ARYA

Quali nomi Harren il Nero avesse voluto dare alle cinque torri della sua immane fortezza, erano ormai dimenticati da molto tempo. Adesso erano chiamate Torre del terrore, Torre della vedova, Torre dei lamenti, Torre degli spettri e Torre del rogo del re.

Arya dormiva su un letto di paglia in una bassa nicchia nelle cripte cavernose che si diramavano nel ventre sotterraneo della Torre dei lamenti. Aveva acqua per lavarsi e aveva anche un pezzo di sapone. Il lavoro era duro, ma non quanto lo era stato marciare ogni giorno per miglia e miglia. Per nutrirsi, la servetta Donnola non aveva bisogno di andare alla ricerca di scarafaggi e di vermi come era stato costretto a fare il ragazzino orfano Arry. C’era pane ogni giorno, e anche stufati d’orzo con pezzetti di carote e di rape. Una volta alla settimana, poteva avere addirittura una fetta di carne.

Frittella mangiava anche meglio. Erano le cucine il posto a cui lui giustamente era stato destinato, situate in un edificio rotondo di pietra, dal tetto a cupola, una specie di mondo a parte. Arya consumava i pasti a un tavolo a cavalletti nelle cripte, insieme a Weese e ai suoi altri sottoposti. A volte però, veniva scelta per andare a prendere il cibo per tutti loro, così lei e Frittella potevano trovare qualche momento per parlare. Lui non riusciva proprio a ricordare che adesso lei era Donnola, e continuava a chiamarla Arry, pur sapendo che era una ragazza. Una volta, aveva cercato di passarle una pasta calda alle mele, ma il suo fu un tentativo talmente goffo che due dei cuochi se ne erano accorti e uno di loro l’aveva picchiato con un grosso cucchiaio di legno.

Gendry era stato mandato alla forgia e Arya lo vedeva di rado. Quanto agli altri che servivano con lei, non voleva nemmeno sapere i loro nomi. Sarebbe servito solo a farla stare male se fossero morti. La maggior parte aveva più anni di lei, e preferivano lasciarla stare.

Harrenhal era immenso, e in uno stato di grande decadenza. Lady Whent aveva tenuto il castello quale alfiere della Casa Tully, occupando però solamente il terzo inferiore delle cinque torri e lasciando che tutto il resto andasse progressivamente in rovina. Dopo che lei era fuggita, la scarsa servitù rimasta nella fortezza non era stata in grado di fare fronte alle necessità di tutti i cavalieri, i lord e i prigionieri di alto lignaggio che lord Tywin si era portato al seguito conclusasi la battaglia del Tridente. Oltre che continuare a razziare e a bruciare le terre circostanti, i Lannister avevano quindi dovuto trovare altri servi. Girava voce che lord Tywin volesse restaurare Harrenhal alla sua antica gloria, eleggendola quale sua nuova sede una volta che la guerra fosse finita.

Weese usava Arya per portare messaggi, attingere l’acqua al pozzo e prendere cibo. A volte, la faceva servire a tavola nella mensa dei quartieri sopra l’armeria, dove mangiavano i soldati. Il grosso del suo lavoro, però, era fare le pulizie. Il piano terreno della Torre dei lamenti era occupato da ripostigli e da magazzini di granaglie, il primo e il secondo piano ospitavano parte della guarnigione, ma tutti gli spazi superiori non venivano occupati da oltre ottant’anni. Lord Tywin aveva dato ordine, di recente, che quelle stanze venissero rese nuovamente abitabili. C’erano pavimenti da strigliare, sporco da togliere dalle finestre, sedie rotte e letti marci da portare via. L’ultimo piano era infestato dagli enormi pipistrelli neri che rappresentavano l’emblema della Casa Whent, mentre i sotterranei brulicavano di ratti… e dappertutto c’erano fantasmi, dicevano alcuni, gli spettri di Harren il Nero e dei suoi figli.

Arya pensava che questa degli spettri fosse una stupidaggine. Harren e i suoi figli erano morti inceneriti dalle fiamme all’interno della Torre del rogo del re: per questo la torre aveva questo nome. Per quale motivo i loro fantasmi avrebbero dovuto attraversare il cortile per venire ad assalire proprio lei? La torre dei Lamenti si lamentava solamente quando soffiava il vento del Nord. Non erano altro che suoni prodotti dall’aria che sibilava attraverso le crepe delle pietre provocate dall’antico fuoco. Se c’erano davvero spettri a Harrenhal, nessuno di loro venne mai a disturbare Donnola. Erano i vivi che lei temeva, non i morti. Weese e ser Gregor Clegane e lo stesso lord Tywin Lannister, che aveva preso alloggio nella Torre del rogo del re, la più alta e la più possente dell’intera fortezza, per quanto le sue pietre distorte dal calore e afflosciate su loro stesse la facessero apparire simile a una gigantesca candela nera mezza consumata.

