PARTE TERZA Independence

«Sono convinto che — come i fondamenti matematici — i diritti siano universali, indipendentemente dagli uomini, primo fra tutti il diritto alla vita. Il dilemma è: dove sono scritti? E chi altri può permetterseli oltre agli uomini? Ci piacerebbe accettare l'idea che, al di fuori delle nostre percezioni, esistano diritti e valori, ma non possiamo metterci al di fuori delle nostre percezioni. Sarebbe come se il gatto dovesse decidere se il topo può essere mangiato.»

Da Leon Anawak, Autocoscienza e consapevolezza

12 agosto

Mar di Groenlandia

Samantha Crowe appoggiò i suoi appunti e guardò fuori.

Il CH-53 Super Stallion si abbassava velocemente. Una forte brezza scuoteva l'elicottero lungo trenta metri. Sembrava quasi cadere sulla piattaforma in mezzo al mare, e Samantha si domandava come un affare tanto gigantesco potesse stare a galla. Ma, nel contempo, si chiedeva: come si può atterrare su una cosa così piccola?

Più di cinquecento miglia marine a nord-est dell'Islanda, sopra la piana abissale groenlandese, c'era la USS Independence LHD-8, una città galleggiante, strana e irta di strutture, col fascino di un mezzo spaziale uscito da Alien. Due ettari di libertà e novantasettemila tonnellate di diplomazia, così la definiva la Marina. Per le settimane seguenti, la più grande portaerei tattica del mondo sarebbe stata la casa di Samantha Crowe. Per un po' di tempo, il suo indirizzo sarebbe stato: USS Independence LHD-8, 75° latitudine nord, tremilacinquecento metri dal fondale marino.

Il suo compito: condurre una conversazione.

L'elicottero virò. Con un movimento circolare, il Super Stallion si mosse verso il punto di atterraggio e si posò. Attraverso i finestrini laterali, Samantha vide un uomo con una tuta da lavoro gialla che dava indicazioni al pilota. Qualcuno dell'equipaggio la aiutò a slacciarsi la cintura e a indossare casco, cuffie, jacket e occhiali protettivi. Il volo era stato sgradevole e Samantha si sentiva malferma sulle gambe. Con passi incerti scese dall'elicottero, passò sotto la coda del Super Stallion e si guardò intorno.

Sulla pista d'atterraggio c'erano poche persone. Quel vuoto aumentava l'impressione di un posto surreale: una distesa asfaltata, pressoché infinita, punteggiata di fortificazioni, lunga 257,25 metri e larga 32,6. Samantha Crowe lo sapeva con precisione. Era una scienziata col debole per i numeri esatti, quindi aveva cercato di sapere tutto il possibile sulla USS Independence, ma in quel caso la teoria capitolava di fronte alla realtà. La vera Independence non aveva nulla a che vedere coi disegni dei progetti e i dati tecnici. Nell'aria aleggiava un intenso odore di petrolio e kerosene, cui si mischiavano quello di gomma calda e sale. Il ponte era spazzato da un vento violento che sembrava strapparle la tuta.

Non era un luogo per viaggi di piacere.

C'erano uomini con giubbotti colorati e cuffie antirumore che correvano da tutte le parti. Uno le andò incontro, mentre alcuni soldati scaricavano il suo bagaglio. Avevano un giubbotto bianco. Samantha cercò di ricordare. Il bianco era il colore dei responsabili della sicurezza. Quelli in giallo dirigevano il traffico degli elicotteri sul ponte, quelli vestiti di rosso si occupavano del carburante e delle armi. E in marrone non c'era nessuno? E in lilla? Di che cosa si occupavano quelli in marrone?

Il freddo le entrò fin sotto la pelle.

«Mi segua», gridò l'uomo per sovrastare il fragore dei rotori che si stavano fermando. Indicò l'unica costruzione della portaerei. Pareva un condominio ed era sormontata da antenne e da enormi parabole. Mentre seguiva il suo accompagnatore, Samantha si toccò meccanicamente il fianco con la mano destra. Poi le venne in mente che, con indosso la tuta, non poteva prendere le sigarette. Non aveva potuto fumare neanche sull'elicottero. Volare sull'Artico col vento forte per lei non era un problema, ma l'astinenza da nicotina non riusciva a reggerla.

L'uomo aprì un portellone e lei entrò nell'«isola», come veniva chiamato quell'edificio nel gergo della Marina. Dopo avere oltrepassato una doppia paratia, si trovò a respirare aria fresca e pulita, ma non riuscì a cancellare la sensazione di soffocamento che quel luogo le comunicava. L'uomo della sicurezza la affidò a un gigantesco uomo di colore, che indossava un uniforme e che si presentò come maggiore Salomon Peak. Si strinsero la mano. Peak sembrava molto rigido, come se non fosse abituato a trattare coi civili. Nelle ultime settimane, Samantha aveva parlato spesso con lui, ma solo per telefono. Attraversarono un corridoio tortuoso e scesero attraverso ripide scalette nella parte più interna della nave, seguiti da due soldati col bagaglio. Su una parete spiccava a grandi lettere l'indicazione LIVELLO 2.

«Sicuramente vorrà darsi una rinfrescata», disse Peak, aprendo una porta identica alle numerose altre che si allineavano sui due lati del corridoio. Apparve così una stanza incredibilmente spaziosa e ben arredata, quasi una piccola suite. Samantha aveva letto che, su una portaerei, lo spazio privato era ridotto al minimo e che i soldati dormivano in camerate.

Interpretando l'espressione della donna, Peak sollevò le sopracciglia. «Aveva forse creduto di finire coi marinai?» disse, accennando un sorriso. «La Marina sa come comportarsi coi propri ospiti. Questa è la zona degli ammiragli.»

«La zona degli ammiragli?»

«È il nostro Hotel Excelsior. Sono gli alloggi per gli ammiragli e per il loro stato maggiore quando vengono a bordo. Attualmente l'equipaggio non è al completo, così abbiamo tutto lo spazio del mondo. La parte femminile della spedizione è sistemata negli alloggi per gli ammiragli; la parte maschile in quelli degli ufficiali. Posso?» Le passò davanti e aprì un'altra porta. «Bagno personale e WC.»

«Sono impressionata.»

I soldati portarono dentro il bagaglio.

«Sotto il televisore c'è un minibar», spiegò Peak. «Analcolici. Le basta una mezz'ora per sistemarsi prima della prossima riunione?»

«Eccome.»

Samantha attese finché Peak non ebbe chiuso la porta alle proprie spalle, poi si mise freneticamente alla ricerca di un portacenere. Lo trovò in una credenza, armeggiò per sfilarsi la tuta e frugò nella giacca sportiva alla ricerca delle sigarette. Tornò a sentirsi un vero essere umano soltanto dopo aver preso una sigaretta dal pacchetto schiacciato, averla accesa e aver inalato il fumo.

Si accomodò sul bordo del letto.

In realtà era una cosa triste. Due pacchetti al giorno erano una cosa maledettamente triste, come pure non riuscire a smettere. Ci aveva provato due volte. E non ce l'aveva fatta.

Forse non voleva farcela.

Dopo la seconda sigaretta, andò sotto la doccia. Quindi s'infilò jeans, scarpe da ginnastica e felpa, fumò un'altra sigaretta e guardò in tutti i cassetti e negli armadi. Quando qualcuno bussò alla porta, aveva studiato così a fondo la cabina che avrebbe potuto farne un inventario completo. Le piaceva essere informata.

Alla porta non c'era Peak, ma Leon Anawak.

«L'avevo detto che ci saremmo rivisti», esordì lui con un sorriso.

Samantha rise. «E io avevo detto che avrebbe ritrovato le sue balene. È bello rivederla, Leon. È lei la persona che devo ringraziare per essere stata convocata qui, giusto?»

«Chi gliel'ha detto?»

«Judith Li.»

«Credo che sarebbe qui anche senza il mio intervento. Però senza dubbio ho contribuito un po'. Deve sapere che l'ho sognata.»

«Santo cielo!»

«Non si preoccupi. Mi è apparsa come uno spirito buono. Com'è stato il volo?»

«Rumoroso. Sono l'ultima, vero?»

«Noi siamo saliti a bordo a Norfolk.»

«Sì, lo so. Ma non potevo venir via prima da Arecibo. Non ci crederà, ma c'è una gran quantità di lavoro da svolgere anche per non far funzionare un progetto. Per ora il SETI è stato accantonato. Al momento non ci sono soldi per esplorare l'universo alla ricerca di omini verdi.»

«Forse troveremo più omini verdi di quanti vorremmo», replicò Anawak. «Venga, Peak arriverà tra un minuto. Le mostreremo le possibilità dell'Independence. Poi toccherà a lei. Sono tutti molto eccitati. Le hanno già dato anche un soprannome.»

«Un soprannome? E quale sarebbe?»

«Miss Alien.»

«Oh santo cielo! Per un bel pezzo mi hanno chiamata Miss Foster, dopo che Jodie Foster ha interpretato la mia parte nel film.» Samantha scosse la testa. «Ma sì, perché no? Spero di essermi portata le foto da autografare… Andiamo, Leon.»

Peak li guidò nel mondo del livello 2. Avevano iniziato la visita dalla parte anteriore della nave e ora si stavano spostando verso il centro. A prua, Samantha aveva ammirato la grande palestra piena di tapis roulant e di macchine. Era praticamente deserta.

«Di solito qui c'è un grande movimento», spiegò Peak. «L'Independence può ospitare tremila persone. Adesso a bordo non siamo neppure in duecento.»

Percorsero l'ala residenziale destinata agli ufficiali più giovani. C'erano cabine per quattro o sei persone con comode cuccette, spazio sufficiente per i bagagli, tavoli ribaltabili e sedie.

«Accogliente», commentò Samantha.

Peak scrollò le spalle. «Questione di punti di vista. Quando c'è vero movimento non si riesce a chiudere occhio. Pochi metri sopra la sua testa decollano e atterrano elicotteri e jet. I problemi maggiori, ovviamente, li abbiamo coi novellini.»

«E quando ci si abitua al rumore?»

«Mai. Però ci si abitua a non fare un sonno continuo. Sono stato spesso sulle portaerei, talvolta anche per mesi. Dopo un po', diventa assolutamente normale essere costantemente in stato di allerta. In compenso si perde l'abitudine a dormire nel silenzio. La prima notte a casa è un inferno. Si aspetta il rombo delle turbine, il tonfo dei velivoli e dei cavi di ancoraggio, i passi di corsa nei corridoi, i continui annunci… e invece si sente solo il ticchettio della sveglia.»

Giunsero infine al centro della nave. Di fianco alla mensa gigantesca, c'era una paratia, con chiusura a combinazione, che si apriva su una grande sala oscurata. Era la prima zona che Samantha vedeva animata. Davanti alle console illuminate da lampadine, erano seduti uomini e donne che fissavano gli schermi allineati lungo le pareti.

«Al livello 2 si trovano le sale di comando e di manovra», spiegò Peak. «Prima era tutto nella struttura dell'isola, ma là si correvano dei rischi. I mirini dei sistemi missilistici nemici puntano su strutture più calde e più grandi delle navi. Una di esse è ovviamente l'isola. Con un paio di colpi sarebbe come se vi staccassero la testa dalle spalle, così abbiamo portato gran parte delle sale di comando sottocoperta.»

«E che fate esattamente qui?»

«Questa sala è il CIC…»

«Ah, sì. Il Combat Information Center.»

Per un attimo, nel magro viso d'ebano, gli occhi lampeggiarono. Samantha Crowe sorrise e decise di tenere la bocca chiusa.

«Il CIC è il sistema nervoso centrale dei nostri sensori», disse Peak. «Tutti i dati arrivano in questa sala, quelli provenienti dalla nave e dai satelliti, ovviamente in tempo reale. Le difese della nave e quelle aeree, il rilevamento dei problemi, le comunicazioni… In caso di combattimento qui succede il pandemonio. Vede quei posti vuoti laggiù, dottoressa Crowe? Credo che ci passerà molto tempo.»

«Mi chiami Samantha. O più semplicemente Sam.»

«Da lì si vede e si ascolta sott'acqua», proseguì Peak, imperturbabile. «Sorveglianza dei sottomarini, rete di sonar SOSUS, Surtass LFA e molto altro. Rileviamo qualunque cosa si avvicini all'Independence.» Indicò un gigantesco monitor sotto il soffitto. Vi si poteva vedere un patchwork di diagrammi e di carte. «Il quadro completo. Raccoglie tutti i dati che arrivano alla nave e ne redige una panoramica. La stessa cosa, anche se rimpicciolita, la vede il comandante sul ponte.»

Peak li condusse nella stanza attigua. Era quasi completamente in penombra, illuminata solo da grandi schermi, monitor e display. Al CIC era collegato l'LFOC, il Landing Force Operation Center. «Funziona come centrale d'intervento per le truppe di terra. Ogni unità di combattimento dispone di una propria console. In caso di emergenza, i rilevamenti satellitari e gli aerei spia mostrano la posizione del nemico.» Era impossibile non sentire l'orgoglio nella voce di Peak. «Dall'LFOC possiamo spostare fulmineamente le truppe e sviluppare strategie. Il computer centrale collega in ogni momento il comandante con le unità in loco.»

Samantha vide su alcuni schermi il ponte di volo e, d'istinto, le venne da porre una domanda. E, benché sapesse che Peak avrebbe reagito aspramente, la fece comunque. «A che ci serve tutto questo, maggiore? Il nostro nemico è negli abissi marini.»

«Esatto.» Peak la guardò, irritato. «È appunto da qui che possiamo dirigere un'operazione sottomarina. Dov'è il problema?»

«La prego di scusarmi. Sono stata troppo a lungo nello spazio.»

Anawak sorrise. Finora aveva evitato ogni commento e si era limitato a seguirli. A Samantha piaceva averlo vicino. Peak mostrò loro altre sale di controllo. Adiacente al CIC si trovava il JIC, il Joint Intelligence Center. «Qui vengono decifrati e interpretati i dati di tutti i servizi d'informazione», commentò Peak. «All'Independence non si avvicina nulla che non sia esaminato con estrema attenzione e, se non piace ai ragazzi che sono qui, viene immediatamente colpito.»

«Una grande responsabilità», mormorò Samantha.

«Alcune cose vengono interpretate dal computer. Ma lei ha ragione.» Peak abbracciò la sala con un movimento della mano. «Il CIC e il JIC sono i settori scientifici. Tra l'altro, qui siamo costantemente aggiornati su ciò che avviene nel mondo. Abbiamo televisori sintonizzati sulla CNN, sull'NBC e su un'altra dozzina di reti. Lei avrà accesso a tutte le informazioni immaginabili e a tutte le banche dati della Defense Mapping Agency. Avrà il piacere di lavorare con la cartografia degli abissi marini elaborata dalla Marina, di gran lunga più dettagliata di quella che hanno a disposizione i ricercatori indipendenti.»

Ripresero a scendere. Visitarono lo spaccio di bordo, le camerate vuote, le sale di ricreazione e il gigantesco settore sanitario al livello 3, un'area asettica e deserta con seicento letti, sei sale operatorie e un enorme reparto di terapia intensiva. Samantha immaginò come doveva essere quel luogo durante una guerra. Uomini insanguinati che gridavano, medici e infermieri che correvano da tutte le parti. L'Independence le sembrava quasi una nave fantasma… anzi una città fantasma. Risalirono al livello 2 e proseguirono verso poppa, finché non raggiunsero una rampa che sembrava fatta per le automobili.

«Il tunnel conduce a zig-zag dal ventre della nave fino all'isola», disse Peak. «L'Independence è costruita in maniera tale che si possano raggiungere con la jeep i livelli strategici più importanti. Anche i marine marciano in coperta attraverso i tunnel. Adesso scendiamo.»

I loro passi risuonavano tra le pareti d'acciaio. A Samantha, quel luogo fece venire in mente un parcheggio; poi il tunnel sfociò in un gigantesco hangar. Lei sapeva che occupava, in lunghezza, circa un terzo della nave e, in altezza, almeno due ponti. Era esposto alle correnti d'aria. Su due lati si aprivano imponenti portoni che conducevano alle piattaforme esterne. L'illuminazione, di un giallo pallido, si confondeva con la luce del giorno, creando un'atmosfera surreale. Tra i costoloni laterali si vedevano piccoli uffici e punti di controllo dietro pareti di vetro. Un sistema di trasposto a rotaia fornito di ganci si stendeva lungo il ponte, Samantha vide grandi muletti e, sullo sfondo, due fuoristrada Hummer.

«Normalmente l'hangar è pieno di velivoli», disse Peak. «Ma, per questa missione, abbiamo sei elicotteri Super Stallion in coperta. In caso di emergenza, ognuno di essi può evacuare cinquanta persone. Abbiamo anche due elicotteri da combattimento Super Cobra per le missioni rapide.» Indicò le due aperture sui lati. «Le piattaforme esterne sono elevatori, con cui normalmente spostiamo i velivoli da qui al ponte di volo. Hanno una portata di oltre trenta tonnellate.»

Samantha uscì dal portone dell'hangar e guardò il mare, grigio e gelido fino all'orizzonte. Era raro che gli iceberg arrivassero da quelle parti. La corrente della Groenlandia orientale scorreva lungo la costa, a oltre trecento chilometri di distanza. Lì si vedevano solo alcune lastre di ghiaccio melmoso alla deriva.

Anawak le si avvicinò. «Uno dei molti mondi possibili, vero?»

Samantha annuì.

«Tra i suoi scenari per le civiltà extraterrestri c'è anche una variante sottomarina?»

«Nel nostro repertorio abbiamo di tutto, Leon. Lei riderà, però, quando penso a forme di vita extraterrestri, guardo prima di tutto al nostro pianeta. Guardo agli abissi marini e al sottosuolo, ai poli e in aria. Finché non si conosce il proprio mondo, non ci si può fare un'idea degli altri.»

«Credo che il nostro problema sia proprio questo», mormorò Anawak.

Seguirono Peak che scendeva lungo la rampa che collegava i livelli. Il tunnel sbucava in un corridoio che conduceva a prua. Ormai si trovavano nel cuore dell'Independence. Su un lato c'era una paratia da cui usciva una fredda luce artificiale. Quando entrarono, Samantha riconobbe la biologa con cui nelle ultime settimane aveva parlato spesso per videotelefono. Sue si trovava accanto a uno dei numerosi tavoli, impegnata in una conversazione con due uomini che si presentarono come Sigur Johanson e Mick Rubin.

Sembrava che l'intero ponte fosse stato trasformato in un laboratorio. Tavoli e strumenti erano raggruppati in isole. Vide lavandini, frigoriferi, due container collegati tra loro e cartelli che mettevano in guardia dal rischio biologico. Era un settore di massima sicurezza. In mezzo, c'era qualcosa delle dimensioni di una piccola casa circondata da una passerella. Si raggiungeva con scale d'acciaio. Grossi tubi e fasci di cavi collegavano le pareti della cisterna con apparecchiature grandi come armadi. Una grande finestra ovale permetteva di vedere l'interno illuminato con una luce diffusa. Sembrava pieno d'acqua.

«Avete un acquario a bordo?» esclamò Samantha. «Che bello.»

«È un simulatore di abissi marini», spiegò Sue. «L'originale si trova a Kiel ed è un po' più grande. In compenso, questo ha una finestra di vetro blindato. La pressione che c'è là dentro ucciderebbe una persona, ma è proprio quella che tiene in vita altri esseri. Attualmente, nella cisterna, ci sono circa duecento granchi bianchi catturati a Washington e messi subito in contenitori ad alta pressione. È la prima volta che riusciamo a mantenere in vita la gelatina. Perlomeno crediamo di esserci riusciti. Finora non si è fatta vedere, ma siamo sicuri che è dentro quei granchi e li guida.»

«Affascinante», disse Samantha. «Ma il simulatore non è a bordo solo per i granchi, vero?»

Johanson fece un sorriso misterioso. «Non si sa mai che cosa finisce nella rete.»

«Quindi è una specie di campo per prigionieri di guerra.»

«Un campo per prigionieri di guerra!» ripeté Rubin, ridacchiando. «Mica male come idea.»

Samantha si guardò intorno. La zona era ermeticamente chiusa. «Questo non era un ponte per ospitare velivoli?» chiese.

Peak sembrò stupito. «Be', sì. Se si attraversa quella paratia, si raggiunge la metà posteriore dell'Independence e l'hangar è proprio sopra di noi. Sbaglio o ha letto molto su questa nave?»

«Sono curiosa», ammise Samantha con modestia.

«Rimane solo da sperare che trasformi la sua curiosità in conoscenza.»

«Che musone», sussurrò lei ad Anawak, mentre lasciavano il laboratorio e percorrevano il tunnel sullo stesso livello verso poppa.

«Non proprio.» Anawak scosse la testa. «Il buon Sal è un tipo a posto. Più che altro guarda con sospetto ai civili che ne sanno più di lui.»

Il tunnel sfociava in una zona ancora più alta e lunga dell'hangar. Raggiunsero una sponda artificiale che si affacciava su un bacino rivestito di legno e posto molto più in basso. Sembrava una gigantesca piscina vuota. Al centro era stata montata una copertura di vetro rettangolare, costituita da due paratie, l'una vicina all'altra. Su un lato si stendeva un'ampia vasca, le cui ombre increspate rispecchiavano l'illuminazione circostante. Samantha vide corpi sottili dalla forma di siluro che si muovevano sotto la superficie.

«Delfini», esclamò, sorpresa.

Peak annuì. «La nostra squadra speciale.»

Il suo sguardo si spostò verso l'alto. Anche su quel soffitto c'era un sistema di rotaie con molte ramificazioni. A esso erano appese strutture dal singolare aspetto di opere d'arte futurista, come se qualcuno avesse incrociato una gigantesca macchina sportiva con un batiscafo e un aereo. Ai due lati del bacino, la sponda proseguiva in passerelle a forma di molo. Lungo le pareti, erano accatastate le casse con le attrezzature. Tra le altre cose, negli armadietti aperti, Samantha vide sonde, strumenti di misurazione e mute. A intervalli regolare erano inoltre sistemate delle scalette, che conducevano sul fondo della vasca.

Nella parte anteriore del bacino c'erano quattro zodiac.

«Qualcuno ha tolto il tappo?» chiese.

«Sì, ieri sera. In genere il tappo è là.» Peak indicò la copertura di vetro, lunga otto metri e larga dieci. «La chiusa, la nostra porta verso il mare. Ha un doppio sistema di sicurezza: una paratia di vetro, posta sul pavimento, e una massiccia paratia d'acciaio sulla parte esterna. In mezzo c'è un pozzo alto tre metri. Il sistema è semplicissimo. Quando un'imbarcazione entra nella chiusa, chiudiamo la copertura di vetro e apriamo la paratia di acciaio per farla uscire. Se vuole tornare all'interno della nave, procediamo nello stesso modo. L'imbarcazione entra nella chiusa, le paratie d'acciaio si chiudono e noi possiamo vedere attraverso la copertura di vetro se con lei è entrato qualcosa che non ci piace. Contemporaneamente, l'acqua viene sottoposta a un'analisi chimica. L'interno della chiusa è fornito di sensori, che rivelano la presenza di tossine o di agenti contaminanti. I risultati vengono riportati su due display, uno sul bordo della paratia e l'altro nella sala di controllo. L'imbarcazione rimane nella chiusa per circa un minuto. Se tutto è a posto, la copertura di vetro si apre e il batiscafo può rientrare. I delfini sono sottoposti alla stessa procedura. Venga.»

Percorsero il molo di dritta. A metà lunghezza era situata una console, vicinissima al bordo e fornita di monitor e di diversi sistemi di comando. Un uomo ossuto, con lo sguardo penetrante e i baffi sporgenti, venne loro incontro, staccandosi da un gruppo di persone in divisa.

«Il colonnello Luther Roscovitz», lo presentò Peak. «Direttore della stazione d'immersione.»

«Lei è Miss Alien, vero?» Roscovitz sorrise, svelando denti lunghi e gialli. «Benvenuta in crociera. Dove si è imboscata finora?»

«La mia nave spaziale era in ritardo.» Samantha si guardò intorno. «Com'è chic questo quadro di comando.»

«Risponde al suo scopo. Lo usiamo per comandare le paratie e per far salire e scendere i batiscafi. Inoltre da qui controlliamo anche le pompe per mantenere sott'acqua il ponte.»

Samantha richiamò alla memoria quello che sapeva sull'Independence. Con un movimento del capo indicò la parete d'acciaio rivolta verso poppa, quella che chiudeva il ponte. «Quella è una paratia, vero?»

«Esatto», rise Roscovitz sotto i baffi. «Possiamo alzare il portellone di poppa e far abbassare la nave riempiendo le diverse cisterne di zavorra. L'acqua del mare entra e così abbiamo un bel porto completo di accesso.»

«Un posto di lavoro proprio carino. Mi piace.»

«Non s'inganni. Normalmente qui è un via vai di navi da sbarco, rimorchiatori e hovercraft. In un attimo, questa zona così grande diventa un bugigattolo. Ma, per la nostra missione, abbiamo dovuto mettere tutto sottosopra. Non servono navi da sbarco. Abbiamo bisogno di una nave sufficientemente pesante per non essere affondata da qualche bestiaccia, che possa reggere le onde giganti, che disponga di tutto ciò che la moderna tecnologia delie comunicazioni possa offrire e che abbia spazio per i velivoli e per le basi d'immersione. È stata una vera fortuna che l'LHD-8 fosse in costruzione. La più grande e potente nave anfibia di tutti i tempi. Ormai era praticamente finita e abbiamo avuto la possibilità di apportare qualche modifica… non si poteva pretendere di più. Il cantiere navale sul Mississippi è molto avanzato. Gli ingegneri hanno concepito il ponte a pozzo in brevissimo tempo, poi hanno fatto costruire la chiusa e cambiato il sistema di pompaggio. Ora possiamo riempire il bacino senza aprire il portellone. Che comunque ci serve solo se vogliamo uscire con gli zodiac.»

Samantha guardò il bacino. Accanto a esso c'erano due persone che indossavano una tuta di neoprene: una donna gracile coi capelli rossi e un gigante dalla chioma nera. Entrambi osservavano un animale che si avvicinava al bordo e sollevava la testa dall'acqua, emettendo suoni giocosi. Il gigante lo accarezzò sulla testa liscia e il delfino si gustò le coccole per qualche secondo, poi s'immerse.

«E chi sono quelli?» chiese Samantha.

«Si occupano della squadra dei delfini», intervenne Anawak. «Lei si chiama Alicia Delaware e lui è…» Esitò. «… Greywolf.»

«Greywolf?»

«Sì. O anche Jack… Lo chiami come vuole. Risponde a entrambi i nomi.»

«A cosa serve la squadra?»

«Sono telecamere viventi. Quando sono fuori, registrano filmati su nastri magnetici. Ma il motivo principale è che i delfini dispongono di sensi più acuti dei nostri. Il loro sonar percepisce altre forme di vita molto prima che i nostri sistemi le registrino. Jack ha già lavorato con alcuni di quegli animali nell'ambito di un programma sui mammiferi marini. Dispongono di un ampio vocabolario, composto da diversi fischi. Uno per le orche, uno per le balene grigie, un altro per le megattere e così via. Sono in grado d'identificare ogni forma di vita che conoscono, inoltre classificano i banchi e, se trovano qualcosa che non conoscono, trasmettono l'informazione identificandola come forma di vita sconosciuta.»

«Notevole.» Samantha sorrise. «E quel bell'uomo coi capelli lunghi capisce la lingua dei delfini?»

Anawak annuì. «Meglio della nostra. A volte.»

Si ritrovarono nella sala riunioni di fronte all'LFOC. Samantha conosceva già la maggior parte dei presenti, sia personalmente sia attraverso i contatti stabiliti grazie al videotelefono. Fu presentata a Murray Shankar — il direttore scientifico del SOSUS — a Karen Weaver, a Mick Rubin e anche al comandante dell'Independence, un uomo aitante coi capelli bianchi di nome Craig C. Buchanan, che sembrava incarnare lo stereotipo del militare. Conobbe anche Floyd Anderson, il primo ufficiale. Strinse una notevole quantità di mani e decise che Anderson, col suo collo taurino e coi suoi occhi neri, non le piaceva. Per ultimo salutò un uomo grasso arrivato con qualche minuto di ritardo. Indossava un berretto da baseball, una T-shirt giallo canarino con la scritta BACIAMI, SONO UN PRINCIPE e scarpe da ginnastica. Inoltre sudava profusamente.

«Jack Vanderbilt», si presentò. «A dire la verità, la madre di E.T. me la immaginavo diversa.»

«'Figlia' sarebbe stato un po' più elegante», ribatté Samantha, asciutta.

«Non si aspetti complimenti da uno che ha il mio aspetto», disse Vanderbilt, ridacchiando. «Non è fantastico, dottoressa Crowe? Finalmente ha l'occasione di mettere da parte il suo vano tentativo di proiettare nello spazio speranze e timori.»

Tutti sedettero. Judith Li prese la parola per riassumere gli ultimi avvenimenti, benché fossero già noti a tutti. Gli Stati Uniti avevano presentato una proposta all'ONU e, nel corso di una riunione segreta, avevano ricevuto all'unanimità il mandato per svolgere il ruolo di guida logistica e tecnologica nella lotta contro l'entità sconosciuta. Nel frattempo, il Giappone e alcuni Stati europei erano arrivati alla stessa conclusione del team dello Château: non erano gli uomini a minacciare l'umanità, ma una forma di vita sconosciuta. Comunque sembravano tutti sollevati all'idea di non aver dovuto pregare gli Stati Uniti per mettersi alla guida delle operazioni.

«Alcuni fatti inducono a pensare che siamo prossimi alla scoperta di un antidoto contro le tossine delle alghe killer, ma gli effetti collaterali non sono ancora ben definiti. Inoltre sono comparsi granchi che veicolano agenti patogeni mutati. Le infrastrutture degli Stati colpiti più duramente sono crollate. L'America si è accollata la responsabilità di dirigere le operazioni, ma dobbiamo ammettere che riusciamo appena a proteggere le nostre coste. I vermi si stanno raccogliendo sulla scarpata continentale e — ancor peggio — intorno a isole vulcaniche come La Palma, dove il dottor Frost e il dottor Bohrmann stanno cercando di ripulire le aree infestate con una specie di aspirapolvere abissale. E veniamo alle balene. Gli attacchi col sonar non ottengono risultati perché gli animali sono sopraffatti da un organismo estraneo. A ogni buon conto, fermare le balene non ci permetterebbe di bloccare il massimo incidente ipotizzabile provocato dal metano e tantomeno di rimettere in moto la Corrente del Golfo. La lotta contro i sintomi non risolve il problema, e finora non abbiamo potuto intervenire sulla causa, perché tutte le operazioni subacquee sono state sabotate. Non sappiamo cosa stia succedendo là sotto. I cavi sottomarini sono inutilizzabili. Il bilancio catastrofico di questa guerra è che siamo diventati sordi e ciechi. Diciamo pure tranquillamente che l'abbiamo persa.» Judith Li fece una pausa. «Chi dobbiamo attaccare? A che serve una battaglia se La Palma frana e una montagna d'acqua si abbatte sulle coste dell'America, dell'Africa e dell'Europa? In breve, non possiamo fare passi avanti finché non conosciamo meglio il nostro avversario, e noi non lo conosciamo affatto. Ecco perché il senso della nostra missione non è la lotta, ma la trattativa. Dobbiamo prendere contatto con questa forma di vita sconosciuta e convincerla a fermare le sue aggressioni terroristiche contro l'umanità. So per esperienza che si può trattare con ogni avversario. Molti elementi ci portano a pensare che il nostro nemico sia proprio qui, nel mar di Groenlandia.» Sorrise. «Speriamo in una soluzione pacifica. E adesso passo la parola alla dottoressa Samantha Crowe, ultima arrivata all'interno del nostro gruppo, alla quale porgo anche il mio benvenuto.»

Samantha appoggiò i gomiti sul tavolo dei relatori e disse: «Grazie». Poi gettò un rapido sguardo a Vanderbilt. «Come forse sapete, fino a oggi il SETI non è stato un gran successo. Di fronte a un'estensione spaziale di oltre dieci miliardi di anni luce — queste sono le dimensioni che presumiamo abbia l'universo osservabile -, non è difficile capire quanto siano basse le possibilità di trasmettere per caso nella giusta direzione e raggiungere qualcuno che sia in ascolto in quel momento. In questo senso, qui è molto meglio. In primo luogo, alcuni indizi indicano la presenza di entità 'altre'. In secondo luogo, abbiamo un'idea approssimativa di dove vivono tali entità, cioè da qualche parte nell'oceano e verosimilmente proprio sotto di noi. Ma se pure vivessero al Polo Sud, riusciremmo comunque a circoscrivere la zona. Essi non possono lasciare il mare e un forte impulso acustico emesso nell'Artico si sentirebbe anche oltre l'Africa. Ci sono segnali incoraggianti. A questo punto, però, devo sottolineare una cosa importante e cioè che il contatto è già stato stabilito. Sono decenni che noi mandiamo messaggi nel loro mondo. Sfortunatamente si trattava di messaggi distruttivi, quindi essi non hanno risposto mandando un ambasciatore, ma attaccandoci, punto e basta. È una cosa assai sgradevole, certo, ma io vi chiedo di liberarvi dei sentimenti negativi e di guardare a quelle aggressioni come a una possibilità.»

«Una possibilità?» le fece eco Peak.

«Dobbiamo prenderli per quello che sono, come il messaggio di una forma di vita sconosciuta, da cui possiamo trarre conclusioni sul suo modo di pensare.» Appoggiò la mano su una pila di fogli. «Ho tracciato uno schema di come dovremmo procedere. Ma devo smorzare le vostre speranze di un rapido successo. Ciascuno di voi, nelle settimane passate, si sarà scervellato sulla questione di chi sia stato a mandarci queste… sette piaghe. Tutti voi conoscete i film sull'argomento: Incontri ravvicinati del terzo tipo, E.T., Alien, Independence Day, The Abyss, Contact e così via. In quei film abbiamo a che fare o con mostri o con benefattori. Pensate alla sequenza finale di Incontri ravvicinati: molti personaggi sono lieti del fatto che superiori creature celesti siano arrivate sulla Terra per condurci verso un futuro radioso. Non che questa sia una novità… Un'interpretazione religiosa della vicenda non sarebbe neppure troppo azzardata. Anche il SETI ha questo atteggiamento. Ed esso ci rende ciechi di fronte alle semplici differenze delle intelligenze aliene.»

Samantha fece una pausa, lasciando che quel suo discorso sortisse l'effetto sperato. Aveva riflettuto a lungo su come affrontare la questione, concludendo che l'intero progetto sarebbe fallito sul nascere se lei non fosse riuscita a cancellare una lunga serie di preconcetti idioti dalla testa dei membri della spedizione. «Voglio dire che impegnarsi seriamente con culture diverse dalla nostra non c'entra nulla con la fantascienza. Gli extraterrestri vengono sempre presentati come l'espressione grottesca e amplificata delle paure e delle speranze umane. Gli alieni di Incontri ravvicinati simboleggiano la nostra nostalgia del paradiso perduto. In fondo sono angeli e si comportano di conseguenza. Alcuni eletti vedono la luce. La cultura di questi extraterrestri non interessa, sono semplicemente funzionali a una rappresentazione religiosa. Sono intimamente e profondamente umani perché sono creati dagli uomini. Pensate al momento del loro arrivo: una luce bianca e splendente, un'apparizione eterea… Proprio quello che vorremmo accadesse. Hanno poco di extraterrestre anche gli alieni di Independence Day. Sono malvagi perché corrispondono alla nostra idea di malvagità. Anch'essi non hanno una reale alterità. Il bene e il male sono valori postulati dagli uomini e difficilmente la fiction può permettersi di non tenerne conto. Abbiamo difficoltà a credere che i nostri valori non siano anche i valori degli altri e che la loro idea del bene e del male potrebbe non corrispondere alla nostra. Per comprendere queste cose non è necessario stare ad ascoltare lo spazio. Ogni nazione, ogni cultura ha i propri alieni davanti alla porta di casa, ma sempre al di là di una barriera. Finché non avremo interiorizzato questi concetti, non potremo instaurare una comunicazione con un'intelligenza aliena. Perché, con ogni probabilità, non ci sarà una base comune di valori, non ci saranno un bene e un male universali e, verosimilmente, non ci saranno neppure apparati sensoriali compatibili attraverso i quali comunicare.»

Samantha passò una pila di fogli a Johanson, che era seduto di fianco a lei, e lo pregò di distribuirli.

«Se vogliamo arrivare a una vera comunicazione con gli extraterrestri, forse bisogna immaginare uno Stato di formiche. Anzitutto le formiche sono assai organizzate, non veramente intelligenti. Ma supponiamo che lo siano. Ci troveremmo di fronte al compito di comunicare con un'intelligenza collettiva che mangia i propri simili, malati e feriti, senza trovare questo fatto moralmente riprovevole, che s'impegna in guerre senza comprendere la nostra idea di pace, che vede la riproduzione individuale come qualcosa di assolutamente inaudito e che tratta come un sacramento lo scambio e il consumo di escrementi. In breve, un'intelligenza che sotto ogni punto di vista funziona in modo del tutto diverso dal nostro, ma che funziona! E ora facciamo un altro passo avanti: immaginate che non riconosciamo come tale un'intelligenza aliena! Leon, per esempio, vorrebbe sapere se i delfini sono intelligenti, così li sottopone a test alquanto dispendiosi. Ma riesce a ottenere la certezza della loro intelligenza? E non dimentichiamo che c'è anche l'altro lato della questione: come ci vedono loro? Gli yrr ci combattono, ma ci considerano intelligenti? Spero di essermi espressa con chiarezza. Per quello che ci riguarda, un avvicinamento agli yrr non sarà possibile finché continueremo a considerare la nostra scala di valori come l'ombelico del mondo e dell'universo. Dobbiamo ridurci a quello che de facto siamo: una delle innumerevoli forme di vita possibili, senza nessuna particolare pretesa nei confronti del tutto.»

Samantha si accorse che Judith Li stava scrutando Johanson con un'intensità inaudita, neanche volesse entrargli nella testa. Su quella nave, la rete di relazioni era davvero interessante. Poi colse uno scambio di occhiate tra Jack O'Bannon e Alicia Delaware e immediatamente capì che tra loro c'era qualcosa.

«Scusi, dottoressa Crowe…» disse Vanderbilt, sfogliando la sua copia della relazione. «Secondo lei, che cos'è l'intelligenza?»

Il tono faceva presumere che quella domanda fosse una trappola. «Un caso fortuito», rispose Samantha.

«Un caso fortuito? Lo crede davvero?»

«È il risultato di molte circostanze in accordo tra loro. Quante definizioni vuole sentire? Alcuni ritengono che l'intelligenza sia ciò che viene stimato come fondamentale in una cultura. Ed è proprio lì che casca l'asino. Ci sono almeno tante definizioni quante sono le culture e i modi di pensare. Alcuni studiano i processi che stanno a fondamento delle capacità spirituali, altri cercano di misurare statisticamente l'intelligenza. Poi c'è un'altra questione: è innata o acquisita? All'inizio del XX secolo, si era dell'opinione che l'intelligenza si rispecchiasse nelle forme e nei modi con cui si gestiva una specifica situazione. Oggi alcuni riprendono quell'idea e definiscono l'intelligenza come la capacità di adattarsi alle esigenze di un ambiente mutevole. Quindi essa non sarebbe congenita, bensì acquisita. Molti altri, invece, ritengono che l'intelligenza sia strettamente ancorata all'essere umano, una capacità innata che permette al nostro pensiero di archiviare situazioni sempre nuove. Secondo questi ultimi, l'intelligenza è la capacità d'imparare dall'esperienza e quindi di adattarsi alle esigenze dell'ambiente. E poi c'è quella bellissima definizione secondo cui l'intelligenza è la capacità di chiedersi che cosa sia l'intelligenza.»

Vanderbilt annuì lentamente. «Capisco. Ciò significa che non lo sa.»

Samantha sorrise. «Mister Vanderbilt, mi permetta di fare un'osservazione prendendo spunto dalla sua T-shirt. Basandosi esclusivamente sull'aspetto esteriore, sarebbe difficile riconoscere come tale un essere intelligente.»

Ci fu un'esplosione di risate che si affievolì subito.

Vanderbilt la fissò, poi sorrise e mormorò: «Se qualcuno ha ragione, si può soltanto ammetterlo».

Una volta rotto il ghiaccio, le cose proseguirono in fretta. Samantha delineò i passi successivi. Aveva posto le basi del piano nelle settimane precedenti, con l'aiuto di Murray Shankar, Judith Li, Leon Anawak e di alcuni scienziati della NASA. Il progetto si fondava sui pochi tentativi che erano stati condotti fino a quel momento per prendere contatto con forme di vita extraterrestri.

«Lo spazio rende le cose più facili», spiegò Samantha. «Nel campo delle microonde si possono mandare quantità enormi di dati in un punto preciso. La luce è ben visibile e viaggia a trecentomila chilometri al secondo. Non ha bisogno di fili e cavi. Sott'acqua è tutto diverso, perché l'energia dei segnali a onde corte viene assorbita dalle molecole e i segnali a onde lunghe necessitano di antenne gigantesche. È vero che la comunicazione per mezzo della luce funziona, ma non sulle lunghe distanze. Rimane l'acustica. Ma in questo campo sorge il problema che chiamiamo 'effetto risonanza'. I segnali acustici si riflettono in tutti i luoghi possibili, generando interferenze. Il messaggio interferirebbe con se stesso e diventerebbe incomprensibile. Per attenuare tale effetto ci serviremo di un modem speciale.»

«È una cosa che abbiamo rilevato nei mammiferi marini», intervenne Anawak. «Un sistema che i delfini utilizzano per eliminare quasi completamente risonanze e interferenze: cantano.»

«Credevo lo facessero solo le balene», disse Peak.

«Che le balene cantino è un'interpretazione umana», ribatté Anawak. «Probabilmente non hanno la minima idea di cosa sia la musica. Sam intende un'altra cosa. In questo caso, cantare significa che gli animali modulano costantemente la loro frequenza e lo spettro acustico, così non solo evitano le interferenze, ma aumentano anche il potenziale di trasmissione delle informazioni digitalizzate sott'acqua. Quindi noi useremo un modem che, appunto, canta. Al momento, riusciamo a raggiungere la velocità di 30 Kbps con una portata di tre chilometri, che corrisponde a circa metà della velocità di una linea ISDN. È sufficiente a trasferire immagini di alta qualità.»

«E cosa gli raccontiamo?» chiese Peak.

«Le leggi della fisica e il codice cosmico sono espressi in forma matematica», rispose Samantha. «L'ordine cosmico ha permesso l'evoluzione della conoscenza ed essa a sua volta ha permesso di creare la matematica per poter spiegare in maniera sintetica e creativa la sua stessa origine. La matematica è l'unica lingua universale che ogni essere intelligente possa comprendere, perché esiste all'interno delle condizioni generali di validità della fisica, e noi la utilizzeremo.»

«E cosa vorrebbe fare? Assegnare verifiche di matematica?»

«No. Confezioneremo i pensieri in formule matematiche. Nel 1974, abbiamo sviluppato un segnale radio terrestre ad alta energia e l'abbiamo mandato verso un gruppo di stelle della costellazione di Ercole. Dovevamo trovare un sistema per cifrare il messaggio in modo che potesse essere compreso anche su un pianeta sconosciuto, e forse siamo stati un po' troppo zelanti… Infatti bisogna essere molto sviluppati per decifrare quel codice. Però con metodi matematici funziona. In tutto abbiamo mandato 1679 segni col sistema binario, quindi punto e linea, come il Morse. E qui la cosa si fa complessa. Un matematico è in grado d'interpretare il numero 1679 perché può essere immaginato come il prodotto di 23 e 73, tutti e due numeri primi, cioè numeri che possono essere divisi solo per uno o per se stessi. Già questo è sufficiente perché chi riceve il segnale possa comprendere le basi del sistema numerico umano. La disposizione dei 1679 segni avviene in 73 colonne di 23 segni. Come vedete, con un po' di matematica si possono sistemare parecchie cose, e se si trasformano i punti e le linee in bianco e nero — miracolo! — si ottiene un disegno.»

Sollevò un foglio. Sembrava una stampata da computer. Alcuni elementi parevano astratti, in altri si riconoscevano chiaramente delle forme.

«Le file superiori danno informazioni sui numeri da 1 a 10 e quindi anche sul nostro sistema di calcolo. Appena sotto, ci sono i numeri atomici degli elementi chimici: idrogeno, carbonio, azoto, ossigeno e fosforo. Sono d'importanza fondamentale per il nostro pianeta e per la vita terrestre. Poi si procede con una corposa suddivisione della biochimica terrestre, formule degli zuccheri e delle basi, struttura a doppia elica e così via. Questo disegno mostra un uomo collegato direttamente con la struttura del DNA, che fornisce informazioni sullo sviluppo della vita sulla Terra. Un extraterrestre non conosce le unità di misura terrestri, così abbiamo impresso la statura media di un uomo sulla lunghezza d'onda dei segnali radio. Poi segue una rappresentazione del sistema solare e infine abbiamo schizzato l'aspetto, il modo di lavorare e le dimensioni del telescopio di Arecibo da cui veniva trasmesso il messaggio.»

«Proprio un bell'invito a precipitarsi qui e mangiarci tutti», notò Vanderbilt.

«Sì, è quello che ci ha sempre ripetuto la sua agenzia. E ogni volta abbiamo risposto che non c'è bisogno di quell'invito. Da decenni vengono emesse nell'universo onde radio, tutto il nostro traffico radio, compreso quello dei servizi segreti. Non è necessario decifrare quelle onde per capire che possono provenire solo da una civiltà che ha fatto progressi in campo tecnologico.» Samantha posò il foglio. «Il messaggio di Arecibo sarà in viaggio per ventiseimila anni, quindi riceveremo una risposta al più presto tra cinquantaduemila anni. Posso rassicurarvi rhe stavolta avverrà tutto più in fretta. Procederemo in diverse fasi. Il nostro primo messaggio sarà costituito in effetti da due 'verifiche' matematiche. Se quelli là sotto hanno uno spirito sportivo, risponderanno. Questa prima comunicazione ha lo scopo di dimostrare l'esistenza degli yrr e se ci sono le condizioni per instaurare un dialogo.»

«Perché dovrebbero rispondere?» chiese Greywolf. «Loro sanno già tutto di noi.»

«Forse sanno alcune cose, ma non necessariamente la cosa più importante, cioè che siamo intelligenti.»

«Come?» Vanderbilt scosse la testa. «Quelli distruggono le nostre navi! Quindi sanno che le sappiamo costruire. Come potrebbero dubitare della nostra intelligenza?»

«Il fatto che siamo in grado di realizzare costruzioni non è una prova d'intelligenza. Provi a guardare le colline fatte dalle termiti: sono capolavori architettonici.»

«È una cosa diversa.»

«Scenda dal suo destriero alato. Se è vero, come dice il dottor Johanson, che la cultura degli yrr è basata esclusivamente sulla biologia, allora dubito che ci considerino capaci di un pensiero mirato e strutturato.»

«Sta dicendo che ci considerano…» Vanderbilt fece una smorfia, disgustato. «… animali?»

«Forse parassiti.»

«Un'infestazione di funghi», sogghignò Alicia Delaware. «Forse abbiamo a che fare con un gruppo di disinfestatori.»

«Mi sono sforzata d'indagare le loro strutture di pensiero, così da avere qualche idea sul loro modo di vivere», riprese Samantha. «Lo so che è tutto spaventosamente aleatorio, però dobbiamo dare un obiettivo preciso al nostro tentativo di prendere contatto. Ho riflettuto sul fatto che gli attacchi non sono stati preceduti da nessun approccio diplomatico. Forse ciò significa che gli yrr non attribuiscono nessun valore alla diplomazia. Oppure che non sono stati nemmeno sfiorati dall'idea di farvi ricorso. Ebbene, neanche un esercito di formiche legionarie penserebbe di mandare un ambasciatore dalla preda e di attaccarla soltanto dopo quella 'visita'. Ma le formiche seguono l'istinto che hanno sviluppato. Gli yrr, invece, procedono come se avessero un piano, sembrano caratterizzati da capacità cognitive. Sviluppano strategie creative. Quindi, posto che siano intelligenti e consapevoli della loro intelligenza, non direi che si muovono sulla base di una morale e di un'etica corrente, almeno non sulla base del nostro concetto di bene e di male. Forse, per loro, combattere la nostra specie con tutte le forze disponibili è semplicemente una conseguenza logica. E, se non diamo loro un motivo per tornare indietro, non lo faranno.»

«Che bisogno c'è di mandare un messaggio, visto che distruggono i nostri cavi sottomarini?» chiese Rubin. «Da lì, quelle bestie potrebbero succhiare tutte le informazioni.»

«Sta facendo un po' di confusione», sorrise Shankar. «Il messaggio di Arecibo è comprensibile agli extraterrestri perché è costruito in maniera tale che una mente aliena lo possa decifrare. Uno sforzo che non facciamo nel nostro quotidiano scambio di dati, il quale di certo appare come un caos mostruoso a un'intelligenza diversa dalla nostra.»

«Vero», annuì Johanson. «Ma spingiamoci oltre. Pensavo alla biotecnologia, e Sam ha afferrato subito l'idea. Perché? È lampante. Niente macchine, niente tecnica. E, al loro posto, genetica pura. Organismi come armi, mutazioni mirate. Gli yrr devono essere legati alla natura in maniera completamente diversa da come lo siamo noi. È probabilissimo che essi abbiano molta più confidenza col loro ambiente naturale di quanta ne abbiamo noi.»

«Sarebbero dunque dei nobili selvaggi?» chiese Peak.

«Nobili non direi. Voglio dire, è riprovevole inquinare l'aria con gli scarichi delle macchine, ma credo sia altrettanto riprovevole allevare animali per modificarli geneticamente, proprio come avviene con quella robaccia. In questo modo di agire riesco a vedere solo una cosa: la denuncia della nostra minaccia nei confronti del loro ambiente vitale. Noi ci preoccupiamo per il diboscamento della foresta tropicale. Alcuni sono contrari e altri agiscono lo stesso. Se mi passate la metafora, forse loro sono la foresta tropicale. È evidente da come sanno maneggiare la biologia. A questo proposito, va notato che, escluse le balene, in quasi tutti i casi si servono di forme di vita che compaiono in massa. Vermi, meduse, mitili, granchi… tutti animali che vivono in gruppo. Ne sacrificano a milioni per raggiungere il loro scopo. Il singolo non conta. Gli uomini la penserebbero così? Noi coltiviamo virus e batteri, ma usiamo le armi artificiali in modo limitato. Le armi biologiche di distruzione di massa non sono una cosa che ci appartiene completamente. Invece sembra che gli yrr le trattino con molta confidenza. Perché? Forse perché anche loro vivono in banco?»

«Lei crede…»

«Penso che abbiamo a che fare con un'intelligenza collettiva.»

«E cosa sente un'intelligenza collettiva?» chiese Peak.

«Un pesce finito nella rete, se fosse capace di simili riflessioni, si chiederebbe che cosa sente un pescatore», intervenne Anawak. «Perché lui e milioni di altri come lui devono soffocare? Non è un assassinio di massa?»

«No», disse Jack Vanderbilt. «Sono bastoncini di pesce.»

Samantha sollevò le mani. «Sono d'accordo col dottor Johanson. E la conseguenza estrema è che gli yrr hanno preso una decisione collettiva, in cui non si pongono questioni di responsabilità morale e compassione. Non possiamo presentarci da loro con l'aria innocente, come accade nei film. Possiamo tentare solo una cosa: risvegliare il loro interesse in modo da portarli a ritenere che è meglio comunicare con noi piuttosto che ucciderci. Senza conoscenze fisiche e matematiche, gli yrr non avrebbero potuto fare quello che hanno fatto, quindi sfidiamoli a un duello matematico, finché la logica o la morale che li guida li porterà a ripensare le loro azioni.»

«Per loro deve essere evidente che siamo intelligenti», insistette Rubin. «Chi meglio di noi padroneggia le conoscenze di matematica e fisica?»

«Già, ma siamo un'intelligenza consapevole?» chiese Samantha.

Rubin la guardò, confuso. «Che intende?»

«Siamo consapevoli della nostra intelligenza?»

«Ma certo!»

«Oppure siamo un computer in grado di apprendere? Noi conosciamo la risposta, ma la conoscono anche gli altri? Teoricamente si potrebbe sostituire il cervello con un corrispettivo elettronico, ottenendo un'intelligenza artificiale. Sarebbe in grado di fare tutto quello che sa fare l'uomo. Potrebbe costruire una navicella spaziale e raggiungere la velocità della luce. Ma questo cervello-computer sarebbe consapevole delle proprie capacità? Nel 1997, Deep Blue, un computer dell'IBM, ha sfidato il campione mondiale di scacchi Garry Kasparov. Definirebbe Deep Blue consapevole? Il computer ha vinto senza averne la consapevolezza? Si deve quindi presumere che noi siamo forme di vita consapevoli della propria intelligenza soltanto perché costruiamo città e posiamo cavi sottomarini? Noi del SETI non abbiamo escluso la possibilità di trovare una civiltà di macchine sopravvissute ai propri costruttori e sviluppatesi autonomamente per milioni di anni.»

«E quelli laggiù? Insomma, se è vero quello che dice, forse gli yrr sono soltanto formiche con le pinne. Senza valori, senza…»

«Giusto. È proprio questo il motivo per cui dobbiamo procedere per gradi», disse Samantha, sorridendo. «Come prima cosa, voglio sapere se là c'è qualcuno. Secondo, se è possibile instaurare un dialogo con loro. Terzo, se gli yrr sono consapevoli del dialogo e di loro stessi. E se arriverò alla conclusione che, accanto al loro sapere e alle loro capacità, gli yrr hanno anche facoltà d'immaginazione e di comprensione, allora sarò disposta a vederli come esseri intelligenti. Soltanto dopo questi passaggi avrà senso riflettere sui valori… e comunque nessuno si deve aspettare che coincidano coi nostri.»

Per un po' regnò il silenzio.

«Non voglio immischiarmi nelle vostre discussioni scientifiche», disse Judith Li. «L'intelligenza pura è una cosa fredda. L'intelligenza accoppiata con la consapevolezza è un'altra cosa. Dal mio punto di vista, in questo caso ci devono essere dei valori. Se gli yrr sono intelligenze consapevoli devono riconoscere almeno un valore, quello della vita. E fanno tutto questo perché cercano di proteggersi. Quindi hanno dei valori. La questione allora è se, da qualche parte, esista un'intersezione coi valori umani, anche se molto piccola.»

Samantha annuì. «Già», disse. «Anche se molto piccola.»

Nel tardo pomeriggio, mandarono i primi impulsi negli abissi. Scelsero un campo di frequenza, stabilito da Shankar, nello spettro dei rumori non identificati che gli uomini del SOSUS avevano battezzato scratch.

Il modem modulò le frequenze. Il segnale rimbalzò in diversi punti e si produssero le attese interferenze. Samantha e Shankar erano nel CIC e modularono a loro volta le frequenze sinché non furono soddisfatti. Dopo un'ora, Samantha era sicura che il messaggio fosse perfettamente comprensibile per chiunque sapesse elaborare le onde sonore. Ma la possibilità che gli yrr ne comprendessero il senso… Be', quella era tutta un'altra storia.

Quanto a ritenere che fosse necessario rispondere, poi…

Nella penombra del CIC, Samantha era seduta sul bordo della sedia e provava una strana euforia al pensiero di quanto fosse vicina al contatto cui aveva aspirato per decenni. Nel contempo nutriva forti timori. Sentiva pesare su di sé e sui membri della spedizione una responsabilità schiacciante. Quella non era un'avventura come Arecibo e il SETI. Era il tentativo di fermare una catastrofe e salvare l'umanità.

Il sogno accademico era diventato un incubo.


Amici

Anawak salì le scale dall'interno della nave verso l'isola, attraversò gli stretti corridoi e uscì sul ponte di volo.

Nel corso del viaggio, il ponte si era trasformato in una sorta di zona di passeggio. Chi riusciva a trovare il tempo per sgranchirsi le gambe, bighellonava da quelle parti, rimuginando o parlando con gli altri. Così, paradossalmente, proprio la pista di atterraggio e decollo della più grande portaerei del mondo si era trasformata in un luogo tranquillo per riflettere e scambiarsi idee. I sei Super Stallion e i due elicotteri da combattimento Super Cobra apparivano come sperduti in quell'immensità asfaltata.

Anche a bordo dell'Independence, Greywolf proseguiva la sua esistenza appartata, benché Alicia vi giocasse un ruolo sempre più importante. I due formavano una coppia davvero singolare. Dimostrando una notevole intelligenza, lei lo lasciava tranquillo, così era sempre lui a cercare la sua compagnia. Agli altri si erano presentati come amici, ma ad Anawak non sfuggiva l'intensità del loro rapporto. I segnali erano evidenti. Alicia ormai lo assisteva sempre più raramente e si occupava dei delfini con Greywolf.

Anawak trovò Greywolf a prua, seduto a gambe incrociate e con lo sguardo rivolto verso il mare. Gli si sedette vicino e vide che stava intagliando qualcosa. «Che cos'è?» chiese.

Greywolf glielo passò. Era un pezzo di legno di cedro di notevoli dimensioni, con una sorta d'impugnatura a un'estremità. Nella zona centrale c'erano alcune figure intrecciate: un uccello e un uomo in balia di due animali dotati di fauci enormi. Era quasi finito.

«Bello», disse Anawak, accarezzando la scultura.

«È una copia.» Greywolf sogghignò. «Faccio solo copie. Per gli originali non ho il sangue.»

«Il sangue puro degli indiani.» Anawak sorrise. «Ho già capito.»

«Come al solito non capisci.»

«Va bene. Cosa rappresenta?»

«Quello che vedi.»

«Non essere così maledettamente altezzoso. Spiegamelo oppure lascia perdere.»

«È una mazza da cerimonia dei tla-o-qui-aht. L'originale è in una collezione privata: è fatto di osso di balena e risale alla fine dell'Ottocento. Come vedi, è una storia dell'epoca degli antenati. Un giorno, un uomo trovò una gabbia misteriosa che rinchiudeva tutte le creature possibili e la portò nel suo villaggio. Poco dopo, gli venne una febbre altissima, da cui nessuno riusciva a guarirlo. Non si sapeva cosa avesse fatto ammalare l'uomo, ma lo scoprì lui stesso in sogno: vide che la colpa era delle creature nella gabbia. Nel sogno, esse lo afferravano, perché non erano semplici animali, ma esseri metamorfici.» Greywolf indicò una delle figure intagliate, che era per metà un mammifero terrestre e per metà un cetaceo. «Qui vedi un lupo-orca. Nel sogno, il lupo-orca attaccò l'uomo e lo prese per la testa. Poi arrivò un uccello del tuono e cercò di salvare l'uomo. Osserva come affonda le unghie nei fianchi del lupo-orca… Però, mentre combattevano, comparve un orso-orca, che riuscì ad afferrare i piedi del malato. L'uomo si svegliò e, dopo aver raccontato il sogno al figlio, morì. Il figlio allora intagliò una mazza come questa e con essa uccise seimila esseri metamorfici per vendicare la morte del padre.»

«E qual è il significato profondo?»

«Tutto deve avere un senso profondo?»

«In questo caso ce deve essere uno. È la lotta eterna tra le forze del bene e del male, vero?»

«No.» Greywolf si scostò i capelli dalla fronte. «La storia racconta della vita e della morte. Tutto lì. Alla fine muori, questo è certo, e fino ad allora è tutto alti e bassi. Tu stesso sei impotente. Puoi vivere bene o male la tua vita, ma quello che ti succede è determinato da forze superiori. Se vivi in armonia con la natura, essa ti salverà, se ti metti contro di essa, ti distruggerà. Ma la cosa più importante è che non sei tu a dominare la natura, bensì lei a dominare te.»

«Sembra che il figlio di quell'uomo non abbia condiviso questa consapevolezza», commentò Anawak. «Perché ha voluto vendicare la morte del padre?»

«La storia non dice che si sia comportato nel modo giusto.»

Anawak restituì a Greywolf la mazza da cerimonia, frugò nella sua giacca a vento e tirò fuori la scultura dello spirito uccello. «Mi sai dire qualcosa di questa?»

Greywolf osservò il pezzo, lo prese e lo rigirò. «Questo non viene dalla costa occidentale», disse.

«No.»

«È marmo… Viene da qualche altra parte. Dalla tua terra?»

«Da Cape Dorset.» Anawak esitò. «L'ho ricevuto da uno sciamano.»

«Tu accetti un regalo da uno sciamano?»

«È mio zio.»

«E cosa ti ha detto?»

«Ben poco. Sostiene che lo spirito uccello dovrebbe portare i miei pensieri nella giusta direzione, quando sarà il momento. E ha aggiunto che probabilmente avrò bisogno di un intermediario.»

Greywolf rimase per un po' in silenzio. «Ci sono spiriti uccello in tutte le culture», disse poi. «L'uccello del tuono è presente in un antico mito indiano e ha molte sfaccettature. Fa parte della creazione, è uno spirito della natura, un essere superiore, ma stabilisce anche l'identità di un clan. Conosco una famiglia il cui nome deriva dall'uccello del tuono perché i suoi antenati lo hanno visto sulla cima di una montagna nei pressi di Ucluelet. Ma ci sono anche altri significati per lo spirito uccello.»

«Appare sempre in collegamento con la testa, vero?»

«Sì. Non è sorprendente? Nelle antiche rappresentazioni egizie si trova spesso l'immagine di un ornamento del capo a forma di uccello. Là, lo spirito uccello rappresenta la coscienza. È imprigionato nel cranio come in una gabbia. Non appena il cranio si apre — in senso metaforico — esso può uscire, ma c'è anche la possibilità di riportarlo dentro. In quel caso, si torna a possedere la propria coscienza o ci si sveglia.»

«Ciò vuol dire che, mentre dormo, la mia coscienza va a fare un giro.»

«Tu sogni, ma i tuoi sogni non sono fantasie. Ti mostrano quello che la tua coscienza vede nei mondi superiori che normalmente restano nascosti. Non hai mai visto la corona di penne di un capo tribù cherokee?»

«Solo nei film western, per essere sincero.»

«Non fa niente. Con la corona di penne, lui dimostra che il suo spirito invisibile crea forme nella sua testa, una penna dopo l'altra. Per dirlo più semplicemente, nella sua testa c'è tutta una serie di buone idee e per questo lui è il capo tribù.»

«I pensieri ispirati…»

«Sì, attraverso le penne. In altre tribù è sufficiente una penna sola, ma ha lo stesso significato. Lo spirito uccello rappresenta la coscienza. Ecco perché gli indiani non possono assolutamente perdere lo scalpo o le penne. Nel contempo perderebbero la coscienza e, nel peggiore dei casi, per sempre.» Greywolf aggrottò la fronte. «Se uno sciamano ti ha dato questa scultura, allora ha richiamato la tua attenzione sulla tua coscienza, sulla forza delle tue idee. Devi usarle, ma, per farlo, hai bisogno di aprire il tuo spirito, che deve andare in giro per il mondo, cioè fondersi con l'inconscio.»

«Perché tu non hai delle penne tra i capelli?»

Greywolf fece una smorfia. «Come tu hai acutamente notato, io non sono un vero indiano.»

Anawak rimase in silenzio. «Nel Nunavut ho fatto un sogno», disse dopo un po'.

Greywolf rimase in silenzio.

«Diciamo che il mio spirito è andato in giro per il mondo. Sprofondavo nel mare nero attraverso il ghiaccio. Poi il mare si è trasformato nel cielo e io risalivo un iceberg finché non ho visto che galleggiava sul mare. Ovunque non c'era altro che acqua. L'iceberg galleggiava su quel mare e io pensavo che si sarebbe sciolto. Strano, però non avevo paura, ero solo curioso. Sapevo che sarei sprofondato quando sarebbe stato il momento, tuttavia non avevo paura di annegare. Avevo l'impressione che mi sarei immerso in qualcosa di nuovo, di sconosciuto.»

«Che ti aspettavi di trovare?»

Anawak rifletté. «La vita», rispose infine.

«Quale vita?»

«Non lo so. Semplicemente la vita.»

Greywolf guardò la piccola scultura di marmo verde dello spirito uccello. «Dimmi la verità, perché a bordo ci siamo anche Licia e io?»

Anawak guardò il mare. «Perché c'è bisogno di voi.»

«Non è vero, Leon. Forse c'è bisogno di me perché so cavarmela bene coi delfini, ma avreste potuto assumere qualcun altro, ugualmente qualificato. E Licia non ha nessuna funzione.»

«È una magnifica assistente.»

«L'hai richiesta tu? Ti serve?»

«No.» Anawak sospirò. Chinò all'indietro la testa e guardò il cielo. Se lo si fissava per un po', immaginando che tutto era al contrario — che in realtà si era in alto e che le nuvole formavano un paesaggio posto molto in basso, e che non si guardavano montagne di vapore, bensì colline, valli, fiumi e laghi — allora a un certo punto ci si credeva. Ci si credeva a tal punto che ci si doveva tenere ben saldi per non cadere nella profondità che si apriva in alto. «No, voi siete a bordo perché l'ho voluto io.»

«E il motivo sarebbe…»

«Che siete miei amici.»

Per un po' rimasero in silenzio. Anawak riusciva a individuare sempre maggiori dettagli nelle nuvole. Dettagli di un mondo che si trovava a molti, molti chilometri di distanza. Infinitamente più lontano del mondo degli yrr.

«Credo proprio di sì», ammise Greywolf.

Anawak sorrise. «Sai, ho sempre avuto un buon rapporto con la gente, ma non ricordo di aver mai avuto degli amici. Dei veri amici. E non avrei mai neppure pensato di chiamare 'amica' una piccola, irritante, saccente dottoranda. O un pazzo alto come un albero con cui ho quasi fatto a botte.»

«La piccola dottoranda ha fatto quello che fanno gli amici.»

«Sarebbe?»

«Si è interessata della tua stupida vita.»

«Sì, lo ha fatto.»

«E noi due siamo sempre stati amici. Probabilmente…» Greywolf esitò, poi sollevò la scultura e sorrise. «… le nostre teste sono state chiuse per un po'.»

«Tu che ne pensi? Perché si sognano cose del genere?»

«Parli del sogno dell'iceberg?»

«Ci ho riflettuto a lungo e tu sai bene che non ho la minima simpatia per l'esoterismo. Odio tutte quelle stronzate. Ma nel Nunavut c'era qualcosa che non riuscivo a spiegare. Dentro di me è successo qualcosa. Forse proprio quand'ero là fuori, sui ghiacci, quando ho fatto il sogno.»

«E tu, che ne pensi?»

«Questa forza sconosciuta, questa minaccia che vive nelle nostre acque, negli abissi… Forse la incontrerò là. Forse il mio compito è andare laggiù e…»

«Salvare il mondo?»

«Ah, scordatelo.»

«Vuoi sapere che cosa credo, Leon?»

Anawak annuì.

«Penso che tu stia sbagliando. Ti sei nascosto per anni e ti sei portato appresso il tuo stupido trauma eschimese. Hai rotto i coglioni agli altri e a te stesso. Non hai capito niente della vita. L'iceberg su cui ti sei trovato sei tu, un cafone gelido e inavvicinabile. Però hai ragione: là è successo qualcosa e il cafone ha iniziato a sciogliersi. Quell'oceano in cui sprofonderai non è il mare in cui vivono gli yrr. È la vita degli uomini. Quella cui appartieni. Questa è l'avventura che ti aspetta. Amicizia, amore… E anche i nemici, l'odio e la rabbia. Il tuo ruolo non consiste nel recitare la parte dell'eroe. Non devi dimostrare a nessuno di essere coraggioso. I ruoli degli eroi in questa storia sono già stati assegnati. Ai morti. Tu appartieni al mondo dei vivi.»


Notte

Ognuno dormiva in modo diverso.

Samantha, piccola e minuta, si era avvolta nelle lenzuola, come se volesse scomparirvi dentro. La sua capigliatura grigio ghiaccio usciva solo per metà. Karen dormiva sulla pancia, nuda e senza coperte, con la testa piegata di lato. Le ciocche castane si attorcigliavano in tutte le direzioni, cosicché si vedeva solo la bocca semiaperta. Shankar, invece, rientrava in quella categoria di persone il cui letto, quando si alzano al mattino, appare come se avesse sopportato gli incubi di molte notti. Si agitava costantemente nel sonno, ribaltando quasi completamente lenzuola, coperte e guanciali; ogni tanto russava ed emetteva mormorii soffocati.

