PARTE SECONDA Château Disaster

Dal rapporto annuale delle associazioni ambientaliste

«Nonostante il divieto del 1994, lo scarico di scorie nucleari in mare continua come prima. Nelle acque prospicienti l'impianto francese di rigenerazione e smaltimento delle scorie, i sommozzatori di Greenpeace hanno registrato una radioattività superiore di diciassette milioni di volte rispetto alle zone non interessate dagli scarichi. Davanti alla Norvegia, fuchi e gamberi sono contaminati col tecnezio, una sostanza radioattiva. Il centro per la radioprotezione norvegese ne ha identificato la fonte nell'impianto inglese di rigenerazione e smaltimento di Sellafield. E i geologi americani vogliono calare scorie altamente radioattive sul fondale marino, facendo scivolare i contenitori antiradiazioni attraverso tubi lunghi chilometri dentro fosse che verranno coperte dai sedimenti.

«Dal 1959, l'Unione Sovietica ha depositato enormi quantità di scorie radioattive, compresi i reattori smantellati, nel mare Artico. Oltre un milione di armi chimiche si arrugginisce sul fondale marino, a una profondità tra i cinquecento e i quattromilacinquecento metri. Particolarmente pericolosi sono i contenitori arrugginiti dei gas velenosi, sprofondati da Mosca nel 1947. Al largo della Spagna, sono depositati centinaia di migliaia di fusti con materiale debolmente radioattivo proveniente dalla medicina, dalla ricerca e dall'industria. Gli scienziati marini hanno trovato nell'Atlantico, a oltre quattromila metri di profondità, il plutonio disperso nei mari del Sud durante i test atomici.

«Il servizio idrografico inglese ha elencato 57.435 relitti sui fondali marini, tra cui anche i resti di sommergibili nucleari americani e russi.

«Il velenosissimo DDT danneggia più gli organismi marini che tutti gli altri esseri viventi. Attraverso le correnti si propaga ovunque e s'inserisce in diverse catene alimentari. Nel grasso dei capodogli sono stati trovati composti di polibromo, utilizzati come sostanze ignifughe per computer e rivestimenti dei televisori. Il novanta per cento di tutti i pesci spada pescati è avvelenato dal mercurio e il venticinque per cento anche dai PCB. Nel mare del Nord agli esemplari di Buccinum undatum femmina cresce il pene. La causa potrebbe essere la vernice delle navi, contenente tributilstagno.

«Ogni trivellazione petrolifera danneggia il fondale marino per una superficie di venti chilometri quadrati, un terzo della quale è praticamente priva di vita.

«I campi elettrici dei cavi sottomarini disturbano l'orientamento di salmoni e anguille. Inoltre l'elettrosmog pregiudica lo sviluppo delle larve.

«La diffusione delle alghe e la moria di pesci crescono drammaticamente in tutto il mondo. Israele non ha firmato il trattato per fermare lo scarico di rifiuti in mare e, fino al 1999, un'unica ditta ha scaricato in mare sessantamila tonnellate di rifiuti velenosi all'anno: piombo, mercurio, cadmio, arsenico e cromo trasportati dalle correnti arrivano fino in Siria e a Cipro. Nel golfo di Tunisi vengono pompati in mare ogni giorno 12.800 tonnellate di fosfati provenienti dalle industrie di fertilizzanti.

«Settanta delle duecento più importanti specie marine sono state dichiarate dalla FAO a rischio di estinzione. E intanto il numero dei pescatori aumenta. Nel 1970 erano tredici milioni, nel 1997 erano già trenta milioni. La pesca con le reti a strascico, utilizzate per la cattura di merluzzi, cicerelli e salmoni dell'Alaska, ha effetti devastanti sul fondale. Vengono letteralmente raschiati via interi ecosistemi. Mammiferi marini, pesci predatori e uccelli acquatici non trovano più niente da mangiare.

«Il bunker C, un olio combustibile denso, il propellente più usato dalle navi, prima della combustione viene purificato da cenere, metalli pesanti e sedimenti. Rimangono rifiuti compatti che molti comandanti non smaltiscono correttamente, ma scaricano di nascosto in mare.

«Al largo del Perú, a quattromila metri di profondità, ricercatori di Amburgo hanno condotto una sperimentazione per l'elaborazione di un progetto per la più grande raccolta a fini commerciali di noduli di manganese. La loro nave trascinava avanti e indietro un aratro su un pezzo di fondale marino ampio undici chilometri quadrati. Sono morte innumerevoli forme di vita. Anni dopo, la regione non si era ancora ripresa.

«Durante i lavori di costruzione nelle Florida Keys fu gettata in mare della terra che si depositò sulle barriere coralline: gran parte delle forme di vita lì presenti è morta soffocata.

«I ricercatori marini credono che anche le grandi concentrazioni di biossido di carbonio nell'atmosfera, causate dal crescente uso di combustibili fossili, blocchino la formazione delle scogliere. Quando il CO2 si scioglie rende l'acqua acida. Senza curarsi di ciò, i grandi gruppi energetici progettano di pompare direttamente in mare enormi quantità di CO2 per ridurre l'inquinamento atmosferico.»

10 maggio

Château Whistler, Canada

La notizia lasciò Kiel a trecentomila chilometri al secondo.

Il testo, preparato sul laptop da Erwin Suess nel centro di ricerca Geomar, si spostò nella rete, configurato in una massa di dati digitali e fu trasformato in segnale luminoso da un diodo laser. Poi fu sparato con una lunghezza d'onda di 1,5 millesimi di millimetro infrarosso in un cavo a fibre ottiche, insieme con milioni di telefonate e pacchetti di dati. La fibra permetteva ai fasci di luce di scorrere in un diametro doppio di quello di un capello e li rifletteva verso l'interno per non farli uscire. A velocità folle, le onde sfrecciavano dall'interno del Paese fino alla costa, attraversando ogni cinquanta chilometri in un amplificatore ottico, finché la fibra non spariva in mare, avvolta in un mantello di rame, impacchettata in diversi strati di filo metallico e di morbido isolante.

Sott'acqua, il fascio di cavi aveva lo spessore di un robusto avambraccio umano. Correva sul fondo dello zoccolo continentale, sotterrato per essere protetto dalle ancore e dalle reti dei pescatori. Il TAT-14 — quello era il nome ufficiale — era un cavo transatlantico che collegava l'Europa al continente americano. Era uno dei cavi in grado di reggere il carico maggiore. Solo nel Nordatlantico c'erano dozzine di cavi simili. Centinaia di migliaia di chilometri di cavi a fibre ottiche formavano in tutto il mondo la spina dorsale dell'era dell'informazione. Tre quarti della loro capacità servivano al world wide web. Il Project Oxygen legava 157 Paesi in una sorta di super Internet. Un altro sistema collegava otto cavi a fibre ottiche per una capacità di carico di 3,2 terabit, che corrispondeva a quarantotto milioni di telefonate fatte contemporaneamente. Da tempo, fibre spesse quanto una filigrana avevano soppiantato la tecnica satellitare. La sfera terrestre era circondata da un intreccio di cavi capaci di condurre la luce, in cui correvano in tempo reale i bit e i byte della società della comunicazione, le telefonate, i video, la musica, le e-mail. Non erano i satelliti a formare il villaggio globale, ma i cavi.

La notìzia di Erwin Suess schizzò verso nord, tra la Scandinavia e la Gran Bretagna. Superata la Scozia, il TAT-14 svoltava a sinistra. Oltre lo zoccolo continentale delle Ebridi avrebbe dovuto snodarsi sul profondo fondale marino, non più interrato, ma appoggiato sulla superficie.

Ma non c'erano più né il margine continentale né il fondale marino.

Meno di un centoventesimo di secondo dopo essere partita da Kiel, la notizia passò sotto gigatonnellate di fango, arrivò nella zona al di sotto delle isole Fær Øer, e finì in una matassa strappata. Il robusto involucro, coi suoi cavi di rinforzo e con gli strati di materiale flessibile, era tranciato di netto, le fibre ottiche tagliate facevano uscire i loro messaggi nei sedimenti. La slavina aveva travolto il cavo con tale violenza che le due estremità tranciate giacevano a centinaia di chilometri l'una dall'altra. Il TAT-14 riprendeva solo nel bacino islandese, un inutile pezzo di alta tecnologia, che arrivava sullo zoccolo continentale a sud di Terranova e da lì correva fino a Boston, dove s'inseriva nel collegamento via terra. Infine, attraverso le Montagne Rocciose, l'autostrada dei dati raggiungeva la zona costiera montuosa del Canada occidentale a nord di Vancouver, direttamente nella stazione di scambio del famoso hotel di lusso Château Whistler, ai piedi della Blackcomb Mountain, dove il cavo a fibre ottiche si trasformava in un convenzionale cavo di rame. Un fotomoltiplicatore riconvertiva nuovamente il processo e trasformava gli impulsi luminosi in segnali digitali.

In altre circostanze, sarebbe stato digitalizzato in questo modo anche il messaggio proveniente da Kiel, e sarebbe apparso in forma di e-mail anche sul laptop di Gerhard Bohrmann. Ma, in quelle circostanze, il collegamento di Bohrmann era tagliato fuori esattamente come quello di milioni di altre persone. Una settimana dopo la catastrofe, nel Nordeuropa i collegamenti transatlantici Internet ed e-mail erano quasi completamente bloccati, e i contatti telefonici — quand'erano possibili — avvenivano solo via satellite.

Bohrmann era seduto nella grande hall dell'hotel e fissava lo schermo. Sapeva che Suess voleva mandargli un documento con la curva di crescita della popolazione dei vermi e le proiezioni di quello che sarebbe potuto succedere in altre parti del mondo colpite da infestazioni simili. Una volta superato lo shock, a Kiel lavoravano come ossessi.

Imprecò. Il presunto mondo così piccolo era tornato di nuovo grande, pieno di spazi invalicabili. Al mattino, gli avevano detto che, nel corso della giornata, le e-mail sarebbero state ricevute via satellite, ma fino a quel momento non si era ancora visto nulla. A quanto pareva, erano ancora vincolati al cavo distrutto. Bohrmann sapeva che l'unità di crisi stava lavorando febbrilmente, tuttavia Internet collassava in continuazione. E lui presumeva che non dipendesse tanto dalle carenze tecniche quanto dalla volontà. Era vero che i satelliti lavoravano alla perfezione, ma l'esercito americano non aveva ancora dato la completa disponibilità a trasferire sui satelliti il traffico dei cavi ottici transatlantici.

Prese il telefono satellitare che l'unità di crisi gli aveva messo a disposizione, si mise in contatto con Kiel e attese. Dopo diversi squilli, finalmente all'istituto risposero e gli passarono Suess. «Non è arrivato niente», disse Bohrmann.

«Valeva la pena tentare.» La voce di Suess si sentiva bene, ma Bohrmann era irritato per il ritardo con cui rispondeva. Non riusciva ad abituarsi alle telefonate satellitari. Il segnale partito dal trasmettitore doveva risalire per circa trentaseimila chilometri e discendere di altrettanti per raggiungere il ricevente. Ci si telefonava facendo lunghe pause e sovrapponendosi parzialmente. «Anche da noi non funziona nulla. Peggiora di ora in ora. Non si riesce più a raggiungere la Norvegia, in Scozia tutto tace, la Danimarca ormai esiste solo sulla carta geografica. E non credere che ci sia qualche piano d'emergenza.»

«Eppure noi ci stiamo telefonando», disse Bohrmann.

«Stiamo telefonando perché gli americani sono attrezzati. Stai sfruttando la superiorità militare di una grande potenza. In Europa… Scordatelo! Tutti vogliono telefonare, tutti sono in ansia perché non sanno nulla di parenti e amici. C'è un intasamento di dati. Le poche reti libere sono occupate dalle unità di crisi e dai governi.»

«Allora, che facciamo?» disse Bohrmann dopo una pausa d'indecisione.

«Non lo so. Forse riparte la Queen Elizabeth. I dati ti arriveranno fra sei settimane, se mandi un messaggero a cavallo sulla costa a prenderli.»

Bohrmann fece una risata amara. «Parliamo seriamente», disse.

«Allora ti devi procurare qualcosa per scrivere. Non posso fare diversamente.»

«Ho da scrivere», sospirò Bohrmann.

Mentre annotava quello che Suess gli diceva, un gruppo di uomini in uniforme attraversò la hall alle sue spalle e si avviò verso gli ascensori. Il loro comandante era un nero alto, dai tratti etiopi. Aveva i gradi di maggiore delle forze armate americane e una targhetta col nome PEAK.

Il gruppo entrò in uno degli ascensori. La maggior parte scese al secondo o al terzo piano. Gli altri lasciarono l'ascensore al quarto.

Il maggiore Salomon Peak rimase sull'ascensore e proseguì fino al nono piano. Là c'erano le gold executive suite, il meglio delle cinquecentocinquanta camere dello Château. Lo stesso Peak abitava in una junior suite al piano inferiore. Una normalissima camera singola gli sarebbe bastata. Non dava importanza al lusso, ma la direzione dell'hotel si era preoccupata di fornire all'unità di crisi le stanze migliori. Mentre camminava lungo il corridoio, il rumore dei passi attutito dal tappeto, non riusciva a levarsi dalla mente quello che era successo durante la riunione pomeridiana. Incrociava uomini e donne, con abiti civili e in uniforme. Le porte erano aperte e permettevano di vedere all'interno delle suite, trasformate in uffici. Dopo qualche secondo raggiunse una grande porta. Due soldati lo salutarono e Peak rispose con un cenno. Uno dei due bussò e attese la risposta dall'interno, poi aprì di scatto e fece entrare il maggiore.

«Come va?» disse Judith Li.

Si era fatta portare dalla palestra un tapis roulant. Peak sapeva che Judith Li passava più tempo su quel nastro che a letto. Da lì guardava la televisione, sbrigava la corrispondenza, dettava memorandum, ordini e discorsi grazie al sistema di riconoscimento vocale del suo laptop, faceva telefonate, riceveva informazioni su ogni cosa, oppure pensava. Stava correndo anche in quel momento. I capelli neri tenuti da una fascia erano lisci e splendenti. Indossava una tuta leggera, con pantaloncini corti e stretti. Nonostante il ritmo sostenuto, il suo respiro era regolare. Ogni volta, Peak doveva richiamare alla memoria che quella donna sul tapis roulant aveva quarantotto anni. Judith Li sembrava averne meno di quaranta ed era in forma perfetta.

«Non male», disse Peak. «Grazie.»

Si guardò intorno. La suite aveva le dimensioni di un appartamento di lusso ed era adeguatamente arredata. Classici elementi canadesi — molto legno e atmosfera rustica, un caminetto — si mescolavano con l'eleganza francese. Accanto alla finestra c'era un pianoforte a coda. Anche quello proveniva da un altro ambiente, cioè dalla grande hall. Judith Li l'aveva fatto portare nel suo appartamento, come il tapis roulant. Sulla sinistra, un corridoio a volta conduceva in una grande camera da letto. Peak non aveva visto il bagno, ma aveva sentito dire che disponeva di una vasca per idromassaggio e di una sauna.

Dal punto di vista di Peak, l'unico oggetto sensato era il massiccio tapis roulant nero, benché apparisse del tutto incongruo a quell'appartamento arredato con cura. Lui pensava che il lusso e il design non si confacessero alla vita militare. Peak proveniva da una famiglia semplice e non si era arruolato perché fornito di uno spiccato senso estetico, bensì per sfuggire alla vita in strada che troppo spesso conduceva alla galera. La costanza e un instancabile impegno gli avevano permesso di finire il college e gli avevano aperto una carriera come ufficiale. Il suo successo era di esempio per molti, ma ciò non cambiava le sue origini. Continuava a sentirsi molto più a suo agio in una tenda o in un motel economico.

«Abbiamo ricevuto le ultime analisi dei satelliti della NOAA», disse, passando davanti a Judith Li per guardare la valle dalla grande finestra panoramica. Il sole era alto sui boschi di cedri e abeti. Lo scenario delle montagne era stupendo, ma Peak non ci fece caso. Al momento era molto più interessato agli sviluppi previsti per le ore seguenti.

«E allora?»

«Avevamo ragione.»

«C'è una somiglianza?»

«Sì, tra i rumori intercettati dall'URA e lo spettrogramma non identificato del 1997.»

«Bene», disse Judith Li con aria soddisfatta. «Molto bene.»

«Non so se sia un bene. È una traccia, ma non spiega nulla.»

«E cosa si aspettava? Che l'oceano ci spiegasse qualcosa?» Judith Li schiacciò il tasto stop sul tapis roulant e saltò giù. «Abbiamo messo in piedi tutto questo circo proprio per scoprirlo. Il gruppo è al completo?»

«Ci siamo tutti. Tranne uno.»

«Chi?»

«Quel biologo norvegese, quello che ha scoperto i vermi. Dovrei guardare, si chiama…»

«Sigur Johanson.» Judith Li andò in bagno e ritornò con un asciugamano intorno alle spalle. «Veda di ricordarsi i nomi, Sal. Nell'hotel ci sono trecento persone, di cui settantacinque scienziati… Dovrebbe riuscire a ripetere i nomi.»

«Mi vuole dire che lei ha in testa trecento nomi?»

«Ne ho in testa anche tremila, se serve. S'impegni.»

«Sta bluffando», disse Peak.

«Vuole mettermi alla prova?»

«Perché no? In compagnia di Johanson c'è una giornalista inglese, da cui speriamo di avere informazioni su quello che sta succedendo al Circolo Polare. Sa come si chiama?»

«Karen Weaver», rispose Judith Li, frizionandosi i capelli. «Vive a Londra. È una specialista del mare, nonché una patita di computer. Si trovava a bordo di una nave sul mar di Groenlandia che poi è affondata con uomini e topi.» Sorrise a Peak coi suoi denti bianchi come la neve. «Se solo avessimo per ogni cosa un quadro completo come per questo affondamento…»

«Magari.» Peak si concesse un sorriso. «Ogni volta che discutiamo della mancanza d'informazioni, Vanderbilt s'irrigidisce.»

«È comprensibile. La CIA odia non riuscire a ottenere informazioni. È già arrivato?»

«È stato avvisato.»

«Avvisato? Che vuol dire?»

«È già in elicottero.»

«La capacità di trasporto dei nostri velivoli mi sorprende, Sal. Mi suderebbero le mani se dovessi volare con quel grasso maiale. Ma non fa niente. Mi faccia sapere se allo Château Whistler arrivano altre notizie sconvolgenti prima che caliamo le carte.»

Peak esitò. «Come possiamo chiedere a tutti l'impegno di tenere la bocca chiusa?»

«Ne abbiamo parlato mille volte.»

«Lo so che se n'è parlato mille volte. Ma mille volte meno del necessario. Laggiù c'è gente di ogni tipo, gente che non è abituata a mantenere un segreto. Hanno famiglia e amici. Arriveranno schiere di giornalisti e faranno domande…»

«Non è un problema nostro.»

«Potrebbe diventarlo.»

«Facciamoli entrare nell'esercito.» Judith Li allargò le braccia. «Poi li sottoponiamo alle leggi di guerra. Chi apre bocca sarà fucilato.»

Peak s'irrigidì.

Judith gli fece un cenno. «Era una battuta, Sal.»

«Non sono dell'umore adatto per le battute», ribatté Peak. «So bene che Vanderbilt vorrebbe applicare il diritto militare a tutti, ma è impossibile. Almeno la metà di questa gente è straniera e la maggior parte di questa metà è europea. Se rompono gli accordi non possiamo fare nulla.»

«Allora comportiamoci come se potessimo farlo.»

«Vuole fare pressioni? Non funzionerebbe. Nessuno coopera sotto pressione.»

«Chi ha parlato di pressione? Mio Dio, Sal, perché vuole sempre crearsi dei problemi? Quella gente vuole essere d'aiuto. Inoltre, se si convince che la violazione del rapporto di fiducia porta all'espulsione dal gruppo, starà zitta. Credere rende forti.»

Peak la guardò, scettico. «C'è altro?»

«No. Possiamo cominciare.»

«Bene, ci vediamo più tardi.»

Peak se ne andò.

Judith Li lo seguì con lo sguardo, pensando con divertimento alla scarsa conoscenza del genere umano che caratterizzava quell'uomo. Era un eccellente soldato e uno straordinario stratega, ma faticava a distinguere gli uomini dalle macchine. Sembrava quasi convinto che, nel corpo umano, ci fosse da qualche parte un settore da programmare in modo da essere sicuri che le istruzioni fossero eseguite. In un certo senso, quasi tutti i laureati a West Point cadevano in quell'errore. L'accademia militare americana più elitaria in assoluto era ben nota per i suoi spietati metodi di addestramento, alla fine del quale, però, non c'era altro che l'obbedienza, un'obbedienza inculcata a forza. Le preoccupazioni di Peak erano infondate, non capiva proprio niente di psicologia di gruppo.

Judith Li pensò a Jack Vanderbilt, il vice direttore della CIA. Non le piaceva: puzzava, sudava e aveva un alito spaventoso, però sapeva fare il suo lavoro. Durante le ultime settimane, e soprattutto dopo il terribile tsunami che aveva devastato l'Europa settentrionale, il settore di Vanderbilt si era messo in funzione a pieno regime. I suoi uomini avevano tracciato una sbalorditiva visione d'insieme. In altre parole: le risposte continuavano a scarseggiare, ma il catalogo delle domande era completo.

Rifletté se fosse necessario mandare alla Casa Bianca un rapporto intermedio. In fondo c'erano ben poche novità, ma il presidente stravedeva per lei e l'ammirava per la sua intelligenza. Era perfettamente consapevole della considerazione di cui godeva, ma si guardava bene dallo sbandierarla in pubblico, perché sarebbe stato controproducente. Era una delle poche donne tra i generali americani e ciò rendeva la sua posizione drammaticamente instabile. Molti militari di alto rango e vari politici la guardavano con sospetto. E il suo rapporto confidenziale con l'uomo più potente del mondo non contribuiva a rendere il quadro più limpido. Quindi Judith Li perseguiva i suoi obiettivi con prudenza. Non si metteva mai in primo piano. Non faceva mai allusioni alla solidità del rapporto tra lei e il presidente. Lui, per esempio, non gradiva che un problema fosse definito «complesso», perché la complessità era lontanissima dal suo modo di pensare. Il più delle volte, quindi, era lei a spiegargli la complessità del mondo con parole semplici; lo stesso presidente, poi, chiedeva spiegazioni a Judith Li se il punto di vista del segretario alla Difesa o dei membri del consiglio di sicurezza nazionale gli apparivano incomprensibili. E lei gli spiegava anche le posizioni del segretario di Stato.

In nessun caso, Judith Li avrebbe permesso che le idee del presidente fossero pubblicamente ricondotte alla loro fonte reale. Se le veniva fatta una domanda, la sua risposta cominciava sempre con: «Il presidente crede che…» oppure con: «L'opinione del presidente a questo riguardo è…» I giornalisti non dovevano sapere che era lei a veicolare idee e nozioni al signore della Casa Bianca, ad allargare i suoi orizzonti intellettuali e soprattutto a fornirgli punti di vista e giudizi.

I membri della cerchia più ristretta, tuttavia, lo sapevano. Ma lei aspettava che i suoi meriti fossero riconosciuti al momento opportuno. Come col generale Norman Schwarzkopf, che lei aveva conosciuto nel 1991, durante la Guerra del Golfo: un intelligentissimo stratega con una notevole abilità tattica nelle questioni politiche, un uomo che non si lasciava intimidire da niente e da nessuno. Quando lo aveva incontrato, Judith Li aveva già alle spalle un percorso sorprendente: diploma in Scienze politiche e Storia alla Duke University, prima donna laureata a West Point in Scienze naturali, all'interno di un programma specifico per ufficiali di Marina, corsi d'insegnamento al War Naval College. Schwarzkopf l'aveva presa sotto la sua ala protettrice e si era preoccupato che fosse invitata a convegni e seminari, così da incontrare le persone giuste. Di per sé disinteressato alla politica, «Stormin' Norman» le aveva spianato la strada verso quel mondo in cui i confini tra politica ed esercito erano sfumati e le carte si rimescolavano continuamente.

Il suo potente protettore le aveva inizialmente procurato il ruolo di vice comandante delle forze di terra nell'Europa centrale. Nel giro di breve tempo, Judith Li aveva riscosso una notevole popolarità nella cerchia diplomatica. Formazione, cultura e doti naturali le erano state particolarmente utili. Il padre, un americano, proveniva da una famiglia di generali e aveva giocato un ruolo importante nella sicurezza della Casa Bianca, prima di doversi ritirare per motivi di salute. Sua madre, una cinese, era un'apprezzata violoncellista, che suonava nell'orchestra della New York City Opera. Per la loro unica figlia, entrambi nutrivano grandi speranze. Judith aveva preso lezioni di danza e di pattinaggio sul ghiaccio, nonché di pianoforte e di violoncello. Aveva accompagnato il padre nei suoi viaggi in Europa e Asia e quindi, fin da giovanissima, si era formata un'opinione precisa sulle differenze culturali. Le caratteristiche etniche e l'evoluzione storica esercitavano su di lei una passione irrefrenabile che la spingeva a porre continuamente domande a chiunque incontrasse, aiutata in ciò anche dal fatto che, già a dodici anni, parlava il mandarino — la lingua della madre -, a quindici si esprimeva correntemente in tedesco, francese, italiano e spagnolo e a diciotto aveva raggiunto un buon livello di giapponese e coreano. I suoi genitori erano stati severissimi per tutto ciò che riguardava le buone maniere, il modo di vestire e il rispetto delle regole della buona società, dimostrando invece una sorprendente tolleranza per tutto il resto. I princìpi presbiteriani del padre e la filosofia di vita della madre, forgiata dal buddhismo, convivevano in un rapporto armonico, come la loro vita.

Tuttavia la cosa più sorprendente era che, al momento del matrimonio, il padre aveva assunto il nome della moglie, cosa che aveva messo in moto una lunga e faticosa battaglia contro le autorità. Quel gesto d'amore per la donna che aveva lasciato la sua terra pur di seguirlo aveva portato alle stelle l'ammirazione di Judith per il padre, il quale, in realtà, era un uomo dalle mille contraddizioni. Sosteneva, per esempio, di essere in parte un liberale e in parte un repubblicano ultraconservatore e andava fiero di quella dicotomia. Una ragazza con un carattere meno forte, costretta alla pressione di una famiglia che le imponeva la perfezione in ogni disciplina, probabilmente sarebbe crollata. Ma Judith Li non l'aveva fatto: dopo aver saltato due classi, aveva ottenuto la licenza liceale con voti eccezionali, cominciando così a nutrire la convinzione di poter diventare ciò che voleva, fosse pure il presidente degli Stati Uniti d'America.

A metà degli anni '90, il dipartimento della Difesa le aveva offerto il posto di vice capo di stato maggiore, con delega alle operazioni e alla pianificazione; contemporaneamente era stata chiamata a occupare la cattedra di Storia a West Point. Presso il dipartimento della Difesa lei godeva ormai di una grande considerazione e il suo crescente interesse per la politica era stato notato da molti. Le mancava soltanto un rilevante successo militare. Il Pentagono riteneva indispensabile avere un'esperienza sul campo prima di dare il via libera all'ascesa ai livelli più alti, e quindi Judith Li agognava una bella crisi globale. Non aveva dovuto attendere a lungo. Nel 1999 aveva preso parte al confitto nel Kosovo come vice comandante delle operazioni e aveva scritto il suo nome nel libro degli eroi.

Finita la campagna militare, era diventata generale comandante a Fort Lewis e, dopo aver impressionato il presidente con un rapporto sulla sicurezza interna, era stata chiamata proprio nel consiglio di sicurezza nazionale. Judith Li aveva adottato una linea dura. Per molti aspetti, il suo pensiero era ancora più intransigente di quello dell'amministrazione repubblicana, ma in lei l'elemento trainante era il patriottismo. Era convinta che al mondo non esistesse un Paese migliore e più giusto degli Stati Uniti d'America e aveva argomentato questa sua affermazione in modo acuto ed esaustivo.

Improvvisamente si era ritrovata nel cuore del potere.

Judith Li, la perfezionista dal sangue freddo, conosceva la bestia in agguato dentro di lei: una calda, indomabile emotività che, a quel punto, poteva diventare tanto utile quanto dannosa, a seconda della mossa che si apprestava a compiere. Così aveva soppresso l'impulso a enfatizzare le proprie capacità militari e politiche. Era sufficiente che, in certe serate alla Casa Bianca, sostituisse l'uniforme con un abito da sera e suonasse Chopin, Brahms e Schubert agli ascoltatori rapiti, che guidasse nella danza il presidente sino a fargli credere di volteggiare come Fred Astaire, che cantasse per la sua famiglia e i vecchi amici repubblicani le canzoni dei padri fondatori… Quella parte della messinscena riguardava solo lei. Allacciava abilmente stretti rapporti personali, condivideva la passione per il baseball del segretario alla Difesa e quella del segretario di Stato per la storia europea. Si lasciava invitare sempre più spesso in forma privata e trascorreva interi fine settimana nel ranch del presidente.

Davanti al mondo era rimasta umile, tenendo per sé le opinioni personali sulle questioni politiche. Obbediva alle regole del gioco che si svolgeva tra politica ed esercito, appariva colta, affascinante e sicura di sé, sempre vestita correttamente, però mai rigida o spocchiosa. Le erano state attribuite — senza fondamento — una serie di relazioni con uomini assai influenti, ma lei ignorava elegantemente i pettegolezzi. Era impossibile farle perdere la calma. Ai giornalisti, ai deputati e ai sottoposti forniva bocconcini ben digeribili di certezze e convinzioni, era sempre organizzata e preparata al meglio, ricordava un'enorme quantità di dettagli, li richiamava come da un archivio e li riduceva in formule chiare e comprensibili.

Così, sebbene nemmeno lei sapesse cosa stava succedendo nell'oceano, anche stavolta riuscì a trasmettere al presidente un quadro esatto della situazione. Nel voluminoso dossier stilato dalla CIA mancavano solo pochi punti decisivi. Ecco perché Judith Li si trovava allo Château Whistler. E lei sapeva bene cosa significava.

Era l'ultimo, grande passo che le restava da fare.

Forse avrebbe dovuto chiamare il presidente. Così, semplicemente. A lui piaceva. Poteva raccontargli che gli scienziati e gli esperti erano riuniti, sottintendendo che avevano accettato l'invito informale degli Stati Uniti, benché nei loro Paesi avessero problemi a non finire. Poteva spiegargli che i satelliti della NOAA avevano riconosciuto alcuni tratti simili tra i rumori non identificati. Cose del genere gli piacevano, era un po' come dire: «Signore, abbiamo fatto un passo avanti». Naturalmente non si aspettava che il presidente sapesse cosa s'intendeva con termini quali bloop e upsweep, e perché la NOAA credeva di aver sciolto il mistero delle origini dello slowdown. Erano cose che andavano troppo nel dettaglio, cose inutili. Qualche parola ottimistica sul collegamento satellitare a prova d'intercettazione e il presidente sarebbe stato felice. E un presidente felice era sempre utile.

Decise di farlo.

Nove piani sotto di lei, Leon Anawak notò un bell'uomo coi capelli brizzolati e la barba. Stava attraversando lo spiazzo antistante l'hotel accompagnato da una donna piccola e abbronzata, con una gran massa di riccioli castani e le spalle larghe, che indossava jeans e una giacca di pelle. Anawak valutò che avesse poco meno di trent'anni. I nuovi arrivati portavano un bagaglio che fu immediatamente preso in carico dagli inservienti dell'hotel. La donna scambiò qualche parola con l'uomo con la barba, si guardò intorno e, per un momento, fissò lo sguardo su Anawak. Poi si scostò i riccioli dalla fronte e sparì nella hall.

Anawak rimase a fissare il punto in cui, fino a poco prima, c'era la donna. Poi alzò la testa, si riparò gli occhi dai raggi obliqui del sole e lasciò scorrere lo sguardo sulla facciata neoclassica dello Château.

L'hotel di lusso sorgeva in un panorama da sogno, che corrispondeva perfettamente all'immagine stereotipata del Canada. Da Vancouver si prendeva la Highway 99 lungo la Horseshoe Bay e si raggiungevano le montagne: lì si trovava il gigantesco hotel, che sorgeva in mezzo a una foresta su un dolce pendio circondato da imponenti cime, che splendevano di bianco anche durante i mesi estivi. Le montagne Blackcomb e Whistler formavano una delle zone sciistiche più belle del mondo. Ora, in maggio, gli ospiti venivano lì prevalentemente per giocare a golf e per fare passeggiate. Si poteva esplorare la zona con la mountain bike, oppure essere portati sulle nevi eterne con l'elicottero. Lo Château disponeva anche di un ristorante eccezionale e offriva ogni comfort immaginabile.

Ma tutto ciò era ovvio, dato che il luogo era così remoto. Meno ovvia era la dozzina di elicotteri militari che stazionavano nelle vicinanze.

Anawak era arrivato da due giorni. Aveva collaborato nella preparazione della conferenza di Judith Li insieme con Ford, che da ventiquattr'ore volava avanti e indietro tra l'acquario di Vancouver, Nanaimo e lo Château Whistler per visionare il materiale, analizzare i dati e riportare le ultime conoscenze acquisite. Il ginocchio gli faceva ancora male, ma non zoppicava più. La limpida aria di montagna aveva in qualche modo snebbiato i suoi pensieri e lo sconforto seguito all'incidente con l'idrovolante si era trasformato in un dinamismo nervoso.

Nel frattempo erano accadute così tante cose che la sua cattura da parte della pattuglia militare sembrava lontanissima. Eppure, da quando aveva incontrato Judith Li — in una situazione penosa, doveva ammetterlo — non erano ancora passate due settimane. Gli errori da dilettante compiuti da Anawak durante la sua «missione notturna» avevano divertito non poco Judith Li. Ovviamente l'avevano tenuto d'occhio fin dal suo arrivo in auto e lo avevano seguito mentre percorreva la banchina. Poi si erano limitati a osservarlo, cercando di capire cosa avesse intenzione di fare. Infine l'avevano catturato e Anawak si era vergognato a tal punto da convincersi che non avrebbe mai più avuto il coraggio di mettere piede fuori di casa.

Invece l'aveva fatto, eccome. Non doveva più gettare le sue conoscenze nel buco nero dell'unità di crisi, dato che adesso si trovava al centro del buco nero che inghiottiva tutto, come John Ford e, da poco, Sue Oliviera. Adesso poteva conferire anche con Roberts della Inglewood, il quale era stato il primo a protestare per il silenzio che gli era stato imposto in alto loco. Imbavagliato da Judith Li, Roberts era stato costretto a negarsi. In un paio di casi, era addirittura vicino al telefono, mentre la sua segretaria buttava fumo negli occhi ad Anawak.

La conferenza era pronta e Anawak non poteva far altro che aspettare. Così era andato a giocare a tennis, per vedere come il ginocchio avrebbe reagito allo sforzo. Intanto il mondo precipitava nel caos e l'Europa era sommersa da montagne d'acqua. Il suo partner di gioco era un francese piccolo, con le sopracciglia cespugliose e il naso prominente. Si chiamava Bernard Roche, un batteriologo arrivato la sera prima da Lione. Mentre l'America si scontrava coi più grandi animali del pianeta, Roche stava combattendo una battaglia disperata contro i più piccoli.

Anawak guardò l'orologio: si sarebbero trovati tra mezz'ora. L'hotel era chiuso ai turisti e strettamente controllato dal governo, tuttavia era pieno come in alta stagione. Dovevano essere arrivate alcune centinaia di persone. Oltre la metà apparteneva in un modo o nell'altro all'United States Intelligence Community. Erano in maggioranza collaboratori della CIA, che avevano trasformato in tutta fretta lo Château in una centrale di comando. Era presente un intero reparto dell'NSA, la National Security Agency, attrezzato per ogni possibile spionaggio elettronico, per garantire la riservatezza dei dati e per la cartografia. L'NSA occupava il quarto piano. Il quinto era riservato ai collaboratori del dipartimento della Difesa statunitense e ai servizi segreti canadesi. Al sesto alloggiavano gli esponenti del SIS britannico e del Security Service, insieme con delegazioni dell'esercito e dei servizi segreti tedeschi. I francesi avevano mandato un gruppo della Direction de la Surveillance du Territoire ed erano presenti anche i servizi segreti svedesi e il finlandese Pääesikunnan Tiedusteluosasto. Era un incontro senza precedenti di servizi segreti, un impiego senza pari di uomini e mezzi con lo scopo di riuscire a comprendere quello che stava succedendo nel mondo.

Anawak si massaggiò la gamba.

Sentiva ancora delle punture dolorose. Non avrebbe dovuto giocare a tennis. Un altro elicottero militare si preparava all'atterraggio e la sua ombra coprì Anawak, che lo guardò per un istante, poi si girò e rientrò.

C'era gente ovunque. Tutti si muovevano in fretta, veloci ma senza frenesia, come in un complicato balletto messo in scena sotto il tetto a spioventi della hall, simile a quello di una chiesa. La metà delle persone sembrava costantemente impegnata al telefono. Gli altri erano di fronte ai loro laptop e stavano seduti su accoglienti gruppi di poltroncine sotto i pilastri di pietra naturale che dividevano la «navata» centrale della hall da quelle laterali: scrivevano o fissavano concentrati lo schermo. Anawak cercò di non urtare nessuno mentre si dirigeva al bar, dove c'erano John Ford e Sue Oliviera. Erano in compagnia di un uomo alto, coi baffi, che si guardava intorno con aria infelice.

Toccò a Ford occuparsi delle presentazioni. «Leon Anawak… Gerhard Bohrmann. Non stringere troppo forte la mano a Gerhard, Leon, altrimenti si stacca.»

«Gomito del tennista?» chiese Anawak.

«Penna a sfera.» Bohrmann fece un sorriso amaro. «Ho scritto sotto dettatura per un'ora intera quello che fino a due settimane fa avrei potuto richiamare con un clic. Sembra di essere nel Medioevo.»

«Credevo che si potessero usare i satelliti.»

«I satelliti sono sovraccarichi», gli fece notare Ford.

«Da domani dovrebbe essere tutto a posto.» Sue sorseggiò il tè. «Ho sentito dire che hanno allestito una rete solo per l'hotel.»

«A Kiel non siamo sufficientemente preparati per il satellite», commentò Bohrmann, cupo.

«Nessuno è preparato a tutto ciò.» Anawak ordinò dell'acqua. «Quand'è arrivato?»

«L'altro ieri. Ho collaborato alla preparazione della conferenza.»

«Anch'io. Strano, evidentemente non ci siamo incontrati.»

«Possibile.» Bohrmann scosse la testa. «Quest'hotel è pieno di corridoi. Qual è la sua specializzazione?»

«Mammiferi marini. Ricerca sull'intelligenza.»

«Leon ha alle spalle un paio d'incontri non troppo piacevoli con delle megattere», intervenne Sue. «Evidentemente non hanno gradito che lui continuasse a spiare nelle loro teste… Oh! Guardate là. Che ci fa qui?»

Tutti voltarono la testa verso la hall. Un uomo si stava dirigendo verso agli ascensori. Anawak riconobbe in lui il tizio visto pochi minuti prima insieme con la giovane donna dai riccioli castani.

«E chi sarebbe?» chiese Ford aggrottando la fronte.

«Non andate mai al cinema?» Sue scrollò la testa. «È quell'attore tedesco. Come si chiama? Scholl… no, Schell. È Maximilian Schell! È splendido, non trovate? Dal vero è ancora meglio che sullo schermo.»

«Controllati», borbottò Ford. «Che ci fa qui un attore?»

«Sue potrebbe avere ragione», disse Anawak. «Non ha forse recitato in quel film catastrofico… Sì, Deep impact! La Terra viene colpita da un meteorite e…»

«Tutti noi stiamo recitando in un film catastrofico», lo interruppe Ford. «Non dirmi che non te ne sei accorto.»

«Questo vuol dire che dobbiamo aspettarci l'arrivo di Bruce Willis?»

Sue strabuzzò gli occhi. «È lui o no?»

«Si risparmi la fatica di andare a chiedergli un autografo», rise Bohrmann. «Non è Maximilian Schell.»

«No?» Sue sembrava delusa.

«No. Si chiama Sigur Johanson ed è norvegese. Potrebbe raccontarvi qualcosa di ciò che è successo nel mare del Nord. Lui, io, alcune persone di Kiel e altri della Statoil…» Bohrmann scrutò l'uomo e la sua espressione tornò a incupirsi. «Ma è meglio se non gli chiedete nulla. O, meglio, lasciate che sia lui a parlarne per primo. Viveva a Trondheim e di Trondheim non è rimasto molto. Ha perso la sua casa.»

Quello era l'orrore reale. La prova che le immagini televisive erano vere. Anawak bevve l'acqua.

«Okay.» Ford guardò l'orologio. «Abbiamo ciondolato abbastanza. Andiamo su e sentiamo quello che hanno da dirci.»

Lo Château disponeva di diverse sale riunioni. Judith Li aveva scelto uno spazio di media grandezza, quasi troppo piccolo per il gruppo di agenti dei servizi segreti, rappresentanti degli Stati e scienziati che avrebbe preso parte alla conferenza, ma sapeva per esperienza che le persone sedute molto vicine o si prendono per i capelli o sviluppano un forte spirito di gruppo. In nessun caso, comunque, hanno la possibilità di mantenere le distanze o d'intrattenersi su altri argomenti. Inoltre, sempre con quell'intento, la sistemazione dei posti non seguiva criteri di accorpamento per nazionalità o specializzazione.

Ogni posto disponeva di un tavolinetto, di un blocco per gli appunti e di un laptop. Per i supporti video della conferenza c'era uno schermo di tre metri per cinque, dotato di casse acustiche: su di esso sarebbe stata proiettata una presentazione realizzata con Powerpoint. Nell'atmosfera accogliente ma spartana di quell'ambiente, la concentrazione di strumenti high-tech appariva straniante e artificiale.

Comparve Peak e andò a sedersi in uno dei posti riservati ai relatori. Lo seguiva un uomo tondo come una palla, che indossava un abito sgualcito e con grosse chiazze scure sotto le ascelle della giacca. Aveva i capelli radi, di un biondo quasi bianco. Tese la mano a Judith Li, ansimando rumorosamente. Le sue dita erano gonfie e rotonde come palloncini. «Salve, Suzie Wong», disse.

Judith Li strinse la mano di Vanderbilt e resistette alla tentazione di asciugarsela immediatamente sui pantaloni. «Jack, è un piacere vederla.»

«Come sempre.» Vanderbilt sorrise. «Offra a quei signori un bello show, mi raccomando. Se nessuno applaude, faccia uno strip-tease e potrà contare sui miei applausi.» Si passò la mano sulla fronte sudata, sollevò un pollice e poi, facendo l'occhiolino, si sedette pesantemente vicino a Peak. Judith lo osservò con un sorriso gelido. Vanderbilt era il vice direttore della CIA, un uomo davvero in gamba. E, al momento opportuno, lei l'avrebbe annientato, lentamente e con grande soddisfazione. Aveva ancora un po' di strada da percorrere, certo, tuttavia, che lui fosse in gamba oppure no, alla fine se lo sarebbe lasciato alle spalle, quel porco.

La sala si riempì.

Molti dei presenti non si conoscevano e andarono a sedersi in silenzio. Judith Li attese, paziente, finché non finirono il brusio e il rumore delle sedie. La tensione era palpabile. Ma lei avrebbe potuto descrivere la condizione di spirito di ogni singolo individuo soltanto rivolgendogli un'occhiata. Judith sapeva guardare dentro l'anima della gente. Aveva imparato a farlo. Si avvicinò al podio, sorrise e disse: «Rilassatevi».

Un mormorio attraversò la sala. Alcuni accavallarono le gambe e si appoggiarono rigidamente allo schienale. Solo il bel professore norvegese, con la sciarpa ricamata gettata con noncuranza intorno al collo, se ne stava seduto sulla sedia con aria quasi annoiata. Sembrava che nella sua testa stesse scorrendo un film ben diverso da quello di tutti gli altri. I suoi occhi scuri si posarono su Judith e lei cercò di valutarlo. Ma Sigur Johanson parve sottrarsi al suo esame. Judith se ne chiese il motivo. Quell'uomo aveva perso la sua casa, era stato colpito dalla catastrofe più di tutti gli altri presenti in quella sala. E allora perché non era depresso? Poteva esserci un unico motivo. Johanson non era minimamente interessato alla possibilità di scoprire qualcosa di nuovo. Aveva una sua teoria, che lo tormentava, riempiendolo di dubbi. Forse ne sapeva più di tutti… o almeno ne era convinto.

Judith Li decise che l'avrebbe tenuto d'occhio.

«So che siete sotto pressione», proseguì. «E voglio davvero ringraziarvi perché avete reso possibile questo incontro. Vorrei ringraziare in particolare gli scienziati. Sono intimamente convinta che, grazie alla vostra collaborazione, riusciremo a guardare gli avvenimenti del recente passato alla luce di una nuova speranza. Voi ci date il coraggio.»

Judith parlava senza enfasi, in tono cordiale e tranquillo, e intanto guardava direttamente ognuno di loro. Così facendo, si guadagnò un'attenzione assoluta. Soltanto Vanderbilt sembrava impegnato in tutt'altro e cioè a pulirsi i denti con uno stuzzicadenti.

«Molti di voi si saranno chiesti perché non abbiamo tenuto questo incontro al Pentagono, alla Casa Bianca o presso la sede del governo canadese. In primo luogo, volevamo offrirvi un ambiente gradevole e le attrattive dello Château Whistler sono leggendarie. Ma il suo punto di forza è la posizione. Le montagne sono sicure, le coste no. Al momento, nessuna città costiera del Canada o dell'America può essere considerata sicura per un incontro come questo.»

Fece scorrere lo sguardo sui volti dei presenti.

«Questo è un motivo. L'altro è la vicinanza alla costa della British Columbia. Abbiamo a che fare con anomalie nel comportamento e mutazioni, c'è una scarpata continentale con giacimenti di metano… In breve, là c'è tutto ciò che, al momento, richiede la nostra attenzione. Dallo Château possiamo arrivare al mare in elicottero in pochissimo tempo, portando altresì con noi una gran quantità di strumenti di ricerca, in particolare all'istituto di Nanaimo. Già da alcune settimane abbiamo costituito allo Château una base militare per osservare il comportamento dei mammiferi marini. Di fronte agli sviluppi in Europa abbiamo deciso di trasformare la base militare in un centro di crisi per tutto il mondo. E i migliori per gestire questa crisi siete voi, signore e signori.»

Fece una pausa per permettere alle sue parole d'imprimersi nella mente dei presenti. Gli individui radunati in quella sala dovevano avere piena consapevolezza della loro importanza. Se, a dispetto delle tragiche circostanze, fossero riusciti a sviluppare un certo orgoglio e la sensazione di appartenere a un'élite, sarebbe stato un bene. Per quanto sembrasse paradossale, li avrebbe aiutati a tenere la bocca chiusa.

«Il terzo motivo è che qui non saremo disturbati. Lo Château è completamente isolato dai media. Naturalmente non passa inosservato che un hotel di questo genere si riempia di colpo e che, intorno a esso, volino elicotteri militari. Ma non ci sono state comunicazioni ufficiali su ciò che stiamo facendo qui. Se ci chiedono qualcosa, parliamo di un'esercitazione, una cosa talmente vaga che può dar luogo a congetture di qualsiasi tipo, però a niente di concreto. Quindi nessuno ha ancora scritto niente.» Judith Li s'interruppe, quindi riprese: «Non si può dare in pasto all'opinione pubblica tutto quello che sta succedendo. Non possiamo permetterlo. Il panico sarebbe l'inizio della fine. Mantenere la calma significa essere capaci di agire. Permettetemi di parlare in modo schietto: in guerra, la prima vittima è sempre la verità. E noi siamo in guerra. E per vincere questa guerra anzitutto dobbiamo comprenderla. Abbiamo un dovere verso noi stessi e verso l'umanità. In concreto, ciò significa che, da questo momento in poi, non dovrete più parlare con nessuno del vostro lavoro in questa unità di crisi, nemmeno coi vostri familiari e coi vostri amici. Al termine della conferenza, ognuno di voi sottoscriverà una dichiarazione, ai cui contenuto noi diamo molta importanza. Vi sarei grata se esprimeste eventuali dubbi prima che vi sia mostrato quanto abbiamo raccolto. Naturalmente siete liberi di non firmare. Non comporterà il minimo problema. Ma chi fa questa scelta deve lasciare subito la sala e farsi riportare immediatamente a casa.»

Dentro di sé fece una scommessa. Non se ne sarebbe andato nessuno. Ma ci sarebbe stata qualche domanda.

Attese.

Qualcuno alzò la mano.

L'uomo si chiamava Mick Rubin. Proveniva da Manchester ed era un biologo specializzato in molluschi. «Questo vuol dire che non potremo lasciare lo Château?»

«Lo Château non è una prigione», rispose Judith Li. «Potete andare dove volete e quando volete. L'unica cosa che non dovete fare è parlare del vostro lavoro.»

«E se…» Rubin esitò.

«E se lo fate lo stesso?» Judith esibì un'espressione crucciata. «Capisco che questa domanda doveva essere fatta. Bene, noi smentiremo ogni vostra dichiarazione e ci assicureremo che non possiate violare una seconda volta gli accordi.»

«E questo… ehm… è in vostro potere? Voglio dire, lei è…»

«Autorizzata? La maggior parte di voi dovrebbe sapere che, tre giorni fa, la Germania ha dato vita a un'iniziativa per esaminare gli eventi nell'ambito dell'Unione Europea ed è stato concordato che la presidenza venga assunta dal ministero dell'Interno tedesco. Contemporaneamente, in via precauzionale, la NATO ha dichiarato la sospensione del patto Atlantico. In Norvegia, in Gran Bretagna, in Belgio, in Olanda, in Danimarca e nelle Fær Øer vige lo stato d'emergenza, in tutta la nazione o in alcune regioni. Anche il Canada e gli Stati Uniti cooperano, sotto la responsabilità di questi ultimi e pure altre nazioni vorrebbero impegnarsi. Visto lo sviluppo della situazione mondiale, non è escluso che le Nazioni Unite assumano una sorta di direzione unificata. Ovunque vengono abolite le regole comuni, sostituite con la nuova divisione di competenze. Di fronte a questa situazione eccezionale, sì, siamo autorizzati.»

Rubin si morse il labbro inferiore e annuì. Non ci furono altre domande.

«Bene», disse Judith Li. «Allora possiamo cominciare. Prego, maggiore Peak.»

Peak si alzò. La luce del lampadario cadeva sulla sua pelle color ebano e la faceva risplendere. Lui schiacciò un sensore del telecomando e, sul grande schermo, apparve un'immagine dal satellite. Mostrava una costa punteggiata di località.

«Forse è cominciato tutto da un'altra parte, forse in un momento precedente», disse. «Però oggi diciamo che è cominciato tutto qui, in Perú. La località un po' più grande al centro dell'immagine è Huanchaco.» Illuminò diverse zone del mare con un puntatore laser. «Nel giro di pochi giorni, questa località ha perso ventidue pescatori, benché le condizioni meteorologiche fossero ottimali. Alcune barche sono state ritrovate nell'oceano. Tempo dopo, sono sparite imbarcazioni sportive, yacht a motore e piccole barche a vela. Al massimo si è trovato qualche relitto.» Richiamò una nuova immagine e proseguì: «Gli oceani sono sottoposti a una costante osservazione; sono pieni di sonde galleggianti e di robot che trasmettono una gran massa d'informazioni sulle caratteristiche delle correnti, sulla concentrazione salina, sulla temperatura, sul contenuto di anidride carbonica e su ogni altra cosa possibile. Le stazioni di rilevamento sui fondali marini registrano lo scambio di acqua e sostanze coi sedimenti. Una flotta di navi oceanografiche solca i mari di tutto il mondo e, in orbita, abbiamo centinaia di satelliti civili e militari. Si potrebbe credere che ritrovare navi scomparse non costituisca un problema, ma le cose non sono così semplici. Infatti, i nostri satelliti, come tutto ciò che è dotato di occhi, sono soggetti alle famose zone cieche.»

La rappresentazione grafica mostrava una parte della superficie terrestre. Era sorvolata da satelliti di diverse dimensioni e collocati a varie altezze. Sembravano insetti.

«Non cercate di mantenere uno sguardo d'insieme sul caos di oggetti spaziali artificiali», spiegò Peak. «Sono tremilacinquecento, senza contare sonde spaziali extraorbitali come la Magellano. La maggior parte delle macchine che gira lassù è un ferrovecchio. In funzione ce ne sono circa seicento e voi li avrete in parte a disposizione. Compresi i satelliti militari.» L'ultima frase era stata pronunciata con una certa ritrosia. Quindi Peak spostò il puntatore laser su un oggetto a forma di bidone, dotato di pannelli solari. «Un satellite americano KH-12 Keyhole, costruito con sistema ottico. Di giorno ha una risoluzione sui dieci centimetri… In altre parole, consente quasi di riconoscere il volto di una persona. Per le riprese notturne è dotato di ricettori infrarossi e a intensificazione di luce residua, ma purtroppo è completamente inutile con le nuvole.»

Peak indicò un altro satellite. «Molti satelliti spia sono dotati di sensori di ripresa attiva a microonde, cioè radar, e per loro le nuvole non rappresentano un ostacolo. Non fanno fotografie, ma riproducono il mondo al centimetro: scansionano la superficie e producono un modello tridimensionale. Ma anch'essi hanno un tallone d'Achille. Le immagini radar hanno bisogno di essere interpretate. Il radar non riconosce i colori, non vede attraverso il vetro, il suo mondo è esclusivamente una forma.»

«Perché non si uniscono le tecnologie?» chiese Bohrmann.

«Talvolta si fa, ma è molto costoso. In fondo, questo ci porta al problema principale della sorveglianza via satellite. Per poter coprire per un giorno intero un certo Paese o un determinato settore di oceano, è necessaria la cooperazione di diversi sistemi che siano in grado di analizzare grandi aree. Anche se si vogliono immagini dettagliate di una singola zona molto ristretta, bisogna mettere in conto varie istantanee. I satelliti seguono le orbite. La maggior parte ha bisogno di circa novanta minuti per ritornare sullo stesso luogo.»

«Ma ci sono molti satelliti che rimangono sempre nello stesso punto», intervenne un diplomatico finlandese. «Non possiamo posizionarli sulle zone critiche?»

«Si trovano troppo in alto. I satelliti geostazionari sono stabili solo a un'altezza di 35.888 chilometri. Il dettaglio più piccolo che si può ottenere da quell'altezza misura otto chilometri. Non si vedrebbe neppure se l'isola di Helgoland sprofondasse in mare.» Peak fece una pausa, poi proseguì: «Tuttavia, da quando abbiamo compreso su cosa dovevamo puntare l'attenzione, abbiamo iniziato ad attrezzare i nostri sistemi».

Sullo schermo apparve una superficie d'acqua ripresa a bassa quota. La luce del sole cadeva obliqua sulle onde, rendendo la struttura superficiale del mare simile a un vetro smerigliato. Si vedevano anche piccole imbarcazioni e minuscole figure allungate. L'immagine seguente — più ravvicinata — rivelò alcune barche color giallo, su ognuna delle quali era accucciata una persona.

«Uno zoom del KH-12», disse Peak. «La zona della piattaforma continentale al largo di Huanchaco. Quel giorno sono scomparsi diversi pescatori. Giacché siamo nelle prime ore del mattino, i riflessi rimangono nei limiti, ed è un bene, perché così abbiamo potuto fare queste riprese.»

L'immagine successiva mostrava un'ampia superficie argentea, su cui andavano alla deriva due delle barche gialle. «Pesci. Un banco enorme. Nuotano circa tre metri sotto la superficie dell'acqua, quindi possiamo vederli. Il problema dell'acqua marina è che conduce poco o niente le onde elettromagnetiche, ma, se l'acqua è limpida, coi nostri sistemi ottici riusciamo ugualmente a vedere almeno un po' in profondità. Con gli infrarossi, siamo in grado di rilevare il calore di una balena fino a trenta metri di profondità. È per questo che i militari amano tanto la gamma degli infrarossi, essa rende visibili i sommergibili sott'acqua.»

«Che pesci sono?» chiese una giovane donna dai capelli neri. Il suo cartellino la identificava come un'ecologa del ministero dell'Ambiente di Reykjavik. «Merluzzi?»

«Forse. O forse anche sardine sudamericane.»

«Devono essere milioni. Sorprendente. Per quello che ne so, il Sudamerica è ormai in una condizione disperata di overfishing.»

«Ha ragione», disse Peak. «Anche il fatto che quel banco si trovi spesso nella zona in cui spariscono nuotatori, subacquei e piccole barche da pesca è una cosa che ci sta dando del filo da torcere. Al momento parliamo di banchi anomali. Quattro mesi fa, per esempio, un banco di aringhe al largo della Norvegia ha affondato un peschereccio di diciannove metri.»

«L'ho sentito», disse l'ecologa. «La nave si chiamava Steinholm, giusto?»

Peak annuì. «Gli animali finiti nella rete hanno continuato a nuotare, passando sotto la barca, mentre l'equipaggio voleva issarli a bordo. La nave si è inclinata. L'equipaggio ha cercato di tagliare i cavi, ma è stato inutile. Hanno dovuto abbandonare la Steinholm, che è affondata nel giro di dieci minuti.»

«Poco dopo abbiamo avuto un caso simile al largo dell'Islanda», precisò l'ecologa. «Sono annegati due marinai.»

«Lo so. Tutti casi eccezionali, si potrebbe dire. Ma, se mettiamo insieme i casi eccezionali in tutto il mondo, nelle ultime settimane i banchi di pesci hanno affondato più navi di quante ne abbiano mai affondate prima. Qualcuno dice che è un caso, sostenendo che i banchi lottano per sopravvivere. Altri notano il corso sempre identico degli eventi e vi riconoscono una specie di strategia. Non escludiamo che gli animali si lascino catturare perché vogliono rovesciare la nave.»

«Ma è una follia!» gridò un rappresentante della Russia. «Da quando i pesci hanno una volontà?»

«Da quando affondano i pescherecci», ribatté Peak, asciutto. «Nell'Atlantico lo fanno. Nel Pacifico, invece, sembra che abbiano imparato a evitare le reti, benché ci sfugga completamente come facciano. Si potrebbe arrivare alla conclusione che il banco mette in atto un processo cognitivo e improvvisamente sa che cos'è una rete a strascico o una rete di circuizione e come evitarle. Ma, se avessero sviluppato una simile capacità di apprendimento, gli animali dovrebbero anche aver sviluppato un senso per le dimensioni.»

«Nessun pesce, nessun banco, può vedere una rete con un'apertura di centodieci metri di altezza e centoquaranta di larghezza», disse qualcuno.

«Tuttavia sembra che i pesci riconoscano le reti. Le flotte di pescherecci lamentano gravi perdite. Ne è colpita tutta l'industria alimentare.» Peak si schiarì la voce. «Il secondo motivo della scomparsa di uomini e navi è sufficientemente noto. Ma ci è voluto un po' perché il KH-12 potesse documentare simili avvenimenti.»

Anawak fissava lo schermo. Sapeva cosa sarebbe successo. Aveva già visto le immagini e lui stesso aveva fornito del materiale, ma ogni volta gli si stringeva la gola.

Pensò a Susan Stringer.

Le riprese erano state proiettate a un ritmo così serrato da sembrare quasi le sequenze di un film. In mare aperto c'era uno yacht a vela lungo circa dodici metri. Non c'era vento, il mare era piatto, le vele raccolte. A poppa erano seduti due uomini; sulla coperta di prua due donne prendevano il sole.

Qualcosa di molto grande, di massiccio, nuotava vicinissimo all'imbarcazione. Si riconosceva ogni particolare del corpo gigantesco. Era una megattera adulta. Con lei ce n'erano altre due. Le loro schiene avevano rotto la superficie dell'acqua, poi uno degli uomini si era alzato e aveva indicato il mare. Le donne avevano sollevato la testa.

«Ora», disse Peak.

Le balene avevano superato l'imbarcazione. A sinistra, qualcosa era apparso nel blu profondo, raggiungendo la superficie. Era un'altra balena, ed era balzata fuori dall'acqua. Saltava, spruzzando acqua con le pinne pettorali. Le persone a bordo erano rimaste immobili, come stregate.

Il corpo massiccio si era rovesciato.

Aveva colpito di traverso l'imbarcazione, spezzandola in due. L'albero si era schiantato, poi un'altra balena era saltata sul relitto. In un attimo, l'idillio si era trasformato in uno spaventoso inferno. La barca affondava. I relitti galleggiavano, dispersi in un cerchio di schiuma che si allargava. Gli uomini non si vedevano più.

«Pochi di voi hanno vissuto sulla propria pelle simili attacchi», disse Peak. «Per questo vi abbiamo mostrato queste immagini. E ormai gli attacchi non sono più limitati al Canada e agli Stati Uniti, ma si sono diffusi in tutto il mondo, bloccando una parte consistente del traffico di piccole navi.»

Anawak chiuse gli occhi.

Chissà com'era stata, vista dall'alto, la collisione del DHC-2 con la megattera. Era stata filmata anche quella? Non aveva avuto il coraggio di chiederlo. L'idea che un insensibile occhio di vetro avesse vissuto con lui quel momento gli era insopportabile.

Come se stesse seguendo i suoi pensieri, Peak riprese: «Questo genere di documentazione potrebbe apparirvi cinica, signore e signori. Ma noi non ci limitiamo a guardare. Dov'è stato possibile, ci siamo sforzati di fornire un soccorso immediato». Gettò al suo laptop un'occhiata gelida. «Purtroppo in simili casi si arriva sempre tardi.»

Peak sapeva che si stava muovendo in un terreno minato. Le sue parole rivelavano che, sebbene avessero visto gli incidenti, non avevano fatto granché per impedirli. «Immaginate la diffusione degli attacchi come una specie di epidemia», riprese, «un'epidemia iniziata a Vancouver Island. I primi casi dimostrabili si sono limitati alla zona al largo di Tofino. Per quanto possa suonare inverosimile, in vari casi si sono potute osservare alleanze strategiche. Le imbarcazioni sono state attaccate da balene grigie, megattere, balenottere comuni, capodogli e altre grandi balene, mentre le orche, più piccole e veloci, si sono occupate di eliminare gli uomini finiti in acqua.»

Il professore norvegese alzò la mano. «Che cosa la spinge a presumere che si tratti di un'epidemia?»

«Non ho detto che è un'epidemia, dottor Johanson», rispose Peak. «Ho affermato che il modo di espansione sembra quello di un'epidemia. Nel giro di poche ore, si è allargata da Tofino a sud, fino alla Bassa California, e a nord, in Alaska.»

«Non sono per nulla sicuro che si diffonda.»

«È evidente.»

Johanson scosse la testa. «Intendo dire che questa interpretazione potrebbe portarci alla conclusione sbagliata.»

«Dottor Johanson, se volesse darmi il tempo di esporre la mia relazione…» replicò Peak, in tono paziente.

Johanson proseguì, imperterrito. «E se avessimo a che fare con avvenimenti contemporanei, coordinati in un modo un po' impreciso?»

Peak lo guardò. «Sì», disse controvoglia. «Potrebbe essere così.»

Lo sapeva. Johanson aveva elaborato una teoria. E Peak si era arrabbiato perché non gli piaceva che i civili interrompessero i militari.

Judith Li era divertita.

Accavallò le gambe, si appoggiò allo schienale e si sentì addosso lo sguardo interrogatorio di Vanderbilt. L'uomo della CIA sembrava convinto che lei avesse anticipato qualcosa a Johanson. Lei ricambiò lo sguardo, scosse la testa e si rimise ad ascoltare l'esposizione di Peak.