Arya si domandava che cosa avrebbe fatto lord Tywin nel caso lei gli si fosse presentata davanti e gli avesse confessato di essere Arya Stark. Ma sapeva che mai sarebbe riuscita ad arrivare tanto vicino a lui da potergli parlare e, in ogni caso, il lord di Lannister non le avrebbe creduto. Dopo, Weese l’avrebbe pestata a sangue.

Con quel suo modo di fare impettito, Weese faceva paura quasi quanto ser Gregor. La Montagna schiacciava gli uomini come mosche, ma nella maggioranza dei casi delle mosche nemmeno si accorgeva. Weese invece sapeva sempre dov’erano e che cosa stavano facendo tutti quanti, a volte sapeva addirittura che cosa stavano pensando. Colpiva e picchiava alla benché minima provocazione, e aveva un cane carogna quasi quanto lui, una brutta cagna maculata che puzzava più di qualsiasi altro cane Arya avesse mai incontrato. Non riusciva a dimenticare quando Weese l’aveva aizzata contro un ragazzo delle latrine che lo aveva irritato. La bestia aveva squarciato al ragazzo una parte del polpaccio, mentre Weese si spanciava dal ridere.

Gli ci vollero solo tre giorni per guadagnarsi il posto d’onore nella lista dei nomi dell’odio. “Weese” era il primo nome che Arya adesso sussurrava, seguito da Dunsen, Chiswyck, Polliver, Raff Dolcecuore, Messer Sottile e il Mastino. E poi ser Gregor, ser Amory, ser Ilyn, ser Meryn, re Joffrey, regina Cersei. Non poteva, non doveva dimenticare nemmeno uno di loro, altrimenti come avrebbe fatto a trovarli per ucciderli?

Durante la marcia, Arya si era sentita come una pecora. Harrenhal l’aveva tramutata in un topo. Come un topo era grigia, con addosso quella ruvida tunica di lana. E come un topo andava a celarsi nei recessi, nelle nicchie e nei buchi oscuri della fortezza, strisciando via alla vista dei potenti.

C’erano momenti in cui pensava che tutti quanti fossero topi tra quelle spesse mura, perfino i cavalieri e gli alti lord. Le dimensioni del maniero facevano apparire piccolo perfino Gregor Clegane. Harrenhal copriva il triplo del terreno su cui sorgeva Grande Inverno, e i suoi edifici erano talmente più grandi da rendere impossibile qualsiasi confronto. Le stalle di Harrenhal potevano ospitare fino a mille cavalli, il suo parco degli dei copriva trenta acri, le cucine erano vaste quanto la sala grande di Grande Inverno; la sala grande di Harrenhal, pomposamente chiamata sala dei Cento focolari — Arya aveva cercato di contarli, ma una volta era arrivata a trentatré, un’altra volta a trentacinque — era talmente cavernosa che lord Tywin avrebbe potuto farci banchettare il suo intero esercito, anche se non lo aveva mai fatto. Mura, porte, sale, scale, tutto quanto era costruito su una dimensione oltre l’umano, qualcosa che aveva fatto venire in mente ad Arya le storie della vecchia Nan sui giganti che avevano vissuto a nord della Barriera.

Mentre i lord e le lady neppure si accorgevano dei piccoli topi grigi che sgattaiolavano loro tra i piedi, Arya imparò ogni sorta di segreti semplicemente tenendo le orecchie bene aperte nel fare le sue faccende. Pia la Graziosa, una ragazza che si occupava della dispensa, era in realtà una troia che ogni notte si faceva sbattere da un cavaliere diverso. La moglie del carceriere aspettava un bambino, ma il vero padre era o ser Alyn Stackspear o un cantastorie chiamato Wat Dentibianchi. Lord Lefford derideva le storie di fantasmi, però dormiva sempre con accanto una candela accesa. Jodge, scudiero di ser Dunaver, si pisciava sempre a letto. I cuochi disprezzavano ser Harys Swyft e gli sputavano regolarmente nel cibo. Una volta, Arya origliò una storia ancora più turpe: la servetta di maestro Tothmure aveva confidato al fratello di un certo messaggio arrivato al dotto, secondo cui Joffrey era un bastardo e non il re di diritto. «Lord Tywin ha dato ordine di bruciare la lettera e di non menzionare mai una simile depravata fandonia» aveva sussurrato la ragazza.

