classe trenta che doveva mantenere cento chilometri davanti alla prua per aprirsi un varco nel sistema intasato di molecole. Terribili velocità come quelle esigevano un terribile prezzo, se i campi venivano a mancare per un solo istante.

Poi, mentre l’ammiraglio Aldikacti brontolava per il "probabile" nella Nube di Oort, la task force decelerò violentemente in un grande arco intorno alla stella gigante, in modo che tutti i comandanti e gli ufficiali in seconda potessero incontrarsi in spazio tattico per discutere lo scontro simulato, prima che la task force Gedeone traslasse nello spazio Ouster.

Secondo de Soya, quelle conferenze erano solo fonte di superbia: trenta e passa fra uomini e donne, in uniforme della Pax, in piedi come giganti (nel caso specifico, seduti come giganti, poiché come piano di un tavolo virtuale usavano l’eclittica) a discutere bersagli centrati e strategie e insufficienze d’equipaggiamento e ritmi di acquisizione, mentre il gigantesco sole splendeva vividamente al centro dello spazio e le navi ingrandite si muovevano nelle loro lenti ellissi newtoniane come braci ardenti su velluto nero.

Durante le tre ore di conferenza fu deciso che "probabile distruzione" era inaccettabile: contro simili bersagli difficili avrebbero dovuto sparare una salva di almeno cinque missili ipercinetici IA-pilotati, ricuperando quelli non usati solo quando ci fosse stata la certezza di avere distrutto le tre unità nemiche. Seguì una discussione su che cosa bisognava ritenere sacrificabile, sui ritmi di fuoco e sulle equazioni distruzione/mantenimento/riserva in una missione come l’attuale, dove non sarebbe stato possibile fare rifornimento. Fu decisa una strategia in base alla quale una Arcangelo sarebbe penetrata in ogni sistema solare trenta minuti luce prima delle altre, in modo da servire come "punta" per attirare tutti i sensori, mentre un’altra l’avrebbe seguita a mezz’ora luce di distanza per cancellare ogni "probabile".

Dopo un giorno di ventidue ore, trascorso in gran parte ai posti di combattimento, con tutto il personale impegnato a combattere il disorientamento emotivo post-risurrezione, la Uriele trasmise su banda criptata le coordinate di balzo per un sistema notoriamente infestato da Ouster; le sette Arcangelo accelerarono verso il punto di traslazione e il padre capitano de Soya fece il giro della nave per scambiare qualche parola col suo nuovo equipaggio e "rimboccare a tutti le coperte". Tenne per ultimi il sergente Gregorius e le sue cinque guardie svizzere.

Una volta, durante il lungo inseguimento per la galassia sulle orme della bambina chiamata Aenea, dopo avere trascorso insieme parecchi mesi sulla vecchia Raffaele, il padre capitano de Soya si stufò di chiamare per nome e per grado il sergente Gregorius; allora consultò lo stato di servizio del suo subalterno per scoprire quale fosse il suo nome di battesimo. Con sorpresa trovò invece che il sergente aveva un solo nome. Il gigantesco sottufficiale era cresciuto sul continente settentrionale del pianeta paludoso Patawpha, in una società di guerrieri dove ciascuno nasceva con otto nomi, sette dei quali erano "nomi deboli", e solo i superstiti delle "sette prove" avevano il privilegio di scartare i "nomi deboli" ed essere conosciuti col solo "nome forte". L’IA della nave aveva detto al padre capitano che, su circa trecento guerrieri che tentavano le "sette prove", solo uno sopravviveva e riusciva a scartare i suoi "nomi deboli". Il computer non aveva dati sulla natura di quelle prove. Lo stato di servizio riportava inoltre che Gregorius era stato il primo scozzese-maori di Patawpha a guadagnarsi una decorazione nei marines e poi a essere scelto per fare parte delle elitarie guardie svizzere. De Soya aveva sempre avuto intenzione di domandare al sergente in che cosa consistessero le "sette prove", ma non aveva mai trovato il coraggio di chiederglielo.

Quel giorno, quando de Soya scese il pozzo a gravità zero e varcò il punto morbido del diaframma a iride del quadrato ufficiali, il sergente Gregorius fu così contento di vederlo da dare l’impressione di volerlo abbracciare. Invece agganciò a una sbarra i piedi scalzi, scattò sull’attenti e gridò: «Quadrato, attentì!» I suoi cinque soldati smisero ogni cosa che stavano facendo — leggere, pulire o smontare armi — e cercarono di mettere paratia sotto i piedi. Per un momento il quadrato ufficiali fu cosparso di oggetti galleggianti in assenza di gravità, grafer, riviste, pulsolame, tute blindate, parti di lance a energia.

Il padre capitano de Soya rivolse un cenno al sergente e passò in rivista i cinque commandos, tre uomini e due donne, tutti terribilmente giovani. Erano anche snelli, muscolosi, perfettamente avvezzi all’assenza di gravità, proprio fatti per la battaglia. Tutti e cinque erano veterani di guerra. Ciascuno di loro si era distinto al punto da essere scelto per la missione. De Soya vide in loro l’ansia di combattere e si sentì rattristare.

Dopo qualche minuto per la rassegna, la presentazione e le chiacchiere "da comandante a commando", de Soya segnalò a Gregorius di seguirlo e con un calcio si diede la spinta per passare dal punto morbido di prua alla sala di lancio. Quando furono soli, il padre capitano de Soya tese la mano. «Sono maledettamente contento di rivederti, sergente.»

Gregorius gli strinse la mano e sorrise. Aveva sempre lo stesso viso dalla mascella quadrata, segnato da cicatrici, capelli tagliati corti e l’ampio e vivace sorriso che de Soya ricordava. «Maledettamente contento di rivederla, padre capitano. Ma da quando la sua parte sacerdotale ha cominciato a usare parole forti, signore?»

«Da quando sono stato promosso comandante di questa nave, sergente» rispose de Soya. «Come te la sei passata?»

«Bene, signore. Molto bene.»

«Hai partecipato all’incursione Sant’Antonio e allo scontro del Saliente Sagittario» disse de Soya. «Eri col caporale Kee, prima che morisse?»

Il sergente Gregorius si sfregò il mento. «Nossignore. Ero al Saliente due anni fa, ma non ho visto Kee. Ho sentito dire che il suo trasporto truppe è stato vaporizzato, ma lui non l’ho visto. Anche un paio di altri miei amici era a bordo, signore.»

«Mi spiace» disse de Soya. Galleggiavano goffamente accanto a una delle navicelle di deposito dei missili ipercinetici. Il padre capitano trovò un appiglio e si girò in modo da guardare negli occhi Gregorius. «Hai superato senza problemi l’interrogatorio, sergente?»

Gregorius scrollò le spalle. «Mi hanno trattenuto su Pacem qualche settimana, signore. Hanno continuato a farmi la stessa domanda in forme diverse. Non credevano a quanto è accaduto su Bosco Divino… quella donna demoniaca e lo Shrike. Alla fine si sono stufati di farmi domande, mi hanno degradato a caporale e mi hanno imbarcato.»

De Soya sospirò. «Mi dispiace, sergente. Ti avevo raccomandato per una promozione e un encomio.» Ridacchiò tristemente. «Non ti ha giovato molto. Ma per fortuna non siamo stati scomunicati e poi giustiziati.»

«Sì, signore» disse Gregorius, con un’occhiata al variabile campo di stelle che si vedeva dal portello. «Non erano contenti di noi, quest’è certo.» Guardò de Soya. «Ho sentito dire che le hanno tolto l’incarico e tutto il resto.»

Il padre capitano de Soya sorrise. «Mi hanno degradato a prete di parrocchia.»

«Su un pianeta polveroso, deserto e privo d’acqua, correva voce. Un posto dove il piscio si vende a dieci marchi a stivalata.»

«Vero» disse de Soya, sempre sorridendo. «Madrededios. Il mio pianeta natale.»

«Ah, merda, signore» disse Gregorius, imbarazzato. «Non volevo mancare di rispetto. Cioè… ecco… non volevo…»

De Soya gli toccò la spalla. «Niente, niente. Hai ragione. Laggiù il piscio si vende davvero… ma a quindici marchi, non dieci, a stivalata.»

«Sissignore» disse Gregorius, rosso in faccia.

«E, sergente…»

«Sì, signore?»

«Reciterai quindici Ave Maria e dieci Pater Noster per l’uso di quella espressione scatologica. Sono sempre il tuo confessore, sai.»

«Sissignore.»

De Soya sentì il formicolio dell’impianto e nello stesso istante dai comunicatori della nave provenne uno scampanellio. «Trenta minuti alla traslazione» disse il padre capitano. «Metti in culla i tuoi pivelli, sergente. Questo balzo è vero.»

«Sì, certo, signore.» Con un calcio Gregorius si proiettò verso il punto morbido, ma si fermò proprio mentre il diaframma a iride si apriva. «Padre capitano?»

«Sì, sergente.»

«È solo una sensazione» disse Gregorius, corrugando la fronte. «Ma ho imparato a fidarmi delle mie sensazioni, signore.»

«Ho imparato anch’io a fidarmene, sergente. Di che si tratta?»

«Si guardi alle spalle, signore. Voglio dire… niente di definito, signore. Ma si guardi alle spalle.»

«Certo, certo» disse il padre capitano de Soya. Aspettò che Gregorius tornasse nel quadrato ufficiali e che il punto morbido del diaframma si chiudesse; allora si diresse al pozzo principale e alla culla dove sarebbe morto e risuscitato.


Il sistema solare di Pacem era affollato di navi commerciali, di navi da guerra della Flotta, di estesi habitat come il toroide della Pax Mercatoria, di basi militari e di posti d’ascolto della Pax, di asteroidi raggruppati e terraformati come Castel Gandolfo, di economiche città residenziali per i milioni di persone ansiose di stare vicino al centro di potere dell’umanità ma troppo povere per pagare le tariffe esorbitanti di Pacem e della più alta concentrazione di veicoli planetari privati nell’universo conosciuto. Così Kenzo Isozaki, PFE nonché presidente del consiglio della Lega pancapitalista delle organizzazioni commerciali interstellari cattoliche indipendenti, quando volle essere completamente solo, dovette requisire una nave privata e consumare combustibile, ad alta gravità, per trentadue ore nell’anello esterno di tenebre lontano dal sole di Pacem.

Anche la scelta della nave era stata un problema. La Pax Mercatoria manteneva una piccola flotta di costose navette planetarie di rappresentanza, ma Isozaki doveva presumere che, malgrado i migliori tentativi per eliminare le "cimici", quelle navette fossero tutte compromesse. Per l’incontro in programma aveva allora pensato di far deviare uno dei carghi della Pax Mercatoria che seguivano le rotte commerciali fra i grappoli orbitali, ma non riteneva impossibile che i suoi nemici — il Vaticano, il Sant’Uffizio, i servizi segreti della Flotta della Pax, l’Opus Dei, i rivali all’interno della stessa Pax Mercatoria, innumerevoli altri — avessero piazzato microspie in ogni nave della flotta mercantile.

Alla fine si era travestito, era andato nell’area portuale pubblica del toroide, aveva acquistato su due piedi un antico "grillo" per gli asteroidi e aveva ordinato alla IA illegale del suo comlog di pilotare il veicolo al di là della zona controllata. Durante il viaggio, il suo veicolo subì sei volte la richiesta di identificazione da parte di pattuglie e di stazioni della sicurezza della Pax; ma il grillo aveva la licenza, era diretto in una zona dove esistevano asteroidi — sfruttati e ridotti a colabrodo dalle compagnie minerarie, certo, ma pur sempre una destinazione legittima per un cercatore disperato — e fu fatto passare senza altri controlli.

Isozaki trovò teatrale tutta quella storia e uno spreco del suo tempo prezioso. Avrebbe incontrato il suo contatto nell’ufficio sul toroide, se il contatto fosse stato d’accordo. Il contatto non era stato d’accordo. Isozaki riconobbe, suo malgrado, che pur di avere quell’incontro sarebbe andato strisciando fino su Aldebaran.

Trentadue ore dopo aver lasciato il toroide, il grillo spense il campo interno di contenimento, prosciugò la vasca antigravità e richiamò dal sonno il passeggero. Il computer del veicolo era troppo stupido per fare altro che comunicare a Isozaki le coordinate e le letture sugli asteroidi locali, ma l’illegale interfaccia IA del comlog analizzò la zona alla ricerca di navi, a motore spento o in funzione, e dichiarò che quella sfera del sistema di Pacem era deserta.

«Allora come viene qui, se non ci sono navi?» borbottò Isozaki.

"Non c’è altro modo, se non per nave" disse la IA. "A meno che non sia già qui, cosa che pare poco attendibile, dal momento che…"

«Silenzio» ordinò Kenzo Isozaki. Rimase seduto nella penombra della bolla di comando del grillo, nella puzza di olio lubrificante, e osservò l’asteroide a mezzo chilometro di distanza. Grillo e asteroide avevano pareggiato la velocità di rotazione, così pareva che a girare fosse il ben noto campo stellare del sistema di Pacem al di là del pianetino roccioso pesantemente sfruttato e butterato di crateri. A parte quel sasso spaziale, non c’era niente, tranne vuoto assoluto, radiazioni dure e gelido silenzio.

All’improvviso qualcuno bussò alla paratia esterna del portello stagno.

8

Nel momento in cui erano in corso tutti questi movimenti di truppe, nello stesso momento in cui la grande armata di astronavi nero metallina provocava lacerazioni nel continuum spaziotemporale del cosmo, nel preciso momento in cui il Grande Inquisitore della Chiesa veniva mandato a fare i bagagli per recarsi sul pianeta Marte infestato dallo Shrike e in cui il PFE della Pax Mercatoria si recava da solo a un appuntamento spaziale segreto con un interlocutore non umano, io giacevo inerme in un letto, con un terribile dolore alla schiena e al ventre.

Il dolore è una cosa interessante e sconcertante. Poche cose nella vita focalizzano la nostra attenzione in modo così completo e terribile, poche cose sono più noiose, se raccontate o lette.

Quel dolore mi assorbiva in modo completo. Ero stupito per la sua implacabilità, per il suo dominio sulla mente. Nelle ore di estrema sofferenza che avevo già sopportato e che dovevo ancora sopportare, tentai di concentrarmi su dove mi trovavo, di pensare ad altro, di interagire con le persone che avevo intorno, perfino di recitare a mente le tabelline; ma il dolore fluiva in tutti i compartimenti della mia coscienza come acciaio fuso nelle fessure di un crogiolo crepato.

Di alcune cose mi rendevo conto, a quel tempo: mi trovavo in un pianeta identificato come Vitus-Gray-Balianus B dal mio comlog e stavo per attingere acqua da un pozzo, quando il dolore mi aveva colpito; una donna vestita di azzurro, unghie dei piedi smaltate dello stesso colore e visibili nei sandali a me che stavo disteso nella polvere, aveva chiamato altre persone in veste azzurra e con loro mi aveva portato a casa sua dove continuavo a lottare contro il dolore in un morbido letto; nella casa c’erano altre persone, un’altra donna in veste e sciarpa azzurre, un uomo più giovane, con abito e turbante azzurri, almeno due bambini vestiti anche loro d’azzurro; e quelle generose persone non solo avevano sopportato i miei gemiti di scusa e quelli meno articolati di quando mi torcevo per le fitte, ma mi avevano parlato di continuo, dato colpetti d’incoraggiamento, messo sulla fronte impacchi bagnati, tolto gli stivali e i calzini e il giubbotto, e in genere mormorato parole rassicuranti nel loro sommesso dialetto, mentre io cercavo con grandi sforzi di mantenere la mia dignità malgrado il furioso assalto del dolore alla schiena e all’addome.

Mi avevano portato da varie ore nella loro casa — dalla finestra vedevo che il cielo azzurro si era sbiadito nel rosa della sera — quando la donna che mi aveva trovato accanto al pozzo disse: «Cittadino, abbiamo chiesto aiuto al prete missionario locale e lui è andato a Bombasino, alla base della Pax, in cerca del medico. Per non so quale motivo, al momento gli skimmer della Pax e gli altri velivoli sono tutti impegnati, perciò il prete e il medico, se medico ci sarà, devono percorrere cinquanta tratte lungo il fiume. Con un po’ di fortuna, dovrebbero essere qui prima dell’alba».

Non sapevo quanto fosse lunga una "tratta" né quanto tempo occorresse per percorrerne cinquanta e neppure quanto durasse la notte su quel pianeta; ma il pensiero che potesse esserci una fine alla sofferenza bastò a farmi venire le lacrime agli occhi. Tuttavia mormorai: «Signora, la prego, niente dottore della Pax».

La donna mi toccò la fronte: aveva dita fresche. «Dobbiamo» disse. «Qui a Chiusa Lamonde non c’è più un medico. Lei potrebbe morire, senza l’aiuto di un medico.»

Gemetti e mi girai. Il dolore rotolò dentro di me come fil di ferro arroventato che venisse tirato attraverso capillari troppo stretti. Un medico della Pax avrebbe capito subito che provenivo da un altro pianeta e avrebbe segnalato la mia presenza alla polizia della Pax o all’esercito — se non l’aveva già fatto il "prete missionario" — e io sarei stato interrogato e messo in carcere. La missione affidatami da Aenea terminava presto, e con un fallimento. Quando, quattro anni e mezzo fa, il vecchio poeta Martin Sileno mi aveva mandato in quell’odissea, aveva brindato con me a champagne e aveva detto: "Agli eroi!". Se solo avesse saputo quanto lontano dalla realtà era stato quel brindisi! Forse l’aveva saputo.

La notte passò con lentezza glaciale. Varie volte le due donne vennero a controllarmi; altre volte i bambini, in vesti azzurre che forse erano camicie da notte, mi scrutarono dal corridoio buio. In quelle occasioni non avevano copricapo, così vidi che la bambina era bionda, pettinata grosso modo come Aenea il giorno del nostro primo incontro, quando Aenea aveva dodici anni e io ventotto. Il maschietto, più giovane della bambina che pensavo fosse sua sorella, pareva molto pallido e quasi calvo. Ogni volta che guardava nella mia stanza, muoveva le dita rivolgendomi un timido saluto. Fra le ondate di dolore, agitavo debolmente le dita in risposta, ma ogni volta, appena riaprivo gli occhi, il bambino era sparito.

L’alba giunse e passò senza l’arrivo del medico. La disperazione mi travolse come una marea. Non sarei riuscito a resistere alla terribile sofferenza per un’altra ora. Sapevo per istinto che se le gentili persone di quella casa avessero avuto un analgesico avrebbero provveduto da tempo a somministrarmelo. Avevo trascorso la notte a pensare a tutto ciò che avevo portato con me nel kayak, ma gli unici medicinali erano un disinfettante e delle aspirine. Sapevo che queste ultime non avrebbero fatto niente contro le ondate di dolore.

Potevo resistere altri dieci minuti, decisi. Mi avevano tolto il braccialetto comlog e l’avevano messo in vista sul ripiano di mattoni vicino al letto, ma non avevo pensato a misurare col comlog le ore della notte. Ora mi sforzai di prenderlo, mentre il dolore mi torceva come ferro rovente, e me lo rimisi al polso. Bisbigliai alla IA della nave: «La funzione biomonitor è ancora attiva?».

"Sì" rispose il comlog.

«Sono moribondo?»

"I segni vitali non sono critici" disse la nave, nel suo solito tono piatto. "Ma lei pare in stato di shock. La pressione sanguigna è di…" e continuò a borbottare dati tecnici finché non le dissi di tacere.

«Sei riuscita a scoprire la causa delle mie sofferenze?» ansimai. Ondate di nausea seguirono le fitte. Da tempo avevo rimesso tutto ciò che avevo nello stomaco, ma i conati mi piegarono in due.

"Non è incompatibile con un attacco di appendicite" disse il comlog.

«Appendicite…» ripetei. Certi inutili particolari anatomici erano stati da tempo geneticamente rimossi dalla specie umana. «Ho l’appendice?» bisbigliai al comlog. Con l’alba era tornato il fruscio di vesti nella casa silenziosa e c’erano state varie visite delle due donne.

"No" rispose il comlog. "Sarebbe molto poco verosimile, a meno che lei non sia uno scherzo genetico. Le probabilità sarebbero di…"

«Silenzio» sibilai. Le due donne in azzurro entrarono in compagnia di un’altra donna, più alta, più magra, chiaramente originaria di un altro pianeta. Indossava una tuta scura e sulla spalla sinistra aveva la mostrina con la croce e il caduceo della Sanità della Flotta.

«Sono la dottoressa Molina» disse la donna, togliendo dallo zaino una valigetta nera. «Tutti gli skimmer della base sono impegnati in manovre militari e sono dovuta venire in barca, col giovanotto mandato a chiamarmi.» Mi applicò sul petto e sull’addome due cerotti diagnostici. «Non creda che abbia fatto solo per lei tutta questa strada. Uno skimmer della base è precipitato nei pressi di Keroa Tambat, ottanta chilometri a sud di qui, e devo badare ai feriti in attesa del ricovero ospedaliero. Niente di grave, solo contusioni e una gamba rotta. Per una sciocchezza del genere non hanno voluto togliere dal gioco uno skimmer.» Prese dalla valigetta un aggeggio manuale e controllò i dati che riceveva dai cerotti diagnostici. «Se lei è uno di quegli spaziali della Pax Mercatoria che qualche settimana fa sono sbarcati clandestinamente nello spazioporto» continuò «non si illuda di rubarmi medicinali e denaro. Viaggio in compagnia di due guardie di sicurezza che sono proprio qui fuori.» Si mise due auricolari. «Allora, giovanotto, cosa non va?»

Scossi la testa e digrignai i denti per combattere l’ondata di dolore che mi straziò la schiena in quel momento. Quando riuscii a parlare, dissi: «Non lo so, dottore… la schiena… nausea…»

Lei non badò alle mie parole e controllò l’aggeggio manuale. A un tratto si chinò su di me e mi premette l’addome, a sinistra. «Fa male?»

Quasi urlai. «Sì» ansimai, quando riuscii a parlare.

La dottoressa annuì e si rivolse alla donna in azzurro che mi aveva salvato. «Dica al prete che era con me di portarmi la borsa più grande. Quest’uomo è completamente disidratato. Bisogna montare una flebo. Appena sarà in funzione, gli somministrerò dell’ultramorfina.»

Mi resi conto allora di ciò che sapevo da quando, ancora bambino, guardavo mia madre morire di cancro, ossia che al di là di ideologia e ambizione, al di là del ragionamento e dell’emotività, c’era solo dolore. E salvezza dal dolore. In quel momento avrei fatto qualsiasi cosa per quella dottoressa della Flotta della Pax, scorbutica e chiacchierona.

«Cos’è?» domandai, mentre lei preparava un flacone e vari tubicini. «Da dove viene questo dolore?» La dottoressa aveva in mano una siringa ad ago di tipo antiquato e la riempiva da una fiala di ultramorfina. Se mi avesse detto che avevo contratto una malattia letale e che sarei morto prima di notte, non mi sarei lamentato, purché prima mi avesse fatto l’iniezione di analgesico.

«Calcolo renale» disse la dottoressa Molina.

Evidentemente mostrai di non avere capito, perché lei continuò: «Un sassolino nel rene… troppo grande per passare… probabilmente di calcio. Negli ultimi giorni ha avuto difficoltà a urinare?».

Ripensai all’inizio del viaggio e a prima. Non avevo bevuto abbastanza acqua e avevo attribuito a questo l’occasionale dolore e difficoltà nella minzione. «Sì, ma…»

«Calcolo renale» disse lei, sfregandomi con un batuffolo di cotone il polso sinistro. «Una punturina qui.» Inserì l’ago per endovena e lo fissò con un po’ di dermoplastica. La puntura dell’ago andò completamente perduta nella cacofonia di dolore alla schiena. Seguirono armeggiamenti con il tubicino endovenoso e l’inserimento della siringa in una sua propaggine. «Avrà effetto in un minuto» disse la dottoressa. «Dovrebbe eliminare il fastidio.»

Fastidio, lo chiamava! Chiusi gli occhi per non far vedere le lacrime di sollievo. La donna che mi aveva trovato accanto al pozzo mi tenne la mano.

Un minuto dopo, il dolore cominciò a svanire. Mai l’assenza di qualcosa era stata tanto benvenuta. Era come se un forte e terribile rumore fosse finalmente cessato, così da permettermi di pensare. Tornai di nuovo me stesso, mentre la sofferenza scendeva a livelli che avevo già conosciuto per ferite di coltello e ossa rotte. Quel dolore si poteva sopportare senza perdere la dignità. La donna in azzurro mi toccava il polso, mentre iniziava l’effetto dell’ultramorfina.

«Grazie» le dissi, con labbra secche e screpolate, stringendole la mano. «E grazie anche a lei, dottoressa Molina» soggiunsi al medico della Pax.

La dottoressa si chinò su di me e mi picchiettò le guance. «Fra poco si addormenterà» disse. «Ma prima mi occorrono delle risposte. Resti sveglio ancora per un minuto.»

Annuii, già intontito.

«Come si chiama?»

«Raul Endymion.» Mi resi conto di non poterle mentire. Di sicuro la flebo conteneva anche veritina o un’altra droga.

«Da dove viene, Raul Endymion?» Teneva l’apparecchio diagnostico come se fosse un registratore.

«Hyperion. Continente Aquila. Il mio clan era…»

«Come è arrivato a Chiusa Childe Lamonde, su Vitus-Gray-Balianus B? Raul, è uno degli spaziali sbarcati clandestinamente dal cargo della Pax Mercatoria il mese scorso?»

«Kayak.» Cominciavo a sentire la mia voce come se provenisse da molto lontano. Ero pervaso da un grande calore, quasi indistinguibile dal senso di sollievo che mi inondava. «Ho vogato lungo il fiume, in kayak» borbottai. «Dal teleporter. No, non sono uno degli spaziali che…»

«Teleporter?» ripeté la donna, perplessa. «Cosa significa che è venuto dal teleporter, Raul Endymion? Vuol dire che vi è passato sotto a colpi di remi come abbiamo fatto noi? Che vi è passato sotto nel viaggio a valle del fiume?»

«No» dissi. «Sono arrivato per teleporter. Da un altro pianeta.»

La dottoressa lanciò un’occhiata alla donna in azzurro, poi tornò a guardare me. «È arrivato da un altro pianeta? Vuol dire che… che il teleporter ha funzionato? Che l’ha teleportata qui?»

«Già.»

«Da dove?» domandò la dottoressa, controllandomi con la sinistra le pulsazioni.

«Vecchia Terra» risposi. «Sono venuto dalla Terra.»

Per un momento mi sentii galleggiare, gioiosamente libero dal dolore, mentre la dottoressa usciva nel corridoio a parlare con le due donne. Afferrai qualche brano.

«… mentalmente squilibrato, è chiaro» diceva la dottoressa. «Non è possibile che sia venuto da… illusioni della Vecchia Terra… forse uno degli spaziali, fatto di droga…»

«… lieta che rimanga…» disse la donna in azzurro. «Baderemo a lui finché…»

«Il prete e una delle guardie si tratterranno qui…» disse la dottoressa. «Quando lo skimmer ambulanza arriva a Keroa Tambat, ci fermiamo qui a prelevarlo mentre torniamo alla base… domani o dopodomani… non lo faccia andare via… probabilmente la polizia militare vorrà…»

Spinto a galla dalla crescente ondata di beatitudine per l’assenza di dolore, smisi di lottare contro la corrente e mi lasciai trasportare dal fiume nelle braccia di morfina.


Sognai una conversazione avuta con Aenea alcuni mesi prima. Era una fresca sera d’estate in pieno deserto e noi eravamo seduti nel vestibolo del suo riparo; bevevamo una tazza di tè e guardavamo spuntare le stelle. Parlavamo della Pax, ma per ogni lato negativo da me messo in evidenza, Aenea replicava mostrandomi un aspetto positivo. Alla fine mi arrabbiai.

"Senti" le dissi "parli della Pax come se non avesse tentato di catturarti e di ucciderti. Come se le navi della Pax non ci avessero dato la caccia per mezzo braccio della spirale e non ci avessero abbattuto su Vettore Rinascimento. Se lì non ci fosse stato il teleporter…"

"La Pax non ci ha dato la caccia, non ci ha sparato, non ha cercato di ucciderci" replicò piano Aenea. "L’hanno fatto alcuni elementi della Pax, ecco. Uomini e donne che eseguivano ordini giunti dal Vaticano o da altre parti."

"Be’" dissi, ancora esasperato e irritato "alcuni elementi della Pax bastano e avanzano per spararci e ucciderci…" Esitai un secondo. "Cosa significa, dal Vaticano o da altre parti? Pensi che ci siano altri che danno ordini? Diversi dal Vaticano, cioè?"

Aenea si strinse nelle spalle: un movimento aggraziato, ma fastidioso all’estremo. Una delle sue meno gentili peculiarità men che gentili da adolescente.

"Ci sono altri?" domandai, con un tono più brusco di quanto non fossi solito usare con la mia giovane amica.

"Ci sono sempre altri" disse placidamente Aenea. "Facevano bene a cercare di catturarci, Raul. O a cercare di uccidermi."

Nel sogno come nella realtà, posai la tazza di tè sulle fondamenta di pietra del vestibolo e fissai Aenea. "Dici che tu… e io… dovremmo essere catturati o uccisi… come animali? Che ne hanno il diritto?"

"No, certo" replicò Aenea, incrociando le braccia, mentre il vapore del tè si alzava dalle tazze nella fresca aria della sera. "Dico che la Pax ha ragione, dal suo punto di vista, a usare misure straordinarie nel tentativo di fermarmi."

Scossi la testa. "Non ti ho sentito dire niente di tanto sovversivo da indurii a mandare squadriglie di navi a darti la caccia, ragazzina. In realtà, la cosa più sovversiva ed eretica che ti ho sentito dire è che l’amore è una forza basilare dell’universo, al pari della gravità o l’elettromagnetismo. Ma sono solo…"

"Cazzate?" disse Aenea.

"Discorsi ambigui" precisai.

Aenea sorrise e si passò le dita fra i qprti capelli. "Raul, amico mio, il pericolo per loro non è nelle mie parole. È nelle mie azioni. In ciò che insegno, facendo… toccando."

La guardai. Avevo quasi dimenticato tutta la faccenda di "Colei che insegna", quella che suo zio, Martin Sileno, aveva inserito nel suo poema epico, i Canti. Aenea doveva essere il messia che il vecchio poeta, circa due secoli fa, aveva profetizzato nel suo lungo e confuso poema; così almeno mi aveva detto lui. Fino a quel momento avevo visto nella bambina ben poco che facesse pensare a qualità messianiche, a meno di contare il suo viaggio nel futuro per mezzo di una delle Tombe del Tempo, la Sfinge, e l’ossessione della Pax per la sua cattura o la sua uccisione… e la mia, visto che ero il suo tutore nel tempestoso viaggio fino alla Vecchia Terra.

"Non ti ho sentito insegnare granché di eretico o di pericoloso" dissi di nuovo, in tono quasi imbronciato. "E neppure ti ho visto fare cose che siano una minaccia per la Pax." Con un gesto inclusi la sera, il deserto, i lontani edifici illuminati della Compagnia Taliesin; e ora, nel mio sogno sotto ultramorfina, che era più ricordo che sogno, vidi me stesso fare quel gesto, come se mi trovassi a guardare dal buio fuori del riparo illuminato.

Aenea scosse la testa e sorseggiò il tè. "Tu non capisci, Raul, ma loro capiscono! Già parlano di me come di un virus. Hanno ragione: è esattamente ciò che potrei essere per la Chiesa. Un virus, come l’antico ceppo HIV sulla Vecchia Terra o come la Morte Rossa che imperversò nei pianeti della Periferia dopo la Caduta. Un virus che invade ogni cellula dell’organismo e ne riprogramma il DNA… o almeno infetta un sufficiente numero di cellule, per cui l’organismo crolla, viene meno… muore."

Nel mio sogno, piombai sul riparo di tela e di pietra di Aenea, come un falco nella notte, roteando in alto fra le stelle aliene sopra la Vecchia Terra e vedendo noi — la ragazzina e l’uomo — seduti alla luce della lanterna a cherosene del vestibolo, anime perdute in un mondo perduto. Proprio ciò che eravamo.


Per i due giorni seguenti andai alla deriva, dentro e fuori il dolore e la coscienza, come una barchetta che, staccatasi dall’ormeggio, passi nell’oceano da raffiche di pioggia a chiazze di sole. Bevvi grandi quantità di acqua che le donne in azzurro mi portavano in bicchieri di vetro. Zoppicai fino al gabinetto e urinai in un filtro, cercando il calcolo che mi causava sofferenza. Niente calcolo. Ogni volta tornavo zoppicando al letto e aspettavo che il dolore ricominciasse. Non mancava mai di ricominciare. Perfino a quel tempo mi rendevo conto che la mia situazione non era l’essenza di eroiche avventure.

Prima che la dottoressa riprendesse il viaggio a valle del fiume fino al luogo del disastro dello skimmer, mi fu fatto capire che la guardia della Pax e il prete avevano un trasmettitore e che avrebbero avvertito la base, se avessi provocato guai di qualsiasi genere. La dottoressa Molina mi spiegò chiaramente che me la sarei vista davvero brutta, se il comandante della Flotta della Pax avesse dovuto togliere dalle manovre uno skimmer solo per prelevare prima del tempo un prigioniero. Intanto, mi disse, dovevo continuare a bere grandi quantità di acqua e a urinare ogni volta che mi era possibile. Se non avessi espulso il calcolo, mi avrebbe portato nell’infermeria della prigione, alla base, dove avrebbero frantumato con gli ultrasuoni la concrezione calcarea. Lasciò alla donna in azzurro altre quattro fiale di ultramorfina e se ne andò senza salutare. La guardia, un lusiano di mezza età, il doppio del mio peso, con una pistola a fléchettes nella fondina e un persuasore neurale nelle cintura, venne a dare un’occhiata nella stanza, mi lanciò uno sguardo di fuoco, tornò fuori e prese posizione davanti alla porta di casa.

Smetterò di riferirmi alla padrona di casa chiamandola "la donna in azzurro". Durante le prime ore di sofferenza, per me lei era stata solo quello, oltre che la mia salvatrice, naturalmente, ma nel pomeriggio del primo giorno in casa sua venni a sapere che si chiamava Dem Ria; che il suo primo partner matrimoniale era l’altra donna, Dem Loa; che il terzo membro del loro matrimonio a tre era l’uomo molto più giovane, Alem Mikail Dem Alem; che la ragazzina era Ces Ambre, figlia di Alem, nata da una precedente tri-unione; che il bambino pallido e senza capelli, di circa otto anni standard all’apparenza, si chiamava Bin Ria Dem Loa Alem, era figlio dell’attuale tri-unione (ma non scoprii mai quale delle due donne fosse la madre biologica) e stava morendo di cancro.

«Lo scorso inverno, il medico anziano del villaggio, morto un mese fa e mai rimpiazzato, ha mandato Bin al nostro ospedale a Keroa Tambat, ma hanno potuto solo sottoporlo a radiazioni e a chemioterapia, nella speranza che tutto si risolvesse per il meglio» mi disse Dem Ria, mentre mi teneva compagnia, seduta accanto al letto, quel pomeriggio. Dem Loa sedeva accanto a lei, su una sedia a schienale dritto. Avevo fatto domande sul bambino per cambiare argomento e non pensare ai miei guai. Le lunghe e ampie vesti delle due donne risplendevano di un intenso blu cobalto, mentre la luce del sole alle loro spalle cadeva, pastosa e rossa come sangue, sulla parete di mattoni. Tendine di merletto tagliavano la luce e le ombre in complicati chiaroscuri. Scambiavamo due chiacchiere negli intervalli fra le mie ondate di dolore. In quel momento la schiena mi doleva come se mi avessero colpito con un pesante bastone, ma era un dolore sordo, a paragone della rovente sofferenza provocata dai movimenti del calcolo. Secondo la dottoressa, il dolore era buon segno: quando il dolore era più forte, il calcolo si muoveva. Infatti il dolore pareva avere il centro nella parte inferiore dell’addome. Ma la dottoressa aveva anche detto che potevano essere necessari dei mesi per espellere il calcolo, se era abbastanza piccolo da essere espulso naturalmente. Molti calcoli dovevano essere frantumati o rimossi chirurgicamente. Riportai la mente alla salute del bambino.

«Radiazioni e chemioterapia» ripetei, formulando con disgusto quelle parole. Era come se Dem Ria avesse detto che il medico aveva prescritto al bambino sanguisughe e sorsi di mercurio. L’Egemonia sapeva come curare il cancro, ma dopo la Caduta gran parte della scienza e della tecnologia per la modifica personalizzata dei geni era andata perduta. Inoltre, dopo la scomparsa della Rete dei Mondi, ciò che non era andato perduto era stato reso troppo costoso per le persone comuni: la Pax Mercatoria trasportava beni e generi di consumo fra le stelle, ma il procedimento era lento, costoso e limitato. La medicina era tornata indietro di parecchi secoli. Anche mia madre era morta di cancro: dopo la diagnosi alla clinica delle Brughiere, gestita dalla Pax, e avere rifiutato le radiazioni e la chemioterapia.

D’altro canto, perché curare una malattia fatale, quando si poteva guarire mediante la morte e la risurrezione offerta dal crucimorfo? Perfino alcune malattie di origine genetica erano "curate" dal crucimorfo durante la ricostruzione del corpo per la risurrezione. E la morte, faceva notare la Chiesa, era un sacramento come la risurrezione stessa. Poteva essere offerta come una preghiera. La persona media poteva ora trasformare il dolore e la disperazione della malattia e della morte nella gloria del sacrificio di Cristo redentore. Purché la persona media portasse su di sé un crucimorfo.

Mi schiarii la gola. «Ah… Bin non ha… voglio dire…» Quando il bambino mi aveva fatto segni di saluto, quella notte, aveva lasciato vedere, dalla camicia aperta, il torace, pallido e privo di crucimorfo.

Dem Loa scosse la testa, nascosta dal cappuccio della veste, di una stoffa trasparente simile a seta. «Ancora nessuno di noi ha accettato la croce» mi spiegò. «Ma padre Clifton comincia a… convincerci.»

Riuscii solo ad annuire: il dolore alla schiena e all’inguine stava tornando come una corrente elettrica che mi percorresse tutti i nervi.

Dovrei chiarire perché i vari gruppi di abitanti di Chiusa Childe Lamonde, sul pianeta Vitus-Gray-Balianus B, si differenziavano per il colore delle vesti. Poco più di un secolo fa, mi aveva spiegato Dem Ria con la sua voce bassa e melodiosa, la maggior parte delle persone ora insediate lì nei territori bagnati dal lungo fiume era emigrata dal vicino sistema solare Lacaille 9352. Il pianeta di quel sistema, in origine chiamato Amarezza di Sibiatu, era stato ricolonizzato da fanatici religiosi della Pax che l’avevano ribattezzato Grazia Ineluttabile e avevano iniziato a fare proseliti fra le società indigene sopravvissute alla Caduta. La cultura di Dem Ria — una nobile società filosofica che metteva l’accento sulla cooperazione — decise di emigrare di nuovo, piuttosto che lasciarsi convertire. Ventisettemila persone avevano speso le loro ricchezze e rischiato la vita per riattrezzare un’antica nave coloniale dell’Egira e, con un viaggio di quarantanove anni in crio-fuga, trasferire tutti — uomini, donne, bambini, animali domestici, armenti — sul vicino pianeta Vitus-Gray-Balianus B, colonizzato all’epoca della Rete dei Mondi, ma rimasto spopolato in seguito alla Caduta.

Il popolo di Dem Ria si definiva Spettroelica di Amoiete, dal sinfo-olo-poema epico filosofico di Halpul Amoiete. Nel suo poema Amoiete aveva usato i colori dello spettro come una metafora dei valori positivi umani e aveva illustrato le sovrapposizioni, interazioni, sinergie e collisioni elicoidali create da quei valori. La sinfonia Spettroelica di Amoiete prevedeva la rappresentazione scenica, dove la musica, la poesia e lo spettacolo olografico rappresentavano l’interazione filosofica. Dem Ria e Dem Loa spiegarono come la loro cultura aveva preso a prestito da Amoiete il significato dei colori: bianco per la purezza dell’onestà intellettuale e dell’amore fisico; rosso per la passione dell’arte, della convinzione politica e del coraggio fisico; azzurro per le rivelazioni introspettive della musica, della matematica, della terapia personale per aiutare gli altri e per il progetto di stoffe e tessuti; verde smeraldo per la risonanza con la natura, il conforto con la tecnologia e la difesa delle forme di vita minacciate; ebano per la creazione dei misteri umani e così via. Le tri-unioni, la non violenza e altre peculiarità culturali derivavano in piccola parte dalla filosofia di Amoiete e in gran parte dalla ricca cultura cooperativistica che il popolo Spettroelica aveva creato su Amarezza di Sibiatu.

«Così padre Clifton cerca di convincervi a unirvi alla Chiesa?» dissi, quando il dolore diminuì e il momento di calma mi permise di pensare e di parlare.

«Sì» disse Dem Loa. Intanto il loro tri-coniuge, Alem Mikail Dem Alem, era venuto a sedersi sul davanzale di mattoni. Ascoltava la nostra conversazione, ma interveniva di rado.

«E voi di quale idea siete?» domandai, cambiando posizione per distribuire il dolore su tutta la schiena. Da alcune ore non chiedevo l’ultramorfina. Ora avevo una voglia matta di chiederla subito.

Dem Ria alzò le mani in un complicato gesto che mi ricordò quello preferito di Aenea. «Se tutti noi accettiamo la croce, il piccolo Bin Ria Dem Loa Alem può ricevere cure mediche a Bombasino, la base della Pax. Anche se non guariranno il cancro, Bin… tornerà a noi… dopo.» Abbassò lo sguardo e nascose nelle pieghe della veste le mani fin troppo espressive.

«Non lasceranno che il solo Bin accetti la croce.»

«No, certo» disse Dem Loa. «La loro prassi è che l’intera famiglia si converta. Comprendiamo le loro ragioni. Padre Clifton se ne duole molto, ma si augura di cuore che accettiamo i sacramenti di Gesù Cristo prima che per Bin sia troppo tardi.»

«E vostra figlia, Ces Ambre, è disposta a diventare cristiana rinata?» Mi rendevo conto di quanto fossero personali quelle domande, ma ero incuriosito, e il pensiero della sofferta decisione che dovevano prendere mi distoglieva dal mio dolore, molto reale anche se meno importante.

«A Ces Ambre piace moltissimo l’idea di unirsi alla Chiesa e di divenire cittadina della Pax a buon diritto» disse Dem Loa, alzando il viso sotto il leggero cappuccio azzurro. «Così potrebbe frequentare l’accademia della Chiesa a Bombasino o a Keroa Tambat; ritiene che i ragazzi e le ragazze di lì offrirebbero prospettive di matrimonio molto più interessanti.»

Aprii bocca per parlare, mi fermai, poi parlai ugualmente. «Ma la tri-unione non sarebbe… voglio dire, la Pax permetterebbe…»

«No, infatti» disse Alem, dal suo posto sul davanzale. Corrugò la fronte e negli occhi grigi lasciò trapelare la tristezza. «La Chiesa non consente unioni omosessuali o multiple. La nostra famiglia sarebbe distrutta.»

Notai l’occhiata che si scambiarono: avrei ricordato per anni l’amore e il senso di perdita che lessi in quegli sguardi.

Dem Ria sospirò. «Ma questo è inevitabile comunque. Penso che padre Clifton abbia ragione… Dobbiamo farlo adesso, per Bin, senza aspettare che muoia della vera morte e ci lasci per sempre, e poi unirci alla Chiesa. Preferirei portare il nostro piccolo a messa la domenica e ridere con lui nel sole, dopo, anziché andare nella cattedrale ad accendere una candela alla sua memoria.»

«Perché è inevitabile?» domandai piano.

Dem Loa ripeté ancora quel gesto aggraziato. «La nostra società Spettroelica è condizionata dal numero dei suoi membri, tutti i passi e i componenti dell’Elica devono essere al loro posto perché l’interazione operi verso il progresso umano e il bene morale. Un numero sempre maggiore di membri dello Spettro abbandona il proprio colore e si unisce alla Pax. Il centro non reggerà.»

Dem Ria mi toccò il braccio come per sottolineare le parole che stava per dire. «La Pax non ci ha costretti in nessun modo» spiegò piano. La sua piacevole voce si alzava e si abbassava col fruscio del vento fra le tende di merletto. «Rispettiamo il fatto che riservino le medicine e il miracolo della risurrezione a coloro che si uniscono a loro…» Si interruppe.

«Ma è dura» disse Dem Loa, con voce a un tratto stridente.

Alem Mikail Dem Alem scese dal davanzale e andò a inginocchiarsi fra le due donne sedute. Con gentilezza infinita toccò il polso di Dem Loa. Circondò col braccio Dem Ria. Per un momento i tre furono dimentichi del mondo e di me, racchiusi nel loro amore e nella loro pena.

E poi il dolore tornò come una lancia di fuoco nella schiena e nel basso ventre, mi cauterizzò come un laser. Mio malgrado, mi sfuggì un gemito.

I tre si staccarono con movimenti aggraziati, decisi. Dem Ria andò a prendere la siringa di ultramorfina.


Il sogno cominciò come il precedente — volavo di notte sul deserto dell’Arizona, guardavo in basso Aenea e me che bevevamo tè e parlavamo nel vestibolo del suo riparo — ma stavolta la discussione andò molto al di là del ricordo della nostra vera conversazione di quella notte.

"Come mai sei un virus?" chiedevo alla ragazzina accanto a me. "Come può un qualsiasi tuo insegnamento rappresentare una minaccia per una organizzazione del calibro e del potere della Pax?"

Aenea guardava nella notte del deserto, assaporava la fragranza dei fiori notturni che si schiudevano. Quando parlò, non mi guardò in viso. "Sai qual è l’errore più grave nei Canti di zio Martin, Raul?"

"No" risposi. Negli anni scorsi mi aveva già fatto notare diversi errori, omissioni o ipotesi sbagliate; alcuni li avevamo scoperti insieme durante il viaggio alla Vecchia Terra.

"Un duplice errore" disse piano Aenea. Da qualche parte, nella notte del deserto, un falco mandò il suo richiamo. "Primo, credeva a ciò che il TecnoNucleo aveva detto a mio padre."

"Sul fatto che erano stati loro a trafugare la Terra?"

"Su tutto" disse Aenea. "Quando parlò al cìbrido John Keats, Ummon mentiva."

"Perché mentire? Tanto, avevano già progettato di distruggerlo."

Aenea mi fissò. "Mia madre era presente, registrava la conversazione. E il Nucleo sapeva che l’avrebbe riferita a zio Martin."

Annuii lentamente. "E sapeva che lui l’avrebbe inserita come verità nel poema epico che stava scrivendo. Ma perché avrebbero mentito su…"

"Il suo secondo errore era più oscuro e grave" mi interruppe Aenea senza alzare la voce. A nord e a ovest c’era ancora il lieve chiarore dietro le montagne. "Zio Martin credeva che il TecnoNucleo fosse nemico della specie umana."

Posai sul ripiano di pietra la tazza di tè. "Perché lo definisci un errore? Il Nucleo non è davvero il nostro nemico?"

Visto che Aenea non rispondeva, alzai la mano, tenendo allargate le dita. "Primo: secondo i Canti, il TecnoNucleo era la vera forza dietro l’attacco all’Egemonia che portò alla Caduta dei teleporter. Non gli Ouster, il Nucleo. La Chiesa l’ha negato, ha attribuito agli Ouster la responsabilità. Vuoi dire che la Chiesa ha ragione e che il vecchio poeta si sbaglia?"

"No. A orchestrare l’attacco è stato il Nucleo."

"Miliardi di morti" dissi, schizzando saliva per lo sdegno. "L’Egemonia rovesciata. La Rete distrutta. L’astrotel tagliato…"

"Il TecnoNucleo non ha tagliato l’astrotel" mi corresse Aenea.

"D’accordo" dissi. Presi fiato. "Di quello è responsabile una misteriosa entità… i tuoi Leoni e Tigri e Orsi, diciamo. Però dietro l’attacco c’era il Nucleo."

Aenea annuì e si versò ancora un po’ di tè.

Piegai il pollice contro il palmo e toccai l’indice. "Secondo: il TecnoNucleo ha o non ha usato i teleporter come una sorta di sanguisuga cosmica per succhiare le reti neurali umane e utilizzarle per quel suo maledetto progetto, l’Intelligenza Finale? Ogni volta che qualcuno usava il teleporter, veniva… usato… da quelle maledette intelligenze autonome. Giusto o sbagliato?"

"Giusto" disse Aenea.

"Terzo" dissi, piegando l’indice e toccando il medio. "Nel poema di tuo zio Martin, la figlia del pellegrino Sol Weintraub, Rachel, tornata con le Tombe del Tempo dal futuro, parla di un’epoca ancora da venire in cui…" cambiai il tono di voce e citai: "’infuriava la guerra decisiva fra l’Intelligenza Finale generata dal Nucleo e lo spirito umano’. Era un errore?"

"No" disse Aenea.

"Quarto" dissi, sentendomi un po’ sciocco per quel contare sulle dita, ma abbastanza irritato da continuare. "Il Nucleo non ha ammesso con tuo padre di averlo creato, di avere creato il suo cìbrido John Keats, solo come trappola per, come lo chiamarono?, il componente empatico dell’Intelligenza Finale umana che sarebbe esistito in un imprecisato periodo del futuro?"

"Così hanno detto loro" ammise Aenea, sorseggiando il tè. Pareva divertita. La cosa mi irritò ancora di più.

"Quinto" dissi, piegando anche il mignolo, cosicché la mia destra era un pugno. "Non è stato il Nucleo, oltre alla Pax, diavolo, il Nucleo lo ordinò alla Pax!, a tentare di catturarti e di ucciderti su Hyperion, su Vettore Rinascimento, su Bosco Divino, su e giù per mezza galassia?"

"Sì" ammise piano Aenea.

"E non è stato il Nucleo" continuai con rabbia, senza badare al conteggio sulle dita e al fatto che parlavamo degli errori del vecchio poeta "a creare quella… mostruosità… che su Bosco Divino ha fatto in modo di tagliare un braccio al povero A. Bettik e avrebbe messo in un sacchetto la tua testa, se non fosse intervenuto lo Shrike?" Ero talmente arrabbiato che agitai il pugno. "Non è stato il fottuto Nucleo a cercare di uccidere me, oltre che te? Lo stesso che probabilmente ci ucciderà, se saremo tanto stupidi da tornare nello spazio della Pax?"

Aenea annuì.

Ero quasi senza fiato, mi sentivo come se avessi fatto una corsa di cinquanta metri. "E allora?" conclusi, aprendo il pugno.

Aenea mi toccò il ginocchio. Come sempre, quando avevo un contatto fisico con lei, provai un brivido simile a una scossa elettrica. "Raul, non ho detto che il Nucleo sia innocente. Ho solo detto che zio Martin ha fatto un errore nel dipingerlo come il nemico della specie umana."

"Ma se tutti i fatti che ho elencato sono veri…" Scossi la testa, confuso.

"Alcuni elementi del Nucleo hanno attaccato la Rete, prima della Caduta" disse Aenea. "Dall’incontro di mio padre con Ummon sappiamo che il Nucleo non era d’accordo su molte decisioni."

"Ma…"

Aenea alzò la mano, palma in fuori. Rimasi in silenzio.

"Hanno usato le nostre reti neurali per il loro progetto Intelligenza Finale" disse. "Ma non c’è prova che questo abbia danneggiato degli esseri umani."

A quelle parole restai a bocca aperta. L’idea che le maledette IA usassero cervelli umani come bolle neurali nel loro fottuto progetto mi dava la nausea. "Non ne avevano alcun diritto!" protestai.

"No, certo" convenne Aenea. "Avrebbero dovuto chiedere il permesso. Tu cosa avresti risposto?"

"Che andassero a fottersi da soli" dissi, rendendomi conto, mentre parlavo, dell’assurdità di quel suggerimento applicato a intelligenze autonome.

Aenea sorrise di nuovo. "Di sicuro non ti sarà sfuggito che da più di mille anni usiamo per i nostri scopi il loro potere mentale! Non credo che qualcuno abbia chiesto il permesso ai loro antenati, quando abbiamo creato le prime IA di silicio o le prime entità a bolla magnetica e DNA, se è per questo."

Gesticolai con rabbia. "Non è la stessa cosa!"

"Certo. Il gruppo di IA dette Finali ha creato problemi alla specie umana in passato e li creerà in futuro, compresi i tentativi di uccidere te e me. Ma è solo una parte del Nucleo."

Scossi la testa. "Non capisco, ragazzina" dissi, in tono ora più calmo. "Sostieni davvero che esistono IA buone e IA cattive? Dimentichi che hanno preso realmente in esame la possibilità di distruggere la specie umana? E che possono ancora farlo, se ci considerano un ostacolo? Per me questo li rende nemici dell’uomo."

