Si arrampicò fino alle biforcazioni più alte, finché riuscì a vedere dei comignoli che si aprivano la strada tra le chiome degli alberi. Tetti di paglia si ammucchiavano in prossimità della sponda del lago e del piccolo fiume che vi si riversava. Un molo di legno si allungava nell’acqua a lato di un lungo edificio basso dal tetto di tegole.
Arya avanzò ancora di più sul ramo, avanzò fino a quando non cominciò a flettersi e a scricchiolare sotto il suo peso. Non c’erano barche ormeggiate al molo, ma sottili dita di fumo si levavano da alcuni dei camini. Da una stalla sporgeva il retro di un carro.
“C’è qualcuno là.” Arya si mordicchiò il labbro. Tutti gli altri luoghi che avevano superato erano vuoti, desolati: fattorie, villaggi, castelli, templi, stalle, non faceva nessuna differenza che cosa fossero, qualsiasi cosa potesse bruciare, i Lannister l’avevano bruciata. Qualsiasi cosa potesse essere uccisa, loro l’avevano uccisa. Dove era stato possibile, avevano addirittura dato fuoco alle foreste; le foglie, però, erano ancora verdi, bagnate per la pioggia che era caduta, e il fuoco non aveva potuto dilagare. «Avrebbero incendiato anche il lago, se avessero potuto farlo» aveva commentato Gendry, e Arya sapeva che aveva ragione. La notte della loro fuga, le fiamme della città tramutata in un rogo si erano riflesse sulle acque con tale intensità da dare l’impressione che il lago stesse realmente bruciando.
La notte seguente, erano riusciti a trovare il coraggio di tornare ad avventurarsi tra le rovine del fortino. Non restava nient’altro che pietre annerite, case ridotte a crisalidi sventrate e cadaveri. Qua e là, esili tentacoli di fumo livido si ostinavano a sollevarsi da sotto le ceneri. Frittella li aveva implorati di non andare, Lommy aveva dato loro degli stupidi, garantendo che ser Amory Lorch li avrebbe presi e uccisi. Ma quando arrivarono al fortino, Lorch e i suoi uomini se n’erano andati da un pezzo. Trovarono le porte diverte, le mura parzialmente abbattute e l’interno disseminato di morti insepolti.
«Li hanno uccisi tutti.» A Gendry era bastata una sola occhiata. «Anche i cani gli sono andati addosso… guarda.»
«Oppure i lupi.»
«Cani, lupi, non cambia niente. Qui è finita.»
Ma Arya aveva rifiutato di andarsene fino a quando non avessero trovato Yoren. Lui non potevano averlo ucciso, aveva ripetuto a se stessa, era troppo forte e pericoloso. Ed era un confratello dei Guardiani della notte. Tanto aveva ripetuto a Gendry mentre si aggiravano tra i cadaveri.
Il colpo d’ascia che lo aveva abbattuto gli aveva aperto il cranio in due, rendendolo quasi irriconoscibile. Ma l’ispida barba arruffata e i malridotti panni neri, talmente scoloriti dal tempo e dall’usura da apparire ormai quasi grigi, potevano appartenere solamente all’anziano corvo errante. Ser Amory Lorch non si era preoccupato di seppellire i suoi stessi caduti più di quanto avesse fatto per quelli che aveva macellato. C’erano i resti di quattro soldati Lannister ammucchiati tutto attorno a Yoren. Arya non poté fare a meno di domandarsi quanti ce n’erano voluti per abbatterlo.
“Mi stava portando a casa.” Mentre scavava la fossa del vecchio, quel pensiero continuava a rimbalzarle nella mente. C’erano troppi morti per seppellirli tutti, ma almeno Yoren meritava una tomba, aveva insistito Arya. “Mi avrebbe fatto arrivare a Grande Inverno, lo aveva promesso.” Una parte di lei voleva piangerlo, una parte voleva prenderlo a calci.
Era stato Gendry a farsi venire in mente il torrione del Lord e i tre che Yoren aveva mandato a difenderlo. Anche loro si erano ritrovati sotto attacco, ma la torre cilindrica aveva un unico ingresso, una porta al secondo piano raggiungibile solo a mezzo scala. Nel momento in cui questa era stata ritratta, per gli uomini di ser Amory non era stato possibile raggiungere i difensori. I Lannister avevano ammucchiato fascine alla base della torre e vi avevano appiccato il fuoco, ma la pietra non poteva bruciare e Lorch non aveva avuto la pazienza di prendere quei tre per fame. Alle grida di Gendry, fu Curjack ad aprire la porta. Kurz aveva detto che era meglio continuare verso nord piuttosto che tornare indietro. In Arya, la speranza si era riaccesa: forse sarebbe comunque riuscita a raggiungere Grande Inverno.
Be’, quell’immoto villaggio davanti a lei, sulla riva dell’Occhio degli Dei, non era Grande Inverno, ma i tetti di paglia promettevano calore e rifugio e forse anche del cibo. Se loro avessero avuto coraggio sufficiente da correre il rischio. “Solo che là potrebbe esserci Lorch: ha i cavalli, può muoversi più in fretta di noi.”
Rimase a osservare dall’albero per molto tempo, cercando di vedere qualcosa: un uomo, un cavallo, un vessillo, qualsiasi cosa che potesse aiutarla a capire. A tratti, ebbe la percezione di movimenti, ma le strutture erano troppo lontane, non era possibile discernere nulla di definito. A un certo punto, udì con chiarezza il nitrito di un cavallo.