Il fratelli di re Robert, Stannis e Renly, erano anche loro scesi in campo, apprese Arya. «E tutti e due si proclamano re» aveva detto Weese. «Ci sono più re nel reame che ratti nel castello.» Perfino gli uomini dei Lannister avevano cominciato a interrogarsi su quanto a lungo Joffrey sarebbe rimasto sul Trono di Spade. «Il ragazzino non ha nessun esercito al di fuori di quelle cappe dorate, e riceve ordini da un eunuco, un nano e una donna» mugugnavano i signorotti davanti alle loro coppe di vino. «Se si arriva alla battaglia, a che servono quei tre?» E poi c’erano sempre discorsi su lord Beric Dondarrion. Secondo un arciere grasso, i Guitti Sanguinari lo avevano ucciso, ma tutti gli altri gli avevano riso in faccia. «Lorch lo aveva ucciso alle cascate Rabbiose, e la Montagna lo aveva ucciso due volte. Scommetto un cervo d’argento che non rimane morto neanche questa volta qua.»

Arya non scoprì chi erano i Guitti Sanguinari fino a una settimana più tardi, quando a Harrenhal arrivò la più bizzarra compagnia di uomini che lei avesse mai visto. Sotto il vessillo di un caprone nero dalle corna insanguinate cavalcavano uomini dalla pelle ramata con perline nei capelli, astati in sella a cavalli a strisce bianche e nere, arcieri dalle guance incipriate, tozzi uomini pelosi con scudi ricoperti di pelo, uomini dalla pelle marrone con indosso mantelli di piume, un allegro giullare dal capello a sonagli verde e rosa, spadaccini dalle fantastiche barbe biforcute dipinte di verde, di viola e d’argento, lancieri dalle guance segnate da cicatrici colorate, un uomo magro con le tuniche di un septon, un uomo corpulento con quelle dei maestri e un individuo dall’aria malaticcia, la cui cappa di cuoio era bordata di ciuffi di capelli biondi.

Alla loro testa, cavalcava un uomo magro come uno stecco e molto alto, il volto emaciato reso ancora più lungo da una rada barba nera che dalla punta del mento gli scendeva quasi fino alla vita. L’elmo che pendeva dal pomo della sua sella era di acciaio nero lucidato, a forma di testa di caprone. Attorno al collo portava una collana fatta di monete infilate, di dimensioni, metalli e forme diversi. E il suo cavallo era uno di quegli strani quadrupedi a strisce bianche e nere.

«Quel branco là è meglio che non li conosci, Donnola» le disse Weese quando notò che Arya stava osservando l’uomo con l’elmo a forma di caprone. I due che stavano bevendo con lui erano uomini di lord Lefford.

«Ma chi sono?» domandò Arya.

«Gli Uomini della Zampa, ragazzina» rise uno dei due soldati. «Le Unghie del Caprone… I Guitti Sanguinari di lord Tywin.»

«Lascia perdere le battute. Se la ragazzina finisce scuoiata, li pulisci tu i gradini dal suo sangue» ribatté Weese. «Sono mercenari, ragazzina Donnola. Si fanno chiamare i Bravi Camerati. Non fargli sentire nessun altro nome, o ti fanno male. L’elmo di caprone è il loro comandante, lord Vargo Hoat.»

«Non è nessun lord del cazzo, quello» sbottò il secondo soldato. «Ho sentito ser Amory Lorch che lo diceva. È solo un mercenario con la bocca piena di bava e un’alta opinione di se stesso.»

«Sì» fece Weese. «Ma la ragazzina Donnola è meglio che lo chiama lord lo stesso, se vuole tenerseli tutti attaccati assieme, i suoi pezzi.»

Arya guardò nuovamente Vargo Hoat. “Ma quanti di questi mostri ha lord Tywin?”

I Bravi Camerati furono sistemati nella Torre della vedova, e Arya fu felice di non dover essere lei a servirli. La medesima notte in cui arrivarono, scoppiò una rissa tra loro e alcuni degli uomini Lannister. Lo scudiero di ser Harys Swyft venne accoltellato a morte e due dei Guitti Sanguinarii rimasero feriti. La mattina seguente, lord Tywin li fece impiccare entrambi alle mura del corpo di guardia, insieme a uno degli arcieri di lord Lydden. Weese disse che era stato l’arciere a innescare la rissa deridendo i Guitti Sanguinari in merito a Beric Dondarrion. Una volta che gl’impiccati ebbero finito di scalciare, Vargo Hoat e ser Harys si abbracciarono e si baciarono e spergiurarono sempiterno amore l’uno per altro, sotto lo sguardo di lord Tywin. Arya trovò che fosse divertente il modo in cui Vargo Hoat muoveva le labbra, sputacchiando e masticandosi le parole, ma sapeva che avrebbe fatto meglio a non ridere.

