BRAN

Clink!

Nient’altro che un flebile tintinnio, acciaio che urta contro la pietra. Sollevò il muso dalle zampe, rimanendo in ascolto, annusando la notte.

La pioggia della sera aveva risvegliato centinaia di odori assopiti, rendendoli nuovamente pieni, forti. Erba e spine, more schiacciate sul terreno, fango, vermi, foglie putrescenti, un ratto che striscia tra i cespugli. Percepì l’odore aspro del manto nero di suo fratello, e il sentore metallico del sangue dello scoiattolo che aveva appena ucciso. Sopra di lui, altri scoiattoli si muovevano tra i rami. Sapevano di pelo bagnato e di paura, i loro piccoli artigli grattavano la corteccia. Il suono che aveva udito assomigliava a quel grattare.

Lo sentì di nuovo, clink, e poi qualcosa che raschiava. Si levò sulle quattro zampe. Drizzò le orecchie, sollevando la coda. Lanciò un ululato lungo e vibrante, un urlo che voleva risvegliare i dormienti. Ma i cumuli di roccia-uomo rimasero oscuri, morti. Era una notte umida e immota, una notte che spingeva gli uomini a rintanarsi nei loro buchi. La pioggia era cessata, ma gli uomini continuavano a nascondersi dall’umidità, raccogliendosi intorno al fuoco nelle loro caverne fatte di mucchi di pietre.

Suo fratello apparve tra gli alberi. Si muoveva quasi nello stesso modo silenzioso di un altro loro fratello, che lui ricordava molto bene. Quello bianco, con gli occhi rosso sangue. Gli occhi di questo fratello, invece, erano pozze di tenebre, ma la pelliccia sul suo collo era ritta. Anche lui aveva udito i suoni. E anche lui sapeva che significavano pericolo.

Questa volta, il tintinnio e il raschiare vennero seguiti dal fruscio rapido, soffice, di piedi nudi contro la roccia. Il vento portò l’odore quasi impercettibile di una presenza-uomo ignota. Estraneo. Pericolo. Morte.

Si avventò verso la fonte del suono e suo fratello correva con lui. Le pietre si sollevavano davanti a loro, muraglie viscide e bagnate. Denudò le zanne, ma la roccia-uomo rimase indifferente. Una grata incombeva poco più oltre, un nero rettile di ferro avviluppato strettamente attorno a sbarre e a pali. Si lanciò contro di essa. Impattò. Il rettile di ferro sussultò, cigolò. Ma non cedette. Oltre le sbarre, poteva vedere in basso, verso il fondo del lungo fossato di pietra che correva tra i muri, linea di divisione con la pietraia al di là. Non c’era modo di superare quella barriera. Era in grado di spingere tra le sbarre solo parte del muso affilato, ma niente di più. Molte e molte volte suo fratello aveva tentato di rompere con i denti le ossa nere della grata. Nulla da fare, impossibile spezzarle. Avevano anche cercato di scavare al di sotto della grata. Niente da fare nemmeno così: c’erano grandi pietre piatte parzialmente coperte dal terriccio e dalle foglie trascinate dal vento.

Ringhiando, si mosse avanti e indietro di fronte alla grata. Si lanciò contro di essa ancora una volta. Il metallo si spostò di poco e lo rigettò indietro. “Sbarrata” sentì sussurrare. “Incatenata.” Era la voce che lui non udiva, la traccia priva di odore. Anche tutte le altre aperture erano sbarrate, là dove le porte interrompevano la muraglia della roccia-uomo. Porte di legno spesso e robusto. No, nessuna possibilità.

“Invece una possibilità esiste.” Di nuovo il sussurro. Ebbe come l’impressione di vedere l’ombra di un grande albero ricoperto di aghi. Emergeva dalla terra scura, stranamente inclinato, alto più di dieci uomini. Si guardò attorno. Nessun albero. Non c’era e basta. “L’altro lato del parco degli dei, l’albero-sentinella. Presto… fa’ presto!”

Da qualche parte nell’oscurità della notte venne un grido soffocato, immediatamente troncato.