Rubin passava la maggior parte del tempo sveglio.

Anche Greywolf e Alicia dormivano poco perché facevano l'amore in continuazione, prevalentemente sul pavimento della cabina. Spesso Greywolf — con la pelle color rame e possente come un animale mitologico — stava disteso sulla schiena e sosteneva il corpo bianco come il latte della donna. Due cabine più in là, Anawak dormiva su un fianco, con indosso solo una T-shirt. Anche Sue aveva un modo piuttosto convenzionale di dormire. Entrambi erano tranquilli e, nel corso della notte, si giravano un paio di volte, ma niente di più.

Johanson era sdraiato sulla schiena, con le braccia distese, i palmi delle mani rivolti all'esterno. Solo i letti nell'area degli ammiragli e negli alloggi degli ufficiali avevano spazio sufficiente per permettere di dormire nelle più svariate posizioni. E la posizione nel sonno di Johanson era così egoistica che una volta, anni prima, una sua amante l'aveva svegliato nel cuore della notte per dirgli che dormiva «come un latifondista». Lui aveva raccontato quell'aneddoto allo Château, facendo ridere tutti. In effetti, ogni notte dormiva così, un uomo che, anche con gli occhi chiusi, sembrava voler abbracciare la vita.

Tutti — quelli che dormivano e quelli rimasti svegli — risplendevano su una serie di monitor, ognuno dei quali mostrava per intero una cabina. Due uomini in uniforme stavano seduti nella semioscurità e osservavano gli scienziati. Dietro di loro, c'erano Judith Li e il vicedirettore della CIA.

«Che angioletti», disse Vanderbilt.

Impassibile, Judith Li guardava Alicia che stava arrivando all'orgasmo. Benché il volume fosse basso, qualche nota dell'atto d'amore si diffuse nella fredda atmosfera del centro di controllo. «Sono contenta che le piaccia, Jack.»

«Quel piccolo ammasso di muscoli non sarebbe di mio gusto», sbottò Vanderbilt, indicando Karen. «Particolarmente stronza, non trova?»

«È innamorato?»

Vanderbilt sorrise. «Dovrei pregare non poco.»

«Metta in azione il suo fascino», disse Judith Li. «Ne ha pur sempre un buon quintale.»

Il dirigente della CIA si asciugò il sudore dalla fronte. Rimasero a guardare ancora per un po'. Se succedeva qualcosa che a Vanderbilt piaceva, lui doveva goderselo con calma. Per Judith Li era del tutto indifferente se nelle cabine russavano o facevano l'amore. Per lei, potevano anche appendersi al soffitto coi piedi, oppure saltarsi addosso sbavando.

La cosa importante era sapere dov'erano, cosa facevano e cosa si dicevano.

«Procedete», disse e si girò. Mentre usciva, aggiunse: «E controllate tutte le cabine».

13 agosto

Visita

Non ci fu risposta.

Il messaggio era stato inviato in mare senza risultati. Alle sette, la sveglia aveva buttato tutti giù dal letto e molti non avevano dormito abbastanza. Normalmente si era cullati dal movimento della gigantesca nave, e, poiché non c'erano missioni di volo, dalla coperta non arrivavano rumori. Il CPS, ronzando leggermente, manteneva una temperatura gradevole e i letti erano davvero comodi. Di tanto in tanto, se passava qualcuno dell'equipaggio, si sentivano dei passi nel corridoio. Nel cuore della nave frusciavano i generatori. Se non ci fosse stata quella tensione, il sonno sarebbe potuto essere davvero ristoratore. Ma la maggior parte degli scienziati si limitava a cadere in un dormiveglia tormentato, come Johanson, che cercava d'immaginare quali effetti avrebbe avuto il messaggio trasmesso negli abissi del mar di Groenlandia e si ritrovava ossessionato dalle fantasie più assurde.

Il fatto che si trovassero al largo della Groenlandia, e non più a sud, era dovuto alla sua arringa e al sostegno di Karen Weaver e Gerhard Bohrmann. Anawak, Rubin e alcuni altri avevano proposto di cercare il contatto sulla catena vulcanica della dorsale medioatlantica. Per Rubin, infatti, la somiglianza tra i granchi dei camini idrotermali e quelli che avevano attaccato New York e Washington era un fattore decisivo. Inoltre negli abissi marini c'erano pochi luoghi che offrissero i presupposti per una vita altamente evoluta. Nelle catene vulcaniche, invece, c'erano condizioni ideali. L'acqua calda sgorgava da camini di roccia molto alti e metteva a disposizione tutti i minerali possibili e le sostanze necessarie per la vita. Là vivevano vermi, molluschi, pesci e granchi in una situazione che poteva evocare quella di un pianeta sconosciuto. Perché non avrebbero dovuto viverci anche gli yrr?

Johanson aveva dato ragione a Rubin su molte cose. Ma aveva avanzato due obiezioni. Benché le catene vulcaniche rappresentassero senza dubbio il luogo più favorevole alla vita negli abissi marini, erano anche il più pericoloso. Quando le placche oceaniche divergevano, si avevano frequenti colate laviche. C'erano eruzioni che avrebbero distrutto completamente il biotipo. Era vero che in quei luoghi sarebbe ricomparsa la vita ma, secondo Johanson, era poco probabile che una civiltà complessa e intelligente si stabilisse in quella zona. La seconda obiezione era legata al fatto che le possibilità di prendere contatto aumentavano quanto più ci si avvicinava agli yrr. Le opinioni divergevano su dove si trovassero esattamente e forse tutti, a loro modo, avevano ragione. Alcuni indizi facevano pensare che vivessero nelle più profonde regioni marine. Molti fenomeni recenti erano avvenuti nelle immediate vicinanze di quelle fosse abissali. Però non era da escludere l'imponente bacino abissale, e naturalmente non si potevano scartare gli argomenti di Rubin sulle oasi medioceaniche che permettevano la nascita della vita. Alla fine, Johanson aveva proposto di non rivolgere l'attenzione all'ambiente naturale degli yrr, ma di cercare un posto in cui si fosse sicuri della loro presenza.

Nel mar di Groenlandia era stata fermata la caduta delle acque fredde. La conseguenza era stata il blocco della Corrente del Golfo. Solo due cause potevano spiegare quel fenomeno: un improvviso riscaldamento del mare o un eccessivo afflusso di acqua dolce proveniente dall'Artico, che diluiva l'acqua salata dell'Atlantico settentrionale rendendola troppo leggera per precipitare. Entrambe le cose presupponevano una profonda manipolazione delle condizioni di quel luogo. Gli yrr erano impegnati a condurre a termine quel mostruoso sconvolgimento da qualche parte nell'Artico.

Da qualche parte, nelle vicinanze.

Restava l'aspetto della sicurezza. Lo stesso Bohrmann, che era abituato a temere il peggio, ammetteva che il rischio di un blow-out di metano nel bacino abissale della Groenlandia era molto basso. La nave di Bauer era stata colpita nei pressi delle isole Svalbard, e là, sulla scarpata continentale, erano stipate massicce quantità di idrati. Sotto la chiglia dell'Independence si stendevano tremilacinquecento metri d'acqua. Probabilmente, così in profondità, c'era assai meno metano, e comunque non abbastanza per far affondare una nave delle dimensioni dell'Independence. Tuttavia, per ogni evenienza, nel corso del viaggio erano stati eseguiti regolari rilevamenti sismici, per scoprire giacimenti di metano nel fondale marino e trovare così una posizione che ne fosse priva. Anche uno tsunami, per quanto dirompente verso la terraferma, lì al largo sarebbe stato appena percettibile, almeno finché non fosse smottata La Palma.

Ma in quel caso sarebbe stato comunque troppo tardi.

Era quello il motivo per cui si trovavano lì, tra i ghiacci eterni.

Erano seduti nella mensa degli ufficiali, gigantesca e deserta, a mangiare uova strapazzate e pancetta. Anawak e Greywolf non c'erano. Dopo la sveglia, Johanson aveva parlato al telefono per qualche minuto con Bohrmann, che era arrivato a La Palma e stava preparando l'operazione con l'aspiratore. Le Canarie erano un'ora indietro, ma Bohrmann era già in piedi da diverse ore. «Il lavoro lo fa un tubo aspirante lungo cinquecento metri», aveva detto, ridendo.

«Pulite bene anche negli angoli», gli aveva consigliato Johanson.

Bohrmann gli mancava. D'altra parte, a bordo dell'Independence, non c'era carenza di personaggi singolari. Stava parlando con Samantha, quando entrò Floyd Anderson, il primo ufficiale, reggendo un contenitore termico grande come una pentola, con la scritta USS WASP LHD-8. Anderson andò al tavolo delle bibite e lo riempì fino all'orlo di caffè. Poi latrò: «Abbiamo visite».

Tutti lo guardarono.

«Un contatto?» chiese Sue.

«Lo saprei.» Samantha prese un'enorme porzione di pancetta. Nel portacenere, c'era la sua terza o quarta sigaretta, ancora accesa. «Shankar è nel CIC. Ci avrebbe informati.»

«Che cosa c'è allora? È atterrato qualcuno?»

«Uscite in coperta», replicò Anderson con aria misteriosa. «E lo vedrete.»


Ponte di volo

All'esterno, sul volto di Johanson si appoggiò una maschera di freddo. Il cielo era di un bianco indefinito. Le onde grigie sollevavano creste schiumose. Durante la notte si era alzato il vento e soffiava cristalli di ghiaccio sottili come aghi sulla superficie asfaltata. Johanson scorse un gruppo di persone imbacuccate e, avvicinandosi, riconobbe Judith Li, Anawak e Greywolf. Poi immediatamente capì che cosa aveva attirato la loro attenzione.

A una certa distanza dall'Independence, un appuntito profilo di pinne dorsali era emerso dal mare.

«Orche», spiegò Anawak, quando Johanson gli fu vicino.

«Che cosa fanno?»

Anawak socchiuse le palpebre contro la pioggia di aghi di ghiaccio. «È da circa tre ore che girano intorno alla nave. I delfini ne hanno annunciato la presenza. Direi che ci osservano.»

Shankar arrivò di corsa e si mise di fianco a loro. «Che succede?»

«Forse è una risposta» disse Samantha.

«Al nostro messaggio?»

«E a cosa, sennò?»

«Strana, come risposta a una verifica di matematica», disse Shankar. «Avrei preferito qualche sostanziosa equazione.»

Le orche si tenevano prudentemente a distanza dalla nave. Erano molte. Centinaia, valutò Johanson. Nuotavano con un ritmo regolare e, di tanto in tanto, sollevavano il dorso nero. In effetti dava proprio l'impressione che fossero una pattuglia.

«È possibile che siano infestate?»

«Probabile.»

«Dite un po'…» Greywolf si grattò la testa. «Se quella robaccia controlla il loro cervello… non avete mai pensato che ci possano anche vedere? E sentire?»

«Hai ragione», disse Anawak. «Usano i loro organi di senso.»

«Appunto. Così quella sostanza gelatinosa ha occhi e orecchie.»

«A ogni buon conto, sembra proprio che sia cominciata», disse Samantha, soffiando nell'aria gelida il fumo che venne immediatamente portato via.

«Che cosa?» chiese Judith Li.

«La prova di forza.»

«Bene.» Un sorriso sottile le increspò le labbra. «Siamo attrezzati per ogni evenienza.»

«Per quelle che conosciamo», precisò Samantha.


Laboratorio

Mentre scendeva — con Mick Rubin e Sue Oliviera al seguito -, Johanson si chiedeva se la psicosi non avesse già cominciato a creare nella loro mente una realtà allucinata.

Il processo l'aveva messo in moto lui. Certo, se non l'avesse fatto lui, sarebbe stato qualcun altro a elaborare quella teoria. I fatti si disponevano sulla base di un'ipotesi. Un branco di orche circondava l'Independence e loro ci vedevano gli occhi e le orecchie degli alieni. Vedevano alieni ovunque. Quindi avevano mandato dei messaggi nel mare con la speranza di allacciare un contatto, che magari non ci sarebbe mai stato perché erano stati attaccati da una muffa marina.

Il quinto giorno. Era solo una fantasia che ormai si autoalimentava? Si stavano comportando da idioti? Non riusciamo ad andare avanti, pensò, frustrato. Qualcosa deve succedere. Qualcosa che ci dia la certezza che non ci stiamo muovendo nella direzione sbagliata, accecati dalle teorie.

Scesero la rampa coi passi che rimbombavano, passarono l'hangar e continuarono a scendere. La porta d'acciaio del laboratorio era chiusa. Johanson inserì un codice numerico ed essa scivolò con un leggero sibilo. Lui regolò l'illuminazione del soffitto e quella delle postazioni. Una luce fredda e bianca invase le isole di lavoro. Dal simulatore arrivava il ronzio dei sistemi elettrici. Salirono sulle passerelle tutt'intorno alla cisterna ad alta pressione e si misero davanti alla grande finestra ovale. Da lì si dominava l'interno della vasca. Sul fondale marino artificiale, nella luce dei proiettori, c'erano piccoli esseri, con zampe da ragno. Alcuni si muovevano esitanti, evidentemente disorientati. Si spostavano in cerchio oppure si fermavano dopo qualche passo, come se non sapessero dove andare. Più si guardava in profondità nella cisterna, più l'acqua rendeva difficile cogliere i dettagli. Alcune telecamere facevano riprese ravvicinate dall'interno e le proiettavano sui monitor di un banco di controllo.

Tutti osservarono i granchi con sgomento.

«Non hanno fatto granché da ieri», notò Sue.

«No, se ne stanno rannicchiati e aumentano le nostre perplessità.» Johanson si strofinò la barba. «Dovremmo aprirne qualcuno e vedere che succede.»

«Aprire i granchi?»

«Perché no? Che continuano a vivere con l'alta pressione ormai lo sappiamo. Non è che questa conoscenza acquisti interesse col passare dei giorni.»

«Continuano a vegetare», lo corresse Sue. «Non abbiamo ancora spiegato se quello che fanno può essere definito 'vivere'.»

«La sostanza al loro interno vive», intervenne Rubin, pensieroso. «Il resto non è più vivo di un'automobile.»

«D'accordo», disse Sue. «Ma com'è questa vita che hanno all'interno? Perché non fa nulla?»

«Che dovrebbe fare, secondo lei?»

«Girare.» La biologa si strinse nelle spalle. «Muovere le chele, che ne so. Lasciare la corazza. Osservate quei granchi. Se sono stati programmati per arrivare sulla terra, fare danni e infine crepare, si trovano in una situazione davvero difficile. Non arriva nessuno a dare nuovi ordini. Stanno girando a vuoto.»

«Appunto», annuì Johanson, spazientito. «Sono letargici e noiosi e si comportano come giocattoli a molla. La penso come Mick. Questi corpi di granchio sono stati allevati già morti; è rimasta solo un po' di massa nervosa e sono un'armatura per chi ci sta dentro. E adesso voglio costringere chi è là dentro a uscire, capite? Voglio sapere come si comporta quella cosa nell'ambiente degli abissi marini se qualcuno la costringe a lasciare la corazza.»

«Va bene», approvò Sue. «Vediamo di esplorare quella sostanza gelatinosa.»

Lasciarono la passerella, scesero e si avviarono alla console di comando. Il computer permetteva di controllare diversi robot all'interno della cisterna. Johanson scelse una piccola unità ROV a due componenti, di nome Spherobot. Su un quadro di comando, munito di due joystick, erano accesi diversi monitor ad alta risoluzione. Uno mostrava l'interno del simulatore. Il grandangolo dello Spherobot consentiva di vedere tutta la cisterna, ma riportava l'immagine come se fosse distorta dall'occhio di un pesce.

«Quanti ne apriamo?» chiese Sue.

Le mani di Johanson scivolarono sulla tastiera del comando manuale e l'angolazione della telecamera si alzò leggermente. «Quanti ne servono per una buona cena», rispose. «Almeno una dozzina.»

Una delle parti più strette della cisterna somigliava a un garage aperto a due piani in cui si trovavano alcuni robot sottomarini di diverse dimensioni e teleguidati. Non sarebbe stato possibile operare in altro modo in quel mondo artificiale; inoltre il garage offriva ai costruttori degli AUV e dei ROV la possibilità di testare i loro prodotti nelle condizioni estreme degli abissi marini.

Nel momento in cui Johanson attivò il sistema di guida, sotto uno dei robot si accese una potente luce e due eliche cominciarono a girare. Una slitta rettangolare delle dimensioni di un carrello da supermercato scivolò lentamente fuori dal garage. La parte superiore era coperta e piena di apparecchiature tecnologiche; quella inferiore consisteva in una cesta vuota con pareti dalle maglie fittissime. Il robot scivolò sul fondale marino artificiale verso i granchi e si fermò a breve distanza da un gruppo immobile. Si vedevano chiaramente il guscio arcuato completamente privo di occhi e le potenti chele.

«Passo alla sfera», disse Johanson.

L'immagine deformata divenne una ripresa chiara e precisa.

Dalla slitta che pendeva immobile sopra i granchi, scese una sfera smaltata di rosso, non più grande di un pallone da calcio. Era quella a dare il nome al veicolo. Il modo in cui scendeva — collegata solo da un cavo all'apparecchio più grande, con l'occhio splendente dell'obiettivo che fissava dritto davanti a sé — ricordava il piccolo robot da combattimento con cui, in Guerre stellari, Luke Skywalker si allenava con la spada laser. In effetti, lo Spherobot, coi suoi sei piccoli reattori per la guida, imitava il modello cinematografico fin nel dettaglio. Dopo un breve tratto, si abbassò lentamente e poi si fermò al di sopra dei granchi, i quali non ebbero nessuna reazione, neppure quando la sfera rossa si aprì e, dal suo interno, uscirono due bracci sottili e snodati. Un arsenale di strumenti prese a ruotare alle due estremità. Poi, a sinistra, uscì una tenaglia e, a destra, una sega. Le mani di Johanson sui joystick si mossero con cautela in avanti e i bracci del robot nella cisterna seguirono il suo movimento.

«Hasta la vista, baby», disse Sue, imitando Schwarzenegger.

Le tenaglie scesero, afferrarono un granchio e lo sollevarono davanti alla telecamera. Sul monitor, l'animale aveva le dimensioni di un mostro. La sua bocca si mosse, le zampe si dimenarono, ma le chele restavano inerti. Johanson fece ruotare le tenaglie di trecentosessanta gradi e osservò attentamente il comportamento dell'animale mentre veniva girato.

«La motricità è perfetta», commentò. «Il sistema motorio funziona.»

«In compenso ci sono reazioni atipiche», notò Rubin.

«Non divarica le chele, non ha atteggiamenti minacciosi. Questo è semplicemente un automa, una macchina che cammina.» Mosse il secondo joystick e schiacciò un pulsante nella parte superiore, mettendo in azione la sega circolare. Quindi la portò sul fianco della corazza. Per un attimo le zampe del granchio si mossero freneticamente.

La corazza si ruppe e ne uscì qualcosa di lattiginoso, che rimase sospeso per un attimo sopra l'animale spaccato.

«Mio Dio», si lasciò sfuggire Sue.

Quella cosa non somigliava né a una medusa né a una seppia. Era totalmente priva di forma. I suoi bordi erano come percorsi da onde e il corpo si gonfiava e si appiattiva. Johanson ebbe la sensazione che nel suo interno si muovesse un fulmine, ma, nell'illuminazione abbagliante della cisterna, quella poteva anche essere un'illusione ottica. Mentre lui stava riflettendo, improvvisamente l'essere si trasformò in qualcosa di allungato, simile a un serpente, e sparì.

Johanson imprecò, prese il granchio successivo e lo tagliò. Stavolta accadde ancora più in fretta e l'interno gelatinoso scomparve ancor prima che potessero osservarlo attentamente.

«Accidenti!» Rubin era evidentemente agitato. «Cose da pazzi! Che razza di roba è?»

«Qualcosa che scappa», ringhiò Johanson. «Seccante. Come facciamo a prendere quella robaccia?»

«Ma non l'abbiamo già presa?»

«Sì, due cose svolazzanti, grandi come una pallina da tennis senza forma e colore in una piscina. E come le troviamo?»

«Il prossimo lo aprirei direttamente nella cesta del robot», suggerì Sue.

«È aperta nella parte anteriore, scapperà.»

«No, non lo farà. La cesta si può chiudere, basta essere sufficientemente rapidi.»

«Non so se ci riusciremo.»

«Ci provi.»

Sue aveva ragione. Nella parte anteriore della cesta del robot c'era un coperchio a maglie; chiudendolo, la cesta si trasformava in una gabbia. Johanson afferrò un altro animale, girò la sfera di centottanta gradi e la portò verso il robot trasportatore, finché il suo braccio elettronico non si distese all'interno della gabbia. Lì appoggiò la sega circolare sul lato del granchio.

La corazza si frantumò.

Non accadde nulla.

«Vuoto?» si meravigliò Rubin.

Attesero qualche secondo, poi Johanson riportò lentamente indietro il robot sferico.

«Merda!»

L'essere gelatinoso era scivolato fuori dal corpo del granchio, ma aveva scelto la direzione sbagliata. Sbatté violentemente contro la parete posteriore della cesta, si raccolse in forma di palla tremolante e rimase davanti all'inferriata. Il suo disorientamento — ammesso che si potesse definirlo così — durò solo un istante.

La cosa si allungò.

«Vuole scappare!» gridò Sue.

Johanson portò indietro lo Spherobot, che sbatté contro una parete laterale e poi uscì. Uno dei bracci riuscì a prendere il coperchio e lo sollevò.

La cosa si appiattì completamente e poi si lanciò in avanti. A pochi centimetri dalla copertura, fece un balzo indietro e cambiò ancora forma. I suoi bordi si stesero finché essa non rimase sospesa in acqua, come una campana trasparente che occupava quasi la metà della gabbia. Il corpo si piegò. Per qualche secondo sembrò una medusa, poi tornò ad arrotolarsi. Un momento dopo, a galleggiare nella gabbia, c'era di nuovo una palla.

«Una follia», sussurrò Rubin.

«Guardate un po'», esclamò Sue. «Si sgonfia.»

In effetti, la sfera si stava ritirando e perdeva trasparenza. Divenne lattiginosa.

«Il tessuto si contrae», disse Rubin. «Quella cosa può cambiare la propria densità molecolare.»

«Non vi ricorda qualcosa?»

«Le prime forme semplici di polpi», rifletté Rubin. «Ci sono altri organismi in grado di fare cose simili. La maggior parte dei cefalopodi può contrarre i propri tessuti, ma non cambia forma. Dobbiamo catturarne altri per capire come reagiscono.»

Johanson si appoggiò allo schienale. «Non ci riuscirò un'altra volta», disse. «Con un secondo tentativo, questo scapperebbe. Sono troppo veloci.»

«Va bene. Per le osservazioni ne può bastare uno.»

«Non lo so.» Sue scosse la testa. «Osservare va bene, ma io voglio esaminare la sostanza, non soltanto resti in decomposizione. Forse dovremmo congelarla e tagliarla a fette.»

«Certo.» Rubin fissava il monitor, affascinato. «Ma non subito. Prima guardiamolo un po'.»

«Abbiamo anche gli altri due. Per caso li vedete?»

Johanson mise in funzione diversi monitor e l'interno della cisterna apparve da diversi punti di vista. «Sparitibus.»

«Sciocchezze. Devono essere da qualche parte.»

«Va bene, apriamone qualcun altro», sbuffò Johanson. «Volevamo comunque farlo. Quanta più roba gelatinosa c'è in giro nella cisterna, più aumentano le possibilità di vederla. Il nostro prigioniero di guerra, per sicurezza, lo lasciamo in gabbia. Poi vedremo.» Sorrise e strinse le dita intorno al joystick. «Cric crac. È anche divertente, vero?»

Aprirono un'altra dozzina di granchi senza cercare di catturare la sostanza che ne usciva. Gli esseri di gelatina sfrecciavano fuori non appena la corazza si rompeva e si perdevano da qualche parte nella vastità della cisterna.

«Evidentemente la Pfiesteria non li fa fuori», affermò Sue.

«Ovviamente no», annuì Johanson. «Gli yrr si sono preoccupati che le due cose andassero d'accordo. La gelatina guida il granchio, la Pfiesteria è il carico. È logico che non mandino un taxi in cui il passeggero uccide l'autista.»

«Crede che anche la gelatina sia una coltivazione?»

«Non ne ho idea. Forse c'era già prima. Probabilmente è stata allevata.»

«E se questi esseri gelatinosi fossero… gli yrr?»

Johanson orientò lo Spherobot in modo che la telecamera riprendesse la gabbia. Osservò l'esemplare catturato. Aveva mantenuto la forma sferica e restava sul fondo, simile a una palla da tennis bianca e vetrosa.

«Queste… cose?» chiese Rubin, incredulo.

«Perché no?» esclamò Sue. «Le abbiamo trovate nella testa delle balene, nelle infestazioni della Barrier Queen, all'interno della nuvola blu, ovunque.»

«Sì, appunto la nuvola blu. A cosa serve?»

«Ha una funzione, certo. Queste cose si nascondono là dentro.»

«A dire la verità, mi sembra che la gelatina, come i vermi e le altre mutazioni, sia un'arma biologica.» Rubin indicò la palla immobile nella cesta. «Credete che sia morta? Non si muove più. Forse, quando muore, i suoi tessuti si ritirano in forma di palla.»

In quel momento, dagli altoparlanti del soffitto giunse un segnale. Poi si sentì la voce di Peak. «Buongiorno. Visto che, con l'arrivo della dottoressa Crowe, siamo al completo, abbiamo organizzato un incontro per le 10.30 nel ponte a pozzo. Vogliamo che prendiate confidenza coi batiscafi e con le attrezzature. Sarebbe quindi gentile da parte vostra essere presenti. Inoltre vorrei ricordarvi che, alle 10, terremo il nostro solito incontro nella sala riunioni. Grazie».

«Per fortuna che ce l'ha ricordato», borbottò Rubin. «Me n'ero completamente scordato. Quando faccio ricerche dimentico il tempo e lo spazio. O si è ricercatori o non lo si è, vero?»

«Giusto», replicò Sue, annoiata. «Sono ansiosa di sentire se ci sono novità da Nanaimo.»

«Perché non chiama Roche?» propose Rubin. «Gli racconti dei nostri successi. Forse è già riuscito a scoprire qualcosa.» Sorrise a Johanson e gli diede un colpetto sulla spalla. «Forse sapremo qualcosa prima di Judith Li e faremo una bella figura.»

Johanson rispose al sorriso, ma Rubin non gli piaceva. Era bravo nel suo lavoro, però era anche un leccaculo, disposto probabilmente a vendere sua nonna, se fosse servito per fare carriera. Sue si avvicinò all'unità radio proprio di fianco al pannello di comando e fece comporre il numero in automatico. La connessione satellitare proprio sopra l'isola permetteva ogni forma di scambio di dati. Ovunque nella nave si potevano ricevere molte emittenti televisive, si potevano collegare televisori portatili, radio e laptop, e naturalmente si poteva telefonare in tutto il mondo attraverso canali a prova d'intercettazione.

Sue parlò un po' con Fenwick e poi con Roche, che a loro volta erano in contatto con numerosi scienziati in tutto il globo. A quanto pareva, erano riusciti a circoscrivere le mutazioni della Pfiesteria, ma il successo non era ancora in vista. Ed eserciti di granchi stavano attaccando Boston. Sue comunicò quello che avevano scoperto e riagganciò.

«Oh, merda», sbottò Rubin.

«Forse ci aiuteranno i nostri amici nella cisterna», disse Johanson. «Qualcosa li protegge dalle alghe. Portiamoli a fare un giro nel laboratorio di massima sicurezza. Non appena sapremo che cosa…»

Guardò il monitor.

L'essere nella gabbia era sparito.

Sue e Rubin seguirono il suo sguardo e sgranarono gli occhi.

«Non c'è più!»

«Come ha fatto a uscire?»

Sullo schermo si vedevano solo granchi e acqua.

«Quelle cose se ne sono andate.»

«Sciocchezze! Dove possono essere scappate?»

«Un momento! Ne abbiamo fatte uscire una dozzina. Non dovrebbero essere invisibili.»

«Saranno là, da qualche parte. Ma dov'è quella nella gabbia?»

«Forse è diventata molto sottile», ipotizzò Sue.

Johanson osservò lo schermo e la sua espressione si rasserenò. «Sottile? Non è una cattiva idea», mormorò. «Certo… Può cambiare la forma. Le maglie sono fitte, ma probabilmente non abbastanza fitte per qualcosa di lungo e sottile.»

«Che sostanza incredibile», sussurrò Rubin.

Cominciarono a esaminare la cisterna, dividendola in zone. Ciascuno controllava un monitor, in modo da avere sempre sotto controllo tutto il bacino. Zoomarono con le telecamere, ma quella robaccia gelatinosa non si vedeva. Infine Johanson fece uscire i robot dal garage, ma non era nascosta neppure lì.

Gli esseri erano spariti.

«Forse abbiamo qualche problema col sistema di tubature», rifletté Sue. «Che siano nascosti in qualche tubo dell'acqua?»

Rubin scosse la testa. «Non è possibile.»

«Comunque sia, dobbiamo salire per la riunione», ringhiò Johanson. «Forse ci verrà in mente dove possono essere.»

Confusi e frustrati, spensero le luci nel simulatore e uscirono. Rubin spense anche le luci del laboratorio e fece per seguirli.

Ma non li seguì.

Johanson si voltò e lo vide, immobile davanti alla porta, a fissare il buio. Poi si accorse che Rubin aveva la bocca spalancata. Lentamente tornò indietro, seguito da Sue.

Dietro la finestra ovale del simulatore splendeva qualcosa.

Una luce debole e diffusa.

Una luce blu.

«La nuvola blu», sussurrò Rubin.

Senza curarsi degli ostacoli, corsero nell'oscurità verso il simulatore. Salirono in fretta le scale e si ammassarono davanti al vetro blindato.

La luce blu era sospesa nel nulla, come una strana nuvola nello spazio privo di luce. Ma quello spazio era una cisterna piena d'acqua. La sua estensione copriva alcuni metri quadrati. Pulsava. I bordi tremolavano.

Johanson socchiuse le palpebre, cercando di osservare con la massima attenzione. Che stava succedendo oltre il bordo? Minuscoli punti luminosi sembravano scorrere all'interno della nuvola, sempre più velocemente. Simili a particelle di materia nel campo gravitazionale di un buco nero.

Il blu divenne più intenso.

Poi collassò.

Quasi come un Big Bang al contrario, la nuvola crollò su se stessa. Tutto tendeva verso l'interno, che diventava più luminoso e denso. Da lì partivano lampi luminosi, che formavano disegni complicati. A folle velocità, la nuvola fu risucchiata nel proprio centro con un turbinio violento, e poi…

«Non ci credo», mormorò Sue.

Davanti ai loro occhi, era sospesa una cosa sferica, delle dimensioni di un pallone da calcio. Qualcosa formato da una materia compatta. La cosa splendeva di una luce blu. Gelatina pulsante.

Avevano ritrovato gli esseri.

Gli esseri erano diventati un unico essere.


Sala riunioni

«Unicellulari!» gridò Johanson. «Sono unicellulari.»

Era agitatissimo. Il gruppo lo guardava in silenzio. Rubin non riusciva a stare fermo sulla sedia e annuiva freneticamente, mentre Johanson camminava avanti e indietro.

«Abbiamo sempre creduto che la gelatina e la nuvola fossero due cose distinte, e invece sono la stessa cosa. La sostanza è un legame tra le singole cellule. La gelatina può non solo cambiare la propria forma, ma si può anche dissolvere e poi ricomporsi.»

«L'essere si dissolve?» gli fece eco Vanderbilt.

«No, no! Non l'essere… Voglio dire, l'essere sono le singole cellule che si fondono tra loro. Abbiamo aperto alcuni granchi e fatto uscire la sostanza gelatinosa, che si è nascosta in qualche angolo del simulatore. Siamo riusciti a catturarne una. E improvvisamente erano sparite tutte, senza lasciare traccia, non era rimasto nulla… Mio Dio, che idiota sono stato a non pensarci! È ovvio! Degli esseri unicellulari non possono essere trattenuti in una gabbia, non possono essere osservati a occhio nudo, in genere sono troppo piccoli. Poiché il simulatore era illuminato dall'interno, non potevamo vedere la bioluminescenza. È lo stesso problema che abbiamo incontrato al largo della Norvegia, quando quella cosa gigantesca è passata davanti alla telecamera. Allora abbiamo visto solo la superficie illuminata dai proiettori di Victor, ma in realtà emetteva luce essa stessa… Era luminosa, era un insieme di organismi bioluminescenti. Quello che ora nuota laggiù nella cisterna è la somma delle sostanze che abbiamo tolto dai granchi!»

«Questo spiega alcune cose», disse Anawak. «L'essere senza forma sullo scafo della Barrier Queen, la nuvola blu al largo di Vancouver Island…»

«… le riprese dell'URA, esatto! Una gran parte delle cellule si muove liberamente nell'acqua, ma, al centro, le cellule sono compresse. La massa forma tentacoli. Inietta se stessa nelle teste delle balene.»

«Un momento.» Judith Li sollevò le mani. «Va bene, è stato stabilito qualche legame, ma ho l'impressione che vi stiate spingendo troppo avanti. Forse siamo stati testimoni di uno scambio. Via la gelatina vecchia, dentro quella nuova. Oppure c'è stato qualcosa di simile a un controllo. Forse la sostanza nelle teste rimanda qualcosa alla massa totale.»

«Informazioni», disse Greywolf.

«Sì!» esclamò Johanson. «Sì!»

Alicia arricciò il naso. «Dunque possono assumere qualsiasi dimensione, a seconda delle necessità?»

«Qualsiasi dimensione e qualsiasi forma», confermò Sue. «Per guidare un granchio ne basta una manciata. Quella cosa al largo di Vancouver Island intorno cui si sono raccolte le balene aveva le dimensioni di una casa, e…»

«Questo è il fatto decisivo della nostra scoperta», interloquì Rubin, scattando in piedi. «La gelatina è un materiale grezzo necessario per svolgere determinati compiti.»

Sue annuì, seccata per l'interruzione.

«Ho riguardato con attenzione le riprese fatte davanti alla scarpata continentale norvegese», proseguì Rubin, senza prendere fiato. «E credo di sapere cos'è successo! Che mi venga un colpo se non è stata quella sostanza a dare il colpo definitivo per lo smottamento della scarpata continentale. Siamo a un passo dal comprendere la verità!»

«Avete trovato una massa che svolge una gran quantità di lavoro sporco», disse Peak, per nulla impressionato. «Molto bene. E dove sono gli yrr?»

«Gli yrr sono…» Rubin si bloccò. Improvvisamente tutta la sua sicurezza era svanita. Il suo sguardo si spostava incerto da Sue a Johanson. «Ma sì…»

«Crede che quelli siano gli yrr?» domandò Samantha.

Johanson scosse la testa. «Non ne ho idea.»

Cadde un silenzio pesante.

Samantha Crowe strinse le labbra e fece un tiro di sigaretta. «Non abbiamo ancora ricevuto risposte. Chi ci può rispondere? Un essere intelligente o un'associazione di esseri intelligenti? Che ne pensa, Sigur? Gli esseri nella cisterna si comportano in maniera intelligente?»

«Sa meglio di me che la domanda è oziosa», ribatté Johanson.

«Era quello che volevo sentirle dire», sorrise Samantha.

«Come possiamo rendercene conto? Un'intelligenza extraterrestre come valuterebbe un gruppo di prigionieri di guerra rinchiusi in un campo, che non sanno nulla di matematica, hanno paura, freddo, si lamentano oppure stanno seduti in un angolo?»

«Oh, santo cielo», si lamentò Vanderbilt a bassa voce. «Adesso tiriamo in ballo pure la Convenzione di Ginevra.»

«Vale anche per gli extraterrestri?» sogghignò Peak.

Sue gli scoccò uno sguardo disgustato. «Dovremo sottoporre ad altri test la massa nella cisterna», disse. «Tra parentesi, non riesco a spiegarmi come mai ci abbiamo messo tanto a comprenderlo. Leon, cos'hai notato quando sei andato di nascosto nel bacino di carenaggio della Barrier Queen

Anawak la guardò. «Poco prima che mi pescassero? Un bagliore blu.»

«Appunto», disse Sue, rivolta a Judith Li. «Lei ha voluto muoversi da sola, e ha tenuto sotto osservazione nel bacino la Barrier Queen per settimane senza arrivare a niente… Va bene, ormai è andata. Alla sua gente deve essere sfuggito qualcosa di fondamentale nell'analisi dei campioni d'acqua del bacino di carenaggio. Nessuno si è accorto della luce? O di una gran quantità di organismi unicellulari nei campioni d'acqua?»

«Certo», replicò Judith Li. «È ovvio che abbiamo analizzato l'acqua.»

«E allora?»

«Niente. Acqua normalissima.»

«Ah, bene», sospirò Sue. «Potrebbe farmi avere le analisi? Compresi i risultati di laboratorio.»

«Naturalmente.»

«Dottor Johanson…» Shankar alzò la mano. «Come pensa che avvenga questa fusione? Cosa li porta a fondersi?»

«E tutti contemporaneamente», si meravigliò Roscovitz. Era la prima volta che prendeva la parola. «Come avviene? A che scopo? Una di quelle cellule dovrà pur dire: 'Ehi, gente, venite un po' qui che facciamo una festa!'»

«Non necessariamente», disse Vanderbilt con fare scaltro. «Il grado più alto di collaborazione si trova nelle cellule del corpo umano, giusto? E non c'è nessuno che dica loro come fare.»

«Sta parlando della struttura organizzativa della CIA?» chiese ridendo Judith Li.

«Stia attenta, Suzie Wong.»

«Ehi!» Roscovitz sollevò le mani. «Io sono solo un pilota di sommergibili. Voglio capire questa storia. Negli uomini le cellule stanno incollate tutte insieme, ma qui è un'altra faccenda. Noi non ci dissolviamo a piacere, inoltre c'è un sistema nervoso centrale che funge da boss.»

«Tra le cellule umane la comunicazione avviene per mezzo di messaggeri chimici», disse Alicia.

«E questo che vuol dire? Dobbiamo immaginare queste cellule come un banco di pesci in cui tutti nuotano contemporaneamente nella stessa direzione?»

«Il movimento di un banco di pesci è simultaneo solo in apparenza», spiegò Rubin. «Il comportamento dei banchi dipende dalla pressione.»

«Questo lo sapevo, gente, volevo solo…» sbuffò Roscovitz.

«Sui fianchi dei pesci ci sono degli organi», continuò Rubin, impassibile. «Se un corpo cambia la propria posizione, al suo vicino arriva la pressione di un'onda e automaticamente si sposta nella stessa direzione, e così via finché tutto il banco partecipa allo spostamento.»

«Ho detto che lo so!»

«Ma certo!» Alicia s'illuminò. «È così!»

«Che cosa?»

«La pressione delle onde. La grande massa di gelatina può guidare facilmente i banchi con la pressione delle onde. Ci siamo chiesti per quale stregoneria i banchi di pesci non finiscono più nelle reti, e questa potrebbe essere una spiegazione.»

«Guidare un intero banco?» chiese Shankar, dubbioso.

«Certo, ha ragione», esclamò Greywolf. «Ha maledettamente ragione! Se gli yrr guidano milioni di granchi e possono trasportare miliardi di vermi sulle scarpate continentali, possono dirigere anche i banchi con la pressione delle onde. Una cosa del genere si può fare, eccome. La sensibilità alla pressione è la più importante protezione di un banco.»

«Vuol dire che quegli organismi unicellulari nella cisterna reagiscono alla pressione?»

«No.» Anawak scosse la testa. «Sarebbe troppo semplice. I pesci possono generare una pressione, ma qui parliamo di organismi unicellulari…»

«Eppure ci deve essere qualcosa che innesca la fusione.»

«Aspettate», disse Sue. «Ci sono forme simili di comunicazione nei batteri. Il Myxococcus xanthus, per esempio. Una specie che vive nel terreno e si unisce in piccoli gruppi chiusi. Quando le singole cellule non trovano da mangiare a sufficienza, danno una specie di segnale per indicare la fame. All'inizio, la colonia praticamente non reagisce, ma quando cominciano a esserci più cellule affamate, allora il segnale si fa più intenso finché non supera una determinata soglia. I membri della colonia cominciano a radunarsi. Un po' alla volta, formano una struttura complessa pluricellulare, un corpo fruttifero, che si può vedere a occhio nudo.»

«In cosa consiste il segnale?»

«È una sostanza che rilasciano.»

«Quindi un odore?»

«In un certo senso, sì.»

La discussione si bloccò. Qualcuno aggrottò la fronte, altri congiunsero la punta delle dita, altri ancora si mordicchiarono il labbro inferiore.

«Bene», disse Judith Li. «Sono impressionata. Questo è un grande successo. Non dobbiamo sprecare tempo a scambiarci conoscenze da dilettanti. Quali sono i prossimi passi?»

«Avrei una proposta», disse Karen.

«Parli pure.»

«Allo Château, Leon ha avuto un'idea, ricordate? Si trattava delle ricerche della Marina sul cervello dei delfini. E d'impianti che non erano semplici microchip, ma cellule nervose artificiali strette l'una all'altra, che riproducevano fin nel dettaglio una parte del cervello e che comunicavano tra loro con impulsi elettrici. Se la gelatina è davvero un'associazione di singole cellule e se queste cellule assumono le funzioni delle cellule cerebrali e le sostituiscono, allora possono comunicare tra loro. Addirittura devono farlo. Altrimenti non sarebbero in grado di fondersi e di cambiare forma. Forse creano davvero un cervello artificiale con tanto di messaggeri chimici. Forse…» Esitò. «… Forse assorbono addirittura le emozioni, le caratteristiche e il sapere del loro ospite e in questo modo imparano a governarlo.»

«Per farlo dovrebbero avere una notevole capacità di apprendimento», borbottò Sue. «Ma come possono imparare degli organismi unicellulari?»

«Leon e io potremmo creare artificialmente al computer una colonia di questi organismi unicellulari e dotarli di caratteristiche. Finché non comincia a comportarsi come un cervello.»

«Un'intelligenza artificiale?»

«Con basi biologiche.»

«Sembra utile», affermò Judith Li. «Fatelo. Altre proposte?»

«Cercherò di frugare nella preistoria per trovare una forma di vita imparentata con questi esseri», disse Rubin.

Judith annuì. «Lei ha qualche novità, Sam?»

«Non proprio.» La voce di Samantha uscì da una nuvola di fumo. «Stiamo lavorando per decifrare il vecchio segnale scratch, almeno finché non avremo risposte.»

«Forse dovreste mandare ai vostri yrr qualcosa di più impegnativo di una verifica di matematica», ironizzò Peak.

Samantha lo guardò. Il fumo si diradò, rivelando il suo bel viso e le numerose piccole rughe tirate in un sorriso. «Con calma, Sal.»

«Sbaglio o lei è maledettamente ottimista?»

«Ho pazienza.»


Ponte a pozzo

Roscovitz era una di quelle persone che hanno trascorso tutta la vita in Marina e non era disposto a cambiare. Pensava che ciascuno dovesse impegnarsi a fondo nelle cose che sapeva fare e, dato che gli piaceva andare sott'acqua, aveva scelto la carriera di sommergibilista e aveva ottenuto diversi comandi.

Ma credeva pure che una delle caratteristiche fondamentali dell'essere umano fosse la curiosità. La sua vita era permeata dalla fedeltà, dal senso del dovere e dall'amore per la patria, ma lui non gradiva affatto la retorica dell'esercito. Aveva capito che la maggior parte dei comandanti di sommergibili attraversava un mondo di cui non sapeva nulla, e lui non voleva essere come loro, così aveva iniziato a studiare. Non era diventato un biologo, ma il suo interesse per la materia era arrivato alle orecchie dei reparti scientifici della Marina, che stavano cercando individui con la mentalità del soldato, ma anche abbastanza flessibili per assumere le funzioni esecutive della ricerca.

Quand'era stata presa la decisione di attrezzare l'Independence per la missione in Groenlandia, gli era stato affidato l'incarico di allestire sulla nave la miglior base d'immersione possibile. In tutto il mondo non c'era più denaro disponibile… tranne che per la ricerca. Molti consideravano l'Independence l'ultima speranza dell'umanità, quindi Roscovitz aveva avuto carta bianca, senza limiti di budget. Poteva comprare tutto ciò che gli fosse sembrato utile e, se la cosa era possibile in tempi brevi, anche far costruire quello che non esisteva ancora, ma che lui riteneva indispensabile.

Nessuno si aspettava che avrebbe scelto batiscafi con equipaggio. Il principale candidato era il ROV, il robot sottomarino dotato di cavi e telecomandato, il cui modello Victor 6000 era già stato usato in Norvegia. Ma anche gli AUV erano ormai così evoluti da non avere neppure bisogno di un cavo di collegamento con la nave. La maggior parte possedeva telecamere ad alta definizione e un tipo di braccio mobile che aveva la sensibilità di un arto in carne e ossa. Nessuno voleva mettere in pericolo vite umane, perché i sommozzatori erano stati regolarmente aggrediti e uccisi, e nessuno si arrischiava più a entrare in acqua.

Roscovitz aveva ascoltato quelle argomentazioni, ma poi aveva dichiarato che, in quelle circostanze, se lo potevano scordare. «Abbiamo mai vinto una guerra utilizzando esclusivamente le macchine? Possiamo sparare bombe intelligenti e far volare aerei senza equipaggio sul territorio nemico, ma, durante la battaglia, una macchina non può prendere decisioni come un pilota. Sono certo che in questa missione arriverà un momento in cui saremo noi a dover decidere.»

Allora gli era stato domandato di cosa avesse bisogno. Naturalmente di ROV e AUV — aveva risposto -, ma anche d'imbarcazioni con l'equipaggio. Inoltre aveva chiesto una squadra di delfini e, con sua grande soddisfazione, gli era stato comunicato che, su indicazione di un membro dell'équipe scientifica, era già stato predisposto l'invio di MK6 e MK7. E, non appena Roskovitz era venuto a sapere chi si sarebbe occupato delle squadre, la sua soddisfazione era stata ancora maggiore.

Jack O'Bannon.

Roscovitz non conosceva personalmente O'Bannon. Ma, in certi ambienti, quello era un nome molto noto. Secondo alcuni, era il miglior addestratore che avessero mai avuto. Poi, però, era fuggito dalla Marina come se questa fosse il diavolo. Roscovitz sapeva la verità sui presunti problemi cardiaci di O'Bannon. Per quello era rimasto ancora più sorpreso quando aveva saputo che si trovava a bordo.

I suoi superiori avevano cercato di convincerlo a non usare mezzi con uomini a bordo, ripetendogli i rischi connessi a quell'opzione. Ma lui era cocciuto e continuava a ripetere: «Ne avremo bisogno». E, alla fine, si erano decisi a dargli il via libera.

Poi Roscovitz li aveva sbalorditi un'altra volta.

Verosimilmente, il dipartimento della Marina era partito dal presupposto che lui avrebbe riempito la gigantesca portaerei coi batiscafi più noti, come i MIR russi, gli Shinkai giapponesi e i Nautile francesi. In tutto il mondo c'era una mezza dozzina d'imbarcazioni che poteva raggiungere profondità superiori ai tremila metri e, fra quelle, c'era anche il caro, vecchio Alvin. Ma Roscovitz aveva inserito alcune novità. Con lo Shinkai si potevano raggiungere i seimilacinquecento metri di profondità, ma il suo movimento verticale era regolabile solo coi flussi e con le pompe delle taniche di zavorra, esattamente come succedeva col MIR e col Nautile. Roscovitz non pensava a esplorare gli abissi marini, bensì alla guerra con un nemico invisibile e, a partire da quel presupposto, aveva dedotto che usare quei batiscafi sarebbe stato come condurre una battaglia aerea con le mongolfiere. La maggior parte dei batiscafi era troppo lenta. Quello di cui aveva bisogno erano i jet degli abissi.

Jet da guerra.

Dopo qualche tempo, aveva trovato la Hawkes Ocean Technologies di Point Richmond, in. California. L'azienda non godeva soltanto di una fama notevole, ma veniva anche chiamata regolarmente dai produttori hollywoodiani per realizzare le loro idee in modo che fossero scientificamente plausibili. Graham Hawkes, un noto ingegnere e inventore, l'aveva fondata a metà degli anni '90 per realizzare un sogno: volare sott'acqua.

Roscovitz gli aveva messo sul tavolo un foglio coi suoi desideri e una gran quantità di denaro. E aveva posto come condizione che realizzassero il progetto in pochissimo tempo.

Il denaro aveva fatto sì che i risultati arrivassero.

Alle 10.30, gli scienziati, infagottati in una tuta di neoprene che lasciava libero solo il viso, raggiunsero il molo del ponte a pozzo. Roscovitz era più che soddisfatto: una volta tanto, sarebbe stato lui a spiegare qualcosa a quei cervelloni. I soldati e l'equipaggio avevano ricevuto le direttive già a Norfolk. La maggior parte apparteneva ai SEALS, quindi era gente «con le mani e i piedi palmati». Ma Roscovitz era fermamente deciso a rendere abili alla guida e al combattimento anche gli scienziati. Sapeva che, nel corso di una simile operazione, c'era la possibilità che pure un civile si ritrovasse a giocare un ruolo decisivo.

Diede alla sua capo tecnico, Kate Ann Browning, l'ordine di far scendere dal ponte uno dei quattro batiscafi e rimase a osservare il Deepflight 1 che si abbassava lentamente. Vista da sotto, l'imbarcazione somigliava a una gigantesca Ferrari senza ruote, dotata di quattro tubi lunghi e sottili. Roscovitz attese finché essa non arrivò all'altezza degli occhi, a quattro metri dal pavimento del bacino e proprio sopra le paratie del pozzo. Anche da quella prospettiva, somigliava davvero poco al classico veicolo per l'immersione. Piatto e largo, con una forma più o meno quadrangolare, quattro reattori per la trazione e per la guida nella parte posteriore, e due corpi tubolari parzialmente in vetro che si staccavano obliquamente dalla sua superficie, il Deepflight ricordava una piccola nave spaziale. Nella parte inferiore della cupola trasparente si stendevano bracci mobili con diverse articolazioni. L'elemento più evidente erano le due ali mozze ai lati.

«Trovate che somigli a un velivolo», disse Roscovitz. «E avete ragione. È un velivolo ed è maneggevole come un jet. Le superfici portanti svolgono la stessa funzione, con la piccola differenza che il loro profilo si sviluppa nella direzione opposta. Negli aerei si occupano della spinta. Le ali di un Deepflight, invece, generano un vortice verso il basso e si contrappongono alla spinta. Anche il meccanismo di guida è copiato dagli aerei. Il Deepflight non affonda come una pietra, ma si muove con un angolo d'inclinazione fino a un massimo di sessanta gradi, fa eleganti virate e si muove velocemente verso l'alto o verso il basso, uussc, uussc!» Con la mano aperta indicò l'involucro protettivo. «La differenza principale con un aereo è che non si sta seduti, ma sdraiati. Così ci resta una superficie di tre metri per sei e un'altezza di un metro e quaranta.»

«A che profondità può arrivare questo… aereo?» chiese Karen.

«Alla profondità che vuole. Può andare dritto sul fondo della fossa delle Marianne in non più di un'ora e mezzo. Questo giocattolino viaggia a dodici nodi. Ha un involucro di ceramica, la cupola è fatta di materiale acrilico ricoperto da un involucro al titanio. Si gode di una vista eccezionale, che, nel nostro caso, consente di sparire in tempo o di fare fuoco, in base alle necessità.» Indicò la parte inferiore. «Abbiamo dotato il nostro Deepflight di quattro siluri. Due hanno un limitato potenziale esplosivo. Possono ferire gravemente una balena e probabilmente ucciderla. Gli altri due fanno dei grossi buchi. Scagliano acciaio e pietre e possono distruggere completamente un gruppo. Vi prego di lasciare che sia il pilota a fare fuoco, a meno che non sia morto o svenuto e quindi per voi non ci sia altra scelta.» Batté le mani. «Okay. Potete cominciare ad azzuffarvi per decidere chi sarà il primo a salire per il giro di prova. Ah, già! Una cosa che vi potrebbe interessare: la benzina basta per otto ore di volo. Se per caso restate bloccati da qualche parte, il sistema provvede a diffondere l'ossigeno per novantasei ore. Ma niente paura: a quel punto, la Marina, Dio degli eserciti, vi avrà già salvati da tempo. Allora, chi vuole provare?»

«Senz'acqua?» chiese Shankar guardando scettico verso il basso.

Roscovitz sorrise. «Le bastano quindicimila tonnellate?»

«Io, eh… Penso di sì.»

«Bene. Riempiamo il bacino.»


Combat Information Center

Due radiotelegrafisti avevano preso il posto di Samantha Crowe e di Murray Shankar mentre i due scienziati erano trattenuti nel regno di Roscovitz. A rigore, avrebbero dovuto tenere la bocca chiusa e le orecchie tese, ma avevano i computer e potevano contare sull'equipaggio del SOSUS di Shankar sulla terraferma. Qualunque cosa arrivasse dagli abissi marini veniva raccolta da sistemi elettronici e da organi di senso umani, selezionata, valutata e spedita via satellite con un commento all'Independence. Benché il messaggio di Samantha fosse stato trasmesso dalla nave e anche l'Independence fosse in ascolto, essa era solo una delle molte postazioni di ascolto. Una possibile risposta degli yrr avrebbe raggiunto tutti gli idrofoni atlantici. Dalla suddivisione spaziale e dalla registrazione degli intervalli di tempo, il computer avrebbe calcolato il punto da cui proveniva il segnale, l'avrebbe spedito al CIC e quindi avrebbe dato la segnalazione.

Con la più completa fiducia nella tecnologia, i due uomini si erano messi a discutere di musica. E ben presto la discussione — sulla credibilità dei cantanti hip hop bianchi — si era fatta animata. Nessuno si curava più dei monitor, finché uno dei due non prese la tazza del caffè e casualmente girò la testa. Rimase come bloccato.

«Ehi, cos'è quello?» esclamò.

Su due monitor erano comparse linee di frequenza colorate.

L'altro sgranò gli occhi. «Da quanto tempo sono lì?»

«Non lo so.» Il radiotelegrafista fissava le linee. «Avremmo dovuto ricevere qualcosa dalla terraferma. Perché non si mettono in contatto? Dovrebbero averlo ricevuto.»

«È la frequenza su cui ha trasmesso Samantha Crowe?»

«Non ne ho idea. Non si sente niente. Deve essere nella zona degli infrasuoni o degli ultrasuoni.»

L'altro rifletté. «Okay. Il prossimo idrofono è al largo di Terranova. Gli altri non l'hanno ancora ricevuto, quindi noi siamo i primi che ha raggiunto. E questo può voler dire solo…»

Il compagno lo guardò. «… che viene da qui.»


Deepflight

Il sistema idraulico lavorava rumorosamente mentre riempiva le cisterne di poppa. La poppa dell'Independence sprofondava lentamente e l'acqua di mare scorreva all'interno.

«Possiamo far entrare l'acqua attraverso la chiusa», spiegò Roscovitz quasi gridando per sovrastare il rumore. «Dovremmo aprire tutte le paratie, ma preferiamo evitarlo per motivi di sicurezza. Ci serviamo di uno speciale sistema di pompaggio. Un sistema di tubi separato porta l'acqua all'interno del ponte. L'acqua viene filtrata diverse volte. Esattamente come la chiusa, il bacino è fornito di sensori che ci dicono se possiamo sguazzare nella grande vasca da bagno.»

«Testiamo le imbarcazioni nel bacino?»

«No. Usciamo.»

Dopo che i delfini avevano annunciato il ritiro delle orche, Roscovitz si era convinto che si potesse rischiare una vera immersione.

«Oh, santo cielo.» Rubin fissava come paralizzato il bacino che si riempiva. «È come se stessimo affondando.»

Roscovitz ridacchiò. «Si sta facendo un'idea sbagliata. Mi è capitato di affondare con una nave da guerra. Mi creda, è un'altra cosa!»

«E com'è?»

Roscovitz rise. «Mi creda, è meglio non saperlo.»

Metro dopo metro, la poppa della gigantesca nave sprofondava. L'Independence era troppo grande perché si potesse avvertire l'inclinazione. Nel suo insieme era una cosa minima, però l'effetto era sconcertante. La marea salì finché arrivò a lambire il bordo del molo. Nel giro di pochi minuti, il ponte si era trasformato in una piscina profonda diversi metri. Anche il delfinario era sott'acqua, così ora gli animali avevano a disposizione tutto lo spazio del bacino. Sul lido artificiale galleggiavano gli zodiac, ben ormeggiati. Il Deepflight 1 oscillava dolcemente sulle onde.

Kate Ann, seduta alla console, fece scendere dal soffitto un altro batiscafo. Muovendo un joystick manovrò le imbarcazioni sul sistema di rotaie fino al bordo del molo e aprì la copertura dei corpi tubolari, che si ribaltò verso l'alto. «Ogni cabina tubolare si può aprire e chiudere separatamente», spiegò. «Entrare è semplice. Tuttavia chi non è abituato rischia di bagnarsi i piedi. Durante l'operazione di pompaggio, l'acqua del bacino è stata riscaldata e ora ha una temperatura sopportabile, sui 15 °C. Ma che non vi venga in mente di rinunciare alla tuta protettiva! Se per un qualunque motivo doveste finire in mare aperto senza la protezione del neoprene o del batiscafo, morireste nel giro di pochissimo tempo. L'acqua al largo della Groenlandia raggiunge al massimo i due gradi.»

«Altre domande?» Roscovitz divise i gruppi, formati da un pilota e da uno scienziato. «Allora andiamo. Resteremo nei pressi della nave. È vero che i nostri simpatici delfini dicono che non dobbiamo preoccuparci, ma la situazione può cambiare. Leon, venga con me. Prendiamo il Deepflight 1

Saltò sull'imbarcazione che altalenò violentemente. Anawak lo seguì, ma perse l'equilibrio e cadde in acqua a testa in giù. Il gelo lo colpì in faccia e gli tolse il fiato. Sputacchiando, risalì in superficie, accolto da una risata collettiva.

«Era proprio quello che intendevo», commentò Kate Ann.

Anawak si trascinò sullo scafo e, ventre a terra, scivolò nell'interno della cabina tubolare, che si rivelò sorprendentemente comoda e spaziosa. Non si stava sdraiati in modo orizzontale, ma in leggera salita. La posizione del corpo ricordava quella di uno sciatore durante un salto dal trampolino. Davanti a lui c'era un pannello di controllo semplice e funzionale. Roscovitz accese il sistema e la copertura si chiuse silenziosamente.

«Non è proprio come una suite al Ritz, Leon.»

La voce del colonnello arrivò alle orecchie di Anawak da un altoparlante. Lui voltò la testa. Un metro più in là c'era Roscovitz che lo guardava e gli sorrideva da sotto la cupola di vetro acrilico. «Vede il joystick davanti a lei? Come le ho già detto, è un velivolo e si comporta come tale. Deve imparare a farlo salire e scendere come se fosse un aereo, a fare le virate e a compiere movimenti rotatori in tutte e quattro le direzioni. Inoltre, nella parte inferiore, ci sono quattro getti che producono sufficiente spinta per tenere il Deepflight per un po' in sospensione. Per il primo giro guido io, poi prenderà lei i comandi e io le dirò dove sbaglia.»

Improvvisamente si piegarono in avanti e si mossero. L'acqua sciabordò sulla cupola di vetro acrilico e s'immersero, a un'angolazione non troppo pronunciata. Sulla prua e sulle superfici portanti si accesero dei proiettori. Anawak vide scorrere sotto di sé il fondo del bacino. Poi arrivarono alla chiusa. La paratia di vetro si aprì, rivelando un pozzo illuminato, profondo diversi metri e col pavimento di acciaio. Il Deepflight scese lentamente nel pozzo e le paratie di vetro si chiusero alle loro spalle.

Anawak si sentiva un po' smarrito.

«Non abbia paura», disse Roscovitz. «Si fa più in fretta a uscire che a rientrare.»

La paratia di acciaio si mise rumorosamente in moto. Le imponenti lastre si spalancarono e apparve il mare scuro e indefinito. Poi il Deepflight uscì dallo scafo dell'Independence e si diresse verso l'ignoto.

Roscovitz accelerò e fece una virata che li portò sul fianco della nave. Anawak era affascinato. Gli era già capitato di guidare piccoli batiscafi costruiti secondo i sistemi convenzionali, concepiti per l'utilizzo negli strati superiori dell'acqua. Ma quello era completamente diverso. In effetti, il Deepflight si comportava come un aereo sportivo. Ed era veloce! In automobile, venti chilometri all'ora — il corrispettivo di dodici nodi — significava procedere molto lentamente, ma, per essere un veicolo sottomarino, il Deepflight aveva una velocità spettacolare. Anawak osservava, rapito, mentre passavano sotto lo scafo dell'Indipendence per poi tornare in superficie. Roscovitz abbassò la prua del batiscafo e scesero con una ripida inclinazione. Fece un'altra virata, si fermò sotto la poppa della portaerei e risalì. Sopra le loro teste, c'era l'enorme timone.

«Impressionato?» chiese Roscovitz.

«Eccome», replicò Anawak con voce incerta.

«So quello che sta pensando. Ha paura. Ce l'abbiamo tutti. Ma il ponte a pozzo è troppo stretto per esercitarsi. È anche poco profondo. Non vogliamo sfasciare subito questi giocattolini, eh?»

La virata successiva fu ancora più stretta. Da un momento all'altro, Anawak si aspettava di scorgere il muso rotondo, bianco e nero, di un'orca; invece arrivarono due delfini che sbirciarono all'interno delle cupole. Sulla testa avevano delle telecamere e sembravano eccitati. Si misero a fare capriole intorno al batiscafo.

«Sorrida, Leon!» disse Roscovitz, ridendo. «Ci stanno riprendendo.»

Si accese una luce. I comandi del Deepflight erano passati ad Anawak.

«Ora guidi lei», lo invitò Roscovitz. «Se arriva qualcosa che ci vuole mangiare, gli serviremo un siluro come colazione. Ma questo lo faccio io, capito? Ora guidi.»

Anawak rimase sconcertato e, d'istinto, serrò ancora di più il joystick. Roscovitz non gli aveva detto cosa doveva fare, così, in un primo momento, si limitò ad andare diritto.

«Ehi, Leon! Non dorma. Manovrare questo affare è uno spasso.»

«Che devo fare?»

«Quello che vuole. Basta che faccia qualcosa. Ci porti sulla luna!»

E in questo caso la luna è in basso. Va bene… pensò Anawak.

Spinse il joystick in avanti.

La punta del Deepflight si abbassò bruscamente e loro si diressero verso gli abissi. Anawak teneva lo sguardo fisso nell'oscurità. Tirò indietro il joystick, stavolta con maggiore cautela. L'imbarcazione si raddrizzò. Provò a fare una virata, ma la prese troppo stretta. Ci provò un'altra volta. Sapeva che stava guidando con troppi strappi, ma in fondo era molto semplice. Una pura questione di esercizio.

Un po' più in là, vide il secondo Deepflight e, improvvisamente, cominciò a provarci gusto. Avrebbe potuto volare per ore.

«Non male, Leon. È vero che, alla lunga, col suo modo di guidare, c'è il rischio di sentirsi male, ma imparerà. Ora vada in orizzontale. Bene, così. Lo lasci galleggiare lentamente. Ora le mostro come si usa il braccio meccanico. È ancora più semplice.»

Dopo cinque minuti, Roscovitz riprese i comandi e riportò lentamente l'imbarcazione verso la paratia. I minuti trascorsi tra le due paratie chiuse sembrarono eterni, ma, alla fine, i due furono liberi e riemersero. In un certo senso, Anawak si sentì sollevato. Nonostante il suo entusiasmo, il pensiero delle orche che quella mattina avevano circondato la nave lo faceva sentire a disagio. Per non parlare delle sorprese che il mare poteva ancora riservare agli imprudenti piloti dei batiscafi.

Roscovitz aprì le cupole. Si sollevarono dalle cabine e balzarono sul molo.

Davanti a loro c'era Floyd Anderson. «Allora, com'è andata?» chiese, senza dimostrare un particolare interesse.

«È stato divertente.»

«Purtroppo devo interrompere il divertimento.» Il primo ufficiale guardò il secondo batiscafo che stava riemergendo. «Non appena avete messo la testa sott'acqua, è successo qualcosa. Abbiamo ricevuto un segnale.»

«Come?» Samantha si fece avanti. «Un segnale? Di che genere?»

«Credo che sia lei a dovercelo dire.» Anderson le rivolse uno sguardo indifferente. «Ma è molto alto. E molto vicino.»


Combat Information Center

«È un segnale nel campo delle basse frequenze», disse Shankar. «Sul modello scratch.»

Lui e Samantha avevano raggiunto di corsa il CIC. Nel frattempo, avevano ricevuto la conferma dalle stazioni di terra. In effetti, secondo i calcoli, la fonte si trovava nelle immediate vicinanze dell'Independence.

«Ci capite qualcosa?» chiese Judith Li, entrando.

«Per il momento, no.» Samantha scosse la testa. «Dobbiamo usare il computer. Spezzetterà il segnale e lo confronterà coi campioni.»

«Allora ne avremo fino all'anno prossimo.»

«Vorrebbe essere una critica?» sbottò Shankar, seccato.

«No, tuttavia mi chiedo come farete a decifrare in pochi giorni un segnale su cui la vostra gente si sta spaccando la testa dagli anni '90.»

«E se lo chiede ora?»

«Non litigate, bambini.» Samantha prese una sigaretta, poi la accese con tutta calma. «Ho detto che è una cosa completamente diversa cercare di farsi comprendere dagli extraterrestri. Verosimilmente, ieri abbiamo mandato agli yrr il primo messaggio che potessero decifrare. Risponderanno nello stesso modo.»

«Lei crede davvero che risponderanno con lo stesso codice?»

«Se sono gli yrr, se è una risposta, se hanno capito il codice, se hanno interesse a dialogare, allora sì.»

«Perché rispondono con gli infrasuoni e non sulla nostra stessa frequenza?»

«Perché dovrebbero?» chiese Samantha, sorpresa.

«Per diplomazia.»

«Perché non risponde in russo a un russo che si rivolge a lei in un inglese passabile?»

Judith Li scrollò le spalle. «Va bene. E ora?»

«Come prima cosa, dobbiamo interrompere la trasmissione del messaggio per segnalare che abbiamo ricevuto la loro risposta. Se hanno usato il nostro codice, lo scopriremo in fretta. Si saranno sforzati di rendere la decifrazione il più semplice possibile. Ma se la nostra intelligenza sia sufficiente per comprendere la risposta… Be', questa è un'altra faccenda.»

Joint Intelligence Center

Karen Weaver si era ripromessa l'impossibile. Cercava d'ignorare la consapevolezza dell'esistenza di una forma di vita intelligente e contemporaneamente di confermarla.

Samantha le aveva spiegato che tutte le ipotesi sulle civiltà extraterrestri culminavano sempre nelle stesse domande, tra cui c'era quella sulle dimensioni di un'entità intelligente. Nell'ambiente del SETI, dove ci si dedicava alle possibilità di una comunicazione interstellare, si filosofeggiava prevalentemente su esseri consapevoli dell'esistenza di altri mondi, esseri che sollevavano lo sguardo al cielo e che, a un certo punto, decidevano di stabilire un contatto. Era verosimile che esseri di quel genere vivessero sulla terraferma, cosa che avrebbe imposto limiti ben definiti alla loro possibilità di crescita.

Astronomi ed esobiologi erano arrivati a una conclusione: per avere temperature superficiali tali per cui, nel giro di uno o due miliardi di anni, si potesse sviluppare una vita intelligente, un pianeta non doveva possedere meno dell'85 per cento e più del 133 per cento della massa terrestre. Dalle dimensioni di quei pianeti virtuali risultavano diversi scenari riguardanti la forza di gravità, che a sua volta poteva fornire indicazioni sulla costituzione fisica delle specie che li abitavano. Teoricamente, su un pianeta simile alla Terra, un essere vivente poteva crescere senza limiti. In pratica, però, la sua crescita terminava nel momento in cui esso diventava troppo pesante per reggere il suo stesso peso. Naturalmente i dinosauri avevano ossa sovradimensionate, ma, in un certo senso, il cervello era rimasto indietro. Il loro organismo sembrava costruito esclusivamente per permettere loro di spostarsi — a fatica — e mangiare. Per gli esseri intelligenti dotati di mobilità valeva la regola generale che non dovevano superare i dieci metri.