I Bravi Camerati non rimasero a lungo a Harrenhal, ma prima che se ne andassero, Arya udì uno di loro dire che un esercito del Nord al comando di lord Roose Bolton aveva occupato il guado del Tridente. «Se anche lo attraversa, lord Tywin lo farà a pezzi come ha già fatto sulla Forca Verde» dichiarò un arciere Lannister, ma i suoi commilitoni gli risero in faccia. «Bolton non attraverserà mai, non fino a quando il Giovane lupo marcerà da Delta delle Acque con i suoi selvaggi uomini del Nord e tutti quei lupi.»

Fino a quel momento, Arya non si era resa conto di quanto vicino fosse suo fratello. Sapeva che Delta delle Acque si trovava a una distanza molto inferiore di Grande Inverno, ma non sapeva dove fosse esattamente rispetto a Harrenhal. “Potrei scoprirlo, però. In qualche modo so che potrei scoprilo… se solo potessi fuggire.” Al pensiero di rivedere il viso di Robb, Arya fu costretta a mordersi il labbro per non piangere. “E voglio anche vedere Jon, e Bran e Rickon, e la mamma. Perfino Sansa… le darei un bacio e le chiederei perdono, proprio come una vera lady, questo so che le farà piacere.”

Dalle chiacchiere che udì nel cortile, imparò che le stanze ai piani superiori della Torre del terrore ospitavano almeno tre dozzine di prigionieri presi durante una battaglia combattuta sulla Forca Verde del Tridente. A molti di loro era stato concesso di muoversi liberamente per il castello in cambio della solenne promessa di non tentare di scappare. “Hanno giurato di non scappare” rimuginò Arya “ma non di non aiutare me a scappare.”

I prigionieri mangiavano a un tavolo a parte nella sala dei Cento focolari, e spesso si vedevano aggirarsi all’esterno. Quattro fratelli si addestravano ogni giorno, combattendo con bastoni e coperchi di bidoni nel cortile delle Pietre umide. Tre di loro erano Frey del Guado, il quarto il loro fratello bastardo. Ma rimasero a Harrenhal solo per poco tempo: una mattina, altri due fratelli di Casa Frey arrivarono sotto il vessillo di pace trasportando un baule pieno d’oro, riscatto per i cavalieri che li avevano catturati. I sei Frey se ne andarono tutti assieme.

Nessuno però venne a pagare riscatti per gli uomini del Nord. C’era un signorotto parecchio grasso che dava sempre la caccia alle galline, le disse Frittella, e che era sempre pronto a fare uno spuntino. Aveva baffi talmente folti che scendevano a coprirgli la bocca, e il fermaglio del suo mantello era un tridente d’argento e di zaffiri. Era un prigioniero di lord Tywin, mentre il giovane fiero e barbuto che preferiva camminare da solo lungo le fortificazioni, nel suo mantello nero decorato con soli bianchi, era stato preso da un cavaliere indipendente che intendeva diventare ricco con il suo riscatto. Sansa di sicuro avrebbe saputo chi era, e anche quello grasso; Arya invece non era mai stata troppo interessata ai titoli nobiliari e agli emblemi. Ogni volta che septa Mordane si metteva a concionare della storia di questa casata o di quella nobile famiglia, lei si ritrovava a pensare ad altro, sperando che la lezione finisse presto.

Quello che invece ricordava bene era lord Cerwyn. Le sue terre si stendevano vicino a Grande Inverno, così lui e suo figlio Cley venivano spesso in visita. Ma per uno strano scherzo del destino, fu proprio lui l’unico dei prigionieri a non farsi mai vedere. Lord Cerwyn era confinato a letto in una cella della torre, per rimettersi da una ferita ricevuta in battaglia. Per giorni e giorni Arya cercò di escogitare un modo per aggirare le guardie allo scopo di vederlo. Se lui l’avesse riconosciuta, il suo onore gli avrebbe imposto di aiutarla. Un lord aveva con sé dell’oro, questo era certo. Forse avrebbe potuto usarlo per pagare uno dei mercenari di lord Tywin perché accompagnasse Arya a Delta delle Acque. Suo padre, lord Eddard, diceva sempre che un mercenario era pronto a tradire chiunque se il prezzo era giusto.

Le tre donne dai lunghi mantelli grigi con cappuccio apparvero un mattino e caricarono un cadavere sul loro carro. Erano i mantelli grigi delle Sorelle del silenzio. Il corpo era avvolto da una cappa della seta più fine, ornata con l’emblema di un’ascia da battaglia. Arya domandò di chi si trattasse, e una delle guardie le rispose che lord Cerwyn era morto. Quelle parole furono per lei come un calcio nel ventre. “Non sarebbe mai riuscito ad aiutarti comunque.” Arya rimase a fissare le donne in grigio guidare il carro oltre le porte della fortezza. “Non è stato in grado di aiutare nemmeno se stesso, stupido topo che non sei altro.”