«Sappiamo che le balene aggressive sono esclusivamente le non stanziali», stava dicendo il maggiore. «Le stanziali appartengono strettamente a un territorio, per così dire. Quelle che migrano, invece, si spostano per lunghi tratti, come le balene grigie o le megattere, oppure si spostano in mare aperto come le orche cosiddette offshore. Per questo — con una certa cautela — abbiamo sviluppato una teoria: la causa del cambiamento nel modo di agire degli animali è da cercare nel mare aperto.»

Comparve un planisfero sul quale si vedevano i punti in cui erano stati segnalati gli attacchi delle balene. Un tratteggio rosso tracciato dall'Alaska fino a capo Horn. Altre zone si estendevano ai due lati del continente africano e lungo l'Australia. Poi il planisfero sparì, lasciando il posto a un'altra carta. Anche lì le zone costiere erano colorate.

«Il numero delle specie marine con un comportamento aggressivo nei confronti dell'uomo aumenta drammaticamente. In Australia si moltiplicano gli attacchi degli squali, come pure in Sudafrica. Nessuno va più a nuotare o a pescare. Le reti antisqualo, in genere sufficienti per tenere lontani gli ammali, sono a pezzi, senza che nessuno sia in grado di dire cosa le abbia distrutte. I nostri sistemi ottici non possono chiarire la questione e, per quanto riguarda i robot, i Paesi del Terzo Mondo sono tecnologicamente inadeguati.»

«Lei non crede a un insieme di coincidenze?» chiese un diplomatico tedesco.

Peak scosse la testa. «La prima cosa che s'impara in Marina, signore, è valutare il pericolo degli squali. Sono animali pericolosi, ma non aggressivi. Non siamo di loro gusto. La maggior parte degli squali sputa subito un braccio o una gamba…»

«Consolante», mormorò Johanson.

«Eppure diverse specie sembrano aver cambiato i loro gusti per quanto riguarda la carne umana. Nel giro di poche settimane, gli attacchi degli squali sono decuplicati. Migliaia di squali azzurri, che di solito abitano i mari profondi, sono arrivati nella zona dello zoccolo continentale. Mako, squali bianchi e pesci martello arrivano in branco, come i lupi, attaccano una zona costiera e in breve tempo fanno danni enormi.»

«Danni?» chiese un deputato francese con un forte accento. «Che vuol dire? Morti?»

E cos'altro, idiota? sembrò pensare Peak. «Sì», rispose. «Attaccano anche le barche.»

«Mon Dieu! Che cosa può fare uno squalo a una barca?»

Peak sorrise, cupo. «Uno squalo bianco adulto è in grado di affondare una piccola barca a morsi oppure andandole addosso. Sono documentati anche casi di squali che hanno attaccato alcune zattere, affondandole. Se poi all'attacco partecipano più animali contemporaneamente, allora non c'è speranza di sopravvivere.»

Mostrò l'immagine di un bel polpo, la cui superficie era adornata di lucenti cerchi blu. «Hapalochlaene maculosa. Il polpo dalle macchie blu, lungo venti centimetri. Vive in Australia, in Nuova Guinea, nelle isole Salomone… È uno degli animali più velenosi della Terra. Col morso, inietta nella ferita un enzima tossico. Quasi non ci si accorge di niente, ma due ore dopo si è morti.» La serie d'immagini proseguì, mostrando una panoramica di bizzarri esseri viventi. «Pesci pietra, tracine, scorfani, vermocani, coni… Nel mare abita una gran quantità di animali velenosi. Nella maggior parte dei casi, le tossine vengono usate come difesa. Nella frequenza degli incidenti si assiste a un aumento più o meno consistente della curva. Tuttavia, per alcuni animali, la curva statistica è schizzata in alto e per questo fatto c'è una spiegazione semplice: specie che prima se ne stavano mimetizzate e nascoste hanno iniziato ad attaccarci.»

Roche si chinò verso Johanson. «È possibile che qualcosa che trasforma uno squalo trasformi pure un granchio?» lo sentì sussultare Judith Li. «Cosa ne pensa?»

Johanson si voltò verso di lui e rispose: «Ci può mettere la mano sul fuoco».

Peak informò i presenti sugli enormi gruppi di meduse, ormai diventati una vera invasione che minacciava il Sudamerica, l'Australia e l'Indonesia. Johanson ascoltava con gli occhi semichiusi. La caravella portoghese provocava uno shock anafilattico che uccideva nel giro di qualche secondo.

«Per semplicità dividiamo gli avvenimenti in tre categorie», disse Peak. «Mutamenti del comportamento, mutazioni, catastrofi ambientali. Essi sono conseguenza l'uno dell'altro. Finora abbiamo parlato di comportamenti anomali. Ma, per quanto riguarda le meduse, sembra che siano avvenute delle mutazioni. Le vespe di mare sono sempre state in grado di navigare, però adesso pare che esse siano diventate delle vere maestre… Si ha addirittura l'impressione che abbiano un'elica. L'impressione che se ne ricava è quella che le vespe di mare vogliano eliminare dalla zona ogni presenza umana. E noi non possiamo farci niente. Il turismo subacqueo è praticamente morto, ma il danno maggiore è per i pescatori.»

Comparve una nave fattoria, di quelle che preparavano i pesci per la conservazione.

«Questa è l'Anthanea. Quattordici giorni fa, l'equipaggio ha issato a bordo un carico enorme di Chironex fleckeri, cioè di vespe di mare. Per meglio dire, qualcosa che pensiamo fossero vespe di mare. È stato un errore non lasciare immediatamente in mare quanto catturato. I marinai hanno aperto la rete e, di conseguenza, sul ponte si sono scaricate tonnellate di veleno puro. Alcuni operai sono morti subito, altri dopo, quando i tentacoli — lunghi svariati metri — si sono diffusi in tutta la nave. Inoltre quel giorno pioveva e l'acqua ha portato ovunque le parti velenose delle meduse. Nessuno è in grado di dire come abbia fatto il veleno a finire nell'acqua potabile, fatto sta che nessuno sull'Anthanea è sopravvissuto. Da quel momento si è molto più prudenti e si tengono pronte delle tute protettive, ma ciò non cambia la sostanza del pericolo. In ampie partì del mondo, ormai, non si pesca più pesce, ma veleno.»

Non pescano più pesce perché non ce n'è più, rifletté Johanson. Per correttezza avresti dovuto dirlo, Peak. Anche se non è la vera causa di quello che sta succedendo.

O forse sì?

Certo che era un motivo. Uno degli infiniti motivi.

Pensò ai vermi.

Organismi mutati che improvvisamente sembravano consapevoli di quello che facevano. Possibile che nessuno capisse quello che stava succedendo? Si vedevano i sintomi di una malattìa il cui agente patogeno era sempre presente, ma non si rendeva mai palese, camuffandosi in modo magistrale. L'uomo aveva spopolato i mari, lasciando solo qualche miserabile pesce, e i banchi sopravvissuti avevano imparato a evitare le trappole mortali, mentre «soldati» armati di veleno davano il colpo di grazia a quella pratica degenerata chiamata pesca.

Il mare uccideva gli uomini.

E tu hai ucciso Tina, pensò Johanson con freddezza. Tu l'hai convinta a non lasciare Kare. Ti ha ascoltato, altrimenti non sarebbe andata a Sveggesundet.

Era colpevole?

Come poteva sapere quello che sarebbe successo? Probabilmente Tina sarebbe morta anche a Stavanger. Cosa sarebbe successo se le avesse consigliato di prendere un volo per le Hawaii o per Firenze? Si sarebbe convinto di aver salvato Tina?

Ognuno combatteva contro il proprio demone personale. Bohrmann era tormentato dall'idea che avrebbe potuto mettere in guardia il mondo molto tempo prima. Ma come? Sulla base di un'ipotesi? Di un'intuizione inquietante? Avevano lavorato a pieno ritmo per acquisire conoscenze. Non erano stati abbastanza veloci, comunque ci avevano provato. Bohrmann era colpevole?

E la Statoil? Finn Skaugen era morto. All'arrivo dell'ondata, si trovava al porto di Stavanger. Johanson stava cominciando a vedere il manager della Statoil sotto un'altra luce. Skaugen era stato un manipolatore. Gli era piaciuto incarnare la coscienza buona di un settore malvagio, ma aveva agito nel modo giusto? Anche Clifford Stone era stato vittima della catastrofe, però era davvero quel mostro senza cuore che Skaugen gli aveva dipinto?

Vermi, meduse, balene, squali…

Pesci intelligenti. Alleanze. Strategie…

Johanson pensò alla sua casa di Trondheim. L'idea di averla persa non lo angosciava troppo. La sua vera casa era altrove, sulla riva dello specchio che, nelle notti limpide, conteneva tutto l'universo. Là aveva trovato davvero se stesso e si era creato un rifugio di bellezza e di verità. La capanna era una sua creazione esclusiva, l'incarnazione della sua anima. Custodiva quell'intimità che non avrebbe potuto trovare posto in nessun altra casa.

Dopo il fine settimana con Tina non c'era più andato.

Era successo qualcosa?

Le acque dei laghi erano tranquille. Ma lui era preoccupato. Doveva andare a vedere se era successo qualcosa e farlo il prima possibile. Non importava quanto lavoro gli sarebbe caduto addosso.

Peak richiamò una nuova immagine.

Un astice… No, i resti di un astice. Sembra esploso, pensò Johanson.

«Hollywood ne farebbe un film intitolandolo Il messaggero dell'orrore», disse Peak con un sorriso torvo. «E, in questo caso, la definizione coglierebbe nel segno. Nell'Europa centrale si sta diffondendo un'epidemia causata da animali come questo. Ringraziamo il dottor Roche, che ha identificato il passeggero clandestino. Si tratta di un'alga unicellulare dal nome di Pfiesteria piscicida. Una delle circa sessanta specie di dinoflagellati tossici conosciuti. La Pfiesteria è la peggiore delle alghe killer, come abbiamo tragicamente imparato da ciò che è accaduto sulla costa orientale degli Stati Uniti, in particolare nelle acque costiere del North Carolina. In quella zona, nel 1997, la Pfiesteria uccise milioni di pesci. I loro cadaveri galleggiavano in banchi sulla superficie dell'acqua e mostravano ferite aperte, rosicchiate. Per i pescatori fu un disastro economico, ma anche sanitario. Molti soffrirono di disturbi nelle percezioni e le loro braccia e le loro gambe si coprirono di ulcere sanguinanti. Alcuni furono costretti ad abbandonare il lavoro. Gli scienziati che esaminarono la Pfiesteria accusarono danni persistenti alla salute.» Fece una breve pausa. «Nel 1990, a Howard Glasgow, un ricercatore dell'University of North Carolina che aveva individuato la Pfiesteria durante un'analisi di laboratorio, successe una cosa al limite dell'incredibile. Mentre il suo cervello lavorava a pieno regime, il suo corpo aveva preso a muoversi al rallentatore: sembrava quasi che le sue membra rifiutassero di obbedirgli. Interpretando quei sintomi come la prova che le tossine della Pfiesteria potevano diffondersi anche nell'aria, Glasgow mise gli organismi in un laboratorio sicuro, senza sapere che, all'interno di quel laboratorio, c'era una presa d'aria montata al contrario e dunque collegata direttamente col suo ufficio. Così Glasgow respirò l'aria avvelenata per sei mesi di fila, con risultati devastanti: mal di testa così forti da impedirgli di lavorare, perdita del senso dell'equilibrio, lesioni al fegato e ai reni… Se faceva una telefonata, cinque minuti dopo non se ne ricordava più. Gli capitava addirittura di dimenticare il proprio numero di telefono, il proprio nome o dove fosse casa sua. Quasi tutti pensavano che avesse un tumore al cervello o soffrisse di Alzheimer, ma Glasgow non ne voleva neppure sentir parlare. Infine decise di sottoporsi a una serie di analisi presso la Duke University e, grazie a esse, emerse la verità: da mesi il suo sistema nervoso era sottoposto a un attacco chimico. Altri ricercatori, entrati in contatto con la Pfiesteria, soffrivano di polmoniti e bronchiti croniche. E tutti — lentamente ma inesorabilmente — stavano perdendo la memoria. Tutto ciò a causa di un organismo che non si riusciva a comprendere.»

Peak presentò una serie d'immagini al microscopio elettronico. Mostravano diverse forme di vita. Alcune sembravano amebe con escrescenze a forma di stella, altre parevano sfere squamose o pelose, altre ancora somigliavano ad hamburger, dalla cui parte centrale si dipartivano dei tentacoli. «Ecco la Pfiesteria», spiegò. «L'alga può cambiare il proprio aspetto nel giro di qualche minuto, può crescere di dieci volte, può inastarsi e poi balzare fuori dalla ciste, trasformandosi da innocuo essere unicellulare a zoospora estremamente tossica. La Pfiesteria può assumere venti forme diverse, e ogni volta cambia anche le proprie caratteristiche. La tossina è stata isolata. Il dottor Roche e la sua équipe lavorano a pieno ritmo su di essa, tuttavia hanno preoccupazioni ben più gravi rispetto ai ricercatori delle nostre parti. L'organismo finito nelle tubature pare non sia la Pfiesteria piscicida, ma una varietà molto più pericolosa. Pfiesteria piscicida significa 'Pfiesteria che uccide i pesci'. Il dottor Roche ha battezzato l'esemplare da lui scoperto Pfiesteria homicida, 'Pfiesteria che uccide gli uomini'.»

Peak sottolineò le difficoltà nel controllare l'alga. Il nuovo organismo sembrava riprodursi con cicli esplosivi e, una volta entrato nell'acqua, non c'era più nulla da fare. Finiva nel suolo e secerneva il suo veleno, che era quasi impossibile filtrare. Il problema era proprio quello. Molte delle vittime finivano letteralmente divorate dalla Pfiesteria, avevano ferite in tutto il corpo, ferite che, invece di guarire, s'infiammavano e suppuravano. Ma la cosa peggiore era il veleno. Le autorità s'impegnavano disperatamente per depurare canali e tubature, ma non riuscivano a impedire che l'organismo si diffondesse altrove. Il tentativo di liberarsene col calore e con sostanze chimiche non faceva altro che sostituire una piaga con un'altra.

La Pfiesteria homicida era praticamente incontenibile.

La Pfiesteria piscicida attaccava il sistema nervoso. La nuova specie lo attaccava con un'aggressività tale che, nel giro di poche ore, paralizzava un individuo, lo faceva cadere in coma e morire. Solo poche persone sembravano resistere a quell'aggressione. E, dato che Roche non era ancora riuscito a comprendere la struttura della tossina, si sperava almeno di capire il perché di quella resistenza, ma l'équipe del docente di Biologia molecolare stava lottando contro il tempo. La diffusione della malattia sembrava aver superato ogni tentativo di circoscriverla.

«L'alga è arrivata in un cavallo di Troia», disse Peak. «All'interno di crostacei. In un 'astice di Troia', se volete… O, per meglio dire, in qualcosa che somigliava a un astice. Evidentemente gli animali erano vivi al momento della cattura, solo che la loro carne era diventata una specie di sostanza gelatinosa, e incapsulate là dentro vivevano colonie di Pfiesteria. L'Unione Europea ha vietato la cattura e l'esportazione di crostacei. Al momento, i casi di malattia e di morte sono limitati alla Francia, alla Spagna, al Belgio, all'Olanda e alla Germania. L'ultimo conteggio provvisorio parla di quattordicimila vittime. Nel continente americano, sembra che i crostacei siano ancora… crostacei, ma anche noi stiamo pensando di proibirne la vendita.»

«Terribile», sussurrò Rubin. «Da dove arrivano queste alghe?»

Roche si girò verso di lui. «Le hanno create gli uomini», rispose. «L'ingrasso dei suini sulla costa occidentale americana scarica in acqua quantità impressionanti di liquami e la Pfiesteria vive benissimo nelle acque inquinate. Si nutre di fosfati e nitrati, che vengono sparsi sui campi con le feci degli animali e finiscono nei fiumi. O con gli scarichi delle industrie. Perché stupirsi che quelle bestie si trovino a proprio agio nelle fogne delle grandi città, così sature di sostanze organiche? Siamo noi a generare tutte le Pfiesterie di questo mondo. Non le abbiamo inventate noi, ma noi facciamo in modo che diventino dei mostri.» Roche fece una pausa e tornò a guardare Peak. «Se il Baltico perde ogni forma di vita e i pesci muoiono, come sta succedendo da alcuni anni, la causa è negli allevamenti di maiali in Danimarca. I liquami portano alghe, che si riproducono in maniera esponenziale. Le alghe assorbono l'ossigeno e i pesci muoiono. Le alghe tossiche fanno anche di peggio e nessuna zona può considerarsi al sicuro.»

«Ma perché non si è fatto qualcosa prima?» chiese Rubin.

«Prima?» Roche rise amaramente. «Certo che si è fatto qualcosa, amico mio. Perlomeno si è cercato di fare qualcosa. Ma dove vive lei? Però, anziché promuovere studi seri, si è lasciato che i ricercatori venissero derisi. Alcuni hanno addirittura ricevuto minacce di morte. Si dice che il North Carolina's Department of Health, Environment, and Natural Resources abbia insabbiato il caso della Pfiesteria per proteggere gli interessi di alcuni influenti rappresentanti politici che, guarda caso, erano gli stessi allevatori di maiali. Naturalmente dobbiamo chiederci quale folle ci abbia mandato gli astici infettati con la Pfiesteria. Ma questo non cambia il fatto che gli ostetrici della catastrofe siamo stati noi. In un certo senso, siamo sempre noi.»

«Questi mitili hanno tutte le caratteristiche tipiche delle cozze zebrate. Però sanno fare una cosa che le normali cozze zebrate non fanno: navigare.»

Peak era arrivato agli incidenti navali. Dopo aver infierito nella sala riunioni col bilancio della Pfiesteria, ora presentava statistiche non meno allarmanti. Su un planisfero s'intrecciavano linee colorate.

«Ecco le principali vie di transito del traffico marittimo commerciale», disse, indicando l'immagine. «Per comprendere il loro corso è fondamentale analizzare la distribuzione dei beni trasportati. In genere, le materie prime vengono trasportate verso nord. L'Australia esporta la bauxite, il Kuwait il petrolio e il Sudamerica i minerali di ferro. Tutto si sposta a distanze che raggiungono le undicimila miglia marine verso l'Europa e il Giappone, in modo che a Stoccarda, Detroit, Parigi e Tokyo si possano produrre automobili, apparecchi elettrici e macchinari. Che a loro volta ritornano in Australia, nel Kuwait e in Sudamerica dentro navi portacontainer. Quasi un quarto del commercio mondiale si svolge nella zona asiatica del Pacifico, per un valore di cinquecento miliardi di dollari. Poco meno nell'Atlantico. I principali centri ad alta concentrazione industriale sono segnati in scuro. La costa orientale americana, con centro New York, l'Europa settentrionale col canale della Manica, il mare del Nord, il Baltico fino alle Repubbliche baltiche, il Mediterraneo e in particolare la riviera. I mari europei hanno un'importanza fondamentale nel commercio mondiale, il Mediterraneo serve anche come via marittima dalla costa orientale nordamericana fino al canale di Suez. E non dimentichiamo il Giappone e il golfo Persico! Gli scambi sono in crescita nel mar Cinese, che insieme col mare del Nord, è il più trafficato della Terra. Per capire il corso del commercio mondiale via mare, bisogna tener presente questa rete, cioè capire cosa significa per una parte del globo se nell'altra i cargo affondano, quali produzioni vengono interrotte, quanti posti di lavoro vengono minacciati, a chi può costare la vita e chi potrebbe approfittare della disgrazia. Il traffico aereo ha eliminato le navi passeggeri, ma il commercio mondiale dipende dal mare. Nulla può sostituire le rotte marittime.» Peak fece una pausa, quindi riprese: «Spiegato il background, diamo qualche cifra. Ogni giorno duemila navi attraversano lo stretto di Malacca e quasi ventimila imbarcazioni ogni anno passano attraverso il canale di Suez. Questo rappresenta circa il quindici per cento del commercio mondiale. Tremila navi al giorno incrociano nella Manica per raggiungere il mare più trafficato del mondo, il mare del Nord. Circa quarantaquattromila navi all'anno collegano Hong Kong col resto del mondo. Migliaia e migliaia di cargo, petroliere, traghetti si muovono ogni anno in tutto il globo, per non parlare delle flotte di pescherecci, cutter, yacht a vela e barche sportive. Oceani, mari, canali e stretti registrano milioni di movimenti navali. Di fronte a questo traffico, l'occasionale affondamento di una superpetroliera o di un cargo non può di certo comportare una grave crisi nel traffico marittimo. Nessuno si lascia spaventare e non si rinuncia a riempire di petrolio le ultime bagnarole arrugginite e a spedirle in mare. La maggior parte delle circa settemila petroliere presenti nel mondo si trova in pessime condizioni. Oltre la metà è in attività da più di vent'anni… E molte delle superpetroliere possono essere tranquillamente definite dei rottami. A questo punto, si fanno dei calcoli: sì, la catastrofe è sempre in agguato, ma si rischia comunque. Tutto diventa un gioco d'azzardo. Se una petroliera finisce nell'incavo di un'onda, può piegarsi al centro anche di un metro, e una cosa del genere sfibrerebbe qualsiasi struttura. Tuttavia la petroliera continua a viaggiare, perché l'esito del viaggio rientra nel calcolo delle probabilità.» Peak sorrise tristemente. «Tuttavia se gli incidenti sono causati da fenomeni inspiegabili, allora ogni calcolo diventa inutile e i margini di rischio diventano imprevedibili. Entra in gioco una singolare psicologia. Noi la chiamiamo 'psicosi da squalo'. Nessuno sa dove sia uno squalo e chi sbranerà, eppure ciò basta per impedire a migliaia di turisti di andare in acqua. Statisticamente, suona impossibile che un'unica vittima possa danneggiare sensibilmente il turismo. Nella pratica, però, lo distrugge. Ora, pensate che, nel giro di poche settimane, sulle rotte commerciali marittime si sono verificate quattro volte più avarie che in passato, e tutte non riconducibili a cause note. Fenomeni terrorizzanti, per cui non ci sono spiegazioni, fanno affondare anche navi in perfette condizioni. Non si sa chi sarà colpito e dove, e nemmeno come difendersi. Non si parla più di navi completamente arrugginite, di danni provocati dalle tempeste o di errori di navigazione, ormai non si parla neppure più di uscire in mare.»

Peak era dunque arrivato ai mitili, che campeggiavano sullo schermo. Indicò un'escrescenza filamentosa che sbucava tra le file di conchiglie. «Con questo peduncolo, il bisso, di solito le cozze zebrate si aggrappano saldamente nel luogo in cui sono state trascinate dalle correnti. Il bisso è composto da filamenti appiccicosi costituiti da proteine. Le 'nuove' cozze zebrate hanno sviluppato questi filamenti sino a trasformarli in una sorta di elica. Il principio ricorda vagamente il modo di muoversi della Pfiesteria piscicida. In natura, le convergenze sono ben note, ma si realizzano nel giro di centinaia di migliaia o addirittura milioni di anni. Questi mitili non si sono mai fatti vedere fino a oggi, oppure hanno sviluppato le loro nuove capacità nel corso di una notte. Ciò induce a pensare a una rapida mutazione, perché, da molti punti di vista, si tratta sempre di cozze zebrate… Però esse sembrano sapere perfettamente dove vogliono andare. Per esempio, le prese a mare della Barrier Queen sono rimaste libere, ma il timone era completamente ricoperto.»

Peak spiegò le modalità dell'avaria e l'attacco ai rimorchiatori. Anche se la Barrier Queen era riuscita a sfuggire, era comunque emerso come funzionava la strategia di collaborazione tra le cozze zebrate e le balene, esattamente come tra le balene grigie, le megattere e le orche.

«Ma è una follia», disse un colonnello seduto in fondo alla sala.

«Proprio no.» Anawak si girò verso di lui. «C'è un metodo.»

«Follia pura! Vorrebbe dire che le cozze si sono accordate con le balene?»

«No. Tuttavia c'è una collaborazione. Se lei avesse vissuto simili attacchi, la penserebbe in un altro modo. Noi pensiamo che l'aggressione alla Barrier Queen sia stata una sorta di test.»

Peak premette un tasto sul telecomando e apparve la fiancata di una gigantesca nave. Una tempesta sollevava onde grandi come una casa al disopra dello scafo. «La Sansuo, una delle più grandi navi giapponesi per il trasporto di automobili», spiegò. «Gli ultimi carichi erano mezzi pesanti. Al largo di Los Angeles, la nave è finita in un banco di cozze zebrate. Esattamente come è successo alla Barrier Queen, si è bloccato il timone, ma stavolta c'era il mare grosso. La Sansuo è stata colpita a sinistra da un'onda gigantesca e ha cominciato a imbarcare acqua. Possiamo solo ipotizzare quello che è successo dopo. La violenza dell'onda anomala deve aver liberato alcuni camion all'interno, che probabilmente si sono schiantati contro le cisterne con l'acqua di zavorra. Uno ha colpito la parete. Quand'è stata fatta questa ripresa, non erano trascorsi più di quindici minuti dal momento in cui il timone era andato fuori uso. Un quarto d'ora dopo, la Sansuo si è spaccata ed è affondata.» Fece una pausa. «Nel frattempo abbiamo raccolto una lista di casi analoghi, una lista che diventa ogni giorno sempre più lunga. I rimorchiatori vengono attaccati e, nella maggioranza dei casi, si devono interrompere le operazioni di salvataggio. Il dottor Anawak ha ragione quando dice che nella follia c'è un metodo, perché, nel frattempo, siamo venuti a conoscenza di una variante della follia.»

Peak presentò l'immagine satellitare di una nuvola nera, lunga chilometri. Si distendeva sulla terraferma, ma aveva origine davanti alla costa, dove si addensava intorno a un centro rosso. Sembrava quasi che un vulcano si fosse messo a eruttare in mezzo al mare. «Sotto questa nuvola si nascondono i resti della Phoebos Apollon, una nave per il trasporto del gas LNG. Classe post-Panamax, la più grande che ci sia. L'11 aprile, cinquanta miglia marine al largo di Tokyo, è improvvisamente scoppiato un incendio in sala macchine, che si è esteso alle quattro cisterne e ha provocato una serie di violente esplosioni. La Phoebos Apollon era esemplare sotto tutti i punti di vista, in perfette condizioni e revisionata regolarmente. L'armatore greco voleva sapere che cosa fosse successo, così ha mandato sott'acqua un robot.»

Sullo schermo guizzarono alcuni lampi. Si vide scorrere un codice numerico, poi improvvisamente comparve uno sfarfallio su uno sfondo torbido. «In generale, le esplosioni di navi cisterna per il trasporto di gas sono rare. La nave sott'acqua era spezzata in quattro parti. Al largo di Honshu si scende fino a novemila metri e i resti erano dispersi su un'area di diversi chilometri quadrati. Infine il robot è riuscito a trovare la parte posteriore.»

Nello sfarfallio apparve una struttura indistinta. La pala del timone, la poppa dalla forma arcuata, parti delle sovrastrutture. Il robot ci scivolò sopra e si abbassò, procedendo lungo l'involucro d'acciaio. Nell'immagine passò un solo pesce. «La corrente profonda trasporta una gran quantità di materiale organico, plancton, detriti e ogni cosa possibile», commentò Peak. «Non è facile manovrare laggiù. Vi risparmio l'intero filmato, ma questo dovrebbe interessarvi.»

Improvvisamente la telecamera fu vicinissima allo scafo, ricoperto da una sostanza raggrumata che, alla luce dei riflettori, scintillava e risplendeva come cera fusa.

Rubin si chinò in avanti, con un'espressione nervosa in volto. «Com'è arrivata lì quella roba?» gridò.

«Cosa crede che sia?» chiese Peak.

«Sono meduse.» Rubin socchiuse le palpebre. «Piccole meduse. Devono essere milioni. Ma perché sono aggrappate alla nave?»

«Come mai le cozze zebrate improvvisamente sanno navigare?» ribatté Peak. «Da qualche parte sotto quella gelatina ci sono le prese a mare e di certo sono irrimediabilmente intasate.»

Un diplomatico alzò una mano, esitante. «Che cosa sono… ehm, esattamente…?»

«Le prese a mare?» Ah, bisogna spiegare proprio tutto, pensò Peak. «Rientri squadrati in cui sbucano le tubature principali per il fabbisogno d'acqua, provvisti di una grata in modo che non entrino frammenti di ghiaccio e piante. All'interno della nave, le tubature si diramano e trasportano l'acqua marina risucchiata: negli impianti di desalinizzazione, nelle cisterne di zavorra, ma soprattutto nel circuito di raffreddamento dei motori. È difficile dire quando gli animali si siano attaccati allo scafo. Forse soltanto nel momento in cui la nave è affondata. D'altra parte… Immaginiamo questo scenario: il banco di meduse arriva verso la nave così serrato da sembrare una massa compatta. Dopo pochi secondi, gli animali hanno bloccato le prese a mare. Non entra più acqua, ma in compenso quella poltiglia organica penetra attraverso i buchi della grata di protezione. Arrivano sempre più animali. L'acqua rimasta viene pompata dalle macchine, poi tutte le tubature rimangono all'asciutto, e l'approvvigionamento di acqua di raffreddamento della Phoebos Apollon cessa da un momento all'altro. Il motore principale si surriscalda, l'olio lubrificante diventa rovente, la temperatura nella testa del cilindro sale, una delle valvole di scarico salta. Viene spruzzato fuori il carburante incendiato che innesca una reazione a catena, e il sistema antincendio non funziona perché non è più possibile pompare l'acqua.»

«Una petroliera modernissima esplode perché le meduse intasano le prese a mare?» chiese Roche.

Peak pensò a quanto fosse ridicola quella domanda. Radunati lì c'erano forse i migliori scienziati del mondo, e guardavano quelle immagini come bambini delusi dal fallimento della tecnica.

«Navi cisterna e cargo sono solo per metà prodotti di alta tecnologia. L'altra metà è antica. I motori diesel delle navi e i sistemi di manovra del timone possono essere molto complessi e all'avanguardia, ma in ultima analisi servono sempre a far girare un albero a vite e a muovere da una parte e dall'altra un pezzo d'acciaio. Si naviga col GPS, ma l'acqua di raffreddamento viene sempre pompata all'interno attraverso un buco. Perché dovrebbe essere diverso? Si naviga in questo modo. È così semplice… Di tanto in tanto, una presa a mare s'intasa, se vi entrano delle alghe o cose simili, ma poi essa viene pulita. Se una è intasata, si usano le altre. La natura non aveva mai attaccato le prese a mare, dunque perché migliorarle?» Lasciò passare qualche secondo. «Dottor Roche, se domani alcuni minuscoli insetti dovessero decidere di ficcarsi nelle sue narici, ciò costituirebbe un pericolo mortale per il suo fantastico, complicatissimo corpo. Non ha mai pensato che potrebbe succedere? Ecco qual è il nostro problema. Abbiamo mai pensato che queste cose avrebbero potuto accadere?»

Johanson non ascoltava quasi più. Conosceva nei dettagli la parte seguente dell'esposizione, dato che erano stati lui e Bohrmann a strutturarla. Trattava dei vermi e degli idrati di metano. Quindi, mentre Peak parlava, lui affidava al laptop il corso dei propri pensieri.

L'influenza sul sistema neuronale attraverso uno…

Attraverso che cosa?

Doveva trovare un concetto. Era faticoso trovare sempre nuove espressioni. Johanson fissava lo schermo con aria assente. L'unità di crisi aveva accesso al programma? Il pensiero che Judith Li e i suoi uomini potessero spiare i suoi pensieri lo spingeva a essere diffidente. Aveva la sua teoria e si sarebbe confrontato con gli altri soltanto quando lo avesse deciso lui.

Il caso volle che a un certo punto il medio e l'anulare della sua mano sinistra scrivessero una parola. In realtà era ancor meno di una parola. Erano tre lettere, che apparvero sullo schermo del laptop.

Yrr.

Johanson fu tentato di cancellarle. Poi si fermò.

Perché no?

Qualsiasi parola poteva andare bene. E quella era persino meglio di una parola vera, perché impediva ogni possibilità d'interpretazione. In fondo, lui non sapeva di cosa stava scrivendo. Non c'era un concetto per esprimere ciò che stava facendo, quindi l'astrazione era la strada giusta.

Yrr.

Suonava bene. Per il momento sarebbe rimasta così.

Karen Weaver ascoltava, rosicchiando per bene la terza matita.

«Forse il diluvio universale è stato altrettanto catastrofico», stava dicendo Peak, in conclusione del suo minuzioso excursus. «Le inondazioni fanno parte di diversi miti e tradizioni religiose. Forse la prima descrizione di uno tsunami, raccontata come una catastrofe naturale, risale al 479 avanti Cristo ed ebbe luogo nel mar Egeo. Nel 1755, Lisbona fu investita da un'onda alta dieci metri: i morti accertati furono sessantamila. Sappiamo anche con certezza dell'esplosione del Krakatoa, nel 1883. La camera vulcanica crollò e, come conseguenza, si ebbe la formazione di un'immensa caldera sottomarina. Due ore più tardi, ondate alte quaranta metri colpirono le regioni costiere di Sumatra e Giava, furono distrutti oltre trecento villaggi e morirono quasi trentaseimila persone. Nel 1933 uno tsunami molto più piccolo colpì la città giapponese di Sanriku e infuriò a nord-est di Honshu. Bilancio: tremila morti, novemila edifici distrutti, ottomila navi affondate. Nessuno di questi avvenimenti si avvicina neppure lontanamente allo tsunami dell'Europa settentrionale. Là, gli Stati costieri erano altamente industrializzati. Nel complesso, vivevano duecentoquaranta milioni di persone, in prevalenza sulle coste.»

Si guardò intorno. La sala era immersa nel silenzio.

«In un colpo, tutta la regione è cambiata dal punto di vista geologico», riprese Peak. «Le conseguenze per l'umanità non sono ancora prevedibili, ma per l'economia sono assolutamente devastanti. Alcune delle più importanti città portuali del mondo sono andate distrutte, in parte o completamente. Fino a pochi giorni fa, Rotterdam era una delle più importanti piazze commerciali di tutti i tempi, il mare del Nord una delle principali riserve di combustibili fossili, con una produzione di circa quattrocentocinquantamila barili di petrolio al giorno. La metà delle risorse petrolifere europee era al largo della costa norvegese, un'altra parte al largo dell'Inghilterra, senza contare che là si trovava anche una parte consistente dei giacimenti mondiali di gas naturale. Il numero delle vittime è valutato tra i due e i tre milioni, quello dei feriti e dei senzatetto è molto più alto.»

Peak pronunciava quelle cifre come se stesse dando le previsioni del tempo, apparentemente senza la minima emozione.

«Non è chiaro che cosa abbia provocato lo smottamento. I vermi rientrano senza dubbio tra le eccezionali mutazioni con cui abbiamo a che fare. Nessun avvenimento naturale spiega la comparsa di questi eserciti di miliardi di vermi e batteri. Tuttavia i nostri amici di Kiel e il dottor Johanson ritengono che al puzzle manchi ancora una tessera. Che le distese di idrati diventassero così instabili solo a causa dell'infestazione non era ipotizzabile e quindi non era possibile prevedere una simile catastrofe. Deve essere entrato in gioco un fattore supplementare, che, con l'ondata, ha rivelato solo la parte superficiale del problema.»

Con un brivido, Karen Weaver si raddrizzò sulla sedia. Benché l'immagine dal satellite apparsa in quel momento sullo schermo fosse stata scattata da una grande altezza, e risultasse sfocata e schiarita artificialmente, lei aveva riconosciuto subito la nave.

«Questa ripresa spiega ciò che voglio dire», riprese Peak. «Stavamo sorvegliando la nave col satellite…»

Come? Karen pensò di non aver capito bene. Stavano sorvegliando Bauer?

«Una nave oceanografica, la Juno», proseguì Peak. «Le fotografie sono state scattate di notte da un satellite spia militare, l'EORSAT. Fortunatamente avevamo la visuale libera e il mare calmo, cosa insolita in quella zona. In quel momento, la Juno era davanti alle isole Svalbard.»

Le luci della nave spiccavano pallide dalla superficie nera. Poi, improvvisamente, il mare si picchiettò di macchie chiare, che si allargavano finché esso non sembrò ribollire.

La Juno si piegò a destra e a sinistra. Si girò.

Poi affondò come un sasso.

Karen era sconvolta. Nessuno l'aveva preparata a quello. Adesso sapeva dov'era Bauer. La Juno giaceva sul fondo del mar di Groenlandia. E lei prese dolorosamente consapevolezza del fatto che ora ne sapeva più di tutti gli altri. Bauer le aveva lasciato la sua eredità spirituale.

«È stata la prima volta, dall'inizio delle anomalie, che abbiamo potuto osservare questo effetto», disse Peak. «Blowout di metano in questa zona ci erano noti da tempo, tuttavia…»

Karen alzò la mano. «Non avete mai ipotizzato che potesse succedere qualcosa del genere?»

Peak la scrutò. Il volto sembrava intagliato nel legno, tanto era immobile. «No.»

«E che cosa avete fatto quando la Juno è affondata?»

«Niente.»

«Non avete fatto niente, benché la zona e la nave fossero sorvegliate con un satellite?»

Peak scosse lentamente la testa. «Abbiamo osservato una serie di navi che affondavano e abbiamo raccolto informazioni. Non si può essere contemporaneamente ovunque. Nessuno poteva pensare che proprio quella nave…»

Karen lo interruppe: «Sbaglio, o gli effetti di simili blowout vi sono sufficientemente noti? Per esempio dal presunto mistero del triangolo delle Bermuda?»

«Miss Weaver, noi…»

«Detto in altri termini, se eravate a conoscenza che, in passato, alcune navi erano sparite in quel modo e se sapevate che nel mare del Nord aumentavano le fuoriuscite di metano, non avete sospettato quello che sarebbe successo alla scarpata continentale norvegese?»

Peak la fissò. «Che vorrebbe dire?»

«Voglio sapere se avreste potuto fare qualcosa!»

L'espressione di Peak rimase completamente impassibile. Tenendo lo sguardo puntato su Karen e, nel silenzio di tomba, rispose: «Abbiamo sbagliato le valutazioni».

Peak non aveva avuto scelta: doveva ammettere almeno in parte il fallimento della ricognizione aerea. Effettivamente avevano registrato una ripresa dei blowout al largo della Norvegia, ma anche tutte le altre possibilità. Non sapevano nulla solo dei vermi.

Consapevole della situazione difficile in cui si trovava Peak, Judith Li si alzò, andando in suo aiuto. «Non avremmo potuto fare nulla», disse con calma. «Inoltre, Miss Weaver, vorrei pregarla di ascoltare per intero la relazione del maggiore prima di formulare accuse. Devo forse ricordarle che i consiglieri scientifici in questa sala sono stati scelti sulla base di due criteri, cioè specializzazione ed esperienza? Alcuni di loro sono stati direttamente coinvolti negli avvenimenti. Il dottor Bohrmann avrebbe potuto impedirlo? E il dottor Johanson? E la Statoil? Avrebbero potuto impedirlo, Miss Weaver? Crede davvero che al controllo dall'orbita sia collegata una task force onnipresente che arrivi immediatamente sul posto per soccorrere le vittime, qualunque cosa sia successa? Forse per questo dovremmo smettere di usare i satelliti?»

La giornalista aggrottò la fronte.

«Non siamo qui per rimproverarci a vicenda», dichiarò Judith Li con forza, prima che Karen potesse ribattere. «Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Così c'è scritto nella Bibbia, e spesso la Bibbia ha ragione. Siamo qui per impedire che capiti di peggio. D'accordo?»

«Alleluia», mormorò Karen Weaver.

Judith rimase per un po' in silenzio, poi sorrise. Dopo il bastone, era il momento della carota. «Siamo tutti sconvolti», disse. «Ha tutta la mia comprensione, Miss Weaver. Maggiore Peak, prosegua pure, la prego.»

L'incertezza di Peak stava aumentando. I soldati non esprimevano critiche e dubbi in quel modo. Lui non aveva nulla contro le critiche e i dubbi, però odiava essere messo alla berlina e non poter rimettere a posto la situazione con un ordine. Improvvisamente provò un odio sordo verso la giornalista. E si chiese come avrebbe fatto a cavarsela con quella massa di scienziati.

«Quella che avete visto era la fuoriuscita di una gran quantità di metano», riprese. «E, per quanto sia addolorato per la morte dei marinai, è mio dovere sottolineare che il gas fuoriuscito ci crea problemi ben maggiori. In seguito allo smottamento, si è liberata nell'atmosfera una quantità di metano milioni di volte maggiore di quella che ha affondato la Juno. Abbiamo inoltre elaborato scenari in caso si verifichino fuoriuscite di metano analoghe in tutto il mondo. Il risultato sembra una condanna a morte. L'atmosfera collasserà.»

Tacque per un momento. Peak era un duro, ma quello che stava per comunicare faceva paura anche a lui. Pronunciò le parole con lentezza. «Devo portarvi a conoscenza del fatto che i vermi sono stati avvistati sia nell'Atlantico sia nel Pacifico. Per la precisione, la specie è stata avvistata sulle scarpate continentali dell'America settentrionale e meridionale, del Canada occidentale e del Giappone.»

Silenzio di piombo.

«Questa era la cattiva notizia.»

Qualcuno tossì. Fu come una piccola esplosione.

«La notizia buona è che l'infestazione non raggiunge neppure lontanamente le dimensioni di quella in Norvegia. Gli organismi occupano solo aree limitate. In definitiva, con quella concentrazione non sono in grado di procurare danni seri. Però noi dobbiamo impedire in qualsiasi modo che la loro presenza si rafforzi. A quanto pare, anche al largo della Norvegia, negli anni scorsi, erano stati riconosciuti piccoli insediamenti nella zona in cui la Statoil stava sperimentando un nuovo tipo di stazione.»

«Il nostro governo non può confermare», disse un diplomatico norvegese seduto nelle ultime file.

«Lo so», replicò Peak in tono ironico. «Ma praticamente tutte le persone coinvolte nel progetto sono morte. Le nostre fonti si limitano al dottor Johanson e al gruppo di ricerca di Kiel. Bene, abbiamo ottenuto una sorta di proroga. Dobbiamo utilizzarla per fare subito qualcosa contro quelle maledette bestioline.»

Sobbalzò. Maledette bestioline… Un'espressione troppo emotiva. Non andava bene. Un commentatore sportivo avrebbe detto che era crollato negli ultimi metri.

«Eccome, se sono maledette quelle bestiole, perdio!» tuonò una voce dal fondo. A parlare era stato un uomo dall'aspetto singolare, che era anche balzato in piedi. Svettava come una roccia, alto e massiccio. Indossava una tuta arancione e un berretto da baseball, dal quale spuntavano folti riccioli neri. Un paio di enormi occhiali colorati si reggeva a fatica su un naso troppo piccolo, ma talmente appuntito che balzava agli occhi, a dispetto della bocca grande come un forno. Quando apriva la bocca e spingeva in basso il mento colossale, somigliava a uno dei vecchietti brontoloni del Muppet Show. Sul suo cartellino c'era scritto: DOTTOR STANLEY FROST, VULCANOLOGO. «Ho visto in anteprima la documentazione», disse, in un tono da predicatore. «E non mi piace per niente. Ci stiamo concentrando sulle scarpate continentali delle zone densamente popolate…»

«Sì, perché ciò corrisponde all'esempio norvegese. Prima pochi animali, poi da un giorno all'altro un'orda.»

«Non dobbiamo concentrarci solo su quello.»

«Vuole che ripeta quello che è successo nell'Europa settentrionale?»

«Maggiore Peak! Ho forse detto che non dobbiamo badare alla scarpata continentale? Non ho sostenuto niente del genere! Ho parlato dell'esclusiva concentrazione su di essa, una cosa che — Dio me ne è testimone — è una stupidaggine colossale. È lampante. Il diavolo percorre altre strade.»

Peak si grattò la testa. «Potrebbe chiarire la sua affermazione, dottor Frost?»

Il vulcanologo inspirò profondamente. «No», rispose.

«Come? Ho capito bene?»

«Dobbiamo forse seminare il panico? No, vero? Allora prima devo fare chiarezza. Pensi alle mie parole.» Si guardò intorno, sicuro di sé, col mento gigantesco proteso in avanti, poi si sedette.

Fantastico, pensò Peak. Prima la giornalista idiota e adesso quest'altro pazzo.

Vanderbilt avanzò pesantemente verso il podio. Judith Li lo seguì, socchiudendo le palpebre, e poi notò che il vice direttore della CIA stava inforcando un paio di occhiali ridicoli e la cosa la riempì di un misto di fastidio e ripugnanza.

«'Maledette bestioline' è la definizione giusta, Sal», esordì Vanderbilt in tono giulivo. Quindi si guardò intorno, raggiante, come se dovesse comunicare la buona novella. «Ma noi daremo loro fuoco finché non gli bruceremo il culo. Ve lo prometto. Okay, veniamo alle nostre supposizioni. Non è molto. Il nostro carissimo petrolio, da cui siamo tutti così dipendenti e che tutti vorremmo scolarci, è andato a farsi fottere. Espresso in parametri economici, ciò significa che possiamo dire addio a una parte consistente della produzione mondiale. Per i cammellieri dell'OPEC è una gran botta. La navigazione internazionale si scontra con sempre nuovi scherzi della natura, e si blocca, come ha appena dimostrato esaurientemente Peak. E così il terrore mostra i suoi effetti. Sì, insomma, detto fra noi: gli attacchi di squali e balene sono storielle per bambini, onestamente, enormi sciocchezze. È seccante se un'intera famiglia americana non torna più a casa dopo essere uscita a pescare, ma all'umanità non importa un fico secco. Non è bello, anzi è una vera porcheria, se, in uno dei Paesi in via di sviluppo, un piccolo pescatore, che con la sua sardina quotidiana deve sfamare diciassette figli e tre mogli, è costretto a rimanere sulla spiaggia a fissare il mare con sguardo vuoto perché, uscendo a pescare, rischia di essere mangiato. Proviamo tutti un sincero dispiacere, ma non possiamo fare assolutamente nulla. L'umanità ha altri problemi. Sono i Paesi ricchi a essere stati colpiti. I pesci cattivi non si fanno più catturare, anzi spediscono nelle reti della robaccia velenosa, oppure fanno ribaltare i pescherecci. Benché si tratti di casi isolati, ormai quei casi sono maledettamente troppi. E questo è un male per i Paesi in via di sviluppo, perché non riceveranno più niente da noi.» Vanderbilt ammiccò furbescamente al di sopra del bordo degli occhiali. «Sapete, signori, se uno vuole distruggere il mondo, ne potrebbe far fuori due terzi semplicemente tenendo impegnati i Paesi più ricchi, pressandoli a tal punto da impedire loro di risolvere i problemi. Il Terzo Mondo conta sul fatto che i grandi gli tendano la mano. Di tanto in tanto si fa sentire la giusta ira dell'America, poi si concorda coi boss della droga un piccolo cambiamento di regime e lo si collega agli aiuti economici. Tutto fila liscio. Forse suona ridicolo che le balene saltino sulle barche, perché la fortuna o la crisi della nostra economia non dipende da canoe e fasci di giunchi. Però lo standard di vita occidentale non è propriamente rappresentativo. Pensateci stasera, mentre vi servite al buffet freddo. Per il Terzo Mondo le anomalie sono la fine! El Niño è la fine! Se facciamo il bilancio delle cose stravaganti che la natura ci ha offerto negli ultimi mesi, fenomeni come quelli del passato ci sembrano cari, vecchi amici. Ci si potrebbe addirittura augurare che vengano un'altra volta a farci visita ma, egregi signori, adesso abbiamo altri ospiti, che diamine! In alcune zone dell'Europa vige lo stato d'emergenza. Cosa vuol dire? Che, col calare delle tenebre, nessuno può più andare in strada perché si corre il rischio di sparire? Vorrei spiegarvi che cosa significa. Significa che l'Europa non è in grado di controllare la catastrofe umanitaria. Che le opere assistenziali, la Croce Rossa, i supporti tecnici, l'UNESCO non arrivano più con le tende e i viveri. Che, nella dorata Europa, gli uomini muoiono di fame e per le infezioni. Che sono scoppiate epidemie. Delle epidemie in Europa! Come se non bastassero la Pfiesteria e i suoi compagni, in Norvegia infuria il colera! I rifornimenti di medicinali per i feriti non possono essere più garantiti e le ferite degli onesti europei spettatori di quiz del sabato sera brulicano di piccoli vermi e sono coperte di mosche che, a loro volta, provvedono a diffondere ulteriormente le malattie. Vi sentite già male? Be', questo non è niente. Lo tsunami è senza dubbio una brutta faccenda. Ma rammentate che, oltre alla distruzione, quando uno tsunami arriva tutto esplode. Nessuno riesce a cavarsela nella lotta contro il fuoco. Le fasce costiere sono state prima inondate e poi bruciate. Ah, già, poi è successa anche un'altra cosa: il risucchio della massa d'acqua che stava rientrando in mare ha interrotto il ciclo di raffreddamento di alcune centrali, stupidamente costruite nei pressi della costa. Abbiamo avuto un 'massimo incidente ipotizzabile' in Norvegia e uno in Inghilterra. Vi basta? Posso continuare col tracollo delle forniture energetiche. Signore e signori, per quanto mi possa dispiacere, vi devo dire di non contare sull'aiuto dell'Europa. E neppure su quello del Terzo Mondo. L'Europa trasmette soltanto il monoscopio. L'Europa è nella merda!»

Vanderbilt teneva a portata di mano un fazzoletto bianco, con cui si tamponava la fronte. Peak era sul punto di vomitare. Odiava quell'uomo. Odiava il fatto che Vanderbilt non fosse amico di nessuno, probabilmente neppure di se stesso. Era un cinico disfattista. Ma, soprattutto, Peak odiava Vanderbilt perché aveva detto la verità. Nel suo odio per Vanderbilt, Peak si sentiva addirittura unito a Judith Li.

A parte quello, comunque, odiava anche Judith Li.

Talvolta aveva immaginato di strapparle di dosso i vestiti, insieme con quella sua maledetta aria di sufficienza, insieme con quelle sue arroganti smancerie da figlia di buona famiglia, cui erano state instillate lezioni su lezioni di lingue straniere. In quei momenti, dentro di lui prendeva forma il Salomon Peak che, in altre circostanze, probabilmente sarebbe diventato un capo gang, un ladro, un violentatore e un assassino.

Quel Peak gli faceva paura, perché non credeva negli ideali di West Point, nell'onore, nella gloria, nella patria. Era come Vanderbilt, che insudiciava tutto e lasciava intendere che il sudiciume era la realtà. L'altro Peak era cresciuto nel sudiciume. Un nero cresciuto nel sudiciume del Bronx.

«E andiamo avanti», stava dicendo Vanderbilt, con aria divertita. «Nell'acqua potabile europea c'è un sacco di simpatiche alghette. Che fare? Trattarle chimicamente? Certo, si può far bollire l'acqua o riempirla di prodotti chimici. Probabilmente quelle stronzette ci rimetteranno la pelle, ma noi le seguiremo. L'acqua comincia a scarseggiare. Fino a poco tempo fa, ogni idiota poteva stare tre ore sotto la doccia a cantare canzoni da marinaio, ma ora è finita. Non so quando da noi esploderanno i primi crostacei, signori, ma il Dio della nostra terra dovrà prepararsi, perché succederà. Dio ha perso la pazienza.» Vanderbilt ridacchiò. «Oppure sarebbe meglio dire Allah? Il pianeta si ribella, signori! Preparatevi a rivelazioni sensazionali. Subito dopo la pubblicità!»

Ma che sta dicendo? si chiese Peak. Era forse impazzito? Non poteva essere che così. Solo un pazzo si comportava in quel modo.

Il vice direttore della CIA fece apparire l'immagine di un planisfero, sul quale i continenti e i Paesi erano collegati da linee colorate. Uno spesso fascio si stendeva dall'Inghilterra e dalla Francia attraverso l'Atlantico fin nei pressi di Boston, di Long Island, di New York e del New Jersey, nei dintorni di Manasquan e di Tuckerton. Un'altra rete, molto meno fitta, percorreva il Pacifico e collegava l'Ovest degli Stati Uniti d'America con l'Asia. Spessi fasci scorrevano lungo le isole caraibiche e la Columbia, attraverso il Mediterraneo e il canale di Suez e sulla costa dell'Asia orientale fino a Tokyo.

«Cavi sottomarini», spiegò Vanderbilt. «Autostrade di dati, attraverso le quali telefoniamo e chattiamo. Senza le fibre ottiche, Internet non esiste. A quanto pare, lo smottamento al largo della Norvegia ha distrutto parte dei collegamenti in fibra ottica tra Europa e America. Almeno cinque dei più importanti cavi transatlantici non trasmettono più dati. In ogni caso, l'altro ieri ha tirato le cuoia anche un cavo col bel nome di FLAG Atlantic-1. Collega New York con St. Brieuc, in Bretagna, ed è pur sempre in grado di trasmettere 1,28 terabit al secondo. Scusate, era in grado! FLAG Atlantic-1 ha rassegnato le dimissioni, e indubbiamente non come conseguenza dello smottamento. Come pure il TPC-5 tra San Luis Obispo e le Hawaii. Notate qualcosa? C'è qualcuno che fa colazione coi cavi sottomarini. I nostri ponti crollano. C'è corrente nelle prese? Altroché. Il mondo è piccolo? Altroché! Chiamiamo la zia Polly a Calcutta e le facciamo gli auguri per il compleanno? Scordatevelo! Il fatto è che la comunicazione mondiale è arrivata alla fine e non sappiamo perché. Ma una cosa è fuori discussione.» Vanderbilt digrignò i denti e si chinò sul pulpito quel tanto che gli permetteva la sua pancia. «Qui c'è qualcuno al lavoro, signori. E ci sta staccando dalla flebo della civiltà. Ma ora basta parlare di quello che non abbiamo più e di quello che stiamo per perdere.» Annuì ai presenti con aria gioviale, facendo sobbalzare più volte il suo doppio mento. «Parliamo di quello che abbiamo.»

Anawak trovò un certo conforto nelle parole di Vanderbilt. Dopo aver temporaneamente perso la fiducia nel mondo, adesso gli sembrava che il mondo marciasse verso di lui, reggendo un cartello su cui, a lettere cubitali, c'era scritto: LEON, NOI TI CREDIAMO.

«Il dottor Anawak ha descritto un organismo luminoso», riprese Vanderbilt. «Non siamo riusciti a trovare un organismo di quel genere nelle escrescenze della Barrier Queen, ma il nostro eroe è coraggioso ed è riuscito a fare un buon bottino di cui è stato possibile esaminare un frammento. La sostanza è identica a una gelatina amorfa che il dottor Fenwick e la dottoressa Oliviera hanno trovato nella testa di una balena che cercava rogne. Ricordiamo la relazione con la schifezza all'interno dei crostacei infetti. Là dentro vengono trasportate come su un taxi le Pfiesterie, ma il taxista non è il nostro amico astice, bensì qualcosa che lo ha sostituito. La corazza era piena fino a scoppiare di quella roba che, all'aria fresca, ha avuto la compiacenza di dissolversi. Il dottor Roche è comunque riuscito ad analizzarne alcune tracce. È la nostra vecchia conoscenza, la gelatina!»

John Ford e Sue Oliviera sollevarono contemporaneamente la testa. Poi Sue, con la sua voce profonda, disse: «La sostanza nel cervello delle balene e quella sotto la nave sono identiche, fin qui è giusto. Ma il materiale del cervello è nettamente più leggero. Le cellule sembrano meno coese».

«Ho già sentito che le opinioni sulla gelatina divergono», la interruppe Vanderbilt. «Signori, questo è un problema vostro. Da parte mia, posso dire che abbiamo isolato la Barrier Queen in un bacino per non far scappare altri eventuali clandestini. Da allora, nelle acque del bacino abbiamo osservato più volte una luce blu. Non rimane visibile a lungo. L'ha notata anche il dottor Anawak, quando ha deciso di trascorrere le sue vacanze subacquee nella nostra zona vietata. Le analisi dell'acqua mostrano la presenza del solito brulichio di microrganismi che si trova in ogni goccia di acqua marina. Allora, da dove arriva la luce? Data la mancanza di conoscenze scientìfiche, noi la chiamiamo 'la nuvola blu'. Il nome lo dobbiamo al dottor Ford, che glielo ha dato dopo aver osservato le riprese fatte da uno strumento di nome URA.»

Vanderbilt mostrò il filmato del branco di Lucy.

«Sembra che questi lampi non feriscano né tantomeno spaventino le balene. Evidentemente la nuvola influenza il loro comportamento. Nel suo centro potrebbe nascondersi qualcosa che stimola la sostanza nella testa delle balene e forse addirittura la inietta. Ora facciamo un passo avanti e supponiamo che questi tentacoli non solo iniettino la gelatina, ma siano la gelatina! Dovremmo concordare che qui vediamo su grande scala quello che il dottor Anawak ha visto in scala ridotta sullo scafo della Barrier Queen. Saremmo sulle tracce di un organismo sconosciuto, che guida i crostacei, fa impazzire le balene e porta la sua piaga tra i molluschi che affondano le navi. Osservate, signori, quanti passi in avanti abbiamo fatto! Ora tocca a voi scoprire che cos'è. Perché la questione è tutta lì: che relazione c'è tra la gelatina e la nuvola? E adesso vediamo chi, rintanato in un laboratorio da qualche parte, ha messo insieme tutta questa porcheria…»

Vanderbilt mostrò di nuovo il filmato e stavolta, nel bordo inferiore dello schermo, comparve un analizzatore di spettro. Si vedevano forti oscillazioni di frequenza.

«L'URA è un ragazzo dotato di talento. Poco prima che si manifestasse la nuvola, i suoi idrofoni hanno registrato dei suoni. Noi non sentiamo niente, perché non siamo balene, ma poveri ometti con le orecchie ricoperte di colla. Tuttavia ultrasuoni e infrasuoni possono diventare udibili se si ha l'asso nella manica. Come i nostri sorprendenti colleghi del SOSUS.»

Anawak drizzò le orecchie. Conosceva il SOSUS. Ci aveva lavorato molte volte. La NOAA — la National Oceanic and Atmospheric Administration — gestiva una serie di progetti che riguardavano la registrazione e l'analisi dei fenomeni acustici subacquei. Tutti insieme rientravano nel termine generico di Acoustic Monitoring Project. Lo strumento che la NOAA utilizzava per captare i suoni sottomarini era un relitto della Guerra Fredda. SOSUS era l'acronimo di Sound Surveillance System, una rete d'idrofoni molto sensibili che la Marina americana aveva installato nel corso degli anni '60 in tutti i mari, per poter seguire le missioni dei sommergibili sovietici. Dal 1991, quando la Guerra Fredda era finita, col crollo dell'Unione Sovietica, anche ai ricercatori civili della NOAA era stato consentito di analizzare i dati del sistema.

In tal modo, gli scienziati avevano compreso che la vastità degli oceani era tutt'altro che silenziosa. Specialmente nello spettro delle frequenze al di sotto dei 16 hertz c'era un rumore infernale. Per essere udibili all'orecchio umano, i suoni dovevano essere riprodotti a una velocità sedici volte maggiore. Improvvisamente la vita marina sembrava rumorosissima: il canto delle megattere ricordava il cinguettio degli uccelli, mentre le balenottere azzurre mandavano messaggi ai loro simili, a centinaia di chilometri di distanza, con un rimbombante staccato. Tre quarti delle riprese erano dominate da un rimbombo ritmico, cannoni ad aria che le società petrolifere mettevano in funzione per sondare la struttura geologica degli abissi marini.

Nel frattempo la NOAA e il SOSUS si erano integrati in un unico sistema. Ogni anno, l'organizzazione ampliava la propria rete d'idrofoni. E ogni volta i ricercatori sentivano qualcosa in più.

«Anche solo coi rumori, oggi siamo in grado d'identificare diversi soggetti che si muovono in mare», spiegò Vanderbilt. «È una piccola nave? Viaggia veloce? Che genere di trazione usa? Da dove arriva, quanto è lontana? Gli idrofoni ci rivelano tutto. Dovreste sapere che l'acqua conduce bene le onde sonore e che sott'acqua esse si propagano a una velocità compresa tra i cinquemila e cinquemilacinquecento chilometri all'ora. Se una balenottera azzurra emette un suono al largo delle Hawaii, meno di un'ora dopo esso rimbomba in una cuffia californiana. Il SOSUS, tuttavia, fa qualcosa di più che registrare gli impulsi: ci dice anche da dove vengono. In breve, l'archivio dei suoni della NOAA raccoglie migliaia di rumori: scatti, brontolii, fruscii, gorgoglii, schiocchi e sussurri, suoni bioacustici e sismici, rumori ambientali… Insomma, possiamo catalogare tutto. Tranne alcune eccezioni. Il dottor Murray Shankar della NOAA è tra noi… Ah, che mossa lungimirante. Sarà certamente felice di commentare quanto segue.»

Dalle prime file si alzò un uomo tracagnotto, all'apparenza timido, con un viso dai tratti indiani e occhiali dalla montatura d'oro. Vanderbilt richiamò un altro spettrogramma e fece partire il suono accelerato artificialmente. La sala fu riempita da un borbottio ovattato, caratterizzato da una serie di suoni crescenti.

Shankar tossicchiò. «Abbiamo chiamato questo rumore upswewp», disse in tono pacato. «È stato registrato nel 1991 e la sua origine si situa da qualche parte intorno a 54° S, 140° W. Upsweep è uno dei primi suoni non identificati intercettati dal SOSUS, ed era talmente alto che è stato ricevuto in tutto il Pacifico. Ancora oggi non sappiamo cosa sia. Secondo alcuni, potrebbe derivare da ima risonanza tra acqua e lava, da qualche parte in una catena di montagne sottomarine tra la Nuova Zelanda e il Cile. Jack, per favore, il prossimo esempio.»

Yanderbilt fece ascoltare altri due spettrogrammi.

«Il primo è Julia, registrato nel 1999; il secondo è scratch, registrato due anni prima, da una serie d'idrofoni nel Pacifico equatoriale. Si poteva sentire per cinque chilometri. Julia ricorda il grido di un animale, non trovate? La frequenza cambia molto velocemente. È un insieme di singoli suoni, come nei canti delle balene. Ma non si tratta di balene. Nessuna balena produce un suono con questo volume. Scratch, invece, sembra una puntina che scivoli su un solco, solo che, per produrre un simile rumore, il giradischi dovrebbe avere le dimensioni di una grande città.»

Il rumore seguente sembrava un lungo stridio, progressivamente calante.

«Registrato nel 1997», disse Shankar. «Slowdown. Riteniamo che la sorgente sia da qualche parte nel profondo Sud. Sono escluse navi e sommergibili. Probabilmente slowdown deriva dallo scivolamento delle enormi placche di ghiaccio sulle rocce dell'Antartico, ma potrebbe anche essere tutt'altro. La NOAA include anche suoni di origine bioacustica, quindi di animali. Qualcuno sarebbe felice se il rumore finalmente dimostrasse l'esistenza del calamaro gigante, ma, per quanto ne so, quegli animali sono quasi incapaci di emettere suoni. Quindi niente. Nessuno sa cos'è…» Fece un sorrisetto furbo. «In compenso possiamo tirare fuori dal cilindro un altro coniglio.»

Vanderbilt fece ripartire lo spettrogramma del video dell'URA. Stavolta si sentiva chiaramente un suono.