Ancora più entusiasmante era la questione del limite inferiore della crescita. Le formiche potevano sviluppare l'intelligenza? E che dire dei batteri o dei virus?

Gli scienziati del SETI e gli esobiologi avevano una lunga serie di argomenti su cui discutere. Era praticamente certo che, nei settori più «familiari» dello spazio, non c'era nessuna forma di civiltà simile a quella umana. Ciò si poteva sostenere quantomeno nel sistema solare. Al massimo, c'era la speranza di scoprire su Marte o su una delle lune di Giove qualche spora e forse addirittura un organismo unicellulare. Quindi si cercava la più piccola unità funzionante che potesse essere definita vita, con cui si potesse arrivare inevitabilmente a una molecola organica complessa, il più minuscolo sistema informativo e di memoria immaginabile, con una propria infrastruttura. E quindi si arrivava alla domanda se una molecola poteva sviluppare l'intelligenza.

Indubbiamente una molecola non poteva.

Ma non era intelligente neppure la singola cellula nervosa del cervello umano. Per rendere intelligente un uomo erano necessari cento miliardi di cellule e ciò era in relazione alle sue dimensioni corporee. Un essere intelligente più piccolo dell'uomo probabilmente avrebbe avuto bisogno di meno cellule, ma le dimensioni delle molecole di cui esse erano costituite sarebbero rimaste uguali e, al di sotto di un certo numero di molecole, non poteva accendersi la scintilla dell'intelligenza. Il problema con le formiche era proprio quello. Forse si poteva attribuire loro un'intelligenza inconsapevole, ma il loro cervello aveva comunque un numero troppo limitato di cellule per «mirare» a un'intelligenza superiore. Inoltre, poiché le formiche non respiravano coi polmoni, ma conducevano l'ossigeno direttamente nelle cellule attraverso le trachee, non potevano crescere — oltre certe dimensioni la respirazione attraverso il corpo non funzionava più — e quindi non potevano sviluppare un cervello più grande. Così, come tutti gli insetti, arrivavano in un vicolo cieco dell'evoluzione. Gli scienziati ritenevano che il limite inferiore delle dimensioni corporee per un essere intelligente fosse dieci centimetri, e quindi la possibilità di trovare un Aristotele che zampettava era praticamente pari a zero. Figuriamoci un Aristotele unicellulare.

Mentre lavorava al computer, tentando di spiegare il rapporto tra organismi unicellulari e intelligenza, Karen rifletteva su queste cose. Poche ore dopo la scoperta fatta in laboratorio, la questione se la gelatina fosse davvero intelligente suscitava, sull'Independence, un diffuso scetticismo. Gli unicellulari non erano creativi e non sviluppavano la consapevolezza di sé. Era vero che una grande massa di unicellulari poteva teoricamente corrispondere a un cervello o a un corpo. Ed era altrettanto vero che la «cosa» al largo di Vancouver Island verso cui avevano nuotato le balene era composta da miliardi di cellule. Ma ciò implicava un pensiero? E, se anche così fosse stato, come apprendeva, quella cosa? Come comunicavano le cellule? Cosa rendeva un conglomerato di cellule un insieme dotato di capacità superiori?

Cosa aveva portato gli uomini a un tale livello?

O quella gelatina era effettivamente solo una massa apatica, oppure nascondeva un trucco.

Era effettivamente riuscita a guidare balene e granchi.

Doveva esserci un trucco!

La Kurzweil Technologies aveva sviluppato un programma per la costruzione di un'intelligenza artificiale, composta da miliardi di unità di memoria che dovevano simulare i neuroni e quindi il cervello. In tutto il mondo si lavorava sull'intelligenza artificiale e si era arrivati a uno stadio in cui essa era dotata di capacità di apprendimento e, in un certo senso, anche di un autosviluppo creativo. Nessuno dei ricercatori aveva ancora sostenuto di essere arrivato a qualcosa che somigliasse alla consapevolezza, ma la questione rimaneva aperta: in quale momento un agglomerato di piccole unità identiche diventava una forma di vita? E, soprattutto, era possibile creare la vita in quel modo?

Karen aveva preso contatto con Ray Kurzweil, quindi disponeva di un'intelligenza artificiale di ultima generazione. Fece una copia di sicurezza e suddivise l'originale nelle sue singole componenti elettroniche, troncò i ponti di comunicazione e la trasformò in uno sciame destrutturato. Immaginò come sarebbe stato se si fosse scomposto nello stesso modo un cervello umano e cosa sarebbe dovuto succedere perché le singole cellule ritornassero a essere un tutt'uno pensante. Dopo un po', il suo computer era popolato da miliardi di neuroni elettronici, minuscole unità di memoria senza legami tra loro.

Poi immaginò che non fossero unità di memoria, ma unicellulari.

Miliardi di unicellulari.

Rifletté sul passo successivo. Doveva stare vicina alla realtà, altrimenti i suoi risultati non sarebbero stati credibili. Dopo aver riflettuto per un po', programmò uno spazio tridimensionale e lo dotò delle caratteristiche fisiche dell'acqua. Come apparivano gli unicellulari? Avevano tutte le forme possibili: a bastoncino, a triangolo, frastagliati, a stella, con o senza flagelli… Optò per il più semplice. Rotondo. Ora avevano una forma. Finché i suoi colleghi in laboratorio non fossero arrivati ad altre conclusioni, i suoi unicellulari virtuali sarebbero stati rotondi.

Un po' alla volta, il computer si trasformò in un oceano. Forse avrebbe dovuto spingersi oltre e programmare anche le correnti, in modo che lo spazio virtuale somigliasse fin nel dettaglio agli abissi oceanici. Ma non c'era tempo. Doveva anzitutto rispondere alla domanda cruciale.

Karen fissò il monitor.

Quante unità… Come poteva derivarne un essere pensante? Le dimensioni non avevano importanza. Per gli esseri che vivevano nell'acqua non valeva la regola generale delle dimensioni corporee massime, perché essi sono soggetti ad altre condizioni di gravità. Un essere intelligente che viveva nell'acqua poteva raggiungere dimensioni incomparabilmente più grandi di un organismo che viveva sulla Terra. Erano pochi gli scenari di civiltà acquatiche elaborati del SETI: non era possibile raggiungere simili culture con le onde radio e, probabilmente, esseri subacquei non avrebbero sviluppato interesse per lo spazio e per gli altri pianeti. Oppure avrebbero attraversato l'universo in acquari volanti? Era proprio quello lo scenario di cui aveva bisogno.

Mezz'ora dopo, quando Anawak entrò nel JIC, trovò Karen che fissava il monitor. Lei fu felice di vederlo. Dopo il suo ritorno dal Nunavut, avevano parlato molto del loro passato. Anawak sembrava sicuro di sé e ottimista. L'uomo triste che lei aveva visto al bar dello Château si era perso da qualche parte nell'Artico.

«A che punto sei?» le chiese.

«Ho il cervello annodato.» Karen scosse la testa. «Non so da che parte cominciare.»

«Qual è il problema?»

Gli raccontò che cosa aveva fatto. Anawak la ascoltò senza interromperla, poi disse: «Ovvio che non riesci ad andare avanti. Tu sei bravissima nelle simulazioni al computer, ma ti mancano alcune conoscenze basilari di biologia. Ciò che rende un cervello un'unità pensante è la sua struttura. I neuroni del nostro cervello sono in larga misura simili; sono le forme e i modi della connessione che portano al pensiero. È come… Hmm… Sta' attenta. Immagina la pianta di una città.»

«Okay, Londra.»

«E adesso immagina che improvvisamente tutte le case e le strade perdano coesione e cadano le une addosso alle altre. Una vera baraonda. Ora prova a rimetterle insieme. Ci sono infinite varianti, ma solo una è Londra.»

«Va bene. Ma come faccio a sapere dove va ogni casa?» Karen sospirò. «No, partiamo da un altro punto. Non importa come le cellule nel cervello sono collegate tra loro. La questione è: perché prese nel loro insieme formano qualcosa che è più della somma delle parti?»

Anawak si grattò il mento. «Come posso spiegartelo? Okay, torniamo alla nostra città. Si sta costruendo un grattacielo, diciamo da… mille operai. Sono tutti uguali… Per quanto mi riguarda possono anche essere clonati.»

«Oh, mio Dio. Non è Londra.»

«Ognuno di loro ha un compito specifico, determinati movimenti che deve eseguire. Ma nessuno di loro conosce il progetto per intero. Tuttavia costruiscono la casa. Se tu ne sostituissi qualcuno, ci sarebbe un blocco. Dieci operai che formano una catena per passarsi le pietre cadrebbero in confusione se improvvisamente uno di loro fosse sostituito da uno che deve avvitare.»

«Capisco. La cosa funziona finché ciascuno resta al proprio posto.»

«Funzionano insieme.»

«E tuttavia alla sera vanno a casa.»

«Vanno ciascuno nella propria direzione. Il giorno successivo, sono di nuovo tutti al cantiere e proseguono. Potresti dire che il lavoro funziona perché c'è qualcuno che suddivide gli operai, ma senza operai la casa non si potrebbe costruire. Un elemento ha bisogno dell'altro. Dal progetto deriva l'effetto della collaborazione e, a sua volta, da quella deriva il progetto.»

«Quindi c'è un progettista.»

«Oppure gli operai sono il progetto.»

«E ogni operaio deve essere codificato in maniera leggermente diversa rispetto ai suoi colleghi.»

«Esatto. Gli operai sono uguali solo in apparenza. Ricominciamo da capo. Okay, c'è un progetto. Okay, loro sono codificati. Ma cosa ti serve perché diventino una rete?»

Karen rifletté. «La volontà di collaborare?»

«Una cosa più semplice.»

«Hmm…» Poi, improvvisamente, comprese. «La comunicazione. Una lingua che tutti capiscano. Un messaggio.»

«E cosa dice il messaggio quando, al mattino, tutti si alzano dal letto?»

«Vado al cantiere, a lavorare.»

«E dunque?»

«So che cosa devo fare.»

«Già. Be', sono operai poco adatti a una conversazione complessa. Sono tipi che lavorano sodo. Sudano costantemente, sudano anche di notte a letto e al mattino quando si alzano, sudano per tutto il giorno. Come fanno a riconoscersi tra loro?»

Karen lo guardò con un'espressione tirata. «Dall'odore di sudore.»

«Bingo!»

«Certo che ne hai di fantasia.»

Anawak sorrise. «È colpa di Sue. Ha raccontato prima di quel batterio che forma delle colonie… Myxococcus xanthus. Lo sai anche tu, secerne una sostanza odorosa e tutti si ammucchiano.»

Karen annuì. Aveva senso. L'odore era una possibilità.

«Ci penserò in piscina», disse. «Vieni anche tu?»

«A nuotare? Adesso?»

«A nuotare? Adesso?» lo scimmiottò. «Stammi a sentire, di solito non me ne sto chiusa in una stanza e inchiodata in un posto.»

«Pensavo fosse normale per i patiti di computer.»

«Ho l'aspetto di una patita di computer? Sono pallida e flaccida?»

«Oh, sei senza dubbio l'apparizione più pallida e flaccida che mi sia mai capitato di vedere», rise Anawak.

Notò lo scintillio negli occhi di Karen. Anawak era piccolo e tarchiato e non sembrava davvero George Clooney, ma in quel momento le sembrò bello e sicuro di sé.

«Che stupido», disse, ridendo.

«Grazie.»

«Solo perché hai trascorso metà della tua vita in acqua, sei convinto che chi si occupa di computer sia cresciuto appiccicato a una sedia. La maggior parte delle cose le faccio all'aria aperta. Con la mia testa, Leon! Metto il laptop nello zaino e via, camminare! Si può scrivere anche su una roccia, sai? Questa ricerca m'innervosisce. Mi sento le spalle come se fossero travi d'acciaio.»

Anawak si alzò e si portò dietro di lei. Per un momento, Karen pensò che se ne volesse andare. Poi sentì le sue mani sulla nuca, sulle scapole.

Le stava facendo un massaggio.

Karen s'irrigidì. Non era sicura che le piacesse.

Certo che le piaceva. Però non era sicura di volerlo.

«Non sei contratta», commentò Anawak.

Aveva ragione. Perché l'aveva detto?

Nel momento in cui si alzò dalla sedia, un po' troppo bruscamente, facendo scivolare via le mani di Anawak, Karen comprese che stava commettendo un errore. Le sarebbe piaciuto restare lì, seduta, e lasciarlo continuare. E invece mormorò, imbarazzata: «Io vado a nuotare», e uscì.


Anawak

Si chiese cos'era andato storto. Sarebbe andato volentieri con lei in piscina, ma l'atmosfera era cambiata di colpo. Forse doveva chiederle il permesso di farle un massaggio alle spalle. Forse aveva valutato male la situazione.

Tu non ci sai fare in queste cose, pensò. Resta con le tue balene, stupido eschimese che non sei altro…

Decise di cercare Johanson per discutere la questione delle intelligenze unicellulari. Ma, in un certo senso, non ne aveva voglia. Così decise di dare un'occhiata al CIC. Greywolf e Alicia trascorrevano in quel luogo la maggior parte del tempo, impegnati nell'osservazione e nell'interpretazione dei suoni della squadra di delfini. Ma nel CIC non c'era altro da vedere che le riprese delle telecamere sullo scafo. I monitor mostravano l'acqua scura. Non era successo praticamente nulla da quando, al mattino, le orche avevano circondato la nave e poi, a quanto pareva, se n'erano andate. Shankar era seduto davanti al monitor su cui scivolavano file di numeri, portava cuffie enormi ed era in ascolto dei suoni degli abissi. Uno degli uomini di Shankar disse che Greywolf e Alicia erano nel ponte a pozzo per dare il cambio a MK6 con MK7.

Quindi Anawak discese la rampa del tunnel e raggiunse il ponte dell'hangar. Lì faceva freddo e si era esposti alle correnti. Voleva procedere, ma qualcosa lo trattenne. Benché la luce del giorno entrasse dalle gigantesche aperture degli elevatori esterni, l'atmosfera era dominata dalla penombra giallognola e sbiadita dell'illuminazione al vapore di sodio. Cercò d'immaginare l'hangar pieno di elicotteri, jet Harrier, veicoli e attrezzature, tutto stipato al centimetro, in modo che restasse appena lo spazio per infilarsi in una porta, in una finestra o in una botola. Cercò d'immaginare le jeep e i muletti che salivano e scendevano le rampe, scoppiettando rumorosamente. Cercò d'immaginare le centinaia di marine diligenti che, non appena i velivoli arrivavano in coperta, ne esaminavano le armi e le attrezzature, veloci e concentrati. Immaginava l'imponente meccanismo dell'Independence.

Quello spazio gigantesco era assurdamente vuoto, inutile. Gli uffici tra le strutture di rinforzo dello scafo erano inutilizzati. Le lampade gialle appese alle traverse d'acciaio dell'alto e scuro soffitto illuminavano praticamente solo se stesse. Le tubature lungo le pareti conducevano al nulla. E ovunque c'erano cartelli di pericolo. Per chi?

«Talvolta, se la palestra è troppo affollata, mettiamo qui qualche tapis roulant», aveva detto Peak a Norfolk quando lo aveva condotto a fare un giro per la nave. «Allora sì che è proprio piacevole.» Era rimasto con la fronte aggrottata, come se stesse cercando le parole giuste. Infine aveva aggiunto: «Odio quando l'hangar è così vuoto. Odio il senso di abbandono che deriva dagli spazi che dovrebbero essere pieni. In un certo senso odio questa missione».

Era stata l'unica volta che aveva visto Peak in quello stato d'animo.

Lo spazio più vuoto è sempre quello dentro di sé, pensò Anawak.

Senza fretta, attraversò l'hangar e uscì sulla piattaforma dell'elevatore di sinistra. Il montacarichi era sospeso sulle onde, simile a un enorme solarium. Era fissato a rotaie verticali collocate ai due lati del portone di accesso. Due grandi elicotteri, con le pale dei rotori ripiegate, si trovavano lì per essere sollevati dall'hangar al ponte di volo. Anawak socchiuse gli occhi. Il vento sembrava morderlo. Una violenta raffica avrebbe potuto sollevare una persona e gettarla oltre la piattaforma, che era priva di sponde. Invece, intorno alla piattaforma, erano tese delle reti. Un cerchio di reti simili circondava tutta la nave, in modo che la tempesta e il getto degli aerei non scagliassero qualcuno in acqua.

Restava comunque rischioso.

Dieci metri sotto di lui, infuriava il mare. La visuale era ancora indistinta, ma la pioggia di particelle ghiacciate era finita. Il mare era un'infinita distesa marmorizzata, striata di schiuma. Un mare color ardesia, striato di bianco e in moto costante. Un deserto.

Che strano, pensò. Aveva trascorso più di metà della sua vita nel clima più temperato della costa occidentale del Canada. E adesso, per la seconda volta consecutiva, il destino l'aveva scagliato tra i ghiacci.

Il vento gli scompigliava i capelli. Sentì la pelle diventare progressivamente insensibile per il freddo. Portò le mani davanti alla bocca, formando una conchiglia, e ci soffiò dentro.

Poi rientrò.


Laboratorio

Sigur Johanson aveva promesso a Sue Oliviera d'invitarla a una vera cena a base di gamberi non appena tutto fosse finito. Poi con l'aiuto dello Spherobot pescò un granchio dal simulatore. Il robot sferico, tenendo nel suo braccio meccanico l'animale quasi completamente immobile, scivolò nel garage, dov'era pronto un contenitore a chiusura ermetica, laccato, di PVC. Era impressionante: sembrava quasi che il robot reggesse quel granchio tenendolo a distanza con disgusto, per farlo poi cadere nel contenitore che infine chiuse.

Un piccolo robot stomacato dalla situazione.

Il contenitore fu portato in uno spazio asciutto attraverso una paratia, spruzzato di acido peracetico, lavato con l'acqua, sottoposto a un altro getto di soda caustica e portato fuori dal simulatore attraverso un'altra paratia. Per quanto letale fosse l'acqua nella cisterna, adesso il contenitore era pulito.

«È sicura di cavarsela da sola?» chiese Johanson. Aveva in programma una videotelefonata a Bohrmann che, a La Palma, stava preparando l'operazione con l'aspiratore.

«Nessun problema.» Sue prese il contenitore col granchio. «Nel caso, mi metterò a gridare, con la speranza che venga lei a salvarmi e non quello scimmione di Rubin.»

Johanson rise sotto i baffi. «Condividiamo un'avversione?»

«Non ho niente contro Mick», disse lei. «Però è così maledettamente impegnato a inseguire il Nobel…»

«Pare anche a me. E lei?»

«Che c'entro io?»

«Non ha voglia di mettersi sul capo la corona d'alloro? Se sopravvivremo, tutti noi diventeremo un po' più famosi.»

«Non avrei nulla in contrario a qualche fan. La scienza è piuttosto arida.» Sue si bloccò. «A proposito, dov'è?»

«Chi? Rubin?»

«Sì. Voleva assistere alle analisi del DNA nel laboratorio di massima sicurezza.»

«Ne sia lieta.»

«Ne sono lieta. Però mi chiedo dove si sia cacciato.»

«Sicuramente starà facendo qualcosa di utile», disse Johanson, conciliante. «Credo che non sia una cattiva persona. Non puzza, non ha ucciso nessuno e sui suoi scaffali c'è una lunga serie di riconoscimenti. Può anche non piacerci, ma ci è d'aiuto.»

«Davvero? Lei crede davvero che finora abbia fatto qualcosa di utile?»

Johanson allargò le braccia. «Mia gentile signora, che importanza ha chi di noi ha una buona idea?»

Sue sorrise. «L'autoinganno di serie B.» Si strinse nelle spalle. «Ma sì, faccia quello che vuole. Chissà che non torni buono.»


Sedna

Anawak si avvicinò al bordo del bacino.

Il ponte era ancora pieno d'acqua. Vide Greywolf e Alicia, con le tute di neoprene, togliere le bardature ai delfini. Più in là, verso poppa, sul ponte era sospeso un batiscafo Deepflight. Roscovitz e Kate Ann tenevano d'occhio ogni cosa dal pannello di controllo. Lo scafo, simile a quello di una navicella spaziale, si piegò lentamente in avanti, fino a toccare l'acqua, e vi si appoggiò, oscillando. Sul fondo, attraverso l'acqua increspata, si vedeva luccicare la paratia.

Roscovitz guardò verso di lui.

«Esce?» gli gridò Anawak.

«No.» L'altro indicò l'imbarcazione. «Questo giocattolino è un po' malconcio. Ha qualcosa che non va nella guida verticale.»

«Una cosa grave?»

«Niente d'importante, ma è meglio controllare.»

«È quello con cui siamo usciti noi, vero?»

«Non abbia paura. Non l'ha rotto lei.» Roscovitz rise. «Probabilmente è un difetto del software. Tra qualche ora sarà tutto a posto.»

Un'ondata colpì le gambe di Anawak.

«Ehi, Leon!» Alicia gli sorrise dal bacino. «Che fai lì? Vieni dentro.»

«Buona idea», disse Greywolf. «Così potresti fare qualcosa di utile.»

«Noi lassù facciamo tante cose utili», ribatté Anawak.

«Senza dubbio.» Greywolf accarezzò un delfino che si era avvicinato ed emetteva deboli suoni. «Infilati una delle mute.»

«Volevo solo salutarvi.»

«Gentile da parte tua.» Greywolf diede una pacca al delfino e rimase a guardarlo mentre si allontanava in fretta. «Ora ci hai salutati.»

«C'è qualche novità?»

«Stiamo preparando la seconda squadra», rispose Alicia. «MK6 non ha registrato nulla di straordinario, a parte stamattina quando ha comunicato la presenza delle orche.»

«E prima che le vedessero gli strumenti elettronici», notò Greywolf non senza una punta d'orgoglio.

«Sì, il loro sonar…»

Anawak si prese una seconda ondata, stavolta perché uno degli animali era balzato fuori dall'acqua e l'aveva infradiciato. Evidentemente il delfino si divertiva.

«Non sforzarti», disse Alicia al delfino, come se questi la potesse capire. «Leon non entra. Si gelerebbe il sedere, perché non è un vero inuit, ma solo un inuit presunto. Non può essere un inuit. Altrimenti già da tempo sarebbe…»

«Okay! Okay!» Anawak alzò le mani. «Dov'è quella maledetta muta?»

Cinque minuti dopo, stava aiutando Alicia e Greywolf a dotare di telecamera e trasmittente gli animali della seconda squadra. Improvvisamente rammentò che Alicia gli aveva chiesto se era un makah.

«Come ti è venuto in mente?» volle sapere.

Lei si strinse nelle spalle. «Eri così riservato… Dovevi essere di qualche tribù indiana. Comunque non somigliavi di certo a un tedesco. Ora che ti conosco meglio…» Lo guardò, raggiante. «… Ho qualcosa per te!»

«Tu hai qualcosa per me?»

Lei fissò una cinghia intorno al torace di un delfino. «L'ho trovato su Internet. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere. L'ho imparato a memoria. Vuoi sapere cos'è?»

«Parla!»

«La storia del tuo mondo!» Sembrava quasi che le sue parole fossero accompagnate da una fanfara.

«Oh, santo cielo.»

«Non t'interessa?»

«Ma certo», disse Greywolf. «Leon ha un interesse ardente per la sua amata patria, solo che creperebbe piuttosto di ammetterlo.» Si avvicinò, accompagnato da due delfini. Nella sua muta sembrava un mostro marino di medie dimensioni. «Preferisce essere considerato un makah.»

«Sei tu ad aver bisogno di sembrare un indiano», osservò Anawak.

«Non litigate, bambini!» Alicia si distese sulla schiena e si lasciò galleggiare. «Sapete da dove vengono le balene, i delfini e le foche? Volete sentire la vera spiegazione?»

«Bruciamo di curiosità.»

«Allora, tutto è cominciato nella notte dei tempi, quando uomini e animali erano una cosa sola. A quell'epoca, nei pressi di Arviat, viveva una ragazza.»

Anawak ascoltava. Da bambino aveva sentito quella storia in tutte le varianti possibili, ma, dopo l'infanzia, essa si era come perduta.

«Dov'è Arviat?» chiese Greywolf.

«Arviat è l'insediamento più meridionale del Nunavut», rispose Anawak. «Il nome della ragazza era forse Talilayuk?»

«Oh, sì. Si chiamava Talilayuk», proseguì Alicia con un certo pathos. «Aveva capelli bellissimi, e molti uomini erano interessati a lei, ma solo un uomo-cane era riuscito a conquistare il suo cuore. Così Talilayuk era rimasta incinta e aveva partorito inuit e non-inuit, tutti mescolati. Finché, un giorno, mentre l'uomo-cane era andato a caccia, nell'accampamento di Talilayuk era comparso uno splendido uomo-uccello della tempesta. Aveva invitato la donna a salire sul suo kayak e, come succede di solito, tra i due si era accesa la passione.»

«Già, come succede di solito.» Greywolf stava ispezionando l'obiettivo di una telecamera. «Quand'è che entrano in gioco le balene?»

«Calma. A questo punto, arriva il padre di Talilayuk, in visita alla figlia. Ma lei è sparita e l'uomo-cane è disperato. Allora il vecchio prende una barca e va per mare finché non arriva all'accampamento dell'uomo-uccello della tempesta. Già da lontano vede Talilayuk seduta davanti alla tenda: la raggiunge e le fa una scenata, dicendole che deve tornare immediatamente a casa. La donna obbedisce e i due risalgono sulla barca. Dopo qualche tempo, però, vedono che il mare comincia a ingrossarsi. In breve, le onde diventano sempre più alte e infine scoppia una violenta tempesta.

I frangenti colpiscono la barca e il vecchio teme che non riusciranno a raggiungere la terraferma. Poi capisce che quella è la vendetta dell'uccello della tempesta e allora afferra Talilayuk — l'unica responsabile di quel pasticcio — e la getta fuori bordo, sperando così di salvarsi. La ragazza, disperata, si afferra al bordo della barca.

Il vecchio le grida di mollare la presa, ma Talilayuk si aggrappa ancora di più. Di conseguenza, lui perde il lume della ragione, afferra una scure e la colpisce sulle prime falangi delle dita. Non appena esse toccano l'acqua, però, si trasformano in narvali e le unghie diventano la 'spada' di quegli animali. Ma Talilayuk non vuole mollare. Così il vecchio le taglia le falangi mediane e quelle si trasformano in balene bianche, in beluga. Niente da fare: la ragazza rimane sempre aggrappata al bordo. Le ultime falangi si trasformano in foche. Talilayuk non cede. In qualche modo, riesce a restare aggrappata coi palmi delle mani alla barca che comincia a riempirsi d'acqua. In preda al terrore, il vecchio la colpisce con la pagaia in pieno volto e le strappa l'occhio destro. Finalmente lei molla la presa e sprofonda nelle onde.»

«Che storia crudele.»

«Ma Talilayuk non muore… o, almeno, non muore davvero. Si trasforma nella dea del mare, Sedna, e regna sugli animali degli oceani. Scivola tra le acque con un occhio solo e coi moncherini delle mani tesi in avanti. I suoi capelli sono sempre bellissimi, ma lei, non avendo le mani, non può pettinarli. E siccome la cosa la irrita profondamente, si dice che chi riuscirà a pettinare i capelli di Sedna e a raccoglierli in una treccia, potrà rabbonirla. E lei gli permetterà di cacciare i suoi animali marini.»

«Quand'ero piccolo, questa storia era raccontata durante le lunghe notti invernali e ogni volta era un po' diversa», disse Anawak sottovoce.

«Ti è piaciuta?»

«Mi è piaciuto che tu l'abbia raccontata.»

Sorrisero, soddisfatti. Anawak si chiedeva cosa l'avesse spinta a tirare fuori la leggenda di Sedna. Gli sembrava che, dietro quella storia, ci fosse molto di più che il caso. Alicia aveva cercato quella storia su Internet. Era un regalo per lui. Una prova della sua amicizia.

In un certo senso, era commovente.

«Sciocchezze.» Greywolf fischiò per chiamare l'ultimo delfino che non era ancora dotato di telecamera e idrofono. «Leon è un uomo di scienza. Con lui non otterrai niente parlando di dee marine.»

«La vostra sciocca, piccola guerra», mormorò Alicia, scuotendo la testa.

«Senza contare che quella storia non è vera. Volete davvero sapere come si è formato tutto? Non c'era nessuna terra. C'era solo un capo tribù che abitava in una capanna sott'acqua. Era davvero un pigrone, perché non si alzava mai; restava sempre coricato, dando la schiena al fuoco in cui bruciava un qualche cristallo. Viveva là sotto completamente solo e il suo nome era 'il magnifico uomo attivo'. Un giorno, il suo aiutante gli disse che gli spiriti e gli esseri soprannaturali non trovavano nessuna terra in cui stabilirsi e che lui doveva fare qualcosa per prestare fede al suo nome. Come risposta, il capo tribù sollevò da terra due pietre e le diede all'aiutante, aggiungendo che dovevano essere gettate in acqua. L'aiutante obbedì e le pietre s'ingrandirono sino a formare la Queen Charlotte Island e tutta la terraferma.»

«Grazie», sogghignò Anawak. «Finalmente una rigorosa spiegazione scientifica.»

«Il racconto deriva da un antico ciclo haida: Hoyá Káganas, 'I giganti del corvo'», disse Greywolf. «Presso i nootka si trovano storie simili e molte ruotano intorno al mare. O vieni da lui o lui ti distrugge.»

«Forse dovremmo prestare più attenzione a queste leggende», disse Alicia. «Nel caso non riuscissimo a fare passi avanti con la scienza.»

«Da quando t'interessi dei miti?» si meravigliò Anawak.

«È divertente.»

«Tu sei ancora più concreta di me.»

«E allora? In ogni caso, i miti dicono molto chiaramente come vivere in pace con la natura. A chi interessa se anche una sola di quelle parole è vera? Si riceve qualcosa e si rende qualcosa. Questa è la verità.»

Greywolf sorrise e diede dei colpetti al delfino. «Così avremmo risolto il problema, vero, Licia? Allora basterebbe usare il tuo corpo.»

«Che vorresti dire?»

«Mi hanno detto che la gente che viveva sul mare di Bering aveva un'usanza singolare. Prima che i cacciatori uscissero in mare, quello che lanciava di arpione doveva andare a letto con la figlia del capo, per prendere l'odore della sua vagina. Quello attirava la balena vicino alla barca e la addolciva a tal punto che si lasciava uccidere.»

«A una cosa del genere possono arrivare solo gli uomini», sbuffò Alicia.

«Uomini, donne, balene…» Greywolf rise. «Hishuk ish ts'awalk. 'Tutto è uno'.»

«Okay», esclamò Alicia. «Immergiamoci sul fondo marino, cerchiamo Sedna e pettiniamola.»

Tutto è uno… Quella frase riecheggiò nella mente di Anawak. Akesuk gli aveva detto: «Non potete risolvere questo problema con la scienza, ragazzo mio. Uno sciamano ti direbbe che tutto ciò dipende dagli spiriti del mondo animale che vagano negli esseri viventi. I qallunaat hanno iniziato a distruggere la vita. Si sono inimicati gli spiriti, la dea del mare, Sedna. Chiunque siano quegli esseri, non otterrete nulla se cercherete di attaccarli». E aveva aggiunto: «Nella lotta per la supremazia non ci sono vincitori… Imparate a comprenderli invece di combatterli».

Roscovitz e Kate Ann avevano fatto un passo avanti nella riparazione del Deepflight, e intanto loro stavano lì a nuotare coi delfini e a raccontarsi leggende sugli spiriti e sulla dea del mare. Si divertivano e, nonostante il riscaldamento e le mute protettive, senza rendersene conto perdevano progressivamente il calore corporeo.

Come avrebbero potuto pettinare i capelli della dea del mare?

Fino a quel momento, gli uomini avevano gettato a Sedna soltanto sostanze tossiche e scorie nucleari. Una marea nera dopo l'altra, che finiva per ingarbugliarle ancora di più i capelli. Avevano cacciato i suoi animali e molti si erano addirittura estinti per colpa loro.

Anawak sentiva il cuore battere nell'acqua gelida. Aveva i brividi. Qualcosa gli diceva che quell'istante di felicità sarebbe stato breve. Aveva fatto pace con molte cose, aveva conquistato nuovi amici, si sentiva libero dal peso di un'esistenza intesa nel modo sbagliato.

In lui s'insinuò il vago sospetto che tutto ciò stesse per finire. Non si sarebbero mai più ritrovati insieme in quel modo.

Greywolf esaminò la bardatura del sesto e ultimo delfino della squadra e annuì, soddisfatto. «Tutto a posto», disse. «Mandiamoli fuori.»


Laboratorio di massima sicurezza

«Sono proprio una stupida. Ma ero forse cieca?»

Sue osservava lo schermo su cui c'era l'ingrandimento del campione messo sotto il microscopio a fluorescenza. A Nanaimo aveva esaminato diverse volte la gelatina o, meglio, ciò che ne era rimasto dopo che avevano tolto la sostanza dal cervello delle balene. Aveva guardato al microscopio anche i frammenti attaccati al coltello di Anawak durante l'immersione sotto la Barrier Queen. Ma non sarebbe mai arrivata a pensare che una sostanza in decomposizione fosse formata da un insieme di organismi unicellulari.

Avrebbe dovuto capirlo prima. Ma tutti si erano concentrati sull'alga killer, la Pfiesteria. Lo stesso Roche non si era accorto che la sostanza gelatinosa in decomposizione non era sparita, ma si trovava lì sotto il microscopio in forma di organismi unicellulari morti o moribondi. Nell'interno degli astici e dei granchi c'era tutto, e tutto si era mischiato: alghe killer, gelatina e acqua marina. Acqua marina!

Per secoli ci si era lasciato sfuggire il novantanove per cento delle forme di vita perché si prestava attenzione soltanto ai pesci, ai mammiferi e ai crostacei. In realtà, non erano gli squali, le balene e i calamari giganti a dominare gli oceani, ma eserciti di esseri microscopici. In ogni litro d'acqua di superficie, c'erano dozzine di miliardi di virus, un miliardo di batteri, cinque milioni di organismi unicellulari e un milione di alghe. Anche i campioni d'acqua presi dalle zone senza luce e con le condizioni meno favorevoli alla vita, cioè oltre i seimila metri, mostravano la presenza di milioni di virus e batteri. In quel caos, era praticamente impossibile mantenere una visione d'insieme. Più la ricerca si spingeva nel microcosmo, più esso si rivelava immenso. Cos'era l'acqua marina? Uno sguardo attraverso un microscopio a fluorescenza portava alla conclusione che si trattava di una sorta di gel poco denso. In ogni goccia le macromolecole erano collegate da una sorta d'intreccio di ponti sospesi. Nel groviglio di fili trasparenti, membrane e pellicole, innumerevoli batteri trovavano la loro nicchia ecologica. Bastava un millilitro per avere una misura lineare di due chilometri di molecole del DNA, trecentodieci chilometri di proteine e cinquemilaseicento chilometri di polisaccaridi. E da qualche parte lì in mezzo si nascondevano i membri di una forma di vita probabilmente intelligente. Si nascondevano lì dentro e intanto mostravano il volto di microbi assolutamente comuni. La gelatina si presentava in modo così bizzarro non perché formata da forme di vita esotica, ma perché composta da amebe degli abissi assolutamente ordinarie.

Sue Oliviera sobbalzò.

Era evidente perché Roche non aveva capito, perché non aveva capito lei stessa e perché non avevano capito tutte le persone che avevano analizzato l'acqua del bacino di carenaggio. Nessuno aveva pensato che le amebe degli abissi marini potessero fondersi e guidare granchi e balene.

«Non può essere», mormorò.

Le sue parole suonarono straordinariamente prive di energia. Senza il riverbero, rimasero chiuse dentro l'involucro della sua tuta protettiva. Lei confrontò di nuovo i risultati tassonomici, ma senza scoprire nulla di nuovo. La gelatina era composta dai rappresentanti di un insieme di una nuova specie di amebe, una specie che in gran parte proveniva da oltre i tremila metri di profondità, talvolta anche da profondità maggiori, ed era presente in masse inimmaginabili.

«Sciocchezze», sibilò la biologa. «Mi stai prendendo in giro, piccola. Ti sei travestita. Hai solo l'aspetto di un'ameba. Non ti credo, non ti credo per niente! Cosa diavolo sei, realmente?»


DNA

Dopo il ritorno di Johanson, si misero all'opera per isolare le singole cellule della gelatina. Senza sosta, congelarono e scaldarono le amebe, finché le pareti delle cellule non scoppiarono. Dopo l'aggiunta di proteinasi, le molecole proteiche si frantumarono in catene di aminoacidi. Aggiunsero del fenolo e centrifugarono i campioni — una procedura lunga e difficile -, liberarono la soluzione dai residui proteici e dai resti delle pareti cellulari, tolsero gli elementi precipitati e finalmente ottennero un liquido acquoso e non troppo limpido, la chiave per la comprensione dell'organismo sconosciuto.

Una soluzione di DNA.

Il passo successivo richiese ancora più pazienza. Per decifrare il DNA, dovevano isolarne una parte e farne delle copie. Non era possibile leggere il genoma nel suo complesso, perché era troppo complicato, così si gettarono ad analizzare le sequenze di alcune parti determinate.

Era un lavoro pazzesco e Rubin non poteva aiutarli perché non stava bene.

«Quello stronzo», sussurrò Sue. «Ora che potrebbe rendersi utile. Ma si può sapere cos'ha?»

«Un'emicrania», rispose Johanson.

«Be', è consolante. L'emicrania fa male.»

Sue mise le pipette coi campioni nel sequenziatore. Per fare i calcoli sarebbero servite varie ore, così si fecero scorrere addosso l'obbligatoria pioggia di acido e uscirono all'aperto. Sue propose una pausa sigaretta nel ponte dell'hangar, ma Johanson aveva un'idea migliore. Sparì nella sua cabina e ricomparve cinque minuti dopo con due bicchieri e una bottiglia di Bordeaux. «Andiamo», disse.

«Dove l'ha scovata?» chiese Sue, meravigliata, mentre scendevano la rampa.

«Una cosa del genere non si 'scova'», rispose Johanson, ridendo sotto i baffi. «Una cosa del genere si porta con sé. Sono un maestro nel portarmi appresso cose proibite.»

Sue occhieggiò incuriosita la bottiglia. «Ma è buono? Non me ne intendo molto.»

«È uno Château Clinet del '90. Pomerol. Alleggerisce il portafoglio e i pensieri.» Johanson adocchiò una cassa metallica vicino a uno degli uffici e vi si diresse. Si sedettero. Non si vedeva nessuno. Di fronte a loro si spalancava il portone della piattaforma di dritta, rivelando il mare che si stendeva, tranquillo e piatto nella penombra della notte polare, attraversato da veli di foschia e gelo, ma senza ghiaccio. Nell'hangar faceva freddo, ma, dopo le ore trascorse nel laboratorio di massima sicurezza, avevano bisogno di aria fresca. Johanson stappò la bottiglia, versò il vino e accostò il suo bicchiere a quello della donna. Un suono cristallino si perse nell'immensità nebbiosa.

«Buono», affermò Sue.

Johanson fece schioccare le labbra. «Ho portato con me qualche bottiglia per le occasioni speciali», disse. «E questa è un'occasione speciale.»

«Crede che riusciremo a trovare le tracce di quelle cose?»

«Forse li abbiamo già.»

«Gli yrr?»

«Già, la questione è proprio questa. Che cosa abbiamo nella cisterna? È possibile immaginare un'intelligenza formata da organismi unicellulari? Da amebe?»

«Se guardo con attenzione l'umanità, mi chiedo cosa ci differenzia dalle amebe.»

«La complessità.»

«È un vantaggio?»

«Lei che ne pensa?»

Sue scrollò le spalle. «Quello che può pensare una microbiologa. Io non ho una cattedra come lei. Non mi confronto con giovani studenti arrabbiati, non comunico con l'opinione pubblica e soffro per la mancanza di distacco da me stessa. Sono una cavia da laboratorio in forma umana. Forse ho i paraocchi, ma vedo ovunque solo microrganismi. Viviamo nell'epoca dei batteri. Mantengono invariata la loro forma da oltre tre miliardi di anni. L'umanità non è altro che una moda passeggera; quando il sole esploderà, da qualche parte ci sarà ancora qualche microbo. Loro sono il vero modello vincente su questo pianeta, non noi. Non so se gli uomini abbiano vantaggi rispetto ai batteri, però se arriveremo a dimostrare che i microbi possiedono l'intelligenza, allora, secondo me, saremo proprio nella merda.»

Johanson sorseggiò il vino. «Sì, sarebbe fatale. Anche solo per quello che le Chiese cristiane dovrebbero spiegare ai loro fedeli: che la creazione divina ha raggiunto il suo apice il quinto giorno, non il sesto.»

«Posso farle una domanda personale?»

«Certo.»

«Come fa a venire a capo di tutta questa faccenda?»

«Finché c'è del Bordeaux eccezionale non vedo difficoltà insormontabili.»

«Non prova rabbia?»

«Contro chi?»

«Contro quelli là sotto.»

«È possibile risolvere questo problema con la rabbia?»

«Certo che no, o mio Socrate!» Sue fece un sorriso stentato. «M'interessa, davvero. Hanno distrutto la sua casa…»

«Sì, una parte.»

«Non lo trova terribile? La sua casa a Trondheim…»

Johanson fece ruotare il vino nel bicchiere. «Meno di quanto pensassi», disse, dopo un momento di silenzio. «Certo, era una casa fantastica, piena di cose magnifiche, ma non conteneva la mia vita. È sorprendente come ci si stacchi con facilità dalla propria cantina e da una biblioteca ben selezionata. Inoltre, per quanto strano possa sembrare, me ne ero già staccato da tempo. Dal giorno in cui sono volato alle Shetland devo essermi congedato dalla mia casa, in un certo senso senza neppure accorgermene. Ho chiuso la porta, me ne sono andato e, nel contempo, si è chiuso qualcosa anche nella mia testa. Ho pensato: se dovessi morire, quale sarebbe la cosa di cui sentiresti maggiormente la mancanza? E non era la casa. Non quella.»

«Ce n'è un'altra?»

«Sì.» Johanson bevve. «Su un lago nell'entroterra. Quando si è seduti là, sulla veranda, guardando l'acqua, si ascolta Sibelius o Brahms, e si beve un sorso di vino… è una cosa completamente diversa. È quello il luogo di cui sento davvero la mancanza.»

«Sembra bello.»

«Sa perché sopporto tutto questo? Per poter tornare là.» Johanson prese la bottiglia e le riempì il bicchiere. «Dovrebbe esserci stata, aver visto il cielo stellato che si specchia nell'acqua. Non lo dimenticherebbe più. Tutta la sua esistenza sarebbe legata a quell'isolata scintilla. L'universo diventerebbe come trasparente. Un'esperienza straordinaria, ma che si può fare soltanto da soli.»

«È stato là dopo lo tsunami?»

«Nel ricordo.»

Sue bevve un sorso di vino. «Sinora sono stata fortunata», mormorò. «Io non ho perso nulla. Ho ancora tutto, gli amici e la famiglia.» Si fermò un momento e sorrise. «Però non ho una casa al lago.»

«Tutti hanno una casa al lago.»

Le parve che Johanson volesse aggiungere qualcosa. E invece lui si limitò a far girare di nuovo il vino nel bicchiere. Rimasero lì a bere il Bordeaux e a guardare la foschia che si stendeva sul mare.

«Ho perso un'amica», disse infine Johanson.

Sue rimase in silenzio.

«Era un po' complicata. Faceva sempre tutto di corsa.» Sorrise. «Strano, ci siamo trovati davvero solo dopo esserci lasciati. Ma sì. È il corso delle cose.»

«Mi dispiace», mormorò Sue.

Johanson annuì. La fissò, ma poi il suo sguardo parve oltrepassarle. Era come se i suoi occhi si fossero pietrificati. Sue aggrottò la fronte e voltò la testa. «C'è qualcosa?»

«Ho visto Rubin.»

«Dove?»

«Laggiù.» Johanson indicò la parete dell'hangar nel mezzo della nave. «È entrato là.»

«Entrato? Là non c'è nulla in cui si possa entrare.»

Una parete alta diversi metri divideva l'hangar dal resto del ponte. Sue aveva ragione. Laggiù non c'erano porte. «Che ci sia qualcosa nel vino?» ironizzò.

Johanson scosse la testa. «Posso giurare che era Rubin. È comparso per un attimo, poi è sparito.»

«Ne è sicuro?»

«Sicurissimo.»

«Ci ha visto?»

«Difficile. Siamo in un angolo in ombra. Avrebbe dovuto guardare con molta attenzione.»

«Chiediamogli se si è rimesso in forma.»

Johanson continuava a osservare la parete. Poi disse: «Sì. Chiediamoglielo».

Quando tornarono in laboratorio, la bottiglia di Bordeaux era vuota per metà, ma Sue non si sentiva ubriaca. In un certo senso, il vino non aveva fatto effetto nell'aria gelida. Era solo straordinariamente allegra e animata dal pensiero di fare una scoperta eccezionale.

E la fece.

Nel laboratorio di massima sicurezza, la macchina aveva finito il proprio lavoro. Fecero arrivare i risultati sulla console del computer all'esterno del laboratorio. Lo schermo mostrava una serie di sequenze di base. Le pupille di Sue si muovevano a zig-zag, mentre lei scorreva le righe dall'alto in basso. A ogni fila, la sua mandibola sembrava abbassarsi un po'. «Non può essere», mormorò.

«Che cosa?» Johanson si chinò sulle sue spalle. Lesse. E tra le sue sopracciglia si formarono due profonde rughe. «Sono tutte diverse!»

«Sì.»

«Impossibile! Esseri identici hanno DNA identico.»

«Gli esseri di una specie sì.»

«Ma questi sono esseri di una specie.»

«Le forme naturali di mutazione…»

«Se le scordi!» Johanson era sconcertato. «Siamo ben oltre. Questi sono esseri diversi, tutti quanti! Nessun DNA è esattamente uguale all'altro.»

«In ogni caso non sono amebe normali.»

«No. In loro non c'è niente di normale.»

«Cosa sono, allora?»

Johanson guardò i risultati. «Non lo so.»

«Neanch'io.» Sue si stropicciò gli occhi. «Però so una cosa. In quella bottiglia c'è ancora del vino. E adesso ne ho proprio bisogno.»


Johanson

Johanson cercò nelle banche dati per confrontare la sequenza del DNA della gelatina con altre analisi già descritte. Sue incappò nel risultato che lei stessa aveva raggiunto il giorno in cui aveva esaminato la sostanza nella testa delle balene. All'epoca, non aveva potuto stabilire differenze nella successione delle coppie di basi. «Avrei dovuto esaminare in maniera più approfondita quelle cellule», borbottò.

Johanson scosse la testa. «Forse non avrebbe trovato niente comunque.»

«Non importa!»

«Come avrebbe potuto sospettare che avevamo a che fare con la fusione di organismi unicellulari? Forza, Sue, è inutile. Lasci perdere e si concentri su questo.»

Sue sospirò. «Sì, ha ragione.» Lanciò un'occhiata all'orologio. «Okay, Johanson. Vada a dormire.»

«E lei?»

«Io vado avanti. Voglio sapere se questo caos di DNA è già stato descritto da qualche parte.»

«Potremmo dividerci il lavoro.»

«Non se ne parla neanche.»

«Non m'importa.»

«Mi ascolti, Sigur! Lei ha bisogno del suo sonno rigeneratore, io no. Da quando ho compiuto quarant'anni, la natura mi ha fornito di rughe e di borse sotto gli occhi. Per me non c'è differenza se sono sveglia o se mi rigiro nel letto. Vada e si porti via quello che resta del suo squisito vino rosso, altrimenti rischio di bermi con quello anche la mia obiettività scientifica.»

Johanson ebbe l'impressione che preferisse occuparsi da sola della faccenda. Era insoddisfatta di se stessa. Naturalmente non aveva nulla da rimproverarsi, ma forse sarebbe stato comunque meglio lasciarla in pace.

Prese la bottiglia e lasciò il laboratorio.

Appena fuori, si rese conto di essere un po' stanco. Oltre il Circolo Polare Artico, il tempo si perdeva. La luce costante dilatava all'infinito il giorno, interrotto solo da poche ore di crepuscolo. Il sole sfuggiva agli sguardi facendo appena capolino da sotto l'orizzonte. Con un po' di buona volontà, quella si poteva definire notte. Dal punto di vista psicologico, era l'occasione migliore per andare a dormire.

Ma Johanson non ne aveva voglia.

Invece risalì la rampa.

Le dimensioni del gigantesco ponte dell'hangar si perdevano nelle ombre squadrate. Come sempre, non si vedeva nessuno. Lanciò un'occhiata al luogo in cui avevano aperto la bottiglia e trovò la cassa nascosta nell'oscurità.

Non era possibile che avesse visto Rubin.

Eppure l'aveva visto!

A che scopo dormire? Doveva osservare ancora una volta la parete.

Con grande delusione e sorpresa, l'ispezione non portò risultati. La percorse diverse volte, fece scorrere le dita lungo le giunture dei pannelli d'acciaio, sulle tubature e sulle casse, ma sembrava proprio che Sue avesse ragione. Doveva aver avuto un'allucinazione. Non c'era niente, né una porta né qualcosa che potesse costituire un passaggio. «E invece non mi sbaglio», si disse sottovoce.

Doveva proprio andare a dormire? Avrebbe comunque continuato a rimuginare su quella faccenda. Forse era il caso di chiedere a qualcuno. A Judith Li, per esempio, oppure a Peak, a Buchanan o ad Anderson. Ma cosa sarebbe successo se si fosse davvero sbagliato?

Sarebbe stato piuttosto imbarazzante.

Sei un ricercatore, quindi ricerca, pensò, testardo.

Senza fretta tornò nella parte dell'hangar verso poppa, si sedette sulla cassa e attese. Quel posto non era male. Anche se fosse arrivato alla conclusione che effettivamente Rubin non era passato attraverso la parete, avrebbe potuto godersi la vista del mare per un po'.

Bevve una sorsata dalla bottiglia.

Il Bordeaux lo scaldò. Le sue palpebre cominciarono a diventare pesanti, finché non riuscì quasi più a tenerle aperte. In effetti era stanco. Però Johanson era uno di quegli uomini che si rifiutavano di arrendersi alle leggi imposte dalla natura al corpo umano. A un certo punto, quando la bottiglia era ormai vuota, finalmente si assopì e il suo spirito aleggiò sopra il mar di Groenlandia, coperto dalla foschia.

Un lieve rumore metallico lo fece sobbalzare.

In un primo momento, lui non rammentò neppure dove fosse. Poi sentì dolorosamente la parete d'acciaio dell'hangar contro la regione lombare. Sul mare, il cielo si era schiarito. Si rialzò a fatica e guardò lungo la parete.

Era aperta.

Ancora intontito, Johanson scese dalla cassa. Nella parete si era aperto un passaggio, grande all'incirca quattro metri quadrati. Si spalancava, luminoso, in mezzo all'acciaio scuro.

Guardò la bottiglia vuota sulla cassa.

Stava sognando?

Si avvicinò al quadrato luminoso e si accorse che dava su un corridoio con le pareti nude. Tubi al neon diffondevano una luce fredda. Dopo pochi metri, il corridoio raggiungeva una parete e faceva una curva.

Johanson spiò all'interno e rimase in ascolto.

Dalla parte opposta arrivavano voci e rumori. D'istinto, fece un passo indietro, riflettendo se non fosse il caso di sparire il più in fretta possibile. In fondo, si trovava su una nave da guerra. Quel settore avrà pure avuto qualche funzione, no? Magari qualcosa in cui i civili non dovevano mettere il naso.

Poi pensò a Rubin.

No! Se se ne fosse andato, non avrebbe più smesso di pensarci.

Rubin era stato lì!

Johanson entrò.

14 agosto

Heerema, al largo di La Palma, Canarie

Bohrmann cercava di godersi il bel tempo, ma non c'era proprio niente di cui godere. Non con milioni di vermi quattrocento metri sotto di lui e con miliardi di batteri che, in un tempo spaventosamente breve, si stavano aprendo la strada nelle sottili ramificazioni degli idrati sul cono vulcanico di La Palma.

Passò attraverso la piattaforma e raggiunse l'edificio principale.

L'Heerema era una piattaforma galleggiante delle dimensioni di diversi campi da calcio. La coperta rettangolare poggiava su sei colonne, che si stendevano uscendo da sei galleggianti. All'asciutto, l'isola somigliava a un goffo catamarano sovradimensionato. Ora i galleggianti erano gonfiati solo in parte e, sotto la superficie dell'acqua, non si vedevano. Solo una parte delle sei colonne emergeva dalle onde. Con un pescaggio di ventun metri e un dislocamento di centomila tonnellate, l'isola galleggiante aveva una notevole stabilità. I semisommersi riuscivano a reggere bene il moto ondoso, anche nelle tempeste più violente e soprattutto erano ben manovrabili e relativamente veloci. Due propulsori a getto facevano raggiungere all'Heerema la velocità di sette nodi che le aveva permesso, nelle settimane precedenti, di coprire la distanza tra la Namibia e La Palma.

A poppa s'innalzava un edificio a due piani che ospitava gli alloggi per l'equipaggio, la mensa, la cucina, il ponte di comando e la sala di controllo. Di fronte, svettavano nel cielo due gru imponenti, ciascuna delle quali poteva sollevare tremila tonnellate. Dalla gru di destra veniva calato negli abissi il condotto dell'aspiratore; l'altra sosteneva il sistema d'illuminazione, un'unità separata con telecamere integrate. Quattro uomini, sistemati nelle cabine di controllo sopraelevate, erano impegnati esclusivamente a coordinare e guidare l'aspiratore e l'isola d'illuminazione.

«Gerrhaard!»

Frost stava arrivando verso di lui da una gru. Bohrmann gli aveva chiesto di chiamarlo semplicemente Gerd, ma Frost insisteva a usare il nome intero, benché lo pronunciasse in modo un po' strascicato, alla texana. Entrarono insieme nell'edificio di poppa e poi nell'oscurità della sala di controllo. C'erano alcuni uomini del team di Frost e alcuni tecnici della De Beer, compreso Jan van Maarten. Il direttore tecnico aveva compiuto il miracolo promesso. Il primo aspiratore sottomarino di vermi della storia dell'umanità era pronto a entrare in azione.

«Bene, gente», barrì Frost, mentre prendeva posto fra i tecnici. «Che il Signore ci aiuti. Se qui funziona tutto, poi ci dedicheremo alle Hawaii. Ieri è sceso un robot e, sul versante sudorientale, ha scoperto vermi in quantità mostruosa. Saranno attaccate in maniera mirata anche altre isole vulcaniche, almeno questo è ciò che penso. Ma il male non avrà scampo! Lo spazzeremo via col nostro aspiratore. Ripuliremo il mondo da tutta quella robaccia!»

«Buona idea», disse Bohrmann sottovoce. «Qui abbiamo una zona facile da gestire. Forse vorresti ripulire con quest'unico aspiratore tutta la scarpata continentale americana?»

«Sciocchezze!» Frost lo guardò, stupito. «L'ho detto soltanto per motivare gli uomini.»

Bohrmann sollevò le sopracciglia e guardò i monitor. Sperava davvero che quella faccenda funzionasse. Anche se fossero riusciti a spazzare via i vermi, restava sempre aperta la questione di quante colonie di batteri si fossero insediate nel ghiaccio. In segreto, era tormentato dalla preoccupazione che ormai fosse troppo tardi per impedire il crollo del Cumbre Vieja. Di notte, sognava una gigantesca cattedrale d'acqua che si levava fino alle nuvole e sfrecciava sull'oceano verso di lui, e ogni volta si svegliava bagnato di sudore. Tuttavia Bohrmann faceva anche esercizi di ottimismo. Ce l'avrebbero fatta. E forse sull'Independence sarebbero riusciti a far arretrare l'entità sconosciuta. Se gli yrr erano in grado di provocare la frana di un'intera scarpata continentale, forse sarebbero anche stati in grado di porre rimedio al disastro.

Frost tenne un altro infuocato discorso contro tutti i nemici dell'umanità e si sperticò in lodi nei confronti del team della De Beer. Poi diede il segnale di calare l'aspiratore e l'isola luminosa.

L'isola luminosa era una struttura gigantesca, composta da potenti proiettori ad ampio fascio luminoso e ripiegata su se stessa. Al momento, dato che era appesa al braccio della gru, formava un compatto fascio di stanghe e puntoni, lungo dieci metri e pieno di luci e telecamere. Venne abbassata e scomparve in mare. Era collegata all'Heerema con cavi a fibra ottica. Dopo dieci minuti, Frost guardò l'indicatore del batimetro e disse: «Stop».

Van Maarten trasmise l'ordine ai piloti. «Aprire», aggiunse. «Prima solo metà della superficie. Se non urtiamo da nessuna parte, aprirla completamente.»

A quattrocento metri di profondità, avvenne un'elegante metamorfosi. Il fascio si dispiegò in una costruzione sottile. Se il telaio non avesse trovato resistenza, l'isola avrebbe continuato ad aprirsi. E così fu: il risultato fu una sorta di grata dalle dimensioni di mezzo campo da calcio.

«Pronto a entrare in azione», comunicò il pilota.

Frost gettò un'occhiata agli strumenti. «Dovremmo essere vicinissimi alla parete.»

«Luci e telecamere», ordinò van Maarten.

Sulla costruzione si accesero file e file di lampade alogene. Contemporaneamente le otto telecamere iniziarono il loro lavoro. Sui monitor apparve un panorama torbido. Il plancton galleggiava in mezzo all'immagine.

«Più vicino», disse van Maarten.

I riflettori si spostarono in avanti, mossi da piccole eliche orientabili. Dopo qualche minuto, dall'oscurità uscì una struttura frastagliata: una parete di lava nera dalla forma bizzarra.

«Più in basso.»

L'isola si abbassò. Il pilota la guidava con estrema cautela. Il sonar rivelò la presenza di una sporgenza a forma di terrazza. D'un tratto, vicinissimo, apparve un ampio crinale, letteralmente tappezzato di corpicini formicolanti. Bohrmann fissò gli otto monitor e sentì crescere lo scoramento. Stava incontrando nuovamente l'incubo che lo aveva accompagnato fin dal collasso della scarpata continentale norvegese. Se tutto era come nei quaranta metri che gli elementi luminosi riuscivano a strappare all'oscurità, allora potevano anche lasciare perdere.

«Schifosi, piccoli, sudici vermi», ringhiò Frost.

Siamo arrivati troppo tardi, pensò Bohrmann.

Poi si vergognò della propria paura. Non era detto che i vermi avessero già depositato il loro carico di batteri e soprattutto c'era la possibilità che tale carico non fosse sufficiente. Inoltre c'era ancora quel misterioso fattore che aveva dato il colpo definitivo per lo smottamento. Non era troppo tardi. Ma dovevano fare molto in fretta.

«Va bene», disse Frost. «Pieghiamo l'isola di quarantacinque gradi e solleviamola un po', per vedere meglio. E poi giù con l'aspiratore. Spero che abbia un buon appetito.»

«Ha una fame terribile», sibilò van Maarten.

Completamente srotolata, la proboscide raggiungeva il mezzo chilometro di profondità. Era un mostro di tre metri di diametro, segmentato, isolato col caucciù, che terminava con un'apertura simile a un'enorme bocca, intorno alla quale c'erano proiettori, telecamere ed eliche orientabili. Col comando a distanza, la fine della proboscide poteva essere spostata in alto e in basso, avanti, indietro e di fianco. Nella cabina del pilota arrivavano le immagini delle telecamere dell'isola luminosa e dell'aspiratore, offrendo sia totali sia dettagli. Nonostante la buona visuale, il successo del lavoro dipendeva dalla sensibilità delle dita sul joystick e da un attento copilota, pronto a segnalare qualsiasi cosa fosse sfuggita all'uomo che manovrava.

Per un lungo tratto, la proboscide scese in un'oscurità impenetrabile. I proiettori restarono spenti. Poi l'isola luminosa entrò nel campo visivo. Prima fu solo un vago bagliore nelle tenebre degli abissi marini, poi cominciò a splendere, prese la sua forma rettangolare e infine rivelò il pendio. Era così grande che a Bohrmann ricordava una stazione spaziale. Il tubo continuò a scendere, avvicinandosi ai vermi, finché la loro immagine non riempì completamente i monitor. Ogni minimo particolare dei corpi pelosi era visibile. Scivolavano l'uno sull'altro e s'intrecciavano, con la mandibola estroflessa che sminuzzava il ghiaccio.

Nella sala di controllo era calato un silenzio assoluto.

«Fantastico», sussurrò van Maarten.

«La donna delle pulizie non dovrebbe essere affascinata dalla polvere che c'è in casa.» Con aria truce, Frost scosse il capo. «Si decida a mettere in funzione il suo aspirapolvere e spazzi via quell'orda.»

La proboscide era in realtà una pompa d'aspirazione, che creava una depressione e trascinava dentro di sé tutto ciò che capitava davanti alle sue fauci. Quando si mise in funzione, in realtà non accadde nulla. Evidentemente la pompa aveva bisogno di un po' di tempo per entrare in azione. Bohrmann almeno sperava che fosse così. Nel frattempo i vermi continuavano indisturbati la loro attività distruttrice. Sulla sala di controllo calò un velo di delusione. Nessuno aprì bocca, ma lo stato d'animo di tutti era evidente. Angosciato, Bohrmann fissò i due monitor delle telecamere della proboscide.

Da che cosa dipendeva? La costruzione era troppo lunga? La pompa non era sufficientemente potente?

Mentre stava ancora rimuginando, qualcosa sui monitor cambiò. Pareva che i vermi fossero trascinati via. La parte posteriore dei loro corpi si sollevava, si mettevano verticali, tremavano…

Improvvisamente sfrecciarono davanti alla telecamera.

«Funziona!» Bohrmann sollevò i pugni. Contrariamente alle sue abitudini, aveva lanciato un grido. Avrebbe voluto mettersi a ballare e, perché no?, fare qualche capriola.

«Alleluia!» Frost annuiva freneticamente. «È un giocattolo magnifico! Oh, Signore, permettici di ripulire il mondo dal male!» Si tolse il berretto da baseball, si passò la mano sui capelli e poi lo rimise sulla testa. «E con questo li facciamo fuori!»

Seguirono molti altri vermi, aspirati così velocemente e in tale quantità che sugli schermi si vedevano solo superfici indistinte. Anche le telecamere dell'isola luminosa mostravano quello che avveniva sotto l'imboccatura dell'aspiratore. Vennero aspirati anche dei sedimenti, che si sollevavano in vortici.

«Avanti a sinistra», disse Bohrmann. «O a destra. È lo stesso, l'importante è continuare.»

«Procediamo con un lento movimento a zig-zag», propose van Maarten. «Da un limite all'altro della zona illuminata. Non appena avremo ripulito la zona visibile, muoveremo l'isola e procederemo con gli altri quaranta metri.»

«Molto bene! Faccia così.»

L'aspiratore si muoveva e intanto risucchiava i vermi. In quei punti, l'acqua era così torbida che non si riusciva a vedere il fondale.

«Riusciremo a vedere il risultato dell'operazione soltanto quando i sedimenti nell'acqua si saranno depositati», disse van Maarten. Sembrava notevolmente sollevato. Con un profondo sospirò, sembrò liberarsi della tensione accumulata nel corso di quelle settimane e si appoggiò allo schienale, quasi rilassato. «Ma credo che saremo tutti decisamente soddisfatti.»


Independence, mar di Groenlandia

Dinn-donn!

Le campane di Trondheim, la domenica mattina. Il campanile in via Kirkegata. Illuminato dal sole, si staglia contro il cielo, una piccola torre sicura di sé, che getta la propria ombra sulle case color ocra dal tetto a capanna e sulla scala d'ingresso, dipinta di bianco. Una piccola torre che infastidisce l'udito.

Dinn-donn, mondo intero. Alzarsi.

Cuscini sulla testa. Chi ha dato facoltà a una chiesa di decidere quando bisogna alzarsi? Lui no di certo. Maledetta chiesa! Bevuto troppo, ieri coi colleghi e con gli srudenti? Non può essere che così.

Dinn-donn!

«Sono le otto.»

L'altoparlante.

Non c'è più via Kirkegata, non c'è più la piccola torre così sicura di sé, non c'è più la casa color ocra. Nel suo cranio non martellavano le campane di Trondheim, ma un terribile mal di testa.

Cos'è successo?

Johanson aprì gli occhi e si trovò tra le lenzuola disfatte di un letto sconosciuto. Intorno c'erano altri letti, tutti vuoti. La sala era grande, piena di apparecchiature, senza finestre e decisamente antisettica. Una camera d'ospedale.

Che diavolo ci faceva in una camera d'ospedale?

Sollevò la testa, che ricadde immediatamente sul cuscino. Gli occhi si richiusero da soli. Qualsiasi cosa era meglio del rimbombo nella testa. E lui stava male.

«Sono le nove.»

Johanson si sollevò.

Era ancora in quella stanza, ma si sentiva assai meglio. La nausea era sparita, il dolore penetrante era diventato un'intensa, ma sopportabile, pressione.

Però continuava a non sapere come fosse finito lì.

Si guardò intorno. Camicia, pantaloni e calze erano quelli della notte precedente. La giacca a vento e il pullover erano sul letto di fianco al suo; davanti c'erano le scarpe, sistemate accuratamente l'una accanto all'altra.

Spostò le gambe oltre il bordo del letto.

Immediatamente si aprì una porta ed entrò il dottor Angeli, il direttore dell'assistenza medica. Angeli era un italiano; era piccolo, aveva la chierica e rughe profonde agli angoli della bocca. Su quella nave svolgeva il lavoro più noioso, perché nessuno si ammalava. Però evidentemente adesso non era più così. «Come sta?» Angeli chinò la testa. «Tutto a posto?»

«Non lo so.» Johanson si toccò la nuca e trasalì violentemente.

«Le farà male ancora per un po'», disse il medico. «Non si preoccupi. Poteva andare peggio.»

«Ma cos'è successo?»

«Non ricorda?»

Johanson ci pensò, ma l'unico risultato che ottenne fu il ritorno del dolore. «Credo che un paio di aspirine non mi farebbero male», gemette.

«Non sa cos'è successo?»

«Non ne ho idea.»

Angeli si avvicinò, scrutandolo. «Già. Stanotte l'hanno trovata sul ponte dell'hangar. Deve essere scivolato. È una benedizione che qui sia tutto sorvegliato con le telecamere, altrimenti sarebbe ancora là disteso. Probabilmente ha sbattuto la nuca contro il pavimento.»

«Il ponte dell'hangar?»

«Sì, non ricorda?»

Certo, era stato sul ponte dell'hangar. Con Sue. E poi un'altra volta, da solo. Ricordava di essere tornato là, ma non il perché. E tantomeno che cosa fosse successo.

«Poteva finire male», riprese Angeli. «Lei… ehm… Per caso, ha bevuto qualcosa?»

«Bevuto?»

«Per via della bottiglia vuota. C'era una bottiglia vuota. Miss Oliviera sostiene che avete bevuto qualcosa insieme.» Allargò le dita. «Non mi fraintenda, non c'è niente di male. Ma le portaerei sono luoghi pericolosi. Umidi e bui. Si può scivolare o cadere in mare. È meglio non andare da soli sul ponte, soprattutto se… ehm…»

«… se si è bevuto qualcosa», concluse Johanson. Si alzò, ma fu preso dalle vertigini. Angeli lo sostenne per i gomiti.

«Grazie, sto bene.» Johanson lo scostò. «Dove sono?»

«Nell'ambulatorio. Riesce a stare in piedi?»

«Se mi desse le aspirine…»

Angeli andò a una cassettiera laccata di bianco e prese una scatola di analgesici. «Ecco. È solo un bel bernoccolo. Presto starà meglio.»

«Okay, grazie.»

«Si sente davvero bene?»

«Sì.»

«E non ricorda niente?»

«No, accidenti.»

«Va bene.» Angeli sorrise. «Non si butti subito a capofitto nel lavoro. E, se dovesse succedere qualcosa, non esiti a tornare subito qui.»


Sala riunioni

«Regioni ipervariabili? Non capisco nemmeno una parola.»