Riprese quindi a strigliare, sgattaiolare e origliare. Presto, lord Tywin avrebbe marciato su Delta delle Acque, udì mormorare. O forse si sarebbe diretto a sud, verso Alto Giardino, compiendo una mossa che nessuno si sarebbe aspettato. No, invece, sarebbe andato a difendere Approdo del Re: era Stannis la più grave delle minacce. Aveva inviato Gregor Clegane e Vargo Hoat a distruggere Roose Bolton, in modo da rimuovere quella daga puntata contro la sua schiena. Aveva poi inviato corvi messaggeri al Nido dell’Aquila: voleva infatti sposare lady Lysa. Arryn e impossessarsi così della sua Valle. Aveva comprato una tonnellata d’argento con la quale forgiare spade magiche con cui uccidere i mostri degli Stark. Stava scrivendo a lady Stark per trattare la pace, e lo Sterminatore di re sarebbe presto tornato libero.

Corvi messaggeri andavano e venivano ogni giorno, ma lord Tywin passava la maggior parte delle sue giornate a porte chiuse, in riunione con il suo Concilio di guerra. Di lui, Arya ebbe solo fugaci visioni, e sempre da lontano. Lo vide camminare lungo le mura insieme a tre maestri e al prigioniero grasso con i baffoni cespugliosi. Un’altra volta, lo vide uscire a cavallo con i suoi lord alfieri per visitare l’accampamento. Spesso però, il lord di Lannister si appartava sotto una delle arcate della galleria coperta. Rimaneva immobile, a osservare gli uomini che si addestravano nel cortile sottostante, le dita intrecciate sul pomello d’oro massiccio dell’elsa della sua spada lunga. Oro, era quello che lord Tywin amava più di qualsiasi altra cosa, dicevano. Perfino quando cacava, Arya udì scherzare uno degli scudieri, cacava oro. Il lord di Lannister appariva forte per un uomo della sua età, con baffi biondo aureo e la testa calva. Nel suo volto c’era qualcosa che ad Arya faceva tornare in mente suo padre, pur non essendoci alcuna rassomiglianza con lui. “Una faccia da lord, tutto lì.” Ricordò un giorno in cui aveva udito la lady sua madre dire a suo padre di mettersi “la faccia da lord” e di andare a sistemare una qualche faccenda. Suo padre aveva riso a quella frase. Ad Arya riusciva però impossibile immaginare che lord Tywin Lannister potesse ridere per una qualsiasi ragione.

Un pomeriggio, mentre aspettava in coda per attingere un secchio d’acqua dal pozzo, udì i cardini della Porta est che cigolavano. Un gruppo di uomini superò la saracinesca a rostri conducendo i cavalli al passo. C’era una manticora sullo scudo del loro capo. Arya sentì l’odio tornare a sorgerle dentro come un’ondata di veleno.

Alla luce del giorno, ser Amory Lorch appariva molto meno pauroso che non al chiarore rossastro delle torce, ma continuava ad avere gli occhietti porcini che lei ricordava. Una delle donne disse che Lorch e i suoi uomini avevano fatto tutto il giro dell’Occhio degli Dei, dando la caccia a Beric Dondarrion e massacrando ribelli. “Noi non eravamo ribelli” rimuginò Arya. “Eravamo Guardiani della notte, e i Guardiani della notte non si schierano con nessuno.” Ser Amory però aveva con sé meno uomini di quanti lei ricordasse durante l’assalto al fortino, e parecchi di quelli ancora vivi erano feriti. “Spero che le vostre ferite s’infettino. Spero che tutti voi possiate morire.”

Poi vide i tre che chiudevano la colonna. Rorge indossava un mezzo elmo nero con una larga protezione nasale che quasi riusciva a nascondere i resti del suo naso mozzato. Mordente gli cavalcava pesantemente al fianco, in sella a un destriero che sembrava crollare da un momento all’altro sotto il suo peso. Il suo corpo era disseminato di ustioni non ancora cicatrizzate che lo rendevano ancora più mostruoso.

Jaqen H’ghar, invece, non aveva abbandonato il suo eterno sorriso. I suoi abiti erano ancora sporchi e laceri ma, chissà come, aveva trovato il modo di lavarsi i capelli e di spazzolarseli. Gli fluivano sulle spalle in un’onda rossa e bianca splendente. Le ragazze attorno al pozzo ridacchiarono, piene di ammirazione.