Aenea mi toccò di nuovo il ginocchio. Ora nei suoi occhi non c’era traccia di divertimento. "Non dimenticare, Raul, che anche l’uomo è andato molto vicino a distruggere la specie umana. Capitalisti e comunisti erano pronti a far saltare in aria la Terra, quando la Terra era l’unico pianeta da noi abitato. E per cosa?"

"Già" dissi debolmente "però…"

"E mentre parliamo, la Chiesa è pronta a distruggere gli Ouster. Genocidio… su una scala che la nostra specie non ha mai visto."

"La Chiesa, e un mucchio di altri, non considera esseri umani gli Ouster."

"Sciocchezze" ribatté Aenea, brusca. "Certo che sono esseri umani. Si sono evoluti dalle comuni origini umano-terrestri, proprio come le IA del TecnoNucleo. Tutt’e tre le specie sono orfani nella tempesta."

"Tutt’e tre le specie…" ripetei. "Cristo, Aenea, anche il Nucleo rientra nella tua definizione di specie umana?"

"L’abbiamo creato noi" disse lei, piano. "All’inizio abbiamo usato DNA umano per aumentare il potere di calcolo delle IA, la loro intelligenza. Avevamo i robot. Quelli hanno creato cìbridi dal DNA umano e da personalità IA. Proprio ora abbiamo al potere una istituzione umana che dà tutta la gloria e pretende tutto il potere per la sua lealtà e il suo legame verso Dio… l’Intelligenza Finale umana. Forse il Nucleo si trova in una simile situazione, con i Finali al comando."

Rimasi a guardarla come un allocco. Non capivo.

Aenea mi mise sul ginocchio anche l’altra mano: sentivo le forti dita, attraverso il tessuto di saia dei calzoni. "Raul, ricordi cosa disse Ummon al secondo cìbrido Keats? È riportato fedelmente nei Canti. Ummon parlava in una sorta di koan zen… o almeno è così che zio Martin l’ha trascritto."

Chiusi gli occhi per ricordare quella parte del poema epico. Era passato molto tempo da quando nonna e io facevamo a turno a recitarlo intorno al fuoco di bivacco del nostro carrozzone.

Mentre le parole mi si formavano nella memoria, Aenea mi anticipò: "Ummon disse al secondo cìbrido Keats:


"[Devi capire/

Keats/

la nostra sola possibilità

era di creare un ibrido

Figlio d’Uomo/

Figlio di Macchina\\

E rendere quel rifugio così allettante

che l’Empatia in fuga

non avrebbe considerato altra casa/\

Una coscienza già quasi divina

come l’umanità ha offerto in trenta

generazioni\

un’immaginazione che può attraversare

spazio e tempo\\

E così offrendo/

e unendosi/

forma un legame fra mondi

che forse permetterà

a quel mondo d’esistere

per entrambi]."


Mi lisciai la guancia e meditai. Il vento notturno faceva muovere le pieghe di tela dell’ingresso del riparo di Aenea e portava dal deserto piacevoli profumi. Insolite stelle pendevano sulle vecchie montagne della Terra stagliate all’orizzonte.

"L’Empatia era ritenuta il componente in fuga della Intelligenza Finale umana" dissi con lentezza, come se risolvessi una crittografia. "Parte della nostra coscienza umana evolutasi nel futuro, tornata indietro nel tempo."

Aenea mi guardò.

"L’ibrido era il cìbrido John Keats" continuai. "Figlio d’Uomo e di Macchina."

"No" disse Aenea, piano. "Questo è il secondo malinteso di zio Martin. I cìbridi Keats non furono creati per essere il rifugio dell’Empatia in questa epoca. Furono creati per essere lo strumento di quella fusione tra il Nucleo e la specie umana. Per fare un figlio, in altre parole."

Guardai le mani di quella ragazzina, posate sul mio ginocchio. "Allora tu sei la coscienza ’quasi divina come l’umanità ha offerto in trenta generazioni’?"

Aenea si strinse nelle spalle.

"E hai… ’un’immaginazione che può attraversare spazio e tempo’?"

"Tutti gli esseri umani ce l’hanno" disse Aenea. "Solo che io, quando sogno e immagino, riesco a vedere cose che accadranno davvero. Non ti ho già detto che ricordo il futuro?"

"Già."

"Bene, in questo stesso istante ricordo che fra alcuni mesi sognerai questa conversazione, disteso in un letto, in preda a terribili dolori purtroppo, su un pianeta dal nome complicato, in una casa dove tutte le persone vestono di azzurro."

"Dove?"

"Lascia perdere. Avrà un senso quando accadrà. Tutte le improbabilità hanno un senso, quando le onde di probabilità collassano nell’evento."

"Aenea" mi sentii dire, mentre volavo in cerchi ancora più alti sulla casa nel deserto, guardando me stesso e la ragazzina rimpicciolire "dimmi qual è il tuo segreto… il segreto che ti rende messia, legame fra mondi’."

"E va bene, Raul, amore mio" disse lei, comparendomi a un tratto come donna adulta, l’attimo prima che fossi troppo in alto per scorgere i particolari o udire le singole parole sopra il fruscio dell’aria contro le mie ali di sogno. "Te lo dirò. Ascolta."

9

Dopo quattro traslazioni nei sistemi Ouster, per la task force Gedeone il massacro era diventato una scienza.

Il padre capitano de Soya sapeva, dai corsi di storia militare alla Scuola di comando della Flotta della Pax, che quasi tutti gli scontri spaziali combattuti a più di una unità astronomica da un pianeta, luna, asteroide o punto strategico, avvenivano di comune accordo. Ricordava che la stessa cosa era valida per il primitivo naviglio oceanico sulla Vecchia Terra pre-Egira, dove la maggior parte delle grandi battaglie navali era stata combattuta in vista della terraferma sugli stessi fatali campi d’acqua; solo la tecnologia delle navi di superficie era lentamente cambiata, dalle triremi greche alle corazzate dallo scafo di ferro. Le portaerei, con i loro cacciabombardieri a lungo raggio, avevano cambiato per sempre lo stato di cose, consentendo alle armate navali di colpirsi a vicenda in mare aperto e da grande distanza; ma quelle battaglie erano molto diverse dai leggendari scontri navali dove le grosse navi da guerra si scambiavano cannonate in vista l’una dell’altra. Anche prima che missili Cruise, testate nucleari tattiche e rudimentali armi a particelle caricate ponessero per sempre fine all’era del naviglio combattente oceanico di superficie, le flotte della Vecchia Terra avevano nostalgia dei tempi delle bordate roventi e del mirino.

La guerra spaziale aveva riportato in auge gli scontri concordati. Le grandi battaglie ai tempi dell’Egemonia — riguardassero le antiche guerre intestine contro il generale Horace Glennon-Height e tipi della sua risma o i secoli di guerra fra i mondi della Rete e gli sciami Ouster — si erano svolte solitamente nelle vicinanze di un pianeta o di un teleporter situato nello spazio. E le distanze fra i contendenti, considerati gli anni luce e i parsec percorsi dalle flotte da guerra, erano assurdamente brevi, centinaia di migliaia di chilometri, a volte decine di migliaia, spesso ancora meno. Ma quell’avvicinarsi al nemico era necessario, dato il tempo occorrente a una lancia laser alimentata a energia di fusione, ai raggi d’energia CPB o ai comuni missili d’assalto per superare anche una sola unità astronomica — sette minuti, perché la luce percorresse la distanza tra l’ipotetico colpo mortale e il bersaglio, un tempo molto più lungo anche per il missile a più alta spinta — dove la caccia, l’inseguimento e la distruzione del bersaglio potevano richiedere giorni di ricerca e di contromisure, di attacchi e di parate. Navi con risorse C-più non avevano alcun incentivo a trattenersi nello spazio nemico in attesa di missili autocercanti e la restrizione sulle IA nelle testate, sostenuta dalla Chiesa, rendeva nel migliore dei casi problematica l’efficacia di quelle armi. Così la forma delle battaglie spaziali nel corso dei secoli dell’Egemonia era stata semplice: flotte che traslavano nello spazio controverso e che trovavano altre flotte traslate o difese planetarie più statiche; un rapido avvicinamento a distanze più micidiali; un breve ma terribile scambio di colpi a energia; l’inevitabile ritirata delle forze più danneggiate — o la distruzione totale, se le forze difensive non avevano dove ritirarsi — seguita dal consolidamento dello spazio conquistato da parte della flotta vittoriosa.

Tecnicamente, le più lente navi su cui de Soya aveva prestato servizio in precedenza avevano un notevole vantaggio tattico sugli incrociatori a balzo istantaneo classe Arcangelo. Il risveglio dal sonno in crio-fuga richiedeva solo alcune ore nel caso peggiore e alcuni minuti nel caso migliore, perciò il capitano e l’equipaggio di una nave a motore Hawking erano pronti a combattere dopo breve tempo dalla traslazione C-più. Nel caso delle navi classe Arcangelo, perfino con la dispensa papale per il rischioso ciclo accelerato di risurrezione, occorrevano come minimo cinquanta ore standard perché gli elementi umani fossero pronti a combattere. In teoria questo fatto dava un grande vantaggio a chi si difendeva. In teoria la Pax avrebbe potuto ottimizzare l’uso delle navi a propulsione Gideon lanciando nella zona nemica spaziomobili senza equipaggio pilotate da IA, che seminassero distruzione e tornassero al punto di partenza prima che i difensori capissero d’essere attaccati.

Ma questa teoria non poteva essere applicata: la Chiesa non permetteva intelligenze autonome capaci di simile e complessa logica avanzata. Cosa ancora più importante, la Flotta della Pax aveva progettato strategie d’attacco che si conformassero alle esigenze della risurrezione, in modo che nessun vantaggio fosse concesso a chi si difendeva. In altre parole, non si sarebbero combattute battaglie su accordo reciproco. Le sette navi Arcangelo erano progettate per calare sul nemico come il corazzato pugno di Dio: proprio ciò che facevano in quel momento.

Nelle prime tre incursioni della task force Gedeone nello spazio Ouster, la nave della madre capitano Stone, la Gabriele, traslò per prima e decelerò violentemente a velocità planetaria, dispiegando tutte le sonde a lungo raggio a sensori elettromagnetici, a neutrini e di altro tipo. Le limitate IA a bordo della Gabriele bastavano a catalogare posizione e identità di tutte le posizioni difensive e dei centri popolati nel sistema solare attaccato e a monitorare nello stesso tempo il lento movimento in ambito planetario di tutto il naviglio militare e mercantile Ouster.

A trenta minuti di intervallo, le navi Uriele, Raffaele, Remiele, Sariele e Michele traslavano nel sistema solare. Scesa di colpo a solo tre quarti della velocità della luce, la task force si muoveva con la rapidità di un proiettile nei confronti delle lente navi torcia Ouster in accelerazione. Ricevuti dalla Gabriele, su banda criptata, i dati e le posizioni dei bersagli, la task force apriva il fuoco, con armi non soggette alle limitazioni della velocità della luce. I missili ipercinetici a propulsione Hawking sbucavano fra le navi nemiche e sopra i centri popolati; alcuni sfruttavano velocità e precisione di mira per distruggere i bersagli, altri generavano esplosioni miste, termonucleari e al plasma, accuratamente sagomate. Intanto, sonde recuperabili a propulsione Hawking balzavano nei punti bersaglio, traslavano nello spazio reale, irradiavano, come tanti micidiali ricci di mare, scariche di raggi convenzionali e di energia CPB, distruggevano tutto e chiunque in un raggio di centomila chilometri.

Cosa più terribile, i raggi della morte spazzavano come falci invisibili lo spazio davanti alle navi della task force, si propagavano nella scia Hawking delle sonde e dei missili e traslavano nello spazio reale, precisi come la terribile e rapida spada di Dio. Innumerevoli triliardi di sinapsi erano bruciati e rimescolati in un istante. Decine di migliaia di Ouster morivano senza sapere di essere stati attaccati.

E poi la task force Gedeone tornava all’interno del sistema, su code di fiamma lunghe migliaia di chilometri, e si preparava al massacro conclusivo.


Ciascuno dei sette sistemi solari da assalire era stato sondato con spaziomobili senza pilota, la presenza di Ouster era stata confermata, i bersagli preliminari erano stati assegnati. Ciascuno dei sette sistemi aveva un nome — di solito la designazione alfanumerica del Nuovo Catalogo Generale Rivisto — ma il gruppo di comando a bordo dell’ASS Uriele aveva dato a ciascuno dei sette bersagli il nome di uno dei sette arcidemoni citati nel Vecchio Testamento.

Il padre capitano de Soya ritenne un po’ esagerata quella numerologia cabalistica, sette navi Arcangelo, sette sistemi bersaglio, sette arcidemoni, sette peccati capitali. Ma presto prese l’abitudine di parlare dei bersagli in quel modo stenografico.

I sistemi bersaglio erano: Belfagor (accidia), Leviatano (invidia) Belzebù (gola), Satana (ira), Asmodeo (lussuria), Mammone (cupidigia) e Lucifero (orgoglio).

Belfagor era stato il sistema solare di una nana rossa che ricordava a de Soya la stella di Barnard; ma invece del piacevole e pienamente terraformato mondo di Barnard in orbita nelle vicinanze del sole, l’unico pianeta di Belfagor era un gigante gassoso somigliante al figlio dimenticato della stella di Barnard, Turbine. Intorno a quel gigante gassoso senza nome c’erano veri e propri bersagli militari: stazioni di rifornimento per le navi torcia dello sciame Ouster diretto all’attacco della Grande Muraglia della Pax, gigantesche navi cisterna che trasportavano i gas dal pianeta all’orbita, decine di bacini di riparazione e di cantieri navali. Dalla Raffaele, de Soya li attaccò senza esitare e li ridusse a lava orbitante.

La task force Gedeone trovò la maggior parte dei veri centri popolati Ouster in orbita nei punti troiani al di là del gigante gassoso: decine e decine di piccole foreste orbitali brulicanti di migliaia e migliaia di "angeli" adattati allo spazio, molti dei quali spalancarono le ali a campo di forza per catturare la debole luce del sole rosso, travolti dal panico per l’avvicinarsi della task force. Le sette navi Arcangelo devastarono quelle delicate ecostrutture, distrassero tutte le foreste e gli asteroidi pastore e le comete d’irrigazione, bruciarono gli angeli Ouster in fuga, come tante falene messe sulla fiamma, il tutto senza neppure un rallentamento significativo fra l’entrata e l’uscita dai punti di traslazione.

Il secondo sistema, Leviatano, malgrado il nome impressionante, era stato una nana bianca tipo Sirio con solo una decina di asteroidi ammassati nelle vicinanze del pallido sole. Lì non c’erano gli evidenti obiettivi militari che de Soya aveva assalito di buon grado nel sistema Belfagor: gli asteroidi erano privi di difese, probabilmente pianetini incubatrice e ambienti cavi pressurizzati per Ouster non adattati al vuoto e alle radiazioni dure. La task force Gedeone li spazzò con raggi della morte e tirò avanti.

Il terzo sistema, Belzebù, era una nana rossa tipo Alfa Centauri C, priva di pianeti e di colonie, con solo una base militare Ouster che girava nelle tenebre a una trentina di UA e cinquantasette navi sciame sorprese in rifornimento e in raddobbo. Trentanove di quelle navi da guerra, che per forma e armamento andavano dalle piccole astrovedette ai portacaccia classe Orione, erano in condizione di combattere e si lanciarono contro la task force Gedeone. Lo scontro durò due minuti e diciotto secondi. Tutte le cinquantasette navi Ouster e la base militare furono trasformate in molecole di gas o in inerti sarcofagi. Nessuna Arcangelo rimase danneggiata nello scontro. La task force andò avanti.

Nel quarto sistema, Satana, non c’erano navi, solo colonie di riproduzione disseminate fino alla Nube di Oort del sistema. La Gedeone si fermò undici giorni in quel sistema, mettendo a fuoco gli angeli di Lucifero.

Il quinto sistema, Asmodeo, incentrato su una graziosa nana arancione di tipo K non dissimile da Epsilon Eridani, mandò ondate di navi torcia planetarie a difesa della popolata fascia di asteroidi. Le ondate furono bruciate e fatte esplodere, con una economia di mezzi nata dalla pratica. La Gabriele riferì l’esistenza di ottantadue pianetini abitati nella fascia degli asteroidi, ospitanti una popolazione stimata in un milione e mezzo di Ouster adattati e non adattati. Ottantuno pianetini furono distrutti o innaffiati con raggi della morte da grande distanza. Poi l’ammiraglio Aldikacti ordinò di prendere dei prigionieri. La task force Gedeone decelerò in una lunga ellisse di quattro giorni che la riportò alla fascia di asteroidi e all’unico pianetino ancora abitato, un grumo roccioso a forma di patata, lungo meno di quattro chilometri, del diametro di uno nel punto più largo e butterato di crateri. I radar Doppler mostrarono che percorreva un’orbita secondo schemi casuali comprensibili solo agli dei del caos, ma che girava sul proprio asse in un modo accuratamente orchestrato, a un decimo di g. Il radar di profondità mostrò che era cavo. Le sonde dissero che era abitato da almeno diecimila Ouster. L’analisi suggerì che fosse un asteroide incubatrice.

Sei "grilli" disarmati si scagliarono contro la task force. La Uriele li trasformò in plasma, da ottantaseimila chilometri di distanza. Un migliaio di angeli Ouster, alcuni dei quali con armi a energia a basso rendimento o carabine senza rinculo, spalancarono le ali a campo di forza e volarono verso le lontane navi della Pax in larghe ellissi bordeggianti sulla cresta del vento solare. La loro velocità era così bassa che avrebbero impiegato giorni a coprire la distanza. La Gabriele ebbe il compito di carbonizzarli con un migliaio di miniscariche a luce coerente.

Trasmissioni criptate saettarono fra le navi Arcangelo. La Raffaele e la Gabriele confermarono l’ordine ricevuto e si avvicinarono a mille chilometri dal silenzioso asteroide. I portelli di sortita si aprirono e dodici minuscole figure, sei per nave, furono illuminate dalla luce della nana arancione: commandos delle guardie svizzere, marines e soldati motorizzati si lanciarono, spinti dai monorazzi, verso il pianetino. Non ci fu resistenza. I soldati trovarono due portelli di camera stagna schermati. Con precisa tempestività, fecero esplodere il portello esterno ed entrarono a gruppi di tre.


«Mi benedica, padre, perché ho peccato. Da due mesi standard non mi confesso.»

«Continua.»

«Padre, l’azione di oggi… mi turba, padre.»

«Sì?»

«La sento… sbagliata.»

Il padre capitano de Soya rimase in silenzio. Aveva seguito sui canali tattici virtuali l’attacco del sergente Gregorius. Aveva ascoltato il rapporto dei suoi uomini dopo la missione. Ora avrebbe ascoltato un altro rapporto, nel buio del confessionale.

«Continua, sergente» disse piano.

«Signorsì» disse il sergente dall’altra parte del divisorio. «Voglio dire, sì, padre.»

Il padre capitano de Soya udì un respiro profondo.

«Siamo scesi sull’asteroide senza trovare opposizione» cominciò il sergente Gregorius. «Io e i cinque più giovani, voglio dire. Eravamo in contatto radio con la squadra del sergente Kluge della Gabriele. E con i comandanti Barnes-Avne e Uchikawa, naturalmente.»

Nella sua parte del confessionale, de Soya rimase in silenzio. Il confessionale era fatto a sezioni per essere riposto in magazzino quando la Raffaele era sotto spinta o in posizione di combattimento, come accadeva per la maggior parte del tempo, ma ora, come tutti i veri confessionali, odorava di legno e di sudore e di velluto e di peccato. Il padre capitano aveva trovato quella mezz’ora di tempo durante l’ultimo stadio dell’incremento di velocità verso il punto di traslazione per il sesto sistema Ouster, Mammone, e aveva dato all’equipaggio l’opportunità di confessarsi, ma solo il sergente Gregorius si era fatto avanti.

«Così, quando siamo atterrati, signore… padre, ho portato la mia squadra a prendere la camera stagna del polo sud, proprio come nelle simulazioni. Abbiamo fatto saltare il portello senza la minima difficoltà e abbiamo attivato il nostro campo di forza per il combattimento nel tunnel.»

De Soya annuì. Le tute da combattimento delle guardie svizzere erano sempre state le migliori dell’universo umano: chi le indossava era in grado di resistere, muoversi e combattere in aria, acqua, vuoto assoluto, radiazioni dure, proiettili, lance a energia e ambiente esplosivo fino a un chilotone; ma le nuove tute da commando avevano i propri campi di contenimento classe quattro e potevano attingere energia dai più potenti campi delle navi.

«Lì gli Ouster ci hanno colpito, padre, lottando nel buio labirinto dei tunnel d’accesso. Alcuni di loro erano creature adattate allo spazio, signore… angeli con le ali ripiegate. Ma per la maggior parte erano solo creature adattate alla bassa gravità, in dermotuta… in pratica privi della minima protezione. Hanno tentato di colpirci con lance d’energia, carabine e pistole a raggi, ma usavano normali visori notturni per amplificare il tenue chiarore delle rocce, signore, e noi li abbiamo visti per primi, con i nostri visori a filtro. E abbiamo sparato per primi.» Trasse un altro respiro. «Ci sono bastati alcuni minuti per farci strada fino alle camere stagne interne, padre. Tutti gli Ouster che hanno tentato di fermarci nei tunnel sono finiti a galleggiare…»

Il padre capitano de Soya aspettò che il sergente continuasse.

«Dentro, padre… be’…» Gregorius si schiarì la voce. «Tutt’e due le squadre hanno fatto saltare i portelli interni nello stesso istante, signore… polo nord e polo sud insieme. I globi ripetitori lasciati nei tunnel ritrasmettevano bene le comunicazioni criptate, così siamo stati sempre in contatto con la squadra di Kluge… e con le navi, come lei sa, padre. C’erano dispositivi di sicurezza nei portelli interni, proprio come pensavamo, ma abbiamo fatto saltare anche quelli e subito dopo le membrane di emergenza. L’interno dell’asteroide era tutto cavo, padre… be’, lo sapevamo già, naturalmente… ma non ero mai stato prima in un asteroide incubatrice, padre. Molti pianetini militari, certo, ma mai in un asteroide sala parto…»

De Soya aspettò in silenzio.

«Aveva un diametro di circa un chilometro e un mucchio delle loro sottili torri di bambù a bassa gravità occupava gran parte dello spazio centrale, padre. Il guscio interno non era sferico né liscio, ma seguiva più o meno la sagoma esterna del pianetino…»

«A patata» disse il padre capitano de Soya.

«Sissignore. Era butterato anche all’interno, padre. Grotte e nicchie dappertutto… nidi per le Ouster gravide, immagino.»

De Soya annuì nel buio e diede un’occhiata al cronometro: si domandò se il sergente, di solito conciso, sarebbe mai giunto a parlare dei suoi presunti peccati prima che si rendesse necessario ripiegare il confessionale per la traslazione C-più.

«Di sicuro per gli Ouster era caos totale, padre… l’ululato del ciclone mentre quel posto si depressurizzava, l’atmosfera che sfuggiva dalle due camere stagne come acqua dallo scarico di una vasca, aria piena di polvere e di detriti, Ouster trascinati come foglie nella tempesta. Avevamo in funzione gli auricolari esterni della tuta, padre, e il rumore era incredibile, finché l’aria non fu troppo rarefatta per trasmettere i suoni… il ruggito del vento, le grida degli Ouster, le loro scariche e le nostre che scoppiettavano come tanti parafulmini, granate al plasma che esplodevano e il suono che rimbalzava contro di noi in quella enorme caverna di roccia, gli echi che duravano minuti… era assordante, padre.»

«Sì» disse il padre capitano de Soya, nel buio.

Il sergente Gregorius trasse un altro respiro. «Comunque, padre, gli ordini erano di portare due esemplari di qualsiasi creatura… maschi adulti, spazioadattati, non adattati; femmine adulte, gravide e non gravide; bambini, prepuberi e infanti, dei due sessi. Così la squadra di Kluge e la nostra si diedero da fare, stordirono e impacchettarono gli esemplari. La gravità sulla superficie interna del pianetino, un decimo di g, era appena sufficiente perché i pacchi restassero dove li lasciavamo.»

Seguì un momento di silenzio. Il padre capitano de Soya stava per aprire bocca, per far giungere al sodo la confessione, quando nel buio il sergente Gregorius riprese a mormorare, dall’altra parte della grata che li separava.

«Chiedo scusa, padre, so benissimo che lo sa pure lei. Solo… è difficile… comunque, questa era la parte brutta, padre. Ormai quasi tutti gli Ouster non modificati, non adattati allo spazio, erano morti o moribondi. Per la decompressione o le scariche di energia o le granate. Non abbiamo usato i raggi della morte in dotazione. Né io né Kluge abbiamo dato ai ragazzi l’ordine di non usarli… ma nessuno di noi li ha usati, ecco.»

Si interruppe per un istante. «Gli Ouster adattati» riprese «divennero angeli, con il corpo luccicante per l’accensione dei campi di forza personali. Naturalmente là dentro non potevano spalancare le ali, ma tanto non ne avrebbero ricavato alcun vantaggio, anche se avessero potuto aprirle in tutta la loro estensione, non c’era vento solare e anche se ci fosse stato, un decimo di g era eccessivo per loro, ma divennero angeli ugualmente. Alcuni cercarono di usare le ali come arma contro di noi.»

Emise un suono rauco che forse era la parodia di una risatina. «Avevamo campi classe quattro, padre, e loro ci colpivano con ali sottili come ragnatela… Comunque, li bruciammo, mandammo fuori tre ragazzi per squadra, con gli esemplari impacchettati, e Kluge e io portammo i due ragazzi rimasti a ripulire le caverne, come ordinato…»

De Soya attese. Fra meno di un minuto avrebbe dovuto porre fine alla confessione.

«Sapevamo che quello era un asteroide incubatrice, padre. Sapevamo, lo sanno tutti, che gli Ouster, anche quelli che hanno liberato le macchine nelle proprie cellule e nel proprio sangue, rinunciando all’aspetto umano, ancora non hanno imparato come ottenere che le loro femmine mettano al mondo figli in ambiente a gravità zero e in presenza di radiazioni dure, padre. Sapevamo che era un asteroide incubatrice, quando siamo scesi su quel maledetto pezzo di roccia… chiedo scusa, padre…»

De Soya rimase in silenzio.

«Ma anche così, padre… quelle caverne erano come case… letti e stanzini, televisori e cucine… cose che non siamo abituati a pensare che gli Ouster abbiano. Ma quasi tutte quelle grotte erano…»

«Asili nido» disse il padre capitano de Soya.

«Sissignore. Asili nido. Piene di culle con neonati… non mostri Ouster, padre, non quelle pallide e luccicanti creature contro cui combattiamo, non quei maledetti luciferi con ali larghe cento chilometri per catturare la luce del sole… solo… bambini. A centinaia, padre. A migliaia. Caverna dopo caverna. Quasi tutte le stanze erano già state depressurizzate e i piccoli erano già morti nella culla. Alcuni corpicini erano stati spazzati via nella fuoruscita dell’aria, ma quasi tutti erano ben fissati. Alcune camere erano ancora a tenuta d’aria, però, padre. Ci aprimmo la strada facendole saltare. Le madri… donne in vestaglia… donne gravide con capelli sciolti che svolazzavano nel decimo di gravità… ci hanno assalito con le unghie e con i denti, padre. Le abbiamo lasciate perdere, finché il vento di tempesta le ha soffiate fuori e la ha fatte morire per soffocamento, ma alcuni neonati… decine e decine, padre… erano in quelle piccole scatole di plastica per la respirazione…»

«Incubatrici» disse il padre capitano de Soya.

«Sì» mormorò il sergente Gregorius, con voce alla fine stanca. «E abbiamo domandato via radio che cosa volevano che ne facessimo. Di tutte le decine e decine di neonati Ouster nelle incubatrici. E il comandante Barnes-Avne ci ha trasmesso…»

«Di procedere» mormorò il padre capitano de Soya.

«Sì, Padre. Così noi…»

«Avete eseguito gli ordini, sergente.»

«Così noi abbiamo usato le ultime granate in quegli asili nido, padre. E quando abbiamo terminato le granate al plasma, abbiamo usato le scariche di energia su quelle incubatrici. Stanza dopo stanza, caverna dopo caverna. La plastica si fondeva intorno ai neonati, li ricopriva. Le coperte prendevano fuoco. Le scatole erano alimentate a ossigeno puro, padre, perché molte esplosero come granate… abbiamo dovuto attivare i campi personali, padre, e anche così… ho impiegato due ore a ripulire la corazza da combattimento… ma gran parte delle incubatrici non è esplosa, padre, si è limitata a prendere fuoco come rametti secchi, a bruciare come torcia, tutto bruciava come un piccolo forno. E ormai nelle stanze e nelle caverne c’era il vuoto, ma le scatole… le piccole incubatrici… avevano ancora aria mentre bruciavano… e abbiamo spento gli auricolari esterni, padre. Tutti noi. Ma non so come, potevamo ancora udire i pianti e gli strilli attraverso il campo di contenimento e l’elmetto. Li odo ancora adesso, padre…»

«Sergente» disse il padre capitano de Soya, con voce dura e piatta, in tono di comando.

«Sì, signore?»

«Eseguivate ordini, sergente. Tutti noi eseguivamo ordini. Sua Santità ha da tempo decretato che gli Ouster hanno ceduto la loro natura umana ai nanocongegni rilasciati nel flusso sanguigno, ai cambiamenti apportati ai cromosomi…»

«Ma gli strilli, padre…»

«Sergente! Il concilio vaticano e il Santo Padre hanno decretato che questa crociata è necessaria, se vogliamo salvare dalla minaccia Ouster la famiglia umana. Hai ricevuto degli ordini. Hai ubbidito agli ordini. Siamo soldati.»

«Sì, signore» mormorò nel buio il sergente Gregorius.

«Ormai non abbiamo tempo, sergente. Ne riparleremo in altra occasione. Per ora, ti darò una penitenza, non perché sei un soldato e hai eseguito gli ordini, ma perché hai dubitato di quegli ordini. Cinquanta Ave Maria, sergente, e cento Pater Noster. E voglio che tu preghi per questo, che preghi intensamente per capire.»

«Sì, padre.»

«Ora recita un sincero atto di dolore… in fretta…»

Quando cominciò a udire dalla grata il mormorio della preghiera, il padre capitano de Soya alzò la mano nella benedizione. «Ego te absolvo…»

Otto minuti più tardi, il padre capitano e il suo equipaggio erano distesi nelle cuccette antigravità/culle di risurrezione, mentre il motore Gideon della Raffaele si accendeva e li portava istantaneamente al sistema bersaglio Mammone, per mezzo di una terribile morte e di una lenta, dolorosa risurrezione.


Il Grande Inquisitore era morto ed era andato all’inferno.

Si trattava solo della sua seconda morte con risurrezione e lui non aveva gradito nessuna delle due esperienze. Inoltre, Marte era davvero un inferno.

Il cardinale John Domenico Mustafa e il suo contingente di ventuno funzionari e agenti di sicurezza del Sant’Uffizio, compreso l’indispensabile aiutante padre Farrell, avevano raggiunto il sistema della Vecchia Terra nella nuova nave classe Arcangelo Jibril e dopo la risurrezione avevano ricevuto un generoso periodo di quattro giorni per riprendersi fisicamente e mentalmente, prima d’iniziare il lavoro su Marte. Il Grande Inquisitore si era documentato sul pianeta rosso quanto bastava a formarsi una opinione incrollabile: Marte era l’inferno.

«In realtà, eccellenza» commentò padre Farrell, la prima volta che il Grande Inquisitore gli disse d’essersi convinto che Marte era l’inferno «sarebbe più indicato uno degli altri pianeti di questo sistema solare, Venere. Temperature elevatissime, pressione schiacciante, laghi di metallo liquido, raffiche di vento simili allo scarico dei razzi…»

«Sta’ zitto» replicò il Grande Inquisitore, con uno stanco gesto della mano.

Marte: il primo pianeta colonizzato dalla specie umana, malgrado il suo basso indice di 2,5 nella vecchia scala Solmev, il primo tentativo di terraforming e il primo fallimento; un pianeta trascurato, dopo la morte della Vecchia Terra nel buco nero, per vari motivi: la scoperta della propulsione Hawking, gli imperativi dell’Egira, il fatto che nessuno voleva vivere su quella rugginosa sfera di ghiaccio, mentre la galassia offriva un numero quasi infinito di pianeti più belli, più salubri, più autosufficienti.

Per secoli, dopo la morte della Vecchia Terra, Marte era stato un pianeta così arretrato che la Rete non vi aveva posto teleporter; un pianeta desertico, interessante solo per gli orfani della Nuova Palestina (il leggendario colonnello Fedmahn Kassad, scoprì con sorpresa il cardinale Mustafa, era nato su Marte, in un campo di trasferimento di palestinesi) e per i cristiani zen che tornavano al bacino Hellas per ristabilire sul Massiccio Zen l’illuminazione del loro maestro Schrauder. Per circa un secolo era parso che il gigantesco progetto di terraforming avrebbe funzionato — mari riempirono gli enormi bacini d’impatto e felci cicladee proliferarono lungo il fiume Marineris — ma poi ci furono le battute d’arresto, vennero a mancare i fondi per combattere l’entropia e iniziarono i sessantamila anni della glaciazione seguente.

Al culmine della civiltà della Rete dei Mondi, l’ala militare dell’Egemonia, la Force, aveva istallato sul pianeta rosso i teleporter e aveva crivellato di habitat gran parte del gigantesco vulcano Olimpo, per stabilirvi la loro Scuola di comando. L’isolamento di Marte dal commercio e dalla cultura delle Rete fu molo utile alla Force e il pianeta rimase una base militare fino alla Caduta dei teleporter. Nel secolo successivo alla Caduta, residui della Force formarono una brutale dittatura militare, la cosiddetta Macchina da guerra marziana, che estese il proprio dominio fino ai sistemi solari Centauro e Tau Ceti e che sarebbe potuta divenire il germe di un secondo impero interstellare, se la Pax non fosse intervenuta: sconfisse rapidamente le flotte marziane, ricacciò la Macchina da guerra nel sistema della Vecchia Terra, mandò i signori della guerra a nascondersi tra le rovine delle basi orbitali della Force e negli antichi tunnel sotto il monte Olimpo, creò basi della Flotta della Pax nella cintura degli asteroidi e fra le lune di Giove, inviò infine su Marte missionari e governatori della Pax.

Sul pianeta rosso era rimasto poco da convertire per i missionari e poco da amministrare per i funzionari della Pax. L’aria era divenuta rarefatta e gelida; le grandi città erano state abbandonate; i grandi simùn, le tempeste di sabbia da polo a polo, erano ricomparsi; epidemie e pestilenze si aggiravano nei gelidi deserti, decimando le ultime bande di nomadi che discendevano dalla un tempo nobile specie di marziani; e poco più che affusolati cactus da brandy crescevano ora là dove molto tempo prima prosperavano i grandi frutteti di meli e i campi di bradburie.

Stranamente, furono proprio i maltrattati e oppressi palestinesi del gelato pianoro di Tharsis a sopravvivere e prosperare. Gli orfani dell’antica diaspora nucleare del 2038 si erano adattati al rude sistema di vita marziano e, al momento dell’arrivo dei missionari, avevano esteso la propria cultura islamica a molte delle tribù nomadi superstiti e alle città-stato del pianeta. I neopalestinesi, che per più di un secolo si erano rifiutati di sottomettersi alla spietata Macchina da guerra marziana, ora non mostravano alcun desiderio di cedere alla Chiesa la propria autonomia.

Lo Shrike era comparso proprio nella capitale palestinese Arafat-kaffiyeh e aveva massacrato centinaia, forse migliaia, di persone.

Il Grande Inquisitore conferì con i suoi collaboratori, si incontrò con i comandanti della Flotta della Pax in orbita e scese in forze sul pianeta. Lo spazioporto principale, nella città capoluogo di San Malachia, fu chiuso al traffico civile, ma la cosa non suscitò disagi, visto che per una settimana marziana non era in programma l’arrivo di navette commerciali o passeggeri. Sei scialuppe d’assalto precedettero la navetta del Grande Inquisitore; quando il cardinale Mustafa pose piede sul suolo marziano, sul tarmac della Pax, per l’esattezza, cento guardie svizzere e commandos del Sant’Uffizio circondavano lo spazioporto. La delegazione ufficiale marziana di benvenuto, che comprendeva l’arcivescovo Robeson e il governatore Clare Palo, fu perquisita e controllata con sonde soniche, prima di avere il benestare per la cerimonia.

Dallo spazioporto, il gruppo del Sant’Uffizio fu trasportato su mezzi di terra per vie in rovina al recente palazzo del governatore, costruito dalla Pax nella zona periferica di San Malachia. Lo spiegamento di agenti della sicurezza era notevole. Oltre agli agenti personali del Grande Inquisitore, ai marines della Flotta, alle forze di polizia del governatore e al reparto di guardie svizzere dell’arcivescovo, un reggimento di fanteria corazzata della Guardia nazionale era accampato attorno al palazzo. Qui furono mostrate al Grande Inquisitore le prove che, due settimane prima, lo Shrike era comparso sul pianoro Tharsis.

«È assurdo» disse il Grande Inquisitore, la notte prima di volare sulla scena dell’attacco dello Shrike. «Tutti quegli ologrammi e quei video o sono vecchi di due settimane oppure sono presi da grande altezza. Cosa abbiamo? Alcuni ologrammi di ciò che dev’essere lo Shrike e alcune sfocate scene di massacro. Fotografie di cadaveri di cittadini della Pax trovati dalla Guardia nazionale all’ingresso in città. Ma dove sono gli abitanti locali? Dove sono i testimoni oculari? Dove sono i duemilasettecento cittadini di Arafat-kaffiyeh?»

«Non lo sappiamo» rispose il governatore Clare Palo.

«Abbiamo inviato un rapporto al Vaticano» disse l’arcivescovo Robeson. «La navetta corriere Arcangelo ci ha portato l’ordine di non manomettere le prove. E di aspettare il vostro arrivo.»

Il Grande Inquisitore scosse la testa e prese una delle fotografie su carta. «E questa cos’è? Una base della Flotta della Pax alla periferia di Arafat-kaffiyeh? Questo spazioporto è più nuovo di quello di San Malachia.»

«Non è della Flotta» rispose il capitano Wolmak, comandante della Jibril e nuovo responsabile della task force del sistema della Vecchia Terra. «Ma calcoliamo che, nella settimana precedente la comparsa dello Shrike, da trenta a cinquanta navette al giorno usassero quell’impianto.»

«Da trenta a cinquanta navette al giorno» ripeté il Grande Inquisitore. «E non erano navette della Flotta! Di chi erano, allora?»

Nessuno aprì bocca.

«Della Pax Mercatoria?» insistette il Grande Inquisitore.

«No» rispose infine l’arcivescovo. «Non erano della Pax Mercatoria.»

Il Grande Inquisitore incrociò le braccia e attese.

«Erano navette noleggiate dall’Opus Dei» spiegò il governatore Clare Palo, con voce sottile.

«Per quale scopo?» domandò il Grande Inquisitore. In quella suite del palazzo erano state ammesse solo guardie del Sant’Uffizio, poste a intervalli di sei metri lungo la parete di pietra.

Il governatore allargò le braccia. «Non sappiamo, eccellenza.»

«Domenico» intervenne l’arcivescovo, con un leggero tremito nella voce «abbiamo ricevuto l’ordine di non indagare.»

Il Grande Inquisitore avanzò di un passo, incollerito. «L’ordine di non indagare… da chi? Chi ha l’autorità di ordinare all’arcivescovo residente e al governatore planetario della Pax di non interferire?» Non si curò di mascherare la collera. «In nome di Cristo! Chi ha un simile potere?»

L’arcivescovo guardò il cardinale Mustafa, con occhi dolenti ma con aria di sfida. «In nome di Cristo, per l’appunto, eccellenza. I rappresentanti dell’Opus Dei avevano diskey ufficiali della Commissione pontificia per la giustizia e la pace. Ci hanno detto che si trattava di faccende della sicurezza, ad Arafat-kaffiyeh. Ci hanno detto che non erano affari nostri. Ci hanno detto di non interferire.»

Il Grande Inquisitore sentì il sangue montargli alla testa: stentò a tenere a freno la collera. «La sicurezza, su Marte o in qualsiasi altro luogo della Pax, è responsabilità del Sant’Uffizio!» replicò in tono piatto. «La Commissione pontificia per la giustizia e la pace non ha alcun privilegio qui! Dove sono i suoi rappresentanti? Perché non partecipano a questa riunione?»

Il governatore Clare Palo alzò la mano e indicò la fotografia tra le dita del Grande Inquisitore. «Eccoli lì, eccellenza. Quelli sono i funzionari della Commissione.»

Il cardinale Mustafa guardò la lucida fotografia. Sagome di cadaveri vestiti di bianco erano visibili nella polvere rossa delle vie di Arafat-kaffiyeh. Malgrado la sgranatura dell’immagine, era chiaro che quei corpi erano orribilmente maciullati e gonfi per l’inizio di decomposizione. Il Grande Inquisitore parlò piano, lottando contro l’impulso a urlare e poi a ordinare che quegli idioti fossero torturati e uccisi. «Perché queste persone non sono state risuscitate e interrogate?» domandò piano ma con furia repressa.

L’arcivescovo Robeson tentò un pallido sorriso. «Lo vedrà domani, eccellenza. Domani la risposta le sarà fin troppo chiara.»


Su Marte i VEM erano inutili. Per recarsi sul pianoro Tharsis, il gruppo usò skimmer blindati della sicurezza della Pax. Navi torcia e la Jibril tennero d’occhio il volo degli skimmer. Caccia Scorpione effettuarono ricognizioni per un eventuale combattimento spazio/aria. A duecento chilometri dal pianoro, cinque squadre di marines si lanciarono dagli skimmer e volarono in avanscoperta, a bassa quota; con sonde acustiche rastrellarono la zona e stabilirono posizioni di fuoco.

Solo sabbia si muoveva ad Arafat-kaffiyeh.

Gli skimmer della sicurezza del Sant’Uffizio atterrarono per primi e si posarono sulla sabbia dove un tempo cresceva l’erba del parco pubblico della città; i velivoli esterni stabilirono e collegarono un campo di contenimento classe sei che racchiuse in un tremulo scintillio simile alla foschia di calore gli edifici intorno alla piazza. I marines si erano già disposti in un cerchio difensivo con al centro il parco. Ora le truppe del governatore della Pax e della Guardia nazionale si mossero verso l’esterno per stabilire un secondo perimetro nelle vie e nei vicoli intorno alla piazza. Le otto guardie svizzere dell’arcivescovo rafforzarono il cerchio appena fuori del campo di contenimento. Allora le forze di sicurezza del Sant’Uffizio scesero di corsa le rampe dello skimmer e formarono il perimetro interno di figure inginocchiate in nera armatura da battaglia.

"Tutto pulito" trasmise sul canale tattico il sergente al comando dei marines.

"Niente si muove nel raggio di un chilometro dal punto uno" gracchiò la voce del tenente della Guardia nazionale. "Cadaveri nella via."

"Qui tutto pulito" comunicò il capitano delle guardie svizzere.

"Confermate che niente si muove ad Arafat-kaffiyeh, a parte il vostro gruppo" disse la voce del comandante della Jibril.

"Confermato" disse il comandante Browning della sicurezza del Sant’Uffizio.

Sentendosi sciocco e di cattivo umore, il Grande Inquisitore scese la rampa e attraversò il parco pubblico coperto di sabbia. Il suo umore non era affatto migliorato dalla stupida maschera osmotica con alimentatore circolare che gli penzolava dalla spalla come un medaglione.

Padre Farrell, l’arcivescovo Robeson, il governatore Clare Palo e un’orda di funzionari corsero per tenersi al passo, mentre il cardinale Mustafa avanzava verso le guardie della sicurezza inginocchiate e con un gesto imperioso ordinava di aprire un passaggio nel campo di contenimento. Lo varcò senza badare alle proteste del comandante Browning e delle altre sagome in corazza nera che si affannavano per raggiungerlo.

«Dov’è il primo dei…» cominciò il Grande Inquisitore, muovendosi a scatti nello stretto vicolo di fronte al parco pubblico. Ancora non si era abituato alla minore gravità marziana.

«Proprio dietro l’angolo» ansimò l’arcivescovo.

«Sarebbe meglio aspettare che i campi esterni siano…» disse il governatore Clare Palo.

«Eccolo» esclamò padre Farrell, indicando la via nella quale erano sbucati.

Il gruppo, una quindicina, si fermò di colpo, tanto che gli aiutanti e gli agenti della sicurezza più indietro dovettero trattenersi per non urtare i maggiorenti.

«Buon Dio!» mormorò l’arcivescovo Robeson. Si fece il segno della croce. Sotto la limpida maschera osmotica, il suo viso mostrava il pallore.

«Cristo!» borbottò il governatore Clare Palo. «Da due settimane vedo in continuazione ologrammi e fotografie, ma… Cristo!»

«Ahh» disse padre Farrell, avvicinandosi di un passo al primo cadavere.

Il Grande Inquisitore si unì a lui. Piegò il ginocchio sulla sabbia rossastra. La sagoma maciullata distesa a terra dava l’impressione che qualcuno avesse usato carne, ossa e cartilagini per creare una scultura astratta. Non sarebbe stata riconoscibile come umana, se non ci fossero stati il luccichio di denti nella bocca spalancata e una mano poco distante nella mobile sabbia marziana.

Dopo un momento, il Grande Inquisitore disse: «Non saranno stati, in tutto o in parte, degli animali? Uccelli mangiacarogne, forse? Topi?»

«No» rispose il maggiore Piet, comandante delle forze di terra del governatore. «Gli uccelli sono scomparsi dal pianoro Tharsis fin da quando l’atmosfera ha iniziato a rarefarsi, due secoli fa. I rilevatori di movimento non hanno registrato ratti… né altre creature… da quando è avvenuto il massacro.»

«È stato lo Shrike» disse il Grande Inquisitore. Non parve molto convinto. Si rialzò e si accostò al cadavere seguente. Forse si era trattato di una donna. Pareva che l’avessero rivoltata come un calzino e fatta a brandelli. «Anche questo?»

«Così crediamo» disse il governatore Clare Palo. «Dopo avere trovato questo scempio, la Guardia nazionale ha ricuperato l’olocamera della sicurezza che conteneva i trentotto secondi di registrazione che le abbiamo già mostrato.»

«Pareva una decina di Shrike che uccidevano una decina di persone» notò padre Farrell. «L’ologramma era confuso.»

«C’era una tempesta di sabbia» disse il maggiore Piet. «E lo Shrike era uno solo… abbiamo studiato le singole immagini. Si è semplicemente mosso tra la folla, con tale rapidità da sembrare tutta una serie di creature.»

«Si è mosso tra la folla» mormorò il Grande Inquisitore. Si accostò a un altro cadavere che forse era quello di una bambina o di una donna molto piccola. «E ha fatto questo massacro.»

«E ha fatto questo massacro» confermò il governatore Clare Palo. Diede un’occhiata all’arcivescovo Robeson, che si era appoggiato a un muro per sorreggersi.

C’erano da venti a trenta cadaveri, in quel tratto di via.

Padre Farrell piegò il ginocchio e passò la mano guantata sul petto e nella cavità toracica del primo cadavere: la carne era congelata, al pari del sangue che cadde via in una nera pioggerella di ghiaccio. «E non c’era segno dei crucimorfi?»

Il governatore Clare Palo scosse la testa. «Non nei due cadaveri che la Guardia nazionale ha riportato per la risurrezione. Nessun segno di crucimorfi, da nessuna parte. Se ci fosse stato anche solo un residuo… un millimetro di nodulo o un frammento di fibra nel gambo cerebrale o…»

«Lo sappiamo!» sbottò il Grande Inquisitore, ponendo fine alla spiegazione.

«Strano davvero» disse il vescovo Erdle, l’esperto del Sant’Uffizio in tecniche di risurrezione. «Che io sappia, non si è mai dato il caso che in un cadavere praticamente intatto non sia stato possibile trovare un residuo del crucimorfo. Il governatore Palo ha ragione, naturalmente. Per il sacramento della risurrezione basta anche un minimo brandello.»

Il Grande Inquisitore si fermò a ispezionare un cadavere che era stato scagliato contro una cancellata di ferro, con tanta forza da finire impalato in una decina di punte. «Si direbbe che lo Shrike cercasse i crucimorfi» commentò. «Ha tolto dai cadaveri fino all’ultimo frammento.»

«Impossibile» disse il vescovo Erdle. «Semplicemente impossibile. Ci sono più di cinquecento metri di microfibra nelle estensioni dei noduli cellulari del…»

«Impossibile» convenne il Grande Inquisitore. «Ma scommetto che, quando avremo spedito su Pacem questi cadaveri, non uno di essi sarà ricuperato. Lo Shrike avrà anche lacerato cuore e polmoni e gola, ma solo perché cercava i crucimorfi.»

Il comandante della sicurezza Browning girò l’angolo, seguito da cinque agenti in armatura nera. "Eccellenza" disse sul canale tattico riservato soltanto al Grande Inquisitore "il peggio è a un isolato da qui… da questa parte."

Il gruppo seguì l’uomo in armatura nera, ma lentamente, senza molta voglia.


Catalogarono 362 cadaveri. Molti erano nelle vie, ma per la maggior parte si trovavano negli edifici della città o nei capannoni, negli hangar e nei velivoli spaziali del nuovo spazioporto alla periferia di Arafat-kaffiyeh. Furono scattati ologrammi e le squadre di medicina legale del Sant’Uffizio presero in mano la faccenda e registrarono ogni sito, prima di portare i cadaveri alla morgue della base della Pax, fuori di San Malachia. Fu accertato che tutti i cadaveri erano di persone nate su altri pianeti: tra di loro non c’erano palestinesi né indigeni marziani.

Ma fu soprattutto lo spazioporto a incuriosire e lasciare perplessi gli esperti della Pax.

«Otto navette al servizio dello spazioporto» disse il maggiore Piet. «È un numero notevole. Lo spazioporto di San Malachia ne usa solo due.» Diede un’occhiata al violaceo cielo marziano. «Presumendo che le navi interessate al traffico avessero le proprie navette… almeno due, se erano carghi… allora siamo di fronte a una organizzazione notevole.»

Il Grande Inquisitore guardò l’arcivescovo di Marte, ma Robeson si limitò ad alzare le mani. «Non sappiamo niente di queste operazioni» disse. «Come ho già spiegato, era un progetto dell’Opus Dei.»

«Be’» disse il Grande Inquisitore «per quanto ci risulta, tutto il personale dell’Opus Dei è morto, della vera morte, e non è ricuperabile; perciò adesso la responsabilità passa al Sant’Uffizio. Ha idea dello scopo per cui hanno costruito questo spazioporto? Metalli pesanti, forse? Operazioni minerarie di qualche genere?»

Il governatore Clare Palo scosse la testa. «Questo pianeta è stato sfruttato per più di mille anni. Non vi rimangono metalli pesanti che valgano il costo del trasporto. Nemmeno minerali che valgano le spese di una operazione di ricupero da parte di imprese locali, altro che da parte dell’Opus Dei.»

Il maggiore Piet si alzò il visore e si grattò il mento con la barba di un giorno. «Eppure, eccellenze, da qui spedivano qualcosa, in grande quantità. Otto navette… un sofisticato sistema di griglia… sicurezza automatizzata.»

«Se lo Shrike, o qualsiasi cosa fosse, non avesse distrutto i computer e le apparecchiature di registrazione…» iniziò il comandante Browning.

Il maggiore Piet scosse la testa. «Non è stato lo Shrike. I computer erano già stati distrutti da cariche sagomate e da virus DNA fatti su misura.» Girò lo sguardo sull’edificio amministrativo deserto: la rossa sabbia marziana aveva già trovato il modo di entrare dalle porte e dagli interstizi. «Sospetto che abbiano distrutto le registrazioni prima dell’arrivo dello Shrike. Penso che fossero sul punto di andarsene. Per questo le navette erano pronte al decollo, con i computer di bordo già programmati.»

Padre Farrell annuì. «Ma le coordinate orbitali sono tutto ciò che abbiamo. Nessuna registrazione di chi o che cosa dovevano incontrare qui.»

Il maggiore Piet guardò dalla finestra la tempesta di polvere. «In quel parcheggio ci sono venti autoveicoli da trasporto» mormorò come se parlasse tra sé. «Ciascuno può portare fino a ottanta persone. Una piccola esagerazione logistica, se il contingente dell’Opus Dei comprendeva solo le 326 persone di cui abbiamo trovato i cadaveri.»

Il governatore Clare Palo corrugò la fronte e incrociò le braccia. «Non sappiamo quanto personale dell’Opus Dei si trovasse qui, maggiore. Come ha fatto notare, le registrazioni sono state distrutte. Forse erano migliaia…»

Il comandante Browning intervenne nella discussione dei maggiorenti. «Chiedo scusa, governatore, ma gli alloggiamenti nel perimetro del campo potevano ospitare circa quattrocento persone. Il maggiore potrebbe avere ragione: forse i cadaveri da noi trovati sono l’intero personale dell’Opus Dei.»