Vanderbilt cercava di seguire l'esposizione di Sue, la quale si stava rendendo conto che chiedeva forse un po' troppo al suo uditorio. Peak la fissava, irritato. Judith Li non lasciava trapelare nulla, ma c'era da scommettere che le sue conoscenze di genetica non si spingessero fino a quel punto.

Johanson era seduto in mezzo a loro come un fantasma. Era comparso in ritardo, come pure Rubin, che, con imbarazzo, si era scusato per l'assenza. A differenza di Rubin, però, Johanson aveva un aspetto terribile. Il suo sguardo guizzava all'intorno, come se dovesse accertarsi che le persone intorno a lui fossero vere e non dei miraggi. Sue pensò che, dopo la riunione, gli avrebbe dovuto parlare.

«Vorrei prendere a esempio una normale cellula umana», disse. «In fondo, non è altro che un sacco pieno d'informazioni, con tutt'intorno una membrana. Il nucleo contiene i cromosomi, il complesso di tutti i geni. Insieme formano il genoma o DNA, la doppia elica, come sapete. Detto in modo informale, il nostro progetto di costruzione. Più un organismo è sviluppato, più quel progetto è differenziato. Grazie all'analisi del DNA, è possibile scoprire un assassino o chiarire rapporti di parentela, ma, nelle sue linee generali, il progetto è uguale per tutti gli esseri umani: piedi, gambe, busto, braccia, mani e così via. L'analisi del DNA ci dice quindi due cose. In generale: questo è un essere umano. In particolare: di quale persona si tratti.»

Sul volto dei presenti si accese una scintilla d'interesse. Evidentemente era stata una buona idea iniziare con qualche nozione basilare di genetica.

«È chiaro che le differenze tra due esseri umani, come individui, sono molto più numerose rispetto a quelle tra due organismi unicellulari della stessa specie. Statisticamente, il mio DNA mostra circa due milioni di piccole differenze rispetto a quello di tutte le altre persone. Le differenze tra un essere umano e un altro dipendono da una coppia di basi diversa ogni milleduecento coppie identiche. A sua volta, se si esaminano le cellule dello stesso essere umano, si trovano minime differenze, divergenze biochimiche nel DNA dovute a mutazioni. Se analizzate una cellula della mia mano sinistra e una del mio fegato, avrete quindi risultati diversi. Tuttavia, ognuna di esse dice senza possibilità di equivoco: si tratta di Sue Oliviera.» Fece una pausa. «Con gli organismi unicellulari ci sono meno problemi, perché, come dice il loro nome, si deve analizzare un'unica cellula. C'è un solo genoma e, dato che gli yrr si riproducono per scissione e non per accoppiamento, non avviene nessun miscuglio di cromosomi di mamma e papà. L'essere si duplica con tutte le informazioni genetiche e basta.»

«Quindi se si conosce il DNA di un unicellulare si conosce anche quello di tutti gli altri», disse Peak con parole che sembravano essere sospese su un filo da equilibrista.

«Sì.» Sue gli regalò un sorriso. «È del tutto naturale. Una popolazione di unicellulari mostrerà sempre un genoma identico. Se lasciamo da parte le mutazioni occasionali, il DNA di tutti gli individui è identico.»

Rubin si mosse sulla sedia, irrequieto. Poi aprì e chiuse la bocca. Normalmente, a quel punto, avrebbe cercato d'inserirsi nel discorso. Che stupido, starsene a letto con l'emicrania, pensò Sue, soddisfatta. Tanto per cambiare, non sai quello che sappiamo noi. Devi tenere la bocca chiusa e ascoltare.

«Ma il problema inizia proprio qui», riprese. «A una prima occhiata, le cellule della gelatina sembrano identiche. Sono amebe, come si trovano negli abissi marini. Neppure particolarmente strane. Per poter descrivere tutto il loro DNA, dovremmo far lavorare diversi computer per alcuni anni. Ci limitiamo quindi ai controlli a campione. Isolando piccole sezioni di DNA otteniamo una parte del codice genetico, un amplicon, in termini tecnici. Ogni amplicon mostra una serie di coppie di base, il vocabolario genetico. Analizzando gli amplicon della stessa sezione di DNA di diversi individui e confrontandoli tra loro otteniamo interessanti informazioni. Gli amplicon di più individui della stessa popolazione dovrebbero dare un quadro più o meno come questo.»

Sollevò una stampata che aveva ingrandito apposta per la riunione.


Al : AATGCCAATTCCATAGGATTAAATCGA

A2: AATGCCAATTCCATAGGATTAAATCGA

A3: AATGCCAATTCCATAGGATTAAATCGA

A4: AATGCCAATTCCATAGGATTAAATCGA


«Vedete che le sequenze analizzate sono identiche in tutta la stringa. Quattro unicellulari identici.» Mise da parte il foglio e ne mostrò un secondo. «Invece abbiamo ottenuto questo.»


Al: AATGCCA CGATGCTACCTG AAATCGA

A2: AATGCCA ATTCCATAGGATT AAATCGA

A3: AATGCCA GGAAATTACCCG AAATCGA

A4: AATGCCA TTTGGAACAAAT AAATCGA


«Sono le sequenze di base dell'amplicon di quattro esemplari della gelatina. I DNA sono identici, tranne che per alcune piccole regioni ipervariabili. Non c'è nessuna affinità. Abbiamo esaminato dozzine di cellule. Alcune differiscono nelle regioni ipervariabili solo di poco, altre sono completamente diverse. Una cosa del genere non si può spiegare con la mutazione naturale. In altri termini: non può essere un caso.»

«Forse sono di specie diverse», disse Anawak.

«No. Senza dubbio è la stessa specie. Com'è pure indubbio che ogni essere vivente non può cambiare nel corso della vita il proprio codice genetico. Il progetto viene sempre per primo. Solo poi si costruisce, e ciò che è stato costruito può corrispondere unicamente a quel progetto e a nient'altro.»

Per lungo tempo nessuno parlò.

«Però, se quelle cellule sono diverse, devono avere trovato una strada per cambiare il loro DNA dopo essersi scisse», disse poi Anawak.

«Ma a che scopo?» chiese Alicia.

«Uomini», rispose Vanderbilt.

«Uomini?»

«Ma siete ciechi? La dottoressa Oliviera dice che non è opera della natura e non sento obiezioni da parte del dottor Johanson. Allora, chi ha cervello sufficiente per pensare a una cosa del genere? Quella sostanza è un'arma biologica. Solo gli uomini possono crearla», spiegò Vanderbilt.

«Obiezione», disse Johanson. Si passò una mano tra i capelli. «Non ha senso, Jack. Il vantaggio delle armi biologiche è che si ha bisogno solo di una ricetta base. Il resto è riproduzione…»

«Potrebbe essere un vantaggio anche se i virus fossero in grado di trasformarsi, no? Il virus dell'AIDS muta incessantemente, quando si pensa di aver scoperto il trucco, quello è già cambiato un'altra volta.»

«Ma qui abbiamo a che fare con un superorganismo, non con un'infezione virale. Deve esserci un altro motivo per quella diversità. Dopo la scissione, nel DNA succede qualcosa. Vengono codificati in maniera diversa. A chi interessa chi ne sia responsabile? Noi dobbiamo scoprire che senso ha.»

«Ha il senso di ucciderci tutti!» esclamò Vanderbilt, alterandosi. «Questa sostanza esiste per distruggere il mondo libero.»

«Va bene», ringhiò Johanson. «Allora la uccida. Dobbiamo controllare se sono cellule musulmane? Forse il loro DNA è un fondamentalista islamico. Così la questione sarebbe legittimata.»

Vanderbilt lo fissò. «Da che parte sta?»

«Da quella di chi vuole capire.»

«Capisce anche perché ieri notte ha battuto la testa?» ghignò Vanderbilt. «Dopo aver gustato una bottiglia di Bordeaux, beninteso. Come sta, dottore? Le fa male la testa? Perché non prova a tenere la bocca chiusa per un po'?»

«Perché lei non abbia troppo spesso l'occasione di aprire la sua.»

Vanderbilt sbuffò pesantemente. Sudava. Judith Li gli lanciò uno sguardo ironico in tralice e si chinò in avanti. «Lei sostiene che si tratta di codificazioni diverse, giusto?»

«Giusto», confermò Sue.

«Non sono una scienziata, ma non è pensabile che la codificazione abbia lo stesso scopo di un codice umano? Del codice in caso di guerra, per esempio?»

«Si», annuì la biologa. «Sarebbe ipotizzabile.»

«Codici per riconoscersi tra di loro.»

Karen scarabocchiò qualcosa su un foglio e lo passò ad Anawak, che lo lesse, fece un rapido cenno di assenso e lo mise da parte.

«Per quale motivo dovrebbero riconoscersi tra loro?» chiese Rubin. «E perché in un modo così complicato?»

«Mi pare sia lampante», disse Samantha.

Per un momento si sentì solo il fruscio del cellophane che lei stava togliendo dal suo pacchetto di sigarette.

«Lei che ne pensa?» chiese Judith Li.

«Penso che serva alla comunicazione», disse Samantha. «Queste cellule comunicano tra loro. È una forma d'intrattenimento.»

«Vuol dire che quella sostanza…» Greywolf la fissò.

Samantha Crowe portò la fiamma dell'accendino alla sigaretta, aspirò e soffiò fuori il fumo. «Sì. Voglio dire che comunica.»


Rampa

«Cos'è successo la notte scorsa?» chiese Sue, mentre scendevano verso il laboratorio.

Johanson scrollò le spalle. «Non ne ho la più pallida idea.»

«E ora come si sente?»

«Strano. Il mal di testa diminuisce progressivamente, però nei miei ricordi si è aperto un buco grande come il ponte dell'hangar.»

«Uno stupido incidente, vero?» Mentre camminava, Rubin si era girato verso di loro e digrignava i denti. «Così, entrambi abbiamo avuto il mal di testa. Entrambi! Dio mio, ero così a pezzi che non potevo neppure uscire. Mi dovete scusare, ma quando capita… Bang! Coma!»

Sue osservò Rubin con un'espressione indefinibile. «Emicrania?»

«Sì. Terribile! Va e viene. Non capita spesso, ma, quando arriva, è ormai troppo tardi. L'unica cosa che si può fare è prendere una supposta e spegnere la luce.»

«Ha dormito fino a stamattina?»

«Certo.» Rubin sembrava molto sicuro di sé. «Mi dispiace. Però si perde ogni controllo, sul serio. Altrimenti mi sarei fatto vedere.»

«E non l'ha proprio fatto?»

La domanda suonava strana. Rubin sorrise, irritato. «No.»

«Sicuro?»

«Lo saprei.»

Nella testa di Johanson scattò qualcosa. Si sentiva come un proiettore di diapositive rotto: la slitta cercava di prendere un'immagine, ma scivolava. Perché Sue aveva fatto quelle domande?

Si fermarono davanti alla porta del laboratorio, e Rubin inserì il codice numerico. La porta si aprì. Mentre Rubin entrava e accendeva le luci, Sue disse sottovoce a Johanson: «Ehi, ma che succede? Ieri sera era fermamente convinto di averlo visto».

Johanson la fissò. «Ero… cosa?»

«Mentre eravamo seduti sulla cassa a bere il vino, in attesa che la macchina per la sequenza finisse il suo lavoro», sussurrò Sue. «Ha detto di averlo visto.»

Clic. La slitta cercava di prendere la diapositiva. Clic.

Johanson si sentiva la testa piena di ovatta. Avevano bevuto del vino, quello lo ricordava. Avevano chiacchierato. E poi lui aveva… visto… che cosa? Clic.

Sue scrollò le spalle ed entrò, esclamando: «Santo cielo, forse è proprio andato fuori di testa».


Computer

Erano seduti nel JIC davanti al computer di Karen Weaver. «Attenzione», esordì lei. «La questione della codificazione ci offre una prospettiva completamente diversa.» Anawak annuì. «Le cellule non sono tutte uguali.»

«E non solo per le forme e i modi con cui sono collegate. Se il loro DNA mostra sequenze codificate, la chiave per la loro fusione potrebbe essere proprio lì.»

«No. La fusione deve essere provocata da qualcos'altro. Qualcosa con un effetto a distanza.»

«Ieri avevamo pensato all'odore.»

«Okay», disse Anawak. «Proviamo. Programmalo in modo che emettano una sostanza odorosa che dia il segnale 'fusione'.»

Karen rifletté, poi chiamò il laboratorio. «Sigur? Stiamo preparando una simulazione. Nel frattempo vi è venuta qualche idea su come le cellule si fondano?» Rimase per un po' in ascolto. «Esatto. Ci proviamo. Fateci sapere.»

«Che dice?»

«Stanno tentando un test di fase. Vogliono costringere la gelatina a sciogliersi e poi a rifondersi.»

«Allora pure loro credono che le cellule emettano un odore?»

«Sì.» Karen aggrottò la fronte. «Il problema è: quale cellula inizia? E perché? Se è una sorta di reazione a catena, ci deve essere un iniziatore.»

«Un programma genetico», confermò Anawak. «Solo determinate cellule possono mettere in moto la fusione.»

«Una parte del cervello in grado di fare più delle altre…» ipotizzò Karen. «Affascinante. Però manca ancora qualcosa.»

«Aspetta! Forse siamo sulla strada sbagliata. Siamo ancora legati all'idea che queste cellule tutte insieme formino un grande cervello.»

«Sono convinta che sia così.»

«Anch'io. Ma proprio ora stavo pensando…»

«Cosa?»

Anawak rifletteva febbrilmente. «Non trovi strano che siano diverse l'una dall'altra? Mi viene in mente un solo motivo per spiegare una codificazione simile. Qualcuno programma il loro DNA in modo che possano svolgere compiti specifici. Ma, se questo fosse vero, allora ogni cellula sarebbe un piccolo cervello a sé.» Continuò a riflettere. Sarebbe fantastico! Però non aveva idea di come potesse avvenire. «Vorrebbe dire che il DNA di ogni cellula è il cervello.»

«Un DNA in grado di pensare?»

«In un certo senso, sì.»

«Allora dovrebbe anche apprendere.» Lo guardò e sul suo volto si Leggeva chiaramente la sua perplessità. «Ormai sono pronta ad accettare di tutto, ma…»

Aveva ragione. Era assurdo. La conseguenza era una biochimica di genere completamente diverso. Qualcosa che non esisteva. Però, se avesse funzionato…

«Ricominciamo. Come apprende un computer neurale?» chiese Anawak.

«Attraverso calcoli molto complessi eseguiti contemporaneamente. Con l'esperienza, cresce il numero delle alternative nell'azione.»

«E come le trattiene?»

«Le memorizza.»

«Quindi ogni unità deve avere a disposizione dello spazio di memoria. Il pensiero artificiale consiste nella rete degli spazi di memoria.»

«Dove vuoi arrivare?»

Anawak glielo spiegò. Lei rimase ad ascoltarlo, scuotendo ogni tanto il capo, e poi se lo fece spiegare una seconda volta. «A quanto pare, vuoi riscrivere la biologia.»

«Sì. Puoi realizzare un programma che funzioni in questo modo?»

«Mio Dio.»

«Forse in piccolo.»

«Anche in piccolo è sempre troppo grande. Accidenti, Leon! Che razza di teoria sballata. Okay, okay! Lo faccio.» Distese le braccia abbronzate. Sotto il cotone della T-shirt si tendeva la muscolatura. Anawak pensò a quanto gli piaceva quella ragazza piccola e dalle spalle larghe.

Nello stesso momento lei lo guardò. «Però ti costerà parecchio», disse, minacciosa.

«Spara.»

«Spalle e schiena. Massaggi rilassanti.» Sorrise. «E ora, avanti. Mentre faccio il programma.»

Anawak era impressionato. Che sfacciata! pensò. In ogni caso, che la sua teoria avesse senso o no, era valsa la pena parlargliene.


Rubin

A pranzo, andarono insieme in mensa. Le condizioni di Johanson erano visibilmente migliorate; inoltre lui sembrava intendersi alla perfezione con Sue.

Entrambi non sembrarono particolarmente tristi quando Rubin spiegò loro che, dopo l'attacco di emicrania, non aveva fame. «Farò una passeggiata in coperta», disse, cercando di suscitare la compassione dei presenti e assumendo un'espressione provata.

«Stia attento», sogghignò Johanson. «Qui basta un attimo per inciampare.»

«Non si preoccupi», sorrise Rubin. E pensò: Non puoi neanche immaginare quanto sono attento in ogni istante. «Mi terrò lontano dagli spigoli.»

«Abbiamo ancora bisogno di lei, Mick.»

«Ah, sì», disse Sue, mentre lei si allontanava con Johanson.

Ah, sì? pensò Rubin, stringendo i pugni. Ma in fondo potevano sparlare alle sue spalle finché volevano. Alla fine sarebbe stato lui a ricevere quello che gli spettava. Il merito di aver salvato l'umanità sarebbe stato attribuito a lui. Aveva atteso a lungo di poter uscire dall'ombra delia CIA. Se la faccenda era ormai superata, non c'era motivo per tenere nascosto al mondo il suo lavoro. Mantenere il segreto sarebbe stato assolutamente inutile. Avrebbe potuto pubblicare a piacere, accompagnato dall'ammirazione di tutti.

Mentre percorreva la rampa, il suo umore era notevolmente migliorato. Al livello 3 prese una diramazione e arrivò davanti a una porticina chiusa. Inserì il suo codice numerico. La porta si aprì e Rubin entrò in un corridoio. Lo percorse sino in fondo e lì trovò un'altra porta chiusa. Stavolta, quando inserì il codice, sulla console si accese una lampadina verde. C'era un obiettivo collocato dietro una finestrella di vetro. Rubin si mise vicinissimo al vetro e guardò con l'occhio destro nella lente che scansionò la sua retina e diede l'okay al sistema.

La porta si aprì e lui entrò in una grande sala in penombra, piena di computer e monitor, molto simile al CIC. Al quadro di comando erano seduti militari e civili. L'aria era percorsa da costanti ronzii. Judith Li, Jack Vanderbilt e Salomon Peak erano a un grande tavolo per le carte nautiche illuminato dall'interno.

Peak alzò lo sguardo. «Venga», disse.

Rubin si avvicinò, improvvisamente incerto. Nel corso della notte si erano telefonati, scambiandosi informazioni stringate. Il tono dell'uomo era sempre stato asciutto. Adesso era diventato gelido.

Rubin decise di forzare i tempi. «Stiamo procedendo», esordì. «Facciamo sempre un passo avanti e…»

«Si sieda», disse Vanderbilt, indicandogli con un rapido gesto una sedia dalla parte opposta del tavolo. Rubin obbedì. I tre rimasero in piedi, così lui si ritrovò in una posizione che lo metteva a disagio. Si sentiva come davanti a un tribunale.

«Quello che è successo la notte scorsa è stato stupido», aggiunse.

«Stupido?» Vanderbilt batté con le nocche sul piano del tavolo. «Maledetto idiota. In altre circostanze l'avrei gettata in mare.»

«Un momento, io…»

«Perché lo ha colpito?»

«Cosa avrei dovuto fare?»

«Prestare maggiore attenzione. Incapace! Non avrebbe dovuto farlo entrare.»

«Non è stato un errore mio», aggiunse Rubin. «È la vostra gente che controlla chi si gratta il culo mentre dorme!»

«Perché ha aperto quella maledetta paratia?»

«Perché… Sì, pensavo che forse avremmo avuto bisogno…»

«Di cosa?»

«Stia attento, Rubin», disse Peak. «La paratia sul ponte dell'hangar ha una sola funzione, e lei sa qual è. Far entrare e uscire il materiale esplosivo.» I suoi occhi fiammeggiavano. «Allora, la notte scorsa che cosa aveva da fare di tanto importante da dover aprire la paratia?»

Rubin si morse le labbra.

«Lei è stato semplicemente troppo pigro per prendere la strada dall'interno della nave, il punto è questo.»

«Come può dire una cosa simile?»

«È la verità.» Judith Li superò il tavolo e si sedette sul bordo. Lo guardava con aria indulgente, quasi amichevole. «Lei ha detto agli altri che andava a prendere un po' d'aria.»

Rubin si afflosciò sulla sedia. Ovvio che l'aveva detto. E ovviamente i sistemi di sorveglianza l'avevano registrato.

«E più tardi è tornato a prendere un po' d'aria.»

«Sembrava che sul ponte non ci fosse nessuno», si difese lui. «E la vostra gente non ha comunicato nulla in contrario.»

«Ma come, Mick? La sorveglianza non ha detto nulla perché lei non ha fatto nessuna richiesta. Lei ha l'obbligo di chiedere il permesso ogni volta che vuole aprire la paratia. Quelli non potevano comunicarle nulla.»

«Mi dispiace», disse Rubin.

«Per essere onesti, ammetterò che pure qui non tutto ha funzionato secondo i piani. Ci è sfuggita la seconda passeggiata di Johanson sul ponte dell'hangar. Inoltre, preparando la missione, abbiamo commesso l'errore di non installare un sistema di ascolto senza buchi. Per esempio, non sappiamo che cosa si siano detti Sue Oliviera e Sigur Johanson quando hanno fatto il loro piccolo party sul ponte dell'hangar, e purtroppo non abbiamo potuto sentire neppure la conversazione sulla rampa. Ma questo non cambia il fatto che lei si sia comportato da stupido.»

«Prometto che non succederà più…»

«Lei è un rischio per la sicurezza, Mick. Un imbecille senza cervello. E anche se non sempre la penso come Jack, stia sicuro che lo aiuterò a gettarla in mare, se si dovesse ripetere una cosa del genere. Mi procurerò un paio di squali e me ne starò a guardare con soddisfazione mentre le strappano il cuore. Ha capito? Io la ucciderò.» Gli occhi acquamarina splendevano nel volto di Judith Li e avevano un'aria amichevole, ma Rubin sospettava che quella donna non avrebbe esitato un attimo a tradurre in realtà le sue minacce.

Aveva paura di lei.

«Vedo che ha capito.» Judith Li gli diede una pacca sulle spalle e tornò dagli altri. «Bene. Contenimento dei danni. La droga fa effetto?»

«A Johanson ne abbiamo iniettati dieci millilitri», rispose Peak. «Una dose maggiore l'avrebbe messo fuori combattimento e non ce lo possiamo permettere. Quella sostanza nel cervello funziona come una gomma per cancellare, ma non c'è garanzia che non ricordi nulla.»

«Quant'è elevato il rischio?»

«Difficile dirlo. Una parola, un colore, un odore… Se il cervello trova un punto di collegamento è in grado di ricostruire tutto.»

«Il rischio è molto elevato», ringhiò Vanderbilt. «Fino a oggi non siamo riusciti a trovare una droga che possa eliminare completamente i ricordi. Sappiamo troppo poco del sistema di funzionamento del cervello.»

«Quindi dovremo tenerlo sotto sorveglianza», disse Judith Li. «Che ne pensa, Mick? Per quanto crede che dipenderemo ancora da Johanson?»

«Oh, siamo molto avanti», esclamò Rubin in tono concitato. Lì poteva recuperare terreno. «Karen Weaver e Leon Anawak hanno avuto l'idea di una fusione feromonica. Anche Sue Oliviera e Sigur Johanson sono arrivati alla conclusione che possa dipendere dall'odore. Oggi pomeriggio faremo dei test di fase per ottenere la conferma. Se è vero che la fusione avviene in seguito a un odore, allora avremo un punto di partenza che ci dovrebbe portare velocemente alla meta desiderata.»

«Nel caso, se, forse, potrebbe…» sbuffò Vanderbilt. «Quando avrà quel maledetto strumento?»

«Questo è lavoro di ricerca, Jack», disse Rubin. «Nessuno si è seduto in grembo ad Alexander Fleming per chiedergli di quanto tempo aveva ancora bisogno per scoprire la penicillina.»

Vanderbilt stava per ribattere, quando una donna si alzò dalla console e venne verso di loro. «Al CIC hanno decifrato il segnale», disse.

«Scratch?»

«Così pare. Samantha Crowe ha detto a Shankar che lo ha decifrato.»

Judith Li guardò la console su cui arrivavano le immagini e le conversazioni del CIC. Dalla prospettiva di una telecamera nascosta, si vedevano Shankar, Samantha e Anawak intenti in una conversazione.

«Quindi tra poco riceveremo la notizia», disse. «Va bene. Allora, signori, mostriamo la dovuta sorpresa.»


Combat Information Center

Tutti si accalcavano intorno a Samantha e a Shankar per vedere la risposta. Non più in forma di spettrogramma, ma come rielaborazione visiva del segnale ricevuto il giorno precedente.

«È una risposta?» chiese Judith Li.

«Bella domanda», disse Samantha.

«Che cos'è scratch?» chiese Greywolf, appena arrivato con Alicia al seguito. «Una lingua?»

«Scratch forse sì, ma non di certo la forma in cui è codificato in questo caso», spiegò Shankar. «All'incirca è come il messaggio di Arecibo. Gli uomini sulla Terra non conversano col sistema binario. In fondo, non siamo stati noi a mandare un messaggio nello spazio, ma i nostri computer.»

«Quello che siamo riusciti a scoprire è la struttura di scratch e perché ha lo stesso suono di una puntina trascinata su un disco», intervenne Samantha. «Si tratta di uno staccato nella zona delle basse frequenze, adatto per attraversare tutto l'oceano. Le onde a bassa frequenza possono raggiungere le distanze maggiori. Uno staccato velocissimo. Il problema con gli infrasuoni è che per rendere udibili i rumori al di sotto dei cento hertz dobbiamo accelerarli di molte volte e così aumentiamo ancora di più la velocità dello staccato. La chiave per la comprensione consiste tuttavia nel rallentamento.»

«Abbiamo dovuto dilatarlo per poter dividere le singole unità», disse Shankar. «Così lo abbiamo rallentato finché è diventato una serie di singoli impulsi di diversa intensità e lunghezza.»

«Quasi come un alfabeto Morse», disse Karen.

«Pare che funzioni in maniera analoga.»

«E come viene rappresentato?» chiese Judith Li. «Con uno spettrogramma?»

«In parte. Ma non è sufficiente. Visto che si tratta di sentire, allora la cosa migliore è ascoltare realmente qualcosa. Così siamo ricorsi a un trucco simile a quello usato nella rappresentazione delle immagini dei satelliti, quando le riprese radar vengono rese visibili colorandole artificialmente. In questo caso, trasportiamo ogni segnale in base alla sua lunghezza e alla sua intensità su una frequenza che possiamo udire. Teniamo conto anche delle originali altezze delle frequenze. Così abbiamo fatto con scratch.» Samantha diede alcuni comandi con la tastiera. «Quello che abbiamo ottenuto suona così.»

Il suono sembrava quello di un tamburo picchiato sott'acqua. Una sequenza veloce, quasi troppo per poterla seguire completamente, ma indubbiamente composta da impulsi di differente lunghezza e intensità.

«In effetti, sembra un codice», borbottò Anawak. «Che vuol dire?»

«Non lo sappiamo.»

«Non lo sapete?» le fece eco Vanderbilt. «Pensavo che l'aveste decifrato.»

«Non sappiamo che lingua sia», spiegò Samantha in tono paziente. «Non sappiamo se è parlata normalmente. Non abbiamo la minima idea di cosa significhi il segnale scratch ricevuto negli ultimi anni. Ma questo non ha importanza.» Soffiò il fumo dalle narici. «Abbiamo di meglio: un contatto. Murray, mostri loro la prima parte.»

Shankar cliccò su un'icona del computer. Lo schermo si riempì di serie infinite di numeri. Intere colonne erano identiche. «Se ricordate, abbiamo spedito laggiù alcune 'verifiche di matematica'», disse. «Come un test d'intelligenza. Si trattava di completare serie di decimali, di risolvere logaritmi e di aggiungere elementi mancanti. Nella migliore delle ipotesi, ci siamo immaginati che quelli laggiù l'avrebbero trovato divertente e ci avrebbero spedito la risposta, in modo da segnalarci: 'Vi abbiamo sentito, siamo qui, conosciamo la matematica e siamo in grado di maneggiarla'.» Mostrò una serie di numeri. «Questi sono i risultati. Voto: dieci e lode. Hanno risolto perfettamente gli esercizi.»

«Mio Dio», sussurrò Karen.

«Questo ci dice due cose», affermò Samantha. «Anzitutto che scratch è una sorta di lingua e, con molta probabilità, i segnali scratch contengono complesse informazioni. In secondo luogo — e questo è decisivo! — che gli yrr sono in grado di deformare scratch in modo che per noi abbia un senso. È una prestazione di prima classe. Dimostra che non ci sono per nulla inferiori. Sono in grado non soltanto di decodificare, ma anche di codificare.»

Per un po' rimasero tutti a guardare le colonne di numeri. Sembravano oppressi da un misto di commozione e di angoscia.

«Ma questo cosa prova esattamente?» chiese Johanson, rompendo il silenzio.

«Ma è chiaro», rispose Alicia. «Che laggiù c'è qualcuno che pensa e risponde.»

«Sì, ma un computer non potrebbe dare le stesse risposte?»

«Pensi che stiamo conversando con un computer?»

«Ha ragione», disse Anawak. «Ci mostra che qualcuno ha fatto diligentemente i suoi compiti. È senza dubbio impressionante, ma non è una prova incontestabile dell'esistenza di una vita intelligente e consapevole di se stessa.»

«E chi altri potrebbe aver dato quelle risposte?» chiese Greywolf, entusiasta. «I merluzzi?»

«Certo che no. Ma prova a pensarci. Quello che abbiamo vissuto qui è un contatto tecnicamente perfetto attraverso simboli. Tuttavia da ciò non si può dedurre la presenza di un'intelligenza evoluta. Quando si adatta all'ambiente, un camaleonte porta a termine calcoli di elevata complessità, per così dire. Di fatto non se ne accorge nessuno. Se non si conosce l'effettiva intelligenza del camaleonte, si potrebbe arrivare alla conclusione che esso abbia doti impressionanti per poter gestire un programma che oggi rende il suo aspetto simile a una foglia e domani a una roccia. Bisognerebbe presupporre un'elevata capacità di comprensione, perché esso possa decifrare il codice ambientale e procedere in modo creativo, regolando il proprio codice sulla base di quello.»

«Allora che cos'abbiamo qui?» chiese Alicia, sconcertata. Sembrava quasi delusa.

Samantha ridacchiò. «Leon ha ragione», disse. «La capacità di manipolare dei simboli non fornisce affatto la prova che quei simboli siano anche stati compresi. Il vero spirito creativo si dimostra attraverso la capacità di rappresentazione e la conoscenza delle relazioni all'interno del mondo reale. Attraverso una comprensione profonda. Un computer, per quanto dotato di capacità di apprendimento, non conosce il rapporto con la regola generale, né il comportamento contro la logica; non si mette in confronto con l'ambiente e non fa esperienze. Credo che sia la stessa cosa che hanno detto gli yrr quando hanno formulato la loro risposta. Hanno cercato qualcosa che ci mostrasse la loro più elevata capacità di comprensione.» Indicò il monitor. «Questi sono i risultati dei due compiti matematici. Se osservate con attenzione, noterete che il risultato uno compare undici volte di fila, poi per tre volte vediamo il risultato due, una volta il risultato uno, poi nove volte il risultato due e così via. In un punto, il risultato uno si ripete quasi trentamila volte. Ma perché? Ha senso spedirci i risultati più di una volta perché il messaggio sia sufficientemente lungo per essere registrato. Ma come mai questa sequenza apparentemente caotica?»

«Qui entra in gioco Miss Alien», disse Shankar e sorrise ai presenti.

«Il mio alter ego, Jodie Foster», confermò Samantha. «Devo ammettere che la risposta mi è venuta in mente quando ho pensato al film. La sequenza è un codice. Se lo si sa leggere correttamente, si ottiene un'immagine composta da pixel bianchi e neri, quindi niente di diverso da quello che facciamo col SETI.»

«Spero che non sia Adolf Hitler», disse Rubin.

Stavolta ottenne una risata. Tutti avevano visto il film Contact con Jodie Foster. Gli alieni avevano mandato sulla Terra un'immagine televisiva che conteneva in realtà un manuale di costruzione. E avevano preso la prima immagine inviata dagli esseri umani nell'etere: Hitler che inaugurava le Olimpiadi di Berlino, nel 1936. «No», rispose Samantha. «Non è Hitler.»

Shankar impartì un comando al computer. Le colonne di numeri sparirono e apparve un'immagine.

«Che cos'è?» Vanderbilt si chinò in avanti.

«Non lo riconosce?» Samantha sorrise ai presenti. «Nessuno di voi ha idea di cosa sia?»

«Sembra un grattacielo», disse Anawak.

«L'Empire State Building», propose Rubin.

«Sciocchezze», sbuffò Greywolf. «Come fa a vederci l'Empire State Building? Sembra un missile.»

«E come fanno a conoscere i missili?» chiese Alicia.

«Perché in mare ce ne sono tantissimi. Provvisti di testate nucleari, di armi chimiche…»

«Ma che cosa c'è tutt'intorno?» chiese Sue. «Nuvole?»

«Forse acqua», affermò Karen. «Forse è qualcosa degli abissi marini. Una formazione.»

«L'acqua? Forse», intervenne Samantha.

Johanson si grattò la barba. «Sembra quasi un monumento. Probabilmente un simbolo. Qualcosa di… religioso.»

«Umano, assolutamente umano.» Samantha sembrava divertirsi come una matta. «Perché non vi chiedete semplicemente se non è possibile osservare l'immagine in un altro modo?»

Continuarono a fissare l'immagine e improvvisamente Judith Li trasalì. «Potete girarla di novanta gradi?»

Le dita di Shankar scivolarono sulla tastiera e l'immagine si dispose orizzontalmente.

«Continuo a non capire che cosa sia», disse Vanderbilt. «Un pesce? Un grande animale?»

Judith Li scosse la testa e accennò un sorriso. «No, Jack. I motivi tutt'intorno sono le onde. Onde marine. Un'istantanea vista da sotto. Dal fondo verso la superficie.»

«Come? E quella cosa nera?»

«Semplice. Siamo noi. La nostra nave.»


Heerema, al largo di La Palma, Canarie

Forse non avrebbero dovuto essere così euforici.

Durante le ultime sedici ore, l'aspiratore aveva lavorato ininterrottamente, portando alla luce tonnellate di corpicini rosa che evidentemente non avevano gradito il cambiamento. La maggior parte era morta subito, gli altri si erano contorti a lungo, finendo con le proboscidi estroflesse e le mandibole aperte. All'inizio, Frost era corso fuori a vedere i policheti che uscivano dal tubo insieme con l'acqua marina, formando un'imponente fontana, e poi finivano in una grande rete. Attraverso alcuni scivoli, i vermi erano stati scaricati in un cargo, posto a fianco dell'Heerema e ne riempivano la stiva. Frost, entusiasta, aveva infilato le mani nella massa ed era tornato indietro ricoperto di fango, sollevando trionfante una dozzina di cadaveri.

«Solo un verme morto è un verme buono», aveva tuonato. «Ascoltate le mie parole! Yeah!»

Avevano applaudito tutti, anche Bohrmann.

Dopo un po', i vortici di fango si erano posati, consentendo a loro di osservare la pietra lavica. Da lì, salivano isolati fili di piccole bolle. Le telecamere dell'isola luminosa avevano zoomato e Bohrmann era riuscito a vedere cos'era successo. «Colonie di batteri», aveva detto.

Frost lo aveva guardato. «E questo che significa?»

«Difficile da dire.» Bohrmann si era strofinato le nocche sul mento. «Finché popolano solo la superficie, non c'è pericolo. Però non so quanta sostanza sia già penetrata nei sedimenti. Quelle linee grigio sporco, là in mezzo, sono gli idrati.»

«Quindi ci sono ancora.»

«Quelli che vediamo. Però non sappiamo quanti ce n'erano prima e quanti ne sono stati distrutti. La fuoriuscita di bolle si mantiene in una dimensione tollerabile. Con una certa cautela, potrei dire che non è stato un insuccesso.»

«Per me vale un sì», aveva esclamato Frost, soddisfatto. Poi si era alzato. «Vado a prendere del caffè per tutti.»

Erano rimasti per ore a fissare l'aspiratore in azione e, a un certo punto, gli occhi avevano cominciato a bruciare. Infine van Maarten aveva cacciato Frost a letto. Erano tre notti che Frost e Bohrmann praticamente non dormivano. Frost stava ancora protestando quando i suoi occhi avevano cominciato a chiudersi. Poi, con le ultime energie, era riuscito a raggiungere, barcollando, la cabina.

Bohrmann era rimasto con van Maarten. Erano le undici.

«Lei è il prossimo che deve andare a dormire», aveva detto l'olandese.

«Non posso.» Bohrmann si era passato la mano sugli occhi. «Nessuno conosce gli idrati come me.»

«E invece no, noi li conosciamo.»

«Non ci vorrà ancora molto», aveva commentato Bohrmann.

In effetti, il team dei piloti era già stato cambiato tre volte. Ma, nel giro di poche ore, Erwin Suess sarebbe arrivato in elicottero da Kiel, e lui doveva tenere duro fino al suo arrivo.

Sbadigliò. Nel frattempo era calata la notte. La sala era percorsa da un leggero ronzio. Nel corso delle ultime ore, l'aspiratore e l'isola luminosa erano stati spinti, lentamente ma con continuità, verso nord. Se i dati della spedizione Polarstern erano esatti, i vermi infestavano solo quella terrazza. Bohrmann valutò che sarebbero serviti ancora alcuni giorni per aspirarli completamente, ma in lui si era risvegliata la speranza. La fuoriuscita di bolle era di poco superiore a quanto ci si attendeva, però non costituiva un reale motivo di preoccupazione. Forse, una volta spariti i vermi e le orde di batteri, gli idrati si sarebbero ristabilizzati.

Osservò i monitor con le palpebre socchiuse.

Fu colpa della stanchezza se il cambiamento raggiunse la sua coscienza soltanto dopo un po' che era iniziato. Si chinò in avanti. «Là c'è qualcosa che luccica», disse. «Allontanate l'aspiratore.»

Van Maarten sgranò gli occhi. «Dove?»

«Guardi sui monitor. In quella confusione, qualcosa ha lampeggiato. Ecco, ancora!»

In un attimo fu completamente sveglio. Ormai anche le telecamere dell'isola luminosa rivelavano che qualcosa non andava. La normale nuvola di sedimenti e le fauci dell'aspiratore si erano gonfiati. Frammenti scuri e bolle vibravano tutt'intorno e poi venivano trascinati in alto.

Gli schermi dell'aspiratore divennero neri e la sua bocca venne spinta da una parte.

«Maledizione, che cosa succede?»

Dagli altoparlanti uscì la voce del pilota: «Stiamo aspirando cose molto grosse. L'aspiratore diventa instabile. Non so se…»

«Via!» urlò Bohrmann. «Via dal pendio!»

Di nuovo, pensò, disperato. Come con la Sonne. Un blowout. Si erano trattenuti troppo a lungo nello stesso posto e il plateau era diventato instabile. La pressione più bassa separava i sedimenti.

No, non era un blowout. Era ancora peggio.

Il tubo dell'aspiratore cercò di tirarsi fuori dalla nuvola di sedimenti. Si gonfiò ancora di più, in apparenza sul punto di esplodere. Un'onda d'urto colpì l'isola luminosa. L'immagine ondeggiava.

«C'è uno smottamento», gridò il pilota.

«Spenga l'aspiratore!» Bohrmann balzò in piedi. «Lo riporti indietro.»

Dall'alto cadevano grandi frammenti di roccia. Pietrisco lavico franava sulla terrazza. Nella nuvola di fango e macerie, la bocca dell'aspiratore si vedeva appena.

«L'aspiratore è spento», confermò van Maarten.

Osservarono lo smottamento con occhi spalancati: cadevano sempre più rocce. Se avesse coinvolto la parete quasi verticale del vulcano, si sarebbero staccati pezzi sempre più grandi. La pietra dei vulcani era porosa. Nel giro di qualche minuto, un piccolo smottamento poteva diventare molto grande, e alla fine avrebbe provocato proprio quello che stavano cercando d'impedire.

Dobbiamo accettare con tranquillità la situazione, pensò Bohrmann. Ormai è troppo tardi per fuggire.

Una montagna d'acqua alta seicento metri…

Lo scroscio di pietre finì.

Per lungo tempo, nessuno parlò. Gli sguardi erano incollati ai monitor. Sulla terrazza c'era una nuvola diffusa che disperdeva e rifletteva la luce delle lampade alogene.

«Ha smesso», disse van Maarten con voce tremante.

«Sì», confermò Bohrmann. «Pare di sì.»

Van Maarten chiamò i piloti.

«L'isola luminosa ha ballato non poco», comunicò il team addetto all'illuminazione. «Un riflettore è caduto.»

«E il tubo dell'aspiratore?»

«Pare bloccato.» L'informazione arrivò dall'altra gru. «I sistemi trasmettono i comandi, ma non sembra in grado di eseguirli.»

«Credo che la bocca sia rimasta sotto le macerie», ipotizzò il pilota.

«Quanto peso può esserci caduto sopra?» chiese van Maarten con un filo di voce.

«Prima si deve depositare la nube», rispose Bohrmann. «Sembra proprio che ne siamo usciti con un occhio pesto.»

«Va bene. Allora dobbiamo aspettare.» Van Maarten parlò nel microfono. «Non fate altri tentativi per liberare l'aspiratore. Pausa caffè. Non voglio che laggiù si creino scosse inutili. Aspettiamo un po', poi vedremo.»

Tre ore dopo, videro. In realtà videro solo per pochi metri, perché i sedimenti non si erano ancora posati del tutto, ma la bocca dell'aspiratore si vedeva benissimo. Era arrivato anche Frost, più spettinato che mai.

«Si è incastrato ben bene», constatò van Maarten.

«Sì.» Frost si grattò la testa. «Ma non sembra rotto.»

«I motori sono bloccati.»

«E come facciamo a sbloccarli?»

«Potremmo mandare giù un robot che sposti tutto il materiale», propose Bohrmann.

«Santa furia di Dio e di tutti gli angeli!» sbraitò Frost. «Ci costerà tantissimo tempo. Ammesso che funzioni.»

«Dobbiamo fare in fretta.» Bohrmann si rivolse a van Maarten. «Quanto ci vuole per allestire Rambo?»

«È già pronto.»

«Allora via. Proviamoci.»

«Rambo» doveva il suo nome al film con Sylvester Stallone, quindi a motivi nient'affatto scientifici. Il ROV sembrava una versione più piccola del Victor 6000: aveva quattro telecamere, diversi propulsori per la stabilità a poppa e sui fianchi e due robusti bracci meccanici snodati. L'apparecchio raggiungeva al massimo ottocento metri di profondità, ma era molto apprezzato nel settore offshore. Nel giro di un quarto d'ora, Rambo era pronto a entrare in azione. In breve tempo, scivolò lungo il cono vulcanico verso la terrazza, collegato con la cabina di pilotaggio sull'Heerema da un cavo a fibre ottiche. L'isola luminosa entrò nel campo visivo. Il robot continuò a scendere, si mise in movimento e manovrò verso la bocca dell'aspiratore. Da vicino, si vedeva chiaramente che i motori e il sistema video della proboscide erano intatti, tuttavia alcuni blocchi di pietra vulcanica l'avevano incastrato, bloccandolo.

I bracci meccanici di Rambo iniziarono a spostare i detriti. All'inizio, sembrava che il robot potesse liberare l'aspiratore. Spostava le macerie l'una dopo l'altra, finché non incappò in una punta posta di traverso, che si era conficcata nella terrazza e schiacciava il tubo contro uno sperone di roccia. I bracci si muovevano avanti e indietro, si giravano, cercavano di spostare la roccia. Ma invano.

«Un automa non ce la può fare», affermò Bohrmann. «Non può sviluppare una forza sufficiente.»

«Ah, fantastico», sibilò Frost.

«E se i piloti ritirassero l'aspiratore?» azzardò Bohrmann. «Con la tensione, prima o poi si dovrà liberare.»

Van Maarten scosse la testa. «Troppo rischioso. Il tubo potrebbe strapparsi.»

Tentarono la sorte facendo collidere il robot col blocco da diverse parti. Intorno a mezzanotte, fu evidente che la macchina non ce l'avrebbe fatta. E i vermi, che spuntavano ovunque dall'oscurità, stavano tornando a occupare le zone ripulite.

«Non mi piace neanche un po'», grugnì Bohrmann. «Proprio qui, dov'è instabile. Dobbiamo cercare di liberare l'aspiratore, altrimenti la vedo nera.»

Frost aggrottò la fronte. Dopo un po', disse: «Bene. Allora la vedremo nera. E personalmente».

Bohrmann lo guardò con aria interrogativa.

«Ma sì. Nelle profondità marine è tutto nero, no? Voglio dire, se Rambo non ce la fa, c'è solo uno che ce la può fare. Sono quattrocento metri. Per quella profondità, a bordo abbiamo delle tute speciali.»

«Vuoi andare laggiù?» chiese Bohrmann, sbalordito.

«Naturalmente.» Frost distese le braccia, che scrocchiarono. «Dov'è il problema?»

15 agosto

Independence, mar di Groenlandia

Samantha Crowe aveva preso la risposta degli yrr come occasione per mandare negli abissi un secondo e più complesso messaggio. Conteneva informazioni sulla specie umana, sulla sua evoluzione e sulla sua cultura. Vanderbilt non ne era particolarmente felice, ma alla fine Samantha lo aveva convinto che ormai non era più possibile prendere un'altra direzione. Gli yrr erano sul punto di vincere la battaglia.

«Non è cambiato niente, continuiamo ad avere una sola possibilità», aveva detto. «Dobbiamo convincerli che siamo degni di esistere. Questo può accadere solo se raccontiamo il più possibile di noi stessi. Forse c'è qualcosa che non hanno preso in considerazione. Qualcosa che li porterà a ripensarci.»

«L'intersezione di due sistemi di valori», aveva azzardato Judith Li.

«Sì, per quanto piccola sia.»

Sue Oliviera, Sigur Johanson e Mick Rubin si erano seppelliti in laboratorio. Volevano costringere l'essere gelatinoso nella cisterna a dividersi e a disperdersi completamente. Erano in contatto costante con Karen Weaver e Leon Anawak. Karen aveva provvisto i suoi yrr virtuali di un DNA artificiale e aveva inserito un messaggero feromonico. Funzionava. Avevano dimostrato teoricamente che gli unicellulari, per fondersi, utilizzavano un odore, ma la gelatina rifiutava ogni cooperazione pratica. L'essere — per la precisione, la somma degli esseri — si era trasformato in un'ampia superficie ed era affondato sul fondo della cisterna.

Nel frattempo, Alicia e Greywolf analizzavano i filmati dei delfini, senza riuscire a vedere altro che lo scafo dell'Independence, qualche pesce isolato e altri delfini che si riprendevano a vicenda. Trascorrevano il loro tempo nel CIC o nel ponte a pozzo, dove Roscovitz e Kate Ann erano impegnati nelle riparazioni del Deepflight.

Judith Li sapeva che pure gli uomini migliori correvano il rischio di andare in tilt se, di tanto in tanto, non si prendevano una pausa. Si fece mandare le previsioni del tempo e chiese l'analisi della loro attendibilità. Tutto faceva credere che, fino al mattino successivo, il tempo sarebbe stato bello e senza vento. Già in quel momento, rispetto all'inizio della giornata, il moto ondoso si era notevolmente ridotto.

Così aveva chiesto ad Anawak di dedicargli qualche minuto e aveva scoperto che lui non sapeva praticamente nulla della cucina dell'estremo nord. Allora si affidò a Peak, che, nella sua carriera militare, non si era mai occupato del cibo.

Fece una serie di telefonate. Due elicotteri partirono per la costa della Groenlandia. Nel tardo pomeriggio, Judith Li annunciò che il capo chef invitava tutti a un party, che sarebbe cominciato alle nove. Gli elicotteri tornarono, portando tutto il necessario per preparare una cena groenlandese. Sul ponte di volo davanti all'isola furono portati tavoli, sedie e fu allestito un buffet. Venne pure sistemato un impianto stereo e tutt'intorno furono messi dei radiatori per tenere lontano il freddo.

Nella cucina iniziò un gran trambusto. Judith Li era ben nota per la sua capacità di tirare fuori dal cilindro idee eccezionali e di realizzarle nel giro di pochissimo tempo. Carne di caribù passava dalle pentole alle padelle. Fu affettato il maktaaq, la pelle di narvalo croccante, e preparata una zuppa di foca. Inoltre vennero cotte uova di edredone. Il fornaio dell'Independence si dedicò al bunnok, una focaccia di pane azzimo, piatta e molto gustosa, per la cui preparazione a regola d'arte gli inuit facevano gare annuali. Furono sfilettati salmoni e arrostiti salmerini con erbe aromatiche, fu preparato un carpaccio di carne congelata di tricheco e montagne di riso vennero cotte a fuoco lento. Peak si era limitato a far arrivare tutto ciò che non era disponibile in magazzino e si era affidato ciecamente ai consulenti groenlandesi. Solo una specialità gli era suonata sospetta: intestino di tricheco al forno. Per quanto fosse magnificata, era una di quelle cose cui, secondo il suo modo di vedere, si poteva tranquillamente rinunciare.

Aveva predisposto un equipaggio d'emergenza per il ponte, la sala macchine e il CIC. Tutti gli altri comparvero puntuali alle nove sulla coperta dell'Independence: equipaggio, scienziati e soldati. Quel luogo, normalmente deserto, si riempì in un lampo. Circa centosessanta persone presero il loro cocktail analcolico di benvenuto e si accomodarono ai tavoli, oppure rimasero in piedi, sinché non fu aperto il buffet. A un certo punto, l'atmosfera si rilassò e tutti gli ospiti cominciarono a chiacchierare.

Era un party insolito, quello che Judith Li aveva organizzato: alle spalle delle persone c'era l'alto edificio d'acciaio dell'isola e tutt'intorno la vastità solitaria del mare. La foschia si era ritirata e aveva formato all'orizzonte surreali montagne di nuvole, in mezzo alle quali, di tanto in tanto, faceva capolino la sfera del sole. L'aria era frizzante e limpida e, intorno a ogni cosa, sembrava avvolgersi il blu intenso del cielo.

Per un po', tutti si sforzarono di lasciare da parte i discorsi sul motivo per cui erano lì. Fece bene a tutti intrattenersi per un po' su altri argomenti. Tuttavia c'era qualcosa di forzato, quasi di disperato, in quel modo di conversare, come se si trovassero a un vernissage. E poco prima di mezzanotte, quando ormai iniziava il crepuscolo, la fragile barriera si ruppe. La maggior parte dei presenti aveva cominciato a darsi del tu e a dividersi in gruppi, che poi si radunavano intorno agli sciamani del sapere nel tentativo di strappare loro una consolazione che però nessuno poteva offrire.

«Parliamo seriamente», disse Craig C. Buchanan a Samantha. Era l'una passata. «Non crederà davvero a degli esseri unicellulari intelligenti, vero?»

«E perché no?» chiese Samantha di rimando.

«Mi faccia il piacere. Stiamo parlando di vita intelligente, giusto?»

«Così sembra.»

«Allora…» Buchanan cercò le parole. «Non mi aspetto che siano simili a noi, ma suppongo che si rivelino un po' più complessi di un organismo unicellulare. Si dice che gli scimpanzé siano intelligenti e lo stesso si afferma delle balene e dei delfini. Be', tutti hanno un corpo dalla struttura complessa e un cervello grande. Abbiamo imparato che le formiche sono troppo piccole per sviluppare una vera intelligenza. E allora come porrebbe esserci negli unicellulari?»

«Non confonda le due cose, comandante.»

«Quali cose?»

«Quello che ci potrebbe essere e quello che le piacerebbe ci fosse.»

«Non capisco cosa intende.»

«Vuol dire che dobbiamo abituarci all'idea che l'umanità dovrà cedere il predominio a un avversario forte e potente. Grande, bello e coi muscoli», interloquì Peak.

Buchanan batté il palmo della mano sul tavolo. «Non ci credo. Non credo che un organismo primitivo possa dominare questo pianeta e superare in intelligenza l'uomo. Non può essere! Gli uomini sono progrediti…»

«Progresso? Complessità?» esclamò Samantha. «Ma che cosa crede? Che l'evoluzione sia progresso?»

Buchanan la guardò, inquieto.

«Vediamo un po'», riprese Samantha. «L'evoluzione è la lotta per la sopravvivenza del più adatto, per restare a Darwin. È il prodotto dalle avversità, dello scontro con altri esseri viventi o con le catastrofi naturali. Quindi c'è uno sviluppo attraverso la selezione. Ma questo conduce automaticamente a una maggiore complessità? E la maggiore complessità è un progresso?»

«Non so molto dell'evoluzione», mormorò Peak. «Pensavo che nel corso della storia naturale, la maggior parte degli esseri viventi fosse diventata sempre più grande e complessa. Ed è senza dubbio così per noi. Dal mio punto di vista, è indubbiamente il risultato di una tendenza.»

«Una tendenza? Sbagliato. Noi vediamo solo un piccolo frammento della storia, in cui appunto si è sperimentata la maggiore complessità, ma chi ci dice che non siamo finiti in un vicolo cieco dell'evoluzione? Quando ci vediamo all'apice di un trend naturale, non facciamo altro che sopravvalutare noi stessi. Sapete tutti com'è l'albero genealogico dell'evoluzione, quel quadro tutto ramificato con rami principali e secondari. Allora, Sal, se lei pensa a quell'albero, come vedrebbe l'umanità? Come ramo principale o secondario?»

«Senza dubbio principale.»

«Era quello che mi aspettavo. Corrisponde alla prospettiva umana. Se molti rami di una famiglia di animali si dividono e uno sopravvive, mentre tutti gli altri muoiono, noi definiamo i sopravvissuti come ramo principale. Perché? Solo perché sono ancora vivi? Ma forse quella che vediamo è solo una linea secondaria che riesce a sopravvivere un po' più delle altre. Noi uomini siamo l'unica specie sopravvissuta di un ceppo evolutivo originariamente molto rigoglioso. Ciò che resta di uno sviluppo che ha seccato gli altri rami, l'ultimo sopravvissuto di un esperimento chiamato Homo. Homo australopithecus: estinto. Homo habilis: estinto. Homo sapiens neanderthalensis: estinto. Homo sapiens sapiens: c'è ancora. Per il momento, abbiamo noi il dominio del pianeta, ma attenzione! I parvenu dell'evoluzione non devono confondere il dominio con la superiorità intrinseca e la sopravvivenza a lunga scadenza. Potremmo sparire molto più velocemente di quanto ci piaccia pensare.»

«Probabilmente ha ragione», disse Peak. «Ma ha dimenticato un fattore decisivo. Questa specie sopravvissuta è anche l'unica specie ad avere una coscienza altamente sviluppata.»

«D'accordo. Però mi faccia la cortesia di osservare l'evoluzione nel panorama complessivo della natura. Quello che vede è davvero uno sviluppo o un trend eccezionale? L'ottanta per cento degli organismi pluricellulari vanta un successo evolutivo di gran lunga migliore di quello umano, senza che questo presunto trend li abbia portati alla formazione di un'elevata complessità nervosa. Tutto il nostro corredo di spirito e coscienza è un progresso esclusivamente in rapporto alla nostra soggettiva visione del mondo. Finora, questa bizzarra, inverosimile apparizione marginale di nome 'uomo' ha portato all'ecosistema Terra solo una cosa: una valanga di guai.»

«Sono sempre convinto che vi siano dietro degli uomini», stava dicendo Vanderbilt al tavolo vicino. «Ma va bene, mi lascio convincere. Se non ci sono alternative, c'impegneremo al massimo per capire questi yrr. Metteremo quella disgustosa robaccia sotto l'osservazione della CIA finché non sapremo cosa pensa e cosa progetta.»

Era con Alicia Delaware e Leon Anawak. Intorno a loro, c'erano soldati e membri dell'equipaggio.

«Se lo scordi», sbottò Alicia. «Non otterrà niente con la CIA.»

«Puah!» disse Vanderbilt ridendo. «Se sei paziente, riesci a infilarti in ogni testa. Anche se è quella di un maledetto unicellulare. È solo questione di tempo.»

«No, è questione di obiettività», disse Anawak. «Cosa le fa pensare di essere in grado di assumere il ruolo di un osservatore obiettivo?»

«Possiamo, eccome. È per questo che siamo intelligenti e civilizzati.»

«Lei sarà anche intelligente, ma non è in grado di percepire obiettivamente la natura.»

«Per essere precisi, è soggettivo e privo di libertà come un animale», aggiunse Alicia.

«A che animale stavate pensando?» ridacchiò Vanderbilt. «A un tricheco?»

Anawak sorrise. «Dico sul serio. Siamo sempre più vicini alla natura di quanto crediamo.»

«Io no. Io sono cresciuto in una grande città. Non sono mai stato in campagna. E neppure mio padre.»

«Non importa», disse Alicia. «Le faccio un esempio: i serpenti. Sono temuti e nel contempo adorati. Oppure gli squali… C'è una gran quantità di divinità squalo. Questo legame emotivo con le altre forme di vita è innato nell'uomo, forse addirittura determinato geneticamente.»

«Voi parlate di uomini primitivi. Io parlo di uomini che vivono nelle metropoli.»

«Okay.» Anawak rifletté per un attimo. «Ha una fobia, o qualcosa che possa essere definito come tale?»

«Be', sì, non esattamente una fobia…» cominciò Vanderbilt.

«Una repulsione?»

«Sì.»

«Per che cosa?»

«Oddio, non è così originale. Probabilmente ce l'hanno tutti. Per i ragni. Le odio quelle bestie.»

«Perché?»

«Perché…» Vanderbilt scrollò le spalle. «Sono disgustosi. Non trova anche lei che siano disgustosi?»

«No, ma il punto non è questo. Il punto è che, nel nostro mondo civilizzato, la causa principale delle fobie è data dai pericoli che correvamo prima di vivere nelle città. Sviluppiamo fobie verso le pareti di roccia che incombono su di noi, per i temporali, le acque impetuose, per la superficie dell'acqua impenetrabile allo sguardo, per i serpenti, per i cani e per i ragni. Perché non verso i cavi elettrici, i revolver, i coltelli a serramanico, le auto, gli esplosivi e le prese di corrente che, nel complesso, sono molto più pericolosi? Perché nel nostro cervello è impressa una regola: devi stare all'erta di fronte a oggetti a forma di serpente e a esseri con molte zampe.»

«Il cervello umano si è sviluppato in un ambiente naturale, non meccanico», aggiunse Alicia. «La nostra evoluzione spirituale si è svolta nel corso di oltre due milioni di anni in strettissimo rapporto con la natura. Forse le regole di sopravvivenza di quell'epoca si sono addirittura impresse nei geni… In ogni caso, un minuscolo frammento della nostra storia evolutiva è passato nella nostra cosiddetta civiltà. Crede davvero che tutte le informazioni arcaiche presenti nel suo cervello siano sparite solo perché suo padre e suo nonno hanno sempre vissuto in città? Perché abbiamo paura dei piccoli animali che strisciano nell'erba, perché prova disgusto per i ragni? Perché, nel corso della nostra evoluzione, quella paura ha permesso di sopravvivere. Perché gli uomini, che sono più paurosi di tutti gli altri, sono raramente in pericolo e possono generare più discendenti. È così. Ho ragione, Jack?»

Lo sguardo di Vanderbilt si spostava da Alicia ad Anawak. «E tutto questo che c'entra con gli yrr?» chiese.

«C'entra perché forse somigliano ai ragni», rispose Anawak.

«Ah! Allora non venga a parlarci di obiettività. Finché proveremo ripugnanza per gli yrr — qualunque aspetto abbiano, che siano gelatina, unicellulari o granchi velenosi — non scopriremo nulla sul loro modo di pensare, semplicemente perché non potremo farlo. Saremo unicamente interessati a distruggere le altre specie, in modo che non striscino nelle nostre caverne e non si prendano i nostri bambini.»

Un po' in disparte, nell'oscurità, sedeva Johanson. Stava cercando di ricordare i dettagli della notte precedente, quando arrivò Judith Li e gli porse un bicchiere di vino rosso.

«Pensavo che ci fossero solo analcolici», si meravigliò Johanson.

«Certo», annuì lei, toccando il bicchiere di Johanson col suo. «Ma non siamo così rigidi. Inoltre sono molto attenta alle preferenze dei miei ospiti.»

Johanson sorseggiò il vino. Era davvero buono. «Che tipo di persona è lei, generale Li?» chiese.

«Mi chiami pure Jude. Lo fanno tutti quelli che non devono stare sull'attenti davanti a me.»

«Non riesco a capirla, Jude.»

«Dove sarebbe il problema?»

«Non mi fido di lei.»

Judith sorrise divertita e bevve. «È reciproco, Sigur. Cos'è successo ieri notte? Vuole davvero farmi credere che non ricorda niente?»

«In effetti non ricordo proprio niente.»

«Che ci faceva sul ponte dell'hangar a un'ora così tarda?»

«Volevo rilassarmi.»

«Si era già rilassato con Sue.»

«Sì, quando si lavora molto, di tanto in tanto bisogna farlo.»

«Hmm.» Judith lo oltrepassò con lo sguardo e fissò il mare. «Ricorda di cosa avete parlato?»

«Del nostro lavoro.»

«Di nient'altro?»

Johanson la guardò «Cosa vuole davvero, Jude?»

«Risolvere questa crisi. E lei?»

«Non so se lo voglio nello stesso modo in cui lo vuole lei», rispose Johanson dopo una breve esitazione. «Che cosa resterà, una volta che questa crisi sarà risolta?»

«Resteranno i nostri valori. I valori della nostra società.»

«Intende la società umana? O quella americana?»

Lei girò la testa verso di lui. Gli occhi azzurri sembravano risplendere nel bel viso asiatico. «C'è differenza?»

Samantha Crowe aveva parlato in tono concitato, spalleggiata da Sue. Al momento erano loro ad aver raccolto il maggior pubblico. Peak e Buchanan si erano indubbiamente messi sulla difensiva, tuttavia, mentre Peak si faceva sempre più pensieroso, Buchanan schiumava di rabbia.

«Non siamo l'ineluttabile risultato di un processo superiore di sviluppo della natura», stava dicendo Samantha. «L'uomo è un prodotto del caso. Siamo il risultato di un fortuito accidente cosmico, avvenuto quando un gigantesco meteorite ha colpito la Terra e ha fatto estinguere i dinosauri. Probabilmente, senza quell'incidente, oggi la Terra sarebbe popolata da sauridi intelligenti o da un qualsiasi altro animale. Ci siamo sviluppati a causa di vantaggi naturali, non per consequenzialità logica. Da quando il Cambriano ha prodotto i primi organismi pluricellulari, tra i milioni di sviluppi possibili forse ce n'era solo uno che prevedeva l'uomo.»

«Ma gli uomini dominano il pianeta», insistette Buchanan. «Che lo voglia o no.»

«Ne è sicuro? Al momento lo dominano gli yrr. Affronti la realtà: noi siamo solo un piccolo gruppo della specie dei mammiferi, che di certo non è ancora stato registrato dall'evoluzione come un successo. I mammiferi coronati da successo sono i pipistrelli, i topi e le antilopi. Noi non rappresentiamo l'ultima parte vincente della storia della Terra, ma siamo solo una specie fra le tante. In natura, non c'è un trend verso un'epoca che faccia da coronamento a tutte le altre, c'è solo la selezione. Il tempo potrebbe registrare un provvisorio aumento della complessità fisica e spirituale di una specie di questo pianeta ma, da un punto di vista generale, non si tratta di un trend e tantomeno di un progresso. In generale, la vita non mostra nessun impulso in direzione del progresso. Aggiunge all'ecosistema un elemento complesso e intanto conserva inalterata da tre miliardi di anni la forma dei batteri. La vita non ha nessun motivo per voler migliorare qualcosa.»

«Come concilia queste affermazioni con un progetto divino?» chiese Buchanan, in tono quasi minaccioso.

«Se esiste un Dio ed è un Dio intelligente, ha strutturato le cose come le ho descritte. Quindi noi non siamo il suo capolavoro, bensì una variante che sopravvivrà finché sarà consapevole del proprio ruolo di variante.»

«E il fatto che Dio abbia creato l'uomo a sua immagine e somiglianza? Vuole mettere in discussione anche questo?»

«Mi sta dicendo che lei è così prigioniero della sua ottusità da non prendere neppure in considerazione l'ipotesi che potrebbe aver fatto gli yrr a sua immagine e somiglianza?» Gli occhi di Buchanan lampeggiarono, ma Samantha non gli diede il tempo di ribattere e gli soffiò contro una nuvoletta di fumo. «Ma questa discussione è obsoleta. Diciamo che gli uomini sono relativamente grandi. Ma un corpo più grande è un corpo migliore? In effetti, sembra che alcune specie nel corso della selezione diventino sempre più grandi. Ma la maggior parte se la cava decisamente meglio con un corpo più piccolo. In un'epoca di estinzione di massa, sopravvivono meglio le specie più piccole, quindi, ogni tot milioni di anni, le più grandi spariscono, l'evoluzione ricomincia dal limite inferiore delle dimensioni, fino allo schianto del prossimo meteorite. Pam! Questo è il progetto divino!»

«Questo è fatalismo.»

«No, è realismo», disse Sue. «Sono le tipologie altamente specializzate come gli uomini a estinguersi in caso di trasformazioni estreme, perché incapaci di adattarsi. Il koala è complesso e può mangiare solo foglie di eucalipto. E che fa se l'eucalipto si estingue? Tira le cuoia. Invece la maggior parte degli unicellulari supera le epoche glaciali, le eruzioni vulcaniche, l'eccesso di ossigeno e di metano, può trascorrere millenni in una condizione simile alla morte e poi ritornare in vita. I batteri possono vivere nella roccia a chilometri di profondità, nelle fonti bollenti, nei ghiacciai. Senza di loro, non potremmo sopravvivere, ma loro possono farlo benissimo anche senza di noi. Tutti gli elementi che determinano la nostra vita — ossigeno, azoto, fosforo, zolfo, carbonio — sono a nostra disposizione grazie all'attività di microrganismi. Batteri, funghi, organismi unicellulari, piccoli animali necrofagi, insetti e vermi elaborano piante e ammali morti e riportano le loro componenti chimiche nel sistema complessivo della vita. E nell'oceano accade come sulla terraferma. I microrganismi sono le forme di vita dominanti negli oceani. La gelatina che abbiamo nella cisterna è sicuramente più vecchia di noi e forse anche più intelligente, che ci piaccia o no.»

«Non può paragonare un essere umano a un microbo», ringhiò Buchanan. «Un uomo ha un'importanza diversa. Se non riesce a comprendere questo fatto, come mai è qui e ci rimane?»

«Proprio per questo motivo: per fare la cosa giusta!»

«Lei tradisce l'umanità già con le parole.»

«No, è l'uomo che tradisce il mondo quando stabilisce uno squilibrio tra le forme di vita e la loro importanza. È l'unica specie a farlo. Noi giudichiamo. Ci sono animali cattivi, animali importanti, animali utili. Noi giudichiamo la natura in base a quello che vediamo, ma esso è soltanto una minuscola parte, cui diamo un'importanza sproporzionata. La nostra percezione è indirizzata solo verso i grandi animali e i vertebrati, e soprattutto su noi stessi. Quindi vediamo ovunque solo vertebrati. Nei fatti, il numero complessivo dei vertebrati descritti scientificamente è poco inferiore a 43.000, tra cui 6.500 rettili, 8.700 specie di uccelli e 4.600 mammiferi. E invece, fino a oggi, è stato descritto circa un milione d'invertebrati, tra cui, solo di coleotteri, ce ne sono 350.000, vale a dire più di otto volte il numero complessivo dei vertebrati.»

Peak guardò Buchanan. «Ha ragione, Craig», disse. «Prendine atto. Hanno ragione loro.»

«Noi non siamo coronati dal successo», disse Samantha. «Se volete vedere il vero successo, osservate gli squali. Esistono dal Devoniano, da quattrocento milioni di anni. Sono centinaia di volte più antichi di ogni progenitore dell'uomo, e ce ne sono trecentocinquanta specie. Ma probabilmente gli yrr sono ancora più antichi. Se sono unicellulari e hanno trovato il modo di costruire un pensiero collettivo, allora sono avanti di un'eternità rispetto a noi. Non riusciremo mai a recuperare questo vantaggio. Al massimo potremo ucciderli. Ma davvero si vuole correre questo rischio? Sappiamo che importanza hanno per la nostra esistenza? Probabilmente non potremo vivere né con questo nemico né senza.»

