LIBERAZIONE DELLA DONNA

1 – Shomeke

Un caro amico mi ha chiesto di scrivere la storia della mia vita, ritenendo che potesse essere di qualche interesse per genti di altri mondi e altri tempi. Sono una donna qualsiasi, ma ho vissuto in un periodo di grandi mutamenti e ho avuto il vantaggio di sperimentare sulla mia propria pelle il significato della servitù e quello della libertà.

Non ho imparato a leggere e a scrivere fino all'età adulta, ed è l'unica attenuante che accampo per i difetti della mia narrazione.

Sono nata schiava sul pianeta Werel. Il mio nome da bambina era Shomeke Radosse Rakam. Significa: proprietà della famiglia Shomeke, nipote di Dosse, nipote di Kamye. La famiglia Shomeke aveva una tenuta sulla costa orientale del Voe Deo. Dosse era mia nonna. Kamye è il Signore nostro Dio.

Gli Shomeke possedevano più di quattrocento schiavi, utlizzati in gran parte per coltivare i campi di gede, per condurre il bestiame al pascolo, nelle fabbriche, e come domestici nella Casa. La famiglia Shomeke aveva svolto un ruolo importante nella storia del Paese. Il nostro possidente era un influente uomo politico che si recava spesso nella capitale.

Gli schiavi prendevano nome dalle proprie nonne perché erano le nonne che allevavano i bambini. Le madri lavoravano tutto il giorno, e non c'erano padri. Le donne venivano sempre fatte accoppiare per la riproduzione con più di un uomo. E se anche un uomo fosse riuscito a conoscere il proprio figlio, non avrebbe potuto prendersene cura. In qualsiasi momento poteva essere venduto o affittato. Gli uomini giovani non erano destinati a restare a lungo nella stessa tenuta. Quelli più validi venivano affittati ad altre tenute o venduti a qualche fabbrica. Quelli più scadenti venivano ammazzati di lavoro.

Le donne non erano vendute di frequente. Le giovani erano destinate al lavoro e alla riproduzione, le vecchie alla cura dei piccoli e alla manutenzione del complesso. In alcune tenute le donne partorivano un figlio all'anno finché non morivano, ma da noi quasi tutte avevano solo due o tre bambini. Gli Shomeke apprezzavano il lavoro delle donne. Non volevano che gli uomini gli stessero troppo attorno. Le nonne erano d'accordo e perciò tenevano le giovani sotto stretta sorveglianza.

Io parlo di uomini, donne, bambini, ma dovete tenere presente che non eravamo chiamati uomini, donne, bambini. Soltanto i padroni si chiamavano così. Noi proprietà eravamo chiamati schiavo, schiava, e giovane o cucciolo. Userò questi termini, anche se non li ho più uditi né pronunciati da molti anni, e mai una sola volta in questo mondo benedetto.

La parte del complesso dove stavano gli schiavi, il lato del cancello, era sorvegliato dai Boss, che erano maschi, alcuni dei quali imparentati con la famiglia Shomeke, altri invece assunti. All'interno stavano le schiave e i piccoli. Qui c'erano due castrati, che erano Boss solo di nome, mentre in pratica erano le nonne a comandare. In effetti niente poteva accadere nell'insediamento all'insaputa delle nonne.

Se le nonne dicevano che qualcuno era troppo malato per lavorare, i Boss lo lasciavano a casa. Qualche volta le nonne riuscivano a impedire che uno schiavo fosse venduto, o che una ragazza subisse l'accoppiamento con più di un uomo, oppure potevano fornire un contraccettivo a una ragazza troppo gracile. Tutti nel recinto seguivano i consigli delle nonne. Ma quando qualcuna di loro si spingeva troppo oltre, i Boss potevano frustarla, accecarla, o tagliarle le mani. Quando ero bambina viveva nel nostro recinto una donna che chiamavamo Bisnonna, con due buchi al posto degli occhi e senza la lingua. Credevo che fosse ridotta così per via della vecchiaia. Avevo paura che la lingua di mia nonna Dosse le si seccasse in bocca. Quando glielo dissi, lei rispose, «No. Non si seccherà perché non l'ho mai allungata troppo».

Io vivevo nel recinto. Mia madre mi aveva partorito lì, era stata autorizzata a restarci tre mesi per allattarmi, poi fui svezzata con latte di mucca, e mia madre tornò alla Casa. Si chiamava Shomeke Rayowa Yowa. Era di pelle chiara come la maggioranza degli schiavi, ma molto bella, con polsi e caviglie sottili e lineamenti delicati. Anche mia nonna era di pelle chiara. Io invece ero scura, più scura di chiunque nel complesso. Quando mia madre veniva in visita, i castrati la lasciavano entrare attraverso la botola con scala a pioli. Una volta mi trovò intenta a strofinarmi il corpo di polvere grigia. Quando mi sgridò, le spiegai che volevo somigliare agli altri.

«Ascolta, Rakam,» mi disse, «loro sono gente della polvere. Non usciranno mai dalla polvere. Tu sei qualcosa di meglio. E diventerai bella. Lo sai perché sei così nera?» Non avevo idea di cosa intendesse dire. «Un giorno ti dirò chi è tuo padre,» mi disse, col tono di chi ti promette un regalo. Io avevo spiato lo stallone degli Shomeke, un animale di razza e di valore, quando montava le giumente di altre tenute. Non sapevo che un padre potesse essere umano.

Quella sera mi vantai con la nonna, «Io sono bella, perché mio padre è lo stallone nero!» Dosse mi colpì alla testa con tanta forza da farmi cadere a terra piangente, e mi ingiunse, «Non parlare mai più di tuo padre».

Sapevo che c'era dell'astio fra mia madre e mia nonna, ma trascorse molto tempo prima che capissi perché. Ancora adesso non sono ben sicura di aver compreso a fondo quel che c'era tra loro.

Noi cuccioli correvamo in giro per il complesso. Non conoscevamo niente al di fuori delle mura. Il mondo era costituito dalle capanne delle schiave e dalle case comuni degli schiavi, dalle cucine e dagli orti, dalla nuda piazza indurita dal calpestìo dei piedi nudi. Le mura di cinta mi sembravano molto lontane.

Quando i braccianti dei campi e degli opifici uscivano dal cancello di primo mattino, io non sapevo dove andassero. Erano semplicemente usciti. Per tutto il giorno l'intero recinto apparteneva a noi cuccioli, nudi in estate, quasi nudi anche d'inverno, che correvamo in giro giocando con bastoni, sassi e fango, tenendoci lontani dalle nonne finché non andavamo a supplicarle di darci qualcosa da mangiare, oppure ci mettevano al lavoro per un po' a ripulire gli orti dalle erbacce.

Nel tardo pomeriggio o al calar della sera i lavoratori tornavano, passando attraverso il cancello sotto il controllo dei Boss. Alcuni erano distrutti dalla fatica e di cattivo umore, altri erano allegri, chiacchieravano e si scambiavano battute. Il grande cancello veniva chiuso con fragore dietro l'ultimo della fila. Il fumo usciva dai focolari dove si cucinava. L'odore di sterco di vacca che bruciava era piacevole. La gente si riuniva sotto le tettoie delie case comuni. Schiavi e schiave indugiavano lungo il fosso che divideva il lato del cancello dalla parte interna, parlandosi da una sponda all'altra. Dopo mangiato, i castrati officiavano riti alla statua di Tua), e noi innalzavamo le nostre preghiere a Kamye, poi tutti andavano a letto, tranne quelli che indugiavano per "saltare il fosso". Qualche sera d'estate c'erano dei canti, oppure ci era permesso di ballare. Durante l'inverno qualcuno dei nonni, dei poveri vecchi malridotti, mica forti come le nonne, si metteva a "cantare il Verbo". È così che chiamavamo la recita dell'Arkamye. Sempre, tutte le sere, qualcuno insegnava e qualcun altro imparava i sacri versi. Nelle sere d'inverno uno di quei vecchi schiavi malconci, tenuti in vita dalla pietà delle nonne, si metteva a cantare il Verbo. Allora anche i cuccioli stavano fermi e buoni ad ascoltare la storia.

La mia amica più cara era Walsu. Era più robusta di me, e mi difendeva quando c'erano zuffe e litigi fra i più piccoli, o quando qualcuno dei più grandicelli mi chiamava "Nerina" o "Capetta". Ero piccola, ma di temperamento ardito. Quand'eravamo insieme, Walsu e io non venivamo mai tormentate a lungo. Poi Walsu fu mandata fuori dal cancello. Sua madre era stata ingravidata, era molto grossa e aveva bisogno di aiuto nei campi per raggiungere la quota di raccolto dovuta. Il gede dev'essere raccolto a mano. Ogni giorno, appena un nuovo settore di piante cariche arrivava a maturazione, doveva essere raccolto. Così i raccoglitori di gede andavano su e giù per lo stesso campo per venti o trenta giorni, per poi spostarsi su una coltura più tarda. Walsu seguiva sua madre per aiutarla a raccogliere dai suoi filari. Quando sua madre cadde malata, Walsu prese il suo posto e, con l'aiuto degli altri, riuscì a mantenere la quota della madre. Aveva sei anni, secondo il modo di contare dei padroni, che attribuivano a tutti gli schiavi la stessa data di nascita, cioè il primo giorno dell'anno, all'inizio della primavera. Di fatto, poteva averne anche sette. Sua madre stette male sia prima che dopo il parto, e per tutto il tempo Walsu la sostituì nei campi di gede. Dopodiché non tornò più a giocare, ma solo la sera a mangiare e a dormire. Era allora che la vedevo e che potevamo parlare. Era fiera del suo lavoro. Io la invidiavo, e non vedevo l'ora di varcare anch'io il cancello. La seguivo fin lì, e da lì guardavo il mondo di fuori. Le mura del complesso cominciavano ad andarmi molto strette. Dissi a mia nonna Dosse che volevo andare a lavorare nei campi.

«Sei troppo piccola.»

«Compirò sette anni il primo dell'anno.» «Tua madre mi ha fatto promettere che non ti avrei mandato fuori.»

La volta seguente che mia madre venne in visita al recinto le dissi, «La nonna non mi vuol far uscire. Io voglio andare a lavorare con Walsu».

«Mai!» rispose mia madre. «Sei venuta al mondo per qualcosa di meglio.»

«Che cosa?»

«Vedrai!»

Mi sorrise. Sapevo che intendeva dire la Casa, dove lavorava lei. Mi aveva parlato spesso delle meraviglie della Casa, di oggetti brillanti e dai vivaci colori, cose fini e delicate, cose pulite. C'era quiete nella Casa, diceva. Mia madre indossava un bel foulard rosso, parlava a bassa voce, e i suoi abiti e la sua figura erano sempre freschi e puliti.

«Quando lo potrò vedere?» la tormentai, finché disse, «Va bene! Chiederò alla mia signora».

«Che cosa le chiederai?»

Della "mia signora" sapevo soltanto che anche lei era delicata e pulita, e che mia madre le apparteneva in una maniera particolare, di cui andava molto orgogliosa. Sapevo che era la "mia signora" che aveva regalato a mia madre il foulard rosso.

«Le chiederò se puoi venire a cominciare il tuo tirocinio nella Casa.»

Mia madre disse "la Casa" con un tono tale da farmela apparire come un grande luogo sacro, come quello della nostra preghiera Entrerò nella casa luminosa, nel luogo della pace.

Ero così eccitata che cominciai a ballare e a cantare, «Io vado nella Casa, nella Casa!» Mia madre mi dette uno schiaffo per farmi smettere e mi sgridò per la mia esuberanza. Disse, «Sei troppo bambina! Non sai come ci si comporta! Se ti fai mandare via dalla Casa non ci potrai tornare mai più».

Le promisi che mi sarei comportata come una grande.

«Devi far tutto per bene,» mi ordinò Yowa. «Devi far tutto quel che ti dico quando te lo dico. Niente domande. Niente ritardi. Se la mia signora vede che sei un'irrequieta, ti rimanda subito qui. E sarà la tua fine per sempre.»

Le promisi che sarei stata calma e sottomessa. Promisi di ubbidire immediatamente a qualsiasi ordine e di non parlare. Più lei cercava di intimorirmi, più io desideravo vedere la meravigliosa Casa luminosa.

Quando mia madre se ne andò non pensavo che avrebbe davvero parlato con la "mia signora". Ero abituata alle promesse non mantenute. Invece qualche giorno dopo tornò, e la sentii parlare con la nonna. Dosse era indignata, all'inizio, e parlava con voce alterata. Mi acquattai sotto la finestra della capanna per ascoltare, e sentii mia nonna che piangeva. Ero piena di spavento e di stupore. La nonna mi trattava con indulgenza, era sempre sollecita verso di me e mi faceva mangiar bene. Non mi era mai passato per la mente che ci potesse essere qualcos'altro al di là di questo, finché non la sentii piangere. Il suo pianto fece piangere anche me, come se fossi stata una parte di lei.

«Lasciamela tenere un altro anno,» disse. «È ancora così piccola. Non la farò mai uscire dal cancello.» Stava supplicando come se fosse una che non contava niente, invece di una nonna. «La bambina è la mia unica gioia, Yowa!»

«E dunque non vuoi che vada a star bene?»

«Solo un altro anno ancora. È troppo irrequieta per la Casa.»

«È stata lasciata sin troppo senza freni. Se rimanesse qui la manderebbero nei campi. Un anno di quella vita e non la prenderebbero più nella Casa. Rimarrebbe polvere. In ogni caso è inutile piangerci sopra. Io l'ho già chiesto alla mia signora, e ormai la bimba deve andare. Non posso tornare senza di lei.»

«Yowa, fa' in modo che non le accada qualche disgrazia,» sussurrò Dosse sottovoce, come se provasse vergogna a dire una cosa del genere a sua figlia, e tuttavia con una certa forza nel tono.

«La porto con me per tenerla lontana dalle disgrazie,» disse mia madre. Poi mi chiamò, e io mi asciugai le lacrime e la raggiunsi.

È curioso, ma non ricordo la mia prima traversata del mondo fuori dal complesso, né la mia prima visione della Casa. Forse ero spaventata e tenevo gli occhi bassi, e tutto mi sembrava così strano da non capir niente di quel che vedevo. So che passò un certo numero di giorni prima che mia madre mi accompagnasse alla presenza della signora Tazeu. Mi dovette ripulire, istruire e assicurarsi che non le avrei fatto fare brutta figura. Ero terrorizzata quando alla fine mi prese per mano e, sussurrandomi raccomandazioni per tutto il tempo, mi condusse fuori dai quartieri delle donne, attraverso corridoi e porte di legno decorato, fino a una luminosa stanza soleggiata priva di soffitto, piena di fiori che crescevano in vasi.

Non avevo familiarità coi fiori, solo con le erbacce che crescevano negli orti, e così li guardavo e li guardavo. Mia madre dovette torcermi la mano per costringermi a guardare la donna distesa su un sedile in mezzo ai fiori, con abiti vaporosi e dai colori vivaci e floreali. Potevo a malapena distinguere le due cose, i suoi vestiti e i fiori. I suoi capelli erano lunghi e luminosi, la pelle lucente e nera. Mia madre mi sospinse avanti, e io eseguii quello che lei mi aveva fatto provare e riprovare tante volte. Mi avvicinai e mi inchinai presso la sedia e aspettai, e quando lei protese la lunga mano affusolata e morbida, nera sul dorso e azzurra sul palmo, vi chinai sopra la fronte. Avrei dovuto dire, «Sono la sua schiava Rakam, signora,» ma la voce non mi uscì.

«Che cosino grazioso,» disse, «così scura!» La sua voce cambiò di tono sulle ultime parole.

«I Boss vennero qui… quella notte,» disse Yowa con un sorriso un po' stentato, gli occhi bassi per l'imbarazzo.

«Non lo metto in dubbio,» disse la donna. Riuscii a sbirciarla di nuovo. Era bella. Non pensavo che potesse esistere una persona così bella. Credo che percepisse il mio stupore. Allungò di nuovo la mano morbida e affusolata e mi carezzò la guancia e il collo. «Molto, molto graziosa, Yowa,» disse. «Hai fatto bene a portarla qui. Le è stato fatto un bagno?»

Credo che non avrebbe fatto quella domanda se mi avesse visto al mio arrivo, lercia e puzzolente dello sterco di vacca con cui facevamo il fuoco. Non sapeva niente del complesso. Non conosceva niente al di là del beza, cioè del reparto delle donne della Casa. Era stata sempre tenuta lì, così come io ero stata tenuta nel complesso, senza conoscere niente dell'esterno. Non aveva mai sentito l'odore dello sterco di vacca, come io non avevo mai visto i fiori.