«L'avete riconosciuto? È scratch. E sapete che cosa dice l'URA? Che la fonte è in mezzo alla nuvola blu! Quindi potremmo…»

«Grazie, Murray, un'interpretazione da Oscar.» Vanderbilt ansimò e si tamponò la fronte col fazzoletto. «Tutto il resto è speculazione. Bene, signore e signori, diamo a questa giornata una degna conclusione in modo che le rotelle dei vostri cervelli si mettano in moto.»

Le sequenze successive mostravano una ripresa negli abissi oscuri. Alcune particelle brillavano nella luce dei riflettori. Poi qualcosa di piatto s'inarcò nel campo della telecamera e si ritrasse immediatamente. «Se si studia il filmato nella versione rielaborata che ci ha gentilmente fornito il Marintek prima che l'istituto fosse spazzato via, si arriva a due conclusioni. La prima: la cosa è enorme. La seconda: è luminosa, o meglio, s'illumina per un po' e si spegne immediatamente non appena finisce nell'obiettivo della telecamera. È certo che scorrazza intorno ai settecento metri di profondità nella zona della scarpata continentale norvegese. Studiatelo, signori. È il nostro amico gelatinoso? Arrivate a una conclusione. Da voi non ci aspettiamo niente di meno che la salvezza dell'umanità.» Vanderbilt sorrise. «Non voglio nascondere che siamo prossimi all'apocalisse, per questo propongo la divisione dei lavori. Voi scoprite come si può fermare quella schifezza animale. Forse vi verrà in mente qualche programma di ammaestramento o qualcosa che gli guasti lo stomaco. Noi cercheremo quel grosso stronzo che ci ha creato tanti guai. E qualunque cosa facciate, non diffondetela. Non cedete alla tentazione di apparire sulle prime pagine. Europa e America, in accordo tra loro, stanno conducendo una politica di disinformazione mirata. Il panico sarebbe come acido cloridrico sulla cacca di cane, se capite che cosa voglio dire. Non possiamo permetterci un'escalation sociale, politica, religiosa o che. Quindi pensate a quello che la zia Li vi ha promesso se andrete fuori a fare qualche scherzetto.»

Johanson si schiarì la voce. «A nome di tutti vorrei ringraziarla per la sua coinvolgentissima relazione», disse in tono affabile. «Quindi noi dobbiamo scoprire che cosa c'è là fuori.»

«Esatto, dottore!»

«E lei che cosa crede che sia?»

Vanderbilt sorrise. «È gelatina. Con qualche nuvola blu.»

«Capisco.» Johanson rispose al sorriso. «Dovremmo essere noi ad aprire le finestrelle del calendario dell'Avvento. Ascolti, Vanderbilt, lei ha una teoria. Se vuole che collaboriamo, forse dovrebbe comunicarcela. Che ne pensa?»

Vanderbilt si strofinò la sella del naso e fissò Judith Li. «Va bene», accondiscese. «Cosa sarebbe il Natale senza lo scambio di regali? Amen. Dunque, ci siamo chiesti: dove accadono queste cose, dove in maniera ridotta, dove per nulla? E abbiamo notato che non sono stati colpiti il Medio Oriente, il territorio dell'ex Unione Sovietica, l'India, il Pakistan e la Thailandia. Non hanno subito danni neppure la Cina e la Corea. E neanche l'Artico e l'Antartico, ma lasciamo da parte i frigoriferi. A conti fatti, i danni maggiori sono toccati all'Occidente. Solo la distruzione degli impianti offshore norvegesi è, per l'Occidente, un danno di lunga durata, che ci rende sgradevolmente dipendenti.»

«Se ho capito bene, sta parlando di terrorismo», disse Johanson.

«Ha fatto bene a menzionarlo! Ci sono due tipi di terrorismo ed entrambi si fondano sulla distruzione di massa. La prima variante mira a provocare un crollo politico e sociale, e se ne frega di quanta gente ci rimetterà la pelle. Gli estremisti islamici, per esempio, pensano solo a togliersi dai piedi gli infedeli. La seconda variante è interamente votata all'aldilà e afferma che l'umanità peccatrice ha già bazzicato troppo su questo bel pianeta creato da Dio e che quindi è arrivato il momento di cancellarla dalla faccia della Terra. Quanti più soldi e know how possiede questa gente, più diventa pericolosa. Le alghe killer… Be', forse qualcosa del genere si può coltivare. In fondo, i cani possono essere addestrati a mordere e l'ingegneria genetica ha reso possibili interventi sul DNA. Perché con questo strumento non dovrebbe essere possibile acquisire il controllo del comportamento? Voglio dire, tante mutazioni in così poco tempo… A lei che cosa sembra? A me puzza di laboratorio. Un organismo sconosciuto senza forma, già… Ma perché non ha forma? Tutto ce l'ha! Forse perché il suo scopo non la richiede? Immaginiamo una sorta di protoplasma, un composto organico, un pastone compatto che, in fasci di molecole, occupa il cranio degli animali o dei crostacei. Voglio dire, signori, che dietro tutto questo, da qualche parte, c'è uno spirito pianificatore. Provate a immaginare che cosa significherebbe per la politica energetica del Medio Oriente il crollo dell'industria petrolifera dell'Europa settentrionale, e troverete il motivo.»

Johanson lo fissò. «Lei è un pazzo, Vanderbilt.»

«Lo crede? Nello stretto di Hormuz finora non ci sono state né collisioni né avarie. Neppure nel canale di Suez.»

«Ammesso che sia vero, che senso avrebbe decimare i potenziali clienti del petrolio arabo?»

«È una follia», ribatté Vanderbilt. «Io non ho detto che ha senso, ma che è utile. Presti attenzione al fatto che finora il Mediterraneo è stato risparmiato e quindi anche la rotta dal golfo Persico a Gibilterra. Invece, i vermi li troviamo là dove l'Occidente e il Sudamerica vogliono prendere il petrolio.»

«I vermi sono comparsi anche sulla costa nordorientale degli Stati Uniti», disse Johanson. «Uno tsunami delle dimensioni di quello europeo spazza via dal mercato la clientela dei suoi terroristi del business.»

«Dottor Johanson…» Vanderbilt sorrise. «Lei è uno scienziato. Nella scienza si è alla costante ricerca della logica. La CIA è da un pezzo che non la cerca più. Le leggi di natura devono essere logiche. Gli uomini no. Da decenni pende sulla nostra testa la spada di Damocle di una guerra atomica, e tutti sanno che potrebbe far sparire la nostra amata umanità. Quelli che ricattano il mondo e i pazzi da film di James Bond ci sono, dottor Johanson, solo che la realtà non prevede nessun James Bond. Nel 1991, quando Saddam Hussein diede fuoco ai pozzi petroliferi del Kuwait, la sua gente gli disse che avrebbe potuto provocare un inverno nucleare della durata di anni o addirittura di decenni. Quelle persone avevano torto. Ma questo ha impedito a Saddam di farlo? Un'altra cosa: chieda ai suoi colleghi di Kiel. Che cosa succederebbe davvero se tutto il metano marino si disperdesse nell'atmosfera? Su questo si possono fare solo speculazioni. In ogni caso, ci sarebbe da temere una crescita del livello del mare, l'Europa scomparirebbe, perché il Belgio, l'Olanda e la Germania settentrionale si trasformerebbero in una zona per gli sport acquatici. Al contrario, i deserti del Vicino e del Medio Oriente potrebbero improvvisamente fiorire e prosperare. Con qualche tsunami non si distruggerebbe l'umanità, resterebbe comunque gente a sufficienza per comprare il petrolio arabo. E forse tutto questo terrore non porterebbe alla fine dell'umanità, ma a un indebolimento dell'Occidente e dei Paesi dell'Est Asiatico e quindi a una ridistribuzione dei rapporti di forza, e senza bisogno di una guerra. In un modo o nell'altro, il pianeta ce la farà, vuole scommettere? Le dico che il terrore viene dal mare, ma la causa è da cercare sulla Terra.»

Judith Li spense il proiettore. «Vorrei ringraziare i rappresentanti diplomatici e gli inviati dei servizi segreti di tutti i Paesi per aver reso possibile questo vertice», disse. «Alcuni ripartiranno oggi stesso, ma la maggior parte resterà nostra ospite per le prossime settimane. Non è necessario che sottolinei ancora che pure a voi, come al gruppo scientifico, è richiesto il più assoluto riserbo sui progressi del nostro lavoro e sulle conoscenze che vi sono collegate. Anche nell'interesse dei vostri governi.» Fece una pausa, quindi riprese: «Per quanto riguarda i collaboratori del gruppo scientifico, ci siamo sforzati di appoggiarvi in ogni modo possibile. Da questo momento in poi, per favore, utilizzate solo il laptop che trovate davanti a voi. Ovunque nell'hotel sono state predisposte linee: nel bar, nelle vostre camere, nella palestra… Potete collegarvi ovunque siate. Il collegamento transatlantico è stato ristabilito. Il tetto dell'hotel è fornito di parabole satellitari. Funziona tutto. Telefonate, fax, e-mail e Internet passano attraverso i satelliti NATO III, che normalmente servivano per mantenere i collegamenti tra i governi partner della NATO. Ora servono a voi. Inoltre abbiamo allestito un circuito chiuso, un secretus in secretum, cui hanno accesso solo i membri del gruppo di lavoro. Attraverso questa rete, potete comunicare tra voi e accedere alle informazioni strettamente confidenziali. Per ottenerle avrete bisogno di una password personale che otterrete non appena avrete firmato la dichiarazione di riservatezza». Fece scorrere lo sguardo sui presenti. «Non c'è bisogno di sottolineare che per nessun motivo questa password può essere comunicata a persone non autorizzate. Una volta connessi, avrete accesso ai satelliti civili e militari, ai dati della NOAA e del SOSUS, a tutti i progetti telemetrici già archiviati e a quelli ancora in corso, alle banche dati della CIA e dell'NSA per quanto riguarda attività terroristiche mondiali, sviluppo delle armi biologiche, progetti d'ingegneria genetica e così via. Abbiamo raccolto per voi tutto quanto offerto dalle tecnologie degli abissi marini, come pure le conoscenze fondamentali di geologia e geochimica. Ci sono elenchi di tutti gli organismi conosciuti, potrete vedere le carte dei fondali abissali in possesso della Marina e naturalmente abbiamo messo in appendice tutte le cifre e le statistiche della conferenza. Ogni nuova informazione, ogni sviluppo, vi sarà immediatamente fornito senza ritardi. Vi terremo al corrente e naturalmente ci aspettiamo che voi facciate altrettanto.» Judith Li si fermò un attimo ed esibì un sorriso incoraggiante. «Vi auguro buona fortuna. Ci ritroveremo qui dopodomani alla stessa ora. Nel frattempo, chi avesse bisogno di comunicare qualcosa, potrà rivolgersi in ogni momento al maggiore Peak o a me.»

Vanderbilt la guardò, inarcando un sopracciglio. «Voglio sperare che fornirà sempre le informazioni anche allo zio Jack», disse a voce così bassa che soltanto lei riuscì a sentirlo.

«Jack, non dimentichi che lei è un mio sottoposto», rispose Judith, mentre raccoglieva i suoi documenti.

«Credo che lei abbia frainteso. Noi lavoriamo alla stessa altezza. Nessuno dei due è inferiore all'altro.»

«E invece sì, amico mio. Dal punto di vista intellettuale.» Poi lasciò la sala senza salutarlo.


Johanson

La maggior parte dei convenuti si mosse verso il bar, ma Johanson non aveva voglia di aggregarsi. Forse avrebbe dovuto sfruttare l'occasione per conoscere la truppa, però aveva altre cose che gli giravano per la testa.

Si era appena sistemato nella sua suite quando sentì bussare. Karen Weaver entrò senza aspettare risposta.

«Agli uomini anziani devi dare il tempo d'indossare il busto, prima di entrare», borbottò Johanson. «Altrimenti corri il rischio di restare delusa.» Stava vagando per la grande e confortevole stanza col laptop in mano, alla ricerca della presa del modem.

Karen, per nulla impressionata, aprì il minibar e prese una Coca-Cola. «Sulla scrivania», disse.

«Oh. Infatti.»

Johanson aprì il laptop e avviò il programma. Lei si mise a sbirciare da sopra le sue spalle. «Che cosa pensi del fatto che ci siano dietro i terroristi?» chiese.

«Niente.»

«La penso come te.»

«Ma capisco la schizofrenia di cui soffre la CIA.» Johanson aprì alcuni file. «Non imparano altro. Inoltre Vanderbilt ha ragione quando dice che gli scienziati tendono a trattare allo stesso modo i comportamenti naturali e quelli umani.»

Karen si chinò verso di lui. Un'ondata di riccioli le cadde sul viso e lei li tirò indietro. «Dovresti metterli al corrente, Sigur.»

«Di cosa?»

«Della tua teoria.»

Johanson esitò. Poi con un doppio clic aprì una finestra e inserì la sua password: CHÂTEAU DISASTER 000 550 899-XK/0. «Trallallà», canticchiò a bassa voce. «Benvenuti nel Paese delle meraviglie.»

Ingegnoso. Un castello pieno di scienziati, agenti segreti e soldati col compito di salvare il mondo da mostri, ondate e catastrofi climatiche. Château Disaster. Non avrebbero potuto dare una definizione più azzeccata.

Lo schermo si riempì d'icone. Johanson studiò i nomi dei file ed emise un debole fischio. «Accidenti. Ci danno davvero l'accesso ai satelliti.»

«Dimmi un po', possiamo anche guidarli?»

«Non dire sciocchezze. Ma possiamo richiamare i loro dati. Guarda. Abbiamo a nostra disposizione GOES-W e GOES-E, tutta la squadriglia della NOAA. Guarda, QuikSCAT, anche questo non è male. E ci sono anche i satelliti Lacrosse. Per concederci questi devono proprio aver fatto violenza alla loro natura. E qui, c'è SAR-Lupe. È…»

«Va bene, fine del trip. Credi davvero che abbiamo accesso illimitato alle informazioni dei servizi segreti e ai programmi dei governi?»

«Ovviamente no. Solo a quello che ci vogliono lasciar vedere.»

«Perché non hai detto a Vanderbilt quello che pensi?»

«Perché è troppo presto.»

«Ma non abbiamo più tempo, Sigur.»

Johanson scosse la testa. «Karen, bisogna convincere gente come Judith Li e Jack Vanderbilt. Vogliono risultati, non ipotesi.»

«I risultati li abbiamo…»

«Ma la situazione sarebbe stata troppo sfavorevole. Oggi era il loro grande momento. Avevano messo insieme tutto il possibile e montato il loro gran gala della catastrofe. Vanderbilt ha tirato fuori dal cilindro un coniglio arabo bello grasso e, maledizione, come ne era orgoglioso! Se avessi parlato, lui avrebbe interpretato le mie parole come se fossero state dettate dalla volontà di contraddirlo. Voglio che siano loro ad avere dei dubbi su quella ridicola teoria del complotto, e questo accadrà prima di quanto credi.»

«Va bene.» Karen annuì. «E tu quanto ne sei convinto?»

«Della mia teoria?»

«Non lo sei più?»

«Certo che lo sono. Ma al momento dobbiamo indebolire l'opinione degli americani.» Johanson fissava concentrato lo schermo. «Tra parentesi, ho l'impressione che Vanderbilt in questo gioco non conti molto. Dobbiamo convincere Judith Li. Penso che alla fine sia lei a decidere.»


Judith Li

Come prima cosa andò sul tapis roulant. Programmò il computer sui nove chilometri all'ora, un ritmo blando. Poi fece preparare il collegamento con la Casa Bianca. Due minuti dopo, sentì nelle cuffie la voce del presidente.

«Jude! È un piacere sentirla. Che cosa sta facendo?»

«Corro.»

«Corre. Perdio, lei è la migliore, ragazza mia. Tutti dovrebbero prendere esempio da lei. Tranne me.» Il presidente si abbandonò a una bella risata, poi, in tono confidenziale, disse: «Per me, lei è decisamente troppo sportiva… La conferenza è stata soddisfacente?»

«Sì, signore.»

«Avete raccontato quello che ipotizziamo?»

«Era inevitabile che venissero a sapere quello che ipotizza Vanderbilt.»

Il presidente rise di nuovo. «La smetta con la sua piccola guerra contro Vanderbilt», disse.

«È un imbecille.»

«Ma fa il suo lavoro. Non deve sposarlo.»

«Se servisse alla sicurezza nazionale, lo sposerei», replicò Judith, nervosa. «Ma non posso condividere le sue opinioni.»

«No, naturalmente no.»

«Non ci si può vantare di aver dato voce a ipotesi non ancora mature sul terrorismo. Ora gli scienziati sono compromessi. Inseguono una teoria anziché svilupparne una propria.»

Il presidente tacque. Judith sapeva benissimo che stava valutando quello che lei aveva appena detto. Non gli piacevano le iniziative individuali, e Vanderbilt si era reso colpevole di un'iniziativa individuale. «Ha ragione, Jude. Sarebbe stato decisamente meglio tenere nascoste queste ipotesi.»

«La penso come lei, signore.»

«Bene. Ne parli con Vanderbilt.»

«Ci parli lei. Non mi ascolta. Non posso impedirgli di parlare, anche se dice cose stupide e sconsiderate.»

«Va bene. Parlerò con lui.»

Judith sorrise dentro di sé. «Naturalmente non voglio creare difficoltà a Jack…» aggiunse, per essere politicamente corretta.

«È tutto a posto. Basta con Vanderbilt. Lei cosa pensa? La sua schiera di accademici riuscirà a prendere in pugno la situazione? Che impressione le hanno fatto, quei tipi?»

«Sono tutti altamente qualificati.»

«Qualcuno ha attirato la sua attenzione?»

«Un norvegese. Sigur Johanson, un biologo molecolare. Non so ancora che cosa abbia di particolare, ma sulla faccenda ha un punto di vista ben preciso.»

Il presidente gridò qualcosa dietro di sé. Judith aumentò la velocità del tapis roulant.

«Ho sentito poco fa al telefono il ministro degli Interni norvegese», riprese il presidente. «Non sanno a che santo votarsi. Naturalmente sono favorevoli all'iniziativa dell'Unione Europea, ma ho l'impressione che preferirebbero essere sulla stessa barca degli Stati Uniti. I tedeschi sono più o meno della stessa idea, almeno per quanto riguarda il trasferimento di know how e cose del genere. Auspicano una commissione globale con pieni poteri, che riunisca tutte le forze.»

«E chi dovrebbe guidare questa federazione?»

«Il cancelliere tedesco propone di autorizzare le Nazioni Unite.»

«Davvero? Hmm.»

«Non mi sembra una cattiva proposta.»

«No, è addirittura buona.» Judith fece una pausa. «Però lei, poco tempo fa, ha dichiarato che, in tutta la loro storia, le Nazioni Unite non hanno mai avuto un segretario generale tanto debole. È stato al ricevimento degli ambasciatori di tre settimane fa, ricorda? Io ho dato fiato alle stesse trombe e ci siamo presi le solite legnate dal solito schieramento.»

«Sì, lo so. Mio Dio, quante penne si sono arruffate! Però è davvero un rammollito. Bisogna poter dire la verità, maledizione! Ma dove vuole arrivare?»

«Dicevo solo così…»

«Lei non dice le cose solo così. Forza, quale sarebbe l'alternativa?»

«Vuole dire l'alternativa a un'assemblea in cui siedono dozzine di rappresentanti del Medio Oriente?»

Il presidente tacque per un momento, poi disse: «Gli Stati Uniti».

Judith finse di riflettere. «Credo che sia una buona idea, signore», mormorò.

«Ma così avremo di nuovo addosso i problemi di tutto il mondo, non crede, Jude?»

«Li abbiamo comunque addosso. Siamo l'unica superpotenza. Se vogliamo continuare a esserlo, dobbiamo anche continuare ad assumerci le responsabilità. Inoltre i tempi cattivi sono tempi buoni per i forti.»

«Lei e i suoi proverbi cinesi…» sospirò il presidente. «Non riceveremo questo incarico su un piatto d'argento. È ancora troppo presto. Dobbiamo impegnarci per rendere credibile il motivo per cui desideriamo metterci al vertice di una commissione d'indagine mondiale. Come crede che verrà presa nel mondo arabo, in Cina, in Corea, una simile iniziativa? Oh, a proposito di Asia, ho sfogliato il dossier sui suoi scienziati. Ce n'è uno che sembra asiatico. Non avevamo detto che asiatici e arabi dovevano starne fuori?»

«Un asiatico? Come si chiama?»

«Ha un nome ridicolo… Wakawaka o qualcosa del genere.»

«Oh, Leon Anawak. Ha letto il suo curriculum?»

«No, gli ho dato solo una scorsa.»

«Non è asiatico.» Judith aumentò la velocità a dodici chilometri all'ora. «Io sono di gran lunga la più asiatica in tutto il gruppo del Whistler.»

Il presidente rise. «Ah, Jude. Potrebbe anche venire da Marte e io le concederei comunque i pieni poteri. È un vero peccato che non possa venire quaggiù a vedere la partita di baseball. Ci troviamo tutti al ranch, se non succede nulla. Mia moglie sta facendo marinare le costate.»

«La prossima volta, signore», disse Judith.

Si intrattennero ancora un po' sul baseball. Judith non ribadì la proposta di mettere gli Stati Uniti al vertice della commissione d'indagine mondiale. Al massimo entro un paio di giorni, il presidente si sarebbe convinto che era un'idea sua. Era sufficiente avergli inculcato l'idea.

Dopo la conversazione, corse ancora per qualche minuto, poi, sudata com'era, si mise al pianoforte e appoggiò le dita sulla tastiera. Si concentrò.

Qualche secondo dopo, la sonata per pianoforte in Sol maggiore di Mozart riempì la suite.


KH-12

Il suono del pianoforte di Judith Li si perdeva nei corridoi del nono piano, come un vapore che diventasse sempre meno denso, e usciva anche dalla finestra semiaperta delia suite. A cento metri di altezza dalla superficie terrestre, le onde sonore si diffondevano in cerchi. Un orecchio allenato avrebbe potuto sentirle, seppure debolmente, anche dal punto più alto dello Château che, come un castello delle fiabe, aveva una torre abitabile col tetto a spioventi. Al di sopra del tetto, il suono cominciava a disperdersi. Dopo un centinaio di metri si era già mescolato con moltissime altre onde sonore e più andava verso l'alto, più diventava debole. Un chilometro al di sopra della superficie terrestre, si sentivano ancora il rombo dei motori, lo scoppiettante rumore di piccoli aerei a elica e i rintocchi della campana della chiesa presbiteriana nel villaggio di Whistler, normalmente pieno di turisti, ma ormai entrato a far parte della zona vietata. Il crepitio degli elicotteri militari, che costituivano il collegamento principale col mondo esterno, s'indeboliva solo a duemila metri.

Da quell'altezza, si godeva di una vista mozzafiato sull'hotel, così bello che pareva una costruzione da sogno, maestoso in mezzo alla foresta. Sulle montagne, invece, si vedevano zone splendenti di neve e attraversate da solchi.

Là sparivano anche gli ultimi rumori provenienti dalla Terra.

Si sentivano solamente i jet in fase di decollo o atterraggio. A dieci chilometri di altezza, lo Château era completamente fuso col paesaggio. Gli aerei di linea percorrevano le loro rotte. L'orizzonte iniziava nettamente a curvarsi. I banchi di nuvole basse somigliavano a nevai, terreni ingannevoli di vapore acqueo. Tra i cinque e i dieci chilometri più in alto, l'atmosfera sempre più rarefatta era attraversata dal rumore degli aerei supersonici. La troposfera era soggetta ai capricci del tempo, la stratosfera all'ozono che assorbiva gran parte dei raggi ultravioletti. A quell'altezza, le nuvole non erano altro che formazioni eteree, con riflessi che le facevano sembrare di madreperla. Palloni aerostatici argentei riflettevano la luce del sole e si occupavano di avvistare gli UFO. Nel 1962, nel silenzio assoluto dei venti chilometri di altitudine, il leggendario U2 aveva intrapreso la propria rotta segreta verso Cuba, per dimostrare la presenza dei missili sovietici. Il pilota del velivolo spia, a causa dell'altitudine estrema, aveva dovuto indossare una tuta da astronauta. Era stato uno dei voli più audaci di tutti i tempi, sotto un cielo il cui blu scuro lasciava già intuire lo spazio.

A ottanta chilometri, risplendevano ancora isolate nubi nottilucenti. La temperatura era di -113 °C. Lassù, nulla lasciava intuire presenze umane, se si escludevano gli occasionali passaggi di veicoli spaziali in partenza o in arrivo. Il blu scuro tendeva sempre più al nero. Oltre gli ottanta chilometri e fino ai cinquecento c'era la termosfera, regno di quegli dei pagani che erano poi stati smascherati dalla scienza moderna e riconosciuti come luci polari e fiammeggianti meteoriti. Era un luogo le cui particolarità fisiche erano ideali per suggerire la creazione di miti e leggende. In effetti, però, non poteva essere adatto come residenza né per le divinità né per nessun'altra forma di vita. Niente e nessuno poteva resistere lassù. Raggi gamma e raggi X cadevano senza trovare ostacoli. Non si trovavano quasi neppure molecole di gas.

In compenso, però, c'era altro.

A centocinquanta chilometri d'altezza, sfrecciavano a ventottomila chilometri all'ora i primi satelliti. Erano prevalentemente satelliti spia, che, per loro natura, cercavano di mantenersi il più vicino possibile alla superficie terrestre. Ottanta chilometri sopra di loro, la sonda Space Radar Topography Mission riprendeva il profilo altimetrico della superficie terrestre e lavorava alla carta del mondo del XXI secolo. A quell'altezza, l'atmosfera ancora relativamente compatta rallentava la velocità dei satelliti, che, per non precipitare, avevano bisogno della spinta del propellente. Trecento chilometri più in alto il propellente non serviva più. In quel punto la forza centrifuga e la gravità terrestre si equivalevano e ciò rendeva possibile mantenere rotte stabili. Così il cielo si riempiva. Era come una rete di autostrade stratificate e, più si andava in alto, più il traffico era intenso. Due piccoli ed eleganti oggetti volanti dal nome di Champ e Grace osservavano il campo magnetico e gravitazionale. Seicento chilometri sopra i poli, l'ICESat riceveva i riflessi della superficie terrestre e dava informazioni sui cambiamenti del manto di ghiaccio. Settanta chilometri più in alto incrociavano i satelliti Lacrosse dell'esercito americano, che esaminavano il terreno con radar ad alta risoluzione. A settecento chilometri d'altezza le sonde LANDSAT della NASA osservavano continenti e coste, misuravano l'espansione e il ritiro dei ghiacciai, l'estensione delle foreste e del pack e fornivano rappresentazioni dettagliate della distribuzione globale delle temperature. Il SeaWiFS, con strumenti fotografici a infrarossi, era sulle tracce delle concentrazioni di alghe negli oceani. I satelliti della NOAA erano stati sistemati in un'orbita a ottocentocinquanta chilometri di altezza e sincronizzati col sole. Da polo a polo si muovevano tutti i possibili satelliti meteorologici. C'era un gran traffico fin oltre la magnetosfera, che superato il confine dei novecento chilometri, attirava particelle cosmiche ed emissioni solari in due fasce di radiazioni, le cosiddette fasce di Van Allen, che si erano sviluppate fino a diventare un curioso fenomeno mediatico. Una gran parte della popolazione americana le considerò la prova decisiva che gli astronauti non erano stati sulla luna; persino noti scienziati dubitarono che gli uomini sulla navicella spaziale fossero sufficientemente protetti per poter attraversare quella regione di radiazioni mortali. Nella terminologia dei satelliti, quella regione è definita con l'acronimo LEO, Low Earth Orbit, ed è seguita dalla zona della Middle Low Orbit, ampiamente trafficata dai satelliti GPS che volano a un'altezza di ben ventimila chilometri, finché, a 35.888 chilometri, si trovavano fissati, come se fossero appesi, i satelliti geostazionari, primo tra tutti l'Intelsat per le comunicazioni mondiali.

La distanza tra Mozart e tutto ciò era incommensurabile.

Mentre il suono del pianoforte si perdeva, la conversazione di Judith Li col presidente era risalita fino allo spazio e poi era ridiscesa. Allo zenit della loro telefonata, i due si erano intrattenuti nella parte esterna dello spazio e si erano scambiati informazioni che appunto provenivano dallo spazio. Senza l'esercito dei satelliti, l'America non avrebbe potuto condurre la Guerra del Golfo, né quelle in Kossovo e in Afghanistan. Senza il supporto dallo spazio, l'Aeronautica non sarebbe riuscita a colpire con precisione. Senza l'obiettivo ad alta risoluzione di Crystal, detto anche KH-12, il comando generale sarebbe stato cieco rispetto ai movimenti del nemico nelle inaccessibili regioni montuose.

KH stava per Keyhole. I precisi satelliti spia americani costituivano il corrispondente ottico del radar del sistema Lacrosse. Riconoscevano oggetti delle dimensioni di quattro o cinque centimetri e facevano anche fotografie con gli infrarossi, così erano attivi anche di notte. A differenza degli altri satelliti oltre l'atmosfera, erano dotati di propulsione a razzo che permetteva loro di posizionarsi anche su orbite basse. Normalmente ruotavano intorno al pianeta a trecentoquaranta chilometri di altezza tra il Polo Nord e il Polo Sud, così potevano fotografare tutta la Terra in ventiquattr'ore. Con l'inizio degli attacchi al largo di Vancouver Island erano stati abbassati a duecento chilometri. Keyhole, Lacrosse e altri ventiquattro nuovi satelliti ottici ad altissima precisione, lanciati dall'America in orbite vicinissime alla Terra in risposta all'attacco dell'11 settembre, formavano una costellazione con un rendimento che superava quello del famoso sistema tedesco SAR-Lupe.

Alle 20.00, ora locale, due uomini in una sala sotterranea al Buckley Field, nei pressi di Denver, ricevettero una chiamata. La Buckley Field Station apparteneva a una serie di stazioni di terra dell'NRO — la National Reconnaissance Organisation — incaricata della pianificazione dello spionaggio via satellite per conto dell'Aeronautica e in stretto contatto con l'NSA. Il suo compito consisteva nell'intercettare e ascoltare. L'alleanza tra i due servizi segreti offriva alle autorità americane la possibilità di attuare una sorveglianza senza precedenti. Nel frattempo, una rete in gran parte automatizzata, detta Echelon, aveva ricoperto il pianeta e, coi suoi diversi sistemi tecnici, sorvegliava le comunicazioni internazionali, dai satelliti alle radio a bassa frequenza sino alle fibre ottiche.

I due uomini stavano sotto una gigantesca antenna parabolica. Circondati dai monitor, ricevevano in tempo reale i dati da Keyhole, Lacrosse e dalle altre sonde, li interpretavano, li rielaboravano e li mandavano negli uffici competenti. Erano entrambi agenti segreti, anche se non corrispondevano all'immagine che normalmente si aveva di simili personaggi. Portavano jeans e scarpe da ginnastica e il loro aspetto era quello dei membri di una band grunge.

La chiamata informava i due uomini su un peschereccio in difficoltà al largo della punta nord di Long Island. Se la notizia era vera, all'altezza di Montauk c'era stata una collisione provocata da un capodoglio. L'isteria collettiva sfociava in un flusso contìnuo di falsi allarmi. Sembrava che sul luogo della disgrazia si stesse indirizzando una grande nave, ma anche quella notizia non era verificata. Il contatto con l'equipaggio si era interrotto qualche secondo dopo l'SOS.

Il KH-12-4, uno dei satelliti del sistema Crystal-Keyhole, si avvicinava da sud-ovest di Long Island. Era in una posizione favorevole. Chi aveva chiamato ordinò alla squadra a terra di orientare immediatamente il telescopio verso la zona dell'incidente.

Uno dei due uomini diede una serie di comandi.

Centonovantacinque chilometri al di sopra della costa dell'Atlantico sfrecciava il KH-12-4, un tubo fornito di un telescopio lungo quindici metri, con un diametro di quattro metri e mezzo e pesante quasi venti tonnellate. Ai due lati si spiegavano dei pannelli solari. L'ordine impartito da Buckley Field azionò uno specchio girevole davanti all'obiettivo in movimento. Con quello, il satellite poteva ricevere un'informazione da ogni direzione fino a una distanza di mille chilometri. In quel caso, bastò una minima correzione. Visto che non era ancora completamente buio, si accesero i dispositivi per potenziare la luce residua e si ottenne un'immagine come se fosse mezzogiorno. Il KH-12-4 scattava una foto ogni cinque secondi e spediva i dati a un satellite relè che a sua volta li inviava a Buckley Field.

I due uomini fissarono il monitor.

Videro Mountak, una pittoresca località la cui attrattiva principale era il suo faro, il più antico nello Stato di New York. Da quasi duecento chilometri di altezza, però, Montauk non era più pittoresca di un segno su una carta stradale. Strade diritte e sottili attraversavano un paesaggio caratterizzato da puntini chiari. I puntini erano gli edifici. Lo stesso faro era appena percepibile come un punto bianco al termine di una lingua di terra.

Tutt'intorno si stendeva l'Atlantico.

L'uomo che guidava il satellite definì la zona in cui doveva essere avvenuto l'attacco alla nave, inserì le coordinate e passò al grado superiore d'ingrandimento. La costa sparì dal campo visivo. Si vedeva solo acqua. Niente navi.

Anche l'altro uomo guardava, mangiando pesce fritto che prendeva da un sacchetto di carta. «Muoviti», disse.

«Calma.»

«Niente calma. Vogliono subito le informazioni.»

«Al diavolo quello che vogliono.» L'uomo ai comandi spostò ancora di una minuzia lo specchio davanti al telescopio. «Ci vorrà una vita, Mike. Merda. Bisogna muoversi! Come dovremmo fare? Dobbiamo cercare in tutto quel maledetto mare di merda per trovare un minuscolo peschereccio di merda.»

«Non è necessario. È stata una richiesta d'aiuto satellitare fatta attraverso la NOAA. Non può essere che qui. Se non c'è, vuol dire che quel barcone è affondato.»

«Una merda ancora più grossa.»

«Sì.» L'altro si leccò le dita. «Poveracci.»

«Poveracci loro? Siamo noi i poveracci. Se quel barcone è affondato, bisognerà cominciare una merdosissima ricerca del relitto.»

«Cody, sei davvero un bastardo.»

«Verissimo.»

«Prendi un pezzo di pesce… Ehi, ma che cos'è quello?» Mike indicò il monitor con un dito unto. In acqua si riconosceva chiaramente qualcosa di scuro e allungato.

«Guardiamo meglio.»

Il telescopio zoomò finché, tra le onde, non fu possibile riconoscere il profilo di una balena. Nell'immagine entrarono altre balene. Sopra le loro teste si allargava una macchia chiara. Le balene sfiatavano.

Poi s'immersero.

«Che cos'era?» chiese Mike.

Cody ingrandì ancora la sezione dell'immagine. Adesso erano al maggiore ingrandimento possibile. Videro un uccello marino cavalcare sulle onde. Per la precisione, era un insieme di quasi due dozzine di pixel quadrati, ma nel complesso riproducevano senza possibilità di equivoco un uccello.

Esaminarono i dintorni, ma non riuscirono a scoprire né la nave né i relitti.

«Forse è andata alla deriva», ipotizzò Cody.

«Difficile. Se la notizia è vera, dovremmo trovare qualcosa qui. Forse sono riusciti ad andare avanti.» Mike sbadigliò, accartocciò il sacchetto e cercò di fare canestro nel cestino della spazzatura. Lo mancò clamorosamente. «Forse un falso allarme. Comunque adesso vorrei essere laggiù.»

«Dove?»

«A Montauk. Un posto bellissimo. Sono stato là coi ragazzi l'anno scorso, poco dopo che Sandy mi aveva mollato. Eravamo sempre ubriachi o sballati, ma era fantastico starsene sdraiati sugli scogli al tramonto. Il terzo giorno mi sono fatto la cameriera della birreria del porto. Che periodo, ragazzi.»

«Ogni tuo desiderio è un ordine.»

«Che vorresti dire?»

Cody gli sorrise. «Vuoi la tua merdosa Montauk? Accidenti, comandiamo tutto l'esercito del cielo. E visto che siamo già da quelle parti…»

Il volto di Mike s'illuminò. «Al faro», disse. «Ti faccio vedere dove me la sono scopata.»

«Ahi, ahi.»

«No, aspetta, forse è meglio di no. Potremmo avere una valanga di guai se…»

«Perché mai? Spetta a noi condurre la ricerca dei relitti.»

Le sue dita sfrecciarono sulla tastiera. Il telescopio zoomò all'indietro. Comparve la lingua di terra. Cody cercò il punto bianco del faro e lo ingrandì finché non lo videro chiaramente svettare sotto di loro. Gettava un'ombra molto lunga. Gli scogli erano immersi nella luce rossa. A Montauk, il sole stava tramontando. Una coppietta stava passeggiando intorno al faro.

«Questo è il momento migliore», disse Mike eccitato. «Romanticissimo.»

«Hai scopato proprio davanti al faro?»

«Non dire idiozie! Più in basso. Là, dove stanno andando quei due. È un posto conosciuto per quello. Tutte le sere c'è in programma una bella sdraiata.»

«Forse riusciremo a vedere qualcosa.»

Cody spostò il telescopio in modo da precedere i due. Ma sugli scogli neri non c'era nessuno. Solo uccelli marini che roteavano in cielo o scendevano in picchiata tra le scogliere per prendere il cibo.

Poi nell'immagine entrò qualcos'altro. Qualcosa di piatto e disteso. Cody aggrottò la fronte. Mike si avvicinò. Attesero lo scatto successivo.

L'immagine era cambiata.

«Ma che cos'è?»

«Non ne ho idea. Puoi avvicinarti?»

«No.»

Il KH-12-4 mandò altri dati in forma d'immagine. E ancora una volta il paesaggio era cambiato.

«Oh, merda», sussurrò Cody.

«Che diavolo è?» Mike socchiuse le palpebre. «Si allarga. Si sta arrampicando sui fottuttissimi scogli.»

«Merda», ripeté Cody. In effetti non faceva che ripetere in ogni occasione «merda», anche se c'era qualcosa che gli piaceva. Mike non ci badava più, ma quella volta esprimeva un vero sgomento.


Montauk, USA

Linda e Darryl Hooper erano sposati da tre settimane e stavano trascorrendo la luna di miele a Long Island. Un tempo, sull'isola, vivevano più pescatori che star del cinema, ma, da quando il rapporto si era invertito, Long Island era diventata carissima. Centinaia di bei ristoranti — la cui specialità erano ovviamente i piatti a base di pesce — occhieggiavano sulla spiaggia lunga chilometri. Le persone in vista di New York avevano eletto quel luogo a palcoscenico della loro vita mondana e dividevano coi ricchissimi industriali la zona di East Hampton, uno splendido villaggio da cartolina, in cui il tenore di vita era a livelli proibitivi. Anche Southampton, più a sud-ovest, non era di certo economica. Ma Darryl Hooper era un giovane avvocato rampante e si era fatto un nome a New York. Era diventato una sorta di figlio adottivo del socio anziano del grande studio nel cuore di Manhattan in cui lavorava. Guadagnava ancora relativamente poco, ma sapeva di essere ormai a un passo dal fare davvero i soldi. E aveva sposato una ragazza dolcissima. Linda era stata l'oggetto del desiderio di tutti gli studenti della facoltà di Legge, però aveva scelto lui. Evidentemente non le importava che Darryl, benché giovane, cominciasse già a perdere i capelli e dovesse portare occhiali dalle lenti spesse, dato che non sopportava Le lenti a contatto.

Darryl era felice. In previsione della ricchezza in arrivo, aveva deciso di gustarne un anticipo con Linda. L'hotel a Southampton era molto costoso. Ogni sera spendevano quasi cento dollari in uno dei ristoranti di lusso della zona. Ma andava bene così. Lavoravano entrambi come muli e se lo meritavano. Tra non molto si sarebbero potuti permettere senza problemi i posti più esclusivi.

Darryl strinse ancora più forte il braccio intorno alla vita della moglie e guardò verso l'Atlantico. Il sole era appena tramontato e il cielo tendeva al violetto. Ad alta quota, banchi di nuvole rosa rilucevano all'orizzonte. Il mare spingeva sulla spiaggia deboli onde che, quasi per riguardo al bisogno di riposo della grande città, sciabordavano delicatamente e si frangevano senza fare rumore. Darryl pensò che forse sarebbe stato il caso di fermarsi ancora un po' in quel luogo e tornare più tardi a Southampton. Al momento, la strada principale era ancora molto trafficata, ma, nel giro di un'oretta, non ci sarebbero stati problemi. Se la Harley girava come doveva, avrebbero percorso i cinquanta chilometri in venti minuti. Partire subito sarebbe stato un vero peccato.

Inoltre lo sapevano tutti: dopo il tramonto, quel luogo era riservato all'amore. Passeggiarono lentamente sugli scogli bassi. Dopo qualche passo, davanti a loro comparve una piccola conca. Un posticino ideale, riservato. Darryl era innamoratissimo ed erano lontani da sguardi indiscreti. Oltre gli scogli si sentiva il mare. Sembrava che non ci fosse nessun altro. La maggior parte degli innamorati stava passeggiando sulla vicina spiaggia; quello tra gli scogli era un mondo solo loro.

Darryl non avrebbe mai immaginato che due osservatori in una sala sotterranea a Buckley Field lo stessero guardando con un satellite a quasi duecento chilometri di altezza. Quindi baciò la moglie, mettendole le mani sotto la T-shirt e sfilandogliela, mentre lei gli slacciava la cintura. Si spogliarono a vicenda e si sdraiarono sul mucchio di vestiti. Lui la baciava e la accarezzava. Linda si girò sulla schiena e Darryl staccò le labbra dalla bocca della donna e si chinò lentamente verso il suo ventre, muovendo freneticamente le mani e cercando di toccare ogni millimetro di quel corpo.

Lei ridacchiò. «No. Mi fai il solletico.»

Lui spostò la mano destra che aveva portato all'interno delle cosce e continuò a baciarla con impeto.

«Ehi… Ma cosa stai facendo?»

Darryl sollevò lo sguardo. Cosa stava facendo? Stava facendo quello che faceva sempre e che le era sempre piaciuto.

La baciò sulla bocca e vide il suo sguardo confuso. Guardava alle sue spalle. Hooper girò la testa.

Sullo stinco di Linda c'era un granchio.

Lei lanciò un gridolino e lo scosse via. Il granchio cadde sulla schiena, divaricò le chele e poi si rimise in piedi.

«Mio Dio. Mi ha spaventata.»

«Tesoro, voleva partecipare anche lui», rise Darryl. «Hai avuto sfortuna, ragazzo. Cercati un'altra femminuccia.»

Linda sorrise e si appoggiò ai gomiti. «Che tipo strano», disse. «Non ne ho mai visti così.»

«Cos'ha di strano?»

«Non trovi che sia strano?»

Darryl lo guardò meglio. Il granchio era immobile sul fondo ghiaioso. Non era particolarmente grande — più o meno dieci centimetri — ed era completamente bianco. La corazza riluceva sul terreno scuro. Il colore era indubbiamente insolito, ma c'era qualcos'altro che disorientava Darryl. Linda aveva ragione. Era strano.

Poi si rese conto del perché. «Non ha gli occhi», esclamò.

«È vero.» Linda si rialzò e gattonò verso l'animale, che era sempre immobile. «Che roba! Che sia malato?»

«Sembrerebbe che non li abbia mai avuti» disse lui, e intanto le faceva scorrere le dita sulla colonna vertebrale. «Non importa. Lascialo perdere, tanto non fa niente.»

Linda continuava a osservare il granchio. Poi prese un sassolino e glielo lanciò contro. L'animale indietreggiò, ma non reagì. Gli toccò le chele con un dito, ritirandolo poi immediatamente, però il granchio non attaccò.

«Forse è uno stoico.»

«Vieni, lascia perdere quello stupido granchio.»

«Non si difende.»

Darryl sospirò. S'inginocchiò di fianco a lei e, per farle piacere, diede un colpetto al granchio. «È vero», affermò. «È imperturbabile.»

Lei rise, gli girò la testa e lo baciò. La punta della lingua di Linda giocherellava con la sua. Chiuse gli occhi e si gustò il piacere…

Linda si ritrasse. «Darryl…»

Il granchio era improvvisamente salito sulla mano con cui lei si stava sostenendo. Dietro ce n'era un altro. E poi un altro ancora. Darryl spostò lo sguardo sulle rocce che dividevano la conca dalla spiaggia e pensò di avere un incubo.

Dovevano essere milioni.

Linda fissava gli animali immobili. «Mio Dio», sussurrò.

Nello stesso istante, la fiumana si mise in movimento. Darryl aveva visto dei piccoli granchi correre sulla spiaggia, e sapeva che non erano né lenti né flemmatici. Ma quelli erano ancora più veloci. La loro velocità era spaventosa, come se un'onda si stesse riversando su di loro. Le zampe dure sulle rocce producevano un leggero tamburellio.

Nuda com'era, Linda balzò in piedi e scappò. Darryl cercò di afferrare i vestiti. Aveva le vertigini. I vestiti gli caddero di mano. L'esercito dei granchi in corsa si avvicinava e lui fece un balzo indietro.

Gli animali lo seguirono.

«Non fanno niente», gridò, benché non ne fosse convinto, ma Linda si era già girata e stava correndo sugli scogli. «Linda!»

Lei inciampò e cadde. Darryl corse verso di lei. Un attimo dopo i granchi erano ovunque, e si lanciavano contro di loro, aggrappandosi al loro corpo e pizzicandoli. Presa dal panico, Linda urlava. Darryl colpiva gli animali col palmo della mano per toglierli dalla schiena di lei e dai propri avambracci. Poi Linda balzò in piedi e, sempre urlando, si passò le mani tra i capelli. I granchi le stavano correndo sulla testa. Darryl l'afferrò e la spinse in avanti. Non voleva farle male… Desiderava soltanto sottrarsi a quella valanga che si riversava dagli scogli. Ma Linda inciampò di nuovo e lo trascinò con sé. Darryl perse l'equilibrio, cadde a terra e sentì i piccoli corpi duri spezzarsi sotto il suo peso. I frammenti gli entrarono dolorosamente nella carne. Agitò mani, braccia e gambe, sentendo centinaia di minuscole zampe appuntite che gli passavano sopra. Le sue dita presero a sanguinare. Finalmente si rialzò, trascinando Linda con sé.

In qualche modo, riuscirono a correre verso la Harley, con le corazze chitinose che scricchiolavano sotto i loro piedi. Durante la corsa, Darryl girò la testa e rimase allibito: tutta la spiaggia sembrava ribollire di granchi. Arrivavano dal mare… Continuavano ad arrivare, sempre di più. Sembravano infiniti. I primi avevano già raggiunto il parcheggio e, sul fondo liscio, procedevano ancora più velocemente. Darryl correva con tutte le sue forze, trascinando Linda. Le piante dei piedi erano piene di schegge e ricoperti da una fanghiglia disgustosa. Doveva fare attenzione a non scivolare. Finalmente raggiunsero la moto, saltarono in sella e Darryl azionò lo starter. Sfrecciarono via, fuori dalla recinzione del parcheggio fino alla strada. La moto rischiava d'impantanarsi nella melma dei granchi schiacciati, ma, alla fine, raggiunse l'asfalto. Linda si aggrappava al marito. Verso di loro veniva un camion, con alla guida un uomo anziano che li guardava, incredulo. Per un attimo, Darryl pensò che simili scene — due persone completamente nude su una moto — si vedevano solo nei film. Se la situazione non fosse stata così spaventosa, ci sarebbe stato da morire dal ridere.

In lontananza comparvero le prime case di Montauk. La punta orientale di Long Island era poco meno che una striscia di terra, con la strada che correva parallela alla costa. Mentre si dirigeva verso Montauk, Darryl vide avvicinarsi sulla sinistra la fiumana bianca dei granchi. A quanto pareva, stavano arrivando dal mare anche da altri luoghi. Si riversavano dagli scogli e si dirigevano verso la strada.

Accelerò.

La fiumana bianca era più veloce.

Pochi metri prima del cartello del paese, i granchi avevano raggiunto la strada, trasformando l'asfalto in un mare di piccoli corpi. Contemporaneamente, un pick-up stava uscendo in retromarcia dal portone di una casa. Darryl sentì che la Harley sbandava e cercò di evitare il pick-up, ma la moto non rispondeva più ai suoi comandi.

No, pensò. Mio Dio, ti prego, no.

Il pick-up si mise di traverso sulla strada e poi indietreggiò ancora, mentre l'Harley scivolava verso di lui. Darryl sentì Linda gridare e sterzò bruscamente. Riuscirono a passare per un pelo davanti al radiatore cromato. L'Harley ruotò su se stessa. Dopo qualche secondo, Darryl riuscì a stabilizzare la moto. Le persone fuggivano. Non ci fece caso. La strada davanti a loro era libera.

Si diressero a tutta velocità verso Southampton.


Buckley Field, USA

«Ma che cosa diavolo è?»

Le dita di Cody correvano sulla tastiera. Inserì l'uno dopo l'altro tutti i filtri possibili, ma l'immagine rimase quello che era, una massa chiara che si dirigeva rapidamente dal mare verso la terraferma.

«Sembra quasi un'onda gigante.»

«Non abbiamo visto onde», disse Mike. «Non è un'onda. Devono essere animali.»

«Che animali di merda sarebbero?»

«Sono…» Mike fissò lo schermo. «Là. Quello là. Portami più vicino. Fammi una sezione di un metro quadrato.»

Cody delimitò la sezione e la ingrandì. Il risultato fu una superficie chiara e scura. Mike socchiuse le palpebre.

«Ancora più vicino.»

I quadrati dei pixel divennero più grandi. Alcuni erano bianchi, altri di diverse tonalità di grigio.

«Dirai che sono pazzo», mormorò Mike. «Ma potrebbero…» Era possibile? Ma cos'altro potevano essere? Cos'altro arriva dal mare e si muove così velocemente? «Chele», esclamò infine. «Sembrano corazze con le chele.»

Cody lo fissò. «Chele?»

«Granchi.»

Cody aprì la bocca. Poi ordinò al satellite di esaminare il resto della costa.

Il KH-12-4 si mosse da Montauk verso Southampton, poi oltre Southampton fino a Mastic Beach e Patchogue. A ogni nuova immagine scattata dalla sonda, Mike diventava sempre più inquieto. «Non può essere vero», gridò.

«Non può? È merdosamente vero! Laggiù c'è qualcosa che arriva dal mare. Su tutta la costa di Long Island c'è qualcosa che arriva dal mare di merda! Vuoi continuare a guardare Montauk?»

Mike si passò una mano sugli occhi.

Poi prese la cornetta del telefono e chiamò la centrale.


Greater New York, USA

Poco dopo Montauk, la Route 27 sfociava nella 495, la Long Island Expressway. Era la via diretta per il Queens. Da Montauk a New York c'erano duecento chilometri e, più ci si avvicinava alla metropoli, più aumentava il traffico. A metà strada, dopo Patchogue, diventava davvero intenso.

Bo Henson gestiva una società di spedizioni e faceva due volte al giorno la tratta di Long Island. A Patchogue aveva ritirato alcuni pacchi dal locale aeroporto e li aveva distribuiti nella zona. Adesso era sulla strada per tornare in città. Si era fatto tardi, ma, per poter essere concorrenziali con società come la FedEx, non si poteva fare gli schizzinosi sugli orari di lavoro. Per quel giorno ormai era quasi finita. Aveva fatto tutto, anche prima di quanto pensasse. Era stanco e si rallegrava all'idea di una birra.

All'altezza di Amityville, a circa quaranta chilometri dal Queens, una macchina davanti a lui cominciò a sbandare.

Henson frenò bruscamente. La macchina si raddrizzò, proseguì lentamente e accese le frecce d'emergenza. Qualcosa ricopriva ampi tratti di strada. Nella luce del crepuscolo, in un primo momento, Henson non riuscì a capire cosa fosse: vide solo che si muoveva e che usciva dai cespugli a sinistra. Poi si accorse che la strada era coperta di granchi. Piccoli granchi, bianchi come la neve. Stretti l'uno all'altro, cercavano di attraversare la strada, ma era un'impresa senza speranza. Tracce fangose e corazze frantumate rivelavano che molti di loro avevano già pagato quel tentativo con la vita.

Il traffico procedeva lentamente. Quella sostanza era come sapone. Henson aveva letto su una rivista che, una volta all'anno, i granchi di terra sulla Christmas Island scendevano dalle montagne e marciavano verso il mare per riprodursi. Ogni anno si mettevano in viaggio cento milioni di granchi. Ma la Christmas Island era nell'oceano Indiano e, sulla rivista, c'erano le fotografie di grandi animali rosso vivo, non di piccoli esseri bianchi.

Henson non aveva mai visto nulla del genere.

Imprecando, accese la radio. Dopo qualche ricerca trovò una stazione locale e si appoggiò allo schienale rassegnandosi al proprio destino. Dolly Parton fece del suo meglio per consolarlo, ma ormai l'umore di Henson era irrimediabilmente rovinato. Ci vollero dieci minuti, poi finalmente arrivò il notiziario, ma l'invasione di granchi non fu neppure menzionata. In compenso, comparve uno spazzaneve che si fece largo tra le automobili, cercando di togliere dalla strada quella robaccia. L'effetto fu il blocco totale. Per un bel po' non si mossero più. Henson provò tutte le possibili stazioni locali, ma nessuno diede notizia di ciò che stava accadendo, e ciò lo rese furibondo, perché si sentiva completamente abbandonato. Il climatizzatore portava all'interno un odore disgustoso, così lo spense.

Dopo l'incrocio che, a sinistra, conduceva a Hempstead e, a destra, a Long Beach, si cominciò a procedere un po' più spediti. Evidentemente gli animali non erano arrivati fin lì. Henson accelerò e raggiunse il Queens un'ora più tardi di quanto avesse sperato. Era furioso. Poco dopo l'East River svoltò a sinistra e superò il Newton Creek per raggiungere la sua birreria abituale, nella zona di Brooklyn chiamata Greenpoint. Parcheggiò il furgone, scese e, quando vide le condizioni del suo mezzo, quasi gli venne un colpo. Pneumatici, parafanghi e fiancate fin sotto i finestrini erano insozzate di fanghiglia di granchio. Una vista orribile… E la mattina seguente doveva cominciare presto il suo giro. Così era impossibile guidare.

Ormai era già tardi. Henson si strinse nelle spalle. La birra poteva aspettare finché non avesse portato il furgone al vicino autolavaggio. Risalì, andò all'autolavaggio tre isolati più avanti e raccomandò al personale di spruzzare bene i cerchioni finché non fosse sparito anche l'ultimo residuo di quella porcheria. Poi disse loro dove avrebbero potuto trovarlo e andò alla birreria per bersi finalmente una birra.

Quell'autolavaggio era noto perché faceva bene e a fondo il suo lavoro. La patina fangosa sul furgone di Henson si rivelò più ostinata del previsto, ma, dopo aver lavorato a lungo con la pompa ad alta pressione, finalmente scivolò via. Il ragazzo che lavava il furgone aveva l'impressione che i frammenti si sciogliessero. Come fantasmi al sole, pensò.

Finì tutto nello scarico.

New York aveva un sistema singolare di canalizzazione. Mentre le gallerie stradali e della metropolitana passavano l'East River a circa trenta metri di profondità, il sistema di tubature dell'acqua potabile e delle fogne raggiungeva anche i duecentoquaranta metri. Con l'aiuto di enormi trivelle, i costruttori di gallerie scavavano nel sottosuolo sempre nuovi canali, in modo che le riserve e gli approvvigionamenti d'acqua di quella metropoli non s'interrompessero bruscamente. Accanto al sistema di tubature, c'era anche una serie di gallerie che non erano più in attività. Gli esperti sostenevano che ormai nessuno era più in grado di dire dove fossero esattamente tutti i canali di New York. Non c'era una carta che rappresentasse tutta la rete. Alcune gallerie erano note solo a determinati gruppi di senzatetto, che tenevano il segreto per sé. Altre avevano ispirato i registi dei film horror, che le avevano trasformate in luoghi di cova per creature mostruose. L'unica cosa certa era che tutto ciò che finiva nelle fogne di New York in un certo senso poteva considerarsi perduto.

Quella sera e nei giorni seguenti, a Brooklyn, nel Queens, a State Island e a Manhattan venne lavata una gran quantità di auto provenienti da Long Island. Gli scarichi finivano nelle viscere della metropoli, si dividevano, s'incontravano con altri scarichi, venivano pompati negli impianti di rigenerazione e ricondotti nei distributori d'acqua. Poche ore dopo che l'autolavaggio aveva riportato a un bianco splendente il furgone di Henson, nelle tubature sotterranee tutto era irrimediabilmente mescolato.

Sei ore dopo sfrecciavano per le strade le prime ambulanze.

11 maggio

Château Whistler, Canada

Coi cambiamenti ci si poteva sempre aggiustare.

Lui almeno ci riusciva. Per quanto soffrisse a causa della perdita della casa, riusciva comunque a vivere. La fine del suo matrimonio aveva dato inizio a quel modo di vedere le cose. Poi c'era stato il trasferimento a Trondheim e l'avvio di nuove relazioni — pochissime, per la verità -, ma nulla l'aveva coinvolto emotivamente. Johanson aveva un concetto ben preciso di benessere e piacere, e tutto ciò che non vi corrispondeva poteva essere tranquillamente consegnato alla pattumiera della storia. Con gli altri condivideva solo la superficie, l'intimità la teneva per sé. Stava bene così.

In quel momento, nelle prime ore del mattino, ripensava agli avvenimenti meno gradevoli del suo passato. Dopo essersi svegliato, era rimasto nel letto, con gli occhi chiusi, a osservare il mondo dalla prospettiva del suo ego smisurato e a riflettere sulle persone che avevano fatto parte della sua vita e che erano crollate di fronte al cambiamento.

Sua moglie.

Col tempo, s'imparava che la vita apparteneva solo a se stessi e che soltanto noi potevamo influenzarla. Ma quando lui l'aveva lasciata, lei aveva dovuto imparare che nulla le apparteneva e che l'autodeterminazione era del tutto illusoria. Aveva cercato di convincerlo a restare, aveva imprecato, gridato, mostrato comprensione, ascoltato pazientemente. Aveva chiesto comprensione e toccato tutti i tasti, ma alla fine era stata piantata. Si era ritrovata impotente, spodestata, gettata fuori dalla loro vita comune come da un treno in corsa. Privata di ogni forza, aveva smesso di credere che i suoi sforzi potessero servire a qualcosa. Aveva perso. La vita era un gioco d'azzardo.

Anche se non mi ami più, non puoi almeno fingere che mi ami ancora? gli aveva detto.

Credi che staresti meglio? le aveva chiesto lui.

No, era stata la sua risposta. Sarei stata meglio se tu non mi avessi mai amato.

Bisognava sentirsi in colpa se i propri sentimenti cambiavano? I sentimenti andavano oltre la colpa o l'innocenza, erano l'espressione di processi biochimici dovuti alle circostanze vissute. Suonava del tutto privo di romanticismo, ma le endorfine avevano sempre trionfato sul romanticismo. Allora, dov'era la colpa? Nell'aver fatto promesse e non averle mantenute?

Johanson aprì gli occhi.

Per lui i cambiamenti erano sempre stati un elisir vitale. Per lei erano la fine della vita. Anni dopo — ormai lui viveva a Trondheim — aveva saputo che lei era finalmente riuscita a scrollarsi di dosso il senso d'impotenza. Aveva ripreso il controllo di se stessa. E, alla fine, lui aveva sentito dire che nella sua vita era rientrato un uomo. In seguito, qualche volta si erano telefonati, senza risentimenti e pretese. L'amarezza si era dissolta, eliminando anche la pressione su Johanson.

Ma adesso era tornata.

Adesso si chiamava Tina Lund e lo perseguitava, con quel viso bello e pallido. Da allora si prefigurava tutte le varianti. Ogni volta ricominciava da capo. L'aver fatto l'amore quella sera al lago, per esempio. Forse sarebbe andato tutto diversamente. Avrebbero passato più tempo insieme. Forse lei l'avrebbe seguito alle Shetland. Altrettanto facilmente, andare a letto insieme avrebbe rovinato tutto e, a quel punto, lui sarebbe stato l'ultimo cui avrebbe chiesto consigli. Per esempio, il consiglio di andare a Sveggesundet. In un caso o nell'altro, Tina sarebbe stata ancora viva.

Continuava a ripetersi che quei pensieri non avevano senso.

Eppure continuavano a girargli nella testa.

Nella stanza entrava la prima luce del sole. Aveva lasciato le tende aperte, com'era sua abitudine. Una camera da letto con le tende tirate gli era sempre sembrata una cripta. Pensò di alzarsi e andare a fare colazione, ma non aveva voglia di muoversi. La morte di Tina lo colmava di tristezza. Non era innamorato, ma in un certo senso aveva amato l'inquietudine di quella donna, la sua spinta verso la libertà. In quello si erano trovati. E su quello si erano persi, perché non aveva senso incatenare insieme due persone libere. Forse erano stati entrambi troppo vigliacchi.

Ma ormai a che cosa serviva rimuginare?

Prima o poi morirò anch'io, pensò. Da quando Tina era scomparsa tra i flutti, Johanson pensava spesso alla morte. Non si era mai sentito vecchio. Ora, però, aveva l'impressione che la provvidenza gli avesse stampato addosso una scritta del tipo DA CONSUMARSI PREFERIBILMENTE ENTRO…, come un vasetto di yogurt che si guardava con attenzione e poi si rimetteva giù, perché la scadenza era imminente. Aveva cinquantasei anni, era in condizioni eccezionalmente buone, che gli avevano permesso, almeno fino ad allora, di sfuggire alla statistica dei casi di morte determinati da incidenti e malattie. Era riuscito addirittura a sopravvivere a uno tsunami. Tuttavia non c'erano dubbi che il suo tempo si stava esaurendo. Aveva alle spalle la maggior parte della sua vita. E improvvisamente si ritrovava a domandarsi se avesse vissuto nel modo giusto.

In quella vita, due donne avevano avuto fiducia in lui, e lui noa era riuscito a proteggerle. La prima era morta e l'altra, al momento, era come se lo fosse.

Karen Weaver era viva.

Gli ricordava Tina Lund. Era chiusa, d'indole più seria e assai meno frenetica. In compenso, era altrettanto forte, decisa e impaziente. Dopo che erano riusciti a sfuggire all'onda gigante, lui le aveva esposto la sua teoria e lei gli aveva spiegato il lavoro di Lukas Bauer. Poi Johanson era tornato in Norvegia e si era ritrovato nell'elenco dei senzatetto, ma gli edifici dell'NTNU erano ancora in piedi. Era stato sommerso dal lavoro, finché non aveva ricevuto una telefonata dal Canada, cosa che gli aveva impedito di andare al lago. La proposta di far entrare nel team Karen Weaver era stata sua, sostenuta dal fatto che lei conosceva meglio di chiunque altro il lavoro di Bauer ed era in grado di svilupparlo. Ma lui aveva anche altri motivi. Senza l'elicottero non sarebbe sopravvissuta all'ondata. In un certo senso, l'aveva salvata. Karen gli dava l'assoluzione per il fallimento con Tina, e lui era deciso a mostrarsene degno. In futuro, si sarebbe curato di lei e per quello era un bene saperla nelle vicinanze.

Alla luce del sole, il passato sbiadì. Johanson si alzò, andò a fare la doccia, e alle 6.30 si presentò al buffet. Scoprì di non essere l'unico mattiniero. Nella sala spaziosa c'erano soldati e agenti segreti che bevevano caffè, mangiavano frutta e muesli e parlavano a bassa voce. Johanson riempì un piatto di pancetta e uova strapazzate e si mise alla ricerca di un volto noto. Gli sarebbe piaciuto fare colazione con Bohrmann, ma non c'era. Vide invece Judith Li seduta a un tavolino a due posti. Sfogliava un classificatore e di tanto in tanto piluccava un pezzo di frutta da una tazza, mettendolo in bocca senza guardare.