In fretta, molto in fretta, girò su se stesso e corse di nuovo tra gli alberi. Le foglie bagnate frusciarono sotto le sue zampe. I rami frustarono il suo corpo asciutto, lanciato nella corsa. Poteva udire suo fratello seguirlo da vicino. Arrivarono come arieti sotto l’albero del cuore, sul margine dello stagno dalle acque fredde. Superarono cespugli di more, passarono sotto un groviglio di rami di quercia, di ceneri di rovi. Furono dalla parte opposta del giardino invaso dalle tenebre…

“Eccolo!”

L’oggetto che non era stato in grado di vedere, simile a un’ombra obliqua, che puntava verso i tetti della roccia-uomo. “Albero-sentinella” tornò a dirgli il sussurro.

Tornò anche una diversa memoria: quella di come si faceva a scalarlo. Gli aghi da tutte le parti, che gli graffiavano la faccia scoperta, che scivolavano lungo il suo dorso. Le mani appiccicose di resina, l’acre odore di pino che emanava da essa. Il sentinella, così inclinato, contorto com’era, i rami talmente ravvicinati l’uno all’altro da formare una specie di scala naturale verso il bordo del tetto, era un albero facile da scalare per un ragazzo.

Ringhiando, annusò attorno alla base dell’albero. Sollevò una gamba e lo segnò con un getto di urina. Un ramo basso gli sfiorò il muso. Lui l’addentò, contorcendo il muso, mentre il ramo si spezzava, e veniva strappato via. Aveva le fauci piene di aghi di pino, del gusto acre della resina. Scosse il capo e ringhiò di nuovo.

Suo fratello era seduto sulle zampe posteriori. Sollevò il muso ed emise un lungo ululato, carico di nera sofferenza. Non poteva essere; loro non erano scoiattoli e non erano cuccioli di uomo. Non erano in grado di salire su per i tronchi degli alberi, aggrappandosi con soffici zampe rosate e goffi piedi. Loro erano corridori, cacciatori, predatori.

Da qualche parte nella notte, oltre la pietra che li circondava, i cani si svegliarono e iniziarono ad abbaiare. Uno, e poi un altro, e poi un altro ancora, e poi tutti quanti. Un concerto assordante. E anche loro, intrappolati nel parco degli dei lo sentirono: l’odore del nemico, e della paura.

Una furia disperata dilagò dentro di lui, torrida come la fame. Corse via dalle mura, allontanandosi tra gli alberi, con le ombre dei rami e delle chiome che danzavano sulla sua pelliccia… Si girò, corse nuovamente indietro. Le sue zampe volarono sul terreno, sollevando getti di foglie bagnate e aghi di pino. Per un breve momento fu un cacciatore, e un grande cervo stava fuggendo davanti a lui. Per un breve momento, poté quasi vedere la sua preda, percepirne l’odore. Il ritmo della sua corsa crebbe. Divenne possente, imperioso. L’odore della paura stava facendo martellare il suo cuore. La bava ribolliva nelle sue fauci. Raggiunse l’albero-sentinella, spiccò un balzo. Cominciò a scalare il tronco, gli artigli affondavano nella corteccia alla ricerca di appigli. Continuò a salire. Uno, due, tre balzi ascendenti, senza rallentare fino a quando giunse alle ramificazioni inferiori. Poi rami più sottili s’impigliarono tra le sue zampe, altri lo frustarono sul muso, negli occhi. Aghi di colore grigio-verde si dispersero mentre lui si apriva la strada tra di essi, e le sue spalle spezzavano altri rami. Fu costretto a rallentare ancora di più. Qualcosa si attorcigliò intorno a una delle sue zampe posteriori. Lui si divincolò con un strappo, ringhiando di ferocia. Sotto di lui, il tronco si restrinse. La salita adesso era ripida, quasi verticale e viscida di pioggia. Nell’artigliare la corteccia, la vide rompersi come fragile pelle d’animale. Era a un terzo della strada, a metà strada. Il tetto era vicino, molto vicino. Mise giù una zampa, la sentì scivolare all’improvviso sulla curva umida del tronco… E di colpo si ritrovò a scivolare indietro, annaspando. Ululò di paura e ululò di furore. Continuò a cadere, a cadere! Il terreno salì verso di lui, come per spezzarlo in due…


Brandon Stark si contorse nel letto, tornando brutalmente alla coscienza. Era attorcigliato in un groviglio di coperte, aveva il respiro affannoso.