Mia madre le assicurò che ero pulita, e lei disse, «Allora può venire a letto con me stanotte. Sarebbe carino. Ti piacerebbe venire a dormire con me, piccola…?» Lanciò un'occhiata a mia madre, che mormorò, «Rakam». La signora increspò le labbra nel sentire quel nome. «Com'è brutto! Toti. Sì, tu sarai la mia nuova Toti. Portala qui stasera, Yowa.»

Aveva avuto un volpino di nome Toti, mi spiegò mia madre. La bestiola era morta. Non sapevo che gli animali avessero un nome, così non mi sembrò affatto strano vedermi attribuito il nome di un animale. Da principio mi sembrò invece strano non essere più Rakam. Non riuscivo a pensare a me stessa come Toti.

Quella sera mia madre mi fece di nuovo il bagno, unse la mia pelle con olii profumati e mi vestì con una camicia soffice, ancora più soffice del suo foulard rosso. Di nuovo mi sgridò e mi ammonì, ma era eccitata anche lei, e soddisfatta di me, mentre tornavamo al beza attraverso altre sale, incontrando altre schiave sulla via, fino alla camera da letto della signora. Era una stanza splendida, piena di specchi, di cortine e di dipinti. Io non avevo ancora capito cos'erano gli specchi, né cos'erano i dipinti, e mi spaventai quando ci vidi dentro delle persone. La signora Tazeu notò che ero spaventata. «Vieni, piccolina,» mi disse facendomi posto nel grande letto pieno di cuscini, spazioso e soffice. «Vieni ad abbracciarmi.» Mi rannicchiai al suo fianco e lei mi carezzò i capelli e la pelle e mi tenne fra le sue calde braccia morbide finché non mi sentii comoda e a mio agio. «Qui, qui, piccola Toti,» diceva, e così ci addormentammo.

Diventai la favorita della signora Tazeu Wehoma Shomeke. Dormivo con lei quasi tutte le notti. Suo marito era di rado a casa e quando c'era non andava da lei, preferendo le schiave per il proprio piacere. Qualche volta lei chiamava mia madre, o schiave più giovani, nel suo letto, e in questi casi mi mandava via, finché non fui più grandicella, dieci o undici anni, e cominciò a farmi restare e unirmi a loro, insegnandomi a provare piacere. Era gentile, ma era pur sempre la padrona in amore, e io ero un giocattolo nelle sue mani.

Fui istruita anche nelle arti e nei lavori domestici. Mi insegnò a cantare insieme a lei, dato che avevo una bella voce. Durante quegli anni non subii mai una punizione e non fui mai costretta a fare lavori pesanti. Io, che ero stata così irrequieta nel complesso, nella Grande Casa ero perfettamente sottomessa. Ero stata ribelle a mia nonna e insofferente ai suoi ordini, ma eseguivo di buon grado qualsiasi ordine della mia signora. Mi teneva legata a sé col solo tipo di amore che aveva da darmi. Io ero convinta che fosse Tual la Misericordiosa discesa in terra. Non lo dico tanto per dire, è la verità. Credevo che fosse un essere di natura superiore, molto al di sopra di me.

Forse direte che non avrei potuto o dovuto provare piacere nell'essere usata senza il mio consenso dalla mia padrona, e che se l'ho provato non dovrei parlarne, mettendo così in evidenza un vantaggio minimo in una sì grande sciagura. Ma io non avevo idea di cosa significassero consenso o rifiuto: sono parole che appartengono alla libertà.

Aveva un unico figlio, un ragazzo di tre anni più grande di me. Viveva quasi da sola in mezzo a noi schiave. I Wehoma erano nobili delle Isole, gente molto all'antica fra cui non usava che le donne viaggiassero, e quindi era rimasta tagliata fuori dalla sua famiglia. L'unica compagnia che aveva erano gli ospiti che il possidente Shomeke portava con sé talvolta dalla capitale, ma erano tutti uomini, e poteva intrattenersi con loro solo a tavola.

Vedevo di rado il padrone, e solo da lontano. Anche di lui pensavo che fosse un essere superiore, ma pericoloso.

Quanto a Erod, il padroncino, lo vedevamo quando veniva quotidianamente in visita da sua madre o quando usciva a cavallo coi suoi precettori. Noi ragazzine di undici o dodici anni lo sbirciavamo e ridacchiavamo fra noi, perché era un gran bel ragazzo, nerissimo e dai lineamenti fini come la madre. Sapevo che aveva paura del genitore, perché l'avevo udito piangere mentre era con sua madre. Lei lo consolava con dolcetti e carezze, e gli diceva, «Presto partirà di nuovo, tesoro». Anche a me dispiaceva per Erod, che era come un'ombra, evanescente e innocuo. Fu mandato a scuola fuori per un anno, a quindici anni, ma suo padre lo riportò indietro prima della fine dei corsi. I servi raccontarono che il padrone lo aveva picchiato a sangue e gli aveva perfino proibito di uscire a cavallo della tenuta.

Le serve che venivano usate dal padrone ci raccontavano quanto fosse brutale, facendoci vedere i punti in cui gli aveva lasciato addosso i segni della sua violenza. Lo odiavano. Mia madre era la sola che non dicesse niente contro di lui. «Chi ti credi di essere?» disse a una ragazza che si stava lagnando del trattamento subito. «Una signora da maneggiare come vetro?» E quando la ragazza si ritrovò incinta, o pregna, come dicevamo noi, mia madre la fece rimandare al recinto. Non capii perché. Pensai che Yowa fosse crudele e gelosa. Adesso penso che volesse solo proteggere la ragazza dalla gelosia della nostra signora.

Non so quando fu che mi resi conto di essere figlia del padrone. Siccome mia madre era riuscita a tenerlo nascosto alla signora, pensava che fosse rimasto un segreto per tutti. Invece tutte le schiave lo sapevano. Non so bene che cosa mi dissero o che cosa sentii dire, ma quando vedevo Erod, lo studiavo e pensavo che ero io quella che assomigliava di più a nostro padre. Ormai avevo imparato che cosa voleva dire "padre", e mi stupivo che la signora Tazeu non notasse niente. Evidentemente aveva deciso di ignorare la faccenda.

In quegli anni mi recai raramente al complesso. Dopo essere rimasta mezzo anno o giù di lì alla Casa, non vedevo l'ora di tornare, di rivedere Walsu e la nonna, e di mostrare loro i miei bei vestiti, e la pelle pulita e i capelli lucenti, ma quando andai dai cuccioli che erano stati i miei compagni di gioco, loro mi bersagliarono di fango e sassi e mi strapparono gli abiti. Walsu era nei campi. Dovetti stare tutto il giorno nascosta nella capanna di mia nonna. Non volli tornare mai più. Quando la nonna mi mandava a chiamare, ci andavo solo accompagnata da mia madre e le restavo sempre accanto. La gente del recinto, mia nonna compresa, cominciò ad apparirmi rozza e disgustosa. Erano sporchi, ed emanavano cattivo odore. Avevano piaghe e cicatrici, segni di punizioni, dita, orecchie o nasi distorti. Le loro mani e i loro piedi erano rovinati, con unghie deformate. Non ero più abituata a vedere gente così. Noi domestici della Grande Casa eravamo completamente diversi, pensavo. Servire gli esseri superiori ci rendeva simili a loro.

All'età di tredici o quattordici anni la signora Tazeu mi teneva ancora nel suo letto, facendo spesso l'amore con me. Ma aveva anche una nuova favorita, la figlia di una delle cuoche, una ragazzetta graziosa anche se bianca come la creta. Una notte fece l'amore con me a lungo, facendomi carezze che sapeva mi avrebbero mandato nella più grande estasi. Quando giacqui esausta fra le sue braccia mi sussurrò, «Addio, addio!» baciandomi su tutto il viso e sui seni. Ero troppo confusa per farci caso.

La mattina dopo la mia signora mi chiamò insieme a mia madre per annunciarci che intendeva regalarmi a suo figlio per il suo diciassettesimo compleanno. «Mi mancherai terribilmente, Toti cara,» disse, con le lacrime agli occhi. «Sei stata la mia delizia. Ma non c'è nessun'altra ragazza qui che sia altrettanto adatta per Erod. Sei tu la più pulita, la più cara, la più dolce di tutte. So che sei vergine…» Intendeva dire rispetto agli uomini. «…e che il mio ragazzo proverà piacere con te. E sarà gentile con lei, Yowa,» aggiunse con tono rassicurante a mia madre. Mia madre s'inchinò e non disse niente. Non c'era niente da dire. E non disse niente neanche a me. Era troppo tardi per parlare del segreto di cui era andata così fiera.

La signora Tazeu mi dette un medicamento per prevenire la gravidanza ma mia madre, non fidandosi di quel ritrovato, andò da mia nonna e mi portò un anticoncezionale fatto con le erbe. Li presi fiduciosamente tutti e due, quella settimana.

Quando un uomo della Casa faceva visita a sua moglie si recava nel beza, ma se voleva una schiava era lei a essere "mandata di là". Così la sera del compleanno del padroncino fui vestita tutta di rosso e condotta, per la prima volta in vita mia, nel settore maschile della Casa.

La devozione per la mia signora si estendeva anche a suo figlio, e poi mi era stato insegnato che i possidenti erano naturalmente superiori a noi. Ma lui lo conoscevo fin da bambino, e sapevo che eravamo per metà dello stesso sangue. Questo mi faceva provare verso di lui una strana sensazione.

Pensavo che fosse timido, timoroso della sua virilità. Altre ragazze avevano cercato di sedurlo e non c'erano riuscite. Le donne mi avevano istruito su cosa fare, su come offrirmi a lui incoraggiandolo, e io ero pronta. Gli fui portata nella sua grande camera da letto, tutta di pietra traforata come trina, e con alte finestre strette di vetro violaceo. Rimasi per un po', timidamente, vicino alla porta, mentre lui sedeva a un tavolo coperto di carte e di schermi. Alla fine si avvicinò, mi prese per mano, e mi condusse a una sedia. Mi fece sedere, e mi parlò stando in piedi, il che era contro tutte le regole, lasciandomi alquanto perplessa.

«Rakam,» mi disse, «ti chiami così, vero?» Io annuii. «Rakam, mia madre è stata premurosa con me e non credere che io sia ingrato verso di lei o insensibile alla tua bellezza. Ma non voglio prendere una donna che non può offrirsi di sua volontà. Un rapporto sessuale fra padrone e schiavo è uno stupro.» Continuò a parlare, con belle parole, come la mia signora quando leggeva a voce alta da uno dei suoi libri. Io non capii molto, tranne il fatto che sarei dovuta tornare ogni volta che lui mi avesse chiamato e che avrei dovuto dormire nel suo letto, senza che lui mi toccasse. E non avrei dovuto rivelarlo a nessuno. «Mi dispiace, mi dispiace molto doverti chiedere di mentire,» disse, con tale onestà che mi chiesi se non fosse piuttosto lui a soffrire della menzogna. Mi sembrò più simile a un dio che a un essere umano. Se si soffre a mentire, come si fa a vivere?

«Farò come mi chiedi, mio signore Erod,» dissi.

Così, quasi tutte le notti, arrivavano i suoi schiavi per portarmi di là. Dormivo nel grande letto, mentre lui lavorava alle sue carte sul tavolo, poi passava la notte su un divano sotto la finestra. Spesso aveva voglia di parlare con me, a lungo, a volte, e mi spiegava le sue idee. Mentre era a scuola nella capitale era diventato membro di un gruppo di possidenti che intendevano abolire la schiavitù, chiamato "La Comunità". Avuto sentore di ciò, suo padre lo aveva ritirato dall'istituto e rispedito a casa, con l'ordine di non uscire dalla tenuta. Anche lui era dunque prigioniero. Ma era riuscito a mantenersi continuamente in contatto con altri membri della Comunità attraverso la rete, che sapeva come manovrare eludendo il controllo di suo padre, o delle autorità.

Era pieno di idee e sentiva il bisogno di esternarle. Spesso Geu e Ahas, i giovani servi che erano stati allevati con lui e che venivano sempre a prendermi per portarmi dall'altra parte, si trattenevano con noi, e lui ci parlava di schiavitù e libertà, e di molte altre cose. Spesso avevo sonno, ma ascoltavo e udivo cose che non riuscivo a capire né tanto meno a credere. Ci disse che c'era un'organizzazione fra gli schiavi, chiamata l'Hame, che si adoperava a rapire proprietà dalle piantagioni. Gli schiavi erano poi condotti presso membri della Comunità i quali, dopo essersi procurati falsi attestati di proprietà, li trattavano bene mandandoli a lavorare con contratto d'affitto in buoni posti in città. Ci parlava delle città, e io adoravo ascoltare queste cose. Ci parlò della Colonia di Yeowe, raccontandoci che laggiù era in corso una rivoluzione fra gli schiavi.

Non sapevo niente di Yeowe. Era solo un astro di color verdemare che tramontava dopo il sole o che sorgeva prima, più luminoso della più piccola delle lune. Era solo un nome in una vecchia canzone che cantavamo al complesso:

Oh, oh, Yeowe,

nessuno mai più tornerà!

Non avevo idea di che cosa fosse una rivoluzione. Quando Erod mi spiegò che voleva dire che le proprietà di quel posto chiamato Yeowe stavano combattendo contro i loro possidenti, io non capii come delle proprietà potessero far questo. Fin dall'inizio era stato stabilito che ci fossero esseri superiori e inferiori, i signori e gli esseri umani, l'uomo e la donna, il possessore e il posseduto. Tutto il mio mondo era la tenuta di Shomeke, e si basava su queste fondamenta. Chi mai avrebbe desiderato capovolgerle? Saremmo rimasti tutti schiacciati sotto le rovine.

Non mi piaceva che Erod chiamasse noi proprietà servi, brutta parola che sminuiva il nostro valore. Decisi dentro di me che qui su Werel eravamo proprietà, mentre in quell'altro posto, la Colonia di Yeowe, c'erano i servi, servi indegni e indesiderabili. Per questo erano stati mandati là. Mi sembrava ovvio.

Da questo potete capire quanto fossi ignorante. Qualche volta la signora Tazeu ci aveva permesso di guardare insieme a lei i programmi sulla rete tridimensionale, ma seguiva soltanto gli sceneggiati e mai i notiziari. Non sapevo niente del mondo all'esterno della tenuta se non le cose che apprendevo da Erod, e che non riuscivo a capire.

Erod era contento che discutessimo con lui. Pensava che così facendo avremmo sviluppato una mentalità da esseri liberi. Geu era molto portato per questo. Faceva domande del tipo, «Ma se non ci fossero schiavi chi farebbe i lavori?» Erod aveva allora modo di dare risposte esaurienti. Gli brillavano gli occhi, la sua voce era persuasiva. Amavo molto stare a sentirlo mentre parlava con noi. Era bello, e belle erano le cose che diceva. Era come quando da piccola stavo ad ascoltare i vecchi del complesso "cantare il Verbo", recitare l'Arkamye.

Passavo i contraccettivi che mi dava la mia signora ad altre ragazze a cui servivano. La signora Tazeu aveva risvegliato la mia sessualità e mi aveva dato l'abitudine a essere usata sessualmente. Mi mancavano le sue carezze. Ma non sapevo come avvicinare qualcuna delle altre schiave, e loro avevano timore ad avvicinare me, dato che appartenevo al padroncino. Spesso, stando in compagnia di Erod, mentre lui parlava io lo bramavo nel mio corpo. Giacevo nel suo letto e sognavo che si chinasse su di me e facesse con me come la mia signora. Ma non mi toccò mai.

Anche Geu era un bel giovane, fine e aggraziato, di pelle piuttosto scura, e lo trovavo attraente. I suoi occhi non mi si staccavano mai di dosso. Ma non osò avvicinarmi, finché non gli rivelai che Erod non mi aveva mai toccato.

Infransi così la promessa fatta a Erod di non parlarne con nessuno. Ma non pensavo di essere tenuta a mantenere promesse, come non pensavo di esser tenuta a dire la verità. Onorare la parola data era cosa da padroni, non era roba per noi.

Dopodiché, Geu mi dava appuntamento nei sottotetti della Casa. Mi procurava scarso piacere. Non mi penetrava, pensando di dover salvaguardare la mia verginità a uso e consumo del nostro padrone. Mi faceva invece prendere il suo pene in bocca. Quando arrivava all'orgasmo si staccava da me, perché lo sperma dello schiavo non contaminasse la donna del padrone. Tale è il senso dell'onore dello schiavo.

A questo punto direte, disgustati, che la mia storia parla solo di sesso, e che ci sono cose ben più importanti nella vita, perfino in quella di uno schiavo. Come è vero! Posso solo replicare che è attraverso la nostra sessualità che siamo tutti, uomini e donne, più facilmente resi schiavi. Può essere proprio lì che, anche da uomini o da donne liberi, troviamo troppo arduo mantenere la nostra libertà. Le politiche della carne sono le radici del potere.