Johanson la osservò. Judith Li esercitava su di lui un fascino indefinibile. Valutò che fosse meno giovane di quanto sembrava. Con un po' di make-up e il vestito giusto sarebbe stata senza dubbio al centro di ogni party. Si chiese cosa bisognasse fare per andare a letto con lei, ma probabilmente era meglio non provarci neppure. Judith Li non sembrava un donna disposta a lasciare l'iniziativa agli altri. Inoltre una storia con un generale comandante della Marina americana sarebbe stata davvero troppo.

Judith sollevò la testa. «Buongiorno, dottor Johanson», lo salutò. «Dormito bene?»

«Come un bambino.» Si avvicinò al tavolo. «Come mai fa colazione da sola? La solitudine dei superiori?»

«No, sto rimuginando su alcuni problemi.» Sorrise e lo fissò con quei suoi incredibili occhi acquamarina. «Mi faccia compagnia, dottore. Mi piace avere intorno persone che hanno idee originali.»

Johanson si accomodò. «Cosa glielo fa pensare?»

«È evidente.» Appoggiò i documenti. «Caffè?»

«Volentieri.»

«Lo ha rivelato ieri alla conferenza. Finora nessuno degli scienziati è riuscito a vedere oltre il proprio campo di specializzazione. Shankar si lambicca il cervello sui rumori degli abissi che non riesce a classificare; Anawak si chiede che cosa sia successo alle sue balene… benché, probabilmente, sia l'unico che riesca ad allargare il pensiero oltre la propria sfera di competenza. Bohrmann vede il rischio di un 'massimo incidente ipotizzabile' col metano e cerca di analizzare gli elementi noti e quelli possibili per impedire un secondo smottamento. E così via.»

«Be', non è poco.»

«Ma nessuno di loro ha sviluppato una teoria che metta tutto in relazione.»

«Ora ce l'abbiamo», disse Johanson con aria indifferente. «Sono i terroristi arabi, no?»

«Lo crede anche lei?»

«No.»

«Allora che cosa crede?»

«Credo che avrò bisogno di un paio di giorni prima di dirglielo.»

«Non ne è ancora certo?»

«Quasi.» Johanson sorseggiò il caffè. «Ma è un tema delicato. Il suo Vanderbilt si è convinto che si tratti di terrorismo. Voglio coprirmi le spalle prima di esporre le mie ipotesi.»

«E chi dovrebbe coprirla?»

Johanson appoggiò la tazza del caffè. «Lei.»

Judith Li non sembrò particolarmente sorpresa. Rimase per un momento in silenzio, poi disse: «Se mi vuole convincere di qualcosa, forse dovrei sapere che cos'è».

«Sì.» Johanson sorrise. «Al momento opportuno.»

La donna gli passò il raccoglitore e Johanson vide che conteneva diversi fax. «Forse questo accelererà la sua decisione, dottore. È arrivato stamattina alle cinque. Non abbiamo ancora uno sguardo d'insieme e nessuno è in grado di dire con certezza cosa sia successo, ma ho deciso che, nelle prossime ore, dichiareremo lo stato d'emergenza a New York e nelle zone limitrofe. Peak è già là per coordinare gli interventi.»

Johanson fissò il raccoglitore, immaginando una nuova onda anomala. «Perché?»

«Cosa direbbe se lungo la costa di Long Island stessero uscendo dal mare miliardi di granchi bianchi?»

«Direi che stanno facendo una gita aziendale.»

«Buona idea. Per quale azienda?»

«Che sta succedendo?» disse Johanson, ignorando la sua domanda. «Che cosa fanno?»

«Non ne siamo ancora sicuri. Ma pensiamo a qualcosa di simile agli astici bretoni in Europa. Diffondono un'epidemia. Può rientrare nella sua teoria, dottore?»

Johanson rifletté, poi disse: «Qui in zona c'è un laboratorio chiuso ermeticamente in cui esaminare gli animali?»

«Ne abbiamo allestito uno. A Nanaimo. Ci stanno già portando alcuni esemplari dei granchi.»

«Esemplari vivi?»

«Non so se siano ancora vivi. So soltanto che erano vivi quando sono stati catturati. In compenso sono già morte molte persone. Shock anafilattico. Sembra si tratti di un veleno con effetto ancora più rapido di quello delle alghe diffuse in Europa.»

Per un momento Johanson rimase in silenzio. «Ci vado», disse poi.

«A Nanaimo?» Judith Li annuì, soddisfatta. «Buona idea. E quand'è che mi dirà quello che pensa?»

«Mi dia ventiquattr'ore.»

Judith si morse le labbra e rifletté per qualche secondo. «Ventiquattr'ore. Non un minuto di più», replicò.


Nanaimo, Vancouver Island

Anawak era nella sala riunioni più grande dell'istituto con Ray Fenwick, John Ford e Sue Oliviera. Il proiettore mostrava il modello tridimensionale del cervello di una balena. Sue l'aveva preparato al computer e aveva segnato i punti in cui si trovava la gelatina. Il cervello si poteva osservare da tutte le angolazioni ed era possibile «tagliarlo a fette» per la lunghezza con una lama virtuale. Erano già state proiettate tre simulazioni. La quarta mostrava la sostanza che si diffondeva tra le circonvoluzioni cerebrali con sottili propaggini, che in alcuni punti si spingevano all'interno.

«La teoria è la seguente», cominciò Anawak, con lo sguardo fisso sulla biologa. «Immagina di essere uno scarafaggio…»

«Grazie, Leon.» Sue sollevò le sopracciglia, facendo così sembrare ancora più lungo il suo viso da cavallo. «Tu sì che sai adulare una donna.»

«Uno scarafaggio senza intelligenza e creatività.»

«Continua pure tranquillamente.»

Fenwick rise e si grattò il naso.

«Sei guidata esclusivamente dai riflessi», proseguì Anawak, impassibile. «Per un neurofisiologo, guidarti sarebbe un gioco da ragazzi. Non dovrebbe far altro che controllare i tuoi riflessi e usarli secondo i suoi desideri. Come una protesi. Soprattutto saprebbe dove sono i bottoni da schiacciare.»

«Ricordo male o qualcuno, una volta, ha decapitato uno scarafaggio per impiantargli la testa di un altro?» chiese Ford. «E se non sbaglio la bestiolina aveva ripreso a camminare.»

«All'incirca è così. Hanno decapitato uno scarafaggio e a un altro hanno tolto le zampe. Poi hanno collegato tra loro i sistemi nervosi dei due corpi e lo scarafaggio con la testa ha preso il controllo dell'apparato motorio dell'altro, come se non ne avesse mai avuto uno proprio. È proprio questo quello che voglio dire. Creature semplici, dinamiche semplici. In un altro esperimento, hanno cercato di fare qualcosa di simile coi topi. A un topo è stata trapiantata una seconda testa e lui è vissuto incredibilmente a lungo, qualche ora o addirittura giorni, credo, e le due teste sembravano funzionare in maniera del tutto normale, ma il controllo del corpo, naturalmente, era più complicato. Il topo camminava, però non andava sempre dove voleva e in genere cadeva dopo qualche passo.»

«Disgustoso», mormorò Sue.

«Questo vuol dire che, in fondo, ogni essere vivente può essere controllato. Tuttavia più è complesso, maggiori diventano le difficoltà. Se ora passi all'aspetto della percezione consapevole, dell'intelligenza e del pensiero creativo e legato all'io, imporre a qualcuno la tua volontà diventa maledettamente più difficile. Allora che fai?»

«Cerco di distruggere la sua volontà e di ridurlo a uno scarafaggio. Con gli uomini funziona, quando ci si china davanti a loro senza mutandine.»

«Esatto.» Anawak sorrise. «Infatti esseri umani e scarafaggi non sono così lontani.»

«Certi uomini», osservò Sue.

«Tutti gli uomini. È vero che siamo orgogliosi del nostro spirito libero, ma esso è libero solo finché non schiacci certi bottoni. Per esempio sui centri del dolore.»

«Dunque chi ha ideato la gelatina sa molto bene com'è strutturato il cervello di una balena», intervenne Fenwick. «È questo che stai cercando di dire? Che quella sostanza stimola i centri nervosi del cervello?»

«Sì.»

«Ma bisogna sapere quali.»

«Non è difficile scoprirlo», disse Sue. «Pensa al lavoro di John Lilly.»

«Brava, Sue!» Anawak annuì. «Lilly è stato il primo a impiantare elettrodi nel cervello degli animali per stimolare i centri del dolore e del piacere. Ha dimostrato che, attraverso una manipolazione mirata delle zone del cervello, si possono suscitare negli animali gioia e benessere oppure dolore, rabbia e paura. Con le scimmie i risultati sono stati notevoli. Per quanto riguarda la complessità e l'intelligenza, le scimmie vengono subito dopo balene e delfini, ma ha funzionato. Con l'aiuto degli elettrodi, poteva controllare gli animali fornendo stimoli mirati per la ricompensa e la punizione. Ed era arrivato a quel punto già negli anni '60!»

«Tuttavia Fenwick ha ragione», disse Ford. «Va tutto bene se puoi mettere l'animale sul lettino di una sala operatoria e lavorarci sopra. Ma la gelatina deve essere entrata dalle orecchie o dalla bocca. Inoltre deve aver cambiato la propria forma. Anche se riesci a mettere quella sostanza nella testa di una balena, come puoi essere certo che si disponga nel modo desiderato e… ma sì, schiacci i bottoni giusti?»

Anawak si strinse nelle spalle. Era convinto che la sostanza nella testa delle balene facesse esattamente quello, ma naturalmente non aveva la minima idea di come lo facesse. «Forse non è necessario schiacciare tanti bottoni», rispose dopo un po'. «Forse è sufficiente che…»

La porta si aprì. «Dottoressa Oliviera?» Uno degli assistenti di laboratorio mise dentro la testa. «Mi scusi se la disturbo, ma è richiesta la sua presenza nel laboratorio di massima sicurezza. Immediatamente.»

Sue guardò i colleghi. «Fino a poche settimane fa, non accadevano cose del genere», disse, scuotendo la testa. «Si poteva starsene seduti tranquilli e scambiarsi indisturbati tutte le sciocchezze immaginabili. Adesso sembra di essere in un film di James Bond. Allarme, allarme! Per favore la dottoressa Oliviera nel laboratorio di massima sicurezza! Puah!» Si alzò e batté le mani. «Va bene. Vamos muchachos! C'è qualcuno che mi accompagna? Tanto qui senza di me non farete neppure un passo avanti.»


Laboratorio di massima sicurezza

L'elicottero atterrò di fianco all'istituto poco dopo l'arrivo dei granchi. Un assistente accompagnò Johanson all'ascensore. Scesero due piani e seguirono un corridoio spoglio, illuminato dai neon. L'assistente aprì una porta pesante ed entrarono in una stanza piena di monitor. Solo un cartello di avvertimento sul pericolo biologico appeso a una porta d'acciaio rivelava che là dentro aleggiava la morte. Johanson vide scienziati e personale della sicurezza. Riconobbe Roche, Anawak e Ford, che stavano parlando tra loro a bassa voce. Sue Oliviera e Ray Fenwick erano presi da una conversazione con Rubin e Vanderbilt. Quando Rubin vide Johanson, gli si avvicinò e gli porse la mano. «Non si può mai stare tranquilli, vero?» Rise nervosamente.

«No.» Johanson si guardò intorno.

«Finora abbiamo avuto poche occasioni per confrontarci», disse Rubin. «Mi deve assolutamente raccontare tutto su quei vermi. È terribile che ci si debba conoscere in una simile circostanza, ma in un certo senso tutto questo è entusiasmante… Ha sentito le ultime notizie?»

«Credo di essere qui proprio a causa di quelle.»

Rubin indicò la porta d'acciaio. «Incredibile, vero? Fino a poco tempo fa qui c'erano i magazzini, ma in breve tempo l'esercito ha installato un laboratorio chiuso ermeticamente. Sembra provvisorio, ma non c'è nulla da temere. Gli standard di sicurezza corrispondono al livello L4. Possiamo esaminare gli animali senza rischi.»

L4 era il livello di sicurezza più alto per i laboratori.

«Entra anche lei?» chiese Johanson.

«Io e la dottoressa Oliviera.»

«Credevo che fosse Roche l'esperto di crostacei.»

«Qui tutti sono esperti di tutto.» Jack Vanderbilt e Sue Oliviera si erano avvicinati. L'uomo della CIA aveva un leggero puzzo di sudore. Diede a Johanson una pacca sulla spalla, come se fossero vecchi amici. «Il nostro gruppo di teste d'uovo, con un'intelligenza nove volte superiore alla media, è stato messo insieme in modo che specialisti di tutti i tipi formino una sorta di pizza. Inoltre Judith Li va pazza per lei. Scommetto che passerebbe volentieri con lei giorno e notte per scoprire quello che pensa.» Fece un ampio sorriso. «Oppure vuole qualcos'altro? Chi lo sa?»

Johanson rispose con un sorriso gelido. «Perché non lo chiede direttamente a lei?»

«L'ho fatto», rispose Vanderbilt con indifferenza. «Temo, amico mio, che lei debba rassegnarsi all'idea che Judith Li sia interessata solo alla sua testa. La conosco. È convinta che lei nasconda qualcosa.»

«Davvero? E cosa?»

«Me lo confidi.»

«Io non nascondo niente.»

Vanderbilt lo osservò con sguardo indagatore. «Nessuna teoria entusiasmante?»

«Mi sembra che la sua teoria sia sufficientemente entusiasmante.»

«E lo è finché non salta fuori niente di meglio. Se va subito là dentro, dottore, pensi a qualcosa che noi in America chiamiamo 'sindrome della Guerra del Golfo'. Nel 1991 in Kuwait, l'esercito americano è riuscito a contenere il numero delle perdite, ma, in seguito, circa un quarto di tutti i soldati impegnati laggiù si è ammalato, mostrando misteriosi sintomi che somigliavano, in forma attenuata, a quelli provocati dalla Pfiesteria e dai suoi complici. Vuoti di memoria, problemi di concentrazione, danni agli organi interni… Presumiamo che siano entrati in contatto con qualcosa di chimico, perché operavano nella zona in cui sono esplosi i depositi di armi iracheni. Allora pensavamo al sarin, ma forse gli iracheni stavano lavorando a qualche agente patogeno. Metà del mondo islamico dispone di agenti patogeni. Con la manipolazione genetica non è un problema trasformare innocui batteri o virus in piccoli killer. Armi biologiche.»

«E lei crede che abbiamo a che fare con qualcosa del genere?»

«Io credo che farebbe bene a tirare in barca la zia Li.» Vanderbilt gli strizzò l'occhio. «Detto fra noi, è un po' matta. Capisce? I pazzi bisogna lasciarli fare a modo loro.»

«Non mi è sembrata pazza.»

«È un problema suo. Io l'ho avvisata.»

«Il mio problema è che sappiamo ancora troppo poco», disse Sue e indicò la porta. «Andiamo là dentro e facciamo il nostro lavoro. Ovviamente verrà anche Roche.»

«E io? Non ha bisogno di una guardia del corpo?» rise Vanderbilt. «Mi offro volontario.»

«Molto gentile, Jack», replicò Sue, scrutandolo. «Purtroppo gli abiti della sua misura sono finiti.»

Entrarono in quattro attraverso la porta d'acciaio nella prima delle tre camere di decompressione. Il sistema era concepito in modo che le camere di decompressione si sigillassero l'una dopo l'altra. Una telecamera osservava dal soffitto. Sul lato erano appese quattro tute di protezione gialle coi cappucci trasparenti e con guanti e stivali neri.

«Sapete tutti come si lavora in un laboratorio di massima sicurezza?» chiese Sue.

Roche e Rubin annuirono.

«Teoricamente», ammise Johanson.

«Non c'è problema. In condizioni normali dovremmo farle un corso, ma non abbiamo tempo. La tuta è un terzo della sua assicurazione sulla vita. È fatta con un pezzo unico di PVC. Gli altri due terzi sono prudenza e concentrazione. Aspetti, l'aiuto a indossarla.»

Johanson scivolò in una specie di panciotto che serviva per distribuire uniformemente l'aria all'interno della tuta. Poi infilò la protezione gialla e intanto ascoltava attentamente Sue.

«Non appena saremo dentro, la collegheremo a un tubo flessibile e riempiremo d'aria la tuta. L'aria viene deumidificata, temperata e fatta passare attraverso filtri di carbonio così che l'interno sia pressurizzato, accorgimento indispensabile perché l'aria vada sempre verso l'esterno. L'eccedenza passa attraverso una valvola. Se vuole può regolare l'afflusso, ma non sarà necessario. Tutto chiaro? Come si sente?»

«Comodo come in un paio di mocassini.»

Sue Oliviera sorrise. Passarono la prima paratia. Johanson sentì la voce di Sue attutita e si rese conto che adesso erano collegati per radio. «Nel laboratorio c'è una pressione bassa, — 50 pascal. Le spore non possono uscire. In caso di blackout c'è sempre il generatore d'emergenza, quindi è poco probabile che sorgano problemi. Il pavimento è di cemento sigillato e le finestre di vetro blindato. Tutta l'aria nel laboratorio è mantenuta sterile da filtri ad alta prestazione. Qui non ci sono scarichi, e l'acqua viene sterilizzata all'interno dell'edificio. Col mondo esterno comunichiamo via radio oppure via fax o computer. Tutti i congelatori, i meccanismi di apertura e chiusura sono forniti di allarme, che suona contemporaneamente nella sala di controllo, in Virologia e nella portineria. Ogni angolo è videosorvegliato.»

«È così, se qualcuno di voi cade o muore, c'è un bellissimo video ricordo per i nipoti», intervenne Vanderbilt.

Johanson vide Sue alzare gli occhi al cielo. Passarono la seconda e la terza paratia ed entrarono nel laboratorio. Le loro tute collegate ai tubi sembravano adatte a una missione su Marte. La sala era grande all'incirca trenta metri quadrati e, coi congelatori, frigoriferi e pensili bianchi alle pareti, sembrava quasi la cucina di un ristorante. Accostati a una parete c'erano contenitori d'acciaio delle dimensioni di latte d'olio, in cui erano conservate nell'azoto colture virali e altri organismi. Diversi tavoli offrivano spazio più che sufficiente per il lavoro. Tutto l'arredamento interno aveva gli spigoli arrotondati, in modo da evitare accidentali strappi delle tute. Sue indicò i tre grandi pulsanti rossi con cui si azionava l'allarme, poi condusse i colleghi a uno dei tavoli e aprì un contenitore a forma di bacinella.

Era pieno di piccoli granchi bianchi. Erano in due spanne d'acqua e sembravano privi di vita.

«Merda!» si lasciò sfuggire Rubin.

Sue prese una spatola metallica e toccò gli animali, ma nessuno si mosse. «Morti, direi.»

«È una sfortuna.» Rubin scosse la testa. «Una vera sfortuna. Non avevano detto che ci sarebbero arrivati vivi?»

«Come da ordine del generale comandante Judith Li, quando sono partiti erano vivi», disse Johanson. Si chinò in avanti e osservò attentamente i granchi. Poi batté sull'avambraccio di Sue. «Là, il secondo da sinistra. Ha appena mosso una zampa.»

Sue trasportò il granchio sul tavolo da lavoro. L'animale rimase immobile per qualche secondo, poi si mise improvvisamente a correre velocemente verso il bordo. La biologa lo riportò indietro. Il granchio si lasciò trascinare sul tavolo senza opporre resistenza, poi cercò di nuovo di scappare. Ripeterono quella procedura alcune volte, infine rimisero l'animale nella bacinella.

«Qualche opinione estemporanea?» chiese Sue.

«Dovrei esaminare l'interno», disse Roche.

Rubin si strinse nelle spalle. «Sembra comportarsi normalmente, ma quella specie non l'avevo mai vista. Forse lei, dottor Johanson?»

«No.» Johanson rimase un momento a riflettere. «Non si comporta normalmente. Dovrebbe vedere la spatola come un nemico, quindi aprire le chele e assumere un atteggiamento aggressivo. Mi pare che l'apparato motorio sia a posto, ma non quello sensoriale. È come se…»

«Qualcuno l'avesse caricato», disse Sue. «Come se fosse un giocattolo a molla.»

«Sì, un meccanismo. Cammina come un granchio, ma non si comporta come un granchio.»

«È in grado di determinare la specie?»

«Non sono un tassonomo. Posso dirvi che cosa mi ricorda. Ma dovrete considerarlo con precauzione.»

«Dica.»

«Ci sono due caratteristiche significative». Johanson prese la spatola e toccò alcuni dei corpi senza vita. «La prima è che gli animali sono bianchi, quindi senza colore. I colori non sono una decorazione, hanno una funzione. La maggior parte degli animali privi di colore non ne ha bisogno semplicemente perché nessuno li può vedere. La seconda particolarità è la completa mancanza di occhi.»

«Questo vuol dire che arrivano da caverne o da abissi privi di luce», mormorò Roche.

«Sì. Negli animali che vivono senza luce, gli occhi sono fortemente atrofizzati, ma almeno in forma rudimentale ci sono. Perlomeno si riconosce dov'erano un tempo. Questi granchi, invece… Non voglio dare giudizi precipitosi, però mi danno l'impressione di non aver mai avuto occhi. Se è così, non solo deriverebbero da un mondo completamente buio, ma avrebbero anche avuto origine da esso. Conosco solo una specie di granchi con queste caratteristiche.»

«I granchi ciechi», annuì Rubin.

«E da dove provengono?» chiese Roche.

«Dai camini idrotermali degli abissi», disse Rubin. «Oasi vulcaniche. Sembrano proprio i granchi ciechi.»

Roche aggrottò la fronte. «Ma allora sulla terra non potrebbero sopravvivere neppure un secondo.»

«La domanda è: cos'è sopravvissuto?» disse Johanson.

Sue sollevò dalla bacinella uno dei corpi senza vita, lo girò sul dorso e lo appoggiò sul tavolo da lavoro. Poi prese da un piatto una serie di attrezzi. Passò con una minuscola sega circolare a batteria lungo i fianchi della corazza e immediatamente dall'interno schizzò fuori qualcosa di trasparente, spinto da un'alta pressione. Impassibile, la biologa continuò a tagliare la corazza, sollevò la parte inferiore con le zampe e l'appoggio di fianco.

Tutti fissarono l'animale tagliato.

«Questo non è un granchio», esclamò Johanson.

«No», annuì Roche. Indicò la massa appiccicosa di gelatina vischiosa che riempiva la maggior parte della corazza. «È la stessa robaccia che abbiamo trovato negli astici.»

Servendosi di un cucchiaio, Sue mise la gelatina in un barattolo. «Guardate un po'», disse. «Proprio dietro la testa sembra che ci sia il granchio originario. Vedete le ramificazioni fibrose lungo la schiena? È il sistema nervoso. L'animale aveva ancora tutti i suoi sensi, però erano inutilizzabili.»

«E invece sì», disse Rubin. «La gelatina.»

«Quindi non è un granchio nel vero senso della parola.» Roche si chinò sul recipiente con quella sostanza viscida priva di colore. «La struttura di un granchio. Funzionante, ma non vivente.»

«Questo spiegherebbe perché non si comporta come i granchi. A meno che non identifichiamo la sostanza all'interno come una nuova specie di carne di granchio.»

«Non se ne parla neppure», sbottò Roche. «È un organismo estraneo.»

«Allora è stato questo organismo estraneo a fare in modo che il granchio arrivasse a terra», osservò Johanson. «E dobbiamo riflettere se si è infilato in animali che erano già morti e in un certo senso li ha resuscitati…»

«O se i granchi sono stati allevati così», completò Sue.

Per un po' regnò un silenzio sgradevole. Infine Roche disse: «Qualunque sia il motivo della loro presenza, una cosa è certa: se adesso ci togliessimo le tute, moriremmo in un lampo. Credo che troverete questi animaletti pieni di colture di Pfiesteria, o forse di cose ancora peggiori. In questo laboratorio è contaminata anche l'aria».

Johanson pensò a una cosa che aveva detto Vanderbilt.

Armi biologiche.

Sì, Vanderbilt aveva ragione. Assolutamente ragione. Ma in un modo completamente diverso da quello che credeva.


Karen Weaver

Karen era euforica.

Bastava inserire una password e si aveva accesso a tutte le informazioni immaginabili. Senza l'accesso ai satelliti militari, quello che le veniva offerto avrebbe richiesto mesi di ricerche. Era fantastico! Era seduta sul terrazzo della sua suite, collegata in rete con la banca dati della NASA e concentrata sulla cartografia americana ottenuta col radar.

Negli anni '80, la Marina americana aveva iniziato le ricerche su un fenomeno sorprendente. Geosat, un satellite radar, era stato lanciato in un'orbita vicina al Polo. Non avrebbe dovuto cartografare il fondale marino, anche perché non avrebbe potuto, dato che il radar non attraversava l'acqua. Il compito del Geosat consisteva prevalentemente nel misurare la superficie marina nel suo insieme, con una precisione al centimetro. Si sperava che una scansione di grandi superfici avrebbe mostrato se lo specchio d'acqua — a prescindere da maree e moto ondoso — fosse ovunque allo stesso livello.

Quello che Geosat scoprì superò ogni aspettativa.

Si era sospettato che l'oceano, anche in condizioni di assoluta calma, non fosse perfettamente piatto. Ora, però, si evidenziava una struttura che dava alla Terra l'aspetto di una gigantesca patata gibbosa, piena di ammaccature e gobbe, rialzi e sprofondamenti. Per molto tempo si era ritenuto che le masse d'acqua dei mari fossero equamente suddivise su tutta la Terra, ma adesso la cartografia dava un'altra immagine. A sud dell'India, lo specchio del mare era circa centosettanta metri più basso che al largo dell'Islanda. A nord dell'Australia, il mare si avvolgeva su se stesso a formare una montagna che superava di ottantacinque metri il livello medio. Gli oceani erano letteralmente un paesaggio montuoso, la cui topografia sembrava seguire le linee del paesaggio sottomarino.

Le catene montuose sottomarine e le fosse abissali sembravano imprimersi sulla superficie, variando di alcuni metri l'altezza della superficie.

La conclusione era affascinante. Conoscere la superficie dell'acqua voleva dire conoscere approssimativamente anche l'aspetto di quello che c'era sotto.

Il fenomeno era dovuto alle irregolarità della gravitazione. Una montagna sottomarina aggiungeva massa al fondale, dunque in quel punto la forza di gravità era maggiore che in una fossa abissale. L'acqua veniva allora trascinata sui lati della montagna sottomarina, formando una gobba. Sulle montagne, la superficie del mare s'inarcava; sopra le fosse, sprofondava. Per un po', si notarono alcune eccezioni sconcertanti — per esempio quando l'acqua s'inarcava anche sopra alcune piane abissali -, ma poi si scoprì che le rocce del fondo erano molto pressate e pesanti, così la topografia gravitazionale ritornava ad avere un senso.

La pendenza delle parti concave e delle gobbe era così dolce che a bordo di una nave non si registrava. In effetti, senza la cartografia satellitare nessuno si sarebbe mai accorto del fenomeno. Ma adesso si disponeva di una nuova strada non solo per descrivere la topografia dei fondali marini, ma anche per comprendere la dinamica complessiva degli oceani. Bastava tenere conto di una cosa: ciò che accadeva in superficie era l'effetto di ciò che succedeva sul fondo. Geosat scoprì inoltre che nell'oceano c'erano enormi vortici provocati dalle correnti, vortici con un diametro di centinaia di chilometri. Come col caffè in una tazza che viene mossa in senso circolare, le masse in rotazione formavano al centro una depressione, mentre ai bordi si sollevavano, inarcandosi. Ciò dimostrava che — a parte gli indebolimenti della forza di gravità — anche simili vortici, detti eddies, deformavano la superficie del mare, e a loro volta gli eddies facevano parte di vortici ancora più grandi. Dall'ampio punto di vista dei satelliti per la cartografia, apparve chiaro che tutti gli oceani ruotavano. Giganteschi sistemi ad anello ruotavano in senso orario al di sopra dell'equatore e in senso antiorario a sud, e ruotavano tanto più velocemente quanto più si avvicinavano ai poli.

Così si era compreso un altro principio della dinamica dei mari: la rotazione terrestre influenzava l'intensità della rotazione delle acque.

In quel senso, la Corrente del Golfo non era una corrente vera e propria, ma il bordo occidentale di una gigantesca lente d'acqua che ruotava lentamente. Era uno degli innumerevoli, piccoli vortici che componevano l'enorme vortice che, girando in senso orario, si spingeva contro l'America settentrionale. Poiché il centro dell'enorme vortice non era nel mezzo dell'Atlantico, ma spostato a ovest, la Corrente del Golfo veniva schiacciata contro le coste americane, dove si raccoglieva e s'inarcava. I forti venti e la sua direzione tendenziale verso il polo la acceleravano, mentre l'enorme attrito con la costa la rallentava. Così il vortice nordatlantico manteneva una rotazione stabile, conforme alla spinta ricevuta dall'impulso alla rotazione che rendeva costante un moto circolare finché non veniva disturbato da influssi esterni.

Erano quegli influssi esterni che Bauer credeva di aver riconosciuto, ma senza esserne sicuro. La scomparsa al largo della Groenlandia di vortici attraverso cui l'acqua precipitava negli abissi come una cascata, offriva motivi di preoccupazione, ma non dimostrava nulla. Cambiamenti globali si potevano dimostrare solo con rappresentazioni globali.

Nel 1995, dopo la fine della Guerra Fredda, l'esercito americano aveva reso progressivamente disponibile la cartografia di Geosat. Poi il sistema Geosat era stato sostituito da una serie di satelliti più moderni. Karen Weaver poteva consultare tutti i dati, una documentazione completa raccolta dalla metà degli anni '90. Trascorse ore a mettere in relazione i rilevamenti. I dati differivano in alcuni dettagli — poteva succedere che il radar di un satellite scambiasse una nuvola particolarmente densa per la superficie di un'onda, cosa che ovviamente gli altri satelliti non confermavano -, ma tutto sommato si otteneva sempre lo stesso risultato.

Più andava in profondità, più la sua iniziale eccitazione si trasformava in una profonda inquietudine.

Alla fine si rese conto che Bauer aveva ragione.

I suoi drifter avevano trasmesso per un po', ma era stato impossibile comprendere quale corrente stessero seguendo. Poi erano spariti, l'uno dopo l'altro. Praticamente i dati della spedizione di Bauer non esistevano. Karen Weaver si chiese se lo sfortunato professore avesse capito di avere perfettamente ragione. Sentiva che la sua eredità era affidata a lei. Lui le aveva confidato tutto quello che sapeva e ora lei poteva leggere tra le righe quello che per gli altri non aveva senso. Era sufficiente per vedere la catastrofe incombente.

Rifece ancora una volta tutti i calcoli, sebbene fosse sicura che non ci fossero errori. Ripeté tutta la procedura una seconda volta e poi una terza.

Era ancora peggio di quanto temesse.


Online

Johanson, Oliviera, Rubin e Roche rimasero per alcuni minuti con le loro tute di PVC sotto una doccia di acido peracetico all'1,5 per cento, il cui vapore avrebbe distrutto senza pietà ogni agente patogeno, poi il liquido corrosivo fu lavato via con l'acqua e neutralizzato con una soluzione di soda caustica.

Shankar e la sua équipe lavoravano per codificare i rumori non identificati. Avevano chiesto aiuto a Ford e continuavano ad ascoltare in tutti i modi scratch e gli altri spettrogrammi.

Anawak e Fenwick passeggiavano e discutevano le possibilità di un influsso esterno sul sistema neurale.

Frost, massiccio e gigantesco, era comparso nella suite di Bohrmann col berretto da baseball tirato fino al bordo degli occhiali, e aveva affermato con aria minacciosa: «Ebbene, dobbiamo parlare!»

Dopodiché aveva raccontato a Bohrmann che cosa pensava dei vermi. Era incredibile. I due si erano compresi così bene al primo colpo che in un battibaleno vuotarono diversi boccali di birra ed elaborarono numerosi scenari, tanto inquietanti quanto evidenti. E intanto, attraverso il satellite, si tenevano in contatto con Kiel. Da quando il collegamento Internet era stato ripristinato, Kiel mandava una simulazione dopo l'altra. Suess aveva cercato di ricostruire nella maniera più dettagliata possibile ciò che era successo sulla scarpata continentale norvegese, col risultato che i dati in possesso non giustificavano una catastrofe di quelle dimensioni. Vermi e batteri avevano senza dubbio giocato un ruolo fatale, ma nel puzzle mancava qualcosa, una tessera minuscola, un decisivo fattore scatenante.

«E finché non lo conosciamo continuerà a prenderci per i fondelli, Dio mi è testimone!» affermò Frost. «E finirà per smottare la scarpata continentale anche in America e Giappone.»

Judith Li era seduta davanti al laptop.

Era sola nella sua gigantesca suite eppure era vicina a tutti. Aveva seguito per un po' i lavori nel laboratorio di massima sicurezza e aveva ascoltato quello che dicevano laggiù. Tutti gli spazi dello Château erano sorvegliati da microfoni e telecamere. Lo stesso valeva per Nanaimo, l'University of Vancouver e l'acquario. Alcune delle case private della zona, quelle di Ford, della Oliviera e di Fenwick, erano state riempite di cimici, come pure la barca di Anawak e il suo piccolo appartamento a Vancouver. C'erano occhi e orecchie ovunque, solo quello che si diceva all'aperto, nei bar e nei ristoranti non poteva essere intercettato. Ciò seccava parecchio Judith Li, ma, per sorvegliare costantemente gli scienziati, avrebbe dovuto far impiantare su di loro delle trasmittenti.

Funzionava meglio il controllo della rete interna. Bohrmann e Frost erano online, come pure Karen Weaver, la giornalista, che in quel momento stava confrontando i dati satellitari della Corrente del Golfo. Era molto interessante, come pure le simulazioni provenienti da Kiel. La rete era stata una buona idea. Naturalmente, Judith Li non poteva sapere cosa pensava chi la stava utilizzando. Ma quello su cui stavano lavorando e i dati che richiamavano venivano salvati e potevano essere visionati in ogni momento. Se la teoria terroristica di Vanderbilt fosse stata vera — cosa di cui Judith Li dubitava — allora sarebbe diventato addirittura legittimo spiare ogni singolo componente del gruppo. Sembrava che fossero tutti puliti. Nessuno teneva contatti con associazioni estremistiche o con Paesi del mondo arabo, ma esisteva sempre un margine di rischio. E anche se le ipotesi del vice direttore della CIA si fossero rivelate infondate, era comunque molto utile tenere d'occhio gli scienziati senza che loro se ne accorgessero. Era sempre un bene ottenere subito le informazioni.

Judith Li ritornò su Nanaimo e ascoltò Sigur Johanson e Sue Oliviera mentre andavano all'ascensore. Parlavano delle condizioni di lavoro nel settore di massima sicurezza. Sue osservava che la doccia acida, senza la tuta protettiva, avrebbe lasciato solamente uno scheletro perfettamente pulito, Johanson fece una battuta. Risero e risalirono.

Perché Johanson non rivelava a nessuno la sua teoria? L'aveva quasi fatto. Nella sua camera, parlando con Karen Weaver subito dopo la conferenza. Ma poi si era limitato a fare qualche allusione.

Judith fece una serie di telefonate, parlò brevemente con Peak a New York e guardò l'orologio. Era l'ora del rapporto di Vanderbilt. Lasciò la suite, percorse il corridoio e andò in una sala in fondo all'ala sud dello Château. Corrispondeva alla War Room della Casa Bianca e, come la sala riunioni, era a prova d'intercettazioni. L'attendevano Vanderbilt e due dei suoi uomini. Il vice direttore della CIA era appena tornato da Nanaimo in elicottero e sembrava ancora più sconvolto del solito.

«Possiamo metterci in contatto con Washington?» chiese Judith Li senza salutare.

«Potremmo», disse Vanderbilt. «Ma non servirebbe a niente…»

«Non faccia il misterioso, Jack.»

«… se ha intenzione di mettersi in contatto col presidente. Il presidente non è più a Washington.»


Nanaimo, Vancouver Island

Uscendo dall'ascensore con Sigur Johanson, Sue Oliviera incrociò nell'atrio Fenwick e Anawak.

«Da dove arrivate?» chiese, stupita.

«Siamo andati a fare una passeggiata.» Anawak le strizzò l'occhio. «Vi siete divertiti in laboratorio?»

«Idiota», borbottò Sue. «Sembra che ci siano piombati addosso i problemi dell'Europa. La gelatina nei granchi è la nostra vecchia conoscenza. Roche ha isolato un agente patogeno nascosto nei granchi.»

«Pfiesteria?» chiese Anawak.

«Qualcosa del genere», rispose Johanson. «La mutazione della mutazione, per così dire. La nuova specie è infinitamente più tossica di quella europea.»

«Abbiamo dovuto sacrificare qualche cavia», aggiunse Sue. «Le abbiamo rinchiuse con un granchio morto e sono spirate tutte nel giro di qualche minuto.»

Fenwick fece involontariamente un passo indietro. «Quel veleno è davvero così contagioso?»

«No, mi puoi tranquillamente sbaciucchiare. Non si trasmette da uomo a uomo. Non abbiamo a che fare con un virus, ma con un'invasione batteriologica. Che tuttavia sfugge al controllo non appena la Pfiesteria raggiunge l'acqua e si riproduce in maniera esponenziale quando i granchi sono già morti da un pezzo. Erano morti tutti tranne uno, e ora ci ha lasciati anche quello.»

«Granchi kamikaze», sentenziò Anawak.

«Il loro compito è portare i batteri sulla terra, come il compito dei vermi era portare i batteri nel ghiaccio», disse Johanson.

«Dopo crepano. Meduse, mitili, anche quella gelatina… Niente sopravvive a lungo, ma tutto adempie al proprio scopo.»

«Che sarebbe quello di danneggiarci.»

«Esatto. Anche le balene si comportano come attentatori suicidi», disse Fenwick. «Le aggressioni fanno di norma parte di una strategia di sopravvivenza, come la fuga. Ma una simile strategia non si è mai vista.»

Johanson sorrise. I suoi occhi neri scintillavano. «Non ne sarei così sicuro. Qui è evidente che qualcuno sta seguendo una strategia di sopravvivenza.»

Fenwick lo fissò. «Sembra quasi di sentire Vanderbilt.»

«Sembra. In una cosa Vanderbilt ha ragione; per il resto, io la penso in modo diverso.» Johanson fece una pausa. «Ma scommetto qualsiasi cosa che ben presto Vanderbilt la penserà come me.»


Judith Li

«Che vuol dire?» chiese Judith Li, mentre si sedeva. «Dov'è il presidente?»

«Sta raggiungendo l'Offutt Air Force Base nel Nebraska», disse Vanderbilt. «Sono comparsi banchi di granchi nella Chesapeake Bay e nel Potomac. Evidentemente superano il braccio di mare. Pare che alcuni abbiano raggiunto la terraferma a sud di Alexandria e Arlington, ma non abbiamo ancora la conferma.»

«E chi ha ordinato il trasferimento all'Offutt?»

Vanderbilt scrollò le spalle. «Il capo di stato maggiore alla Casa Bianca teme che la capitale possa subire lo stesso destino di New York», disse. «Lei conosce il presidente. Si è opposto con tutte le forze. Avrebbe preferito uscire e dichiarare guerra personalmente a quelle bestie disgustose, ma alla fine ha dovuto acconsentire al trasferimento. Si dedicherà a una sana vita campagnola.»

Judith Li rifletté. L'Offutt era la sede dello Strategic Command, che sovrintendeva all'arsenale atomico degli Stati Uniti, un luogo ideale per proteggere il presidente. Era nel mezzo della terraferma, lontano da tutti i pericoli che arrivavano dal mare. Da lì, il presidente poteva tenersi in contatto in videoconferenza col consiglio di sicurezza nazionale e sbrigare tutte le sue incombenze di governo. «È stata una decisione affrettata», disse con enfasi. «D'ora in poi, cose del genere le voglio sapere immediatamente, Jack. Se da qualche parte c'è qualcosa che mette la testa fuori dal mare, io lo voglio sapere subito. Anzi, voglio saperlo prima che metta fuori la testa.»

«Dovremmo riuscirci», disse Vanderbilt. «Potremmo instaurare rapporti diplomatici coi capi locali dei delfini e…»

«Inoltre voglio essere immediatamente informata se a qualcuno viene l'idea di spedire il presidente all'Offutt.»

Vanderbilt rise. «Se posso fare una proposta…»

«E voglio che sia fatta chiarezza su quello che è successo a Washington», lo interruppe Judith. «Entro due ore. Se la notizia sarà confermata, evacueremo la zona colpita e trasformeremo Washington in una zona vietata come New York.»

«Era proprio quello che avrei voluto proporre», mormorò Vanderbilt.

«Allora siamo d'accordo. C'è altro per me?»

«Una montagna di merda.»

«A quello ci sono abituata.»

«Appunto. Giacché non volevo farle perdere l'abitudine, mi sono impegnato a trovare il maggior numero possibile di brutte notizie. Cominciamo con questa: la NOAA ha cercato di far scendere due robot lungo la scarpata continentale davanti al Georges Bank per raccogliere altri vermi da esaminare. Questo… ehm… è riuscito.»

Judith Li sollevò le sopracciglia e si appoggiò allo schienale.

«Allora, sono riusciti a raccogliere i vermi», riprese Vanderbilt, gustandosi ogni parola. «Ma non a portarli a bordo. Non appena i robot li hanno messi nel cestino, è arrivato qualcosa che ha tagliato il collegamento. Abbiamo perso i due robot. Dal Giappone arrivano notizie simili. Al largo di Honshu e Hokkaido è andato perduto un batiscafo con uomini a bordo. Anch'essi dovevano prendere dei vermi. Secondo i giapponesi, sono aumentati. Nel complesso la situazione è passata a un altro livello. Finora venivano attaccati solo subacquei, non mezzi sottomarini, sonde e robot.»

«Siamo riusciti a scoprire qualcosa di sospetto?»

«Non proprio. Non c'erano tracce di batiscafi o sonde nemiche, ma, a settecento metri di profondità, la nave della NOAA ha registrato la presenza di una superficie in movimento con un'estensione di diversi chilometri. Il direttore delle ricerche è sicuro al novanta per cento che si tratti di una massa di plancton, ma non ci giurerebbe.»

Judith annuì e pensò a Johanson. Quasi le dispiacque che non fosse lì a sentire la relazione di Jack.

«Seconda notizia, i cavi sottomarini. Sono stati tranciati altri collegamenti, CANTAT-3 e alcuni cavi TAT: tutti i collegamenti più importanti attraverso l'Atlantico. Nel Pacifico, a quanto pare, abbiamo perso PACRIM WEST, uno dei nostri principali collegamenti con l'Australia. Inoltre, negli ultimi due giorni, ci sono stali più incidenti navali che mai, e sempre in zone molto trafficate. È stata colpita la metà delle circa duecento crune dell'ago marittime che conosciamo, in particolare lo stretto di Gibilterra, lo stretto di Malacca e il canale della Manica, ma anche il canale di Panama ha subito qualche… Be', sì, c'è stato qualche incidente, forse non dobbiamo sopravvalutarlo. C'è stata una vera carambola nello stretto di Hormuz e un'altra presso Khalij as-suways, che è… ehm…»

Judith osservò Jack. Sembrava meno cinico e arrogante del solito e in quel momento ne comprese il motivo. «So dov'è», disse. «Khalij as-suways è la propaggine del mar Rosso che sfocia nel canale di Suez. Questo vuol dire che il mondo arabo è stato colpito in due punti vitali del traffico marittimo.»

«Bingo. Problemi di navigazione. Niente di nuovo, insomma. La ricostruzione degli avvenimenti è difficile, ma pare che, nello stretto di Hormuz, sette navi siano finite l'una sopra l'altra perché almeno due di loro avevano perso l'orientamento. Solcometro ed ecoscandaglio non mandavano più dati.»

A bordo di ciascuna di quelle navi, c'erano quattro sistemi vitali: ecoscandaglio, solcometro, radar e anemometro. Mentre radar e anemometro lavoravano al di sopra della linea di galleggiamento, la finestra di fuoriuscita dell'ecoscandaglio era a prua. Come pure il solcometro, un tubo di Pitot con dei sensori integrati, che misurava il flusso d'acqua che veniva verso la nave. Il solcometro informava il sistema radar sulla rotta e sulla velocità della nave e, su quelle basi, il radar calcolava il rischio di collisione con le imbarcazioni nelle vicinanze e offriva rotte alternative. In generale si seguivano alla cieca gli strumenti. Alla cieca perché il settanta per cento dei viaggi marittimi avveniva di notte, con la nebbia o in mare aperto, circostanze in cui un'occhiata dal finestrino non serviva a nulla.

«In un caso è evidente che gli organismi hanno intasato il solcometro», disse Vanderbilt. «Sebbene tutt'intorno il traffico fosse molto intenso, l'apparecchio non indicava più nessuna rotta, così il radar non poteva rilevare il pericolo di collisione. Nell'altro caso, deve essere impazzito l'ecoscandaglio perché indicava una riduzione della profondità, benché la nave fosse in acque profonde. L'equipaggio ha cambiato immediatamente rotta. Il risultato è che tutte e due sono andate a collidere con altre navi e, poiché era già buio, anche altre imbarcazioni sono finite in quella giostra. Simili scherzi sono capitati anche in altre parti del mondo. Qualcuno avrebbe visto delle balene nuotare a lungo sotto le navi.»

«Ovvio», mormorò Judith. «Se per lungo tempo qualcosa di grosso rimane immediatamente sotto l'uscita dell'ecoscandaglio, si può facilmente scambiarlo per terreno.»

«Inoltre si accumulano i casi d'incrostazioni sul timone e sui propulsori laterali. Ovviamente anche di prese a mare intasate. In India è appena affondato un cargo, dopo che settimane d'incrostazioni avevano portato a una corrosione sorprendentemente rapida. Il mare era calmissimo, però il vano di carico anteriore è collassato. Il cargo è affondato nel giro di qualche minuto. E così via. Non finisce più. Tutto peggiora costantemente, e l'epidemia arriva anche sulla terra.»

Judith Li congiunse la punta delle dita e rifletté. Semplicemente ridicolo… Ma, a ben guardare, le navi erano ridicole. Peak aveva evidenziato bene quel punto. Carrette arcaiche, che navigavano con strumenti all'avanguardia, ma aspiravano l'acqua di raffreddamento da un buco. Altrove, i granchi si spingevano in città modernissime, si lasciavano schiacciare e diffondevano nelle fogne tonnellate di alghe velenosissime. Così si era dovuta isolare una città e ora verosimilmente se ne sarebbe dovuta isolare un'altra. E il presidente degli Stati Uniti volava nell'entroterra. «Ci servono quei maledetti vermi», disse Judith. «E dobbiamo intervenire contro le alghe.»

«Ha assolutamente ragione», replicò Vanderbilt, zelante.

Gli uomini di Vanderbilt se ne stavano seduti al suo fianco e fissavano Judith col volto impassibile. In effetti, la proposta sarebbe dovuta partire da lui. Ma a Jack Vanderbilt, Judith Li piaceva ancora meno di quanto lui piacesse a lei. Quindi non avrebbe mosso un dito, aspettando che quella donna si rovinasse con le proprie mani. Ma Judith Li non aveva bisogno di Jack Variderbilt per prendere decisioni.

«Primo: se la notizia è confermata, evacuiamo Washington», disse. «Secondo: voglio che nelle zone colpite sia mandata acqua potabile coi camion cisterna e che sia strettamente razionata. Asciugheremo le fogne ed elimineremo quelle bestie con prodotti chimici.»

Vanderbilt rise. I suoi uomini sogghignarono. «Prosciugare New York? Le fogne?»

Lei lo guardò. «Sì.»

«Buona idea. I prodotti chimici uccideranno tutti i newyorkesi e potremo affittare l'intera città ai cinesi. Ho sentito che c'è un numero inquietante di cinesi…»

«È compito suo trovare le soluzioni, Jack! Io chiederò al presidente di convocare una riunione plenaria del consiglio di sicurezza per dichiarare lo stato d'emergenza.»

«Ah, capisco.»

«Sarà vietato l'accesso a tutte le coste. Manderemo squadre in pattuglia. Forniremo alle truppe tute protettive e lanciafiamme. D'ora in poi, qualunque cosa cerchi di arrivare sulla terra dal mare sarà trattato come se dovesse finire su un barbecue.» Si alzò. «E se abbiamo problemi con le balene, dobbiamo smetterla di reagire come bambini terrorizzati. Voglio che le navi siano sempre pronte all'intervento. Tutte le navi. Staremo a vedere a che cosa porterà un po' di guerra psicologica.»

«Che cos'ha in mente, Jude? Vuole cercare di convincere gli animali?»

«No.» Judith Li fece un sorriso cupo. «Voglio cacciarli, Jack. Voglio dar loro una lezione. Darla alle balene e a chi ha condizionato il loro comportamento. La politica protezionistica nei confronti della natura è finita.»

«Vuole inimicarsi l'IWC, la commissione internazionale per la caccia alle balene?»

«La smetta. Colpiremo le balene coi sonar finché non la smetteranno di attaccarci.»


New York, USA

Un uomo crollò a terra e morì davanti ai suoi occhi.

Peak sudava sotto la pesante tuta protettiva. Respirava attraverso una maschera a ossigeno e, dietro lo schermo di vetro blindato, vedeva una città che, da un giorno all'altro, si era trasformata in un inferno.

Il sergente al suo fianco guidava lentamente la jeep sulla 1st Avenue. L'East Village appariva totalmente deserto. Incontrarono altri gruppi di persone scortati dai militari. Il problema principale era che non si poteva lasciar andare nessuno finché non si aveva l'assoluta certezza che l'epidemia non fosse contagiosa. Al momento non sembrava. Gli effetti somigliavano molto a quelli di un attacco coi gas. Ma Peak era scettico. Si era accorto che le vittime mostravano ferite grandi come una moneta. Se erano davvero le alghe killer ad aver infestato New York, non trasudavano solo una nube tossica, ma si attaccavano anche ai corpi delle vittime. Teoricamente era possibile trovarle in tutti i liquidi corporei. Peak non era un biologo, ma si domandava che cosa sarebbe successo se un malato avesse baciato una persona sana, passandole della saliva. Le alghe vivevano nell'acqua, sopportavano un ampio spettro di temperature e, per quello che ne sapeva, si riproducevano a velocità impressionante.

Stavano lavorando febbrilmente per mettere in quarantena gli abitanti di New York e Long Island, sia i sani sia i malati. All'inizio erano stati ottimisti. Dopo il primo attacco al World Trade Center, nel 1993, il sindaco aveva dato vita a un ufficio speciale per tutti i tipi di emergenze, l'Office of Emergency Management, abbreviato in OEM. Alla fine degli anni '90, era stata allestita la più grande esercitazione nella storia della città, simulando un attacco con armi chimiche. Seicento poliziotti, pompieri e agenti dell'FBI in tute protettive avevano «salvato» gli abitanti di New York. L'esercitazione si era svolta al meglio e il senato aveva generosamente concesso nuovi finanziamenti: quindici milioni di dollari con cui l'OEM aveva costruito un bunker a prova di bomba, dotato di un sistema di aerazione autonomo, in cui oltre quaranta collaboratori superspecializzati erano in attesa del vero giorno del giudizio. Era stato costruito poco prima dell'll settembre 2001 e si trovava al ventitreesimo piano del World Trade Center. Dopo il crollo delle Torri Gemelle, la struttura dell'OEM era stata rivista ed esso era ancora in fase di riorganizzazione e quindi non poteva fronteggiare le emergenze. Inoltre le persone si ammalavano e morivano in fretta, prima ancora che qualcuno potesse aiutarle.

La jeep evitava i morti e si avvicinava all'incrocio con la 14th Street. Molte auto suonavano il clacson selvaggiamente. La gente cercava di lasciare la città, ma non sarebbe andata lontano. Era tutto chiuso. Per ora l'esercito aveva sotto controllo solo Brooklyn e alcuni quartieri di Manhattan, ma nessuno poteva più lasciare New York senza un permesso speciale.

Proseguirono lungo i posti di blocco militari. Nella città si muovevano centinaia di soldati. Dietro le loro maschere antigas, goffi e privi di forma nelle tute ABC gialle, sembravano invasori extraterrestri senza volto. Ovunque si caricavano corpi su barelle, veicoli militari e ambulanze. Molti giacevano nelle strade. Nel centro della città non si riusciva più a passare, perché le auto che si erano scontrate e quelle abbandonate bloccavano le corsie. Il costante rombo degli elicotteri risuonava tra i grattacieli.

L'autista di Peak salì rumorosamente sul marciapiede con la jeep e ne percorse un tratto, fermandosi a un centinaio di metri dal Bellevue Hospital Center nei pressi dell'East River, dov'era stato allestito il comando provvisorio dell'unità d'intervento. Peak si affrettò a entrare. L'atrio era pieno di gente. Percepì gli sguardi terrorizzati e accelerò il passo. Alcune persone gli misero davanti le foto dei loro cari. Era investito da urla. Affiancato da due soldati, passò il posto di blocco interno e marciò verso il centro di calcolo dell'ospedale, dove gli misero a disposizione un collegamento satellitare a prova d'intercettazione con lo Château Whistler. Dopo qualche minuto di attesa, Judith Li era in linea. Non le diede il tempo di pronunciare neppure una parola. «Abbiamo bisogno di un antidoto. E il più presto possibile.»

«Nanaimo sta lavorando a pieno ritmo», rispose lei.

«Sono troppo lenti. Non possiamo tenere sotto controllo New York. Ho visto i progetti delle canalizzazioni… Si tolga dalla testa di svuotarle. Sarebbe come svuotare il Potomac.»

«Riuscite a provvedere alle cure mediche?»

«E come? Non possiamo curare nessuno, non sappiamo neppure cosa possa essere d'aiuto. Ci limitiamo a fornire medicine che rafforzano il sistema immunitario e a sperare che l'agente patogeno muoia.»

«Mi ascolti, Sal», disse Judith. «Prenderemo la situazione in pugno. Possiamo affermare con una sicurezza quasi del cento per cento che la tossina non si trasmette. Praticamente non c'è il rischio che i malati siano contagiosi. Dobbiamo eliminare quelle bestiacce dalle canalizzazioni, bruciarle, cauterizzarle o qualunque cosa ci sia da fare.»

«Allora cominci», sbottò Peak. «Non servirà a nulla. La nube di veleno sulla città è il problema minore perché, all'aperto, il vento disperde le tossine. Ma, nel frattempo, in ogni casa è stata fatta scorrere l'acqua, ci si è fatta la doccia, si è lavato, bevuto, ci si è occupati del pesciolino rosso, o di chissà cos'altro. Le macchine sono state lavate, i pompieri hanno spento gli incendi. Queste alghe si sono diffuse in tutta la città, impestano l'aria all'interno delle case e si sono piazzate nei climatizzatori e negli impianti di aerazione. Anche se non arrivasse più nemmeno un granchio, non saprei comunque come fermare la riproduzione delle alghe.» Prese fiato. «Mio Dio, Jude, negli Stati Uniti ci sono seimila ospedali, ma pochissimi sono preparati a una simile evenienza! Non ci sono cliniche in grado d'isolare una simile quantità di pazienti e mancano i medici specializzati. Il Bellevue è disperatamente pieno, ed è un ospedale maledettamente grande.»

Judith rimase per qualche istante in silenzio, poi disse: «Bene. Ecco cosa bisogna fare. Trasformi Greater New York in un carcere gigantesco. Nulla e nessuno deve uscire».

«Ma qui non possiamo fare niente per la gente. Moriranno tutti.»

«Sì, è terribile. Fatelo per gli altri, per quelli che sono fuori di lì. Trasformate l'intera zona di New York in un'isola.»

«E come?» gridò Peak, disperato. «L'East River si estende verso l'interno.»

«Per l'East River ci faremo venire in mente qualcosa. Per ora…»

In quel momento accadde qualcosa.

Più che sentire l'esplosione, Peak la percepì. Il pavimento tremò sotto i suoi piedi. Un cupo rimbombo sembrò pervadere l'aria. Le onde sonore percorsero tutta Manhattan come un terremoto.

«È esploso qualcosa», disse Peak.

«Vada e s'informi. Tra dieci minuti voglio un rapporto.»

Peak imprecò e corse alla finestra, ma non vide nulla. Fece un cenno ai suoi uomini, uscì dal centro di calcolo e percorse il corridoio verso la parte posteriore dell'ospedale. Da lì poteva vedere l'East River, Brooklyn e il Queens.

Guardò verso sinistra, seguendo il corso del fiume.

Molte persone correvano verso l'ospedale. A circa un chilometro, vide salire in cielo un gigantesco fungo di fumo. Da quelle partì c'era il quartier generale delle Nazioni Unite. In un primo momento, Peak pensò che fosse saltato in aria. Poi si rese conto che la nube saliva da un punto più all'interno della città.

Si levava dall'accesso del Queens Midtown Tunnel, che passava sotto l'East River e collegava il Queens con Manhattan.

Il tunnel era in fiamme.

Peak pensò alle macchine ferme ovunque, incastrate l'una nell'altra, finite nelle vetrine o contro i lampioni perché gli uomini alla loro guida erano stati infettati e avevano perso i sensi. Intuì che cos'era successo nel tunnel. Era l'ultima cosa di cui avevano bisogno in quel momento.

Ritornò di corsa nell'edificio, attraversò l'atrio e raggiunse la sua jeep sulla 1st Avenue. Era difficile muoversi con la tuta protettiva, perché bisognava stare attenti a non impigliarsi in qualcosa e a non strapparla. Comunque riuscì a infilarsi nella jeep aperta, che partì subito a tutta velocità.

In quel preciso istante, al terzo piano dell'ospedale, morì Bo Henson, lo spedizioniere che voleva fare concorrenza alla FedEx. I coniugi Hooper erano già morti da alcune ore.


Vancouver Island, Canada

«Cosa diavolo state facendo al Whistler?»

Avrebbe dovuto essere un ritorno temporaneo nella normalità, ma naturalmente non era stato così. Dopo giorni di assenza, Anawak si trovava nella Davies Whaling Station e guardava Tom Shoemaker e Alicia Delaware che, per l'occasione, si erano scolati due lattine di Heineken. Dato che non c'erano state richieste per fare escursioni nell'entroterra, Davie aveva temporaneamente chiuso la stazione. Nessuno aveva voglia di osservare gli animali. Se le balene erano andate fuori di testa, cosa mai poteva succedere agli orsi bruni? Se l'Europa era stata travolta da uno tsunami, cosa rischiava la costa del Pacifico? La maggior parte dei turisti aveva lasciato Vancouver. Shoemaker continuava a svolgere il ruolo di direttore amministrativo, almeno finché era possibile.

«Vorrei proprio sapere che cosa fate», continuò a brontolare.

Anawak scosse la testa. «Smettila, Tom. Ho promesso di tenere la bocca chiusa, quindi parliamo d'altro.»

«Perché tutte queste scene? Perché non puoi dire a cosa state lavorando?»

«Tom…»

«Vorrei sapere se devo portare il mio culo via da qui», continuò Shoemaker. «A causa di uno tsunami o di qualche altra diavoleria.»

«Nessuno parla di uno tsunami.»

«No? Stronzate! Anche se voi non dite niente, si è diffusa la voce che potrebbe succedere. La gente non è cretina, Leon. Da New York arrivano sconcertanti storie horror di un'epidemia, in Europa la gente muore, le navi spariscono… Tutte queste cose non restano nascoste.» Si chinò in avanti e fece un cenno ad Anawak. «Voglio dire, abbiamo salvato insieme la gente della Lady Wexham. C'ero anch'io sulla barca. Sono un iniziato, capisci? Appartengo alla cerchia ristretta.»

Alicia bevve una lunga sorsata dalla lattina e si asciugò la bocca. «Non seccare Leon. Se lo hanno blindato, lo hanno blindato.»

Portava un nuovo paio di occhiali, con le lenti rotonde color arancione. Anawak si accorse che aveva fatto qualcosa ai capelli. Erano meno ricci e le cadevano sulle spalle in onde che sembravano di seta. A dire la verità, era carina, nonostante i denti troppo grandi. Molto carina, addirittura.

Shoemaker sollevò le braccia e le fece ricadere in grembo con un gesto sconsolato. «Dovete prendermi con voi. Davvero, Leon. Potrei essere d'aiuto. Qui non posso fare altro che gironzolare e togliere la polvere dalle guide.»

Anawak annuì. Si sentiva a disagio perché non poteva rivelare nulla. Quel ruolo non faceva per lui. L'aveva recitato per anni nelle sue questioni private, e ormai cominciava a dargli sui nervi ogni forma di mistero. Si chiese se non fosse il caso di parlare del suo lavoro allo Château. Ma non aveva dimenticato lo sguardo di Judith Li. Si era dimostrata comprensiva e gentile, ma era certo che, se lo fosse venuta a sapere, avrebbe scatenato un casino infernale.

Probabilmente aveva ragione lei.

Fece vagare lo sguardo nel negozio. Di colpo si accorse che, nel giro di pochi giorni, la stazione gli era diventata completamente estranea. Quella non era la sua vita. Dalla sua riconciliazione con Greywolf, molte cose erano cambiate. Anawak intuiva che davanti a lui c'era qualcosa di decisivo, qualcosa che avrebbe ribaltato completamente la sua esistenza. Si sentiva come un bambino su un ottovolante: improvvisamente si rendeva conto che il vagone si era messo in moto e iui non poteva più scendere. Il timore — talvolta persino il terrore — si univa a un'euforia indescrivibile e a un senso di attesa pieno di curiosità. La stazione lo aveva rinchiuso in una sorta di bastione e adesso gli sembrava di essere all'aperto, nudo e senza protezioni. Era come se nella sua vita mancasse uno spazio, una porta che conducesse nella stanza vicina, consentendo di chiudere fuori il mondo. Sentiva su di sé una pressione molto intensa, forse addirittura eccessiva, violenta. «Dovrai continuare a spolverare le tue guide», disse. «Sai bene che il tuo posto è qui e non in un gruppo di esperti, dove saresti immediatamente annientato se solo provassi ad aprire bocca. Senza di te, Davie sarebbe finito.»

Shoemaker lo guardò. «Non fingi nemmeno di darmi una piccola motivazione?» chiese.

«No. A quale scopo? Sono io quello che deve tenere la bocca chiusa e non può raccontare nulla ai suoi amici. Perché non provi a motivarmi tu?»

Shoemaker rigirò tra le mani la lattina di birra. Poi sorrise. «Quanto resti?»

«Finché voglio», rispose Anawak. «Ci trattano come pascià, abbiamo a disposizione l'elicottero ventiquattr'ore su ventiquattro. Devo solo chiamare.»

«Accidenti, ti leccano davvero il culo!»

«Sì, lo fanno. In compenso si aspettano che ottenga dei risultati. Probabilmente dovrei essere a Nanaimo o all'acquario o da qualche altra parte a lavorare, però volevo vedervi.»

«Puoi lavorare anche qui. Okay, ti do una motivazione. Stasera vieni a cena da me. Avrai una bistecca gigante. La cucinerò io stesso finché non sarà bella e gustosa come il peccato.»

«Mi sembra un'idea invitante», intervenne Alicia. «A che ora?»

Shoemaker le lanciò un'occhiata indefinibile. «Anche tu puoi venire», disse.

Lei non rispose. Anawak si chiese che cosa fosse successo durante la sua assenza, ma preferì lasciar perdere e promise di arrivare alle sette. Poco dopo, la compagnia si sciolse. Shoemaker si mise in viaggio per Ucluelet, dove avrebbe incontrato Davie. Anawak percorse la strada principale verso la sua barca, in compagnia di Alicia. Era contento che lei fosse lì. In un certo senso, quella seccatrice gli era mancata.