«Estate» chiamò ad alta voce. «Estate!…»

Aveva male a una spalla, come se l’avesse picchiata cadendo. Ma sapeva che si trattava dell’eco spettrale di ciò che il lupo stava percependo. “Jojen ha detto la verità. Per metà io sono una belva.” Da fuori, continuava ad arrivare il debole abbaiare dei cani. “Il mare è arrivato a Grande Inverno. Sta dilagando oltre le mura, proprio come Jojen ha visto.”

Bran si afferrò alla sbarra di metallo sopra il letto e si tirò su, chiamando per ottenere aiuto. Non venne nessuno. E, dopo un momento, ricordò che nessuno sarebbe venuto. L’uomo di guardia fuori della sua porta non c’era più, ser Rodrik aveva preso tutti gli uomini validi su cui era riuscito a mettere le mani. A Grande Inverno era rimasta solo una guarnigione simbolica.

Tutti gli altri se ne erano andati otto giorni prima, seicento uomini da Grande Inverno e dai fortini circostanti. Cley Cerwyn stava guidando altri trecento uomini a incontrarli lungo la strada, e maestro Luwin aveva inviato molti corvi messaggeri per radunare altre truppe provenienti da Porto Bianco, dalla terra delle tombe dei Primi Uomini, addirittura da luoghi sperduti nel cuore della foresta del lupo. Piazza di Thorren era stata attaccata da un mostruoso signore della guerra chiamato Dagmer Mascella spaccata. La Vecchia Nan diceva che non poteva essere ucciso. Una volta un avversario gli aveva diviso il cranio in due con un colpo d’ascia, ma Dagmer era un essere talmente rude da aver premuto insieme le due metà e averle tenute una contro l’altra fino a quando non si erano rinsaldate. “Che Dagmer abbia vinto?” Piazza di Thorren era a molti giorni di cavallo da Grande Inverno, eppure…

Bran si sollevò dal letto, muovendosi da una barra all’altra fino a raggiungere la finestra. Le sue dita annasparono un po’ mentre spalancava le imposte. Il cortile del castello era vuoto, tutte le finestre oscurate. Grande Inverno dormiva.

«Hodor!» gridò verso il basso, con quanto fiato aveva in corpo. Hodor dormiva sopra le stalle, ma forse, se lui avesse urlato abbastanza forte, avrebbe sentito. E se non Hodor, qualcun altro. «Hodor! Vieni, presto! Osha! Meera, Jojen! Qualcuno!…» Bran si portò entrambe le mani ai lati della bocca. «Hooooooooodooooooor!»

La porta alle sue spalle si aprì di schianto. Qualcun altro entrò. Solo che non si trattava di nessuno che Bran conoscesse. L’individuo indossava un corpetto di cuoio su cui era cucita una specie di corazza fatta di dischi di ferro sovrapposti. In mano stringeva un pugnale, e di traverso sulla schiena aveva un’ascia da guerra.

«Che cosa vuoi?» di colpo, Bran ebbe paura. «Questa è la mia stanza. Vattene fuori di qui.»

Theon Greyjoy irruppe nelle stanza alle spalle del primo guerriero: «Non vogliamo farti del male, Bran».

«Theon?» il sollievo quasi diede a Bran le vertigini. «È Robb che ti manda? È qui anche lui?»

«Principe Theon. Adesso, Bran, siamo principi tutti e due, tu e io. Chi lo avrebbe mai immaginato, eh?»

«Immaginato cosa?»

«Che io prendessi il tuo castello, mio principe.»