Io ero giovane, piena di salute e di gioia di vivere. E anche ora, anche qui, quando col pensiero torno indietro negli anni da questo a quel mondo, al complesso, alla Casa degli Shomeke, rivedo queste immagini come nella radiosa luce di un sogno. Vedo le grandi, forti mani di mia nonna. Vedo mia madre sorridente, col suo foulard rosso al collo. Vedo la figura della mia signora, nera e morbida come seta in mezzo ai cuscini. Sento nel naso il fumo dei fuochi di sterco di vacca, e i profumi del beza. Sento i tessuti morbidi e delicati sul mio giovane corpo, e le mani e le labbra della mia signora. Sento nelle orecchie i vecchi che cantano il Verbo, e la mia voce che canta con la mia signora una canzone d'amore, ed Erod che ci parla della libertà. Il suo viso è illuminato dalle sue visioni. Dietro di lui le finestre dai ricami di pietra e dai vetri violacei tengono lontana la notte. Non dico che vorrei tornare indietro. Preferirei morire piuttosto che lasciare questo mondo per tornare al luogo della schiavitù. Ma è lì che sono rimaste le illusioni di bellezza, di amore e di speranza della mia giovinezza.

Ed è lì che sono svanite. Tutto quel che si basa su queste fondamenta non porta alla fine che disillusione.

Avevo sedici anni l'anno in cui il mondo cambiò.

Il primo cambiamento di cui sentii parlare non suscitò il mio interesse, se non per il fatto che il mio padrone ne era molto entusiasta, come pure Geu e Ahas e alcuni altri giovani schiavi. Perfino la nonna volle sentire le notizie, quando andai a trovarla. «Su Yeowe, su quel mondo di schiavi,» disse, «hanno conquistato la libertà? Hanno cacciato i possidenti? Hanno aperto i cancelli? Oh Signore, o mio dolce Signore Kamye, come è stato possibile? Lodato sia il suo nome, lodati i suoi prodigi!» Si dondolava in su e in giù accoccolata nella polvere, con le braccia attorno alle ginocchia. Era vecchia ormai, e rattrappita. «Raccontami!» mi chiese.

Non avevo molto altro da aggiungere. «Tutti i soldati sono rientrati su Werel,» dissi. «E quell'altra gente è là su Yeowe. Forse sono loro i nuovi padroni, gli alimeni. Vengono da qualche parte lassù,» dissi, indicando il cielo con la mano.

«Cosa sono questi alimeni?» chiese mia nonna, ma io non lo sapevo.

Per me, erano solo parole.

Ma quando il nostro possidente, il signor Shomeke, tornò a casa malato, allora compresi. Arrivò su un aereo al nostro piccolo porto. Lo vidi trasportato in barella, con gli occhi che mostravano del bianco, la pelle nera chiazzata di grigio. Stava morendo di una malattia che imperversava nelle città. Mia madre, seduta accanto alla signora Tazeu, vide sullo schermo un politico il quale asseriva che erano stati gli alimeni a portare la malattia su Werel. Le sue parole erano così terrificanti che pensammo di essere tutti in punto di morte. Quando lo riferii a Geu fece una smorfia. «Alieni, non alimeni,» disse, «e non hanno niente a che fare con la malattia. Il padrone ha parlato coi dottori. È solo una nuova forma di peste.»

L'idea di quel morbo era già di per sé spaventosa. Sapevamo che qualunque schiavo fosse stato scoperto infetto, sarebbe stato ammazzato come una bestia, e le sue spoglie bruciate sul posto.

Non ammazzarono il possidente. La Casa si riempì di dottori, e la signora Tazeu restava giorno e notte al capezzale del marito. Fu una morte atroce. Non arrivava mai. Il signor Shomeke nella sua agonia lanciava versi terribili, grida, gemiti. Era incredibile che un uomo potesse urlare di dolore per ore e ore, come fece lui. La pelle gli si piagava e gli cadeva, lui impazziva, ma non moriva.

Mentre la signora Tazeu, stremata e silenziosa, diventava l'ombra di se stessa, Erod era sempre più pieno di energia e di fervore. A volte, quando udivamo i gemiti di suo padre, i suoi occhi si illuminavano. Sussurrava, «Tual, nostra Signora, abbi pietà di lui,» ma godeva di quei pianti. Sapevo da Geu e Ahas, che erano stati allevati insieme a lui, che il padre lo aveva sempre vessato e disprezzato, e che Erod aveva giurato di essere tutto il contrario di suo padre e di disfare tutto ciò che lui aveva fatto.

Fu la signora Tazeu a por fine a tutto questo. Una notte licenziò gli altri assistenti, come faceva spesso, e rimase sola con il moribondo. Quando cominciò col suo lamento straziante, prese il coltelletto da cucito e gli tagliò la gola. Poi si tagliuzzò ripetutamente le vene delle braccia, si distese accanto al marito e spirò. Mia madre era rimasta nella stanza accanto tutta la notte. Disse d'essersi un po' insospettita per quel silenzio, ma di esser stata talmente stanca da esser caduta nel sonno. Quando entrò la mattina dopo li trovò distesi nel loro sangue ormai freddo.

Io avrei voluto piangere e piangere per la mia signora, ma tutto era sottosopra. Tutto doveva essere bruciato nella stanza dell'infermo, avevano detto i dottori, e le salme dovevano essere cremate senza indugio. La Casa fu posta sotto quarantena, così che solo i sacerdoti della magione poterono officiare il rito funebre. Nessuno fu autorizzato a uscire dalla tenuta per venti giorni. Ma molti degli stessi dottori se ne andarono quando Erod, che era adesso il nuovo signore di Shomeke, comunicò loro cosa intendeva fare. Ne avevo sentito qualche confuso accenno da Ahas, ma nel mio dolore non gli avevo prestato molta attenzione.

Quella sera tutti i domestici della Casa erano radunati fuori del Tempietto di Nostra Signora durante il rito funebre per ascoltare i canti e le preghiere. I Boss e i castrati avevano condotto la gente del complesso, e si tenevano dietro di noi. Vedemmo il corteo che usciva, le bianche bare portate a spalla, le pire accese, il fumo nero che saliva verso l'alto. Prima ancora che il fumo terminasse la sua ascesa, il nuovo signore di Shomeke venne verso di noi, là dove ci trovavamo.

Erod si mise in piedi su un cumulo di terra dietro il tempietto e parlò con una voce forte come non gli avevo mai sentito. Sempre, nella Casa, aveva bisbigliato nel buio. Ora era giorno pieno, e la sua voce era potente. Se ne stava lì nero ed eretto nei bianchi paramenti di lutto. Non aveva ancora vent'anni. Disse, «Ascoltatemi, gente! Siete stati schiavi, ora sarete liberi. Siete stati mie proprietà, ora sarete padroni delle vostre vite. Stamattina ho inviato alle autorità l'Ordine di Emancipazione per ogni proprietà della tenuta, quattrocentoundici fra uomini, donne e bambini. Venite domattina nel mio ufficio, alla Casa dei Conti, e vi consegnerò i vostri documenti. Ciascuno di voi figura su quei documenti come persona libera. Nessuno potrà mai più farvi ritornare schiavi. Da domani in poi sarete liberi di fare quello che volete. Ognuno di voi riceverà del denaro per iniziare la sua nuova vita. Non quello che meritereste, non quello che vi spetterebbe per tutto il lavoro fatto per noi, ma quello che io sono in grado di darvi. Io sto per lasciare Shomeke. Andrò nella capitale, dove lavorerò per la liberazione di tutti gli schiavi di Werel. Il Giorno della Libertà, già sorto su Yeowe, sorgerà anche da noi, e presto. Chi di voi vuol venire con me, venga! Ci sarà da fare per tutti!»

Mi ricordo tutto quello che disse. Ho ripetuto il suo discorso parola per parola. Quando uno non sa leggere e non ha la mente sovraffollata da immagini della rete, la parola parlata si incide a fondo nella memoria.

Ci fu un silenzio tale, quando finì di parlare, come io non avevo mai sentito prima.

Uno dei dottori cominciò a parlare, facendo presente a Erod che doveva osservare la quarantena.

«Il male è stato divorato dal fuoco,» disse Erod, indicando con un ampio gesto la colonna di fumo nero che saliva. «Questo è stato un luogo di sventura, ma nessun male verrà mai più da Shomeke!»

A questo punto un suono lento e sommesso s'alzò fra la gente del complesso che stava alle nostre spalle, e crebbe fino a diventare un gran boato di giubilo misto a pianto, a grida, a canti. «Signore Kamye! Signore Kamye!» gridavano gli uomini. Una vecchia si fece avanti. Era mia nonna. Passò attraverso noi schiavi della Casa come se attraversasse un campo di grano. Si fermò a una certa distanza da Erod. Fecero tutti silenzio, per ascoltare la nonna. Disse, «Signor padrone, ci stai cacciando dalle nostre case?»

«No,» rispose lui. «Sono vostre. E vostra è la terra per coltivarla. Il profitto dei campi sarà vostro. Questa è casa vostra, e voi siete liberi!»

A questo punto le acclamazioni esplosero di nuovo, così forti che dovetti chinarmi e tapparmi le orecchie, ma anch'io piangevo e gridavo con loro a una voce le lodi del signor Erod e del Signore Iddio Kamye.

Ballammo e cantammo dinanzi alle pire fumanti fino al calar del sole. Alla fine le nonne e i castrati fecero rientrare la gente nel complesso, dicendo che le carte non erano ancora pronte. Noi domestici rientrammo senza fretta nella Casa, fantasticando sul domani, quando avremmo avuto libertà, denaro e terra.

Tutto il giorno seguente Erod sedette nella Casa dei Conti a preparare i documenti per ciascuno schiavo, e a ciascuno offrì la stessa somma di denaro: cento kue in contanti e un accredito di cinquecento kue presso la banca regionale, che non poteva essere ritirato prima di quaranta giorni. Questo per evitare, spiegò a ciascuno, di cadere vittime di gente senza scrupoli prima di aver potuto decidere cosa fare del denaro. Consigliò loro di formare una cooperativa, di socializzare i fondi, di gestire democraticamente la tenuta. «Denaro in banca, o Signore!» gridò fra le lacrime un vecchio tutto deforme, traballando sulle gambe curve. «Denaro in banca, o Signore!»

Chi lo desiderava, disse e ripeté Erod molte e molte volte, poteva tenere da parte il denaro e contattare l'Hame, che l'avrebbe aiutato a pagarsi un passaggio su Yeowe. «Oh, oh, Yeowe,» qualcuno cominciò a cantare cambiando le parole:

«Tutti ci vogliono andar.

Oh, oh, Yeowe,

Tutti ci vogliono andar!»

Continuarono a cantare quella canzone tutto il giorno. Ma niente poteva alterarne la tristezza. Mi viene ancora da piangere quando ripenso a quel canto, in quel giorno.

La mattina dopo Erod partì. Non vedeva l'ora di lasciare il luogo della sua infelicità e di cominciare la sua nuova vita nella capitale lottando per la libertà. Non mi salutò nemmeno. Prese con sé Geu e Ahas. I dottori e i loro aiutanti e schiavi erano già partiti tutti il giorno prima. Guardammo il suo aereo innalzarsi per aria.

Tornammo nella Casa. Sembrava una cosa vuota. Non c'erano più possidenti, più nessuno che dava ordini, più nessuno che ci dicesse cosa fare.

Mia madre e io andammo a raccogliere i nostri vestiti. Non ci eravamo scambiate che poche parole, ma sentivamo che non era il caso di restare lì dentro. Sentimmo altre donne che correvano per il beza, mettendo sottosopra le stanze della signora Tazeu, frugando nei suoi armadi, ridendo e strillando d'eccitazione nel trovare gioielli e oggetti di valore. Sentimmo voci di uomini nel salone: le voci dei Boss. Senza una parola mia madre e io prendemmo quel che avevamo tra le mani e uscimmo da una porta di servizio, sgusciammo fra i reticolati del giardino e corremmo per tutta la strada fino al complesso.

Il grande cancello del recinto era completamente spalancato.

Come vi posso spiegare che cosa fu per noi quella vista, la vista del cancello tutto aperto? Come faccio a spiegarvelo?

2 – Zeskra

Erod non sapeva niente della conduzione della tenuta, perché erano i Boss che se ne occupavano. Anche lui era un prigioniero. Era vissuto fra i suoi schermi, i suoi sogni, le sue visioni.

Le nonne e altri del complesso avevano passato tutta la notte a cercare di organizzarsi, di radunare la nostra gente in modo da potersi difendere. Quella mattina, quando mia madre e io arrivammo, c'erano degli schiavi a far la guardia al complesso, armati con gli attrezzi per il lavoro dei campi. Le nonne e i castrati avevano eletto un capoccia, un bracciante dei campi, forte e benvoluto. Speravano in tal modo di trattenere i giovani.

Nel pomeriggio tale speranza era già stata spazzata via. I giovani erano usciti di testa. Andarono alla Casa a saccheggiarla. I Boss gli spararono addosso dalle finestre, uccidendone molti, mentre gli altri fuggivano. I Boss si trincerarono nella Casa, a bere il vino degli Shomeke. I proprietari di altre piantagioni stavano inviando rinforzi. Sentimmo gli aerei atterrare, uno dopo l'altro. Le schiave restate nella Casa erano adesso alla loro mercé.

Quanto a noi del complesso, eravamo di nuovo coi cancelli sbarrati. Avevamo spostato i grandi paletti dall'esterno all'interno, e pensavamo così di essere al sicuro, almeno per la notte. Ma a mezzanotte arrivarono con potenti mezzi cingolati, e sfondarono le mura, e un centinaio e più di uomini, i nostri Boss e i possidenti di tutte le altre tenute del circondario, si precipitarono all'interno. Portavano armi da fuoco. Lottammo contro di loro con attrezzi da lavoro e bastoni di legno. Un paio di loro furono feriti o uccisi. Ci ammazzarono senza pietà, poi cominciarono a stuprarci. Andarono avanti per tutta la notte.

Un gruppo di uomini si impadronì di tutte le donne e degli uomini anziani e sparò loro in mezzo agli occhi, come si fa con le bestie. Mia nonna era fra loro. Non so cosa ne sia stato di mia madre. Non vidi un solo schiavo rimasto in vita, quando mi portarono via la mattina dopo. Vidi delle carte bianche a terra in mezzo al sangue. I documenti della nostra libertà.

Molte di noi ragazze e donne giovani ancora vive furono sospinte verso un camion e trasportate allo spazioporto. Da lì ci fecero montare su un aereo, a forza di spintoni e bastonate, e fummo portate via. Non ero ancora rientrata in me. Tutto quel che ricordo è quello che mi hanno raccontato le altre in seguito.

Ci ritrovammo in un complesso, del tutto simile al nostro. Pensai che ci avessero riportato a casa. Ci sospinsero all'interno attraverso le scale riservate ai castrati. Era mattina, e i braccianti erano fuori al lavoro, solo le donne, i cuccioli e i vecchi erano rimasti nel recinto. Le nonne ci vennero incontro irritate e scontente. Da principio non riuscivo a capire perché fossero tutte delle sconosciute. Cercai la nonna.

Avevano paura di noi, credendo che fossimo delle fuggiasche. Negli ultimi anni, molti schiavi delle piantagioni s'erano dati alla fuga, tentando di raggiungere le città. Pensavano che fossimo delle ribelli, e che avremmo provocato dei guai. Ci aiutarono comunque a ripulirci, e ci assegnarono uno spazio vicino alla torretta dei castrati. Non c'erano capanne libere, secondo loro. Ci informarono che ci trovavamo nella Tenuta di Zeskra. Non vollero sapere niente di quel che era accaduto a Shomeke. Non ci volevano lì. Non volevano saperne dei nostri guai.

Dormimmo per terra senza alcun riparo. Alcuni schiavi attraversarono il fossato durante la notte e ci stuprarono, perché non c'era nessuno a impedirglielo, nessuno per cui avessimo alcun valore. Eravamo troppo deboli e stavamo troppo male per resistere. Una di noi, una ragazza di nome Abye, cercò di opporre resistenza. Gli uomini la picchiarono fino a farle perdere i sensi. La mattina dopo non era in grado di parlare, né di camminare. Fu lasciata lì quando vennero i Boss a portarci via. Anche un'altra ragazza fu lasciata indietro, una robusta bracciante con cicatrici bianche sulla testa, come delle scriminature nei capelli. La osservai meglio mentre ce ne andavamo e mi resi conto che era Walsu, la mia vecchia amica. Non ci eravamo riconosciute. Se ne stava seduta a terra, a capo chino.