«Cosa voleva dire Tom?» le chiese.

Alicia finse di non capire. «Di che parli?»

«Dell'invito per la bistecca. Dal modo in cui l'ha detto sembrava non gradire la tua compagnia.»

Alicia era imbarazzata. Arrotolò intorno alle dita una ciocca di capelli e arricciò il naso. «Sì, nei giorni scorsi è successa una cosa. Lo sai anche tu, la vita riserva sempre qualche sorpresa, no? E talvolta si rimane di stucco.»

Anawak si fermò e la guardò. «E allora?»

«Allora… Ricordi il giorno in cui sei andato a Vancouver? Be', non tornavi più… Insomma, sei sparito per tutta la notte! Non sapevamo dove fossi e ci siamo preoccupati. Tra gli altri anche, ehm… Jack. Allora, Jack mi ha chiamato e mi ha detto che in realtà voleva chiamare te, ma che non c'eri e…»

«Jack?» chiese Anawak.

«Sì.»

«Greywolf? Jack O'Bannon?»

«Ha detto che vi eravate parlati», proseguì Alicia, prima che lui potesse aggiungere altro. «E deve essere stata proprio una bella conversazione. In ogni caso, lui ne era contento e voleva solo chiacchierare un po' con te, almeno credo, e…» Guardò Anawak negli occhi. «È stata davvero una bella chiacchierata, vero?»

«E se non lo fosse stata?»

«Allora sarebbe proprio stupido, perché…»

«Okay, va bene. È stata una bella chiacchierata. Ora, saresti così gentile da venire al punto?»

«Ci siamo messi insieme», sbottò Alicia.

Anawak aprì la bocca e poi la richiuse.

«Te l'avevo detto che talvolta si rimane di stucco! È venuto a Tofino. Gli avevo dato il mio numero e tu sai che in un certo senso lo trovo… cioè, che in un certo senso condivido il suo punto di vista e…»

Anawak si sforzò di non ridere. «Che c'è una certa comprensione, naturalmente.»

«Be', insomma, è arrivato. Abbiamo bevuto qualcosa allo Schooners e poi siamo andati al pontile. Mi ha raccontato tutto di sé, io gli ho raccontato di me, come succede di solito, si chiacchiera, si chiacchiera e poi improvvisamente… bum… Sai com'è.»

Anawak iniziò a sghignazzare. «E Shoemaker non è contento, eh?»

«Odia Jack!»

«Lo so. Non puoi fargliene una colpa. Che improvvisamente Greywolf ci sia diventato caro — a te in particolare — non cambia il fatto che si sia comportato da bastardo. Per anni, se proprio vuoi saperlo. Lui è un bastardo.»

«Non più di quanto lo sia tu», ribatté lei.

Anawak annuì. Poi si mise a ridere. Con tutte le disgrazie che erano piombate sul mondo, rise della storia d'amore di Alicia, di se stesso e del suo rancore contro Greywolf, che in realtà era solo la rabbia per un'amicizia perduta. Ma rise anche della sua vita degli ultimi anni, della sua esistenza cupa e disperata. Rise di se stesso fino al punto da sentire dolore, e ne provò piacere.

Rideva sempre di più.

Alicia inclinò il capo e lo guardò, sbalordita. «Che c'è da sghignazzare in quel modo?»

«Hai ragione», disse Anawak tra le risate.

«Che vuoi dire con 'hai ragione'? Sei andato fuori di testa?»

Sentì che il suo attacco di euforia si trasformava in una risata isterica, ma non poté farci niente. Era scosso dalle risate. Non riusciva a ricordare l'ultima volta che aveva riso in quel modo. Ammesso che avesse mai riso così. «Ah, sei impagabile», boccheggiò. «Hai maledettamente ragione. Bastardo. Esatto! Tutti noi. E tu stai con Greywolf. Non ci posso credere. Oh, Cristo!»

Alicia socchiuse le palpebre. «Mi stai prendendo in giro?»

«No, certo che no», ridacchiò lui.

«E invece sì.»

«Ti giuro che è solo…» Improvvisamente gli venne in mente una cosa. E si chiese perché non gli fosse venuta in mente prima. La sua risata si spense. «Dov'è Greywolf?»

«Non lo so. Forse a casa.»

«Jack non è mai a casa. Ma non siete insieme?»

«Mio Dio, Leon! Non ci siamo sposati. Ci divertiamo e ci siamo presi una cotta, ma non è che io controlli ogni suo passo.»

«No», mormorò Anawak. «A lui non andrebbe bene.»

«Perché me lo chiedi? Gli vuoi parlare?»

«Sì.» La prese per le spalle. «Licia, ascoltami. Devo sistemare alcune faccende private. Cerca di scovarlo. Prima di stasera, in modo che a Shoemaker non vada di traverso la cena. Digli che… mi farebbe piacere vederlo. Sì, davvero! Ne sarei felice. Ho letteralmente nostalgia di lui.»

Alicia sorrise, incerta. «Va bene. Glielo dirò.»

«Sei gentile.»

«Voi uomini siete strani. Davvero, caro mio. Siete davvero due scimmie ridicole.»

Anawak andò sulla sua barca, guardò la posta e fece un salto allo Schooners, dove bevve un caffè e chiacchierò coi pescatori. Durante la sua assenza, due uomini avevano avuto un incidente in canoa ed erano morti. Si erano arrischiati a uscire in mare nonostante il divieto. Nemmeno dieci minuti dopo, erano stati attaccati da un'orca. Più tardi, i resti di uno dei due erano riemersi, ma dell'altro non c'era traccia. E nessuno voleva andarlo a cercare.

«Non è un problema loro», disse uno dei pescatori. Stava parlando dei gestori dei grandi cargo, dei traghetti, delle navi fabbrica e della Marina militare. Beveva la sua birra con l'accanimento di chi crede di aver trovato i colpevoli e non permette a niente e a nessuno di addossargli la responsabilità per la sua disperazione. Poi guardò Anawak come se si aspettasse da lui una conferma.

Invece è un problema loro più di quanto tu possa immaginare… Infatti non è che alle loro navi vada meglio, fu tentato di rispondere Anawak. Invece tacque. Non poteva rendere noto il quadro generale, e la gente di Tofino vedeva solo la propria fetta di mondo. Non conosceva le statistiche sull'incremento dei gravi incidenti di cui Peak aveva informato l'unità di crisi.

«Ma, ragazzo mio, per quelli capita tutto al momento giusto!» brontolò l'uomo. «Le grandi flotte di pescherecci stavano già estendendo il loro monopolio, e ora capita questo. Ci hanno portato via tutto quello che ci dava da vivere, e ora ci prendono anche il resto, perché noi piccoli non possiamo più uscire in mare.» Dopo una seconda sorsata dal suo bicchiere, aggiunse: «Dobbiamo far fuori quei maledetti cetacei. Dovremmo far vedere loro chi comanda».

Ovunque era la stessa storia. Nelle poche ore trascorse a Tofiao, aveva sentito le medesime rivendicazioni.

Uccidiamo le balene.

Era stato tutto inutile? Anni di fatiche per riuscire a strappare qualche misera, farraginosa legge? A modo suo, il pescatore frustrato dello Schooners aveva colto nel segno. Dal punto di vista dei piccoli pescatori, quei tragici avvenimenti portavano vantaggi solo ai grandi, perché ormai solo le navi fabbrica potevano percorrere le zone di pesca. E quelli che non avevano mai sopportato i decreti della commissione per la caccia alle balene con le loro rigide quote di pescato e i divieti di caccia, finalmente erano legittimati a riprendere a cacciare.

Anawak pagò il suo caffè e tornò alla stazione. Il negozio era vuoto. Si mise comodo dietro un tavolo, accese il computer e cercò sul web i siti dei programmi militari di addestramento dei mammiferi marini. Era sfiancante. Diverse pagine non potevano essere richiamate. Mentre allo Château aveva accesso a ogni informazione desiderata, la rete aperta soffriva sempre di più a causa dell'interruzione dei cavi sottomarini.

Ma non si lasciò scoraggiare. Trovò la homepage dell'US Navy's Marine Mammal Program, riguardante il lavoro sui mammiferi marini, però le informazioni erano quelle che aveva già visto allo Château. Tutti i migliori giornalisti investigativi avevano scritto dozzine di articoli. Chiuse la pagina e continuò a cercare. Poco dopo, trovò la notizia di un progetto militare dell'ex Unione Sovietica che sembrava molto promettente. Durante la Guerra Fredda, molti delfini, leoni marini e beluga erano stati addestrati per il ritrovamento di mine e di missili andati perduti e per proteggere la flotta nel mar Nero. Dopo il crollo dell'Unione Sovietica, gli animali erano stati portati nell'acquario di Sebastopoli, nella penisola di Crimea, per esibirsi in numeri da circo, finché i proprietari non avevano finito i soldi per il cibo e i medicinali ed erano stati costretti a scegliere se ucciderli o venderli. Alcuni animali erano stati usati nei programmi terapeutici per bambini autistici. Gli altri erano stati venduti all'Iran. E là le loro tracce si perdevano, dal che si poteva presumere che fossero diventati oggetto di nuovi esperimenti militari.

Evidentemente i mammiferi marini avevano vissuto una sorta di rinascita all'interno dei programmi di strategia bellica. Durante la Guerra Fredda, tra Stati Uniti e Unione Sovietica c'era stata una vera e propria corsa agli armamenti, che aveva finito per coinvolgere anche l'efficientissima squadra dei mammiferi marini. Con la fine di quel periodo, sembrava finito anche lo spionaggio coi delfini, ma alla rissa tra le superpotenze non era seguito un ordine mondiale migliore. Il conflitto israelo-palestinese era sfuggito al controllo, destabilizzando tutta la regione. Lontano dagli occhi di tutti, cresceva una nuova generazione di terroristi capace di sabotare le navi da guerra americane. Innumerevoli conflitti internazionali finivano con mine lasciate in acqua, siluri andati perduti e costosissime attrezzature affondate che dovevano essere recuperate. E si era scoperto che, per le operazioni di recupero, i delfini, i leoni marini e i beluga erano molto più adatti dei sommozzatori o dei robot. Nella ricerca delle mine, per esempio, i delfini si erano dimostrati dodici volte più efficienti degli uomini. I leoni marini delle basi militari americane di Charleston e San Diego avevano avuto una percentuale di successo del novantacinque per cento. Sott'acqua, gli uomini potevano lavorare soltanto rinchiusi dentro qualcosa; inoltre avevano un pessimo senso dell'orientamento e, una volta risaliti, dovevano trascorrere ore nelle sale di decompressione. I mammiferi marini, invece, operavano nel loro elemento naturale. I leoni marini riuscivano a vedere anche se le condizioni erano pessime. I delfini erano in grado di orientarsi anche nel buio assoluto grazie al loro sonar, una raffica di vocalizzazioni, dalla cui eco riuscivano a ricavare con precisione incredibile posizione e forma degli oggetti. I mammiferi marini s'immergevano dozzine di volte al giorno a profondità di centinaia di metri. Una piccola squadra di delfini sostituiva navi da milioni di dollari, sommozzatori, equipaggi e strumenti. E sempre — quasi sempre — gli animali tornavano indietro. In trent'anni, la Marina americana aveva perso solo sette delfini.

Così i programmi di addestramento americani erano stati riavviati, con nuovi finanziamenti. Dalla Russia arrivavano notizie dei primi sforzi per riprendere il lavoro coi mammiferi marini. Un'attività che si era avviata pure in India e nel Medio Oriente.

Che Vanderbilt avesse ragione?

Anawak era convinto che, nelle profondità del web, si potessero trovare informazioni che non comparivano sul sito ufficiale della Marina americana. Non era la prima volta che sentiva parlare di esperimenti fatti dai militari per controllare balene e delfini. Non si trattava di un classico addestramento, ma di ricerche neurali, come quelle iniziate tempo prima da John Lilly. In tutto il mondo, i militari rivelavano un interesse incontenibile per il sonar dei delfini, perché era nettamente superiore a ogni sistema umano. Però non si era ancora riusciti a comprenderne il funzionamento. Tutto lasciava intendere che, nel recente passato, fossero stati fatti esperimenti che andavano ben oltre quanto si era disposti ad ammettere in via ufficiale.

Nel web avrebbe potuto trovare la spiegazione al comportamento delle balene.

Per il momento, tuttavia, il world wide web taceva.

Taceva insistentemente, interrotto da distacchi e mancate connessioni. Tacque per tre ore, e Anawak era ormai sul punto di rinunciare. Gli occhi gli bruciavano. Non aveva più voglia e la concentrazione si era allentata, tanto che quasi gli sfuggì una breve notizia del Earth Island Journal. Il titolo diceva: «La Marina statunitense responsabile dei delfini morti?»

Il giornale era pubblicato dall'Earth Island Institute, un gruppo ambientalista che si occupava della protezione della natura in forme nuove e conduceva diversi progetti. I suoi membri partecipavano alla discussione sul clima e avevano rivelato alcuni scandali ambientali. Gran parte del loro lavoro riguardava la vita negli oceani e specialmente la protezione dei cetacei.

L'articolo citava alcuni fatti risalenti all'inizio degli anni '90, quando, sulla costa francese del Mediterraneo erano stati ritrovati sedici delfini morti. Tutti i cadaveri mostravano le stesse ferite misteriose. Un buco grande come un pugno sulla nuca, una ferita così pulita che si vedevano le ossa del teschio. Allora, nessuno era stato in grado di spiegare che cosa avesse provocato le ferite, ma senza dubbio era quella la causa della morte degli animali. Tuttavia, giacché quella strage era avvenuta durante la prima crisi del Golfo, mentre le navi americane incrociavano nel Mediterraneo, l'Earth Island Institute aveva messo in relazione le ferite con esperimenti segreti della Marina statunitense, che si sospettava fossero iniziati proprio in quel periodo. Esperimenti che non avevano avuto il risultato sperato, e dunque tenuti nascosti.

«Qualcosa deve essere andato spaventosamente storto», scriveva il giornale.

Anawak stampò il testo e cercò nell'archivio altri articoli sull'argomento. Era così concentrato nel suo lavoro che quasi non si accorse che la porta si era aperta. Solo quando il suo campo visivo si oscurò, sollevò lo sguardo, scorgendo un ventre muscoloso e un petto villoso sotto una giacca di pelle slacciata.

Piegò all'indietro la testa. Vista l'altezza dell'uomo che aveva di fronte, era impossibile non riconoscerlo.

«Volevi parlare con me», disse Greywolf.

Come sempre, l'abito di pelle era unto e sgualcito. I lunghi capelli erano legati in una coda lustra e occhi e denti brillavano. Anawak non vedeva Greywolf da qualche tempo, e improvvisamente anche lui, come tutto ciò che aveva intorno, gli apparve sotto una luce diversa. Sentiva la forza del gigante, il suo carisma, il suo fascino naturale. Non c'era da meravigliarsi che Alicia fosse caduta vittima di quel concentrato di virilità. Probabilmente Greywolf non aveva dovuto fare granché per conquistarla.

«Pensavo fossi da qualche parte a Ucluelet», disse.

«C'ero.» Greywolf prese una sedia e si accomodò, facendola cigolare. «Licia ha detto che hai bisogno di me.»

«Bisogno?» Anawak sorrise. «Le ho detto che mi avrebbe fatto piacere vederti.»

«Dunque hai bisogno di me. Eccomi.»

«Come stai?»

«Starei meglio se tu avessi qualcosa da bere.»

Anawak andò al frigorifero, prese una birra e una Coca-Cola e le mise sul banco. Greywolf si scolò mezza lattina di Heineken in un sorso e si asciugò la bocca.

«Ti ho disturbato?» chiese Anawak.

«Non preoccuparti. Ero a pescare con un paio d'imbecilli di Beverly Hills. I vostri stupidi affari coi whale watcher sono ricaduti tutti su di me. Nessuno ha mai sentito di una barca attaccata dalle trote, così mi sono riorganizzato e propongo tour di pesca sui fiumi e sui laghi della nostra amata isola.»

«Vedo che la tua posizione sul whale watching è notevolmente cambiata.»

«No, perché dovrebbe? Ma vi lascio in pace.»

«Oh, grazie», disse Anawak con tono sarcastico. «Ma per fortuna tu sei ancora sul piede di guerra per vendicare la natura tormentata. Raccontami quello che facevi in Marina.»

Greywolf lo guardò, sbalordito. «Ma lo sai, no?»

«Raccontamelo di nuovo!»

«Ero un addestratore. Addestravo i delfini per operazioni tattiche.»

«Dove? A San Diego?»

«Sì, anche.»

«E tu sei stato licenziato per disturbi cardiaci? È proprio così?»

«Esatto», annuì Greywolf tra due sorsate di birra.

«Non è vero, Jack. Tu non sei stato licenziato. Te ne sei andato.»

Greywolf si tolse la lattina dalla bocca e l'appoggiò quasi con cautela sul bancone. «Come ti è venuta quest'idea?»

«Perché nei dossier dello Space and Naval Warfare System Center di San Diego c'è scritto così», spiegò Anawak, cominciando a camminare lentamente avanti e indietro. «Solo perché tu capisca che sono informato: l'SSC San Diego è l'organizzazione che ha sostituito un ufficio che si chiamava Navy Command, Control and Ocean Systems Center, guarda caso con sede a Point Loma, San Diego. I finanziamenti provenivano da un'organizzazione da cui oggi è derivato l'US Navy's Marine Mammal System. Queste organizzazioni compaiono quando si vanno a cercare informazioni sulla storia dei programmi riguardanti i mammiferi marini, e ognuna di esse risulta collegata sottobanco con una serie di esperimenti discutibili, che però ufficialmente non sono mai stati fatti.» Anawak si fermò e decise di bluffare. «Esperimenti condotti a Point Loma, dove stazionavi tu.»

Greywolf seguiva con occhio attento gli spostamenti di Anawak. «Perché mi racconti queste idiozie?»

«Attualmente a San Diego si studiano le abitudini alimentari, i comportamenti durante la caccia, le possibilità di ammaestramento, di addomesticamento e così via. La cosa che più interessa ai militari è il cervello dei mammiferi marini, un interesse che risale agli anni '60, ma che si è improvvisamente riattizzato nel periodo della Guerra del Golfo. In quel periodo, tu eri là da alcuni anni. Quando te ne sei andato dalla Marina, eri tenente, responsabile di due squadre di delfini, MK6 e MK7, due su un totale di quattro.»

Le sopracciglia di Greywolf s'inarcarono. «E allora? Nella vostra unità di crisi non avete altro di cui preoccuparvi? Per esempio della situazione in Europa?»

«Il passo successivo nella tua carriera sarebbe stata l'assunzione della responsabilità di tutto il programma», continuò Anawak. «E invece tu li hai mandati a farsi fottere.»

«Io non ho mandato nessuno a farsi fottere. Sono stati loro a farmi fuori.»

Anawak scosse la testa. «Jack, io godo di qualche privilegio particolare. Grazie ai militari, ho accesso a una serie di dati la cui affidabilità non può essere messa in discussione. Te ne sei andato di tua spontanea volontà e io vorrei sapere perché.»

Prese la stampata dell'articolo dell'Earth Island Journal e la passò a Greywolf, che diede una rapida occhiata e mise da parte il foglio.

Per un po' ci fu silenzio.

«Jack», disse quindi Anawak a bassa voce. «Avevi ragione. Sono felicissimo di vederti, ma ho anche bisogno del tuo aiuto.»

Greywolf fissava il pavimento.

«Cos'è successo? Perché te ne sei andato?»

Il mezzo indiano rifletteva. Poi gonfiò la cassa toracica e incrociò le braccia dietro la testa. «Perché vuoi saperlo?»

«Perché ci può aiutare a capire cos'è successo alle nostre balene.»

«Non sono le vostre balene. E non sono i vostri delfini. Niente è vostro. Vuoi sapere cos'è successo? Restituiscono il colpo, Leon. Ci è arrivato il conto. Abbiamo trattato i cetacei come una nostra proprietà, abbiamo inflitto loro sofferenze, ne abbiamo abusato, li abbiamo guardati a bocca aperta. Semplicemente non ne possono più di noi.»

«Credi che lo facciano di loro iniziativa?»

Greywolf fece per replicare qualcosa, poi scosse la testa. «Non m'interessa perché lo fanno. Ci siamo già interessati troppo di loro. Non voglio sapere niente, Leon. Voglio solo che li si lasci in pace.»

«Jack…» mormorò Anawak. «Sono costretti…»

«Sciocchezze. Chi dovrebbe…»

«Sono costretti! Ne abbiamo le prove. Non posso raccontarti niente, però ho bisogno d'informazioni. Tu vuoi risparmiare loro delle sofferenze, allora fallo. Al momento sono soggetti a sofferenze che nemmeno puoi immaginare…»

«Che nemmeno posso immaginare?» ripeté Greywolf, scattando in piedi. «E tu che ne sai? Tu non sai niente!»

«Allora spiegami.»

«Io ho…» Il gigante sembrava lottare con se stesso. La sua mandibola fremette. Strinse i pugni. Poi in lui avvenne una sorta di trasformazione. Si rilassò di botto, come se si fosse sgonfiato. «Vieni con me», disse. «Andiamo a fare una passeggiata.»

Per un po' camminarono in silenzio l'uno accanto all'altro. Ai margini del villaggio, Greywolf scelse un sentiero che, passando in mezzo agli alberi, scendeva fino al mare. Dopo qualche passo raggiunsero l'argine. Un piccolo pontile malfermo permetteva di gustare l'austera bellezza della baia. Avanzando sulle assi storte, Greywolf si teneva vicino al bordo del pontile. Anawak lo seguiva. Sulla destra, nascosti dietro la lingua di terra, si vedevano solo il molo della Davies e alcune palafitte. Rimasero seduti per un po' a guardare le montagne, i cui colori rilucevano nella luce del tardo pomeriggio.

«I tuoi dati non sono completi», disse infine Greywolf. «Ufficialmente esistono quattro gruppi, da MK4 a MK7… Ma in realtà esiste anche un quinto gruppo e il suo nome in codice è MK0. La Marina preferisce chiamarli 'sistemi' anziché 'gruppi'. A ogni sistema spettano compiti specifici. È vero, il comando è a San Diego, ma io passavo la maggior parte del tempo a Coronado, in California, dove vengono addestrati molti degli animali. L'esercito li tiene nel loro ambiente naturale, nelle baie e nelle strutture portuali. Per loro è una pacchia! Sono alimentati regolarmente e hanno tutte le cure mediche… È molto più di quanto possa desiderare per sé la maggior parte degli esseri umani.»

«E tu eri responsabile di questo quinto gruppo… del quinto sistema?»

«Ti sei fatto un'idea sbagliata. MK0 è ben altro. In genere, ogni sistema comprende da quattro a otto animali con compiti ben definiti. MK4, per esempio, è composto da delfini e ha il compito di rintracciare e segnalare le mine ancorate sui fondali marini. Inoltre i delfini vengono addestrati per raccogliere informazioni su eventuali tentativi di sabotaggio alle navi. MK5 è una squadra di leoni marini. Anche MK6 e MK7 cercano mine, ma il loro compito principale è la difesa da sommozzatori nemici.»

«Attaccano i sommozzatori?»

«No. Danno all'intruso un colpo col naso e così attaccano alla sua tuta un filo arrotolato, alla cui estremità c'è un galleggiante. Al galleggiante è collegata una luce stroboscopica, che indica la posizione del sommozzatore. Tutto il resto lo facciamo noi. Lo stesso accade con le mine. Gli animali informano del ritrovamento. In alcuni casi, s'immergono con un magnete e lo piazzano sulla mina; al magnete è attaccata una corda che riportano in superficie. Se la mina non è ancorata troppo saldamente, non dobbiamo far altro che tirare il filo. Fine della storia. Le orche e i beluga riescono a riportare in superficie i siluri da un chilometro di profondità… È impressionante. Per l'uomo, la ricerca delle mine è pericolosissima. Ti possono scoppiare in faccia, certo, ma soprattutto devi sempre cercarle nei pressi delle rive e in mezzo alle esplosioni, perché si viene bombardati dalla terraferma.»

«E le mine non uccidono gli animali?»

«Ufficialmente per quel motivo non ne sono morti. In realtà, ci sono eccezioni, ma in una misura tollerabile. In ogni caso, all'inizio avevo solo sentito parlare di MK0, e l'avevo considerata una fandonia. Non si tratta di un sistema vero e proprio, ma del nome in codice per una serie di programmi ed esperimenti condotti in luoghi sempre diversi e con animali sempre nuovi. Gli animali di MK0 non vengono mai in contatto con gli altri, però talvolta elementi dei sistemi normali vengono reclutati da MK0 e spariscono per sempre.» Greywolf fece una pausa. «Io ero un buon addestratore. MK6 è stato il mio primo sistema. Prendevamo parte a ogni grande manovra. Nel 1990 mi sono assunto anche la responsabilità di MK7 e tutti mi hanno fatto i complimenti. Poi a qualcuno è venuto in mente che forse avrei dovuto saperne un po' di più.»

«Di MK0.»

«Naturalmente sapevo che le focene della Marina avevano ottenuto un grande successo nei primi anni '70 in Vietnam, dove avevano protetto il porto a Cam Ranh Bay, bloccando i sabotaggi sottomarini dei vietcong. È la prima cosa che ti raccontano in Marina, e ne sono orgogliosi. Quello che non ti raccontano sono le circostanze in cui è avvenuto quel successo. Non spendono neppure una parola sullo Swimmer Nullification Program, che in effetti funziona in maniera un po' diversa. Gli animali vengono addestrati a strappare maschera, pinne e respiratore ai sommozzatori nemici. Una cosa già piuttosto brutale in sé, vero? Ma in Vietnam quegli animali avevano anche coltelli lunghi e affilati sul muso e sulle pinne e alcuni esemplari portavano addirittura degli arpioni sul dorso. Quello che attaccava sott'acqua non era più un delfino o una focena, ma una macchina per uccidere. Comunque robetta in confronto a quello che si sono inventati in seguito, quando hanno piazzato sui musi degli animali delle siringhe da conficcare nei sommozzatori, cosa che gli animali facevano diligentemente. Per il sommozzatore colpito, il problema era che la siringa iniettava nel suo corpo tremila psi di anidride carbonica, cioè anidride carbonica compressa. Il gas si diffondeva nel giro di qualche secondo e la vittima esplodeva. In quel modo, dai nostri animali, sono stati uccisi più di quaranta vietcong e per sbaglio anche due americani, ma qualche perdita era normale.»

Anawak aveva la nausea.

«Qualcosa del genere è accaduto negli anni '80, nel Bahrein», proseguì Greywolf. «Era la mia prima volta al fronte. Il mio sistema aveva fatto diligentemente il proprio lavoro… e io allora non sapevo nulla di MK0. Non sapevo neanche che lanciavano gli animali col paracadute nelle zone che non era possibile raggiungere, anche da tre chilometri di altezza, benché non tutti sopravvivessero. Alcuni erano lanciati dagli elicotteri senza paracadute, da venti metri sul livello del mare. Altri ancora venivano mandati ad attaccare le mine agli scafi delle navi e dei sommergibili nemici. Talvolta si aspettava che gli animali fossero sufficientemente vicini e poi li si faceva esplodere con un comando a distanza. Operazioni kamikaze. L'ho saputo poco tempo dopo.» Greywolf rimase per un po' in silenzio, quindi riprese: «Avrei dovuto smettere già allora, Leon, ma la Marina era la mia casa. Là ero felice. Non so se riesci a capire, ma era così».

Anawak rimase in silenzio. Lo capiva fin troppo bene.

«Mi consolavo col fatto di appartenere ai good guys. Ma il comando generale aveva deciso che sarebbe stato un bene inserirmi nel programma MK0. I bad guys pensavano che avessi un talento eccezionale nel trattare con gli animali.» Greywolf sputò. «Avevano ragione, quei figli di puttana. E io sono stato un idiota perché, invece di prenderli a pugni, ho accettato. Mi ero convinto che la guerra fosse così. Gli uomini cadevano in combattimento, saltavano sulle mine… Allora perché piangere per qualche delfino? Così sono arrivato a San Diego, dove stavano lavorando per dotare le orche di testate nucleari…»

«Come?»

Greywolf lo guardò. «Ti meravigli? Io ho smesso da tempo di meravigliarmi. Ci sono progetti per spedire in giro le orche con quelle cose. Una bomba di quel genere pesa sette tonnellate e un'orca adulta può portarla per chilometri e chilometri prima di raggiungere un porto nemico. È praticamente impossibile fermarla. Non so a che punto siano arrivati, ma credo che, a tutt'oggi, abbiano risolto parecchi problemi. Allora eravamo nel pieno degli esperimenti. In quell'occasione, sono stato testimone anche di un altro esperimento. La Marina si compiaceva di mostrare ai giornalisti dei video nei quali i delfini nuotavano con una mina in bocca e poi la riportavano indietro, anziché far esplodere il culo al comandante del sommergibile cui era destinata. È su queste basi che la Marina sostiene che simili commando killer non esistono. In effetti cose del genere accadono, ma molto raramente. Nella peggiore delle ipotesi, salta in aria una barca con tre uomini, una cosa che la Marina può tranquillamente sopportare. E che comunque non ha impedito di continuare gli esperimenti.» Greywolf fece una pausa, quindi proseguì: «Se non riesci a tenere sulla rotta giusta un'orca nucleare, però, le cose cambiano. La Marina può mandare quante orche vuole, ma deve essere sicura che agli animali non vengano idee stupide. E la strada migliore per evitare idee stupide è… toglierle».

«John Lilly», mormorò Anawak.

«Chi?»

«Un ricercatore. Negli anni '60 ha condotto esperimenti sul cervello dei delfini.»

«Ah, sì, ne ho sentito parlare», disse Greywolf, pensieroso. «In ogni caso, sono stato testimone di come bucavano la testa dei delfini. Era il 1989. Facevano dei piccoli buchi nella scatola cranica con martello e scalpello. Gli animali erano svegli e dovevano essere tenuti fermi da diversi uomini robusti, perché cercavano di saltar giù dal tavolo operatorio. Mi avevano spiegato che non era tanto per il dolore, quanto perché il rumore li infastidiva. In effetti, la procedura appariva molto più dolorosa di quanto probabilmente fosse in realtà. Nei buchi infilavano degli elettrodi per stimolare il cervello con impulsi elettrici.»

«Sì, questo è John Lilly!» esclamò Anawak. «Ha cercato di preparare una sorta di carta geografica del cervello.»

«Credimi, la Marina ha già preparato le sue carte», commentò amaramente Greywolf. «Mi sentivo male, ma ho tenuto la bocca chiusa. Mi hanno mostrato un delfino in una vasca: portava sul dorso un dispositivo, come se avesse addosso delle briglie. Il dispositivo controllava gli elettrodi nella scatola cranica. Riuscivano a guidare l'animale attraverso impulsi elettrici. Era stupefacente, bisogna ammetterlo. Potevano far nuotare il delfino a destra o a sinistra, spingerlo a saltare… Potevano fare in modo che aggredisse e colpisse manichini di sommozzatori oppure bloccavano la sua fuga e lo mettevano in una sorta di standby. Che l'animale lo facesse di sua spontanea volontà o no era assolutamente irrilevante. Quel delfino non possedeva più la minima volontà. Funzionava come un'automobilina telecomandata, era un… giocattolo. Loro erano entusiasti. Si profilava un grande successo. Nel 1991, eravamo in viaggio per il Golfo e avevamo con noi una dozzina di questi delfini telecomandabili; a San Diego, intanto, stavano lavorando sulle orche nucleari. Io continuavo a tenere chiusa la mia boccaccia e cercavo di convincermi che quel progetto non mi riguardava. I miei delfini cercavano le mine, venivano alimentati bene e coccolati. Loro insistevano perché m'impegnassi attivamente con MK0, ma in qualche modo ero riuscito a ottenere una pausa di riflessione, una cosa non particolarmente gradita nell'esercito, perché presuppone che tu pensi! Comunque sia, ci passarono sopra. Superammo lo stretto di Gibilterra per fare una serie di test in mare aperto. All'inizio filò tutto liscio. Poi iniziarono i problemi. Nei laboratori e negli acquari di San Diego il comando a distanza funzionava perfettamente, ma in mare aperto gli animali erano sottoposti anche ad altri stimoli. Gli inconvenienti si accumularono. In natura l'esperimento non funzionava — perlomeno non come i dirigenti del progetto avevano immaginato — e così gli animali divennero un rischio per la sicurezza. Non potevamo riportarli in America e nessuno voleva portarli con sé nel Golfo. Gettammo l'ancora al largo della Francia. Là c'è un istituto partner in cui esperti francesi collaboravano al programma MK0. I francesi non sono i nostri migliori amici, ma ne sanno parecchio di ricerche marine… Insomma speravamo di avere qualche risposta. Ci accolse un certo René Guy Busnel, che mi fu presentato come direttore del rinomato Laboratoire d'Acoustique Animale. Promise d'interessarsi del nostro problema e c'invitò a una visita. Come prima cosa, in quel rinomato laboratorio, ci si presentò un delfino completamente mutilato, bloccato in un dispositivo a morsa. Nel suo dorso era infilato un coltello lungo un braccio. Non chiesi quale scopo avesse, però gli assistenti del laboratorio ci consegnarono una cartolina dell'istituto che loro avevano firmato col sangue del delfino. Nel darcela, ridevano tutti.»

Greywolf si fermò. Dal profondo della sua enorme cassa toracica giunse un suono indefinibile, come un sospiro di rassegnazione.

«Busnel ci parlò degli esperimenti sul cervello e arrivò alla conclusione che qualcosa non andava. Evidentemente i direttori del progetto avevano trascurato un elemento o l'avevano valutato nel modo sbagliato. Ritornati a bordo, si tenne il consiglio di guerra in cui si decise di eliminare i delfini. Li liberammo in mare e, quando si furono allontanati di qualche centinaio di metri, sulla nave qualcuno schiacciò il bottoncino di uno strumento. Avevano inserito delle capsule esplosive negli elettrodi, per impedire che quella tecnologia finisse in mani nemiche. L'esplosivo non era molto potente, ma bastava per distruggere gli elettrodi e la bardatura. Sarebbero morti anche gli animali. Poi continuammo il nostro viaggio.» Greywolf si morse il labbro inferiore. Poi guardò Anawak. «Sono quelli i delfini trovati sulla costa francese. La notizia dell'Island Earth Journal si riferisce a loro. Adesso lo sai.»

«E tu hai…»

«Ho detto loro che ne avevo abbastanza. Cercarono di farmi cambiare idea, ma invano. Naturalmente non volevano vedere scritto nei dossier che il loro miglior addestratore se ne andava per motivi… innominabili. Su una cosa del genere si gettano sempre orde d'imbrattacarte e la televisione rizza le orecchie, sai come vanno queste cose. Tergiversarono. Alla fine ci mettemmo d'accordo: loro mi avrebbero dato un bel mucchio di soldi e io avrei accettato un congedo per motivi di salute. Io ho militato nei SEALS. I miei scompensi cardiaci non esistono. Ma nessuno si sogna di fare domande stupide se vieni congedato per problemi cardiaci. E io ero fuori.»

Anawak guardò verso la baia.

«Non sono uno scienziato come te», disse Greywolf a bassa voce. «Capisco qualcosa dei delfini e di come si debba trattarli, però non so niente di neurologia e di tutta quella merda. Non riesco più a sopportare se qualcuno sviluppa pubblicamente un interesse per le balene o per i delfini, anche se vuole fare solo una fotografia. Questo è tutto. Non riesco più a sopportarlo, e non posso farci niente.»

«Shoemaker è convinto che tu volessi eliminarci.»

Greywolf scosse la testa. «Per un po' ho pensato che il whale watching fosse un'attività tollerabile, ma poi… Lo hai visto tu stesso, non ha funzionato. Sono stato io ad andarmene. Non ho dovuto far altro che costringervi a licenziarmi.»

Anawak appoggiò il mento alle mani.

Era così bello lì. Quella baia con le montagne, come tutta l'isola, era così incredibilmente bella che quasi faceva male. «Jack», disse dopo un po'. «Sarai costretto a ripensarci. Succede di nuovo. I tuoi cetacei non si stanno vendicando. Non ci stanno presentando il conto. Sono guidati. C'è qualcuno che sta conducendo il suo personale programma MK0. Ed è molto peggio di tutto ciò che la Marina ha fatto sinora.»

Greywolf non ribatté. Lasciarono il pontile e imboccarono in silenzio il sentiero nel bosco verso Tofino. Davanti alla Davies Whaling Station, Greywolf si fermò. «Poco prima che me ne andassi, ho sentito dire che gli esperimenti con le orche nucleari avevano fatto un decisivo passo in avanti. In quell'occasione, venne anche pronunciato un nome, collegato alla neurologia e a qualcosa che hanno chiamato 'computer neurali'. Dicevano che per raggiungere il controllo totale sugli animali bisognava seguire le idee di un certo professor Kurzweil. Ho pensato di dirtelo. Non so se servirà a qualcosa.»

Anawak rifletté. «Certo», mormorò. «Penso proprio di sì.»


Château Whistler, Canada

Verso sera, Karen Weaver bussò alla camera di Sigur Johanson. Com'era sua abitudine, non attese risposta e abbassò la maniglia per entrare, ma la porta era chiusa.

Lo aveva visto ritornare da Nanaimo e sapeva che voleva incontrare Bohrmann. Allora Karen scese nella hall e lo trovò al bar, seduto con lo scienziato tedesco e con Stanley Frost. Erano chini su alcuni diagrammi e immersi in una discussione concitata.

«Salve.» Karen si avvicinò. «Avete fatto qualche passo avanti?»

«Siamo bloccati», sospirò Bohrmann. «Nell'equazione abbiamo ancora un paio d'incognite.»

«Bah, prima o poi riusciremo a trovarle», brontolò Frost. «Dio non gioca a dadi.»

«Questo l'ha detto Einstein», notò Johanson. «E aveva torto.»

«Dio non gioca a dadi!» ripeté Frost, convinto.

Lei attese qualche istante, poi toccò Johanson su una spalla. «Potrei… Scusa il disturbo, ma potrei parlarti a quattr'occhi?»

Lui esitò. «Subito? Stiamo esaminando lo scenario di Stan. È una cosa che fa venire i sudori freddi.»

«Davvero, dovrei parlarti.»

«Perché non ci fai compagnia?»

«Non potresti venire con me per un paio di minuti? Non mi serve molto tempo.» Sorrise. «Poi parteciperò anch'io, mi lascerò mostrare tutte le simulazioni e vi farò saltare i nervi con osservazioni di un'intelligenza nove volte superiore alla media.»

«Una prospettiva splendida», ghignò Frost.

«Dove andiamo?» chiese Johanson, non appena ebbero lasciato il tavolo.

«È lo stesso. Nella hall.»

«È qualcosa d'importante?»

«Importante è un eufemismo!»

«Bene.»

Uscirono. Il tramonto ricopriva di una luce rossastra lo Château e le cime innevate. Gli elicotteri davanti all'albergo sembravano giganteschi insetti. Mentre si avviavano in direzione del villaggio, Karen avvertì un vago senso di disagio. Di certo, gli altri si sarebbero convinti che lei e Johanson avevano dei segreti. Ma non era così: lei voleva soltanto sentire la sua opinione. Toccava a lui decidere quando e come presentare la sua teoria all'unità di crisi… e ciò significava che doveva essere informato prima di tutti.

«Com'è andata a Nanaimo?» chiese Karen.

«Da brivido.»

«Significa che Long Island è stata invasa da granchi killer?»

«Granchi con alghe killer», disse Johanson. «Simili a quelle dell'Europa, solo più velenose.»

«Sembra una nuova ondata di attacchi.»

«Sì. Oliviera, Fenwick e Rubin le stanno analizzando.» Si schiarì la voce. «Senti, apprezzo il tuo interesse, ma non eri tu che volevi raccontarmi qualcosa?»

«Ho trascorso tutto il giorno a studiare i dati dei satelliti. Poi ho confrontato le analisi dei radar con le registrazioni multispettro. Avrei voluto vedere anche i dati dei drifter di Bauer, ma non trasmettono più. Gli elementi sono comunque sufficienti. Lo sai che la superficie dei mari nelle zone esterne ruota in giganteschi vortici oceanici?»

«L'ho sentito dire.»

«Una di queste zone esterne è la Corrente del Golfo. Bauer presumeva che in quella regione fosse successo qualcosa. Non trovava più i vortici, quelli in cui l'acqua sprofondava, ed era arrivato alla conclusione che qualcosa stava turbando il comportamento delle grandi correnti, ma non ne era sicuro.»

«E allora?»

Si fermò e lo guardò. «Ho fatto i calcoli, li ho confrontati, valutati, li ho rifatti, li ho confrontati ancora, ho avuto dei dubbi, li ho rivalutati e rifatti ancora. La curvatura della Corrente del Golfo è sparita.»

Johanson aggrottò la fronte. «Vuoi dire…»

«Il vortice non ruota più come prima e, se osservi le analisi spettrografiche, arrivi alla conclusione che il calore è sparito. Non ci sono dubbi, Sigur. Ci stiamo avviando verso una nuova Era Glaciale. La Corrente del Golfo non scorre più. Qualcosa l'ha fermata.»


Consiglio di sicurezza nazionale

«Questa è una vera porcheria! E qualcuno dovrà pagare.»

Il presidente voleva veder scorrere il sangue.

Era arrivato all'Offutt Air Force Base e, come prima cosa, aveva indetto una videoconferenza del consiglio di sicurezza nazionale. Erano collegati Washington, Offutt e lo Château. Alla Casa Bianca c'erano il vice presidente, il segretario alla Difesa e il suo vice, il segretario di Stato — una donna -, il consigliere per la sicurezza nazionale, il direttore dell'FBI e il capo degli stati maggiori riuniti. Nella centrale per la lotta al terrorismo, in una sala sotterranea priva di finestre all'interno del quartier generale della CIA, a Langley, si trovavano il direttore della CIA, il vice direttore per le operazioni, il direttore del Centro nazionale per la lotta al terrorismo e il capo delle operazioni speciali. La cerchia era completata dal generale Judith Li e dal vice direttore della CIA, Jack Vanderbilt, seduti nella War Room provvisoria dello Château, davanti a una fila di schermi nei quali si vedevano gli altri partecipanti alla riunione. Alcuni esibivano un atteggiamento di ferma determinazione, altri apparivano disorientati.

Il presidente non si sforzava neppure di nascondere la rabbia. Nel pomeriggio, il suo vice aveva proposto di affidare allo stato maggiore la gestione di un'unità di crisi, ma il presidente era rimasto dell'idea di dirigere personalmente la seduta plenaria del consiglio di sicurezza nazionale. Non voleva farsi sottrarre il potere decisionale.

E con questa scelta agiva nel senso auspicato da Judith Li.

Nella gerarchia dei consiglieri, Judith non era la voce più importante. Il più alto rango militare era rivestito dal capo degli stati maggiori riuniti. Era il primo consigliere militare del presidente e anche lui aveva un vice. Tutti gli idioti avevano un vice. In ogni caso, Judith sapeva che il presidente la ascoltava e ciò la faceva ardere di orgoglio. L'evoluzione della sua carriera era sempre al centro dei suoi pensieri e lo era anche in quel momento. Da generale comandante sarebbe diventata capo degli stati maggiori riuniti. L'attuale capo era sul punto di essere esonerato dall'incarico e il suo vice era notoriamente un incapace. Poi, con qualche giro di valzer politico, sarebbe approdata al dipartimento di Stato o alla Difesa e infine si sarebbe potuta presentare alle elezioni presidenziali. Se ora faceva bene il suo lavoro — cioè nell'esclusivo interesse degli Stati Uniti — la sua elezione era pressoché sicura. Il mondo stava sprofondando. Judith Li era in ascesa.

«Abbiamo di fronte un nemico senza volto», disse il presidente. «Alcuni pensano che dovremmo puntare il dito contro quella parte dell'umanità che ci è ostile. Altri sono convinti che si tratti di qualcosa in più di una tragica accumulazione di processi naturali. Per quanto mi riguarda, non voglio lunghi discorsi, ma esigo che si trovi un accordo per agire. Voglio dei piani, voglio conoscere i costi e la durata.» Socchiuse le palpebre. Il livello della sua rabbia e della sua determinazione si poteva leggere in quel semplice movimento. «Personalmente non credo alla favola della natura impazzita. Siamo in guerra. Questa è la mia opinione. L'America è in guerra. Quindi che facciamo?»

Il capo di stato maggiore disse che non bisognava più stare sulla difensiva. Si doveva passare all'attacco. Sembrava molto determinato.

Il segretario alla Difesa lo guardò, aggrottando la fronte. «E chi vorrebbe attaccare?»

«Là fuori c'è qualcuno da attaccare», rispose l'altro, deciso. «E prima o poi scopriremo chi è.»

Il vice presidente obiettò che, al momento, gli sembrava impossibile che singoli gruppi terroristici fossero in grado di condurre offensive di quel calibro. «Ma allora dietro tutto ciò si nasconde uno Stato», aggiunse. «Forse diversi Stati, chissà. Jack Vanderbilt ha formulato per primo questa idea e ritengo che non sia da escludere. Credo che dovremo indirizzare la nostra attenzione verso chiunque possa avere le risorse per fare una cosa del genere.»

«Ce ne sarebbero alcuni», disse il direttore della CIA.

Il presidente annuì. Da quando, immediatamente dopo la sua elezione, il direttore della CIA gli aveva fatto una relazione dal titolo I buoni, i cattivi, i malvagi, vedeva il mondo popolato da criminali senza Dio che pianificavano la distruzione degli Stati Uniti. E non era un'analisi completamente sbagliata. «Dobbiamo chiederci se è necessario cercare tra le file dei nostri nemici classici», disse. «L'aggressione riguarda tutto il mondo libero, non solo l'America.»

«Il mondo libero?» sbottò il segretario alla Difesa. «Accidenti, siamo noi! L'Europa fa parte della libera America. La libertà del Giappone è la libertà dell'America. Il Canada, l'Australia… Se l'America non è libera, non lo sono neppure loro.» Davanti a sé sul tavolo aveva un foglio di appunti. Lo colpì col pugno. Era convinto che nessuna questione fosse così complessa da non poter essere sintetizzata in un singolo foglio. «Solo come promemoria: di armi biologiche disponiamo noi e Israele, e siamo i buoni», disse. «Poi ci sono il Sudafrica, la Cina, la Russia, l'India, che sono i cattivi. Inoltre le hanno la Corea del Nord, l'Iran, l'Iraq, la Siria, la Libia, l'Egitto, il Pakistan, il Kazakistan e il Sudan. I malvagi. E questo è un attacco biologico. Una cosa malvagia.»

«Potrebbero avere un ruolo anche composti chimici», disse il vice del segretario alla Difesa. «O no?»

«Calma.» Il direttore della CIA sollevò la mano. «Bisogna partire dal presupposto che avvenimenti come quelli che stiamo vivendo devono essere supportati da una gran quantità di denaro e da una enorme capacità di spesa. Le armi chimiche sono facili da preparare ed economiche, mentre la robaccia biologica richiede risorse enormi. E noi non siamo ciechi. Il Pakistan e l'India collaborano con noi. Abbiamo formato più di cento agenti segreti pakistani per operazioni sotto copertura. In Afghanistan e in India alcune dozzine di agenti lavorano per la CIA e in parte hanno contatti eccellenti. Tutta quella zona può essere esclusa. In Sudan abbiamo truppe paramilitari che collaborano con l'opposizione locale e nel governo del Sudafrica ci sono nostri uomini. Da nessuna parte è venuto fuori che si sta preparando qualcosa di grosso. Quindi dobbiamo analizzare dove, nell'ultimo periodo, sono confluite grosse somme di denaro e dove sono state osservate attività sospette. Il nostro compito è delimitare una zona, non fare l'elenco di tutte le canaglie del mondo.»

«Posso affermare che non ci sono stati grandi spostamenti di denaro», disse il direttore dell'FBI.

«Come fa a saperlo?»

«Lei sa che l'attuazione delle ordinanze per la sorveglianza delle fonti di finanziamento del terrorismo ci permette una visione sufficientemente ampia. Il dipartimento del Tesoro ha il quadro esatto di dove vengono trasferite grandi somme di denaro. Avremmo notato qualcosa.»

«E allora?» chiese Vanderbilt.

«Niente, né in Africa, né in Asia, né nel Medio Oriente. Nulla che indichi il coinvolgimento di uno Stato.»

Vanderbilt si schiarì la voce. «Ci stanno prendendo per il naso», disse. «Di certo non lo pubblicano sul Washington Post.»

«Ripeto che non abbiamo…»

«Mi spiace disilludere qualcuno», lo interruppe Vanderbilt. «Ma credete davvero che qualcuno in grado di mandare a pezzi il mare del Nord e di avvelenare New York presenti ai nostri uomini la valigetta piena di soldi?»

«Il mondo cambia», intervenne il presidente. «E, in un mondo del genere, mi aspetto che noi riusciamo a vedere in tutte le valigette. Dobbiamo scoprire se quelle canaglie sono furbe oppure se siamo noi a essere stupidi. So che alcuni di voi sono maledettamente scaltri, ma il nostro lavoro consiste nell'essere ancora più scaltri. E a partire da oggi.» Guardò il direttore del Centro nazionale per la lotta al terrorismo. «Allora, quanto siamo furbi?»

L'altro si strinse nelle spalle. «L'ultima cosa che abbiamo ricevuto è un avvertimento dall'India secondo cui alcuni terroristi pakistani vorrebbero far saltare in aria la Casa Bianca. Conosciamo già quella gente. Non c'è nessun pericolo. Lo sapevamo da un pezzo e avevamo tenuto d'occhio alcune transazioni finanziarie. Il Centro nazionale per la lotta al terrorismo raccoglie ogni giorno montagne d'informazioni sulle minacce internazionali. È vero, signor presidente, non succede nulla che noi non veniamo a sapere.»

«E al momento è tutto tranquillo?»

«Non è mai tutto tranquillo. Ma quello che sta succedendo non è preparato o finanziato apertamente. Questo non vuol dire rinunciare alle ricerche.»

Lo sguardo del presidente si appuntò sul capo delle operazioni speciali. «Dalla sua gente mi attendo un impegno raddoppiato», disse in tono sferzante. «Non m'interessa in quali postazioni esterne e in quali basi militari lavorino. I cittadini americani non possono subire danni perché qualcuno non ha svolto il proprio compito.»

«Naturalmente, signore.»

«Vorrei ricordarvi ancora una volta che siamo stati attaccati! Siamo in guerra! Voglio sapere contro chi.»

«Si rivolga al Medio Oriente», gridò Vanderbilt.

«Lo stiamo facendo», disse Judith Li di fianco a lui.

Senza guardarla, Vanderbilt sospirò.

«Ovviamente è possibile colpirsi in faccia da soli per dare l'impressione di essere stati picchiati», riprese Judith Li. «Ma è credibile? Se pensiamo che gli ultimi avvenimenti catastrofici abbiano avuto origine in Paesi ai quali non andiamo a genio, allora rimane il problema del perché quei Paesi si siano danneggiati da soli. Ci hanno preso di mira? Be', spargere un po' di terrore in tutto il mondo ha senso, serve a depistare, a far credere che gli Stati Uniti non siano l'obiettivo primario. Ma non è questo il caso.»

«La nostra idea è diversa», disse il direttore della CIA.

«Lo so. Questa è la mia: noi non siamo l'obiettivo primario. Sono successe troppe cose, e quello che è accaduto è troppo orribile. Prendere il controllo di migliaia di animali, allevare milioni di nuovi organismi, provocare uno tsunami nel mare del Nord, sabotare la pesca, far invadere l'Australia e il Sudamerica dalle meduse, distruggere navi… Come si può ricavare un vantaggio politico ed economico da tutto ciò? Che piaccia o no a Jack, la catastrofe ha colpito anche il Medio Oriente. E dobbiamo prenderne atto. Io mi rifiuto di scaricare la responsabilità sugli arabi.»

«Nel Medio Oriente sono affondati un paio di cargo», ringhiò Vanderbilt.

«Ben più di un paio.»

«Forse abbiamo a che fare con un folle?» suggerì il segretario di Stato. «Con un criminale?»

«Forse», ammise Judith Li. «Qualcuno — un individuo assai ricco — potrebbe muovere di nascosto grandi somme e utilizzare strumenti tecnologici all'avanguardia. Credo che dovremmo prestare più attenzione a questa categoria. Qualcuno ha inventato qualcosa. Allora inventiamoci anche noi qualcosa da contrapporre. Qualcuno ci scaglia addosso i vermi? E noi inventiamo qualcosa contro i vermi. Qualcuno alleva granchi killer, alghe e sostanze velenose? E noi adottiamo delle contromisure.»

«Quali contromisure ha adottato?» chiese il segretario di Stato.

«Abbiamo…» iniziò il segretario alla Difesa.

«Abbiamo isolato New York», lo interruppe Judith Li. Non tollerava di farsi rubare la scena. «E ho appena sentito che l'allarme granchi a Washington è da prendere sul serio. Dobbiamo dichiarare lo stato di emergenza. Metteremo in quarantena anche Washington. Il personale della Casa Bianca deve seguire l'esempio del presidente e cercare un'altra sede per tutta la durata della crisi. Ho fatto piazzare nelle vicinanze di tutte le città costiere varie unità coi lanciafiamme. Stiamo anche valutando l'uso di rimedi chimici.»

«E che cosa ne è di batiscafi, robot e cose simili?» volle sapere il direttore della CIA.

«Nulla. Da qualche tempo, qualsiasi cosa caliamo in mare sparisce senza lasciare tracce. Là sotto non abbiamo la minima possibilità di controllo. I ROV sono collegati al mondo esterno solo attraverso cavi, che regolarmente tiriamo fuori dall'acqua in pezzi e subito dopo che le telecamere hanno ripreso una luce bluastra. Non sappiamo dove siano andati a finire gli AUV. Quattro coraggiosi scienziati russi, nelle scorse settimane, sono andati sott'acqua con un batiscafo MIR, ma a mille metri di profondità qualcosa li ha afferrati e inghiottiti.»

«Ciò significa che abbiamo ceduto il campo.»

«Al momento, cerchiamo di ripulire le zone infestate dai vermi con reti a strascico. Vengono tese delle reti anche davanti alle coste, una misura aggiuntiva per evitare invasioni della terraferma come quella di Long Island.»

«Mi sembra un metodo piuttosto antiquato.»

«Siamo stati attaccati in modo antiquato. Inoltre abbiamo messo alle strette coi sonar i cetacei di Vancouver Island. Qualcosa manovra gli animali, e allora noi li colpiamo finché il rumore non fa scoppiare loro la testa. Vedremo chi vincerà l'ultima mano.»

«Sembra una cosa orribile, Judith.»

«Se ha un'idea migliore, sarà la benvenuta.»

Per un momento rimasero tutti in silenzio.

«La sorveglianza satellitare ci aiuta?» chiese poi il presidente.

«Parzialmente.» Il vice direttore per le operazioni scosse la testa. «L'esercito è in grado di rilevare panzer mimetizzati sotto i rami, ma ci sono pochi sistemi che possano rilevare qualcosa delle dimensioni di un granchio. È vero, abbiamo KH-12 e i satelliti Keyhole di nuova generazione. Inoltre Lacrosse e gli europei ci permettono l'accesso a Topex/Poseidon e SAR-Lupe, che però lavorano col radar. Il problema è che cose di quel genere possiamo riconoscerle solo con lo zoom. Cioè ci dobbiamo concentrare su una piccola sezione. Finché non sappiamo che cosa esce dal mare e dove, osserviamo disperatamente in tutte le direzioni. Il generale Li ha proposto di mettere a disposizione i satelliti spia che pattugliano sopra le coste. Mi sembra una buona proposta, ma anch'essi non vedono tutto. Gli NRO e gli NSA fanno del loro meglio. Probabilmente riusciremo a fare qualche passo avanti con l'analisi delle informazioni che abbiamo ottenuto. Le stiamo tentando tutte con SIGINT.»

«Forse è proprio questo il nostro problema», disse pensieroso il presidente. «Forse dovremmo provare a usare un po' più di HUMINT.»

Judith trattenne un sorriso. HUMINT era una delle espressioni preferite dal presidente. Nel gergo della sicurezza degli Stati Uniti, SIGINT stava per Signals Intelligence, una definizione che comprendeva tutte le tecniche per ottenere informazioni a distanza. HUMINT, invece, indicava l'acquisizione d'informazioni attraverso il lavoro delle spie cioè Human Intelligence. Il presidente, un uomo a proprio agio in maniche di camicia e per nulla versato nelle questioni tecnologiche, era pervaso dallo spirito pionieristico dei padri fondatori. Gli piaceva guardare qualcuno negli occhi. Sebbene comandasse l'esercito più tecnologicamente avanzato del mondo, era molto più legato all'immagine dell'esploratore che si muove nel sottobosco che a quella dei satelliti.

«Mettete in movimento le rotelle», sbottò. «Alcuni amano nascondersi dietro le console di comando e i programmi dei computer. Voglio che si programmi meno e si pensi di più.»

Il direttore della CIA congiunse la punta delle dita. «Va bene», disse. «Forse non dovremmo attribuire troppa importanza all'ipotesi Medio Oriente.»

Judith guardò Vanderbilt. Il vice direttore della CIA fissava dritto davanti a sé.

«Si era lanciato un po' troppo in avanti, Jack?» gli mormorò, in modo che nessun altro potesse sentirla.

«Chiuda la bocca, dannazione.»

Lei si chinò in avanti e, ad alta voce, disse: «Vogliamo parlare di qualcosa di positivo, una volta tanto?»

Il presidente sorrise. «Tutto ciò che è positivo non può che farci piacere, Jude.»

«Bene, c'è sempre il tempo del dopo, ma ci arriva soltanto chi vince. Quando questa storia sarà finita, il mondo sarà diverso. Finora sono stati destabilizzati molti Paesi e, tra di essi, ce ne sono alcuni il cui crollo può essere sfruttato a nostro vantaggio. Il pianeta si trova in una situazione terribile, ma 'crisi' è un sinonimo di 'possibilità'. Se lo sviluppo della situazione attuale portasse alla caduta di un regime a noi sgradito, la colpa non sarebbe nostra… Tuttavia noi potremmo orientare gli eventi e sostituire gli esponenti di quel regime con gente di nostra fiducia.»

«Ehm…» fece il presidente.

Il segretario di Stato rifletté per un attimo, poi disse: «Di conseguenza, la questione non è chi fa questa guerra, ma chi la vince».

«Penso che il mondo civilizzato debba combattere fianco a fianco contro il nemico invisibile», confermò Judith Li. «Insieme. Se si va avanti in questo modo, senza dubbio tutte le alleanze convergeranno verso l'ONU. E per il momento va bene così, tutto il resto sarebbe sbagliato. Non dobbiamo imporci, ma essere disponibili. Offrire collaborazione. E dobbiamo vincere, condannando alla sconfitta tutti quelli che, in passato, ci hanno minacciato o sono stati contro di noi. Indichiamo in modo chiaro la strada da prendere per uscire da questa situazione e, una volta passata la crisi, la divisione dei ruoli sarà obbligata.»

«Un punto di vista chiarissimo, Jude», commentò il presidente.

Gli uomini intorno al tavolo fecero vari cenni di approvazione. Ma si percepiva anche un vago fastidio. Judith Li si appoggiò allo schienale. Aveva detto abbastanza — forse più di quanto le fosse concesso dalla sua posizione -, ma aveva ottenuto l'effetto sperato. Sì, aveva infastidito alcune persone il cui compito sarebbe stato proprio quello di dire quelle cose. Non aveva importanza. Era riuscita ad arrivare a Offutt.

«Bene», disse il presidente. «Credo che, allo stato attuale delle cose, possiamo mettere questa proposta nel cassetto, ma il cassetto deve restare un po' aperto. In nessun caso dobbiamo risvegliare nell'opinione pubblica mondiale l'impressione di essere interessati a prendere la guida della crisi. Come procedono i suoi scienziati, Jude?»

«Credo che siano il nostro capitale più grande.»

«Quando vedremo dei risultati?»

«Domani ci riuniremo. Ho ordinato al maggiore Peak di tornare, in modo che possa essere presente. Potrà coordinare anche da qui lo stato di emergenza a New York e Washington.»

«Signore, dovrebbe tenere un discorso alla nazione», disse il vice presidente al presidente.

«Sì, è vero.» Il presidente batté una mano sul tavolo. «Bisogna allertare tutti gli scribacchini. Voglio qualcosa di schietto. Non le solite chiacchiere per rabbonire, ma qualcosa che dia speranza.»

«Dobbiamo accennare a un eventuale nemico?»

«No, la situazione verrà trattata come una catastrofe naturale. Non è ancora il momento, la gente è già abbastanza inquieta. Dobbiamo rassicurarla, sostenendo che faremo tutto ciò che è umanamente possibile per proteggerla — che possiamo farlo, che abbiamo i mezzi e le possibilità per farlo — e che. siamo pronti a tutto. Gli Stati Uniti non sono solo il Paese più libero del mondo, ma anche il più sicuro, qualunque cosa esca dal mare. Non importa quello che succede. E do a tutti voi ancora un consiglio. Pregate, pregate il Signore. Questa è la sua Terra e Lui sarà con noi. Ci darà la forza per sistemare tutto secondo la nostra volontà».


New York, USA

Non ce la facciamo.

Ecco cosa pensava Salomon Peak mentre saliva sull'elicottero. Non siamo preparati. Non abbiamo nulla con cui combattere questo orrore.

Non ce la facciamo.

L'elicottero decollò dall'eliporto di Wall Street e si diresse verso nord, sorvolando Soho, Greenwich Village e Chelsea. La città era illuminata, ma c'era qualcosa che non andava. Molte strade erano rischiarate dai riflettori e il traffico era assente. Da lassù si rivelavano le reali dimensioni del caos. New York era controllata dalle forze di sicurezza dell'esercito e dall'Office of Emergency Management. Elicotteri atterravano e decollavano in continuazione. Anche il porto era stato chiuso. Sull'East River incrociavano solo navi militari.

E i morti aumentavano.

Erano impotenti. Non potevano fare nulla. L'OEM aveva divulgato centinaia di prescrizioni e consigli sul comportamento da tenere in caso di catastrofe, ma, a quanto pareva, i costanti avvertimenti e le esercitazioni pubbliche non avevano ottenuto nessun effetto. Le taniche con l'acqua potabile che dovevano essere presenti in ogni casa non erano state predisposte. E anche dov'era stato fatto, la gente moriva per le tossine che uscivano come gas dalle tubature, dai lavandini, dalle toilette, dalle lavastoviglie. Tutto ciò che Peak poteva fare era portare fuori dalla zona a rischio le persone apparentemente sane e tenerle rinchiuse nei giganteschi campi di quarantena. New York si era trasformata in una zona mortale. Scuole, chiese ed edifici pubblici erano stati trasformati in ospedali, le strade intorno alla città sembravano circondare un'enorme prigione.

Guardò a sinistra.

L'incendio nel tunnel non era ancora spento. L'autista di un'autocisterna militare non aveva indossato bene il respiratore e aveva perso conoscenza mentre viaggiava a tutta velocità. Inoltre si trovava all'interno di un convoglio e aveva così innescato una reazione a catena, nel corso della quale erano esplose dozzine di veicoli. Al momento, nel tunnel c'era la stessa temperatura dell'interno di un vulcano.

Peak si sentiva in qualche modo responsabile di quell'incidente. Ovviamente il rischio di contaminazione nel tunnel era maggiore che nelle strade, dove le tossine si potevano disperdere. Ma come poteva essere ovunque contemporaneamente? E soprattutto, poteva davvero impedire qualcosa?