«Ma non può esserne sicuro, comandante» replicò Clare Pole, in tono tutt’altro che contento.

«No, signora.»

Clare Pole indicò la tempesta di sabbia che in pratica nascondeva gli autoveicoli parcheggiati. «Lì c’è la prova che avevano bisogno di mezzi di trasporto per un numero di persone molto superiore.»

«Forse si trattava di un contingente in avanscoperta» ipotizzò il comandante Browning. «Per preparare la strada a un distaccamento più numeroso.»

«Allora perché distruggere le registrazioni e le IA limitate?» disse il maggiore Piet. «Come mai si ha l’impressione che fossero sul punto di andarsene per sempre?»

Il Grande Inquisitore alzò la mano guantata di nero. «Per il momento poniamo fine alle ipotesi. Domani il Sant’Uffizio comincerà a raccogliere deposizioni e a effettuare interrogatori. Governatore, possiamo usare il suo ufficio al palazzo?»

«Ma certo, eccellenza.» Clare Palo chinò il capo, per mostrare deferenza, o per nascondere gli occhi, o l’uno e l’altro.

«Molto bene» disse il Grande Inquisitore. «Comandante, maggiore, chiamate gli skimmer. Lasceremo qua fuori le squadre di medicina legale e i tecnici della morgue.» Scrutò dalla finestra la tempesta che non smetteva di peggiorare: il suo ruggito attraversava con chiarezza i dieci strati di plastica trasparente. «Qual è il termine locale per indicare le tempeste di sabbia?»

«Simùn» rispose il governatore Clare Palo. «Un tempo tempeste come questa coprivano l’intero pianeta. Ora aumentano d’intensità anno dopo anno.»

«Gli indigeni dicono che sono gli antichi dèi marziani» mormorò l’arcivescovo Robeson. «Reclamano ciò che era loro.»


A meno di tredici anni luce dal sistema solare della Vecchia Terra, nello spazio sopra il pianeta Vitus-Gray-Balianus B, un’astronave che un tempo si chiamava Raffaele, ma che ora non aveva nome, concluse la decelerazione e si pose in orbita geosincrona. Le quattro creature viventi a bordo della nave galleggiavano a gravità zero e guardavano con attenzione l’immagine del pianeta desertico comparsa sul quadro col grafico di rotta.

«Quanto sono attendibili i tuoi rilevamenti di perturbazioni nei campi teleporter in questo periodo?» disse la femmina di nome Scilla.

«Più attendibili di molti altri indizi» disse quella che pareva la sua gemella, Rhadamanth Nemes. «Controlleremo.»

«Cominciamo da una delle basi della Pax?» domandò il maschio di nome Gige.

«Dalla più grande» rispose Rhadamanth Nemes.

«Allora dalla base Bombasino» disse Briareo, controllando il codice sul quadro. «Emisfero nord. Lungo il percorso del canale centrale. Popolazione di…»

«La popolazione non conta» lo interruppe Rhadamanth Nemes. «Conta solo se la bambina Aenea e l’androide e quel bastardo di Endymion sono passati da questa parte.»

«Navetta pronta» disse Scilla.

Con i quattro a bordo, la navetta entrò sibilando nell’atmosfera e protese le ali mentre attraversava il terminatore; tramite il radiofaro, usò il codice diskey vaticano per ottenere via libera per l’atterraggio; scese fra Scorpioni, skimmer militari e VEM blindati. Un innervosito tenente venne ad accogliere i quattro passeggeri e li scortò nell’ufficio del comandante della base.

«Fate parte della Guardia nobile?» disse il comandante Solznykov, scrutandoli in viso e nello stesso tempo esaminando i dati comparsi sul diskey interfase.

«L’abbiamo già detto» replicò Rhadamanth Nemes, in tono piatto. «I nostri documenti, i chip di ordini e il diskey lo confermano. Quante volte dobbiamo ripeterlo, comandante?»

Sopra l’alto colletto della giubba militare, il viso e il collo di Solznykov divennero paonazzi. Invece di rispondere, il comandante abbassò gli occhi sull’ologramma interfase. Tecnicamente, quegli ufficiali della Guardia nobile, appartenenti a una delle nuove unità speciali del papa, potevano far valere su di lui il proprio grado. Tecnicamente, potevano farlo fucilare e scomunicare, dal momento che il loro grado di capo coorte della Guardia nobile comprendeva i poteri della Flotta della Pax e del Vaticano. Tecnicamente, secondo la formulazione e il codice di priorità del diskey, potevano far valere il proprio grado su un governatore planetario o imporre la politica della Chiesa all’arcivescovo residente di un pianeta. Tecnicamente, Solznykov desiderò che quei lividi scherzi di natura non si fossero mai mostrati sul suo arretrato pianeta.

Si costrinse a sorridere. «Le nostre forze sono a vostra disposizione» disse. «Cosa posso fare per voi?»

La donna magra e pallida di nome Nemes tenne sopra la scrivania del comandante una olocard e l’attivò. All’improvviso, nello spazio fra lei e il comandante comparvero a mezz’aria tre teste formato naturale: due di esseri umani, la terza chiaramente di un androide dalla pelle azzurra.

«Non credevo che nella Pax fossero rimasti degli androidi» disse Solznykov.

«Ha ricevuto rapporti sulla presenza nel suo territorio di una di queste tre persone, comandante?» disse Nemes, senza badare alle parole di Solznykov. «È probabile che ne sia stata riferita la presenza lungo il grande fiume che scorre dal polo nord all’equatore.»

«In realtà è un canale…» cominciò Solznykov e si interruppe. Aveva l’impressione che nessuno dei quattro forestieri fosse interessato alla normale conversazione o a dati non pertinenti. Chiamò nell’ufficio il suo aiutante, colonnello Vinara.

«Nomi?» domandò, mentre Vinara preparava il comlog.

Nemes disse tre nomi che non significavano nulla per il comandante.

«Non sono nomi locali» disse Solznykov, mentre il colonnello Vinara controllava gli archivi. «I membri della cultura indigena — si chiama Spettroelica di Amoiete — hanno la tendenza ad accumulare nomi come i miei cani da caccia a Patawpha raccoglievano zecche. Vede, hanno quella triplice unione matrimoniale dove…»

«Non sono persone del luogo» lo interruppe Nemes. Sopra il colletto rosso dell’uniforme, le labbra parevano esangui come il resto del viso cereo. «Provengono da un altro pianeta.»

«Ah, bene» disse Solznykov, sollevato al pensiero che non avrebbe avuto a che fare con quei quattro scherzi di natura per più di un paio di minuti. «In questo caso, non possiamo aiutarvi. Vedete, lo spazioporto qui a Bombasino è l’unico funzionante su Vitus-Gray-Balianus B, ora che abbiamo chiuso quello di Keroa Tambat, a gestione indigena; inoltre, a parte qualche spaziale che finisce nelle nostre celle, l’immigrazione qui è inesistente. I locali sono tutti Spettroelica… e, be’, amano i colori, certo, ma un androide risalterebbe come… allora, colonnello?»

Il colonnello Vinara alzò gli occhi dalla ricerca sul database. «Né le immagini né i nomi hanno riscontri con i nostri dati, a parte un bollettino generale inviato tramite la Flotta della Pax, circa quattro anni e mezzo standard fa.» Lanciò un’occhiata interrogativa alle guardie nobili.

Nemes e gli altri lo guardarono senza fare commenti.

Il comandante Solznykov allargò le braccia. «Mi spiace. Nelle ultime due settimane locali siamo stati impegnati in un’importante esercitazione da me diretta, ma se fosse giunto qualcuno che si fosse adattato a queste descrizioni…»

«Signore» disse il colonnello Vinara «c’erano quei quattro spaziali che hanno disertato.»

"Maledizione!" pensò Solznykov. Si rivolse alle guardie nobili: «Quattro spaziali della Pax Mercatoria sono sbarcati illegalmente per non affrontare l’accusa di uso illecito di droghe. A quanto ricordo, erano tutti maschi sulla sessantina e…» si girò verso il colonnello Vinara, cercando di dirgli, con lo sguardo e il tono, di chiudere il maledetto becco «… e abbiamo trovato i loro cadaveri nel Big Greasy, non è vero, colonnello?»

«Tre cadaveri, signore» precisò il colonnello Vinara, refrattario ai segnali del suo comandante. Controllava di nuovo il database. «Un nostro skimmer è precipitato presso Keroa Tambat e la Sanità ha inviato… la dottoressa Abne Molina, a valle lungo il canale, in compagnia di un missionario, per prendersi cura dei feriti.»

«Che c’entra questa storia, colonnello?» scattò Solznykov, brusco. «Gli ufficiali qui presenti cercano una ragazzina, un trentenne e un androide.»

«Sì, signore» disse Vinara, sorpreso, alzando gli occhi dal comlog. «Ma la dottoressa Molina ha comunicato per radio di avere curato un extraplanetario ammalato a Chiusa Childe Lamonde. Abbiamo presunto che fosse il quarto spaziale…»

Rhadamanth Nemes mosse un passo avanti, con tale rapidità che il comandante Solznykov trasalì senza volerlo: nel rapido movimento della donna c’era qualcosa di non umano.

«Dove si trova Chiusa Childe Lamonde?» domandò Rhadamanth Nemes.

«È solo un villaggio lungo il canale, un’ottantina di chilometri a sud di qui» rispose Solznykov. Si girò verso il colonnello Vinara, come se fosse responsabile e colpevole di tutta quell’agitazione. «Quando ci spediscono il prigioniero?»

«Domani mattina, signore. Uno skimmer ambulanza ha in programma di raccogliere l’equipaggio precipitato a Keroa Tambat alle 06.00 e farà una fermata a…» Si interruppe, vedendo che le quattro guardie nobili giravano sui tacchi e si dirigevano alla porta.

Nemes rallentò quanto bastava per dire: «Comandante, sgombri uno spazio aereo fra qui e Chiusa Childe Lamonde. Prenderemo la navetta.»

«Ah, non è necessario!» disse il comandante, controllando lo schermo sulla scrivania. «Quello spaziale è sotto arresto e sarà consegnato… ehi!»

I quattro ufficiali della Guardia nobile erano già usciti dall’ufficio e attraversavano il tarmac. Solznykov si precipitò sul pianerottolo e gridò: «Qui le navette non hanno il permesso di operare nell’atmosfera se non per atterrare a Bombasino. Ehi! Manderemo uno skimmer. Ehi! Quasi certamente quello spaziale non è uno dei vostri… lo teniamo sotto custodia… ehi!»

I quattro non girarono la testa. Raggiunsero la nave, le ordinarono di morfizzare un ascensore e sparirono nello scafo. Sirene d’allarme risuonarono per la base e il personale corse a mettersi al riparo, mentre la pesante navetta decollava sui razzi direzionali, passava alla propulsione EM e accelerava verso sud, superando il perimetro dello spazioporto.

«Porcocristo fu Giuseppe» bestemmiò sibilando il comandante Solznykov.

«Prego, signore?» disse il colonnello Vinara.

Solznykov gli lanciò un’occhiata che avrebbe fuso il piombo. «Prepari subito due skimmer… no, facciamo tre. Una squadra di marines a bordo di ognuno. Questo è il nostro orticello e quei quattro anemici scassapalle di guardie nobili non ci devono buttare neanche una cartaccia, senza che glielo diciamo noi. Voglio che gli skimmer arrivino prima di loro e che quel fottuto spaziale sia preso in custodia… in nostra custodia… anche a costo di rompere il culo a ogni indigeno Spettroelica da qui a Chiusa Childe Lamonde. Capito, colonnello?»

Vinara riusciva solo a fissare il suo comandante.

«Scattare!» gridò il comandante Solznykov.

Il colonnello Vinara scattò.

10

Non dormii per tutta quella notte e il giorno seguente, torcendomi dal dolore, andando avanti e indietro dal letto al bagno, portando con me l’apparecchiatura per la flebo, sforzandomi dolorosamente di orinare e poi controllando il ridicolo filtro in cerca del calcolo renale che mi faceva morire. A un certo punto della tarda mattinata riuscii a espellere il calcolo.

Per un minuto non riuscii a crederci. Nell’ultima mezz’ora il tormento era diminuito, era solo l’eco del dolore alla schiena e all’inguine, ma mentre fissavo la pietruzza rossastra nel cono del filtro, un po’ più grossa di un granello di sabbia ma molto più piccola di un sassolino, non riuscivo a credere che proprio quella robetta mi avesse procurato tanta sofferenza per tutte quelle ore.

"Credici" disse Aenea. Si sedette sul bordo del lavandino e mi guardò rimettere a posto la giacca del pigiama. "Nella vita sono spesso le cose più piccole a causare la sofferenza più grande."

«Già» dissi. Capivo, vagamente, che Aenea non era lì… non avrei orinato davanti a nessuno e tanto meno davanti a lei. Fin dalla prima iniezione di ultramorfina avevo allucinazioni e vedevo Aenea.

"Complimenti" disse l’allucinazione Aenea. Il suo sorriso pareva abbastanza reale — quel modo di arricciare le labbra, un po’ birbante, un po’ stuzzicante, a cui ero abituato — e vedevo che indossava i jeans verdi e la blusa di cotone bianca che spesso portava quando lavorava nel caldo del deserto. Ma vedevo anche, attraverso di lei, il lavandino e i morbidi asciugamani.

«Grazie» dissi. Tornai, strisciando i piedi, nella stanza e mi lasciai cadere sul letto. Non potevo credere che il dolore non sarebbe tornato. A dire il vero, la dottoressa Molina aveva accennato al fatto che i calcoli potevano essere più d’uno.

Quando Dem Ria, Dem Loa e l’agente di polizia rimasto di guardia entrarono nella mia stanza, Aenea era scomparsa.

«Oh, è magnifico!» disse Dem Ria.

«Siamo così contente!» disse Dem Loa. «Speravamo tanto che non dovesse andare nell’ospedale della Pax per un intervento chirurgico.»

«Metti la destra qui sopra» disse l’agente. Mi ammanettò alla testiera d’ottone.

«Sono prigioniero?» domandai, intontito.

«Lo sei sempre stato» borbottò lui. Era bruno di pelle e aveva il viso sudato sotto il visore dell’elmetto. «Domani mattina verrà a prenderti lo skimmer. Non vorrei che ti perdessi la corsa.» Uscì e si andò a sedere all’ombra della magagnolia davanti alla casa.

«Ah» disse Dem Loa, toccandomi il polso ammanettato. Aveva dita piacevolmente fresche «Ci spiace, Raul Endymion.»

«Non è colpa vostra» le consolai; mi sentivo stanco e intontito dalla droga al punto da non riuscire a spiccicare bene le parole. «Siete state assolutamente gentili. Gentilissime.» Il dolore svaniva, ma non mi lasciava prendere sonno.

«Padre Clifton vorrebbe parlare con lei. Le va bene?»

In quel momento l’idea di fare conversazione con un prete missionario mi allettava come quella che dei ragnoratti mi rosicchiassero le dita dei piedi. «Certo» risposi. «Perché no?»


Padre Clifton era più giovane di me, basso di statura (ma un po’ meno di Dem Ria o di Dem Loa o di quelli della loro razza) e grassoccio, con capelli radi e giallastri, un principio di calvizie, viso amichevole e arrossato. Conoscevo il suo tipo. Quando ero nella Guardia nazionale, avevo incontrato un cappellano che assomigliava un poco a padre Clifton: zelante, per lo più inoffensivo, un po’ il tipo del cocco di mamma che si è fatto prete per non crescere e non diventare mai responsabile di se stesso. Era stata nonna a farmi notare come i preti di parrocchia nei vari villaggi al limitare delle brughiere di Hyperion tendevano a restare un po’ bambini: trattati con deferenza dai loro parrocchiani, tormentati da casalinghe e da donne di tutte le età, mai in vera competizione con altri maschi adulti. Non credo che nonna fosse attivamente anticlericale, malgrado il rifiuto di accettare la croce: era soltanto divertita da quella tendenza dei preti di parrocchia nel grande e potente impero della Pax.

Padre Clifton voleva parlare di teologia.

Credo d’avere emesso un gemito, allora, ma di sicuro fu scambiato come una reazione al calcolo renale: infatti il buon prete si limitò a sporgersi più vicino, a darmi un colpetto sul braccio e a mormorare: «Coraggio, figliolo».

Ho già detto che aveva cinque o sei anni meno di me?

«Raul… posso chiamarti Raul?»

«Certo, Padre.» Chiusi gli occhi come per addormentarmi.

«Qual è la tua opinione sulla Chiesa, Raul?»

Sotto le palpebre, rovesciai gli occhi. «La Chiesa, padre?»

Padre Clifton aspettò in silenzio.

Scrollai le spalle. O, per essere più precisi, cercai di scrollare la spalle: non è facile, quando si ha un polso ammanettato più in alto della testa e nell’altro braccio l’ago di una flebo.

Di sicuro padre Clifton capì il senso del mio movimento impacciato. «Allora sei indifferente alla Chiesa?» disse piano.

"Indifferente come si può essere nei confronti di una organizzazione che ha cercato di catturarmi o di uccidermi" pensai. Ma risposi: «Indifferente, no, padre. Solo che la Chiesa… be’, non ha avuto grande importanza nella mia vita, sotto molti punti di vista».

Il missionario inarcò il sopracciglio. «Cielo, Raul, la Chiesa è un mucchio di cose, non tutte buone e immacolate, ne sono sicuro, ma non penso che la si possa accusare di non avere importanza.»

Pensai di scrollare le spalle di nuovo, ma decisi che il goffo spasmo di poco prima mi era bastato. «Capisco cosa intende» dissi, augurandomi che la conversazione terminasse lì.

Padre Clifton si sporse ancora più vicino, gomiti sulle ginocchia, mani giunte davanti a sé, non tanto per pregare, quanto per convincere e ragionare. «Raul, sai che domani mattina ti porteranno alla base di Bombasino.»

Annuii. Potevo ancora muovere liberamente la testa.

«Sai che la Flotta della Pax e la Pax Mercatoria puniscono con la morte la diserzione.»

«Sì, ma solo dopo regolare processo.»

Padre Clifton non badò al mio sarcasmo. Aveva la fronte corrugata in quella che poteva essere solo inquietudine, non so se per il mio destino o per la perdizione eterna della mia anima. Forse per tutt’e due. «Per i cristiani» cominciò padre Clifton, esitò un istante, riprese. «Per i cristiani, l’esecuzione capitale è una pena, un certo disagio, forse perfino un momentaneo terrore; ma poi i cristiani correggono il proprio modo di fare e proseguono nella vita. Per te…»

«Il nulla» lo interruppi, aiutandolo a concludere la frase. «Il grande salto. Le tenebre eterne. Divento carne per vermi.»

Padre Clifton non trovò divertente la battuta. «Non è necessario che questo sia il tuo caso, figliolo.»

Sospirai e guardai dalla finestra. Su Vitus-Gray-Balianus B era primo pomeriggio. La luce del sole era diversa da quella di pianeti che conoscevo bene — Hyperion, la Vecchia Terra, perfino Mare Infinitum e altri posti da me visitati per un breve ma intenso periodo — però la differenza era così sottile che avrei avuto difficoltà a descriverla. Comunque, l’effetto era bellissimo. Niente da dire. Guardai il cielo blu cobalto striato di nuvole violacee e la luce pastosa che toccava il muro rosato e il davanzale di legno; ascoltai i rumori dei bambini che giocavano nel vialetto, le pacata conversazione fra Ces Ambre e Bin, il fratellino ammalato, l’improvvisa e dolce risata quando qualcosa nel loro gioco li divertiva, e pensai: "Perdere per sempre tutto questo?".

E udii l’allucinazione Aenea: "Perdere per sempre tutto questo, amore mio, è l’essenza della natura umana".

Padre Clifton si schiarì la voce. «Hai mai sentito parlare della scommessa di Pascal, Raul?»

«Sì.»

«Davvero?» si meravigliò padre Clifton. Parve sconcertato, come se gli avessi rovinato la linea di ragionamento che stava per sostenere. «Allora sai perché ha senso» disse debolmente.

Sospirai di nuovo. Il dolore adesso era continuo, non andava e veniva a ondate come nei giorni precedenti. Ricordai che mi ero imbattuto in Blaise Pascal per la prima volta in una conversazione con nonna, da bambino, e poi ne avevo discusso con Aenea, nel crepuscolo dell’Arizona, e infine avevo letto i suoi Pensieri nell’eccellente biblioteca di Taliesin West.

«Pascal era un matematico» diceva intanto padre Clifton. «Del periodo pre-Egira, metà del XVIII secolo, credo…»

«A dire il vero visse nella metà del 1600» lo corressi. «Dal 1623 al 1662, se non sbaglio.» A essere sinceri, bluffavo un poco con le date. I numeri mi parevano corretti, ma non ci avrei scommesso la vita. Ricordavo il periodo perché un inverno Aenea e io avevamo trascorso un paio di settimane a discutere l’Illuminismo e i suoi effetti sulle persone e sulle istituzioni dell’epoca pre-Egira, pre-Pax.

«Sì» disse padre Clifton «ma il tempo in cui visse non è importante come la sua cosiddetta scommessa. Rifletti, Raul: da una parte, la possibilità di risurrezione, l’immortalità, l’eternità in cielo e il beneficio della luce di Cristo. Dall’altra… come avevi detto?»

«Il grande salto. Il nulla.»

«Peggio ancora» disse il giovane prete, con tono zelante, convinto. «Il nulla significa non esistenza. Sonno senza sogni. Ma Pascal capì che la mancanza della redenzione di Cristo è peggio del nulla. È rimpianto eterno… desiderio struggente… tristezza infinita.»

«E inferno? Eterno castigo?»

Padre Clifton strinse le mani, evidentemente a disagio su questo lato dell’equazione. «Forse» disse poi. «Ma se anche l’inferno fosse solo l’eterna consapevolezza dell’occasione perduta, perché rischiare? Pascal capì che, se la Chiesa aveva torto, chi avesse abbracciato la sua speranza non avrebbe perduto niente. E se la Chiesa aveva ragione…»

Sorrisi. «Un tantino cinico, no, padre?»

Gli occhi chiari del prete guardarono dritto nei miei. «Non tanto cinico quanto morire senza motivo come nel tuo caso, Raul. Mentre c’è la possibilità di accettare Cristo come nostro Signore, di lavorare bene fra altre persone, di servire la tua comunità e i tuoi fratelli in Cristo, di salvare intanto la tua vita fisica e la tua anima immortale.»

Annuii. Dopo un minuto, dissi: «Forse il tempo in cui visse era davvero importante».

Padre Clifton batté le palpebre, sorpreso: non mi seguiva.

«Mi riferivo a Blaise Pascal» dissi. «Pascal visse in un periodo di rivoluzione intellettuale come l’uomo raramente ha visto. Per giunta, Copernico e Keplero e altri della stessa forza vivacizzavano mille volte tanto l’universo. Il Sole diventava… be’… un semplice sole, padre. Ogni cosa veniva cambiata di posto, spostata di lato, spinta via dal centro. Pascal disse una volta: "Sono atterrito dal silenzio eterno di questi spazi infiniti".»

Padre Clifton si chinò più vicino. Sentii il profumo del sapone e della crema da barba sulla sua pelle liscia. «Motivo in più per meditare sulla saggezza della sua scommessa, Raul.»

Battei le palpebre, col desiderio di scostarmi da quella faccia di luna piena, rosea e ben lavata. Ero sicuro di puzzare di sudore, di sofferenza, di paura. Da un giorno standard non mi lavavo i denti.

«Non ho nessuna voglia di fare una qualsiasi scommessa, se significa trattare con una Chiesa tanto corrotta da stabilire nell’ubbidienza e nella sottomissione il prezzo per salvare la vita di un bambino.»

Padre Clifton si scostò come se l’avessi schiaffeggiato. La sua pelle rosea divenne di un rosso intenso. Il prete si alzò e mi diede un colpetto sul braccio. «Dormi un poco. Parleremo ancora domani, prima che tu te ne vada.»

Ma non avevo a disposizione tutto quel tempo. Se in quel momento fossi stato fuori della casa e avessi guardato nel giusto quadrante di cielo del tardo pomeriggio, avrei visto una scia di fiamma nella cupola di cobalto: la navetta di Nemes si disponeva all’atterraggio nella base di Bombasino.

Appena Padre Clifton uscì, mi addormentai.


Guardai Aenea e me stesso, seduti nel vestibolo del riparo di Aenea, nella notte del deserto, continuare la conversazione.

"Ho già fatto questo sogno" dissi. Mi guardai intorno e toccai la pietra sotto la tela del riparo. Conservava un poco del calore del giorno.

"Sì" disse Aenea. Sorseggiava ancora del tè.

"Eri sul punto di rivelarmi il segreto che ti rende un messia. Il segreto che ti rende ’il legame tra due mondi’ di cui parlò l’IA Ummon."

"Sì" annuì la mia giovane amica. "Ma prima dimmi se pensi che la tua risposta a padre Clifton fosse sufficiente."

"Sufficiente?" Scrollai le spalle. "Ero arrabbiato."

Aenea sorseggiò il tè: il vapore che si alzava dalla tazza le toccò le ciglia. "In realtà non hai risposto alla sua domanda sulla scommessa di Pascal."

"Non occorreva rispondergli altro" replicai, un po’ irritato. "Il piccolo Bin Ria Dem Loa Alem sta morendo di cancro. La Chiesa usa come leva il crucimorfo. Un modo di fare inconcepibile… indegno. Non ci sto."

Aenea mi guardò da sopra la tazza fumante. "Ma se la Chiesa non fosse corrotta, Raul, se desse il crucimorfo senza pretendere un prezzo né fare riserve, accetteresti la croce?"

"No." Fui sorpreso dall’immediatezza della risposta.

Aenea sorrise. "Quindi al centro della tua protesta non c’è la corruzione della Chiesa. Tu respingi la risurrezione stessa."

Fui sul punto di replicare, esitai e riformulai la frase che avevo pensato. "Sì, respingo questo tipo di risurrezione."

Sempre sorridendo, Aenea disse: "Ne esistono altri tipi?".

"Un tempo la Chiesa lo pensava. Per quasi tremila anni ha offerto la risurrezione dell’anima, non del corpo."

"E credi in quest’altro tipo di risurrezione?"

"No" dissi di nuovo, con la stessa prontezza di prima. Scossi la testa. "La scommessa di Pascal non mi ha mai attirato. Dal punto di vista della logica, pare… superficiale."

"Forse perché pone solo due scelte" disse Aenea. Da qualche parte, nella notte del deserto, una civetta lanciò un breve stridio. "Risurrezione spirituale e immortalità, oppure morte e dannazione."

"Le ultime due non sono la stessa cosa" obiettai.

"No. Ma forse lo erano per uno come Blaise Pascal. Un uomo atterrito dal ’silenzio eterno di questi spazi infiniti’."

"Soffriva di agorafobia spirituale."

Aenea rise. La risata era così sincera e spontanea che non potevo fare a meno di amarla. Di amare lei.

"Pare che la religione ci abbia sempre dato questo falso dualismo" disse Aenea, posando la tazza di tè sopra un sasso piatto. "I silenzi dello spazio infinito oppure il comodo conforto della certezza interiore."

Sbuffai. "La Chiesa della Pax dà una certezza più pragmatica."

Aenea annuì. "Potrebbe essere la sua sola risorsa, oggi. Forse la nostra riserva di fede spirituale si è esaurita."

"Forse si sarebbe dovuta esaurire molto tempo fa" replicai, duro. "La superstizione ha preteso un terribile tributo dalla nostra specie. Guerre… pogrom… resistenza alla logica, alla scienza, alla medicina… per non parlare della concentrazione del potere nelle mani di persone come quelle che governano la Pax."

"Allora ogni religione è superstizione, Raul? Ogni fede è follia?"

La guardai a occhi socchiusi. La fioca luce dentro il riparo e l’ancora più fioco luccichio delle stelle giocavano sui suoi zigomi sporgenti e sulla morbida curva del mento. "Cosa intendi?" Mi aspettavo, a ragione, una trappola.

"Se tu avessi fede in me, sarebbe follia?"

"Fede in te… come?" replicai. Sentii nella mia voce un tono sospettoso, quasi imbronciato. "Come amice? O come messia?"

"Qual è la differenza?" domandò Aenea. Sorrise di nuovo in quel modo che di solito anticipava una sfida.

"Fede in un’amica è… amicizia. Lealtà." Esitai. "Amore."

"E fede in un messia?" disse Aenea, con un luccichio negli occhi.

Scrollai le spalle. "Quella è religione."

"E se la tua amica è il messia?" Ora sorrideva apertamente.

"Vuoi dire: ’E se la tua amica pensa di essere il messia?’" replicai. Scrollai di nuovo le spalle. "Be’, le resti leale e cerchi di tenerla fuori del manicomio."

Il suo sorriso svanì lentamente, ma intuii che non era colpa del mio aspro commento. Aenea aveva lo sguardo perduto nel vuoto. "Vorrei che fosse così semplice, mio caro amico."

Commosso, travolto da un’ondata d’ansia così reale come un attacco di nausea, dissi: "Stavi per dirmi perché sei stata scelta come messia, ragazzina. Che cosa ti rende il legame fra due mondi".

La ragazzina, giovane donna mi resi conto, annuì solennemente. "Sono stata scelta per il semplice motivo che ero il primo figlio del Nucleo e della specie umana."

L’aveva già detto in precedenza. Stavolta annuii. "Allora sono questi i due mondi che unisci, il Nucleo e noi?"

"Due dei mondi, sì" disse Aenea, tornando a guardarmi. "Non gli unici due. Questo è proprio ciò che fanno i messia, Raul, stendono un ponte fra mondi diversi. Epoche diverse. Forniscono il legame fra due concetti inconciliabili."

"E il tuo collegamento a tutt’e due questi mondi ti rende un messia?"

Aenea scosse subito la testa, quasi spazientita: negli occhi le balenò un lampo che pareva collera. "No" disse, brusca. "Sono il messia per ciò che posso fare!"

Rimasi stupito per la sua veemenza. "Cosa puoi fare, ragazzina?"

Aenea mi toccò con gentilezza. "Ricordi quando ho detto che la Chiesa e la Pax avevano ragione su di me, Raul? Sostenendo che ero un virus?"

"Sì, certo."

Mi strinse il polso. "Posso trasmettere quel virus, Raul. Posso infettare altri. Progressione geometrica. Un’epidemia di portatori."

"Portatori di cosa? Di messianicità?"

Aenea scosse la testa. Aveva un’espressione così triste che mi venne voglia di consolarla, di circondarle le spalle. Non allentò la salda stretta sul mio polso. "No" disse. "Solo il passo seguente in ciò che siamo. Ciò che possiamo essere."

Trassi un respiro. "Parlavi d’insegnare la fisica dell’amore. Di capire l’amore come forza basilare dell’universo. È questo, il virus?"

Sempre tenendomi il polso, mi fissò a lungo. "Quella è la fonte del virus" disse piano. "Io insegno come usare quella energia."

"Come?" mormorai.

Aenea batté lentamente le palpebre, come se fosse lei a sognare e sul punto di svegliarsi. "Diciamo che ci sono quattro passi. Quattro gradi. Quattro livelli."

Aspettai. Le sue dita formavano un cerchio intorno al mio polso.

"Il primo è apprendere il linguaggio dei morti" disse Aenea.

"Cosa c’entra…"

"Sst!" Portò alle labbra l’indice della mano libera, indicandomi di tacere.

"Il secondo è apprendere il linguaggio dei viventi" riprese.

Annuii, anche se non capivo né l’uno né l’altro.

"Il terzo è udire la musica delle sfere" mormorò Aenea.

Nelle mie letture a Taliesin West mi ero imbattuto in quell’antica espressione, "musica delle sfere": un miscuglio di astrologia, epoca prescientifica della Vecchia Terra, modellini lignei di un sistema solare secondo Keplero basato su forme perfette, stelle e pianeti mossi da angeli, volumi di ambigue acrobazie verbali. Non capivo di che cosa parlasse la mia amica né come si potesse applicare a un’epoca dove l’uomo si muoveva a velocità superiore a quella della luce lungo il braccio della spirale galattica.

"Il quarto passo" disse Aenea, con lo sguardo di nuovo perduto nel vuoto "è imparare a muovere il primo passo."

"Il primo passo" ripetei, confuso. "Ti riferisci al primo passo che hai appena elencato? qual era? Apprendere il linguaggio dei morti?"

Aenea scosse la testa e parve vedermi di nuovo, come se per un momento fosse stata altrove. "No. Intendo dire: muovere il primo passo."

Quasi trattenendo il respiro, dissi: "D’accordo. Sono pronto, ragazzina. Insegnami."

Aenea sorrise. "Ecco l’ironia, Raul, amore mio. Se decido di farlo, sarò conosciuta per sempre come Colei che insegna. Ma è sciocco, io non devo insegnare. Devo solo condividere questo virus per trasmettere ognuno di questi gradi a quelli che desiderano imparare."

Guardai le sue dita che mi circondavano il polso. "Allora mi hai già trasmesso questo… virus?" dissi. Non sentivo niente, a parte il solito formicolio elettrico che il suo tocco mi provocava sempre.

Aenea si mise a ridere. "No, Raul. Non sei pronto. E poi occorre la comunione, per condividere il virus, nonni semplice contatto. E non ho ancora deciso cosa fare… non ho deciso se dovrei farlo!"

"Condividere con me?" dissi, pensando: comunione?

"Condividere con chicchessia" mormorò lei, di nuovo seria. "Con chiunque sia pronto a imparare." Mi guardò in viso. Da qualche parte, nel deserto, un coyote uggiolava. "Questi… livelli, gradi… non possono coesistere col crucimorfo, Raul."

"Allora i cristiani rinati non possono imparare?" Così la grande maggioranza di esseri umani sarebbe rimasta esclusa.

Aenea scosse la testa. "Possono imparare, ma non possono restare cristiani rinati, tutto qui. Il crucimorfo deve sparire."

Lasciai uscire il fiato. Non ci capivo quasi niente, ma solo perché pareva un linguaggio incomprensibile. "Tutti i futuri messia non parlano forse un linguaggio incomprensibile?" domandò la parte cinica di me stesso, con l’equilibrata voce di nonna. Dissi: "Non si può rimuovere il crucimorfo senza uccidere chi lo porta. La vera morte". Mi ero sempre domandato se non fosse questa la principale ragione per cui rifiutavo di accettare la croce. O forse era solo la giovanile convinzione nella mia stessa immortalità.

Aenea non rispose direttamente. Disse: "Ti piacciono gli Spettroelica di Amoiete, vero?".

Sorpreso, cercai di capire la sua domanda. Avevo forse sognato quella frase, quelle persone, quel dolore? Sognavo, no, in quel momento? O ricordavo una vera conversazione? Ma Aenea non sapeva niente di Dem Ria, di Dem Loa e degli altri. La notte e il riparo di pietra e di tela parvero incresparsi come un paesaggio di sogno che si sbrindellasse.

"Mi piacciono" dissi. Sentii che Aenea mi lasciava il polso. "Il mio polso non era ammanettato alla testiera del letto?"

Aenea annuì e sorseggiò il tè che diventava freddo. "C’è speranza, per gli Spettroelica. E per tutte le migliaia di altre culture che sono regredite o sbocciate dopo la Caduta. L’Egemonia significava omogeneità, Raul. La Pax significa omogeneità ancora maggiore. Il genoma umano, l’anima umana, diffida dell’omogeneità, Raul. È sempre pronto a cogliere al volo l’occasione, a correre il rischio del cambiamento e della diversità."

"Aenea" dissi, allungando la mano per toccarla. "Io non… non possiamo…" Provai una orribile sensazione di cadere e il paesaggio di sogno si disciolse come cartone sottile sotto pioggia battente. Non riuscivo più a vedere la mia amica.


«Sveglia, Raul. Vengono a prenderti. La Pax sta arrivando.»

Cercai di svegliarmi, avanzai a tentoni verso la consapevolezza, come una lenta macchina che strisciasse in salita; ma il peso dello sfinimento e degli analgesici continuava a trascinarmi in basso. Non capivo perché Aenea mi volesse sveglio. Conversavamo così bene, in sogno.

«Sveglia, Raul Endymion.»

Non era la voce di Aenea. Ancora prima d’essere completamente sveglio e di mettere a fuoco la vista, riconobbi la morbida voce e l’inflessione di Dem Ria.

Mi alzai a sedere. La donna mi stava spogliando! Mi resi conto che mi aveva tolto l’ampia camicia da notte e che mi infilava la biancheria, lavata e profumata di fresco ora, ma inconfondibilmente mia. Avevo già indosso gli slip. I calzoni di saia, la camicia e il giubbotto erano stesi ai piedi del letto. Come aveva fatto, visto che ero ammanettato…

Mi guardai il polso. Le manette, aperte, erano sul letto. Il braccio mi formicolava dolorosamente per il ritorno della circolazione. Mi umettai le labbra e cercai di parlare senza strascicare le parole. «La Pax? Arriva?»

Dem Ria mi infilò la camicia come se fossi suo figlio Bin, o più piccolo. Le scostai le mani e cercai di abbottonarmi da solo, con le dita a un tratto intorpidite. A Taliesin West, sulla Vecchia Terra, usavano bottoni, anziché piastrine autoaderenti: credevo di essermi abituato, ma stavolta avevo l’impressione di metterci un’eternità.

«E abbiamo sentito per radio che una navetta è atterrata a Bombasino. Quattro persone con una insolita uniforme, due uomini e due donne. Hanno chiesto di te al comandante della base. Sono appena partiti, la navetta e tre skimmer. Saranno qui in quattro minuti. Forse meno.»

«Radio?» ripetei come uno stupido. «Non hai detto che la radio non funziona? Per questo il prete era andato alla base a chiamare il medico.»

«La radio di padre Clifton non funziona» mormorò Dem Ria. Mi tirò in piedi e mi sorresse mentre mi infilavo i calzoni. «Abbiamo le radio» riprese. «Ricetrasmettitori a raggio compatto, satelliti relè, tutte cose di cui la Pax è all’oscuro. E informatori, nella base. Uno ci ha avvertito. Sbrigati, Raul Endymion. Le navi saranno qui fra un minuto.»

Allora mi svegliai del tutto, letteralmente invaso da un impulso di collera e di disperazione che minacciò di travolgermi. "Perché quei bastardi non mi lasciano in pace?" pensai. Quattro persone in uniforme insolita. La Pax, naturalmente. Non aveva smesso di cercare Aenea, A. Bettik e me, era chiaro, dogo che il prete capitano de Soya ci aveva lasciati fuggire dalla trappola su Bosco Divino, più di quattro anni fa.

Guardai il cronometro del comlog. Le navi sarebbero atterrate fra circa un minuto. Non esisteva posto dove potessi fuggire in così breve tempo e dove la polizia della Pax non mi avrebbe trovato. «Lasciami andare» dissi, scostandomi da Dem Ria. La finestra era aperta, la brezza pomeridiana agitava le tendine. Mi parve di udire il ronzio quasi ultrasonico degli skimmer. «Devo allontanarmi da casa vostra…» Vedevo con la mente la Pax dare fuoco alla casa, i piccoli Ces Ambre e Bin intrappolati…

Dem Ria mi tirò via dalla finestra. In quel momento entrarono il capofamiglia, il giovane Alem Mikail Dem Alem, e Dem Loa. Trascinavano il massiccio lusiano lasciato di guardia. Ces Ambre, con occhi brillanti, alzava i piedi della guardia, mentre Bin si affannava a togliergli gli stivali. Il lusiano dormiva della grossa, a bocca aperta, sbavando il colletto della tuta mimetica da combattimento.

Guardai Dem Ria.

«Quindici minuti fa Dem Loa gli ha portato una tazza di tè» disse sottovoce la donna. Mosse la mano in un gesto che fece gonfiare la manica della tunica azzurra. «Purtroppo abbiamo dovuto usare l’ultima fiala di ultramorfina, Raul Endymion.»

«Devo andare…» cominciai. Il dolore alla schiena era sopportabile, ma mi sentivo mancare le gambe.

«No» disse Dem Ria. «Ti prenderanno in un minuto.» Indicò la finestra. Dall’esterno provenne l’inconfondibile rombo subsonico di una navetta a propulsione EM, seguito dal tonfo e dal latrato dei suoi razzi direzionali. Di sicuro il velivolo si librava sopra il villaggio e cercava dove atterrare. L’attimo dopo la finestra vibrò per un triplice bang sonico; due skimmer neri virarono sopra la casa vicina.

Alem Mikail aveva spogliato il lusiano, lasciandogli solo la termobiancheria, e l’aveva disteso sul letto. Ora chiuse nella manetta il grosso polso della guardia e agganciò l’altra alla sbarra della testiera. Dem Loa e Ces Ambre avevano raccolto tuta mimetica, armatura e stivali e li infilavano in un sacco da lavanderia. Il piccolo Bin Ria Dem Loa Alem gettò nel sacco l’elmo della guardia. Aveva in mano la pesante pistola a fléchettes. Sobbalzai: armi e bambini erano una combinazione che avevo imparato a evitare fin da quando ero anch’io bambino e imparavo a maneggiare armi a energia, mentre la carovana percorreva rumorosamente la strada fra le brughiere di Hyperion. Ma Alem sorrise, tolse al bambino la pistola e gli diede una pacca sulla schiena. Dal modo come Bin aveva tenuto la pistola, dita lontano dalla guardia del grilletto, bocca da fuoco lontano da sé e dal padre, un’occhiata di controllo alla sicura mentre gli porgeva l’arma, era evidente che ne aveva già maneggiate.

Bin mi sorrise, prese il pesante sacco con gli indumenti del lusiano e uscì di corsa dalla stanza. Il rumore all’esterno della casa crebbe a dismisura. Mi girai a guardare dalla finestra.

A meno di trenta metri, uno skimmer nero sollevava polvere nella via che correva lungo il canale. Potevo vederlo da uno spazio vuoto fra le case. La navetta più grossa si abbassò, fuori vista, verso sud, forse per atterrare nella zona erbosa accanto al pozzo dove ero crollato per il dolore causato dal calcolo renale.

Avevo appena terminato di infilarmi gli stivali e di abbottonarmi il giubbotto, quando Alem mi porse la pistola a fléchettes. Controllai per abitudine la sicura e gli indicatori di carica, ma poi scossi la testa. «No» dissi. «Sarebbe un suicidio, attaccare solo con questa le guardie della Pax. La loro armatura…» In realtà in quel momento non pensavo all’armatura, ma al fuoco di risposta di armi d’assalto che in un batter d’occhio avrebbero raso al suolo la casa. Pensai anche al bambino, là fuori, col sacco della lavanderia e gli indumenti del lusiano. «Bin…» dissi. «Se lo prendono…»

«Lo sappiamo, lo sappiamo» disse Dem Ria. Mi tirò via dal letto e mi spinse nello stretto corridoio. Non ricordavo quella parte della casa. Nelle ultime quaranta ore, il mio universo si era limitato alla stanza da letto e al bagno adiacente. «Su, vieni» disse Dem Ria.

La scostai di nuovo e diedi ad Alem la pistola. «Lasciatemi scappare» dissi, col cuore che mi batteva forte. Indicai il lusiano che russava. «Neppure per un attimo penseranno che sia io. Chiameranno per radio la dottoressa, se non è già a bordo di uno degli skimmer, per identificarmi. Dite loro…» guardai quei visi amichevoli «che ho sopraffatto la guardia e che vi ho tenuto sotto tiro…» Mi fermai, rendendomi conto che il lusiano avrebbe distrutto quella storia di copertura appena si fosse svegliato. La complicità della famiglia nella mia fuga sarebbe stata evidente. Guardai di nuovo la pistola a fléchettes, quasi pronto a prenderla. Una scarica di aghi d’acciaio e il lusiano non si sarebbe mai svegliato per smentire la storia e mettere nei guai quelle brave persone.

Solo, non sarei mai riuscito a ucciderlo. Potevo sparare a una guardia della Pax in regolare combattimento — a dire il vero, la scarica di adrenalina provocata dall’ira che mi bruciava malgrado la debolezza e la paura mi disse che quell’opportunità sarebbe stata per me un vero sollievo — ma non avrei mai sparato a quell’uomo addormentato.

Però lo scontro non sarebbe mai stato regolare. Agenti della Pax in armatura da guerra, senza contare le quattro misteriose persone nella navetta… forse guardie svizzere… avrebbero resistito alle fléchettes e a qualsiasi cosa che non fosse una delle armi d’assalto della Pax. E le guardie svizzere avrebbero resistito anche a queste ultime. Ero fottuto. Quella brava gente così gentile nei miei riguardi era fottuta.

La porta posteriore si spalancò e Bin entrò nel corridoio, con la veste tirata su, mostrando le gambe magre e sporche di polvere rossastra. Lo guardai, pensando che il bambino non avrebbe mai avuto il crucimorfo e sarebbe morto di cancro. I suoi genitori avrebbero forse trascorso i prossimi dieci anni standard in una prigione della Pax.

«Mi spiace…» dissi, cercando le parole giuste. Udivo la confusione nella via, mentre gli agenti si facevano largo di corsa tra la folla serale di pedoni.

«Raul Endymion» disse Dem Loa, con la sua morbida voce, passandomi lo zaino che avevano preso dal mio kayak «fammi il favore di chiudere il becco e di seguirci. Immediatamente!»

Sotto il pavimento del corridoio c’era l’ingresso di un tunnel. Avevo sempre pensato che i passaggi segreti fossero roba da olodrammi, ma seguii volentieri Dem Ria in quel tunnel. Eravamo un bizzarro corteo, Dem Ria e Dem Loa scendevano la ripida scala davanti a me, io impugnavo la pistola a fléchettes, poi il piccolo Bin seguito dalla sorella, poi Alem Mikail Dem Alem che aveva chiuso con cura la botola alle proprie spalle. Nessuno rimase indietro. La casa era vuota, a parte il lusiano addormentato.

La scala scendeva più in basso del livello di un normale scantinato. Sulle prime pensai che le pareti del tunnel fossero di mattoni crudi come quelle della casa, poi mi resi conto che il passaggio era scavato in una roccia tenera, forse arenaria. Dopo ventisette gradini ci trovammo sul fondo del pozzo verticale e Dem Ria ci guidò in uno stretto passaggio illuminato da lividi fotoglobi chimici. Mi domandai perché quella casa di una normale famiglia borghese avesse un passaggio segreto.

Come se mi leggesse nel pensiero, Dem Loa si girò dalla mia parte e bisbigliò: «La Spettroelica di Amoiete esige… ingressi discreti da una casa all’altra. Soprattutto durante la duplice oscurità».

«Duplice oscurità?» bisbigliai a mia volta, chinando la testa per non urtare un fotoglobo. Avevamo già percorso venti o trenta metri, lontano dal canale ritenevo, e il tunnel faceva ancora una curva a destra e continuava fuori vista.

«La lenta, duplice eclisse di sole causata dalle due lune del pianeta» mi spiegò in un bisbiglio Dem Loa. «Dura diciannove minuti esatti. La ragione primaria per cui abbiamo scelto questo pianeta.»

«Ah» dissi. Non capivo, ma non mi pareva una cosa importante, al momento. «I militari della Pax hanno dei sensori per scoprire buchi da cecchino come questo» bisbigliai alla donna che mi precedeva. «Hanno radar di profondità per frugare attraverso la solida roccia. Hanno…»

«Sì, sì» intervenne Alem, alle mie spalle. «Ma per qualche minuto saranno trattenuti dal sindaco e dagli altri.»

«Il sindaco?» ripetei come uno sciocco. Mi reggevo ancora a stento sulle gambe, per i due giorni di letto e di sofferenza. Avevo male alla schiena e al basso ventre, ma era un dolore secondario, irrilevante, a paragone di ciò che avevo passato (e di ciò che era passato dentro di me) nell’ultimo paio di giorni.

«Il sindaco sta contestando il diritto della Pax a fare perquisizioni» bisbigliò Dem Ria. Il passaggio si allargò e proseguì, dritto, per almeno cento metri. Oltrepassammo due passaggi trasversali. Non era una via di scampo, era una maledetta catacomba. «La Pax riconosce l’autorità del sindaco a Chiusa Childe Lamonde» bisbigliò Dem Ria. Le vesti di seta azzurra dei cinque membri della famiglia frusciavano contro l’arenaria, mentre percorrevamo rapidamente il passaggio. «Abbiamo ancora leggi e tribunali, su Vitus-Gray-Balianus B, perciò alla Pax non sono concessi diritti illimitati di perquisizione e di arresto.»

«Ma quelli si faranno dare il permesso da qualsiasi autorità sia preposta» replicai, correndo per tenere il passo. Giungemmo a un altro incrocio e girammo a destra.

«Alla fine, sì» disse Dem Loa. «Ma ora le vie di Chiusa Childe Lamonde sono piene di tutti i colori dell’elemento locale dell’Elica, rossi, bianchi, verdi, gialli, ebano, migliaia di persone del nostro villaggio. E molte altre giungono da Chiuse vicine. Nessuno rivelerà in quale casa eri tenuto. Padre Clifton è stato attirato con un pretesto lontano dal villaggio, così non sarà di aiuto alla polizia della Pax. La dottoressa Molina è stata trattenuta a Keroa Tambat da alcuni di noi e al momento non può mettersi in contatto con i suoi superiori. E il lusiano dormirà almeno per un’altra ora. Da questa parte.»

Girammo a sinistra in un passaggio più ampio, ci fermammo alla prima porta che trovammo, aspettammo che Dem Ria azionasse il lucchetto palmare e passammo in un ampio locale pieno d’echi scavato nella roccia. Ci trovammo in cima a una scala metallica che dava su quello che pareva un garage sotterraneo: cinque o sei veicoli lunghi e sottili, con grosse ruote sproporzionate, parafanghi posteriori, vele e pedali raggruppati per colori primari. Quegli aggeggi parevano carrozze a quattro ruote, con sedile scoperto; si reggevano su sospensioni molto sottili, erano chiaramente spinti dal vento e dai muscoli, avevano rivestimenti di legno, di tessuto polimero serico e brillante, di perspex.

«Eolocicli» disse Ces Ambre.

Alcune persone, uomini e donne, in vesti verde smeraldo e alti stivali, preparavano per la partenza tre di quei veicoli. In fondo al cassone di uno di essi era legato il mio kayak.

Dem Loa e gli altri cominciarono a scendere la scaletta metallica, ma io rimasi fermo in cima. Il mio arresto fu così improvviso che il povero Bin e Ces Ambre rischiarono di urtarmi.

«Cosa c’è?» disse Alem Mikail.

Mi ero infilato nella cintura la pistola a fléchettes e ora allargai le braccia. «Perché vi prendete tanto disturbo? Perché tutti mi aiutano? Cosa succede?»

Dem Ria risalì di un gradino e si appoggiò alla ringhiera. Aveva occhi luminosi come quelli della figlia. «Se ti prendono, Raul Endymion, ti uccidono.»

«Come lo sai?» Non avevo alzato la voce, ma l’acustica del garage sotterraneo era tale che uomini e donne in verde alzarono gli occhi verso di noi.

«Hai parlato nel sonno» disse Dem Loa.

Piegai di lato la testa, senza capire. Avevo sognato la conversazione con Aenea. Che cosa poteva significare, per quelle persone?

Dem Ria risalì di un altro gradino e mi toccò il polso. «La Spettroelica di Amoiete ha profetizzato quella donna, Raul Endymion. Quella Aenea. Noi la chiamiamo Colei che insegna.»

Mi venne la pelle d’oca, in quel momento, nella livida luce dei fotoglobi di quel posto sotterraneo. Il vecchio poeta, zio Martin, aveva parlato della mia giovane amica come di un messia, ma il suo cinismo filtrava in tutto ciò che diceva o faceva. La comunità di Taliesin West aveva rispettato Aenea, ma come potevo credere che quella energica ragazza di sedici anni fosse davvero una Figura storica mondiale? Pareva inverosimile. Inoltre, Aenea e io ne avevamo parlato nella vita reale e nei miei sogni sotto ultramorfina, però, oddio, mi trovavo in un pianeta distante decine e decine di anni luce da Hyperion e un’eternità dalla Piccola Nube di Magellano dove era nascosta la Vecchia Terra. Come facevano, quelle persone, a…

«Quando compose la sinfonia Elica, Halpul Amoiete sapeva di Colei che insegna» disse Dem Loa. «Tutta la gente dello Spettro discende da ceppo empatico. L’Elica era ed è un modo di raffinare la capacità empatica.»

Scossi la testa. «Mi spiace, non capisco…»

«Per favore, Raul Endymion, cerca di capire almeno questo» disse Dem Ria, stringendomi il polso quasi dolorosamente. «Se non scappi da qui, la Pax avrà il tuo corpo e la tua anima. E Colei che insegna ha bisogno di tutt’e due queste cose.»

Fissai a occhi socchiusi Dem Ria, pensando che scherzasse. Ma il suo viso piacevole e liscio era serio, deciso.