Cinque di noi furono portate dal recinto alla Grande Casa di Zeskra nei quartieri delle schiave. Lì per un certo periodo conservai una flebile speranza, dato che sapevo di avere delle capacità come serva di casa. Ma non sapevo ancora quanto Zeskra fosse diversa da Shomeke. La Casa, a Zeskra, era piena di gente, piena di possidenti e di Boss. Era una grande famiglia, non c'era un solo signore come a Shomeke, ma una dozzina, insieme ai loro dipendenti, ai loro parenti e ai loro ospiti, così che ci potevano essere fino a trenta o quaranta persone nel reparto degli uomini, e altrettante donne nel beza, e una cinquantina o più di addetti alla Casa. Non eravamo state portate lì come domestiche, bensì come donne di piacere.

Ci fecero fare il bagno, poi fummo lasciate nel quartiere delle donne di piacere, un grande stanzone senza alcuno spazio privato, dove si trovavano di già una decina o più di donne come noi. Quelle di loro a cui piaceva l'incarico non furono molto contente di vederci, sentendoci come rivali, le altre ci considerarono benvenute, sperando che le sostituissimo mentre loro passavano ai servizi domestici. Nessuna ci fu però veramente ostile, alcune furono gentili e ci dettero dei vestiti, dato che eravamo rimaste nude per tutto il tempo, e cercarono di far coraggio a Mio, la più giovane di noi, una ragazzetta del complesso, di dieci o undici anni, il cui corpo candido era tutto chiazzato di lividi marroni e blu.

Una di loro era una donna alta di nome Sezi-Tual. Mi osservò con espressione ironica. Qualcosa in lei ridestò il mio spirito.

«Tu non sei una polverosa,» disse, «sei nera come quel diavolo del vecchio signor Zeskra in persona. Sei figlia di un Boss, vero?»

«No, signora,» dissi, «sono figlia di un possidente. E nipote di nostro Signore. Mi chiamo Rakam.»

«Tuo Nonno non ti ha trattato molto bene ultimamente,» disse. «Forse dovresti pregare Tual la Misericordiosa.»

«Non cerco affatto pietà,» dissi. Da quel momento in poi Sezi-Tual mi prese in simpatia e mi accordò la sua protezione, di cui avevo tanto bisogno.

Venivamo mandate dall'altra parte, nei quartieri degli uomini, quasi tutte le notti. Quando c'erano dei festini, dopo che le signore si erano ritirate dalla sala da pranzo, venivamo portate dentro per sederci sulle ginocchia dei possidenti e bere vino con loro. Poi quelli ci prendevano lì sui divani o ci portavano nelle loro stanze. Gli uomini di Zeskra non erano crudeli. Ad alcuni piaceva lo stupro, ma la maggior parte preferivano pensare che li desiderassimo e che fossimo liete di compiacerli in tutto. Costoro erano facili da soddisfare: agli uni dimostrando paura e sottomissione, agli altri fingendo passione ed estasi. Ma alcuni dei loro ospiti erano di tutt'altra pasta.

Non c'era alcuna legge o regola contro le lesioni o l'uccisione di una donna di piacere. Il suo padrone poteva anche essere dispiaciuto, ma per orgoglio non poteva ammetterlo. Doveva dare a vedere di avere tante di quelle proprietà da rimanere indifferente alla perdita di una qualunque di esse. Così c'erano uomini la cui fonte di piacere era la tortura, e approfittavano dell'ospitalità di tenute come quella di Zeskra per i loro sfoghi bestiali. Sezi-Tual, una beniamina del Vecchio Padrone, poteva permettersi di protestare con lui e lo faceva, di modo che quegli ospiti non venivano più invitati. Ma mentre ero lì, Mio, la ragazzetta che era venuta con noi da Shomeke, fu assassinata da un ospite che l'aveva legata al letto. Il nodo intorno al collo era così stretto che mentre lui la usava Mio morì strangolata.

Non voglio raccontare altri episodi. Quello che dovevo dire l'ho già detto. Certe verità sono inutili. Ogni sapere è locale, ha affermato il mio amico. È vero, dove è vero, che quella bambina doveva morire in quel modo? È vero, dove è vero, che a quel modo non sarebbe dovuta morire?

Io ero usata spesso dal signor Yaseo, un uomo di mezza età a cui piaceva molto la mia pelle scura e che mi chiamava "signora mia". Mi dava anche della "ribelle", perché quel che era successo a Shomeke la consideravano una ribellione degli schiavi. Le notti in cui non mi mandava a chiamare ero di normale servizio come ragazza di piacere.

Dopo due anni di permanenza a Zeskra, una mattina, sul presto, Sezi-Tual venne da me. Ero rientrata tardi dal letto del signor Yaseo. Non c'era quasi nessuno in giro, perché la notte prima c'era stata una festa, e tutte le ragazze di piacere erano state chiamate. Sezi-Tual mi svegliò. Aveva degli strani capelli, riccioluti, raccolti a cespuglio. Mi ricordo ancora il suo viso sopra di me, e quei capelli ricci che le facevano corona. «Rakam,» mi sussurrò, «il servo di uno degli ospiti mi ha cercato ieri sera. Mi ha dato questo. Dice di chiamarsi Suhame.»

«Suhame,» ripetei. Ero assonnata. Guardai quel che mi tendeva: un foglio sporco e sgualcito. «Non so leggere!» dissi sbadigliando con insofferenza.

Poi lo guardai e lo riconobbi. Sapevo cosa c'era scritto. Era il documento di libertà. Il mio documento di libertà. Avevo osservato il signor Erod mentre ci scriveva sopra il mio nome. Ogni volta che scriveva un nome lo pronunciava a voce alta in modo che sapessimo cosa stava scrivendo. Mi ricordo l'ampio svolazzo dell'iniziale di entrambi i miei nomi: Radosse Rakam. Presi il foglio in mano, e la mano mi tremava. «Come l'hai avuto?» sussurrai.

«Chiedilo a questo Suhame,» disse lei. Ora capivo che cosa voleva dire quel nome: "da parte dell'Hame", Era una parola d'ordine. Anche lei lo sapeva. Mi stava guardando, e all'improvviso poggiò la fronte contro la mia, trattenendo il respiro. «Ti aiuterò se posso,» sussurrò.

Mi incontrai con "Suhame" in una delle dispense. Appena lo vidi lo riconobbi: era Ahas, il prediletto, insieme a Geu, del signor Erod. Un giovane insignificante e taciturno dalla pelle color della polvere, cui non avevo mai prestato molta attenzione. Aveva occhi indagatori, e avevo sempre avuto la sensazione che quando io e Geu parlavamo lui ci guardasse storto. Adesso mi guardava con una strana espressione, sempre attenta, ma vacua. «Come mai ti trovi qui con questo signor Boeba?» gli chiesi. «Non sei forse libero?»

«Sono libero come lo sei tu,» disse.

Non riuscivo a capire.

«Non sei rimasto, almeno tu, sotto la protezione del signor Erod?» chiesi.

«Sì. Sono un uomo libero.»

Il suo viso cominciò a prender vita, assumendo l'espressione fissa e vuota che aveva mostrato nel vedermi. «La signora Boeba è un membro della Comunità. Io lavoro per l'Hame. Sto cercando di rintracciare la gente di Shomeke. Avevamo sentito dire che qui c'era un certo numero di donne. Ce ne sono altre ancora vive, Rakam?»

La sua voce era dolce, e quando pronunciò il mio nome mi mancò il respiro e sentii un groppo in gola. Lo chiamai per nome, mi avvicinai e lo abbracciai. «Ratual, Ramayo e Keo sono ancora qui,» gli dissi. Mi abbracciò con dolcezza. «Walsu si trova nel complesso,» aggiunsi, «ammesso che sia ancora viva.» Piansi. Non avevo più pianto dalla morte di Mio. Anche lui era in lacrime.

Parlammo, allora e in seguito. Mi spiegò che eravamo liberi a tutti gli effetti, per legge, ma che quella legge non aveva alcun valore nelle Tenute. Il governo non aveva nessuna intenzione di intromettersi fra i possidenti e coloro che i possidenti consideravano proprietà. Se avessimo rivendicato i nostri diritti, gli Zeskra ci avrebbero probabilmente ammazzato, dato che ci consideravano merce rubata e non avrebbero voluto far brutta figura. Dovevamo fuggire, o farci portar via, e raggiungere la città, la capitale, prima di poterci considerare in salvo.

Dovevamo essere sicuri che nessuno degli schiavi di Zeskra ci avrebbe tradito, spinto da gelosia o da mire di favori. Sezi-Tual era l'unica di cui mi fidassi completamente.

Ahas organizzò la nostra fuga con l'aiuto di Sezi-Tual. Una volta la supplicai di venire con noi ma lei pensava che, non avendo documenti, avrebbe dovuto passare la vita a nascondersi, e questo sarebbe stato peggio che vivere a Zeskra.

«Potresti andare su Yeowe,» le suggerii.

Lei rise. «Tutto quello che so di Yeowe è che nessuno torna mai indietro. Che senso ha correre da un inferno a un altro?»

Ratual decise di non venire con noi. Era la favorita di uno dei giovani padroni, e soddisfatta della sua condizione. Ramayo, che era la più anziana fra noi di Shomeke, e Keo, che aveva adesso circa quindici anni, decisero di partire. Quando Sezi-Tual si recò al complesso, seppe che Walsu era ancora viva, e che lavorava come bracciante nei campi. Organizzare la sua fuga era di gran lunga più difficile che non le nostre. Non c'era via d'uscita dal complesso. Sarebbe potuta fuggire solo di giorno, attraverso i campi, sotto gli occhi dei sorveglianti e dei Boss. Era difficile perfino parlare con lei, perché le nonne erano diffidenti. Ma Sezi-Tual ci riuscì, e Walsu le disse che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di "rivedere la sua carta".

L'aereo della signora Boeba ci aspettava sul limitare di un vasto campo di gede che era appena stato mietuto. Era estate inoltrata. Ramayo, Keo e io ci allontanammo dalla Casa separatamente, a ore diverse durante la mattina. Nessuno ci sorvegliava strettamente, dato che non c'era nessun posto dove andare. Zeskra si trova in mezzo ad altre grandi tenute, dove uno schiavo in fuga non avrebbe trovato amici per centinaia di chilometri. Una per volta, seguendo sentieri diversi, attraversammo i campi e i boschi, acquattandoci e nascondendoci per tutto il tragitto fino all'aereo, dove ci aspettava Ahas. Il cuore mi batteva così forte da non poter respirare. Lì aspettammo Walsu.

«Eccola!» esclamò Keo, di vedetta su un'ala dell'aereo. Indicò un punto al di là del vasto campo di stoppie.

Walsu arrivò correndo dal filare di alberi lungo il lato più distante del campo. Correva con passo pesante, sicuro, non sembrava provare paura, ma all'improvviso si fermò. Si voltò. Per un attimo non capimmo perché. Poi vedemmo due uomini uscire dall'ombra degli alberi al suo inseguimento.

Non corse via da loro, guidandoli così verso di noi. Corse verso di loro. Balzò loro addosso come un gatto predatore. Mentre saltava, uno degli uomini sparò. L'altro se lo trascinò a terra nella caduta. Il primo continuò a sparare e sparare. «Dentro,» disse Ahas. «Subito!» Entrammo barcollando nell'aereo che si levò in aria. Tutto sembrò svolgersi in un istante, lo stesso istante in cui Walsu aveva spiccato il suo grande balzo, alzandosi anche lei verso l'alto, verso la morte, verso la libertà.

3 – La città

Avevo ridotto il mio documento di libertà a un minuscolo cencio spiegazzato. L'avevo tenuto in mano per tutto il tempo mentre eravamo sull'aereo, e durante l'atterraggio e mentre attraversavamo su un mezzo pubblico le vie della città. Quando Ahas scoprì cosa tenevo stretto, disse che non mi dovevo preoccupare. La nostra emancipazione era stata registrata nell'Ufficio del Governo e qui in città sarebbe stata valida. Eravamo gente libera. Eravamo gareot, cioè padroni senza schiavi. «Proprio come il signor Erod,» disse. Parole prive di senso, per me. Quante cose avevo da imparare! Tenni su di me il mio documento di libertà finché non ebbi un posto dove metterlo al sicuro. Lo conservo ancora.

Camminammo un po' per le strade, poi Ahas ci condusse in uno dei grandi edifici che si allineavano lungo i marciapiedi. Lo chiamò complesso, ma a noi sembrò piuttosto una casa padronale. Fummo ricevuti da una donna di mezz'età. Era di pelle chiara, ma parlava e si comportava come una possidente, così non sapevo cosa fosse. Si presentò come Ress, affittata e anziana della casa.

Gli affittati erano schiavi dati a nolo dai possidenti a una compagnia. Se erano impiegati in una grande impresa vivevano nel complesso dell'impresa, ma c'erano molti, moltissimi affittati, nella Città, che lavoravano per imprese piccole o gestite autonomamente, e occupavano edifici dati in locazione e chiamati complessi aperti. In questi edifici gli occupanti dovevano rispettare il coprifuoco, dato che le porte venivano chiuse per la notte, ma era l'unico vincolo, per il resto erano autonomi. Adesso noi ci trovavamo in uno di questi complessi aperti. Era sovvenzionato dalla Comunità. Alcuni degli occupanti erano affittati, ma molti erano come noi, gareot che erano stati schiavi. Abitavano lì più di un centinaio di persone in quaranta appartamenti. Il complesso era amministrato da alcune donne che io avrei definito nonne, ma che qui erano chiamate anziane.

Nelle tenute remote nello spazio e nel tempo, dove la vita era protetta da vaste estensioni di terra, da usanze centenarie e da una solida ignoranza, qualunque schiavo era alla completa mercé di qualunque padrone. Da uno di questi luoghi eravamo stati sbalzati in questa enorme folla di due milioni di persone, dove niente e nessuno aveva alcuna protezione contro l'imprevisto e la diversità, dove bisognava imparare più in fretta possibile le regole per sopravvivere, ma dove la nostra vita era nelle nostre mani.

Io non avevo mai visto una strada. Non sapevo leggere una parola. Avevo molto da imparare.

Ress me ne fece render conto immediatamente. Era una donna di città, pensava e parlava in fretta, era impaziente, aggressiva, suscettibile. Non riuscii a provare simpatia per lei, né a capirla, per molto tempo. Mi faceva sentire stupida, tarda, una cosa messa lì. Ero spesso arrabbiata con lei.

C'era della rabbia in me, adesso. Non avevo provato rabbia alcuna finché avevo vissuto a Zeskra. Non avrei potuto. Mi avrebbe divorato. Ora avevo spazio per questa sensazione, ma non sapevo come metterla a frutto. La tenni dentro di me, in silenzio. Keo e Ramayo condividevano una grande stanza, io una più piccola vicino alla loro. Non avevo mai avuto una stanza tutta per me. Da principio mi ci sentii sola e quasi spaurita, ma presto cominciò a piacermi. La mia prima azione compiuta liberamente, da donna libera, fu quella di chiudere la porta.

La sera, chiudevo la porta e studiavo. Di giorno, avevamo avviamento al lavoro di mattina, e scuola nel pomeriggio: lettura, scrittura, aritmetica, storia. Il mio apprendistato aveva luogo in una piccola bottega che produceva scatole di carta o di compensato per contenere cosmetici, candele, gioielli e così via. Venni istruita in tutte le varie fasi della costruzione e decorazione delle scatole, e nelle finezze del mestiere, dato che così era organizzato gran parte del lavoro nella Città, da artigiani esperti nei loro mestieri. Il negozio apparteneva a un membro della Comunità. I lavoratori più anziani erano degli affittati. Al termine del mio apprendistato anche a me sarebbe stato corrisposto un salario.

Fino ad allora fui mantenuta dal signor Erod, insieme a Keo, a Ramayo e ad alcuni uomini provenienti dal complesso di Shomeke che vivevano in un'altra casa. Erod non venne mai a trovarci. Credo che non se la sentisse di vedere nessuno di quelli a cui aveva dato la libertà in maniera così catastrofica. Ahas e Geu ci informarono che aveva venduto gran parte della terra di Shomeke e usato il denaro sia per la Comunità che per farsi strada in politica, dato che adesso esisteva un Partito Radicale che sosteneva l'emancipazione.

Geu venne a farmi visita qualche volta. Era diventato un uomo di città, brillante ed esperto. Avevo la sensazione, quando mi guardava, che pensasse al mio passato di donna di piacere a Zeskra, e non ebbi più voglia di frequentarlo.

Adesso invece ammiravo Ahas, che non avevo mai preso in considerazione ai vecchi tempi, sapendolo audace, risoluto e gentile. Era stato lui che ci aveva cercato, trovato, liberato. Avevano pagato i padroni, ma era stato lui a compiere l'impresa. Veniva spesso a trovarci. Era rimasto l'unico legame con la mia infanzia che non fosse stato spezzato.