“Avrei dovuto lasciare che il fuoco li divorasse. Gendry me l’aveva detto, avrei dovuto starlo a sentire.” Se non avesse gettato loro quell’ascia nel carro dov’erano tenuti ai ceppi, sarebbero morti tutti e tre. Per un momento ebbe paura, ma i tre la superarono senza degnarla di un’occhiata. Solamente lo sguardo di Jaqen H’ghar passò su di lei, ma non si fermò, come se neppure l’avesse vista. “Non può riconoscermi. Arry era un duro ragazzino con una spada, Donnola è una ragazza grigia con un secchio.”


Passò il resto della giornata a strigliare i gradini nella Torre dei lamenti. Al tramonto, aveva le mani scorticate e sanguinanti, e le braccia talmente indolenzite che le tremavano mentre riportava il secchio giù nelle cantine. Troppo sfinita perfino per mangiare, Arya chiese licenza a Weese e si trascinò fino al suo mucchio di paglia per mettersi a dormire.

«Weese» prese comunque a sussurrare i nomi dell’odio «Dunsen, Chiswyck, Polliver, Raff Dolcecuore, Messer Sottile e il Mastino. Ser Gregor, ser Amory, ser Ilyn, ser Meryn, re Joffrey, regina Cersei.» Pensò se aggiungere tre nuovi nomi alla lista, ma scivolò nel sonno prima di prendere una decisione.

Stava sognando lupi che correvano nella foresta quando una mano forte le coprì la bocca, simile a una pietra calda, solida e letale. Arya si sveglio di soprassalto, lottando disperatamente.

«Questa ragazza non dice nulla.» La voce al suo orecchio era poco più di un sussurro. «Questa ragazza tiene le sue labbra chiuse, nessuno può sentire. E gli amici possono parlare in segreto, vero?»

Con il cuore che le martellava in petto, Arya riuscì ad annuire impercettibilmente.

Jaqen H’ghar allontanò la mano. Il sotterraneo era nero come la pece e Arya non era in grado di distinguere il suo volto, anche se si trovava a un palmo di distanza. Ma poteva sentire il suo odore: la sua pelle sapeva di sapone, di pulito. C’era profumo nei suoi capelli.

«Questo ragazzo diventa una ragazza» bisbigliò Jaqen H’ghar.

«Lo sono sempre stata, una ragazza. Non pensavo che mi avessi vista.»

«Quest’uomo vede. Quest’uomo sa.»

«Mi hai fatto paura.» D’un tratto, Arya si ricordò che lo odiava. «Tu sei uno di loro, adesso. Avrei dovuto lasciarti bruciare. Che cosa ci fai qui? Va’ via, o grido aiuto a Weese.»

«Quest’uomo ripaga i suoi debiti. Quest’uomo te ne deve tre.»

«Tre?»

«Il dio rosso deve ricevere quanto gli è dovuto, gentile ragazza, e solo la morte può ripagare per la vita. Questa ragazza ne ha presi tre che appartenevano a lui, al dio rosso. Pronuncia i loro nomi, e quest’uomo farà il resto.»

“Lui… vuole aiutarmi!” L’inaspettato sussulto di speranza le diede le vertigini. «Portami a Delta delle Acque! Non è lontano. Se rubassimo dei cavalli potremmo…»

«Tre vite tu avrai da me.» Jaqen H’ghar le pose un dito sulle labbra. «Non di più, non di meno. Tre, e il debito sarà estinto. Così questa ragazza deve pensare.» Le baciò delicatamente i capelli. «Ma non troppo a lungo.»

Quando Arya accese il mozzicone di candela, di lui rimaneva solo una vaga traccia di odore, appena un sospiro di ginepro che fluttuava nel buio. La donna nella nicchia accanto si girò sulla paglia, lamentandosi della luce. Arya spense la candela. L’odio aveva nomi, e aveva volti. Li vide fluttuare davanti a sé nelle tenebre. Joffrey e sua madre, Ilyn Payne e Meryn Trant e Sandor Clegane… Ma erano tutti ad Approdo del Re, a centinaia di miglia di distanza. Ser Gregor Clegane era rimasto solamente per qualche notte, poi era ripartito per andare a commettere nuove atrocità, portando con sé Raff e Chiswyck e Messer Sottile. Ser Amory Lorch, in compenso, era a Harrenhal, e lei lo odiava quasi quanto gli altri. E c’era sempre Weese…


Weese tornò a riempire i suoi pensieri la mattina dopo, quando la vide sbadigliare a causa della mancanza di riposo.

«Donnola» ridacchiò lui. «La prossima che ti vedo a bocca aperta, ti strappo la lingua e la do da mangiare alla mia cagna.»