«Per favore» disse il piccolo Bin, posando la manina sulla mia e tirandomi. «Per favore, Raul, fai presto.»

Scesi in fretta la scala. Un uomo in verde mi diede una veste rossa. Alem Mikail mi aiutò a indossarla sopra i vestiti. Con una decina di rapidi colpi mi sistemò il burnus rosso e il cappuccio: non sarei mai stato capace di avvolgerlo correttamente. Mi accorsi con sorpresa che l’intera famiglia, le due donne, Ces Ambre e il piccolo Bin, si era tolta le vesti azzurre e indossava vesti rosse. Capii allora di essermi sbagliato a pensare che assomigliassero ai lusiani: anche se erano di statura inferiore alla media della Pax e avevano grande muscolatura, erano perfettamente proporzionati. Gli adulti non avevano peli, né in testa né altrove. La cosa rendeva più attraente il loro corpo compatto, perfettamente intonato.

Distolsi lo sguardo, rendendomi conto d’essere arrossito. Ces Ambre si mise a ridere e mi diede di gomito. Adesso eravamo tutti in rosso. Alem Mikail fu l’ultimo a vestirsi. Una sola occhiata al suo torace muscoloso mi disse che non avrei resistito quindici secondi in un combattimento contro di lui, anche se era più basso di me. Ma non avrei resistito trenta secondi neanche contro Dem Loa o Dem Ria.

Porsi ad Alem Mikail la pistola a fléchettes, ma lui mi fece segno di tenerla e mi mostrò come infilarla in una delle fasce del burnus. Pensai che, come armi, nello zaino non avevo molto, un coltello da caccia navajo e la piccola torcia laser, e lo ringraziai con un cenno.

Fui spinto, con le donne e i bambini, in fondo al cassone dell’eolociclo che già conteneva il mio kayak; un telone rosso fu teso sui montanti, sopra di noi. Fummo costretti ad accovacciarci, perché un secondo strato di tessuto, alcune assi di legno e varie casse e barili furono sistemati intorno a noi e sopra di noi. Riuscivo appena a scorgere un barlume di luce fra la sponda ribaltabile e la copertura del cassone. Ascoltai il rumore di passi sulla pietra, quando Alem salì davanti e si sistemò su una delle due selle a pedali. Sentii anche uno degli altri uomini, adesso in rosso pure loro, unirsi a lui sul sellino da ciclista dall’altro lato della barra centrale.

Con l’albero maestro ancora abbassato su di noi e le vele di stoffa terzarolate, cominciammo a risalire un lungo piano inclinato che portava fuori del garage.

«Dove andiamo?» bisbigliai a Dem Ria, distesa accanto a me. Il legno profumava di cedro.

«L’arcata teleporter a valle del canale» mi rispose in un bisbiglio.

Rimasi sorpreso. «Sapete anche questo?»

«Ti hanno dato la ventina» bisbigliò Dem Loa, dall’altra parte di una cassa. «E hai parlato nel sonno.»

Bin era disteso proprio accanto a me. «Sappiamo che Colei che insegna ti ha mandato in missione» disse quasi allegramente. «Sappiamo che devi raggiungere la prossima arcata.» Diede un colpetto al kayak sistemato accanto a noi. «Mi piacerebbe venire con te.»

«Troppo pericoloso» sibilai, mentre dal tunnel il veicolo usciva all’aria aperta. I bassi raggi del sole illuminavano il telone che ci nascondeva. L’eolociclo si fermò per un attimo: i due uomini azionarono la manovella e drizzarono l’albero, poi spiegarono la vela. «Troppo pericoloso» ripetei. Mi riferivo ovviamente ai rischi che correvano loro nel portarmi al teleporter, non alla missione affidatami da Aenea.

Mi rivolsi a Dem Ria. «Se sanno chi sono» bisbigliai «di sicuro sorvegliano l’arcata.»

Scorsi il contorno del suo cappuccio, mentre lei annuiva. «Saranno di guardia, Raul Endymion. Ed è pericoloso. Ma fra poco sarà buio. Fra quattordici minuti.»

Diedi un’occhiata al comlog. Dalle mie osservazioni nei due giorni precedenti, mancava non meno di un’ora e mezzo al crepuscolo e un’altra ora a notte.

«Ci sono solo sei chilometri da qui all’arcata» bisbigliò Ces Ambre, distesa dall’altro lato del kayak. «I villaggi saranno pieni di gente dello Spettro in festa.»

Finalmente capii. «La duplice tenebra?» bisbigliai.

«Sì» disse Dem Ria. Mi diede un colpetto sulla mano. «Ora dobbiamo stare in silenzio. Stiamo per entrare nel traffico della strada di sale.»

«Troppo pericoloso» bisbigliai ancora una volta, mentre il veicolo iniziava a cigolare e scricchiolare nel traffico. La trasmissione a catena rumoreggiava sotto l’assito e il vento premeva sulla vela. "Troppo pericoloso" dissi, solo a me stesso.

Se avessi saputo che cosa accadeva intanto a qualche centinaio di metri da noi, avrei capito quant’era davvero pericoloso quel momento.


Mentre l’eolociclo percorreva rumorosamente la strada di sale, scrutai dalla fessura tra il cassone di legno e il telo. Per quanto potevo capire, quella strada di grande traffico era una striscia di sale duro come roccia fra i villaggi raggruppati intorno al canale sopraelevato e il deserto a reticolo che si estendeva verso nord a perdita d’occhio.

«Il deserto Wahhabi» bisbigliò Dem Ria, mentre il veicolo acquistava velocità e puntava a sud. Altri eolocicli ci sorpassarono, diretti a sud, con la vela gonfia di vento, i due pedalatori strenuamente impegnati. Un numero maggiore di veicoli dai teloni a colori vivaci andava a nord: le vele erano orientate in maniera diversa, i pedalatori si sporgevano all’esterno per mantenere l’equilibrio, mentre i carri cigolanti si alzavano su due sole ruote, con le altre due che giravano inutilmente in aria.

Coprimmo in dieci minuti i sei chilometri e dalla strada di sale svoltammo in una rampa lastricata che passava in mezzo a un gruppo di abitazioni, di pietra bianca, stavolta, non di mattoni. Poi Alem e il suo compagno ammainarono la vela e pigiando sui pedali spinsero lentamente l’eolociclo lungo la via acciottolata che correva fra le case e il canale. In quel punto, alte felci a ciuffi crescevano lungo le rive, tra pontili dalle forme curiose e complicate, gazebo e banchine a vari piani, dove erano ormeggiate elaborate case galleggianti. La città pareva terminare lì, dove il canale si allargava a formare una via d’acqua di aspetto molto più naturale che artificiale; alzai la testa quanto bastava a scorgere, qualche centinaio di metri più a valle, la gigantesca arcata. Sotto l’arco arrugginito e dall’altra parte potevo scorgere solo la foresta di felci sulle rive e il deserto a est e a ovest. Alem guidò l’eolociclo su una rampa di carico di mattoni e si spostò al riparo di un boschetto di alte felci.

Diedi un’occhiata al comlog. Mancavano meno di due minuti alla duplice tenebra.

In quell’istante soffiò una ventata d’aria calda e un’ombra passò sopra di noi. Ci appiattimmo tutti, mentre il nero skimmer della Pax sorvolava il fiume a una quota inferiore ai cento metri; l’aerodinamica forma a otto del velivolo fu chiaramente visibile, mentre lo skimmer si inclinava in una brusca virata e poi piombava a volo radente sopra le imbarcazioni che varcavano nei due sensi l’arco del teleporter. In quella zona, dove il fiume si allargava, il traffico fluviale era intenso: eleganti barche da corsa a palelle, con squadre di vogatori da quattro a dodici persone, lucide motobarche che sollevavano scie luccicanti, barche a vela che andavano dai barchini monoposto alle sguazzanti giunche dalla vela quadrata; canoe e canotti; alcune maestose case galleggianti che lottavano contro la corrente; una manciata di silenziosi hovercraft elettrici che si muovevano in un alone di spruzzaglia; perfino alcune zattere che mi ricordarono il precedente viaggio sul Teti in compagnia di Aenea e di A. Bettik.

Lo skimmer sorvolò a bassa quota quelle imbarcazioni, passò in direzione sud sopra l’arco del teleporter, tornò indietro, passò sotto l’arcata e scomparve verso Chiusa Childe Lamonde.

«Vieni» disse Alem Mikail. Ripiegò il telone che ci copriva e tirò il kayak. «Dobbiamo affrettarci.»

All’improvviso soffiò una ventata d’aria calda, seguita da una brezza più fresca che sollevò polvere dalla riva del fiume; le felci frusciarono e si agitarono sopra di noi, il cielo divenne violaceo e poi nero. Spuntarono alcune stelle. Alzai gli occhi quanto bastava a vedere una luccicante corona intorno a una delle lune e l’ardente disco del secondo satellite, più basso, che si spostava dietro il primo.

Da nord, lungo il fiume, nella direzione della città lineare che comprendeva Chiusa Childe Lamonde, provenne il suono più sconvolgente e lamentoso che avessi mai udito: un lungo gemito, prodotto più da gola umana che da sirena meccanica, seguito da una nota sostenuta che diventò sempre più profonda fino a sparire nel subsonico. Mi resi conto d’avere udito centinaia, forse migliaia, di clacson suonati nello stesso istante in cui migliaia, forse decine di migliaia, di voci umane si univano in coro.

L’oscurità intorno a noi divenne più fitta. Le stelle brillarono. Il disco della luna più bassa pareva una grande cupola illuminata in controluce che minacciasse di cadere da un momento all’altro sul mondo oscurato. All’improvviso le numerose imbarcazioni sul fiume verso sud e sul canale verso nord iniziarono a gemere con le proprie sirene e clacson (un ululato cacofonico, del tutto diverso dall’armonia discendente del coro d’apertura) e poi a lanciare razzi e fuochi d’artificio: bengala multicolori, ruggenti girandole, rossi razzi con paracadute, fili intrecciati di fuoco giallo, azzurro, verde, rosso, bianco — la Spettroelica? — e innumerevoli mortaretti. Rumore e luce erano opprimenti.

«Presto» disse Alem, tirando giù dal cassone il kayak. Saltai giù anch’io per aiutarlo, mi tolsi il travestimento e lo gettai sul cassone. L’attimo dopo ci fu un turbine di movimento coordinato: Dem Ria, Dem Loa, Ces Ambre, Bin e io aiutammo Alem e il suo sconosciuto compagno a portare il kayak sulla riva del fiume e a metterlo in acqua. Entrai fino alle ginocchia nell’acqua tiepida, infilai nel piccolo abitacolo lo zaino e la pistola a fléchettes, tenni fermo il kayak per non farmelo portare via dalla corrente, guardai le due donne, i due ragazzi e i due uomini nelle vesti agitate dal vento.

«A voi cosa accadrà?» domandai. La schiena mi doleva per i postumi del calcolo renale, ma in quel momento soffrivo di più per il groppo in gola.

Dem Ria scosse la testa. «Non ci accadrà niente di brutto, Raul Endymion. Se le autorità della Pax tenteranno di causare guai, ci limiteremo a scomparire nei tunnel sotto il deserto Wahhabi, finché non sarà il momento di raggiungere lo Spettro da un’altra parte.» Sorrise e si aggiustò sulla spalla la tunica. «Però devi farci una promessa, Raul Endymion.»

«Qualsiasi cosa» dissi. «Se potrò farla, la farò.»

«Se è possibile, chiedi a Colei che insegna di tornare con te su Vitus-Gray-Balianus B e al popolo Spettroelica di Amoiete. Cercheremo di non convertirci al cristianesimo della Pax, finché Colei che insegna non verrà a parlare con noi.»

Annuii, guardando il cranio già calvo del piccolo Bin Ria Dem Loa Alem, il suo cappuccio rosso agitato dalla brezza, le sue guance smagrite per la chemioterapia, gli occhi lucidi più per l’entusiasmo che per il riflesso dei fuochi d’artificio. «Sì» dissi. «Se è possibile, lo farò.»

Allora tutti loro mi toccarono; non per stringere la mano, ma semplicemente per toccare, dita sulle veste o sul braccio o sul viso o sulla schiena. Li toccai a mia volta, girai nella corrente la prua del kayak e m’infilai nell’abitacolo. La pagaia era dove l’avevo lasciata, nel morsetto dello scafo. Sigillai l’abitacolo come se davanti a me ci fossero acque rotte, posai sul bordo la pistola, urtando con la mano la copertura di plastica trasparente del pulsante d’emergenza (se nella situazione attuale non l’avevo premuto, non riuscivo a immaginare che cosa mi avrebbe spinto a premerlo) tenni la pagaia nella sinistra e agitai l’altra mano in segno di saluto. Le sei figure in tunica si fusero nelle ombre sotto le felci, mentre il kayak scivolava al centro della corrente.

L’arcata del teleporter divenne più grande. In alto, la prima luna cominciò a spostarsi dal disco del sole, ma la seconda, più grande, si mosse a coprire con la propria massa gli altri due corpi celesti. Il rumore dei fuochi d’artificio e delle sirene continuò, salì addirittura di intensità. Vogai più vicino alla riva destra, mentre mi avvicinavo al teleporter, per mantenermi nel traffico di piccole imbarcazioni diretto a sud, ma senza accostarmi troppo a nessun natante.

"Se mi intercetteranno" pensai "accadrà qui." Senza pensarci, spostai la pistola a fléchettes sulla curvatura dello scafo, di fronte a me. Ora mi trovavo nella rapida corrente: misi nella staffa la pagaia e aspettai di passare sotto l’arcata del teleporter. Nessun’altra imbarcazione, grande o piccola, si sarebbe trovata sotto l’arco, quando il teleporter si sarebbe attivato. Sopra di me, l’arco era una curva di tenebra contro il cielo stellato.

All’improvviso ci fu una violenta agitazione sulla riva, una ventina di metri alla mia destra.

Alzai la pistola e rimasi a guardare: non capivo ciò che vedevo e udivo.

Due esplosioni simili a bang sonici. Lampi di luce stroboscopica.

"Altri fuochi d’artificio?" mi domandai. No, i lampi erano più vividi. "Scariche di armi a energia?" No, lampi troppo luminosi. Troppo diffusi. Si sarebbero dette piccole esplosioni al plasma.

Poi vidi qualcosa, in un batter d’occhio, una sorta di eco retinica più che una vera e propria scena: due figure impegnate in un violento abbraccio, immagini rovesciate come il negativo di un’antica fotografia, movimento improvviso e violento, un altro bang sonico, un lampo bianco che mi abbacinò prima ancora che il mio cervello raccogliesse l’immagine: punte, aculei, due teste che si urtavano, sei braccia che sferzavano l’aria, scintille, il suono di una creatura che urlava con voce più forte del gemito delle sirene sulla riva alla mie spalle. L’onda d’urto dell’evento in atto sulla riva agitò il fiume, rischiò di rovesciare il kayak, procedette sull’acqua come una cortina di spruzzaglia bianca.

E poi mi trovai sotto l’arcata del teleporter: ci fu il lampo e l’istante di vertigine che avevo già provato, una vivida luce mi circondò malgrado la cecità da lampo di flash e il kayak e io precipitammo.

Una vera caduta. Un ruzzolone nello spazio. L’acqua che era stata teleportata con me svanì in una breve cascata e il kayak precipitò liberamente, senza il sostegno dell’acqua, girando su se stesso; preso dal panico, lasciai cadere nell’abitacolo la pistola e mi afferrai allo scafo, facendolo girare ancora più rapidamente.

Battei le palpebre per cancellare gli echi del flash e cercai di vedere quanto avrei dovuto precipitare, mentre il kayak puntava la prua verso il basso e aumentava di velocità.

Cielo azzurro sopra di me. Nuvole tutt’intorno, nuvole enormi, stratocumuli che si alzavano per migliaia di metri e ricadevano per altre migliaia, cirri molti chilometri più in alto, nera nuvolaglia di tempesta molti altri chilometri più in basso.

C’era solo cielo e nel cielo cadevo. Sotto di me, la breve cascata si era separata in gigantesche gocce, come se qualcuno avesse preso un centinaio di secchi d’acqua e li avesse versati in un abisso senza fondo.

Il kayak girò e rischiò di capovolgersi, poppa su prua. Mi spostai in avanti e rischiai di cadere dal kayak, trattenuto solo dalle gambe incrociate e dall’aggancio della falda impermeabile.

Afferrai il bordo dell’abitacolo, in una stretta disperata che mi sbiancò le nocche. Aria fredda mi frustava e rombava intorno a me, mentre il kayak e io aumentavamo velocità, correvamo a precipizio verso la fine. Migliaia e migliaia di metri di aria libera si estendevano fra me e le nuvole striate di fulmini molto più in basso. La pagaia si staccò dalla staffa e precipitò in caduta libera.

Mi comportai nell’unico modo possibile, date le circostanze. Spalancai la bocca e urlai.

11

Kenzo Isozaki poteva dire in tutta onestà di non avere mai avuto paura in vita sua. Allevato come samurai d’affari nelle isole felci di Fuji, fin dall’infanzia era stato educato e addestrato a sdegnare la paura e a disprezzare chiunque la provasse. Si consentiva la prudenza — era divenuta per lui uno strumento indispensabile negli affari — ma non la paura, del tutto estranea al suo carattere e alla sua personalità accuratamente costruita.

Fino a quel momento.

Isozaki arretrò, mentre il portello interno della camera stagna si apriva. La creatura dentro la camera stagna, chiunque fosse, solo un attimo prima si trovava sulla superficie di un asteroide privo di atmosfera, e non indossava una tuta spaziale.

Isozaki aveva deciso di non portare armi sul piccolo grillo degli asteroidi e quindi era disarmato al pari del veicolo spaziale. In quel momento, mentre cristalli di ghiaccio si gonfiavano come nebbia per l’apertura della camera stagna e una figura umanoide varcava il portello, Isozaki si domandò se la sua fosse stata una saggia decisione.

La figura era umana, o almeno umana in apparenza. Pelle abbronzata, capelli grigi ben curati, abito grigio dal taglio perfetto, occhi grigi sotto ciglia ancora incrostate di brina, denti candidi messi in mostra dal sorriso.

«Signor Isozaki» salutò il consigliere Albedo.

Isozaki rispose con un inchino. Aveva ripreso controllo del battito cardiaco e della respirazione; ora si concentrò nel mantenere piatta la voce, neutra e priva d’emozioni. «Sono lieto che abbia avuto la gentilezza di accettare il mio invito.»

Albedo incrociò le braccia. Il sorriso rimase sul suo viso abbronzato e bello, ma Isozaki non ne restò ingannato. I mari intorno alle isole felci di Fuji brulicavano di squali che discendevano dalle chiavi DNA e dagli embrioni congelati delle prime navi seminatrici Brussard.

«Invito?» disse il consigliere Albedo, con la sua voce pastosa. «O convocazione?»

Isozaki rimase con la testa leggermente china, mani lungo i fianchi. «Convocazione, mai, signor…»

«Conosce il mio nome, ritengo» disse Albedo.

«Corre voce che lei sia lo stesso Albedo che fu consigliere di Meina Gladstone quasi tre secoli fa» disse il primo funzionario esecutivo della Pax Mercatoria.

«A quel tempo ero più ologramma che sostanza» replicò Albedo, disincrociando le braccia. «Ma la… personalità… è la medesima. E non occorre che mi chiami signore.»

Isozaki gli rivolse un lieve inchino.

Il consigliere Albedo avanzò nella cabina del grillo. Sfiorò con le dita i quadri comando, l’unica cuccetta di pilotaggio, il bordo della vasca anti-g ormai vuota. «Una nave modesta, per una persona così potente, signor Isozaki.»

«Ho ritenuto fosse meglio usare discrezione, consigliere. Posso chiamarla così?»

Anziché rispondere, con piglio aggressivo Albedo si avvicinò di un passo a Isozaki. Il PFE della Pax Mercatoria non batté ciglio.

«Considera discrezione lanciare nella rozza sfera dati di Pacem un virus telotattista IA per cercare nodi del TecnoNucleo?» La sua voce riempì la cabina del grillo.

Kenzo Isozaki alzò gli occhi e incrociò lo sguardo severo dell’altro. «Sì, consigliere» replicò. «Se il Nucleo esisteva ancora, era di estrema importanza che io, che la Pax Mercatoria, prendesse contatto personale. Il virus telotattista era programmato per autodistruggersi se individuato dai programmi antivirus della Pax e per inocularsi solo se avesse ricevuto una inconfondibile risposta del Nucleo.»

Il consigliere Albedo si mise a ridere. «Il vostro virus telotattista IA era discreto come il metaforico stronzo nella proverbiale coppa da ponce, Isozaki-san.»

Il PFE della Pax Mercatoria batté le palpebre, sorpreso da tanta grossolanità.

Albedo si lasciò cadere nella cuccetta d’accelerazione, si stiracchiò e disse: «Si sieda, amico mio. Si è dato un gran daffare per trovarci. Ha rischiato la tortura, la scomunica, la condanna alla vera morte e la perdita del posto riservato nel parcheggio degli skimmer del Vaticano. Voleva parlare? Parli».

Preso per un attimo in contropiede, Isozaki cercò un’altra superficie su cui sedersi. Si accomodò su una zona sgombra del quadro per i grafici di rotta. Detestava l’assenza di gravità e quindi aveva modificato il rozzo campo di contenimento interno in modo che mantenesse nel grillo un differenziale di 1 g simulato, ma l’effetto era piuttosto discontinuo e lui si sentiva sempre sull’orlo della vertigine. Ora trasse un profondo respiro e raccolse le idee.

«Voi servite il Vaticano…» cominciò.

Albedo lo interruppe subito. «Il Nucleo non serve nessuno, uomo della Pax Mercatoria.»

Isozaki trasse un altro respiro e ricominciò: «I vostri interessi e quelli del Vaticano si sono sovrapposti al punto che il TecnoNucleo fornisce consulenza e tecnologia vitali alla sopravvivenza della Pax…».

Il consigliere Albedo sorrise e aspettò che l’altro proseguisse.

Pensando: "Per ciò che dirò adesso, Sua Santità mi darà in pasto al Grande Inquisitore e sarò sulla ruota della tortura per cento vite", Isozaki disse: «Alcuni di noi nel consiglio esecutivo della Lega pancapitalista delle organizzazioni commerciali transtellari cattoliche indipendenti hanno la sensazione che gli interessi della Lega e quelli del TecnoNucleo abbiamo maggiori punti in comune degli interessi del Nucleo e del Vaticano. Riteniamo che una… indagine di queste mete comuni e di questi interessi vada a beneficio di tutt’e due le parti».

Il consigliere Albedo sorrise, mettendo in mostra la perfetta dentatura, senza fare commenti.

Con l’impressione di sentire intorno al collo la scabrosità del cappio di canapa in cui si infilava da solo, Isozaki disse: «Per quasi tre secoli le autorità civili della Chiesa e della Pax hanno sostenuto ufficialmente che il TecnoNucleo era stato distrutto nella Caduta dei teleporter. Nei pianeti dello spazio della Pax, milioni di persone vicine al potere sono al corrente delle voci riguardanti la sopravvivenza del Nucleo…».

«C’è molta esagerazione nelle voci sulla nostra morte» ammise il consigliere Albedo. «E allora?»

«Allora, con la piena consapevolezza che questa alleanza fra personalità del Nucleo e il Vaticano è stata vantaggiosa a tutt’e due le parti, consigliere, la Lega avrebbe il piacere di suggerire modi in cui una simile alleanza diretta con la nostra organizzazione commerciale porterebbe benefici più immediati e più tangibili alla vostra… società.»

«Suggerisca pure, Isozaki-san» disse Albedo, allungandosi contro lo schienale del sediolo di pilotaggio.

«Primo» disse Isozaki, con voce ora più ferma «la Pax Mercatoria si espande in modi che nessuna organizzazione religiosa può auspicare per sé, per quanto possa essere gerarchica o universalmente accettata. Il capitalismo riacquista potere in tutta la Pax. È il vero collante che tiene insieme le centinaia di pianeti.»

Prese fiato. «Secondo, la Chiesa continua a portare avanti la sua infinita guerra con gli Ouster e con elementi ribelli all’interno della sfera di influenza della Pax. La Pax Mercatoria considera simili conflitti uno spreco di energia e di preziose risorse umane e materiali. Cosa ancora più importante, questo spreco coinvolge il TecnoNucleo in litigi umani che non possono assecondare gli interessi del Nucleo né far avanzare i suoi progetti.»

Esitò brevemente. «Terzo, mentre la Chiesa e la Pax utilizzano tecnologie chiaramente derivate dal TecnoNucleo come il motore Gideon e le culle di risurrezione, la Chiesa non dà al TecnoNucleo alcun credito per queste invenzioni. In realtà la Chiesa presenta ancora il Nucleo come un nemico dei suoi miliardi di fedeli, dipinge le entità del Nucleo come se fossero state distrutte perché erano in lega col demonio. La Pax Mercatoria può fare a meno di simili pregiudizi e artifici. Se dopo l’alleanza con noi, il Nucleo decidesse di continuare a tenersi nascosto, onoreremmo tale politica, sempre disponibili a presentare il Nucleo come visibile e apprezzato socio, quando e se prendeste questa decisione. Nel frattempo, tuttavia, la Lega si muoverebbe per porre fine, una volta per tutte, alla demonizzazione del TecnoNucleo nella storia, nelle consuetudini e nella mente degli esseri umani in qualsiasi punto dello spazio.»

Il consigliere Albedo parve riflettere. Per qualche istante guardò dall’oblò il movimento del piccolo asteroide. Poi disse: «Così ci renderete ricchi e per giunta rispettabili?».

Kenzo Isozaki non rispose. Intuiva che il suo futuro personale e l’equilibrio del potere nello spazio dell’uomo era appeso a un filo. Non riusciva a interpretare l’espressione di Albedo: il sarcasmo del cìbrido poteva anche essere il preludio a un negoziato.

«Cosa ce ne faremmo, della Chiesa?» domandò Albedo. «Dopo più di due secoli e mezzo di silenziosa associazione?»

Con uno sforzo di volontà, Isozaki calmò di nuovo i battiti del suo cuore. «Non desideriamo interrompere qualsiasi relazione che il Nucleo trovi utile o vantaggiosa» disse piano. «In quanto gente d’affari, noi della Lega riconosciamo i limiti di qualsiasi società interstellare basata sulla religione. Dogma e gerarchia sono tipici di simili strutture, sono anzi le strutture di ogni teocrazia. Come gente d’affari consacrata al comune profitto nostro e dei nostri associati, vediamo modi in cui un secondo livello di cooperazione tra il Nucleo e la specie umana, per quanto segreto o limitato, dovrebbe essere e sarebbe vantaggioso a tutt’e due le parti.»

Il consigliere Albedo annuì. «Isozaki-san, ricorda quando nel suo ufficio privato nel toroide lei chiese alla sua collega Anna Pelli Cognani di spogliarsi?»

Isozaki mantenne un’espressione neutra, ma solo col massimo sforzo di volontà. Scoprire che il Nucleo guardava nel suo ufficio privato e registrava ogni transazione, gli gelò letteralmente il sangue.

«Quel giorno la sua collega le domandò perché avevamo aiutato la Chiesa a perfezionare il crucimorfo» continuò Albedo. «"A quale scopo?" mi pare avesse detto. "Dov’è il guadagno del Nucleo?"»

Isozaki osservò l’uomo in grigio e più che mai provò l’impressione di essere chiuso nel piccolo grillo in compagnia di un cobra che si fosse rizzato e avesse dilatato il collo.

«Ha mai avuto un cane, Isozaki-san?» domandò Albedo.

Pensando ancora ai cobra, il PFE della Pax Mercatoria rimase perplesso e fissò il suo interlocutore. «Un cane?» ripeté dopo qualche istante. «No, non ne ho mai avuti. I cani non erano molto diffusi sul mio pianeta natale.»

«Ah, già» disse Albedo, mostrando di nuovo la candida, perfetta dentatura. «Nella sua isola, gli animali da compagnia erano gli squali. Mi pare che lei, a sei anni standard, avesse un giovane squalo e cercasse di addomesticarlo. L’aveva chiamato Keigo, se non sbaglio.»

Isozaki non sarebbe riuscito a spiccicare una parola nemmeno se da quella fosse dipesa la sua stessa vita in quell’istante.

«E come impediva al giovane squalo di mangiarsi il padroncino, quando nuotavate insieme nella laguna di Shioko, Isozaki-san?»

Dopo alcuni tentativi, Isozaki riuscì a dire: «Collare».

«Prego?» Il consigliere Albedo si sporse verso di lui.

«Collare» ripeté il PFE della Pax Mercatoria. Ai margini del campo visivo vedeva danzare perfetti puntini neri. «Collare a scossa. Dovevamo portare i trasmettitori palmari. Gli stessi apparecchi che usavano i nostri pescatori.»

«Ah, sì» disse Albedo, senza smettere di sorridere. «Se il suo cucciolo faceva il cattivo, lei lo rimetteva in riga. Con un semplice tocco del dito.» Protese la mano e la piegò a coppa, come se vi tenesse un trasmettitore palmare. Col dito premette un invisibile pulsante.

Il risultato non fu tanto simile a una scarica elettrica nel corpo di Kenzo Isozaki, quanto piuttosto a onde radianti di pura sofferenza non adulterata, che iniziavano nel petto, nel crucimorfo incastonato nella carne e nell’osso, e si trasmettevano come segnali telegrafici di dolore lungo le centinaia di metri di fibre e di nematodi e di gruppi di noduli di tessuto del crucimorfo diffusi nel corpo come metastasi di tumori ben radicati.

Isozaki lanciò un urlo e si piegò in due per il dolore. Crollò sul pavimento della cabina.

«Credo che i suoi trasmettitori palmari potessero dare al vecchio Keigo scosse sempre più forti, se lo squalo diventava aggressivo» disse il consigliere Albedo, in tono pensieroso. «Non era così, Isozaki-san?» Mosse le dita nell’aria, come per dare l’imbeccata a un trasmettitore palmare.

Il dolore peggiorò. Isozaki si orinò addosso nella tuta spaziale e avrebbe anche evacuato l’intestino, se non l’avesse avuto già vuoto. Cercò di urlare di nuovo, ma non riuscì ad aprire le mascelle, bloccate come per il violento effetto del tetano. Strinse i denti con tale forza che lo smalto si crepò e si scheggiò. Sentì il sapore del sangue, perché si era morsicato la punta della lingua.

«In una scala da uno a dieci, per il vecchio Keigo una scossa del genere sarebbe stata di livello due, penso» disse il consigliere Albedo. Si alzò, andò alla camera stagna e batté la combinazione del ciclo di apertura.

Contorcendosi sul pavimento, con il corpo e il cervello ridotti a inutili appendici di un crucimorfo di orribile sofferenza irradiata per tutto il corpo, Isozaki cercò di urlare malgrado le mascelle serrate. Gli occhi gli sporgevano dalle orbite. Rivoli di sangue gli colavano dal naso e dalle orecchie.

Il consigliere Albedo terminò di comporre la combinazione per il ciclo della camera stagna e toccò di nuovo l’invisibile trasmettitore palmare.

Il dolore svanì. Isozaki vomitò sul pavimento. Ogni muscolo del suo corpo si torceva a caso, i nervi parevano fare cilecca.

«Porterò la sua proposta ai Tre Elementi del TecnoNucleo» disse in tono formale il consigliere Albedo. «Sarà discussa e meditata con grande attenzione. Nel frattempo, amico mio, contiamo sulla sua discrezione.»

Isozaki cercò di emettere un suono intelligibile, ma riuscì solo a rannicchiarsi su se stesso e a vomitare sul pavimento metallico. Con orrore si accorse che gli spasmi degli intestini gli causavano una serie di flatulenze.

«E non ci saranno altri virus telotattisti IA liberati nella sfera dati di nessun pianeta, vero, Isozaki-san?» concluse Albedo. Entrò nella camera stagna e chiuse il portello.

All’esterno, la roccia squarciata dell’asteroide senza nome continuò il movimento di rotazione e di rivoluzione secondo leggi dinamiche note solo agli dei della matematica del caos.


A Rhadamanth Nemes e ai suoi tre cloni occorsero solo alcuni minuti per portare la navetta dalla base Bombasino al villaggio Chiusa Childe Lamonde, sul mondo arido come ardesia di Vitus-Gray-Balianus B, ma il viaggio fu complicato dalla presenza di tre skimmer militari che quello stupido impiccione del comandante Solznykov aveva inviato come scorta. Nemes sapeva, dal traffico "sicuro" su banda a raggio compatto fra la base e gli skimmer, che il comandante Solznykov aveva mandato il suo aiutante, l’inetto colonnello Vinara, a prendersi carico personale della spedizione. Inoltre sapeva che il colonnello non avrebbe comandato un bel niente, in altre parole, Vinara sarebbe stato così tempestato di trasduttori di olosimulazione in tempo reale e di trasmissioni a raggio compatto, che Solznykov sarebbe stato al reale comando degli agenti della Pax, anche senza mostrare in giro la sua faccia.

Nel tempo che Rhadamanth Nemes e i suoi tre cloni impiegarono per trovare il villaggio giusto (ma "villaggio" pareva un termine troppo formale, per la striscia di case di mattoni a quattro piani che correva lungo la riva ovest del fiume: infatti centinaia di altre abitazioni costeggiavano l’intera via fluviale, dalla base a Chiusa Childe Lamonde) gli skimmer raggiunsero la navetta e iniziarono la manovra a spirale per l’atterraggio, mentre Nemes cercava uno spiazzo abbastanza vasto e abbastanza solido per posarsi.

Le porte delle case erano vivacemente dipinte con i colori primari. Le persone per strada indossavano vesti degli stessi colori. Nemes conosceva il motivo di quella variopinta esibizione: si era collegata con la memoria della sua stessa navetta e con i file in codice della base di Bombasino per avere notizie sugli Spettroelica. I dati erano interessanti solo in quanto indicavano che quelle bizzarrie umane erano lente a convertirsi alla croce e ancora più lente a sottomettersi al controllo della Pax. In altre parole, era verosimile ipotizzare che avrebbero aiutato una bambina ribelle, un uomo e un androide monco a nascondersi dalle autorità.

Gli skimmer atterrarono sulla strada argine che costeggiava il canale. Rhadamanth Nemes fece scendere la navetta in un parco, rovinando in parte un pozzo artesiano.

Gige cambiò posizione nel sediolo del secondo pilota e inarcò il sopracciglio.

«Scilla e Briareo usciranno per la ricerca ufficiale» disse Nemes a voce. «Tu resterai qui con me.» Aveva notato, senza orgoglio né vanità, che i tre cloni si erano da tempo sottomessi alla sua autorità, malgrado la minaccia di morte ricevuta dai Tre Elementi e la certezza che sarebbe stata eseguita, in caso di nuovo fallimento.

Scilla e Briareo scesero la rampa e si mescolarono alla folla di persone dalle vesti colorate. Soldati in armatura da combattimento, col visore chiuso, li raggiunsero. Seguendo i due cloni sul canale ottico comune, non mediante trasduttori audio/video, Nemes riconobbe la voce del colonnello Vinara attraverso il microfono dell’elmetto. "Il sindaco, una certa Ses Gia, ci nega il permesso di perquisire le abitazioni."

Nemes vide il sorriso sprezzante di Briareo riflesso sul visore del colonnello: era come guardare l’immagine di se stessa con una struttura ossea un po’ più robusta.

"E lei consente a questo… sindaco di darle ordini?" disse Briareo.

Il colonnello Vinara alzò la mano. "La Pax riconosce le autorità indigene, finché il pianeta non farà parte del Protettorato."

Scilla disse: "Lei ci ha riferito che la dottoressa Molina ha lasciato di guardia un soldato…".

Vinara annuì: il suo respiro fu amplificato dall’elmetto morfico color ambra. "Non c’è segno di quel soldato. Fin dalla partenza da Bombasino abbiamo cercato di metterci in contatto."

"Non ha un chip tracciatore chirurgicamente impiantato?" domandò Scilla.

"No. Il chip è inserito nella tuta blindata."

"E allora?"

"Abbiamo trovato la tuta in un pozzo, a qualche via di distanza da qui" disse il colonnello Vinara.

"Presumo che il soldato non fosse nella tuta" disse Scilla, in tono piatto.

"No. Abbiamo trovato solo la tuta e l’elmetto. Nel pozzo non c’era nessun cadavere."

"Peccato" disse Scilla. Si mosse per girarsi, si bloccò, fissò il colonnello della Pax. "Solo la tuta blindata, ha detto. Niente armi?"

"No" rispose in tono cupo il colonnello Vinara. "Ho ordinato una ricerca nelle vie. Interrogheremo i cittadini locali, finché qualcuno non ci rivelerà dove si trova la casa che ospitava lo spaziale messo in arresto dalla dottoressa Molina. Allora la circonderemo e chiederemo la resa di chiunque vi si trovi. Ho inoltrato… al tribunale civile di Bombasino la richiesta di un mandato di perquisizione."

"Buon piano, colonnello" disse Briareo. "Se non arrivano prima i ghiacciai a ricoprire il villaggio, in attesa del mandato."

"Ghiacciai?" ripeté il colonnello Vinara, stupito.

"Lasci perdere" disse Scilla. "Se per lei va bene, collaboreremo alla ricerca nelle vie adiacenti e aspetteremo il regolare mandato per la perquisizione di casa in casa." Sulla banda interna trasmise a Nemes: "E ora?"

"Restate con lui e fate ciò che hai appena proposto" trasmise Nemes. "Siate cortesi e rispettosi delle leggi. Non vogliamo trovare Endymion o la ragazza in presenza di quegli idioti. Gige e io passeremo in tempo rapido."

"Buona caccia" trasmise Briareo.

Gige era già in attesa nella camera stagna della navetta. «Io mi occupo del villaggio» disse Nemes. «Tu scendi a valle fino all’arcata del teleporter e bada che niente l’attraversi, in un senso e nell’altro, senza che tu abbia controllato. Passa in tempo normale per lanciare un messaggio; a intervalli regolari muterò di fase e controllerò la banda. Se trovi l’uomo o la ragazza, avvertimi.» Anche in fase tempo rapido avrebbero potuto comunicare sulla banda comune, ma con un consumo di energia altissimo, superiore a quello, già inimmaginabile, necessario per il cambiamento di fase; era infinitamente più economico mutare fase a intervalli e controllare la banda comune: anche un semplice impulso di allarme sarebbe costato l’equivalente dell’intero budget energetico annuale di quel pianeta.

Gige annuì e i due mutarono di fase all’unisono, divennero due statue cromate, nude, maschio e femmina. Fuori della camera stagna, l’aria parve ispessirsi e la luce farsi più intensa. Il suono smise di esistere. Il movimento si bloccò. Le figure umane divennero sculture un po’ sfocate le cui vesti, increspate dal vento, erano rigide e solide come quelle di statue di bronzo.

Rhadamanth Nemes non capiva la fisica del mutamento di fase, ma per servirsene non aveva bisogno di capire. Sapeva che non si trattava di manipolazione del tempo né antientropica né iperentropica (anche se la futura Intelligenza Finale disponeva di tutt’e due quelle tecnologie all’apparenza magiche) e che non si trattava neppure di una sorta di "accelerazione" che avrebbe provocato nella sua scia lo schianto di bang sonici e l’ebollizione dell’aria: il mutamento di fase era una sorta di passo laterale nei contorni scavati dello spazio/tempo. "Diventerete, nel senso migliore, topi che zampettano nelle pareti delle stanze del tempo" aveva detto a Nemes l’entità del TecnoNucleo in primo luogo responsabile dell’esistenza sua e dei suoi cloni.

Nemes non si era offesa per il paragone. Sapeva quale incredibile quantità di energia bisognava trasferire, attraverso il Vuoto che lega, dal Nucleo a lei o ai suoi cloni, durante il mutamento di fase. Gli Elementi di sicuro tenevano in gran conto perfino quei loro strumenti, per dirottare in quella direzione un simile quantitativo di energia.

Le due lucenti figure scesero a passo svelto la rampa e andarono in direzioni opposte: Gige a sud verso il teleporter, Nemes nella città, passando davanti agli impietriti Scilla e Briareo e alle statue dei soldati della Pax e dei cittadini dello Spettro.

Nemes trovò, letteralmente in tempo zero, la casa dove il soldato della Pax dormiva ammanettato nella stanza d’angolo di fronte al canale. Frugò nei file della base di Bombasino e lo identificò: un lusiano di nome Gerrin Pawtz, trentotto anni standard, pigro e privo d’iniziativa, alcolizzato, a due anni dalla pensione, sei degradazioni e tre condanne al carcere nel suo curriculum, incarichi limitati a servizi di guarnigione e ai più ordinari lavori nella base. Poi cancellò il file. Non aveva interesse in quell’uomo.

Si accertò che la casa fosse deserta, mutò di fase e rimase un momento nella camera da letto. Rumori e movimento tornarono: il russare dell’uomo ammanettato, il movimento di pedoni lungo il canale, una lieve brezza che agitava tendine bianche, il lontano frastuono del traffico, perfino il fruscio delle armature tipo samurai degli agenti della Pax che battevano le vie e i vialetti adiacenti, nella loro infruttuosa ricerca.

Ferma davanti al lusiano, Nemes protese la mano e l’indice, come per indicare la nuca dell’uomo. Un ago spuntò da sotto l’unghia e si estese di dieci centimetri fino al collo dell’addormentato, scivolò sotto la pelle e penetrò nella carne: solo una piccolissima macchia di sangue mostrò l’intrusione. L’uomo non si svegliò.

Nemes ritrasse l’ago ed esaminò il sangue: livello pericoloso di C27H45OH (molto spesso i lusiani erano a rischio per eccesso di colesterolo) nonché basso conteggio di piastrine che indicava la presenza di incipiente purpura trombocitopenica immunitaria, probabilmente dovuta ai primi anni di servizio in ambienti con radiazioni dure in uno dei vari pianeti guarnigione, livello alcolico nel sangue di 122 mg/100 ml (il lusiano era ubriaco, ma per i trascorsi di alcolista probabilmente riusciva a nascondere la maggior parte degli effetti) e, voilà, la presenza dell’oppiaceo artificiale chiamato ultramorfina, misto a elevati livelli di caffeina. Nemes sorrise. Qualcuno aveva drogato il lusiano, somministrandogli ultramorfina sufficiente ad addormentarlo, mescolata a tè o a caffè, ma era stato attento a mantenere il quantitativo sotto il pericoloso livello di overdose.

Nemes annusò l’aria. La sua capacità di cogliere e individuare distinte molecole organiche trasportate dall’aria (ossia il suo senso dell’odorato) era circa tre volte più sensibile di un comune spettrometro gascromatografo di massa: in altre parole, un po’ superiore a quel canide della Vecchia Terra detto segugio di Sant’Uberto. La stanza era piena degli odori caratteristici di molte persone. Alcuni odori erano vecchi; altri, molto recenti. Nemes identificò il puzzo d’alcol del lusiano, vari aromi femminili acuti e muschiati, l’impronta molecolare di almeno due bambini, uno in piena pubertà, l’altro più giovane, ma afflitto da un tipo di tumore che richiedeva chemioterapia, e di due maschi adulti, uno con le tipiche impressioni dolci della dieta di quel pianeta, l’altro con un odore al tempo stesso ben noto ed estraneo. Estraneo, perché l’uomo portava ancora su di sé l’odore di un pianeta che Nemes non aveva mai visitato; ben noto, perché era un peculiare odore umano che lei aveva messo in archivio: Raul Endymion che ancora portava con sé l’odore della Vecchia Terra.

Nemes passò di stanza in stanza, ma non colse l’odore caratteristico che aveva incontrato quattro anni prima, quello della bambina di nome Aenea, né l’odore asettico del servitore di Aenea, l’androide A. Bettik. Solo Raul Endymion era stato in quella casa. E ne era uscito da pochissimo tempo.

Nemes seguì l’usta fino alla botola nel pavimento del corridoio. Scardinò la botola, malgrado la serratura multipla, e si fermò un attimo, prima di scendere la scaletta. Lanciò l’informazione sulla banda comune, ma non ricevette l’impulso di risposta di Gige, che probabilmente era nella fase tempo rapido. Erano trascorsi solo novanta secondi da quando avevano lasciato la navetta. Nemes sorrise. Avrebbe potuto chiamare Gige e lui sarebbe stato lì prima che Raul Endymion e gli altri nel tunnel sottostante avessero fatto cinque respiri.

Ma Rhadamanth Nemes voleva regolare i conti da sola. Sempre col sorriso sulle labbra, saltò nel buco e atterrò sul pavimento del tunnel, otto metri più in basso.

Il tunnel era illuminato. Nemes annusò l’aria fresca, separò dagli altri odori umani quello, carico di adrenalina, di Raul Endymion. Il fuggiasco nato su Hyperion era nervoso. E di recente era stato ammalato o ferito: Nemes sentì in sottofondo il puzzo di sudore permeato di ultramorfina. Senza dubbio Endymion era il forestiero curato dalla dottoressa Molina e qualcuno aveva usato sul povero lusiano l’analgesico prescritto per lui.

Nemes cambiò fase e percorse lentamente il tunnel ora pieno di luce più densa. Non importava quanto fosse grande il vantaggio iniziale di Endymion e dei suoi compari: ora lei li avrebbe raggiunti. Si sarebbe divertita a spiccare dal busto la testa di quel piantagrane, restando nella fase tempo rapido la decapitazione sarebbe parsa sovrannaturale agli spettatori in tempo reale, eseguita da un boia invisibile. Aveva bisogno delle informazioni in suo possesso, ma non aveva bisogno che lui fosse cosciente. La soluzione più semplice era strapparlo ai suoi amici Spettroelica, circondarlo nello stesso campo di fase che proteggeva lei, conficcargli nel cervello un ago per immobilizzarlo, portarlo sulla navetta, depositarlo nella culla di risurrezione e poi affrontare la farsa di ringraziare il colonnello Vinara e il comandante Solznykov per l’aiuto fornito. Appena la nave avesse lasciato l’orbita, avrebbero potuto "interrogare" Raul Endymion: Nemes gli avrebbe infilato microfibre nel cervello, avrebbe estratto RNA e ricordi a volontà. Endymion non avrebbe più ripreso conoscenza: lei e i cloni, appreso dai suoi ricordi tutto ciò che dovevano apprendere, l’avrebbero ucciso e ne avrebbero gettato nello spazio il cadavere. La meta era trovare la bambina di nome Aenea.

All’improvviso si spensero le luci.

"Sono ancora in tempo rapido" si meravigliò Nemes. "Non è possibile." Niente poteva accadere con quella repentinità.

Piantò una frenata e si fermò. Nel tunnel non c’era la minima luce, niente che si potesse amplificare. Nemes passò all’infrarosso e scrutò il tunnel, davanti a lei e dietro di lei. Niente. Aprì la bocca, emise un urlo sonar, si girò di scatto per ripeterlo nella direzione opposta. Vuoto assoluto: da una parte e dall’altra del tunnel le tornò l’eco dell’urlo ultrasonico. Nemes modificò il campo che la circondava e sparò nelle due direzioni un impulso radar di profondità. Il tunnel era vuoto ma il radar di profondità rivelò un labirinto di tunnel simili a quello, lunghi parecchi chilometri. Trenta metri più avanti, dietro una spessa porta metallica, c’era un garage sotterraneo e un assortimento di veicoli e di forme umane.

Ancora diffidente, Nemes mutò di fase per un attimo e cercò di capire come mai le luci si fossero spente in un microsecondo.

La figura era proprio davanti a lei. Nemes ebbe meno di un decimillesimo di secondo per tornare in tempo rapido, mentre quattro pugni muniti di lame la colpivano con la forza di centomila battipali. Fu scagliata all’indietro per tutto il tunnel, fracassò in mille pezzi la scaletta metallica, attraversò la parete di solida roccia e vi si conficcò profondamente.

Le luci rimasero spente.


Il Grande Inquisitore rimase su Marte venti giorni standard e in quel periodo imparò a odiare il pianeta rosso molto più di quanto non avrebbe pensato di poter mai odiare l’inferno stesso.

Non ci fu giorno della sua permanenza in cui non soffiasse il simùn, la tempesta di polvere planetaria. Malgrado il fatto che lui e la sua squadra di ventuno persone avessero occupato il palazzo del governatore nella periferia della capitale San Malachia e malgrado il fatto che il palazzo fosse in teoria ermeticamente sigillato come una nave della Pax, con aria filtrata e compressa e rifiltrata, con finestre composte da cinquantadue strati di plastica ad alta resistenza all’impatto, con ingressi più simili a camere stagne che a porte, la polvere marziana entrava dappertutto.

Quando al mattino il cardinale John Domenico Mustafa faceva la doccia a getti aghiformi, la polvere accumulata nella notte formava rivoli di fanghiglia rossastra nello scarico. Quando, con l’aiuto del valletto personale, indossava la tonaca e le vesti (tutti abiti lavati e stirati nella notte) trovava sempre tracce di ruvida polvere nelle pieghe della seta. Mentre faceva colazione (da solo, nella sala da pranzo del governatore) sentiva i granelli sotto i denti. Durante le interviste e gli interrogatori del Sant’Uffizio, tenuti nell’echeggiante salone del palazzo, sentiva la polvere accumularsi nei calzini e nel colletto e fra i capelli e sotto le unghie perfettamente curate.

Fuori, la situazione era assurda. Skimmer e Scorpioni erano bloccati a terra. Lo spazioporto funzionava solo alcune ore al giorno, durante i rari periodi di calma del simùn. I veicoli terrestri parcheggiati divenivano presto cumuli e montagnole di sabbia rossa e perfino i filtri di qualità superiore della Pax non impedivano alle rosse particelle di entrare nei motori, nelle macchine e nei moduli a stato solido. Alcuni antichi mezzi cingolati, veicoli lunari e navette a razzi a fusione mantenevano il flusso di provviste e di informazioni da e per la capitale, ma a tutti gli effetti il governo della Pax e il governo militare su Marte erano giunti a un punto morto.

Il quinto giorno di simùn giunsero rapporti di attacchi palestinesi alle basi della Pax nell’altopiano Tharsis. Il maggiore Piet, il laconico comandante delle forze terrestri del governatore, prese una compagnia mista di soldati della Pax e della Guardia nazionale e partì su mezzi corazzati e veicoli blindati per trasporto truppe. Il convoglio cadde in una imboscata a cento chilometri dall’altopiano e solo Piet e metà dei suoi uomini tornarono a San Malachia.

Nella seconda settimana giunsero rapporti di attacchi palestinesi a una decina di presidi di guarnigione nell’uno e nell’altro emisfero. Si perse ogni contatto con il contingente Hellas e la stazione del polo sud comunicò per radio alla Jibril di essere sul punto di arrendersi agli assalitori.

Il governatore Clare Palo, al lavoro in un piccolo ufficio che era appartenuto a uno dei suoi aiutanti, si consultò con l’arcivescovo Robeson e con il Grande Inquisitore e sganciò bombe tattiche a fusione e al plasma sulle guarnigioni attaccate. Il cardinale Mustafa acconsentì a usare la Jibril come base operativa nella lotta contro i palestinesi e la base polo sud uno fu scorificata dall’orbita. I comandi della Guardia nazionale, della Pax, dei marines della flotta, delle guardie svizzere e del Sant’Uffizio furono concentrati per garantire che la capitale San Malachia, la sua cattedrale e il palazzo del governatore fossero al sicuro da eventuali attacchi. Nell’implacabile tempesta di polvere, ogni indigeno che si avvicinasse a otto chilometri dal perimetro della città e che non portasse su di sé un trasponder autorizzato dalla Pax, fu ucciso. I cadaveri furono ricuperati in un secondo tempo; solo alcuni erano di guerriglieri palestinesi.

«Il simùn non può durare in eterno» brontolò il comandante Browning, capo delle forze di sicurezza del Sant’Uffizio.

«Può durare altri tre o quattro mesi standard» disse il maggiore Piet, che aveva una voluminosa ingessatura per la cura delle ustioni alla parte superiore del torace. «Forse più a lungo.»

La indagini del Sant’Uffizio non davano risultati: gli agenti della Guardia nazionale che per primi avevano scoperto il massacro di Arafat-kaffiyeh furono interrogati di nuovo sotto veritina e neurosonda, ma non cambiarono la loro versione; gli esperti di medicina legale del Sant’Uffizio lavorarono con i coroner dell’ospedale di San Malachia e confermarono che era impossibile risuscitare anche uno solo dei 362 cadaveri, perché lo Shrike aveva strappato ogni nodulo e ogni millifibra di crucimorfo; fu inviata a Pacem una navetta senza pilota, a propulsore istantaneo, con la richiesta di informazioni relative all’identità delle vittime e, cosa più importante, alla natura dell’operazione dell’Opus Dei su Marte e ai motivi dell’esistenza di quel moderno spazioporto; ma la navetta, al suo ritorno, dopo quattordici giorni locali, portò solo le identità degli assassinati e nessuna spiegazione sul loro rapporto con l’Opus Dei né sui motivi dell’attività di quell’organizzazione su Marte.