Il cielo era pieno di uccelli, corvi soprattutto. Visti da quella distanza, nel loro volteggiare, nel loro ammassarsi sopra i tetti di paglia, sembravano uno sciame di mosche. Verso est, la lastra azzurra martellata dal sole dell’Occhio degli Dei invadeva metà dell’orizzonte. Certi giorni, mentre avanzavano sulla sponda fangosa — Gendry non aveva nemmeno voluto sentire parlare di continuare lungo le strade, e perfino Frittella e Lommy avevano condiviso quella scelta — Arya aveva la sensazione che il lago la stesse chiamando. Avrebbe voluto saltare in quelle placide acque azzurre, sentirsi pulita, nuotare e giocare e giacere al sole. Ma non osava togliersi i vestiti di fronte agli altri, nemmeno per lavarli. Al termine della giornata, spesso si sedeva su una roccia e faceva andare i piedi avanti e indietro, tenendoli immersi nell’acqua fresca. Alla fine aveva gettato via le scarpe tutte rotte, marce. Sulle prime, camminare a piedi nudi era stato arduo, ma poi le vesciche erano scoppiate, le scorticature si erano rimarginate e il fondo dei suoi piedi era diventato duro e resistente come il cuoio. Le piaceva sentire il fango che s’insinuava fra le dita, le piaceva sentire la terra sotto i piedi nel camminare.
Dal suo punto di osservazione, in direzione nordest, riusciva a vedere una piccola isola coperta di boschi. A un centinaio di piedi dalla riva, tre cigni neri nuotavano sulla superficie, maestosi, incredibilmente sereni… A loro, nessuno aveva detto che c’era la guerra, a loro non importava che le città venissero date alle fiamme e che gli uomini si facessero a pezzi gli uni con gli altri. Arya li osservò con desiderio. Una metà di lei avrebbe voluto essere un cigno, l’altra metà avrebbe voluto mangiarne uno. La sua colazione era stata a base di pasta di ghiande e di insetti. Gli scarafaggi non erano poi male una volta che ci si abituava. I vermi erano peggio, ma non peggiori dei dolori al ventre dopo giorni interi senza toccare cibo. Gli scarafaggi erano anche facili da trovare: bastava dare un calcio a un sasso. Quando era una bambina molto piccola, Arya ricordava di averne mangiato uno, giusto per far gridare Sansa, così adesso non aveva paura di mangiarne altri. Nemmeno Donnola aveva paura di farlo, ma quando Frittella cercò di mandare giù un millepiedi, finì con il vomitarlo, mentre Lommy e Gendry non ci provarono neanche. Il giorno prima, Gendry aveva preso una rana e l’aveva condivisa con Lommy. Un altro giorno, Frittella si era ingozzato di bacche selvatiche. In generale, però, sopravvivevano a ghiande e ad acqua. Kurz aveva insegnato loro come schiacciare le ghiande fino a trasformarle in una specie di pasta. Aveva un sapore atroce.
Quanto avrebbe voluto che il bracconiere non fosse morto: lui conosceva i boschi più di tutti quanti loro messi insieme, ma era stato colpito da una freccia alla spalla nel ritirare la scala all’interno del torrione. Tarber aveva coperto la ferita con un impacco di fango e di muschio presi dalla riva del lago. Per un paio di giorni, Kurz aveva insistito nel dire che non c’era da preoccuparsi, anche se la pelle della gola gli diventava sempre più nera e lividi violacei gli avevano invaso tutto il torace. Un mattino, infine, non riuscì a trovare la forza di alzarsi e il mattino dopo era morto.
Lo seppellirono sotto un tumulo di pietre. Cutjack si prese la sua spada e il corno da caccia, Tarber s’impossessò dell’arco, degli stivali e del coltello. Spogliarono il corpo di tutto e se ne andarono. Sulle prime, Arya e gli altri avevano pensato che fossero andati a caccia, che presto sarebbero tornati con la selvaggina e tutti avrebbero mangiato. Così loro aspettarono e aspettarono, inutilmente. Alla fine Gendry decise che era tempo di rimettersi in marcia. Forse Cutjack e Tarber avevano pensato di potersela cavare meglio senza quel grappolo di ragazzi orfani alle calcagna. Il che era probabilmente vero, ma questo non impedì ad Arya di odiarli per averli abbandonati.
Sotto l’albero sul quale si era arrampicata, Frittella abbaiò come un cane. Kurz aveva detto loro di fare versi di animali per comunicare, un vecchio trucco da bracconieri, ma era morto prima di riuscire a insegnare loro come fare i versi nel modo giusto. I richiami da uccello di Frittella erano ridicoli, il suo abbaiare andava meglio, ma non di molto.
Arya scese a un ramo più basso, le braccia distese per mantenere l’equilibrio. “Un danzatore dell’acqua non cade mai.” Leggera, le dita dei piedi arcuate attorno al ramo, si spostò di qualche passo, poi saltò giù, calandosi su una biforcazione più grossa. Passando da una presa all’altra, raggiunse il tronco a forza di braccia, facendosi largo con le mani nell’intrico di foglie. Contro le sue mani, sotto le dita dei suoi piedi, la corteccia era scabra e aspra. Arya discese l’ultimo tratto in fretta, saltando da almeno sei piedi e rotolando sul terreno per attutire la caduta.
«Sei rimasta lassù per un bel po’.» Gendry le diede una mano a rialzarsi. «Che cosa hai visto?»