«Prendere… Grande Inverno?» Bran scosse il capo. «Non… Non puoi averlo fatto.»

«Lasciaci soli, Werlag» ordinò Theon. L’uomo con il pugnale e la corazza con i dischi di ferro si ritirò. Theon si sedette sul letto. «Ho mandato quattro dei miei uomini a scalare le mura con rampini e funi. Sono stati loro ad aprire la porta della garitta per far entrare gli altri. I miei guerrieri adesso stanno finendo la battaglia contro la tua guarnigione. Hai la mia parola: Grande Inverno adesso è mia!»

Bran non riusciva a comprendere: «Ma tu sei il protetto di mio padre».

«Ora tu e tuo fratello siete i miei protetti. Quando i combattimenti saranno finiti, i miei uomini raduneranno la tua gente nella Sala Grande. Tu e io parleremo davanti a tutti. Tu dirai che ti sei arreso a me, e che Grande Inverno è mia. Ordinerai di servirmi e obbedirmi come loro nuovo lord.»

«No, non lo farò» rispose Bran. «Ti combatteremo e ti sbatteremo fuori, invece. Non mi arrenderò mai. E tu non potrai farmi dire che l’ho fatto.»

«Questo non è un gioco, Bran, per cui non fare il ragazzino con me. Non ho intenzione di tollerarlo. Il castello è mio, ma questa gente è ancora tua. E se il principe vuole che a loro non venga fatto del male, allora il principe farà quanto gli viene ordinato.» Theon si alzò e andò alla porta. «Qualcuno verrà a vestirti e a portarti nella Sala Grande. Pensa bene a quello che dirai, Bran.»


L’attesa che seguì rese Bran ancora più agitato. Rimase sul sedile vicino alla finestra, osservando le torri oscure, le mura nere come ombre. A un certo punto, credette di udire delle grida levarsi da dietro il corpo di guardia, e forse un suono che avrebbe potuto essere un cozzare di spade. Solo che non aveva le orecchie di Estate, né il suo olfatto. “Da sveglio, sono ancora diviso. Ma dormendo, quando sono Estate, posso sentire odore e udire suoni, correre e combattere.”

La porta si aprì di nuovo. Bran si era aspettato di vedere Hodor o una delle servette. Invece si trattava di maestro Luwin, che reggeva una candela.

«Bran… Sai quello che è accaduto? Ti è stato detto?»

Aveva un’escoriazione sopra l’occhio sinistro. Il sangue gli scorreva lungo il volto.

«È venuto Theon. Ha detto che Grande Inverno adesso è sua.»

«Hanno attraversato a nuoto il fossato» il maestro posò la candela e cercò di togliersi il sangue dalla guancia. «Hanno scalato le mura con funi e uncini. Hanno attaccato con l’acciaio in pugno, nudi e gocciolanti.» Sedette su una sedia presso la porta, mentre il sangue fresco riprendeva a scorrere. «C’era Alebelly sul portale. Lo hanno sorpreso nella garitta e lo hanno ucciso. Testa di fieno è ferito. Ho avuto appena il tempo d’inviare due corvi messaggeri prima che sfondassero la porta del mio studio. L’uccello per Porto Bianco è passato, ma l’altro lo hanno colpito con le frecce.» L’anziano sapiente fissò il letto sfatto. «Ser Rodrik ha portato via troppi dei nostri uomini, troppi… Ma io ho sbagliato tanto quanto lui. Non mi sono reso conto del pericolo incombente, non mi sono reso conto…»

“Jojen lo aveva previsto.” Questo, Bran lo sapeva. «È meglio che mi aiuti a vestirmi…»

«Sì, va bene.» Nel pesante baule con bande d’acciaio ai piedi del letto, il maestro trovò biancheria, brache e una tunica. «Tu sei lo Stark di Grande Inverno e l’erede di Robb. Devi apparire come un principe.» Insieme, riuscirono a vestire Bran come si confaceva a un lord.

«Theon vuole che io gli consegni il castello» disse Bran mentre il maestro sistemava il fermaglio della cappa, quello a forma di testa di lupo, d’argento e lacca nera, che a Bran piaceva così tanto.