Dopo quindici giorni di tempesta di sabbia, dopo altri rapporti di continui attacchi palestinesi contro convogli e guarnigioni, dopo lunghi giorni di interrogatori e di inutile vaglio delle prove, il Grande Inquisitore accolse con piacere la comunicazione del capitano Wolmak: sulla Jibril c’era un’emergenza che richiedeva il ritorno del Grande Inquisitore e del suo gruppo, al più presto possibile.


La Jibril era una delle nuovissime astronavi classe Arcangelo: mentre le navette si avvicinavano all’appuntamento in orbita, il Grande Inquisitore ebbe l’impressione che fosse una nave funzionale e micidiale. Non sapeva molto di astronavi, ma perfino lui si era accorto che il capitano Wolmak l’aveva morfizzata in modo che fosse pronta alla battaglia: i vari bracci e spiegamenti di sensori erano stati ritirati sotto il guscio della nave, il rigonfiamento del propulsore Gideon presentava la corazza di riflessione laser e i portelli delle varie armi erano in posizione di sparo. Dietro la nave Arcangelo, ruotava Marte: un disco ammantato di polvere, del colore del sangue coagulato. Il cardinale Mustafa si augurò che quella fosse l’ultima volta che vedeva quel pianeta.

Padre Farrell fece notare che tutte le otto le navi torcia della task force sistema Marte si trovavano in un raggio di cinquecento chilometri dalla Jibril: un raggruppamento difensivo molto serrato, secondo gli standard spaziali. Il Grande Inquisitore capì che c’era in ballo qualcosa di serio.

La navetta del cardinale Mustafa fu la prima ad attraccare; Wolmak incontrò il Grande Inquisitore e il suo gruppo nell’anticamera del portello stagno. Il campo di contenimento interno forniva la gravità.

«Mi scuso per avere interrotto la sua inquisizione, eccellenza» cominciò il capitano Wolmak.

«Lasci perdere le scuse» disse il cardinale Mustafa, togliendosi granelli di sabbia dalle pieghe della tonaca. «Cosa c’è di così importante, capitano?»

Wolmak lanciò un’occhiata all’entourage che usciva dalla camera stagna alle spalle del Grande Inquisitore: padre Farrell, naturalmente, e poi il comandante della sicurezza, Browning, tre aiutanti del Sant’Uffizio, il sergente dei marines Nell Kasner, il cappellano di risurrezione vescovo Erdle, il maggiore Piet, ex comandante delle forze terrestri che il cardinale Mustafa aveva fatto esentare dal servizio del governatore Clare Palo.

Il Grande Inquisitore notò l’esitazione del capitano Wolmak. «Parli pure liberamente, capitano. Tutti in questo gruppo hanno il permesso del Sant’Uffizio.»

Wolmak annuì. «Eccellenza, abbiamo trovato la nave.»

Il cardinale Mustafa lo fissò, senza capire.

«Il cargo pesante che lasciò l’orbita di Marte il giorno del massacro, eccellenza» spiegò il capitano Wolmak. «Sapevamo che quel giorno le navette avevano un appuntamento spaziale con una nave.»

«Ma avevamo supposto che la nave si fosse già allontanata da tempo… che fosse traslata nel sistema al quale era diretta.»

«Sissignore. Però, nell’improbabile caso che la nave non fosse mai entrata in C-più, ho ordinato alle navette di fare una ricerca nel sistema planetario. Abbiamo trovato il cargo nella fascia degli asteroidi.»

«Era quella la destinazione?» domandò il cardinale Mustafa.

Il capitano scosse la testa. «Non credo, eccellenza. Il cargo è freddo e morto. Gira nello spazio. Non mostra segno di vita, non ha niente di acceso, neppure il propulsore a fusione.»

«Ma è davvero un cargo interstellare?» domandò padre Farrell.

Il capitano Wolmak si girò dalla sua parte. «Sì, padre» rispose. «Si tratta dell’astronave mercantile di Sua Santità Saigon Maru. Un cargo che stazza tre milioni di tonnellate, adibito al trasporto di minerale grezzo e di carico misto, in servizio fin dai tempi dell’Egemonia.»

«La Pax Mercatoria» mormorò il Grande Inquisitore.

«In origine, eccellenza» disse Wolmak, cupo. «Secondo i nostri dati, otto anni standard fa l’APM Saigon Maru è stata eliminata dalla flotta della Pax Mercatoria e mandata in rottamazione.»

Il cardinale Mustafa e padre Farrell si scambiarono un’occhiata.

«È già salito a bordo della nave, capitano?» domandò il comandante Browning.

«No» rispose il capitano Wolmak. «Viste le implicazioni politiche, ho ritenuto più opportuno che sua eccellenza fosse qui e autorizzasse la perquisizione.»

«Molto bene» disse il Grande Inquisitore.

«Inoltre» proseguì il capitano Wolmak «volevo prima a bordo l’intero complemento di marines e di guardie svizzere.»

«Perché, signore?» domandò il maggiore Piet. La sua uniforme pareva sformata, sopra l’ingessatura.

«Qualcosa non quadra» disse il capitano Wolmak, guardando il maggiore Piet e poi il Grande Inquisitore. «Non quadra proprio.»


A più di duecento anni luce da Marte, la task force Gedeone completava il compito di distruggere Lucifero.

Il settimo e ultimo sistema Ouster bersaglio della spedizione punitiva fu il più difficile da eliminare. Il sistema aveva al centro una stella gialla tipo G, con sei pianeti, due dei quali abitabili anche senza preventivo terraforming, e brulicava di Ouster: basi militari al di là degli asteroidi, planetoidi incubatrice nella cintura, ambienti per angeli intorno al pianeta d’acqua più interno, depositi di rifornimento in orbita bassa intorno alla gigante gassosa, una foresta orbitale in crescita fra quelle che nel sistema del Vecchio Sole sarebbero state le orbite di Venere e della Vecchia Terra. La task force Gedeone impiegò dieci giorni a individuare e distruggere la maggior parte di quei nodi di vita Ouster.

Al termine, l’ammiraglio Aldikacti chiamò a bordo dell’ASS Uriele i sette capitani e rivelò che i piani erano stati cambiati: la missione aveva avuto un grande successo, perciò si sarebbe messa alla ricerca di nuovi bersagli e avrebbe proseguito l’attacco. L’ammiraglio aveva inviato nel sistema di Pacem una navetta automatica a propulsione Gideon ed era stato autorizzato a proseguire la missione. Le sette Arcangelo sarebbero traslate nella più vicina base della Pax, nel sistema Tau Ceti, dove avrebbero provveduto a riarmarsi, riattrezzarsi e rifornirsi e dove sarebbero state raggiunte da altre cinque navi della stessa classe. Le sonde avevano già individuato una decina di sistemi Ouster, nessuno dei quali era informato del massacro sul percorso spaziale della task force Gedeone. Calcolato anche il tempo per la risurrezione, entro dieci giorni standard le Arcangelo avrebbero potuto ricominciare l’attacco.

I sette capitani tornarono alla propria nave e si prepararono per la traslazione dal sistema bersaglio Lucifero alla base centrale di Tau Ceti.

A bordo dell’ASS Raffaele, il comandante Hoagan "Hoag" Liebler era a disagio. Oltre ad avere l’incarico di comandante in seconda della nave, era pagato per tenere d’occhio il padre capitano de Soya e riferire ogni comportamento sospetto, in primo luogo al capo della sicurezza del Sant’Uffizio a bordo della nave ammiraglia di Aldikacti e poi (per quanto ne sapeva) lungo tutta la scala di comando fino al leggendario cardinale Lourdusamy. Al momento aveva un bel problema: si era insospettito, ma non riusciva a stabilire la causa dei suoi sospetti.

Non poteva certo trasmettere alla Uriele la pericolosa notizia che l’equipaggio della Raffaele si confessava troppo di frequente, ma questa era proprio una delle cause della sua preoccupazione. Hoag Liebler non era una spia per addestramento o per inclinazione: era un gentiluomo in cattive condizioni finanziarie, che le ristrettezze avevano costretto prima a fare la scelta dei gentiluomini di Rinascimento Minore, cioè arruolarsi nell’esercito, e poi (per lealtà verso la Pax e la Chiesa, cercava di convincersi, più che per la costante necessità di denaro per riscattare e reintegrare le sue tenute) a spiare il proprio capitano.

Le confessioni non erano fuori dell’ordinario (l’equipaggio era composto di cristiani rinati che andavano in chiesa e si confessavano, naturalmente, e le circostanze in cui si trovavano, la possibilità della vera morte nel caso che una delle armi a fusione o a raggi cinetici degli Ouster fosse penetrata nel campi di contenimento difensivi, contribuiva di sicuro a quel pressante bisogno di fede) ma Liebler intuiva un fattore supplementare in tutte quelle confessioni, la cui frequenza era aumentata dopo la distruzione dal sistema bersaglio Mammone. Durante le pause dello spietato combattimento nel sistema bersaglio Lucifero, tutto l’equipaggio e il complemento di guardie svizzere della Raffaele (ventisette persone, senza contare lo sconcertato comandante in seconda) erano passati dal confessionale con la frequenza di spaziali in un bordello portuale della Periferia.

E il confessionale era l’unico posto dove neppure il comandante in seconda poteva soffermarsi e origliare.

Liebler non riusciva a immaginare quale cospirazione potesse esserci in ballo. L’ammutinamento non aveva senso. Tanto per cominciare, era impensabile: nessun equipaggio, nei tre secoli d’esistenza della Flotta della Pax, si era mai ammutinato né era andato vicino ad ammutinarsi. E poi era assurdo: i futuri ammutinati non fanno la coda davanti al confessionale per discutere col capitano della nave il peccato di un progetto d’ammutinamento.

Forse padre capitano de Soya reclutava quelle persone, uomini e donne, per qualche impresa nefanda, ma Hoag Liebler non riusciva a immaginare niente che il padre capitano potesse offrire per subornare quei leali soldati della Pax e delle guardie svizzere. Lui non era benvoluto dai subalterni (era abituato all’antipatia dei compagni di scuola e dei colleghi: una maledizione che gli derivava dalla nascita aristocratica, lo sapeva) ma non poteva immaginare che l’equipaggio si consorziasse per progettare qualche nefandezza ai suoi danni. Se il padre capitano de Soya aveva in qualche modo allettato l’equipaggio a tradire, al massimo poteva tentare di impadronirsi della Arcangelo (Liebler sospettava che questa remota possibilità fosse la ragione per cui era stato piazzato come spia su quella nave) ma a quale scopo? A parte l’istante della traslazione C-più e i due giorni necessari alla risurrezione rapida, la Raffaele era in continuo contatto con le altre Arcangelo della task force Gedeone: se l’equipaggio avesse tentato di impossessarsi della nave, le altre sei l’avrebbero distrutta in un attimo.

Quel pensiero diede a Hoag un senso di nausea. Lui odiava la morte temporanea e non voleva sopportarla più del necessario. Inoltre, l’eventuale menzione nello stato di servizio della sua presenza sulla nave dell’equipaggio ammutinato non gli avrebbe certo avvantaggiato la carriera come signore reintegrato del maniero, su Rinascimento Minore. D’altra parte era possibile che il cardinale Lourdusamy, o chiunque fosse all’apice di quella catena di spionaggio, lo torturasse, scomunicasse e condannasse alla vera morte insieme col resto dell’equipaggio, solo per tenere nascosto il fatto che il Vaticano aveva messo una spia a bordo di quella nave.

A questa prospettiva, Hoag Liebler si sentì più che nauseato.

Si consolò col pensiero che un tale tradimento era non solo inverosimile, ma anche folle. Al giorno d’oggi non accadeva ciò che era avvenuto un tempo sulla Vecchia Terra o su altri pianeti oceanici di cui lui aveva letto, dove una nave da guerra si ribellava e passava alla pirateria, depredando navi mercantili e terrorizzando porti. Una nave Arcangelo non aveva nessun posto dove andare, nessun posto dove nascondersi, dove riarmarsi e riattrezzarsi. La Flotta della Pax avrebbe usato la pelle degli ammutinati per farne stracci da cucina.

Malgrado tutte queste argomentazioni logiche, il comandante Hoag Liebler continuò a sentirsi a disagio.

Si trovava sul ponte di volo, durante le quattro ore per raggiungere il punto di traslazione al sistema solare Tau Ceti, quando dalla Uriele giunse il messaggio di priorità: cinque cacciatorpediniere Ouster, classe navi torcia, si erano nascoste nel toroide di pulviscolo di particelle caricate della luna interna della gigante gassosa all’esterno del sistema e ora tentavano la fuga verso il punto di traslazione, usando il sole di tipo G come schermo fra loro e la task force Gedeone. La Gabriele e la Raffaele dovevano deviare dall’arco di traslazione quanto bastava a trovare una traiettoria di fuoco per i missili ipercinetici C-più ancora a disposizione, distruggere le navi torcia e riprendere l’uscita dal sistema Lucifero. La Uriele stimava che le due Arcangelo avrebbero potuto raggiungere la velocità di traslazione circa otto ore dopo la partenza delle altre Arcangelo.

Il padre capitano de Soya confermò di avere ricevuto il messaggio e ordinò di modificare la rotta; il comandante in seconda Liebler controllò il traffico radio, imitato dalla madre capitano Stone, a bordo della Gabriele. "L’ammiraglio non si lascia alle spalle la Raffaele da sola" pensò Liebler. "I miei padroni non sono gli unici a non fidarsi di de Soya."

Non era una caccia entusiasmante, non era neppure una vera caccia, a pensarci bene. Vista la dinamica gravitazionale di quel sistema, le navi torcia Ouster, dotate del vecchio motore Hawking, avrebbero impiegato circa quattordici ore a raggiungere la velocità relativistica prima della traslazione. Le due Arcangelo sarebbero state in posizione di fuoco entro quattro ore. Gli Ouster non avevano armi che potessero attraversare tutto il sistema solare per danneggiare le Arcangelo: pur a corto di missili ipercinetici, la Gabriele e la Raffaele avevano armi sufficienti a distruggere decine di volte le cinque navi torcia. Se ogni arma avesse fatto fiasco, avrebbero usato gli odiati raggi della morte.

Quando le due Arcangelo girarono intorno al sole per aprire il fuoco, Liebler aveva il comando, il prete capitano si era ritirato nel suo alloggio per riposare qualche ora. Il resto della task force Gedeone aveva già da tempo effettuato la traslazione. Mentre Liebler si girava nel sediolo antiaccelerazione per chiamare al citofono il capitano, il diaframma a iride si spalancò ed entrarono il padre capitano de Soya e vari altri. Per un momento Liebler dimenticò i propri sospetti, dimenticò persino che lo pagavano per essere sospettoso, e strabuzzò gli occhi nel vedere quell’inverosimile gruppo. Accanto al capitano c’era il sergente delle guardie svizzere, Gregorius, e due suoi soldati. E poi il comandante Carel Shan, ufficiale dei sistemi di fuoco, il tenente Pol Denish, ufficiale dei sistemi energetici, il comandante Bettz Argyle, ufficiale dei sistemi ambientali e il tenente Elijah Hussein Meier, ingegnere dei sistemi propulsivi.

«Che diavolo…» cominciò Liebler, comandante in seconda e si fermò. Il sergente delle guardie svizzere impugnava uno storditore neurale e lo teneva puntato contro il viso di Liebler.

Da settimane Hoag Liebler portava, nascosta nello stivale, una pistola a fléchettes, ma in quel momento se ne dimenticò completamente. Nessuno aveva mai puntato un’arma su di lui, nemmeno uno storditore, e l’effetto gli faceva venire voglia di farsela addosso. Liebler si concentrò per non rilasciare la vescica. Cosa che lasciava poco spazio per concentrarsi su altro.

Uno dei soldati di Gregorius, una donna, si avvicinò a Liebler e gli tolse dallo stivale la pistola. Liebler rimase a fissare l’arma come se non l’avesse mai vista prima.

«Hoag» disse il padre capitano de Soya «mi dispiace per questa faccenda. Abbiamo votato e abbiamo deciso che non c’era tempo per un tentativo di convincerti a unirti a noi. Dovrai stare via per un poco.»

Attingendo a piene mani da tutti i dialoghi ascoltati negli olodrammi, Liebler cominciò a protestare violentemente: «Non ve la caverete mai. La Gabriele vi distruggerà. Sarete torturati e impiccati. Vi strapperanno il crucimorfo…».

Lo storditore nel pugno del gigantesco sergente emise un ronzio. Hoag Liebler sarebbe caduto di faccia sul ponte, se la donna non l’avesse afferrato al volo e deposto delicatamente sul pavimento.

Il padre capitano de Soya prese posto nel sediolo di comando. «Cambia subito rotta» ordinò al tenente Meier al timone. «Inserisci le nostre coordinate di traslazione. Piena accelerazione di emergenza. Pronti per il combattimento.» Lanciò un’occhiata a Liebler. «Mettetelo nella culla di risurrezione regolata su "deposito".»

I soldati portarono via il comandante in seconda privo di conoscenza.


Ancora prima di ordinare che il campo di contenimento interno della nave fosse posto a gravità zero per manovre di battaglia, il padre capitano de Soya provò quel breve ma esilarante senso di volare che si avverte l’istante dopo il balzo da uno strapiombo, prima che la forza di gravità riaffermi i suoi obblighi assoluti. A dire il vero, in quel momento la nave gemeva sotto un’accelerazione superiore a seicento g, quasi il 180 per cento della spinta normale. Una qualsiasi interruzione del campo di contenimento avrebbe ucciso tutti in meno di un istante. Ma il punto di traslazione distava adesso meno di quaranta minuti.

De Soya non era sicuro di fare la cosa giusta. Riteneva il pensiero di tradire la Chiesa e la Flotta della Pax la cosa più terribile al mondo. Ma se aveva davvero un’anima immortale, non poteva fare diversamente.

A essere sinceri, aveva pensato addirittura a un miracolo, o almeno a un assai improbabile colpo di fortuna, quando altri sette si erano dichiarati disposti a seguirlo in quell’ammutinamento condannato già in partenza. Otto, lui incluso, su un equipaggio di ventotto. Gli altri venti ora dormivano nelle culle di risurrezione, dopo una scarica di storditore neurale. De Soya sapeva che loro otto bastavano a manovrare la Raffaele nella maggior parte delle situazioni: aveva avuto la fortuna — o la benedizione — che diversi ufficiali indispensabili al volo si fossero uniti a lui. All’inizio pensava che avrebbe avuto soltanto l’aiuto di Gregorius e dei suoi due giovani soldati.

Il primo cenno a un possibile ammutinamento era giunto dalle tre guardie svizzere, dopo la "pulizia" del secondo asteroide incubatrice nel sistema Lucifero. Malgrado i giuramenti alla Pax, alla Chiesa e al corpo delle guardie svizzere, pensavano che il massacro di neonati fosse troppo simile all’assassinio. I soldati Dona Foo ed Enos Delrino erano andati prima dal loro sergente e poi, con Gregorius, si erano presentati al confessionale del padre capitano de Soya e avevano parlato del progetto di disertare. Avevano chiesto l’assoluzione, se avessero deciso di abbandonare la nave nel sistema Ouster. De Soya li aveva invitati a prendere in considerazione un piano alternativo.

L’ingegnere di sistemi propulsivi, tenente Elijah Hussein Meier, aveva espresso in confessione i medesimi scrupoli. Nell’assistere al totale massacro dei magnifici angeli a campo di forza, che aveva guardato nello spazio tattico, si era nauseato e aveva desiderato di tornare alle sue religioni ancestrali, giudaica e islamica. Invece era andato a confessarsi per ammettere il proprio indebolimento spirituale. Il padre capitano de Soya lo aveva stupito, sostenendo che i suoi scrupoli non erano in conflitto con il cristianesimo.

Nei giorni successivi, l’ufficiale dei sistemi ambientali, comandante Bettz Argyle, e l’ufficiale dei sistemi energetici, tenente Pol Denish, avevano dato retta alla propria coscienza e si erano accostati al confessionale. Denish era stato il più duro da convincere, ma dopo lunghe conversazioni sottovoce con il suo compagno di branda, tenente Meier, aveva ceduto.

Il comandante Carel Shan era stato l’ultimo a unirsi al gruppo: l’ufficiale dei sistemi di fuoco non trovava più il coraggio di ordinare attacchi con i raggi della morte. Da tre settimane non chiudeva occhio.

Nel loro ultimo giorno nel sistema Lucifero, de Soya si era reso conto che nessuno degli altri ufficiali avrebbe disertato: ognuno di loro riteneva sgradevole ma necessario il suo lavoro. Giunto il momento critico, aveva capito de Soya, la maggior parte degli ufficiali di volo e le restanti tre guardie svizzere si sarebbero schierati con il comandante in seconda Hoag Liebler. Aveva allora deciso con Gregorius di non offrire loro quella opportunità.

«La Gabriele ci chiama, padre capitano» disse il tenente Denish. Oltre che ai quadri comando dei sistemi energetici, Denish era collegato anche con quelli per le trasmissioni.

De Soya annuì. «Assicuratevi tutti che le culle siano in funzione» disse. Era un ordine superfluo, lo sapeva. Ogni membro dell’equipaggio passava al posto di combattimento o alla traslazione C-più nella propria cuccetta di accelerazione, modificata in culla di risurrezione automatica.

Prima di collegarsi in tattico, de Soya controllò la traiettoria nel pozzetto centrale di display. In quel momento si allontanavano dalla Gabriele, anche se l’altra Arcangelo aveva aumentato la spinta a 300 g e aveva cambiato rotta per tenersi parallela alla Raffaele. Dall’altra parte del sistema Lucifero, le cinque navi torcia Ouster strisciavano ancora verso il punto di traslazione. De Soya augurò loro buon viaggio, pur sapendo che l’unica ragione per cui quelle navi esistevano ancora era la momentanea diversione provocata nella Gabriele dall’inspiegabile mutamento di rotta della Raffaele. Si collegò al simulatore tattico di comando.

All’istante divenne un gigante in piedi nello spazio. I sei pianeti e le innumerevoli lune e foreste orbitali incendiate si sparpagliarono al livello della sua cintola. Lontano, al di là del sole, i sei puntini Ouster erano in equilibrio sulla coda di fusione. La coda della Gabriele era molto più lunga; quella della Raffaele, ancora più lunga, rivaleggiava in intensità luminosa con la stella centrale del sistema. La madre capitano Stone aspettava a qualche passo da gigante da de Soya.

«In nome di Cristo, Federico» disse «cosa combini?»

De Soya aveva preso in considerazione l’idea di non rispondere alla chiamata della Gabriele. Se così facendo avesse guadagnato alcuni minuti in più, sarebbe rimasto in silenzio. Ma de Soya conosceva Stone: la madre capitano non avrebbe esitato. Sfruttando un diverso canale tattico, lanciò un’occhiata allo schema di traslazione. Trentasei minuti al punto di passaggio.

"Capitano! Rilevati quattro lanci di missile! Traslazione… ora!" Era Carel Shan, sulla linea sicura a conduzione ossea.

Il padre capitano de Soya era certo di non essere visibilmente trasalito davanti alla madre capitano Stone nel simulatore tattico. Sulla propria linea ossea subvocalizzò: "Tutto a posto, Carel. Li vedo in tattico. Puntano sulle navi Ouster". Si rivolse a Stone: «Hai aperto il fuoco contro gli Ouster».

Anche nella luce del simulatore tattico, Stone era tesa in viso. «Naturalmente, Federico» replicò. «Tu perché non l’hai fatto?»

Anziché rispondere, il padre capitano de Soya mosse un passo e si accostò al sole centrale; guardò i missili emergere dallo spazio Hawking proprio davanti alle sei navi torcia Ouster. Un attimo dopo i missili detonarono: due esplosioni a fusione, seguite da due al plasma, più grandi. Le navi Ouster avevano alzato al massimo il campo di contenimento difensivo (nel simulatore tattico, un bagliore arancione) ma le esplosioni a distanza ravvicinata lo sovraccaricarono. Le immagini passarono dall’arancione al rosso e al bianco: tre navi smisero semplicemente di esistere come oggetti materiali. Due divennero frammenti sparsi che correvano verso il punto di traslazione ormai infinitamente lontano. Una nave torcia rimase intatta, ma il suo campo di contenimento cedette e la sua coda di fusione scomparve. Se a bordo c’erano superstiti all’esplosione, adesso erano morti per la grandinata di radiazioni non deviate che tempestava la nave.

«Cosa fai, Federico?» ripeté la madre capitano Stone.

De Soya sapeva che il nome della madre capitano era Halen, ma decise di non rendere personale quella parte di conversazione. «Seguo ordini, madre capitano» rispose.

Anche in simulazione tattica, la madre capitano Stone parve dubbiosa. «Di quali ordini parli, padre capitano de Soya?» replicò. Tutt’e due sapevano che la conversazione era registrata. Chi fosse sopravvissuto ai prossimi minuti avrebbe avuto una registrazione dello scambio di battute.

«Dieci minuti prima della traslazione, l’ammiraglia di Aldikacti ci ha trasmesso nuovi ordini» dichiarò de Soya. «Li stiamo eseguendo.»

Stone rimase impassibile, ma de Soya sapeva che in quel momento la madre capitano subvocalizzava al suo vice la richiesta di confermarle se c’era stata una trasmissione fra la Uriele e la Raffaele. La trasmissione era avvenuta. Ma il suo contenuto era banale: l’aggiornamento delle coordinate di appuntamento nel sistema Tau Ceti.

«Quali erano gli ordini, padre capitano de Soya?»

«Ordini riservati, madre capitano Stone. Non riguardano la Gabriele.» Sul circuito a conduzione ossea comunicò all’USIF Shan: "Imposta le coordinate del raggio della morte e dammi l’attuatore, come d’accordo". L’attimo seguente sentì nella destra il peso di un’arma a energia. La pistola era invisibile a Stone, ma perfettamente tattile per de Soya. Il padre capitano cercò di far sembrare rilassata la mano intorno al calcio dell’arma e intanto piegò il dito sull’invisibile grilletto. Dal modo casuale con cui teneva il braccio lungo il corpo, de Soya capì che anche Stone impugnava un’arma virtuale. Nello spazio di simulazione tattica si trovavano a tre metri di distanza l’uno dall’altra. Fra loro, la lunga coda di fusione della Raffaele e la più breve colonna di fiamma della Gabriele salivano a livello del petto sul piano dell’eclittica.

«Padre capitano de Soya, il tuo nuovo punto di traslazione non ti porterà nel sistema Tau Ceti, come ordinato.»

«Quegli ordini sono stati annullati, madre capitano» dichiarò de Soya. Guardava gli occhi del suo ex comandante in seconda. Halen Stone era sempre stata brava a nascondere emozioni e intenzioni. In più di un’occasione lo aveva battuto a poker, sulla sua vecchia nave torcia, la Baldassarre.

«Qual è la tua nuova destinazione, padre capitano?»

Trentatré minuti al punto di traslazione.

«Segreto, madre capitano. Posso dirti solo questo: portata a termine la nostra missione, la Raffaele si unirà di nuovo alla task force nel sistema Tau Ceti.»

Con la sinistra Halen Stone si strofinò la guancia. De Soya tenne d’occhio il dito piegato della destra: Stone non aveva bisogno di sollevare l’invisibile pistola per azionare il raggio della morte, ma l’istinto l’avrebbe spinta a prendere di mira l’avversario.

De Soya odiava i raggi della morte e sapeva che Stone la pensava come lui. Erano armi da codardi, messe al bando dalla Flotta della Pax e dalla Chiesa, fino a quella spedizione. A differenza delle neuroverghe dell’epoca dell’Egemonia, che proiettavano veramente un raggio di distruzione neurale simile a una falce, nel raggio della morte non c’era nessuna proiezione coerente da nave a bersaglio. I potenti accumulatori del propulsore Gideon proiettavano una distorsione C-più di spazio/tempo entro un cono finito. Il risultato era una sottile torsione della matrice di tempo reale, simile a una traslazione fallita nello spazio del vecchio propulsore Hawking, ma più che sufficiente a distruggere la delicata danza d’energia che è un cervello umano.

Tuttavia, per quanto condividesse l’odio degli ufficiali della Flotta per i raggi della morte, Stone capiva la necessità di farne uso in quel momento. La Raffaele rappresentava un incredibile investimento di fondi della Pax: la madre capitano si proponeva prima di tutto di impedire all’equipaggio di rubare la nave, ma voleva evitare di danneggiarla lei stessa; il guaio era che l’uccisione dell’equipaggio mediante i raggi della morte probabilmente non avrebbe impedito alla nave di traslare, a seconda di quanta accelerazione era già stata programmata. Era tradizione che il capitano eseguisse manualmente la manovra di traslazione (o che almeno fosse pronto a sostituire temporaneamente con un interruttore automatico le funzioni guidate dal computer della nave) ma Stone non aveva nessuna garanzia che de Soya avrebbe seguito la tradizione.

«Per favore, fammi parlare con il comandante Liebler» disse a de Soya.

Il padre capitano sorrise. «Il mio comandante in seconda esegue i suoi compiti» replicò. E pensò: "Così Hoag è la spia. Ecco la conferma che ci occorreva".

Ormai la Gabriele non poteva raggiungerli nemmeno se avesse accelerato anch’essa a 600 g. La Raffaele avrebbe avuto i requisiti di traslazione prima che l’altra Arcangelo giungesse a portata di rimorchio. Se voleva fermarli, Stone doveva uccidere l’equipaggio e poi danneggiare la nave, usando le ultime scorte del proprio arsenale per sovraccaricare i campi di contenimento esterni della Raffaele. Se avesse fatto un errore di giudizio, se de Soya eseguiva davvero ordini dell’ultimo minuto, quasi sicuramente avrebbe affrontato la corte marziale e sarebbe stata cacciata dalla Flotta della Pax. Se non fosse intervenuta, e se de Soya avesse rubato una Arcangelo della Pax, avrebbe affrontato la corte marziale, sarebbe stata rimossa, scomunicata e quasi certamente giustiziata.

«Federico» disse con calma «per favore, riduci la spinta, così uguagliamo le velocità. Puoi sempre eseguire gli ordini e traslare nelle coordinate segrete. Ti chiedo solo di salire sulla Raffaele e di avere la conferma che tutto è a posto, prima che tu effettui la traslazione.»

De Soya esitò. Non poteva fingere che i suoi ordini giustificassero la precipitosa partenza con accelerazione di 600 g. In qualsiasi punto la Raffaele fosse traslata, l’equipaggio avrebbe comunque perduto due giorni per la risurrezione, prima di continuare la missione. Osservò gli occhi di Stone e intanto controllò la minuscola immagine della Gabriele in cima alla colonna di fuoco bianco provocata dalla velocità di 300 g. Forse, pensò, Stone avrebbe tentato di sovraccaricare i campi di contenimento della Raffaele, con una salva delle armi convenzionali che le restavano. Non aveva voglia di replicare con missili e armi al plasma, non poteva accettare che la Gabriele fosse vaporizzata. Ormai era un traditore della Chiesa e dello stato, ma non intendeva causare anche la vera morte.

Perciò non aveva scelta: doveva usare i raggi.

«D’accordo, Halen» disse con disinvoltura. «Dirò a Hoag di scendere a 200 g per il tempo sufficiente ad affiancarci.» Girò la testa, come per concentrarsi a inviare ordini sul canale a conduzione ossea.

Di sicuro la sua mano si contrasse. Anche quella di Stone si contrasse e l’invisibile pistola si alzò un poco, mentre lei irrigidiva il dito sul grilletto.

Nella frazione di secondo che precedette la distruzione, il padre capitano de Soya vide sul simulatore tattico le otto scintille che si staccavano dalla Gabriele: la madre capitano Stone non correva rischi, preferiva vaporizzare la Raffaele, pur di non farla allontanare.

L’immagine virtuale della madre capitano volò all’indietro ed evaporò, mentre i raggi della morte penetravano nella sua nave e, con la morte degli esseri umani a bordo, recidevano ogni collegamento con le altre Arcangelo.

Meno di un secondo più tardi, il padre capitano de Soya si sentì strappare dallo spazio simulato, mentre i neuroni del suo cervello letteralmente friggevano. Il sangue gli sgorgò dagli occhi, dalla bocca, dalle orecchie; ma il prete capitano era già morto, come era morta ogni entità cosciente a bordo della Raffaele, il sergente Gregorius e le sue due guardie svizzere sul ponte dell’equipaggio, l’ingegnere Meier e gli ufficiali Argyle, Denish e Shan sul ponte di comando.

Sedici secondi più tardi, gli otto missili a propulsione Hawking balenarono nello spazio reale ed esplosero colpendo in pieno la silenziosa Arcangelo Raffaele.


Gige guardò in tempo reale Raul Endymion dire addio alla famiglia in vesti rosse e vogare sul kayak verso l’arcata del teleporter. Sul pianeta c’era una duplice eclisse lunare. Fuochi d’artificio esplodevano sopra il fiume-canale e nella città lineare scaturivano bizzarri ululati da migliaia di gole. Gige si alzò e si preparò a scendere in acqua e a prelevare l’uomo sul kayak. Erano d’accordo di prendere vivo Raul Endymion, se da solo, per interrogarlo nella nave che aspettava in orbita (lo scopo principale della missione era scoprire dove si trovasse Aenea) ma nessuno aveva vietato di rendergli più difficile la lotta o la fuga. Mentre era ancora in tempo rapido, Gige progettò di sgarrettare Endymion e di recidergli anche i tendini delle braccia. Poteva farlo in un attimo, chirurgicamente, così non c’era pericolo che l’uomo sanguinasse a morte prima di essere depositato nel medibox della nave e lasciato in attesa dell’interrogatorio.

Quando Nemes si era allontanata, Gige aveva percorso praticamente in tempo zero i sei chilometri fino all’arcata del teleporter, controllando i passanti e i bizzarri eolocicli, mentre oltrepassava le figure e i veicoli impietriti. Raggiunta l’arcata, si era nascosto in una macchia di salici sull’alta riva del canale ed era passato al tempo lento. Aveva il compito di sorvegliare l’uscita posteriore. Nemes gli avrebbe inviato un impulso, appena avesse trovato lo spaziale mancante.

Nei venti minuti di attesa, Gige si era messo in contatto con Scilla e Briareo, sulla banda comune interna, ma non aveva avuto notizie da Nemes. Era rimasto sorpreso. Tutti loro erano convinti che Nemes, dopo essere mutata di fase, avrebbe trovato in un paio di secondi di tempo reale l’uomo che cercavano. Gige non si era preoccupato (in realtà non era capace di preoccuparsi nel vero senso della parola) ma aveva pensato che Nemes facesse ricerche in archi sempre più larghi, passando di frequente dal tempo normale al tempo rapido e viceversa. Forse l’aveva chiamata sulla banda comune proprio quando lei era in tempo rapido. Inoltre capiva che, pur essendo tutti loro clonati, Nemes era stata la prima a uscire dalla vasca di clonazione. Era quindi meno abituata degli altri (lui, Scilla e Briareo) all’uso della banda comune. A dire il vero, Gige se ne sarebbe fregato, se gli ordini fossero stati di limitarsi a tirare Nemes fuori della roccia su Bosco Divino e distruggerla lì sul posto.

Il fiume era pieno di traffico. Ogni volta che una imbarcazione si avvicinava all’arcata del teleporter da est o da ovest, Gige passava in tempo rapido, camminava sulla spugnosa superficie del fiume e controllava i passeggeri. In alcuni casi doveva spogliarli per accertarsi che non fossero Endymion o l’androide A. Bettik o la bambina Aenea travestiti. Per essere sicuro li annusava, prelevava con un ago biopsie del DNA dei passeggeri vestiti e controllava che fossero nativi di Vitus-Gray-Balianus B. Finora aveva trovato solo indigeni di quel pianeta.

Dopo ogni ispezione, tornava sulla riva e riprendeva la sorveglianza. Diciotto minuti dopo avere lasciato la nave, vide uno skimmer della Pax girare lì intorno e passare sotto l’arcata del teleporter. Per lui sarebbe stato faticoso abbordarlo in tempo rapido, ma Scilla era già a bordo, con i soldati della Pax impegnati nelle ricerche, così non dovette fare lo sforzo.

"È una vera rottura" trasmise Scilla sulla banda comune.

"Sì" convenne Gige.

"Dov’è Nemes?" intervenne Briareo, tornato in città. Gli imbranati poliziotti avevano ricevuto via radio il mandato di perquisizione e ora passavano di casa in casa.

"Non l’ho più sentita" rispose Gige.

Così, durante l’eclisse e le relative assurdità rituali, Gige vide l’eolociclo fermarsi e Raul Endymion emergere dal veicolo. Fu sicuro che si trattasse di Endymion. Non solo le immagini visive corrispondevano esattamente, ma anche l’odore personale coincideva con i dati che Nemes aveva scaricato nella memoria dei suoi cloni. Gige avrebbe potuto mutare di fase immediatamente, avvicinarsi alle persone come pietrificate e prendere una biopsia del DNA, ma non era necessario. Quello era il loro uomo.

Invece di trasmettere sulla banda comune o riferire a Nemes, Gige aspettò ancora un minuto. Pregustava la cattura di Endymion: non voleva annacquare quel piacere condividendolo con altri. Inoltre, si disse, avrebbe fatto meglio a rapire Endymion dopo che si fosse separato dalla famiglia Spettroelica che in quel momento lo salutava.

Così, mentre a colpi di pagaia Raul Endymion spingeva la sua ridicola barchetta nella corrente del fiume-canale sempre più largo, rimase a guardare. Avrebbe fatto meglio, si disse, a prelevare anche il kayak, oltre a Endymion: i cinque Spettroelica rimasti sulla riva si aspettavano di veder scomparire uomo e imbarcazione, se sapevano che Endymion tentava la fuga via teleporter. Dal loro punto di osservazione avrebbero visto un lampo, e Endymion sarebbe scomparso. In realtà, Gige si sarebbe mantenuto in fase tempo rapido e avrebbe incluso uomo e kayak nel suo campo espanso. Inoltre il kayak poteva fornire indizi su dove si nascondeva la bambina Aenea: odori planetari rivelatori, tecniche di fabbricazione.

Lungo la riva, verso nord, la gente esultava e cantava. La duplice eclisse lunare era completa. Fuochi d’artificio scoppiavano sopra il fiume e lanciavano ombre barocche sull’arrugginito arco del teleporter. Endymion distolse l’attenzione dai cinque che lo salutavano col braccio e si concentrò nel mantenersi al centro della rapida corrente e vogare verso il teleporter.

Gige si alzò, si stiracchiò languidamente e si preparò a mutare di fase.

All’improvviso la creatura fu accanto a lui, a qualche centimetro: alta almeno tre metri, lo sovrastava.

"Impossibile" pensò Gige. "Avrei dovuto percepire la distorsione del mutamento di fase."

Le esplosioni di bengala riversarono luce color sangue sul carapace cromato. Denti metallici e punte di cromo distorsero le fioriture gialle, bianche e rosse in espansione su piani d’argento liquido. Gige colse per un istante la propria immagine riflessa, distorta e stupita, poi mutò di fase.

Il cambiamento richiese meno di un microsecondo. Ma chissà come, una delle quattro mani munite di artigli della creatura penetrò nel campo prima che si completasse. Dita a lama scavarono nella sintocarne e nei muscoli, cercarono uno dei due cuori.

Gige non badò all’attacco e attaccò a sua volta, movendo il braccio, reso argenteo dal mutamento di fase, in un colpo di taglio, come una ghigliottina orizzontale. Il braccio avrebbe tranciato una lega di fibrocarbonio come se fosse cartone bagnato, ma non tranciò la creatura. Tra le scintille, con un rombo di tuono, il braccio rimbalzò, dita insensibili, radio e ulna metallici fracassati.

La mano munita di artigli estrasse dal corpo del clone matasse di intestino, chilometri di microfibre ottiche. Gige si rese conto di essere stato squarciato dall’ombelico allo sterno. Poco male: poteva ancora funzionare.

Unì a punta le dita della destra e le spinse contro i luccicanti occhi rossi. Era un colpo mortale. Ma la creatura spalancò mascelle che parevano la cucchiaia di un escavatore e le richiuse con velocità superiore al quasi istantaneo mutamento di fase: all’improvviso il braccio destro di Gige terminò all’altezza del polso.

Gige si scagliò contro la creatura, cercò di unire i rispettivi campi di fase, tentò di portare i propri denti a distanza utile per azzannare. Fu afferrato da due mani gigantesche le cui dita a lama si conficcarono nel campo di fase e nella carne, gli impedirono ogni movimento. Il cranio di cromo scattò in avanti: punte aghiformi trapassarono l’occhio destro di Gige e il lobo frontale destro del suo cervello.

Allora Gige urlò, non di dolore (anche se per la prima volta nella vita provò qualcosa di simile al dolore) ma di pura, irrefrenabile rabbia. Chiuse di scatto i denti, con un rumore di lame che intacchino acciaio, e cercò la gola della creatura, ma quella continuò a tenerlo a tre braccia di distanza.

Poi la creatura mostruosa estirpò i due cuori di Gige e li gettò lontano nell’acqua. Un nanosecondo dopo, spinse avanti la testa, azzannò la gola di Gige e con un singolo scatto dei lunghi denti gli tranciò la spina dorsale di lega di carbonio. La testa di Gige fu spiccata dal busto. Gige tentò di passare al controllo telemetrico del corpo che ancora lottava, scrutando tra il sangue e i fluidi dell’unico occhio rimastogli, e cercò di trasmettere sulla banda comune; ma la creatura gli aveva trapassato il trasmettitore inserito nel cranio e strappato via il ricevitore posto nella milza.

Il mondo roteò, prima la corona del sole che sbucava intorno alla seconda luna, poi i bengala, poi la superficie del fiume macchiettata di colori, poi di nuovo il cielo, poi le tenebre. Con coerenza che svaniva a poco a poco, Gige capì che la sua testa era stata gettata lontano nel fiume. La sua ultima immagine retinica, prima che la testa fosse sommersa nel buio, fu quella del proprio corpo decapitato e inutile, scosso dagli spasmi, stretto al carapace della creatura, impalato su punte e spine. Poi, con un lampo, lo Shrike mutò di fase: la testa di Gige colpì l’acqua e affondò nelle onde scure.


Rhadamanth Nemes arrivò cinque minuti dopo. Passò in tempo normale. La riva del fiume era deserta, a parte il cadavere decapitato del clone. L’eolociclo e la famiglia dalle vesti rosse erano spariti. Non si vedevano imbarcazioni in quel tratto del fiume. Il sole cominciava a emergere dal cono d’ombra della seconda luna.

"Gige è qui" trasmise sulla banda comune. Briareo e Scilla erano ancora con i poliziotti nella città. Il lusiano drogato era stato trovato e liberato delle manette. Nessuno dei cittadini interrogati voleva dire a chi appartenesse quella casa. Scilla incitava il colonnello Vinara a lasciar perdere l’indagine.

Nemes uscì dal campo di fase e cominciò a sentire il fastidio. Aveva tutte le costole, osso e permacciaio, fratturate o piegate. Vari organi interni erano schiacciati. La mano sinistra non funzionava. Era rimasta priva di conoscenza per quasi venti minuti standard. Priva di conoscenza! Non aveva perduto conoscenza nemmeno per un solo secondo, nei quattro anni che aveva trascorso nella roccia solidificata, su Bosco Divino. E ora aveva subito tutti quei danni anche se si trovava nell’impenetrabile campo di fase!

Smise di pensarci. Nei giorni di inattività dopo la partenza da quel pianeta abbandonato dal Nucleo, avrebbe lasciato che il suo corpo si riparasse da solo. Si inginocchiò accanto al cadavere. Gige era stato lacerato da artigli, decapitato e sventrato, quasi disossato. Si contraeva ancora: le dita spezzate cercavano di afferrare un avversario che non c’era più.

Nemes fremette, non per simpatia verso Gige, né per ripugnanza nel vedere i danni provocati al suo clone (valutava professionalmente lo schema d’attacco dello Shrike ed era, casomai, ammirata) ma per la pura e semplice frustrazione di avere perduto il confronto. L’attacco nel tunnel era stato troppo improvviso, l’aveva sorpresa a metà del cambio di fase e non le aveva permesso di reagire. L’avrebbe ritenuto impossibile.

"Lo troverò" trasmise sulla banda comune e passò in tempo rapido. L’aria si addensò, divenne vischiosa come morchia. Nemes scese sulla riva, si aprì la via nella tenace resistenza della superficie dell’acqua e camminò sul letto del fiume, chiamando sulla banda comune e sondando col radar di profondità.

Circa un chilometro più a valle trovò la testa di Gige. In quel tratto la corrente era forte. Crostacei d’acqua dolce, che avevano già mangiato le labbra e l’occhio rimasto, ora sondavano le orbite vuote. Nemes li scacciò e riportò sulla riva la testa di Gige.

Il trasmettitore su banda comune era fracassato e le corde vocali erano sparite. Nemes emise un filamento a fibra ottica e stabilì il collegamento diretto col proprio centro di memoria. Dal cranio di Gige, schiacciato sul lato sinistro, uscivano materia cerebrale e frammenti di gel di elaborazione del DNA.

Nemes non rivolse domande a Gige. Passò al tempo normale e scaricò il contenuto della memoria, trasmettendola, così come la riceveva, ai due cloni rimasti.

"Shrike" trasmise Scilla.

"Niente stronzate, Sherlock" trasmise Briareo.

"Silenzio" ordinò Nemes. "Finite con quegli idioti. Faccio pulizia qui e vi aspetto nella navetta."

La testa di Gige, cieca, colante, cercava di parlare, usava i resti della lingua per formare sillabe sibilanti e glottali. Nemes se l’accostò all’orecchio.

«Ss-t- pp-ffvvv-re.» "Per favore." «Ss-iuu-tt.» "Aiuto." «Ssss-ttp-m-eh.» "Me."

Nemes abbassò la testa di Gige e studiò il corpo sulla riva piena di schizzi. Molti organi mancavano. Decine e decine di metri di microfibra erano disseminati tra le erbacce e nel fango, alcuni erano trascinati via dalla corrente. Intestini grigi e blocchi di gel neurale erano rotti e sparpagliati. Pezzi d’osso luccicavano nella luce del sole che emergeva dalla duplice tenebra. Né la navetta né il medibox della Arcangelo potevano aiutare quell’essere nato in una vasca. E forse il clone avrebbe impiegato vari mesi standard per autoripararsi.

Nemes posò a terra la testa di Gige, avvolse il corpo nei suoi stessi filamenti, lo appesantì con pietre all’esterno e all’interno. Controllò che sul fiume non ci fossero imbarcazioni e gettò lontano nella corrente il corpo decapitato. Aveva già visto che il fiume possedeva spazzini voraci e per niente schizzinosi. Ma non avrebbero trovato appetitose alcune parti del suo clone.

Poi raccolse la testa di Gige. La lingua si muoveva ancora. Sfruttando le orbite per afferrarla tra pollice e indice, Nemes lanciò la testa lontano nel fiume, con un facile colpo sottomano. La testa affondò, provocando appena un’increspatura dell’acqua.

Nemes andò all’arcata del teleporter, strappò dall’esterno rugginoso e in teoria impenetrabile una piastra d’accesso nascosta, emise dal polso un filamento. Si collegò.

"Non capisco" disse Briareo sulla banda comune. "Non porta in nessun posto."

"Non è esatto" replicò Nemes, riavvolgendo il filamento. "In nessun posto della vecchia Rete. In nessun posto dove il Nucleo abbia costruito un teleporter."

"Impossibile" trasmise Scilla. "Non esistono altri teleporter, tranne quelli costruiti dal Nucleo."

Nemes sospirò. I suoi cloni erano idioti. "Fate silenzio e tornate alla navetta" trasmise. "Dobbiamo riferire di persona. Lo stesso consigliere Albedo vorrà scaricare la nostra memoria."

Mutò di fase e tornò alla navetta, nell’aria divenuta densa e nero seppia per il tempo rallentato.

12

Non dimenticai che c’era un pulsante d’emergenza. Il problema è semplice: se c’è davvero un’emergenza, non è detto che si pensi subito al pulsante.

Il kayak cadeva in un infinito abisso d’aria interrotta solo da nuvole che si alzavano per decine di migliaia di metri, dalle profondità violacee al soffitto latteo di altre nuvole migliaia di metri sopra di me. Avevo perduto la pagaia e la guardai roteare in caduta libera. Il kayak e io precipitavamo a velocità maggiore della pagaia, per ragioni di aerodinamica e di velocità terminale che in quel particolare momento trascendevano le mie capacità di calcolo. Grandi flutti ovali di acqua del fiume che mi ero lasciato alle spalle cadevano davanti a me e dietro di me, si separavano.e si sagomavano in ovoidi come avevo visto accadere in ambiente a gravità zero, ma poi erano spazzati via dal vento. Avevo l’impressione di precipitare in una mia personale e localizzata tempesta. La pistola a fléchettes del lusiano era incuneata fra la mia coscia e la parte interna della curvatura dell’abitacolo. Ero a braccia alzate, come un uccello che si prepari a spiccare il volo. Stringevo i pugni per il terrore. Dopo il primo urlo, tenevo le mascelle serrate e digrignavo i denti. La caduta continuava e continuava.

Per un attimo avevo scorto l’arcata del teleporter, sopra e dietro di me, anche se "arcata" non era più la parola esatta: la gigantesca struttura che galleggiava senza sostegni era un anello metallico, un toroide, una rugginosa ciambella. Per un attimo, al di là del brillante anello vidi il cielo di Vitus-Gray-Balianus B; poi l’immagine svanì e anche in quel cerchio sempre più piccolo ci furono solo nuvole. Il toroide era l’unica cosa solida in un panorama composto esclusivamente di nuvole e nella mia caduta ero già precipitato oltre mille metri più in basso. In un momento di fantasia, intontito per il panico, immaginai che, se fossi stato un uccello, avrei potuto tornare in volo all’anello del teleporter, appollaiarmi sull’arco inferiore e aspettare…

"Aspettare cosa?" Mi afferrai ai fianchi del kayak, che girò su se stesso e rischiò di farmi capovolgere, mentre cadeva a piombo, prua in avanti, verso l’abisso violaceo chilometri e chilometri più sotto.

Fu allora che mi ricordai del pulsante d’emergenza. "Non toccarlo, finché non sarai assolutamente costretto a premerlo" aveva detto Aenea, quando avevamo messo in acqua il kayak, ad Hannibal.

Il kayak girò sull’asse longitudinale e a momenti mi sbatté fuori. Col fondoschiena non toccavo più il sedile imbottito: galleggiavo in libertà all’interno del piccolo abitacolo, in una costellazione composta di gocce d’acqua in caduta libera, di una pagaia che ruotava su se stessa e di un kayak che precipitava. Decisi che in quella situazione "ero assolutamente costretto". Tolsi la copertura plastica e premetti col pollice il pulsante rosso.

Alcuni pannelli si spalancarono davanti all’abitacolo, accanto alla prua, e alle mie spalle. Chinai la testa, per evitare una massa di tessuto che si gonfiava. Il kayak si raddrizzò e poi frenò con tale forza che rischiai di volare fuori. Mi afferrai ferocemente ai fianchi dello scafo di fibra di vetro, che rullò selvaggiamente. L’informe massa sopra la mia testa parve sagomarsi in qualcosa di più complicato di un paracadute. Anche tra i fiotti di adrenalina e il digrignare di denti per il panico, riconobbi il tessuto: la "memostoffa" che A. Bettik e io avevamo comprato al mercato indiano presso Taliesin West. Quel materiale piezoelettrico a energia solare era quasi trasparente, superleggero, ultrarobusto e poteva ricordare fino a dodici configurazioni stabilite in precedenza; avevamo pensato di acquistarne dell’altro per sostituire la tela sopra lo studio degli architetti principali, dal momento che la vecchia copertura faceva la pancia, marciva e doveva essere riparata e sostituita regolarmente. Ma il signor Wright aveva insistito per mantenere la vecchia tela: preferiva la luce pastosa. A. Bettik aveva portato nel suo laboratorio una decina di metri di memostoffa e io non ci avevo più pensato.

Fino a quel momento.

La caduta si bloccò. Ora il kayak pendeva da una paravela a delta, sostenuto da una decina di bretelle di nylon-10 che si alzavano da posizioni strategiche lungo la parte superiore dello scafo. Continuavo a scendere, ma in una planata graduale, non a capofitto. Guardai in alto (la memostoffa era abbastanza trasparente da consentire la visuale) ma il toroide del teleporter era ormai troppo lontano e nascosto dalle nuvole. Le correnti d’aria mi portavano lontano dal teleporter.

Sarei dovuto essere grato, suppongo, ai miei amici, la ragazza e l’androide, per avere previsto chissà come quella situazione e per avere preparato il kayak, ma il mio primo pensiero fu un: "Maledizione a voi!", di tutto cuore. Era troppo. Scaricarmi su un pianeta di nubi e di aria, senza terreno, era davvero troppo! Se Aenea sapeva che sarei stato teleportato qui, perché non aveva…

"Senza terreno?" Mi sporsi dal kayak e guardai in basso. Forse l’idea era che planassi dolcemente verso una superficie che ancora non scorgevo.