«Lei vuole difendere i valori americani, Jude?» Johanson scosse la testa. «Allora falliremo.»

«Che cos'ha contro i valori americani?»

«Niente. Ma ha sentito cos'ha detto Samantha: forse, le forme di vita di altri pianeti non sono simili né agli uomini né ai mammiferi, forse non si basano sul DNA, quindi il loro sistema di valori sarà completamente diverso dal nostro. Secondo lei, laggiù negli abissi, che sistema morale c'è? Quali princìpi può avere una specie che probabilmente possiede una cultura fondata sulla divisione cellulare e sull'autosacrificio per la collettività? Come può pretendere di arrivare a una comprensione se tiene sempre ed esclusivamente sotto gli occhi valori che neppure l'umanità riesce a condividere?»

«Mi ha valutato male», replicò Judith. «So bene che la nostra morale non è innata. La questione è: dobbiamo davvero comprendere a ogni costo quello che pensano gli altri? Non è forse meglio investire le energie nel tentativo di una coesistenza?»

«Mi sembra che lei sia un po' in ritardo, Jude», sospirò Johanson. «Credo che gli abitanti primitivi dell'America, dell'Australia, dell'Africa e dell'Artico avrebbero salutato con gioia il suo punto di vista. Come pure lo avrebbero fatto diverse specie animali che abbiamo condannato all'estinzione. L'unica cosa certa è che questa faccenda è molto complessa. E, anche se intuiamo a malapena come pensano gli altri, dobbiamo tentare, perché ormai ci siamo tagliati la strada a vicenda. Il nostro spazio ritale è diventato troppo stretto per condurre le nostre vite l'una a fianco dell'altra; ormai non resta che condurle insieme. E questo funziona unicamente se ridimensioniamo i nostri presunti diritti dati da Dio.»

«E come dovremmo fare, secondo lei? Acquisire le abitudini di vita di organismi unicellulari?»

«Ovvio che no. Non ci sarebbe possibile geneticamente. Anche quello che noi definiamo cultura è strettamente legato ai nostri geni. L'evoluzione culturale inizia nell'era preistorica. È stato allora che, nelle nostre teste si è preparato il terreno, per così dire. La cultura è biologica… Oppure vogliamo presumere che si siano aggiunti nuovi geni che ci hanno indotto a costruire navi da guerra? Noi costruiamo aerei, portaerei e teatri, ma lo facciamo seguendo il cosiddetto livello di civiltà delle nostre attività primitive, dall'epoca in cui un'ascia di pietra è stata scambiata con un pezzo di carne: guerra, incontro di tribù, commercio… La cultura fa parte della nostra evoluzione. Serve per mantenerci in una condizione di stabilità…»

«… finché un'altra condizione di stabilità non si dimostra migliore. Capisco dove vuole arrivare, Johanson. Nelle epoche preistoriche, il patrimonio genetico ha determinato la cultura e, in base a quella, ci ha trasformato geneticamente. Quindi sono i geni a guidare il nostro comportamento. Ci danno i fondamenti per questa conversazione, benché tale pensiero possa risultare odioso. Tutto il nostro bagaglio intellettuale, di cui siamo così orgogliosi, è il risultato di un controllo genetico e la cultura non è altro che il repertorio di comportamenti sociali, accoppiato con la lotta per la sopravvivenza.»

Johanson rimase in silenzio.

«Ho detto qualcosa di sbagliato?» chiese Judith.

«No. L'ascolto, affascinato e rapito. Lei ha assolutamente ragione. L'evoluzione è un gioco tra mutamenti genetici e cambiamenti culturali. Ci sono state delle mutazioni genetiche che hanno portato alla crescita del nostro cervello. È stata la biologia che ci ha reso possibile la parola, quando, nel corso di cinquecentomila anni, ha strutturato la nostra laringe e ha formato i centri del linguaggio sulla corteccia cerebrale. Ma questa trasformazione genetica porta a una costruzione culturale. Le lingue formulano conoscenza, passato, futuro e capacità immaginativa. La cultura è il risultato di processi biologici, e a loro volta le trasformazioni genetiche sono la conseguenza dello sviluppo culturale. Molto lentamente, è vero, ma è così.»

Judith Li sorrise. «Che bello, riesco a seguirla.»

«Non ne dubitavo», replicò Johanson, dispiegando tutto il suo fascino. «Ma così ha sistemato anche se stessa, Jude. La nostra tanto esaltata molteplicità culturale si scontra coi limiti genetici. Noi abbiamo sviluppato una gran quantità di culture, ma tutte si basano sulla necessità di mettere al sicuro la nostra specie. Non potremo appropriarci dei valori di una specie la cui biologia è contro la nostra e che naturalmente dovrà essere nostra nemica nella lotta per lo spazio vitale e per le risorse.»

«Non crede in una specie di confederazione galattica, in cui strani esseri s'incontrano con noi al bar per una bibita?»

«Come in Guerre stellari

«Sì.»

«Un film fantastico. No. Credo potrebbe funzionare solo dopo un periodo lungo, molto lungo, necessario per il superamento delle differenze, quando il nostro programma genetico avrà 'assorbito' lo scambio culturale con le altre specie.»

«Allora ho ragione! Quindi non dobbiamo cercare di capire gli yrr. Dobbiamo trovare una strada per lasciarci in pace a vicenda.»

«No, non ha ragione. Perché loro non ci lasceranno in pace.»

«Allora abbiamo perso.»

«Perché?»

«Non eravamo arrivati alla conclusione che umani e non umani non possono raggiungere un accordo?»

«Eravamo arrivati anche alla conclusione che i cristiani e i musulmani non avrebbero potuto raggiungere un accordo. Ascolti, Jude: non possiamo e non dobbiamo comprendere gli yrr. Ma dobbiamo concedere spazio anche a coloro che non comprendiamo. Il che è diverso dall'accettare incondizionatamente i valori dell'altra parte. La soluzione è nell'arretramento e, al momento, siamo noi a dover arretrare. Questa strada può funzionare. Non porta a una comprensione emotiva — quella non esiste -, ma a un diverso punto di vista. A una comprensione del mondo che diventa tanto più ampia quanto più ci allontaniamo dalla nostra specie, per trovare un distacco da noi stessi, senza il quale non saremmo in grado di spingere gli yrr a guardarci in modo diverso da come ci hanno guardato finora.»

«Non stiamo già arretrando? Anche solo il fatto che stiamo cercando un contatto con loro…»

«E che cosa si dovrebbe ottenere, ammesso che ci si riesca?»

Judith rimase in silenzio.

«Jude, mi confidi il suo segreto. Com'è possibile che la stimi tanto e nel contempo mi fidi così poco di lei?»

Si guardarono.

Dai tavoli arrivava il rumore delle altre conversazioni. Scorreva come un cavallone sul ponte e s'infrangeva con forza contro di loro. D'un tratto di levarono alcune grida, sempre più acute. Infine, dagli altoparlanti, risuonò una voce. «Allarme dei delfini! Attenzione! Allarme dei delfini!»

Judith abbassò per prima gli occhi, perdendo quel duello di sguardi. Girò la testa e guardò il mare nella semioscurità. «Mio Dio», sussurrò.

Il mare non era più avvolto nella semioscurità.

Aveva incominciato a splendere.


La nuvola blu

Le onde erano diventate fluorescenti. Isole blu scuro si levavano dagli abissi verso la superficie, si allargavano e si riversavano l'una sull'altra, come se il cielo si volesse rovesciare nel mare.

L'Independence scivolava nella luce.

«Se questa è la risposta al suo ultimo messaggio, deve proprio averli impressionati», disse Greywolf a Samantha, senza distogliere lo sguardo dallo spettacolo.

«È magnifico», sussurrò Alicia.

«Guardi!» gridò Rubin.

Sulle superfici luminose qualcosa si mosse. La luce iniziò a pulsare. Si formarono giganteschi vortici, si misero a ruotare dapprima lentamente, poi sempre più veloci, finché non somigliarono a galassie a spirale e a correnti blu. I centri s'ispessirono. Là in mezzo sembravano brillare migliaia di stelle, che poi tornavano a sparire…

Un lampo.

Dal ponte di volo giunsero delle grida.

Il quadro cambiò improvvisamente. Scariche accecanti attraversarono l'acqua e raggiunsero i vortici, che ruotavano all'impazzata. Sotto la superficie dell'acqua infuriava un temporale silenzioso. Un momento dopo, i vortici cominciarono ad allontanarsi dallo scafo dell'Independence e la nuvola blu si lanciò verso l'orizzonte a una velocità mozzafiato, scomparendo alla vista.

Greywolf fu il primo a scuotersi dall'incantesimo.

Corse verso l'isola.

«Jack!» Alicia gli corse dietro. Gli altri li seguirono. Greywolf raggiunse la scaletta di boccaporto, percorse a lunghe falcate il pianerottolo del settore di sicurezza ed entrò nel CIC, con Peak e Judith Li alle calcagna. Per qualche istante, i monitor collegati alle telecamere non mostrarono altro che l'acqua grigio scuro. Poi apparvero due delfini.

«Cos'è successo?» gridò Peak. «Che cosa dice il sonar?»

Uno degli uomini si girò. «Là fuori c'è qualcosa di grosso, signore. Qualcosa, non so… difficile da dire… in un certo senso…»

«Qualcosa? In un certo senso?» Judith Li afferrò l'uomo per le spalle. «Mi faccia rapporto, idiota! E sia preciso. Che succede là?»

L'uomo impallidì. «È… sono… sullo schermo non avevamo nulla e poi sono comparse quelle superfici. Sono arrivate dal nulla, lo giuro, l'acqua si è improvvisamente trasformata in una… sostanza. Si sono riuniti in una parete, in una… È ovunque…»

«I Cobra devono subito partire per un volo di ricognizione ad ampio raggio.»

«Cosa avete ricevuto dai delfini?» chiese Greywolf.

«'Forma di vita sconosciuta'», riferì un soldato. «L'hanno registrata prima che la vedessimo.»

«La localizzazione?»

«Ovunque. Si allontana. Ora è a un chilometro di distanza, arretra. Il sonar rileva ovunque massicce presenze.»

«Dove sono i delfini?»

«Sotto l'Independence, signore. Sono raggruppati davanti alle paratie. Credo che abbiano paura! Vogliono entrare.»

Il CIC si stava riempiendo di gente.

«Porti l'immagine del satellite sul monitor più grande», ordinò Peak.

Videro l'Independence dalla prospettiva del KH-12. Galleggiava sull'acqua scura. Non c'era traccia della luce blu e dei lampi.

«Un attimo fa, laggiù era tutto chiaro», disse l'uomo che si occupava delle analisi del satellite.

«Possiamo ricevere immagini da altri satelliti?»

«Al momento no, signore.»

«Okay. Allarghiamo la visuale col KH-12.»

L'uomo impartì i comandi e, qualche secondo dopo, sul monitor, l'Independence si rimpicciolì. Il satellite aveva aumentato la sezione. In tutte le direzioni si stendeva il mar di Groenlandia, color piombo. Dall'altoparlante arrivavano i fischi e i suoni dei delfini. Continuavano a segnalare la presenza di una forma di vita sconosciuta.

«Non basta ancora.»

Il KH-12 allargò ancora la visuale. Adesso l'obiettivo riprendeva una sezione di cento chilometri quadrati. L'Independence, che pure era lunga duecentocinquanta metri, là in mezzo sembrava una scheggia di legno.

Col fiato sospeso, tutti guardarono il monitor.

E videro.

A una notevole distanza si era formato un sottile cerchio blu luminoso, da cui partivano delle scariche.

«Quanto è grande quella cosa?» sussurrò Peak.

«Quattro chilometri di diametro», rispose la donna al monitor. «Addirittura un po' di più. Sembra una specie di tubo. Quello che vediamo dall'immagine del satellite è solo l'apertura, ma da lì si stende fino agli abissi. Siamo in una… voragine, per così dire.»

«E che cos'è?»

Johanson era comparso al loro fianco. «È gelatina, direi.»

«Ma brava», ansimò Vanderbilt, rivolto a Samantha. «Cosa diavolo ha mandato laggiù?»

«Li abbiamo esortati a farsi vedere», replicò lei.

«È stata una buona idea?»

Shankar si voltò verso di lui, seccato. «Volevamo prendere contatto o no? Di che si lamenta? Pensava che ci mandassero un messaggero a cavallo?»

«Stiamo ricevendo un segnale!»

Tutti si assieparono intorno all'uomo che sorvegliava le emissioni acustiche. Shankar lo raggiunse e si chinò sul monitor.

«Che cos'è?» gli gridò Samantha.

«Lo spettrogramma di un segnale scratch.»

«Una risposta?»

«Non so se…»

«Il cerchio si restringe!»

Tutte le teste si voltarono verso il grande schermo. Il cerchio luminoso aveva cominciato a muoversi lentamente verso la nave. Nel frattempo, due punti minuscoli si allontanavano dall'Independence. I due elicotteri da combattimento avevano iniziato la loro ricognizione. I fischi e i suoni provenienti dagli altoparlanti divennero più forti.

Tutti cominciarono a parlare contemporaneamente.

«Zitti!» sbraitò Judith Li. Con la fronte aggrottata, stava ascoltando i delfini. «Questo è un altro segnale.»

«Sì.» Anche Alicia ascoltava, con le palpebre abbassate. «Forme di vita sconosciute e inoltre…»

«Orche!»

«Diversi corpi di grandi dimensioni si stanno avvicinando dal basso», confermò la donna al sonar.

Greywolf guardò Judith Li. «Non mi piace. Dobbiamo riportare i delfini nella nave.»

«Perché proprio ora?»

«Non voglio rischiare la vita degli animali. Inoltre abbiamo bisogno delle immagini della telecamera.»

Judith Li esitò, poi disse: «Va bene. Li riporti dentro. Informo Roscowitz. Peak, prenda quattro uomini e accompagni O'Bannon nel ponte a pozzo».

«Leon, Licia, andiamo», li esortò Greywolf.

Uscirono in fretta e Rubin li seguì con lo sguardo. Poi si chinò all'orecchio di Judith Li e le sussurrò qualcosa. Lei lo ascoltò, annuì, quindi si girò verso i monitor.

«Aspettatemi», disse Rubin al gruppo che stava uscendo. «Vengo anch'io.»


Ponte a pozzo

Roscovitz raggiunse il ponte a pozzo ancor prima degli scienziati, accompagnato da Kate Ann Browning e da un altro tecnico. Quando vide il difetto del Deepflight, si lasciò sfuggire un'imprecazione. Non l'avevano ancora riparato. Galleggiava sull'acqua col portello d'ingresso aperto, assicurato solo con una catena che si tendeva sul ponte.

«Non dovrebbero aver già finito?» disse alla donna.

«Il problema è più complicato di quanto pensassimo», si giustificò lei, mentre correvano lungo il molo. «Il pilota automatico…»

«Merda.» Roscovitz fissò l'imbarcazione. Era proprio sopra la chiusa, che si delineava a quattro metri di profondità. «Questa faccenda sta cominciando a infastidirmi. Mi disturba sempre di più ogni volta che facciamo entrare e uscire quegli animali.»

«Con tutto il rispetto, signore, non disturba affatto e, quando avremo finito di ripararlo, lo riporteremo sul ponte.»

Roscovitz ringhiò qualcosa d'incomprensibile e poi si mise alla console di servizio. L'imbarcazione era proprio davanti al suo naso, cosicché, da quella prospettiva, lui non riusciva a vedere la chiusa sul fondo, che poteva essere controllata solo dalla zona dei monitor. Imprecò di nuovo, in modo ancora più colorito. L'Independence era stata attrezzata in fretta e il lavoro era stato svolto in maniera approssimativa! Perché diavolo i problemi dovevano saltar fuori solo all'atto pratico? A che cosa servivano i test nello spazio virtuale se non si riusciva a vedere la chiusa da dietro il batiscafo che galleggiava?

Altri passi risuonarono sul ponte dell'hangar. Greywolf, Alicia, Anawak e Rubin stavano scendendo la rampa, seguiti da Peak e dai suoi uomini. I soldati si divisero sui due lati della banchina. Rubin e Peak andarono da Roscovitz, mentre Greywolf e gli altri s'infilarono nelle tute di neoprene e indossarono le maschere.

«Fatto», annunciò Greywolf. Formò un cerchio col pollice e l'indice e ordinò: «Portiamoli dentro».

Roscovitz annuì e mise in funzione il richiamo automatico. Vide gli scienziati tuffarsi in acqua, illuminati dai proiettori subacquei. Si avvicinarono nuotando, poi, all'altezza della chiusa, s'immersero, l'uno dopo l'altro.

Allora aprì la paratia inferiore.

Alicia s'immerse verso gli strumenti sul bordo della chiusa. Stava ancora scendendo quando le imponenti lastre d'acciaio — poste tre metri al di sotto della copertura di vetro — presero a muoversi. Lei vide le lastre che si allontanavano, mostrando gli abissi marini. Due delfini scivolarono subito all'interno. Apparivano nervosi, e colpivano il vetro col muso. Greywolf fece segno di attendere ancora. Un altro delfino entrò nella camera di decompressione.

Nel frattempo, le paratie d'acciaio si erano completamente aperte e, sotto la cupola di vetro, si spalancava l'abisso. Alicia guardava nervosa nell'oscurità. Non si vedeva niente d'insolito. Niente luci, niente lampi, niente orche e neppure gli altri tre delfini. Scese ancora, finché non toccò con le mani la superficie di vetro, sempre scrutando alla ricerca dei delfini. Improvvisamente entrò un quarto animale, ruotò su se stesso e s'infilò nel bacino della chiusa. Greywolf annuì e Alicia diede il segnale a Roscovitz. Lentamente, le lastre d'acciaio si mossero, chiudendosi poi con un cupo rimbombo. All'interno della chiusa si misero al lavoro i sensori, che esaminarono l'acqua alla ricerca di sostanze inquinanti o contaminate. Dopo qualche istante, i sensori diedero via libera e trasmisero l'autorizzazione alla console di Roscovitz. Senza il minimo rumore, le paratie di vetro si aprirono.

Non appena si formò uno spiraglio sufficiente grande, gli animali scivolarono dentro, e furono ricevuti da Greywolf e Anawak.

Peak osservò Roscovitz mentre chiudeva la paratia di vetro. Il suo sguardo era fisso sui monitor. Rubin era andato sul bordo del bacino e scrutava la chiusa.

«Fuori ce ne sono ancora due», disse Roscovitz fra i denti.

Dagli altoparlanti uscivano i fischi e i suoni dei delfini ancora in mare. Diventavano sempre più nervosi. La testa di Greywolf comparve sulla superficie dell'acqua, poi emersero anche Leon e Alicia.

«Che dicono gli animali?» chiese Peak.

«Sempre la stessa cosa», rispose Greywolf. «Forma di vita sconosciuta e orche. Qualcosa di nuovo sui monitor?»

«No.»

«Non vuol dire niente. Prendiamo gli ultimi due.»

Peak sobbalzò. A partire dai bordi, avevano cominciato a risplendere di blu scuro. «Bisogna fare in fretta», disse. «Si sta avvicinando.»

Gli scienziati s'immersero e nuotarono verso la paratia. Peak chiamò il CIC. «Cosa vedete da lassù?»

«Il cerchio continua a stringersi», gracchio la voce di Judith Li dai box della console. «I piloti dicono che la struttura si sta immergendo, ma dalle immagini del satellite si vede ancora meglio. Sembra che voglia andare sotto la nave. Tra poco dovreste avere molta luce laggiù.»

«Ci sarà molta luce. Con cosa abbiamo a che fare? Con la nuvola?»

«Sal?» Era Johanson. «No, non credo che abbia una forma di nuvola. Le cellule si sono fuse. È un compatto tubo di gelatina e si contrae. Dovreste sbrigarvi.»

«Abbiamo quasi fatto. Roscovitz?»

«Apro la paratia», replicò subito l'altro.

Anawak era sospeso sopra la parete di vetro. Stavolta, quando le paratie d'acciaio si aprirono, fu completamente diverso. La prima volta, avevano guardato in un'oscurità grigio scuro. Ora gli abissi erano attraversati da una debole luce blu che aumentava lentamente d'intensità.

È diversa dalla nuvola, pensò. È come una luce diffusa. Ripensò alle riprese dal satellite che aveva visto nel CIC. All'apertura dell'imponente tubo nel cui centro c'era l'Independence.

Improvvisamente si rese conto che stava guardando proprio nell'interno del tubo e, al pensiero delle dimensioni di quella cosa gli si contrasse lo stomaco. Il terrore s'impadronì di lui. Di colpo, dal nulla, entrò nella chiusa il quinto delfino, e Anawak balzò indietro, dominando a fatica l'impulso di fuggire. Il delfino andò contro la copertura di vetro. Anawak si costrinse a star calmo. Un attimo dopo, anche il sesto delfino superò la paratia. Le lastre d'acciaio si chiusero, scivolando. I sensori analizzarono l'acqua, mandarono l'okay a Roscovitz e la paratia di vetro della chiusa si aprì.

Con un lungo balzo, Kate Ann saltò sul Deepflight.

«Che vuoi fare?» chiese Roscovitz.

«Gli animali sono dentro. E io faccio il mio lavoro, tutto qui.»

«Ehi, non mi sembra il momento adatto.»

«E invece lo è.» La donna si piegò sulle ginocchia e aprì un portello. «Adesso riparo questo maledetto affare.»

«Ci sono cose più importanti, Browning», sbottò Peak, irritato. «La smetta di fare i capricci.» Non riusciva a staccare gli occhi dai monitor. Stavano diventando sempre più luminosi.

«Sal, avete finito là sotto?» Era la voce di Johanson.

«Sì. Cosa vedete?»

«Il bordo del tubo scivola sotto la nave.»

«Quella sostanza ci può fare qualcosa?»

«Difficile. Non riesco a immaginare un organismo che riesca anche solo a far vacillare l'Independence. Neppure questa cosa. È una gelatina… gomma senza muscoli.»

«Ed è sotto di noi», disse Rubin dal bordo del bacino. Si girò. I suoi occhi luccicavano. «Apra ancora la paratia. Presto.»

«Come?» Roscovitz sgranò gli occhi. «È impazzito?»

Con pochi passi, Rubin gli fu a fianco. «Generale?» gridò nel microfono della console.

Il collegamento gracchio. «Che c'è, Mick?»

«Abbiamo la fantastica possibilità di prendere un bel po' di quella gelatina. Ho suggerito di riaprire la paratia, ma Peak e Roscovitz…»

«Jude, non possiamo correre il rischio», intervenne Peak. «Non siamo in grado di controllarla.»

«Ci limitiamo ad aprire la paratia d'acciaio e aspettiamo», borbottò Rubin. «Forse quell'organismo è curioso. Ne catturiamo qualche pezzo e poi richiudiamo la paratia. Una bella porzione di materiale per la ricerca, che ne pensa?»

«E se è contaminata?» chiese Roscovitz.

«Oddio, quanti dubbi! Lo scopriremo, no? Naturalmente terremo chiusa la copertura di vetro finché non saremo certi che è tutto a posto!»

Peak scosse la testa. «Non mi sembra una buona idea.»

Rubin strabuzzò gli occhi. «Generale, questa è un'occasione unica.»

«Okay», disse Judith Li. «Ma siate prudenti.»

Peak sembrava contrariato. Rubin sorrise, si avvicinò al bordo del bacino e gesticolò. «Ehi, finitela», gridò a Greywolf, Anawak e ad Alicia, impegnati a togliere le bardature agli animali. «Fate…» Non potevano sentirlo. «Ah, non fa niente. Forza, Roscovitz, apra quella maledetta paratia. Non può succedere nulla finché la copertura di vetro rimane chiusa.»

«Non sarebbe meglio aspettare finché…»

«Non possiamo aspettare», lo interruppe Rubin. «Ha sentito che cos'ha detto il generale Li. Se aspettiamo, sparirà. Faccia entrare un po' di gelatina nella chiusa e poi chiuda. Me ne basta un metro cubo.»

Stronzo arrogante, pensò Roscovitz. Avrebbe voluto gettare Rubin in acqua, ma quel bastardo aveva l'autorizzazione di Judith Li.

Era stata lei a dare l'ordine.

Premette il pulsante della paratia.

Alicia era impegnata con un esemplare particolarmente agitato. Mentre cercava di togliergli la telecamera, il delfino era scappato e si era immerso verso la chiusa, trascinandosi dietro la bardatura. Lo vide nuotare in cerchio sopra la copertura di vetro e lo seguì con potenti bracciate.

Così non sentì nulla di quanto si diceva in superficie.

Che cos'hai? pensò. Vieni qui. Non devi avere paura.

Poi vide cosa stava succedendo.

Per un momento fu così sbalordita che smise di nuotare e sprofondò finché le sue dita non toccarono il vetro. La paratia, sotto di lei, si stava aprendo. Il mare splendeva di un blu intenso ed era attraversato da scariche simili a fulmini.

Che diavolo sta facendo Roscovitz? Perché apre?

Il delfino girava come un pazzo sopra la chiusa. Venne verso di lei e le diede una spinta. Evidentemente cercava di spostarla in là. Ma, dato che Alicia non reagiva, fece una piroetta e scappò via.

Lei fissava l'abisso luminoso.

Cosa c'era laggiù? Scorse alcune ombre indistinte che scivolavano, poi una chiazza che si avvicinava e diventava più grande.

Si avvicinava molto velocemente.

La macchia prese forma, diventando una figura.

Improvvisamente Alicia comprese che cosa si stava scagliando contro la nave. Riconobbe il corpo gigantesco con la fronte nera e la parte inferiore bianca, i denti disposti in file uguali tra le labbra semiaperte. Era il più grande esemplare che avesse mai visto. Risaliva in verticale dagli abissi a una velocità altissima e sembrava ancora in accelerazione. Di certo non si sarebbe scansato, era ovvio. I pensieri nella testa di Alicia si accavallavano. Nel giro di qualche secondo, la donna mise insieme tutto ciò che sapeva. Che le paratie di vetro erano spesse e robuste, ma insufficienti a reggere l'impatto di una bomba vivente. Che quell'animale doveva essere lungo almeno dodici metri e che poteva catapultarsi verso l'alto con una velocità massima di cinquantasei chilometri all'ora.

Che era troppo veloce.

Fece un disperato tentativo di allontanarsi.

L'orca si schiantò contro la copertura di vetro con la stessa violenza di un siluro. L'onda d'urto fece roteare Alicia su se stessa. La donna venne investita dai frammenti dell'intelaiatura d'acciaio e dalle schegge di vetro e scorse il ventre bianco dell'orca che, praticamente illesa, si sollevava oltre la cupola di vetro distrutta. Poi qualcosa la colpì tra le scapole. Alicia gridò, si ribaltò e smarrì il senso dell'orientamento.

Fu presa dal panico.

Roscovitz ebbe appena il tempo di afferrare la situazione. Quando l'orca sfondò la paratia, il molo prese a rimbombare, tremando sotto i suoi piedi. Una gigantesca montagna d'acqua sollevò il Deepflight. Vide Kate Ann barcollare, mulinando le braccia. Per un momento, l'orca sembrò reimmergersi, poi riprese velocità, saltando da ferma.

«La paratia!» gridò Rubin. «Chiuda la paratia!»

La testa dell'orca colpì il batiscafo, lanciandolo verso alto. I supporti delle catene saltarono. Kate Ann fu scagliata in aria, si schiantò contro il quadro di comando, colpì Roscovitz in pieno petto e lo fece cadere all'indietro, mandandolo a sbattere contro la parete dell'hangar. Peak venne trascinato via insieme con lui.

«Il batiscafo!» Rubin strillava. «Il batiscafo!»

Con la fronte che sanguinava, Kate Ann cadde in acqua. Sopra di lei, c'era la poppa del Deepflight. Il batiscafo si riempì d'acqua e affondò nel giro di qualche secondo. Roscovitz si rialzò a fatica e cercò di raggiungere il quadro di comando, ma udì un sibilo. La catena strappata stava schizzando verso di lui, come una frusta. Cercò freneticamente di evitarla, ma sentì che un'estremità gli sfiorava la tempia. Poi la catena gli si attorcigliò intorno alla gola. Non riusciva più a respirare.

Fu trascinato in avanti e scivolò oltre il bordo.

Greywolf era troppo lontano per capire cosa aveva provocato la catastrofe e, dato che si trovava in acqua, non percepì la scossa. Ma vide che il batiscafo era stato strappato dal suo supporto e osservò quello che stava succedendo a Kate Ann e a Roscovitz. Vicino al quadro di comando, Rubin gesticolava e urlava. Da qualche parte dietro di lui apparve la testa di Peak. I soldati avevano imbracciato le armi e correvano verso il luogo della disgrazia.

Poi cercò freneticamente Alicia. Anawak gli stava di fianco, ma nemmeno lui riusciva a vedere la donna.

«Licia!»

Nessuna risposta.

«Licia!»

Il suo cuore venne serrato da una morsa gelida. Con un tuffo potente s'immerse e nuotò velocemente verso la paratia.

Alicia stava nuotando nella direzione sbagliata. Aveva un terribile dolore alla schiena e temeva di affogare. Improvvisamente si ritrovò davanti alla chiusa. Le due metà della copertura di vetro erano infrante e la paratia di acciaio si stava chiudendo. Oltre la chiusa, il mare era luminoso.

Si girò sulla schiena.

Oh, no!

Il Deepflight stava arrivando verso di lei coi portelli aperti, la prua in avanti. Affondava come un sasso. Alicia sbatté i piedi con tutte le forze, consapevole che il batiscafo rischiava di colpirla. Vide i bracci meccanici ripiegati avvicinarsi sempre più e si allungò come una lontra, ma non fu sufficiente. La prese in pieno. Lei sentì le costole rompersi, aprì la bocca, gridò e ingoiò altra acqua. L'imbarcazione la spingeva verso il fondo, attraverso la chiusa e poi nel mare aperto. Il freddo le penetrò fin nelle ossa. In uno stato di semincoscienza, vide la paratia d'acciaio cozzare con un rumoroso clonc contro il Deepflight, bloccandosi. Il batiscafo si era incastrato. Lei, invece, continuava a sprofondare. Allungò le braccia e cercò di aggrapparsi all'imbarcazione, ma le dita scivolarono. Non aveva più forza e i polmoni erano in fiamme. Chissà quante costole si era rotta… Per favore, voglio tornare indietro. Tornare alla nave. Non voglio morire, pensò.

Da qualche parte, tra la paratia bloccata e l'imbarcazione, scorse il volto di Greywolf. Ma ormai la salvezza era un'utopia, un bel sogno.

Qualcosa di scuro, di grande, la aggredì sul fianco. Fauci spalancate, file di denti conici tutti uguali.

Il morso dell'orca le spaccò la cassa toracica.

Non vide la massa luminosa scivolarle di fianco. Quando l'organismo entrò nella paratia, Alicia Delaware era già morta.

Per la rabbia, Peak vibrò un pugno possente sul quadro di controllo. Il suo tentativo di chiudere la paratia era fallito. Il Deepflight si trovava in mezzo ai due pannelli d'acciaio. C'erano solo due possibilità: o avrebbero continuato a chiudersi, distruggendo il batiscafo, oppure qualcosa — chissà cosa — sarebbe entrato nella nave.

Kate Ann non si vedeva più. Roscovitz oscillava, appeso alla catena, con le gambe nell'acqua e le mani attaccate al collo.

Dov'era quella maledetta orca?

«Sal!» urlò Rubin.

L'acqua ribolliva e schiumava. I soldati correvano da una parte all'altra, incerti. Greywolf si era immerso. Di Anawak non c'era traccia. E Alicia? Cos'era successo ad Alicia?

Qualcuno gli si avvicinò.

«Sal, maledizione!» Rubin lo strappò via dalla console. Le sue mani corsero sulla tastiera, schiacciando freneticamente tasti e bottoni. «Perché non chiude quella maledetta paratia?»

«Stupido idiota!» gridò Peak. Poi sollevò il braccio e gli sferrò un pugno in pieno volto. L'altro vacillò e cadde in acqua, fra alti spruzzi. In mezzo alla spuma, Peak vide salire la pinna dorsale dell'orca. Si dirigeva verso di loro.

Rubin riemerse dai flutti, sputacchiando.

Anche lui vide la pinna. E cominciò a gridare.

Peak spinse il bottone per aprire la paratia d'acciaio e lasciare così che il Deepflight sprofondasse negli abissi.

Doveva accendersi una spia.

Non accadde nulla.

Greywolf credeva d'impazzire.

Sotto l'Independence c'erano delle orche. Uno degli animali aveva afferrato il corpo di Alicia e l'aveva trascinato via. Senza riflettere, Greywolf nuotò attraverso una fessura della paratia incastrata e vide che qualcosa stava risalendo dagli abissi. Davanti ai suoi occhi si accesero lampi e scariche. Poi fu colpito da quello che sembrava un pugno gigantesco e scaraventato all'indietro. Alla sua sinistra, Anawak apparve e scomparve subito. Quindi Greywolf scorse due gambe che si muovevano freneticamente e un corpo che schizzava verso di loro. Un ventre bianco… Era l'orca, che stava passando sopra di lui a tutta velocità. Poi di nuovo la paratia col batiscafo incastrato…

E la cosa che si stava intrufolando dalla paratia aperta.

Sembrava il tentacolo di un polpo enorme. Ma non esisteva un polpo dotato di un simile tentacolo. Nessun polpo era grande a sufficienza per avere un tentacolo di tre metri di diametro. Una massa senza forma entrò nel ponte a pozzo, velocissima, sempre più grande. Un muscolo gelatinoso che, non appena superata la chiusa, si ramificò in fasci sottili, sulla cui superficie liscia splendevano lucenti decorazioni.

Rubin nuotava per salvarsi la vita.

La pinna lo seguiva. Ansimando e sputando raggiunse il molo e, preso dal panico, cercò di tirarsi su. Ma le braccia non avevano abbastanza forza. Sentì dei colpi, finì di nuovo sott'acqua e si trovò di fronte uno spettacolo incredibile. Si rese conto che il suo desiderio era stato esaudito: l'organismo sconosciuto era entrato a bordo. Ma in circostanze completamente diverse da quelle che si era aspettato.

Ovunque c'erano tentacoli lucenti. Spessi come tronchi.

E, in mezzo, c'erano le fauci spalancate dell'orca.

Rubin riemerse. Di fianco a lui, c'erano due gambe che frustavano l'acqua. Appartenevano a Roscovitz, che lo guardò con occhi disperati. Sembrava appeso a una forca e cercava di liberarsi la gola dalla catena.

Dalle sue labbra uscì uno spaventoso gorgoglio.

Oddio, pensò Rubin. Dio misericordioso! Là c'era la pinna, l'aveva quasi raggiunto. Si girò…

L'orca emerse in una montagna di schiuma, con la bocca spalancata. Le gambe di Roscovitz scomparvero. La mascella si serrò. Per un attimo l'animale sembrò immobile a mezz'aria, poi ricadde…

Il busto di Roscovitz pendeva sull'acqua, colando sangue, e Rubin non riusciva a staccare lo sguardo da quel pezzo di carne. Sentì un grido. E poi capì che era lui a gridare.

Gridava e gridava.

E là c'era ancora la pinna.


Combat Information Center

Judith Li non credeva ai suoi occhi. Nel giro di pochi secondi, nel ponte a pozzo era scoppiato l'inferno. Attonita, vide Peak correre sul molo, i soldati sparare alla cieca nell'acqua e il corpo maciullato di Roscovitz.

«Stabilire il contatto radio», ordinò.

La centrale di comando risuonò di urla e spari. Sui volti dei presenti si leggeva un orrore indicibile. Tutti cominciarono a parlare e il caos nel ponte a pozzo si specchiò in quello nel CIC. Judith rifletté febbrilmente sul da farsi. Mandare rinforzi, naturalmente. Con colpi esplosivi, stavolta. Perché continuano a sparare con munizioni convenzionali?

Doveva riprendere il controllo.

Sarebbe andata lei stessa.

Senza dire una parola, corse nel vicino LFOC. In caso di guerra, serviva come centrale di comando per le operazioni anfibie. Da lì, si potevano riempire o svuotare le cisterne di zavorra e, in caso si fosse perso il controllo del ponte a pozzo, era possibile aprire il portello di poppa. Ma dal LFOC non si potevano controllare le paratie sul pavimento: un altro stupido errore nell'allestimento frettoloso dell'Independence.

Si rivolse al personale, terrorizzato, ordinando: «Svuotare le otto cisterne di zavorra. Prosciugare la poppa». Poi rifletté. La paratia sul fondo del ponte a pozzo era aperta o chiusa? L'acqua poteva scorrere via? A giudicare dall'inferno che si vedeva sui monitor non c'erano dubbi. In genere era sufficiente sollevare la poppa della nave per far defluire all'esterno l'acqua del porto artificiale, attraverso le paratie aperte o attraverso il portellone di poppa sollevato. Se entrambi erano bloccati, c'era il sistema di pompaggio di emergenza. Ci voleva un po' più di tempo, ma il risultato era il medesimo.

Judith Li diede l'ordine di mettere in funzione le pompe e tornò di corsa nel CIC.


Ponte a pozzo

La paratia non reagiva e Peak non aveva tempo d'indagare perché. Ansimando, corse verso un armadio pieno di armi e prese un arpione con capsula esplosiva. I soldati sparavano all'impazzata nell'acqua. Attraverso la paratia aperta stava entrando qualcosa di enorme, una specie di polpo che si muoveva appena sotto la superficie. E poi c'era l'orca, che aveva strappato le gambe a Roscovitz.

Con la coda dell'occhio, vide Rubin che usciva dall'acqua. Ne fu sollevato e dispiaciuto nel contempo. Odiava quell'uomo, però non avrebbe dovuto perdere il controllo e spingerlo in acqua. La vita di Rubin doveva essere protetta a ogni costo. Bisognava portare a termine il compito.

La pinna era lontana dal molo. Più indietro, stavano nuotando Anawak e Greywolf, diretti dalla parte opposta. Alcuni tentacoli luminosi li seguivano, ma in verità quelle cose erano ovunque e si stendevano in tutte le direzioni. Evidentemente l'orca aveva preso di mira i due fuggitivi.

Doveva far fuori quell'animale prima che uccidesse di nuovo.

Improvvisamente, Peak riacquistò una calma assoluta. Adesso sapeva come agire. Anzitutto doveva liquidare quella massa di carne coi denti. Il resto poteva aspettare.

Sollevò l'arpione e prese la mira.

Anawak vide l'orca avvicinarsi. L'acqua del bacino artificiale schiumava e ribolliva, come se avesse vita propria. Era una massa blu, piena di tentacoli, che l'orca attraversava per avventarsi contro di loro.

Apparve la testa nera e l'animale respirò, con un colpo violento. Era a pochi metri di distanza. Non ce l'avrebbero fatta ad arrivare al molo, poco ma sicuro. Dovevano fare qualcosa. Durante l'attacco delle orche a Clayoquot Sound, Greywolf era arrivato al momento giusto con la sua barca, ma adesso lui era nella stessa situazione di Anawak. Dovevano ingannare l'orca.

Il cetaceo s'immerse.

«Lasciamola passare!» gridò Anawak a Greywolf.

Non molto preciso, pensò. Non sapeva se Greywolf avesse capito. Ma era troppo tardi per le spiegazioni.

Anawak prese fiato e s'immerse.

Peak imprecò.

La bestia era sparita e ora non si vedevano più nemmeno Greywolf e Anawak. Continuò a correre sul molo, alla ricerca del corpo massiccio, ma il bacino si era trasformato in un surreale inferno in movimento, in cui la luce, le forme indefinite e la schiuma spruzzata confondevano la visuale. Davanti a lui, c'era un soldato che sparava contro quelle cose serpentine in acqua, ma invano.

«La smetta!» Peak spinse l'uomo in direzione del quadro di controllo. «Dia l'allarme. Cerchi di aprire la paratia e di disincagliare il batiscafo.» Perlustrò con lo sguardo la superficie dell'acqua. «E poi chiuda quelle maledette paratie.»

Il soldato smise di sparare e corse via.

Peak si avvicinò al bordo del molo e socchiuse le palpebre, stringendo l'arpione.

Dov'era quell'orca?

Non si vedeva più.

In compenso si scorgevano masse tremolanti e attorcigliate, luci blu e bianche. Per Anawak, che si era lasciato sprofondare sott'acqua, il rumore intenso si era trasformato in un fruscio. Aveva vicino Greywolf. Dalla sua bocca uscivano bolle d'aria. Anawak l'aveva trascinato con sé e lo teneva ancora per il braccio. Non sapeva se la sua idea avrebbe funzionato, ma in superficie sarebbero stati comunque spacciati.

Qualcosa guizzò verso di loro: sembrava un gigantesco serpente senza testa, traslucido, di colore blu e attraversato da pulsanti striature luminose. Dal corpo centrale si dipartivano centinaia di tentacoli sottili come fruste, che schiaffeggiavano il fondo del bacino. Anawak comprese che quell'essere stava esaminando l'ambiente. Mentre osservava quella scena — atterrito e affascinato nel contempo -, dal corpo di serpente sbucarono altri tentacoli, che si diressero verso di lui.

In mezzo a essi sbucò la bocca spalancata dell'orca.

In Anawak avvenne una trasformazione. Una calma assoluta calò su di lui. Cominciò a porsi delle domande. Fino a che punto l'aggressore era ancora un cetaceo? Fin dove si spingeva il controllo esercitato dalla gelatina? Cosa dovevano aspettarsi da un essere vivente che non agiva più secondo la propria natura, ma spinto da una coscienza esterna che si era impossessata di lui? Doveva considerare l'orca come una parte della massa lucente, non più come un animale caratterizzato da riflessi naturali. Ma forse quello era un vantaggio. Forse potevano disorientarlo.

L'orca si avvicinava con la velocità di una freccia. Anawak si scansò, diede una spinta a Greywolf e lo vide allontanarsi nella direzione opposta. Evidentemente aveva compreso l'intento dell'amico. L'animale sfrecciò in mezzo a loro.

Avevano guadagnato qualche secondo.

Senza dedicare neppure uno sguardo all'orca, Anawak nuotò in mezzo al groviglio di tentacoli.

Carponi sul molo, Rubin boccheggiava. Un soldato gli passò vicino di corsa e si diresse al quadro di controllo. Gettò un'occhiata agli strumenti, si orientò e schiacciò il pulsante per aprire la paratia d'acciaio.

Il sistema era bloccato.

Come qualsiasi altro militare imbarcato, anche lui era stato istruito sul funzionamento di tutti i sistemi della nave. L'immagine della donna scaraventata contro il quadro di controllo si era impressa nella sua mente. Si chinò e osservò attentamente il pulsante.

Era bloccato. Piegato da una parte, forse per via del colpo datogli da Kate Ann. Non c'era molto altro da fare. Lo colpì col calcio del fucile.

Il pulsante scattò.

Anawak scivolava in un mondo sconosciuto.

Intorno a lui si stendevano cortine di sottili tentacoli. Non era sicuro che fosse stata una buona idea nuotare in mezzo a quel groviglio, ma la questione era ormai oziosa. Forse la gelatina avrebbe reagito in maniera aggressiva, forse no. Probabilmente quella sostanza era anche contaminata. In quel caso sarebbero morti tutti comunque.

Ma, almeno per il momento, l'orca avrebbe faticato a trovarlo.

I tentacoli luminescenti si piegarono nella sua direzione. Tutto si mosse. Poi l'intreccio divenne più fitto e lui sentì una di quelle cose a forma di frusta sfiorargli il viso.

Si spostò di lato.

Altre fruste serpeggiarono verso di lui, toccandolo. Nella testa sentiva un rombo pulsante. I polmoni gli facevano male. Doveva trovare subito il modo per riemergere, altrimenti poteva anche arrendersi a quella sostanza.

Afferrò la massa con entrambe le mani e la divise. Era come combattere con un fascio di serpenti. Quell'organismo somigliava a un muscolo molto flessibile e in costante metamorfosi. I tentacoli che un attimo prima l'avevano avvolto si deformavano, si ritiravano e rientravano nella grande massa, da cui, nello stesso istante, nascevano altre estremità. Quella cosa era del tutto imprevedibile. Ed evidentemente aveva un debole per Leon Anawak.

Doveva uscire da lì.

Gli scivolò vicino un corpo affusolato ed elegante.

Un muso sorridente. Uno dei delfini. D'istinto, Anawak afferrò la sua pinna dorsale e il delfino, senza la minima esitazione, volò fuori dalla massa di tentacoli e lo trascinò con sé. Anawak si aggrappò e vide l'orca arrivare a tutta velocità. Dietro di loro, le gigantesche mascelle si chiusero, mancandoli per un soffio. Un attimo dopo, il delfino ruppe la superficie dell'acqua e si fermò sulla sponda artificiale.

Il soldato schiacciò il pulsante.

Era stata una riparazione di emergenza però aveva funzionato. Le paratie d'acciaio si misero lentamente in movimento e liberarono il batiscafo, che ricominciò a sprofondare, passando a fianco dell'organismo che s'infilava nella paratia. Il Deepflight uscì dalla nave e sparì negli abissi marini.

Per un istante, al soldato venne il dubbio che forse sarebbe stato meglio lasciare aperta la paratia, ma gli ordini che aveva ricevuto erano diversi. Doveva chiuderla, quindi lo fece. Stavolta non c'era il batiscafo a bloccarla. Le lastre, spinte dal potente motore della chiusa, scivolarono nell'organismo spesso come un albero e lo schiacciarono.

Peak sollevò l'arpione.

Aveva appena visto Anawak. Sembrava che l'orca l'avesse preso, ma poi l'uomo ricomparve, mentre l'animale si allontanava dalla parte opposta. I soldati spararono alla schiena nera e l'orca s'immerse.

L'avevano eliminata?

«La paratia si chiude», gridò il soldato dal quadro di controllo.

Peak sollevò una mano per fargli segno che aveva capito e si mosse lungo il molo. Esplorava con lo sguardo la parte opposta. Contro quella cosa tentacolare, i colpi di mitra non servivano, e lui non si fidava a sparare un proiettile esplosivo nella gelatina. Nel bacino c'erano ancora delle persone.

Si avvicinò al bordo.

Greywolf aveva seguito l'esempio di Anawak e si era messo a nuotare tra i tentacoli. Nuotò con tutte le forze verso la parte opposta del bacino. Dopo alcuni metri, trovò la strada bloccata dalla massa dell'organismo e fu costretto a cambiare direzione.

Aveva perso l'orientamento.

I tentacoli si avvolgevano intorno alle sue spalle. Greywolf sentiva crescere dentro di sé il disgusto. Era stravolto. Sulla retina aveva impressa per l'eternità la sequenza delia morte di Alicia, simile a un film che continuava a ripetersi. Spinse lontano da sé i tentacoli della gelatina, si districò e cercò di uscirne.

Improvvisamente nuotò sopra la chiusa. Il batiscafo era sparito. Vide che le paratie si stavano chiudendo sul tessuto gelatinoso, che venne tranciato.

La reazione dell'essere fu impressionante.

E non gli piacque.

Un'ondata investì Peak. Davanti a lui c'era l'orca. Troppo sorpreso per provare paura, Peak guardò le fauci rosa e barcollò all'indietro. Sembrava che tutto il ponte fosse in movimento. L'organismo si era scatenato. Giganteschi serpenti impazziti si attorcigliavano fin sulla riva artificiale, colpivano le pareti e spazzavano il molo. Peak sentì i soldati urlare e sparare, vide corpi che schizzavano in aria e poi sparivano nel bacino. Qualcosa lo colpì alle gambe, facendolo cadere sulla schiena. L'aria gli uscì di colpo dai polmoni. L'orca si ribaltò su di lui. Peak gemette, ma strinse ancora di più l'arpione mentre veniva trascinato nel bacino.

Sprofondò in un vortice di bolle d'aria. Le sue gambe erano infilate in una luccicante massa blu. La colpì con l'arpione e la presa si sciolse. Sopra di lui, l'orca ricadde in acqua. Un'imponente ondata lo colpì e lo fece girare più volte su se stesso. Vide le file di denti nelle fauci spalancate dell'orca a meno di un metro da lui, le infilò l'arpione in bocca e sparò.

Per un attimo, tutto sembrò immobile.

Dalla testa dell'orca uscì una sorda detonazione. Non fu particolarmente rumorosa, ma colorò il mondo di rosso. Peak fu spinto indietro in una massa di sangue e brandelli di carne. Fece un salto, finì contro la parete laterale e, in un unico movimento circolare, riuscì a risollevarsi sul molo. Poi, strisciando sulla pancia, si allontanò dal bordo. C'era sangue ovunque. Chiazze rosse si mischiavano con tessuto grasso e frammenti di ossa. Cercò di rialzarsi, ma scivolò e ricadde. Un dolore acuto lo attraversò. Il suo piede sinistro era piegato a un angolo innaturale che non lasciava presagire niente di buono, ma al momento non gli interessava.

Fissava incredulo la scena davanti a lui.

L'organismo sembrava in preda a una furia incontenibile. I tentacoli frustavano selvaggiamente in tutte le direzioni. Gli scaffali cadevano, le attrezzature volavano in aria. A correre sul molo, sparando, era rimasto un unico soldato, ma poi uno dei tentacoli lo trascinò in acqua. Peak vide una struttura semitrasparente muoversi verso di lui e si chinò. Ma non era né un serpente né un tentacolo… Era una cosa che non aveva mai visto. Con gli occhi spalancati, Peak fissò le punte della struttura che si trasformavano, volando verso di lui. Per un attimo esse presero la forma di un pesce e poi si divisero, guizzando, in vari fili. Sembrava che nel bacino si fossero improvvisamente materializzati degli animali: pinne dorsali spuntavano e poi sparivano, teste deformate sollevavano le loro fauci… Si trattava di esseri gibbosi e non definiti, che poi perdevano la loro forma e ricadevano in acqua, come grumi.

Peak si strofinò gli occhi. Era un'allucinazione, oppure l'acqua si stava davvero abbassando? Il rombo dei motori si mescolava al rumore generale, ma infine lui comprese: stavano svuotando il bacino! L'acqua veniva spinta fuori dalle cisterne di zavorra. La poppa dell'Independence si sollevava impercettibilmente e il contenuto del bacino artificiale ritornava in acqua. I tentacoli che frustavano in tutte le direzioni si ritirarono. D'un tratto, l'essere era di nuovo completamente sommerso. Appoggiandosi alla parete, Peak si sollevò, caricò il peso sul piede sinistro e si piegò. Prima che potesse cadere, due mani lo afferrarono.

«Preso», esclamò Greywolf.

Peak si aggrappò alle spalle del gigante e cercò di muoversi, zoppicando. Benché non fosse piccolo, vicino a Greywolf si sentiva mingherlino e impotente. Emise un gemito. Greywolf lo sollevò con decisione e lo portò lungo il molo verso la sponda artificiale.

«Si fermi», ansimò Peak. «Può bastare. Mi lasci.»

Greywolf lo depose delicatamente a terra. Si trovavano davanti al tunnel che conduceva al laboratorio. Da lì si poteva vedere tutto il bacino. Peak si rese conto che le pareti del delfinario erano tornate visibili. Le pompe continuavano a rimbombare. Ripensò alle persone nel bacino, probabilmente tutte morte, ai soldati, ad Alicia Delaware e a Kate Ann Browning…

Ad Anawak!

Scrutò con ansia nell'acqua. Dov'era Anawak?

Anawak riemerse, sputacchiando. Greywolf balzò verso di lui e lo aiutò a tornare all'asciutto. Rimasero a fissare l'acqua, che continuava ad abbassarsi. Ormai potevano riconoscere un grande essere che emetteva una luce blu intensa e perlustrava il bacino come se stesse cercando una via d'uscita. La sua forma ricordava una balena sottile o un serpente marino schiacciato. Sul suo corpo non c'erano più lampi luminosi e dalla massa non uscivano più tentacoli. Nuotava in ogni angolo, serpeggiava lungo le pareti, cercava velocemente e sistematicamente una via d'uscita che non c'era.

«Maledetto animale di merda!» gemette Peak. «Adesso ti togliamo l'acqua.»

«No. Dobbiamo salvarlo.»

Era la voce di Rubin. Peak si voltò e vide il biologo sbucare dal tunnel. Tremava e si stringeva le mani al petto, ma nei suoi occhi era tornata a splendere la luce apparsa nel momento in cui aveva proposto di far entrare la gelatina nella nave.

«Salvarlo?» gli fece eco Anawak.

Rubin si avvicinò con passo incerto. Scrutava il bacino, in cui la creatura girava in tondo sempre più velocemente. Lo specchio d'acqua era al massimo a due metri. L'essere si allargò per ridurre l'altezza.

«È una possibilità unica», disse. «Non capite? Dobbiamo decontaminare il simulatore di profondità marine, portare fuori i granchi, mettere dentro acqua pulita e infilarci la maggior quantità possibile di questa cosa. È molto meglio dei granchi. Così possiamo…»

Con un balzo, Greywolf gli fu di fronte, gli mise le mani alla gola e cominciò a stringere. Il biologo spalancò gli occhi e la bocca, facendo uscire la lingua.

«Jack!» Anawak cercò di trattenerlo. «Smettila!»

Peak si rialzò, a fatica. Il piede sinistro non era rotto, ma gli faceva un male d'inferno. Riuscì ad avanzare solo di un passo. Ma doveva fare qualcosa per quel bastardo, che gli piacesse o no. «Jack, non serve a niente», gridò. «Lo lasci.»

Greywolf sollevò Rubin, il cui volto cominciava a diventare bluastro.

«Può bastare, O'Bannon!» Judith Li uscì dal tunnel, accompagnata da alcuni soldati.

«Lo ammazzo», disse Greywolf. Sembrava tranquillissimo.

Judith Li si avvicinò a Greywolf e gii strinse il polso destro. «No, O'Bannon, non lo farà. Non m'interessa quale conto in sospeso abbia con Rubin. Il suo lavoro è importante.»

«Ora non più.»

«O'Bannon! Non mi metta nella sgradevole situazione di doverle fare del male.»

Greywolf la fulminò con lo sguardo, ma poi comprese che il generale Li stava dicendo sul serio, così posò lentamente Rubin a terra e gli tolse le mani dalla gola. Il biologo cadde sulle ginocchia, rantolando. Annaspava e sputava.

«Licia è morta a causa sua», mormorò Greywolf in tono gelido.

Judit Li annuì. Improvvisamente l'espressione del suo volto cambiò. «Jack», disse, quasi dolcemente. «Mi dispiace. Le prometto che la sua morte non sarà inutile.»

«Morire è sempre inutile», rispose Greywolf, impassibile. Poi si voltò. «Dove sono i miei delfini?»

Judith Li avanzava lungo il molo coi suoi uomini. Peak era un idiota. Perché non aveva armato i soldati con colpi esplosivi? Non si poteva forse prevedere una cosa del genere? Sciocchezze! Era esattamente quello che aveva previsto. Una montagna di problemi. Non sapeva in che modo si sarebbero presentati, ma sapeva che ci sarebbero stati. Lo sapeva già prima che gli scienziati arrivassero allo Château, e aveva adottato le opportune contromisure.

Nel bacino era rimasta solo qualche pozzanghera. Lo spettacolo era impressionante. Direttamente sotto i loro piedi, a quattro metri di profondità, c'era il cadavere dell'orca. Dove prima si trovava la testa, ora si allargava una fanghiglia rossa. Un po' più in là, c'erano i corpi immobili di alcuni soldati. I delfini erano soltanto tre. Probabilmente gli altri, spinti dal panico, avevano lasciato la nave quando le paratie erano ancora aperte.

«Che schifo», disse Judith Li.

La cosa senza forma nel mezzo del bacino si muoveva appena. Aveva assunto un colore bianchiccio. Sui bordi, dove la poca acqua rimasta lambiva la massa, si formavano corti tentacoli, che strisciavano sul fondo come serpi. Quell'essere stava morendo. La sua capacità di cambiare forma e di buttar fuori tentacoli era stata impressionante, ma ora le sue condizioni erano disperate. La parte superiore della massa gelatinosa mostrava i primi segni di decomposizione. Da essa gocciolava un liquido chiaro, limpido come l'acqua.

Judith Li ricordò che quel colosso incagliato non era un unico essere, bensì un conglomerato di miliardi di organismi unicellulari che stavano perdendo la loro coesione. Rubin aveva ragione. Dovevano portarne al sicuro la maggiore quantità possibile. E dovevano agire in fretta, prima che fosse troppo tardi.

Senza dire una parola, Anawak si mise al suo fianco. Judith Li continuava a esaminare il bacino. Non fece caso al corpo penzolante di Roscovitz o, meglio, a ciò che ne restava. Con la coda dell'occhio, percepì un movimento sul fondo della vasca, andò al fondo del molo e scese lungo una scaletta. Anawak la seguì. Qualcosa aveva attirato la loro attenzione, qualcosa che si sottraeva al loro sguardo. Passarono a rispettosa distanza dal torso che aveva iniziato a diffondere uno sgradevole odore e sentirono gridare dalla parte opposta. Poi corsero intorno alla massa e quasi inciamparono in Kate Ann Browning.

La donna aveva gli occhi sbarrati ed era semisommersa dalla massa che si stava sciogliendo.

«Mi aiuti», disse Anawak a Judith Li.

Tirarono fuori la donna. La sostanza si staccava a fatica dalle sue gambe. A Judith Li quel corpo sembrava insolitamente pesante. Il viso splendeva, come se fosse laccato. Lei si chinò per osservare meglio.

Il busto di Kate Ann si sollevò.

«Merda!» Judith Li balzò indietro, mentre il volto della donna si deformava, come se lei fosse stata colta da un attacco epilettico. Kate Ann gettò in alto le braccia, aprì la bocca e poi la richiuse. Le sue dita si torcevano. Sbatté le gambe, piegò la schiena e scosse violentemente la testa.

Impossibile! Assolutamente impossibile!

Judith Li era una donna dura, però in quel momento avvertiva un terrore indicibile. Rimase immobile a fissare il cadavere vivente, mentre Anawak s'inginocchiava vicino alla donna con evidente disgusto.

«Jude», mormorò quindi lui. «Deve vedere.»

Combattendo contro il ribrezzo, Judith Li si avvicinò.

«Qui», disse Anawak.

Lei guardò il punto indicato. Lo strato luccicante che ricopriva il viso di Kate Ann cominciava a gocciolare…

Judith comprese. I fili appiccicosi che si stavano sciogliendo si stendevano sulle spalle e sulla gola della donna, sparivano nelle orecchie… «È entrato in lei», sussurrò.

«Quella sostanza sta cercando di prenderne il controllo», confermò Anawak. Aveva il volto grigio, uno straordinario cambiamento di colore per un inuit. «È verosimile pensare che stia strisciando nella sua testa per studiarla. Ma questa donna non è un cetaceo. Credo che quel po' di elettricità residua nel cervello stia reagendo al tentativo di presa di possesso.» Fece una pausa. «Potrebbe finire da un momento all'altro.»

Judith Li rimase in silenzio.

«Controlla tutte le funzioni del cervello», riprese Anawak. «Ma non riesce a controllare un essere umano.» Si alzò. «Kate Ann Browning è morta, generale. Quello che stiamo vedendo è la fase finale di un esperimento.»


Heerema, al largo di La Palma, Canarie

Bohrmann guardò con aria scettica le mute nella piccola stazione d'immersione: involucri argentei con caschi di vetro, giunture segmentate e pinze. Erano appese in un grande container d'acciaio aperto e sembravano bambole senza vita che fissavano il nulla.

«Non pensavo che dovessimo andare sulla luna», disse.

«Gerhard!» Frost rise. «A quattrocento metri di profondità è come essere sulla luna. Hai voluto venire a tutti i costi, quindi non lamentarti.»

In effetti, Frost avrebbe voluto portare con sé van Maarten, ma Bohrmann aveva fatto notare che l'olandese conosceva meglio di tutti i sistemi dell'Heerema, quindi era più utile in superficie. Non l'aveva detto, però temeva che là sotto ci sarebbero state delle difficoltà.

«Inoltre non mi va di stare a guardare mentre lavorate sott'acqua», aveva aggiunto. «Sarete anche degli eccellenti subacquei, ma io conosco gli idrati.»

«Proprio per questo devi restare qui», aveva ribattuto Frost. «Tu sei il nostro esperto di idrati. Se ti dovesse succedere qualcosa, non ne avremmo altri.»

«E invece sì. Abbiamo Erwin. Ne sa quanto me. Addirittura di più.»

Nel frattempo, Erwin Suess era arrivato da Kiel.

«Un'immersione non è una passeggiata», aveva detto van Maarten. «Ha già fatto delle immersioni?»

«Diverse volte.»

«È mai stato in profondità?»

Bohrmann aveva esitato. «Fino a cinquanta metri. Un'immersione convenzionale con le bombole. Ma sono in condizioni eccellenti, e non mi ritengo uno stupido», aveva concluso, in tono orgoglioso.

Dopo averci riflettuto, Frost aveva detto: «Due uomini robusti basteranno. Porteremo delle piccole cariche esplosive e…»

«Ma siamo diventati matti?» aveva esclamato Bohrmann, terrorizzato. «Cariche esplosive?»

«Okay, okay!» Frost aveva sollevato le mani. «Vedo che senza di te non si farà nulla. Vieni anche tu. Ma non metterti a frignare se la situazione diventerà tosta.»

Si trovavano all'interno del galleggiante di sinistra, diciotto metri al di sotto della superficie dell'acqua. I galleggianti erano stati riempiti, ma van Maarten ne aveva risparmiato un piccolo settore, collegato con una scala alla piattaforma. Da lì venivano calati anche i robot. Van Maarten aveva valutato la possibilità di fare delle immersioni e, sapendo che si sarebbero svolte ad alcune centinaia di metri di profondità, aveva ordinato delle tute speciali alla Nuytco Research di Vancouver, un'azienda nota per i suoi prodotti innovativi.

«Sembrano pesanti», disse Bohrmann.

«Novanta chili, prevalentemente titanio.» Frost prese un casco e gli diede qualche colpetto sulla parte anteriore vetrificata. «L'Exosuit è un affare pesante, ma sott'acqua non te ne accorgi. Puoi salire e scendere a piacere. La tuta è riempita di miscele di gas, che ti circondano completamente, quindi non si formano bollicine di azoto nel sangue. Questo permette di evitare le soste per la decompressione.»

«Ha le pinne.»

«Geniale, vero? Invece di affondare come un sasso, puoi nuotare come un uomo rana.» Frost indicò i numerosi anelli di snodo. «Questa struttura consente una completa libertà di movimento anche a quattrocento metri di profondità. Le mani sono protette da una semisfera. Non ci sono guanti — sarebbero troppo sensibili alla pressione — ma le due braccia terminano in un sistema di presa controllato dal computer. I sensori trasmettono all'interno una sorta di tatto artificiale. Sono talmente sensibili che con quelli potresti scrivere anche il tuo testamento.»

«Quanto tempo possiamo restare sott'acqua?»

«Quarantott'ore», rispose van Maarten. Quando vide l'espressione di sorpresa sul volto di Bohrmann, sorrise. «Non abbia paura, non vi servirà tanto tempo.» Indicò due robot a forma di siluro, ciascuno dei quali era lungo quasi un metro e mezzo, dotato di elica e con la punta ricoperta di vetro. Un cavo lungo diversi metri usciva dalla parte superiore e terminava in una console con maniglie, display e tasti. «Questi sono i vostri Trackhound. Cani da soccorso, AUV. Sono programmati per raggiungere l'isola luminosa. La precisione nell'obiettivo è di pochi centimetri, quindi non cercate di orientarvi e lasciatevi semplicemente trainare. Queste cose viaggiano a quattro nodi. Arriverete laggiù in tre minuti.»

«Che margine di sicurezza c'è nel programma?» domandò Bohrmann, scettico.

«Altissimo. I Trackhound hanno diversi sensori per registrare la profondità e la posizione. Non potete sbagliare. Se qualcosa si dovesse mettere di traverso, il Trackhound lo eviterebbe. Sulla console di servizio, all'estremità del cavo, potete attivare il programma. Avanti, indietro, è semplicissimo. Il tasto con lo 0 attiva l'elica senza mettere in funzione il programma. In questo caso, potrete guidare il Trackhound con un joystick, e il cagnolino corre dove volete voi. Altre domande?»

Bohrmann scosse la testa.

«Allora andiamo.»

Van Maarten li aiutò a infilare le tute. Nelle Exosuit si entrava attraverso un'apertura sulla schiena, su cui erano montate le due bombole. A Bohrmann sembrava di essere un cavaliere pronto a fare una passeggiata sulla luna. Non appena la tuta fu chiusa, per un attimo rimase escluso da tutti i rumori, poi ricominciò a sentire qualcosa. Attraverso la superficie incurvata del vetro, scorse Frost e sentì la sua voce tonante all'interno del proprio casco. Poi arrivarono alle sue orecchie anche i rumori esterni.

«Contatto radio», spiegò Frost. «È meglio che gesticolare. Te la cavi con la presa?»

Bohrmann mosse le dita nella sfera. La mano artificiale seguiva ogni movimento. «Credo di sì.»

«Cerca di prendere la console che van Maarten ti allunga.»

Ci riuscì al primo tentativo. Bohrmann fece un sospiro. Sperava che fosse tutto facile come il controllo della mano artificiale.

«Ancora una cosa. All'altezza della vita vedi un riquadro, un interruttore piatto. È un POD.»

«Un cosa?»

«Nulla su cui ti debba rompere la testa o che ti debba innervosire. Una misura di sicurezza. Difficilmente saremo costretti a usarla, ma, se dovesse succedere, ti dirò a che serve. Per attivarlo, devi solo colpirlo con forza. Okay?»

«Che cos'è un POD?»

«Qualcosa che rende l'immersione più tranquilla. Prima o poi ti spiegherò.»

«Vorrei sapere…»

«Più tardi. Sei pronto?»

«Sì.»

Van Maarten aprì il tunnel della paratia. Un'acqua illuminata di azzurro lambì i loro piedi. «Dovete solo lasciarvi cadere», disse. «Vi manderò subito i Trackhound. Aspettate di essere fuori dalla chiusa, poi attivateli l'uno dopo l'altro. Prima Frost.»

Bohrmann fece scivolare le pinne sul bordo. Ogni minimo movimento con indosso la tuta era una vera sfacchinata. Fece un profondo respiro e si lasciò cadere in avanti. L'acqua lo colpì. Fece una capriola completa, vide le luci della chiusa scivolare sopra di lui e poi ritornò in posizione verticale. Sprofondò lungo il tunnel verso il mare aperto, finché non si trovò in mezzo a un banco di pesci. Corpi splendenti scorrevano a migliaia in tutte le direzioni, formando una spirale vivente. Poi si ammassarono. Il banco cambiò diverse volte la propria forma, infine si distese e fuggì via. Bohrmann scorse di fianco a sé il Trackhound e continuò ad affondare. Sopra di lui, la chiusa splendeva nello scafo scuro del galleggiante. Sbatté le pinne e si rese conto che la sua posizione si stabilizzava. Ormai non sentiva più il peso della tuta. Anzi era perfettamente a proprio agio. Un sommergibile portatile.

Frost lo seguì, avvolto in un bozzolo di bolle. Giunse all'altezza di Bohrmann e lo guardò attraverso il vetro del casco. In quel momento, Bohrmann si rese conto che l'americano portava il berretto da baseball anche nell'Exosuit.

«Come ti senti?» chiese Frost.

«Come R2-D2, fratellone.»

Frost sorrise. L'elica del suo Trackhound si mise a girare. Immediatamente, il robot abbassò il muso e trascinò il vulcanologo verso gli abissi. Bohrmann mise in funzione il programma. Ci fu una spinta e lui precipitò a testa in giù. Di colpo, tutto divenne buio. Van Maarten aveva ragione. Si andava davvero veloci. Già dopo pochissimo tempo intorno a loro regnavano le tenebre più fitte. Non si vedeva altro che la luce diffusa irraggiata dalle macchine.

Con sua grande sorpresa, l'oscurità gli provocò un senso di malessere. Era stato seduto migliaia di volte davanti a un monitor a sorvegliare le immersioni dei robot che si calavano nelle profondità abissali. Con l'Alvin, era stato a quattromila metri. Tuttavia stare in quella tuta ed essere trascinato verso l'ignoto da un «cane» era una cosa completamente diversa.

Sperava che il Trackhound fosse stato programmato correttamente, altrimenti sarebbe finito chissà dove.