«Un piccolo villaggio di pescatori, più a nord lungo la riva. Ventisei tetti di paglia e uno di tegole, li ho contati. Ho visto anche parte di un carro. C’è qualcuno là.»
Nell’udire la sua voce, Donnola uscì dai cespugli. Era stato Lommy ad affibbiare quel soprannome. Diceva che lei assomigliava proprio a una donnola. Non era vero, ma non potevano continuare a chiamarla la “bambina che piangeva” anche dopo che aveva smesso di piangere. La sua bocca era lercia. Arya sperò che non avesse mangiato di nuovo il fango.
«Gente ne hai vista?» domandò Gendry.
«Tetti più che altro» ammise Arya. «Ma veniva fuori del fumo da alcuni dei camini, e ho anche sentito nitrire un cavallo.»
Donnola si mise la braccia attorno alle gambe, abbracciandola forte. A volte lo faceva.
«Dove c’è gente c’è da mangiare…» Frittella aveva parlato a voce troppo alta. Gendry continuava a dirgli di parlare piano, ma non serviva a niente. «Magari ce ne danno un po’.»
«O magari invece ci uccidono» replicò Gendry.
«Non se ci arrendiamo» fece Frittella, tutto speranzoso.
«Adesso parli come Lommy.»
Lommy Maniverdi sedeva fra due grosse radici sporgenti alla base di una quercia, la schiena appoggiata al tronco. Durante la battaglia al fortino, una punta di lancia lo aveva colpito a un polpaccio. Al tramonto del giorno dopo, era stato costretto a saltellare su una gamba sola tenendo un braccio attorno alle spalle di Gendry. Adesso non ce la faceva più nemmeno a fare quello. Gli altri ragazzi avevano tagliato dei rami e costruito una barella, ma trasportarlo era un’impresa lenta e tormentosa, con Lommy che si lamentava a ogni sussulto.
«Dobbiamo arrenderci» disse. «Doveva farlo anche Yoren. Aprire le porte come loro gli avevano detto.»
Arya proprio non ne poteva più di sentirlo berciare su ciò che Yoren avrebbe o non avrebbe dovuto fare. Quando lo trasportavano, Lommy non parlava d’altro che di quello, del male che gli faceva la gamba e del suo stomaco vuoto.
Ma questa volta, anche Frittella fu d’accordo: «Loro l’avevano detto a Yoren di aprire le porte. Glielo avevano detto nel nome del re. E quello che ti ordinano nel nome del re, tu lo devi fare. È stata tutta colpa di quel maledetto vecchio. Se si fosse arreso, loro ci avrebbero lasciato stare».
Gendry aggrottò la fronte: «Cavalieri e nobili, loro si prendono prigionieri gli uni con gli altri e pagano riscatti. Ma quelli come noi, non gl’importa niente se ci arrendiamo o no». Si girò verso Arya: «Che altro hai visto?».
«Se è un villaggio di pescatori, ci venderanno del pesce, ci scommetto» suggerì Frittella. Il lago era pieno di pesci commestibili, ma loro non avevano nessuna lenza con cui prenderli. Arya aveva cercato di usare le mani, nel modo in cui aveva visto fare a Koss, ma i pesci erano più svelti dei piccioni, e l’acqua giocava strani scherzi agli occhi.
«Di pesce non so niente.» Arya passò le dita tra i capelli di Donnola, impregnati di sporcizia. Forse avrebbe fatto meglio a tagliarglieli. «È pieno di corvi in prossimità dell’acqua. C’è qualcosa di morto laggiù.»
«Pesci, finiti ad arenarsi sulla riva» insistette Frittella. «Se i corvi li mangiano, possiamo mangiarli anche noi.»
«Invece sono i corvi che dobbiamo prendere, mangiarci quelli» intervenne Lommy. «Accendiamo un fuoco e ce li arrostiamo come polli.»
Gendry fece un’espressione truce, come sempre quando li rimproverava. Gli era cresciuta la barba, nera, folta e ispida. «Ho detto: niente fuochi.»
«Lommy ha fame» piagnucolò Frittella. «E anch’io.»
«Abbiamo tutti fame» disse Arya.
«Tu no.» Lommy sputò a terra. «Fiato di verme che non sei altro.»
Arya respinse la tentazione di dargli un calcio sulla ferita: «Ho detto che avrei scavato vermi anche per te, se li volevi».
Lommy fece una faccia disgustata: «Se non fosse per la gamba, andrei a caccia di cinghiali».
«Già me lo vedo…» lo derise Arya. «Ti ci vuole una lancia apposta per abbattere un cinghiale, e cavalli e cani e uomini che lo facciano uscire dalla tana.»
Il lord suo padre andava a caccia al cinghiale nella foresta del Lupo insieme e Robb e a Jon. Una volta, aveva anche portato Bran, ma mai Arya, anche se lei era più grande di Bran. Septa Mordane diceva che la caccia al cinghiale non era roba da signore, e l’unica cosa che la lady sua madre le aveva promesso era un falco, ma solo quando avesse raggiunto l’età giusta. Adesso l’aveva, l’età giusta, ma se avesse avuto un falco se lo sarebbe mangiato.
«E tu che ne sai della caccia al cinghiale?» le domandò Frittella.
«Più di te.»
Gendry non era in vena di starli a sentire: «Piantatela, tutti e due. Devo pensare a che cosa fare». Aveva sempre un’aria sofferente quando si metteva a pensare, come se gli facesse male alla testa.
«Arrendiamoci» incalzò Lommy.