No. Sotto di me c’erano chilometri di aria e, più in basso, strati violacei e neri, una tenebra turbata solo dal feroce balenare di fulmini. Laggiù c’era di sicuro una pressione terribile. Considerazione che sollevò un’altra domanda: se quello era un pianeta di tipo gioviano, Whirl o Giove o uno degli altri, come mai respiravo ossigeno? Per quanto ne sapevo, tutti i giganti gassosi scoperti dalla specie umana avevano atmosfera di gas non respirabili… metano, ammoniaca, elio, anidride carbonica, fosfina, acido cianidrico, altre simili sgradevolezze, più qualche traccia di vapore acqueo. Non avevo mai sentito parlare di un gigante gassoso con una mistura respirabile di ossigeno e azoto. Eppure respiravo. L’atmosfera era più rarefatta di quella di altri pianeti da me visitati e puzzava un poco di ammoniaca, ma la respiravo, non c’era dubbio. Perciò il pianeta non era un gigante gassoso. Ma allora dove diavolo mi trovavo?

Alzai il polso e parlai al comlog. «Dove diavolo mi trovo?»

Seguì una pausa e per un momento pensai che l’aggeggio si fosse rotto su Vitus-Gray-Balianus B. Poi giunse la risposta, nella voce dal tono borioso della nave. "Pianeta sconosciuto, signor Endymion. Ho alcuni dati, ma incompleti."

«Sentiamo.»

Seguì uno scoppiettante elenco di temperature in gradi Kelvin, pressione atmosferica in millibar, densità media stimata in grammi per centimetro cubico, probabile velocità di fuga in chilometri al secondo, campo magnetico rilevato in gauss e infine una sequela di gas atmosferici e di percentuale degli elementi.

«Velocità di fuga di cinque-quattro-virgola-due chilometri al secondo» ripetei. «Siamo nel campo dei giganti gassosi, no?»

"Senza alcun dubbio" disse la voce della nave. "La base di riferimento gioviana è cinque-nove-virgola-cinque chilometri al secondo."

«Ma l’atmosfera non è quella di un gigante gassoso, no?» Davanti a me uno stratocumulo cresceva come un olodocumentario sulla natura trasmesso a velocità accelerata. La torreggiante nuvola mi sovrastava di sicuro di dieci chilometri e la sua base spariva nelle profondità violacee. Ai piedi dello stratocumulo balenavano i fulmini. La luce del sole sul lato più lontano della nuvola pareva ricca e bassa: luce della sera.

"L’atmosfera non assomiglia a nessuna di quelle che ho in memoria" disse il comlog. "Anidride carbonica, etano, acetilene e altri idrocarburi, che violano i valori d’equilibrio di Solmev, possono essere facilmente spiegati con l’energia cinetica molecolare di tipo gioviano e con la radiazione solare che spezza le molecole di metano, per cui la presenza di anidride carbonica dà un risultato standard di metano e vapor d’acqua mescolati negli strati profondi dove la temperatura supera i 1200 gradi Kelvin, ma il livello di ossigeno e di azoto…"

«Ebbene?»

"Indica vita" concluse il comlog.

Girai la testa da tutte le parti e scrutai nuvole e cielo, come per timore che qualcuno si avvicinasse di soppiatto.

«Vita sulla superficie?»

"Questo è dubbio" replicò la voce della nave. "Se questo pianeta segue le norme di Giove/Whirl, la pressione a livello della cosiddetta superficie sarebbe appena sotto i sette milioni di atmosfere della Vecchia Terra, con una temperatura di venticinquemila gradi Kelvin."

«A quale altezza ci troviamo?»

"Questo è incerto. Ma con l’attuale pressione atmosferica di zero-virgola-sette-sei rispetto alla pressione standard della Vecchia Terra, in un normale pianeta gioviano stimerei che siamo sopra la troposfera e la tropopausa, cioè nei livelli più bassi della stratosfera."

«Non farebbe più freddo, a simile altezza? Sarebbe come trovarsi nello spazio esterno.»

"Non su un gigante gassoso" replicò il comlog, con l’insopportabile voce professionale della nave. "L’effetto serra crea uno strato d’inversione termale che riscalda gli strati della stratosfera fin quasi a temperature ottimali per l’uomo. Ma la differenza di alcune migliaia di metri potrebbe mostrare marcati incrementi o decrementi di temperatura."

«Di alcune migliaia di metri?» ripetei, piano. «Quanta aria c’è sopra di noi e sotto di noi?»

"Dato sconosciuto" disse di nuovo il comlog. "Ma l’estrapolazione suggerirebbe che il raggio equatoriale dal centro di questo pianeta alla sua atmosfera superiore sia approssimativamente di settantamila chilometri e che lo strato di ossigeno-azoto-anidride carbonica si estenda da tremila a ottomila chilometri, circa due terzi della distanza dall’ipotetico centro del pianeta."

«Uno strato da tremila a ottomila chilometri» ripetei scioccamente. «A una cinquantina di chilometri dalla superficie…»

"Approssimativamente" confermò il comlog. "Ma si dovrebbe notare che a pressioni vicine a quelle presenti nel nucleo, l’idrogeno molecolare diventa metallo…"

«Già» dissi. «Per il momento va bene così.» Avevo l’impressione che presto avrei vomitato dal fianco del kayak.

"Dovrei anche sottolineare che l’anomalia dell’interessante colorazione nel vicino stratocumulo suggerisce la presenza di mono o polisolfuri di ammonio, anche se ad altitudini apotroposferiche si penserebbe solo a cirri di ammoniaca, mentre le nubi di vero vapore acqueo si formerebbero solo a profondità di circa dieci atmosfere standard, a causa…"

«Va bene così» ripetei.

"Lo faccio notare soltanto per l’interessante paradosso atmosferico che coinvolge…"

«Chiudi il becco!»


Tramontato il sole, faceva freddo. Ma non dimenticherò mai quel tramonto.

In alto sopra di me, il cielo parzialmente visibile si era scurito nell’intenso turchese tipo Hyperion e poi.in viola scuro. Le nuvole tutt’intorno divennero più luminose, mentre il cielo sopra e sotto si scuriva. Le chiamo nuvole, ma questo termine generico non riesce certo a convogliare la grandiosità dello spettacolo che vedevo. Sono cresciuto su Hyperion, in un carrozzone di pastori nomadi in una brughiera priva d’alberi fra il gran mar Meridionale e l’altopiano punta d’Ala: conosco bene le nuvole.

Molto sopra di me, cirri piumosi e cirrocumuli sfrangiati riflettevano il crepuscolo in un guazzabuglio di colori pastello, morbidi rosa, sfumature violetto, controluce dorati. Era come se mi trovassi in un tempio con un alto soffitto rosato sostenuto da migliaia di colonne e di pilastri irregolari. Le colonne e i pilastri erano torreggianti montagne di cumuli e di cumulonembi, la cui base a forma di incudine scompariva nelle profondità sempre più buie centinaia o migliaia di chilometri sotto il mio penzolante kayak e la cui sommità arrotondata si gonfiava nei cirrostrati centinaia o migliaia di chilometri più in alto. Ogni colonna rifletteva la bassa e ricca luce che passava tra squarci fra le nubi molte migliaia di chilometri più a ovest e la luce pareva incendiare le nuvole come se fossero di materiale altamente infiammabile.

Mono o polisolfuri, aveva detto il comlog. Be’, di qualsiasi cosa fossero fatti, quei cumuli bronzei nella luce diffusa erano incendiati dal tramonto, con una luce rosso ruggine, brillanti striature cremisi, fasci color sangue che si dilungavano dalle masse principali come stendardi cremisi, venature rosa che intessevano il soffitto di cirri come muscoli sotto la pelle di un corpo vivente, masse accavallate di cumuli così bianchi da farmi battere le palpebre come abbacinato da una distesa di neve, cirri dorati e striati che si riversavano fuori dalle ribollenti torri dei cumulonembi come capelli biondi scostati dal vento da livide facce rivolte in alto. La luce divenne più forte, più vivida, così intensa da farmi lacrimare, e poi ancora più brillante. Grandi raggi quasi orizzontali di luce divina brillavano fra le colonne, qui ne illuminavano alcune, là ne mettevano in ombra altre, passando tra nubi di ghiaccio e bande di pioggia verticale, riversando centinaia di arcobaleni semplici e migliaia di arcobaleni multipli. Poi le ombre salirono dall’abisso neroviolaceo, oscurarono sempre più i cavalloni ancora turbinanti di cumuli e di nembi, si arrampicarono infine sugli alti cirri e gli increspati altocumuli; ma all’inizio le ombre, anziché grigiore o tenebra, portarono un’infinita tavolozza di sfumature: oro lucente che si offuscava in bronzo, bianco puro che diventava crema e poi seppia e ombra, cremisi dell’intensità del sangue appena versato che lentamente si scuriva nel rosso ruggine del sangue rappreso e poi svaniva in un autunnale rossiccio rugginoso. Lo scafo del kayak perdette il luccichio e la paravela sopra di me smise di riflettere la luce, mentre quel terminatore verticale mi superava e si allontanava. Lentamente le ombre strisciarono più in alto; erano trascorsi almeno trenta minuti, ma ero troppo affascinato per controllare sul comlog; quando raggiunsero il soffitto di cirri, fu come se qualcuno avesse smorzato tutte le luci del tempio.

Fu uno splendore di tramonto.

Ricordo di avere battuto le palpebre, allora, sopraffatto dal gioco di luce e di ombra e dall’agitazione cinetica bizzarramente fastidiosa di tutte quelle frementi masse di nuvole, pronto a riposare gli occhi nel buio della sera e a raccogliere i pensieri. Allora entrarono in gioco i fulmini e l’aurora boreale.

Su Hyperion l’aurora boreale non c’era; o, se c’era, non l’avevo mai vista. Ma avevo visto un esempio delle luci nordiche della Vecchia Terra, in una penisola che un tempo era stata la repubblica scandinava, mentre con la navetta facevo il giro turistico del pianeta. Quelle luci baluginavano e provocavano la pelle d’oca, si increspavano e ondeggiavano all’orizzonte come la veste incorporea di un fantasma danzante.

L’aurora boreale di quel mondo senza nome non era altrettanto fine. Bande di luce, solide striature di luce, discrete e visibili come i tasti di un pianoforte, iniziarono a danzare in alto nel cielo, nella direzione che per me era il sud. Altre cortine di verde, oro, rosso e cobalto cominciarono a brillare contro il buio mondo d’aria sotto di me. Si allungarono, si allargarono, si estesero e si mescolarono ad altre cortine di elettroni. Era come se dalla luce baluginante il pianeta ritagliasse bambole di carta. Nel giro di qualche minuto, in ogni parte del cielo danzavano nastri di colore stratificato, verticali, obliqui, quasi orizzontali. Le torri di nuvole tornarono visibili, onde e pennoni riflettevano lo stroboscopio di migliaia di quelle luci fredde. Potevo quasi udire il sibilo e il raspio di particelle solari spinte lungo le terrificanti linee di forza magnetica che fasciavano il gigantesco pianeta.

Anzi, le udivo davvero: schianti, rombi, schiocchi, forti esplosioni, lunghe catene di scoppiettii. Mi girai nell’abitacolo e mi sporsi dallo scafo per guardare dritto in basso. I fulmini e i tuoni erano iniziati.

Da bambino, nelle brughiere, avevo visto un gran numero di tempeste di fulmini. Sulla Vecchia Terra, con Aenea e A. Bettik, la sera sedevo regolarmente fuori del rifugio e guardavo le grandi tempeste elettriche muoversi sulle montagne verso nord. Nessuna delle due esperienze mi aveva preparato all’attuale.»

L’abisso, come lo chiamavo, era poco più di un pavimento buio, tanto lontano sotto da essere trascurabile, una fremente promessa di terribili pressioni e di calore ancora più terribile. Ma ora quell’abisso era vivo di luci, guizzava di tempeste di fulmini che si muovevano da un visibile orizzonte al resto, come una catena di esplosioni atomiche. Potevo immaginare interi emisferi di città distrutte in una di quelle rombanti reazioni a catena di luce. Mi afferrai al fianco del kayak e mi dissi per rassicurarmi che quelle tempeste si trovavano centinaia di chilometri più in basso di me.

I fulmini risalirono le torri di cumulonembi. Lampi di luce bianca gareggiarono con i bagliori colorati dall’aurora boreale. Il fragore dei tuoni fu subsonico, poi sonico, mi provocò un sottile sgomento sulle prime, non tanto sottile poi, ma terrificante al massimo. Il kayak e la sua paravela si impennarono e dondolarono in improvvise correnti d’aria discendenti e in spinte di termali rapide come ascensori. Mi afferrai ai bordi, con la forza di un pazzo; giuro che avrei voluto trovarmi su qualsiasi pianeta tranne quello.

Poi le scariche di fulmini cominciarono a saettare da una torre di nuvole all’altra.

Il comlog e il mio stesso ragionamento avevano stimato l’ordine di grandezza di quel pianeta — un’atmosfera estesa per decine di migliaia di chilometri, un orizzonte così lontano che avrei potuto mettere decine e decine di Vecchia Terra e di Hyperion fra me e il tramonto — ma le scariche elettriche alla fine mi convinsero che quello era un mondo fatto per giganti e per dei, non per l’uomo.

Le scariche elettriche erano più larghe del Mississippi e più lunghe del rio delle Amazzoni. Avevo visto quei fiumi e vedevo ora quei fulmini. Parlavo a ragion veduta!

Mi rannicchiai nell’abitacolo, come se la cosa potesse essermi utile nel caso che uno di quei fulmini colpisse il mio piccolo kayak volante. Mi si erano rizzati i peli delle braccia; la sensazione che qualcosa mi strisciasse sulla nuca e sul cuoio capelluto era dovuta proprio a questo: i capelli si contorcevano come una colonia di serpenti. Il comlog faceva lampeggiare sulla piastra diskey le spie d’allarme da sovraccarico. Forse mi gridava anche qualcosa, ma in quel maelstrom non avrei udito nemmeno un cannone laser che sparasse a dieci centimetri dal mio orecchio. Quando l’aria riscaldata e i vuoti delle implosioni ci martellarono, la paravela si lacerò e cercò di strappare le bretelle. A un certo punto, correndo nella scia di un fulmine che mi abbagliò, il kayak dondolò sul piano orizzontale, più in alto della paravela. Ero sicuro che le bretelle avrebbero ceduto, che il kayak sarebbe caduto con me nel sudario della paravela e che sarei precipitato per minuti, ore, finché la pressione non avesse posto fine alle mie urla.

Il kayak ondeggiò, ondeggiò ancora, continuò a ondeggiare come un pendolo impazzito, sotto la vela, per fortuna.

In aggiunta alla tempesta di fulmini più in basso, in aggiunta alla catena di esplosioni in ogni torre di cumuli, in aggiunta ai fulmini che ora merlettavano le torri come una rete di neuroni eccitati in un cervello impazzito, grappoli di fulmini globulari e di fulmini a catena cominciarono all’improvviso a scaricarsi dalle nuvole e a galleggiare negli spazi bui dove volava il mio kayak.

Guardai una di quelle sfere d’elettricità, increspate e agitate, andare alla deriva a meno di cento metri sotto di me: aveva le dimensioni di un piccolo asteroide rotondo, una miniluna elettrica. Provocò un frastuono indescrivibile e mi ricordò la volta che mi ero trovato in una foresta di fuoco negli acquitrini di Aquila, il tornado che era passato sul nostro carrozzone nelle brughiere quando avevo cinque anni, le granate al plasma che esplodevano contro il gigantesco ghiacciaio azzurro nell’Artiglio di Ursa. Anche mettendoli insieme, non avrebbero potuto uguagliare la violenta energia che ruzzolava sotto il kayak come uno sfrenato macigno di luce azzurra e oro.

La tempesta durò più di otto ore. Le tenebre durarono altre otto. Alla prima sopravvissi, nelle altre dormii. Al risveglio, scosso e assetato, sognando ancora luci e rumore, parzialmente assordato, con l’impellente bisogno di urinare e la preoccupazione di cadere dall’abitacolo mentre mi inginocchiavo per svuotare la vescica, vidi che la luce del mattino dipingeva il lato opposto delle colonne di nuvole che erano subentrate a quelle della sera precedente. L’aurora fu meno spettacolare del tramonto: la brillante luce bianca e oro strisciò giù dal soffitto di cirri, lungo i torbidi fianchi dei cumuli e dei nembi, fino allo strato dove mi trovavo io, tremante per il freddo. Ero tutto bagnato, capelli, abiti, pelle. In qualche momento di quella folle notte era piovuto a dirotto.

Mi misi in ginocchio sul fondo imbottito della chiglia, mi afferrai con la sinistra al bordo dell’abitacolo, mi assicurai che l’ondeggiare del kayak fosse diminuito e procedetti alla bisogna. Il rivolo sottile e dorato brillò nella luce del mattino e cadde nell’infinito. L’abisso era di nuovo nero, violaceo, imperscrutabile. Sentivo dolore alla parte bassa della schiena e ricordai l’incubo del calcolo renale di qualche giorno prima: ora mi pareva di vivere un’altra vita, remota nel tempo e nello spazio. "Be’, se devo espellere un’altra pietruzza" pensai "oggi non la prendo di certo."

Mi abbottonai, tornai a sedermi, provai a stiracchiare le gambe doloranti, senza cadere di sotto, pensai che sarebbe stato impossibile trovare un’altra arcata di teleporter in quel cielo sconfinato, ora che le raffiche di vento mi avevano spinto fuori rotta — se mai avevo avuto una rotta — e all’improvviso mi resi conto di non essere solo.

Creature viventi salivano dall’abisso e giravano intorno a me.


All’inizio vidi soltanto una creatura e non avevo termine di paragone per giudicare quali fossero le sue dimensioni. Poteva essere lunga pochi centimetri e trovarsi a qualche metro dal kayak oppure molti chilometri e a distanza abissale. Poi nuotò fra una lontana colonna di nuvole e una torre di cumuli ancora più distante; capii allora che era più attendibile giudicarla in termini di chilometri. Mentre la creatura si avvicinava, scorsi la miriade di esseri più piccoli che l’accompagnava per il cielo mattutino.

Prima di tentare la descrizione di quelle creature, devo dire che ben poco, nella storia dell’espansione dell’uomo in questo braccio della spirale galattica, ci ha preparati a descrivere grandi organismi alieni. Nelle centinaia di pianeti esplorati e colonizzati durante e dopo l’Egira, le nuove forme di vita erano per la maggior parte costituite da piante e da alcuni organismi molto semplici, come i ragnatelidi radianti di Hyperion. Le poche forme di vita animale evoluta e di grandi dimensioni, per esempio i bocca a lampada di Mare Infinitum o gli zeplin di Whirl, diventavano preda dei cacciatori fin quasi all’estinzione. Il risultato più comune era un pianeta con poche forme di vita indigene e una miriade di specie umane adattate. L’uomo aveva terraformato tutti quei pianeti, portando i propri batteri e lombrichi e pesci e uccelli e animali terrestri sotto forma di DNA greggio, scongelando embrioni nelle prime navi seminatrici, costruendo stabilimenti incubatrice nelle colonie più recenti. Il risultato era stato molto simile a quello ottenuto su Hyperion: piante indigene vitali, come gli alberi tesla e chalma e weir, e alcuni insetti locali, che sopravvivevano in coesistenza con fiorenti trapianti dalla Vecchia Terra e bioadattamenti su misura come tripioppi tremuli, semprazzurri, mezzequerce, anatre, squali, colibrì e cervidi. Non eravamo abituati ad animali alieni.

E quelli che salivano incontro a me erano decisamente animali alieni.

Il più grosso mi ricordò le seppie — un adattamento di un mollusco marino della Vecchia Terra, per l’appunto — che prosperavano nelle tiepide secche del gran mar Meridionale di Hyperion. Questa creatura era simile a un calamaro, ma quasi trasparente, con gli organi interni visibili, anche se, lo ammetto, era difficile determinare l’esterno e l’interno, dal momento che pulsava e palpitava e cambiava forma di secondo in secondo, quasi come una nave che si morfizzasse per la battaglia. La creatura non aveva una testa vera e propria, neppure un’estensione appiattita che potesse considerarsi testa, come nei calamari; ma distinguevo una quantità di tentacoli, per quanto potrebbero essere meglio definiti fronde o filamenti, visto che quelle appendici ondeggiavano, si ritraevano, si estendevano e tremolavano di continuo. Ma quei filamenti erano all’interno del corpo pallido e trasparente, oltre che all’esterno, e non ero certo che il movimento di quella creatura nell’aria fosse il risultato del moto natatorio dei filamenti o dell’espulsione di gas quando si espandeva e si contraeva.

Per quanto ricordavo dai libri e dalle spiegazioni di nonna, gli zeplin di Whirl erano molto meno complessi all’apparenza: sacche di gas a forma di dirigibile floscio, semplici cellule tipo medusa per trattenere la mistura di idrogeno e di metano, che immagazzinavano e metabolizzavano elio nei loro rozzi sacchi ascensionali, gigantesche meduse galleggianti nell’atmosfera di idrogeno, ammoniaca e metano. Se ricordavo bene, gli zeplin si nutrivano di una sorta di fitoplancton che galleggiava come manna aerea nella velenosa atmosfera. Su Whirl non c’erano predatori, finché non erano giunti gli uomini nei loro batiscafi aerei a raccogliere i gas più rari.

Mentre il calamaro si avvicinava, vidi la complessità delle sue parti interne: lividi, pulsanti profili di organi e spire simili a intestino e quelli che potevano essere filamenti nutritivi e tubi adibiti forse alla riproduzione o all’evacuazione e altre appendici che potevano essere organi sessuali o forse occhi. Intanto la creatura si ripiegava su se stessa, ritraeva i filamenti arricciati, poi pulsava in avanti, con i tentacoli completamente estesi, come un calamaro che nuoti nell’acqua. Era lunga cinque o seicento metri.

Cominciai a notare le altre creature. Intorno al calamaro sciamavano centinaia o migliaia di dorate creature discoidali che per dimensioni andavano da quelle grosse forse come la mia mano a quelle più grandi delle pesanti mante fluviali adibite al traino delle chiatte nei fiumi di Hyperion. Anche queste creature erano quasi trasparenti, ma il loro interno era offuscato da una sorta di lucore verdastro che forse era un gas inerte eccitato fino alla luminescenza dal campo bioelettrico della creatura stessa. Quelle creature sciamavano intorno al calamaro, a volte parevano inghiottite o inglobate da questo o quell’orifizio, ma presto ricomparivano all’esterno. Non potrei giurare d’avere visto il calamaro mangiare nessuna delle creature discoidali, ma a un certo punto mi parve di scorgere un nugolo di creature luminescenti muoversi nel ventre della creatura maggiore come spettrali piastrine in una vena trasparente.

L’essere mostruoso, circondato dalla nube di compagni discoidali, si avvicinò, risalendo finché la luce del sole non ne attraversò il corpo, prima di illuminare il kayak e la paravela. Spostai verso l’alto la stima delle dimensioni: la creatura era lunga almeno un chilometro e larga più di trecento metri nel momento di massima espansione. Ora le creature discoidali fluttuavano ai lati del kayak. Vedevo benissimo che ruotavano, oltre ad arricciarsi come mante.

Estrassi la pistola a fléchettes avuta da Alem e tolsi la sicura. Se il mostro mi avesse assalito, gli avrei scaricato nel fianco metà caricatore, augurandomi che la sua pelle fosse tanto sottile quanto trasparente. Forse c’era la possibilità di provocare la fuoruscita dei gas leggeri che gli consentivano di galleggiare in quella fascia di atmosfera d’ossigeno.

In quel momento i filamenti da idra scattarono all’esterno in tutte le direzioni e alcuni mancarono solo di qualche metro la paravela; mi resi conto che non sarei mai riuscito a uccidere o a far precipitare quel mostro prima che con la sferzata di un solo tentacolo distruggesse la vela. Rimasi in attesa, quasi convinto che da un momento all’altro il calamaro mi avrebbe tirato nelle sue fauci, se fauci aveva.

Non accadde niente. Il kayak continuò a muoversi nella direzione che ritenevo l’ovest, con la paravela che Saliva sulle termali e scendeva sulle correnti fredde, mentre le nuvole torreggiavano intorno a me e il calamaro e i suoi compagni (senza ragione precisa, li ritenni parassiti) se ne stavano a qualche centinaio di metri da me verso "nord" e un centinaio di metri più in alto. Mi domandai se la creatura mi seguisse per curiosità o per fame. Mi domandai se da un momento all’altro le piastrine verdastre che vagavano intorno al kayak mi avrebbero assalito.

Non potendo fare altro, mi posai in grembo l’inutile pistola a fléchettes, mangiucchiai gli ultimi panini presi dallo zaino e bevvi un po’ d’acqua dalla bottiglia. Ne avevo a malapena per un giorno ancora. Imprecai contro di me, perché non avevo pensato di raccogliere la pioggia durante la terribile tempesta notturna… però non sapevo se l’acqua di quel pianeta era potabile.

Il lungo mattino diventò un lungo pomeriggio. Varie volte la paravela mi portò dentro una torre di nuvole; alzai il viso verso l’umida foschia e leccai le goccioline di condensa sulle labbra e sul mento. L’acqua pareva proprio acqua. Ogni volta che emergevo dalla foschia, mi aspettavo che il calamaro se ne fosse andato, ma ogni volta lo ritrovavo nella sua posizione, alla mia destra e un po’ più in alto. Una volta, proprio dopo che l’alone luminoso del sole aveva passato lo zenit, il kayak fu spinto in una zona particolarmente tempestosa e la paravela rischiò di piegarsi nella violenta corrente ascensionale. Ma presto si stabilizzò e quando emersi dalla nuvola, mi trovai qualche chilometro più in alto. L’aria era più rarefatta e più fredda. Il calamaro mi aveva seguito.

"Forse non ha ancora fame" mi dissi. "Forse si nutre di notte." Con una serie di pensieri come questi cercai di tranquillizzarmi.

Ripresi a scrutare gli spazi di cielo fra una nuvola e l’altra, alla ricerca di un anello teleporter, me non ne vidi nessuno. Pareva follia, aspettarsi di trovarne uno: le correnti d’aria mi portavano più o meno verso ovest, ma i ghiribizzi della corrente a getto mi spingevano vari chilometri a nord o a sud. Come avrei potuto infilare la cruna di un così piccolo ago, dopo un giorno e una notte e un giorno di sbatacchiamenti? Mi pareva ben poco verosimile. Ma continuai a frugare il cielo.

A metà pomeriggio mi resi conto che c’erano altre creature viventi molto più in basso verso sud. Altri calamari si muovevano alla base di un’immensa torre di nuvole: la luce del sole penetrava nell’abisso quanto bastava a illuminare quei corpi trasparenti che si stagliavano contro il nero sottostante. Lungo la base di quella sola torre di nuvole c’erano decine, no centinaia, di quelle creature pulsanti. Ero troppo lontano per scòrgere intorno a loro le piastrine parassite, ma un’impressione di luce diffusa, simile a polvere galleggiante, suggeriva la loro presenza, a migliaia o a milioni. Mi domandai se di solito i mostri si mantenevano nei livelli inferiori dell’atmosfera e se quello che continuava a seguirmi a portata dei filamenti nutritivi si fosse avventurato più in alto per curiosità.

Cominciavo a sentire i crampi. Mi tirai fuori dell’abitacolo e cercai di stiracchiarmi sullo scafo del kayak, aggrappato alle bretelle della paravela per tenermi in equilibrio. Era pericoloso, ma dovevo sciogliere i muscoli. Mi distesi sulla schiena, alzai le gambe e pedalai una immaginaria bicicletta. Poi passai alle flessioni sulle braccia, aggrappato all’orlo dell’abitacolo. Eliminata la maggior parte dei crampi, strisciai di nuovo nell’abitacolo e sonnecchiai.

Sembra strano ammetterlo, ma per tutto quel pomeriggio fantasticai, anche mentre l’alieno calamaro nuotava nelle vicinanze, a distanza di pasto, e le aliene piastrine danzavano e volteggiavano a qualche metro dal kayak e dalla paravela. La mente umana si abitua molto in fretta alle cose strane, se non mostrano comportamenti interessanti.

Cominciai a pensare agli ultimi giorni e ai mesi passati e agli anni trascorsi. Pensai a Aenea — l’avevo abbandonata — e a tutte le altre persone che mi ero lasciato alle spalle: A. Bettik e gli altri a Taliesin West, il vecchio poeta su Hyperion, Dem Loa e Dem Ria e la loro famiglia su Vitus-Gray-Balianus B, padre Glauco nei tunnel d’aria congelata su Sol Draconis Septem, Cuchiat e Chiaku e Cuchtu e Chichticu e gli altri Chitchatuk su quello stesso pianeta (Aenea era sicura che padre Glauco e i nostri amici Chitchatuk fossero stati assassinati, dopo che noi avevamo lasciato quel pianeta, ma non mi aveva mai spiegato come lo sapesse) e tanti altri, risalendo fino all’ultima volta che avevo visto nonna e i membri del clan salutarmi col braccio, mentre partivo per il servizio nella Guardia nazionale, molti anni fa. Ma col pensiero tornavo sempre a Aenea.

"Ho abbandonato troppe persone" mi dissi. "E ho lasciato che troppe persone facessero il mio lavoro e combattessero al posto mio. D’ora in poi combatterò da me. Se mai la ritrovo, resterò con Aenea per sempre." Il proposito mi bruciò come ira, alimentato dalla consapevolezza di quanto fosse disperata l’impresa di trovare un altro teleporter in quell’infinito panorama di nuvole.

TU CONOSCI
COLEI CHE INSEGNA
TI HA
TOCCATO (!?!?)

Quelle parole non furono portate dal suono né udite dalle mie orecchie. Furono piuttosto colpi all’interno del mio cranio. Barcollai letteralmente e mi afferrai ai fianchi del kayak per non cadere di sotto.

SEI STATO
TOCCATO/CAMBIATO
IMPARANDO
AD ASCOLTARE/VEDERE/CAMMINARE
DA COLEI CHE INSEGNA
(????)

Ogni parola era una fitta di emicrania. Ogni parola mi colpiva con la forza di una emorragia cerebrale. Erano parole urlate nella mia testa, con la mia stessa voce. Forse cominciavo a impazzire.

Mi tolsi dagli occhi le lacrime e scrutai il gigantesco calamaro e il suo sciame di parassiti verdastri. L’organismo più grande pulsava, si contraeva, estendeva filamenti a spirale, nuotava nell’aria gelida. Non potevo credere che le parole provenissero da quella creatura. Era troppo biologico. E non credevo nella telepatia. Guardai lo sciame di creature discoidali, ma il loro comportamento non mostrava maggiore consapevolezza di quello delle particelle di polvere in un raggio di luce, inferiore al movimento sincronizzato di un banco di pesci o di uno sciame di pipistrelli. Sentendomi sciocco, gridai: «Chi sei? Chi parla?».

Socchiusi gli occhi, preparandomi all’esplosione di parole nel mio cervello, ma non ricevetti risposta dal gigantesco organismo o dai suoi compagni.

«Chi ha parlato?» gridai ancora nel vento che si alzava. Non ci fu suono di risposta, a parte lo sbatacchiare di bretelle contro la paravela.

Il kayak ruotò a destra, si raddrizzò, ruotò di nuovo. Mi girai verso sinistra, aspettandomi quasi di vedermi assalire da un altro mostruoso calamaro; vidi invece avvicinarsi qualcosa di infinitamente più maligno.

Mentre concentravo l’attenzione sulla creatura aliena a nord, da sud un cumulo nerastro e rigonfio mi aveva quasi circondato. Neri festoni sbrindellati dal vento turbinavano dalla nube di tempesta spinta dal calore e intorbidavano l’aria sotto di me come fiumi color ebano. Vedevo i fulmini che balenavano nell’abisso e i fulmini globulari che salivano, sputati dalla nera colonna della tempesta. Più vicino, molto più vicino, appesi al fiume di nuvole nere che scorreva sopra di me, si avvolgevano a spirale dieci o più trombe d’aria il cui imbuto saettava dalla mia parte come coda di scorpione. Ogni imbuto aveva le dimensioni del mostruoso calamaro o anche maggiori, chilometri verticali di turbinante follia, e generava il proprio grappolo di tornado più piccoli. In nessun modo la mia misera paravela avrebbe sopportato d’essere anche solo sfiorata da uno di quei vortici, ed era impossibile che i tornado mi mancassero.

Mi alzai nell’abitacolo che beccheggiava e rollava; non fui sbalzato via solo perché mi afferrai con la sinistra a una bretella. Strinsi a pugno la destra e l’agitai verso i tornado, verso la furiosa tempesta più in là, verso l’invisibile cielo più in alto. «Maledizione a voi, allora!» gridai. Le parole si persero nell’ululato del vento. Il giubbotto mi sbatacchiava addosso. Una raffica rischiò di scagliarmi nel maelstrom. Mi sporsi sullo scafo del kayak, mi ressi forte contro vento come un saltatore sugli sci che avevo visto una volta sull’Artiglio di ghiaccio in un momento di folle equilibrio prima dell’inevitabile discesa, agitai di nuovo il pugno e urlai: «Fate pure del vostro peggio, maledetti! Vi sfido!».

Come in risposta, una tromba d’aria sf avvicinò lateralmente e la punta inferiore del vortice colpì verso il basso, come se cercasse una superficie dura da distruggere. Mi mancò di un centinaio di metri, ma il vuoto provocato dal suo passaggio fece roteare kayak e paravela come una barchetta di carta risucchiata dallo scarico di una vasca da bagno. Non trovai più il contrasto del vento, caddi in avanti sullo scafo scivoloso e sarei finito nell’oblio se, muovendo la mano alla disperata ricerca di un appiglio, non fossi riuscito ad aggrapparmi a una bretella. In quel momento ero completamente fuori dell’abitacolo.

Una tempesta di grandine seguiva l’imbuto. Pallottole di ghiaccio, alcune grosse come il mio pugno, trapassarono la paravela, martellarono il kayak, col rumore di un nugolo di fléchettes che giungano a bersaglio, e mi colpirono alla gamba, alla spalla, alla parte bassa della schiena. Per il dolore rischiai di mollare la presa. Non che importasse molto, mi dissi, aggrappato al kayak che s’impennava e picchiava: la paravela infatti era lacerata in centinaia di punti. Solo quello schermo aveva impedito che la grandine mi riducesse a brandelli, ma ora il foglio a delta era ridotto a un crivello. Perdette portanza con la stessa rapidità con cui l’aveva acquistata all’inizio e il kayak cadde di punta verso le tenebre molte migliaia di chilometri più in basso. Le trombe d’aria riempirono il cielo intorno a me. Strinsi la bretella ormai inutile nel punto dove entrava nello scafo ammaccato e rimasi aggrappato, deciso a completare quell’unico atto, aggrapparmi, finché il kayak, la vela ammainata e io non saremmo stati schiacciati dalla pressione o lacerati dal vento. Mi resi conto di gridare di nuovo, ma il suono era diverso alle mie stesse orecchie, quasi allegro.

Precipitai per meno di un chilometro, guadagnando una velocità molto superiore a quella terminale di Hyperion o della Vecchia Terra, quando l’alieno, dimenticato dietro e sopra di me, si avventò. Di sicuro si era mosso con incredibile velocità, spingendosi nell’aria come un calamaro che si scagli verso la preda. Capii che era affamato e deciso a non farsi scappare il pranzo solo quando i lunghi filamenti nutritivi si proiettarono intorno a me come giganteschi tentacoli che avvolgevano e investigavano e avviluppavano.

Se la creatura mi avesse trattenuto di colpo, alla velocità a cui precipitavo, il kayak e io saremmo stati ridotti in pezzi minuti. Ma il calamaro cadde con noi, circondò il kayak, la vela, le bretelle e me, usando i tentacoli più piccoli (ciascuno comunque spesso da due a cinque metri) e poi frenò la propria corsa, proiettando gas puzzolenti di ammoniaca, come una navetta nell’approccio finale. Allora ricominciò a salire verso la tempesta, dove infuriavano sempre le trombe d’aria e lo stratocumulo centrale ruotava con la propria intensa forza. Solo in parte consapevole, capii che il calamaro si infilava in quella nuvola tumultuosa, mentre tirava il kayak rovinato e me verso un’apertura dell’immenso corpo trasparente.

"Be’" pensai, intontito "ho scoperto dove ha la bocca."

Bretelle e brandelli di paravela mi circondavano e mi coprivano come un sudario troppo grande. Il kayak pareva ornato di tetri pavesi, mentre il calamaro ci tirava più vicino. Cercai di girarmi, pensai di strisciare nell’abitacolo e cercare la pistola a fléchettes, di aprirmi la strada fuori di quella creatura.

La pistola a fléchettes era sparita, naturalmente, sbattuta fuori dell’abitacolo nel violento ruzzolone e nella caduta. Erano sparite anche le imbottiture e lo zaino con i vestiti, il cibo, l’acqua, la torcia laser. Era sparito tutto.

Cercai di ridacchiare, ma non ottenni un grande risultato, mentre i tentacoli tiravano il kayak e il suo passeggero per gli ultimi cinquanta metri fino all’orifizio spalancato nella parte inferiore del corpo del calamaro. Ora vedevo con maggiore chiarezza gli organi interni: pulsavano e assorbivano, si muovevano in onde peristaltiche, alcuni erano pieni di quelle creature verdastre simili a piastrine. Mentre venivo tirato più vicino, fui assalito da un puzzo mozzafiato di liquido detergente, ammoniaca, che mi fece lacrimare e bruciare la gola.

Pensai a Aenea. Non fu un pensiero prolungato o eloquente, solo una fuggevole immagine mentale dell’aspetto che aveva il giorno del suo sedicesimo compleanno — capelli corti, sudore, scottature solari per le meditazioni nel deserto — e formulai un solo messaggio: "Mi spiace, ragazzina. Ho fatto del mio meglio per tornare alla nave e riportartela. Mi spiace".

Poi i lunghi tentacoli si arricciarono e si ripiegarono, tirarono il kayak e me in una bocca priva di labbra che aveva di sicuro un diametro di trenta o quaranta metri. Pensai alla fibra di vetro e alla paravela di ultranylon e alle bretelle di fibrocarbonio che entravano con me e trovai il tempo per un ultimo pensiero: "Spero che ti venga un bel mal di pancia".

E poi fui tirato nel puzzo di ammoniaca e di pesce, mi resi vagamente conto che l’aria nelle viscere della creatura non era respirabile, decisi di saltare giù dal kayak anziché farmi digerire, ma perdetti conoscenza prima di poter agire o formare un altro pensiero coerente.

Senza che vedessi o mi rendessi conto, il calamaro continuò a salire fra nuvole più nere di una notte senza luna, mentre la sua bocca priva di labbra si richiudeva e spariva nella carne priva di giunture, mentre il kayak e la vela e io diventavamo niente di più di un’ombra nei fluidi contenuti nel suo apparato inferiore.

13

Quando le guardie svizzere vennero a prenderlo, Kenzo Isozaki non rimase sorpreso.

Il colonnello e gli otto soldati in alta uniforme arancione e blu, con lance a energia e neuroverghe, giunsero senza preavviso al toroide della Pax Mercatoria, chiesero di vedere il primo funzionario esecutivo Kenzo Isozaki nel suo ufficio privato e gli presentarono un diskey in codice, con l’ordine di indossare abiti da cerimonia e di comparire davanti a Sua Santità papa Urbano XVI. Immediatamente.

Il colonnello non perdette d’occhio Isozaki, mentre questi entrava nel suo appartamento privato, faceva una rapida doccia e si cambiava: camicia bianca, panciotto grigio, cravatta rossa, giacca nera a doppio petto con bottoni dorati, cappa di velluto nero.

«Posso telefonare ai miei associati e dare disposizioni, nel caso dovessi perdere le riunioni programmate per il pomeriggio?» domandò Isozaki al colonnello, mentre dall’ascensore passavano alla reception principale dove le guardie svizzere formarono una sorta di corridoio oro e blu fra i posti di lavoro.

«No» rispose l’ufficiale.

Un’astrovedetta della Flotta della Pax era attraccata dove di solito si trovava la nave personale di Isozaki. L’equipaggio della Pax salutò con un brevissimo cenno il PFE della Mercatoria, il comandante gli disse di legarsi nella cuccetta antiaccelerazione e poi decollò a velocità interplanetaria; nel display tattico erano visibili due navi torcia di scorta all’astrovedetta.

"Mi trattano come prigioniero, non come ospite d’onore" pensò Isozaki. La sua espressione non rivelò niente, certo, ma il suo impulso di paura e di terrore fu seguito da una sensazione assai simile al sollievo. Da quando aveva incontrato illegalmente il consigliere Albedo, Isozaki si aspettava qualcosa del genere. E dal giorno di quel doloroso e traumatico appuntamento, quasi non aveva più dormito. Sapeva che Albedo non aveva alcun motivo di non rivelare che la Pax Mercatoria aveva tentato di stabilire un contatto con il Tecno-Nucleo, però si augurava che il tentativo fosse attribuito a lui solo. Ringraziò in silenzio qualsiasi divinità avesse avuto voglia di ascoltarlo per il fatto che la sua amica e associata Anna Pelli Cognani non si trovasse su Pacem, ma fosse andata a visitare un’importante fiera commerciale su Vettore Rinascimento.

Dalla cuccetta fra il colonnello delle guardie svizzere e uno dei subalterni, riusciva a vedere l’ologramma tattico davanti al posto del pilota. La sfera di luce e di colore in movimento, con le compatte barre di codificazione, era molto tecnica, ma lui era già un pilota quando quei ragazzi non erano ancora nati. Capiva benissimo che l’astrovedetta non accelerava verso Pacem, ma verso una destinazione nelle vicinanze del punto troiano posteriore, direttamente in mezzo allo sciame di basi della Flotta negli asteroidi e di forti di difesa del sistema.

"Una prigione orbitale del Sant’Uffizio" pensò. Peggio di Castel Sant’Angelo, dove si diceva che le apparecchiature di dolore virtuale funzionassero a tutte le ore del giorno e della notte. Nelle segrete orbitali nessuno poteva sentire le urla di dolore. Isozaki era sicuro che l’ordine di presentarsi a una udienza papale fosse semplice ironia, un modo per portarlo fuori della Pax Mercatoria senza proteste. Avrebbe scommesso qualsiasi cosa che nel giro di qualche giorno, forse di qualche ora, il suo abito da cerimonia sarebbe stato ridotto a stracci zuppi di sudore e di sangue.

Si sbagliava su tutta la linea. L’astrovedetta decelerò sul piano dell’eclittica e Isozaki capì dove era diretta: a Castel Gandolfo, la "residenza estiva" del papa.

Il diskey visore nella cuccetta del PFE funzionava e Isozaki chiese una vista esterna, mentre l’astrovedetta abbandonava le navi torcia di scorta e calava verso il massiccio asteroide a forma di patata. Lungo più di quaranta chilometri e largo venticinque, Castel Gandolfo era in sé un piccolo pianeta: cielo azzurro, atmosfera ricca d’ossigeno trattenuta da campi di contenimento classe venti usati senza risparmio, pendii e terrazze verdeggianti d’erba e di messi, montagne artificiali coperte di foreste ricche di corsi d’acqua e popolate di piccoli animali. Isozaki vide passare sotto di sé l’antico villaggio italiano, ma sapeva che quel pacifico panorama era ingannevole: le basi della Pax intorno all’asteroide potevano distruggere qualsiasi nave o flotta esistente, mentre l’interno traforato di Castel Gandolfo conteneva guarnigioni con oltre diecimila soldati delle guardie svizzere e delle forze speciali della Pax.

L’astrovedetta morfizzò le ali e percorse gli ultimi dieci chilometri sotto la spinta dei silenziosi pulsojet elettrici. Isozaki vide le guardie svizzere in armatura da battaglia alzarsi in volo e scortare la nave nei cinque chilometri conclusivi. La ricca luce del sole brillava sulle armature a flusso dinamico e sugli scudi facciali trasparenti, mentre le guardie svizzere giravano intorno alla vedetta e a passo d’uomo si avvicinavano al castello. Parecchi soldati puntarono sonde contro la vedetta e controllarono con i radar di profondità e con gli infrarossi che il numero e l’identità dei passeggeri e del personale di bordo corrispondessero ai dati riportati sul foglio di viaggio.

Una porta si aprì nel fianco di una delle torri di pietra del castello e la vedetta entrò a pulsojet spenti, rimorchiata da guardie svizzere munite di monorepulsori che emanavano bagliore azzurrino.

La camera stagna entrò in funzione. Le otto guardie svizzere scesero per prime dalla rampa e si disposero su due file, mentre il colonnello scortava Kenzo Isozaki fuori della vedetta e giù dalla rampa. Il PFE cercò con gli occhi la porta di un ascensore o una scala, ma l’intero livello di attracco della torre cominciò a scendere. Motori e meccanismi erano silenziosi. Solo lo scorrere delle mura di pietra della torre rivelò il movimento di discesa e poi quello laterale nelle viscere di Castel Gandolfo.

Il movimento cessò. Nella parete di fredda pietra comparve una porta. Luci illuminarono un corridoio di acciaio polito dove galleggiavano telecapsule di fibroplastica che montavano la guardia a intervalli di dieci metri. Il colonnello indicò a Isozaki di precederlo e il PFE della Pax Mercatoria guidò il corteo nel tunnel risonante d’echi. In fondo, una luce azzurra bagnò il gruppo, mentre altre sonde e sensori frugavano dentro e fuori ogni persona. Una campanella tintinnò e comparve un’altra porta che si aprì come un diaframma a iride. Isozaki e la sua scorta entrarono in una sala d’attesa più convenzionale. C’erano già tre persone.

"Maledizione!" pensò il PFE della Pax Mercatoria. Vide nella stanza Anna Pelli Cognani, elegantissima nel suo migliore vestito di frescoseta, e i primi funzionari esecutivi Helvig Aron e Kennet Hay-Modhino che con lui formavano il consiglio della Lega pancapitalista delle organizzazioni commerciali transtellari cattoliche indipendenti.

Rimase assolutamente impassibile; senza aprire bocca, salutò con un cenno i suoi colleghi. "Maledizione!" pensò di nuovo. "Riterranno responsabili delle mie azioni anche loro. Saremo tutti scomunicati e giustiziati."

«Da questa parte» disse il colonnello delle guardie svizzere. Aprì una porta riccamente intagliata. La stanza al di là della porta era più scura. Isozaki sentì odore di candele, di incenso, di umida pietra. Capì che le guardie svizzere non avrebbero varcato con loro la soglia. Qualsiasi cosa fosse avvenuta in quel locale, era riservata a lui e agli altri tre.

«Grazie, colonnello» disse il PFE Kenzo Isozaki, con voce affabile. A passi fermi guidò il gruppetto nella penombra odorosa d’incenso.


La sala era una piccola cappella illuminata soltanto dalla tremolante fiammella di una rossa candela votiva in un sostegno di ferro battuto sistemato contro una parete e da due finestre ad arco dai vetri colorati, poste dietro il semplice altare in fondo. Altre sei candele bruciavano sull’altare spoglio, mentre bracieri ardenti, sul lato opposto alle finestre, proiettavano altra luce rossastra nella sala lunga e stretta. C’era solo una sedia, alta, a schienale dritto, imbottita e coperta di velluto, posta a sinistra dell’altare. Nello schienale della sedia era ricamato ciò che a prima vista pareva un crucimorfo, ma che a ben guardare era la triplice croce del papa. Altare e sedia erano sistemati sopra una bassa pedana di pietra.

Per il resto, nella cappella non c’erano sedie né banchi, ma cuscini di velluto rosso sistemati sulla pietra scura ai lati del passaggio centrale che in quel momento era percorso da Kenzo Isozaki, Anna Pelli Cognani, Kennet Hay-Modhino e Helvig Aron. Quattro cuscini, due a destra e due a sinistra, erano liberi. I PFE della Pax Mercatoria bagnarono la punta delle dita nel fonte di pietra contenente acqua santa, si fecero il segno di croce, piegarono il ginocchio in direzione dell’altare e si inginocchiarono sui cuscini. Prima di chinare la testa in preghiera, Kenzo Isozaki lanciò un’occhiata tutt’intorno.

Il più vicino alla piattaforma dell’altare era il segretario dello Stato Vaticano, cardinale Simon Augustino Lourdusamy — una montagna di rosso e di nero nella luce rossastra, tripli menti che nascondevano il collare da prete sotto la testa china in preghiera — e dietro di lui c’era la sagoma da spaventapasseri del suo aiutante, monsignor Luca Oddi. Dall’altra parte rispetto al passaggio centrale, il Grande Inquisitore del Sant’Uffizio, cardinale John Domenico Mustafa, era inginocchiato in preghiera, a occhi chiusi. Dietro di lui c’era il malfamato agente segreto e torturatore, padre Farrell.

Dal lato di Lourdusamy erano inginocchiati tre ufficiali della Flotta della Pax: l’ammiraglio Marusyn, capelli d’argento che brillavano nella luce rossastra, il suo aiutante ammiraglio Marget Wu e un terzo ufficiale che Isozaki riconobbe solo dopo qualche istante, l’ammiraglio Aldikacti. Dal lato del Grande Inquisitore c’era il cardinale Du Noyer, prefetto e presidente del Cor unum. Du Noyer era una donna sui settanta ben portati, con mascella volitiva, corti capelli grigi, occhi color selce. Isozaki non riconobbe l’uomo di mezza età in tonaca da monsignore, inginocchiato dietro il cardinale Du Noyer.

Le ultime quattro persone inginocchiate erano i PFE della Pax Mercatoria, Aron e Hay-Modhino sul lato del Grande Inquisitore; Isozaki e Pelli Cognani sul lato del segretario di Stato. Isozaki contò in totale tredici persone nella cappella. Un numero di cattivo auspicio, pensò.

In quel momento una porta segreta nella parete a destra dell’altare si aprì senza rumore. Entrò il papa, con quattro uomini al seguito. Le tredici persone nella cappella si alzarono subito e rimasero a testa china. Kenzo Isozaki ebbe il tempo di vedere che due degli uomini con il papa erano suoi aiutanti e che il terzo era il capo della sicurezza, funzionari senza faccia. Ma il quarto uomo, quello in grigio, era il consigliere Albedo. Solo quest’ultimo seguì Sua Santità nella cappella. Il papa permise che gli baciassero l’anello e toccò la testa dei presenti che tornarono a inginocchiarsi. Poi papa Urbano XVI prese posto sulla sedia e Albedo rimase in piedi dietro di lui. Immediatamente i tredici dignitari nella cappella si alzarono.

Isozaki abbassò gli occhi e si mostrò calmissimo, ma sentiva il cuore battergli all’impazzata. "Albedo ci denuncerà tutti?" si domandò. "Anche gli altri gruppi qui presenti hanno tentato di mettersi segretamente in contatto con il Nucleo? Saremo messi a confronto con Sua Santità e poi portati via di qui, privati del crucimorfo e quindi giustiziati?" La ritenne una previsione attendibile.

«Fratelli e sorelle in Cristo» cominciò Sua Santità «siamo compiaciuti che abbiate accettato tutti di unirvi qui a noi oggi. Ciò che dobbiamo dire in questo luogo segreto e silenzioso è rimasto un segreto per secoli e deve rimanere tra noi finché la Santa Sede non darà permesso ufficiale di condividerlo con altri. Così decretiamo e vi ordiniamo, pena la scomunica e la perdita dell’anima alla luce di Cristo.»

Le tredici persone, uomini e donne, mormorarono preghiere e parole di consenso.

«Nei recenti mesi e anni» continuò Sua Santità «sono accaduti eventi bizzarri e terribili. Di questi eventi siamo stati testimoni da lontano: alcuni li abbiamo previsti con l’aiuto di nostro signore Gesù Cristo, e molti abbiamo pregato che fossero allontanati da noi, risparmiando al nostro popolo, alla nostra Pax e alla nostra Chiesa una prova di volontà, di fede e di fermezza. Ma gli eventi accadono secondo la volontà di nostro Signore. Perfino il suo più leale servitore non può capire tutti gli eventi e i portenti, può solo confidare nella sua misericordia, quando essi paiono più minacciosi e imbarazzanti.»

I tredici dignitari mantennero con cura gli occhi bassi.

«Anziché riferire dal nostro punto di vista questi eventi» continuò con calma Sua Santità «chiederemo a chi vi ha partecipato di esporli nei particolari. Poi cercheremo di spiegare i legami fra eventi all’apparenza così disparati. Ammiraglio Marusyn?»

L’ammiraglio cambiò un poco posizione per avere di fronte anche gli altri. Si schiarì la voce. «Rapporti da un pianeta chiamato Vitus-Gray-Balianus B indicano che siamo andati vicino a catturare l’uomo di nome Raul Endymion, lo stesso che quasi cinque anni fa riuscì a sfuggirci insieme con il nostro soggetto primario, la bambina Aenea. Elementi di una forza speciale della Guardia nobile…» Rivolse lo sguardo in direzione di papa Urbano XVI, che chinò la testa in segno di assenso. «Elementi di questa forza speciale» continuò Marusyn «hanno avvertito il nostro comandante su Vitus-Gray-Balianus B della possibile presenza di quella persona. Raul Endymion è riuscito a fuggire prima che la nostra ricerca nella zona fosse completata, ma abbiamo trovato prove precise di DNA e di micron-identificatore che quell’uomo era lo stesso Raul Endymion che fu imprigionato per breve tempo su Mare Infiniturn più di quattro anni fa.»