Il proiettore illuminava una pioggia di plancton e, nel casco di Bohrmann, risuonava il suo ronzio elettronico. Più avanti, notò un essere filiforme che, con movimenti indolenti e pulsanti, galleggiava nella notte. Era una medusa degli abissi di una bellezza incredibile, che emetteva segnali luminosi circolari, come una navicella spaziale. Bohrmann sperava che non fosse il segnale di pericolo dovuto a qualche mostro che la inseguiva. Poi la medusa sparì. Altre meduse s'illuminarono a grande distanza, e improvvisamente si allargò davanti a lui una nuvola bianca e luccicante. Sobbalzò. Ma la nuvola era bianca, non blu, e la bioluminescenza era debole, poi sparì. Bohrmann capì che si trattava di un Mastigoteuthis, un calamaro che in genere si trovava solo intorno ai mille metri di profondità. Era ovvio che scagliasse una pittura bianca contro gli intrusi, perché una pittura nera nell'oscurità non sarebbe stata di nessun aiuto.

Il «cane» tirava e tirava.

Bohrmann scrutava gli abissi alla ricerca della luce dell'isola, ma non si vedeva altro che il nero e il punto chiaro davanti a lui: era Frost, che stava scendendo velocemente. Ammesso che stesse davvero scendendo. Due luci immobili, la sua e quella di Frost, in un universo senza stelle. «Stanley?»

«Che c'è?»

La risposta immediata lo tranquillizzò. «Ben presto dovremmo vedere qualcosa, no?»

«Sei impaziente, amico mio. Guarda il tuo display. Siamo solo a duecento metri.»

«Oh, certo. Naturalmente.»

Bohrmann non osò chiedere a Frost se aveva fiducia nel programma dei Trackhound, quindi rimase in silenzio e cercò di controllare il crescente nervosismo. Cominciò a sperare nella presenza di qualche medusa, ma non apparve nulla. Il robot continuava a ronzare. Poi, improvvisamente, cambiò direzione.

Là c'era qualcosa. Bohrmann aguzzò la vista. In lontananza risplendeva un alone luminoso, appena intuibile, ma di una forma vagamente rettangolare.

Si sentì sollevato. Bravo «cane», pensò.

Come sembrava piccola l'isola luminosa.

La luce si avvicinò e divenne più chiara. A poco a poco, lui riconobbe i singoli proiettori allineati lungo le sbarre. Continuò ad avanzare verso l'isola e, d'un tratto, la vide sospesa sopra di lui, luminosa e gigantesca. Naturalmente era lui a galleggiare sopra l'isola, ma la discesa a testa in giù gli aveva fatto perdere l'orientamento. Quindi divenne visibile anche la terrazza. Poco dopo, Bohrmann scorse Frost, un'ombra trascinata dal siluro che teneva al guinzaglio e che si dirigeva verso quello che appariva come un campo da calcio pieno di riflettori. Davanti a loro, tutto era illuminato. La terrazza sospesa, il tubo serpentino dell'aspiratore, i detriti che ne bloccavano l'apertura…

Il brulichio dei vermi.

«Spegni il 'cane' prima di sbattere contro l'isola luminosa», disse Frost. «Gli ultimi metri li facciamo a nuoto.»

Bohrmann mosse le dita e cercò di premere i tasti con la mano artificiale. Stavolta fu meno disinvolto. Non riuscì al primo tentativo e volò oltre Frost che, nel frattempo, aveva rallentato.

«Ehi, Gerhard! Dove diavolo vuoi andare?»

Provò di nuovo. La mano artificiale scivolava, poi finalmente lui riuscì a fermare il «cane». Bohrmann sbatté le pinne e si mise in posizione orizzontale. In effetti era arrivato molto vicino all'isola luminosa, che si stendeva in tutte le direzioni, apparentemente infinita. Dopo qualche secondo, recuperò il senso dell'orientamento e l'isola fu sotto di lui.

Con movimenti regolari, nuotò verso il tubo incagliato e scese di fianco a esso. L'isola luminosa galleggiava una quindicina di metri sopra la sua testa. I vermi cominciarono a strisciargli sulle pinne. Fu costretto a farsi violenza per ignorarli. Non potevano fare nulla al materiale della tuta e, in fondo, erano solo disgustosi. Un vermiciattolo non sarebbe mai diventato pericoloso per un essere vivente delle sue dimensioni.

D'altra parte, che si sapeva di vermi che in realtà non dovevano neppure esistere?

Il Trackhound si era posato al suo fianco. Bohrmann lo parcheggiò su uno sperone di roccia e osservò il tubo. Le eliche del motore erano bloccate da frammenti di nera roccia vulcanica, alti come un uomo. Quello si poteva risolvere. A preoccuparlo era il grande cuneo — alto circa quattro metri — che spingeva il tubo contro la parete rocciosa. Bohrmann dubitava che in due sarebbero riusciti a smuoverlo, benché sott'acqua tutto fosse meno pesante e la pietra lavica fosse leggera e porosa.

Frost lo raggiunse. «Disgustoso», borbottò. «Figli di Lucifero ovunque.»

«Come?»

«Vermi che brulicano e strisciano! Sembra una piaga biblica! Va bene, nuotiamo più in basso. Propongo di togliere i blocchi più piccoli e vedere fin dove possiamo arrivare. Van Maarten?»

«Eccomi.» La voce di van Maarten risuonò, metallica, nel casco. Bohrmann si era completamente scordato che erano collegati anche con l'Heerema.

«Ora proviamo a mettere un po' d'ordine. Come prima cosa, libereremo i motori. Forse basterà per consentire all'aspiratore di liberarsi da solo.»

«Va bene. Tutto a posto, Bohrmann?»

«Benissimo.»

«State attenti.»

Frost indicò un masso roccioso quasi rotondo che bloccava l'articolazione di una delle eliche. «Cominciamo con quello.»

Si misero all'opera per spostare la pietra. Dopo averla spinta e tirata per un po', essa scivolò via, liberò il motore e spiaccicò sotto di sé qualche centinaio di vermi.

«Yeah», esclamò Frost soddisfatto.

Riuscirono a spostare nello stesso modo altri due blocchi. La pietra successiva era più grande, ma con un po' più d'impegno riuscirono a rovesciarla da una parte.

«Come si è forti, sott'acqua», si rallegrò Frost. «Abbiamo liberato tutti i motori tranne uno. Non sembrano danneggiati. Riesci a muovere l'articolazione? Non accendere l'elica, girala solo!»

Passarono alcuni secondi, poi si sentì un ronzio: una delle turbine che ruotava sullo snodo. Subito dopo si mossero anche le altre.

«Molto bene», gridò Frost. «Ora provate a mettere in funzione quelle cose.»

Per sicurezza si spostarono di qualche metro dalla proboscide, poi rimasero a guardare le eliche che si accendevano.

Il tubo sussultò. Non accadde nient'altro.

«Niente», disse van Maarten.

«Sì, lo vedo anch'io.» Frost era imbronciato. «Provate ancora. Girate quelle cose in un'altra direzione.»

Anche quel tentativo non funzionò. In compenso, le eliche avevano cominciato a far vorticare il fango. L'acqua divenne torbida.

«Stop!» Frost gesticolava con le sue braccia segmentate. «Fermatevi lassù! Non serve a niente, c'impedite solo di vedere.»

Le eliche si fermarono. La nuvola di fango si divise in strisce chiare. La fine del tubo si vedeva appena.

«Va bene.» Frost aprì un box piatto sul fianco dell'Exosuit e prese due oggetti delle dimensioni di una matita. «Il nostro problema è quel blocco gigantesco. So che non ti piacerà, Gerhard, ma dobbiamo far saltare quella maledetta cosa.»

Bohrmann spostò lo sguardo sui vermi che stavano progressivamente riprendendo possesso della parte già ripulita. «È rischioso», disse.

«Usiamo una piccola carica esplosiva. Propongo di piazzarla alla base, dove il cuneo si è conficcato nel fondo. Gli strappiamo via le gambe, insomma.»

Bohrmann fece un balzo, alzandosi di qualche metro verso il cuneo. Intorno a lui, l'acqua era torbida. Accese l'illuminazione del casco e si lasciò sprofondare nella nube di sedimenti. Con cautela, si mise in ginocchio e portò il suo casco il più vicino possibile al punto in cui il blocco si era conficcato nel suolo. Con la mano artificiale spazzò via i vermi. Alcuni tirarono fuori le loro fauci e cercarono di mordere l'arto artificiale. Bohrmann li scrollò via e studiò la struttura dei sedimenti, scorgendo sottili venature di un bianco sporco. Quando le colpì con la mano artificiale, il pietrisco si disintegrò e verso di lui si mossero delle piccole bolle. «No», disse. «Non è una buona idea.»

«Ne hai una migliore?»

«Sì. Prendiamo una carica più potente, cerchiamo delle fessure nel terzo superiore del blocco e le facciamo saltare. Con un po' di fortuna, la parte superiore si rovescerà e così potremo togliere la parte sottostante senza compromettere la stabilità del fondo.»

«Va bene.»

Frost lo raggiunse nella nube. Risalirono un poco. La visuale era migliore. Si misero a cercare in maniera sistematica nel cuneo i punti adatti. Infine Frost trovò una profonda tacca e c'infilò dentro qualcosa che sembrava un pezzo di plastilina grigia. Poi infilò nella massa un bastoncino sottile come una matita.

«Dovrebbe bastare», disse, soddisfatto. «Salterà proprio bene. Adesso dobbiamo allontanarci.»

Accesero i Trackhound e si lasciarono trascinare fino al margine della zona illuminata, dove la scarpata si perdeva nel buio totale. Il particolato sospeso si manteneva nei limiti, così le onde luminose erano appena riflesse dalle alghe e da altre sostanze in sospensione, tuttavia il passaggio tra luce e tenebre era improvviso. Sott'acqua, la luce scompariva seguendo la serie delle lunghezze d'onda: dopo un paio di metri il rosso, poi l'arancione, infine il giallo. Oltre i dieci metri s'intuivano solo il grigio e il blu, finché l'assorbimento e la dispersione non inghiottivano anche quei residui. Da lì in poi, il mondo cessava di esistere.

A Bohrmann non piaceva l'idea di abbandonare la relativa protezione della zona illuminata per avventurarsi nell'imprevedibilità del buio. Con sollievo, si accorse che Frost non riteneva necessaria una grande distanza di sicurezza. Scorse indistintamente una fessura nella parete nel punto in cui il blu si perdeva nel nero. Forse c'era una grotta. Immaginò la lava che ne era uscita un tempo, rossa, incandescente, una poltiglia compatta che lentamente si raffreddava e si solidificava in forme bizzarre. All'interno del suo equipaggiamento cominciava a sentire freddo. Erano i brividi che lo percorrevano all'idea di trascorrere la vita lì sotto.

Sollevò lo sguardo verso l'isola luminosa. Intorno ai proiettori bianchi, fissati alle sbarre, non si vedeva altro che un alone blu.

«Bene», disse Frost. «Facciamola finita.»

Accese il detonatore.

Dal cuneo esplose una grande ondata di bolle d'aria, mischiate con frammenti e polvere. Rimbombò nel casco. Un anello scuro si allargò, seguito da altre bolle d'aria che trasportavano macerie in tutte le direzioni.

Bohrmann trattenne il respiro.

Lentamente, molto lentamente, la parte superiore del cuneo cominciò a piegarsi.

«Yeah!» urlò Frost. «Il Signore mi sia testimone!»

Il cuneo si rovesciava sempre più velocemente, trascinato dal suo stesso peso. Si ruppe a metà e cadde vicino al tubo, sollevando una nuvola ancora più grande. Nonostante il pesante equipaggiamento, Frost riusciva a saltare e a gesticolare. Sembrava Armstrong che saltellava sulla luna.

«Alleluia! Ehi, van Maarten, Mijnheer! Abbiamo rimpicciolito quella cosa di merda. Forza, tenti la fortuna.»

Nel profondo del cuore, Bohrmann sperava che la scossa non provocasse altri smottamenti. In mezzo al fango che vorticava sentì i motori accendersi. Poi, improvvisamente, l'aspiratore tornò in vita. S'inarcò, poi sollevò lentamente la bocca dalla nuvola, come la testa di un verme gigantesco. L'apertura si mosse prima nella loro direzione, poi in quella opposta, come se stesse esaminando l'ambiente circostante. Se Bohrmann non avesse saputo che cos'aveva di fronte, si sarebbe dato per spacciato.

«Ce l'ha fatta!» gridò Frost.

«Siete i migliori», affermò van Maarten.

«Niente di nuovo», lo rassicurò Frost. «Spegnetelo, prima che si divori Gerhard e me. Diamo un'occhiata al punto in cui era bloccato. Poi risaliamo.»

Il tubo salì ancora un pezzo, lasciò sprofondare la sua bocca rotonda e poi rimase a penzolare in mezzo alla luce. Frost cominciò a nuotare e Bohrmann lo seguì. Faceva scorrere lo sguardo sull'isola e poi lo spostava. Qualcosa lo innervosiva, benché non sapesse esattamente cosa.

«Faccenda torbida…» mormorò Frost, davanti alla nuvola. «Guarda un po' a destra, Gerhard, in quella brodaglia ci vedi meglio di me.»

Bohrmann accese il proiettore del suo Trackhound, rifletté per qualche istante e infine lo spense.

Che c'era laggiù? I suoi sensi gli stavano forse giocando un brutto tiro?

Rivolse di nuovo lo sguardo all'isola luminosa e la fissò a lungo. Gli sembrava che i proiettori diffondessero una luce più forte rispetto a prima, ma era impossibile. Avevano lavorato sempre alla massima potenza.

Non erano i proiettori. Era l'alone blu. Si era ingrandito.

«Vedi là?» Bohrmann indicò l'isola.

Frost seguì il movimento con lo sguardo. «Non posso…» Si bloccò. «Che cos'è?»

«La luce», disse Bohrmann. «La luminescenza blu.»

«Per Ariel e Uriel», sussurrò Frost. «Hai ragione. Si allarga.»

Intorno all'isola si era formata una grande superficie blu scuro. Sott'acqua era difficile valutare le distanze — l'indice di rifrazione della luce faceva apparire tutto di un quarto più vicino e di un terzo più grande -, ma indubbiamente la fonte della luce blu si trovava un bel pezzo dietro l'isola luminosa. Le lampade alogene sulle sbarre accecavano Bohrmann, il quale però vide saettare dei lampi. Poi il blu perse d'intensità, divenne più debole e sparì.

«Non mi piace», disse Bohrmann. «Credo che dovremmo risalire.» Frost non rispose. Continuava a fissare l'isola. «Stan? Mi senti? Dovremmo…»

«Non così in fretta», mormorò Frost. «Abbiamo visite.» Indicò il bordo superiore dell'isola, oltre il quale sfrecciarono due ombre allungate. Avevano il ventre illuminato di blu. Un attimo dopo erano sparite.

«Che cos'era?»

«Tranquillo, ragazzo. Attiva il POD.»

Bohrmann schiacciò il sensore nel ventre dell'Exosuit.

«Non volevo metterti in ansia», disse Frost. «Ho pensato che, se ti avessi detto a cosa serve, saresti diventato nervoso e avresti tenuto d'occhio esclusivamente…»

Non andò avanti. Tra le sbarre schizzarono due corpi a forma di siluro. Bohrmann vide le teste dalla forma strana. Gli animali si stavano dirigendo verso di loro a velocità incredibile e con le fauci spalancate. Il suo cuore venne serrato da un pugno di ghiaccio. Barcollò all'indietro, portando le braccia davanti al casco per difendersi. Nessuna di quelle reazioni aveva senso, ma era l'istinto preistorico che trionfava sulla sua mente civilizzata. Quell'istinto gli ordinava di urlare, e Bohrmann ubbidì.

«Non possono farti niente», sbottò Frost.

Gli aggressori svoltarono proprio davanti a lui. Bohrmann boccheggiò, cercando di contenere il panico. Frost gli si avvicinò con energici colpi di pinna. «Abbiamo testato il POD», disse. «Funziona.»

«Insomma, ma cosa diavolo è il POD?»

«POD è l'acronimo di Protective Ocean Device. La migliore protezione contro gli squali. Il POD forma un campo elettrico che ti circonda come una barriera. Non possono avvicinarsi a più di cinque metri.»

Bohrmann ansimava, tentando di superare lo shock. Gli animali erano spariti dietro l'isola luminosa. «Erano a meno di cinque metri», disse.

«Solo la prima volta. Adesso hanno imparato la lezione. Tranquillo. Gli squali dispongono di organi estremamente sensibili all'elettricità. Il campo li sommerge di stimoli e disturba il loro sistema nervoso, provocando crampi dolorosi. Abbiamo attirato squali bianchi e squali tigre con delle esche e poi abbiamo attivato il POD: non sono stati in grado di attraversare il campo.»

«Dottor Bohrmann? Stanley?» La voce di van Maarten. «Tutto okay?»

«Tutto a posto», disse Frost.

«POD di qua e POD di là… Dovreste risalire, invece.»

Gli occhi di Bohrmann esaminarono nervosamente l'isola luminosa. Qusi tutte le cose che Frost gli aveva raccontato, le conosceva già. Nella parte anteriore della testa, gli squali avevano delle cavità, le cosiddette ampolle di Lorenzini, con cui percepivano anche i più deboli impulsi elettrici generati dai movimenti muscolari degli altri animali. Fino a quel momento, tuttavia, Bohrmann aveva ignorato l'esistenza del POD e la sua capacità di disturbare gli organi sensibili all'elettricità. «Erano pesci martello», disse.

«Sì, grandi pesci martello. Circa quattro metri ognuno, direi.»

«Merda.»

«Coi pesci martello il POD funziona ancora meglio», ridacchiò Frost. «Guarda il loro muso quadrato, lì ci sono più ampolle di Lorenzini che negli altri squali.»

«E ora?»

Vide un movimento. Dal buio oltre l'isola luminosa riapparvero i due squali. Bohrmann non si mosse. Osservò gli animali che venivano all'attacco. Decisi, senza la tipica oscillazione della testa con cui gli squali seguivano nell'acqua le tracce olfattive. Attaccarono, ma poi si fermarono di colpo, come se avessero urtato un muro. Deformarono la bocca e nuotarono, disorientati, nella direzione opposta. Poi tornarono indietro e cominciarono a girare nervosamente intorno ai sommozzatori, mantenendosi però a distanza.

In effetti funzionava.

La valutazione di Frost era giusta. Ciascuno dei due esemplari misurava almeno quattro metri. Il corpo era quello tipico degli squali. La testa invece aveva la forma tipica, cui essi dovevano il nome. I lati della testa erano allungati in ali piatte, sulle cui parti più esterne si trovavano gli occhi e le narici. La parte anteriore del martello era liscia e dritta come una mannaia.

Bohrmann cominciò a sentirsi più tranquillo. Forse si era comportato da idiota. Gli animali non erano in grado di danneggiare l'Exosuit. Tuttavia voleva andarsene. «Quanto tempo ci serve per risalire?» chiese.

«Col Trackhound, bastano pochi minuti. Non più di quando siamo scesi. Nuotiamo fin sopra l'isola luminosa. Là attiviamo il programma e ci lasciamo tirare su.»

«Va bene.»

«Non accenderlo prima, hai capito? Altrimenti ti sfracelli contro le luci.»

«Okay.»

«Stai bene?»

«Sì, maledizione! Sto benissimo. Quanto dura la protezione?»

«L'accumulatore del POD ha una carica di quattro ore.» Frost salì con colpi di pinna regolari, tenendo la console del Trackhound nella mano artificiale destra. Bohrmann lo seguì.

«Cari miei», esclamò Frost. «Purtroppo vi dobbiamo lasciare.»

Gli squali li seguirono. Se cercavano di avvicinarsi, cominciavano a tremare e le loro bocche si deformavano. Frost rideva e continuava a nuotare verso l'isola luminosa. La sua figura appariva piccola e bluastra davanti alla gigantesca superficie luminosa che rendeva ancora più netti i contorni. Bianco e blu, i colori degli abissi.

Bohrmann pensò alla nuvola blu che aveva visto in lontananza.

Ovvio!

Se ne ricordò di colpo. A causa dello spavento, aveva completamente dimenticato che si era formata poco prima dell'arrivo degli squali. Lo stesso fenomeno era stato responsabile dei cambiamenti nel comportamento delle balene e di tutta la serie di anomalie e catastrofi. Se era vero, allora non avevano a che fare con squali normali.

Perché quegli animali erano lì? Gli squali avevano un udito finissimo. Forse li aveva attirati l'esplosione. Ma perché li attaccavano? Né lui né Frost emanavano odori. Lo schema di caccia di quelle bestie non era così. Inoltre gli attacchi degli squali agli uomini in acque profonde erano rarissimi.

Si avvicinarono al bordo superiore dell'isola.

«Stan, con quei due c'è qualcosa che non va.»

«Non possono farti niente.»

«Sì, però…»

Uno dei due squali girò la testa ampia e piatta e nuotò di fianco a loro.

«Tuttavia non hai torto», affermò Frost. «Quello che mi colpisce è la profondità. I grandi pesci martello non sono mai stati osservati oltre gli ottanta metri. Mi chiedo se questi…»

Lo squalo si girò. Per un momento rimase immobile, con la testa leggermente sollevata e la schiena inarcata, la classica posizione minacciosa. Poi mosse con violenza la coda e sfrecciò verso Frost. Il vulcanologo fu così sorpreso che non abbozzò neppure un tentativo di difesa. L'animale s'impennò per un istante, poi colpì Frost con la parte più ampia del corpo.

Frost girò su se stesso come una trottola, con le braccia e le gambe divaricate.

«Ehi!» La console gli sfuggi di mano. «Che diavolo…»

Come dal nulla, sopra le sbarre apparve un terzo corpo. Avanzava sulla fila superiore dei proiettori e procedeva veloce, con un'eleganza sinistra. Era scuro, con un'alta pinna dorsale e la testa a forma di martello.

«Stan!» gridò Bohrmann.

L'ultimo arrivato era gigantesco, molto più grande degli altri due. Il suo martello si rovesciò in alto quando spalancò le fauci, mostrando le file di denti. Afferrò l'avambraccio destro di Frost e cominciò a scuoterlo.

«Merda», strillò Frost. «Che razza di animale è questo? Figlio dell'inferno! Lasciami, tu…»

Il pesce martello scuoteva selvaggiamente la grande testa spigolosa e intanto compensava il movimento con la pinna caudale. Doveva essere lungo sei o sette metri. Frost veniva sbattuto di qua e di là, come una foglia. Il suo braccio corazzato era scomparso fino alla spalla nella bocca dello squalo.

«Piantala», gridò.

«Per l'amor del cielo, Stan», urlò van Maarten. «Colpiscilo sulle branchie. Cerca di colpirgli gli occhi.»

Naturalmente, pensò Bohrmann. Da sopra vedono. Vedono tutto!

Talvolta si era chiesto come sarebbe stato incontrare un simile gigante, essere aggredito o vedere qualcun altro attaccato. L'immaginazione non era niente in confronto alla realtà. Bohrmann non era né particolarmente coraggioso né particolarmente vigliacco. Lui definiva «coraggioso» colui che non sfuggiva i rischi, ma neppure se li andava a cercare. Benché, in passato, fosse stato definito un amante dell'avventura, adesso quella definizione sembrava del tutto priva di fondamento.

Bohrmann non fuggì. Si limitò a nuotare.

Gli si avvicinò uno degli squali più piccoli. I suoi occhi luccicavano, le mascelle si deformavano come percorse da un crampo. Evidentemente si stava forzando a superare il campo elettrico. Con un ultimo scatto, urtò Bohrmann.

Era come essere colpiti da un auto a tutta velocità.

Bohrmann fu sbattuto di lato e galleggiò verso l'isola luminosa. Il suo unico pensiero era non lasciare la console, qualunque cosa succedesse. Il Trackhound era il suo biglietto di ritorno. Senza la programmazione della rotta avrebbe vagato nell'oscurità fino all'esaurimento delle riserve di ossigeno.

Sempre ammesso che rimanesse in vita fino ad allora.

Un'improvvisa pressione lo spinse verso il fondo. La coda dello squalo più grande frustava l'acqua appena sopra di lui. Bohrmann cercò di riprendere il controllo dei movimenti e vide i due squali più piccoli avventarglisi contro. Aprivano e chiudevano le fauci. Erano così vicini all'isola luminosa che, nel blu dell'oceano, si vedeva il loro colore naturale. Sopra il ventre bianchiccio c'era un dorso color bronzo. La carne della bocca e della gola splendeva in una miscela di rosa e arancione, come carne fresca di salmone appena tagliata, ornata dai tipici denti triangolari nella parte superiore nella mascella e dai canini appuntiti sulla mandibola. Cinque file dure come l'acciaio, l'una dietro l'altra, pronte a sminuzzare qualunque cosa riuscissero a ghermire.

«Gerhard!» gridò Frost.

Bohrmann guardò la luce delle alogene e vide Frost che, con la mano libera, colpiva la testa del grande squalo. Poi, improvvisamente, con un solo movimento del capo, lo squalo strappò il braccio corazzato dell'Exosuit all'altezza della spalla e lo scaraventò via. Dall'apertura uscirono grandi bolle di ossigeno. Le mascelle si serrarono sul braccio di Frost, privo di protezione, e lo morsero all'articolazione della spalla.

Una nuvola rossa si allargò nell'oscurità, mischiandosi con le bolle. Ma quell'incredibile quantità di sangue fu subito dispersa dai movimenti a frusta dello squalo. Frost urlava, ma le sue non erano più parole, bensì suoni inarticolati e striduli. Poi l'acqua marina entrò nella tuta e il vulcanologo cominciò a gorgogliare. Le grida cessarono. Gli squali più piccoli persero momentaneamente interesse per Bohrmann. L'istinto della fame era più forte dell'influenza esterna che li guidava. Si scagliarono nel vortice schiumoso, morsero il corpo senza vita del vulcanologo e gli vorticarono intorno, cercando di sfondare la corazza.

In mezzo alle interferenze si sentivano anche le grida di van Maarten.

Benché Bohrmann fosse sconvolto, una parte della sua mente lavorava senza posa e gli diceva che non si doveva fidare dell'istinto degli animali. La loro forza e il loro impulso a sbranare erano manipolati. Non si trattava semplicemente di nutrirsi. La sostanza nella loro testa era interessata a uccidere gli uomini sott'acqua.

Doveva tornare alla parete rocciosa.

La sua mano artificiale sinistra colpì la zona dei tasti. Se avesse schiacciato il pulsante sbagliato, si sarebbe attivato il programma per tornare all'Heerema. E allora sarebbe stato perduto, perché il POD non avrebbe più tenuto lontani gli squali. Ma lui schiacciò il tasto giusto. L'elica ronzò. Mosse freneticamente il joystick in modo che il «cane» lo trascinasse lontano dall'isola, verso la parete rocciosa. Sentì l'accelerazione, ma, a differenza di quanto era successo durante la discesa, quando il piccolo robot gli era parso veloce e maneggevole, ora gli sembrava insopportabilmente lento.

Bohrmann sbatté le pinne e scivolò nel blu verso la terrazza. In una simile situazione non c'era molto da fare, però una delle regole dei sommozzatori diceva che le rocce proteggevano le spalle. Bohrmann si spinse verso la parete lavica. Poco prima si era voltato verso l'isola luminosa. La nuvola di sangue si era allargata, in mezzo si vedevano pinne e code in un vortice schiumoso. Pezzi della tuta di Frost stavano sprofondando. Era uno spettacolo orribile. Ma quello che terrorizzava Bohrmann non era la carneficina in sé. Era il fatto che vi stavano partecipando solo due squali.

Mancava il più grande.

Terrorizzato, Bohrmann spense l'elica e si guardò intorno.

Il pesce martello più grande sbucò dalla nuvola di sedimenti. Aveva le fauci spalancate. Scivolava verso di lui a una velocità mozzafiato. Anche l'ultimo barlume di lucidità scomparve. Mentre l'enorme testa si avventava contro di lui, Bohrmann non riusciva a decidere se riaccendere il Trackhound oppure no. Poi l'impatto lo scagliò contro la parete rocciosa. Lo squalo continuò a nuotare, fece un ampio arco e ritornò indietro con la velocità di un'auto da corsa. Bohrmann gridò. Il mondo si trasformò in un abisso di fauci e denti, poi il suo fianco sinistro — dalla spalla all'anca — scomparve nella bocca dello squalo.

È finita, pensò.

Senza mollare la presa, lo squalo lo sollevò, scivolando lungo il pendio. Nelle cuffie, Bohrmann sentiva scrosci e rimbombi. Udì i denti dell'animale che stridevano sul rivestimento di titanio dell'Exosuit. Dato che la testa dello squalo si muoveva da una parte all'altra, il casco sbatté più volte contro la roccia e si scalfì. La lega di titanio era sufficientemente robusta per resistere per un po' a simili colpi, ma la testa di Bohrmann era violentemente sballottata. Era del tutto impotente, il suo destino era segnato. La sua vita ormai non valeva più nulla.

Ma proprio quell'impotenza risvegliò la rabbia.

Non aveva smesso di respirare.

Si poteva ancora difendere!

Sopra di lui si stendeva il profilo del martello. La larghezza della testa dello squalo misurava oltre un quarto della lunghezza del corpo, dunque le due bombature laterali erano molto distanti. Bohrmann vedeva solo il bordo, non gli occhi e le narici. Cominciò a colpirlo con la console, ma sembrava che lo squalo non se ne accorgesse neppure. Poi l'animale lo spinse verso il limite della luce. Se fossero andati oltre, Bohrmann non sarebbe più riuscito a vederlo.

Non poteva permettersi di lasciare la zona di luce.

La rabbia di Bohrmann crebbe ancora. Sollevò il braccio sinistro, che si trovava nelle fauci, e colpì il palato dell'animale. In effetti, in un certo senso, poteva dirsi fortunato, perché lo squalo aveva aggredito il suo fianco sinistro per intero e non soltanto un braccio o una gamba. In quel caso, lui sarebbe stato ormai spacciato, come Frost; la parte centrale della corazza, invece, non aveva punti deboli come gli anelli di giuntura. Insomma era troppo grande e massiccio per essere divorato, anche per quel colosso. E sembrava averlo capito anche l'animale, che scosse la testa con forza ancora maggiore. Bohrmann era sul punto di perdere i sensi. Probabilmente aveva già diverse costole rotte, ma, più l'animale lo scuoteva, più cresceva la sua rabbia.

Piegò all'indietro il braccio destro e colpì più volte con la console la testa a forma di martello…

Improvvisamente fu libero.

Lo squalo lo aveva sputato. Evidentemente Bohrmann aveva colpito un punto sensibile, un occhio o una narice. Il corpo gigantesco si abbassò velocemente, passandogli di fianco e lo scagliò contro le rocce. Per un istante, sembrò davvero che lo squalo stesse fuggendo. Bohrmann rifletté febbrilmente su come sfruttare la situazione. Non s'illudeva di poter tentare la risalita verso l'Heerema. Era riuscito ad allontanare l'animale, però al massimo aveva guadagnato una manciata di secondi. Tirò a sé il Trackhound e abbracciò il tubo con entrambi le mani.

Non poteva permettersi di perderlo, a nessun costo.

Lo squalo era scomparso nell'oscurità. Poi riapparve, un po' discosto. Un'ombra blu.

Bohrmann guardò la parete.

Là c'era la grotta!

L'enorme pesce martello rimaneva a una certa distanza. Al di sotto dell'isola luminosa, gli altri due squali ancora impegnati coi resti di Frost e stavano finendo al di fuori della zona illuminata. Bohrmann si chiese quando avrebbero lasciato quel corpo maciullato per avventarsi contro di lui. Un attimo dopo, smise di chiederselo. Nella penombra, lo squalo più grande aveva fatto una virata sorprendentemente veloce e stava tornando indietro.

Bohrmann s'infilò nella fenditura.

Era stretta. La tuta con le bombole lo ostacolava, ma riuscì a entrare, benché le sue braccia fossero strette come in una morsa. Cercò di spingersi all'interno, ma lo squalo era già su di lui.

La testa del martello sbatté contro i bordi della roccia. L'animale rimbalzò all'indietro. Aveva una testa troppo larga per entrare. Nuotava in un cerchio così stretto che sembrava quasi inseguire la propria coda, poi attaccò un'altra volta.

Dall'ingresso della fenditura si staccarono pezzi di lava, formando una nuvola che offuscò la visuale. Bohrmann premette ancora di più le braccia contro il corpo. Non aveva idea di quanto fosse profonda quell'apertura. Fuori, lo squalo stava infuriando contro la roccia, creando vortici di sedimenti e schegge. La nuvola circondò anche Bohrmann. La luce blu che arrivava anche lì dentro sparì quasi completamente.

«Dottor Bohrmann?» Era la voce di van Maarten, molto debole. «Bohrmann, per l'amor del cielo, risponda!»

«Sono qui.»

Van Maarten emise un rumore, forse un sospiro di sollievo. Si capiva poco in mezzo al frastuono provocato dallo squalo. Sott'acqua, il rumore era completamente diverso che in superficie, un cupo miscuglio cavernoso di tutte le possibili vibrazioni. Bohrmann cominciò a tremare e improvvisamente l'assalto cessò. Era schiacciato nella fessura, avvolto dalla nebbia di particelle. La luce dell'isola s'intravedeva appena. «Sono infilato in una fessura rocciosa», disse.

«Mandiamo giù i robot», disse van Maarten. «E due uomini. Abbiamo ancora due tute.»

«Se lo scordi. Il POD non funziona.»

«Lo so. Abbiamo visto che cos'è successo a Frost…» A van Maarten mancò la voce. «Gli uomini verranno lo stesso, hanno arpioni con cariche esplosive e…»

«Cariche esplosive? Che idea fantastica!» sibilò Bohrmann, caustico.

«Frost era convinto che non vi sarebbero serviti.»

«No. Certo che no.»

«Il POD ha sempre funzionato…»

Qualcosa colpì frontalmente Bohrmann e lo premette con forza dentro la fenditura. Ne fu talmente sorpreso che si dimenticò di gridare. Nella vaga luce torbida scorse il martello. Lo squalo si era girato su un fianco e stava colpendo l'uomo tenendo il martello in verticale. Inoltre stava cercando di entrare nella grotta.

Che tipo sveglio, pensò Bohrmann, truce. Ma dovrà sudare per avermi.

Riempì di botte il martello, sforzandosi di non lasciare il «cane». Vedeva indistintamente la bocca che si apriva e si chiudeva. Gli squali non potevano nuotare all'indietro. La testa spigolosa andava su e giù, ma le fauci non riuscivano a raggiungerlo. Gli occhi nella parte superiore della testa ruotavano selvaggiamente. Bohrmann sollevò il braccio con la console e lo colpì.

Il martello balzò indietro.

Non ce la farà a uscire da solo, pensò Bohrmann. Così cominciò a spingergli contro il Trackhound. Lo squalo non poteva essersi spinto così all'interno. Fino a che punto arrivava il controllo della gelatina? Condizionava il comportamento dell'animale, ma poteva anche far nuotare all'indietro uno squalo?

Evidentemente sì, perché lo squalo uscì dalla grotta.

Era il più grande.

Bohrmann attese.

Qualcosa sbucò di nuovo dalla nuvola. Era un martello, e stava arrivando verso di lui. Apparteneva a uno degli animali più piccoli. La testa dello squalo sbatté contro la finestrella bombata del casco. Le mascelle si aprirono e chiusero, le file di denti graffiarono il plexiglas. Ormai l'intero campo visivo di Bohrmann era occupato da quell'animale. Cercò di spingersi ancora più all'interno e improvvisamente gli parve che le pareti sparissero. Cadde all'indietro, nel nulla.

Tenebre nere come la pece.

Mosse nervosamente la mano artificiale sinistra sulla console. L'interruttore per la luce del Trackhound era appena sopra i tasti per attivare i programmi. Poco prima l'aveva…

Dov'era quel maledetto pulsante?

Eccolo!

Il proiettore si accese. Nella luce oscillante, vide che la fenditura si era aperta in una grotta spaziosa. Diresse il cono luminoso verso l'apertura e vide apparire la testa dello squalo. L'animale si agitava, ma non riusciva a entrare di più.

Che cos'è successo? pensò Bohrmann.

Poi capì.

Lo squalo era incastrato.

Sollevò il braccio e vibrò una serie di colpi sulla testa squadrata, mai poi si rese conto che non era una buona idea ferire lo squalo sino a farlo sanguinare e così lo spinse con tutto il peso del corpo. Ma sott'acqua non serviva a granché; allora Bohrmann si lanciò contro il muso che cercava di afferrarlo. Lo colpì col petto, con le spalle e le braccia, finché lo squalo non cominciò lentamente a ritirarsi. Il cono luminoso del Trackhound sussultava, illuminando la faringe rosa con le branchie pulsanti.

Come uscire di qui è un problema tuo, pensò Bohrmann. Ma io voglio che tu te ne vada! Questa è la mia grotta, quindi togliti dai coglioni!

«Togliti dai coglioni!»

«Dottor Bohrmann?»

Lo squalo continuava a ritirarsi. Poi sparì.

Bohrmann arretrò. Le braccia gli tremavano. Era così teso che non riusciva a rimanere fermo. D'un tratto, si sentì esausto e cadde sulle ginocchia.

«Dottor Bohrmann?»

«Non rompa, van Maarten.» Tossì. «Faccia qualcosa per tirarmi fuori di qui.»

«Mandiamo giù immediatamente i robot con gli uomini.»

«Perché i robot?»

«Portiamo giù tutto quello che può spaventare e far fuggire gli animali.»

«Quelli non sono animali, sono soltanto involucri di animali. Sanno che cos'è un robot. Sanno perfettamente che cosa facciamo qui.»

«Gli squali?»

Eridentemente Frost non aveva raccontato tutto a van Maarten.

«Sì, gli squali. Non sono più squali, esattamente come le balene non sono più balene. Qualcosa li controlla. Gli uomini devono essere preparati.» Tossì un'altra volta, più violentemente. «In questa maledetta grotta non vedo niente. Che succede là fuori?»

Van Maarten rimase un attimo in silenzio. Poi sussurrò: «Mio Dio…»

«Ehi! Parli con me.»

«Sono comparsi altri animali. A decine… A centinaia! Stanno distruggendo i proiettori dell'isola luminosa. Frantumano tutto.»

Ovvio, pensò Bohrmann. Sono qui proprio per questo motivo, per impedirci di aspirare i vermi. Si tratta solo di questo. «Allora se lo scordi.»

«Come?»

«Si scordi il salvataggio, van Maarten.»

Nel suo casco c'era un tale fruscio che van Maarten dovette ripetere la risposta. «Ma gli uomini sono pronti.»

«Dica loro che qui sotto li aspettano delle forme di vita intelligente. Questi squali sono intelligenti. La sostanza nelle loro teste è intelligente. Due sommozzatori e un po' di lamiera non bastano. Pensi a qualcos'altro. Io ho ossigeno per quasi due giorni.»

Van Maarten esitò. «Va bene. Valutiamo la faccenda. Forse nelle prossime ore gli animali si ritireranno. Crede di essere al sicuro nella grotta?»

«E che ne so? Con squali normali sarei al sicuro, ma l'ingegno dei nostri amici non conosce limiti.»

«La tireremo fuori prima che finisca l'ossigeno, Gerhard!»

«La prego con tutto il cuore di farlo.»

Nella grotta arrivò un po' più di luce. La corrente lungo lo zoccolo del vulcano portava con sé le particelle di sedimenti. Se quello che van Maarten aveva detto era vero, ben presto la luce sarebbe sparita completamente e lui si sarebbe trovato solo nel mare tenebroso. Finché non fosse arrivato qualcuno a salvarlo da un centinaio di pesci martello.

Dotati di un'intelligenza sconosciuta.

Nessuno squalo che avesse seguito il proprio istinto naturale sarebbe entrato nel campo elettrico. Nessun pesce martello avrebbe attaccato due sommozzatori nell'Exosuit, ma, in caso l'avesse fatto, avrebbe rinunciato subito. I pesci martello erano considerati potenzialmente pericolosi e di una curiosità snervante, ma in genere giravano al largo da tutto ciò che sembrava loro sospetto.

Normalmente non nuotavano neppure nelle fenditure delle rocce.

Bohrmann se ne stava accovacciato nella sua grotta, provvisto di ossigeno per altre venti ore e con un sistema antisqualo che non funzionava. Quando gli uomini di van Maarten fossero scesi, sperava di non assistere a un'altra carneficina.

Una carneficina nelle tenebre.

Spense il proiettore del Trackhound per risparmiare la batteria e fu immediatamente avvolto dall'oscurità. Una debole luce penetrava nella fenditura.

Una luce sempre più debole.


Independence, mar di Groenlandia

Johanson non trovava pace.

Era stato nel ponte a pozzo, dove, sotto la sorveglianza di Rubin, gli uomini del generale Li stavano provvedendo al trasferimento della massa gelatinosa nel simulatore. La cisterna era stata completamente svuotata e decontaminata. I granchi infettati dalla Pfiesteria erano stati messi nell'azoto liquido. Le misure di sicurezza erano strettissime. Non appena la massa era arrivata nella cisterna, Sigur Johanson e Sue Oliviera erano giunti lì per effettuare i test di fase. Discussero un po' e infine stabilirono la sequenza dei test, mentre Samantha Crowe e Murray Shankar s'impegnarono a decifrare il secondo segnale scratch.

«L'orrore è indescrivibile», aveva detto Judith Li nel corso di una riunione improvvisata. «Siamo tutti profondamente colpiti. Hanno cercato di demoralizzarci, di distruggerci. Ma noi non ci dobbiamo fermare. Di certo vi chiederete se questa nave è ancora sicura e io posso rispondervi: assolutamente sì! Finché non diamo al nemico la possibilità di entrare, a bordo dell'Independence non abbiamo nulla da temere. Tuttavia dobbiamo fare in fretta. E non possiamo permetterci d'interrompere i contatti. Soprattutto ora. Dobbiamo convincerli a fermare questi atti terroristici contro l'umanità!»

Johanson andò sul ponte di volo, dove il servizio di bordo era impegnato a sgombrare tavoli, sedie e tutto ciò che era rimasto dopo la brusca interruzione del party. Nel cielo c'era ancora il sole, il mare aveva il solito aspetto. Non c'erano luci blu, non c'erano lampi. Nessun sogno luminoso che si trasformava in un incubo.

Tentò di ricostruire l'andamento dei suoi pensieri, interrotto dall'arrivo di Judith Li e dai tentativi della donna d'interrogarlo sulla sua avventura notturna. Ormai aveva capito due cose. Judith Li sapeva che cos'era successo realmente. Però non era sicura di cosa effettivamente lui ricordasse e se stesse dicendo la verità. E quello la preoccupava.

Gli avevano mentito. Non era caduto.

Era stato sul punto di accettare quella versione. Poi Sue, mentre entravano nel laboratorio, gli aveva detto una cosa: la notte precedente, a lui era sembrato di aver visto Rubin entrare in una porta segreta nel ponte dell'hangar. Se lei non avesse fatto quel commento, Johanson non se ne sarebbe ricordato affatto e avrebbe accettato le spiegazioni sull'incidente date da Angeli e dagli altri. Invece la frase di Sue aveva messo in moto qualcosa e il cervello di Johanson stava iniziando a riprogrammarsi. C'erano immagini misteriose che andavano e venivano. Cercò di riflettere, fissando il mare. Poi, d'un tratto, rivide tutto: stava seduto con Sue sulla cassa, a bere del vino e… Rubin era entrato nella porta dell'hangar! Quella porta era lontana, ma un'altra immagine gli suggeriva che lui era vicinissimo. Per Johanson ciò costituiva una prova sufficiente a stabilire l'esistenza di quel passaggio segreto.

Ma cos'era successo in seguito?

Erano andati in laboratorio. Poi lui era tornato sul ponte dell'hangar. Perché? Aveva a che fare con quella porta?

Oppure stava immaginando tutto?

Forse sei diventato un vecchio pazzo senza neppure accorgertene, pensò. Sarebbe stato davvero penoso. Poteva forse andare da Judith Li e costringerla a parlare soltanto per poi scoprire che era lui a non avere tutte le rotelle a posto? Una prospettiva tutt'altro che esaltante.

Mentre se ne stava lì a rimuginare, il destino gli tese una mano. Gli mandò Karen Weaver. Johanson fu contento di vedere la figurina muscolosa che veniva verso di lui sul ponte. Nell'ultimo periodo non avevano potuto parlare molto. Si erano intesi fin dall'inizio, ma lui in breve tempo aveva preso atto che lei non rappresentava un sostituto di Tina. Quell'intesa non aveva portato a un legame profondo, né allo Château né sull'Independence. Forse Johanson, attraverso di lei, aveva sperato di porre almeno in parte rimedio a quello che era capitato a Tina Lund, ma ormai le cose erano cambiate. Johanson non era più così sicuro di essere responsabile di quanto era successo e non era neppure sicuro che tra lui e Karen potesse instaurarsi quella confidenza che lui aveva condiviso con Tina. Da un po' di tempo, aveva l'impressione che stesse nascendo qualcosa tra lei e Anawak, e in effetti i due sembravano fatti l'uno per l'altra.

Quindi non ci sarebbe stata confidenza.

Ma ci sarebbe stata fiducia. Una cosa completamente diversa. Dare fiducia a Karen poteva portare solo vantaggi. Era troppo obiettiva per cercare sottintesi romantici in un avvenimento misterioso. Lo avrebbe ascoltato, facendogli poi capire chiaramente se gli credeva o se lo considerava un pazzo.

Le raccontò in breve quello che ricordava, la confusione che aveva in testa, su quali punti lui stesso era diffidente e che cosa aveva provato durante il breve interrogatorio di Judith Li.

Dopo averci riflettuto per un po', Karen disse: «Sei tornato a controllare?»

Johanson scosse la testa. «Non ne ho ancora avuto l'occasione.»

«Volendo, ne avresti avute un sacco. Non vuoi andare a controllare perché temi di non trovare niente.»

«Probabilmente hai ragione.»

Lei annuì. «Bene. Allora andiamo insieme.»

Aveva colto nel segno. A ogni passo, Johanson sentiva crescere la paura e l'insicurezza. Che cosa sarebbe successo se non avessero trovato nulla? Ormai era praticamente certo che laggiù non avrebbero trovato nessuna porta e quindi avrebbe dovuto abituarsi all'idea di essere andato fuori di testa. Aveva cinquantasei anni, era un bell'uomo, cui si riconoscevano intelligenza, una certa carica erotica, un discreto fascino e un elevato numero di successi con le donne.

Evidentemente era diventato un vecchio decrepito.

Accadde quello che temeva. Percorsero diverse volte la parete senza trovare nulla che potesse far pensare a un passaggio.

Karen lo guardò.

«Va bene», mormorò Johanson.

«Non c'è problema», disse Karen. Ma, subito dopo, con sua grande sorpresa, aggiunse: «La parete è rivettata, lungo le saldature corrono ovunque delle tubature. Ci sono migliaia di possibilità per costruire una porta invisibile. Cerca di ricordare esattamente dove l'hai vista.»

«Mi credi?»

«Ti conosco a sufficienza, Sigur. Non sei un pazzo. Non bevi come una spugna e non prendi droghe. Sei un buongustaio, e i buongustai hanno occhio per dettagli invisibili agli altri. Io sono più un tipo da fish'n' chips. Probabilmente non vedrei quella porta nemmeno se si spalancasse davanti al mio naso, perché non concepirei neppure l'idea che una parete del genere possa ruotare su se stessa. Non so che cos'hai visto, però… ti credo.»

Johanson sorrise. E, dopo aver stampato un bacio sulla guancia di Karen, scese la rampa verso il laboratorio, decisamente sollevato.


Laboratorio

Rubin era sempre molto pallido e, quando parlava, sembrava gracchiare come un pappagallo. In effetti, per poco non ci aveva rimesso la pelle. Greywolf era stato a un passo dallo spedirlo nell'aldilà. Ma il biologo si era mostrato comprensivo. Sorrideva in modo così tirato che a Johanson faceva venire in mente l'infermiera Ratched di Qualcuno volò sul nido del cuculo, dopo che Jack Nicholson le aveva stretto le mani alla gola. Quando guardava a destra o a sinistra girava anche la parte superiore del corpo, descriveva a tutti le sue pietose condizioni fisiche e sosteneva che Greywolf non era malvagio. «Stavano insieme, vero?» gorgogliava. «Per lui deve essere stato terribile. E sono stato io a voler aprire la paratia. Certo, non doveva aggredirmi, ma lo capisco.»

Sue faceva scorrere lo sguardo da lui a Johanson e teneva la bocca chiusa, cosa piuttosto insolita per lei.

Nella cisterna galleggiavano grandi frammenti della massa gelatinosa. Avevano ricominciato a splendere. Al momento, quello che interessava maggiormente i tre biologi non era tanto la gelatina, quanto la nuvola. Oltre alle due tonnellate e mezzo di sostanza che gli uomini di Judith Li avevano portato nel simulatore, c'erano anche grandi quantità di materiale sciolto. Tra i microrganismi e i grumi di sostanza in sospensione si muoveva un robot dotato di sensori sensibilissimi, che analizzava la composizione chimica dell'acqua e mandava i dati sul monitor della console di comando. La parte esterna del robot era corredata di tubi che, premendo un pulsante, si potevano far uscire, aprire, chiudere e far rientrare. Era grande come lo Spherobot, estremamente robusto e maneggevole.

Johanson era seduto alla console con un piglio da comandante di navicella spaziale ed era in attesa, con le mani sui joystick. L'illuminazione della cisterna e del laboratorio era stata ridotta al minimo per poter osservare meglio gli avvenimenti. Gli scienziati erano dunque stati testimoni di come la massa si fosse progressivamente ripresa. I frammenti di gelatina splendevano intensamente e diffondevano all'interno del simulatore una pulsante luce blu.

«Credo che ci siamo», mormorò Sue. «Si riforma.»

Johanson guidò il robot sotto uno dei frammenti, aprì una provetta per i campioni e la infilò nella massa. Il bordo della provetta era affilato come un rasoio. Staccò un po' di gelatina, si richiuse da sola e rientrò. Il frammento non reagì a quella puntura. Si stava deformando, avvolto in una nuvola blu. Johanson attese qualche istante, poi ripeté la procedura in altri punti.

Nel grumo di gelatina scintillavano luci minuscole. Il grumo aveva le dimensioni di una focena adulta o di un delfino. Più Johanson procedeva nel riempire le provette, più si rendeva conto che quel paragone era esatto. Le dimensioni di un delfino. No, di più. La forma di un delfino.

Nello stesso istante, Sue disse: «Incredibile. Sembra un delfino».

Johanson quasi si dimenticò di guidare il robot. Osservava affascinato gli altri frammenti che cambiavano forma. Alcuni ricordavano gli squali, altri sembravano calamari.

«Com'è possibile?» rantolò Rubin.

«Programmazione», spiegò Johanson. «Non può che essere così.»

«Ma come fanno a sapere come si fa?»

«Lo sanno e basta. Hanno imparato.»

«In che modo?»

«Se sono in grado d'imitare forme e successioni di movimenti, devono essere maestri del travestimento. Che ne pensa?» chiese Sue.

«Non lo so.» Johanson era scettico. «Non so se ciò che stiamo vedendo abbia come scopo quello di mimetizzarsi. Ho piuttosto la sensazione che stiano… ricordando.»

«Ricordando?»

«Lo sa cosa succede quando pensiamo, no? Determinati neuroni si accendono all'improvviso, si raggruppano e creano collegamenti. Creano una decorazione. Il nostro cervello non può cambiare forma, ma in un certo senso le decorazioni neurali creano una forma. Se s'impara a leggerle, si possono riconoscere i pensieri.»

«Crede che stiano pensando a un delfino?»

«Quello non somiglia a un delfino», disse Rubin.

«E invece sì, è…» Johanson sobbalzò. Rubin aveva ragione. La forma era cambiata ancora. Adesso somigliava a una specie di razza, che risaliva nella cisterna muovendo lentamente le ah. Dalla punta delle ali uscivano fili sottili che studiavano l'ambiente.

«Guardate!»

La razza si trasformò in qualcosa di serpeggiante e la massa fuggì in tutte le direzioni. Sembravano migliaia di pesci minuscoli, con movimenti sincronizzati. Poi si riunirono. L'immagine cambiava sempre più velocemente il proprio aspetto, come se scorresse un programma. Nel giro di pochi secondi si trasformava in forme note o sconosciute. Tutti i frammenti di gelatina erano coinvolti dal fenomeno. Si gettavano l'uno sopra l'altro. Saettavano i soliti lampi e, per un terribile e sgradevole momento, Johanson pensò di riconoscere nel rapidissimo cambio di forme una figura umana.

Materia e brandelli di nubi… Tutto vorticava.

«Si fonde!» gemette Rubin. Guardava con occhi luccicanti il monitor davanti a lui, su cui scorrevano i dati. «L'acqua è satura di una nuova sostanza, un composto chimico!»

Johanson virò col robot attraverso quell'universo mutante, continuando a raccogliere campioni. Era come un rally. Quanti sarebbe riuscito a raccoglierne? Quando sarebbe stato consigliabile fare marcia indietro? Sembrava che la massa si fosse completamente ripresa. Si era formato un centro. Tutto collassava su se stesso. Quello che era già successo in piccolo, ora si ripeteva in grande scala. Singole cellule che si riunivano a formare un essere unico. Un organismo senza occhi visibili, senza orecchie e organi di senso, senza cuore, cervello e viscere, un grumo omogeneo che però era in grado di attuare processi complessi.

Si stava formando qualcosa di gigantesco. Una buona metà di quanto era penetrato nel ponte a pozzo era stata rimandata in mare dalle pompe, ma quello che era rimasto aveva pur sempre le dimensioni di un furgone. Attraverso la finestra ovale del simulatore videro la gelatina raggrumarsi e diventare più solida. Johanson portò il robot al bordo della fusione, dove c'erano nuvole blu che tendevano verso il centro. Tre delle provette non avevano ancora raccolto campioni. Le fece uscire e tentò d'infilarsi nuovamente nella massa.

L'essere si ritirò subito, producendo decine di tentacoli che afferrarono il robot. Johanson perse il controllo della macchina. Il robot, immobile, era preda dei tentacoli dell'essere, che scendeva lentamente verso il fondo della cisterna e intanto stava generando una sorta di piede appiccicoso. Improvvisamente ricordò un fungo enorme con una corona di braccia flessibili.

«Maledizione», imprecò Sue. «È stato troppo lento.»

Le dita di Rubin correvano sulla tastiera del computer. «Ho una gran quantità di dati», spiegò. «Un'ebbrezza molecolare. Quella sostanza usa davvero un feromone! Allora avevo ragione.»

«Anawak e Karen avevano ragione», lo corresse Sue.

«Ovvio, volevo dire…»

«Avevamo tutti ragione.»

«Era quello che volevo dire.»

«È qualcosa che conosciamo, Mick?» chiese Johanson senza distogliere lo sguardo dal monitor.

Rubin scosse la testa. «Non ne ho idea. Gli ingredienti sono noti. Ma sulla ricetta non posso dire niente. Abbiamo bisogno dei campioni.»

La parte superiore dell'essere formò una spessa matassa, che si ramificò in fili sottili. Poi la matassa si piegò verso il robot. I fili tastavano la macchina e i contenitori dei campioni.

Tutto lasciava pensare a un esame sistematico e ponderato.

«Vedo bene?» Sue si piegò in avanti. «Vuole aprire le provette?»

«Non sono così facili da aprire.» Johanson cercò di riprendere il controllo del robot. I tentacoli che lo serravano reagirono, stringendolo ancora di più. «Evidentemente si è innamorato», sospirò. «Va bene. Aspettiamo.»

I fili proseguirono il loro esame.

«Può vedere il robot?» chiese Rubin.

«Con che cosa?» Sue scosse la testa. «Può cambiare la forma, ma non credo possa formare degli occhi.»

«Forse non gli servono neanche», commentò Johanson. «Lui comprende il suo mondo.»

Infine la massa lasciò libero il robot. Tutti i fili e i tentacoli rientrarono nella grande struttura, sparendo. L'organismo si appiattì fino a coprire completamente il fondo della cisterna con un strato sottile.

«Dunque sa fare anche il pavimento galleggiante», scherzò Sue.

«Arrivederci», disse Johanson e riportò il robot nel garage.


Combat Information Center

«Che ci state dicendo?» Samantha Crowe appoggiò il mento alle mani. Tra l'indice e il medio della mano destra bruciava l'immancabile sigaretta, ma stavolta si consumava senza essere stata quasi fumata. Samantha non aveva tempo di aspirare. Insieme con Murray Shankar, stava cercando di capire il messaggio mandato dagli yrr.

Un messaggio accompagnato da un attacco.

Dopo che il computer aveva decifrato il primo messaggio, comprendere il secondo era stato più facile. Come nel primo, gli yrr avevano risposto con un codice binario. Non era ancora chiaro se i dati formassero un'immagine. Per ora, sembrava avere senso soltanto una informazione. Un dato che, sullo sfondo dell'orizzonte di attese generate da un'intelligenza aliena, appariva quantomeno ridicola.

Era la rappresentazione di una molecola, una formula chimica.

H2O.

«Molto originale», commentò Shankar, acido. «Che vivono nell'acqua lo sapevamo da un pezzo.»

Tuttavia gli yrr avevano accoppiato altri dati alla formula dell'acqua. Il computer lavorava a pieno ritmo e, nella testa di Samantha, cominciava a farsi strada il modo in cui interpretare quei dati. «Forse si tratta di una carta geografica», disse.

«Cosa intendi? Una carta del fondale marino?»

«No. Questo vorrebbe dire che vivono sul fondale. Se il nostro amico nel simulatore fa parte di quell'intelligenza sconosciuta, il suo ambiente vitale può essere solo il mare aperto. Gli abissi marini sono il suo universo, quello attraverso il quale si muove. Omogeneo e uguale in ogni direzione.»

Shankar rifletté. «E sia», ammise. «Allora mettiamolo sotto il microscopio ed esaminiamo la sua composizione. Sostanze minerali, acidi, basi e così via.»

«Che non sono uguali ovunque», confermò Samantha. «La prima volta hanno mandato un'immagine coi risultati delle due verifiche matematiche. Questo è decisamente più complicato. Ma se abbiamo ragione, anche queste varianti saranno limitate. Non posso giurarlo, però credo che ci abbiano mandato un'altra immagine.»


Joint Intelligence Center

Karen trovò Anawak seduto al computer. Sullo schermo vorticavano unicellulari virtuali, ma lei ebbe l'impressione che Anawak non li stesse guardando.

«Mi dispiace per quello che è successo alla tua amica», disse sottovoce.

Anawak guardò il soffitto. «Sai qual è la cosa strana?» La sua voce sembrava impastata. «Che la sua morte mi colpisce da vicino. La morte non mi ha mai particolarmente impressionato. L'ultima volta che ho pianto è stato quand'è morta mia madre. Mio padre è morto e l'orrore di non riuscire a dispiacermene mi fa star male. Tu conosci fin troppo bene la storia… Ma Alicia? Mio Dio. Non ho mai riflettuto seriamente su di lei. Era una studentessa che per lungo tempo mi ha dato sui nervi. Poi ho imparato ad apprezzarla.»

Karen esitò, poi timidamente gli tocco la spalla. Le dita di Anawak le sfiorarono la mano.

«Il tuo programma funziona benissimo», disse lui.

«Questo vuol dire che i biologi in laboratorio dovranno cambiare tutto e verificarlo.»

«Sì. Il problema sta proprio qui. Rimane un'ipotesi.»

Avevano provvisto gli unicellulari virtuali di un DNA capace di apprendere e in grado di mutarsi continuamente. Secondo questo modello, ogni singola cellula era una sorta di piccolo computer autonomo, che riscriveva costantemente il proprio programma. Ogni nuova informazione cambiava la struttura del genoma. Se una determinata parte delle cellule faceva un'esperienza, l'esperienza cambiava la struttura genetica. Poi, quando le cellule si fondevano con le altre, trasmettevano le nuove informazioni e il DNA delle altre si modificava. In tal modo, l'insieme apprendeva di continuo e la fusione provocava anche una distribuzione delle informazioni. Ogni nuova conoscenza della singola cellula arricchiva l'esperienza collettiva.

Quell'idea era rivoluzionaria, perché significava che il sapere era ereditario. Anawak ne aveva parlato con Sue Oliviera, Sigur Johanson e Mick Rubin, e gli scienziati erano rimasti sconcertati. Da una parte, l'idea era stata accettata con entusiasmo.

Dall'altra, c'era un inconveniente.


Sala di controllo

«Se il DNA muta, si arriva a un cambiamento delle informazioni genetiche», spiegò Rubin. «E una cosa del genere sarebbe problematica in tutti gli esseri viventi.»

Nel bel mezzo dell'analisi, si era allontanato dal laboratorio, dicendo che gli era tornata l'emicrania. Invece era seduto nella sala di controllo segreta con Judith Li, Peak e Vanderbilt. Stavano scorrendo i verbali delle intercettazioni. Naturalmente in quella sala sapevano tutti del programma di Karen e di Anawak, e anche della loro teoria. Tranne Rubin, però, nessuno riusciva a capirci qualcosa.

«Un organismo ha la necessità che il proprio DNA resti intatto», stava dicendo Rubin. «In caso contrario, si ammala, oppure si ammalano i suoi discendenti. Per esempio, l'esposizione alla radioattività provoca danni irreparabili nel DNA, col risultato che nascono individui mutanti o si sviluppa il cancro.»

«Ma come la mettiamo con l'evoluzione?» chiese Vanderbilt. «Se noi ci siamo sviluppati da scimmie in esseri umani, vuol dire che il DNA deve essere cambiato.»

«Giusto, ma l'evoluzione avviene in tempi molto lunghi. E sceglie sempre quelli che mostrano un adattamento ottimale alle circostanze. Non si parla mai degli insuccessi evolutivi, tuttavia la natura elimina parecchie mutazioni. Fra la trasformazione genetica radicale e l'eliminazione, però, c'è la riparazione. Pensate all'abbronzatura. La luce del sole trasforma le cellule degli strati superficiali della pelle e ciò porta a mutazioni del DNA. Diventiamo scuri… anzi, se non stiamo attenti, diventiamo rossi e ci scottiamo. In questo caso, il corpo elimina le cellule distrutte. Negli altri casi le ripara. Se non ci fossero queste riparazioni, non potremmo vivere. A ogni piccola mutazione ci scorticheremmo, le ferite non guarirebbero e non si potrebbe sconfiggere nessuna malattia.»

«Capisco», disse Judith Li. «Ma cosa accade con gli organismi unicellulari?»

«Se il loro DNA muta, devono ripararlo. Guardi, le cellule si riproducono per scissione. Se il loro DNA non venisse riparato, nessuna specie resterebbe stabile. Bisogna tenere presente che la natura ha sempre l'interesse a mantenere le mutazioni di qualunque cellula a un livello tollerabile. Però ora c'è l'inconveniente della teoria di Anawak. Un genoma viene sempre riparato globalmente, in tutta la sua lunghezza. Dovete immaginare gli enzimi addetti alla riparazione come poliziotti che pattugliano tutto il DNA, attenti a scovare eventuali errori. Non appena trovano un punto danneggiato, iniziano la riparazione. Così le informazioni, quale che sia la condizione originaria, si conservano. Gli enzimi riparatori sono, per così dire, i protettori del sapere del genoma. Durante i loro giri di controllo, si accorgono subito che qui c'è un gene nelle condizioni originali e lì ce n'è uno sbagliato. È come se un bambino volesse imparare in segreto una lingua. Non appena impara una parola, arrivano gli enzimi riparatori e riprogrammano il cervello alle condizioni originarie, quindi all'ignoranza. Una conoscenza non è concessa.»

«Quindi la teoria di Anawak non ha senso», constatò Judith Li. «Le mutazioni nel DNA dell'essere unicellulare non si dovrebbero conservare.»

«Da un certo punto di vista è così. Gli enzimi riparatori percepirebbero ogni nuova informazione come un danno, quindi riporterebbero il genoma alle condizioni originali. Al punto zero, per così dire.»

«Presumo che adesso arriverà l'altro punto di vista», borbottò Vanderbilt.

Rubin annuì, esitante. «In effetti c'è», disse.

«E sarebbe?»

«Non ne ho idea.»

«Un momento», esclamò Peak. Si sollevò sulla sedia, ma crollò subito. Aveva il piede fasciato e sembrava davvero malconcio. «Non ha appena detto…»

«Lo so! Ma la teoria è semplicemente fantastica», dichiarò Rubin con voce sempre più stridula. Ogni volta che parlava a lungo, si facevano sentire le conseguenze della stretta alla gola di Greywolf. «Spiegherebbe tutto. Intanto avremmo la consapevolezza che quella cosa nella cisterna è effettivamente il nostro nemico. Avremmo gli yrr sotto gli occhi. E io sono sicuro che sono loro! Stamattina siamo stati testimoni di avvenimenti eccezionali. Quella cosa ha esaminato un robot subacqueo, e il modo in cui l'ha fatto non aveva nulla a che vedere con un comportamento istintivo o con la curiosità animale. Era pura intelligenza cognitiva! La spiegazione di Anawak deve essere giusta. Il modello al computer fatto da Karen Weaver funziona.»

«E ne consegue…» sospirò Vanderbilt, asciugandosi la fronte sudata.

«Che la possibilità dipende dall'anomalia.» Rubin spalancò le braccia. «Anche gli enzimi riparatori commettono errori. Raramente, è vero, ma ogni diecimila riparazioni ne saltano una. Una coppia di basi che non è riportata nelle condizioni originali. È poco, ma basta perché qualcuno venga al mondo come emofiliaco, col cancro o con la faringe aperta. Noi ci vediamo dei difetti, ma è la prova che il principio di riparazione non ha valore assoluto.»

Judith Li si alzò e prese a misurare a passi lenti la sala. «Quindi lei è convinto che gli esseri unicellulari e gli yrr siano la stessa cosa? Abbiamo trovato i nostri nemici?»

«Ci sono due limitazioni», disse rapidamente Rubin. «Primo, dobbiamo risolvere il problema del DNA. Secondo, ci deve essere qualcosa di simile a una regina. Il collettivo può essere intelligente quanto vuole, ma quello che abbiamo nella cisterna è solo la parte esecutiva del tutto.»

«Una regina? Come dobbiamo immaginarla?»

«Identica e nel contempo diversa. Prenda le formiche. Anche la regina è una formica, ma particolare. Dipende tutto da lei. Gli yrr sono esseri che vivono in colonia, un insieme di microrganismi. Se Anawak ha ragione, incarnano una seconda via nell'evoluzione verso una vita intelligente, però qualcosa li deve guidare.»

«Quindi se troviamo la regina…» iniziò Peak.

«No.» Rubin scosse la testa. «Non facciamoci illusioni. Potrebbe essercene più di una. Potrebbero essere milioni. E, se sono furbe, non si faranno vedere nei nostri paraggi.» Fece una pausa. «Tuttavia, per essere regine, devono funzionare secondo gli stessi princìpi dei normali yrr. La fusione e la memoria genetica. Siamo sul punto d'identificare una sostanza odorosa che le cellule emettono come segnale per la fusione. Un feromone, sulle cui tracce sono Sue Oliviera e Sigur Johanson. Attraverso questo feromone, questo odore, è garantito che tra le cellule si fonde anche la regina. L'odore è la chiave della comunicazione tra gli yrr.» Rubin rise, soddisfatto di sé. «E potrebbe essere la chiave per la soluzione di tutti i nostri problemi.»

«Bene, Mick.» Vanderbilt gli fece un magnanimo cenno di assenso. «È tornato nelle nostre grazie. Anche se nel ponte a pozzo ha combinato un bel casino.»

«Non potevo farci niente», replicò Rubin, dispiaciuto.

«Lei è della CIA, Mick. Nel mio gruppo, una frase del genere non esiste. Ci siamo forse dimenticati di dirglielo quando l'abbiamo presa con noi?»

«No.»

Vanderbilt infilò goffamente il fazzoletto nei pantaloni. «Sono contento di sentirlo. Tra poco, Jude parlerà col presidente. Così potrà dirgli che bravo ragazzo è lei. Grazie per la sua visita. E ora torni nelle miniere di sale!»


Sala riunioni

Samantha Crowe e Murray Shankar sembravano molto meno sicuri rispetto al momento della decifrazione del primo segnale. La squadra era tesa e demoralizzata, non solo per i terribili avvenimenti del ponte a pozzo. Ormai diventava sempre più evidente che nessuno era in grado di comprendere gli schemi di comportamento degli yrr.