E veniva da amico, da compagno, senza mai cercare di riportarmi alla mia condizione di corpo da usare. Adesso ero furiosa contro tutti gli uomini che mi guardavano come gli uomini guardano le donne. Ero furiosa contro le donne che mi consideravano da un punto di vista sessuale. Per la signora Tazeu ero stata solo il mio corpo. A Zeskra non ero stata altro che quello. Perfino per Erod che non aveva voluto toccarmi non ero stata che quello. Carne da toccare o da non toccare, a piacimento. Da usare o non usare, a scelta. Odiavo le mie parti sessuali, l'area genitale, e i seni, e le curve dei fianchi e del ventre. Fin da bambina ero stata vestita con abiti di tessuti soffici fatti per mettere in evidenza tutta la sensualità di un corpo femminile. Quando cominciai a essere pagata e a poter comprare o confezionare i miei abiti, mi rivestii di stoffe pesanti e rigide. Quello che più mi piaceva erano le mie mani, abili nel lavoro, e la mia mente, non particolarmente portata eppure capace di apprendere, a costo di impiegarci molto tempo.

Mi appassionava imparare la storia. Ero cresciuta senza storia. Non c'era niente a Shomeke o a Zeskra se non lo stato presente delle cose. Nessuno sapeva niente di tempi diversi in cui le cose erano state diverse. Nessuno sapeva di luoghi in cui le cose potessero essere diverse. Eravamo schiavi del tempo presente.

Erod aveva parlato di cambiamenti, in effetti, ma cambiamenti attuati dai possidenti. Noi dovevamo essere cambiati, dovevamo essere liberati allo stesso modo in cui eravamo stati posseduti. Attraverso la storia ebbi modo di vedere che la libertà è una cosa che si conquista, non che si riceve.

Il primo libro che lessi da sola era una storia di Yeowe scritta in maniera molto semplice. Parlava dei tempi della Colonia, delle Quattro Corporazioni, del terribile primo secolo, quando le navi trasportavano su Yeowe schiavi maschi e tornavano con pregiate materie prime. Gli schiavi costavano così poco che venivano fatti sgobbare a morte pochi anni nelle miniere, e sostituiti continuamente con nuovi carichi. «Oh, oh, Yeowe, se ci vai, mai più tornerai!» Poi le Corporazioni cominciarono a inviare schiave femmine per lavorare e per far razza, e nel corso degli anni gli schiavi si allargarono fuori dai recinti e formarono città, grandi città come quella in cui vivevo. Ma non governate dai padroni o dai Boss. Governate dalle proprietà, proprio come la nostra casa era governata da noi. Potevano noleggiare la loro libertà pagando alla Corporazione una parte dei loro guadagni, proprio come le proprietà a mezzadria pagavano i possidenti con parte del raccolto, in certe parti del Voe Deo. Su Yeowe questi schiavi erano chiamati liberti. Non gente libera, ma liberata. Allora, narrava la storia che stavo leggendo, cominciarono a pensare: perché non dobbiamo essere liberi del tutto? Così misero in atto la rivoluzione, la Liberazione. Cominciò in una piantagione di nome Nadami, e da lì dilagò tutt'intorno. Per trent'anni hanno combattuto per la loro libertà. E tre anni fa finalmente hanno vinto la guerra, hanno cacciato le Corporazioni, i possidenti, i Boss, fuori dal loro mondo! Hanno ballato e cantato nelle strade: libertà! libertà! Il libro che stavo leggendo (con grande sforzo, ma riuscivo a leggerlo!) era stato stampato laggiù, laggiù su Yeowe, il Mondo Libero. Gli Alieni lo avevano portato su Werel. Per me era come un libro sacro.

Chiesi ad Ahas come stavano andando le cose su Yeowe, e mi disse che stavano organizzando un proprio governo e scrivendo una Costituzione perfetta per cui gli uomini sarebbero stati tutti uguali davanti alla Legge.

Sulla rete, nei notiziari, dicevano che su Yeowe era la lotta di tutti contro tutti, che non c'era nessuna forma di governo, che la gente era alla fame, e che feroci membri delle tribù nelle campagne e bande di giovinastri nelle città si davano a razzie, che legge e ordine erano stati sovvertiti. Parlavano di corruzione, ignoranza, velleità destinate a fallire, un mondo condannato a morire.

Ahas disse che il governo del Voe Deo, che aveva combattuto e perso la guerra contro Yeowe, ora temeva una lotta di liberazione su Werel. «Non credere ai notiziari,» mi consigliò, «soprattutto a quelli della rete sensoriale. Non ci cascare. Sono altrettanto fasulli di quegli altri, ma quando una cosa la vedi e la provi con tutti i sensi, finisci per crederci. E loro lo sanno. Non hanno bisogno di armi, se sono padroni delle nostre menti. I possidenti non hanno cronisti, né macchine da presa su Yeowe,» aggiungeva. «I loro servizi sono interpretati da attori.» Soltanto ad alcuni Alieni dell'Ekumene era stato permesso di sbarcare su Yeowe, e gli Yeowiani stavano discutendo sulla possibilità o meno di mandarli via, tenendosi tutto per sé il mondo che si erano conquistato.

«Ma allora che ne sarà di noi?» dissi, perché avevo cominciato a sognare di andarci, di raggiungere il Mondo Libero, appena l'Hame fosse stato in grado di procurare delle navi e inviarci della gente.

«Alcuni dicono di lasciar entrare le proprietà. Altri sostengono che non ci sono risorse sufficienti per tanta gente, e che si ritroverebbero sopraffatti. Ne stanno discutendo democraticamente. Molto presto sarà il voto delle prime elezioni yeowiane a decidere.» Anche Ahas sognava di andare laggiù. Parlavamo del nostro sogno come due innamorati parlano del loro amore.

Ma non c'erano navi che andassero su Yeowe, per il momento. L'Hame non poteva agire apertamente e alla Comunità era proibito fare da tramite. L'Ekumene aveva offerto il trasporto sulle proprie navi a chiunque volesse andare, ma il governo del Voe Deo gli aveva rifiutato l'uso di qualsiasi spazioporto per quello scopo. Potevano trasportare solo la propria gente. Nessun Wereliano doveva lasciare Werel.

Erano passati solo quarant'anni da quando Werel aveva finalmente autorizzato gli Alieni ad atterrare e a stabilire relazioni diplomatiche. Procedendo nella lettura della storia cominciai a capire qualcosa sulla natura della razza dominante su Werel. La razza di pelle nera che aveva sottomesso tutte le popolazioni del Grande Continente, e alla fine di tutto il mondo, coloro che si definiscono possidenti, erano vissuti nella convinzione che esistesse un solo modo di vivere. Avevano creduto di essere quel che si dev'essere, di fare quel che si deve fare, di conoscere tutte le verità conosciute. Tutte le altre popolazioni di Werel, anche quando li avevano combattuti, li avevano imitati cercando di diventare loro, ed erano diventati loro proprietà. Quando un popolo era arrivato dal cielo con un diverso aspetto, diversi usi, diverso sapere, e non si era lasciato conquistare e schiavizzare, la razza padrona non volle averci niente a che fare. Ci misero quattrocento anni ad ammettere di avere dei pari.

Io ero in mezzo alla folla a una convenzione del Partito Radicale, durante la quale Erod parlò con la sua solita eloquenza. Notai una donna accanto a me tra la folla in ascolto. La sua pelle era di un insolito bruno-aranciato, come la scorza di un ananas, e si intravedeva del bianco agli angoli dei suoi occhi. Pensai che fosse malata, pensai alla peste, a come la pelle del signor Shomeke aveva cambiato colore, ai suoi occhi che avevano mostrato il bianco. Rabbrividii e mi allontanai. Lei mi lanciò un'occhiata accennando un sorriso, poi rivolse di nuovo l'attenzione all'oratore. I suoi capelli erano acconciati in una specie di cespuglio o di aureola, come quelli di Sezi-Tual. Il suo abito era di tessuto delicato e di una foggia strana. Poco a poco mi resi conto di cosa fosse, e di come fosse venuta sin qui da un mondo di inimmaginabile lontananza. La cosa meravigliosa è che, con tutta la stranezza della pelle, degli occhi, dei capelli e del pensiero, era umana, come sono umana io, su questo non avevo dubbi. Lo sentivo. Per un attimo fu una sensazione di profondo sconvolgimento. Poi il turbamento cessò e provai una grande curiosità, quasi un'attrazione, un'inclinazione verso di lei. Desideravo conoscerla, e appropriarmi del suo sapere.

In me l'anima di padrona stava lottando contro l'anima di persona libera.

Una lotta che mi durerà tutta la vita. Keo e Ramayo smisero di andare a scuola dopo aver imparato a leggere, a scrivere e a usare il calcolatore, io invece continuai. Una volta esauriti i corsi tenuti dalla scuola dell'Hame, gli insegnanti mi aiutarono a trovare dei corsi sulla rete. Nonostante che questi corsi fossero sotto il controllo del governo, c'erano degli insegnanti validi, e gruppi di ogni parte del mondo che si confrontavano su letteratura, storia, scienze e arti. Era la storia il mio interesse principale.

Ress, che era un membro dell'Hame, mi portò innanzitutto alla Biblioteca del Voe Deo. Siccome era riservata ai possidenti, non subiva alcuna censura governativa. I liberti, se erano di pelle chiara, venivano allontanati dai bibliotecari con qualche pretesto. Io ero di pelle scura, e avevo imparato in Città ad andare in giro con un'aria di ostentata indifferenza che mi metteva al riparo da insulti e oltraggi. Ress mi aveva raccomandato di fare il mio ingresso come se fossi stata la padrona del posto. Lo feci, e ogni sorta di privilegi mi fu accordata senza farmi domande. Così cominciai a leggere liberamente, a leggere qualsiasi libro m'interessasse in quella grande biblioteca, e avrei voluto leggerli tutti uno per uno. Era la mia felicità, quel poter leggere. Era il fulcro della mia libertà.

Oltre il lavoro nello scatolificio, che era ben pagato, piacevole, in mezzo a piacevoli compagni di lavoro, oltre la mia istruzione e le mie letture, non c'era granché d'altro nella mia vita. Non cercavo niente di più. Ero sola, ma sentivo che la solitudine non era un prezzo troppo alto per quel che volevo.

Con Ress, che all'inizio non mi era piaciuta affatto, eravamo diventate amiche. Andavo con lei alle riunioni dell'Hame, e anche ad altri divertimenti di cui non avrei conosciuto l'esistenza senza la sua guida. «Dài, piccolina,» mi diceva, «si va a sgrezzare il cucciolo di piantagione». E mi portava al teatro makil o in sale da ballo per proprietà con della buona musica. Aveva sempre voglia di ballare. Mi insegnò, ma ballare non mi piaceva molto. Una sera, mentre ballavamo un lento, cominciò a stringermi a sé, e guardandola le scorsi sul viso, trepida e nuda, la maschera della brama sessuale. Mi staccai. «Non voglio più ballare,» dissi.

Tornammo a casa a piedi. Ress salì con me fino alla mia stanza e sulla porta cercò di abbracciarmi e baciarmi. Avevo una tale rabbia da star male. «Non voglio!» gridai.

«Mi dispiace, Rakam,» disse lei, con il tono più dolce che le avessi mai sentito. «So come ti senti. Ma è una cosa che devi superare, devi avere una vita tua. Io non sono un uomo, e ti desidero.»

L'interruppi. «Sono stata usata da una donna prima ancora che dagli uomini. Mi hai forse chiesto se io ti desidero? Non voglio essere usata mai più in vita mia!»

Rabbia e dispetto mi eruppero da dentro come pus velenoso da una piaga infetta. Se avesse cercato di toccarmi le avrei fatto del male. Le sbattei la porta in faccia. Andai fremente alla scrivania, mi sedetti e cominciai a leggere il libro che c'era aperto sopra.

Il giorno dopo eravamo tutte e due confuse e impacciate. Ma Ress era paziente sotto la sua scorza cittadina di sbrigatività e durezza. Non cercò più di fare l'amore con me, ma mi indusse ad aver fiducia in lei e a parlarle come non avrei potuto parlare con nessun altro. Mi ascoltò con attenzione e mi disse cosa pensava. «Hai delle idee sbagliate. Non c'è da stupirsi. Come potresti avercele giuste? Tu credi che il sesso sia qualcosa che si deve subire. Non è così. È qualcosa che decidi tu di fare. Insieme a qualcun altro. Non per quell'altro. Tu non conosci il sesso. Quello che hai conosciuto tu si chiama stupro.»

«Il signor Erod mi diceva le stesse cose tanto tempo fa,» dissi. Ero amareggiata. «Non m'interessa come si chiama. Ne ho avuto anche troppo. Per il resto dei miei giorni. E sono ben lieta di farne a meno.»

Ress fece una smorfia. «A ventidue anni?» disse. «Per un certo periodo, forse. Se sei contenta così, buon per te. Ma pensa a quello che ti ho detto. L'amore è troppo importante per decidere di farne a meno.»

«Se ho bisogno di sesso, posso darmi piacere da sola,» affermai, incurante del fatto di ferirla. «L'amore non c'entra niente.»

«È qui che sbagli,» disse lei, ma io non l'ascoltavo più. Ero disposta a imparare da insegnanti e da libri che mi ero scelta io, ma non ad accettare un consiglio non richiesto. Non tolleravo che mi dicesse cosa fare o cosa pensare. Se ero libera, dovevo esserlo da sola. Ero come un bambino quando si regge in piedi per la prima volta.

Anche Ahas mi dava dei consigli. Diceva che era una follia procedere così avanti nella mia istruzione. «Non arriverai mai a niente di utile studiando tutti quei libri,» mi disse. «Non è che autocompiacimento. Noi abbiamo bisogno di dirigenti e di militanti con capacità pratiche.»

«Abbiamo bisogno di insegnanti!»

«Sì,» disse, «ma tu eri già pronta per insegnare un anno fa. A che serve la storia antica, le vicende accadute su altri mondi? Noi dobbiamo pensare alla rivoluzione!»

Non mi distolsi dalle mie letture, ma mi sentii in colpa. Mi assunsi la responsabilità di un corso, alla scuola dell'Hame, per insegnare agli schiavi e ai liberti a leggere e a scrivere, esattamente come era stato insegnato a me solo tre anni prima. Era un lavoro duro. Leggere è una cosa ardua da imparare per un adulto stanco, la sera, dopo una giornata di lavoro. Molto più facile lasciarsi obnubilare la mente dai programmi in rete.

Continuai fra me e me a discutere con Ahas e un giorno gli chiesi, «Esiste una Biblioteca su Yeowe?»

«Non lo so.»

«Sai bene che non c'è! Quelli delle Corporazioni non si sono lasciati dietro biblioteche. Erano gente rozza che non conosceva altro che il profitto. La conoscenza è un bene di per sé. Io continuo a imparare in modo da poter portare il mio sapere su Yeowe. Ah, se potessi portar loro l'intera Biblioteca!»

Mi guardò stupito. «Il pensiero dei padroni, le gesta dei padroni… I loro libri non parlano d'altro. Sono cose che non servono, su Yeowe.»

«Servono, eccome!» dissi, sicura che lui fosse in torto, anche se non sapevo bene perché.

Dalla scuola ricevetti poco dopo l'incarico di insegnare storia, dato che uno degli insegnanti s'era dimesso. Le lezioni procedevano bene. Le preparavo molto accuratamente. A un certo punto fui incaricata di tenere delle conferenze a un gruppo di ricerca formato da studenti avanzati. Anche quello andò bene. Sembravano interessati alle idee che proponevo e ai confronti che avevo imparato a tracciare fra il nostro e gli altri mondi. Avevo fatto delle ricerche sul modo in cui i vari popoli allevano i figli, su chi se ne assume la responsabilità e su come tale responsabilità viene considerata, perché mi sembrava un campo determinante per la libertà o la schiavitù di un popolo.

A una di queste conferenze si presentò un uomo dell'Ambasciata dell'Ekumene. Rimasi impressionata quando scorsi fra il mio uditorio quel viso alieno. Mi impressionai ancora di più quando lo riconobbi. Era uno dei docenti del primo corso di Storia dell'Ekumene che avevo seguito sulla rete. Lo avevo seguito con molto zelo, sia pur senza partecipare al dibattito. Quello che avevo appreso aveva avuto una grande influenza su di me. Pensai che mi avrebbe giudicato presuntuosa per il fatto di parlare di cose di cui era lui il vero esperto. Andai avanti nel mio discorso, cercando di non incrociare i suoi occhi dai bordi bianchi.