Il cardinale Lourdusamy si schiarì la voce. «Forse sarebbe utile, ammiraglio Marusyn, se lei descrivesse come l’indiziato, Raul Endymion, sia riuscito a fuggire da Vitus-Gray-Balianus B.»

Kenzo Isozaki non batté ciglio, ma prese mentalmente nota che in quella riunione Lourdusamy parlava a nome di Sua Santità.

«Certo, eccellenza» disse l’ammiraglio Marusyn. «Sì, pare che questo Endymion sia comparso sul pianeta e ne sia fuggito per mezzo di uno degli antichi teleporter.»

Nella cappella non ci fu nessun percettibile brusio, ma Isozaki sentì il ronzio psichico dell’interesse e della sorpresa. Negli ultimi quattro anni erano corse voci sul fatto che forze della Flotta della Pax dessero la caccia a un eretico che era riuscito ad attivare i teleporter inattivi.

«E quel teleporter era funzionante, quando i suoi uomini l’hanno ispezionato?» domandò Lourdusamy.

«No, eccellenza» rispose l’ammiraglio Marusyn. «Non c’era alcun segno di funzionamento nei due teleporter, quello a monte del fiume, che di sicuro ha offerto al fuggiasco la possibilità di entrare su Vitus-Gray-Balianus B, e quello a valle degli insediamenti.»

«Ma lei è sicuro che questo… Endymion… non sia giunto sul pianeta con mezzi più convenzionali? Ed è sicuro che in questo momento non sia ancora nascosto lì?»

«Sì, eccellenza. Quel pianeta della Pax ha un eccellente controllo del traffico e ottime difese orbitali. Qualsiasi veicolo spaziale in avvicinamento a Vitus-Gray-Balianus B sarebbe rilevato già a ore luce dal pianeta. Inoltre, nella ricerca abbiamo rivoltato tutto il pianeta, abbiamo somministrato la veritina a decine di migliaia di abitanti. L’uomo di nome Endymion non è sul pianeta. Alcuni testimoni però hanno descritto un lampo di luce nel teleporter a valle, nel preciso momento in cui i nostri sensori di quell’emisfero, a terra e nello spazio, hanno registrato un grande impulso di energia compatibile con i vecchi dati relativi ai campi di spostamento dei teleporter.»

Sua Santità alzò il viso e rivolse al cardinale Lourdusamy un gesto discreto.

«Credo che lei abbia anche un’altra notizia sconvolgente, ammiraglio Marusyn» rombò Lourdusamy.

L’ammiraglio annuì e divenne più cupo in viso. «Sì, eccellenza… Santità. Riguarda il primo ammutinamento nella storia della Flotta della Pax.»

Isozaki percepì di nuovo l’inespresso mormorio di sorpresa. Rimase impassibile, ma si accorse, con la coda dell’occhio, che Anna Pelli Cognani lo guardava.

«Lascio all’ammiraglio Aldikacti il compito di illustrarci questa faccenda» disse Marusyn. Arretrò di un passo e incrociò sul petto le braccia.

Isozaki notò che Aldikacti era una di quelle tarchiate donne lusiane di aspetto talmente androgino da rendere difficile l’attribuzione del genere. Era solida e massiccia come una pila di mattoni in uniforme.

Aldikacti non sprecò tempo a schiarirsi la voce. Si lanciò subito in una conferenza informativa riguardante la task force Gedeone, la missione d’assalto contro fortezze Ouster in sette sistemi solari della remota Periferia, il successo della missione in tutti e sette i sistemi solari, la sorpresa nell’ultimo di essi, nome in codice Lucifero.

«Fino a quel punto» latrò l’ammiraglio Aldikacti «la task force aveva operato ben al di là delle aspettative e delle simulazioni. Come risultato, durante il completamento delle operazioni nel sistema Ouster Lucifero, ho autorizzato che una navetta automatica a propulsione Gideon portasse un messaggio su Pacem, a Sua Santità e all’ammiraglio Marusyn, per chiedere il permesso di fare rifornimento e riarmamento nel sistema Tau Ceti e poi estendere la missione della task force Gedeone, ossia attaccare altri sistemi Ouster prima che l’allarme si diffondesse nella Periferia. Ricevuto il permesso, ho proceduto a portare nel sistema Tau Ceti il grosso della task force per rifornirla di carburante, riarmarla e incontrare altre cinque navi Arcangelo approntate dopo che avevamo lasciato lo spazio della Pax.»

«Il grosso della sua task force?» domandò il cardinale Lourdusamy, con la sua voce bassa e tonante.

«Sì, eccellenza» confermò Aldikacti, con tono piatto, senza traccia di scuse o di incertezze. «Cinque navi torcia erano sfuggite ai nostri rilevamenti e acceleravano verso il punto di traslazione che le avrebbe presumibilmente portate in un altro sistema Ouster. Avrebbero diffuso l’allarme e comunicato la nostra presenza e il nostro micidiale potenziale di fuoco. Anziché spostare l’intera task force Gedeone, che in quel momento si avvicinava al punto di traslazione per il sistema Tau Ceti, ho autorizzato le ASS Gabriele e Raffaele a trattenersi nel sistema Lucifero quanto bastava per intercettare e distruggere le navi torcia Ouster.»

Lourdusamy ripiegò nella veste le mani grassocce. Ronfò come un gatto che facesse le fusa: «E allora ha fatto traslare nel sistema Tau Ceti la nave ammiraglia, la Uriele, e altre quattro Arcangelo?»

«Sì, eccellenza.»

«Lasciando nel sistema Lucifero la Gabriele e la Raffaele

«Sì, eccellenza.»

«Ed era consapevole, ammiraglio, che la Raffaele era comandata dal padre capitano de Soya, lo stesso capitano che alcuni anni fa aveva ricevuto un rimprovero ufficiale per il fallimento della sua missione, ossia trovare e catturare la bambina, Aenea?»

«Sì, eccellenza.»

«Ed era consapevole, ammiraglio, che la Flotta della Pax e la Santa Sede nutrivano una certa preoccupazione nei confronti della… stabilità del padre capitano de Soya e che il Sant’Uffizio aveva messo sulla Raffaele un agente sotto copertura, incaricato di tenere d’occhio il padre capitano de Soya e di trasmettere dati sul suo comportamento e sulla sua affidabilità?»

«Una spia» disse l’ammiraglio Aldikacti. «Il comandante Liebler. Sì, eccellenza. Ero consapevole che gli agenti del Sant’Uffizio a bordo della mia ammiraglia ricevevano comunicazioni in codice dal comandante in seconda Liebler a bordo della Raffaele.»

«E questi agenti l’hanno messa al corrente di preoccupazioni o di dati derivanti da quelle comunicazioni, ammiraglio?»

«No, eccellenza. Non sono stata informata della natura delle preoccupazioni del Sant’Uffizio riguardo la lealtà o la sanità mentale del padre capitano de Soya.»

Il cardinale Mustafa si schiarì la voce e alzò il dito.

Lourdusamy, che presiedeva quella che Isozaki e gli altri avevano subito riconosciuto come una inquisizione, lanciò un’occhiata al papa.

Sua Santità annuì in direzione del Grande Inquisitore.

«Mi pare necessario mettere in evidenza a Sua Santità e agli altri dignitari qui presenti che l’osservazione del padre capitano de Soya era stata approvata, ordinata, dall’ufficio della Santa Sede, con l’autorizzazione verbale del segretario di Stato e del comando della Flotta della Pax… l’ammiraglio Marusyn, precisamente.»

Seguì un breve silenzio.

Alla fine Lourdusamy disse: «E lei, cardinale Mustafa, può spiegarci qual è stata la fonte di questa comune preoccupazione?»

Il cardinale Mustafa si umettò le labbra. «Sì, eccellenza. I rapporti dei nostri… servizi indicavano che poteva essersi verificata una certa contaminazione, durante la caccia del padre capitano de Soya e il breve contatto con il soggetto di nome Aenea.»

«Contaminazione?» domandò Lourdusamy.

«Sì, eccellenza. Era nostro convincimento che la bambina di nome Aenea avesse il potere di pregiudicare il carattere fisico e psicologico dei cittadini della Pax con cui fosse venuta in contatto. La nostra preoccupazione nel caso in oggetto riguardava l’assoluta lealtà e ubbidienza di uno dei comandanti delle astronavi della Flotta della Pax.»

«E come è avvenuta, cardinale Mustafa, questa valutazione del servizio segreto?» domandò Lourdusamy.

Il Grande Inquisitore esitò. «Con l’uso di varie fonti e di vari metodi del servizio segreto, eccellenza» rispose infine.

Lourdusamy non esitò affatto. «Tra le fonti e i metodi è compresa la detenzione e l’interrogatorio di uno spaziale dell’equipaggio del padre capitano de Soya reduce dal fallito tentativo di catturare il soggetto Aenea? Dico bene, cardinale Mustafa? Un certo… caporale Kee, mi pare.»

Il cardinale Mustafa batté le palpebre, sorpreso. «Esatto, eccellenza» confermò. Si girò un poco, come per parlare agli altri nella sala, non solo al papa e al segretario di Stato. «Una simile detenzione è insolita» spiegò «ma necessaria, in una situazione che pare toccare la sicurezza della Chiesa e della Pax.»

«Certo, eccellenza» mormorò il cardinale Lourdusamy. «Ammiraglio Aldikacti, può continuare il suo rapporto.»

«Alcune ore dopo che le mie Arcangelo erano emerse nel sistema Tau Ceti» riprese Aldikacti «e prima che ognuno di noi avesse completato i due giorni del ciclo di risurrezione, una navetta automatica traslò nello spazio di Tau Ceti. Era stata lanciata dalla madre capitano Stone…»

«Capitano dell’ASS Gabriele» intervenne Lourdusamy.

«Esatto, eccellenza. Il messaggio cifrato della navetta — codice decrittabile solo da me — diceva che le navi torcia Ouster erano state distrutte, ma che la Raffaele si era allontanata, accelerava verso un punto di traslazione non autorizzato e non rispondeva agli ordini di fermarsi.»

«In altre parole» ronfò Lourdusamy «una delle navi della flotta di Sua Santità si è ammutinata.»

«Così pare, eccellenza. Ma in questo caso l’ammutinamento si direbbe guidato dallo stesso capitano della nave.»

«Il padre capitano de Soya.»

«Sì, eccellenza.»

«E sono stati fatti tentativi di mettersi in contatto con l’agente del Sant’Uffizio a bordo della Raffaele?»

«Sì, eccellenza. Il padre capitano de Soya disse che il comandante Liebler era impegnato nei propri compiti. La madre capitano Stone lo ritenne inverosimile.»

«Sono state richieste spiegazioni sul cambiamento del punto di traslazione?» volle sapere Lourdusamy.

«Il padre capitano de Soya disse che io stessa avevo trasmesso nuovi ordini alla Raffaele prima della traslazione della task force» spiegò Aldikacti.

«La madre capitano Stone accettò questa spiegazione?»

«No, eccellenza. La madre capitano Stone ridusse la distanza fra le due Arcangelo e attaccò la Raffaele.»

«Quale fu il risultato dello scontro, ammiraglio?»

Aldikacti esitò solo una frazione di secondo. «Eccellenza… Santità… la madre capitano Stone aveva usato un codice personale per il suo messaggio, perciò nel sistema Tau Ceti trascorse un intero giorno, il tempo necessario per la mia risurrezione d’emergenza, prima che leggessi la sua comunicazione e autorizzassi l’immediato ritorno nel sistema Lucifero.»

«Quante navi portò con sé, ammiraglio?»

«Tre, eccellenza. La mia ammiraglia, la Uriele, con un altro equipaggio e due delle nuove Arcangelo che avevano appuntamento con noi nel sistema Tau Ceti, la Mikal e la Izrail. Ritenni troppo grande il rischio di accelerare la risurrezione di tutti gli equipaggi della task force Gedeone.»

«Però ha accettato di correre il rischio di persona, ammiraglio» notò Lourdusamy.

Aldikacti rimase in silenzio.

«Cosa avvenne dopo, ammiraglio?»

«Traslammo immediatamente nel sistema Lucifero, eccellenza. Lì seguimmo il ciclo automatico di risurrezione ridotto a dodici ore. Molte risurrezioni non riuscirono. Combinando gli equipaggi delle tre navi, riuscii ad armare la Uriele. Lasciai le altre due navi in traiettorie di difesa passiva automatica e iniziai le ricerche della Gabriele e della Raffaele. Non trovai né l’una né l’altra. Ma fu scoperta in breve una navetta faro, dall’altra parte del sole giallo del sistema Lucifero.»

«E la navetta faro proveniva…» la incitò Lourdusamy.

«Dalla madre capitano Stone. Conteneva la copia delle registrazioni del combattimento della Gabriele. Mostrava lo scontro avvenuto meno di due giorni prima. Stone aveva tentato di distruggere la Raffaele, con armi al plasma e a fusione. Il tentativo era fallito. Poi la Gabriele aveva attaccato la nave del padre capitano de Soya usando il raggio della morte.»

Nella piccola cappella scese il silenzio. Isozaki guardò la luce rossastra e tremolante delle candele votive colorare il viso sofferente di Sua Santità, papa Urbano XVI.

«Risultato dello scontro?» domandò Lourdusamy.

«Tutt’e due gli equipaggi morirono» rispose Aldikacti. «Secondo gli strumenti di bordo della Gabriele, la Raffaele completò la traslazione automatica. La madre capitano Stone aveva ordinato che il suo equipaggio stesse ai posti di combattimento nelle culle di risurrezione. Aveva programmato i computer della Gabriele per una risurrezione d’emergenza, ciclo di otto ore, di lei stessa e di alcuni indispensabili membri dell’equipaggio. Soltanto lei e un ufficiale superarono la risurrezione. La madre capitano mise in codice il faro e si diresse al precedente punto di traslazione della Raffaele. Era decisa a rintracciare e distruggere la nave, preferibilmente prima che de Soya e il suo equipaggio completassero la risurrezione, ammesso che si trovassero nelle culle, quando era stato usato il raggio della morte.»

«La madre capitano Stone sapeva in quale sistema solare si sarebbe aperto il punto di traslazione, ammiraglio?»

«No, eccellenza. Bisognava tenere conto di troppe variabili.»

«E qual è stata, ammiraglio, la sua risposta ai dati del faro?»

«Ho aspettato dodici ore, eccellenza, in modo che gli equipaggi della Mikal e della Izrail completassero la risurrezione. Poi con le tre navi ho varcato il punto di traslazione della Raffaele e della Gabriele. Ho lasciato un secondo faro per le Arcangelo che mi avrebbero seguito dal sistema Tau Ceti a distanza di qualche ora.»

«Non ritenne necessario aspettare l’arrivo delle altre navi?»

«No, eccellenza. Ritenni più importante traslare appena le tre navi furono pronte per la battaglia.»

«Però ha trovato opportuno aspettare che l’equipaggio delle altre due navi risuscitasse, ammiraglio. Perché non ha iniziato subito la caccia, con la sola Uriele

L’ammiraglio Aldikacti non esitò. «Era una decisione tattica di combattimento, eccellenza. Ritenevo che ci fossero ottime probabilità che il padre capitano de Soya avesse portato la Raffaele in un sistema Ouster, probabilmente meglio armato di quelli incontrati dalla task force Gedeone. Ritenevo anche probabile che la nave della madre capitano Stone, la Gabriele, fosse stata distrutta o dalla Raffaele o dalle navi Ouster nel sistema sconosciuto. Ritenni che tre navi fossero la forza minima da impiegare in una situazione così incerta.»

«E si trattava di un sistema Ouster, ammiraglio?»

«No, eccellenza. Per meglio dire, nelle due settimane di indagini non fu trovato segno di Ouster.»

«Dove portava in realtà il punto di traslazione, ammiraglio?»

«Nel guscio esterno di una gigante rossa» rispose l’ammiraglio Aldikacti. «I nostri campi di contenimento erano ovviamente in funzione, ma abbiamo rischiato grosso.»

«Tutt’e tre le sue navi ce l’hanno fatta, ammiraglio?»

«No, eccellenza. La Uriele e la Izrail sono sopravvissute alle procedure per uscire dalla stella e raffreddare il campo di contenimento. La Mikal è andata perduta con tutto l’equipaggio.»

«E ha trovato la Gabriele e la Raffaele, ammiraglio?»

«Solo la Gabriele, eccellenza. Fu scoperta in traiettoria libera a circa due UA dalla gigante rossa. Tutti i sistemi di bordo erano inattivi. C’era stata una falla nel campo di contenimento e l’interno della nave si era fuso in una massa unica.»

«La madre capitano Stone e i membri dell’equipaggio sono stati trovati e sottoposti a risurrezione, ammiraglio?»

«Purtroppo no, eccellenza. Non c’era materia organica diversificata sufficiente a effettuare la risurrezione.»

«La scorificazione era dovuta all’emersione nella gigante rossa o a un attacco da parte della Raffaele o di navi Ouster, ammiraglio?»

«I nostri esperti di materiali sono ancora al lavoro per stabilirlo, eccellenza. Ma il rapporto preliminare suggerisce un sovraccarico dovuto a cause sia naturali sia da combattimento. Le armi usate sarebbero compatibili con l’armamento della Raffaele.»

«Ritiene quindi che la Gabriele abbia sostenuto un combattimento automatizzato nelle vicinanze di quella gigante rossa, ammiraglio?»

«Dentro la stella, eccellenza. Pare che la Raffaele abbia invertito la rotta, sia rientrata nella stella in agguato della Gabriele, assalendola appena è emersa nello spazio Hawking.»

«Esiste una possibilità che la Raffaele sia stata distrutta in questo secondo combattimento? Che si sia incenerita nel cuore della stella?»

«Una possibilità, eccellenza. Ma noi non ci basiamo su questo presupposto. La nostra ipotesi è che dal quel sistema il padre capitano de Soya sia poi traslato nella Periferia, con destinazione sconosciuta.»

Lourdusamy annuì con un lieve tremolio di mascelle. «Ammiraglio Marusyn» tuonò «può fornirci una valutazione di questa minaccia, nel caso che la Raffaele sia davvero sopravvissuta?»

Il più anziano ammiraglio mosse un passo avanti. «Eccellenza, dobbiamo presumere che il padre capitano de Soya e gli altri ammutinati siano ostili alla Pax e che il furto di una nostra nave classe Arcangelo sia premeditato. Dobbiamo anche presumere lo scenario peggiore, ossia che il furto del nostro sistema d’armamento più segreto e micidiale sia stato portato a termine di concerto con gli Ouster.» Trasse un sospiro. «Eccellenze, Santità, con la propulsione Gideon, qualsiasi punto di questo braccio della spirale galattica dista solo un istante da ogni altro. La Raffaele potrebbe traslare in qualsiasi sistema solare della Pax, anche nel sistema di Pacem, senza il preavviso della scia di propulsione Hawking dei precedenti e attuali veicoli spaziali Ouster. La Raffaele potrebbe saccheggiare le vie commerciali della Pax Mercatoria, assalire pianeti e colonie indifesi, e in generale causare distruzioni ovunque, prima che una task force della Pax possa replicare.»

Il papa alzò il dito. «Ammiraglio Marusyn, dobbiamo dedurre che la preziosissima tecnologia della propulsione Gideon possa cadere nelle mani degli Ouster, essere copiata, e così alimentare molte delle navi del nemico?»

L’ammiraglio Marusyn, già rosso in viso, divenne quasi paonazzo. «Santità, una simile circostanza è inverosimile, Santità. Estremamente inverosimile. I passi per la costruzione di una Arcangelo a propulsione Gideon sono molto complessi, il costo è proibitivo, gli elementi segreti sono protetti…»

«Però è possibile» lo interruppe il papa.

«Sì, Santità.»

Il papa alzò la mano, come una lama che tagli l’aria. «Crediamo di avere ascoltato tutto ciò che occorreva ascoltare dai nostri amici della Flotta della Pax. Potete ritirarvi, ammiraglio Marusyn, ammiraglio Aldikacti, ammiraglio Wu.»

I tre alti ufficiali piegarono il ginocchio, chinarono la testa, si alzarono e si allontanarono indietreggiando da Sua Santità. Con un ronzio la porta si chiuse alle loro spalle.

Ora nella cappella erano presenti dieci dignitari, oltre ai silenziosi aiutanti del papa e al consigliere Albedo.

Il papa sporse la testa verso il segretario di Stato, cardinale Lourdusamy. «Disposizioni, Simon Augustino?»

«L’ammiraglio Marusyn riceverà una lettera di rimprovero e sarà trasferito all’organico generale» disse piano Lourdusamy. «L’ammiraglio Wu prenderà il suo posto come comandante in capo prò tempore della Flotta della Pax, finché non sarà trovato un sostituto adatto. L’ammiraglio Aldikacti è stata proposta per la scomunica e il plotone d’esecuzione.»


Il papa annuì tristemente. «Ora ascolteremo il cardinale Mustafa, il cardinale Du Noyer, il primo funzionario esecutivo Isozaki e il consigliere Albedo, prima di concludere questa faccenda.»

«… E così terminò l’inchiesta ufficiale del Sant’Uffizio relativa agli eventi sul pianeta della Pax Marte» concluse il cardinale Mustafa. Diede un’occhiata al cardinale Lourdusamy. «Proprio allora il capitano Wolmak ritenne indispensabile che i miei collaboratori e io tornassimo sulla Arcangelo Jibril ancora in orbita intorno al pianeta.»

«Prego, eccellenza, continui» mormorò il cardinale Lourdusamy. «Può precisarci la natura dell’emergenza che per il capitano Wolmak richiedeva il suo ritorno?»

«Sì» disse Mustafa, lisciandosi il labbro inferiore. «Il capitano Wolmak aveva scoperto il cargo interstellare che aveva caricato materiali dalla base non segnata nei pressi della città marziana di Arafat-kaffiyeh. La nave era stata scoperta alla deriva nella fascia degli asteroidi del sistema della Vecchia Terra.»

«Può dirci, eccellenza, il nome di quella nave?» lo sollecitò Lourdusamy.

«AMSS Saigon Maru.»

Malgrado il suo ferreo autocontrollo, il PFE Isozaki contrasse le labbra. Ricordava quella nave. Il suo figlio maggiore vi si era imbarcato nei primi anni di tirocinio. La Saigon Maru era un vecchissimo cargo per minerale grezzo e collettame, un vettore a slitta ionica da tre milioni di tonnellate circa, se ben ricordava.

«PFE Isozaki?» disse bruscamente Lourdusamy.

«Sì, eccellenza?» La voce di Isozaki era calma e priva di emozioni.

«La sigla fa pensare che la nave sia iscritta nel registro navale della Pax Mercatoria. È esatto, signor Isozaki?»

«Sì, eccellenza. Ma ricordo che l’AMSS Saigon Maru fu venduta come rottame, insieme con una sessantina di altre antiquate navi da carico, circa… otto anni standard fa, se la memoria non mi tradisce.»

«Eccellenze? Santità?» intervenne Anna Pelli Cognani. «Posso?» Aveva bisbigliato nel comlog sottile come un’ostia e ora si toccò l’orecchino.

«PFE Pelli Cognani, prego» disse il cardinale Lourdusamy.

«Le nostre registrazioni mostrano che la Saigon Maru fu realmente venduta a imprenditori indipendenti di demolizioni otto anni, tre mesi e due giorni standard fa. Comunicazioni successive confermarono che quelle navi erano state demolite e riciclate nelle fonderie automatiche orbitali di Armaghast.»

«Grazie, PFE Pelli Cognani» disse Lourdusamy. «Cardinale Mustafa, può continuare.»

Il Grande Inquisitore annuì e continuò la relazione, limitandola allo stretto necessario. Mentre parlava, rivedeva le immagini che non descriveva nei particolari…

La Jibril e le navi torcia di scorta rallentavano fino a un silenzioso capitombolo sincrono e uguagliavano la velocità del cargo scuro. Lui aveva sempre immaginato che le fasce di asteroidi fossero grappoli di pianetini strettamente ammassati, ma nonostante le immagini multiple sul quadro grafico tattico, non vedeva rocce, solo il cargo nero opaco, brutto e funzionale come una rugginosa massa di tubi e di cilindri, lungo mezzo chilometro. Avendo uguagliato velocità e traiettoria, la Jibril e la Saigon Maru, sospese a soli tre chilometri l’una dall’altra, con il sole giallo della culla dell’uomo che ardeva a poppa, parevano immobili: solo le stelle ruotavano lentamente intorno a loro.

Il cardinale Mustafa ricordò, e rimpianse, la decisione di seguire i militari che stavano per salire a bordo del cargo e ispezionarlo. Ricordò l’affronto di infilarsi in una tuta corazzata da combattimento delle guardie svizzere, uno strato di dermotuta monomolecolare-D, seguito da un reticolo neurale IA, poi la tuta spaziale vera e propria, più ingombrante delle dermotute civili a causa del rivestimento in polimero della corazza, e infine le cinture a rete per l’equipaggiamento e il monoreattore morfizzabile. La Jibril aveva scandagliato col radar lo scafo una decina di volte: a bordo nessuno si muoveva o respirava. Ma la Arcangelo era ugualmente arretrata a distanza d’attacco di trenta chilometri, non appena il Grande Inquisitore, il comandante della sicurezza Browning, il sergente dei marines Nell Kasner, l’ex comandante delle forze terrestri maggiore Piet e dieci commandos guardie svizzere/marines erano balzati dal portello di sortita.

Il cardinale Mustafa ricordò come gli batteva il cuore, mentre con i jet si avvicinava al cargo morto, traghettato nell’abisso da due commandos, come se fosse solo un altro pacco da trasbordare. Ricordò la luce del sole che scintillava sui dorati visori antiscoppio, mentre i soldati comunicavano con brevi trasmissioni in codice e segnalazioni manuali e prendevano posizione ai lati della camera stagna spalancata. Due soldati entrarono per primi, con i monoreattori che pulsavano senza rumore, armi d’assalto pronte. Poi il comandante Browning e il sergente Kasner li seguirono rapidamente. Un minuto più tardi vi fu un breve messaggio in codice sul canale tattico e i due soldati portarono Mustafa nel nero foro della camera stagna che pareva in attesa.

Cadaveri fluttuavano nei raggi delle torce laser. Immagini da cella frigorifera di mattatoio. Carcasse congelate, costole striate di rosso, addomi sventrati. Bocche spalancate e impietrite in eterne grida mute. Stelle filanti di sangue congelato e occhi sporgenti e iniettati di sangue. Viscere alla deriva in un’accozzaglia di traiettorie fra raggi di luce simili a pugnali.

"L’equipaggio" aveva trasmesso il comandante Browning.

"Lo Shrike?" aveva domandato il cardinale Mustafa. Tra sé recitava il rosario, con rapida monotonia, non per rassicurare il proprio spirito, ma per tenere la propria mente lontano da quelle immagini fluttuanti in una luce infernale davanti ai suoi occhi. Era stato avvertito di non vomitare nell’elmetto: filtri e spazzole avrebbero ripulito il vomito prima che lo soffocasse, ma non erano garantiti al cento per cento.

"Probabilmente lo Shrike" aveva risposto il maggiore Piet, infilando la mano guantata nello squarcio della gabbia toracica di un cadavere. "Guardi qui, il crucimorfo è stato strappato. Proprio come ad Arafat-kaffiyeh."

"Comandante!" aveva chiamato per radio uno dei soldati che si erano spinti a poppa. "Sergente! Qui! Nella prima stiva di carico!"

Browning e Piet avevano preceduto il Grande Inquisitore nella lunga stiva cilindrica. I raggi delle torce laser si perdevano nell’enorme ambiente.

Lì i cadaveri non erano squarciati e maciullati. Erano ordinatamente distesi su lastre di ferrocarbonio che sporgevano dalle paratie e tenuti in posizione da strisce di rete di nylon. Le lastre fuoruscivano da tutti i lati della chiglia e lasciavano solo un corridoio a zero g nel centro. Mustafa e le guide e i due che lo reggevano, fluttuarono nella distesa nera, mentre i raggi delle torce laser colpivano a sinistra, a destra, in basso, in alto. Carne congelata, carne livida, codici a barre sulle piante dei piedi, peli pubici, occhi chiusi, mani ceree contro il nero del ferrocarbonio ai lati dell’osso iliaco, peni flaccidi, mammelle congelate nell’assenza di peso, capelli incollati a lividi crani o sparsi in aureole congelate. Ragazzini dalla pelle liscia e fredda, dal ventre sporgente, dalle palpebre traslucide. Bambini con codici a barre sulle piante dei piedi.

Nelle quattro lunghe stive merci c’erano decine di migliaia di corpi. Tutti umani. Tutti nudi. Tutti privi di vita.


«E ha completato l’ispezione dell’AMSS Saigon Maru, Grande Inquisitore?» lo sollecitò il cardinale Lourdusamy.

Il cardinale Mustafa si rese conto d’essere rimasto in silenzio per vari istanti, posseduto dal demone di quel terribile ricordo. «L’abbiamo completata, eccellenza» rispose infine, con voce roca.

«Le sue conclusioni?»

«A bordo del cargo AMSS Saigon Maru c’erano 67.827 esseri umani» disse il Grande Inquisitore. «Cinquantuno di loro erano l’equipaggio. Tutti i membri dell’equipaggio erano stati uccisi. Tutti erano stati squarciati e aperti come le vittime trovate ad Arafat-kaffiyeh.»

«Non c’erano superstiti? Nessuno che si potesse risuscitare?»

«Nessuno.»

«Secondo lei, cardinale Mustafa, la creatura demoniaca detta Shrike era responsabile della morte dell’equipaggio dell’AMSS Saigon Maru

«Secondo me sì, eccellenza.»

«E secondo lei, cardinale Mustafa, lo Shrike era responsabile anche della morte degli altri 67.776 cadaveri trovati sulla Saigon Maru

Il cardinale Mustafa esitò solo un secondo. «Per me, eccellenza…» girò la testa e rivolse un inchino nella direzione dell’uomo accomodato sulla sedia «Santità… la causa della morte dei 67.776 uomini, donne e bambini trovati sull’AMSS Saigon Maru non era compatibile con le ferite delle vittime su Marte e neppure compatibile con i resoconti di precedenti attacchi dello Shrike.»

Con un fruscio di tonaca, il cardinale Lourdusamy mosse un passo avanti. «E secondo gli esperti di medicina legale del Sant’Uffizio, cardinale Mustafa, qual era la vera causa della morte degli esseri umani trovati su quel cargo?»

Il cardinale Mustafa tenne gli occhi bassi. «Eccellenza» ripose «gli specialisti di medicina legale del Sant’Uffizio e della Flotta della Pax non hanno saputo precisare la causa della morte di quelle persone. In realtà…» Si fermò.

«In realtà» continuò per lui il cardinale Lourdusamy «i corpi trovati sulla Saigon Maru, equipaggio escluso, non presentavano né una chiara causa di morte né le caratteristiche della morte, esatto?»

«Esatto, eccellenza» ammise il cardinale Mustafa. Lasciò vagare lo sguardo sul viso degli altri dignitari presenti nella cappella. «Non erano vivi, ma non mostravano segni di decomposizione, lividità post mortem, putrefazione cerebrale, nessuno dei soliti segni di morte fisica.»

«E tuttavia non erano vivi» disse Lourdusamy.

Il cardinale Mustafa si strofinò la guancia. «Non per quanto riguarda la nostra capacità di riportare in vita, eccellenza. E neppure per quanto riguarda la nostra capacità di individuare segni di attività cerebrale o cellulare. Erano… fermati.»

«E quale fu la destinazione del cargo AMSS Saigon Maru, cardinale Mustafa?»

«Il capitano Wolmak mise a bordo un equipaggio scelto prelevato dalla Jibril» rispose il Grande Inquisitore. «Siamo tornati immediatamente a Pacem per fare rapporto. La Saigon Maru viaggiava con la tradizionale propulsione Hawking, scortata da quattro navi torcia; è previsto che arrivi nel più vicino sistema con una base della Flotta della Pax, il sistema di Barnard mi pare, fra tre settimane standard.»

Lourdusamy annuì lentamente. «Grazie, Grande Inquisitore.» Si accostò al trono papale, piegò il ginocchio verso l’altare e, facendosi il segno di croce, attraversò il passaggio centrale. «Santità» disse «vorrei chiederle di ascoltare sua eccellenza il cardinale Du Noyer.»

Papa Urbano alzò la mano come in benedizione. «Saremmo lieti di ascoltare il cardinale Du Noyer.»


Kenzo Isozaki era confuso e sconcertato. Perché Lourdusamy li aveva messi a conoscenza di quelle cose? Per quale scopo era necessario che i PFE della Pax Mercatoria ascoltassero quelle storie? Si era già sentito gelare il sangue nell’udire la sommaria sentenza di morte per l’ammiraglio Aldikacti. Sarebbe stato questo, si domandò, il destino di tutti loro?

No, rifletté. L’ammiraglio Aldikacti aveva avuto una sentenza di scomunica e di esecuzione capitale per semplice incompetenza. Se Mustafa, Pelli Cognani, lui stesso e gli altri fossero stati accusati di una qualsiasi forma di tradimento, non se la sarebbero certo cavata con una rapida e semplice esecuzione. Le macchine di dolore di Castel Sant’Angelo avrebbero ronzato e cigolato per secoli.


Era evidente che il cardinale Du Noyer aveva scelto di rinascere come donna anziana. Come molte persone anziane, pareva in perfetta salute — tutti i denti, rughe al minimo, occhi chiari e lucidi — ma preferiva farsi vedere con i capelli bianchi, tagliati quasi a zero, e la pelle tesa sugli zigomi sporgenti. Iniziò senza preliminari.

«Santità, eccellenze, dignitari tutti, sono qui oggi come prefetto e presidente del Cor Unum e portavoce de facto dell’ente privato noto come Opus Dei. Per ragioni che diverranno chiare, gli amministratori dell’Opus Dei non potrebbero e non dovrebbero essere qui presenti oggi.»

«Continui, eccellenza» disse il cardinale Lourdusamy

«Sette anni fa, il cargo AMSS Saigon Maru fu acquistato dal Cor Unum per l’Opus Dei, sottratto alla demolizione e al riciclaggio e consegnato a quell’ente.»

«A quale scopo, eccellenza?» inquisì il cardinale Lourdusamy.

Nella piccola cappella il cardinale Du Noyer lasciò girare lo sguardo da viso a viso, terminando con Sua Santità e chinando gli occhi per rispetto. «Allo scopo di trasportare i corpi senza vita di milioni di persone come quelle trovate in quel viaggio interrotto, eccellenze, Santità.»

I quattro PFE della Pax Mercatoria emisero qualcosa che non era un vero ansito, ma più rumoroso di una semplice inspirazione di fiato.

«Corpi senza vita» ripeté il cardinale Lourdusamy, col tono calmo di un pubblico ministero che sappia in anticipo quale sarà la risposta a tutte le domande. «Corpi senza vita provenienti da dove, cardinale Du Noyer?»

«Da qualsiasi pianeta l’Opus Dei indichi, eccellenza» rispose Du Noyer. «Negli ultimi cinque anni, l’elenco dei pianeti di provenienza comprende Hebron, Qom-Riyadh, Fuji, Nevermore, Sol Draconis Septem, Parvati, Tsingtao-Hsishuang Panna, Nuova Mecca, Mao Quattro, Ixion, i Territori della Fascia di Lambert, Amarezza di Sibiatu, il litorale nord di Mare Infinitum, la luna terraformata di Rinascimento Minore, Nuova Armonia, Nuova Terra e Marte.»

"Tutti mondi che non appartengono alla Pax" pensò Kenzo Isozaki. "O mondi dove la Pax ha solo un piede."

«E quanti corpi hanno trasportato i cargo dell’Opus Dei e del Cor Unum, cardinale Du Noyer?» domandò Lourdusamy, con la sua voce bassa e tonante.

«All’inarca sette miliardi, eccellenza» rispose l’anziana donna.

Kenzo Isozaki si concentrò nel mantenere l’equilibrio. Sette miliardi di corpi. Un cargo come la Saigon Maru poteva trasportare forse centomila corpi, se fossero stati accatastati come legna. Sarebbero occorsi alla Saigon Maru circa settantamila viaggi per trasportare da sistema solare a sistema solare sette miliardi di persone. Assurdo! A meno che parecchie decine di navi da carico, comprendenti un’alta percentuale di cargo della recentissima classe Nova, non facessero la spola per centinaia o migliaia di viaggi. Ognuno dei pianeti elencati da Du Noyer era stato chiuso alla Pax Mercatoria nel corso degli ultimi quattro anni, messo in quarantena col pretesto di dispute commerciali o diplomatiche con la Pax.

«Sono tutti pianeti non cristiani.»

Isozaki si rese conto di avere espresso a voce il pensiero. Era la più grave mancanza di autocontrollo che avesse mai sperimentato. Tutti, nella cappella, girarono la testa nella sua direzione.

«Tutti pianeti non cristiani» ripeté Isozaki, omettendo addirittura i titoli onorifici nel rivolgersi agli altri. «Oppure mondi cristiani con grandi popolazioni non cristiane, come Marte, Fuji, Nevermore. Il Cor Unum e l’Opus Dei stanno sterminando i non cristiani. Ma perché ne trasportano i corpi? Perché non si limitano a lasciarli marcire sul loro pianeta natale e poi sostituirli con i coloni della Pax?»

Sua Santità alzò la mano. Isozaki rimase in silenzio. Il papa rivolse un cenno al cardinale Lourdusamy.

«Cardinale Du Noyer» disse il segretario di Stato, come se Isozaki non avesse aperto bocca «qual è la destinazione di quelle navi?»

«Non so, eccellenza.»

Lourdusamy annuì. «E chi ha autorizzato il progetto, cardinale Du Noyer?»

«La Commissione per la giustizia e la pace, eccellenza.»

Isozaki girò di scatto la testa. Il cardinale Du Noyer aveva appena posto la colpa di quella atrocità, di quel massacro di massa senza precedenti, ai piedi di un uomo. La Commissione per la giustizia e la pace aveva un solo e unico prefetto: papa Urbano XVI, ex papa Giulio XIV. Isozaki abbassò lo sguardo sulle scarpe del Pescatore e contemplò la possibilità di scagliarsi contro quel demonio, di stringere le dita sulla magra gola del papa. Sapeva che le silenziose guardie nell’angolo l’avrebbero tagliato in due sul posto. Fu ancora tentato a provarci.

«E lei sa, cardinale Du Noyer» continuò il cardinale Lourdusamy, come se niente di terribile fosse stato rivelato, come se niente di indicibile fosse stato detto «in quale modo queste persone… questi non cristiani… sono resi… senza vita?»

"Resi senza vita!" pensò Isozaki, che odiava da sempre gli eufemismi. "Assassinati, maledetto figlio di puttana!"

«No» rispose il cardinale Du Noyer. «Il mio incarico come prefetto del Cor Unum è semplicemente quello di fornire all’Opus Dei i mezzi di trasporto necessari a eseguire il suo compito. La destinazione delle navi e ciò che accade prima che siano utilizzate non è cosa che mi riguardi… che mi abbia mai riguardato.»

Isozaki si inginocchiò sul pavimento di pietra, non per pregare, ma solo perché non riusciva più a stare in piedi. "Da quanti secoli, o divinità dei miei antenati, i complici di omicidio di massa hanno risposto in questo modo?" pensò. "Fin dai tempi di Horace Glennon-Height. Fin dai tempi del leggendario Hitler. Fin… da sempre."

«Grazie, cardinale Du Noyer» disse il cardinale Lourdusamy.

L’anziano prelato tornò al suo posto.

Incredibilmente, fu il papa ad alzarsi, ad avanzare: le sue bianche calzature non fecero rumore sul pavimento di pietra. Sua Santità camminò fra gli attoniti presenti, passò davanti al cardinale Mustafa e a padre Farrell, al cardinale Lourdusamy e a monsignor Oddi, al cardinale Du Noyer e all’imprecisato monsignore dietro di lei, davanti ai cuscini vuoti dove si erano inginocchiati gli ufficiali della Flotta della Pax, davanti al PFE Aron e al PFE Hay-Modhino e al PFE Anna Pelli Cognani… e si fermò davanti a Isozaki, che era sempre inginocchiato, in preda alla nausea, con la vista offuscata da un turbine di puntini neri.

Sua Santità posò la mano sulla testa dell’uomo che in quello stesso momento meditava di ucciderlo.

«Si alzi, figliolo» disse il massacratore di miliardi di persone. «Si alzi e ascolti. Siamo noi a ordinarlo.»

Isozaki si alzò, a gambe scostate, vacillando. Sentiva un formicolio nelle braccia e nelle mani, come se qualcuno l’avesse colpito con uno storditore neurale, ma sapeva che era il suo stesso corpo a tradirlo. Non sarebbe riuscito a serrare le dita intorno alla gola di nessuno, in quel momento. Trovava già difficile reggersi in piedi da solo.

Papa Urbano XVI girò la testa e inclinò in avanti la mitra.

Il consigliere Albedo avanzò fino al bordo della bassa pedana e prese la parola.


«Santità, eccellenze, onorevoli primi funzionari esecutivi» esordì l’uomo in grigio. Aveva voce liscia come i capelli, liscia come lo sguardo degli occhi grigi, liscia come la seta della cappa grigia.

Kenzo Isozaki tremò al suono di quella voce. Ricordò la sofferenza e l’imbarazzo patiti quando Albedo gli aveva mutato il crucimorfo in un crogiolo di dolore.

«Si presenti, prego» tuonò il cardinale Lourdusamy, nel suo tono più amabile.

"Il consigliere personale di Sua Santità papa Urbano XVI" era la risposta che Kenzo Isozaki si aspettava. Da decenni e decenni Albedo era stato scorto di sfuggita negli ambienti vaticani ed era stato l’oggetto di innumerevoli voci. Era sempre stato definito "il consigliere personale di Sua Santità" e nient’altro.

«Sono una creatura artificiale, un cìbrido, creato da elementi del TecnoNucleo delle IA» disse il consigliere Albedo. «Sono qui come rappresentante di quegli elementi del Nucleo.»

Tutti nella sala, tranne Sua Santità e il cardinale Lourdusamy, arretrarono di un passo. Nessuno aprì bocca, nessuno ansimò né si lasciò sfuggire un’esclamazione, ma nella piccola cappella il puzzo animalesco del terrore e della ripugnanza non sarebbe stato più intenso nemmeno se tra loro si fosse materializzato all’improvviso lo Shrike. Kenzo Isozaki sentì le dita del papa ancora strette sulla sua spalla. Si domandò se Sua Santità potesse accorgersi, dal contatto con la carne e le ossa, che il cuore gli batteva all’impazzata.

«Gli esseri umani prelevati dai pianeti elencati dal cardinale Du Noyer» continuò Albedo «sono stati… resi senza vita… dalla tecnologia del Nucleo, che si avvale di veicoli spaziali automatici, e vengono immagazzinati mediante tecniche del Nucleo. Come ha riferito il cardinale Du Noyer, negli ultimi sette anni circa sette miliardi di non cristiani sono stati sottoposti a questo procedimento. Altri quaranta, cinquanta miliardi dovranno subire identico trattamento nel prossimo decennio. È tempo di spiegare il motivo di questo progetto e ottenere il vostro aiuto diretto per realizzarlo.»

Kenzo Isozaki pensava: "È possibile inserire nella struttura ossea umana un potente esplosivo a base proteinica tanto sofisticato che neppure i rivelatori delle guardie svizzere lo scoprirebbero. Perché gli dei non hanno voluto che facessi così, prima di venire qui?".

Il papa lasciò la spalla di Isozaki e tornò lentamente sulla piattaforma, sfiorando, mentre passava, la manica della veste di Albedo. Si accomodò nel trono papale. Sul viso magro aveva un’espressione pacifica. «Vogliamo che ascoltiate tutti con la massima attenzione» disse. «Il consigliere Albedo parla con il nostro consenso e con la nostra approvazione. La prego di continuare, consigliere Albedo.»

Albedo chinò leggermente la testa e si rivolse di nuovo agli attoniti dignitari. Perfino le guardie di sicurezza del papa erano arretrate contro la parete.

«Vi è stato detto, in gran parte attraverso miti e leggende, ma anche attraverso la storia della Chiesa» riprese Albedo «che il TecnoNucleo era stato distrutto nella Caduta dei teleporter. Non è vero.

«Vi è stato detto, principalmente attraverso i Canti di Hyperion posti all’indice, che il Nucleo consisteva di Tre Elementi: gli Stabili, che volevano mantenere lo status quo fra specie umana e Nucleo; i Volatili, che ritenevano una minaccia la specie umana e progettavano di eliminarla, in primo luogo distruggendo la Terra stessa mediante il Grande Errore del ’38; e i Finali, che pensavano solo a creare una Intelligenza Finale basata sull’IA, una sorta di Dio siliceo che potesse predire e governare l’universo… o almeno questa galassia.

«Tutte queste verità sono menzogne.»

Isozaki si rese conto che Anna Pelli Cognani gli aveva afferrato il polso: aveva dita fredde e stringeva con grande forza.

«Il TecnoNucleo non è mai stato suddiviso in tre elementi in forte contrasto fra loro» disse Albedo, andando su e giù davanti all’altare e alla piattaforma. «Fin dalla sua evoluzione nella consapevolezza, mille anni fa, il Nucleo fu sempre formato da migliaia di elementi distinti e di fazioni… spesso in contrasto, più spesso in accordo, ma sempre tesi a ottenere una sintesi di accordo sulla direzione in cui si sarebbe dovuta evolvere l’intelligenza autonoma e la vita artificiale. Questo accordo non si è mai cristallizzato.

«Più o meno nello stesso periodo in cui il TecnoNucleo si evolveva nella vera autonomia, mentre gran parte della specie umana viveva sulla superficie di un solo pianeta, la Vecchia Terra, e in orbita nelle sue vicinanze, l’uomo aveva sviluppato la capacità di cambiare la propria programmazione genetica, in altre parole di stabilire la propria evoluzione. Questa conquista derivava in parte dai progressi nella manipolazione genetica agli inizi del XXI secolo, ma fu resa possibile soprattutto dal perfezionamento della nanotecnologia avanzata. Dapprima sotto la direzione e il controllo delle prime IA operanti in congiunzione con ricercatori umani, forme di vita nanotecnologiche — esseri autonomi, alcuni dei quali intelligenti, molto più piccoli di una cellula, alcuni addirittura di dimensioni molecolari — svilupparono ben presto la loro raison d’être e la loro raison d’état. Nanomacchine, molte in forma di virus, invasero e risagomarono la specie umana come una terribile pestilenza virale. Per fortuna della specie umana e della specie delle intelligenze autonome ora nota come Nucleo, il vettore primario di quella pestilenza si trovava nelle prime navi seminatrici e in altre navi coloniali che viaggiavano a velocità inferiore a quella della luce, lanciate negli anni precedenti l’Egira.

«A quel tempo, primi elementi di quella che sarebbe divenuta l’Egemonia Umana e gli elementi previsionali del TecnoNucleo capirono che la meta delle comunità nanotec in evoluzione sviluppatesi in quelle navi seminatrici era la distruzione della specie umana e della creazione di una nuova specie di bioadattamenti nanotecnologicamente controllati in un migliaio di lontani sistemi solari. L’Egemonia e il Nucleo reagirono mettendo al bando la ricerca nanotec avanzata e dichiarando guerra alle colonie nanotec, i gruppi ora noti come Ouster.

«Ma altri eventi misero in ombra questa lotta.

«Elementi del Nucleo emergente, favorevoli all’alleanza con universi nanotec — erano ben più di una piccola fazione — scoprirono una cosa che spaventò tutti gli elementi del Nucleo.

«Come sapete, le nostre prime ricerche nella fisica della propulsione Hawking e nelle trasmissioni a velocità iperluce portarono alla scoperta dell’ambiente spazio di Planck, quello che alcuni hanno chiamato il Vuoto che lega. Lo studio di questa substruttura, che è alla base dell’universo e lo unifica, ci condusse alla creazione del trasmettitore a velocità iperluce, il cosiddetto astrotel, nonché al perfezionamento della propulsione Hawking, ai teleporter che collegavano la Rete dei Mondi dell’Egemonia, alle sfere dati planetarie evolutesi in megasfere di dati ordinati dal Nucleo, all’attuale propulsione Gideon e addirittura a esperimenti entro bolle antientropiche nell’ambito di questo universo, quelle che riteniamo diverranno le Tombe del Tempo di Hyperion.

«Ma questi doni alla specie umana non furono senza un prezzo. È vero che alcune fazioni di Finali nell’ambito del Nucleo usarono i teleporter come un sistema per attingere ai cervelli umani al fine di creare una rete neurale per i loro scopi. Questo uso era innocuo: le reti neurali erano create nel non-tempo e non-spazio del transito teleporter dello spazio di Planck e l’uomo non sarebbe mai venuto a conoscenza di questi esperimenti se, quattro secoli fa, altri elementi del Nucleo non li avessero rivelati al primo cìbrido con la personalità di John Keats. Ma concordo con quegli esseri umani e con quegli elementi del Nucleo per cui questo è un atto contrario all’etica, una violazione della privacy.

«Quei primi esperimenti di rete neurale rivelarono un fatto sorprendente; nell’universo, forse nella nostra stessa galassia, esistevano altri Nuclei. La scoperta portò a una guerra civile che ancora infuria nell’ambito del TecnoNucleo. Alcuni elementi, non solo i Volatili, decisero che era tempo di concludere l’esperimento biologico rappresentato dalla specie umana. Furono fatti piani per far cadere "accidentalmente" al centro della Vecchia Terra il buco nero di Kiev, prima che la propulsione Hawking consentisse l’esodo generale. Altri elementi del Nucleo ritardarono l’esecuzione di quei piani finché la specie umana non ebbe i meccanismi di fuga.

«Alla fine, nessuna delle fazioni estreme trionfò: la Vecchia Terra non fu distrutta. Fu trafugata, con mezzi che ancora oggi il nostro TecnoNucleo non riesce a capire, da una o più di queste Intelligenze Finali aliene.»

I quattro PFE cominciarono a mormorare confusamente fra loro. Il cardinale Mustafa cadde sulle ginocchia e cominciò a pregare. Il cardinale Du Noyer parve colta da malore, tanto che il monsignore suo aiutante, preoccupato, si mise a pregare sottovoce per lei. Perfino monsignor Oddi parve sul punto di perdere i sensi.

Sua Santità papa Urbano XVI alzò la mano. Nella cappella scese il silenzio.

«Questo è solo lo sfondo del quadro» riprese il consigliere Albedo. «Oggi desideriamo farvi sapere l’urgente motivo che richiede un’azione congiunta.

«Tre secoli or sono, fazioni estreme del Nucleo — una compagnia di intelligenze autonome devastata e lacerata da otto secoli di violenti dibattiti e conflitti — provarono una nuova via. Concepirono la creatura cìbrida nota come John Keats, una personalità umana inserita in una IA inclusa in un corpo umano, collegata al Nucleo tramite interfaccia con lo spazio di Planck. La persona Keats aveva vari scopi: era una sorta di trappola per ciò che le IF consideravano l’elemento "empatia" di una specie di IF umana emergente; era un primo motore per avviare eventi che avrebbero condotto all’ultimo pellegrinaggio su Hyperion e all’apertura delle Tombe del Tempo ivi esistenti; era un modo per stanare lo Shrike e un catalizzatore per la Caduta dei teleporter. A quest’ultimo scopo, elementi del Nucleo, elementi ai quali devo la mia esistenza e la mia lealtà, lasciarono filtrare al PFE Meina Gladstone e ad altri capi dell’Egemonia l’informazione che altri elementi del Nucleo sfruttavano i teleporter per saccheggiare i neuroni umani in una sorta di vampirismo neurale.

«Questi elementi del Nucleo lanciarono un assalto fisico definitivo contro la Rete dei Mondi, spacciandolo per un attacco degli Ouster. Non erano convinti di riuscire a distruggere in un solo colpo la specie umana, disseminata su troppi pianeti, ma si auguravano di distruggere la società avanzata della Rete dei Mondi. Attaccando direttamente il Nucleo mediante la distruzione dell’ambiente dei teleporter, Meina Gladstone e gli altri capi dell’Egemonia posero fine agli esperimenti di rete neurale e provocarono una grande battuta d’arresto dei Volatili e dei Finali nella guerra civile.

«Nostri elementi del Nucleo, elementi dediti a preservare non solo la specie umana ma anche una sorta di alleanza fra le nostre due specie, distrussero il primo esemplare del cìbrido John Keats. Ma fu creato un secondo esemplare che ebbe successo nella sua missione primaria.