«Perché ci mandano dei messaggi e contemporaneamente ci attaccano?» chiese Peak. «Nessun essere umano farebbe una cosa simile.»

«Non stiamo parlando di uomini», intervenne Shankar.

«Vorrei tanto capirli.»

«Le ribadisco che non li capirà se segue i princìpi della logica umana», replicò Samantha. «Forse il primo messaggio è stato un avvertimento: 'Sappiamo dove siete'. Comunque sia, è questo che ci hanno risposto.»

«Potrebbe essere una manovra diversiva», propose Sue.

«E a cosa sarebbe servito il diversivo?» domandò Anawak.

«A distrarci.»

«Da cosa? Da quello che hanno messo in scena poco dopo?»

«Non è un'ipotesi poi così assurda», intervenne Johanson. «Una cosa sono riusciti a ottenerla: ci hanno fatto credere di essere interessati alla comunicazione. Sal ha ragione, nessun essere umano si comporterebbe così. Forse loro lo sanno. Ci hanno illuso. Si sono mostrati in tutto il loro splendore e noi, che aspettavamo l'apparizione cosmica, ci siamo presi un bel calcio nei denti.»

«Forse avrebbe dovuto mandare negli abissi qualcosa di diverso dagli esercizi matematici», disse Vanderbilt a Samantha.

Per la prima volta da quando Anawak la conosceva, lei sembrò perdere la calma. Fulminò con lo sguardo il vicedirettore della CIA. «Ha un'idea migliore, Jack?»

«Non è compito mio avere idee migliori, ma suo», sbottò Vanderbilt, pronto all'attacco. «La comunicazione con quelli è responsabilità sua.»

«Con chi? Lei continua a credere che dietro questa storia si nasconda qualche mullah, vero?»

«Se lei manda messaggi che servono soltanto a rivelare la nostra posizione, questo è un problema che deve risolvere lei. Nel suo stupidissimo impulso a onde sonore ha spedito informazioni dettagliate sull'umanità. Ha mandato loro un invito ad attaccarci!»

«Per poter parlare con qualcuno, prima bisogna conoscerlo», ribatté Samantha, acida. «È così stupido da non capirlo? Io volevo sapere chi erano, così ho raccontato loro qualcosa su di noi.»

«I suoi messaggi ci portano in un vicolo cieco…»

«Mio Dio, abbiamo appena iniziato!»

«… proprio com'è un vicolo cieco quella montatura del SETI. Appena iniziato? Auguri. Quanta gente dovrà morire prima che lei riesca a ingranare?»

«Jack!» esclamò Judith Li.

«Questo stupido programma di contatto…»

«Jack, la pianti! Voglio risultati, non litigi. Allora: c'è qualcuno, in questa sala, che ha un risultato?»

«Noi», rispose Samantha, burbera. «Il nocciolo del secondo messaggio è una formula: acqua, H2O. Per quanto riguarda il resto, lo scopriremo, ammesso che nessuno ci stia col fiato sul collo!»

«Anche noi abbiamo fatto un passo avanti», intervenne Karen.

«E noi pure!» interloquì Rubin. «Noi abbiamo fatto un grande passo avanti, grazie… ehm… alla fattiva collaborazione di Sigur e Sue.» Fu costretto a tossire. La sua voce non si era ancora rimessa in. sesto. «Forse vuoi fare tu la relazione, Sue?»

«Non fare tante scene», gli sibilò lei, sottovoce. Poi, a voce alta, disse: «Abbiamo estratto una sostanza odorosa che porta le cellule alla fusione. Dobbiamo ringraziare Sigur, che è riuscito a districarsi nella faticosissima lotta con le mostruose analisi di fase e dei campioni».

Mise un contenitore trasparente sigillato sul tavolo, pieno per metà di un liquido chiaro come l'acqua.

«La sostanza odorosa è qui dentro. L'abbiamo decodificata e la possiamo riprodurre. La ricetta è sorprendentemente semplice. Al momento non sappiamo al cento per cento come restino in contatto quegli esseri laggiù, e neppure chi o che cosa avvii la fusione. Ma, ammesso che ci sia qualcosa a dare l'impulso — per semplicità chiamiamola 'la regina' — rimaneva da risolvere il problema di come si riuniscano miliardi di unicellulari dispersi ovunque e oltretutto privi di occhi e orecchie. Il feromone serve proprio a questo. In sé, l'odore non è particolarmente adatto alla comunicazione sott'acqua, ma un richiamo feromonico funziona benissimo sulle brevi distanze. E, a quanto pare, la comunicazione feromonica delle cellule si limita a questa sostanza odorosa. Non c'è un vocabolario, ma un'unica parola: fusione! E non è neppure chiaro come comunichino tra loro le cellule fuse. È però certo che usano una qualche forma di scambio. Non diversamente da come accade in un computer neurale o in un cervello, ogni unità ha sempre bisogno di messaggeri. In biologia si chiamano ligandi. Quando una cellula vuole comunicare qualcosa, non va a far visita alle altre: manda un messaggio che viene trasportato dai ligandi alle altre cellule. Che a loro volta, come in ogni casa, hanno bisogno di una porta e di un campanello… di un recettore, in termini scientifici. Il ligando suona, il messaggio sonoro si diffonde come una cascata d'impulsi all'interno della cellula e fornisce al genoma le nuove informazioni.» Fece una pausa, quindi riprese: «A quanto pare, i microrganismi nella cisterna comunicano attraverso ligandi e recettori. Naturalmente l'immagine delle cellule che hanno la porta e di messaggeri gentili che arrivano e suonano è un po' falsata. Ogni cellula emette una nube di molecole odorose e non ha un unico recettore, bensì duecentomila. Con quelli riceve i feromoni e si aggancia all'insieme. Duecentomila campanelli suonati per scambiare informazioni con le cellule vicine sono già qualcosa. Il processo di fusione si svolge come una sorta di staffetta: una cellula riceve il feromone dall'insieme e si aggancia alla cellula vicina. Nel momento dell'aggancio, lei stessa produce dei feromoni che raggiungono le cellule nelle vicinanze, e così via. Il processo si svolge dall'interno verso l'esterno. Per capirlo meglio, anticipiamo la dimostrazione e ammettiamo che le cellule da noi esaminate siano effettivamente i nostri nemici. Perciò, con una certa sicurezza, possiamo chiamarle yrr». Unì la punta delle dita. «Abbiamo notato immediatamente che le cellule non dispongono solo di recettori, ma di coppie di recettori. Ci siamo spaccati la testa per capire come mai, ma poi ci siamo arrivati. Sono la garanzia che l'insieme non si ammali. Perciò abbiamo definito i recettori in base alla loro funzione. Il recettore universale riconosce: 'Io sono un yrr'. Il recettore speciale dice: 'Io sono un yrr sano, con tutte le funzioni, col DNA intatto e adatto a unirmi col collettivo per la grande festa'.»

«Una cosa del genere non potrebbe avvenire con un solo recettore?» chiese Shankar, aggrottando la fronte.

«No. Probabilmente no.» Sue rifletté. «È un sistema ben meditato. Secondo il nostro modello, dobbiamo immaginare ogni cellula degli yrr come un accampamento militare, circondato da un muro di cinta. Se un soldato si avvicina dall'esterno, si riconosce da un segno universale: l'uniforme. Quella dice ai soldati nel campo: 'Sono uno di voi'. Ma noi abbiamo visto abbastanza film di guerra con Michael Caine da sapere che, sotto un'uniforme, si potrebbe nascondere un traditore; inoltre, se uno riesce a entrare, va a finire che spara nel mucchio. Per questo Michael Caine deve presentarsi con un segno di riconoscimento supplementare. Deve conoscere una parola d'ordine. Mi sono espressa in termini carretti dal punto di vista militare, Sal?»

Peak annuì. «Perfettamente.»

«Adesso sono più tranquilla. Allora, quando due yrr si uniscono, accade questo: lo yrr già fuso con l'insieme produce una molecola odorosa, un feromone. Attraverso questo feromone, le cellule si agganciano ai loro recettori universali e iniziano un legame primario. Ha avuto luogo il primo passo nel riconoscimento: 'Io sono uno yrr'. Per il secondo passo, per l'aggancio dei recettori speciali, deve essere pronunciata questa frase: 'Io sono uno yrr sano'. Se è così, va tutto bene. Tuttavia ci sono yrr che non sono in grado di funzionare e non sono sani; in altri termini, ci sono yrr che rivelano difetti nel DNA. Il nostro nemico è un organismo che procede in maniera massiccia, che evidentemente è in costante sviluppo ed è quindi costretto a eliminare le cellule che non raggiungono lo stesso livello di crescita. Il trucco sembra questo: è vero che tutte le cellule possiedono i recettori universali, ma solo le cellule sane, capaci di arrivare a uno sviluppo elevato, sono in grado di formare i recettori speciali. Gli yrr malati non li hanno. E ora accade il vero miracolo, quello che ci deve spaventare. Lo yrr difettoso non dispone della parola d'ordine. Non viene accettato nella fusione, bensì rigettato. Questo però non basta: gli yrr sono unicellulari e, come tutti i procarioti, si riproducono per scissione. Naturalmente una specie in costante, elevata evoluzione non può permettere che rimanga una seconda popolazione difettosa, quindi deve impedire che le cellule non sane trovino il tempo di riprodursi. A questo punto, il feromone assume una doppia funzione. Durante il rigetto, il recettore universale dello yrr difettoso rimane appeso e si trasforma in un veleno a effetto rapido. Avvia la cosiddetta morte programmata della cellula, un fenomeno normalmente sconosciuto tra gli organismi unicellulari. Le cellule difettose muoiono all'istante.»

«Coma fa a sapere che un essere unicellulare è morto?» chiese Peak.

«È semplice: il suo metabolismo s'interrompe. Inoltre uno yrr morto si riconosce perché non luccica più. Per gli yrr, luccicare è una necessità biochimica. Un esempio noto al riguardo è fornito dall'Aequoria, una medusa dei mari del Sud. Per essere luminosa, essa produce un feromone. Nel nostro caso, si tratta di un fenomeno simile: abbiamo l'emissione di una sostanza odorosa che determina la luminescenza, le potenti scariche luminose e i lampi, segni di reazioni particolarmente violente nei legami delle cellule. Quando gli yrr s'illuminano, comunicano e pensano. Quando muoiono, smettono di essere luminosi.» Sue si guardò intorno. «E adesso voglio spiegarvi cosa ci deve fare paura. Con pochissimi strumenti, gli yrr hanno reso possibile una complessa selezione. Se uno yrr è sano e dispone di una coppia di recettori intatti, allora il feromone ne guida la fusione. Se non ha il recettore speciale, il feromone sviluppa un effetto mortale. Una specie che funziona così vede la morte con altri 'occhi' rispetto all'uomo. Nella società degli yrr, la morte è una questione assolutamente necessaria. Agli yrr non verrebbe mai in mente di guarire una cellula difettosa. Dal loro punto di vista, sarebbe incomprensibile, addirittura idiota. Bisogna uccidere ciò che minaccia lo sviluppo. È solo una questione di logica. Di fronte alla minaccia per l'insieme, gli yrr reagiscono con la logica della morte. Non c'è nessuna pietà, nessuna compassione, nessuna eccezione. Allo stesso modo, la logica della morte non c'entra niente con la crudeltà. Simili idee sono totalmente estranee agli yrr. Ergo, non capiranno perché dovrebbero risparmiarci, dato che rappresentiamo per loro una minaccia concreta.»

«Perché la loro biochimica non permette nessuna etica… Per quanto essi siano intelligenti», concluse Judith Li.

«Va bene», disse Vanderbilt. «Che cosa possiamo cavare di concreto dal fatto che ora conosciamo il loro piccolo segreto dello Chanel No. 5? Potremmo fonderci con loro, se ho visto giusto. Fantastico. Io potrei fondermi con loro!»

Samantha Crowe lo squadrò con una lunga occhiata. «E crede che loro lo vogliano?»

«Ma vada a quel paese!»

«Sarebbe bene da parte vostra rinviare a più tardi il match di boxe», intervenne Anawak. «Karen e io abbiamo avuto un'idea su come gli unicellulari possono arrivare a pensare. Sigur, Mick e Sue si metteranno le mani nei capelli. Dal punto di vista biologico è un'assurdità, ma potrebbe dare una risposta a molte domande.»

«Abbiamo programmato le nostre cellule virtuali con un DNA artificiale che muta continuamente», riprese Karen. «In altri termini, un DNA che impara. Ci siamo ritrovati al punto di partenza, a un computer neurale. Vi ricorderete che abbiamo diviso quel cervello elettronico nelle sue più piccole componenti di memoria capaci di apprendere e ci siamo chiesti come potesse tornare a essere un tutt'uno pensante. Non funzionava finché le singole cellule non sono state in grado di apprendere autonomamente. Ma l'unica via concessa a una cellula per imparare consiste nel mutare il DNA, una cosa che non può accadere. Tuttavia noi abbiamo fornito le cellule virtuali di questa possibilità. E di un profumo, come vi ha appena descritto Sue.»

«Non solo abbiamo riavuto il nostro computer neurale perfettamente funzionante», proseguì Anawak. «Ma abbiamo anche avuto davanti agli occhi uno yrr vivente in un ambiente naturale. La nostra piccola creatura virtuale dispone infatti di qualche extra. Le cellule si muovono in uno spazio tridimensionale. Abbiamo provvisto questo spazio delle caratteristiche tipiche degli abissi marini, quindi pressione, correnti, attrito e così via. Prima, però, dovevamo comprendere come i membri dell'insieme si riconoscevano tra loro. L'odore è solo una mezza verità. L'altra metà consiste nel limitare le dimensioni dell'insieme. E qui entra in gioco quello che Sue e Sigur hanno scoperto, e cioè che gli amplicon degli yrr cambiano in piccole regioni ipervariabili. Vi ricorderete delle conseguenze di questa scoperta: le cellule devono aver cambiato il loro DNA dopo la nascita. Noi crediamo che accada proprio questo e che le regioni ipervariabili servano come codice che permette agli yrr di riconoscersi tra loro e, per esempio, di limitare l'insieme.»

«Gli yrr con lo stesso codice si riconoscono tra loro e gli insiemi più piccoli possono fondersi con quelli più grandi», concluse Judith Li.

«Proprio così», annuì Karen. «Allora abbiamo codificato le cellule. A questo punto, ogni cellula disponeva già di una sorta di conoscenza basilare del proprio ambiente vitale. Quindi aveva informazioni particolari non possedute da tutte le cellule. Come c'era da aspettarsi, le prime cellule che si sono fuse in un insieme sono state quelle con lo stesso codice. Poi abbiamo tentato una cosa diversa, provando a far fondere due collettivi con un codice diverso. Ha funzionato, ed è successo l'incredibile: non solo la fusione è avvenuta, ma le cellule si sono anche scambiate il loro codice individuale e si sono portate nella medesima condizione. Si sono programmate su un nuovo codice omogeneo, un livello immediatamente superiore di conoscenza condiviso da tutte. Alla fine, i due insiemi sono diventati uno solo. Noi abbiamo agganciato quest'ultimo a un terzo insieme e, ancora una volta, esso è diventato qualcosa di nuovo che prima non c'era.»

«Come passo successivo, abbiamo cercato di osservare la capacità di apprendere degli yrr», disse Anawak. «Abbiamo formato due insiemi con codici diversi. Il primo è stato provvisto di una specifica esperienza. Abbiamo simulato l'attacco di un nemico. In modo non particolarmente originale, abbiamo scelto uno squalo che si è mangiato un bel boccone dell'insieme, e poi abbiamo fatto in modo che, la volta successiva, l'insieme si scansasse. Quando lo squalo è arrivato, abbiamo ordinato all'insieme di abbandonare la sua forma sferica e di appiattirsi come una platessa. All'altro insieme non abbiamo insegnato questo trucco, ed esso è stato in parte mangiato. Poi abbiamo fatto fondere i due insiemi e rimandato lo squalo. L'insieme si è scansato. Tutta la massa aveva imparato. Infine abbiamo diviso l'insieme in tante piccole parti e improvvisamente tutte sapevano come evitare uno squalo.»

«Quindi imparano attraverso le regioni ipervariabili?» chiese Samantha.

«Sì e no», disse Karen, lanciando un'occhiata ai suoi appunti. «È possibile che lo facciano, ma, per un computer, il processo è troppo lungo. In ogni caso, la massa che ci ha attaccato nel ponte a pozzo è molto veloce nelle reazioni e probabilmente pensa altrettanto velocemente. Un gigantesco cervello variabile. No, non possiamo limitarci alle piccole regioni. Abbiamo programmato il DNA in maniera tale che fosse del tutto capace di apprendere e la loro velocità di pensiero è aumentata enormemente.»

«E il risultato?» chiese Judith Li.

«Si basa sui pochi tentativi condotti poco prima di questo incontro. Pochi, ma sufficienti per la seguente affermazione: un insieme yrr, non importa quanto grande, pensa con la velocità di un calcolatore simultaneo di ultimissima generazione. Il sapere individuale è diffuso a tutti, ciò che è sconosciuto viene esaminato. All'inizio, alcuni insiemi di nuova formazione non sono cresciuti, ma, con lo scambio, hanno imparato. Fino a un certo punto, lo sviluppo della capacità di apprendere procede in maniera lineare, ma, da lì in poi, il comportamento dell'insieme non è più prevedibile…»

«Un momento», la interruppe Shankar. «Vuol dire che il programma comincia a condurre una vita autonoma?»

«Abbiamo sottoposto agli yrr situazioni completamente sconosciute. Più complesso era il problema, più spesso si fondevano. Dopo breve tempo, hanno iniziato a sviluppare strategie i cui fondamenti non erano stati programmati. Sono diventati creativi e curiosi. E hanno imparato in maniera esponenziale. Abbiamo potuto fare soltanto pochi tentativi — e stiamo sempre parlando di un programma al computer — ma i nostri yrr hanno imparato ad assumere le forme desiderate, a imitare le forme di altri esseri viventi e a variarle, a formare estremità rispetto alle quali la sensibilità delle nostre dita è analoga a quella di un pezzo di legno, a esaminare oggetti a livello microscopico, a scambiare ognuna di queste esperienze con ognuna delle altre cellule e a risolvere problemi in cui gli uomini fallirebbero.»

Per un momento regnò un silenzio sbigottito. Si vedeva chiaramente che la maggior parte dei presenti stava ripensando agli avvenimenti avvenuti nel ponte a pozzo. Infine Judith Li disse: «Ci faccia un esempio dei problemi risolti».

Anawak annuì. «Allora, io sono un insieme yrr, chiaro? Un'intera scarpata continentale è attaccata da vermi che io ho allevato, ho riempito di batteri e ho portato là in modo che gli idrati di metano si destabilizzino su tutto il fronte. Il mio problema è che i vermi e i batteri possono fare una gran quantità di lavoro, ma, per ottenere il grande smottamento, ho bisogno di un colpo decisivo.»

«Vero», disse Johanson. «È una bella gatta da pelare. Vermi e batteri fanno il lavoro preliminare, però manca ancora qualcosa per trasformarlo in una catastrofe.»

«Manca un leggero abbassamento del livello del mare che diminuirebbe la pressione sugli idrati, oppure un riscaldamento dell'acqua, giusto?»

«Sì.»

«Di un grado?»

«Dovrebbe bastare. Ma diciamo due.»

«Bene. Ci siamo fatti furbi. Davanti alla scarpata continentale norvegese c'è il vulcano di fango Håkon-Mosby. I vulcani di fango non eruttano lava, ma trasportano gas, acqua e sedimenti dall'interno della Terra fino al fondale marino. L'acqua al di sopra dei vulcani di fango non è bollente, ma è comunque più calda che negli altri punti. Quindi mi riunisco a formare un grande insieme. Un insieme molto grande. Mi do la forma di un tubo con le estremità aperte e, dato che voglio diventare un tubo grande, limito lo spessore delle mie pareti esterne a poche cellule. Per riuscirci, ho pur sempre bisogno di una notevole quantità di me stesso, di molti miliardi di cellule, però io sono talmente sottile che riesco a stendermi per molti chilometri. La mia circonferenza corrisponde a quella del cratere centrale, circa cinquecento metri. Prendo l'acqua calda del vulcano di fango al mio interno e la porto, come se fossi una gigantesca tubatura, là dove vermi e batteri hanno fatto il lavoro preliminare. E così ho la mia soliflussione. Nello stesso modo, potrei riscaldare anche l'acqua della Groenlandia o le calotte polari, cosa che porterebbe allo scioglimento dei ghiacciai e al blocco della Corrente del Golfo.»

«Se questo è ciò che possono fare gli yrr del suo computer, cosa possono fare gli yrr reali?» mormorò Peak, sbalordito.

Karen fece una smorfia e lo guardò. «Credo qualcosa in più.»


Nuotare

Karen sentiva una tensione interiore, ma anche il suo corpo era rigido. Non appena ebbero lasciato la sala riunioni, chiese ad Anawak se aveva voglia di fare qualche vasca in piscina. Le sue spalle erano un unico blocco dolente. E capitava proprio a lei, che era abituata a fare ogni tipo di sport, anche i più estremi.

Forse è proprio questo il tuo problema, pensò. Forse dovresti praticare uno sport che non sia estremo.

Anawak la accompagnò. Andarono a prendere i costumi da bagno nelle rispettive cabine, indossarono l'accappatoio e si ritrovarono lungo la strada per la piscina. Karen avrebbe voluto prenderlo per mano — anzi, in quel momento, avrebbe fatto volentieri ben altro con lui -, ma non sapeva come s'iniziava una cosa del genere senza fare la figura dell'idiota. Prima della trasformazione radicale della sua vita, non si era mai fatta simili problemi, ma quello che era successo allora non aveva niente a che fare con l'amore. Si sentiva timida, bloccata. Come si flirtava? Com'era possibile andare a letto insieme quando il giorno precedente erano morte delle persone e il mondo stava precipitando nel baratro?

Si poteva essere così sciocchi?

Sull'Independence, l'area riservata alla piscina era enorme e sorprendentemente confortevole per una nave da guerra; la piscina stessa aveva le dimensioni di un laghetto. Quando si tolse l'accappatoio, Karen sentì sulla schiena lo sguardo di Anawak e comprese che era la prima volta che lui la vedeva così. Il costume da bagno era molto ridotto e profondamente scollato sulla schiena. Inoltre di certo lui aveva notato il tatuaggio.

Imbarazzata, si avvicinò al bordo della piscina, si diede una spinta e fece un tuffo elegante. Si muoveva appena sotto la superficie, con le braccia tese in avanti, e sentì Anawak che la seguiva. Forse succederà qui, pensò. Sentì lo stomaco serrarsi. Sospesa tra la speranza e il timore, iniziò a battere i piedi e a nuotare più velocemente.

Fifona! Perché no?

Immergersi e fare l'amore. Sott'acqua.

Fondersi…

Improvvisamente le venne un idea.

Era ridicolmente semplice e purtroppo anche piuttosto crudele. Se avesse funzionato, però, sarebbe stata davvero brillante. Poteva portare al ritiro pacifico degli yrr o quantomeno spingerli a ripensare alle loro azioni.

Ma era davvero un'idea brillante?

Toccò con le dita le mattonelle delle pareti. Riemerse e si tolse l'acqua dagli occhi. Un attimo dopo, quel pensiero le sembrò soltanto volgare. Poi dispiegò nuovamente il suo fascino ammaliante. A ogni metro che Anawak percorreva, nuotando verso di lei, diventava sempre più indecisa. E quando lui fu quasi vicino a lei, l'idea le sembrò ripugnante.

Doveva dormirci sopra.

Improvvisamente Anawak le fu molto vicino.

Karen si schiacciò contro il bordo della piscina. La sua cassa toracica si alzava e abbassava. Il suo cuore batteva come allora, quand'era rimasta sospesa nell'acqua del canale… Quella sensazione di vertigine e il martellio violento del cuore che sembrava dire: «Ora… ora… ora».

Si sentì sfiorare all'altezza della vita e aprì le labbra.

Paura!

Di' qualcosa, pensò. Bisogna parlare di qualcosa, di qualsiasi argomento.

«Sembra che Sigur stia meglio.» Le parole le uscirono come se lei stesse sputando un rospo.

Negli occhi di Anawak comparve un'ombra di delusione. Si allontano un po' da lei, si strizzò i capelli bagnati e sorrise. «Sì, uno strano incidente.»

Maledetta stupida, sei completamente idiota! «Ma ha un problema.» Appoggiò i gomiti al bordo e si sollevò. «Tienilo per te. Non deve assolutamente sapere che ne parlo. Voglio solo sentire il tuo parere.»

Sigur avrebbe un problema? Sei tu ad avere un problema! Idiota! Idiota!!!

«Quale problema?» chiese Anawak.

«Ha visto qualcosa. O, meglio, dice di aver visto qualcosa. Per come la racconta, io gli credo, ma allora la questione sarebbe di tale importanza che… Ascoltami.»


Sala di controllo

Seduta davanti al monitor, Judith Li stava ascoltando Karen Weaver che raccontava ad Anawak i dubbi di Johanson. Che bella coppia, pensò, divertita.

Il contenuto della conversazione la divertiva meno. Quell'idiota di Rubin aveva messo a rischio l'intera missione. Potevano soltanto sperare che Johanson non ricordasse quello che la droga avrebbe dovuto eliminare dalle sue circonvoluzioni cerebrali. Ora della questione si occupavano anche Karen Weaver e Leon Anawak!

Perché vi occupate di questa faccenda, bambini miei? pensò. Le stupide favolette dello zio Johanson! Perché non andate a letto insieme? Lo vedrebbe pure un cieco che non aspettate altro. Però non sapete come agire. Judith sospirò. Da quando la Marina aveva ammesso le donne, aveva osservato innumerevoli volte quel tipo di approccio impacciato. Ogni volta era così evidente! Monotono e banale. A un certo punto, tutti volevano andare a letto insieme. A quei due nella piscina non veniva in mente niente di meglio da fare che rompersi la testa su Johanson?

«Dobbiamo abituarci all'idea che Rubin dovrà saltare», disse a Vanderbilt.

L'uomo della CIA se ne stava in piedi alle sue spalle, con in mano una tazza di caffè. Erano soli. Peak si trovava nel ponte a pozzo per portare a termine le operazioni di sgombero e per controllare le condizioni dell'equipaggiamento per le immersioni.

«E poi cosa facciamo?»

«Ci sono alcune chiare opzioni.»

«Ma non siamo ancora così avanti da poterle usare, mia cara Judy. Rubin non è ancora così avanti. Naturalmente sarebbe molto meglio se non dovessimo farlo.»

«Che succede, Jack? Scrupoli?»

«Solo calma. Questo maledetto piano può anche essere il suo, però a me spetta la garanzia della sua riuscita. Può essere certa che i miei scrupoli si muovono in una sfera di compatibilità.» Ridacchiò. «In fondo, c'è il rischio di perdere la reputazione.»

Judith Li si voltò verso di lui. «Perché, lei ne ha una?»

Vanderbilt bevve rumorosamente dalla sua tazza. «Sa che cosa apprezzo particolarmente di lei, Jude? Il modo in cui sa essere disgustosa. Mi dà la sensazione di essere un bravo ragazzo. Ed è tutto dire!»


Combat Information Center

Samantha Crowe e Murray Shankar si stavano scervellando.

Il computer mostrava immagini intrecciate, linee parallele che improvvisamente tendevano l'una verso l'altra, si piegavano e diventavano una sola. In mezzo, si stendevano ampi spazi vuoti di forma irregolare. Scratch era costituito da un'intera serie di simili grafici, che sembravano formare un'unica immagine, però non si decideva a comparire. Le immagini non s'incastravano tra loro. Inoltre Samantha non aveva ancora la minima idea di che cosa significassero le linee.

«L'acqua è la base», rimuginò Shankar. «A ogni molecola d'acqua è accoppiata un'informazione supplementare. Che cos'è? Una caratteristica dell'acqua?»

«Possibile. Quali caratteristiche potrebbero intendere?»

«La temperatura.»

«Sì, per esempio. O la concentrazione salina.»

«Forse non si tratta di caratteristiche fisiche o chimiche, ma degli stessi yrr. Le linee potrebbero indicare la densità della loro popolazione.»

«Quindi vorrebbero dire: 'Noi abitiamo qui'? Una cosa del genere?»

Shankar si grattò il mento. «Qualcosa del genere o no?»

«Non lo so, Murray. Noi comunicheremmo loro dove si trovano le nostre città?»

«No. Però loro non pensano come noi.»

«Grazie di avermelo ricordato.» Samantha fece un anello di fumo. «Va bene, riprendiamo. H2O. Acqua. Questa parte del messaggio non è difficile da comprendere. L'acqua è il nostro mondo.»

«Che è la prima risposta, seguendo l'ordine del nostro messaggio.»

«Vero. Abbiamo confidato loro che viviamo all'aria aperta. Poi abbiamo descritto il nostro DNA e la nostra forma.»

«Supponiamo che rispondano davvero nell'ordine», disse Shankar. «Le linee potrebbero essere una rappresentazione della loro forma?»

Samantha fece una smorfia. «Loro non ce l'hanno, una forma. Ovviamente gli organismi unicellulari ne hanno una, però è difficile che si definiscano in base a quella. In quanto forma, si percepiscono solo come insieme e non possono di certo definirsi in base a quello: la gelatina ha migliaia di forme e nel contempo nessuna.»

«Bene. La forma è esclusa. Quali altri informazioni potrebbero essere interessanti? Il numero degli individui?»

«Un numero seguito da così tanti zeri che dovremmo utilizzare tutto lo scafo dell'Independence per scriverlo. Inoltre si riproducono a pieno regime, muoiono a pieno regime… Probabilmente nemmeno loro sono in grado di stabilire il numero esatto.» Samantha fece oscillare la sigaretta tra le dita. «Non conta il singolo essere. È totalmente privo d'importanza. Conta l'insieme. L'idea yrr, se vuoi, lo yrr idealizzato. Il genoma yrr.»

Shankar la guardò da sopra il bordo degli occhiali. «Non bisogna dimenticare che abbiamo mandato solo l'informazione che la nostra biochimica si basa sul DNA. La loro risposta dovrebbe essere più o meno così: 'Anche la nostra'. Credi davvero che si siano spinti a decifrare per noi il loro genoma?»

«Potrebbe essere.»

«Perché dovrebbero farlo?»

«Perché quella è l'unica cosa che possono dire di se stessi. Il genoma e la fusione sono i punti centrali di tutta la loro esistenza, tutto lo lascia pensare.»

«Sì, ma come si può descrivere un DNA in costante mutazione?»

Samantha guardò sconsolata l'intreccio di linee. «Che siano una carta geografica?»

«Una carta geografica di cosa?»

«Va bene.» Sospirò. «Ricominciamo da capo. H2O è la base. Viviamo nell'acqua…»


A quattr'occhi

Judith Li aveva messo il tapis roulant alla massima velocità. In altre circostanze, sarebbe andata in palestra per cementare il morale della truppa. Ma stavolta non voleva essere disturbata. Come ogni giorno, stava parlando con l'Offut Air Force Base.

«Com'è il morale, Jude?»

«Alto, signore. L'attacco ci ha colpito duramente, ma abbiamo tutto sotto controllo.»

«La gente è motivata?»

«Come non mai.»

«Sono preoccupato.» Il presidente sembrava stanco. Sedeva, solo come un cane, nella War Room della base. «Boston è stata evacuata. Su New York e Washington ci abbiamo messo una croce. E riceviamo nuove notizie spaventose da Philadelphia e Norfolk.»

«Lo so.»

«Il Paese sta andando a rotoli, mentre tutto il mondo non fa altro che parlare di un'intelligenza non umana nel mare. Mi piacerebbe proprio sapere chi non ha tenuto la bocca chiusa.»

«Che importanza ha, signore?»

«Che importanza ha?» Il presidente sbatté il palmo della mano sul tavolo. «Se l'America prende la guida, non accetto nessuna azione indipendente di un qualche stronzo dell'ONU! Solo perché qualcuno pensa che il proprio piccolo, stupido Paese debba entrare in gioco. Sa cos'è successo là fuori, a che razza di autonomia si arriva?»

«So bene cos'è successo.»

«Oppure è stato qualcuno della sua cerchia a parlare?»

«Con tutto il rispetto, signore, l'ipotesi degli yrr è una cosa cui possono essere arrivati anche altri. Da quello che sento, la maggior parte delle ipotesi in tutto il mondo ruota ancora intorno ai fenomeni naturali e al terrorismo internazionale. Stamattina, uno scienziato di Pjongjang…»

«Ha detto che siamo delle canaglie.» Il presidente agitò una mano. «So tutto. Saremmo noi a muoverci con sommergibili ultraleggeri e ad attaccare le nostre stesse città, per avere il pretesto di fare le scarpe ai comunisti innocenti. Che sciocchezza.» Si piegò in avanti. «In fondo non me ne importa nulla. Me ne infischio della popolarità. Voglio che il problema sia risolto, voglio sul tavolo altre opzioni! Jude, maledizione, nessun Paese è nelle condizioni di aiutare gli altri! Gli stessi Stati Uniti d'America devono chiedere aiuto! Siamo presi d'assalto, avvelenati, i nostri cittadini fuggono verso l'interno. Mi devo ritirare in una base di sicurezza come una talpa. Nelle città dominano i saccheggi e l'anarchia. L'esercito e le forze dell'ordine sono disperatamente sovraccarichi di lavoro. Le persone possono scegliere tra alimenti contaminati e medicine prive di effetti.»

«Signore…»

«Dio tiene ancora la sua mano protettrice sull'Occidente, se non si tiene conto del fatto che c'è qualcosa che morde le dita non appena si prova a mettere un piede in acqua. La popolazione di vermi davanti all'America e all'Asia cresce in continuazione e a La Palma siamo ormai alla fine. Non è che mi dispiaccia se alcuni regimi vacillano, ma al momento non possiamo affrontare il problema di dove finiranno le loro armi.»

«Il suo ultimo discorso…»

«La smetta! Da mattina a sera non faccio altro che lasciarmi andare a esternazioni appassionate. Nessuno di quelli che scrivono i miei discorsi le raccoglie. Nessuno di loro capisce quello che voglio dire a questo Paese e al mondo. Voglio diffondere fiducia. Il popolo americano deve vedere un comandante supremo determinato, che farà tutto il necessario per vincere la guerra, anche se il nemico nasconderà mille volte il proprio volto. Il mondo deve trovare la forza. No, non vogliamo illudere nessuno, dobbiamo prepararci al peggio, ma avremo un punto di riferimento! Questo è quello che dico, ma quando quegli scribacchini vogliono diffondere l'ottimismo, diventano inaffidabili e patetici e c'infilano anche un bel po' di paura. Ce ne sarà mai uno che mi stia a sentire?»

«Ma la gente la ascolta», lo confortò Judith Li. «Al momento lei è uno dei pochi che viene ascoltato. Insieme coi tedeschi.»

«Sì, i tedeschi.» Il presidente socchiuse le palpebre. «È vero? I tedeschi stanno progettando una loro missione?»

Judith quasi cadde dal tapis roulant. Che sciocchezza era? «No, non lo stanno facendo. Siamo noi a guidare il mondo. Siamo legittimati dalle Nazioni Unite. La Germania guida l'Europa, ma collabora strettamente con noi. Guardi La Palma.»

«Allora perché la CIA mi racconta queste cose?»

«Perché Vanderbilt le mette in circolazione.»

«Ah, Jude…»

«E invece sì. È stato e rimane un intrallazzatore.»

«Bambina mia, se lei fosse già prossima a raggiungere il posto cui mira, peraltro meritandolo, di certo non avrebbe intorno Vanderbilt.»

Judith espirò lentamente. Si era lasciata prendere dall'emotività. Si era scoperta, forse sopravvalutandosi. Non era un bene. Doveva riprendere il controllo. «Naturalmente, in Jack non vedo un problema, ma un partner», disse sorridendo.

Il presidente annuì. «I russi ci hanno mandato un team che ha ampiamente informato la CIA sulla situazione sulle coste del mar Nero. Siamo in stretto contatto con la Cina. È probabile che quella dei tedeschi sia una bufala. Nemmeno io ho l'impressione che stiano giocando per conto loro, però sa bene che, in momenti simili, i media si buttano su queste notizie come se fossero leccornie. No, possiamo essere soddisfatti. È già meraviglioso vedere quante persone di diverse nazioni si riuniscano sotto lo stesso Dio di fronte al diavolo che sale dal mare.» Si passò una mano sugli occhi. «Allora, a che punto siamo? Non volevo chiederle altro, Jude, non voglio metterla nella penosa situazione di dover dissimulare qualcosa, però adesso deve parlare. A che punto siamo?»

«Siamo vicini al successo.»

«Cosa intende con 'vicini'?»

«Rubin sostiene che, se tutto va come previsto, nel giro di un paio di giorni potremo agire. Abbiamo fatto un gran colpo in laboratorio. C'è una sostanza odorosa attraverso cui gli yrr comunicano. Hanno preparato la sostanza artificialmente…»

«Mi risparmi i dettagli. Rubin sostiene che funziona?»

«Ne è assolutamente sicuro, signore», disse Judith Li. «E lo sono anch'io.»

Il presidente si morse il labbro inferiore. «Mi affido a lei, Jude. C'è qualche complicazione coi suoi scienziati?»

«No», mentì lei. «Tutto procede al meglio.» Perché aveva fatto quella domanda? Forse Vanderbilt… Calma, Jude. Una frase casuale. Non è nell'interesse di Vanderbilt. Quel sacco di lardo ha una vera boccaccia, però non si darebbe la zappa sui piedi. «Siamo molto avanti, signore», riprese. «Le ho promesso che avrei portato a termine l'operazione come desiderato, e lo farò. Noi salveremo il mondo. Lo salveranno gli Stati Uniti d'America. Lei salverà il mondo.»

«Come al cinema, eh?»

«Meglio.»

Il presidente annuì, cupo. Subito dopo sorrise. Non era il solito sorriso raggiante, però aveva un tocco di quell'indispensabile determinazione a vincere per cui lei lo ammirava e rispettava.


Combat Information Center

Qualunque cosa nascondesse il messaggio mandato dai nemici nascosti in mare, lo stomaco di Murray Shankar, spinto dalla biochimica umana, brontolava tanto che, a un certo punto, Samantha Crowe non ne poté più di sentirlo e spedì il collega a mangiare.

«Non devo mangiare», insistette Shankar.

«Ma fammi il piacere», sbottò Samantha.

«Non abbiamo tempo per mangiare.»

«Lo so anch'io. Ma non ne avremo comunque, se a un certo punto qualcuno troverà le nostre ossa sbiancate. Perlomeno io mi nutro di Lucky Strike. Va', Murray. Mangia qualcosa, torna rinvigorito e risolvi il nostro problema con un impulso costruttivo.»

Shankar andò e lei rimase sola.

Aveva bisogno di stare un po' da sola. Non aveva niente contro Shankar. Era un uomo brillante e aveva aiutato parecchio. Però sembrava vivere unicamente in funzione dell'acustica. Faticava a confrontarsi con un modo di pensare non umano, e Samantha era arrivata alla conclusione che la cosa migliore sarebbe stata non avere intorno nessuno, tranne il fumo.

Fumò una sigaretta e ricominciò.

H2O. Noi viviamo nell'acqua.

Il messaggio si presentava come il disegno di una carta da parati. Un rapporto sull'H2O. Sempre uguale, a parte il fatto che ogni molecola di H2O era accoppiata con qualche dato supplementare. Milioni di simili coppie di dati allineati. Nella trasposizione grafica, si rivelavano delle immagini formate da linee. Il pensiero più naturale era che i dati supplementari descrivessero caratteristiche dell'acqua o di qualcosa che ci viveva in mezzo.

Ma forse quel pensiero era sbagliato.

Che avevano da raccontare gli yrr?

Acqua. E poi?

Samantha rifletté. Improvvisamente le venne in mente un esempio. Due affermazioni. Primo: «Questo è un secchio». Secondo: «Questa è acqua». Insieme: un secchio d'acqua. Le molecole dell'acqua erano tutte uguali, quelle che descrivevano il secchio, no. Differivano: forse si trattava della forma del secchio, della sua struttura superficiale, di eventuali decorazioni. Dati supplementari che descrivevano il secchio attraverso la codificazione di migliaia di singole affermazioni diverse, quindi una questione completamente diversa. E allora, da una parte, l'affermazione che il secchio era pieno fino all'orlo. Facilissima da trovare, visto che ogni affermazione-secchio era legata all'affermazione aggiuntiva «acqua».

Dall'altra parte, HzO veniva accoppiata con dati che descrivevano qualcosa che non aveva nulla a che fare con l'acqua, cioè un secchio.

«Vìviamo nell'acqua.»

E dov'era, quell'acqua? Come si poteva dire qualcosa su un luogo che non aveva forma?

Si poteva descrivere qualcosa con cui esso confinava.

Le coste e i fondali marini.

Le superfici libere erano la terraferma; i loro bordi erano le coste.

A Samantha quasi cadde la sigaretta. Cominciò a dare comandi al computer. Di colpo, comprese come mai le superfici messe insieme non formavano un'immagine coerente. Perché non descrivevano uno spazio bidimensionale, bensì una figura tridimensionale. Bisognava piegarle in modo che si adattassero le une alle altre. Piegarle finché non formavano qualcosa di tridimensionale.

Una sfera.

La Terra.


Laboratorio

Nello stesso momento, Johanson era impegnato coi campioni presi dal tessuto degli yrr. Dopo dodici ore d'intensissimo lavoro in laboratorio, Sue aveva ceduto. Nelle notti precedenti aveva dormito assai poco. La spedizione stava cominciando a pagare il proprio tributo alla stanchezza. Benché procedessero a grandi passi, il senso d'insicurezza era calato su tutti, penetrando fin nelle ossa. Ognuno reagiva a proprio modo. Greywolf si era ritirato nel ponte a pozzo. Si occupava dei tre delfini rimasti, analizzava i dati ed evitava accuratamente ogni contatto. Gli altri mostravano un notevole nervosismo. Rubin compensava l'orrore con l'emicrania, e quello era il secondo motivo, oltre al meritatissimo riposo di Sue, per cui Johanson era solo nella penombra del grande laboratorio.

Aveva spento l'illuminazione principale. Le luci ai tavoli e i monitor costituivano le uniche fonti di luce. Dal simulatore che ronzava usciva un alone blu appena percepibile. La massa continuava a coprire il fondo. Si sarebbe potuto considerarla morta, ma ormai sapevano che non era così.

Finché era luminosa, era viva.

Sulla rampa risuonarono dei passi. Anawak infilò dentro la testa.

«Leon.» Johanson sollevò lo sguardo dalla sua documentazione. «Che piacere.»

Anawak sorrise. Entrò, prese una sedia e vi si accomodò cavalcioni, con le braccia appoggiate allo schienale. «Sono le tre del mattino», disse. «Che diavolo ci fa qui?»

«Lavoro. E tu?»

«Non riesco a dormire.»

«Forse potremmo concederci un sorso di Bordeaux. Che ne dici?»

«Oh…» Anawak sembrò incerto. «È davvero molto gentile da parte tua, ma non bevo alcol.»

«Mai?»

«Mai.»

«Strano.» Johanson aggrottò la fronte. «In genere non mi sfuggono queste cose. Ma qui siamo un po' tutti fuori squadra, vero?»

«Lo può ben dire.» Anawak fece una pausa. Sembrava che volesse dire qualcosa, ma poi chiese: «Come procede il tuo lavoro?»

«Bene», rispose Johanson. Poi, come di sfuggita, aggiunse: «Ho risolto il vostro problema».

«Il nostro problema?»

«Tuo e di Karen. Il problema della memoria del DNA. Avevate ragione. Funziona, e so anche come.»

Anawak spalancò gli occhi. «E lo dici così, come se niente fosse?»

«Scusami, però sono troppo stanco per mettermi a ballare il tip tap. Naturalmente hai ragione. Bisogna festeggiare con una bevuta.»

«Come ci sei arrivato?»

«Ricordi quella misteriosa regione ipervariabile? Sono cluster. Ovunque sul genoma si trovano questi cluster che codificano determinate famiglie di proteine. Ah… sai di cosa sto parlando?»

«Aiutami.»

«I cluster sono sottoclassi dei geni. Geni che servono per qualcosa, per esempio per formare i recettori e per la produzione di qualche sostanza. Se un grumo di questi geni si trova su una sezione di DNA, si chiama cluster. E il genoma degli yrr ne ha una gran quantità. La cosa divertente è che le cellule degli yrr vengono completamente riparate. Negli yrr, però, la riparazione non copre tutto il genoma e gli enzimi non esaminano tutto il DNA alla ricerca di errori: reagiscono solo a un segnale specifico. Come su una tratta ferroviaria. Riconoscono un segnale di partenza, cominciano a riparare, raggiungono il segnale di stop e si fermano. Perché lì comincia…»

«Il cluster.»

«Esatto. E i cluster sono protetti.»

«Possono proteggere dalla riparazione alcune parti del loro genoma?»

«Attraverso inibitori della riparazione. Guardiani biologici, se si vuole. Proteggono i cluster dagli enzimi riparatori. Così queste zone sono libere e possono mutare in continuazione, mentre il resto del DNA viene riparato per mantenere le informazioni fondamentali della specie. Ingegnoso, vero? In questo modo, ogni yrr diventa un cervello capace di svilupparsi senza limiti.»

«E come si scambiano le informazioni?»

«Come ha già detto Sue, da cellula a cellula. Attraverso ligandi e recettori. I recettori ricevono i ligandi, gli impulsi delle altre cellule e li trasformano in una cascata di segnali indirizzata verso il nucleo. Il genoma muta e dà l'impulso alla cellula vicina. È un processo fulmineo. Quel mucchio di gelatina nella cisterna pensa con la velocità di un superconduttore.»

«In effetti, è una biochimica completamente nuova», sussurrò Anawak.

«Oppure vecchissima. È nuova solo per noi. Probabilmente esistono già da milioni di anni. Forse fin dall'inizio della vita. Una variante dell'evoluzione.» Johanson fece una breve risata. «Una variante di grande successo.»

Anawak appoggiò il mento alle mani. «E ora che facciamo?»

«Bella domanda. Raramente mi sono trovato in uno stato di confusione simile a quello in cui mi trovo oggi. Perché una simile conoscenza non mi fa fare un solo passo avanti. Conferma solo quello che temevamo: sono diversi da noi sotto ogni punto di vista.» Si stiracchiò e fece un largo sbadiglio. «Non so se i tentativi di prendere contatto fatti da Samantha ci faranno andare avanti. Al momento, ho l'impressione che loro si stiano semplicemente intrattenendo con noi, mentre continuano a diffondere il terrore. Forse ai loro occhi non rappresenta una contraddizione. Di certo non è il tipo di conversazione che preferisco.»

«Non abbiamo altra scelta. Dobbiamo trovare una strada per comprenderci.» Anawak si mordicchiò l'interno delle guance. «A proposito, credi che sulla nave stiamo tutti dalia stessa parte?»

Johanson drizzò le orecchie. «Come ti viene in mente?»

«Perché…» Anawak s'incupì. «Okay, non arrabbiarti, ma Karen mi ha raccontato quello che hai visto nella notte del tuo strano incidente. O che credi di aver visto.»

Jokanson lo squadrò con occhio critico. «E lei che ne pensa?»

«Ti crede.»

«E tu, Leon?»

«Difficile da dire.» Anawak scrollò le spalle. «Tu sei norvegese. Voi siete convintissimi che esistano i troll.»

Johanson sospirò. «Senza Sue non sarei riuscito a ricordarlo», disse. «È stata lei a farmi tornare alla mente la notte che abbiamo trascorso insieme su una cassa sul ponte dell'hangar. Pare che io abbia visto Rubin, benché si presumesse che fosse a letto con l'emicrania. Da allora sono riemersi dei frammenti. Ricordo cose che è poco probabile io abbia sognato. Talvolta sono sul punto di rivedere tutto, ma poi… Mi trovo davanti a una porta aperta, vedo una luce bianca, entro e i ricordi spariscono.»

«Cosa ti rende così certo di non aver sognato?»

«Sue.»

«Ma lei non l'ha visto.»

«E Judith Li.»

«Perché proprio Judith Li?»

«Perché durante il party si è interessata un po' troppo insistentemente ai miei ricordi. Credo volesse sondare il terreno.» Johanson lo guardò. «Leon, mi hai chiesto se qui tutti stanno dalla stessa parte. Credo di no. Neppure allo Château. Ho diffidato di Judith Li fin dall'inizio. E intanto mi sono convinto che Rubin non soffre di emicrania. Non so cosa devo credere, ma ho la netta sensazione che ci sia qualcosa in corso!»

«Intuizione maschile», sorrise incerto Anawak. «A tuo parere, che cos'ha in mente Judith Li?»

Johanson guardò il soffitto. «Questo lo sa soltanto lei.»


Sala di controllo

Casualmente, proprio in quel momento, Johanson guardò in una delle telecamere nascoste. Senza saperlo, fissò Vanderbilt, che aveva preso il posto di Judith Li e disse: «Questo lo sa soltanto lei.»

«Sei un tipetto sveglio», sibilò Vanderbilt. Poi chiamò Judith Li nel suo alloggio attraverso un canale a prova d'intercettazione. Non sapeva se stava dormendo, ma non gli importava.

Judith Li apparve sul monitor.

«Le avevo detto che non c'erano garanzie, Jude», disse lui. «Johanson sta per recuperare la memoria.»

«E se anche fosse?»

«Non è neppure un po' nervosa?»

Judith accennò un sorriso. «Rubin ha lavorato duro. È appena stato qui.»

«E allora?»

«È brillante, Jack!» I suoi occhi luccicavano. «Lo so, quel piccolo stronzo non ci piace, ma devo ammettere che stavolta ha superato se stesso.»

«Una cosa già testata?»

«Su piccola scala. Ma la piccola è come la grande. Funziona. Tra poche ore avrò l'autorizzazione del presidente. Poi io e Rubin andremo giù.»

«Vuole farlo personalmente?» esclamò Vanderbilt.

«E chi dovrebbe farlo? Lei nel batiscafo non c'entra», ribatté Judith Li. Poi riattaccò.


Ponte a pozzo

I sistemi elettrici ronzavano negli hangar vuoti e sui ponti dell'Independence creando un effetto spettrale. Facevano vibrare appena le paratie. Si potevano sentire nell'enorme ospedale vuoto e nella mensa ufficiali deserta. Soltanto gli uomini dell'equipaggio che, dalle loro cuccette, appoggiavano le dita dei piedi sugli armadietti erano in grado di percepire quelle vibrazioni.

Arrivavano fin nel ventre della nave, dove, sul bordo del bacino, Greywolf stava fissando la copertura d'acciaio.

Perché si deve sempre perdere tutto?

Si sentiva travolto dalla tristezza e dalla sensazione di aver sbagliato ogni cosa. Era stato un errore anche venire al mondo. Era andato tutto storto. E non era neppure riuscito a salvare Alicia.

Non hai protetto nulla. Assolutamente nulla. Tu hai sempre avuto solo una gran bocca e una paura ancora più grande. Un piccolo bambino piagnucoloso in un corpo gigantesco che vorrebbe contare qualcosa per sé e per gli altri.

Una volta soltanto era riuscito a contare qualcosa: all'ospedale, col bambino della Lady Wexham che aveva salvato. Allora si era sentito davvero orgoglioso. Sulla Lady Wexham aveva fatto un buon lavoro. Aveva aiutato molte persone e persino Anawak era ridiventato suo amico. Un fotografo aveva scattato una foto e il giornale del giorno seguente aveva sancito il suo coraggio e la sua disponibilità.

Ma le balene continuavano a impazzire, i delfini soffrivano, tutta la natura soffriva e Alicia era morta.

Greywolf si sentiva privo di qualsiasi valore. Provava disgusto per se stesso. Non ne avrebbe parlato con nessuno, quello era certo. Avrebbe solo fatto il suo lavoro finché quell'incubo non fosse finito.

E poi…

Dagli occhi gli sgorgarono le lacrime. Il suo volto era immobile. Continuava a fissare la copertura, ma là c'erano solo travi d'acciaio. Nessuna risposta.


Il quadro generale

«Questa sfera è il nostro pianeta», stava dicendo Samantha Crowe. Aveva appeso alle pareti diversi ingrandimenti di stampate e si spostava lentamente dall'una all'altra. «Ci siamo scervellati per tanto tempo sulla natura delle linee, e adesso crediamo che rappresentino il campo magnetico terrestre. In ogni caso, le superfici libere sono i continenti. Questo ci ha permesso di decifrare la sostanza del messaggio.»

Judith Li socchiuse le palpebre. «Ne è sicura? Questi presunti continenti non sono simili ai continenti che conosco.»

Samantha sorrise. «E non potrebbero neppure. Questi sono i continenti come apparivano centottanta milioni di anni fa, riuniti in uno solo. Pangea, il continente primordiale. Probabilmente anche l'ordinamento delle linee magnetiche corrisponde a quell'epoca.»

«Lo ha verificato?»

«L'ordinamento del campo magnetico è difficile da ricostruire. Invece la costellazione delle masse terrestri di allora è nota. Ci è voluto un po' per capire che ci hanno mandato un modello della Terra, ma poi i conti sono tornati. In fondo è molto semplice. Come nucleo dell'informazione hanno scelto l'acqua e l'hanno accoppiata coi dati geografici.»

«Come fanno a sapere qual era allora l'aspetto della Terra?» si meravigliò Vanderbilt.

«Perché lo ricordano», rispose Johanson.

«Lo ricordano? L'oceano primordiale?» esclamò Vanderbilt.

«Esatto», annuì Johanson. Ieri notte abbiamo trovato l'ultima tessera del puzzle. Gli yrr dispongono di un DNA ipermutabile. Supponiamo che, all'inizio del Giurassico, circa duecento milioni di anni fa, si sia manifestata la loro consapevolezza. Da allora apprendono costantemente. Nei romanzi e nei film di fantascienza ci sono alcune frasi diventate ormai classiche, del tipo: 'Non so cos'è, ma ci sta venendo addosso', oppure: 'Mi passi il presidente'. Un'altra di queste frasi canoniche è: 'Sono superiori a noi', e quasi sempre il libro o il film ci restano debitori di una spiegazione. In questo caso, possiamo completarla: gli yrr sono superiori a noi.»

«Perché immagazzinano il loro sapere nel DNA?» chiese Judith Li.

«Sì. Questa è la differenza fondamentale con gli uomini. La nostra cultura si trasmette attraverso la voce, i testi scritti o le immagini. Ma non possiamo trasmettere all'istante le cose che viviamo. Col nostro corpo muore anche il nostro spirito. Quando diciamo che non si devono dimenticare gli errori del passato, non facciamo altro che dar voce a un desiderio irrealizzabile. Ciò che si ricorda si può soltanto dimenticare. Nessun uomo può ricordare quello che un altro essere umano ha vissuto prima di lui. I ricordi li possiamo registrare e richiamare, però noi non c'eravamo. Ogni bambino deve imparare le stesse cose, mettere la mano sul fornello rovente per capire che scotta. Per gli yrr non è così. Una cellula impara e si scinde. Sdoppia il proprio genoma con tutte le informazioni, un po' come se duplicassimo il nostro cervello con tutti i ricordi. Le nuove cellule non ereditano un sapere astratto, bensì l'esperienza immediata, come se fossero state presenti anche loro. Dall'inizio della loro esistenza, gli yrr sono capaci di un ricordo collettivo.» Johanson guardò Judith Li. «Ora ha capito chi si è messo contro di noi?»

Judith annuì lentamente. «Per annientare l'insieme bisognerebbe eliminare tutti i suoi ricordi.»

«Temo che, per riuscirci, dovremmo distruggere tutti gli individui», replicò Johanson. «E questo è impossibile per diversi motivi. Non sappiamo quanto sia fitta la loro rete. Probabilmente formano catene cellulari lunghe centinaia di chilometri. Diversamente da noi, non vivono nel presente. Non hanno bisogno di statistiche, di valori medi, di simboli che stanno in piedi con le stampelle. In associazioni sufficientemente grandi, sono essi stessi la statistica, la somma di tutti i valori, la loro stessa cronaca. Conoscono uno sviluppo che si estende per millenni, mentre noi non siamo nemmeno in grado di agire nell'interesse dei nostri figli e dei nostri nipoti. Siamo stati spodestati. Gli yrr confrontano, analizzano, riconoscono, fanno pronostici e agiscono sulla base di un ricordo costantemente presente. Non va persa nessuna prestazione creativa, tutto fluisce nello sviluppo di nuove strategie e concetti! Una selezione che non finisce mai, diretta verso soluzioni migliori. Attingere, modificare, raffinare, imparare dagli errori, confrontarsi col nuovo, fare previsioni, agire.»

«Che cosa fredda e disgustosa», disse Vanderbilt.

«Trova?» Judith Li scosse la testa. «Io invece ammiro quegli esseri. Elaborano nel giro di qualche minuto strategie che per noi richiederebbero anni. Già soltanto sapere quello che non va… Semplice, si ricorda perché gli errori si sono fatti di persona, anche se fisicamente non si esisteva ancora.»

«Per questo gli yrr si sono adattati al loro ambiente molto meglio di come noi abbiamo fatto col nostro», riprese Johanson. «Per loro, ogni prestazione intellettuale è collettiva e ancorata saldamente ai geni. Vivono contemporaneamente in tutte le epoche. Gli uomini, invece, non sanno valutare il passato e ignorano il futuro. Tutta la nostra esistenza si fissa sui singoli, sul cervello individuale, sul qui e ora. Sacrifichiamo prospettive più ampie agli interessi personali. Non ci possiamo salvaguardare dalla morte, così ci eterniamo nei manifesti, nei libri e nelle opere. Cerchiamo di scrivere la storia, lasciamo annotazioni, veniamo riraccontati, fraintesi, falsati; valanghe ideologiche si formano e precipitano anche molto tempo dopo che siamo morti. Siamo così ossessionati dall'idea di sopravvivere a noi stessi che i nostri scopi spirituali raramente coincidono con ciò che sarebbe utile all'umanità. Il nostro spirito forgia l'estetica, l'individualismo, l'intellettuale, il teoretico. Non vogliamo essere animali. Da una parte, il corpo è il nostro tempio, dall'altra ci consideriamo solo come unità di funzioni. Così ci siamo abituati a considerare lo spirito superiore al corpo, e osserviamo la nostra necessità oggettiva di sopravvivenza con ripugnanza e disprezzo per noi stessi.»

«E negli yrr una simile separazione non esiste», constatò Judith Li. Per motivi inesplicabili, sembrava decisamente soddisfatta. «Il corpo è lo spirito, lo spirito è il corpo. Nessuno degli yrr farebbe qualcosa contro l'interesse generale. Sopravvivere è un interesse della specie, non dell'individuo, ed essi agiscono sempre secondo questa risoluzione. Grandioso! Nessuno yrr riceverà mai un'onorificenza per una buona idea. La soddisfazione è nella compartecipazione al risultato. Nessuno yrr gode di privilegi. Mi chiedo se le singole cellule abbiano qualcosa di simile a una coscienza individuale.»

«Diversa da come la conosciamo noi», annuì Anawak. «Non so se in un organismo unicellulare si possa parlare di autocoscienza, però ogni cellula individualmente è creativa. Ogni cellula è un collettore che trasforma l'esperienza in creatività e poi la diffonde nell'insieme. Probabilmente tengono conto di un pensiero quand'è sufficientemente forte, cioè quando un numero sufficiente di yrr lo trasmette contemporaneamente. Ogni idea dovrà fare i conti con le altre, e la più forte sopravvive.»

«Evoluzione pura», confermò Karen. «Pensiero evolutivo.»

«Che razza di avversario!» Judith Li era meravigliata. «Niente vanità, nessuna perdita d'informazioni. Noi esseri umani vediamo sempre solo una parte del tutto, loro abbracciano con lo sguardo il tempo e lo spazio.»

«Per questo noi distruggiamo il nostro pianeta», intervenne Samantha Crowe. «Perché non riconosciamo quello che distruggiamo. Devono averlo capito anche quelli laggiù, e di certo hanno capito che non abbiamo una memoria della specie.»

«Sì, tutto torna. Perché dovrebbero trattare con noi? Con lei o con me? Domani potremmo essere morti. E allora, con chi parleranno? Se avessimo una memoria della specie, allora saremmo protetti anche dalla nostra stupidità. Ma non l'abbiamo. Andare d'accordo con gli esseri umani è un'illusione. Questo lo hanno già imparato, è una parte della loro conoscenza e il fondamento della decisione di agire contro di noi.»

«E nessun nemico sarà in grado di eliminare quel sapere», disse Sue. «In un insieme yrr lo sanno tutti. Non ci sono teste pensanti, scienziati, generali o comandanti che possano essere eliminati per sradicare i fondamenti dell'informazione anche da tutti gli altri. Si possono uccidere quanti yrr si vuole, ma, finché alcuni sopravvivono, sopravvive il sapere di tutti.»

«Un momento», Judith voltò la testa verso Sue. «Non ha detto che ci devono essere delle specie di regine?»

«Sì. Qualcosa del genere. Potrebbe essere che tutti gli yrr abbiano un sapere collettivo, ma un'azione collettiva potrebbe iniziare da un centro. Sì, credo che ci siano delle regine.»

«Anche loro unicellulari?»

«Devono condividere la stessa biochimica degli altri. Si può presumere che siano unicellulari. Un'associazione altamente organizzata che riusciremo a comprendere solo comunicando con loro.»

«Per ricevere messaggi misteriosi», disse Vanderbilt. «Allora, ci hanno mandato un'immagine della Terra preistorica. A che scopo? Cosa ci vogliono raccontare?»

«Tutto», rispose Samantha.

«Potrebbe essere un po' più precisa?»

«Ci spiegano che questo è il loro pianeta. Che lo dominano da almeno centottanta milioni di anni, probabilmente da più tempo ancora. Che hanno una memoria della specie, si orientano coi campi magnetici e sono ovunque ci sia dell'acqua. Dicono: 'Voi siete il qui e ora; noi siamo il sempre e ovunque'. Questi sono i fatti. Questo ci dice il messaggio, e io credo che sia parecchio.»

Vanderbilt si grattò la pancia. «E che cosa rispondiamo? Che possono infilarselo nel culo, il loro dominio?»

«Non ce l'hanno, Jack.»

«Allora cosa?»

«Penso che alla loro logica di volerci annientare potremmo contrapporre la nostra logica di voler sopravvivere. La nostra unica possibilità di sopravvivere consiste nel segnalare che riconosciamo il loro dominio…»

«Il dominio di organismi unicellulari?»

«E in questo modo convincerli che non siamo più pericolosi per loro.»

«Ma lo siamo», obiettò Karen.

«Vero», disse Johanson. «Parlare non serve. Dobbiamo dare il segnale che ci ritiriamo dal loro mondo. Dobbiamo smettere d'inquinare i mari con veleni e rumori, e anche in fretta. Così in fretta che forse loro arriveranno a pensare di poter vivere anche con noi.»

«Questo deve deciderlo lei, Jude», disse Samantha. «Noi possiamo solo darle consigli. Lei deve raccomandare. Oppure ordinare.»

Tutti guardarono Judith Li. «Sono dell'idea di percorrere questa strada», disse lei. «Ma non dobbiamo affrettare i tempi. Se ci ritiriamo dal mare, dobbiamo mandare loro un messaggio che sia formulato con precisione e che sia convincente.» Si guardò intorno. «Voglio che collaborino tutti. E senza farsi prendere dalla furia e dal panico. Qualche giorno in più non cambia niente, e invece potrebbe essere utile per elaborare il messaggio giusto. Questa specie ci è estranea in tutto, in un modo che mai avrei immaginato. Ma se c'è anche solo una possibilità di arrivare a un accordo pacifico, dobbiamo utilizzarla. Quindi date il massimo.»

«Jude», sorrise Samantha. «Non sono mai stata così entusiasta dei militari americani.»

Quando Judith Li lasciò la sala con Peak e Vanderbilt, disse sottovoce: «Rubin è riuscito a fabbricare sufficiente sostanza?»

«Sì», rispose Vanderbilt.

«Bene. Voglio che carichi il Deepflight. Non m'interessa quale. Entro due ore, tre al massimo, dobbiamo andare e risolvere la faccenda»

«Perché tutta questa fretta?» chiese Peak.

«Johanson ha un'espressione negli occhi… come se fosse sul punto di avere un'ispirazione. Non ho voglia di stare a discutere. È tutto. Domani potrà fare tutto il baccano che vorrà.»

«Siamo davvero così avanti?»

Judith lo guardò. «Questo ho detto al presidente degli Stati Uniti, Sal. E così sarà.»


Ponte a pozzo

«Ehi.»

Anawak si avvicinò al delfinario e Greywolf sollevò un attimo lo sguardo, tornando poi subito a dedicarsi alle piccole telecamere che aveva smontato. Quando Anawak fu più vicino al bordo, due animali tirarono la testa fuori dall'acqua e lo salutarono con schiamazzi e fischi. Poi si accostarono per farsi accarezzare.

«Ti disturbo?» chiese Anawak, allungandosi oltre il bordo per toccare gli animali.

«No.»

Anawak gli si appoggiò di fianco. Non era la prima volta che andava lì dopo l'attacco, cercando di spingere Greywolf a parlare, ma invano. L'amico sembrava completamente chiuso in se stesso. Non prendeva più parte alle riunioni, si limitava a trasmettere i video, accompagnati da brevi commenti scritti. Oltretutto quei video non dicevano molto. Le riprese della gelatina che si avvicinava erano deludenti: si scorgeva una luce blu che si perdeva negli abissi. Poi c'erano le immagini sfocate di alcune orche. Infine, quando i delfini si erano spaventati, rifugiandosi sotto lo scafo della nave, si vedevano solo lastre d'acciaio. Anawak dubitava sempre più dell'utilità della squadra, ma non aveva detto nulla. In segreto, sospettava che Greywolf volesse continuare a lavorare come prima solo per non cadere nel baratro dell'inazione.

Rimasero per un po' in silenzio. Dietro di loro, a una certa distanza, un gruppo di soldati e tecnici risalì dal ventre del ponte a pozzo. Avevano ricostruito la paratia di vetro distrutta. Uno dei tecnici andò alla console sulla banchina e le pompe ricominciarono a lavorare.

«Andiamocene», disse Greywolf.

Risalirono la sponda. Anawak vide il bacino che lentamente si riempiva d'acqua. «Lo riempiono ancora», constatò.

«Sì. Se il bacino è pieno, è più facile far uscire i delfini.»

«Vuoi mandarli di nuovo fuori?»

Greywolf annuì.

«Ti aiuto», propose Anawak. «Se ne hai voglia.»

«Buona idea.» Greywolf aprì la telecamera e armeggiò all'interno con un minuscolo cacciavite.

«Ora?»

«No, prima devo riparare questa cosa.»

«Non ti va di prenderti una pausa? Potremmo andare a bere qualcosa. Di tanto in tanto abbiamo tutti bisogno di un po' di riposo.»

«Non ho poi tanto da fare, Leon. Sistemo l'equipaggiamento e mi preoccupo che gli animali stiano bene. Non faccio altro che prendermi pause.»

«Allora vieni con me alla riunione.»

Greywolf gli gettò una rapida occhiata e poi continuò il lavoro in silenzio.

«Jack», disse infine Anawak. «Non puoi stare permanentemente rintanato.»

«Chi dice permanentemente?»

«E allora cosa sarebbe quello che stai facendo?»

«Faccio il mio lavoro. Presto attenzione a quello che trasmettono i delfini, analizzo i video e se qualcuno ha bisogno di me, ci sono.»

«No, non ci sei. Non sai neppure che cosa abbiamo scoperto nelle ultime ventiquattr'ore.»

«E invece lo so.»

«Come?» Si sorprese Anawak. «Chi te l'ha detto?»

«Sue è stata qui. Talvolta viene anche Peak, per vedere se è tutto a posto. Tutti mi raccontano qualcosa, non c'è neppure bisogno di chiedere.»

Anawak fissava dritto davanti a sé. Sentiva la rabbia crescere. «Allora non hai bisogno di me», disse indispettito.

Greywolf non rispose.

«Allora vuoi restare qui a fare la muffa?»

«Lo sai che preferisco la compagnia degli animali.»

Anche se uno di loro ha ucciso Alicia? voleva chiedergli Anawak, ma all'ultimo momento si fermò. Che doveva fare? «Anch'io ho perso Alicia», disse infine.