«T’ho detto di farla finita con questa storia dell’arrendersi. Non sappiamo nemmeno chi c’è laggiù. Forse potremmo rubare un po’ di cibo.»
«Lommy potrebbe rubarlo, se non fosse per la gamba» disse Frittella. «Faceva il ladro, giù in città.»
«Bel ladro» sbuffò Arya. «A farsi prendere come un fesso.»
Gendry alzò lo sguardo al sole: «Andremo dentro appena fa buio, è il momento migliore. Al calar della notte, vado a dare un’occhiata più da vicino».
«No, ci vado io» intervenne Arya. «Tu fai sempre troppo rumore.»
«Allora ci andiamo tutti e due.» Gendry aveva di nuovo quel suo cipiglio feroce.
«Che ci vada Arry» fece Lommy a Gendry. «Si muove meglio di te.»
«Ci andremo tutti e due, ho detto.»
«Ma che facciamo se non tornate? Frittella non può farcela a trasportami da solo, lo sapete che non può…»
«E poi ci sono i lupi» aggiunse Frittella. «Io li ho sentiti, ieri notte, durante il turno di guardia. Sembravano vicini.»
Anche Arya li aveva sentiti. Dormiva tra i rami di un olmo, ma gli ululati l’avevano svegliata. Era rimasta ad ascoltarli per un’ora buona, il coro delle belve che le mandava brividi gelidi lungo la schiena.
«E tu nemmeno ci permetti di accendere il fuoco per tenerli a distanza» continuò a lamentarsi Frittella. «Non è giusto lasciarci qui in balia dei lupi.»
«Nessuno vi lascia da nessuna parte» ribatté Gendry, contrariato. «Se i lupi vengono, Lommy ha la sua lancia, e ci sarai tu con lui. Arry e io andiamo solo a dare un’occhiata, tutto qui. Torniamo, sta’ tranquillo.»
«Chiunque sono, io dico che dovete arrendervi» piagnucolò Lommy. «Ho bisogno di una pozione per la ferita, mi fa un sacco male.»
«Se vedo una qualche pozione, te la porto.» Gendry ne aveva abbastanza. «Arry, andiamo. Voglio arrivare vicino a quelle case prima che il sole tramonti. Frittella, tu tieni qui Donnola, non voglio che ci segua.»
«L’ultima volta che ci ho provato mi ha dato un calcio.»
«Il calcio te lo do io se non la tieni qui.» Senza aspettare una risposta, Gendry si mise in capo il suo elmo con le corna e si avviò.
Arya era quasi costretta a correre per tenergli dietro. Gendry aveva cinque anni più di lei ed era più alto di almeno un piede, con gambe lunghe in proporzione. Per un po’ lui non disse nulla. Si limitò a muoversi tra gli alberi con un’espressione dura in volto, facendo troppo rumore. Di colpo, si fermò e si voltò verso di lei: «Credo che Lommy stia per morire».
Arya non ne fu sorpresa. Kurz era morto a causa di una ferita, ed era molto più robusto di Lommy. Quando era il suo turno alla barella, Arya poteva sentire la pelle del ragazzo che bruciava per la febbre, e il tanfo che emanava dalla ferita.
«Forse, se potessimo trovare un maestro…»
«I maestri li trovi solo nei castelli. E anche se ne incontrassimo uno, non si sporcherebbe certo le mani per un tipo come Lommy.» Gendry si chinò per passare sotto un ramo basso.
«Questo non è vero.» Maestro Luwin avrebbe aiutato chiunque ne avesse avuto bisogno, di questo Arya era certa.
«Sta per morire. E prima morirà, meglio sarà per tutti noi. Forse dovremmo semplicemente abbandonarlo, come dice lui. Se a essere ferito fossi io, o te, Lommy non ci penserebbe su due volte a mollarci, lo sai.»
Discesero lungo una fenditura ripida, afferrandosi a contorte radici sporgenti per mantenere l’equilibrio, poi risalirono dall’altra sponda.
«Non ne posso più di trasportarlo» continuò Gendry. «E non ne posso più delle sue lamentele di arrendersi. Se fosse in grado di stare in piedi, gli farei ingoiare i denti. Lommy non serve a niente, e nemmeno la bambina che piange serve a niente.»
«Lascia stare Donnola, ha solo paura e fame, tutto lì.» Arya gettò un’occhiata alle proprie spalle, ma la bambina non li stava seguendo, per fortuna. Frittella doveva averla tenuta ferma, come loro gli avevano detto.
«Non serve a niente» ripeté Gendry, ostinato. «Lei e Frittella e Lommy ci rallentano e basta, e finisce che ci fanno ammazzare. Sei tu l’unico del gruppo che se la sa cavare. Anche se sei una femmina.»
Arya si congelò: «Io non sono una femmina!».
«Certo che lo sei. Credi che sia scemo quanto loro?»
«Non lo sono!»
«E allora tira fuori l’uccello e fatti una pisciata. Forza.»
«Adesso non ho bisogno di pisciare. La faccio quando mi pare.»
«Bugiarda. Non te lo puoi tirare fuori l’uccello perché non ce l’hai. Prima, quando eravamo una trentina, non ci avevo mai fatto caso, ma per fare un goccio d’acqua tu te ne vai sempre nel bosco, da sola. Frittella questo non lo fa, e nemmeno io. Se non sei una femmina, allora devi essere una specie di eunuco.»
«Sei tu l’eunuco.»
«Lo sai che non lo sono.» Gendry sorrise. «Vuoi che me lo tiri fuori e te lo provi? Non ho proprio niente da nascondere.»