Poi le torse un orecchio tra le dita, in modo da essere certo che lei avesse capito bene, e le ordinò di tornare a strigliare quei gradini nella Torre dei lamenti. Li voleva puliti fino al terzo pianerottolo entro il tramonto.

Lavorando, facendosi scoppiare altre vesciche alle mani, Arya continuò a pensare a quelli che voleva morti. Immaginò di vedere le loro facce sulla pietra, e strigliò più duramente, quasi potesse cancellarle insieme allo sporco. Gli Stark erano in guerra con i Lannister e lei era una Stark, per cui avrebbe dovuto uccidere quanti più Lannister possibile, era questo che si faceva in guerra. Ma non pensava di potersi realmente fidare di Jaqen H’ghar. “Dovrei essere io a ucciderli.” Ogni volta che il lord suo padre condannava qualcuno a morte, lo uccideva di persona con Ghiaccio, la sua lunga spada. “Se togli la vita a un uomo, è tuo dovere guardarlo dritto in faccia e ascoltare le sue ultime parole” lo aveva udito dire a Robb e a Jon una volta.

Il giorno seguente, evitò Jaqen H’ghar, e lo evitò anche il giorno dopo quello. Non fu difficile. Lei era molto piccola mentre Harrenhal era molto grande, piena di luoghi in cui un topo potesse nascondersi.

E poi ser Gregor tornò. Rientrò prima del previsto, questa volta portando con sé un branco di caproni invece dei soliti prigionieri. Arya udì che aveva perduto quattro uomini durante un’incursione notturna condotta da lord Beric Dondarrion. Ma quelli che lei odiava tornarono tutti, illesi, e andarono a sistemarsi al secondo piano della Torre dei lamenti. Weese si occupò di rifornirli abbondantemente di birra e vino.

«Ha sempre sete, questo gruppo qua» brontolò. «Donnola, va’ lassù e chiedigli se hanno vestiti da aggiustare, che poi gli mando le donne a rammendarli.»

Arya corse su per i gradini tirati a pomice. Nessuno le prestò alcuna attenzione quando entrò. Chiswyck era seduto presso il focolare, un corno di birra in mano, intento a raccontare a tutti una delle sue storielle sempre così divertenti. Lei non osò interromperlo, per paura di ricavarne un altro labbro spaccato.

«È successo dopo il torneo del Primo Cavaliere, prima che veniva la guerra» stava dicendo Chiswyck. «Tornavamo verso ovest, noi sette con ser Gregor. C’era Raff con me, e il giovane Joss Stilwood, che aveva fatto lo scudiero per il ser nel torneo. Be’, arriviamo su questo fiume piscioso, che è gonfio per le piogge. Niente guado, così andiamo a una locanda lì vicino. Il ser dice al locandiere che ci tiene i corni sempre ben pieni di birra fino a che smette la pioggia, e tu la vedi l’ingordigia negli occhi da porco di quello lì al vedere l’argento. Così ci porta la birra, lui e sua figlia, ma è una birra da niente, sembra proprio piscio, e io non sono contento, e neanche il ser. E ’sto birraio qua va avanti a menarcela che lui è lieto che noi siamo là, e che gli affari sono mosci per via di tutte quelle piogge. Quello scemo non stava mai zitto e il ser non diceva niente, continuava a pensare a quel finocchio di un cavaliere che gli ha fatto perdere il torneo con quel suo trucco fetente. E lo vedi come stringe le labbra, il ser, così io e gli altri sappiamo che è meglio non dirgli niente quando è così. Ma questo birraio qua non la smette mai di berciare, e chiede addirittura al mio lord com’è andata al torneo. Il ser gli dà un’occhiata.» Chiswyck sghignazzò, mandando giù altra birra e pulendosi la spuma dalle labbra con il dorso della mano. «Intanto, la figlia continua a prendere altra birra e a versare, una robetta sui diciotto anni, un po’ grassottella…»

«Diciotto?» Raff Dolcecuore grugnì. «Io dico tredici anni…»

«Quello che è. Non era granché, la pupattola, ma Eggon aveva bevuto e così si mette a toccare. E forse una toccata gliel’ho data anch’io e Raff dice al giovane Stilwood che deve trascinarla di sopra e diventare un uomo e dà coraggio al ragazzo. Alla fine Joss le mette una mano sotto la gonna e lei urla e lascia cadere la caraffa e scappa via nella cucina. Be’, finiva lì, giusto o no? Ma poi invece lo scemo del locandiere viene fuori a dire al ser che lui ci deve fare smettere di toccare la figlia perché lui è un cavaliere investito e tutte quelle altre cacate.