Alla fine venne da me, si presentò compitamente, si complimentò per la mia esposizione e mi chiese se avessi letto il libro del tale e quello del talaltro. Mi intrattenne in conversazione in modo così sagace e amichevole che non potei fare a meno di provare per lui simpatia e fiducia. E mi dimostrò ben presto che la mia fiducia era ben riposta. La sua guida mi era preziosa, perché molte assurdità erano state scritte e dette, anche talvolta da gente autorevole, sull'equilibrio di potere fra uomini e donne, dal quale dipendeva la vita dei figli e il senso della loro educazione. Conosceva libri di contenuto proficuo sulla base dei quali avrei potuto procedere da sola.

Si chiamava Esdardon Aya. Ricopriva non so bene quale importante incarico presso l'Ambasciata. Era nativo di Hain, il Vecchio Mondo, la culla dell'umanità da cui avevano avuto origine tutti i nostri antenati.

A volte riflettevo su com'era strano che fossi venuta a conoscenza di fatti e argomenti così vasti e remoti nel tempo, io che non avevo conosciuto niente al di fuori del complesso fino ai sei anni, io che non avevo conosciuto il nome del paese in cui vivevo fino a diciotto! Cinque anni prima, quando ero una nuova arrivata nella Città, qualcuno aveva accennato al "Voe Deo" e io avevo chiesto, «Dove si trova?» Tutti mi avevano guardato. Una donna, una vecchia affittata della città dalla voce rude mi aveva risposto, «Qui, Polverosa. Il Voe Deo è qui. È il tuo paese e il mio!»

Lo raccontai a Esdardon Aya. Non si mise a ridere. «Paese, popolo,» disse. «Sono concetti strani e molto complessi.»

«Io vengo dal paese della schiavitù» dissi, e lui annuì.

Ormai vedevo assai di rado Ahas. Mi mancava la sua amicizia premurosa, che si era però ridotta a un rimprovero continuo. «Ti sei montata la testa, a forza di pubblicare articoli e di tener conferenze,» mi disse. «Pensi più a te stessa che alla nostra causa.»

Replicai, «Ma mi rivolgo alla gente dell'Hame, scrivo su argomenti su cui abbiamo bisogno di informazione, non faccio altro che lavorare per la libertà».

«La Comunità non apprezza i tuoi pamphlet,» disse, con tono severo di raccomandazione, come volesse svelarmi un segreto nel mio interesse. «Ho avuto l'incarico di chiederti di sottoporre i tuoi scritti al comitato prima di pubblicarli. Quel tipo di stampa è in mano a degli estremisti. L'Hame sta provocando non pochi problemi ai nostri candidati.»

«I nostri candidati!» ripetei adirata. «Nessun padrone è il mio candidato! Sei forse ancora agli ordini del padroncino?»

Quella frase lo ferì. Incassò il colpo e disse, «Se metti avanti il tuo interesse, se non sei disposta a collaborare, attirerai il pericolo su tutti noi».

«Io non metto avanti il mio interesse, lo fanno i politicanti e i capitalisti. Io metto avanti la libertà. Perché non vuoi collaborare con me? Sono io che ti faccio la stessa domanda, Ahas!»

Se ne andò offeso, lasciando me offesa.

Credo che gli mancasse la mia dipendenza da lui. Forse era perfino geloso della mia autonomia, dato che lui era rimasto agli ordini del signor Erod. Era un animo fedele. La nostra disputa lasciò in entrambi dolore e amarezza. Vorrei sapere che cosa ne è stato di lui nel corso degli anni turbolenti che seguirono.

C'era qualcosa di vero nelle sue accuse. Avevo scoperto di possedere il dono di andare dritta alla mente e al cuore di chi mi ascoltava o mi leggeva. Nessuno mi aveva avvertito che questa capacità è tanto più pericolosa quanto più è forte. Ahas aveva detto che mettevo avanti i miei interessi, ma sapevo che non era vero. Mi dedicavo con tutta me stessa al servizio della verità e della libertà. Nessuno mi aveva detto che il fine non giustifica i mezzi, dato che solo il nostro Signore, Kamye, sa come andrà a finire. Forse mia nonna me l'avrebbe potuto dire. L'Arkamye avrebbe potuto farmici riflettere sopra, ma non lo leggevo spesso, e in Città non c'erano vecchi a "cantare il Verbo" la sera. Se ci fossero stati non li avrei sentiti, coperti com'erano dal suono della mia bella voce che diffondeva la verità.

Non credo di aver fatto niente di male oltre quello che abbiamo fatto tutti, cioè richiamare l'attenzione delle autorità del Voe Deo sul fatto che l'Hame stava uscendo allo scoperto e il Partito Radicale stava crescendo, inducendoli quindi a muovere contro di noi.

La prima mossa fu quella di creare una divisione. Nei complessi aperti, sia nei reparti degli uomini che in quelli delle donne, c'erano molti appartamenti di coppie. Era un fenomeno di importanza vitale. Nessun tipo di matrimonio fra schiavi era ammesso dalla legge. Non erano autorizzati a vivere in coppia. L'unico legame riconosciuto di uno schiavo era quello con il suo padrone. Un bambino non apparteneva alla madre, ma al padrone. Ma dato che negli stessi luoghi delle proprietà vivevano i gareot, gli appartamenti per coppie erano stati tollerati o ignorati. All'improvviso fu tirata fuori la legge, coppie di schiavi furono arrestate, condannate a pagare una multa se erano dei salariati, separate e inviate in complessi gestiti dalle imprese. Ress e le altre anziane che dirigevano la nostra casa furono multate e avvisate che, qualora fossero state scoperte nuovamente altre "sistemazioni immorali", sarebbero state ritenute responsabili e inviate nei campi di lavoro. Due bambini piccoli di una coppia illegale non segnati nella lista del governo furono abbandonati, quando i loro genitori furono portati via. Keo e Ramayo li presero con sé. Diventarono guardiani del reparto delle donne, esattamente come gli orfanelli dei complessi.

Ci furono accesissime discussioni a questo proposito nelle riunioni dell'Hame e della Comunità. Alcuni sostenevano che il diritto degli schiavi a vivere in coppia e ad allevare i propri figli era una causa che il Partito Radicale avrebbe dovuto difendere. Non era una minaccia diretta all'istituto della proprietà, e poteva trovare appoggio nell'istinto naturale di molti possidenti, e specialmente delle donne, che non avevano diritto di voto ma potevano risultare valide alleate. Altri sostenevano che l'impegno per la causa della libertà doveva passare sopra gli affetti privati, e che qualsiasi questione personale doveva passare in secondo piano rispetto alla più ampia causa dell'emancipazione. Il signor Erod espresse quest'idea nel corso di una riunione. Mi alzai per rispondergli. Dissi che non poteva esserci libertà vera senza libertà sessuale, e finché le donne non erano autorizzate, finché gli uomini non erano disposti ad assumere insieme la responsabilità dei propri figli, nessuna donna, schiava o padrona, sarebbe stata libera.

«Gli uomini devono avere la responsabilità del lato pubblico della vita, del grande mondo in cui il bambino dovrà entrare, le donne del lato privato della vita, cioè dell'educazione morale e fisica del bambino. Questa è la divisione stabilita da Dio e dalla Natura,» rispose Erod.

«Allora per una donna emancipazione significa essere libera di entrare in un beza, di restare rinchiusa nel reparto delle donne?»

«Naturalmente no,» cominciò a dire, ma lo interruppi per timore della sua bocca di miele. «Allora cos'è la libertà per una donna? È diversa da quella di un uomo? La libertà non è uguale per tutti?»

Il moderatore batteva nervosamente il suo martelletto, ma un gruppo di schiave rilanciò la mia domanda. «Quando parlerà a nome nostro il Partito Radicale?» chiesero, e un'anziana gridò, «Dove sono le vostre donne, padroni che volete abolire la schiavitù? Perché non sono qui? Le tenete prigioniere nei beza?»

A forza di battere colpi il moderatore fece silenzio. Mi sentivo metà trionfante e metà sconfitta. Vidi che Erod e anche altra gente dell'Hame mi guardavano come un'aperta provocatrice. In effetti le mie parole avevano creato una frattura fra noi. Ma non c'era forse già da prima?

Noi donne tornammo in gruppo verso casa parlando per le strade, parlando a voce alta. Erano le mie strade adesso, con il loro traffico, le loro luci, i loro pericoli, la loro vita. Ero una donna della Città, una donna libera. Quella notte mi sentii una padrona. Padrona della Città. Padrona del futuro.

Le discussioni continuarono. Mi fu chiesto di parlare in molti posti. Mentre stavo uscendo da una di queste riunioni, l'hainese Esdardon Aya mi si avvicinò e mi disse in tono disinvolto, come se si stesse congratulando per il mio discorso, «Rakam, c'è rischio che ti arrestino».

Non capii. Camminando al mio fianco si allontanò dagli altri e proseguì, «Mi sono arrivate delle voci all'Ambasciata… Il governo del Voe Deo sta per cambiare le condizioni degli schiavi emancipati. Non sarete più considerati gareot. Dovrete avere un padrone-garante».

Era una pessima notizia, ma dopo averci riflettuto un po' sopra dissi, «Penso di essere in grado di trovare un padrone che garantisca per me. Il signor Boeba, magari».

«Il padrone-garante dovrà essere di gradimento del governo… Questa manovra è intesa a indebolire la Comunità sia attraverso gli schiavi sia attraverso i padroni a essa iscritti. Una manovra astuta,» disse Esdardon Aya.

«Che ne sarà di quanti fra noi non troveranno un garante gradito?»

«Sarete considerati fuggiaschi.»

Questo significava la morte, o i campi di lavoro, o la vendita all'asta. «Oh, Signore Kamye!» esclamai attaccandomi al braccio di Esdardon Aya mentre una cortina di buio mi calava sugli occhi.

Avevamo camminato per un po' lungo la via. Quando riuscii a vederci di nuovo guardai la strada, gli alti edifici della Città, lo sfolgorio delle sue luci che avevo sentito così mie.

«Ho degli amici,» disse l'Hainese continuando a passeggiare con me, «che stanno organizzando un viaggio nel regno del Bambur.»

«Cosa potrei andare a fare laggiù?» chiesi dopo un po'.

«Da lì parte una nave per Yeowe.»

«Per Yeowe!» esclamai.

«Così ho sentito dire,» disse lui, come se parlasse del percorso di un mezzo pubblico. «Fra qualche anno mi aspetto che sarà il Voe Deo stesso a incoraggiare viaggi su Yeowe. Liberandosi così di ribelli, provocatori, membri dell'Hame. Ma per far questo dovrebbero prima riconoscere Yeowe come stato di diritto, passo che non si sono ancora decisi a compiere. Per il momento, comunque, stanno autorizzando qualche scambio commerciale semi-legale con altri stati dipendenti… Un paio d'anni fa il re del Bambur ha comprato una delle vecchie navi di una delle Corporazioni, autentico cimelio del commercio con le colonie. Il re aveva intenzione di visitare i satelliti di Werel. Ma li ha trovati noiosi. Allora ha ceduto in affitto la nave a un consorzio di studiosi dell'Università del Bambur e di uomini d'affari della capitale. Così alcuni industriali del Bambur mantengono un piccolo commercio su Yeowe e alcuni scienziati dell'università vi compiono allo stesso tempo spedizioni scientifiche. Naturalmente ogni viaggio ha costi elevati, per cui trasportano quanti più scienziati possono a ogni viaggio.»

Sentivo e non sentivo quel che diceva, ma ne afferrai il senso.

«Per il momento,» proseguì lui, «è andato tutto liscio.»

Il suo tono era tranquillo, leggermente divertito, ma senza arie di superiorità.

«La Comunità è al corrente di questa nave?» chiesi.

«Alcuni membri sì, credo. E anche qualcuno dell'Hame. Ma è un segreto rischioso. Se il Voe Deo scopre che uno stato dipendente sta esportando merce di valore… In effetti, pensiamo che abbiano qualche sospetto. Perciò è una decisione da non prendere alla leggera. È allo stesso tempo rischiosa e irrevocabile. È per il rischio che comporta che ho esitato a parlartene. Ho esitato così a lungo che ora devi decidere molto in fretta. Insomma, è per stanotte, Rakam.»

Distolsi lo sguardo dalle luci della Città che impedivano di scorgere il cielo. «Voglio partire,» dissi. Pensavo a Walsu.

«Ottimo,» disse lui. All'incrocio seguente cambiò direzione, non più verso casa mia, ma verso l'Ambasciata dell'Ekumene.

Non mi sono mai chiesta perché abbia fatto questo per me. Era un uomo insondabile, dotato di insondabile potere, ma diceva sempre la verità e credo che, all'occorrenza, seguisse gli impulsi del suo cuore.

Come entrammo nel territorio dell'Ambasciata, un grande parco i cui lampioni irradiavano di luce soffusa la notte invernale, mi fermai. «I miei libri!» esclamai. Mi guardò con aria interrogativa. «Volevo portare i miei libri su Yeowe,» dissi. La voce mi si spezzò in un pianto convulso, come se in quell'unico desiderio risiedesse tutto il dolore per quanto mi lasciavo dietro. «C'è un gran bisogno di libri su Yeowe,» dissi.

Dopo una breve pausa lui mi rassicurò, «Te li farò spedire con la nostra prossima nave. Vorrei tanto farti imbarcare direttamente per Yeowe,» aggiunse abbassando la voce, «ma purtroppo l'Ekumene non può offrire passaggi a schiavi fuggiaschi…»

Mi girai, gli afferrai la mano e vi poggiai per un attimo la fronte. Credo sia stata l'unica volta in vita mia che ho fatto quel gesto di mia libera iniziativa.

Rimase esterrefatto. «Andiamo, andiamo,» disse, facendomi fretta.

L'ambasciata aveva al suo servizio delle guardie wereliane, per la maggior parte veot, uomini dell'antica casta guerriera. Uno di loro, un tipo serio, cortese, molto taciturno, mi scortò fino all'aereo per il Bambur, l'isola-reame a est del Grande Continente. Aveva con sé tutti i documenti che mi servivano. Dall'aeroporto mi condusse al Reale Osservatorio Spaziale, fatto costruire dal re per la sua astronave. Da lì senza indugio fui fatta salire a bordo della nave, che si trovava sulla sua imponente piattaforma, pronta alla partenza.

Immagino che sul davanti avessero allestito confortevoli appartamenti per il re quando compì la sua unica crociera per i satelliti. Il corpo della nave, che era appartenuta alla Corporazione delle Piantagioni Agricole, era ancora formato da grandi scomparti per il trasporto dei prodotti della colonia. Avrebbe trasportato grano da Yeowe nelle prime quattro stive, che adesso erano piene di macchinari agricoli fabbricati nel Bambur. Il quinto scomparto era carico di schiavi.

La stiva era sprovvista di sedili. Avevano steso degli strati di feltro sul pavimento. Noi ci sdraiammo sopra e fummo allacciati a delle barre di sostegno come fossimo colli di merce. C'erano circa cinquanta "scienziati". Fui l'ultima a salire a bordo e a essere allacciata. Il personale di bordo era indaffarato e parlava solo la lingua del Bambur. Non riuscii a capire le istruzioni che ci venivano impartite. Avevo un bisogno impellente di scaricarmi la vescica, ma quelli avevano gridato, «Presto! Presto!» Così rimasi distesa a soffrire mentre chiudevano le grandi porte dello scompartimento, che mi fecero pensare ai cancelli del complesso di Shomeke. Gli altri intorno a me si chiamavano l'un l'altro nella loro lingua. Un bambino piangeva. Quello sì che era un linguaggio che conoscevo. Poi partì il grande rombo sotto di noi. Gradualmente sentii il mio corpo appiattirsi contro il pavimento, come se un enorme piede cedevole mi stesse camminando sopra, finché le mie scapole sembrarono affondare nel feltro, e la lingua mi si compresse dentro la gola come per soffocarmi, e con un'intensa fitta di dolore la vescica lasciò andare l'urina.

Poi cominciammo a trovarci in assenza di peso, a levitare fra i nostri legacci. Il giù era su e il su era giù e non c'era più alcuna direzione. Sentii la gente intorno a me darsi sulla voce, chiamarsi per nome, chiedersi cosa stesse succedendo. «Stai bene?» «Io sì, tutto a posto!» Il bambino non aveva mai cessato i suoi potenti strilli acuti. Cominciai a sentire il fastidio dei miei lacci, vedendo la donna che mi stava accanto strofinarsi le braccia e il petto nei punti in cui era stata legata. Ma una voce spezzata e confusa tuonò dall'altoparlante, impartendo ordini prima in lingua del Bambur e poi del Voe Deo. «Non slacciate le cinture! Non vi muovete da dove siete! La nave è sotto attacco. La situazione è molto critica!»