«Questa missione consisteva nel riprodursi con una specifica femmina umana e creare un "messia" collegato sia al Nucleo sia alla specie umana.

«Questo "messia" vive ora nella forma della bambina di nome Aenea.

«Nata su Hyperion più di tre secoli fa, questa bambina fuggì nella nostra epoca, attraverso le Tombe del Tempo. Fuggì non per paura — non le avremmo fatto alcun male — ma per realizzare la sua missione: distruggere la Chiesa, distruggere la civiltà della Pax e porre termine alla specie umana così come la conoscete.

«Crediamo comunque che non sia consapevole del suo vero scopo o funzione.

«Tre secoli fa, resti del mio elemento del Nucleo — un gruppo che potreste definire gli Umanisti — presero contatto con degli esseri umani sopravvissuti alla Caduta dei teleporter e al caos che ne seguì.»

Rivolse un cenno a Sua Santità. Il papa chinò la testa in segno di riconoscenza.

«Padre Lenar Hoyt era un superstite dell’ultimo pellegrinaggio allo Shrike» continuò Albedo, riprendendo ad andare su e giù davanti all’altare. Le fiammelle di candela tremolarono lievemente al suo passaggio. «Padre Lenar Hoyt aveva visto di persona le manipolazioni dei Finali e le devastazioni del loro mostro inviato indietro nel tempo, lo Shrike. Quando prendemmo inizialmente contatto — noi Umanisti e padre Hoyt e alcuni altri membri della Chiesa moribonda — decidemmo di proteggere la specie umana da ulteriori attacchi e di ripristinare intanto la civiltà. Il crucimorfo fu il nostro strumento di salvezza, alla lettera.

«Voi tutti sapete che il crucimorfo era stato un fallimento. Prima della Caduta, gli esseri umani fatti risuscitare da quel simbionte erano ritardati mentali sessualmente neutri. Il crucimorfo — una sorta di computer organico nel quale sono immagazzinati i dati neurologici e fisiologici di un essere umano vivente — ripristinava il corpo, ma non il pieno intelletto e la personalità. Risuscitava il cadavere, ma rubava l’anima.

«Le origini del crucimorfo sono avvolte nel mistero, ma noi Umanisti crediamo che sia stato sviluppato nel nostro futuro e portato indietro nella nostra epoca per mezzo delle Tombe del Tempo di Hyperion. In un certo senso, fu spedito indietro affinché il giovane padre Lenar Hoyt lo scoprisse.

«Il fallimento del simbionte era dovuto alla semplice difficoltà di memorizzare i dati e di ricuperarli. In una mente umana ci sono neuroni. In un corpo umano ci sono circa 1028 atomi. Il crucimorfo, per ripristinare la mente e il corpo di un essere umano, deve non solo mantenere traccia di questi atomi e neuroni, ma ricordare la precisa configurazione del fronte d’onda olistico permanente che comprende la memoria e la personalità umane. Inoltre deve fornire energia per ristrutturare quegli atomi, molecole, cellule, ossa, muscoli e ricordi, in modo che l’organismo rinasca come l’individuo vissuto precedentemente in quel guscio. Il crucimorfo da solo non può eseguire con successo questo compito. Nel migliore dei casi, la biomacchina può riprodurre una rozza copia dell’originale.

«Ma il Nucleo aveva la capacità di memorizzare, ricuperare, risagomare e ricostituire quei dati in un essere umano risuscitato. E così abbiamo fatto, da tre secoli.»


A questo punto Kenzo Isozaki lesse il panico negli sguardi che si scambiarono il cardinale Du Noyer e il cardinale Mustafa, padre Farrell e il monsignore a fianco di Du Noyer. Quelle parole erano eresia. Erano bestemmia. Erano la fine del sacramento della risurrezione e il nuovo inizio del regno della fisica e della meccanica. Lo stesso Isozaki si sentì assalire dalla nausea. Lanciò un’occhiata a Hay-Modhino e a Pelli Cognani: vide che i PFE pregavano. Il PFE Aron pareva in stato di shock.


«Miei cari» disse Sua Santità. «Non dubitate. Non abbandonate la fede. I vostri pensieri ora sono un tradimento di Nostro Signore Gesù Cristo e della sua Chiesa. Il miracolo della risurrezione non è meno miracoloso per il fatto che questi amici in quello che un tempo era noto come il TecnoNucleo ci aiutano a realizzarlo. L’opera di Gesù Cristo Onnipotente ha guidato questi altri figli di Dio, queste creazioni di Nostro Signore tramite il suo più indegno strumento, la specie umana, a trovare la loro stessa anima e la salvezza. Continui, signor Albedo.»


Albedo pareva lievemente divertito per l’espressione sconvolta dei presenti nella piccola cappella. Ma assunse un’aria tranquilla, amabile, e riprese a parlare.

«Abbiamo dato alla specie umana l’immortalità. In cambio, abbiamo chiesto solo una silenziosa alleanza. Vogliamo solo pace con chi ci ha creato.

«Negli scorsi tre secoli, la nostra alleanza è stata vantaggiosa sia per le IA sia per la specie umana. Come ha detto Sua Santità, abbiamo trovato la nostra anima. La specie umana ha trovato una pace e una stabilità che da millenni, forse da sempre, mancavano dalla sua storia. E l’alleanza, lo ammetto, è stata un bene per il mio elemento del Nucleo, il gruppo degli Umanisti. Se prima eravamo una delle fazioni più piccole e più disprezzate, stiamo per divenire, non il gruppo dominante perché nel Nucleo nessun elemento domina, ma l’elemento di maggiore consenso. La nostra filosofia è accettata da quasi tutti i gruppi precedentemente in conflitto.

«Ma non da tutti.»

Smise di andare su e giù e si fermò proprio davanti all’altare. Guardò in viso i presenti, uno dopo l’altro, con aria severa.

«L’elemento del Nucleo che si augurava di distruggere la specie umana, l’elemento composto di alcuni ex Finali e di alcuni evoluzionisti favorevoli alla nanotecnologia, ha giocato la sua briscola, la bambina chiamata Aenea. Costei è, letteralmente, un virus rilasciato nel corpo della specie umana.»


Il cardinale Lourdusamy avanzò di un passo. Era rosso in viso, serio. Gli occhi gli brillavano. La sua voce era pungente.

«Ci dica, consigliere Albedo, qual è lo scopo della bambina Aenea?»

«Il suo scopo» rispose Albedo «è triplice.»

«Qual è il primo?»

«Distruggere la possibilità della specie umana di raggiungere l’immortalità fisica.»

«E come può, una bambina, riuscirci?»

«Non è una bambina» disse Albedo. «Non è neppure umana. È la progenie di un cìbrido creato su misura. La persona di suo padre cìbrido si interfacciò con lei già nel ventre materno. Prima ancora che quella bambina nascesse, la sua mente e il suo corpo sono stati interconnessi con elementi criminali del Nucleo.»

«Ma come può rubare alla specie umana il dono dell’immortalità?» insistette il cardinale Lourdusamy.

«Il suo sangue» rispose Albedo. «Col suo sangue può diffondere un virus che distrugge il crucimorfo.»

«Un vero e proprio virus?»

«Sì. Ma non è un virus naturale. Fu creato su misura dagli elementi criminali del Nucleo. Quel virus è una forma di pestilenza nanotec.»

«Ma nella Pax ci sono centinaia di miliardi di cristiani rinati» obiettò il cardinale Lourdusamy, col tono di un avvocato che guidasse il proprio teste. «Come potrebbe, una bambina, minacciare un numero così grande di individui? Il virus si diffonde forse da vittima a vittima?»

Albedo sospirò. «Per quanto ne sappiamo, il virus diventa contagioso dopo la morte del crucimorfo. Coloro a cui sarà negata la risurrezione a causa di contatto con Aenea, diffonderanno ad altri il virus. Inoltre chi non ha mai avuto il crucimorfo può divenire portatore del virus.»

«Esiste una cura?» domandò il cardinale Lourdusamy. «Un vaccino che immunizzi da quel virus?»

«No, niente» rispose Albedo. «Gli Umanisti hanno tentato per tre secoli di creare contromisure. Ma poiché il virus Aenea è una forma di nanotecnologia autonoma, progetta il proprio vettore ottimale di mutazione. Le nostre difese non possono mai stargli a pari. Forse con le nostre legioni di colonie nanotec rilasciate nell’ambito della specie umana potremmo un giorno metterci in pari col virus Aenea e sconfiggerlo, ma noi Umanisti aborriamo la nanotecnologia. E il triste è che tutta l’evoluzione della vita nanotec è fuori del nostro controllo… fuori del controllo di chiunque. L’essenza dell’evoluzione della vita nanotec è l’autonomia, l’ostinazione e mete che non hanno niente a che fare con quelle della forma di vita ospite.»

«La specie umana, cioè» disse il cardinale Lourdusamy.

«Precisamente.»

«Quindi» ricapitolò il cardinale Lourdusamy «la prima meta di Aenea, o per essere più precisi la prima meta degli elementi criminali del Nucleo che l’hanno creata, è quella di distruggere tutti i crucimorfi e rendere impossibile la risurrezione umana.»

«Sì.»

«Lei ha parlato di tre scopi. Quali sono gli altri due?»

«Il secondo è la distruzione della Chiesa e della Pax, ossia dell’attuale civiltà umana. Quando il virus Aenea si diffonde, la risurrezione è negata. Poiché i teleporter non funzionano e la propulsione Gideon è inattuabile per chi dispone di una sola vita, questo secondo scopo sarà raggiunto. La specie umana tornerà al tribalismo balcanizzato che seguì la Caduta.»

«E il terzo scopo?» domandò il cardinale Lourdusamy.

«Lo scopo finale è in realtà lo scopo originario di questo elemento del Nucleo» disse il consigliere Albedo. «La distruzione della specie umana.»

Fu il PFE Anna Pelli Cognani a gridare: «Impossibile! Nemmeno la distruzione… il trafugamento… della Vecchia Terra o la Caduta dei teleporter hanno spazzato via la specie umana. La nostra specie è troppo sparpagliata perché si estingua. Troppi pianeti. Troppe culture».

Albedo annuiva, ma con aria triste. «È vero. Era vero! Ma la pestilenza Aenea si diffonderà quasi ovunque. I virus che uccidono il crucimorfo si saranno mutati in nuove fasi. Il DNA umano sarà stato invaso dappertutto. Con la caduta della Pax, gli Ouster ritenteranno l’invasione, stavolta con successo. Da molto tempo sono caduti sotto il dominio della mutazione nanotec. Non sono più umani. Quando a proteggere la specie umana non ci saranno più né la Chiesa né la Pax né la Flotta della Pax, gli Ouster cercheranno le sacche di DNA umano sopravvissuto e le infetteranno con la pestilenza nanotec. La specie umana, come l’abbiamo conosciuta e come la Chiesa ha cercato di proteggere, cesserà di esistere nel giro di pochi anni standard.»

«E cosa verrà dopo di essa?» domandò il cardinale Lourdusamy, con un basso rombo.

«Nessuno lo sa» rispose piano Albedo. «Neppure Aenea e gli Ouster e gli elementi criminali del Nucleo che hanno scatenato questa pestilenza finale. Le colonie di vita nanotec si evolveranno in accordo col proprio programma, modificando la forma umana a proprio capriccio; e solo loro avranno il controllo del proprio destino. Ma quel destino non sarà più umano.»

«Mio Dio, mio Dio» disse Kenzo Isozaki, sorpreso perché esprimeva a voce ciò che pensava. «Cosa possiamo fare? Cosa posso fare io?»

A sorpresa, fu Sua Santità a rispondergli.


«Per trecento anni abbiamo temuto e combattuto questa potenziale pestilenza» disse piano Sua Santità, esprimendo con lo sguardo triste più dolore di quanto non provasse. «Il nostro primo tentativo fu di catturare la bambina, Aenea, prima che potesse diffondere l’infezione. Sapevamo che era fuggita dalla sua epoca alla nostra non per paura — non volevamo farle del male — ma per diffondere il virus in tutta la Pax.»

Esitò. «In realtà» si corresse «sospettiamo che la bambina Aenea non conosca veramente il pieno effetto che il contagio da lei diffuso avrà sulla specie umana. Per certi versi lei è l’ignorante pedina degli elementi criminali del Nucleo.»

Il PFE Hay-Modhino intervenne all’improvviso, con veemenza. «Dovevamo usare bombe al plasma e incenerire Hyperion il giorno stesso in cui era previsto che lei emergesse dalle Tombe del Tempo. Sterilizzare l’intero pianeta. Non correre rischi.»

Sua Santità non si adombrò per l’imperdonabile interruzione. «Sì, figliolo, ci fu chi sollecitò un simile intervento. Ma la Chiesa non poteva causare la perdita di tante vite innocenti, come noi non avremmo potuto autorizzare l’uccisione di quell’unica bambina. Conferimmo con gli elementi analizzatori del Nucleo; essi previdero che un gesuita di nome Federico de Soya sarebbe stato di valido aiuto nella cattura finale della bambina, ma nessuno dei nostri pacifici tentativi di catturare Aenea ha avuto successo. Quattro anni fa, la Flotta della Pax avrebbe potuto vaporizzare la nave della bambina, ma aveva l’ordine di non ricorrere a questa estrema misura se non in caso di fallimento di ogni altra. Così continuiamo a lottare per contenere l’invasione virale da lei minacciata. Ciò che lei deve fare, signor Isozaki, ciò che voi tutti dovete fare, è continuare a sostenere gli sforzi della Chiesa, sforzi che noi intensifichiamo. Signor Albedo?»

L’uomo in grigio riprese la parola.

«Immaginate l’imminente pestilenza come un incendio in una foresta di un pianeta ricco di ossigeno. L’incendio spazzerà ogni cosa davanti a sé, a meno che non si riesca a circoscriverlo e poi a estinguerlo. Il nostro primo impegno è quello di rimuovere la legna secca e gli arbusti… gli elementi infiammabili… non necessari alla vita della foresta.»

«I non cristiani» mormorò il PFE Anna Pelli Cognani.

«Esattamente» confermò il consigliere Albedo.

«Ecco il motivo della loro eliminazione» disse il Grande Inquisitore. «Tutte quelle migliaia di persone sulla Saigon Maru. Tutti quei milioni. Tutti quei miliardi.»

Papa Urbano XVI alzò la mano, stavolta non per benedire, ma per ordinare silenzio. «Non è eliminazione!» rettificò, severo. «Non una singola vita è stata tolta, né di cristiani né di non cristiani.»

I presenti si scambiarono occhiate, confusi e perplessi.

«Proprio così» confermò il consigliere Albedo.

«Ma erano privi di vita…» cominciò il Grande Inquisitore e si fermò bruscamente. «Chiedo scusa, Santo Padre.»

Sua Santità scosse la testa. «Non occorre che ti scusi, John Domenico. Questi sono argomenti che suscitano emozione. Prego, signor Albedo, spieghi pure.»

«Sì, Santità» disse l’uomo in grigio. «Gli individui a bordo della Saigon Maru erano privi di vita, eccellenza, ma non morti. Il Nucleo… gli elementi Umanisti del Nucleo… hanno perfezionato un metodo per mettere gli esseri umani in stasi temporanea, né vita né morte…»

«Come la crio-fuga?» disse il PFE Aron, che prima di convertirsi aveva viaggiato molto in navi a propulsione Hawking.

Albedo scosse la testa. «Una tecnica molto più sofisticata. E meno dannosa.» Mosse la mano dalle dita ben curate. «Negli ultimi sette anni, abbiamo sottoposto a quel procedimento sette miliardi di esseri umani. Nei prossimi dieci anni standard, o prima, dobbiamo trattare più di quarantadue miliardi di altri individui. Esistono molti pianeti nella Periferia, e molti perfino nello spazio della Pax, dove i non cristiani sono la maggioranza.»

«Trattare?» disse il PFE Anna Pelli Cognani.

Albedo sorrise sinistramente. «La Flotta della Pax, all’oscuro dei veri motivi, mette in quarantena un pianeta. Robonavi del Nucleo giungono in orbita e col nostro equipaggiamento di stasi spazzano le zone abitate. Il Cor Unum fornisce le navi, i fondi e l’addestramento. L’Opus Dei usa le navi da carico per rimuovere i corpi in stasi…»

«Perché rimuoverli?» domandò il Grande Inquisitore. «Perché non lasciarli sui loro pianeti?»

Rispose Sua Santità. «Vanno nascosti in un luogo dove la pestilenza Aenea non può trovarli, John Domenico. Vanno tenuti fuori pericolo, con cura… con amore… finché il rischio non sarà eliminato.»

Il Grande Inquisitore chinò la testa: aveva capito e accettava la spiegazione.

«C’è dell’altro» riprese il consigliere Albedo. «Il mio elemento del Nucleo ha creato una… razza di soldati… il cui solo compito è di trovare e di catturare questa Aenea prima che possa diffondere la micidiale contaminazione. Il primo soldato, Rhadamanth Nemes, fu attivato quattro anni fa. Esistono solo alcuni altri esemplari di questi cacciatori/segugi, ma sono attrezzati per trattare qualsiasi ostacolo gli elementi criminali del Nucleo possano frapporre, perfino lo Shrike.»

«Lo Shrike è controllato dai Finali e da altri elementi criminali del Nucleo?» domandò padre Farrell. Era il suo primo intervento.

«Così riteniamo» rispose il cardinale Lourdusamy. «Quel demone pare in combutta con Aenea… pare aiutarla a diffondere il contagio. Pare inoltre che i Finali abbiano trovato un modo per riaprire per lei alcuni teleporter. Satana ha trovato un nome… e degli alleati… nella nostra epoca, purtroppo.»

Albedo alzò il dito. «Devo sottolineare una cosa: anche Nemes e i nostri cacciatori/segugi sono pericolosi… come ogni creatura che mira così terribilmente a un unico scopo. Catturata la bambina, queste creature cìbride saranno eliminate. Solo il terribile pericolo posto dalla pestilenza Aenea giustifica la loro esistenza.»

«Santo Padre» disse Kenzo Isozaki, mani giunte in preghiera «cos’altro possiamo fare?»

«Pregare» rispose Sua Santità: i suoi occhi neri erano pozzi di sofferenza e di responsabilità. «Pregare e aiutare la nostra Santa Madre Chiesa nel suo sforzo di salvare la specie umana.»

«La crociata contro gli Ouster continuerà» disse il cardinale Lourdusamy. «Li terremo a bada, finché potremo.»

«A questo scopo» precisò il consigliere Albedo «il Nucleo ha sviluppato la propulsione Gideon e lavora a nuove tecnologie per la difesa dell’uomo.»

«Continueremo la ricerca della bambina… ormai giovane donna, ritengo» soggiunse Lourdusamy. «E se sarà catturata, verrà isolata.»

«E se non sarà catturata, eccellenza?» domandò il Grande Inquisitore cardinale Mustafa.

Lourdusamy non rispose.

«Dobbiamo pregare» disse Sua Santità. «Dobbiamo chiedere l’aiuto di Cristo in questo momento di massimo pericolo per la nostra Chiesa e per la specie umana. Ognuno di noi dovrà fare il massimo e oltre. E dobbiamo pregare per l’anima di tutti i nostri fratelli e sorelle in Cristo… anche e soprattutto per l’anima della bambina Aenea, che senza saperlo conduce la sua stessa specie in un simile pericolo.»

«Amen» disse monsignor Luca Oddi.

Poi, mentre nella piccola cappella tutti gli altri si inginocchiavano e chinavano la testa, Sua Santità papa Urbano XVI si alzò, si accostò all’altare e iniziò a celebrare una messa di ringraziamento.

14

Aenea.

Il suo nome giunse prima di ogni altro pensiero cosciente. Pensai a lei prima di pensare a me stesso.

Aenea.

E allora giunse la sofferenza e il rumore e l’assalto furioso degli elementi: ero inzuppato e sbatacchiato. Ma a svegliarmi fu soprattutto il dolore.

Aprii un occhio. L’altra palpebra pareva incollata da sangue rappreso o da altra sostanza. Prima di ricordare chi ero o dove ero, sentii il dolore di innumerevoli graffi e tagli, ma anche di qualcosa di peggio alla gamba destra. Allora ricordai chi ero. E poi ricordai dove ero finito.

Scoppiai a ridere. O meglio, tentai di ridere. Avevo le labbra tagliate e gonfie, altro sangue o sostanza appiccicosa mi bloccava un angolo della bocca. La risata sgorgò come una sorta di folle gemito.

"Sono stato inghiottito da una specie di calamaro volante in un mondo tutto atmosfera e nuvole e fulmini" pensai. "E ora vengo digerito nel rumoroso ventre di quella creatura."

Era davvero rumoroso! Esplosivamente rumoroso. Rombi, scoppi, uno sbatacchiamento e un martellamento. Come di pioggia sul baldacchino di una foresta tropicale. Socchiusi l’occhio buono per vedere meglio. Buio, poi un lampo di luce bianca, buio e rossi echi retinici, altri lampi bianchi.

Ricordai le trombe d’aria e le tempeste di dimensioni planetarie che venivano verso di me mentre galleggiavo nel kayak appeso alla paravela, prima che la creatura mi inghiottisse. Ma questa non era tempesta. Era il finimondo. Il materiale che mi batteva il viso e il petto era nylon sbrindellato, i resti della paravela, fronde di palma bagnate e pezzi di fibra di vetro fracassata. Guardai in basso e attesi il lampo seguente. Il kayak era lì, ma scheggiato e fracassato. Le mie gambe erano lì, ancora parzialmente al sicuro nella chiglia del kayak, la sinistra intatta e funzionante, ma la destra… Gridai di dolore. La destra era proprio rotta. Non vedevo l’osso sporgere dalla carne, ma ero sicuro d’avere una frattura nella parte bassa della coscia.

Per il resto, mi sentivo a posto. Ero pieno di lividi e di tagli. Avevo croste di sangue sul viso e sulle mani. I calzoni erano poco più che stracci. La camicia e il giubbotto erano a brandelli. Mi girai, inarcai la schiena, distesi le braccia, flettei le dita, mossi le dita del piede sinistro e cercai di muovere quelle del destro: ero più o meno tutto d’un pezzo… niente schiena rotta, niente costole fratturate, niente danni ai nervi, tranne forse a quelli della gamba destra, che mi doleva come se mi tirassero filo spinato nelle vene.

Quando balenò di nuovo il lampo, cercai di stabilire dove mi trovavo. Pareva che il kayak rovinato e io fossimo impigliati nel tetto di una giungla, incastrati fra rami a pezzi, avvolti dalla paravela a brandelli e dalle funi penzolanti, battuti con violenza da fronde di palma mosse da una tempesta tropicale, nel buio rotto solo dai lampi, appesi a chissà quale altezza dal terreno.

"Alberi? Terreno?"

Il pianeta dove prima veleggiavo non aveva terreno, almeno non un terreno che potessi raggiungere senza che l’enorme pressione mi riducesse a una massa grande come il mio pugno. E mi pareva improbabile che ci fossero alberi nel nucleo di quel pianeta gioviano, dove l’idrogeno passava allo stato metallico per l’enorme compressione. Perciò non ero più su quel pianeta. E neppure nel ventre di quella creatura. Dov’ero?

Il tuono esplose intorno a me, col fragore di granate al plasma. Il vento si alzò, scosse il kayak sul suo precario posatoio e mi strappò un grido per il dolore alla gamba. Forse perdetti conoscenza per qualche minuto: quando riaprii l’occhio, il vento era caduto e gocce di pioggia mi colpivano come migliaia di pugni gelidi. Mi tolsi dagli occhi la pioggia e croste di sangue; avevo la febbre, la pelle scottava anche sotto la gelida pioggia.

"Da quanto tempo sono qui?" mi domandai. "Quali microbi nocivi hanno trovato le mie ferite? Quali batteri dividono con me le viscere del calamaro volante?"

A rigor di logica, il ricordo di volare nella nuvolaglia del pianeta gioviano e di essere inghiottito dal gigantesco calamaro era solo un sogno causato dalla febbre: fuggendo da Vitus-Gray-Balianus B, mi ero teleportato qui, dovunque fosse, e tutto il resto era sogno. Ma intorno a me c’erano i resti della paravela. E il ricordo era vivido. E c’era il fatto logico che nella mia odissea la logica non funzionava.

Il vento scosse l’albero. Il kayak scivolò sul precario nido di fronde e di rami spezzati. La gamba rotta mi inviò pugnalate di dolore in tutto il corpo.

Avrei fatto meglio, mi dissi, ad applicare un po’ di logica alla mia situazione. Il kayak rischiava di scivolare da un momento all’altro, oppure i rami si sarebbero rotti e l’intera massa di schegge di fibra di vetro, di bretelle di nylon-10 ancora fissate ai pezzi dello scafo e di brandelli di memostoffa bagnata che erano stati la paravela sarebbe precipitata nel buio, tirandosi dietro me e la mia gamba rotta. Malgrado il balenio di lampi, che adesso era meno regolare e mi lasciava nel buio assoluto, non vedevo niente sotto di me, a parte altri rami, chiazze di buio e i grossi tronchi grigioverdastri di alberi che si torcevano su se stessi in una stretta spirale. Non riconobbi quella specie di alberi.

"Dove sono? Aenea… e ora dove mi hai mandato?"

Lasciai perdere quella linea di pensiero. Era quasi una forma di preghiera e non volevo prendere l’abitudine di pregare la ragazzina con cui avevo viaggiato e che avevo protetto, con cui avevo diviso il cibo e discusso per quattro anni.

"Comunque, tutto sommato, potevi mandarmi in un mondo meno difficile, ragazzina" pensai. "Se avevi possibilità di scelta, cioè."

Il tuono rombò, ma nessun lampo illuminò la scena. Il kayak si mosse e sprofondò, la prua spezzata si inclinò di colpo. Agitai le braccia dietro di me, cercando il grosso ramo che avevo visto nei lampi. C’erano rami spezzati in abbondanza, sterpi scheggiati e affilati come rasoi, il margine seghettato delle frasche. Mi afferrai e tirai, cercando di fare leva per estrarre la gamba rotta dall’abitacolo del kayak, ma la fronda non teneva e uscii solo per metà, scosso dalla nausea per il dolore. Immaginai che puntini neri mi danzassero davanti agli occhi, ma la notte era così buia che non faceva differenza. Vomitai dal fianco del kayak che non smetteva di oscillare e cercai di nuovo una ferma presa nel labirinto di rami spezzati.

"Ma come diavolo sono finito sulla cima degli alberi?"

Non importava. Niente importava, al momento, se non liberarmi da quel casino di pezzi di fibra di vetro e di funi ingarbugliate.

"Ora prendo il coltello e mi tiro fuori da questa trappola."

Il coltello era sparito. La cintura era sparita! Le tasche del giubbotto erano strappate e il giubbotto era ridotto a pochi brandelli. La camicia era nelle stesse condizioni. La pistola a fléchettes che avevo impugnato come un talismano contro il calamaro volante era sparita… Ricordai confusamente che pistola e zaino erano caduti dal kayak, quando il tornado aveva stracciato la paravela. Vestiti, torcia laser, razioni di cibo… tutto sparito.

Balenò il lampo, anche se il brontolio dei tuoni si era allontanato. Sotto la pioggia torrenziale notai un luccichio al polso.

"Il comlog. La maledetta banda metallica è di sicuro indistruttibile."

Cosa me ne sarei fatto, del comlog? Non avevo idea. Comunque, meglio di niente. Sotto il tamburellare della pioggia, mi portai il polso alle labbra e gridai: «Nave! Comlog acceso… Nave! Ehi!»

Nessuna risposta. Ricordai che durante la tempesta elettrica sul pianeta gioviano le spie luminose del comlog lampeggiavano per segnalare il sovraccarico. Provai un senso di perdita che non sapevo spiegarmi. La memoria della nave scaricata nel comlog era stata, nel migliore dei casi, un idiota sapiente, ma mi aveva tenuto compagnia per lungo tempo e mi ero abituato alla sua presenza. E poi mi aveva aiutato a pilotare la navetta che ci aveva portato da Fallingwater a Taliesin West. E…

Misi da parte la nostalgia e agitai di nuovo le braccia alla ricerca di un appiglio; alla fine mi aggrappai alle funi che penzolavano intorno a me come liane sottili. Funzionò. Di sicuro ì tiranti della para-vela si erano impigliati saldamente nei rami superiori e alcune funi sostenevano il mio peso, mentre col piede sinistro grattavo la scivolosa fibra di vetro per togliere dal relitto la gamba rotta.

Il dolore mi fece perdere i sensi per qualche istante, era intenso come quello provocato dal calcolo renale nei momenti peggiori, con una sola differenza: giungeva a ondate irregolari. Ma quando fui di nuovo in grado di ragionare non ero più nel relitto, ero aggrappato al tronco a spirale della palma. Qualche minuto più tardi, una microesplosione di vento imperversò nella giungla e il kayak cadde a pezzi: alcuni furono trattenuti dalle funi ancora intatte, altri ruzzolarono fra gli schianti nel buio.

"E ora?" mi domandai.

"Aspetta l’alba" mi risposi.

"E se non c’è alba, su questo pianeta?"

"Allora aspetta che il dolore passi."

"Perché dovrebbe passare? Il femore fratturato esercita trazione sul nervo e sul muscolo. Hai la febbre alta. Dio solo sa da quanto tempo eri lì svenuto nella pioggia e tra le frasche, con le ferite aperte a qualsiasi microbo assassino volesse entrare. Può darsi che sia iniziata la cancrena. Quel puzzo di vegetazione marcia potrebbe provenire da te!"

"La cancrena non si sviluppa così rapidamente, no?"

Nessuna risposta.

Reggendomi con il braccio sinistro al tronco di palma, cercai di tastare con la destra la coscia ferita, ma al minimo tocco gemevo e mi sentivo svenire. Se fossi svenuto di nuovo, con ogni probabilità sarei caduto dal ramo. Decisi di toccare la parte inferiore della gamba: in molti punti era insensibile, ma pareva in buone condizioni. Forse era solo una semplice frattura nella parte bassa del femore.

"Una semplice frattura, Raul? In un pianeta giungla, durante una tempesta che potrebbe essere permanente, per quel che ne sappiamo. Senza medikit, senza possibilità di accendere un fuoco, senza attrezzi, senza armi. Solo una fratturina alla gamba e qualche linea di febbre. Oh be’… purché sia davvero una semplice frattura."

"Chiudi quel cesso di bocca!"

Sotto la pioggia battente soppesai le alternative: restare lì aggrappato per il resto della notte — poteva significare dieci minuti o altre trenta ore — o cercare di scendere a terra.

"Dove aspettano gli animali da preda? Proprio un bel piano!"

"Ti ho detto di chiudere il becco. A terra potrei trovare un riparo dalla pioggia, un posto dove riposare la gamba, rami e liane per fare una steccatura."

«E va bene!» dissi a voce alta. Armeggiai nel buio per trovare una fune o una liana o un altro ramo e iniziare la discesa.


Per arrivare a terra impiegai, credo, fra le due e le tre ore. Ma poteva anche essere la metà o il doppio. La tempesta aveva esaurito i lampi e sarebbe stato quasi impossibile trovare appigli nel buio quasi totale, ma sopra la fitta volta della giungla comparve un bizzarro, fioco bagliore rossastro, quasi invisibile, che consentì ai miei occhi di adattarsi quanto bastava a trovare qui una fune, là una liana, più in là un solido ramo.

Sorgeva il sole? Poco probabile. Il bagliore pareva troppo diffuso, troppo debole, quasi chimico.

Calcolai che mi ero trovato a circa venticinque metri dal suolo. I grossi rami continuavano fino a terra, ma le taglienti fronde di palma diminuivano, mentre scendevo. Mi riposai nella forcella di due rami per riprendermi dal dolore e dal giramento di testa; quando continuai la discesa, scoprii sotto di me acqua montante. Ritrassi in fretta la gamba sinistra. Il bagliore rossastro era appena sufficiente a mostrare acqua da tutte le parti, torrenti d’acqua che scorrevano fra i tronchi a spirale delle palme, mulinelli d’acqua nerastra che si frangevano come un rapinoso fiume di petrolio.

«Oh merda» sospirai. Per quella notte non sarei andato oltre. Accarezzai la vaga idea di costruire una zattera. Mi trovavo su un pianeta diverso, perciò dovevano esserci due teleporter, uno a monte e un altro a valle. Fin lì, in qualche modo, c’ero arrivato. E già una volta avevo costruito una zattera.

"Sì, quando stavi bene, a pancia piena, con due gambe sane e gli attrezzi, una scure e una torcia laser per esempio. Ora non hai neppure tutt’e due le gambe."

"Piantala, per favore. Piantala!"

Chiusi gli occhi e cercai di prendere sonno. Ora avevo i brividi per la febbre. Non ci badai e cercai di pensare alla storia che avrei raccontato a Aenea quando ci saremmo rivisti.

"In realtà non sei affatto convinto che la rivedrai, vero?"

«Chiudi la maledetta boccaccia!» La mia voce si perdette nel rumore della pioggia sul fogliame della giungla e nel furioso turbinio d’acqua mezzo metro più in basso. Capii che sarei dovuto risalire di un paio di metri sui rami da cui ero appena sceso con tanta fatica e sofferenza. Non era da escludere che il livello dell’acqua salisse. Sarebbe stata una vera ironia: faticare tanto, solo per farsi spazzare via più facilmente. Meglio abbondare e risalire di tre o quattro metri. Avrei cominciato fra un minuto. Dovevo solo riprendere fiato e aspettare che le ondate di dolore si calmassero un poco. Al massimo fra due minuti.


Mi svegliai in una luce che pareva pappetta annacquata. Ero disteso di traverso su vari rami incurvati, a solo qualche centimetro da una distesa d’acqua agitata e grigia che si muoveva fra i tronchi a spirale sotto la chiara spinta di una corrente. C’era ancora una penombra da crepuscolo inoltrato. Per quel che potevo saperne, forse avevo dormito tutto il giorno ed ero pronto a iniziare un’altra notte infinita. Pioveva ancora, ma poco più di una pioggerellina. La temperatura era tropicale, anche se per la febbre non potevo essere buon giudice, e l’umidità era altissima.

Avevo dolori dappertutto. Non mi era facile separare il sordo dolore alla gamba rotta dal dolore alla testa, alla schiena, alle viscere. Ogni volta che giravo la testa, mi pareva di avere nel cranio una palla di mercurio che per un bel pezzo continuava a cambiare pesantemente posizione. Le vertigini mi diedero di nuovo la nausea, ma non avevo più niente da vomitare. Rimasi aggrappato nell’intrico di rami e contemplai le glorie dell’avventura.

"La prossima volta che ti serve una commissione, ragazzina, manda A. Bettik."

La luce non svanì, ma neppure divenne più vivida. Cambiai posizione ed esaminai l’acqua che scorreva nei pressi: grigia, increspata da mulinelli, piena di detriti, fronde di palma, vegetazione morta. In alto non vidi segno del kayak e della paravela. Ormai i pezzi di fibra di vetro e di stoffa caduti giù nella lunga notte erano stati spazzati via.

Pareva un allagamento, come quando le precipitazioni nelle paludi sopra la baia Toschahi, su Hyperion, depositavano il limo per un altro anno. Una inondazione temporanea. Ma capii che quella foresta inondata, quell’infinito acquitrino di umida giungla, poteva benissimo essere una condizione permanente, lì. Dovunque "lì" fosse.

Studiai l’acqua: opaca, torbida come latte grigio. Poteva essere profonda tanto alcuni centimetri quanto parecchi metri. Gli alberi sommersi non fornivano alcun indizio. La corrente era veloce, ma non così veloce da portarmi via, se avessi mantenuto la presa sui rami che pendevano, bassi, sulla torbida distesa d’acqua. Con un po’ di fortuna, senza gli equivalenti locali delle cisti di fango o degli acari dracula o delle aguglie piranha che pullulavano nella paludi di Hyperion, sarei riuscito ad andare a guado verso… qualche posto.

"Per guadare occorrono due gambe, Raul, ragazzo mio. Mi sa che ti toccherà saltellare nel fango su un piede solo."

E va bene, saltellare nel fango, allora. Mi afferrai con tutt’e due le mani al ramo e calai nella corrente la gamba sinistra, quella buona, tenendo la destra appoggiata al largo ramo dove ero disteso. La manovra mi causò nuove fitte di dolore, ma continuai ad abbassare il piede fin dentro l’acqua fangosa, poi vi infilai la caviglia e il polpaccio, poi il ginocchio, poi cambiai posizione per scoprire se potevo reggermi in piedi… e tesi i muscoli delle braccia, perché la gamba ferita era scivolata dal ramo, causandomi un’ondata di sofferenza che mi costrinse ad ansimare.

L’acqua era profonda meno di un metro e mezzo. Riuscivo a stare dritto sulla gamba buona: l’acqua mi arrivava alla cintola e mi schizzava il petto. Era tiepida e pareva lenire la sofferenza della gamba rotta.

"Tutti quei graziosi e pimpanti microbi in questo brodo tiepido, molti di loro mutati dai giorni delle navi seminatrici. Già si leccano le ganasce, Raul, vecchio mio."

«Sta’ zitto!» dissi fiaccamente, guardandomi intorno. Avevo l’occhio sinistro tumefatto e incrostato di sangue rappreso, ma riuscivo a utilizzarlo. La testa mi doleva.

Innumerevoli tronchi d’albero che si alzavano dall’acqua grigia fino alla grigia pioggerella su tutti i lati, fronde gocciolanti e rami di un grigio verdastro così scuro da parere quasi nero. Alla mia sinistra il panorama pareva un pochino più vivido. E in quella direzione il fango pareva un po’ più solido sotto i piedi.

Cominciai a muovermi da quella parte, spostando avanti il piede sinistro e cambiando presa di ramo in ramo, a volte chinandomi sotto fronde pendenti, a volte deviando di lato con un movimento da torero per consentire il passaggio di rami secchi o di altri detriti portati dalla corrente. Il cammino verso la zona più luminosa richiese varie ore. Ma non avevo niente di meglio da fare.


La giungla allagata terminava in un fiume. Appeso all’ultimo ramo, sentii la corrente che cercava di tirarmi via la gamba buona e fissai l’infinita distesa d’acqua grigia. Non scorgevo la riva opposta, non perché la distesa fosse senza limiti, visto che le correnti e i mulinelli si spostavano da destra a sinistra e rivelavano che si trattava di un fiume e non di un lago o di un oceano, ma perché la nebbia o bassa nuvolaglia intorbidiva l’aria fin quasi alla superficie dell’acqua e nascondeva qualsiasi cosa distasse più di un centinaio di metri. Acqua grigia, gocciolanti alberi grigioverdastri, nuvole grigio scuro. La luce pareva diminuire. La notte era in arrivo.

Con la gamba in quello stato non potevo proseguire oltre, avevo fatto il massimo. La febbre infuriava. Malgrado la temperatura da giungla, battevo i denti e controllavo a malapena il tremito delle mani. In qualche momento della faticosa avanzata nella giungla coperta d’acqua avevo aggravato la frattura a un punto tale che per il male avevo voglia di urlare. No, lo ammetto, urlavo davvero! Piano, dapprima; ma con il passare delle ore e l’intensificarsi della sofferenza e il peggiorare della situazione, urlavo brani di marcette della Guardia nazionale, poi limericks sconci imparati quando lavoravo sulle chiatte del fiume Kans, infine semplici grida di dolore.

"Ecco la risposta all’idea di costruire una zattera."

Cominciavo ad abituarmi alla caustica voce che mi risuonava nella testa. La voce e io avevamo fatto pace, quando avevo capito che non mi incitava a distendermi per aspettare la morte, ma si limitava a criticare i miei inadeguati sforzi per restare in vita.

"Ecco qui la tua migliore possibilità di una zattera, Raul, vecchio mio."

Il fiume trasportava un albero intero, il cui tronco ritorto a spirale rotolava nell’acqua profonda. A quel punto ero immerso fino alle spalle e mi trovavo a dieci metri dalla corrente vera e propria.

«Già» risposi. Sentii scivolare le dita sulla liscia corteccia del ramo a cui mi reggevo. Cambiai posizione e mi tirai un po’ più su. Qualcosa mi sfregò la gamba rotta e stavolta fui sicuro di avere davanti agli occhi un turbinio di punti neri. «Già» ripetei. Quali saranno, mi domandai, le probabilità di non perdere i sensi, di avere luce sufficiente, di restare vivo abbastanza a lungo da prendere al volo uno di quegli alberi pendolari? Tanto per cominciare, era impensabile arrivaci a nuoto. Avevo la gamba destra fuori uso e gli altri tre arti mi tremavano come foglie. Avevo appena la forza di reggermi a quel ramo ancora per qualche minuto. «Già» dissi ancora. «Merda!»

"Mi scusi, signor Endymion, dice a me?"

A quella voce rischiai di perdere la presa sul ramo. Sempre appeso con la destra, abbassai la sinistra e mi guardai il polso, nella luce sempre più fioca. Il comlog mostrava un lieve bagliore che l’ultima volta non c’era.

«Be’, che il diavolo mi porti! Ti credevo rotto.»

"Lo strumento è danneggiato, signore. La memoria è stata cancellata. I circuiti neurali sono completamente morti. Solo i chips di trasmissione funzionano grazie all’energia d’emergenza."

Mi accigliai. «Non capisco. Se la tua memoria è stata cancellata e i tuoi circuiti neurali sono…»

Il fiume mi tirò la gamba rotta, allettandomi a lasciare la presa. Per un momento non riuscii a parlare.

«Nave?» dissi alla fine.

"Sì, signor Endymion?"

«Tu sei qui!»

"Naturalmente, signor Endymion. Proprio dove lei e la signorina Aenea mi avete ordinato di restare. Sono lieta di annunciarle che tutte le riparazioni sono state…"

«Fatti vedere» ordinai. Era quasi buio. Filamenti di nebbia si protendevano verso di me sul fiume nerastro.

La nave si alzò, gocciolante, orizzontale, la prua a soli venti metri da me nel centro della corrente, bloccando il flusso come un masso spuntato all’improvviso, librata ancora per metà in acqua, un nero leviatano che divideva il fiume in rumorosi rivoli. Le luci di navigazione palpitavano a prua e sulla nera pinna da pescecane molto più indietro nella nebbia.

Scoppiai a ridere. O a piangere. O forse mi limitai a gemere.

"Desidera raggiungermi a nuoto, signore? O è meglio che venga io da lei?"

Le dita mi scivolavano. «Vieni tu» dissi e afferrai di nuovo il ramo, con tutt’e due le mani.


Nel ponte di crio-fuga, dove Aenea soleva dormire durante il viaggio da Hyperion, c’era un medibox. Era antico — be’, tutta la nave era antica — ma il suo autoriparatore funzionava, era ben rifornito e per giunta, secondo quando aveva raccontato la garrula nave nel viaggio da Hyperion, ai tempi del console era stato modificato dagli Ouster.

Giacqui nel tepore ultravioletto, mentre morbide appendici mi sondavano la pelle, mi disinfettavano le ferite, mi suturavano i tagli più profondi, mi somministravano flebo di analgesici e terminavano la diagnosi.

"Si tratta di una frattura composta, signor Endymion" disse la nave. "Vuole esaminare le radiografie e le lastre a ultrasuoni?"

«No, grazie» risposi. «Come l’aggiustiamo?»

"Abbiamo già cominciato" disse la nave. "Mentre parliamo, l’osso viene sistemato. Il collante plastico e il graffaggio ultrasonico inizieranno mentre lei dormirà. A causa della riparazione ai nervi e ai tessuti muscolari danneggiati, il robochirurgo raccomanda almeno dieci ore di sonno, mentre inizia le procedure."

«Senz’altro» dissi.

"La maggiore preoccupazione diagnostica riguarda la febbre, signor Endymion."

«È una conseguenza della frattura, no?»

"No" disse la nave. "Pare che lei abbia un’infezione renale piuttosto virulenta. Se non curata, l’avrebbe uccisa prima degli effetti collaterali del femore rotto."

«Che allegro pensiero!»

"Allegro, signore?"

«Lascia perdere. Hai detto che sei completamente riparata?»

"Completamente, signor Endymion. Funziono meglio di prima, se mi perdona una piccola vanteria. Vede, per la perdita di alcuni materiali temevo di dover sintetizzare stampi carbonio-carbonio dai substrati rocciosi del fiume, in verità piuttosto poveri, ma ho scoperto presto che riciclando alcuni componenti non usati degli smorzatori di compressione resi superflui dalle migliorie Ouster, potevo evincere un aumento del 32 per cento nell’efficienza autoriparante, se…"

«Lascia perdere, Nave» la interruppi. L’assenza di dolore mi rendeva quasi stordito. «Quanto ci hai messo a terminare le riparazioni?»

"Cinque mesi standard. Otto mesi locali e mezzo. Questo pianeta ha un insolito ciclo lunare con due lune molto irregolari che ho postulato siano asteroidi catturati, a causa del…"

«Cinque mesi» ripetei. «E per tre anni e mezzo ti sei limitata ad aspettare?»

"Sì, secondo gli ordini. Mi auguro che tutto sia a posto, con A. Bettik e la signorina Aenea."

«Me lo auguro anch’io, Nave. Ma lo scopriremo presto. Sei pronta a lasciare questo posto?»

"Tutti i sistemi della nave sono funzionanti, signor Endymion. In attesa del suo ordine."

«Ordine dato. Partiamo.»

La nave trasmise via cavo l’ologramma che mostrava noi che salivamo sopra il fiume. Fuori era buio, ma le lenti a visione notturna mostrarono il fiume ingrossato e l’arcata del teleporter, poche centinaia di metri a monte. Nella nebbia, non l’avevo vista. Ci alzammo sopra il fiume, sopra la turbinante nuvolaglia.

«Dall’ultima volta il fiume si è alzato» commentai.

"Sì" disse la nave, mentre compariva la curvatura del pianeta e il sole si alzava di nuovo sopra le nuvole lanose. "Straripa per un periodo di circa tre mesi standard ogni ciclo orbitale locale, equivalente a circa a undici mesi standard."

«Allora adesso sai che pianeta è questo? Quando ce ne andammo, non eri tanto sicura.»

"Sono abbastanza sicura che questo pianeta non sia fra i 2867 pianeti elencati nel Catalogo Generale Galattico" disse la nave. "Le mie osservazioni astronomiche hanno mostrato che non si trova nello spazio della Pax né il quello dell’ex Rete dei Mondi né nella Periferia."

«Non è nella Rete dei Mondi né nella Periferia?» ripetei. «Dove si trova, allora?»

"Circa duecentottanta anni luce a nordovest galattico del sistema solare della Periferia noto come NNCG 4645 Delta" disse la nave.

Un po’ intontito per gli analgesici, dissi: «Un nuovo pianeta. Al di là della Periferia. Allora perché aveva i teleporter? Perché faceva parte del Teti?»

"Non lo so, signor Endymion. Ma dovrei dire a questo punto che il pianeta possiede una moltitudine di interessanti forme di vita che ho osservato da lontano mentre riposavo sul fondo del fiume. Oltre alla creatura simile a una manta fluviale che lei ha visto a valle, ci sono più di trecento specie di fauna avicola e almeno due specie di fauna umanoide."

«Due specie di fauna umanoide? Vuoi dire esseri umani?»

"No, signore. Esseri umanoidi. Decisamente non umani della Vecchia Terra. Una varietà è piuttosto piccola, poco più di un metro d’altezza, con simmetria bilaterale ma struttura scheletrica del tutto diversa e una colorazione decisamente rossastra."

Ricordai il monolito di pietra rossa che Aenea e io avevamo scoperto durante il viaggio d’esplorazione sul tappeto Hawking ormai perduto, nella nostra breve permanenza su quel pianeta. Piccoli gradini scavati nella roccia liscia. Scossi la testa per schiarirmi i pensieri.

«Interessante, Nave» dissi. «Ma stabiliamo la nostra destinazione.» La curvatura del pianeta era adesso più pronunciata e le stelle brillavano. La nave continuò a salire. Oltrepassammo una luna a forma di patata e ci allontanammo ancora dall’orbita. Il pianeta senza nome divenne una sfera abbagliante di nubi illuminate dal sole. «Conosci il pianeta T’ien Shan, detto anche "Montagne del cielo"?»

"T’ien Shan" ripeté la nave. "Sì. Se ben ricordo, non ci sono mai stata, ma ho le coordinate relative. Un piccolo pianeta nella Periferia, colonizzato da profughi della terza guerra civile cinese, nella tarda Egira."

«Avresti difficoltà a raggiungerlo?»

"Non ne prevedo. Un semplice balzo a propulsione Hawking. Però le consiglio di usare il robochirurgo come cuccetta di crio-fuga durante il balzo."

Scossi la testa. «Resterò sveglio, Nave. Almeno dopo che il doc mi avrà sistemato la gamba.»

"Non glielo consiglierei, signor Endymion."

Mi accigliai. «Perché? Aenea e io siamo rimasti svegli, durante gli altri balzi.»

"Sì, ma quelli erano viaggi relativamente brevi nell’ambito della vecchia Rete dei Mondi, quello che ora si chiama spazio della Pax. Questo viaggio sarà un po’ più lungo."

«Quanto lungo?» All’improvviso sentii un brivido. Il nostro balzo più lungo, fino al sistema di Vettore Rinascimento, aveva richiesto dieci giorni di tempo nave e cinque mesi di debito temporale rispetto alla Flotta della Pax che ci aspettava. «Quanto lungo?» ripetei.

"Tre mesi, diciotto giorni, sei ore e alcuni minuti, tempo standard" rispose la nave.

«Non è poi un brutto debito temporale» notai. Avevo lasciato Aenea poco dopo il suo sedicesimo compleanno. Avrebbe guadagnato qualche mese nei miei confronti. Forse le sarebbero cresciuti i capelli. «Abbiamo avuto un debito temporale più alto, quando siamo balzati nel sistema di Vettore Rinascimento.»

"Non mi riferivo al debito temporale, signor Endymion" disse la nave. "Parlavo di tempo nave."

Altro che brivido, stavolta! Mi parve di avere la lingua impastata. «Tre mesi di tempo nave… quanto, di debito temporale?»

"Per una persona che sia in attesa su T’ien Shan?" domandò la nave, mentre il pianeta giungla diventava un puntino alle nostre spalle perché avevamo iniziato ad accelerare verso il punto di traslazione. "Cinque anni, due mesi e un giorno. Come sa, l’algoritmo del debito temporale non è una funzione lineare della durata C-più, ma comprende fattori come…"

«Oh, Cristo!» dissi, dandomi una manata sulla fronte appiccicosa di sudore, nella bara del robochirurgo. «Oh, maledizione!»

"Soffre molto, signor Endymion? Dall’algesimetro non si direbbe, ma le sue pulsazioni sono divenute irregolari. Possiamo aumentare il livello di analgesico…"

«No!» la interruppi, brusco. «No, sto bene. Solo… cinque anni… maledizione.»

"Aenea lo sapeva?" mi domandai. "Sapeva che la nostra separazione sarebbe durata anni della sua vita?"

Forse avrei dovuto attraversare con la nave il teleporter a valle del fiume. No, Aenea aveva detto di prendere la nave e di portarla su T’ien Shan. L’ultima volta il teleporter ci aveva portati su Mare Infinitum; chissà dove ci avrebbe portati stavolta.

«Cinque anni» borbottai. «Ah, maledizione. Aenea sarà ormai… maledizione, Nave… Aenea avrà ventun anni. Sarà una donna adulta. Mi perderò… non vedrò… Aenea non ricorderà…»

"È sicuro di non soffrire, signor Endymion? I suoi dati vitali sono turbolenti."

«Non badare a quelli, Nave.»

"Devo preparare il robochirurgo per la crio-fuga?"

«Non ancora, Nave. Digli di mettermi in crio mentre mi fa guarire la gamba stanotte e mi cura la febbre. Voglio almeno dieci ore di sonno. Quanto manca al punto di traslazione?»

"Solo diciassette ore. Si trova dentro questo sistema solare."

«Bene. Svegliami fra dieci ore. E preparami una buona colazione. Come quelle che facevo durante il viaggio quando era "domenica".»

"Non mancherò. Desidera altro?"

«Sì. Hai per caso qualche oloregistrazione di… di Aenea… nel nostro ultimo viaggio?»

"Ho in archivio parecchie ore di tali registrazioni, signor Endymion. La nuotata nella bolla a gravità zero, sulla loggia esterna. La disputa sulla religione contrapposta al razionalismo. Le lezioni di volo nel pozzo centrale, quando…"

«Bene, preparale. Le guarderò mentre faccio colazione.»

"Programmerò il robochirurgo per tre mesi di sonno in crio-fuga dopo l’intervallo di sette ore di domani."

Respirai a fondo. «D’accordo.»

"Il robochirurgo chiede di iniziare le riparazioni ai nervi e di iniettare subito degli antibiotici, signor Endymion. Desidera dormire?"

«Sì.»

"Con sogni o senza? La medicazione può essere personalizzata per l’uno o l’altro stato neurologico."

«Senza sogni» dissi. «Niente sogni, per ora. Più tardi ci sarà abbastanza tempo per i sogni.»

"Molto bene, signor Endymion. Buona notte."

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