«Sì che ce l’hai.» Disperatamente, Arya cercò di allontanare l’argomento dall’uccello che non aveva fra le gambe. «Quelle cappe dorate, giù alla locanda, era te che cercavano. Ma tu non ci hai mai detto il perché.»
«Vorrei saperlo anch’io, il perché. Credo che Yoren lo sapesse, ma non me lo ha mai detto. E tu? Perché hai pensato che cercassero te?»
Arya si morse il labbro. E ricordò ciò che Yoren le aveva detto il giorno in cui le aveva rasato i capelli con il pugnale: “Metà di questa feccia ti getterebbe in pasto alla regina senza pensarci un attimo, in cambio della grazia e, forse, di una manciata di monete d’argento. L’altra metà farebbe lo stesso, ma prima ti stuprerebbe”. Gendry era l’unico a essere diverso: la regina voleva anche lui.
«Te lo dico se tu lo dirai a me» gli propose cautamente.
«Te lo direi se lo sapessi, Arry, davvero… È proprio così che ti chiami, o hai un altro nome, da ragazza?»
Arya abbassò lo sguardo alle radici contorte ai suoi piedi. Capì che la finzione era finita. Gendry sapeva, e nei pantaloni, lei non aveva niente con cui convincerlo del contrario. Poteva estrarre Ago e ucciderlo lì, in quel preciso istante, oppure poteva fidarsi di lui. Non era però certa di riuscire a ucciderlo: anche lui aveva la spada ed era molto più forte di lei. L’unica alternativa che le rimaneva era raccontare la verità.
«Lommy e Frittella non devono sapere.»
«Non sapranno niente» giurò Gendry. «Non da me.»
«Arya.» Alzò gli occhi a incontrare quelli di lui. «Il mio nome è Arya. Della Casa Stark.»
«Della Casa…» Gli ci volle qualche momento per far combaciare i pezzi. «Il Primo Cavaliere del re si chiamava Stark. Quello che hanno ucciso come traditore.»
«Non è mai stato un traditore. Era mio padre.»
Gendry sbarrò gli occhi: «Quindi è per questo che tu hai pensato…».
«Yoren mi stava portando a casa» annuì Arya. «A Grande Inverno.»
«Tu… sei una fanciulla nobile, quindi… una lady…»
Arya abbassò nuovamente lo sguardo sugli abiti, stracciati che la coprivano, sui piedi nudi piagati e pieni di calli. Vide sporco sotto le unghie, scorticature ai gomiti, graffi sulle mani. “Septa Mordane nemmeno mi riconoscerebbe, scommetto. Sansa forse sì. Ma farebbe finta di non avermi mai vista.”
«Mia madre è una lady, e anche mia sorella. Ma io… non lo sono mai stata.»
«Invece sì. Sei la figlia di un lord e hai vissuto in un castello, non è così? E tu… gli dei ci aiutino, non volevo…» D’un tratto, Gendry apparve incerto, quasi spaventato. «Tutti quei discorsi sull’uccello da tirare fuori… non avrei mai dovuto dirle, quelle cose. E poi ho pisciato davanti a te e tutto il resto. Io… io chiedo il tuo perdono, milady.»
«Piantala!» sibilò Arya. La stava forse deridendo?
«Io le conosco, le buone maniere, milady» andò avanti Gendry, ostinato come sempre. «Quando le fanciulle nobili venivano alla bottega con i loro padri, il mio mastro mi diceva di fare la genuflessione, di parlare solo quando mi veniva rivolta la parola e di chiamarle milady.»
«Tu mettiti a chiamarmi milady e perfino Frittella capirà chi sono. E sarà anche meglio che continui a pisciare come hai sempre fatto.»
«Come milady comanda.»
Arya gli picchiò entrambi i pugni sul petto. Lui inciampò su una pietra e cadde a sedere con un tonfo. «Ma che genere di figlia di lord saresti?» disse Gendry ridendo.
«Di questo genere!» Arya gli assestò un calcio al fianco, il che lo fece ridere ancora di più. «Ridi, continua pure a ridere quanto ti pare. Io vado a vedere chi c’è in quel villaggio.»
Il sole era già scomparso dietro gli alberi. Ben presto, il crepuscolo sarebbe scivolato su di loro. Per una volta, fu Gendry a doversi affrettare per starle dietro.
«Lo senti questo tanfo?» gli disse.
Gendry annusò: «Pesce marcio?».
«Lo sai che non lo è.»
«Meglio che stiamo attenti. Io faccio il giro da ovest, per vedere se c’è una strada. Deve esserci, se hai visto un carro. Tu vai per la riva. Se ti trovi nei guai, abbaia come un cane.»
«È una stupidata. Se ho bisogno di aiuto, grido aiuto.»
Arya partì di corsa, i piedi nudi che si muovevano sull’erba senza fare rumore. Si voltò a gettare una rapida occhiata dietro di sé. Gendry la stava osservando con quell’espressione di dolore che indicava che stava pensando. “Probabilmente pensa che non dovrebbe permettere a milady di andare a rubare del cibo.” Arya sapeva che d’ora in avanti Gendry si sarebbe comportato da scemo.
Avvicinandosi al villaggio, il tanfo divenne sempre più forte. Non assomigliava per niente a quello del pesce marcio: era un lezzo ben più fetido, ben più venefico, che le fece arricciare il naso.