Così rimasi distesa a fluttuare nella mia piccola nube di urina, ascoltando parlare gli stranieri intorno a me senza capire nulla. Mi sentivo in uno stato pietoso, ma impavida come non lo ero mai stata. Ero spensierata. Come quando uno muore. Sarebbe follia preoccuparsi di qualcosa mentre stai morendo.

La nave si muoveva in modo strano, a strattoni, e come se girasse. Molti si sentirono male. L'aria si riempì di particelle maleodoranti e liquide di vomito. Mi liberai le mani quel che bastava a tirarmi sulla faccia il foulard che portavo e usarlo come filtro, fissandone i capi sotto la testa per tenerlo fermo.

Da sotto il fazzoletto non potevo più scorgere l'ampia volta della stiva che si stendeva o sopra o sotto di me, facendomi sentire come se stessi per spiccare il volo o per cadere a precipizio. Era intriso del mio odore, il che mi dava un senso di sicurezza. Era il foulard che usavo spesso quando mi vestivo per una conferenza, un tessuto evanescente di un rosso pallido, dalla trama intessuta di fili d'argento. Quando l'avevo comprato in un mercato della Città, pagandolo con denaro da me guadagnato, avevo ripensato al foulard rosso di mia madre, donatole dalla signora Tazeu. Credo che questo le sarebbe piaciuto, anche se era di un colore meno acceso. Ora giacevo sdraiata guardando attraverso la sua nube rossastra la volta costellata dalle luci di servizio e pensavo a mia madre Yowa. Forse era stata uccisa quella mattina nel complesso. O forse era stata trascinata in un'altra tenuta come donna di piacere, anche se Ahas non era riuscito a trovare traccia di lei. Ripensavo al suo modo di tenere la testa leggermente di lato, deferente eppure attenta, e aggraziata. I suoi occhi erano intensi e luminosi, "occhi con la luce di sette lune", come dice la canzone. Ma io non le vedrò più quelle lune, pensai.

A quel punto mi sentii così strana che per consolarmi e distrarmi la mente cominciai a cantare piano piano, lì da sola nella mia tenda di mussola rossa scaldata dal mio fiato. Cantai i canti di libertà che cantavamo nell'Hame, e poi cantai le canzoni d'amore che mi aveva insegnato la signora Tazeu. Alla fine cantai Oh, oh, Yeowe!, sottovoce dapprima, poi più forte. Sentii una voce unirsi alla mia da un punto di quel mondo di tenue nebbia rossa, una voce d'uomo, poi una di donna. Tutti gli schiavi del Voe Deo conoscevano quella canzone. La cantammo insieme. La voce di un uomo del Bambur s'inserì nel canto con parole nella sua lingua, e altre voci ancora si unirono. Poi il canto si spense. Il pianto del bambino si era affievolito. L'aria era fetida.

Apprendemmo molte ore più tardi, quando finalmente dai filtri fu immessa aria pulita e ci fu detto che potevamo scioglierci i lacci, che una nave della Flotta di Difesa Spaziale aveva intercettato la rotta del mercantile appena fuori dell'atmosfera, ordinandogli di fermarsi. Il capitano aveva deciso di ignorare il segnale. La nave da guerra aveva fatto fuoco, e, benché nulla avesse colpito il mercantile, l'onda d'urto aveva danneggiato i circuiti di controllo. Il mercantile aveva proseguito e non si era visto né saputo più nulla della nave da guerra. Eravamo a circa undici giorni da Yeowe. La nave da guerra, o forse più di una, poteva aspettarci al varco nei pressi di Yeowe. La motivazione che avevano dato al mercantile per l'ordine di arresto era: "sospetto trasporto di merce di contrabbando".

Quella flotta di navi da guerra era stata costruita alcuni secoli prima per proteggere Werel da possibili attacchi da parte dell'Impero Alieno, che non è altro che l'Ekumene. Erano talmente spaventati da quella minaccia immaginaria che avevano profuso tutte le loro energie nel campo della tecnologia spaziale. La colonizzazione di Yeowe ne fu uno dei risultati. Dopo quattrocento anni trascorsi senza alcuna minaccia di attacco, il Voe Deo aveva finalmente accettato che l'Ekumene inviasse nunzi e ambasciatori. Avevano impiegato la Flotta della Difesa per trasportare truppe e armi durante la Guerra di Liberazione. E adesso la usavano come i padroni delle tenute usavano cani e gatti addestrati alla caccia: per recuperare schiavi fuggitivi.

Trovai gli altri due voedeani della stiva, e ci mettemmo accanto spostando le nostre "cinghie" in modo da poter parlare. Tutti e due erano stati portati sul Bambur dall'Hame che aveva pagato per il loro passaggio. Non mi era nemmeno passato per la mente che il viaggio dovesse esser pagato. Intuii chi aveva pagato per me.

«Non si vola su una nave spaziale per amore,» disse la donna. Era uno strano tipo. Era davvero una scienziata. Istruita in chimica ad alto livello dalla compagnia a cui era stata affittata, aveva persuaso l'Hame a mandarla su Yeowe perché era sicura che lì ci sarebbe stato bisogno e grande richiesta delle sue capacità. Era arrivata a ottenere paghe più alte di molti gareot, ma pensava di poter fare ancora meglio su Yeowe. «Diventerò ricca,» diceva.

L'uomo, ancora un ragazzo, un manovale di opificio di una città del nord, era semplicemente fuggito e aveva avuto la fortuna di imbattersi in persone che l'avrebbero salvato dalla morte o dai campi di lavoro. Aveva sedici anni, era ignorante, chiassoso, ribelle, di buon cuore. Diventò il beniamino di tutti, come un cucciolo. Io ero molto ricercata perché conoscevo la storia di Yeowe e così, con l'aiuto di un uomo che sapeva entrambe le nostre lingue, ebbi modo di raccontare a quelli del Bambur qualcosa sul luogo verso cui erano diretti: i secoli di schiavitù sotto le Corporazioni, Nadami, la Guerra, la Liberazione. Alcuni di loro erano degli affittati provenienti dalle città, poi c'era un gruppo di schiavi delle tenute, comprati a un'asta dall'Hame con denaro falso e sotto falso nome e imbarcati in fretta su questo volo. Nessuno di loro sapeva dove stava andando. Era stato appunto questo trucco a richiamare l'attenzione del Voe Deo su questo volo.

Giogo, il ragazzo dell'opificio, rimuginava senza sosta su come gli Yeowiani ci avrebbero dato il benvenuto. Si era costruito tutt'una scena, fra lo scherzo e il sogno, con bande che suonavano, discorsi e un gran cenone apparecchiato per noi. Il cenone si accresceva di nuove prelibatezze via via che i giorni passavano. Furono giorni lunghi, di fame, di fluttuazione nello spazio indistinto dello scompartimento-merci, segnati solo dall'alternarsi, ogni dodici ore, di luci più forti e più fioche, e dalla distribuzione di due pasti durante il "giorno", cibo e acqua in tubi da spremere dentro la bocca. Non pensavo molto a quel che ci aspettava. Mi trovavo nel mezzo fra due eventi. Se le navi da guerra ci avessero trovato, sarebbe stata probabilmente la morte. Se fossimo arrivati su Yeowe sarebbe stata una nuova vita. Per il momento eravamo tra color che stan sospesi.

4 – Yeowe

La nave atterrò felicemente allo spazioporto di Yeowe. Scaricarono prima le casse di macchinari, e poi l'altro carico. Uscimmo fuori barcollando e appoggiandoci gli uni agli altri, incapaci di reggere alla gravità del nuovo mondo che ci attirava verso il suo centro, accecati dalla luce di un sole molto più vicino di quello al quale eravamo abituati.

«Per di qua! Per di qua!» gridò un uomo. Provai sollievo nel sentire la mia lingua, mentre quelli del Bambur provarono inquietudine.

«Per di qua! Per di qua! Spogliatevi! Aspettate!» Al nostro primo impatto col Mondo Libero non sentivamo che ordini. Dovevamo essere decontaminati, procedura dolorosa ed estenuante. Fummo esaminati da dottori. Tutto quello che avevamo portato con noi doveva essere decontaminato, esaminato e registrato. Non ci volle molto per me. Avevo solo gli abiti che indossavo, e che portavo ormai da due settimane. Fui ben lieta di essere decontaminata. Alla fine ci ordinarono di metterci in fila in uno dei capannoni vuoti. Sulle porte si poteva ancora leggere la sigla C.P.A.Y.: Corporazione delle Piantagioni Agricole di Yeowe. A uno a uno fummo sottoposti a un colloquio d'ammissione. L'uomo che mi interrogò era basso, bianco, di mezz'età, con gli occhiali, come un qualsiasi impiegato-schiavo della Città, ma lo guardai con soggezione. Era il primo Yeowiano con cui parlavo. Mi fece delle domande da un formulario e lo compilò con le mie risposte. «Sai leggere?» «Sì.» «Capacità?» Esitai un attimo e risposi, «L'insegnamento. Posso insegnare lettura e storia». Non mi guardò neanche in faccia.

Sopportai di buon grado. Dopo tutto, gli Yeowiani non ci avevano invitato a venire. Ci ammettevano solo perché sapevano che se ci avessero respinto saremmo andati incontro a una morte atroce in una pubblica piazza. Eravamo un profittevole carico di merce per il Bambur, ma per Yeowe non eravamo che un problema. Comunque molti di noi avevano capacità che potevano tornare loro utili, e fui lieta che ci interrogassero in proposito.

Dopo aver superato il colloquio fummo separati in due gruppi: uomini e donne. Giogo mi abbracciò e si diresse dalla parte degli uomini ridendo e mandando saluti. Io stavo con le donne. Guardammo tutti gli uomini mentre venivano portati via sulla navetta diretta alla Vecchia Capitale. A quel punto la mia pazienza stava venendo meno e la mia speranza si spegneva. Pregai, «Signore Iddio Kamye, non qui, non anche qui!» La paura mi rese furiosa. Quando un uomo venne a impartirci di nuovo ordini del tipo «Su, forza, da questa parte!» gli andai incontro e gli dissi, «Chi sei tu? Dove stiamo andando? Siamo donne libere!»

Era un uomo alto con una faccia bianca e tonda e gli occhi azzurri. Abbassò lo sguardo su di me, dapprima seccato, poi sorridente. «Sì, sorellina, sei libera,» disse «ma tutti dobbiamo lavorare, no? Voi signore siete in partenza per il sud. C'è bisogno di gente nelle piantagioni di riso. Avrete il vostro lavoretto, guadagnerete i vostri soldini, vi guarderete un po' attorno, giusto? Se poi non vi piacerà laggiù, tornate pure indietro. Possiamo sempre far buon uso di graziose signore da queste parti.»

Non avevo mai sentito l'accento delle campagne di Yeowe: un brusio cantilenante, indistinto, con vocali lunghe e aperte. Non avevo mai sentito delle serve essere chiamate signore. Nessuno mi aveva mai chiamato "sorellina". Senza dubbio lui non dava alla parola "uso" il senso che gli davo io. Voleva solo essere amichevole. Io ero spiazzata e non aggiunsi altro. Ma la chimica, Tualtak, disse, «Sta' a sentire, io non sono una bracciante dei campi, sono un'esperta scienziata…»

«Oh, siete tutti scienziati,» l'interruppe lo Yeowiano col suo largo sorriso. «Forza, andiamo, signore!» Si incamminò, e noi lo seguimmo. Tualtak continuava a parlare. Lui sorrideva senza darle retta.

Fummo portate a un vagone ferroviario che attendeva su un binario morto. Il grande sole luminoso stava tramontando. Il cielo era tutto arancio e rosa, pieno di luce. Ombre lunghe e nere si disegnavano per terra. L'aria tiepida era densa di polvere e di odori. Mentre eravamo in attesa di salire sul vagone mi chinai per raccogliere da terra un sasso rossastro. Era rotondo, attraversato da una sottile venatura bianca. Era un pezzo di Yeowe. Tenevo Yeowe tra le mani. Anche quel sassolino lo conservo ancora.

Il nostro vagone fu trasferito su uno dei binari principali per essere agganciato a un treno. Quando il treno partì ci fu servita la cena: minestra da grandi pentole trasportate su rotelle attraverso il vagone, ciotole di dolce, denso riso di palude, e ananas. Un lusso su Werel, molto comune qui. Mangiammo a sazietà. Guardai le ultime luci svanire dagli alti colli ondulati che il treno stava attraversando. Spuntarono le stelle. Ma niente lune. Non le avrei più viste. In compenso vidi Werel che sorgeva a oriente. Era un astro di colore verdemare, che sembrava Yeowe visto da Werel. Ma non si può vedere Yeowe sorgere dopo il tramonto. Yeowe va dietro al sole.

Sono viva e sono qui, pensai. Anch'io vado dietro al sole. Dimenticai tutto il resto e mi addormentai, cullata dal dondolio del treno.

Il secondo giorno fummo fatte scendere dal treno in una città lungo il grande fiume Yot. Il nostro gruppo di ventitré donne fu smembrato, e dieci di noi furono portate su un carro di buoi fino a un villaggio, Hagayot. Era stato un insediamento della CPAY dedito alla coltivazione del riso di palude per il nutrimento degli schiavi. Ora era un villaggio-cooperativa, e coltivava riso di palude per il Popolo Libero. Fummo assunte come membri della cooperativa. Andammo avanti dividendo tutto con gli altri del villaggio finché non fu giorno di paga e potemmo restituire il dovuto alla cooperativa.

Era un modo ragionevole di sistemare gli immigranti privi di mezzi, di conoscenza della lingua o di qualifiche. Ma non capivo perché non avessero tenuto conto delle nostre qualifiche. Perché avevano mandato in città invece che qui gli uomini delle piantagioni del Bambur, che facevano i braccianti dei campi? Perché solo noi donne?

Non capivo perché, in un villaggio di gente libera, ci fosse un settore per gli uomini e uno per le donne, divisi da un fossato.

Non capivo perché, come scoprii ben presto, fossero gli uomini a prendere decisioni e a dare ordini. Stando così le cose, compresi comunque che avevano paura di noi donne di Werel, poco abituate a ricevere ordini dai nostri pari. E capii che dovevo subire gli ordini e non aver neanche l'aria di volerli discutere. Gli uomini del villaggio di Hagayot ci guardavano con estrema diffidenza e con la frusta pronta, proprio come fossero dei Boss. «Avrete anche dato ordini agli uomini laggiù da dove venite,» ci disse il sorvegliante il primo giorno nei campi. «Be', laggiù è laggiù e qui è qui. Qui fra noi gente libera si lavora tutti insieme. Pensate di essere delle donne-boss? Non esistono donne-boss, qui!»

C'erano delle nonne nel settore femminile, ma non erano delle autorità come lo erano state le nonne da noi. Qui, dove per tutto il primo secolo non c'erano state schiave donne, gli uomini si erano dovuti organizzare una vita propria, con un proprio sistema di potere. Quando alla fine le schiave donne furono inviate in quei microcosmi di soli schiavi maschi, rimasero escluse dal potere. Non avevano voce. Finché non se ne andarono nelle città non ebbero alcuna voce su Yeowe.

Io imparai a tacere.

Comunque la situazione non era, sia per Tualtak che per me, così grave come per le nostre otto compagne del Bambur. Eravamo i primi esseri venuti da un luogo diverso che la gente del villaggio avesse mai visto. Conoscevano una sola lingua e consideravano le donne del Bambur creature malefiche perché non parlavano "come gli umani". Le frustavano per il solo fatto di parlare fra loro nella loro lingua.

Confesserò che durante il primo anno nel Mondo Libero avevo il morale a terra, come ai tempi di Zeskra. Odiavo dover stare tutto il giorno nell'acqua bassa delle risaie. I nostri piedi erano sempre fradici, gonfi e incistati di minuscoli vermi che dovevamo estirparci di dosso tutte le sere. Era comunque un lavoro utile e non troppo gravoso per una donna in buona salute. Non era il lavoro quello che mi deprimeva.

Hagayot non era un villaggio tribale, non era così tradizionalista come certi vecchi villaggi della cui esistenza sono venuta a conoscenza più tardi. Le ragazze non subivano lo stupro rituale e una donna poteva considerarsi al sicuro nel reparto delle donne. Avrebbe "saltato il fosso" solo con un uomo di sua scelta. Ma se una donna si fosse recata in un posto qualsiasi da sola, o perfino se fosse rimasta separata dalle altre donne durante il lavoro alle risaie, avrebbero pensato che "fosse in cerca", e ogni maschio si sarebbe sentito in diritto di prenderla con la forza.

Feci amicizia con le donne del villaggio e con quelle del Bambur. Non erano più ignoranti di quanto fossi stata io sino a pochi anni prima, e alcune erano più sagaci di quanto io stessa fossi mai stata. Non c'era alcuna possibilità di amicizia con gli uomini, che si consideravano nostri padroni. Non intravedevo alcun possibile cambiamento di vita. Il mio cuore era molto triste quando, la sera, sdraiata nella capanna in mezzo alle donne e ai bambini pensavo, "È per questo che Walsu ha sacrificato la vita?"