Greywolf si bloccò per qualche istante. Poi riprese ad armeggiare col cacciavite nella telecamera. «Non si tratta di questo.»

«E di che cosa, allora?»

«Che vuoi, Leon?»

«Che voglio?» Anawak rifletté. Non era gentile. Di fronte a tutto quello che stava soffrendo Greywolf, non era per nulla gentile. «Non lo so, Jack. Ti dico apertamente che me lo chiedo anche io.»

Si girò per andarsene.

Quando ebbe quasi raggiunto il tunnel, sentì Greywolf dire a bassa voce: «Aspetta, Leon».


Ricordo

Johanson si assopì.

Era stanco morto. La notte precedente gli era penetrata fin nelle ossa. Era seduto davanti alla console, mentre Sue, nel laboratorio sterile, produceva i feromoni concentrati degli yrr. Avevano deciso di metterne una parte nel simulatore. La massa gelatinosa era sparita e l'acqua era intorbidita dal gran numero di unicellulari. Era probabile che si fosse momentaneamente sciolta e avesse interrotto la luminosità. Gli scienziati speravano che, introducendo l'estratto di feromone, avvenisse la fusione, così loro avrebbero potuto condurre altri test.

Forse bisognerebbe mandare nella cisterna il messaggio di Samantha, per vedere se l'insieme risponde, pensò Johanson. Aveva un vago mal di testa e sapeva il perché. Non dipendeva né dal superlavoro né dalla stanchezza. A far male erano i pensieri, avvinghiati l'uno all'altro.

I ricordi bloccati.

Dall'ultima riunione, la situazione era peggiorata. Una frase di Judith Li aveva rimesso in movimento la sua slitta per le diapositive. Erano state poche parole, ma avevano riempito tutta la sua mente, impedendogli di concentrarsi sul lavoro. Quel continuo riflettere era snervante. La testa di Johanson si rovesciò lentamente all'indietro e lui cadde in un sonno leggero. Galleggiava sulla superficie della coscienza, prigioniero del loop infinito generato dalle parole di Judith.

Non dobbiamo affrettare i tempi, non dobbiamo affrettare i tempi, non…

Da qualche parte arrivò alle sue orecchie un rumore. Sue aveva già finito con la sintesi dei feromoni? Per un attimo, riemerse dal sonno, socchiuse gli occhi nell'illuminazione del laboratorio e poi li richiuse.

Non dobbiamo affrettare i tempi.

Luce fioca.

Il ponte dell'hangar.

Un rumore metallico, strascicato, leggero. Johanson si spaventa. All'inizio non sa dove si trova. Poi sente la parete metallica contro la schiena. Sul mare, il cielo si è schiarito. Si tira su a fatica e guarda lungo la parete.

Si è aperta.

Una porta si è aperta e risplende, luminosa. Dall'interno esce una luce bianca. Johanson scivola giù dalla cassa. Da come gli dolgono le ossa, deve aver trascorso lì molte ore. Un vecchio. Si avvia lentamente verso il quadrato luminoso da cui inizia un corridoio con le pareti nude. Ora lo riconosce. Lampade al neon si allineano sul soffitto. Dopo qualche metro, la parete fa una curva.

Johanson spia all'interno e ascolta.

Voci e rumori. Fa un passo indietro. Cosa c'è dietro l'angolo? Deve entrare?

Johanson esita.

Non dobbiamo affrettare i tempi, non dobbiamo affrettare i tempi.

Esita.

Improvvisamente si rompe una barriera.

Entra. Sui lati ci sono solo pareti spoglie. Va a destra. Ancora un gomito, stavolta nell'altra direzione. È un corridoio molto largo, ci potrebbe passare un'auto. Ancora rumori, voci, stavolta più vicini. La fonte deve essere dopo il secondo gomito. I suoi passi lo portano lentamente alla svolta, a sinistra, e là c'è…

Il laboratorio.

No, non il laboratorio. Un laboratorio. E anche quel laboratorio ha un simulatore, un apparecchio più piccolo, delle dimensioni di una cassa. All'interno galleggia qualcosa di luminoso, di blu, coi tentacoli distesi…

Johanson guarda la scena, incredulo.

Quella sala è una copia perfetta, ma più piccola, del settore sottostante. Sono allineati diversi tavoli. Apparecchiature. Contenitori con azoto liquido. Una console con vari monitor. Un microscopio elettronico. Sullo sfondo, su una porta di vetro blindato, un simbolo di pericolo biologico. Ancora oltre, una porta aperta conduce in un corridoio più stretto.

E là ci sono delle persone.

Le persone sono davanti al piccolo simulatore. Parlano tra loro senza accorgersi dell'intruso. Due uomini gli voltano la schiena e una donna, messa di tre quarti, annota qualcosa su un blocco. Lo sguardo della donna si sposta dagli uomini al simulatore, poi nella sala, cade su Johanson…

La sua bocca si spalanca e gli uomini si girano di colpo verso di lui. Uno lo conosce. È della squadra di Vanderbilt, nessuno sa esattamente cosa faccia. Ma cosa fanno di solito gli agenti della CIA?

Il secondo uomo lo conosce bene.

È Rubin.

Johanson è troppo sbigottito per fare altro che starsene lì e guardare. Vede il terrore negli occhi di Rubin, vi legge la domanda di come sia possibile salvare la situazione. In effetti è solo quello sguardo che sblocca Johanson, il quale improvvisamente capisce. Lì si sta giocando un gioco strano, in cui lui è solo usato, lui come tutti gli altri, Sue Oliviera, Leon Anawak, Karen Weaver, Samantha Crowe…

Chi altro ricopre un ruolo in questo gioco?

E a che scopo?

Rubin gli si avvicina lentamente. Sui suoi lineamenti è comparso un sorriso tirato. «Sigur, mio Dio! Soffre d'insonnia?»

Lo sguardo di Johanson si sposta nella sala, sfiora gli altri. Basta guardare un secondo nei loro occhi per capire che lui non dovrebbe essere lì.

«Che fate qui, Mick?»

«Oh, niente, è solo…»

«Che vuol dire? Cosa succede qui?»

Rubin gli si piazza davanti. «Le posso spiegare, Sigur. Sa, in effetti non avevamo intenzione di utilizzare questo secondo laboratorio, è stato allestito solo per le emergenze, se, per qualsiasi motivo, quello più grande non dovesse più funzionare. Ispezioniamo costantemente i sistemi in modo che sia pronto a entrare in azione nel caso…»

Johanson indica l'essere nel simulatore. «Avete nella cisterna una… di quelle cose!»

«Ah, quella?» Rubin si gira e poi torna a guardarlo. «Ehm… sì, dovevamo provare, per la messa in sicurezza. Non vi abbiamo detto nulla, non c'era nessuna necessità, perché…»

Tutte bugie.

Certo, Johanson non è perfettamente sobrio, ma ha notato che Rubin parla come se ne andasse della sua vita.

Si gira e imbocca il corridoio verso l'esterno.

«Sigur! Dottor Johanson!»

Passi alle sue spalle. Rubin al suo fianco. Dita che afferrano nervosamente la sua manica.

«Aspetti.»

«Cosa fate qui?»

«Non è come pensa, io…»

«Come fa a sapere cosa penso, Mick?»

«È una misura di sicurezza.»

«Come?»

«Il laboratorio è una misura di sicurezza!»

Johanson si libera dalla stretta. «Credo che dovrò parlarne col generale Li.»

«No, questo…»

«O meglio ancora con Sue. Sciocchezze, credo che sia meglio che ne parli con tutti, che ne dice, Mick? Ci state prendendo in giro?»

«Certo che no.»

«E allora si decida a spiegarmi cosa vuol dire tutto questo.»

Negli occhi di Rubin si accende il panico. «Sigur, non sarebbe una buona idea. Ora non deve affrettare i tempi. Ha capito? Non dobbiamo affrettare i tempii»

Johanson lo guarda. Poi sbuffa involontariamente e se ne va. Sente gli altri che lo seguono, si sente sulla schiena la paura di Rubin.

Non dobbiamo affrettare i tempi.

Una luce bianca.

Gli esplode davanti agli occhi e nel cranio si diffonde un dolore sordo. Le pareti, il corridoio, tutto oscilla. Il pavimento viene verso di lui…

Johanson fissò il soffitto del laboratorio.

Tutto era di nuovo nel presente.

Balzò in piedi. Sue stava ancora lavorando nel laboratorio sterile. Respirando affannosamente, guardò il simulatore, il quadro di controllo, i tavoli da lavoro.

Guardò ancora il soffitto.

Là sopra esisteva un altro laboratorio. Proprio sopra di loro. E nessuno doveva saperlo. Rubin lo aveva colpito e poi gli avevano dato qualcosa per cancellare il ricordo.

Perché?

Perdio, che razza di partita stavano giocando?

Johanson strinse i pugni. Dentro di lui ribolliva una rabbia impotente. Con pochi passi uscì e corse lungo la rampa.


Ponte a pozzo

«Che dovrei fare lassù con voi?» chiese Greywolf. «Non vi posso aiutare.»

La rabbia di Anawak si era dissolta. Si voltò, tornando lentamente indietro, mentre il bacino si riempiva d'acqua. «Non è vero, Jack.»

«E invece è così.» Aveva parlato in tono quasi indifferente. «La Marina ha tormentato i delfini e io non ho potuto farci nulla. Mi sono impegnato per le balene, ma le balene sono diventate vittime di un'altra entità. A un certo punto, ho deciso di vedere negli animali qualcosa di migliore degli uomini, una cosa stupida, ma pur sempre un modo per tirare avanti, e ora ho perso Alicia a causa di un animale. Non sono di aiuto a nessuno.»

«Smettila di compatirti, maledizione.»

«Questi sono fatti!»

Anawak tornò a sedersi di fianco a lui. «Aver lasciato la Marina è stata una cosa giusta e coerente», proseguì. «Eri il miglior addestratore che avessero mai avuto e interrompere la collaborazione è stata una scelta tua, non loro. Eri tu a manovrare i fili.»

«Sì, ma, dopo che me ne sono andato, è cambiato qualcosa?»

«Per te è cambiato qualcosa. Hai dimostrato di avere una spina dorsale.»

«E con questo, che cosa ho ottenuto?»

Anawak tacque.

«Sai, la cosa peggiore è questa sensazione di non appartenere a niente», disse Greywolf. «Ami una persona e la perdi. Ami gli animali e sono loro che ti uccidono. Progressivamente sto arrivando a odiare i cetacei. Capisci quello che dico? Comincio a odiare i cetacei!»

«Abbiamo tutti questo problema, e noi…»

«No! Ho visto Alicia morire nella bocca di un'orca e non ho potuto far niente per aiutarla. Questo è un problema mio! Se morissi ora, in questo istante, non cambierebbe nulla nel destino del mondo. A chi interessa? Non ho fatto nulla per cui si possa dire che la mia presenza su questo pianeta abbia avuto un senso.»

«Interessa a me.»

Greywolf lo guardò. Anawak si aspettava un commento cinico, ma non ottenne altro che un rumore smorzato, un gorgoglio nella gola di Greywolf, come un sospiro bloccato.

«E, prima che te ne dimentichi, interessava anche ad Alicia», disse Anawak.


Johanson

La sua rabbia era tale che non ci avrebbe pensato due volte ad afferrare Rubin, a trascinarlo fino al ponte di volo e a scaraventarlo fuori bordo. E forse l'avrebbe fatto davvero se avesse incrociato il biologo. Ma Rubin non si vedeva. Invece Johanson incontrò Karen, che stava scendendo.

Sul momento non seppe cosa fare. Poi si ricompose. «Karen!» Sorrise. «Sei venuta a trovarci?»

«A dire la verità volevo andare nel ponte a pozzo. Da Leon e Jack.»

«Ah, sì, Jack.» Johanson si costrinse a stare calmo. «Non sta bene, vero?»

«No. Credo che tra lui e Alicia ci fosse molto più di quanto lui stesso credesse. È difficile avvicinarsi a lui.»

«Leon è suo amico. Ce la farà.»

Karen annuì e guardò Johanson con aria interrogativa. «Stai bene?» gli chiese.

«Magnificamente.» Le prese una mano. «Ho appena avuto un'idea sensazionale su come prendere contatto con gli yrr. Vieni con me in coperta?»

«In effetti volevo…»

«Solo per dieci minuti. Ho bisogno della tua opinione. Questo continuo girare in spazi chiusi mi dà sui nervi.»

«I tuoi abiti sono troppo leggeri per andare in coperta.»

Johanson si guardò. Indossava un pullover e i jeans. La sua giacca a vento era appesa in laboratorio. «Irrobustimento», disse.

«Contro che cosa?»

«Contro l'influenza. Contro la vecchiaia. Contro le domande stupide! Che ne so?» Si rese conto di aver alzato la voce. Controllati, pensò. «Ascolta, devo assolutamente sbarazzarmi di questa idea che è legata alla vostra simulazione. Non ho voglia di farlo qui sulla rampa. Vieni?»

«Sì, certo.»

Risalirono insieme la rampa e arrivarono all'interno dell'isola. Johanson si costrinse a non guardare in continuazione il soffitto e a non cercare telecamere e microfoni nascosti. Di certo non li avrebbe visti. Invece disse, in tono leggero: «Naturalmente Jude ha ragione: non bisogna affrettare i tempi. Credo che avremo bisogno di un paio di giorni prima che l'idea sia matura, perché si basa su…»

E così via. Dicendo cose prive di senso, guidò Karen fuori dall'isola, all'aria aperta, e la precedette gesticolando, finché non raggiunsero uno dei punti di atterraggio degli elicotteri. Faceva freddo e si era levato il vento. Addensamenti di foschia si erano distesi sul mare, le onde si erano alzate. Danzavano davanti a loro come animali preistorici, grigie e indolenti, e sollevavano l'odore di acqua salmastra. Johanson aveva un freddo cane, ma la sua rabbia lo riscaldava almeno all'interno. Infine si trovarono in un punto sufficientemente lontano dall'isola.

«Per dirla tutta, non ho capito una parola», disse Karen.

Johanson sollevò la testa contro il vento. «Infatti non c'è niente da capire. Credo che qui fuori non ci possano sentire. Dovrebbero aver allestito una cosa davvero dispendiosa per riuscire ad ascoltare le conversazioni sul ponte di volo.»

Karen socchiuse le palpebre. «Ma di che stai parlando?»

«Mi sono ricordato, Karen. Ora so cos'è successo l'altra notte.»

«Hai trovato la porta?»

«No. Ma so che c'è.»

Le raccontò in poche parole tutta la storia. Karen lo ascoltava, impassibile. «Intendi dire che a bordo c'è una sorta di quinta colonna?»

«Sì.»

«Ma a che scopo?»

«Hai sentito quello che ha detto Jude: non bisogna affrettare i tempi. Voglio dire, tutti noi — tu e Leon, Sue e io, anche Rubin naturalmente, Sam e Murray — abbiamo preparato una scheda segnaletica degli yrr. Forse c'illudiamo, forse abbiamo sbagliato clamorosamente, ma tutto fa pensare il contrario. Almeno dal punto di vista teorico sappiamo con quale tipo d'intelligenza aliena abbiamo a che fare e come funziona. Abbiamo lavorato a pieno ritmo per scoprirlo. E improvvisamente possiamo prendercela con calma?»

«Perché non hanno più bisogno di noi», replicò lei in tono piatto. «Perché Mick ci sta lavorando in un altro laboratorio con altra gente.»

«Noi siamo i fornitori», confermò Johanson. «Abbiamo fatto il nostro dovere.»

«Ma perché?» Karen scosse la testa, incredula. «Quale obiettivo può perseguire Mick che non sia in accordo coi nostri? Quali alternative ci sono? Dobbiamo arrivare a un accordo con gli yrr! Che cos'altro può volere?»

«È stato avviato un piano alternativo. Mick fa il doppio gioco, ma non è un'idea sua.»

«E di chi, allora?»

«Dietro di esso c'è Jude.»

«Sei stato diffidente nei suoi confronti fin dall'inizio, vero?»

«E lei lo è stata nei mie confronti. Entrambi abbiamo capito subito che nessuno dei due era da sottovalutare. In sua presenza ho sempre avuto questa sensazione, solo che mi appariva ridicola. Non trovavo un unico motivo convincente per non fidarmi di lei.»

Rimasero per un po' in silenzio.

«E ora?» chiese poi Karen.

«Ora ho tempo di ragionare a mente fredda», rispose Johanson, stringendosi le braccia intorno al corpo. «Jude ci vedrà qui. Credo che mi tenga d'occhio con molta attenzione. Non può essere sicura di quello di cui parliamo, ma naturalmente parte dal presupposto che prima o poi tornerò a ricordare. Il tempo stringe. Stamattina, per la prima volta, ci ha dato lo stop. Se sta seguendo un suo piano, allora agirà ora.»

«Quindi dobbiamo scoprire in fretta che cos'ha in mente.» Karen rifletté. «Perché non raduniamo gli altri?»

«Troppo rischioso. Se ne accorgerebbe subito. Sono certo che tutte le sale della nave sono sorvegliate. Non dovrebbero far altroché chiudere la porta e gettare via la chiave. Voglio costringere Jude nell'angolo. Voglio sapere cosa succede e, per farlo, ho bisogno di te.»

Karen annuì. «Okay. Che devo fare?»

«Trovare Rubin e torchiarlo, mentre io do una strapazzata a Jude.»

«Hai idea di dove sia?»

«Forse in quel laboratorio misterioso. Ora so dov'è, però non ho idea di come si faccia a entrare. Ma forse è da qualche altra parte nella nave.» Johanson sospirò. «Mi rendo conto che sembra un film di serie Z. Forse sono io a essere impazzito. Forse soffro di paranoia… Se è così, potrò comunque fare ammenda. Ma adesso voglio sapere cosa sta succedendo!»

«Tu non sei paranoico.»

Johanson la guardò e le sorrise, riconoscente. «Torniamo indietro.»

Sulla strada verso l'isola, continuarono a intrattenersi sul messaggio decifrato e sui contatti pacifici.

«Io vado da Leon», concluse Karen. «Vediamo che ne pensa della tua proposta. Forse già oggi pomeriggio potremo fare insieme il programma e testarlo.»

«Buona idea, a dopo», disse Johanson.

Guardò Karen scendere la rampa. Poi prese una scaletta di boccaporto, scese al livello 2 e gettò un'occhiata nel CIC, dove Samantha e Shankar erano davanti ai loro computer.

«Che cosa state combinando?» chiese con tono leggero.

«Pensiamo», rispose lei in mezzo alla sua tipica nuvola di fumo. «E voi, procedete coi feromoni?»

«Sue ne sta giusto sintetizzando un nuovo carico. Dovremmo ormai avere una dozzina di provette.»

«Allora siete più avanti di noi. Abbiamo sempre più dubbi sul fatto che la matematica sia l'unica via per il successo nella comunicazione», commentò Shankar. Il suo viso scuro si contrasse in una smorfia amara. «Credo che sappiano fare i conti meglio di noi.»

«Quale sarebbe l'alternativa?»

«Le emozioni.» Samantha soffiò il fumo dalle narici. «Ridicolo, vero? Voler raggiungere gli yrr coi sentimenti. Ma se i loro sentimenti sono di natura biochimica…»

«Come i nostri», notò Murray.

«… forse l'odore potrebbe aiutarci anche in altro modo. Sì, grazie, Murray. Lo so. Anche l'amore è chimica.»

«E tu, Sigur, hai qualcuno verso cui ti senti attratto chimicamente?» scherzò Shankar.

«No, al momento ho attenzioni solo per me stesso.» Si guardò intorno. «Per caso, avete visto Jude da qualche parte?»

«Poco fa era nel LFOC», rispose Samantha.

«Grazie.»

«Ah, già, Mick ti cercava.»

«Mick?»

«Erano seduti là insieme a chiacchierare. Mick voleva andare in laboratorio, è stato qualche minuto fa.»

Bene. Così si sarebbe imbattuto in Karen. «Fantastico», esclamò Johanson. «Mick ci può aiutare nella sintesi. Almeno finché non gli arriva un attacco di emicrania. Poveraccio.»

«Dovrebbe abituarsi a fumare», disse Samantha. «Il fumo fa bene contro il mal di testa.»

Johanson sorrise e andò nel LFOC. La maggior parte dei dati veniva archiviata nei sistemi che si trovavano lì, così Samantha e Murray potevano lavorare indisturbati nel CIC. Dagli altoparlanti arrivavano deboli fruscii e di tanto in tanto fischi e clic. Su un monitor passò l'ombra di un delfino. Evidentemente Greywolf aveva fatto uscire gli animali.

Di Judith Li, Peak e Vanderbilt non c'era traccia. Johanson raggiunse il JIC. Era vuoto, come pure lo erano le sale di comando e di controllo. Pensò di andare a vedere nella mensa ufficiali, ma poi si rese conto che là probabilmente avrebbe trovato solo gli uomini di Vanderbilt e qualche soldato. Judith poteva essere in palestra o nel suo alloggio. Non aveva tempo di cercare in tutta la nave.

Se Rubin era diretto in laboratorio, Karen l'avrebbe trovato. Doveva riuscire a parlare prima con Judith Li. Va bene, pensò. Se non sarò io a trovarti, sarai tu a trovare me. Senza fretta, andò alla sua cabina, entrò e si piazzò in mezzo alla stanza.

«Salve, Jude», disse.

Dove potevano essere le telecamere e i microfoni? Inutile cercarli, comunque c'erano.

«Pensi un po' cosa mi è successo… Mi è venuto in mente che, sopra il laboratorio grande, c'è un secondo laboratorio, in cui Mick ama ritirarsi quando gli viene l'emicrania. Vorrei tanto sapere cosa fa là dentro, a parte menare i colleghi.»

Il suo sguardo scorreva sui mobili, sulle lampade, sul televisore.

«Credo tuttavia che non me lo dirà di sua spontanea volontà, eh, Jude? Ho preso qualche precauzione. Vede, nel giro di pochissimo tempo tutta la squadra sarà al corrente dei miei ricordi, senza che lei abbia la minima possibilità d'impedirlo.» L'aveva sparata grossa, ma sperava che lei la bevesse. «Potrebbe interessarle? E a lei, Sal? Ah, già, quasi dimenticavo: che ne dice, Jack? Che ne pensate?»

Andò lentamente avanti e indietro nella stanza.

«Io ho tempo. E lei? Direi proprio di no.» Allargò le braccia e sorrise. «Potremmo trattare tutta questa faccenda in maniera confidenziale. Forse ci sono intenzioni del tutto onorevoli nella struttura ombra costruita dai vostri uomini. Forse è tutto nell'interesse della sicurezza nazionale. Non è che mi piaccia granché essere colpito in quel modo, Jude. Lo capisce, vero? Vorrei parlarne con lei ma, a quanto sembra, l'intero gruppo è stato colpito dall'emicrania di Rubin. Siete tutti a letto col mal di testa?»

Fece una pausa. E se a Judith Li non importasse ormai più nulla? Se non lo sentiva? Allora sarebbe rimasto lì come un idiota ad andare avanti e indietro nella sua stanza.

«Jude?»

Si guardò intorno. Sì, lo ascoltavano. Era sicurissimo che lo ascoltavano.

«Jude, mi è venuto in mente che lei ha finanziato la spesa di un simulatore per Rubin. Ho visto che è molto più piccolo del nostro, ma vorrei sapere questo: cosa studia lì che non possa studiare anche nel nostro? Non è che vi siete alleati con gli yrr alle nostre spalle? Mi aiuti a capire, Jude, non ho la minima idea di che cosa…»

«Dottor Johanson.»

Si girò. Sulla soglia c'era l'alta e nera figura di Peak.

«Ma che sorpresa», mormorò Johanson. «Il caro, vecchio Sal! Gradisce un tè?»

«Jude vorrebbe parlarle.»

«Ah, Jude.» Johanson piegò gli angoli della bocca in un mezzo sorriso. «Che vuole da me?»

«Mi segua.»

«Be', credo che si possa fare.»


Karen Weaver

Quando Karen entrò, Sue stava uscendo dal laboratorio di massima sicurezza con un contenitore metallico.

«Hai visto Mick?»

«No, ormai vedo solo feromoni.» Sue sollevò il contenitore. Era aperto su entrambi i lati. Una valigetta per i campioni con supporti per le provette. E infatti all'interno si allineava una dozzina di provette, piene di un liquido chiaro. «Ma ha chiamato poco fa per minacciare il suo arrivo. Dovrebbe essere qui da un momento all'altro.»

«Eau de yrr?» chiese Karen, lanciando un'occhiata alle provette.

«Sì. Oggi pomeriggio ne metteremo un po' nel simulatore. Così vedremo se riusciremo a convincere le cellule a fondersi. Sarà, per così dire, la santificazione della nostra teoria.» Sue si guardò intorno. «Controdomanda: hai visto Sigur?»

«Poco fa, sul ponte di volo. Ha sviluppato un paio d'idee interessanti per aiutare Sam. Ripasso tra un po'.»

«Fa' pure.»

Karen rifletté. Poteva dare un'occhiata al ponte dell'hangar. Ma, se Johanson aveva ragione, avrebbe dato immediatamente nell'occhio. Inoltre c'erano pochissime possibilità che la porta proibita venisse aperta finché lei gironzolava da quelle parti.

Seguì il tunnel fino al ponte a pozzo.

Il bacino era stato riempito quasi completamente. Sul molo c'erano alcuni tecnici di Roscovitz, che sorvegliavano la procedura. In acqua, lei vide Greywolf e Anawak. «Avete mandato fuori i delfini?» gridò.

Anawak uscì dall'acqua. «Sì.» Andò verso di lei. «Cos'hai fatto nel frattempo?»

«Non molto, a essere sincera. Credo che tutti noi abbiamo bisogno di rimettere ordine nei nostri pensieri.»

«Possiamo rimetterli in ordine insieme», disse Leon sottovoce.

Karen incontrò il suo sguardo e pensò a quanto volentieri l'avrebbe preso tra le braccia. Dimenticare tutta questa storia spaventosa e fare solo quello che era necessario…

Ma quella storia incombeva su tutti loro. E là c'era Greywolf, che aveva perso Alicia.

Fece un sorriso fugace.


Livello 3

Senza dire una parola, Johanson seguì Peak, che zoppicava. Scesero, attraversarono una parte dell'ospedale e s'incamminarono lungo un corridoio. Dopo una diramazione, si trovarono davanti a una porta chiusa.

«Che settore è questo?» chiese Johanson, mentre le dita di Peak scivolavano su una tastiera. Un segnale elettronico risuonò nelle sue orecchie. La porta si aprì. Il corridoio proseguiva dalla parte opposta.

«Sopra di noi c'è il CIC», spiegò Peak.

Johanson cercò di orientarsi, ma era difficile valutare le dimensioni della nave. Se sopra di loro c'era il CIC, verosimilmente il laboratorio segreto era sotto i loro piedi.

Raggiunsero una seconda porta. Stavolta Peak si dovette sottoporre a uno scanner della retina prima di poter entrare. Johanson adocchiò una sala che assomigliava al CIC, avvolta da ronzii elettronici. Le voci e i rumori erano attutiti. C'era almeno una dozzina di persone intente al lavoro. Vide su numerosi monitor le immagini dei satelliti e delle telecamere sottomarine, alcune sezioni delle rampe, l'interno del ponte in cui si trovavano Buchanan e Anderson, il ponte di volo e il ponte dell'hangar. Vide Samantha e Shankar seduti nel CIC, Karen Weaver con Anawak e Greywolf nel ponte a pozzo e Sue nel laboratorio. Altri schermi mostravano l'interno delle cabine. Anche la sua. A giudicare dall'angolazione, la telecamera doveva trovarsi proprio sopra la porta. Doveva essere stata una gran bella ripresa, quella del suo monologo al centro della stanza.

Judith Li e Vanderbilt erano seduti a un grande tavolo illuminato. Judith si alzò.

«Salve, Jude», esordì Johanson cordialmente. «Carino, questo posto.»

«Sigur…» disse lei, rispondendo al sorriso. «Credo che ci dobbiamo scusare con lei.»

«Ma non parliamone neppure.» Johanson si guardava intorno, stupito. «Sono impressionato. Sembra che esista un duplicato di tutte le cose importanti.»

«Se le interessa, posso mostrarle i progetti.»

«Mi basterebbe una spiegazione.»

«E l'avrà.» Judith parve imbarazzata. «Prima, però, vorrei dirle quanto mi dispiace che lei abbia scoperto tutto in questo modo. Rubin non avrebbe dovuto spingersi a tanto.»

«Dimentichiamoci quello che ha fatto. Vorrei sapere che cosa fa ora. Per l'appunto: cosa fa in questo laboratorio?»

«Sta producendo un veleno», rispose Vanderbilt.

«Un…» Johanson deglutì. «Un veleno?»

«Mio Dio, Sigur.» Judith si torse le mani. «Non possiamo affidarci a una soluzione pacifica con gli yrr. So quanto deve suonare orribile per lei: un tradimento della fiducia, un gioco sporco, ma… Non volevamo indirizzare lei e gli altri nella direzione sbagliata. Per arrivare a scoprire qualcosa sugli yrr, era assolutamente necessario farvi lavorare a una soluzione pacifica e tutti voi avete fatto un lavoro magnifico. Ma non sareste arrivati a tanto se il compito fosse stato quello di sviluppare delle armi.»

«Ma di che diavolo sta parlando? Che razza di armi?»

«Pace e guerra sono antitetiche. Chi lavora alla pace non può pensare alla guerra. Mick studia le alternative. Sulla base delle vostre conoscenze.»

«Studia un veleno per annientare gli yrr?»

«Se ci fossimo fidati di lei, che cosa sarebbe successo?» disse Vanderbilt.

«Un momento!» Johanson sollevò le mani. «Il nostro compito era stabilire un contatto. Spiegare a quelli laggiù che dovevano smetterla. Non annientarli.»

«Che sognatore», sbuffò Vanderbilt, sprezzante.

«Ma ce la possiamo fare, Jack! Maledizione, noi…» Johanson scosse la testa, allibito, incapace di comprendere.

«Come pensa di farcela?»

«Nel giro di pochi giorni abbiamo imparato tantissimo. Ci sarà una strada.»

«E se non c'è?»

«Perché non ci avete informati? Perché non avete parlato apertamente? Miriamo tutti allo stesso scopo!»

«Sigur…» Judith lo guardò con espressione grave. «Quello che stiamo facendo qui non è esattamente in linea con l'incarico ricevuto dalle Nazioni Unite. Lo so che dobbiamo prendere contatto, ed è quello che cerchiamo di fare. D'altra parte, nessuno sarà dispiaciuto se elimineremo questo nemico. Non crede anche lei che debbano essere esplorate entrambe le strade?»

Johanson la fissò. «Sì, lo credo anche io. Ma perché tutto questo circo?»

«Perché il comando generale non si fida di lei», disse Judith Li. «Perché temono che lei e gli altri vi opporreste scoprendo che i vostri sforzi per ottenere contatti pacifici preparano il terreno a un'offensiva militare. Credono, appunto, che gli scienziati si comportino come nei film di fantascienza, che vogliano proteggere e studiare le specie sconosciute invece di distruggerle, anche se sono malvagie e pericolose…»

«Film? Si riferisce forse ai film i cui i militari sparano su qualunque cosa non riescano a capire?»

«Dicendo questo, conferma che abbiamo ragione», borbottò Vanderbilt, massaggiandosi la pancia.

«Cerchi di capire, Sigur…»

«Avete inscenato questo trucco perché pensavate che ci saremmo comportati come i personaggi di un film hollywoodiano?»

«No.» Judith Li scosse energicamente la testa. «Certo che no. Si trattava semplicemente d'indirizzare la vostra attenzione esclusivamente sul contatto e sulla ricerca.»

Con un ampio gesto, Johanson indicò i monitor nella sala. «Ed è per questo che curiosate ovunque?»

«Quello che ha fatto Rubin è stato un errore», insistette Judith Li. «Non ne aveva il diritto. Questa sorveglianza serve unicamente alla vostra sicurezza. Noi abbiamo lavorato in segreto a una soluzione militare per non rendere insicuri lei e gli altri e non distrarvi dal vostro vero compito.»

«E in cosa consisterebbe questo… compito?» Johanson si portò vicinissimo a Judith e la guardò dritta negli occhi. «Ottenere la pace, oppure trattarci come dei gonzi che vi mettono a disposizione tutte le conoscenze necessarie a preparare un'offensiva militare pianificata già da tempo?»

«Dobbiamo pensare a entrambe le cose.»

«A che punto è Mick con la sua variante militare?»

«Ha qualche idea che potrebbe funzionare, ma ancora niente di concreto.» La donna respirò profondamente e lo guardò dritto negli occhi, risoluta. «La prego, nell'interesse della sicurezza, di non dire nulla agli altri, almeno per il momento. Ci dia il tempo di fare quello che dobbiamo, in modo che il lavoro su cui si fondano le speranze di miliardi di persone non venga interrotto. Molto presto, lavoreremo insieme a tutte le varianti. Ora che avete portato a termine il lavoro incredibile di dare un volto al nemico, non abbiamo più nessun motivo di tenere segreto questo aspetto della missione. E se lavoreremo insieme a un'arma, sarà nella speranza di non essere costretti…»

«Posso dirle una cosa, Jude?» sibilò Johanson. Le andò così vicino che i loro volti quasi si sfiorarono. «Non credo a una sola parola di quello che mi ha detto. Non appena avrete le vostre maledette armi le userete. Non potete neppure immaginare la responsabilità che vi assumete. Quelli sono organismi unicellulari, Jude! Miliardi e miliardi di organismi unicellulari! Esistono dall'inizio del mondo. Non abbiamo la minima idea del ruolo che giochino nell'ecosistema. Non sappiamo che cosa succederà agli oceani se li avveleniamo. Non sappiamo che cosa succederà a noi. Ma soprattutto, non saremo in grado di fermare quello che loro hanno messo in movimento! Ma le capisce queste cose oppure no? Come pensa di rimettere in movimento la Corrente del Golfo senza gli yrr? Che cosa pensa di fare contro i vermi senza gli yrr?»

«Se schiacceremo gli yrr, spazzeremo via anche i vermi e i batteri», replicò lei.

«Come? Vuole spazzare via i batteri? Tutto questo pianeta è fatto di batteri! Vuole estinguere i microrganismi? Ma di quale delirio d'onnipotenza è vittima? Se ci riuscisse, condannerebbe a morte tutta la vita sulla Terra. Sarebbe lei a distruggere il pianeta, non gli yrr. Morirebbero tutte le specie animali nel mare, e poi…»

«Appunto, moriranno», gridò Vanderbilt. «Stupido, ignorante, stronzo scienziato testa d'uovo! Se muore qualche specie di pesce, ma in compenso noi sopravviviamo…»

«Non sopravviveremo!» gridò Johanson a sua volta. «Non lo capite? Tutte le cose sono legate. Non possiamo combattere gli yrr. Sono superiori. Contro i microrganismi non possiamo fare niente! Contro una semplice infezione virale non possiamo fare niente. L'uomo vive perché la Terra è dominata dai microbi.»

«Sigur…» lo implorò Judith Li.

Johanson si girò. «Apra quella porta», sibilò. «Non intendo continuare questa conversazione.»

«Va bene.» Judith Li annuì, serrando le labbra. «Allora si accomodi e conservi il suo senso di giustizia. Sal, apra la porta al dottor Johanson.»

Peak esitò.

«Sal, non ha sentito? Il dottor Johanson desidera andarsene.»

«Non possiamo propria convincerla che stiamo facendo la cosa giusta?» chiese Peak in tono afflitto, disperato.

«Apra la porta, Sal», ripeté Johanson.

Controvoglia, Peak si mosse e schiacciò un pulsante nella parete. La porta si aprì, scivolando.

«Anche quella dietro, se non le dispiace.»

«Ovviamente.»

Johanson uscì.

«Sigur!»

Lui si fermò. «Cosa vuole, Jude?»

«Lei mi ha rimproverato di non saper valutare le mie responsabilità. Forse ha ragione. Ma adesso valuti le sue. Se va dagli altri a raccontare ciò che ha visto qui dentro, comprometterà tutto il lavoro fatto su questa nave. Lo sa più che bene. Forse noi non avevamo il diritto di mentirle, però rifletta: ha il diritto di farlo?»

Johanson si girò lentamente. Judith Li era sulla soglia della sala di controllo. «Ci rifletterò», disse.

«Allora proviamo a trovare un compromesso. Mi dia il tempo di trovare una strada e, nel frattempo, non dica nulla. Stasera ne parleremo tra noi. Fino ad allora, nessuno di noi farà qualcosa che metta in difficoltà l'altro. Si sente di accettare questa proposta?»

Johanson serrò le mascelle.

Cosa sarebbe successo se avesse fatto esplodere la bomba? E cosa sarebbe successo a lui se avesse rifiutato?

«Va bene», mormorò.

Judith Li sorrise. «Grazie, Sigur.»


Karen Weaver

Avrebbe preferito rimanere nel ponte a pozzo. Anawak faceva del suo meglio per rasserenare Greywolf. Lei voleva stare col primo, perché si sentiva attratta da lui, e non voleva lasciare il secondo, perché l'infelicità di Greywolf era quasi tangibile. Trovava spaventoso vedere quel gigante, che fino a poco prima sprizzava energia da tutti i pori, ridotto alla disperazione. Ma trovava ancora più spaventoso quello che Johanson le aveva raccontato. Più ci pensava, più quello che stava succedendo a bordo dell'Independence le sembrava mostruoso. Qualcosa le diceva che stavano correndo tutti un grave pericolo.

Forse Rubin era tornato.

«A dopo», disse ai due. «Devo sbrigare una faccenda.» Si accorse subito di aver usato un tono troppo disinvolto.

Anawak aggrottò la fronte. «Che cos'è successo?» chiese.

«Niente di particolare.»

Non era brava a mentire… Risalì in fretta la rampa e percorse il corridoio contiguo. La porta del laboratorio era aperta. Quando entrò, vide Sue intenta a parlare con Rubin. Erano a uno dei tavoli del laboratorio. Rubin si girò verso di lei. «Ciao. Volevi chiedermi qualcosa?»

Karen schiacciò l'interruttore interno, in modo che la paratia si chiudesse alle sue spalle.

«Sì. Mi dovresti spiegare una cosa.»

«Nelle spiegazioni sono un grande», sogghignò Rubin.

«Davvero?» Si avvicinò ai due, sbirciando il tavolo, su cui erano disposte numerose attrezzature. In un sostegno, c'erano anche vari bisturi. «Potresti spiegarmi a cosa serve il laboratorio proprio sopra di noi, cosa fai là dentro e perché l'altra notte hai colpito Sigur dopo che aveva scoperto il trucco.»


Ponte dell'hangar

Johanson era pervaso da una furia così incontrollabile da non sapere dove andare. Poi corse al ponte dell'hangar ed esaminò la parete. Il suo ricordo gli diceva che lì c'era la porta, ma lui non trovò nulla che lasciasse pensare a un passaggio nascosto. In fondo era del tutto superfluo cercarla, perché Judith Li aveva ammesso che quel laboratorio esisteva. Però quello non gli bastava.

Improvvisamente notò alcuni punti in cui, sulla vernice grigia, c'era una patina di ruggine. In effetti li aveva già notati, però non aveva dato loro importanza: la ruggine e la vernice che si sfogliava erano un fatto assolutamente normale su una nave. In quel momento, però, comprese cosa non quadrava.

Non poteva esserci della ruggine su una nave nuova. E l'Independence era nuova fiammante.

Fece alcuni passi indietro. Se seguiva i tubi da sinistra verso il basso, si vedeva che arrivavano a una lunga striscia di ruggine. Un po' più in là erano appesi i quadri degli interruttori. Anche lì sotto la vernice si sollevava.

La porta era là.

Era mimetizzata benissimo. Se non l'avesse cercata con zelo maniacale, non l'avrebbe mai notata. Quel perfetto camuffamento l'aveva ingannato anche prima, quando aveva esaminato la parete con Karen. Benché non riuscisse ancora a vedere i contorni, notò vari dettagli, apparentemente casuali, che concorrevano all'effetto finale: nascondere la porta.

Era entrato da lì.

Karen!

Aveva trovato Rubin? Che doveva fare? Richiamarla, mantenendo fede all'accordo fatto con Judith Li? Quale valore aveva quell'accordo? Aveva fatto bene ad accettare una trattativa con il generale Li?

Percorreva avanti e indietro il grande ponte deserto, ansimando, indeciso sul da farsi. Improvvisamente, la nave gli apparve come una prigione. Anche l'hangar tetro, illuminato dalla luce gialla, aveva qualcosa d'inquietante.

Doveva riflettere.

Aveva bisogno d'aria fresca.

Ad ampie falcate si diresse verso la piattaforma dell'elevatore esterno. Soffiava un vento impetuoso, che gli scompigliava i capelli. Il mare era ancora più agitato. Nel giro di qualche secondo, una pellicola di schiuma gli coprì il volto. Andò sul bordo della piattaforma e guardò il paesaggio lunare, frastagliato e in movimento del mar di Groenlandia.

Che doveva fare?


Sala di controllo

Judith Li si trovava davanti ai monitor. Vide Johanson che esaminava la parete e poi, frustrato, lasciava l'hangar.

«Perché questo ridicolo accordo?» brontolò Vanderbilt. «Crede davvero che terrà la bocca chiusa fino a stasera?»

«Mi fido di lui», disse Judith Li.

«E se si sbagliasse?»

Johanson sparì nell'ingresso dell'elevatore esterno. Judith Li si girò verso Vanderbilt. «Domanda superflua, Jack. Ovviamente il problema lo risolverà lei. E proprio ora.»

«Un momento.» Peak sollevò le mani. «Questo non era previsto.»

«Risolvere? Che significa risolvere?» chiese Vanderbilt, subdolo.

«Risolvere significa risolvere», sbottò Judith Li. «Sta arrivando una tempesta. E con la tempesta non si dovrebbe stare fuori. Un colpo di vento…»

«No.» Peak scosse la testa. «L'accordo non era questo.»

«Sal, tenga la bocca chiusa.»

«Maledizione, Jude! Possiamo chiuderlo in cella per un paio d'ore, Basterebbero, eccome!»

«Jack», disse Judith Li a Vanderbilt, senza degnare Peak di uno sguardo. «Faccia il suo lavoro. E, per cortesia, lo faccia personalmente.»

Vanderbilt sorrise. «Con piacere, tesoruccio. Con grande piacere.»


Laboratorio

Il viso già lungo di Sue Oliviera divenne ancora più lungo. Fissò prima Karen poi Rubin.

«Allora?» disse Karen.

«Non ho la più pallida idea di cosa stai dicendo.»

«Mick, ascolta.» Si piazzò tra lui e il tavolo e mise un braccio intorno alle spalle di Rubin con fare quasi amichevole. «Non sono una grande oratrice né sono brava nelle chiacchiere da salotto. Le persone come me non vengono invitate ai cocktail e non si mandano sul podio. Io preferisco le conversazioni veloci ed essenziali. Allora non menare il can per l'aia. Te lo ripeto. Lassù, proprio sopra di noi, c'è un laboratorio. Vi si accede dal ponte dell'hangar ed è ben mimetizzato, ma Sigur ti ha visto entrare e uscire. Per questo gli hai procurato un bel bernoccolo, vero?»

«È la più grande sciocchezza che… No!»

Con la mano libera, Karen aveva preso dal supporto uno dei bisturi e gli premeva la punta sulla carotide. Rubin indietreggiò sussultando. Karen spinse un po' il bisturi, toccando il muscolo. Il biologo era stretto nel suo abbraccio come in una morsa.

«Sei impazzita?» gemette. «Cos'è questa storia?»

«Mick, non sono una fragile donnina. Ho parecchia forza. Quand'ero piccola, ho abbracciato dei gatti e, per sbaglio, li ho stritolati. Terribile, vero? Volevo solo abbracciarli e invece cric, crac… Rifletti bene su quello che dici. Perché, in realtà, non ti voglio soltanto abbracciare.»


Vanderbilt

Jack Vanderbilt non era particolarmente entusiasta di uccidere Johanson, ma nemmeno gli importava granché di lasciarlo in vita. In un certo senso, quell'uomo gli piaceva. Nel contempo, però, gli era del tutto indifferente. Si trattava di un incarico, e l'incarico era preciso. Se Johanson costituiva un rischio per la sicurezza, non lo sarebbe rimasto a lungo.

Floyd Anderson lo seguiva. Il primo ufficiale, come la maggior parte degli uomini a bordo, aveva una doppia funzione. Era un esperto marinaio, ma anzitutto lavorava per la CIA. Quasi tutti a bordo, tranne Buchanan e alcuni membri dell'equipaggio, lavoravano per la CIA. Anderson aveva preso parte a operazioni segrete in Pakistan e nel Golfo. Era bravo.

Ed era un killer.

Vanderbilt stava pensando a come si era ribaltata la situazione. Fino a poco prima, si era aggrappato all'idea di dover combattere contro un manipolo di terroristi; adesso invece era costretto ad ammettere che Johanson aveva avuto ragione fin dall'inizio. In sé era un peccato doverlo uccidere, soprattutto dietro incarico di Judith Li. Vanderbilt era disgustato da quella strega dagli occhi acquamarina. Judith Li era un'imbrogliona, una paranoica… La odiava, ma non poteva sottrarsi alla perfida logica con cui lei aveva deciso quell'omicidio. Eppure, nel suo delirio, Judith Li aveva ragione. Anche quella volta.

Gli venne in mente quando, a Nanaimo, aveva messo Johanson in guardia contro di lei.

Detto fra noi, è un po' matta. Capisce?

Era chiaro che Johanson non aveva capito.

E come avrebbe potuto? All'inizio, nessuno capiva cosa ci fosse di anormale in Judith Li: diffidava di tutto e di tutti, era mossa da un'incontenibile ambizione, reagiva sempre in maniera eccessiva, mentiva e ingannava, sacrificava qualsiasi cosa ai suoi obiettivi. Judith Li, la cocca del presidente degli Stati Uniti. E lui non se ne accorgeva. L'uomo più potente del mondo non aveva la minima idea della persona cui stava cedendo il suo potere.

Dovremo stare tutti molto attenti, pensò Vanderbilt. Nel caso, bisognerà essere pronti anche a impugnare un'arma e risolvere il problema.

Prima o poi.

Percorrevano rapidamente i corridoi. Mettendosi sulla piattaforma dell'elevatore esterno, Johanson non avrebbe potuto fargli un piacere più grande. Come aveva detto quella pazza? Un colpo di vento…


Sala di controllo

Vanderbilt aveva appena lasciato la sala, quando uno degli uomini alla console chiamò Judith Li e indicò un monitor. «Nel laboratorio sta succedendo qualcosa», disse.

Judith guardò le immagini. C'erano Karen Weaver, Sue Oliviera e Mick Rubin. Erano vicini. Molto vicini. Karen aveva messo un braccio intorno alle spalle di Rubin e lo stringeva a sé.

Da quando quei due se la intendevano?

«Alzare il volume», ordinò.

Si sentì la voce di Karen. Era bassa, ma sufficientemente chiara. Stava chiedendo a Rubin del laboratorio segreto. Zoomando, si poté cogliere la paura sul volto di Rubin e qualcosa che brillava nella mano di Karen, qualcosa che stava molto vicino alla gola del biologo.

Judith Li aveva visto e sentito a sufficienza. «Sal! Lei e tre uomini. Armi con colpi esplosivi. Presto. Andiamo giù.»

«Che intende fare?» chiese Peak.

«Riportare l'ordine.» Voltò le spalle al monitor e andò verso la porta. «La sua domanda ci è costata due secondi, Sal. Non sprechi il nostro tempo, altrimenti la faccio fuori. Gli uomini qui. Nel giro di un minuto, voglio che Karen Weaver si tolga qualsiasi idea che le sia passata per la testa. Per gli scienziati, l'età dell'oro è finita.»


Laboratorio

«Lurido maiale», stava dicendo Sue. «Hai colpito Sigur. Che vuol dire questa storia?»

Negli occhi di Rubin c'era il terrore. Il suo sguardo dardeggiò verso il soffitto.

«Non è vero, io…»

«Non guardare la telecamera, Mick», sibilò Karen. «Sarai morto prima che qualcuno ti possa aiutare.»

L'uomo prese a tremare.

«Te lo chiedo un'altra volta, Mick. Cosa fate là?»

«Abbiamo sviluppato un veleno», ansimò lui.

«Un veleno?» gli fece eco Sue.

«Abbiamo usato il tuo lavoro, Sue. Il tuo e quello di Sigur. Dopo che avete trovato la formula del feromone, è stato facile produrlo in quantità sufficiente e… L'abbiamo accoppiato con un isotopo radioattivo.»

«Voi avete… cosa

«Il feromone è radioattivo, ma le cellule non se ne accorgono. L'abbiamo sperimentato…»

«Come? Avete una cisterna ad alta pressione?»

«Solo un modello più piccolo… Karen, ti prego, tira via il bisturi… Non hai nessuna possibilità! Vedono e sentono tutto quello che succede…»

«Non blaterare», mormorò lei. «Va' avanti. E poi, che avete fatto?»

«Abbiamo osservato come il feromone uccide gli yrr difettosi, quelli senza recettore speciale. Esattamente come hai spiegato tu, Sue. Dopo aver chiarito che la programmazione della morte delle cellule è tipica della biochimica degli yrr, dovevamo trovare una strada per portare alla morte anche le cellule sane.»

«Attraverso il feromone?»

«È l'unica strada. Non possiamo attaccare il genoma finché non è completamente decifrato e ci vorranno anni. Così abbiamo accoppiato la sostanza odorosa con un isotopo radioattivo che gli yrr non riconoscono.»

«E cosa fa questo isotopo?»

«Elimina l'effetto protettivo del recettore speciale. Così il feromone diventa per gli yrr una trappola mortale. Uccide anche le cellule sane.»

«Perché non ci avete detto nulla?» Sue scosse la testa, sbalordita. «Nessuno di noi ama quelle bestie. Avremmo potuto trovare insieme una soluzione.»

«Judith ha un suo piano», bofonchiò Rubin.

«Ma così non funzionerebbe!»

«Ha funzionato. L'abbiamo sperimentato.»

«È una follia, Mick! Non avete idea del processo che state avviando. Cosa succederebbe se quella specie morisse? Gli yrr dominano il settanta per cento del nostro pianeta, dispongono di una bioteconologia sviluppatissima e antichissima. S'infilano negli altri organismi, probabilmente in tutta la vita marina, metabolizzano sostanze, forse il metano e il biossido di carbonio… Non abbiamo la minima idea di quello che può accadere alla Terra se li eliminiamo.»

«Come mai tutti?» domandò Karen. «Il veleno non elimina solo alcune cellule? Oppure un insieme?»

«No, mette in moto una reazione a catena», ansimò Rubin. «La morte programmata delle cellule. Non appena si fondono, si eliminano da sole. Quando il feromone si aggancia, è ormai troppo tardi. Una volta che il processo è iniziato, non è più possibile fermarlo. Noi decodifichiamo gli yrr… È come un virus mortale che si trasmettono a vicenda.»

Sue afferrò Rubin per il colletto. «Dovete fermare l'esperimento», disse con foga. «Non potete percorre questa strada. Maledizione, non capisci che questi esseri sono i veri signori della Terra? Loro sono la Terra! Un superorganismo. L'oceano intelligente. Cosa succederebbe se…»

«E se non lo fermiamo?» Rubin emise una risata gracchiante. «Non venire a farmi la predica! Moriremo tutti. Volete aspettare il prossimo tsunami? La prossima fuoriuscita di metano? La nuova Era Glaciale?»

«Non siamo qui neppure da una settimana e abbiamo già avviato un contatto», ribatté Karen. «Perché non cerchiamo di continuare sulla strada della comprensione?»

«Troppo tardi», gemette Rubin.

I loro sguardi si spostavano dal soffitto alle pareti. Non sapevano quanto tempo restava prima dell'arrivo di Judith Li o di Peak. Forse sarebbe arrivato anche Vanderbilt. Probabilmente mancava poco.

«Perché?»

«Perché è così, stupida!» gridò Rubin. «Tra meno di due ore metteremo in azione il veleno.»

«Siete pazzi», mormorò Sue.

«Voglio sapere esattamente come farete, Mick. Altrimenti la mia mano scivolerà e…»

«Non sono autorizzato a parlare!»

«Dico sul serio.»

Rubin tremò ancora di più. «Due siluri che contengono il veleno sono pronti per il Deepflight 3. Abbiamo riempito i proiettili…»

«Sono già a bordo?»

«No, dovevo attrezzare l'imbarcazione tra poco per…»

«Chi va giù?»

«Judith e io.»

«Scende anche Judith?»

«È stata una sua idea. Non lascia niente al caso.» Rubin si sforzò di sorridere. «Non potrete far nulla contro di lei, Karen. Noi salveremo il mondo. Sarà il nostro nome quello che verrà ricordato…»

«Chiudi la bocca, Mick.» Karen cominciò a scivolare in direzione della porta. «Ora andiamo in quel laboratorio. L'imbarcazione non sarà caricata. C'è appena stato un cambio nella sceneggiatura.»


Ponte a pozzo

«C'è qualcosa fra te e Karen?» chiese Greywolf, mentre riponeva l'attrezzatura nel container.

Anawak sobbalzò. «No, assolutamente no.»

«Davvero?»

«Andiamo d'accordo. Credo sia tutto lì.»

«Almeno tu dovresti cominciare a fare qualcosa di giusto», borbottò Greywolf, fissandolo.

«Non so se lei sia interessata a…» D'un tratto, Anawak si rese conto di ciò che aveva appena ammesso con se stesso e a Greywolf. «Davvero, Jack, non lo so. Purtroppo in queste cose sono un vero imbranato.»

«Lo so», ridacchiò l'altro. «Doveva morire tuo padre perché arrivassi nel mondo dei viventi.»

«Ehi…»

«Non agitarti. Lo sai che ho ragione. Perché non vai da lei? Aspetta solo quello.»

«Sono venuto qui per te, non per Karen.»

«Sono perfettamente in grado di gestire la situazione. Va', su.»

«Accidenti, Jack.» Anawak scosse la testa. «Smettila di seppellirti qui. Vieni su con me prima che ti crescano le pinne.»

«Al momento, le pinne non mi dispiacerebbero.»

Anawak guardò verso il tunnel. Certo che voleva raggiungere Karen, ma, oltre al sentimento che aveva appena ammesso, c'era anche un altro motivo. Si era accorto che qualcosa la rendeva inquieta. Non l'aveva mai vista così tesa e agitata. Probabilmente stava riflettendo su quello che gli aveva raccontato di Johanson.

«Va bene, sta' qui a fare la muffa», disse a Greywolf. «Se ci ripensi io sono su.»

Lasciò il ponte a pozzo e passò davanti al laboratorio. Era chiuso, ma lui pensò di darci un'occhiata. Forse avrebbe trovato Johanson. Gli avrebbe chiesto qualcosa di più su quella faccenda… Poi cambiò idea e risalì la rampa verso il ponte dell'hangar, per dare un'occhiata alla parete misteriosa.

Ma non lo fece.

Non appena fu entrato nell'hangar, vide Vanderbilt e Anderson che stavano attraversando il passaggio per la piattaforma esterna.

Improvvisamente ebbe una brutta sensazione.

Che ci facevano lì?

E dov'era finita Karen?


Abisso

Si era alzato il vento da ponente. Ululando, soffiava dalla calotta polare, trascinava frangenti schiumosi contro lo scafo dell'Independence, spazzava via dal mare gli ultimi residui di calore.

Sotto la superficie violentemente scossa si formavano mulinelli e turbolenze, ma, con l'aumentare della profondità il mare diventava sempre più calmo. Fino a qualche mese prima, l'acqua gelida, appesantita dal sale, sprofondava in cascate. C'era sempre un freddo terribile, ma adesso, nell'oceano, all'acqua salata si mescolava quella dolce, proveniente dal rapido scioglimento delle masse di ghiaccio polari, verso le quali da un po' di tempo era stato dirottato il calore. La grande pompa nordatlantica — detta il polmone dei mari, perché, con l'acqua fredda, portava in profondità anche grandi quantità di ossigeno — si stava lentamente ma inesorabilmente fermando. Il nastro trasportatore delle correnti marine era fermo, la corrente che diffondeva il calore proveniente dai tropici si era esaurita.

Eppure la pompa non aveva interrotto completamente il proprio lavoro. Anche se le cascate non erano più misurabili, c'erano ancora piccole masse d'acqua fredda che si spostavano in basso. Attraverso un silenzio senza luce, cadevano nell'abisso del bacino di Groenlandia, metro dopo metro, per centinaia, migliaia di metri.

A tremila metri di profondità, appena sopra il fondale, le tenebre svanivano, attraversate da una lucentezza blu scuro.

Si stendeva su una superficie gigantesca: non era una nuvola, bensì una formazione dalle pareti sottili, a forma di tubo, ancorata al suolo da innumerevoli piedini gelatinosi. All'interno del tubo, milioni di filamenti si piegavano in onde regolari, un prato di fili gelatinosi che si oscillavano con regolarità. Grandi frammenti di una sostanza bianchiccia si spostavano in direzione di un grande oggetto. La luce blu bastava appena per riconoscere la sua forma e illuminava due cupole aperte. Non si vedeva nulla di più del Deepflight affondato, che ormai giaceva nella melma degli abissi marini.

Da un po' di tempo, l'organismo aveva riempito il batiscafo di grandi frammenti ghiacciati. Ma ormai l'interno era pieno, così i rifornimenti erano cessati. Una parte del tubo si strinse, sprofondò sul batiscafo e cominciò ad avvolgerlo. La sostanza trasparente si stese intorno allo scafo e s'ispessì, spingendo in basso le cupole. Alcune superfici, di un blu splendente, si allargarono e si avvolsero l'una sull'altra, finché il batiscafo non fu rinchiuso in un involucro, verso cui si dirigeva un lungo tubo sottile.

Il tubo si mise a pulsare. Al suo interno veniva pompata dell'acqua, che proveniva da luoghi lontani. La sottilissima gelatina la aspirava da un grande pallone organico che stava sospeso un po' più in alto del batiscafo, ed era pieno di acqua più calda. La gelatina aveva preso quell'acqua dal vulcano di fango al largo della costa norvegese. Grazie all'acqua calda, e quindi più leggera, il pallone avrebbe potuto salire fino in superficie, ma il suo peso lo teneva in perfetto equilibrio.

Il calore fluiva nell'involucro di gelatina che racchiudeva il batiscafo.

I frammenti bianchi reagirono all'istante. Nel giro di qualche secondo, le gabbie di cristallo degli idrati si sciolsero. Come in un'esplosione, il metano compresso si espanse fino a centosessantaquattro volte il suo volume, riempì il Deepflight di gas e gonfiò l'involucro, finché questo non si tese. Il bozzolo di gelatina si staccò dal tubo e si chiuse. Il gas non poteva più uscire. Cominciò a salire verso l'alto, prima lentamente, poi, col diminuire della pressione, sempre più velocemente. Era un bozzolo che trascinava dentro di sé il batiscafo.


Laboratorio

Karen continuò a tenere stretto Rubin e a puntargli la lama alla gola, ma non riuscirono ad uscire. La porta del laboratorio scivolò di lato. Tre soldati muniti di armi balzarono all'interno e le puntarono contro di loro. Karen sentì Sue emettere un grido di terrore e si fermò, senza tuttavia mollare Rubin.

Judith Li entrò nel laboratorio seguita da Peak. «Lei non andrà da nessuna parte, Karen.»

«Jude», ansimò Rubin. «Era ora che arrivaste! Mi liberi da questa pazza.»

«Stia zitto», gli ordinò Peak. «Senza di lei non saremmo in una situazione così difficile.»

Judith Li sorrise. «Davvero, Karen», disse con tono affabile. «Non crede che la sua reazione sia un po' esagerata?»

«Rispetto a quello che ha raccontato Mick?» Karen scosse la testa. «No, non credo.»

«E che ha raccontato?»

«Oh, Mick è stato molto loquace. Non è vero, Mick? Ci hai traditi tutti.»

«Mente», gracchiò Rubin.

«Ha parlato di una reazione a catena, di veleno nelle testate dei siluri e del Deepflight 3. Ha anche accennato al fatto che voi due volete fare una gita, entro un paio d'ore.»

«Mah», fece Judith Li e avanzò di un passo. Karen afferrò Rubin e lo trascinò indietro, verso Sue. La biologa stava vicino al tavolo del laboratorio ed era come pietrificata. Aveva ancora in mano la valigetta con le provette che contenevano il feromone. «Sa una cosa? Mick Rubin è forse il miglior biologo del mondo, però soffre di un complesso d'inferiorità», riprese Judith Li. «Vorrebbe tanto essere famoso. L'idea che il suo nome non venga tramandato ai posteri lo fa impazzire. Questo spiega il suo esagerato bisogno di comunicare. Lo guardi. Sarebbe capace di vendere sua madre per un po' di notorietà.» Si fermò. «Ma ormai non ha più importanza. Visto che sa che cosa vogliamo fare, si renderà anche conto delle necessità che dobbiamo affrontare. Ho fatto il possibile per evitare un'escalation, ma, giacché tutti sono al corrente del nostro piano, non mi rimane altra scelta.»

«Ragioni, Karen», la supplicò Peak. «Lo lasci andare.»

«Non lo farò», replicò lei. «Mi è utile. Con la sua copertura, potremo parlare di tutto.»

«No, non parleremo più.» Judith Li estrasse la pistola e la puntò su Karen. «Lo liberi, Karen. Immediatamente, altrimenti le sparo. È la mia ultima offerta.»

Karen guardò la piccola bocca nera della pistola. «Non arriverà a tanto», disse.

«Ah, no?»

«Non ha nessun motivo per farlo.»

«Sta commettendo un errore, Jude», intervenne Sue con voce roca. «Non può usare quel veleno. Ho già spiegato a Mick che…»

Judith spostò l'arma, la puntò contro Sue e sparò. La biologa fu scaraventata contro il tavolo e poi scivolò a terra. La valigetta con le provette le cadde di mano. Per un secondo, la donna fissò con sguardo incredulo il buco, grande come un pugno, che si era formato nel suo petto, poi i suoi occhi divennero vitrei.

«No!» gridò Peak. «Per l'amor del cielo, che sta facendo?»

L'arma ritornò su Karen. «Lo lasci andare», ripeté Judith Li.


Elevatore esterno

«Dottor Johanson!»

Johanson si girò e vide Vanderbilt e Anderson. Stavano venendo verso di lui lungo la piattaforma. Anderson sembrava apatico, distaccato, con le pupille nere fisse in un punto indefinito, mentre Vanderbilt sfoggiava un largo sorriso. «Deve essere furioso con noi», disse, con un tono e con un atteggiamento amichevole. Johanson scrutò i due uomini. Si trovava alla fine della piattaforma, a pochi metri dal bordo. Violenti colpi di vento gli sferzavano il viso. Sotto di lui, le onde rombavano. Un istante prima, aveva deciso di rientrare. «Cosa la porta qui, Jack?»

«Niente di particolare.» Vanderbilt sollevò le mani in un gesto di scusa. «Sa, volevo semplicemente dirle che ci dispiace. È assolutamente inutile litigare. Tutta questa stupida storia… Non trova anche lei?»

Johanson rimase in silenzio. Vanderbilt e Anderson si avvicinavano sempre di più. Lui fece un passo di lato e i due nuovi arrivati si fermarono.

«Dobbiamo discutere di qualcosa?» chiese Johanson.

«Prima l'ho offesa», disse Vanderbilt. «Volevo scusarmi.»

Johanson aggrottò la fronte. «Molto nobile da parte sua, Jack. Le accetto. C'è altro?»

Vanderbilt sollevò il volto nel vento. I radi capelli biondi svolazzavano come erba sottile. «C'è un freddo maledetto, qui fuori», disse, rimettendosi lentamente in movimento. Anderson lo imitò. I due si erano disposti in modo tale da circondare Johanson. Lui non sarebbe riuscito a passarci in mezzo, e neppure a destra o a sinistra.

Quello che avevano intenzione di fare era così evidente che quasi non si sorprese. Ebbe solo una paura tremenda, contro cui non poté fare nulla. Paura unita a una rabbia disperata. Involontariamente fece un passo indietro e si rese subito conto che era stato un errore. Ormai era molto vicino al bordo. Non avrebbero dovuto sforzarsi troppo. Con un colpo violento, lui sarebbe finito in una delle reti sottostanti o addirittura oltre, in mare.

«Jack… Non è che ha intenzione di uccidermi?»

«Mio Dio, come le viene in mente?» Vanderbilt spalancò gli occhi, fingendo stupore. «Voglio parlare con lei.»

«E che ci fa qui Anderson?»

«Oh, era da queste parti. È stato un caso. Pensavamo…»

Johanson scattò verso Vanderbilt, poi si abbassò, scartando verso destra. Si era allontanato dal bordo. Anderson balzò verso di lui. Per un momento, quell'improvvisata manovra diversiva sembrò avere successo; poi Johanson si sentì afferrare e trascinare indietro. Il pugno di Anderson partì e lo colpì sul volto.

Incespicò, scivolando sulla piattaforma.

Con calma, Anderson gli si avvicinò. Le sue mani enormi sparirono sotto le ascelle di Johanson e lo sollevarono. Johanson cercò d'infilare le dita sotto quelle di Anderson, per liberarsi dalla presa, ma era come se fosse rinchiuso in una gabbia di cemento. I suoi piedi si staccarono dalla passerella. Agitava selvaggiamente le gambe mentre Anderson lo portava verso il bordo, dove Vanderbilt li aspettava, guardando in basso con aria sprezzante.

«Moto ondoso di merda», borbottò il dirigente della CIA. «Spero che non abbia niente in contrario se la buttiamo giù, dottor Johanson. Dovrà nuotare un po'.» Girò la testa e digrignò i denti. «Ma non tema, non sarà per molto. La temperatura dell'acqua è al massimo di due gradi. Troverà addirittura piacevole il modo in cui tutto diventerà tranquillo, come perderà la sensibilità, come rallenterà il battito cardiaco…»

Johanson iniziò a gridare. «Aiuto!» strillava con tutte le sue forze. «Aiuto!»

I suoi piedi ormai sporgevano oltre il bordo. Sotto di lui c'era la rete. Usciva per meno di due metri. Non abbastanza. Anderson l'avrebbe gettato oltre senza la minima fatica.

«Aiuto!»

E, con sua enorme sorpresa, l'aiuto arrivò.

Prima sentì Anderson che ansimava. Poi avvertì di nuovo la piattaforma sotto di sé. Infine il cielo si rovesciò. Anderson era caduto sulla schiena, trascinandolo con sé. Per qualche istante le mani dell'uomo lo strinsero ancora, poi si sciolsero. Johanson rotolò di lato, strisciò via e poi balzò in piedi.

«Leon!» esclamò.

La scena davanti ai suoi occhi era grottesca. Anderson cercava di rialzarsi, imprecando. Anawak, da dietro, si era aggrappato alla sua giacca e i due erano finiti a terra. E adesso Anawak stava cercando di strisciare via da sotto l'uomo caduto, ma senza lasciarlo: un'impresa impossibile.

Johanson fece per muoversi.

«Fermo!» Vanderbilt gli sbarrò la strada. Nella sua mano era apparsa una pistola. Lentamente girò intorno ai due uomini a terra finché non arrivò con la schiena rivolta all'ingresso della piattaforma. «Bel tentativo», disse. «Ma ora basta. Dottor Anawak, sarebbe così gentile da permettere a Mister Anderson di rialzarsi? Sta solo facendo il suo dovere.»

Anawak staccò le dita dalla giacca a vento di Anderson e questi balzò in piedi. Non attese neppure che il suo avversario si rialzasse, ma lo sollevò come un sacco. Un attimo dopo, Anawak volava verso il bordo.

«No!» gridò Johanson.

L'altro cadde sulla piattaforma e prese a scivolare.

La testa di Anderson si voltò verso Johanson. Occhi privi di espressione lo guardarono. Poi l'uomo allungò un braccio, lo ritrasse e gli sferrò un pugno nello stomaco. Johanson annaspò, alla ricerca d'aria. Nelle sue viscere si allargarono ondate di dolore. Si ripiegò come un coltello a serramanico e cadde sulle ginocchia.

Il dolore era insopportabile. Non poteva rialzarsi.

Stava lì, accovacciato, cercando disperatamente di respirare, mentre il vento lo frustava. E attendeva che Anderson lo colpisse di nuovo.

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