Se c'era una cosa che Peak odiava era l'inadeguatezza.

E adesso anche Washington era sotto assedio.

«Non ce la facciamo», aveva detto per telefono a Judith Li.

«Dobbiamo», aveva ribattuto lei.

Sorvolarono l'Hudson e fecero rotta verso l'Hackensack Airport, dove un apparecchio militare attendeva Peak per portarlo a Vancouver. Le luci di Manhattan svanirono. Peak si domandò a cosa avrebbe portato la riunione del giorno seguente. Sperava che almeno si fosse arrivati a trovare una cura per mettere fine all'orrore di New York, ma una voce gli diceva di non farsi illusioni. Era la sua voce interiore e, in genere, aveva ragione.

La testa gli rimbombava al ritmo delle pale dell'elicottero.

Peak si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi.


Château Whistler, Canada

Judith Li era soddisfatta.

Certo, la situazione era spaventosa. Ma la giornata era andata bene. Vanderbilt si era messo sulla difensiva e il presidente l'aveva ascoltava. Dopo infinite telefonate, aveva messo insieme un quadro agghiacciante e adesso attendeva con impazienza di essere messa in contatto col segretario alla Difesa. Voleva discutere della nave che il giorno seguente avrebbe dovuto condurre i primi attacchi col sonar. Ma il segretario alla Difesa era impegnato in una riunione, e lei aveva ancora qualche minuto. Avrebbe potuto suonare Schumann con la splendida cornice del cielo stellato.

Erano passate da poco le due. Il telefono squillò. Judith saltò in piedi e rispose. Si aspettava il Pentagono, per cui rimase sbalordita quando sentì una voce diversa. Ma si riprese subito. «Dottor Johanson… Cosa posso fare per lei?»

«Ha tempo?»

«Quando? Ora?»

«Vorrei parlarle a quattr'occhi, generale.»

«Devo fare qualche telefonata. Diciamo tra un'ora?»

«Non è curiosa?»

«Dovrei esserlo.»

«Era convinta che avessi una teoria, no?»

«Oh, certo!» Rifletté per qualche istante, poi disse: «Va bene. Venga».

Riagganciò con un sorriso. Era proprio quello che si aspettava. Johanson non si sarebbe mai presentato da lei senza annunciarsi ed era troppo corretto per scavalcarla. Voleva definire la situazione, anche nel cuore della notte.

Chiamò il centralino. «Sposti la mia telefonata col Pentagono di mezz'ora.» Esitò, poi si corresse: «No, di un'ora».


Vancouver Island

Dopo il racconto di Greywolf, Anawak aveva perso l'appetito. Ma Shoemaker aveva superato se stesso. Aveva cucinato bistecche sontuose, accompagnate da un'insalata con crostini e noci. A mangiare nella sua veranda erano in tre. Alicia evitò di parlare della sua nuova relazione e si mostrò molto socievole. Conosceva una gran quantità di barzellette ed era brava a raccontarle, tanto che avrebbe potuto farlo anche su un palco. Era davvero divertente.

La serata era come un'isola in un mare di desolazione. Nell'Europa medievale, mentre imperversava la peste nera, si ballava e si facevano feste. Non erano ancora a quel punto, ma riuscirono a passare alcune ore parlando di tutto tranne che di tsunami, balene e alghe killer. Anawak era riconoscente per quella distrazione. Shoemaker raccontò alcuni aneddoti sugli inizi della Davies. Risero, chiacchierarono e si gustarono quella serata. Poi, seduti con le gambe allungate, rimasero a osservare l'acqua nera della baia.

Intorno alle due, Anawak si congedò. Alicia rimase. Lei e Tom avevano aperto un'altra bottiglia di vino, e si erano messi a parlare di vecchi film. Anawak bevve un bicchiere d'acqua, ringraziò e si avviò nella notte verso la stazione. Una volta arrivato, accese il computer e si collegò a Internet.

Nel giro di qualche minuto, era riuscito a trovare il professor Kurzweil.

Alle prime luci dell'alba, cominciò a delinearsi il quadro.

12 maggio

Château Whistler, Canada

Probabilmente siamo al punto di svolta, pensò Johanson.

Oppure sono un vecchio pazzo.

Era sul piccolo podio, a sinistra dello schermo. Il proiettore era acceso. Avevano dovuto attendere per qualche minuto Anawak, che aveva pernottato a Tofino, ma ormai c'erano tutti. In prima fila sedevano Salomon Peak, Jack Vanderbilt e Judith Li. Peak era sfinito. Durante la notte era rientrato da New York e sembrava aver perso gran parte delle sue energie.

Johanson aveva passato metà della sua vita in sale riunioni ed era abituato a parlare in pubblico. Nei suoi discorsi, a poco a poco, aveva aggiunto alle nozioni scolastiche le scoperte fatte e le ipotesi formulate, mettendo quindi in conto la possibilità di litigare con alcuni specialisti o sedicenti tali. A parte ciò, le sale riunioni erano un terreno tranquillo. Si comunicava quello che si era scoperto e si facevano domande.

Quella mattina, invece, fu travolto da una sensazione inattesa: l'insicurezza. Come poteva spiegare la sua teoria senza che tutti si spanciassero dalle risate? Judith Li aveva ammesso che poteva avere ragione. Era già molto. Con cauto ottimismo, si poteva addirittura affermare che lei era disposta a seguire il suo ragionamento. Ma l'insicurezza non lo abbandonava. Aveva visto giusto o stava prendendo una solenne cantonata? Quel dubbio lo aveva spinto a trascorrere la notte in bianco, a correggere la sua relazione. Però non si faceva illusioni. Aveva solo quel colpo a disposizione. O riusciva a cogliere gli altri di sorpresa, oppure l'avrebbero considerato un pazzo.

Tutti gli occhi erano puntati su di lui. Il silenzio era assoluto.

Guardò il primo foglio dei suoi appunti. L'introduzione gli era sembrata esauriente. Adesso invece gli appariva incomprensibile e complicata. Durante la notte, mentre gli occhi gli bruciavano per la stanchezza e lui faticava a pensare con lucidità, ne era stato soddisfatto. Ora quello che aveva davanti non lo convinceva. Le argomentazioni non erano approfondite a sufficienza. La struttura retorica era traballante.

Johanson esitò.

Poi mise da parte gli appunti.

Si sentì immediatamente sollevato, come se quei pochi fogli pesassero tonnellate. La sua sicurezza ritornò, come un cavaliere che si prepara alla battaglia tra gli sventolii delle bandiere e gli squilli di tromba. Fece un passo in avanti, si guardò intorno, si assicurò l'attenzione dei presenti e cominciò: «È molto semplice. Le conseguenze ci faranno venire un terribile mal di testa, ma in fondo è tutto molto semplice e immediato. Questa non è una catastrofe naturale. Non abbiamo a che fare né con gruppi terroristici né con Stati canaglia. Non è neppure l'evoluzione a essere impazzita. Tutto ciò non c'entra niente». Fece una pausa, poi riprese: «Sta succedendo qualcosa di completamente diverso. In questi giorni, siamo testimoni di una guerra tra pianeti. Tra due pianeti che non riconosciamo come tali, perché sono fusi in. uno. Tante volte abbiamo guardato lo spazio, in attesa d'intelligenze aliene, e invece esse sono parte integrante di quel mondo che non ci siamo mai sforzati di comprendere veramente, il nostro. Due sistemi radicalmente differenti di vita intelligente coesistono su questo pianeta, e fino a oggi si sono lasciati in pace. Tuttavia, mentre il primo sapeva dello sviluppo del secondo, quest'ultimo — e parlo di noi — non aveva la minima idea della complessità del mondo sottomarino. In altre parole, noi abbiamo ignorato tutto dell'universo sconosciuto con cui dividiamo questo pianeta. L'universo è negli oceani. Gli extraterrestri non arrivano da lontanissime galassie, ma dagli abissi marini. La vita nell'acqua è molto più antica di quella sulla Terra e presumo che questi esseri siano molto più antichi di noi. Non ho idea di quale aspetto abbiano e di come vivano, che cosa pensino e come comunichino. Ma ci dovremo abituare all'idea che esistono. In più noi, da vari decenni, stiamo distruggendo il loro ambiente vitale. E sembra proprio che 'quelli' laggiù siano davvero molto arrabbiati con noi, signore e signori. E non hanno tutti i torti».

Nessuno parlò.

Vanderbilt lo fissò. Le sue guance cadenti presero a tremare. Anzi fremeva tutto, come se fosse scosso da una risata, che sarebbe esplosa contro Johanson come la raffica di un plotone di esecuzione. Le labbra carnose sussultarono. Vanderbilt aprì la bocca.

«La sua idea mi ha illuminato», intervenne Judith Li.

Era come se qualcuno avesse piantato un coltello nella schiena del vice direttore della CIA. La sua bocca si richiuse. Trasalì violentemente e guardò la donna, sbigottito. «Non dirà sul serio», ansimò.

«E invece sì», ribatté lei tranquilla. «Non ho detto che il dottor Johanson ha ragione, però mi sembra sensato starlo ad ascoltare. Credo che potrà spiegare la sua tesi.»

«Grazie, generale», disse Johanson con un inchino appena accennato. «In effetti posso farlo.»

«Allora le propongo di andare avanti. Cerchi di essere sintetico, in modo da arrivare rapidamente alla discussione.»

Vanderbilt sembrava sotto shock. Johanson fece scorrere lo sguardo sui presenti, cercando però di mantenere un'aria tranquilla, così da non dare l'idea di essere preoccupato delle reazioni. Quasi nessuno mostrava un'evidente disapprovazione. La maggior parte dei volti era pietrificata dalla sorpresa; alcuni sembravano affascinati, altri increduli, altri ancora erano privi di espressione. Ora doveva fare il secondo passo. Quegli uomini dovevano comprendere il suo pensiero e svilupparlo autonomamente.

«Nei giorni e nelle settimane appena trascorse, il nostro problema principale è stato mettere in relazione i singoli avvenimenti», riprese. «Sembrava non ci fosse nessun legame, finché non siamo incappati in quella sostanza gelatinosa che si distruggeva all'aria. Purtroppo questa scoperta ha aumentato ulteriormente la confusione, perché abbiamo trovato la sostanza nei granchi e nei mitili, ma anche nella testa delle balene, quindi in esseri diversi tra loro. L'unica spiegazione possibile è una sorta di epidemia. Un aspergillo, una sostanza che provocava la rabbia, qualcosa di simile alla BSE. Ma questo non spiega gli affondamenti delle navi o il fatto che i granchi portino con sé delle alghe killer. E i vermi sulla scarpata continentale non hanno nulla di gelatinoso. In compenso, però, trasportano batteri che ossidano il metano e sono responsabili della fuoriuscita in grandi quantità di gas e, non da ultimo, dello scivolamento del margine continentale e quindi dello tsunami. Nel frattempo, in ampie parti del mondo sono comparsi organismi evidentemente soggetti a mutazione e banchi di pesci che si comportano contro la loro natura. Tutto ciò non sembra del tutto irrelato. Jack Vanderbilt ha assolutamente ragione quando parla della responsabilità di uno spirito pianificatore. Ma sottovaluta il fatto che gli scienziati non hanno sufficienti conoscenze degli ecosistemi marini per poterli manipolare in quel modo. Si dice che sappiamo molto più dell'universo che degli abissi marini. È vero. Però bisognerebbe completare l'affermazione, spiegando che nello spazio possiamo muoverci e vedere meglio che nei mari. Il telescopio Hubble scruta instancabilmente nelle galassie sconosciute. Invece, nell'acqua, anche i più potenti proiettori del mondo riescono a illuminare al massimo una zona di una dozzina di metri. Un uomo con una tuta spaziale si può muovere quasi ovunque nell'universo, ma un sommozzatore, a una certa profondità, viene schiacciato, anche con una tuta high-tech. I mezzi sottomarini, gli AUV e i ROV, funzionano solo a certe condizioni. In definitiva, non possediamo né le attrezzature tecniche né le doti fisiche per piazzare sugli idrati miliardi di vermi, e tantomeno disponiamo delle conoscenze necessarie per allevarli in funzione di un mondo che conosciamo appena. I cavi sottomarini sono stati distrutti, e non soltanto a causa dello smottamento. Dagli abissi risalgono banchi di molluschi e meduse. Sì, è giusto, per spiegare questi fenomeni ci aiuta mettere in gioco uno spirito pianificatore, ma dobbiamo essere coerenti sino in fondo: tutto quello che succede, infatti, può accadere perché, laggiù, qualcuno conosce quell'ambiente almeno quanto noi conosciamo quello in superficie. Intendo qualcuno che vive là e che ha assunto un ruolo dominante nel proprio universo.»

«Ho capito bene?» gridò Rubin, eccitato. «Lei sta dicendo che dividiamo questo pianeta con un'altra specie intelligente?»

«Sì. Lo credo.»

«Se è così, perché finora non abbiamo mai visto o sentito qualcosa di questa specie?» chiese Peak.

«Perché non esiste», sbottò Vanderbilt.

«Sbagliato.» Johanson scosse energicamente la testa. «Ci sono almeno tre motivi. Primo, la legge del pesce invisibile.»

«Come?»

«La maggior parte degli esseri viventi degli abissi, nel senso classico del termine, non vede quanto vediamo noi in quell'ambiente, ma ha sviluppato altri organi di senso che sostituiscono la vista. Essi reagiscono alla più lieve variazione di pressione. Le onde sonore li raggiungono da centinaia e migliaia di chilometri. Ogni mezzo subacqueo viene percepito molto prima che il suo equipaggio possa vedere qualcosa. Teoricamente, in una zona potrebbero vivere milioni di pesci di una determinata specie, ma, se rimangono nell'oscurità, non ne vedremo mai neanche uno. E qui abbiamo a che fare con un essere intelligente! Non potremo osservarlo finché non sarà lui a volerlo. Il secondo motivo è che non abbiamo idea dell'aspetto di questo essere. Abbiamo riprese video di misteriosi fenomeni, la nuvola blu, la scarica che sembra un fulmine, la 'cosa' sulla scarpata continentale norvegese. Sono espressioni di un'intelligenza sconosciuta? Che cos'è quella gelatina? Cosa sono i rumori che Murray Shankar non riesce a classificare? E c'è un terzo motivo. Un tempo, si credeva che fossero abitati solo gli strati superiori del mare, quelli attraversati dai raggi solari. Ora sappiamo che la vita brulica in ogni strato. C'è vita anche a undicimila metri di profondità. Per molti organismi degli abissi, non c'è un solo motivo per trasferirsi verso la superficie. La maggior parte non potrebbe neppure, perché l'acqua sarebbe troppo calda, la pressione troppo bassa e non ci sarebbe il nutrimento di cui hanno bisogno. Noi, al contrario, abbiamo esplorato solo gli strati superficiali dell'acqua e, negli abissi, ci sono state solo alcune persone in batiscafi corazzati e qualche robot. Se vogliamo paragonare queste escursioni occasionali al famoso ago nel pagliaio, dobbiamo immaginare un pagliaio grande come tutto il pianeta. Sarebbe come se degli extraterrestri mandassero sulla Terra delle navi spaziali con telecamere i cui obiettivi possono riprendere solo quello che vedono in una zona di pochi metri. Una di esse riprende un pezzo di steppa della Mongolia, un'altra fa un'istantanea sul Kalahari e una terza viene calata sull'Antartico. Un'altra nave spaziale arriva a Central Park, a New York, dove riprende un pezzo di manto erboso e un cane che fa pipì contro un albero. A che conclusione arriverebbero gli extraterrestri? Un pianeta inabitabile, su cui si trovano sporadiche forme di vita primitive.»

«E la loro tecnologia?» chiese Sue Oliviera. «Devono possedere una tecnologia per poter mettere in piedi tutto ciò.»

«Ho riflettuto anche su questo», rispose Johanson. «Credo che esista un'alternativa a una tecnologia come la nostra. Noi elaboriamo materie morte per farne apparecchi, case, mezzi di locomozione, radio, vestiti e così via. Ma l'acqua marina è molto più aggressiva dell'aria. Laggiù conta solo una cosa: l'adattamento ottimale. E, in genere, le forme di vita sono ottimamente adattate, quindi potremmo immaginare una biotecnologia pura. Se presupponiamo un'intelligenza evoluta, potremo attribuirle una notevole creatività e una precisa conoscenza della biologia degli organismi marini. Voglio dire, cosa facciamo noi? Gli uomini sfruttano da secoli le altre forme di vita. I cavalli sono motociclette viventi. Annibale ha valicato le Alpi con mezzi pesanti biologici. Gli ammali vengono continuamente addestrati. Oggi vengono anche modificati geneticamente. Cloniamo le pecore e produciamo mais geneticamente modificato. Che succede se sviluppiamo sino in fondo questa idea? Arriviamo a una specie che ha sviluppato la propria cultura e la propria tecnologia esclusivamente su basi biologiche! Semplicemente alleva ciò di cui hanno bisogno. Per la vita quotidiana, per spostarsi, per la guerra.»

«Oh, santo cielo», gemette Vanderbilt.

«Noi coltiviamo il virus Eboia, gli agenti patogeni della peste e facciamo esperimenti col vaiolo», continuò Johanson, senza curarsi dell'uomo della CIA. «Quindi con forme di vita. Le mettiamo nelle testate esplosive, ma è complicato, e un razzo, anche se guidato dal satellite, non arriva necessariamente sull'obiettivo. Probabilmente la strada più intelligente per arrecare danni terribili sarebbe allevare cani portatori di simili agenti patogeni. Oppure uccelli. O, a parer mio, anche insetti! Che si può fare contro uno sciame di moscerini o di formiche contaminate? Oppure contro milioni di granchi che trasportano un'alga killer?» Fece una pausa. «Quei vermi sulla scarpata continentale sono stati allevati. Non c'è da meravigliarsi se prima non li avevamo mai visti. Non esistevano. Il loro compito consiste nel trasportare i batteri nel ghiaccio, quindi in un certo senso abbiamo a che fare con dei missili Cruise della famiglia dei policheti, con armi biologiche sviluppate da qualcuno la cui cultura si basa interamente sulla manipolazione di vita organica. E così, in un colpo solo, abbiamo una spiegazione per tutte le mutazioni! Alcuni animali sono stati modificati in maniera insignificante, altri rappresentano qualcosa di completamente nuovo. Quella gelatina, per esempio, è un prodotto biologico ad alto grado di variabilità, ma di certo non è il risultato della selezione naturale. Quella gelatina ha uno scopo. Guida le altre forme di vita, infestando la loro rete neurale. In qualche modo, cambia il comportamento dei cetacei. Invece granchi e astici sono stati ridotti alle pure funzioni meccaniche. Gusci vuoti con resti di masse nervose. La gelatina li guida e porta a bordo il carico di alghe killer. Probabilmente questi granchi non sono mai stati realmente vivi. Sono stati allevati come tute spaziali organiche, per poter essere spediti nell'altro mondo, il nostro mondo.»

«Questa sostanza, questa gelatina, non potrebbe averla elaborata un essere umano?» ipotizzò Rubin.

«Difficile», s'intromise Anawak. «Quello che dice il dottor Johanson ha senso, secondo me. Se dietro tutto questo si nasconde un uomo, perché avrebbe dovuto scegliere la strada degli abissi marini per contaminare una città?»

«Perché le alghe killer provengono dal mare.»

«Perché non ha tentato con qualcos'altro? Chi è in grado di coltivare alghe killer più velenose della Pfiesteria, sarà pure in grado di trovare un agente patogeno che non abbia bisogno dell'acqua. A che scopo allevare granchi se poteva utilizzare le formiche, gli uccelli o i topi?»

«Coi topi non si provoca uno tsunami.»

«La sostanza proviene da un laboratorio umano», insistette Vanderbilt. «È una sostanza sintetica…»

«Non credo», gridò Anawak. «Nemmeno la Marina riesce a fare una cosa del genere e si sa bene quant'è in gamba a manipolare i mammiferi marini.»

Vanderbilt scosse la testa con violenza, come se avesse il morbo di Parkinson. «Ma di che parla?»

«Sto parlando degli esperimenti condotti sotto il nome in codice MK0.»

«Mai sentito.»

«Vuole forse negare che da anni la Marina sta cercando di manipolare i flussi cerebrali dei delfini e di altri mammiferi marini inserendo elettrodi nella scatola cranica e…»

«Tutte chiacchiere!»

«Cosa che finora non è riuscita, almeno non come desiderato. Allora si studiano i lavori di Ray Kurzweil…»

«Kurzweil?»

«Uno dei corifei della neuroinformatica», interloquì Fenwick e improvvisamente il suo viso s'illuminò. «E Kurzweil ha sviluppato una visione che va ben oltre l'attuale stato delle ricerche sul cervello. Volendo sapere se gli uomini sono in grado… No, molto di più… I suoi lavori potrebbero fornire informazioni su come un'intelligenza esterna prende il sopravvento su un altro essere!» Era sempre più eccitato. «Il computer neurale di Kurzweil! Questa è una possibilità!»

«Scusate», disse Vanderbilt. «Non ho la minima idea di che cosa stiate parlando.»

«No?» ridacchiò Judith Li. «Ho sempre pensato che uno degli interessi principali della CIA fosse il lavaggio del cervello.»

Vanderbilt sbuffò, guardandosi intorno. «Di che parla quello? Maledizione, c'è qualcuno che mi può dire di che cosa sta parlando?»

«Il computer neurale è un modello per la completa ricostruzione di un cervello», rispose Sue. «Vede, il nostro cervello è composto da miliardi di cellule nervose. Ogni cellula è collegata con innumerevoli altre. Comunicano attraverso impulsi elettrici. In questo modo, conoscenze, esperienze ed emozioni vengono costantemente aggiornate, riordinate o archiviate. In ogni secondo della nostra vita, anche quando dormiamo, il nostro cervello è sottoposto a una continua ristrutturazione. Con le tecniche attuali, è possibile determinare con precisione le aree attive del cervello fino a un millimetro. Come una carta geografica. Possiamo osservare come si pensa e si provano emozioni, quali cellule nervose vengono temporaneamente attivate, per esempio, con un bacio, con un acuto dolore o con un ricordo…»

«Si conoscono le posizioni, e la Marina sa bene dove deve fornire uno stimolo elettrico per avere una determinata reazione», continuò Anawak. «Ma è ancora a un livello troppo grossolano. Come una carta geografica il cui dettaglio si fermi a cinquanta chilometri quadrati. Kurzweil, invece, crede che ben presto avremo la possibilità di scansionare un cervello completo, compreso ogni singolo collegamento nervoso, ogni sinapsi e l'esatta concentrazione di tutti i messaggeri chimici, fino al minimo dettaglio di ogni singola cellula!»

«Uffa!» esclamò Vanderbilt.

«Quando si avranno le informazioni complete, si potrà trasferire un cervello con tutte le sue funzioni in un computer neurale», disse Sue. «Il computer sarebbe una copia perfetta della mente della persona il cui cervello è stato scansionato, con tutte le sue capacità e i suoi ricordi. Un secondo Io.»

Judith Li sollevò una mano. «Posso assicurarvi che MK0 non è ancora a quel punto», disse. «Per ora, il computer neurale di Kurzweil resta un'ipotesi.»

«Jude…» sussurrò Vanderbilt, terrorizzato. «Perché racconta questo? Non sono cose che li riguardano, si tratta di un segreto militare…»

«MK0 si fonda su necessità militari», replicò pacatamente Judith Li. «L'alternativa sarebbe sacrificare esseri umani. Non possiamo sempre scegliere la nostra guerra, no? In effetti, il progetto si trova in un vicolo cieco, ma è soltanto una pausa. La strada dell'intelligenza artificiale è ormai aperta. La medicina non è lontanissima dal sostituire gli organi umani con microchip. I ciechi, grazie a simili impianti, riescono già a riconoscere i contorni. Ci saranno forme d'intelligenza completamente nuove.» Fece una pausa e fissò lo sguardo su Anawak. «Era questo che voleva dire, non è vero? Comunque, per tornare al nostro argomento, se l'umanità fosse già al punto immaginato da Kurzweil, allora bisognerebbe riconsiderare l'ipotesi del terrorismo mediorientale. Ma l'umanità non è ancora arrivata a quel punto. Non c'è arrivata l'America e non ci sono arrivati altri. Nessun essere umano può aver coltivato questa gelatina che, a quanto pare, funziona come un computer neurale.»

«Nella pratica, i computer neurali significano il controllo totale su ogni pensiero», disse Anawak. «Se la gelatina è qualcosa del genere, allora non si limita a guidare quegli animali, diventa quegli animali. Diventa parte del loro cervello. Le cellule della sostanza assumono le funzioni delle cellule nervose. O allargano il cervello di un essere vivente…»

«O lo sostituiscono», concluse Sue. «Leon ha ragione. Un simile organismo non proviene da un laboratorio umano.»

Johanson ascoltava, col cuore che batteva all'impazzata. Avevano compreso la sua teoria. La stavano elaborando e vi aggiungevano nuovi punti di vista; ogni parola che veniva pronunciata la rafforzava. Iniziò a immaginare quel computer biologico che poteva copiare le cellule nervose… Intanto intorno a lui la discussione era sempre più accesa.

Poi Roche balzò in piedi e prese la parola. «C'è ancora una cosa che non capisco, dottor Johanson. Come spiega il fatto che quelli là sotto sanno così tante cose su di noi? Voglio dire, con tutto il rispetto per la sua teoria, come può un abitante degli abissi scoprire così tanto su di noi?»

Johanson vide Vanderbilt e Rubin annuire. «Non è difficile da spiegare», rispose. «Se noi sezioniamo un pesce, lo facciamo nel nostro mondo, non nel loro. Perché questi esseri non dovrebbero acquisire conoscenze nel loro mondo? Ogni anno annega una gran quantità di persone e, in caso servano loro altri esemplari, possono sempre prenderseli. D'altra parte, lei ha ragione: cosa sanno davvero di noi? Poco prima dello smottamento della scarpata continentale, anch'io ero arrivato a pensare a un attacco organizzato. Ma l'idea che dietro di esso si nascondessero degli uomini mi era sembrata assurda. La strategia era troppo lontana dalla logica umana. Sì, annientare in un colpo tutte le infrastrutture europee era una cosa pianificata brillantemente, con conseguenze devastanti per noi. Far affondare piccole navi dalle balene, invece, è subito sembrata una mossa ingenua. L'overfishing non si ferma con banchi di meduse velenosissime. Le catastrofi navali ci colpiscono duramente, ma dubito che questi banchi di mutanti possano paralizzare il traffico navale mondiale. In ogni caso, balza all'occhio che hanno informazioni molto precise sulle navi. Conoscono bene tutto ciò che tocca il loro mondo. È il mondo fuori dall'acqua, quello che conoscono meno. Mandare sulla terra i granchi con le alghe killer è un eccellente piano militare, ma l'inizio, con gli astici, è stato maldestro. Evidentemente non avevano pensato alla pressione minore presente sulla terraferma. Quando i corpi degli astici sono stati riempiti di gelatina, essa era compressa dalla pressione elevata. Naturalmente, in superficie, la gelatina tende a espandersi e infatti alcuni astici sono esplosi.»

«Coi granchi sembra che abbiano imparato», disse Sue. «Rimangono stabili.»

«Ma certo.» Rubin fece una smorfia. «Crepano non appena arrivano a terra.»

«E perché no?» ribatté Johanson. «Hanno svolto il loro compito. Tutti gli animali allevati sono destinati a una morte rapida. Devono combattere il nostro mondo, non occuparlo. Gli uomini non condurrebbero mai così una guerra! Perché un uomo dovrebbe sobbarcarsi simili esperimenti? Che motivo fondato avrebbe per modificare geneticamente proprio degli esseri che vivono a diversi chilometri di profondità come i granchi dei camini idrotermali? Qui non ci sono degli uomini al lavoro. Qui si stanno facendo esperimenti per vedere dov'è il nostro punto debole. E soprattutto esperimenti che ci distraggano.»

«Ci distraggano?» gli fece eco Peak.

«Sì. Il nemico ha aperto molti fronti contemporaneamente. Alcuni per noi sono veri incubi, altri sono per lo più fastidiosi, ma ci tengono impegnati comunque. La maggior parte delle punture che c'infliggono sono molto dolorose. Ma la vera perfidia è che stanno camuffando quello che succederà davvero. Siamo così impegnati a limitare i danni da non vedere il pericolo reale. Avete presente il giocoliere che mette i piatti su dei bastoni e li fa roteare? Be', deve continuamente correre da un bastone all'altro. Quando ha stabilizzato il secondo, il primo comincia a vacillare e viceversa. Più piatti ci sono, più velocemente deve correre. Nel nostro caso, il numero dei piatti ha già ampiamente superato le nostre capacità da giocolieri. Gli attacchi sono troppo numerosi. Le aggressioni delle balene e dei banchi di pesci non sono un problema irresolubile di per sé. A conti fatti, però, raggiungono il loro scopo, che è quello di bloccarci e impegnarci. Se i fenomeni continuano a diffondersi, alcuni Stati perderanno il controllo e altri cercheranno di sfruttare l'occasione per controllarli. Il risultato sarà una serie di conflitti — locali e su vasta scala -, che sfuggirà di mano e non avrà vincitori. C'indeboliremo da soli. Le strutture delle organizzazioni internazionali di soccorso crolleranno. La rete delle forniture medicinali cederà. Non avremo mezzi, forza e know how sufficienti e infine non avremo abbastanza tempo per impedire che l'obiettivo venga raggiunto.»

«E l'obiettivo sarebbe…» fece Vanderbilt in tono annoiato.

«L'annientamento dell'umanità.»

«Come?»

«Non è evidente? Hanno deciso di trattarci come gli uomini trattano i parassiti. Vogliono annientarci…»

«Adesso basta!»

«… prima che noi annientiamo la vita nel mare.»

L'uomo della CIA balzò in piedi e puntò un dito tremante contro Johanson. «Questa è la più grande idiozia che abbia mai sentito! Perché crede di essere qui? Ha visto troppi film? Vorrebbe farci credere che laggiù ci sono questi… E.T. usciti da The Abyss, che dal fondo del mare ci minacciano, levando il dito perché siamo stati maleducati?»

«The Abyss?» Johanson rifletté. «Ah, giusto. No, non intendo esseri di quel tipo. Quelli erano extraterrestri.»

«Comunque è una stupidaggine.»

«No. In The Abyss quegli esseri erano giunti nei nostri mari dallo spazio. Il film li descriveva come migliori di noi, venuti a portare un messaggio morale. Ma soprattutto quegli alieni non avevano intenzione di scacciarci dal vertice dell'evoluzione terrestre, come farebbe una specie intelligente sviluppatasi su questo pianeta in modo parallelo a noi.»

«Dottor Johanson!» Vanderbilt tirò fuori il suo fazzoletto e si asciugò il sudore sulla fronte e sul labbro superiore. «Lei non è una persona dai mille segreti come noi. Non ha la nostra esperienza. Le fa onore averci offerto un quarto d'ora d'intrattenimento di alto livello, ma, se vuole scoprire chi c'è dietro questi disastri, anzitutto deve capire chi se ne avvantaggia! Questo la porterebbe sulla strada giusta! Non il suo razzolare nel…»

«Nessuno se ne avvantaggia», disse qualcuno.

Vanderbilt si girò a fatica.

«Si sbaglia, Vanderbilt.» Bohrmann si era alzato. «Fino a ieri notte, a Kiel si sono sviluppati scenari su quello che succederà se altre scarpate continentali collasseranno.»

«Lo so», sbottò Vanderbilt. «Tsunami e metano. Avremo qualche problemuccio col clima…»

«No.» Bohrmann scosse la testa. «Non problemucci. È una condanna a morte. È universalmente noto quello che è successo alla Terra cinquantacinque milioni di anni fa, quando il metano si è disperso nell'atmosfera…»

«Come diavolo fa a sapere quello che è successo cinquantacinque milioni di anni fa?»

«L'abbiamo ricostruito coi calcoli e, nello stesso modo, abbiamo previsto quello che succederà. Sulle coste si scateneranno tsunami che annienteranno la popolazione. Poi, la temperatura aumenterà gradualmente, fino ad arrivare a un caldo insopportabile, e noi moriremo. Anche nel Medio Oriente, Mister Vanderbilt. Anche i suoi terroristi morirebbero. Il nostro destino potrebbe essere segnato già con la fuoriuscita del metano dell'America orientale e del Pacifico occidentale.»

Di colpo calò un silenzio di piombo.

«E lei non potrà farci nulla, Jack», disse lentamente Johanson, fissando Vanderbilt. «Perché non saprà cosa fare. E non avrà il tempo di pensarci, impegnato com'è con balene, squali, molluschi, meduse, granchi, alghe killer e invisibili divoratori di cavi che eliminano anche i nostri sommozzatori, i batiscafi e qualsiasi cosa possa andare a vedere che succede sott'acqua.»

«Quanto ci vorrà perché l'atmosfera sia surriscaldata al punto di diventare una seria minaccia per l'umanità?» chiese Judith Li.

Bohrmann aggrottò la fronte. «Penso qualche centinaio d'anni.»

«Rassicurante», ringhiò Vanderbilt.

«No, non è così», disse Johanson. «Se quegli esseri hanno iniziato la loro guerra perché stiamo mettendo in pericolo il loro spazio vitale, devono finire in fretta il lavoro. Dal punto di vista della storia della Terra, qualche secolo non è niente. Ma l'uomo, nel giro di poco tempo, ha già causato danni gravissimi. È per questo che hanno fatto un altro passo in avanti. Sono riusciti a fermare la Corrente del Golfo.»

Bohrmann lo fissò. «Hanno fatto cosa

«È già ferma», intervenne Karen Weaver. «Forse scorre ancora un po', ma sono gli ultimi movimenti. Nel giro di pochi anni, il mondo dovrà prepararsi a un'altra Era Glaciale. È possibile che, in meno di cento anni, sulla Terra sia tutto ghiacciato.»

«Un momento», gridò Peak. «Il metano surriscalderebbe la Terra, e questo lo sappiamo. L'atmosfera potrebbe collassare. Ma che cosa c'entra con un'Era Glaciale provocata dal blocco della Corrente del Golfo? Com'è possibile, per l'amor del cielo? Siamo di fronte a una sorta di compensazione del terrore?»

Karen Weaver lo guardò. «Direi un potenziamento.»

All'inizio, sembrava che Vanderbilt fosse l'unico a rifiutare la teoria di Johanson; nel corso delle ore successive, tuttavia, il quadro cambiò. Il gruppo si spaccò in due e gli animi degli schieramenti contrapposti si esacerbarono. Vennero riesaminati tutti gli avvenimenti: le prime anomalie, l'inizio degli attacchi delle balene, le circostanze in cui erano stati scoperti i vermi. Ormai sembrava di essere in mezzo a una partita di rugby: ci si faceva largo a gomitate con la retorica, gli argomenti venivano giocati da un parte all'altra, le fazioni si attaccavano a turno, spiazzavano l'avversario con nuovi aspetti e cercavano di atterrarlo. Anawak sapeva bene qual era la domanda inespressa: era possibile che una diversa forma d'intelligenza stesse contendendo il predominio a quella umana? Nessuno ne parlava apertamente. Ma lui, avvezzo alle dispute sull'intelligenza animale, coglieva il significato profondo di ogni parola. La teoria di Johanson non metteva in discussione la scienza, bensì l'immagine che un gruppo di esperti aveva di se stessi. Scienziati che, prima di tutto, erano uomini. Vanderbilt riuscì a ottenere l'appoggio di Mick Rubin, Stanley Frost, Bernard Roche, Murray Shankar e Salomon Peak, benché quest'ultimo non fosse pienamente convinto. Johanson conquistò la fiducia di Judith Li, Sue Oliviera, Ray Fenwick, John Ford, Gerhard Bohrmann e Leon Anawak. Gli agenti dei servizi segreti e i diplomatici in un primo momento rimasero sbalorditi, come se stessero assistendo a una pièce del teatro dell'assurdo. Poi cominciarono a schierarsi.

Fu sorprendente.

Quelle spie di professione, quei consiglieri per la sicurezza superconservatori e quegli esperti di terrorismo si schierarono quasi tutti dalla parte di Johanson. Uno di loro disse: «Sono abituato a ragionare senza pregiudizi. Se gli argomenti mi convincono, ci credo. Se gli argomenti contrari sono deformati con espedienti retorici soltanto perché così possono rientrare nella griglia delle nostre esperienze, allora non ci credo».

Il primo a disertare dalla piccola truppa di Vanderbilt fu Peak. Lo seguirono Frost, Shankar e Roche.

Vanderbilt, sfinito, propose una tregua.

All'esterno della sala riunioni era stato allestito un buffet con succhi di frutta, caffè e dolci. Karen si avvicinò ad Anawak. «Lei non ha espresso perplessità sulla teoria di Johanson», affermò. «Come mai?»

Lui la guardò e sorrise. «Caffè?»

«Grazie. Col latte.»

Versò due tazze e gliene passò una. Karen era poco più bassa di lui. Improvvisamente si rese conto che le piaceva, benché non avessero parlato molto. Le era piaciuta fin dal primo momento, quando i loro sguardi si erano incrociati davanti allo Château. «Sì», disse. «La teoria è ben ponderata.»

«Solo per questo? O è perché in fondo crede all'intelligenza degli animali?»

«Non ci credo. In generale credo all'intelligenza, ma sono anche convinto che gli animali sono animali e gli uomini sono uomini. Se potessimo dimostrare che i delfini sono intelligenti come noi, con tutte le conseguenze del caso, non sarebbero più animali.»

«E crede che sia così?»

Anawak scosse la testa. «Finché continueremo a giudicare le cose dal punto di vista umano, non lo scopriremo. Lei ritiene che gli uomini siano intelligenti, Miss Weaver?»

Karen sorrise. «Un singolo uomo è intelligente. Gli uomini in gruppo diventano un'orda anomala.»

Bella risposta, pensò Anawak. «Vede?» disse. «Lo stesso potremmo…»

«Dottor Anawak?» Un uomo gli si avvicinò a passo veloce. Era del personale addetto alla sicurezza. «È lei il dottor Anawak?»

«Sì.»

«La cercano al telefono.»

Anawak aggrottò la fronte. Allo Château, nessuno era raggiungibile direttamente per telefono. Ma c'era a disposizione un numero cui i parenti potevano lasciare notizie o chiamare in casi urgenti.

Shoemaker aveva il numero. Chi altri?

«Nella hall», spiegò l'uomo. «O preferisce che la telefonata sia trasferita nella sua camera?»

«No, va bene nella hall. Arrivo.»

«A presto», gli gridò Karen, mentre lui si allontanava.

Anawak seguì l'addetto alla sicurezza fino alle cabine telefoniche.

«La prima», disse l'uomo. «Faccio trasferire la telefonata. Quando suona, non deve fare altro che sollevare la cornetta e sarà collegato con Tofino.»

Con Tofino? Allora è Shoemaker.

Anawak attese. Il telefono squillò e lui alzò il ricevitore.

«Ah, Leon», disse la voce di Shoemaker. «Mi dispiace davvero disturbarti. Lo so che sei impegnato in cose importanti, ma…»

«Non fa niente, Tom. Ieri è stata una bella serata.»

«Oh, sì. E… anche questo è importante… ehm…»

Sembrava che Shoemaker non riuscisse a trovare le parole. Poi sospirò. «Leon, ti devo dire una cosa terribile. Abbiamo ricevuto una telefonata da Cape Dorset.»

Anawak ebbe la sensazione che qualcuno gli avesse strappato via il pavimento da sotto i piedi. E seppe all'istante che cos'era successo. Lo seppe prima ancora che Shoemaker dicesse: «Leon, tuo padre è morto».

Rimase immobile, come paralizzato.

«Leon?»

«Tutto okay, io…»

Tutto okay. Come sempre. Tutto okay. Tutto okay.

Che cosa doveva fare?

Niente era okay!


Judith Li

«Extraterrestri?» Il presidente era stranamente calmo.

«No», ripeté Judith per l'ennesima volta. «Non sono extraterrestri. Sono abitanti di questo pianeta. È… la concorrenza, se vuole.»

L'Offutt Air Force Base e lo Château erano in collegamento. A Offutt, oltre al presidente, erano presenti il segretario alla Difesa, il consigliere per la sicurezza nazionale, il segretario agli Interni, il segretario di Stato, e il direttore della CIA. Ormai non c'erano più dubbi: Washington avrebbe condiviso lo stesso destino di New York. La città era stata evacuata e il gabinetto del presidente era stato in gran parte trasferito nel Nebraska. I primi casi di morte evidenziavano la gravità della situazione, ma le procedure di evacuazione verso l'interno procedevano più o meno secondo i piani. Stavolta erano preparati.

Allo Château si erano riuniti Judith Li, Vanderbilt e Peak. Judith sapeva che a Offutt detestavano l'idea di doversene stare rinchiusi là dentro. Il direttore della CIA sentiva la mancanza del suo ufficio al sesto piano della sede di Langley. In segreto, invidiava il direttore del Centro nazionale per la lotta al terrorismo, che si era strenuamente rifiutato di far evacuare i suoi collaboratori.

«Porti la sua gente al sicuro», gli aveva ordinato.

«Questa è una crisi che bisogna tenere sotto controllo», era stata la risposta. «I miei uomini devono restare ai loro computer e lavorare. Il loro compito è decisivo. Sono gli occhi con cui osserviamo il terrorismo internazionale. Non possiamo evacuarli.»

«New York è stata attaccata da killer biologici», aveva ribattuto il direttore della CIA. «Guardi che cos'è successo. A Washington non sarà diverso.»

«Il Centro nazionale per la lotta al terrorismo è stato creato proprio per fronteggiare situazioni critiche.»

«Va bene, ma i suoi uomini potrebbero morire.»

«Allora moriranno.»

Anche il segretario alla Difesa avrebbe preferito dirigere le operazioni dal suo imponente ufficio. E diventava sempre più difficile impedire al presidente di salire sull'Air Force One e tornare alla Casa Bianca. Gli si potevano rimproverare molte cose, ma non che fosse un vigliacco. Anzi era così audace da indurre molti suoi avversari a mormorare che fosse troppo ignorante per provare paura.

L'Offutt Air Force Base era attrezzata come una seconda sede del governo. Ma il problema era un altro: quegli uomini così potenti erano stati costretti a scappare, a cercare rifugio lì. Ecco perché accettavano senza troppe proteste l'idea che, nel mare, ci fosse un'entità intelligente, rifletté Judith. Battere in ritirata davanti ad avversari umani, contro cui non si poteva opporre resistenza, sarebbe stato un segno di debolezza, uno smacco intollerabile. La teoria di Johanson gettava una luce totalmente nuova sulla situazione, alleggerendo la pressione su ognuno di loro e soprattutto sul segretario alla Difesa e sul presidente stesso.

«Che ne pensate?» chiese il presidente ai suoi. «È possibile una cosa del genere?»

«Quello che io ritengo possibile non ha importanza», replicò bruscamente il segretario alla Difesa. «Gli esperti sono allo Château. Se sono arrivati a questa conclusione, dobbiamo prenderli sul serio e chiederci quale sarà la nostra prossima mossa.»

«Vuole prendere sul serio questa roba?» chiese Vanderbilt, agitato. «Stiamo parlando di alieni! Di omini verdi!»

«Non sono extraterrestri», ripeté pazientemente Judith.

«Avremo un problema ben diverso», notò il segretario alla Difesa. «Supponiamo che la teoria sia vera. Quanto possiamo far sapere all'opinione pubblica?»

«Quanto? Niente!» Il direttore della CIA scosse energicamente la testa. «Si scatenerebbe subito un caos mondiale.»

«L'avremo ugualmente.»

«E comunque i media ci farebbero a pezzi. Direbbero che siamo matti. Anzitutto non ci crederanno e, in seconda istanza, non ci vorranno credere. L'esistenza di una simile specie metterebbe in discussione l'importanza dell'umanità.»

«Questo è un problema prevalentemente religioso», disse il segretario alla Difesa, scuotendo il capo. «La sua rilevanza politica è pressoché nulla.»

«La politica non esiste più», intervenne Peak. «Non si può parlare di politica se si è incapaci di osservare i fatti a prescindere dalla paura e dalla miseria. Vada a Manhattan e capirà. Troverà inginocchiato a pregare un sacco di gente che non è mai stata in chiesa.»

Il presidente sollevò lo sguardo al soffitto. «Dobbiamo chiederci quali sono i piani divini», mormorò.

«Con tutto il rispetto, signor presidente… Dio non siede nel suo governo», sbottò Vanderbilt. «E non è neppure dalla nostra parte.»

«Questo non è un buon punto di vista, Jack», borbottò il presidente, con le sopracciglia aggrottate.

«Ho smesso di valutare i punti di vista sulla base del bene e del male. M'interessa solo che abbiano un senso. Evidentemente qui sono tutti convinti che in questa teoria ci sia qualcosa di vero. Allora mi chiedo chi di noi sia tanto cretino…»

«Jack!» esclamò il direttore della CIA.

«Be', d'accordo, sono disposto ad ammettere che il cretino sono io. Tuttavia farò marcia indietro soltanto quando vedrò le prove. Quando avrò comunicato con questi rompiscatole, con questo… allevamento acquatico. Fino ad allora, è mio dovere formulare un ammonimento. Non escludiamo la possibilità di un attacco terroristico su grande scala e non trascuriamo di vigilare.»

Judith gli posò una mano sull'avambraccio. «Jack, perché degli uomini dovrebbero scegliere una simile strada?»

«Per far credere a gente come lei che E.T. ci ha preso di mira. E funziona. Accidenti se funziona.»

«Qui nessuno è ingenuo», disse il consigliere per la sicurezza nazionale, in tono seccato. «Non abbasseremo la guardia, ma, detto sinceramente, con la sua psicosi del terrorismo non faremo un passo avanti. Non possiamo continuare a sorvegliare dei mullah suonati o dei criminali ricchissimi mentre crollano altre scarpate continentali, intere città vengono spazzate via e muoiono americani innocenti. Allora, Jack, qual è la sua proposta?»

Vanderbilt incrociò le braccia sul ventre. Sembrava un Buddha imbronciato.

«La proposta c'è stata», disse lentamente Judith.

«E sarebbe?»

«Comunicare coi rompiscatole. Prendere contatto.»

Il presidente congiunse la punta delle dita, poi disse in tono riflessivo: «Questa è una prova. Una prova per l'umanità. Forse Dio ha predisposto il pianeta per ospitare due specie diverse. Forse la Bibbia ha ragione quando parla della bestia con dieci corna e sette teste che esce dal mare. Dio ha detto: 'Che l'uomo abbia dominio su tutta la terra'. L'uomo, non i pesci.»

«Già», mormorò Vanderbilt. «L'ha detto agli americani.»

«Forse questa è la lotta contro il male, la grande battaglia tante volte preannunciata.» Il presidente si alzò. «E noi siamo i prescelti per combatterla e per vincerla.»

Judith comprese dove voleva arrivare e concluse: «Forse chi vincerà questa battaglia, vincerà il mondo».

Peak la guardò di traverso e tacque.

«Dovremmo discutere la teoria di Johanson coi membri della NATO e con l'UE», propose il segretario di Stato. «Poi dovremmo coinvolgere le Nazioni Unite.»

«E, nel contempo, far capire loro con la massima chiarezza che non saranno in grado di condurre le operazioni», si affrettò ad aggiungere Judith. «Toccherà a noi sfruttare il know how e le capacità dei loro uomini migliori. Propongo di coinvolgere anche gli Stati arabi amici e gli Stati asiatici, così faremo una buona impressione. Ma è anche arrivato il momento di porci al vertice della comunità mondiale. Non siamo di fronte a una collisione di meteoriti, che spazzerebbe via l'umanità dalla faccia della Terra. Questa è una terribile minaccia, che possiamo contrastare solo se non commettiamo errori.»

«Le sue contromisure sono efficaci?» chiese il consigliere per la sicurezza.

«In tutto il mondo, i ricercatori stanno lavorando a pieno ritmo per trovare un antidoto. Stiamo lottando contro l'invasione dei granchi e gli attacchi dei cetacei e cercando di catturare quei vermi, anche se non è facile. Facciamo e faremo di tutto per ridurre i rischi, ma, se continueremo a mantenere un comportamento convenzionale, non sarà sufficiente. Il blocco della Corrente del Golfo ci condanna all'impotenza. Non è possibile fermare il 'massimo incidente ipotizzabile' col metano. Anche se riuscissimo a pescare dal mare milioni di quei vermi, non potremmo comunque vedere dove torneranno a insediarsi, e si ricomincerebbe da capo. Siamo diventati ciechi perché è impossibile mandare sott'acqua robot, sonde e batiscafi. Non abbiamo la minima idea di cosa stia succedendo là sotto. Ho sentito che oggi pomeriggio, davanti al Georges Bank, abbiamo perso due reti gigantesche. Si sono interrotti i contatti con tre trawler che stavano incrociando all'altezza della fossa Laurentius per pescare sui fondali. Aerei sorvolano la zona alla ricerca dei dispersi, ma le condizioni meteorologiche sono difficili. A est ci sono i banchi di Terranova, una zona di nebbia permanente, e da due giorni imperversano violente tempeste.» Fece una pausa. «Sono due esempi delle migliaia che potrei fare. Quasi tutte le notizie riflettono il nostro insuccesso. La dichiarazione dello stato d'emergenza funziona bene, siamo riusciti diverse volte a impedire l'invasione dei granchi, grazie ai lanciafiamme, ma in compenso essi continuano a uscire dal mare in altri punti. Dobbiamo ammettere che, per quanto riguarda il mare, abbiamo poche notizie. Sarebbe già molto se da lì non uscissero altre minacce, ma ora…»

«E gli attacchi col sonar?»

«Continuano, ma non si evidenzia nessun successo concreto. I cetacei non scappano dal rumore, come dovrebbe costringerli a fare l'istinto. Credo che soffrano terribilmente, però sono telecomandati. Il terrore continua.»

«Visto che parla di pianificazione, Jude, mi dica: dietro tutto questo, lei vede una strategia?» chiese il segretario alla Difesa.

«Credo di sì. A mio parere è articolata in cinque fasi. Il primo passo è l'allontanamento degli uomini dalla superficie del mare e dagli abissi. Il secondo è la distruzione e l'allontanamento delle popolazioni costiere, com'è successo nel Nordeuropa. Il terzo passo riguarda l'abbattimento delle nostre infrastrutture. Nel Nordeuropa, appunto, sono state colpite duramente le industrie offshore. Inoltre il blocco della pesca darà enormi problemi di approvvigionamento, specialmente al Terzo Mondo. Il quarto passo è la devastazione dei pilastri della nostra civiltà, le grandi città — con gli tsunami e gli attacchi biologici -, col conseguente spostamento della popolazione all'interno. E poi c'è il quinto e ultimo passo: il collasso del clima. La Terra diventa inabitabile per gli uomini. Si ghiaccia o viene sommersa, si scalda o si gela, o forse entrambe le cose, non siamo ancora in grado di dirlo.»

Per un po' regnò un silenzio assoluto.

«Ma la Terra non diventerebbe inabitabile anche per tutto il mondo animale?» chiese il consigliere per la sicurezza.

«Sulla superficie, sì. O, meglio, diciamo che ci lascerebbe le penne una gran parte del mondo animale. Però mi sono fatta spiegare che cos'è successo cinquantacinque milioni di anni fa: sono morti moltissimi animali e piante, ma hanno lasciato spazio a nuove specie. Credo che questi esseri abbiano riflettuto molto attentamente su come sopravvivere alla catastrofe senza danni.»

«Una simile guerra di distruzione è…» Il segretario all'Interno non trovava le parole. «È sproporzionata, inumana…»

«Non sono esseri umani», ribadì Judith.

«Ma possiamo fermarli?»

«Se scopriamo chi sono», intervenne Vanderbilt.

Judith Li si girò verso di lui. «Sbaglio o ha cambiato opinione?»

«La mia opinione non cambia», replicò Vanderbilt, ostentando indifferenza. «Svelando lo scopo di un'azione, spesso si può risalire a chi l'ha compiuta. In questo caso, riconosco che la sua strategia in cinque fasi è al momento la più convincente. Quindi dobbiamo agire. Chi sono? Dove sono? Che pensano?»

«Cosa possiamo fare contro di loro?», aggiunse il segretario alla Difesa.

«Il male…» sussurrò il presidente, tenendo le palpebre serrate. «Come si può sconfiggere il male?»

«Bisogna comunicare con loro», disse Judith.

«Entrare in contatto?»

«Si può trattare anche col diavolo. Al momento, non vedo altra scelta. Johanson sostiene che ci stiano tenendo sulla corda, per impedirci di trovare soluzioni. Non possiamo concedere loro altro tempo. Siamo ancora in grado di agire, allora dobbiamo cercare di stabilire un contatto. Poi li colpiremo.»

«Esseri degli abissi marini?» Il segretario all'Interno scosse la testa. «Santo cielo!»

«Siamo davvero tutti dell'opinione che in questa teoria ci sia qualcosa di fondato?» chiese il direttore della CIA. «Voglio dire, stiamo parlando come se tutti i dubbi fossero stati spazzati via. Vogliamo davvero accettare l'idea che dobbiamo dividere la Terra con un'altra specie intelligente?»

«C'è solo una specie voluta da Dio», sottolineò deciso il presidente. «Ed è quella umana. Che quella forma di vita nel mare sia intelligente è un'altra questione. Che abbia il diritto di rivendicare per sé il pianeta come facciamo noi è cosa assai dubbia. La creazione non prevede simili esseri. La Terra è il mondo degli uomini, è stata creata per gli uomini e il progetto divino è il nostro progetto. Ma che responsabile di tutto ciò sia una forma di vita sconosciuta mi sembra accettabile.»

«Lo chiedo un'altra volta: che cosa riveliamo al mondo?» disse il segretario di Stato.

«È troppo presto per dire qualcosa al mondo.»

«Ci saranno domande…»

«E lei inventi le risposte. È un diplomatico, no? Se dicessimo al mondo che nel mare vivono esseri intelligenti, succederebbe un pandemonio.»

«Tra parentesi…» disse il direttore della CIA, rivolto a Judith. «Come dobbiamo chiamare questi cervelli bacati nell'oceano?»

Judith sorrise. «Johanson ha una proposta: yrr.»

«Yrr?»

«Una y e due r. È un nome del tutto casuale. Il risultato di un movimento inconsapevole delle dita sulla tastiera del computer.»

«Che cosa puerile.»

«Johanson ritiene che qualsiasi nome vada bene, e io gli do ragione. Dovremmo chiamarli yrr.»

«Va bene, Jude.» Il presidente annuì. «Vedremo cosa c'è di vero in questa teoria. Dobbiamo tenere in considerazione tutte le opzioni, tutte le possibilità. Ma se decideremo di dover combattere una battaglia contro esseri che, per quello che mi riguarda, possiamo anche chiamare yrr, allora sconfiggeremo questi yrr. Perché siamo in guerra contro gli yrr.» Si guardò intorno. «Questa è un'opportunità. Una grande opportunità. Voglio che sia sfruttata al meglio.»

«Con l'aiuto di Dio», disse Judith.

«Amen», farfugliò Vanderbilt.


Karen Weaver

In quella situazione di assedio, c'erano comunque dei vantaggi. Per esempio, allo Château, tutto era sempre aperto. Judith Li aveva fatto in modo che specialmente gli scienziati, impegnati giorno e notte nel lavoro, avessero la possibilità di gustarsi una bistecca anche alle quattro del mattino. Di conseguenza c'erano pasti caldi ventiquattr'ore su ventiquattro; il ristorante e i bar non chiudevano e tutte le attrezzature sportive, comprese la sauna e la piscina, erano disponibili a ogni ora del giorno e della notte.

Karen Weaver aveva nuotato in piscina per mezz'ora. Era già l'una passata. A piedi nudi, coi capelli bagnati e avvolta in un morbido accappatoio, stava attraversando la hall, diretta agli ascensori, quando, con la coda dell'occhio, notò Anawak. Era seduto al bancone del bar, un posto che non sembrava abituale, per lui. Se ne stava là con aria persa, davanti a una Coca-Cola che non aveva toccato e a una ciotola di noccioline; ogni tanto ne prendeva una, la guardava e poi la lasciava ricadere.

Karen esitò.

Dopo la conversazione bruscamente interrotta nel pomeriggio, non l'aveva più visto. Forse non voleva essere disturbato. Nella hall e negli spazi limitrofi regnava ancora un'intensa attività; solo il bar era semideserto. In un angolo c'erano due uomini in abito scuro, impegnati in una conversazione a bassa voce. Un po' più in là, una donna fissava concentrata lo schermo del suo laptop. Una musica West Coast in sottofondo rendeva quella scena del tutto normale.

Anawak non sembrava triste.

Karen aveva quasi deciso di tornare in camera, ma poi, quasi senza rendersene conto, entrò nel bar, lasciando orme umide sul parquet. Andò in fondo al bancone, dov'era era seduto Anawak, e disse: «Salve!»

Lui girò la testa e la fissò con sguardo assente.

Karen si bloccò. Sapeva benissimo che bastava un attimo per violare involontariamente la sfera intima di una persona, guadagnandosi la fama imperitura di scocciatori. Si appoggiò al bancone e strinse l'accappatoio intorno alle spalle. Tra loro c'erano due sgabelli.

«Salve», replicò Anawak. I suoi occhi scintillarono. Sembrava che si fosse reso conto solo in quel momento della presenza della donna.

Lei sorrise. «Cosa… ehm… Cosa fa qui?» Domanda stupida. Che cosa sta facendo? È seduto al bancone e giocherella con le noccioline. «Oggi è sparito.»

«Mi dispiace.»

«No, non deve», si affrettò a dire Karen. «Insomma, non volevo disturbarla. Ma l'ho visto seduto qui e ho pensato…» C'era qualcosa che non andava. Avrebbe fatto meglio ad andarsene.

Anawak sembrava essersi scosso dal torpore. Prese il bicchiere, lo sollevò e poi lo rimise giù. Posò lo sguardo sullo sgabello di fianco al suo. «Ha voglia di bere qualcosa?» chiese.

«Davvero non disturbo?»

«No, per niente.» Esitò. «Io mi chiamo Leon. Possiamo darci del tu?»

«Va bene, allora… Io mi chiamo Karen… Un Baileys con ghiaccio, grazie.»

Anawak fece un cenno al barman e ordinò. Lei si avvicinò, ma non si sedette. Dai capelli bagnati le scorrevano sulle spalle alcune gocce di acqua fredda, che poi si raccoglievano tra i seni. In genere, non aveva problemi ad andare in giro mezza nuda, ma ora si sentiva a disagio. Un bicchiere e poi sarebbe sparita. «E come stai?» chiese, sorseggiando il liquore cremoso.

Anawak aggrottò la fronte. «Non lo so.»

«Non lo sai?»

«No.» Prese una nocciolina, la posò davanti a sé e poi la lanciò via con un colpo. «Mio padre è morto.»

Oh, merda. Lo sapeva. Non doveva avvicinarsi. E invece lo aveva fatto e adesso stava lì con un uomo che si era messo di proposito in fondo al bancone di un bar, quasi volesse esporre un cartello con l'avvertimento di tenersi alla larga. «Di che cosa?» chiese, esitante.

«Non ne ho idea.»

«I medici non lo sanno ancora?»

«Io non lo so ancora.» Anawak scosse la testa. «E non sono sicuro di volerlo sapere.» Rimase in silenzio per un po', quindi disse: «Oggi pomeriggio ho camminato nei boschi per ore. A tratti quasi arrancando, in altri momenti correndo come un pazzo. Alla ricerca di un… sentimento. Pensavo di calarmi in una situazione emotiva adatta alle circostanze, e invece mi sono soltanto fatto del male». La guardò. «Non so se tu abbia mai provato una sensazione simile… Ovunque tu sia, vuoi solo andartene. Tutto sembra schiacciarti e improvvisamente ti accorgi che non dipende da te. Capisci che sei tu quello che se ne vuole andare. Sono i luoghi che vogliono staccarsi da te. Ma nessuno ti spiega a quale luogo appartieni, e così corri e corri…»

«Strano…» mormorò Karen. «Qualcosa di simile si prova da ubriachi. Quando sei talmente pieno che qualsiasi posizione ti fa stare male, non importa come ti giri, se stai sulla schiena o sulla pancia.» S'interruppe. «Scusa. Ho detto una stupidaggine.»

«No, per niente! Hai ragione. Stai meglio solo dopo aver vomitato. Mi sento esattamente così. Probabilmente devo proprio vomitare, ma non so come.» Fece scorrere le mani sul bordo del bicchiere. La musica continuava, incessante.

«Avevi un buon rapporto con tuo padre?»

«Non avevo il minimo rapporto con lui.»

«Davvero?» Karen aggrottò la fronte. «Ma è possibile? È possibile non avere il minimo rapporto con una persona che si conosce?»

Anawak si strinse nelle spalle. «E tu?» chiese. «Cosa fanno i tuoi genitori?»

«Sono morti.»

«Oh. Mi dispiace.»

«Non preoccuparti, non c'è niente di strano. È successo quando avevo dieci anni. Un incidente durante un'immersione, in Australia. Io ero rimasta all'hotel. Sono morti per una corrente profonda molto violenta. Sai come sono quelle correnti: prima è tutto tranquillo, poi, improvvisamente vieni afferrato e trascinato in mare aperto. Loro erano cauti ed esperti, ma…» Scrollò le spalle. «Il mare cambia sempre.»

«Li hanno trovati?» chiese Anawak sottovoce.

«No.»

«E tu? Come te la sei cavata?»

«Per qualche tempo è stata molto dura. Avevo avuto un'infanzia splendida, sai com'è. I miei genitori erano insegnanti e affascinati dall'acqua. Abbiamo fatto di tutto: vela alle Maldive, immersioni nel mar Rosso, nelle grotte dello Yucatan… Ci siamo immersi anche in Scozia e in Islanda. Naturalmente, quand'ero con loro, restavano vicini alla superficie e, se le immersioni erano pericolose, non mi portavano. E durante una di quelle più pericolose sono morti.» Sorrise. «Ma, come vedi, me la sono cavata.»

«Sì.» Ricambiò il suo sorriso. «Non si può non notare.»

Era un sorriso triste, disperato. Per un po', Anawak si limitò a guardarla. Poi scese dallo sgabello. «Dovrei cercare di dormire. Domani c'è il funerale.» Esitò. «Allora, buonanotte e… grazie.»

«E di che? Buonanotte.»

Karen rimase seduta davanti al suo Baileys bevuto per metà e ripensò ai suoi genitori, al giorno in cui la direttrice le aveva detto che doveva essere molto coraggiosa. Una ragazzina coraggiosa. Piccola, forte Karen.

Fece ondeggiare il liquore nel bicchiere.

Non aveva raccontato ad Anawak fino a che punto era stata dura. La nonna l'aveva presa con sé, una bambina scossa e impaurita che aveva trasformato il suo dolore in rabbia, al punto che l'anziana donna non sapeva mai cosa fare. I suoi risultati a scuola erano rapidamente peggiorati e lo stesso si poteva dire del resto della sua vita. Non aveva raccontato ad Anawak delle continue fughe, della prima canna e delle droghe che aveva preso quando viveva per strada. Era sempre completamente ubriaca o sballata e andava a letto con chiunque fosse disponibile, e nessuno si tirava indietro. Poi i piccoli furti, l'espulsione dalla scuola, un aborto clandestino, le droghe pesanti, i furti nelle auto, i servizi sociali. Sei mesi in un istituto di correzione. Il corpo pieno di piercing. La testa rasata e cicatrici ovunque. L'anima e il corpo ridotti a un campo di battaglia.