«Non c’è disonore in questo. Un lord deve proteggere la sua gente. Luoghi crudeli generano esseri crudeli, Bran. Voglio che tu te ne ricordi nell’affrontare questi uomini di ferro. Il lord tuo padre fece quanto poté per ingentilire Theon, ma temo sia stato troppo poco e troppo tardi.»

L’uomo di ferro che venne a prenderli era un individuo dalla corporatura tozza, con una barba nera come il carbone che gli arrivava fino a metà del petto. Trasportò Bran con relativa facilità, per quanto non apparisse troppo soddisfatto di quell’incarico. La stanza di Rickon si trovava a metà delle scale a chiocciola.

«Voglio la mamma» il bimbo di quattro anni faceva i capricci per essere stato svegliato. «La voglio. E anche Cagnaccio.»

«Tua madre è lontana, mio principe» maestro Luwin gli infilò una vestaglia. «Ma ci sono qui io, e c’è anche Bran.» Prese Rickon per mano e lo condusse giù per le scale.

Più in basso, incontrarono Meera e Jojen, che venivano spinti fuori dalla loro stanza da un uomo di ferro calvo, la cui picca era più alta di lui di un metro. Quando incrociò lo sguardo di Bran, gli occhi color muschio di Jojen erano due verdi pozze di dolore. Altri uomini di ferro avevano preso i Frey.

«Tuo fratello ha perso il suo regno» disse Piccolo Walder a Bran. «Adesso non sei più un principe, sei solamente un ostaggio.»

«Lo stesso vale per te» ribatté Jojen. «E per me, e per tutti noi.»

«Non stavo parlando con te, mangiaranocchie.»

Uno degli uomini di ferro fece strada reggendo una torcia. La pioggia aveva ripreso a cadere. In breve la fiamma si spense. Nell’attraversare di corsa il cortile, poterono udire i lupi ululare nel parco degli dei. “Spero proprio che Estate non si sia fatto male cadendo da quell’albero.”


Theon Greyjoy sedeva sull’alto scranno degli Stark.

Si era tolto il mantello. Sopra la spessa cotta di maglia, indossava una tunica nera con l’emblema della piovra dorata della sua casa. Teneva le mani appoggiate sulle teste di lupo scolpite alla fine degli ampi braccioli di pietra.

«Theon si è messo sulla sedia di Robb» rilevò Rickon.

«Zitto, Rickon.»

Suo fratello era troppo piccolo per capire, ma Bran poteva sentire che pendeva su di loro la minaccia. Erano state accese altre torce, e un fuoco ardeva nel grande focolare, ma la maggior parte della sala restava immersa nell’oscurità. Le panche erano state ammassate contro le pareti, per cui non c’era posto dove sedere. La gente del castello rimaneva in piedi a piccoli gruppi, senza osare parlare. Bran vide la Vecchia Nan, con la sua bocca sdentata che si apriva e si chiudeva. Testa di fieno, con la benda insanguinata intorno al torace nudo, venne portato dentro da due altre guardie. Tym il Foruncoloso piangeva disperatamente. Anche Beth Cassel piangeva, ma di paura.

«E questi chi sarebbero?» Theon accennò ai Reed e ai Frey.

«I protetti di lady Catelyn, si chiamano entrambi Walder Frey» spiegò maestro Luwin. «Gli altri sono Meera Reed e suo fratello Jojen, figli di Howland Reed, della Torre delle Acque grigie. Sono venuti a rinnovare il loro giuramento di fedeltà a Grande Inverno.»

«Tempismo scadente, direbbe qualcuno» commentò Theon. «Ma non io. Qui siete e qui resterete» si alzò dallo scranno. «Lorren, porta il principe.»

L’uomo di ferro dalla fitta barba nera scaricò Bran sul trono come se fosse stato un sacco di granaglie.