Dove gli alberi cominciarono a diradarsi, Arya continuò ad avanzare dietro la copertura dei cespugli, scivolando da uno all’altro, silenziosa come un’ombra. Ogni pochi passi si fermava ad ascoltare. Alla terza pausa, udì un rumore di cavalli, e anche la voce di un uomo. Il tanfo divenne sempre più forte. Puzzo di uomini morti, ecco che cos’era. L’aveva già sentita, quella puzza, con Yoren e gli altri.
A sud del villaggio, i rovi crescevano fitti. Quando Arya li raggiunse, le lunghe ombre del sole che tramontava avevano cominciato a svanire e le lucciole a fare la loro comparsa. Appena oltre i rovi c’erano i tetti di paglia. Arya strisciò dietro le piante, trovò un varco tra i rami, vi s’infilò contorcendosi sul ventre. Alla fine, vide da che cosa emanava il tanfo.
Lungo le placide acque dell’Occhio degli Dei, era stata eretta una lunga fila di forche di legno ancora fresco. Da ogni forca, penzolavano a testa in giù i resti di ciò che un tempo erano stati esseri umani, i piedi incatenati, divorati dai corvi che svolazzavano da un cadavere all’altro. E per ogni corvo, c’erano cento mosche ronzanti. Quando il vento soffiava dal lago, il cadavere più vicino all’acqua oscillava impercettibilmente, le catene che tintinnavano. Le beccate gli avevano strappato via la maggior parte della faccia. Ma a banchettare era passato anche qualche altro animale, qualcosa di più grosso: la gola e il torace erano squarciati, grovigli d’intestini verdastri e filamenti di muscoli lacerati penzolavano dalla voragine scavata nel ventre. Un intero braccio era stato sradicato dalla spalla. A qualche passo di distanza, Arya notò delle ossa, tutte rosicchiate, spezzate, ripulite da ogni brandello di carne.
S’impose di osservare il cadavere successivo, e quello successivo, e quello successivo ancora, convincendosi di essere dura come la pietra. Morti, tutti morti, ridotti in un tale stato di scempio e ormai così decomposti che le ci volle qualche momento per rendersi conto che erano stati denudati prima di venire appesi. Non sembravano persone nude, in realtà non sembravano nemmeno persone. I corvi avevano mangiato a tutti gli occhi, in certi casi addirittura la faccia. Del sesto cadavere restava solamente una gamba, penzolante dalla catena, oscillante nel vento come un pendolo grottesco.
“La paura uccide più della spada.” I morti non potevano farle del male, ma chi li aveva uccisi sì. Parecchio oltre le forche, due uomini che indossavano cotte di ferro montavano la guardia, appoggiati alle loro lance, di fronte all’edificio basso e allungato, quello con il tetto di tegole. Da un paio di alti pali conficcati nel terreno fangoso davanti alla costruzione pendevano vessilli afflosciati nell’aria pressoché immobile. Uno degli stendardi sembrava rosso, l’altro era più chiaro, bianco o forse giallo. Nella luce incerta del crepuscolo, Arya non fu in grado di dire con sicurezza se si trattasse del porpora dei Lannister. “Non ho bisogno di vedere il leone, mi bastano i morti… Chi altri avrebbe potuto ucciderli così se non i Lannister?”
Poi ci fu un grido.
I due lancieri si voltarono di scatto. Un terzo uomo apparve sulla riva del lago, spingendo davanti a sé un prigioniero. Le tenebre stavano avanzando ed era difficile distinguere le loro facce. Il prigioniero, però, portava un elmo lucido. Un elmo con le corna, vide Arya. Avevano preso Gendry! “Stupido, stupido, stupido!” Se lo avesse avuto davanti, l’avrebbe preso ancora a calci.
Le guardie parlavano a voce alta, ma lei era troppo lontana per capire che cosa stessero dicendo, specialmente con tutti quei corvi che volavano e gracchiavano. Uno dei due uomini armati di lancia strappò l’elmo dalla testa di Gendry e gli fece una domanda. La risposta di certo non gli andò a genio, perché gli pestò lo stelo della lancia dritto in faccia, mandandolo a terra. Quello che lo aveva catturato lo prese a calci, il terzo soldato si provò l’elmo. Alla fine, rimisero Gendry in piedi e lo trascinarono verso il basso edificio. Quando aprirono le pesanti porte in legno, un ragazzino sgusciò fuori e si diede alla fuga. Una delle guardie lo afferrò per un braccio e lo scaraventò nuovamente dentro. Arya udì dei singhiozzi provenire dall’interno dell’edificio, quindi un urlo talmente lacerante, talmente pieno di sofferenza, da costringerla a mordersi il labbro inferiore.
Le guardie scaraventarono dentro anche Gendry e sbarrarono le porte. Un istante dopo, un colpo di vento si levò dal lago, agitando e gonfiando i vessilli. Quello sull’asta più alta recava l’emblema del leone dorato, proprio come Arya aveva temuto. Sull’altro stendardo, tre forme animali nere erano in corsa su uno sfondo di un colore giallo come burro. “Cani” pensò Arya. E li aveva già visti, ma dove?
Non aveva importanza. La sola cosa che importava era tirare Gendry fuori da là. Il Toro era testardo e anche stupido, ma Arya doveva aiutarlo. Si domandò se quei soldati sapevano che la regina lo stava cercando.
Una delle guardie si tolse il mezzo elmo che indossava e si mise in capo quello di Gendry. Questo la fece inferocire, ma Arya sapeva che non poteva fare niente per impedirlo. Credette di udire altre urla, soffocate dalle pareri di mattoni, provenire dal basso magazzino privo di finestre, ma era difficile esserne certi.