«Ser Gregor non ci faceva caso a tutto il ridere, ma adesso invece guarda, e lo sai come fa lui, no? Comanda che la ragazza gli viene portata davanti. Così adesso il vecchio scemo la deve tirare fuori della cucina, e solo lui ha la colpa di quello che capita. Il ser la guarda per bene e poi dice: “Quindi, è questa la baldracca che ti preoccupa tanto” e lo scemo cretino di locandiere fa: “La mia Layna non è una baldracca, ser”. E glielo dice proprio in faccia a ser Gregor. Il ser, lui non batte una palpebra, dice solo: “È una baldracca adesso”. Poi getta allo scemo un’altra moneta d’argento, strappa il vestito alla pupattola e se la sbatte lì sul tavolo, proprio sotto gli occhi di suo padre, lei che scalcia e si agita come una coniglia e fa tutti quei versi. Dovevi vedere la faccia che fa il suo vecchio, e io ridevo così tanto che mi si pisciava la birra fuori dal naso. Poi questo ragazzo sente tutto il rumore, mi sa che era il figlio del vecchio, e corre su dalla cantina. Così Raff gli pianta la daga nella pancia. Quando il ser ha finito di chiavarsi la baldracca, si mette di nuovo a bere e viene il nostro turno di sbatterla. Tobbot, lo sai com’è lui, no? La gira dall’altra parte e glielo caccia su per il didietro. Quando tocca e me, la baldracca l’ha piantata di scalciare e magari ha deciso che farsi chiavare davanti e didietro le piace anche, però a me non andava poi male se scalciava un po’. E qua viene il bello… Quando tutto è finito, il ser dice al vecchio scemo che vuole il resto, che la baldracca non valeva la moneta d’argento e… dannazione, non ci crederai! Lo scemo gli dà una manciata di rame e lo ringrazia anche perché siamo passati dalla locanda!»

Tutto il gruppo esplose in una tonante risata. Chiswick rideva più forte di tutti a quella storiella, così divertente che gli faceva colare il muco dal naso, a incaccolare la sua barba grigia spelacchiata.

Arya rimase immobile tra le ombre della scala, a guardarlo, poi tornò nei sotterranei della Torre dei lamenti senza dire una sola parola. Quando Weese scoprì che lei non aveva chiesto se avevano vestiti da rammendare, le tirò giù le brache e la picchiò con il bastone fino a quando il sangue non le scorse giù lungo le cosce. Arya chiuse gli occhi, pensando a tutto quello che Syrio Forel le aveva insegnato e quasi non sentì niente.

Due notti dopo, Weese la mandò alla mensa dei baraccamenti a servire ai tavoli. Arya stava versando vino da una caraffa quando vide Jaqen H’ghar che mangiava a un altro tavolo. Arya si morse il labbro, si guardò attorno per vedere se Weese fosse lì vicino. Ma di Weese nemmeno l’ombra. “La paura uccide più della spada.”

Arya fece un passo avanti, poi un altro, poi un altro. E a ogni passo, si sentì sempre meno topo. Raggiunse la fine della panca, riempiendo una coppa dopo l’altra. C’era Rorge il senzanaso alla destra di Jaqen, ma era così ubriaco che non si rese conto di niente. Arya si protese in avanti.

«Chiswyck.» Fu un sussurro, nient’altro che un sussurro all’orecchio dell’uomo della città di Lorath. Non ci fu alcuna reazione. Forse Jaqen H’ghar non l’aveva nemmeno udita.

Una volta che la sua caraffa fu vuota, Arya corse giù nelle cantine per riempirla di nuovo dal rubinetto della botte. Quando tornò alla mensa, nessuno era morto di sete, nessuno aveva notato la sua breve assenza.

Il giorno seguente non accadde nulla, e nemmeno il giorno dopo quello. Il terzo giorno, Arya era di nuovo nelle cucine per prendere la cena di quelli di ser Gregor.

«Uno degli uomini della Montagna che cavalca è caduto dal camminamento delle mura, questa notte» stava dicendo Weese a una delle cuoche. «S’è spaccato il suo collo da scemo come un pezzo di legno.»

«Ubriaco?» domandò la donna.

«Non più del solito. Certi dicono che è stato lo spettro di Harren il Nero a buttarlo giù.» Dopo di che Weese emise un inarticolato grugnito nasale, a sottolineare la sua opinione in merito.

“Non è stato Harren il Nero” Arya avrebbe voluto urlare, ma non lo fece. “Sono stata io!” Le era bastato un sussurro per uccidere Chiswyck, e presto ne avrebbe uccisi altri due. “Sono io lo spettro di Harrenhal.” E quella notte, ebbe un nome in meno da odiare.

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