Però l'incidente non aveva spezzato il suo amore per il mare, al contrario. Il mare esercitava su di lei un fascino oscuro, sembrava quasi chiamarla, invitarla ad andare sul fondo, dove la aspettavano i suoi genitori. Il mare la affascinava a tal punto che, una notte, era andata in autostop a Brighton e aveva nuotato fino al largo. Quando l'acqua, liscia come l'olio, nera, illuminata solo dalla luna, aveva come inghiottito le luci della località balneare, si era lasciata sprofondare lentamente sotto la superficie, provando ad annegare.

Ma non era così facile.

Era rimasta sospesa nell'oscurità, trattenendo il fiato e contando i battiti del cuore finché non le erano rimbombati nelle orecchie. E invece, anziché prendersi la sua forza vitale, il mare le aveva dimostrato quanta ne possedeva: quel cuore così forte… Eppure lei voleva assolutamente abbandonarsi al suo freddo abbraccio. Di colpo era arrivato l'istinto di respirare, che l'avrebbe costretta a prendere acqua nei polmoni. Suo padre le aveva parlato spesso di quel fenomeno. Nei polmoni si sarebbe formata della schiuma, la rete di alveoli si sarebbe sgonfiata a poco a poco e infine l'acuta mancanza di ossigeno l'avrebbe condotta alla morte. Due minuti per arrivare ai crampi del diaframma, che avrebbero reso impossibile il respiro. In cinque minuti, il cuore si sarebbe fermato.

Era schizzata verso l'alto, riemersa dall'incubo cominciato quando lei aveva dieci anni. Di anni ne aveva ormai sedici. L'equipaggio di un cutter, che passava lì vicino, l'aveva tirata fuori dall'acqua e portata in ospedale con una grave ipotermia. Lì, Karen aveva avuto tempo sufficiente per trasformare il coraggio e la disperazione in un progetto. Dopo essere stata dimessa, si era osservata per un'ora allo specchio, concludendo che non voleva più vedersi così. Si era tolta i piercing e aveva deciso di non rasarsi più i capelli. Poi aveva fatto dieci flessioni ed era crollata.

Una settimana dopo, era riuscita a farne venti.

Si era impegnata al massimo per recuperare quello che aveva perso. La scuola l'aveva riammessa, a condizione che si sottoponesse a una terapia, e lei aveva acconsentito. Si era dimostrata volenterosa e disciplinata. Era premurosa e gentile. Leggeva tutto quello che le capitava tra le mani, soprattutto sull'ecosistema della Terra e sugli oceani. Non passava giorno senza che si allenasse. Da quando il mare l'aveva liberata, lei correva, nuotava, faceva boxe e si arrampicava per cancellare anche le ultime tracce del tempo perduto. Alla fine, la ragazza magra e con gli occhi incavati era sparita: il suo corpo ricordava quello di una statua greca. A diciannove anni, con un anno di ritardo, si era diplomata brillantemente e si era iscritta a Biologia.

Karen era diventata una persona nuova.

Con una vecchia nostalgia.

Per comprendere meglio il mondo e come funzionava, si era occupata anche d'informatica. La rappresentazione di relazioni complesse attraverso il computer la entusiasmava, e non si era data pace finché non era riuscita a rappresentare virtualmente i movimenti dell'oceano e dell'atmosfera. Il suo primo lavoro era stato un ampio quadro delle correnti marine, una cosa che non avrebbe portato nulla di nuovo al sapere universale, ma che rivelò grande lucidità e rigore logico. Era un omaggio a due persone che lei aveva amato e che aveva perso troppo presto. Quando Karen metteva la testa sott'acqua e faceva ricerche, restituiva qualcosa di quello che aveva ricevuto in abbondanza: amore e sapere. Aveva fondato una società di pubbliche relazioni, la Deepbluesea; scriveva per Science e per il National Geographic; teneva rubriche su periodici di divulgazione scientifica. In tal modo, era riuscita ad attirare l'attenzione di vari istituti, che l'avevano invitata a partecipare a varie spedizioni, perché avevano bisogno di una voce che desse forma alle loro idee. Con il MIR avera raggiunto il Titanic; l'Alvin l'aveva portata ai camini idrotermali della dorsale abissale atlantica; la Polarstern le aveva permesso di svernare nell'Artico. Lei c'era sempre e faceva sempre del suo meglio, perché, dopo quella notte, non conosceva più la paura. Niente e nessuno le faceva più paura.

Tranne l'essere sola. Ogni tanto.

Si guardò nello specchio del bar: era bagnata e avvolta nell'accappatoio di spugna. Aveva un'aria perplessa.

Bevve in fretta il Baileys e andò a letto.

14 maggio

Anawak

Il ronzio del motore lo fece sprofondare lentamente nel sonno.

Una volta presa la decisione di partire, aveva avuto la sensazione di essersi lasciato alle spalle le sue difficoltà. Si era convinto che Judith Li l'avrebbe bloccato; invece lei l'aveva letteralmente spinto a prendere il primo aereo.

«Se muore uno dei genitori o un bambino, allora bisogna stare con la propria famiglia. Se dovesse restare qui, non se lo perdonerebbe mai. Nella vita, la cosa più importante è la famiglia. Si può contare solo sulla famiglia. La prego soltanto di essere sempre raggiungibile.»

Adesso, seduto sull'aereo, si chiedeva se Judith Li avesse una famiglia.

E lui? Lui aveva una famiglia?

Era una situazione paradossale: una persona che probabilmente non aveva legami coi propri parenti tesseva le lodi della famiglia a chi non ne aveva una.

Il suo vicino, un esperto del clima che proveniva dal Massachusetts, cominciò a russare. Anawak spostò un po' indietro lo schienale del sedile e guardò fuori dal finestrino. Ormai da ore, era solo con se stesso e coi propri pensieri, però non era ancora sicuro che gli facesse bene. Un Boeing della Canadian Airlines International l'aveva portato da Vancouver al Pearsons Airport di Toronto, investito da un temporale insolitamente violento, che aveva bloccato il traffico aereo. Ad Anawak era sembrato un brutto segno. Aveva aspettato, impaziente, vicino al gate, mentre un aereo dopo l'altro si agganciava alla passerella telescopica. Finalmente, con due ore di ritardo, anche il suo volo per Montreal era partito.

Da lì in poi era andato tutto liscio. Aveva preso una stanza all'Holiday Inn vicino al Dorval Airport e poi era ritornato nella sala d'attesa. Alcuni segni gli indicavano che era entrato in un altro mondo. Alcuni uomini bevevano caffè davanti alla grande finestra panoramica. Indossavano tute con loghi di ditte petrolifere e sembrava che avessero solo un bagaglio a mano. Il volto di due di loro somigliava a quello di Anawak: largo, piatto e scuro, con gli occhi dal taglio orientale. All'esterno, enormi bancali strapieni, assicurati da reti d'imballaggio, sparivano l'uno dopo l'altro nel ventre del Boeing 747 della Canadian North Airlines. Stavano ancora scivolando sul ponte elevatore quando venne fatta la chiamata per i passeggeri. Attraversarono a piedi il campo di atterraggio ed entrarono nell'aereo attraverso una scala collocata sotto la coda. I sedili erano presenti solo nel terzo anteriore dell'aereo; lo spazio rimanente era riservato al bagagliaio.

Il viaggio era ripreso da due ore. Di tanto in tanto l'aereo sobbalzava leggermente. Si trovavano ormai nei pressi dello stretto di Hudson e le masse nuvolose si stavano aprendo, rivelando un paesaggio montagnoso e frastagliato, coperto da nevai e continuamente interrotto da laghi su cui galleggiavano lastroni di ghiaccio. Poi apparve la costa. Lo stretto di Hudson scivolò sotto di loro e Anawak si rese conto che aveva attraversato l'ultimo confine. Dentro di lui scoppiò una confusione di sentimenti che lo strappò alla sonnolenza. In ogni azione c'era un punto di non ritorno. Fisicamente quel punto era stato Montreal, ma a livello simbolico era lo stretto di Hudson. Al di là di quella striscia d'acqua cominciava il mondo in cui lui non voleva più tornare.

Anawak era in viaggio verso la sua terra natale, verso la sua patria ai margini del Circolo Polare: Nunavut.

Continuava a guardare fuori e cercava di scacciare quel pensiero. Dopo mezz'ora tornarono a sorvolare la terraferma, poi un'abbagliante piana ricoperta di ghiaccio, la Frobisher Bay, a sud-est dell'isola di Baffin. L'aereo virò a destra e si abbassò velocemente. Comparvero un edificio di un giallo intenso e una tozza torre di controllo. Accovacciata in quel paesaggio scuro e collinoso, sembrava un avamposto umano in un pianeta sconosciuto. In realtà segnalava l'aeroporto di Iqaluit, «la scuola dei pesci», la capitale del Nunavut.

Il Boeing atterrò.

Anawak non dovette aspettare a lungo per la consegna dei bagagli. Prese lo zaino e bighellonò nella zona. C'era una mostra sull'arte inuit, con arazzi e statue di steatite. Nel mezzo della sala scorse una figura a grandezza naturale, tarchiata, vestita con stivali e abiti tradizionali. Nella destra, reggeva un tamburo piatto che teneva sollevato sopra la testa; nell'altra mano, aveva la bacchetta. Il suonatore di tamburo di pietra aveva la bocca aperta nel canto. Irradiava vigore e sicurezza. Anawak si fermò per un momento e lesse la didascalia sul basamento della scultura: IN PARTICOLARI OCCASIONI, QUANDO GLI UOMINI RITORNANO DALL'ARTICO, VENGONO ACCOLTI DA DANZE COL TAMBURO E DA UN TIPO PARTICOLARE DI CANTO, CHIAMATO «THROAT SINGING». Poi si diresse al check-in della First Air e consegnò lo zaino. La donna che prese in consegna il bagaglio lo avvertì che l'aereo sarebbe partito con un'ora di ritardo.

«Forse deve sbrigare ancora qualcosa in città», disse in tono gentile.

Anawak esitò. «No. Conosco appena la città.»

Lei lo guardò con un certo stupore. Evidentemente si meravigliava che un uomo che aveva l'aspetto da inuk non conoscesse la capitale. Poi sorrise. «Iqaluit offre varie attrazioni. Dovrebbe sfruttare l'occasione. Vada al museo Nunatta-Sunaqutangit, ha tutto il tempo. C'è una bella mostra sull'arte tradizionale e contemporanea.»

«Oh, sì… certo.»

«Oppure all'Unikkaarvik Visitor Information Centre. E faccia una puntata alla chiesa anglicana. Sembra un igloo… È l'unica chiesa al mondo che somigli a un igloo!»

Anawak osservò la donna. Era un'indigena, piccola, con la frangia e la coda di cavallo. Quando allargava il sorriso, le brillavano gli occhi.

«Avrei potuto giurare che lei fosse di Iqaluit», disse lei.

«No.» Per un attimo fu tentato di confidarle che veniva da Cape Dorset, invece disse: «Vancouver. Vengo da Vancouver».

«Oh, io adoro Vancouver!» esclamò lei.

Anawak si guardò intorno. Temeva di bloccare la coda, ma evidentemente quel giorno era l'unico a prendere quel volo. «C'è mai stata?»

«No, non sono mai stata così lontano. Ma su Internet ci sono le fotografie e tutte le informazioni. Una bella città.» Sorrise. «Un po' più grande di Iqaluit, vero?»

Ricambiò il sorriso. «Sì, penso proprio di sì.»

«Oh, però noi non siamo più così piccoli. Iqaluit ha pur sempre seimila abitanti. E noi ci stiamo lavorando. Tra qualche anno saremo grandi come Vancouver. Be', insomma… quasi. Mi scusi.»

Dietro di lui era apparsa una coppia. Quindi non era l'unico a prendere quel volo. Salutò in fretta e uscì prima che alla donna venisse in mente di accompagnarlo nella visita alla città.

Iqaluit.

Il suo ultimo ricordo era così lontano. Alcune cose gli sembrarono note; altre non le riconobbe. Le nuvole erano rimaste nel Quebec, il cielo era splendido, e il sole rendeva gradevole la temperatura. Dovevano esserci almeno dieci gradi. Anawak aveva troppo caldo col piumino sopra il pullover pesante, così lo tolse, se lo legò intorno ai fianchi e s'incamminò faticosamente verso il centro, lungo la strada polverosa. Il traffico lo sorprese. Non ricordava che un tempo ci fossero in circolazione così tanti fuoristrada. Vide anche numerosi ATV, veicoli simili a una moto, ma dotati di tre o quattro ruote. Ai lati della strada sorgevano le tipiche case di legno dell'Artico, costruite su bassi pilastri a causa del permafrost. Tutti gli edifici dell'Artico poggiavano su pilastri, Se si fosse costruito direttamente sul terreno, questo si sarebbe sciolto a causa del calore irradiato e gli edifici sarebbero sprofondati.

Più Anawak si guardava intorno, più gli si formava nella mente l'immagine di Dio che, un giorno, aveva agitato in una mano una gran quantità di edifici, come se fossero dadi, e poi li aveva lanciati, sparpagliandoli senza il minimo progetto. Impressionanti costruzioni colossali, cubiche, di un bianco abbagliante e senza finestre, si levavano in mezzo alle tradizionali casette, dipinte di verde oliva o di un color ruggine. La scuola sembrava un UFO finito lì per caso. Alcuni dei condomini rilucevano in un intenso color petrolio e acquamarina. Un po' più avanti, incappò nell'edificio dell'assemblea legislativa, un incrocio tra una gradevole villa con giardino e una cupola abitativa per astronauti. Nelle vicinanze sorgeva un elegante edificio a tre piani, con grandi finestre e un ingresso imponente, che si sarebbe potuto trovare in qualsiasi città del mondo, se si prescindeva dai tipici pilastri e dalla scala. Anawak cercò di non farsi condizionare da quelle impressioni, ma, da quand'era scampato al disastro dell'idrovolante, aveva perso la capacità di abbandonarsi all'indifferenza. Quel selvaggio miscuglio architettonico trasmetteva una sensazione di spensieratezza, quasi di allegria, nei confronti della quale lui provava una profonda diffidenza, ma che non lo lasciava insensibile.

Si chiese cosa fosse successo. Quella non era la deprimente Iqaluit degli anni '70. Le persone lo salutavano con gentilezza in inuktitut. Lui rispondeva al saluto in modo asciutto. Senza mai fermarsi, camminò attraverso la città e andò all'Unikkaarvik Visitor Information Centre, dove trovò una copia ancora più imponente del danzatore col tamburo.

Il danzatore col tamburo… Quelle danze risalivano alla sua infanzia. A molto tempo prima, quando le cose erano ancora a posto.

Che sciocchezza! Quando mai le cose lì sono state a posto?

Ritornò sulla strada e continuò a camminare. Faceva sempre più caldo e la luce del sole aveva una qualità cristallina. Effettivamente, la chiesa anglicana sembrava un igloo, con una punta tesa verso l'alto. La lasciò alla sua sinistra. Dopo un'ora, era di nuovo all'aeroporto e si sedette su una panca con un giornale per ingannare l'attesa del volo. Oltre a lui, c'era solo la coppia che aveva visto poco prima. Aprì il giornale in modo che lo riparasse dalle sollecitazioni esterne, lesse gli articoli senza coglierne il contenuto, e alla fine lo gettò via.

La ragazza dello sportello li invitò a seguirla. Attraverso un'uscita secondaria arrivarono sulla pista, dove li attendeva un bimotore a elica, un Piper. Anawak salì con la coppia i due gradini che conducevano nella stretta cabina. L'aereo aveva solo sei posti e i bagagli erano sistemati nella parte posteriore, dietro una rete. Non c'era una vera e propria separazione tra la cabina di pilotaggio e lo spazio per i passeggeri. Rullarono sulla pista di decollo, dovettero attendere l'atterraggio di un aereo simile al loro, poi, dopo una breve corsa, si sollevarono, traballando. L'aeroporto divenne sempre più piccolo e poi sparì. Sotto di loro, luccicava la Frobisher Bay. Superando montagne ancora in parte coperte di neve e sfaccettate di ghiacciai, volarono verso ovest. A sinistra, la luce del sole risplendeva sullo stretto di Hudson; a destra, si rifrangeva su un lago… Amadjuak Lake, ricordò improvvisamente Anawak.

C'era stato qualche volta.

Quante cose gli stavano tornando in mente. I ricordi si manifestavano come ombre in una tormenta di neve e lo trascinavano nel passato.

Non voleva tornare laggiù. La terra divenne sempre più piatta, poi finì. Per venti minuti la loro rotta li portò sul mare, poi, dal finestrino della cabina, ricomparve un territorio montagnoso. Nel campo visivo entrò la baia di Tellik Inlet, con le sue sette isole. Su una di esse si stendeva la linea sottile della pista di atterraggio di Cape Dorset.

Atterrarono.

Anawak ebbe l'impressione che il cuore volesse balzargli fuori dal petto. Era a casa. Era là dove non avrebbe mai voluto tornare. Mentre il Piper rullava verso l'edificio dell'aeroporto, dentro di lui avversione e curiosità si mescolavano con la paura.

Cape Dorset… Coi suoi milleduecento abitanti era definita, un po' con meraviglia e un po' per scherzo, la New York del nord, ed era uno dei principali centri dell'arte inuit.

O, meglio, lo era diventata.

Un tempo non era così.

Cape Dorset… Kinngait, «grande montagna», nella lingua degli inuit, situata nell'ampia zona di Sikusiilaq, «dove sul mare non c'è ghiaccio», perché, anche negli inverni più rigidi, le correnti tiepide impedivano che, intorno alla penisola di Foxe, braccio sudoccidentale dell'isola di Baffin, il mare si gelasse completamente. I nomi si riversavano nel cervello di Anawak. Là c'era quell'isoletta nei pressi di Cape Dorset, Mallikjuaq, una zona naturale protetta, piena di piccole meraviglie, con le trappole per volpi del XIX secolo, resti dell'antichissima cultura thule, tombe avvolte nella leggenda e un lago romantico, sulle cui rive aveva campeggiato spesso. Anawak ricordò il piccolo pontile dei kajak. Era un posto in cui andava volentieri, Mallikjuaq. Poi nei ricordi comparvero suo padre e sua madre, e lui riscoprì cosa l'aveva allontanato da quella terra che, allora, non si chiamava ancora Nunavut, bensì Territori del nord-ovest.

Prese lo zaino e scese dal Piper.

Un uomo si precipitò verso la coppia. Evidentemente si conoscevano. Il saluto fu calorosissimo, com'era solito tra gli inuit. Nel loro vocabolario c'erano moltissime parole per salutare, ma nessuna per dire «addio». Diciannove anni prima, nessuno aveva detto ad Anawak una parola di commiato, neppure l'uomo piccolo e segnato dal tempo che era apparso improvvisamente sulla pista non appena la coppia e il loro amico indigeno se n'erano andati, chiacchierando. In un primo momento, Anawak faticò a riconoscerlo. Ijitsiaq Akesuk era evidentemente invecchiato e aveva un paio di baffi grigi e sottili che prima non portava. Però era lui. Il viso solcato da rughe si allargò in un sorriso. Andò in fretta verso Anawak e lo abbracciò, stringendo tra le braccia pure lo zaino. Dalle sue labbra sgorgò un fiume di parole in inuktitut. Poi se ne rese conto e, in inglese, disse:

«Leon, ragazzo mio. Ma che bel giovane dottore sei».

Anawak si lasciò abbracciare e diede qualche pacca sulle spalle di Akesuk. «Zio Iji, come stai?»

«Come vuoi che stia, con tutto quello che succede? Hai fatto un buon volo? Devi aver viaggiato per un'eternità, chissà dove hai dovuto fare scalo per arrivare qui…»

«Ho dovuto cambiare aereo un paio di volte.»

«Toronto? Montreal?» Akesuk si staccò e lo guardò, raggiante. Anawak notò le fessure tra i denti, tipiche degli inuit. «Montreal, naturalmente. È stato un viaggio lungo, vero? Sono contento. Mi devi raccontare tante cose. Ovviamente starai da me, ragazzo mio, è già tutto pronto. Hai altro bagaglio?»

«No. Ehm, zio Iji…»

«Iji, solo Iji, lascia perdere lo zio. Sei troppo grande per dire zio.»

«Ho prenotato in un hotel.»

Akesuk indietreggiò di un passo. «E dove?»

«Al Polar Lodge.»

Per un secondo il vecchio sembrò deluso. Ma si riscosse subito. «Annulliamo la prenotazione. Conosco il direttore. Lo sai, qui ci conosciamo tutti. Non c'è problema.»

«Non voglio crearti disturbo», disse Leon. Sono qui per portare mio padre sotto il ghiaccio, pensò. E per sparire il più in fretta possibile.

«Tu non mi disturbi», disse Akesuk. «Sei mio nipote. Per quanto tempo hai prenotato?»

«Due notti. Credo siano sufficienti, no?»

Akesuk aggrottò la fronte e lo squadrò dall'alto in basso. Poi prese Anawak per un braccio e lo trascinò via. «Ne riparleremo. Hai fame?»

«Eccome.»

«Magnifico. Mary-Ann ha preparato uno stufato di caribù e c'è anche zuppa di foca con riso. Una cosa squisita. Quand'è l'ultima volta che hai mangiato zuppa di foca?»

Anawak si lasciava trascinare dallo zio. Davanti all'edificio dell'aeroporto c'erano diversi veicoli parcheggiati. Akesuk si diresse deciso verso un pick-up.

«Metti lo zaino lì dietro. Conosci Mary-Ann? Ovviamente no. Te ne eri già andato quando lei è arrivata da Salluit e ci siamo sposati. Stare solo era diventato insopportabile. È più giovane di me. E devo dire che penso sia bene così. Tu sei sposato? Oh, santo cielo, quante cose dobbiamo raccontarci. È un'eternità che non vieni qui.»

Anawak s'infilò sul sedile del passeggero e rimase in silenzio. Sembrava che Akesuk avesse proprio deciso di sfinirlo con le chiacchiere. Cercò di ricordarsi se anche prima il vecchio era così logorroico.

Poi comprese che lo zio doveva essere nervoso quanto lui.

Uno taceva. L'altro parlava. Ognuno aveva il proprio modo di reagire.

Imboccarono la strada principale. Cape Dorset era diviso da catene montuose in diverse località. Al Kinngait vero e proprio si affiancavano a nord-est Itjuritruq, a ovest Kuugalaaq e Muliujaq a sud. La famiglia di Anawak aveva vissuto a Kuugalaaq. Akesuk, il fratello della madre di Anawak, aveva la casa a Kinngait.

Anawak si chiese se abitasse ancora là. L'avrebbe scoperto tra poco.

Girarono per tutto il paese. Lo zio gli illustrava quasi ogni edificio e, a un certo punto, Anawak comprese che gli stava facendo fare una specie di gita turistica. «Zio Iji, le conosco queste cose», disse.

«Tu non conosci niente. È da diciannove anni che non vieni qui. Ci sono molte cose nuove. Là dietro, ti ricordi il supermercato?»

«No.»

«Vedi. E come potresti? È tutto nuovo! E ne abbiamo anche uno più grande. Prima andavamo sempre al Polar Supply Store, non l'hai dimenticato, vero? Là c'è la nuova scuola… Be', non è così nuova, ma per te lo è. Guarda a destra. Quello non lo puoi conoscere: è il salone per le feste Tiktaliktaq. Sai chi è stato qui per ascoltare il 'throat singing' e vedere le danze col tamburo? Bill Clinton, Jacques Chirac e Helmut Kohl… È davvero un gigante quel Kohl, vicino a lui sembravamo degli gnomi, quand'è che è stato qui, aspetta…»

E così via. Visitarono la chiesa anglicana col cimitero in cui doveva essere seppellito suo padre. Anawak vide davanti a una casa una donna inuit, che stava lavorando a una statua, rappresentante un gigantesco uccello. Lo stile gli ricordò quello delle raffigurazioni tipiche degli indiani nootka. Un edificio grigio e blu a due piani e con un ingresso futurista si rivelò essere la sede del governo. L'amministrazione decentrata del Nunavut prevedeva che in ogni grande comune ci fosse un edificio simile. Anawak si arrese, trovandosi costretto ad ammettere che Cape Dorset era molto cambiata da quand'era bambino.

E d'un tratto, senza quasi rendersene conto, disse: «Vai al porto, Iji».

Akesuk sterzò bruscamente. Percorsero una strada in ripida pendenza. Case di legno di tutte le dimensioni e di tutti i colori erano distribuite in maniera evidentemente casuale nel paesaggio nero e marrone. Si vedevano alcune aree isolate con l'erba della tundra e, di tanto in tanto, una superficie innevata. Il porto di Cape Dorset era poco più di un pontile con delle gru, dove un paio di volte l'anno le navi che trasportavano i beni necessari per la sopravvivenza gettavano l'ancora. Non lontano, con la bassa marea, si poteva attraversare il Tellik Inlet per raggiungere l'isola vicina, Mallikjuaq, dove c'era il Mallikjuaq Territorial Park, con le sue tombe, il pontile dei kajak e il lago. Avevano campeggiato spesso lì.

Si fermarono. Anawak scese, percorse il pontile e guardò verso l'acqua azzurra. Akesuk lo seguì per un tratto, ma non si avvicinò.

Il molo era l'ultima cosa che Anawak aveva visto lasciando Cape Dorset. Non con l'aereo, ma con una nave. Aveva dodici anni. La nave aveva preso con sé lui e la sua nuova famiglia, che, piena di speranza e di attesa per il nuovo mondo, lasciava quella terra, provando già nostalgia per quel paradiso tra i ghiacci, un paradiso perduto da ormai molto tempo.

Dopo cinque minuti, Anawak tornò indietro a passi lenti e risalì sul pick-up senza dire una parola.

«Sì, il nostro vecchio porto», mormorò Akesuk. «Il vecchio porto. Non lo dimenticherò mai. È da qui che te ne sei andato. Ha spezzato il cuore a tutti…»

Anawak gli rivolse uno sguardo tagliente. «A chi si è spezzato il cuore?» chiese.

«Ma sì, a tuo…»

«A mio padre? A voi? A qualche vicino?»

Akesuk accese il motore. «Vieni», disse. «Andiamo a casa.»

Akesuk non aveva cambiato casa: abitava ancora in un piccolo complesso residenziale, grazioso e curato, con la facciata azzurra e il tetto blu scuro. Alle sue spalle, le colline salivano dolcemente e culminavano nel Kinngait, la «grande montagna», i cui versanti erano segnati da venature di neve. Nei ricordi di Anawak, il Kinngait — più una tozza catena montuosa che una vera montagna — svettava nel cielo. E, per un attimo, lui fu tentato di andarlo a esplorare.

Benché fosse piccolo e mingherlino, Akesuk riuscì a prendere lo zaino dal piano di carico prima di Anawak, e tenendolo con una mano, con l'altra aprì di slancio la porta di casa. «Mary-Ann!» gridò. «È arrivato! Il ragazzo è qui!»

Apparve un cagnolino che avanzò goffamente. Akesuk gli passò davanti, sparì all'interno e ricomparve dopo qualche secondo in compagnia di una donna grassoccia, il cui volto cordiale poggiava su un imponente doppio mento. Abbracciò Anawak e lo salutò in inuktitut.

«Mary-Ann non parla inglese», si scusò Akesuk. «Spero che tu capisca ancora la tua lingua.»

«La mia lingua è l'inglese», disse Anawak.

«Sì, naturalmente… Ormai.»

«Ma riesco ancora a capire.»

Mary-Ann gli chiese se aveva fame.

Anawak disse di sì in inuktitut. La donna scoprì una dentatura con molti buchi e, prendendo in braccio il cagnolino che stava annusando gli scarponi di Anawak, gli fece cenno di seguirla. Nell'anticamera c'erano diverse paia di scarpe. Anawak si sfilò meccanicamente i suoi scarponcini da trekking e li posò a fianco delle altre.

«Vedo che non hai dimenticato la buona educazione», sorrise lo zio. «Non sei diventato un qallunaaq.»

Qallunaaq - al plurale qallunaat - era il nome dato ai non inuit. Anawak guardò in basso, si strinse nelle spalle e seguì Mary-Ann in cucina, dove c'erano un moderno fornello elettrico e vari elettrodomestici, come in qualsiasi appartamento di Vancouver. Nulla ricordava le desolanti condizioni di quella che era stata casa sua. Sotto la finestra c'era un tavolo rotondo e, di fianco, una porta che conduceva sul balcone. Akesuk scambiò qualche parola con la moglie, poi condusse Anawak in un salotto arredato in modo accogliente. Mobili massicci si raggruppavano in una sorta di torre, in cui erano incassati il televisore, il videoregistratore, la radio e il lettore CD. Un passavivande si apriva sulla cucina. Akesuk gli mostrò il bagno, l'adiacente spazio per la lavatrice, la dispensa, la stanza da letto e una piccola camera con un letto a una piazza. Sul comodino c'erano dei fiori freschi: papaveri artici, sassifraghe purpuree e campanule.

«Li ha raccolti Mary-Ann», disse Akesuk. Suonava come un invito a mettersi comodo.

«Grazie, io…» Anawak scosse la testa. «Credo sia meglio che dorma all'hotel.»

Si aspettava che lo zio si offendesse, ma Akesuk sembrò semplicemente riflettere un po'. «Un drink?» chiese poi.

«Non bevo.»

«Neanch'io. Durante i pasti beviamo succo di frutta. Ne vuoi?»

«Sì, volentieri.»

Akesuk miscelò in due bicchieri succo concentrato e acqua, poi andarono con le bibite sul balcone, dove lo zio si accese una sigaretta. Mary-Ann non era ancora soddisfatta della cottura del suo stufato e aveva detto che non sarebbe stato pronto prima di un quarto d'ora.

«Non posso fumare in casa», spiegò Akesuk. «Quando ci si sposa, succedono cose del genere. Ho fumato in casa per una vita… Ma è meglio così. Non è sano. Se solo riuscissi a smettere…» Sorrise e aspirò il fumo con evidente piacere. «Fammi indovinare, tu non fumi.»

«No.»

«E non bevi. Bene, bene.»

Rimasero per un po' in silenzio, a guardare il panorama delle montagne con le loro venature di neve. Nel cielo brillavano nuvole striate. Appena sotto, volavano gabbiani d'avorio di un bianco splendente e, di tanto in tanto, si lanciavano in basso.

«Com'è morto?» chiese Anawak.

«È caduto», rispose Akesuk. «Ha visto una lepre, l'ha voluta rincorrere ed è caduto.»

«L'hai riportato indietro tu?»

«Il suo corpo, sì.»

«Era ubriaco fradicio?» Il tono amaro con cui aveva posto quella domanda lo spaventò.

Akesuk continuava a guardare le montagne, avvolto dal il fumo. «Ha avuto un infarto… Così ha detto il dottore di Iqaluit. Si muoveva poco e fumava troppo. Erano dieci anni che non beveva neppure un goccio.»

Lo stufato di caribù era squisito: aveva il sapore della sua infanzia. Invece la zuppa di foca non gli era mai piaciuta, ma ne prese una porzione abbondante. Mary-Ann aveva un'espressione soddisfatta. Anawak cercò di riprendere confidenza col suo inuktitut, ma il risultato fu pietoso. Capiva quasi tutto, però faticava a parlarlo. Così conversarono prevalentemente in inglese sugli avvenimenti delle ultime settimane, sugli attacchi delle balene, sulla catastrofe in Europa e su tutto quello che giungeva fino nel Nunavut. Akesuk traduceva. Più volte lui cercò di portare la conversazione sul padre, ma Anawak non lo seguì. La sepoltura era prevista per il pomeriggio nel piccolo cimitero della chiesa anglicana. In quella stagione, i morti venivano seppelliti in fretta, mentre durante l'inverno venivano spesso custoditi in una capanna vicina al cimitero, perché la terra era troppo dura per scavare la tomba. Nel freddo naturale dell'Artico, i corpi si conservavano a lungo, ma le capanne in cui venivano tenuti dovevano essere sorvegliate. Il Nunavut era selvaggio. Lupi e orsi polari, spinti dalla fame, non si fermavano di fronte ai vivi e neppure di fronte ai morti.

Dopo il pasto, Anawak si trasferì al Polar Lodge. Akesuk non aveva insistito perché si fermasse a casa sua. Si era limitato a togliere i fiori dalla piccola camera e a posarli sul tavolo, dicendo: «Puoi sempre ripensarci…»

Al funerale mancavano ancora due ore, ma Anawak non lasciò la sua stanza d'albergo. Rimase sdraiato nel letto, cercando di dormire un po'. Non sapeva cosa fare… No, a dire la verità lo sapeva. Poteva andare a Mallikjuaq e forse anche oltre; il Tellik Inlet era ancora ghiacciato e avrebbe retto il suo peso. Oppure poteva rivolgersi ad Akesuk, che sicuramente sarebbe stato entusiasta di portarlo in giro per Cape Dorset e presentarlo a tutti. In un insediamento inuit tutti erano in qualche modo imparentati. E specialmente a Cape Dorset, la capitale mondiale dell'arte inuit, un simile giro sarebbe stato come partecipare a un vero e proprio vernissage. Un abitante dell'insediamento su due era considerato un artista e molti esponevano i loro lavori nelle gallerie di tutto il mondo. Ma Anawak sapeva che si sarebbe sentito un po' come il figliol prodigo, perché le persone che avrebbe incontrato erano sicure che non sarebbe mai tornato lì. Era fermamente deciso a mantenere una distanza di sicurezza e non voleva che si riaprissero antiche ferite, permettendo che qualcosa di quel mondo entrasse nel suo animo. Quindi rimase sdraiato sul letto a fissare il soffitto e, a un certo punto, si appisolò.

La sveglia da viaggio lo strappò dal sonno.

Quando uscì dalla hall del Polar Lodge, il sole era visibilmente più basso, ma splendeva sempre luminoso e gradevole. Al di sopra dei lastroni di ghiaccio dell'Inlet si vedeva Mallikjuaq; sembrava quasi di poterla toccare. Il Polar Lodge era all'estremità nordorientale di Cape Dorset, il cimitero dalla parte opposta del paese. Anawak guardò l'orologio. C'era tempo sufficiente. Era d'accordo con Akesuk che l'avrebbe raggiunto a casa e poi sarebbero andati insieme col pick-up. Vicino al Polar Lodge, sulla strada che conduceva alla spiaggia, c'era il Polar Supply Store. Avvicinandosi a esso, Anawak si accorse che il negozio era diventato anche la sede di una società di spedizioni, un autonoleggio e un'officina. L'edificio era come lo ricordava, ma l'insegna era nuova. Entrò e non riconobbe i due uomini che stavano dietro il banco. Non erano inuit. Curiosò nel negozio, accogliente e pieno di cianfrusaglie: c'era praticamente di tutto, dalla carne secca di caribù agli stivali. Nella parte più interna erano accatastate litografie e sculture.

Non era il suo mondo.

Uscì e si avviò verso il centro. Davanti a una casa vide un vecchio, seduto su un cavalletto, che lavorava alla statuetta di un sommozzatore; un po' più avanti, c'era una donna impegnata a levigare un falco di marmo bianco. Entrambi lo salutarono e lui rispose al saluto senza fermarsi, ma avvertendo che i loro sguardi lo seguivano. La notizia del suo arrivo doveva essersi diffusa in un baleno. Non sarebbe stato necessario presentarsi. Sapevano tutti che il figlio del defunto Manumee Anawak era arrivato a Cape Dorset, e probabilmente stavano già commentando il fatto che dormiva in un hotel e non a casa dello zio.

Akesuk lo aspettava davanti alla casa. Percorsero le poche centinaia di metri fino alla chiesa anglicana, dove si era già radunato un nutrito gruppo di persone.

Anawak chiese se fossero tutti lì per suo padre.

Akesuk lo guardò, sbalordito. «Certo, cosa pensavi?»

«Non sapevo che avesse tanti…»

«Sono le persone con cui viveva. Che importanza ha se sono amici o no? Quando muore qualcuno, la cosa riguarda tutti, e tutti fanno con lui l'ultimo tratto di strada.»

Il funerale fu breve e composto. Prima della cerimonia, Anawak aveva dovuto stringere molte mani. Gente che non aveva mai visto gli si era presentata davanti e lo aveva abbracciato. Quindi il pastore lesse un passo della Bibbia e recitò una preghiera, poi la bara fu calata in una fossa profonda giusto il necessario per contenerla, e venne ricoperta con un telo di plastica blu. Alcuni uomini cominciarono ad ammassarci sopra delle pietre. La croce all'estremità della fossa venne infilata un po' storta nel terreno duro, come tutte le altre croci nel cimitero. Akesuk mise tra le mani di Anawak una piccola cassa di legno col coperchio di vetro, in cui erano chiusi alcuni fiori artificiali, un pacchetto di sigarette e il dente di un orso incastonato nel metallo. Gli diede una spintarella, e Anawak, obbediente, si affrettò verso la tomba e depose la cassa sotto la croce.

Akesuk gli aveva chiesto se voleva vedere il padre per l'ultima volta, ma Anawak aveva rifiutato. Mentre il pastore leggeva la Bibbia, lui aveva cercato d'immaginare chi fosse l'uomo nella bara e soprattutto se, in quella bara, ci fosse davvero qualcuno. Poi, improvvisamente, si era reso conto che suo padre non avrebbe potuto commettere altri errori. Ormai si trovava in uno stato di non-vita, quindi era andato oltre l'innocenza e la colpa. Di fronte a quella semplice bara, qualunque cosa lui avesse fatto o non fatto perdeva ogni significato. Per Anawak, tuttavia, le azioni del padre non avevano più importanza ormai da molto tempo. Per lui, quell'uomo era già morto da parecchio. Da così tanto che quel funerale gli appariva del tutto superfluo.

Non si sforzò di provare qualche sentimento. Desiderava solo andarsene il più in fretta possibile.

Tornare a casa.

Ma dov'era casa sua?

Improvvisamente, mentre il gruppo intonava un canto, fu preso da una gelida sensazione di abbandono e di panico. Non era il freddo artico a farlo tremare. Aveva pensato a Vancouver e a Tofino, ma né l'una né l'altro erano la sua casa.

Anawak stava guardando in un buco nero.

Il suo campo visivo si restrinse e numerose spirali presero a vorticargli davanti agli occhi. Il buio gli piombò addosso, come un'onda gigantesca cui non poteva sfuggire. Era finito in trappola, come un animale, senza via di fuga, costretto a fissare quel vuoto che lo avvolgeva.

«Leon.»

Fu attraversato da una vertigine carica di terrore.

«Leon!»

Akesuk l'aveva afferrato per il braccio. Anawak, sconvolto, guardò quel volto rugoso coi baffi color argento.

«Tutto a posto, ragazzo?»

«Sì, certo», mormorò.

«Buon Dio! Riesci appena a reggerti sulle gambe», mormorò Akesuk, impietosito. Gli altri li fissavano.

«Sto bene. Grazie Iji, è passata.»

Nelle facce dei presenti, Anawak scorse soltanto indifferenza. Quegli uomini erano lì e contemporaneamente a chilometri di distanza. Il cordoglio nei loro occhi era puramente formale. Davanti alle tombe delle persone amate si crolla. Crollano anche gli inuk, benché siano così orgogliosi da non capitolare davanti a niente e a nessuno.

A parte, forse, davanti all'alcol e alle droghe.

Anawak stava male.

Si girò e lasciò il cimitero a rapide falcate. Lo zio non lo trattenne. Davanti alla chiesa, quando si sentì sotto i piedi l'asfalto della strada, fu preso dal bisogno di correre via, ma si trattenne. Fece qualche passo, col cuore che batteva tumultuosamente. Voleva fuggire, ma non sapeva dove. Non aveva una direzione.

Cenò al Polar Lodge. Mary-Ann aveva preparato da mangiare, ma Anawak aveva detto allo zio che voleva stare da solo. Il vecchio si era limitato ad annuire, l'aveva accompagnato all'hotel e poi si era allontanato con aria triste. Ma la sua tristezza era dovuta al fatto di essersi reso conto che la richiesta di Anawak non era motivata dal desiderio di un po' di quiete e di raccoglimento.

Anawak rimase disteso su uno dei due letti singoli della stanza, fissando il televisore acceso per ore intere. Si domandò come avrebbe potuto sopportare un altro giorno a Cape Dorset senza che incordi lo travolgessero. Aveva prenotato per due notti, convinto che ci fossero delle formalità da sbrigare, ma Akesuk si era già occupato di tutto. In fondo, la sua presenza era inutile. Poteva anche partire subito.

Decise di annullare la prenotazione per la seconda notte. Sarebbe di certo riuscito a trovare un posto sul volo per Iqaluit e, con un po' di fortuna, ne avrebbe trovato un altro sul Boeing verso Montreal. Una volta arrivato là, non gli importava quanto avrebbe dovuto aspettare per la coincidenza. Montreal meritava una visita e soprattutto era lontanissima da tutto ciò che era legato a quel terribile luogo alla fine del mondo, chiamato Cape Dorset.

Finalmente arrivò il sonno.

Anawak dormiva, ma il suo spirito continuava a ricordare il Nunavut. Si ritrovò sull'aereo che girava sopra Vancouver in attesa dell'autorizzazione all'atterraggio. Ma la torre di controllo non la concedeva. Allora il pilota si girò verso di lui, dicendo: «Non possiamo atterrare. Non può andare a Vancouver, e neppure a Tofino».

«Perché?» urlò Anawak. «Perché non possiamo atterrare?»

«Il controllo di terra dice che è colpa sua. Sostiene che quella non è casa sua.»

«Ma io vivo a Vancouver. Abito a Tofino, su una barca.»

«Abbiamo verificato. Lei non abita là. Laggiù non conoscono nessun Leon Anawak. Il controllo di terra dice che devo portarla a casa. Allora, dove vado?»

«Non lo so.»

«Deve sapere dov'è casa sua.»

«Casa mia è laggiù.»

«Bene.»

L'aereo si abbassò, preparandosi all'atterraggio. Le luci della città si avvicinavano, ma erano poche per essere quelle di Vancouver, troppo poche. Non era Vancouver. C'era neve ovunque. Lastroni di ghiaccio galleggiavano su un lago nero e, sullo sfondo, si levava una montagna.

Atterrarono a Cape Dorset.

Improvvisamente fu di nuovo a casa, dai suoi genitori, che avevano preparato una festa in suo onore. Era il suo compleanno. Erano venuti molti bambini del vicinato e tutti danzavano allegramente intorno a lui. Poi suo padre propose di fare una gara di corsa nella neve, ma, prima, diede ad Anawak un pacco gigantesco, legato grossolanamente con lo spago, e gli spiegò che quello era il suo unico regalo e che era molto prezioso.

«Qui dentro troverai tutto ciò che ti servirà nella vita», disse. «Ma lo devi prendere con te quando corriamo fuori.»

Anawak, con le braccia sopra la testa, cercò di tenere in equilibro il pacco gigantesco. Uscirono. La neve brillava nell'oscurità. Una voce gli sussurrò che doveva assolutamente vincere la corsa, perché, in caso contrario, gli altri lo avrebbero ucciso. Nessuno aveva osato rivelarglielo, ma senza dubbio l'avrebbero fatto. Se non fosse stato abbastanza veloce a gettarsi sott'acqua, durante la notte si sarebbero trasformati in lupi e l'avrebbero fatto a pezzi.

Anawak cominciò a piangere. Non riusciva a immaginare perché qualcuno volesse fargli una cosa del genere. Malediva il suo compleanno, perché sapeva che ben presto sarebbe diventato grande e lui non voleva diventare grande ed essere fatto a pezzi. Stringendo il pacco, si mise a correre. La neve era troppo alta, lui sprofondava quasi sino ai fianchi e riusciva appena ad avanzare. Si guardò intorno, ma non c'era nessuno che stava correndo con lui. Alle sue spalle, non molto distante, c'era solo la casa dei suoi genitori, immersa nel buio e con la porta chiusa. Nel cielo c'era una luna gelida. Poi calò un silenzio assoluto.

Anawak si fermò.

Si chiese se fosse giusto tornare a casa, ma evidentemente là non c'era più nessuno. Allora si sentì isolato, respinto e provò un senso d'incertezza. In quella notte gelida, illuminata dalla luna, non c'era anima viva, non si sentiva un rumore. Gli venne in mente la profezia dei lupi che aspettavano soltanto di sbranarlo vivo. Erano in casa? Avevano già fatto strage degli ospiti? Non c'era niente che lo confermasse. Sembrava che la casa e Cape Dorset fossero misteriosamente andati oltre le leggi della natura. Era Lo stesso posto in cui si era svolta la sua festa di compleanno, ma in un altro tempo, in un futuro lontano o in un lontano passato. Oppure il tempo era fermo e lui stava guardando in un universo ghiacciato in cui non era possibile nessuna forma di vita.

La paura ebbe il sopravvento. Si girò e cominciò a camminare a fatica verso l'acqua. Non c'era un pontile come nella vera Cape Dorset, solo una riva ghiacciata. Il pacco si era rimpicciolito; ormai poteva tenerlo agevolmente con una mano. Procedeva con maggior agio e in pochi passi raggiunse la riva.

Guardò il mare.

La luce della luna splendeva sulle nere onde increspate, che trascinavano lastroni di ghiaccio. Il cielo era pieno di stelle. Qualcuno gridò il suo nome. La voce risuonò debolmente da un cumulo di neve e Anawak, sospeso tra paura e curiosità, si avvicinò con passi esitanti, finché vide che quello non era un cumulo. Erano due corpi coricati, vicinissimi l'uno all'altro, e ricoperti di neve. Erano i suoi genitori. Fissavano con sguardo vuoto il cielo. Erano morti oppure non erano in grado di parlare con lui e di avvertirne la presenza.

Sono adulto, pensò. Devo aprire questo pacco.

Lo osservò.

Era diventato minuscolo. Cominciò ad aprirlo, ma all'interno c'era solo altra carta. Lui la strappò, la fece a brandelli e la gettò via sinché non ci furono più né il pacchetto né i genitori distesi là immobili, ma solo la riva ghiacciata e l'acqua nera.

Un'imponente dorso tagliò l'acqua e poi scomparve.

Anawak girò lentamente la testa. Vide una misera casetta… No, era una baracca di lamiera. La porta era aperta.

La sua casa.

No, pensò. No! Si mise a piangere. Qualcosa era andato storto. Era impossibile che quella fosse la sua vita. Non era quello che aveva progettato!

Si accovacciò nella neve, fissando la casa. Non riusciva a smettere di piangere. Fu preso da uno strazio indicibile. I singhiozzi gli squassavano il torace e risuonavano nel cielo. Coi suoi lamenti, lui riempiva il mondo intero, un mondo in cui, oltre a lui, non esisteva nessuno.

No. No!

Luce.

La sua camera al Polar Lodge.

Tremando, Anawak si era rizzato a sedere. La sveglia indicava le 2.30. Ci volle un po' prima che riuscisse a calmarsi abbastanza per alzarsi e aprire il minibar. Aveva la lingua incollata al palato. Vide acqua, Coca-Cola e birra. Prese una Coca-Cola, la aprì e la bevve a lunghi sorsi. Con la lattina nella mano destra, andò alla finestra, scostò le tende e guardò fuori.

L'hotel era situato a un'altezza tale da permettere di scorgere la zona di Kinngait e una parte del quartiere limitrofo. Il cielo era sereno e senza nuvole, come nel suo sogno, ma su Cape Dorset, anziché l'incommensurabile cielo stellato, c'era la penombra notturna: le case, la tundra e le distese di neve emergevano in un rosa irreale, tendente all'oro. In quel periodo non diventava mai buio; solo i contorni apparivano più sfumati e i colori più scialbi.

Di colpo, Anawak si rese conto di quanto fosse bello quel posto.

Guardava stregato quel cielo incredibile, lasciava scivolare gli occhi sulle montagne e sulla baia. Il ghiaccio sulla Tellik Bay splendeva come argento fuso. Mallikjuaq, nera e gibbosa, sembrava distendersi davanti alla costa come una balena addormentata.

Continuava a guardare, bevendo di tanto in tanto un sorso dalla lattina.

Che doveva fare?

Ricordò i sentimenti provati pochi giorni prima, quando aveva cenato con Tom e Alicia. La stazione di Tofino gli era sembrata estranea, tutto gli era diventato estraneo. Come in ogni altro luogo, non c'era la stanza in cui avrebbe potuto ritirarsi per sfuggire al mondo. Qualcosa d'importanza capitale stava per succedere, ne era convinto. Euforico e timoroso, aveva atteso che la predizione si avverasse.

Invece suo padre era morto.

Era quello? Era quello l'avvenimento importante? Tornare nell'Artico per seppellire suo padre?

Certo, si trovava di fronte a una grande sfida. A una delle più grandi mai lanciate contro l'umanità. Ed era toccato a lui e a pochi altri raccoglierla. Difficile pensare a qualcosa di più importante. Ma quella sfida non riguardava la sua vita. La sua vita si snodava in un altro contesto. Tsunami, catastrofi dovute al metano ed epidemie non c'entravano nulla. La sua vita era balzata in primo piano con l'annuncio della morte di suo padre. E, per la prima volta da quand'era arrivato, Anawak cominciò a sospettare che proprio là, nel Nunavut, gli veniva offerta la possibilità di trasformare la morte in vita. Anche lui era morto. Ora doveva rinascere.

Dopo un po' si vestì, si tirò con cura sulle orecchie il berretto foderato di pelliccia e uscì nella notte luminosa. Per strada non c'era nessuno. Camminò per un'ora buona nel villaggio, finché non sentì arrivare la stanchezza, molto più pesante e gradevole rispetto all'intontimento provato davanti al televisore. Ritornò nell'hotel riscaldato, gettò i vestiti sul pavimento, si avvolse bene nelle coperte e si addormentò non appena ebbe posato la testa sul cuscino.

Il mattino seguente chiamò Akesuk. «Hai voglia di fare colazione con me?» chiese.

Lo zio sembrava sorpreso. «Mary-Ann e io stiamo appunto facendo colazione. Non pensavo che volessi…»

«Okay. Non c'è problema.»

«No, aspetta… Abbiamo appena iniziato. Perché non vieni a gustarti una sostanziosa porzione di uova strapazzate col prosciutto?»

«Va bene. Arrivo.»

La porzione che Mary-Ann gli mise davanti si poteva definire davvero sostanziosa. Anawak si sentì pieno solo a guardarla, ma stoicamente la finì. La donna era raggiante. Si chiese cosa le avesse raccontato Akesuk. Doveva essersi inventato qualche valido motivo per spiegare come mai lui avesse rifiutato la sua cena. Comunque non sembrava risentita.

Era strano stringere la mano che gli porgevano Akesuk e la moglie. Lo riportava alla sua famiglia. Anawak non sapeva ancora se gli piaceva. La magia della notte di luna era svanita e lui non aveva ancora stilato un vero e proprio trattato di pace col Nunavut. Ma era deciso ad accogliere — con prudenza — tutto quello che sarebbe venuto.

Dopo colazione, Mary-Ann sparecchiò e poi disse che sarebbe andata in paese a fare compere. Akesuk girò la manopola di una radio a transistor, ascoltò per un minuto, poi mormorò: «È un bene».

«Che cosa?» chiese Anawak.

«La IBC dice che nei prossimi giorni ci sarà bel tempo. Non bisogna prenderli alla lettera, ma, se è vero anche solo la metà, potremo andare all'aperto.»

«Davvero?»

«Sì, per un po'. Domani. Se ti va, oggi possiamo fare qualcosa insieme. A proposito, che progetti hai? Vuoi tornare subito in Canada?»

La vecchia volpe l'aveva intuito.

Anawak continuava ad aggiungere latte al suo caffè. «Per essere sincero, ieri sera avevo deciso così.»

«Non è una sorpresa», constatò Akesuk seccamente. «E adesso?»

«Ancora non lo so», rispose Anawak. «Forse andrò a Mallikjuaq oppure a Inuksuk Point. A Cape Dorset non mi sento a mio agio, Iji. Non volermene. Non è un luogo che ricordi volentieri con un… un…»

«Con un padre come il tuo», completò la frase lo zio. Si accarezzò i baffi e annuì. «Quello che più mi meraviglia è che tu sia tornato. Per diciannove anni non hai avuto contatti con nessuno di noi. E io sono rimasto l'ultimo della tua famiglia. Ho telefonato solo perché ritenevo giusto informarti, ma neppure nei miei sogni più folli ho creduto che ti avremmo visto qui. Allora, perché sei venuto?»

«Non ne ho idea, Iji. Non c'è nulla che mi abbia spinto. A dire la verità, credo che Vancouver mi volesse allontanare per un po'.»

«Stupidaggini.»

«Di certo non per mio padre! Sai maledettamente bene che non verso una lacrima per lui.» Il suo tono era stato davvero brusco, ma lui non poteva farci niente. «E non succederà mai.»

«Sei troppo duro.»

«La sua vita è stata tutta sbagliata, Iji!»

Akesuk lo guardò a lungo. «Sì, è vero. Ma, in passato, non c'era la possibilità di condurre una vita giusta. Sembra che tu lo abbia dimenticato.» Bevve rumorosamente gli ultimi sorsi di caffè. «Sai una cosa? Ti faccio una proposta», esclamò, ridacchiando. «Mary-Ann e io partiamo oggi. Stavolta vogliamo andare da un'altra parte, a nord-ovest, verso Pond Inlet. E tu vieni con noi.»

Anawak lo fissò. «Non posso… Starete vìa per settimane e io non posso assentarmi per tanto tempo. A prescindere dal fatto che comunque non voglio.»

«Mi hai frainteso. Vieni con noi solo per un paio di giorni, poi torni indietro da solo. Non devo tenerti per mano, sei grande. Spero che tu sia capace di trovarti da solo un aereo.»

«È troppo complicato, Iji, io…»

«Con le tue complicazioni mi stai proprio annoiando. Che c'è di complicato nel portarti sul ghiaccio con noi? Lassù ci uniremo a un gruppo. È già tutto preparato e troveremo un posticino anche per il tuo… civilizzato posteriore.» Gli strizzò l'occhio. «Ma non pensare che sia una passeggiata. Anche tu dovrai fare i turni di guardia contro gii orsi, come tutti gli altri.»

Anawak si appoggiò allo schienale e rimuginò. Quell'invito lo aveva colto impreparato. Era pronto solo a quei due giorni… anzi a un giorno soltanto. Non a tre o quattro.

Come l'avrebbe spiegato a Judith Li?

D'altra parte, lei gli aveva lasciato intendere che poteva restare via quanto voleva.

Pond Inlet. Tre giorni.

In realtà non erano tanti. Il volo da Cape Dorset avrebbe richiesto al massimo due ore. Tre giorni all'aperto, indietro in due ore, direttamente a Iqaluit. «E tu che cosa ti riprometti con questo invito?» chiese.

Akesuk rise. «Di riportarti a casa, ragazzo. Che altro?»

All'aperto.

In quelle due parole si condensava la filosofia di vita degli inuit. «Essere all'aperto» significava sfuggire agli insediamenti, trascorrere le giornate estive negli accampamenti lungo le spiagge o sulle rive ghiacciate per catturare narvali e cacciare foche e trichechi. Agli inuit era permessa la caccia alle balene, limitatamente al loro fabbisogno. Si prendeva il necessario per la sopravvivenza al di fuori della civiltà, si caricavano vestiti, attrezzature e strumenti da caccia sugli ATV o sulle barche. Il luogo verso cui sarebbero partiti era selvaggio, un'area gigantesca che gli inuit avevano percorso da tempo immemorabile, prima che la civiltà li costringesse — loro malgrado — a diventare stanziali.

All'aperto, le strutture intorno alle quali si organizzava la vita nelle città non avevano più significato. Le distanze non erano misurate in chilometri o miglia, ma in unità di tempo. Due giorni per arrivare là, mezza giornata per raggiungere quell'altro posto, forse una giornata soltanto… Che senso aveva parlare di cinquanta chilometri, se in mezzo c'erano barriere impreviste come il pack o i crepacci? La natura non si sottometteva a un progetto. All'aperto si viveva esclusivamente nel presente, perché già l'istante successivo poteva essere pieno di avvenimenti imponderabili. La campagna seguiva un ritmo proprio, cui ci si sottometteva volontariamente. Nel loro lunghissimo periodo nomade, gli inuit avevano imparato che in quella sottomissione c'era il dominio. Fino alla metà del XX secolo avevano percorso la campagna senza legami, e ancora oggi quella vita rispondeva meglio alla loro natura che un'esistenza dentro le case e in un unico luogo.

Anawak si rese conto con maggiore chiarezza dei cambiamenti avvenuti. Sembrava che gli inuit avessero accettato quello che il mondo aveva chiesto loro: le attività regolari necessarie per svolgere un ruolo nella società industriale. Ma, al contrario di quando lui era bambino, il mondo aveva iniziato ad accettare gli inuit. Rendeva qualcosa di ciò che si era preso e soprattutto dava loro una prospettiva. Gli standard occidentali trovavano spazio nel mondo inuit esattamente come le tradizioni più antiche.

Anawak aveva lasciato il suo paese quando aveva smesso di essere tale, diventando invece una regione senza consapevolezza della propria identità. Era scappato, portandosi appresso l'immagine di un popolo profondamente depresso, privo di energie, e al quale era stata negata ogni forma di rispetto per così tanto tempo che, alla fine, aveva addirittura smesso di averne per se stesso. A quel tempo, l'unico che avrebbe potuto correggere quell'immagine era suo padre. Invece era proprio lui a esserne in gran parte responsabile. L'uomo che adesso si trovava nel piccolo cimitero di Cape Dorset era diventato il simbolo di quella rassegnazione: un individuo infelice, collerico e alcolizzato, che aveva fallito in tutto, anche nel proteggere la sua famiglia. Mentre Anawak si allontanava da Cape Dorset, aveva gridato dalla nave — e nella nebbia — una frase che nessuno oltre a lui poteva sentire, pensata per suo padre e per tutto il suo popolo. E quella frase adesso gli rimbombava nelle orecchie: «Perché non vi uccidete tutti, in modo che non ci si debba più vergognare di voi?»

Per un istante aveva pensato di essere il primo ad accettare quell'invito e buttarsi in mare.

Invece era diventato un abitante del Canada occidentale. I suoi genitori adottivi si erano infatti stabiliti a Vancouver. Erano gentili e l'avevano sempre sostenuto, ma, tra loro, non c'era mai stata una vera intimità. Una coppia che stava insieme per convenienza, insomma. Quando Leon aveva compiuto ventiquattro anni, si erano trasferiti ad Anchorage, in Alaska. Una volta all'anno gli spedivano una cartolina, cui lui rispondeva con poche frasi convenzionali. Non era mai andato a trovarli e non sembrava neppure che loro se lo aspettassero. Anzi, se fosse andato ad Anchorage, forse se ne sarebbero meravigliati. E non si poteva neppure sostenere che erano diventati come estranei, perché, semplicemente, non erano mai stati vicini.

Quella non era la sua famiglia.

La proposta di Akesuk aveva risvegliato in Anawak nuovi ricordi. Le lunghe serate accanto al fuoco, per esempio, durante le quali c'era sempre qualcuno che raccontava una storia e tutto il mondo sembrava animarsi. Quand'era piccolo, naturalmente, c'erano la regina delle nevi e il re degli orsi. Aveva sentito di donne e uomini che erano venuti al mondo negli igloo e aveva immaginato che, una volta cresciuto, si sarebbe spostato sul ghiaccio in armonia con se stesso e col mito dell'Artico. Dormire se si è stanchi. Lavorare e andare a caccia se il clima lo permette o semplicemente quando se ne ha voglia. Mangiare se lo stomaco brontola e non durante la pausa di mezzogiorno. Succedeva che la caccia durasse svariati giorni, benché si fosse partiti con l'intenzione di star via solo per poco. Talvolta ci si preparava e poi la caccia non aveva luogo. Ai qallunaat, quell'apparente disorganizzazione degli inuit era sempre sembrata sospetta. I qallunaat non capivano come si potesse vivere senza pianificare il tempo e valutare le prestazioni. I qallunaat si costruivano un mondo al di fuori del mondo. Sostituivano il corso naturale delle cose con un ordine artificiale e tutto ciò che non rientrava nel loro modo di pensare veniva ignorato o estirpato.

Anawak pensò allo Château e al lavoro che cercavano di fare laggiù. Penso a Jack Vanderbilt. A come il vicedirettore della CIA si aggrappasse testardamente all'idea che gli avvenimenti degli ultimi mesi dovessero essere ricondotti a piani e atti umani. Chi voleva comprendere gli inuit, doveva staccarsi dalla psicosi del controllo tipica della società civile.

Almeno, però, si aveva a che fare con esseri umani, mentre l'entità sconosciuta che si nascondeva dietro gli avvenimenti che stavano studiando non possedeva nulla di umano. Anawak si era convinto che Johanson aveva ragione. Continuando a seguire l'ordine e i valori umani, c'era il rischio di perdere quella guerra. Individui come Vanderbilt l'avrebbero persa, perché incapaci di comprendere che esistevano diversi modi di pensare. Probabilmente l'uomo della CIA era addirittura consapevole di quella sua inadeguatezza, ma sarebbe stato incapace di forzare la propria natura di membro della compagine civile per percorrere la strada della comprensione di una specie addirittura non umana.

In un delfino non c'era nulla da comprendere. E allora, che c'era da capire in una specie che Johanson, con un tocco dadaista, aveva definito yrr?

Improvvisamente Anawak comprese che non avrebbero potuto svolgere il loro compito finché non avessero formato la squadra giusta.

Mancava qualcuno. E lui sapeva chi.

Mentre Akesuk preparava il necessario per la partenza, Anawak, nel Polar Lodge, cercava di mettersi in contatto con lo Château. Dopo qualche minuto, lo deviarono su una linea a prova d'intercettazione e lo collegarono con diversi telefoni, l'uno dopo l'altro. Judith Li non era nell'hotel, si trovava a bordo di un incrociatore della Marina al largo di Seattle. Dovette attendere quindici minuti prima di averla in linea.

Le chiese se poteva restare ancora due o tre giorni e lei, dopo aver sentito che doveva occuparsi dei parenti, gli rispose che poteva fermarsi quanto voleva. Benché non si sentisse a posto con la coscienza, Anawak si convinse che probabilmente la salvezza del mondo non dipendeva dalla sua assenza di tre giorni. Inoltre rimaneva comunque a disposizione. E la sua testa continuava a lavorare, anche se si trovava nell'estremo nord.

Judith Li gli comunicò che gli attacchi col sonar alle balene erano proseguiti. «So che non le piace, ma…»

«Funzionano?» chiese Anawak.

«Siamo in procinto di sospendere gli esperimenti, perché non raggiungono gli effetti desiderati. Però dobbiamo tentare tutto. Più a lungo teniamo alla larga le balene, maggiore è la possibilità di mandare sott'acqua sommozzatori ed equipaggiamenti.»

«Vuole aumentare le possibilità? Allora allarghi il team.»

«Con chi?»

«Con tre persone.» Fece una pausa, poi decise di passare all'offensiva: «Abbiamo bisogno di più collaboratori che si occupino di fare ricerche sul comportamento e sull'intelligenza. E io ho bisogno di qualcuno che mi assista e di cui mi possa fidare. Voglio che sia convocata Alicia Delaware. È una studentessa che si occupa di ricerche sull'intelligenza. D'estate, risiede a Tofino».

«Va bene», replicò Judith Li con sorprendente velocità. «Il secondo?»

«Vive a Ucluelet e, se consulta i dossier del programma MK0, lo troverà sotto il nome di Jack O'Bannon. Sa come comportarsi coi mammiferi marini. E sa pure altre cose che ci potrebbero essere utili.»

«È un accademico?»

«No, è un ex addestratore dalla Marina. Ha partecipato all'US Navy's Marine Mammal System.»

«Capisco, ma dovremo discuterne», disse Judith Li. «Abbiamo tutta una serie di esperti in questo settore. Perché vuole proprio lui?»