Rimase appostata tra i rovi a lungo. Vide il cambio del turno di guardia e osservò anche parecchie altre cose. Uomini andavano e venivano. Alcuni portarono i cavalli ad abbeverarsi al fiumiciattolo. Un gruppo di cacciatori emerse dal bosco, con la carcassa di un cervo abbattuto appesa a un palo. Li osservò mentre scuoiavano l’animale e accendevano un fuoco su cui arrostirlo sulla sponda opposta del torrente. L’odore della carne cotta si mescolò in modo strano con il lezzo della decomposizione. Il suo stomaco vuoto ebbe una contrazione dolorosa. Per un momento, Arya credette di vomitare. La prospettiva del cibo fece uscire altri uomini dalle case. Tutti indossavano maglie di ferro o abiti di cuoio. Una volta che il cervo fu completamente arrostito, le porzioni migliori vennero portate in una delle case.
Stava facendosi sempre più buio. Arya aveva pensato che, con il favore dell’oscurità, avrebbe potuto avvicinarsi e liberare Gendry. Le guardie però accesero torce dal fuoco sotto lo spiedo del cervo. Uno scudiero portò carne e pane alle due guardie presso il magazzino. Poco dopo, altri due soldati arrivarono a ingrossare il gruppo. Un otre di vino venne passato in giro. Una volta che ebbero finito di bere, gli altri se ne andarono ma le due guardie rimasero, appoggiate alle loro lance.
Quando Arya finalmente si decise a muoversi, strisciando fuori dai rovi e facendosi inghiottire dalla tenebre del bosco, sentiva le braccia e le gambe dolorosamente rigide. Era una notte nera, un’esile falce di luna argentata che occhieggiava fra grappoli di nubi opache spinte dal vento. “Silenziosa come un’ombra” disse fra sé Arya mentre continuava a spostarsi fra gli alberi. Non osava mettersi a correre in quell’oscurità: sarebbe stato facile inciampare in una radice sporgente o anche smarrirsi. Alla sua sinistra, le acque dell’Occhio degli Dei sciabordavano quietamente sulle rive. Sulla destra, il vento scivolava tra i rami, facendo stormire e schioccare le loro chiome. Lontano, udì lupi ululare.
Mancò poco che Lommy e Frittella se la facessero sotto, quando Arya si materializzò dal buio alle loro spalle.
«Zitti!» Arya mise un braccio attorno alle spalle di Donnola, la piccola che le era corsa incontro nell’attimo in cui l’aveva vista tornare.
«Pensavamo che ci avevate abbandonati…» Frittella la fissò con occhi sbarrati. Aveva in pugno la spada corta che Yoren aveva tolto al comandante delle cappe dorate. «Avevo paura che eri un lupo…»
«Dov’è il Toro?» domandò Lommy.
«L’hanno preso» rispose Arya in un sussurro. «Dobbiamo tirarlo fuori. E tu, Frittella, mi aiuterai. Ci avvicineremo e uccideremo le guardie. Poi io aprirò la porta.»
Frittella e Lommy si scambiarono un’occhiata: «Quante guardie ci sono?».
«Non sono riuscita a contarle» rispose Arya. «Almeno una ventina, ma soltanto due sulla porta del magazzino.»
Frittella pareva sul punto di mettersi a piangere: «Non possiamo combattere contro venti uomini!».
«Devi combattere contro uno solo. Dell’altro, mi occupo io. Poi facciamo uscire Gendry e scappiamo.»
«Dobbiamo arrenderci» berciò Lommy. «Sì: andare laggiù e arrenderci.»
Arya scosse il capo con ostinazione.
«Lasciamolo lì e basta, Arry» implorò Lommy. «Loro non sanno che siamo qui. Se ci nascondiamo, andranno via. Tu sai che lo faranno. Non è colpa nostra se Gendry è stato catturato.»
«Sei proprio stupido, Lommy» disse Arya con rabbia. «Tu morirai se non liberiamo Gendry… chi ti trasporterà?»
«Tu e Frittella.»
«Per tutto il tempo, senza nessuno ad aiutarci? Non ce la faremo mai. È Gendry il più forte. In ogni caso, non m’importa di quello che dici. Io torno a liberarlo.» Lanciò uno sguardo a Frittella. «Vieni o no?»
Frittella guardò Lommy, poi Arya, poi di nuovo Lommy. «D’accordo» cedette con riluttanza. «Vengo.»
«Lommy, tu tieni qui Donnola.»
Lommy afferrò la bambina per un braccio: «Ma che faccio se vengono i lupi?».
«Ti arrendi» suggerì Arya.
Parve che ci vollero ore intere per raggiungere il villaggio. Frittella continuava a inciampare nel buio e a perdere la strada. Arya fu costretta ad aspettarlo e, in certi casi, addirittura a tornare indietro per recuperarlo. Alla fine, lo prese per mano e lo guidò tra gli alberi.
«Ora fa’ piano e resta vicino a me.»
Quando arrivarono in vista del chiarore delle torce del villaggio, rosso contro il cielo nero, Arya lo avvertì: «Ci sono uomini morti appesi sull’altro lato di questi cespugli. Niente di cui avere paura. Ricorda: la paura uccide più della spada. Dobbiamo muoverci molto piano e in silenzio».