Altra gente continuava a venire ammassata nella Sala Grande, spinta dentro con grida di minaccia e pungolata dalle lance. Gage e Osha arrivarono dalle cucine, con gli abiti ancora chiazzati di farina. Mikken il fabbro venne spinto dentro che imprecava. Farlen il mastro dei cani entrò zoppicando, cercando di sorreggere sua figlia Palla. L’abito della ragazza era stato stracciato in due. Palla lo reggeva con i pugni contratti, avanzando come se ogni passo fosse un tormento. Septon Chayle si fece avanti per aiutarla. Uno degli uomini di ferro lo buttò a terra con un calcio.

L’ultimo a entrare fu Reek, il prigioniero, preceduto dall’olezzo repellente che emanava. Bran si sentì rivoltare lo stomaco dal disgusto.

«Questo qua lo abbiamo trovato in una delle celle della torre» annunciò l’uomo di ferro che lo scortava, un giovane dai capelli rossicci e gli abiti fradici. Doveva essere uno di quelli che avevano attraversato il fossato a nuoto. Dice che lo chiamano Reek.»

«Reek, il puzzone» sogghignò Theon. «Chissà perché. Puzzi sempre così, oppure hai appena finito di fottere una scrofa?»

«Da quando mi hanno preso non fotto più nessuno, mio lord. Il mio vero nome è Hake. Ero al servizio del Bastardo di Forte Terrore, finché gli Stark non gli hanno piantato una freccia nella schiena come regalo di nozze.»

Theon trovò il dettaglio divertente: «E chi aveva sposato?».

«La vedova dell’Hornwood, mio lord.»

«Quell’arpia? Ma cos’era, cieco? Ha delle tette che sembrano otri di vino vuote, secche e cascanti.»

«Non l’ha sposata per le tette, mio lord.»

Gli uomini di ferro chiusero di schianto le porte della sala. Dall’alto scranno, Bran ne contò almeno una ventina. “Theon deve aver lasciato delle guardie alla grata e all’armeria.” Ma anche in quel caso, non potevano essere più di trenta guerrieri in tutto.

Theon sollevò una mano, per ottenere il silenzio: «Voi tutti mi conoscete…».

«Oh sì! Sei un sacco di merda fumante!…» urlò Mikken prima che l’uomo di ferro pelato lo colpisse al ventre con la punta della lancia, e poi con l’asta in piena faccia. Il fabbro crollò in ginocchio, sputando un dente.

«Mikken, stai in silenzio» Bran cercò di darsi un tono e apparire come un vero lord. Ma la voce lo tradì. Le parole gli vennero fuori in uno stridulo squittio.

«Meglio che tu dia retta al tuo signorino, Mikken» avvertì Theon. «Ha molto più buon senso di te.»

“Un lord deve proteggere la sua gente” ricordò Bran a se stesso. «Ho ceduto Grande Inverno a Theon.»

«Più forte, Bran. E chiamami principe.»

Bran alzò la voce: «Ho ceduto Grande Inverno al principe Theon. Ognuno di voi obbedirà ai suoi ordini».

«Maledetto me se lo faccio» ringhiò Mikken.

Theon si limitò a ignorarlo. «Lord Balon Greyjoy mio padre ha indossato nuovamente la sua antica corona di sale e di roccia. E si è proclamato re delle isole di Ferro. Il Nord è suo per diritto di conquista. Tutti voi adesso siete suoi sudditi.»

«In culo!» Mikken si tolse il sangue dalla bocca. «Io servo gli Stark! Non un pesce marcio traditore… aaah!» L’impugnatura della picca lo centrò alla testa, scaraventandolo nuovamente sul pavimento di pietra.

«I fabbri hanno braccia forti e teste deboli» rilevò Theon. «Ma se tutti voi mi servirete con la stessa lealtà con cui avete servito Ned Stark, scoprirete che sono il lord più generoso che potete desiderare.»

Mikken, ancora carponi, sputò una boccata di sangue. Bran cercò di fargli un cenno: “Mikken, no, ti prego…”. Inutile.