«Voglio lui e basta.»

«E la terza persona?»

«È la più importante. In un certo senso, abbiamo a che fare con degli alieni. Ci sarà bisogno di qualcuno che abbia ragionato esclusivamente sul problema di come comunicare con intelligenze non umane. Prenda contatto con la dottoressa Samantha Crowe. Dirige il progetto SETI ad Arecibo.»

Judith Li sorrise. «Lei è un ragazzo intelligente, Leon. Avevamo già intenzione di coinvolgere qualcuno del SETI. Conosce la dottoressa Crowe?»

«Sì. È a posto.»

«Bene.»

«Soddisferà le mie richieste?»

«Vedrò che cosa posso fare.» In sottofondo qualcuno la chiamò. «Stia bene, Leon. E torni da noi sano e salvo. Ora devo tornare al fronte.»

L'aereo a turboelica Hawker Siddeley non si portò subito a nord, ma volò per un tratto in direzione est. Akesuk aveva convinto il pilota a fare quella piccola deviazione in modo che Anawak potesse ammirare la Great Plain of the Koukdjuak, una riserva naturale piena di stagni rotondi, in cui viveva la più grande colonia di oche del mondo. Sull'aereo c'erano altri passeggeri provenienti da Cape Dorset e Iqaluit, e tutti stavano andando a Pond Inlet. La maggior parte conosceva il panorama e pensava ai fatti propri, senza neanche sbirciare dal finestrino.

Anawak, invece, non si stancava più di guardare.

Per lui era come svegliarsi da un sonno durato anni.

Per un po' volarono lungo la costa e attraversarono il Circolo Polare. Dal punto di vista geografico, l'Artico iniziava lì. Sotto di loro, si stendeva il paesaggio ghiacciato del bacino di Foxe, coi suoi crepacci di ghiaccio grandi e piccoli, interrotti da superfici d'acqua. Dopo un breve tratto, tornarono a sorvolare la terra, frastagliata e con pareti montuose scoscese e falesie verticali. La neve brillava sul fondo di gole profonde e ombreggiate. Nei laghi ghiacciati si riversavano i rigagnoli dell'acqua del disgelo. Nella luce del sole basso, il paesaggio diventava sempre più splendido. Montagne scure si alternavano a valli innevate; davanti a loro si allungavano catene montuose coperte quasi per intero da manti di neve. Poi, repentinamente, l'aereo passò su una linea di costa azzurrognola, interrotta da macchie bianche, e apparve l'Eclipse Sound.

Anawak dimenticò tutto ciò che aveva intorno.

Osservava la bizzarra bellezza dell'Artico. Gigantesche formazioni cristalline si levavano dalla bianca pianura: erano montagne di ghiaccio perenne. Sotto di loro, correvano due minuscoli orsi polari, come se fossero inseguiti dall'ombra dell'aereo che sfilava sulla superficie ghiacciata. Punti splendenti fuggivano via: gabbiani. Per un buon tratto, sorvolarono le imponenti pareti verticali e i ghiacciai dell'isola Bylot. Poi, scesi un poco, seguirono il corso di un'altra sponda. Un paesaggio scuro sembrò andar loro incontro. C'erano case, centri abitati e una pista d'atterraggio: Pond Inlet, Mittimatalik nella lingua degli inuit, cioè: «dove si trova Mittimata».

Il sole era violento sull'orizzonte nordoccidentale. In quella stagione non sarebbe tramontato; solo intorno alle due del mattino avrebbe sfiorato per qualche minuto l'orizzonte. Erano le nove di sera quando raggiunsero la loro meta, ma Anawak aveva già perso il senso del tempo. Si trovava nei luoghi della sua infanzia e gli sembrava che un peso enorme gli fosse caduto dal petto.

Akesuk era nel giusto. Aveva ottenuto quello che fino a ventiquattr'ore prima lo stesso Anawak avrebbe ritenuto impossibile.

L'aveva riportato a casa.

Pond Inlet aveva le stesse dimensioni e il medesimo numero di abitanti di Cape Dorset, ma era completamente diversa. Quella regione era abitata da oltre quattromila anni. Lì nessuno aveva osato costruire edifici architettonicamente azzardati come a Iqaluit. Akesuk spiegò che in quella zona del Nunavut gli inuit davano decisamente più valore alle tradizioni che in qualunque altro luogo. Con cautela, proseguì dicendo che lassù lo sciamanesimo aveva ancora un ruolo di primo piano, benché ovviamente tutti fossero cristiani credenti. Ma Anawak non replicò e lui lasciò cadere l'argomento, mettendosi invece a elencare una serie di cose che, il giorno seguente, si sarebbero dovuti procurare al supermercato locale.

Trascorsero una notte in hotel. Al mattino presto, Akesuk lo svegliò e andarono verso la riva. Lo zio guardava al largo, fiutando l'aria; disse che il bel tempo avrebbe retto e che si aspettava una splendida caccia. «La primavera non si è fatta aspettare», affermò soddisfatto. «All'hotel dicono che fino al limite del pack c'è mezza giornata. Forse una, dipende.»

«Dipende da cosa?»

«Può succedere di tutto. Dipende. Vedrai tanti animali. Balene, foche, orsi polari. Quest'anno il distacco dei ghiaccio è arrivato prima del solito.»

Non c'è da meravigliarsi, con quello che sta succedendo, pensò Anawak.

Il gruppo comprendeva dodici persone. Anawak ne aveva conosciute alcune sull'aereo, altre le conobbe a Pond Inlet. Dopo che Akesuk ebbe confabulato con le due guide, raggrupparono i bagagli e lasciarono in deposito all'hotel quello che non era strettamente necessario. Nel frattempo erano state preparate per il viaggio quattro qamutik. Nei ricordi di Anawak, le slitte tradizionali erano trainate dai cani; adesso invece erano attaccate con una corda doppia ai gatti delle nevi, o skidoo. Le qamutik avevano sempre lo stesso aspetto: lunghe quattro metri, con pattini di legno molto arcuati e un gran numero di traverse tese e legate insieme, senza neppure un chiodo e una vite. Le slitte erano tenute insieme da corde e cinghie, per rendere più semplici le riparazioni. Su tre qamutik erano montate cabine di legno aperte in alto per proteggere dalle intemperie; la quarta serviva per trasportare i bagagli.

«Non sei vestito abbastanza», disse Akesuk, sbirciando la giacca a vento di Anawak.

«Ma come! Ho guardato il termometro. Ci sono sei gradi.»

«Dimentichi il vento. Hai due paia di calzini pesanti negli stivali? Qui non siamo a Vancouver.»

Effettivamente si era dimenticato tante cose. Soltanto adesso cominciava a rendersi conto di aver scelto un abbigliamento inadeguato per affrontare il freddo. Quasi si vergognava. Ovviamente il freddo ai piedi era il problema principale, lo era sempre stato. S'infilò un altro paio di calzini e un secondo pullover, benché si sentisse un barile ambulante. Tutti i partecipanti al viaggio, coi loro abiti protettivi e gli occhiali da neve, somigliavano ad astronauti.

Akesuk e le guide controllarono per l'ennesima volta l'attrezzatura. «Sacchi a pelo, pellicce di caribù…»

Gli occhi dell'uomo brillavano. I baffi sottili e grigi sembravano arruffarsi per il piacere. Anawak lo osservava mentre correva indaffarato di slitta in slitta. Ijitsiaq Akesuk era completamente diverso da suo padre. In sua compagnia, gli inuit e il loro modo di vivere acquistavano importanza.

I pensieri di Anawak si rivolsero all'entità che abitava gli abissi marini.

Una volta iniziato il viaggio sul ghiaccio, avrebbero seguito solo le regole della natura. Per sopravvivere là fuori era necessario assumere un atteggiamento che si poteva definire panteistico. Non ci si doveva dare troppa importanza. Non si era importanti in se stessi, perché si era solo una parte dell'anima del mondo, che si manifestava negli animali, nelle piante, nel ghiaccio e occasionalmente anche negli uomini.

E negli yrr, pensò Anawak. Chiunque siano, qualunque aspetto abbiano, ovunque vivano e come.

Con un leggero scossone, il gatto delle nevi che trainava la slitta su cui avevano trovato posto Anawak, Akesuk e la moglie si mise in moto. Poi cominciarono a scivolare sul mare ghiacciato e innevato. Il disgelo era iniziato, ma si limitava agli strati superiori. Girarono intorno alla riva collinosa di Pond Inlet e tennero la direzione nord-est finché non giunsero ad alcuni chilometri dalla costa dell'isola di Baffin, che si sviluppava verso sud oltre la coltre di ghiaccio. Dalla parte opposta, spiccavano le rocce dell'isola Bylot, circondata da iceberg. Un'imponente lingua di ghiaccio scendeva dalle vette fino alla riva. Anawak comprese che quella che stavano attraversando non era terra, bensì la crosta gelata del mare. Sotto di loro nuotavano i pesci. Di tanto in tanto, quando trovavano un dislivello, i pattini della qamutik si sollevavano per poi sbattere nuovamente sul ghiaccio, ma la slitta attutiva l'impatto.

Dopo un po' i due inuit delle qamutik in testa cambiarono direzione di marcia, e gli altri li seguirono. Anawak rimase sconcertato, poi vide che stavano girando intorno a un crepaccio aperto nel ghiaccio, troppo grande per essere attraversato dalle slitte. Oltre il bordo azzurrognolo si scorgeva l'acqua nera e apparentemente senza fondo del mare.

«Potrebbe volerci un po'», disse Akesuk.

«Sì, ci costerà del tempo», concordò Anawak, rammentando come, in passato, avessero costeggiato a lungo simili crepacci.

Akesuk si grattò il naso. «No. Perché dovrebbe costare qualcosa? Non stiamo sacrificando del tempo. Lo teniamo comunque, sia che viaggiamo direttamente verso est, sia che ci spostiamo per un tratto verso nord. L'hai dimenticato? Quassù non è importante la velocità con cui si procede. Anche se fai una deviazione, la tua vita continua lo stesso. Non è tempo perso.»

Anawak rimase in silenzio.

Sorridendo, lo zio proseguì: «Forse è stato questo il problema che ci ha afflitto nel secolo scorso: i qallunaat ci hanno portato il tempo. Abbiamo dovuto imparare che esiste il tempo perso. I qallunaat credono che l'attesa sia tempo perso, e così perdono il tempo della loro vita. Quand'eri piccolo, tutti noi l'abbiamo creduto. Anche tuo padre ci ha creduto e, dato che non vedeva nessuna possibilità di fare cose che avessero un senso e un valore, si è convinto che la sua vita fosse priva di valore perché fatta di tempo sprecato, inutilizzato. Il tempo della sua vita era privo di valore. La sua vita era priva di valore».

Anawak lo guardò. «Non dovresti rammaricarti per lui, ma per mia madre», disse.

«Anche lei si è rammaricata per lui», ribatté Akesuk. Poi si mise a chiacchierare con Mary-Ann.

In effetti furono costretti a percorrere diversi chilometri prima che il crepaccio si stringesse a sufficienza per poter passare dall'altra parte. Una delle due guide inuit sganciò il proprio gatto delle nevi e superò il crepaccio a tutta velocità. Poi gettò delle corde alle qamutik e le trascinò oltre il crepaccio. Proseguirono. Con aria imperturbabile, lo zio s'infilò in bocca una sottile striscia di grasso e passò ad Anawak il barattolo con le strisce rimanenti.

Esitando, Anawak ne prese una. Era pelle di narvalo. Un tempo, quand'erano in viaggio, avevano sempre della pelle di narvalo tra le provviste. Sapeva che aveva molta vitamina C, più del limone e dell'arancia. La masticò e gustò il sapore di noci fresche.

Il sapore innescò la reazione a catena delle immagini e delle sensazioni. Sentì delle voci, ma non erano quelle dei membri della spedizione. Appartenevano a persone con cui era stato in viaggio vent'anni prima. Sentì la mano di sua madre che gli accarezzava i capelli.

«Crepacci di ghiaccio sul mare, barriere di ghiaccio pressato…» Lo zio rise. «Questa non è un'autostrada, Leon. Dimmi la verità, non ti sono mai mancate queste cose?»

Se Akesuk aveva notato lo stato emotivo in cui era improvvisamente sprofondato Anawak e aveva pensato di rafforzarlo con quella domanda, si era sbagliato di grosso. Anawak scosse la testa. Forse fu solo l'orgoglio, ma disse asciutto: «No».

Nello stesso istante si vergognò della risposta.

Akesuk scrollò le spalle.

Dopo aver trascorso la maggior parte della propria vita a Vancouver Island come studioso della vita marina, Anawak avrebbe potuto affermare di essere vissuto più vicino alla natura che a qualsiasi opera umana. Tuttavia scivolare su quel braccio di mare bianco, senza contorni — sempre più al largo, con a destra la tundra marrone e a sinistra le cime coperte di neve dell'isola Bylot — era una cosa completamente diversa rispetto all'osservare le balene nel Clayoquot Sound. Mentre il clima nel Canada occidentale sembrava fatto apposta per gli uomini, l'Artico era una sorta d'inferno. Certo, era magnifico, straordinario, però bastava a se stesso ed era letale per qualsiasi essere umano che si cullasse nell'illusione di poterlo dominare. I centri abitati sembravano quasi il caparbio tentativo di conquistare qualcosa che non si sarebbe mai potuto neppure raggiungere. Il viaggio in qamutik verso il bordo dei ghiacci si trasformò in un viaggio nell'ignoto. Quel poco che restava ad Anawak del senso del tempo sparì dopo un'altra notte illuminata dal sole. Stava facendo un viaggio alle origini del mondo. Anche il più razionale degli individui avrebbe capito perché l'orso polare aveva un'aria così malinconica, come raccontavano gli inuit nelle lunghe serate davanti al fuoco. L'orso aveva dimenticato la realtà a causa dell'amore per una donna sposata, la quale, però, aveva confidato al marito dove si trovava il nascondiglio dell'amante, mossa a compassione dal fatto che l'uomo aveva cacciato per settimane senza prendere nulla. Ma l'orso, che l'aveva supplicata di non parlargli dei loro incontri, aveva sentito quella rivelazione e, mentre il cacciatore usciva a cercarlo, era scivolato nell'igloo dell'amante per ucciderla. Aveva sollevato la zampa, ma poi era stato sopraffatto dalla tristezza. Che senso aveva annientare la vita di quella persona? Ormai il tradimento era compiuto. Così se n'era andato, solo e a passi pesanti.

L'aria fredda pungeva la pelle di Anawak.

Ogni volta che la natura si era avvicinata all'uomo era stata tradita. Da allora, dicono le leggende, gli orsi aggrediscono gli uomini. Quello era il loro regno. Erano i più forti. Tuttavia l'uomo li aveva sconfitti e, con loro, aveva sconfitto se stesso. Benché Anawak avesse voltato le spalle alla sua patria da due decenni, sapeva bene che i prodotti chimici industriali come il DDT o il PCB arrivavano fino al mar Glaciale Artico dall'America del Nord, dall'Europa e dall'Asia, trasportati dai venti e dalle correnti marine. Le sostanze tossiche si accumulavano nei tessuti delle balene, delle foche e dei trichechi, di cui si nutrivano orsi polari e uomini, e tutti si ammalavano. Nel latte materno delle donne inuit erano state rilevate concentrazioni di PCB che superavano anche di venti volte i limiti stabiliti dall'Organizzazione mondiale della sanità. I bambini soffrivano di disturbi neurologici e i loro test d'intelligenza davano risultati sempre peggiori. Le regioni selvagge venivano avvelenate, perché i qallunaat non capivano — o non volevano capire — il principio su cui si basava il funzionamento del pianeta Terra: una gigantesca pompa di circolazione di correnti marine e d'aria che prima o poi diffondono ogni cosa ovunque.

C'era da meravigliarsi che negli abissi qualcuno avesse deciso di mettere la parola fine a tutto ciò?

Dopo due ore di viaggio, tornarono a dirigersi verso la costa dell'isola di Baffin. Indolenziti per essere stati seduti così a lungo e per i sobbalzi, per quanto ammortizzati dai pattini, camminarono a fatica sul ghiaccio pressato verso la tundra libera dalla neve, di fianco a macigni ricoperti di licheni. In mezzo alle pianure acquitrinose, ricoperte di muschio, splendevano fiori isolati, sassifraghe purpuree e potentille. Era la stagione migliore. Più tardi, in estate, lì ci sarebbero stati miliardi di moscerini.

Il terreno saliva dolcemente. Uno degli autisti degli skidoo li condusse su un altopiano che si affacciava sul mare e sulle montagne imbiancate, e mostrò loro i resti di antiche abitazioni dell'epoca thule e due semplici croci. Là erano seppelliti alcuni cacciatori di balene tedeschi. Diversi siksik - scoiattoli artici — s'inseguivano sull'altopiano e poi sparivano nelle spaccature del terreno. Mary-Ann trovò alcune pietre adatte e si mise a fare giochi di abilità. Anawak la fissò per qualche istante, poi, di colpo ricordò che quella era una specialità sportiva degli inuit, vecchia come il mondo. Ci provò anche lui, ma il risultato fu disastroso e suscitò una risata collettiva. Gli inuit erano fatti così. Un popolo sciocco che si ammazzava dal ridere anche soltanto se qualcuno scivolava.

Dopo un breve pasto con panini e caffè, ripartirono, superarono un crepaccio ancora più grande e si diressero verso l'isola Bylot. Gli skidoo spruzzavano da tutte le parti l'acqua del disgelo. Il pack formava bizzarre barriere e costringeva a sempre nuove deviazioni. Dopo un breve tratto, arrivarono alle scogliere dell'isola Bylot. L'aria era satura delle grida degli uccelli. A migliaia, i gabbiani tridattili avevano fatto il nido nelle spaccature delle rocce e volavano in stormi. Il convoglio rallentò sino a fermarsi.

«Facciamo una passeggiata», disse Akesuk.

«Ne abbiamo appena fatta una», si meravigliò Anawak.

«È stato tre ore fa, ragazzo.»

Tre ore? Oh, santo cielo.

A differenza della tundra dell'isola di Baffin, che saliva dolcemente, l'isola di Baylot si mostrava assai impervia già nella zona costiera. Più che una passeggiata fu una scalata. A un certo punto, Akesuk indicò ad Anawak una scia bianca di escrementi di uccello. «Girifalchi», disse. «Splendidi animali.»

Emise una serie di fischi straordinari, ma i falchi non si fecero vedere. «Nell'interno avremo più possibilità di vederli. E potremo incontrare anche volpi, oche delle nevi, gufi, falchi e poiane.» Sorrise, ironico. «O forse no. L'Artico è così. Non si può prendere appuntamento. Il pack è inaffidabile, per gli animali come per gli inuit. Vero, ragazzo?»

«Io non sono un qallunaaq, se è questo che intendi», ribatté Anawak.

«Oh.» Lo zio fiutò l'aria. «Va bene. Penso che ci risparmieremo la salita. Lo faremo un'altra volta. Certamente tornerai qui, visto che non sei più un qallunaaq. Andiamo al bordo dei ghiacci, col bel tempo dovremmo farcela.»

Da quel momento in poi, il tempo smise di esistere.

Mentre si dirigevano verso est, lasciandosi alle spalle l'isola di Bylot, il ghiaccio si fece più irregolare e i colpi contro la slitta divennero più violenti. Il vento freddo aveva congelato almeno in parte le pozzanghere formate dall'acqua del disgelo. Il ghiaccio strideva, come se stessero viaggiando sul vetro. Anawak si alzò e vide un piccolo crepaccio. Lo fece notare all'autista della quamutik, ma l'uomo lo aveva già visto. Si girò verso Anawak, continuando a sfrecciare sul ghiaccio, e gli sorrise, riconoscente.

«Ti ricordi ancora qualcosa», rise Akesuk.

Anawak lo guardò perplesso. Poi rise con lui. Si sentiva orgoglioso. Incredibile. Si sentiva orgoglioso di aver visto il crepaccio.

Nel pomeriggio, come per magia, nel cielo apparvero i «cani del sole». Così gli inuit chiamavano l'occasionale apparizione ai lati del sole di grandi anelli splendenti, generati dalla luce che attraversava minuscoli cristalli di ghiaccio. In lontananza, il pack si accatastava in gigantesche barriere, profondamente frastagliate. Poi, improvvisamente, alla loro destra apparve l'acqua. Una foca emerse, si guardò velocemente intorno e sparì. Un poco più avanti, ricomparve. Si lasciarono alle spalle quel buco e si fermarono davanti a un altro, di dimensioni enormi. Ci volle un po' ad Anawak per rendersi conto che quello non era un buco, bensì il bordo del ghiaccio. Al di là di esso, iniziava il mare aperto.

Dopo un po' incontrarono un accampamento e si fermarono. Ci fu una serie di saluti cordiali. Alcuni degli uomini si conoscevano e gli altri furono presentati con dovizia di particolari. Quelli dell'accampamento provenivano da Pond Inlet e Igloolik. Avevano catturato un narvalo e, dopo averlo squartato, ne avevano lasciato i resti più a est, nelle vicinanze del bordo del ghiaccio, all'incirca dov'era diretto il gruppo di Anawak. Vennero offerti pezzi di pelle e ci s'intrattenne sulla caccia. Poi arrivarono due cacciatori coi loro skidoo; provenivano dal bordo del ghiaccio e stavano tornando a casa. Avevano legato alle loro qamutik due canoe per la caccia e due foche che avevano ucciso il giorno precedente. Uno dei due disse che gli animali avrebbero seguito prima del solito il ghiaccio che si ritirava, per procurarsi il cibo e per la cova. Poi agitò un Winchester 5.6 e consigliò di usarlo con prudenza. Sul suo berretto c'era scritto: IL LAVORO È SOLO PER GLI UOMINI CHE NON CAPISCONO NIENTE DI CACCIA. Anawak gli chiese se avesse notato qualcosa di strano nel comportamento delle balene, se si fossero mostrate particolarmente aggressive o se addirittura avessero aggredito qualcuno, ma i cacciatori non avevano osservato nulla. Immediatamente l'accampamento intero si radunò intorno a loro. Tutti erano informati fin nel dettaglio di ciò che stava tenendo il mondo col fiato sospeso, ma sembrava che fino a quel momento l'Artico fosse stato risparmiato dalle anomalie.

Verso sera lasciarono l'accampamento.

I due cacciatori ritornarono a Pond Inlet e il convoglio di Anawak si rimise in movimento lungo il bordo del ghiaccio. Dopo un po' superarono i resti del narvalo ucciso, circondato da stormi di uccelli che, gridando, cercavano di prendere i brandelli di carne. Il gruppo proseguì per allontanarsi il più possibile ma, quando si fermò, la carcassa era ancora visibile. Le guide piantarono il campo a circa trenta metri dal bordo del ghiaccio. Le casse vennero slegate dalle slitte e fu sistemato il palo per la radio, una cosa necessaria per non perdere il contatto col mondo esterno. In breve tempo, le guide montarono cinque tende, quattro per i viaggiatori e una per la cucina, fornita di pedane e tappeti isolanti. Tre assi pitturate di bianco formavano la toilette; all'interno, c'erano un secchio, provvisto di un sacco di plastica blu, e un sedile smaltato tutto graffiato.

«È arrivato il momento», disse Akesuk, raggiante.

Sparì per primo nel «vaso di miele», come gli inuit chiamavano le loro toilette mobili. Intanto l'allestimento del campo procedeva. Le guide inuit proposero di fare una corsa con gli skidoo e Anawak si fece mostrare i comandi. Guidare uno skidoo risultò piuttosto semplice; poco dopo, lui correva, facendo curve folli sul ghiaccio splendente. Sentì il cuore diventare più leggero.

Adorava essere lì.

Fecero diverse corse, finché un uomo di Igloolik fu dichiarato vincitore del torneo. A quel punto, la fame si fece sentire. Mary-Ann li cacciò dalla tenda della cucina e così si riunirono all'esterno, infagottati contro il freddo, appoggiati alle slitte, mentre una giovane donna si mise a raccontare una storia inuit, di quelle che ogni volta vengono narrate in maniera un po' diversa. Anawak ricordava che, a volte, quelle storie venivano raccontate per giorni. Gli inuit non pensavano che fosse necessario arrivare alla fine in un colpo solo. I giorni sul ghiaccio erano lunghi e le storie erano lunghe. E allora perché non dividerle?

Era mezzanotte quando Mary-Ann servì la cena. Aveva superato se stessa. C'era un profumo allettante di salmerino alla griglia, spezzatino di caribù con riso ed eskimo-potatoes, una specie di tubero locale, arrosto. Inoltre c'era tè nero caldo a litri. La tenda-cucina avrebbe dovuto offrire spazio a tutti i membri, ma si rivelò più piccola del previsto. Akesuk si arrabbiò e imprecò contro l'uomo che gliela aveva noleggiata. Ma non servì a farla diventare più grande, così portarono i loro piatti sui telai delle slitte e sulle casse delle provviste e mangiarono fin quasi a scoppiare.

Intorno all'una e mezzo, quando tutti cominciavano a essere stanchi, Akesuk tirò fuori dalle profondità del suo bagaglio una bottiglia di champagne. Strizzò l'occhio divertito ad Anawak. Mary-Ann storse il naso e andò a dormire. Infine, rimasero svegli solo Anawak, suo zio e l'uomo che faceva il turno di guardia contro gli orsi.

«Allora ce la beviamo noi», disse Akesuk.

Anawak scosse la testa. «Io non bevo.»

«Ah, è vero!» Akesuk lanciò uno sguardo triste alla bottiglia. «Ne sei sicuro? L'avevo tenuta per aprirla in un'occasione davvero speciale. L'occasione speciale è… Ma sì… Sei tornato a casa e pensavo…»

«Non voglio perdere il controllo, Iji.»

«Di che cosa? Della tua vita o di questo momento?» Rimise via la bottiglia. «Va bene. Ci saranno altre occasioni speciali. Forse avremo una caccia fruttuosa. Magari riusciremo a prendere una balena bianca o un grasso e succoso tricheco. Cosa dici, camminiamo ancora un po' prima di crollare a dormire?»

«Volentieri, Iji.»

Bighellonarono fino al bordo del ghiaccio. Anawak lasciò andare avanti lo zio, che sapeva meglio di lui dove il ghiaccio fosse stabile e dove rischiasse di rompersi. Gli inuit non avevano un'unica parola per indicare il concetto di «neve» o «ghiaccio»: ne avevano centinaia. Al momento, stavano avanzando sul ghiaccio elastico. Mentre gli iceberg erano fatti di acqua dolce — perché i sali non congelavano -, nel ghiaccio alla deriva e nel ghiaccio marino se ne trovavano dei residui. Quanto più in fretta il ghiaccio si congelava, tanto maggiore era la concentrazione salina. Quello era il motivo per cui il ghiaccio diventava più elastico: una cosa vantaggiosa d'inverno — perché era più difficile che si rompesse -, ma un inconveniente in primavera, dato che il rischio di rottura diventava più elevato. Tuffarsi nell'acqua gelata poteva uccidere, ma era ancora peggio se si veniva trascinati dalla corrente sotto il manto di ghiaccio.

Si appoggiarono contro un blocco di pack. Davanti a loro si stendeva il mare argentato. Per un po', Anawak rimase semplicemente a guardare. Anche Akesuk era in silenzio. Lasciarono trascorrere il tempo e improvvisamente — come se la natura avesse deciso di ricompensare la loro resistenza — dall'acqua si levarono due corni attorcigliati, simili a spade incrociate. Due maschi di narvalo apparvero a pochi metri di distanza dal bordo, rivelando le teste tonde, chiazzate di grigio scuro. Poi gli animali s'immersero lentamente. Nel giro di un quarto d'ora sarebbero riemersi. Quello era il loro ritmo.

Anawak era affascinato. A Vancouver Island i narvali non si vedevano praticamente mai. Per molto tempo erano stati prossimi all'estinzione. I loro corni — che in realtà erano denti allungati — erano di avorio e, per quel motivo, i narvali erano stati cacciati per secoli. Comparivano ancora nell'elenco degli animali minacciati di estinzione, ma il loro numero, tra il Nunavut e la Groenlandia, era risalito a diecimila.

Il ghiaccio scricchiolava e gemeva. Un po' più in là, gli uccelli stridevano sui resti dell'animale ucciso. Sulle rocce e sui ghiacciai dell'isola di Baylof si stendeva una luce delicata, che disegnava ombre sul mare ghiacciato. Appena sopra l'orizzonte c'era un sole pallido e gelido.

«Mi hai chiesto se mi sono mancate queste cose», disse Anawak.

Akesuk rimase in silenzio.

«Le ho odiate, Iji. Le ho odiate e disprezzate. Volevi una risposta. Ora ce l'hai.»

Lo zio sospirò. «Hai odiato tuo padre», replicò.

«Forse. Ma prova a spiegare a un ragazzino di dodici anni la differenza tra suo padre e il suo popolo, quando entrambi non hanno altro da offrire che la loro miseria. Mio padre era un debole e soprattutto era sempre ubriaco. Non ha fatto altro che lamentarsi e ha spinto mia madre sulla via della depressione e infine del suicidio. Sapresti dirmi il nome di un solo nucleo familiare in cui non c'è stato un suicida? Erano tutti così. È giusto che si raccontino ancora le storie sugli inuit come popolo orgoglioso e indipendente, ma non è quello che ho visto io.» Guardò Akesuk. «Come fai a sopportare che, nel giro di qualche anno, tuo padre e tua madre diventino dei relitti, dipendenti dalle droghe e incapaci di vivere? Che tua madre s'impicchi perché non riesce più a sopportare se stessa? E che tuo padre non sappia far altro che frignare e ubriacarsi? Sono andato da lui e gli ho detto che doveva piantarla. Che la mia forza bastava per due. Gli ho urlato che sarei andato a lavorare, che avrei fatto qualcosa, che volevo aiutarlo, in primo luogo a mollare la bottiglia, così che potesse tornare a pensare lucidamente, come prima… Ma lui si è limitato a fissarmi con gli occhi sbarrati e si è messo a piagnucolare!»

«Lo so.» Akesuk scosse la testa. «Non era più padrone di se stesso.»

«Mi ha dato in adozione», disse Anawak. Nelle sue parole c'era l'amarezza di anni interi. «Io volevo restare con lui e invece quello smidollato mi ha mandato via.»

«Non ti ha mandato via. Ti voleva proteggere.»

«E allora? Si è forse preoccupato di quello che sarebbe stato di me? Mia madre aveva toccato il fondo della depressione, mio padre era distrutto dall'alcol ed entrambi mi hanno cacciato dalla loro vita. E qualcuno mi ha aiutato? No! Erano tutti impegnati a guardare i buchi nella neve e a lamentarsi di quanto fossero disgraziati gli inuit. Anche tu, lo ricordo bene. Tu eri lo zio Iji, mi facevi ridere, avevi sempre qualche storia da raccontare… Eppure neanche tu sei riuscito a mettere a posto le cose. Eri capace solo di tirare fuori le leggende. Ore e ore a narrare favole sul popolo libero degli inuit. Un popolo nobile! Un popolo orgoglioso!»

«E lo era», confermò Akesuk. «Era un popolo orgoglioso.»

«Quando?»

Si aspettava che Akesuk s'infuriasse, ma lo zio si limitò ad accarezzarsi i baffi. «Prima della tua nascita», mormorò. «Gli uomini della mia generazione sono nati negli igloo, ed era assolutamente ovvio che tutti sapessero costruirli. Quando facevamo il fuoco, lo accendevamo con le pietre focaie, non coi fiammiferi. Non si sparava ai caribù, ma li si uccideva con arco e frecce. Non era lo skidoo a tirare le qamutik, ma i cani. Non suona tutto molto romantico? Ah, i bei tempi andati…» Akesuk scosse la testa. «E invece non è passato neppure mezzo secolo. Guardati intorno, ragazzo mio. Come vive oggi la gente? Voglio dire, è anche un bene, pochi popoli conoscono il mondo quanto noi. In una casa su due c'è un computer col collegamento a Internet, anche nella mia. Abbiamo ottenuto il riconoscimento di un nostro Stato.» Ridacchiò. «Recentemente, su nunavut.com c'era un quiz, a prima vista molto divertente. Hai mai visto la vecchia banconota canadese da due dollari? Sul davanti era raffigurata la regina Elisabetta II, mentre, sul retro, c'era un gruppo di inuit. Uno degli uomini è davanti a un kajak e tiene in mano un arpione. Davvero idilliaco. La domanda era: cosa rappresenta questa scena? Tu lo sai?»

«Temo di no.»

«Io sì. È l'immagine della cacciata, ragazzo. Il governo di Ottawa aveva trovato una bella parola per indicarla: 'trasferimento'. Una storia da Guerra Fredda. Ottawa temeva che agli Stati Uniti o all'Unione Sovietica venisse l'idea di rivendicare le zone disabitate del Canada artico, così aveva trasferito gli inuit, che vivevano da nomadi dalle loro zone d'origine, a sud della zona polare, verso Resolute e Grise Fiord, nelle vicinanze del Polo Nord. Avevano detto loro che lassù i territori di caccia erano migliori; in realtà si trattava di una trappola. Gli inuit dovevano portare un numero di matricola impresso su una placca di lamiera, simile alla piastrina dei cani. Lo sapevi?»

«Non lo ricordo.»

«Molti della tua generazione, molti dei bambini di oggi non hanno idea di come hanno dovuto vivere i loro genitori. E che in realtà è cominciato tutto ancor prima, a metà degli anni '20, quando sono arrivati i trapper bianchi coi fucili. I caribù e le foche vennero decimati… da entrambi, dai qallunaat e dagli inuit. Però, capisci, pallottole invece di frecce… Gli inuit furono travolti da un'ondata di miseria. In generale non avevano mai avuto patticolari problemi con le malattie, ma, da quel momento, la poliomielite, la tubercolosi, il morbillo, la difterite fecero la loro comparsa. Così gli inuit lasciarono i loro accampamenti e si trasferirono nei centri abitati. Alla fine degli anni '50, morivano in massa per la fame e le malattie infettive, però il governo ufficiale non ne sapeva nulla. I militari iniziarono a mostrare interesse per i Territori del nord-ovest e costruirono basi segrete nei territori tradizionali di caccia. Gli inuit che risiedevano ancora in quei luoghi vennero naturalmente mandati via. Per iniziativa delle autorità canadesi, furono imbarcati sugli aerei e deportati centinaia di chilometri più a nord, ovviamente privi delle loro tende, dei kajak, delle canoe e delle slitte. Anch'io venni trasferito e così accadde ai tuoi genitori. Quel provvedimento era stato motivato dall'idea che, per gli inuit affamati, a nord ci fossero più possibilità di sopravvivenza che nei pressi delle basi militari. In realtà erano zone lontane dai percorsi migratori dei caribù e dai luoghi in cui, d'estate, gli animali andavano a riprodursi.» Akesuk fece una pausa e rimase a lungo in silenzio. Nel frattempo riemersero i narvali. Anawak osservò le «spade incrociate» finché lo zio non riprese: «Dopo che siamo stati trasferiti, hanno mandato i bulldozer negli antichi territori di caccia. Per impedirci anche solo di pensare a un ritorno, venne raso al suolo tutto ciò che ricordava la nostra esistenza. E, naturalmente, nell'estremo nord i caribù non si fecero vedere. Non c'era da mangiare né da vestirsi. A cosa serve il più grande coraggio se puoi catturare solo qualche siksik, poche lepri e alcuni pesci? Se vedi morire il tuo popolo e non puoi fare nulla, nonostante tutta la tua forza e la tua determinazione? Ti risparmierò i particolari. Nel giro di pochi decenni, siamo diventati un caso per i servizi sociali. Non eravamo in grado di riprendere la nostra vita e non avevamo imparato a vivere in un altro modo. Più o meno nel periodo in cui sei nato, il governo si è sentito responsabile per la nostra situazione, così ha costruito per noi delle scatole, delle case. Per i qallunaat è una cosa naturale. Loro vivono nelle scatole. Quando si muovono lo fanno con delle scatole che poi chiudono in altre scatole. Mangiano in scatole pubbliche, i loro cani vivono in scatole, e le scatole in cui vivono gli uomini sono separate con muri e recinzioni da altre scatole. Quella era la loro vita, non la nostra… Eppure anche noi andammo a vivere nelle scatole. E a cosa porta la perdita della propria identità? All'alcol, alle droghe e al suicidio.»

«Allora mio padre ha lottato per i diritti degli inuit?» chiese Anawak sottovoce.

«L'abbiamo fatto tutti. Ero giovane quando siamo stati cacciati. Ho lottato con gli altri per ottenere un risarcimento. Per trent'anni abbiamo fatto cause e combattuto. Anche tuo padre. Ma lui è crollato. Ora, dal 1999, abbiamo il nostro Stato, il Nunavut, la «nostra terra.» Nessuno s'immischia più, nessuno ci trasferisce. Ma la nostra vita, l'unica vita che era fatta per noi, è irrimediabilmente perduta.»

«Allora dovete cercarne una nuova.»

«Hai ragione. A cosa serve lamentarsi? Noi siamo sempre stati nomadi e indipendenti, ma ci siamo adattati all'idea di vivere in un territorio limitato. Fino a pochi decenni fa, non conoscevamo nessuna forma di organizzazione, tranne vaghe alleanze familiari, non tolleravamo né capi tribù né condottieri… Ora invece gli inuit dominano sugli inuit, come si addice a un'amministrazione statale moderna. Non conoscevamo la proprietà privata, ora ci avviamo sulla strada di un moderno Stato industriale. Torniamo a ravvivare le tradizioni, alcuni si comprano i cani da slitta, s'insegna nuovamente a costruire gli igloo e ad accendere il fuoco con le pietre focaie. È bello che si rinnovino quei valori, ma non possiamo fermare il tempo. E ti voglio dire, ragazzo mio, che io non sono insoddisfatto. Il mondo si muove. Oggi viviamo come nomadi in Internet, percorriamo la rete delle autostrade di dati, cacciamo e raccogliamo informazioni. I giovani chattano con persone di tutto il mondo e raccontano loro del Nunavut. In questa terra si suicida ancora tanta gente, troppa. Dobbiamo elaborare un lutto. Abbiamo bisogno di tempo. Non si può sacrificare ai morti le speranze dei vivi… Sei d'accordo?»

Anawak guardò il sole che sfiorava l'orizzonte. «Hai ragione», rispose.

Poi, seguendo un impulso, raccontò ad Akesuk tutto quello che avevano scoperto allo Château, a che cosa stava lavorando l'unità di crisi e il sospetto maturato sull'esistenza in mare di un'intelligenza sconosciuta. Gli uscì tutto così, semplicemente. Sapeva che contravveniva al ferreo divieto di Judith Li, ma non gli importava. Era stato in silenzio per una vita intera. Akesuk era tutto quello che gli restava della sua famiglia.

«Vuoi il consiglio di uno sciamano?» chiese infine lo zio.

«No. Non credo agli sciamani.»

«Certo, e chi ci crede? Ma non potete risolvere questo problema con la scienza, ragazzo mio. Uno sciamano ti direbbe che tutto ciò dipende dagli spiriti del mondo animale che vagano negli esseri viventi. I qallunaat hanno iniziato a distruggere la vita. Si sono inimicati gli spiriti, la dea del mare, Sedna. Chiunque siano quegli esseri, non otterrete nulla se cercherete di attaccarli.»

«E allora?»

«Considerateli una parte di voi. In questo pianeta apparentemente unito da una rete virtuale, ciascuno è un extraterrestre per l'altro. Prendete contatto. Come tu hai preso contatto con lo sconosciuto popolo degli inuit. Non sarebbe un bene se tutti crescessero insieme?»

«Non sono umani, Iji.»

«Non c'entra. Fanno parte di un unico mondo, come le tue mani e i tuoi piedi fanno parte di un unico corpo. Nella lotta per la supremazia non ci sono vincitori. Le battaglie generano solo vittime. A chi interessa, in fondo, quante specie ci siano sulla Terra e quanto siano intelligenti? Imparate a comprenderle invece di combatterle.»

«Sembra un precetto cristiano. Porgi l'altra guancia…»

«No», ridacchiò Akesuk. «È il consiglio di uno sciamano. Da queste parti ne abbiamo ancora, ma non lo gridiamo ai quattro venti.»

«Ma quale sciamano dovrebbe…» Anawak sollevò le sopracciglia. «Non sarai mica tu?»

Akesuk sorrise. «Qualcuno si deve pure occupare delle questioni spirituali», rispose. Poi esclamò: «Guarda!»

Un gigantesco orso polare si era avvicinato agli ultimi resti del narvalo e aveva scacciato gli uccelli, che si erano allontanati o avevano preso a zampettare sul ghiaccio, tenendosi a distanza di sicurezza. Uno stormo di uccelli, però, non si era dato per vinto e si accaniva contro l'intruso, benché questi sembrasse del tutto indifferente. Era abbastanza distante dall'accampamento perché la guardia non lanciasse l'allarme, ma l'uomo aveva sollevato il fucile e osservava con attenzione.

«Nanuq», disse Akesuk. «Sente tutti gli odori. Anche i nostri.»

Anawak osservò l'orso che stava mangiando. Non aveva paura. Dopo un po', il colosso perse ogni interesse nella sua preda e si allontanò lentamente. Si guardò intorno solo una volta, adocchiando l'accampamento, e infine sparì dietro una barriera di ghiaccio.

«Che aria affabile», sussurrò lo zio. «Ma sa correre, ragazzo mio! Eccome!» Ridacchiando, frugò nella giacca a vento e tirò fuori una statuetta che mise in grembo ad Anawak. «Ho aspettato. Tu sai che ogni regalo ha il suo tempo. Forse adesso è il momento giusto per dartelo.»

Anawak prese la scultura e la osservò. Raffigurava un volto umano con piume al posto dei capelli; inoltre la parte posteriore della testa terminava in un corpo d'uccello. «Uno spirito uccello?»

Akesuk annuì. «L'ha fatto Toonoo Sharky, un mio vicino di casa. È un artista molto stimato; le sue opere sono esposte addirittura al Museum of Modem Art. Prendila. Ti aspettano molte cose. Ne avrai bisogno, ragazzo mio. Quando sarà il momento, guiderà i tuoi pensieri nella giusta direzione.»

«Quando sarà il momento?»

«La tua coscienza volerà.» Con le mani, Akesuk formò due ali, le fece muovere e sorrise. «Ma tu sei stato via per tanto tempo e sei un po' fuori esercizio. Forse hai bisogno di un intermediario che ti confidi quello che vede lo spirito uccello.»

«Parli per enigmi.»

«È un privilegio degli sciamani.»

Un uccello volò sopra di loro.

«Un gabbiano di Ross», rise Akesuk. «Sì, tu sei proprio fortunato, Leon! Lo sapevi che ogni anno migliaia di bird watcher vengono qui da ogni parte del mondo proprio per vedere questo gabbiano? È così raro… No, non ti devi preoccupare, davvero. Gli spiriti ti hanno mandato un segnale.»

Più tardi, quando s'infilarono nei loro sacchi a pelo, Anawak rimase sveglio ancora un po'. Il sole notturno illuminava le pareti della tenda. Una volta sentì il grido della guardia: «Nanuq, nanuq!» Pensò al mare nero e profondo tutt'intorno a lui, e i suoi pensieri sembrarono scivolare sul manto di ghiaccio, verso un mondo sconosciuto. Respirando tranquillamente, galleggiò su un mare di sonno e infine giunse sull'altopiano formato da un gigantesco iceberg, nato dai ghiacciai della Groenlandia, trascinato fino alla costa orientale dell'isola Bylot, bloccato dal mare ghiacciato e infine strappato via dal vento e dalle onde e trascinato verso sud. Nel sogno, Anawak saliva un sentiero stretto e innevato fino alla cima della montagna, dove l'acqua aveva formato un lago verde smeraldo. Un mare liscio come uno specchio si stendeva a perdita d'occhio. L'iceberg si sarebbe sciolto e lui sarebbe sprofondato nel mare calmo, fino alle origini della vita, dove un mistero attendeva di essere chiarito.

E forse l'avrebbe aiutato uno sciamano.

24 maggio

Frost

Come al solito, Stanley Frost era di opinione diversa.

Secondo le valutazioni delle industrie estrattrici di materie prime, i principali giacimenti di metano si trovavano nel Pacifico, lungo la costa occidentale nordamericana, di fronte al Giappone, nel mare di Okhotsk, nel mare di Bering e ancora più a nord, nel mare di Beaufort. Nell'Atlantico, gli Stati Uniti ne avevano la maggior parte davanti alla porta di casa. C'erano grandi giacimenti nei Caraibi e al largo del Venezuela, forti concentrazioni nella zona dello stretto di Drake, tra America meridionale e Antartico. Si sapeva anche degli idrati norvegesi e altrettanto nota era l'esistenza di giacimenti nel Mediterraneo orientale e nel mar Nero.

Soltanto la costa nordoccidentale dell'Africa ne.era quasi completamente priva. E in special modo la zona delle Canarie.

E Frost non se ne capacitava.

Perché là, dagli abissi saliva acqua fredda satura di nutrimento per il fitoplancton, che a sua volta era la causa principale della pescosità eccezionale delle Canarie. A partire da quegli elementi, nelle Canarie si sarebbe dovuta rilevare una gran quantità di idrati; ovunque si presentasse una notevole varietà di vita organica, prima o poi, negli abissi marini, si formava il metano: era una cosa inevitabile.

Il problema delle Canarie era che i resti decomposti degli esseri viventi non potevano depositarsi. Dato che quelle isole erano nate milioni di anni prima dai vulcani, si ergevano, verticali come torri, dal fondale marino: Tenerife, Gran Canaria, La Palma, Gomera e Hierro. Tutte crescevano dal fondale a una profondità fra i tre chilometri e i tre chilometri e mezzo, guglie di roccia vulcanica su cui i sedimenti e i resti organici scivolavano anziché depositarsi. Ecco perché la cartografia corrente mostrava, nella zona delle Canarie, l'assenza di giacimenti di metano. Cosa che, secondo Stanley Frost, costituiva il primo errore.

In secondo luogo, lui presumeva che i coni vulcanici, sulla cui punta si ergevano le isole, non fossero verticali, come in genere si sosteneva. O, meglio, erano verticali, sì, però non lisci e perpendicolari come le pareti di una casa. Frost si era occupato abbastanza a lungo della formazione e dello sviluppo dei vulcani per sapere che anche il cono più verticale mostrava crinali e terrazze. Era quindi pienamente convinto che, intorno alle isole, ci fosse una gran quantità di metano e che fino a quel momento nessuno avesse guardato con attenzione. Quegli idrati non si sarebbero presentati in grandi blocchi, ma in una fitta rete di vene tra il pietrisco. In ogni caso, il metano doveva essere immagazzinato sui crinali ricoperti di sedimenti.

Giacché lui era un vulcanologo e non un esperto di idrati, Frost aveva chiesto il parere di Bohrmann ed entrambi avevano deciso che si trattava di una questione da approfondire. Frost aveva preparato una lista di isole che riteneva minacciate. Oltre a La Palma, c'erano anche le Hawaii, le isole di Capo Verde, Tristan de Curtha più a sud e l'isola di Réunion nell'oceano Indiano. Ognuna costituiva una potenziale bomba a orologeria, ma La Palma costituiva un caso esemplare. Se le peggiori paure di Frost erano fondate e se quegli esseri erano scaltri come sosteneva il norvegese, allora il vulcano Cumbre Vieja di La Palma pendeva sulla testa di milioni di persone come una spada di Damocle alta duemila metri.

Grazie all'impegno di Bohrmann, Frost e la sua équipe ebbero a disposizione per la spedizione la famosa Polarstern. Esattamente come la Sonne, la nave oceanografica tedesca aveva a bordo un Victor 6000. La Polarstern era sufficientemente grande per non temere gli attacchi delle balene, inoltre era stata attrezzata con telecamere sottomarine per individuare in tempo gli attacchi di banchi di mitili, meduse o altri organismi. Frost ovviamente non poteva assicurare che il Victor, una volta mandato sott'acqua, sarebbe riemerso. Era un tentativo basato solo sulla fortuna, ma nessuno lo impedì.

Il Victor s'immerse a ovest di La Palma e la Polarstern rimase in vista della terraferma. Il robot esaminò in maniera sistematica la parete del cono vulcanico, finché, a circa quattrocento metri, arrivò a una serie di terrazze abbondantemente ricoperte di sedimenti.

Lì trovò i giacimenti di idrati, come Frost aveva previsto.

Ma erano sepolti da una massa di corpi bianchi e rosa con mandibole a tenaglia.

8 giugno

La Palma, Canarie, al largo dell'Africa occidentale

«Perché quei vermi lavorano con tanta foga alle fondamenta di quest'isola — meta d'innumerevoli turisti — quando potrebbero ottenere risultati ben più devastanti, al largo del Giappone o sotto casa nostra?» chiese Frost. «Voglio dire, il mare del Nord era una zona ad alta concentrazione industriale. Come la costa orientale americana e come Honshu, eppure in quel posto la popolazione di vermi è lontanissima da una diffusione che possa creare problemi. E ora li scopriamo in un'isola a occidente dell'Africa. Che significa? Quelle bestioline hanno forse deciso di andare in ferie?»

Come sempre, Frost indossava il suo berretto da baseball e una tuta da lavoratore petrolifero. Si trovava sulla parte orientale della montagna che sorgeva al centro dell'isola. Mentre a nord le rocce racchiudevano la famosa caldera di roccia erosa chiamata Caldera de Taburiente, la cresta della montagna si stendeva con innumerevoli vulcani fino alla punta sud.

Frost era in compagnia di Bohrmann e di due rappresentanti dell'impresa De Beers, un'amministratrice e un direttore tecnico di nome Jan van Maarten. L'elicottero era parcheggiato sullo spiazzo sabbioso in cui si trovavano anche loro, ma un po' discosto. Il panorama era di una bellezza impressionante: crateri pieni di verde si alternavano a distese di lava nera, picchiettate sempre di verde, ma di una tonalità più delicata. I vulcani di La Palma non eruttavano regolarmente, tuttavia un'eruzione poteva avvenire in qualsiasi momento. Dal punto di vista della storia della Terra, quelle isole erano giovani. Solo nel 1971, nell'estremo sud, era sorto un nuovo vulcano, il Teneguia, che aveva ampliato l'isola di qualche ettaro. Per la precisione, l'intera catena era formata da un unico vulcano con molte bocche, per cui si parlava semplicemente delle eruzioni del Cumbre Vieja.

«La questione è dove colpire per ottenere il danno maggiore», disse Bohrmann.

«Lei crede davvero che qualcuno abbia avuto simili pensieri?» L'amministratrice aggrottò la fronte.

«È tutto ipotetico», replicò Frost. «Però, se presumiamo che dietro tutto ciò si nasconda uno spirito intelligente, dal punto di vista strategico esso procede con grande abilità. Dopo il disastro del mare del Nord, tutti hanno ipotizzato che la disgrazia seguente sarebbe avvenuta nelle vicinanze di coste ampiamente popolate e di zone ad alta concentrazione industriale. In effetti, in quelle zone abbiamo trovato i vermi, anche se in numero ridotto. Così abbiamo pensato che il grosso delle truppe del nemico — per chiamarlo col suo nome — si fosse ritirato. Oppure che lui avesse bisogno di tempo per produrre altri vermi. In tal modo, la nostra attenzione si è concentrata su falsi obiettivi. Bohrmann e io siamo arrivati alla conclusione che le invasioni dell'America settentrionale e del Giappone siano manovre diversive.»

«Ma a che cosa serve distruggere gli idrati a La Palma?» chiese la donna. «Non è che qui farebbero molti danni.»

Quelli della De Beers erano stati chiamati perché Frost e Bohrmann erano alla ricerca di un sistema che potesse risucchiare i vermi che sbranavano il ghiaccio. Da decenni, il fondale marino davanti al Sudafrica e alla Namibia veniva perlustrato a caccia di diamanti. Erano impegnate diverse società — tra cui anche il colosso diamantifero De Beers -, che con navi e piattaforme galleggianti dragavano il fondale fino a centottanta metri. Da alcuni anni, la De Beers aveva iniziato a sviluppare sistemi per arrivare più in profondità: bulldozer sottomarini guidati a distanza e dotati di proboscidi che pompavano sabbia e ghiaia attraverso tubature fino alle navi d'appoggio. Uno degli sviluppi più recenti era un sistema molto flessibile e apparentemente senza rischi: un aspiratore teleguidato che poteva operare anche su pareti ripide. In teoria, il sistema arrivava a una profondità di diverse migliaia di metri, ma prima di metterlo in opera si doveva costruire un tubo aspiratore sufficientemente lungo.

Lo stato maggiore dell'unità di crisi aveva deciso di coinvolgere il gruppo incaricato del progetto per conto delle multinazionali dei diamanti. I due rappresentanti della De Beers, a quel punto, sapevano solo che il loro sistema avrebbe potuto giocare un ruolo importante nel quadro delle catastrofi naturali, che era necessario un aspiratore lungo diverse centinaia di metri, e che serviva il più in fretta possibile. E Frost aveva proposto di andare sul Cumbre Vieja per presentare nella maniera più chiara possibile il quadro di quello che sarebbe successo all'umanità se avessero fallito la loro missione.

«Non ingannatevi», disse Frost. «Qui sono successe un mucchio di cose.»

I capelli che spuntavano disordinatamente da sotto il berretto si attorcigliavano nei freddi alisei. Il cielo si specchiava nei suoi occhiali colorati. Sembrava un incrocio tra Fred Flinstone e Terminator, ma la sua voce rimbombava come se lui stesse dettando i nuovi dieci comandamenti.

«Noi ci troviamo qui perché, due milioni di anni fa, il vulcanismo ha sputato in mare le Canarie. Questo sembra un luogo idilliaco, ma è un'illusione. Giù a Tijarafe — tra l'altro un pittoresco paesino in cui si gusta un delizioso queso curado a la almendra - l'8 settembre festeggiano la festa del diavolo e quest'ultimo corre nella piazza del villaggio, scoppiettando e sputando fuoco. Perché lo fanno? Perché gli abitanti dell'isola conoscono il loro Cumbre Vieja. Perché gli scoppi e il fuoco appartengono alla loro vita quotidiana. Lo sa anche l'intelligenza cui dobbiamo i vermi. Sa come si sono formate le isole. E, in genere, chi conosce queste cose ne conosce anche i punti deboli.»

Frost fece qualche passo fino al bordo della parete. Il pietrisco di lava scricchiolava sotto i suoi Doc Martens. Sotto, le onde dell'Atlantico si frangevano, scintillando.

«Nel 1949, il Cumbre Vieja, il vecchio cane dormiente, si è risvegliato. Per la precisione, si è risvegliato uno dei suoi crateri, il vulcano San Juan. Da allora, il versante occidentale, quello sotto i nostri piedi, è percorso da una frattura lunga diversi chilometri, a malapena visibile a occhio nudo. Probabilmente essa arriva fino alle strutture profonde di La Palma. Una parte del Cumbre Vieja è sprofondata di quattro metri in direzione del mare. Negli ultimi anni, ho analizzato spesso questa regione. È molto probabile che, alla prossima eruzione, il versante occidentale crolli del tutto, perché diversi strati di pietrisco contengono una quantità enorme d'acqua. Non appena un nuovo caldissimo magma uscirà dal camino vulcanico, quest'acqua si espanderà di colpo e si trasformerà in vapore. L'aumento della pressione potrebbe far saltare la parte instabile, senza contare che contro di essa spingono anche i versanti est e sud. Come conseguenza, cinquecento chilometri cubi di pietre scivolerebbero in mare.»

«L'ho letto da qualche parte», lo interruppe van Maarten. «Ma i rappresentanti politici delle Canarie ritengono questa teoria discutibile…»

«Discutibile!» tuonò Frost come le trombe di Gerico. «Il problema è che tutte le comunicazioni ufficiali assumono toni tranquillizzanti per non spaventare i turisti. All'umanità non sarà risparmiato questo evento, come dimostrano altri casi. Nel 1741, in Giappone, l'eruzione dell'Oshima-Oshima produsse onde alte trenta metri. Della stessa altezza sono state quelle che, nel 1888, seguirono il collasso della Ritter Island, in Nuova Guinea, e la quantità di roccia caduta in acqua equivale forse all'uno per cento di quella che ci dobbiamo attendere qui! Il Kilauea, nelle Hawaii, è sorvegliato da anni da una rete di stazioni GPS che registrano ogni minimo movimento… e quello si muove, eccome! Il versante sud-est scivola di dieci centimetri all'anno, e guai se prendesse velocità. Non si può nemmeno immaginare cosa succederebbe. Col tempo, praticamente ogni isola vulcanica tende a diventare sempre più verticale. Se diventa troppo verticale, ne crolla una parte. Il governo di La Palma è cieco e sordo. La questione non è se succederà, ma quando. Tra cento anni? Tra mille? È questa l'unica cosa che non sappiamo. Le eruzioni vulcaniche non hanno l'abitudine di farsi annunciare.»

«Che succederebbe se metà di questa montagna cadesse in mare?» chiese la donna.

«La massa di pietre sposterebbe un'immensa quantità d'acqua, che si solleverebbe sempre di più, e a una velocità stimabile sui trecentocinquanta chilometri all'ora» rispose Bohrmann. «I detriti si stenderebbero per sessanta chilometri nel mare aperto e l'acqua non vi si potrebbe infiltrare facilmente. Si formerebbe una gigantesca bolla d'aria, che darebbe all'acqua una spinta ancora maggiore di quella provocata dalle rocce cadute. Su quello che succederebbe dopo, effettivamente ci sono idee un po' diverse, tuttavia, nessuna delle varianti possibili è particolarmente allegra. Nelle immediate vicinanze di La Palma, la frana potrebbe provocare un'onda alta dai seicento ai novecento metri e con una velocità di circa mille chilometri all'ora. A differenza dei terremoti, i crolli delle montagne e gli smottamenti sono eventi puntiformi. Le onde si diffonderebbero radialmente lungo l'Atlantico, disperdendo la loro energia. Più ci si allontana dal punto di origine, più diventano basse.»

«Suona consolante», mormorò il direttore tecnico.

«Solo in parte. Le Canarie saranno spazzate via all'istante. Un'ora dopo, un'onda alta cento metri investirà le coste del Marocco… Quella in Europa settentrionale ha raggiunto, nei fiordi, un'altezza di quaranta metri e i risultati sono noti. In un arco di tempo tra le sei e le otto ore, un'onda di cinquanta metri di altezza raggiungerà i Caraibi, annienterà le Antille e sommergerà la costa occidentale degli Stati Uniti, tra New York e Miami. Immediatamente dopo si schianterà con la stessa violenza contro il Brasile. Onde più piccole arriveranno in Spagna, in Portogallo e nelle Isole Britanniche. Gli effetti saranno devastanti anche per l'Europa centrale, anche in termini economici.»

I due rappresentanti della De Beers impallidirono.

Frost sogghignò. «Per caso, avete visto Deep Impact

«Il film? Ma lì si parlava di un'onda alta diverse centinaia di metri», obiettò la dorma.

«Per spazzare via New York basta un'onda di cinquanta metri. Con l'impatto viene liberata una quantità di energia pari a quella che gli Stati Uniti consumano in un anno. E non pensate all'altezza delle case: lo tsunami è un problema per le fondamenta. Crolla tutto, non importa di quanti piani sia l'edificio. E nessuno di noi è Bruce Willis, se posso dir così.» Fece una pausa e indicò il pendio. «Questo versante occidentale può essere destabilizzato in due modi: con un'eruzione del Cumbre Vieja o con uno smottamento sottomarino. A quest'ultimo stanno lavorando i vermi. È un compito meno… impegnativo rispetto a quello che hanno portato a termine nel Nordeuropa, ma porterebbe al crollo di una parte della colonna vulcanica sottomarina. La conseguenza sarebbe un terremoto, non particolarmente violento, ma sufficiente per minare la statica del Cumbre Vieja. Un terremoto che, con ogni probabilità, scatenerebbe anche un'eruzione. In ogni caso, il versante occidentale perderebbe la presa, crollando. E così si compirebbe la catastrofe.»

«Quanto tempo ci resta?»

«Poco. Quelle raffinate bestioline hanno scelto luoghi cui non si può arrivare facilmente. Sfruttano la capacità di propagazione delle onde in mare aperto. Il mare del Nord è stato un brutto colpo, ma il crollo di una piccola isola, apparentemente innocua, sarebbe una vera sciagura per la civiltà umana.»

Van Maarten si grattò la fronte. «Abbiamo costruito un prototipo del tubo aspiratore che può arrivare a trecento metri. Funziona. Non abbiamo ancora fatto esperimenti a grandi profondità, ma…»

«Potremmo allungare la proboscide», propose la donna.

«Praticamente dovremo tirarla fuori dal cilindro… Sì, potrebbe andare, se fermiamo tutto il resto… Quello che mi preoccupa di più è la nave d'appoggio.»

«Non credo che ve la caverete con una nave», intervenne Bohrmann. «Qualche miliardo di vermi sono una biomassa mostruosa. Li dovrete pompare da qualche parte.»

«Questo non è un problema. Possiamo allestire un trasporto pendolare. Mi riferivo alla nave da cui guidare il tubo aspiratore. Se dobbiamo arrivare a quattro-cinquecento metri, allora sarà necessario immagazzinarlo da qualche parte. È un tubo flessibile di mezzo chilometro, pesante come il piombo e un po' più grosso dei cavi sottomarini che si possono arrotolare nella stiva. Inoltre, quando la proboscide viene mossa, la nave deve essere sufficientemente stabile per compensare gli spostamenti. Gli attacchi non sarebbero un problema, ma l'idrostatica nasconde delle insidie. Non si può calare il tubo a sinistra o a destra senza mettere a rischio la stabilità della nave.»

«E se si ricorresse a una nave escavatrice?»

«Non è abbastanza grande.» Il direttore tecnico rifletté. «Forse una nave per le trivellazioni? No, troppo pesante. Sarebbe meglio una piattaforma galleggiante. Stiamo già lavorando a qualcosa del genere. Un sistema di galleggianti… L'ideale sarebbe una costruzione semisommersa, come nella tecnica offshore, solo che non dovrebbe essere ancorata con cavi, ma muoversi come una nave vera. Dev'essere manovrabile.» Si allontanò di qualche passo e cominciò a mormorare qualcosa che riguardava le frequenze di risonanza e l'andamento del moto ondoso. Poi tornò indietro. «Sì, una struttura semisommersa andrebbe bene. Massima stabilità al moto ondoso e ideale per una gru che possa sollevare tutto senza problemi. Al largo della Namibia c'è una cosa del genere che potremo trasformare in fretta.»

«L'Heerema?» disse la donna.

«Già.»

«Ma… Stavamo per scartarla, no?»

«Non è un rottame. L'Heerema dispone di due corpi principali e il ponte poggia su sei colonne. Sì, è del 1978, ma per questo scopo dovrebbe andare. Sarebbe la via più rapida. Non abbiamo una torre di trivellazione, ma due gru. Con una delle due caleremo il tubo. La pompa principale non è un problema. E potremo caricare le navi per portare via i vermi.»

«Mi sembra una buona idea», disse Frost. «E quando potreste cominciare?»

«In condizioni normali, tra sei mesi.»

«E in queste?»

«Non posso promettere nulla. Da sei a otto settimane, se iniziamo immediatamente.» Il direttore tecnico guardò Frost. «Faremo il possibile. Siamo bravi in queste cose. Tuttavia, se ci riusciremo in tempo, consideratelo pure un miracolo.»

Frost annuì. Guardò l'Atlantico, azzurro e splendido. Cercò d'immaginare l'acqua che improvvisamente si alzava fino a seicento metri. «Va bene», mormorò. «In questo momento i miracoli sono particolarmente richiesti.»

Загрузка...