Frittella trovò la forza di annuire. Arya fu la prima a mettersi a strisciare sotto i rovi, aspettandolo sul margine estremo dei cespugli. Frittella apparve accanto a lei dopo parecchio tempo, terreo in viso e dal fiato corto, gambe e braccia coperte di lunghi graffi sanguinanti provocati dalle spine. Fece per dire qualcosa, ma Arya gli mise un dito davanti alle labbra, facendolo tacere. A carponi, avanzarono lungo le forche, proprio sotto i cavaderi in putrefazione. Frittella non alzò lo sguardo nemmeno una volta, non si lasciò sfuggire nemmeno un rumore… fino a quando uno dei corvi non planò ad atterrargli sulla schiena. Frittella ebbe un sussulto, emettendo un gemito soffocato.
«Chi va là!»
Nel silenzio delle tenebre, l’improvvisa intimazione parve un rombo di tuono.
«Mi arrendo!» Frittella balzò in piedi in mezzo a un nugolo di corvi gracchianti che si levarono in volo, disturbati dal subitaneo movimento, e gettò la spada. Arya cercò di afferrarlo per la gamba e di tirarlo giù, ma non ci fu niente da fare: Frittella si divincolò, liberandosi della stretta, e corse avanti continuando a gridare: «Mi arrendo! Mi arrendo!».
Arya schizzò in piedi a sua volta, estraendo Ago. Una torma di uomini armati sorse tutto attorno a lei. Arya assestò un fendente al più vicino, ma l’armigero bloccò il colpo con un braccio coperto d’acciaio. Un altro la investì da dietro, gettandola al suolo. Un terzo le strappò la spada. Arya cercò di dare di morso: i suoi denti si chiusero sul freddo rugginoso e sporco di una maglia di ferro.
«Guardate, ne abbiamo uno che combatte!» rise l’uomo. Il colpo del suo pugno coperto di maglia di ferro per poco non le staccò la testa dal collo.
Arya giacque sul terreno ascoltando gli armigeri che parlavano fra loro, ma non riuscì a capire che cosa stessero dicendo. Le orecchie le fischiavano. Quando cercò di strisciare verso il lago, la terra sotto di lei parve muoversi da sola. “Hanno preso Ago.” La vergogna fu addirittura peggiore del dolore, che pure era forte. Era stato Jon Snow a darle quella spada, e Syrio Forel le aveva insegnato a usarla.
Alla fine, qualcuno l’afferrò per il corpetto e la mise a forza in ginocchio. Anche Frittella era in ginocchio, al cospetto dell’uomo più alto e gigantesco che Arya avesse mai visto, una specie di mostro uscito dalle storie sinistre della vecchia Nan. Tre cani neri erano in corsa sulla sbiadita tunica gialla che portava sopra l’armatura e la sua faccia sembrava tagliata in un blocco di pietra. E di colpo, Arya ricordò dove aveva già visto quei tre cani neri: ad Approdo del Re, la notte del torneo del Primo Cavaliere, i contendenti avevano esposto gli scudi fuori delle loro tende. “Quello appartiene al fratello del Mastino” le aveva confidato sua sorella Sansa, indicando i cani neri su sfondo giallo. “Vedrai: è addirittura più grosso di Hodor. Lo chiamano la Montagna che cavalca.”
Arya chinò il capo, solo parzialmente consapevole di ciò che stava accadendo attorno a lei. Frittella si stava arrendendo un altro po’.
«Ora ci porterete dagli altri» disse la Montagna. Poi si voltò e se ne andò.
Arya si ritrovò spinta a camminare a lato dei cadaveri sulle forche, mentre Frittella diceva agli aguzzini che avrebbe cotto per loro pane fresco e frittelle, a patto che non gli facessero del male. Andarono in quattro con loro: uno portava una torcia, un altro era armato di spada, gli altri due di lance.
Trovarono Lommy là dove lo avevano lasciato, sotto la quercia. «Mi arrendo!» implorò nel momento stesso in cui vide corazze e lame, gettando via la sua lancia e alzando le mani coperte di chiazze di vecchia tintura verde. «Mi arrendo… vi supplico!»
«Ci sei solo tu?» L’uomo con la torcia si mise a cercare tra gli alberi vicini. «Il fornaio dice che c’è anche una bambina.»
«Vi ha sentito arrivare ed è scappata» spiegò Lommy. «Ne avete fatto, di rumore…»
“Corri, Donnola!” Arya sentiva un nodo alla gola. “Corri più in fretta che puoi. Corri, nasconditi e non tornare indietro!”
«Diteci dov’è quel figlio di una scrofa di Dondarrion e c’è un pasto caldo per tutti voi.»
«Chi?» domandò Lommy senza riuscire a raccapezzarsi.
«Te l’ho detto» fece quello armato di spada. «Questi qua non ne sanno di più delle troie giù al villaggio. Un fottuto spreco di tempo.»
Uno degli uomini con la lancia si avvicinò a Lommy: «Qualcosa che non va alla tua gamba, ragazzo?».
«È ferita.»
«Puoi camminare?» Sembrava preoccupato.
«No.» Lommy scosse la testa. «Mi dovete portare.»
«Tu dici?»
Con calma, quasi con tedio, l’uomo sollevò la lancia e gliela affondò in gola. Lommy Maniverdi non ebbe neppure il tempo per arrendersi di nuovo. Ebbe un sussulto, uno solo, poi più niente.
«“Mi dovete portare” ha detto…» Sghignazzando, l’armigero strappò l’arma fuori dallo squarcio. Il sangue zampillò in una fontana oscura. «Ma ti rendi conto?»