«Se credi di impossessarti del Nord con questa massa di straccioni…»

L’uomo pelato affondò la punta della lancia nel retro del collo del fabbro. L’acciaio si aprì la strada nella carne, uscì dalla gola in una fontana di sangue. Una donna urlò. Meera coprì con le sue braccia Rickon.

“Nel sangue” Bran aveva la risposta, adesso. Gliel’avevano data i sogni dell’oltre. “È nel suo stesso sangue che sta annegando…”

«Qualcun altro ha qualcosa da dire?» chiese Theon Greyjoy.

«Hodor Hodor Hodor Hodor» urlò il ragazzo dalla mente semplice, con gli occhi sbarrati.

«Per favore, fate tacere quell’idiota.»

Due uomini di ferro si misero a picchiare Hodor con le aste delle lance. Il ragazzo cadde a terra, cercando di proteggersi dai colpi con le mani.

«Sarò un lord molto migliore di Eddard Stark» riprese Theon a voce più alta, in modo da farsi udire al di sopra dei tonfi, del legno contro la carne. «Ma se oserete tradirmi, vi pentirete di averlo fatto. E non crediate che gli uomini che vedete qui siano tutta la mia forza. Presto, anche Piazza di Thorren e Deepwood Motte saranno mie. E mio zio sta navigando lungo il fiume del Sale per prendere il Moat Cailin. Se Robb Stark riuscirà a battere i Lannister, che regni pure come re del Tridente. Ma per adesso, è la Casa Greyjoy che tiene il Nord.»

«I lord degli Stark ti vinceranno» gridò Reek. «Quel maiale rigonfio a Porto Bianco per primo. E anche gli Umber e i Karstark. A te servono uomini. Se mi liberi, io sono uno di quegli uomini.»

Theon ci pensò sopra per un momento: «Sei più furbo di quanto puzzi, ma non credo di riuscire a sopportare il tuo tanfo».

«Bene» fece Reek. «Mi lavo un po’, se sono libero.»

«Uomo di raro buon senso» sorrise Theon. «Sottomettiti.»

Uno degli uomini di ferro diede a Reek una spada. Lui la pose ai piedi di Theon e giurò obbedienza alla Casa Greyjoy e a lord Balon. Bran non poté guardare. Il sogno dell’oltre… Tutto vero.

«Milord Greyjoy!» Osha si fece avanti a sua volta, scavalcando il cadavere di Mikken. «Anch’io sono stata portata qui come prigioniera. Tu c’eri il giorno in cui è successo.»

“Io pensavo tu fossi nostra amica” pensò Bran con dispiacere.

«Sono guerrieri che voglio» disse Theon. «Non puttane da cucina.»

«È stato Robb Stark a mettermi nelle cucine. Per più di un anno mi hanno lasciato a grattare pentole, a lavare via grasso e a tenere caldo il pagliericcio di questo qua» Osha lanciò uno sguardo duro a Gage. «Non ne posso più. Metti di nuovo una picca nel mio pugno.»

«Ce l’ho qua io, la picca per te» sghignazzando, il pelato che aveva ucciso Mikken si afferrò lo scroto.

Osha gli assestò una solenne ginocchiata tra le gambe.

«Quella te la puoi anche tenere» gli strappò la lancia dalle mani e lo colpì con l’asta. «Io preferisco il legno e il ferro.»

Il pelato crollò sul pavimento, mentre il resto dei predoni esplose in una fragorosa risata.

«Tu mi stai bene» anche Theon rise con loro. «Tienila pure, quella picca. Stygg può trovarne un’altra. Ora sottomettiti e giura.»

Nessun altro si fece avanti per mettersi al suo servizio, quindi Theon rimandò tutti a casa, ordinando che continuassero a fare il loro lavoro senza causare altri guai. Hodor riportò Bran nella sua stanza da letto. La sua faccia era deformata dalle botte, un occhio chiuso, il naso gonfio.

Sollevò Bran tra le braccia coperte di sangue: «Hodor» singhiozzò tra le labbra spaccate.

Il giovane dalla mente semplice e il ragazzo spezzato si allontanarono nelle tenebre e nella pioggia.

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