Durante il secondo anno decisi di fare tutto quel che era in mio potere per superare la misera condizione da cui mi sentivo oppressa. Una delle donne del Bambur, debole e non troppo sveglia, frustata e picchiata sia dalle donne che dagli uomini perché parlava la sua lingua, era annegata in una delle grandi risaie. Si era distesa nell'acqua tiepida non più profonda delle sue caviglie ed era annegata. Avevo paura di quello spirito rinunciatario, di quella palude di disperazione. Decisi di usare il mio talento e di insegnare a leggere alle donne e ai bambini.

Scrissi alcune filastrocche su carta di riso e le proposi dapprima come gioco per i bambini piccoli. Alcune delle ragazzette più grandi e delle donne si incuriosirono. Alcune di loro sapevano che la gente dei paesi e delle città sapeva leggere. Lo consideravano una specie di mistero, di magia, che conferiva alla gente di città un grande potere. Io non le smentii.

Per le donne, scrissi dapprima versi e passi dell'Arkamye, tutto quel che ne riuscivo a ricordare, in modo che ce l'avessero a disposizione e non dovessero aspettare che qualcuno dei cosiddetti "sacerdoti" lo recitasse. Erano orgogliose di imparare a leggere quei versi. Poi ci fu la mia amica Seugi che mi raccontò una storia: un suo ricordo di un incontro con un feroce gatto da caccia nelle paludi, da bambina. Lo trascrissi, intitolandolo: "Il leone della palude, di Aro Seugi" e lo lessi ad alta voce alla narratrice e a un gruppo di ragazzine e di donne. Rimasero strabiliate, scoppiarono a ridere. Seugi scoppiò a piangere, toccando lo scritto che conteneva la sua voce.

Il capo del villaggio e i suoi accoliti e sorveglianti e figli onorari, tutta la gerarchia di potere del villaggio, consideravano con diffidenza e disapprovazione il mio insegnamento, senza però azzardarsi a proibirmelo. Il governo della regione di Yotebber aveva reso noto che sarebbero state istituite delle scuole nelle campagne, dove sarebbero stati mandati per metà dell'anno i ragazzi dei villaggi. Gli uomini del villaggio sapevano che i loro figli sarebbero stati avvantaggiati al loro arrivo a scuola, nel caso avessero già saputo leggere e scrivere.

Il Figlio Prescelto, un uomo alto, tranquillo, di carnagione chiara, cieco da un occhio per una ferita di guerra, alla fine mi venne a trovare. Indossava il suo manto di rappresentanza, un cappotto attillato lungo come quelli che i possidenti di Werel indossavano trecento anni prima. Mi disse che non dovevo insegnare a leggere alle femmine, ma solo ai maschi.

Gli risposi che intendevo insegnare a tutti coloro che volevano imparare, oppure a nessuno.

«Alle femmine non interessa imparare,» disse lui.

«Non è vero. Quattordici ragazze hanno chiesto di seguire le mie lezioni, di ragazzi solo otto. Pensi che le ragazze non abbiano bisogno di istruzione religiosa, Figlio Prescelto?»

Esitò un attimo. «Gli basterà conoscere la vita della Signora della Misericordia,» disse.

«Scriverò per loro la vita di Tual,» replicai all'istante. Se ne andò, salvando così la faccia.

Non fu una di quelle vittorie che fanno saltare dalla gioia ma, se non altro, potei continuare a insegnare.

Tualtak mi stava sempre addosso con la sua idea di fuggire, fuggire nella città verso cui scorreva il fiume. Era diventata magrissima, perché non riusciva a digerire il cibo pesante. Odiava il lavoro e la gente. «Va bene per te, che sei stata un cucciolo di piantagione, una polverosa, ma io ho un'altra storia: mia madre era un affittata, abitavamo in un bell'appartamento in via Haba, e io ero la più istruita che avessero mai avuto al laboratorio» e via di seguito, senza fine, con i suoi ricordi di un mondo perduto.

Qualche volta la stavo a sentire mentre parlava di fuggire. Cercavo di ricostruire, dai miei libri perduti, la mappa di Yeowe. Ricordavo il grande fiume, lo Yot, che scorreva nell'entroterra per tremila chilometri fino al Mare del Sud. Ma in che punto del suo lungo percorso ci trovavamo? Quanto eravamo distanti da Città di Yotebber che sorgeva sulla sua foce? Fra Hagayot e la città potevano esserci altri cento villaggi come il nostro. «Sei mai stata violentata?» chiesi a Tualtak.

Si offese. «Sono una noleggiata, io, non una donna di piacere,» mi ritorse contro.

Le spiegai, «Io sono stata una donna di piacere per due anni. Se dovessi subire di nuovo violenza da un uomo lo ucciderei, oppure mi ucciderei. Due donne di Werel in giro da sole da queste parti finirebbero per subire ogni sorta di violenza. Io non me la sento, Tualtak».

«Non può essere così dappertutto!» gridò, talmente disperata da farmi venire un groppo in gola dal pianto.

«Forse quando apriranno la scuola ci sarà gente della città e allora…» Non avevo altro da offrire a lei, e a me stessa, come speranza. «Forse se quest'anno il raccolto sarà buono, e noi otterremo i nostri soldi, potremo prendere il treno…»

Era questa, in effetti, la nostra più ardente speranza. Il problema era come ottenere il denaro dal capo e dai suoi accoliti. Tenevano gli introiti della cooperativa in un casotto di pietra che chiamavano la Banca di Hagayot, e solo loro toccavano il denaro. Ciascuno di noi aveva un conto aperto, che veniva accuratamente aggiornato, col vecchio Bancario-Capo che mostrava i rendiconti scrivendoli sulla terra quando qualcuno glieli chiedeva. Ma le donne e i bambini non potevano ritirare il denaro dai propri conti. Tutto quello che potevamo ottenere era una specie di buono, delle tavolette di creta col sigillo del Bancario-Capo, con le quali potevamo effettuare scambi fra noi, comprare oggetti fabbricati dalla gente del villaggio, vestiti, sandali, attrezzi, collane di perline, birra di riso. Il denaro vero era al sicuro, almeno così ci dicevano, nella banca. Ripensai a quel vecchio schiavo zoppo di Shomeke, che aveva ballato e cantato, "Denaro in banca, o Signore! Denaro in banca!"

Già prima del nostro arrivo, le donne avevano mal tollerato questo sistema. Adesso eravamo in nove di più a essere intolleranti.

Una sera chiesi alla mia amica Seugi, i cui capelli erano bianchi come la sua pelle, «Seugi, hai mai sentito parlare di quel che è accaduto in un luogo chiamato Nadami?»

«Sì,» rispose. «Le donne aprirono la porta. Tutte le donne si ribellarono e fu allora che anche gli uomini si ribellarono contro i Boss. Ma avevano bisogno di armi. E una donna corse nella notte, rubò le chiavi dalla cassa dove le teneva il padrone, aprì la porta del deposito blindato dove i Boss custodivano armi e munizioni e la tenne aperta col peso del proprio corpo in modo che gli schiavi potessero impadronirsi delle armi. Così fecero fuori le Corporazioni e resero Nadami libera.»

«Anche su Werel si racconta questa storia,» dissi. «Anche laggiù si parla di Nadami, dove le donne dettero inizio alla Liberazione. Lo raccontano anche gli uomini. Ma lo raccontano gli uomini di qui? Ne sanno niente?»

Seugi e le altre donne fecero un cenno di assenso.

«Se è stata una donna a liberare gli uomini di Nadami,» dissi, «forse le donne di Hagayot possono liberare i propri denari.»

Seugi rise, poi si rivolse a un gruppo di donne, «Venite a sentire Rakam! Venite a sentire la novità!»

Dopo molte discussioni, durate giorni e settimane, fu deciso per una delegazione di donne, trenta di noi. Attraversammo il ponte sul fossato che ci divideva dal settore degli uomini e chiedemmo di vedere il capo. Il nostro principale argomento di trattativa era il senso di colpa. Furono Seugi e le altre donne del villaggio a condurre la trattativa, perché sapevano fino a che punto potevano spingersi con gli uomini per colpevolizzarli senza suscitare ira e ritorsioni. Standole ad ascoltare udii onore e orgoglio scontrarsi alla pari contro onore e orgoglio. Per la prima volta da quando ero arrivata su Yeowe sentii di appartenere a quel popolo, sentii che il loro onore, che il loro orgoglio erano anche i miei.

Un mutamento non avviene di colpo in un villaggio. Ma al tempo del raccolto seguente le donne di Hagayot poterono ritirare dalla banca la propria parte di guadagno in contanti.

«Adesso occupiamoci del voto,» dissi a Seugi, dato che non c'erano votazioni segrete nel villaggio. Quando aveva luogo un'elezione regionale, perfino per l'universale Approvazione della Costituzione, i capi censivano gli uomini e compilavano le schede. Le donne non le censivano nemmeno. Ottenevano così i risultati già decisi in precedenza.

Non rimasi abbastanza a lungo ad Hagayot per contribuire al successivo cambiamento. Tualtak stava davvero male, resa quasi folle dal desiderio di fuggire dalle paludi verso la città. Lo desideravo anch'io. Così ritirammo le nostre spettanze e Seugi e altre donne ci accompagnarono su un carro trainato da buoi lungo il pontile che attraversava la palude, fino alla stazione-merci. Lì alzammo la bandierina per segnalare al treno in arrivo di fermarsi per caricare passeggeri.

Arrivò dopo qualche ora, un lungo convoglio di vagoni-merci carichi di riso di palude diretto ai mulini di Città di Yotebber. Viaggiammo nel vagone riservato ai ferrovieri e pochi altri viaggiatori, tutti uomini dei villaggi. Portavo un grosso coltello alla cintura, ma nessuno degli uomini si comportò in maniera sconveniente. Fuori dai loro complessi erano incerti e timorosi. Stavo seduta sulla mia cuccetta nel vagone guardando scorrere le vaste paludi selvagge e rigogliose e i villaggi sulle rive del grande fiume e avrei voluto che il treno non si fermasse mai.

Tualtak stava invece distesa nella cuccetta sotto la mia, tossiva ed era agitata. Quando arrivammo a Città di Yotebber era così debilitata che pensai bene di portarla da un dottore. Uno dei ferrovieri, molto gentile, ci indicò come fare ad arrivare all'ospedale coi mezzi pubblici. Mentre ci facevamo sballottare per le vie calde e affollate della città sul mezzo affollato, io mi sentii nonostante tutto felice. Era più forte di me.

All'ospedale ci chiesero i nostri documenti di cittadinanza.

Non sapevo neanche cosa volesse dire. In seguito scoprii che i nostri erano stati consegnati ai capi di Hagayot, che li avevano trattenuti come trattenevano qualsiasi documento delle donne "appartenenti a loro". In quel momento non trovai di meglio che alzare gli occhi e dire, «Non so niente di documenti di cittadinanza».

Sentii una delle donne alle scrivanie dire a un'altra, «Santo cielo, si può essere più polverose di così?»

Mi resi conto delle nostre apparenze, del nostro aspetto sudicio e misero. Sapevo di aver l'aria ignorante e stupida. Ma quando udii quella parola, "polverosa", il mio onore e il mio orgoglio si risvegliarono. Misi mano al mio bagaglio e ne estrassi il mio documento di libertà, quel vecchio foglio che portava la calligrafia di Erod, tutto sgualcito e spiegazzato, tutto polveroso.

«Questo è il mio documento di cittadinanza,» dissi con voce decisa, facendo sobbalzare e girare quelle donne. «È intriso del sangue di mia madre e di quello della madre di mia madre. La mia amica qui è malata. Ha bisogno di un dottore. Portateci da un dottore!»

Una donna piccola e minuta avanzò dal corridoio. «Accomodatevi da questa parte,» disse. Una delle donne alle scrivanie cominciò a protestare. La piccoletta la mise a tacere con un'occhiata.

La seguimmo in un ambulatorio.

«Sono la dottoressa Yeron,» cominciò, poi si corresse. «Lavoro qui come infermiera,» precisò, «ma sono un medico. E voi… voi venite dal Vecchio Mondo? Da Werel? Siediti qui, bambina, e levati la camicia. Da quanto tempo siete qui?»

Tempo un quarto d'ora aveva formulato la diagnosi di Tualtak e le aveva procurato un letto in un reparto, a scopo di riposo e osservazione. Era riuscita a sapere tutto di noi, e mi aveva spedito via con un biglietto di raccomandazione per un suo amico che mi avrebbe aiutato a trovare casa e lavoro.

«L'insegnamento!» aveva esclamato la dottoressa Yeron. «Un'insegnante! Amica mia, sei come la pioggia nel deserto!»

In effetti la prima scuola che contattai era disposta ad assumermi subito, per insegnare qualsiasi materia a mia scelta. Provenendo da un paese capitalista, feci altri giri per altre scuole per vedere di ottenere una paga migliore. Ma tornai alla prima. Mi erano piaciute le persone.

Prima della Guerra di Liberazione, le varie città di Yotebber, abitate da schiavi di proprietà delle Corporazioni che davano in affitto la propria libertà, avevano avuto per sé scuole, ospedali e svariati corsi di qualificazione. Nella Vecchia Capitale esisteva perfino un'università degli schiavi. Le Corporazioni, naturalmente, avevano controllato tutta l'informazione che arrivava a tali istituzioni, tenuto d'occhio e censurato ogni insegnamento e ogni scritto, considerando il tutto in un'ottica mirata al proprio massimo profitto. Ma all'interno di questa struttura limitante gli schiavi avevano avuto libertà di accesso a ogni informazione che potesse loro interessare, e gli Yeowiani di città avevano attribuito grande valore all'istruzione. Durante la lunga guerra, durata trent'anni, tutto questo sistema di concentrazione e passaggio di sapere si era disgregato. Un'intera generazione era cresciuta senza conoscere nient'altro che combattimenti e rifugi, fame e malattie. Il direttore della mia scuola mi disse, «I nostri figli sono cresciuti analfabeti, ignoranti. C'è da meravigliarsi che i capetti delle piantagioni si siano impadroniti del potere dopo la cacciata dei Boss delle Corporazioni? Chi mai avrebbe potuto fermarli?»

Quegli uomini e quelle donne credevano fermamente che solo l'istruzione potesse condurre alla libertà. Continuavano a combattere la propria Guerra di Liberazione.

Città di Yotebber era una megalopoli povera, assolata, sparpagliata, con vie larghe, edifici bassi, grandi alberi ombrosi. Il traffico si svolgeva essenzialmente a piedi, con lo scampanellio delle biciclette e i clacson dei mezzi pubblici che si facevano largo in mezzo alla lenta folla dei pedoni. Chilometri e chilometri di capanne e baracche si estendevano attraverso la pianura alluvionale di là dagli argini del fiume, dove la terra era fertile per le coltivazioni. Il centro della città sorgeva su un basso colle. Da lì fabbriche e linee ferroviarie sì estendevano tutto intorno. Il cuore della città era un po' come quello della capitale del Voe Deo, solo più antico, più povero, più raffinato. Invece che nei grandi negozi dei possidenti, la gente comprava e vendeva di tutto sulle bancarelle dei mercati all'aperto. L'aria era leggera, qui nel sud, una tiepida, lieve brezza marina, la luce del sole arrivava filtrata da una nebbia leggera. Mi sentivo felice. Per grazia del Signore, ho una mente capace di passare oltre alle sventure, e mi sentivo felice a Città di Yotebber.

Tualtak si rimise in salute e trovò un buon lavoro come chimica in una fabbrica. La vedevo di rado, dato che la nostra amicizia era nata da necessità e non da scelta. Ogni volta che la incontravo mi parlava di via Haba, e del laboratorio su Werel, e si lamentava del lavoro e della gente di qui.

La dottoressa Yeron non mi aveva dimenticato. Mi aveva scritto un biglietto invitandomi ad andarla a trovare, cosa che feci. Dopodiché, appena mi fui sistemata, mi chiese di recarmi con lei a un incontro di un'associazione educativa. Si trattava, scoprii poi, di un gruppo di democratici, in gran parte insegnanti, impegnati a opporsi al potere autocratico dei Capi tribali e regionali sancito dalla nuova Costituzione, e a demolire quella che chiamavano "mentalità da schiavi", cioè la rigida gerarchia misogina contro cui io stessa mi ero scontrata ad Hagayot. La mia esperienza fu loro utile, in quanto era tutta gente di città che aveva incontrato la mentalità da schiavi solo per averla subita da parte delle autorità. Le donne del gruppo erano le più agguerrite. Avevano perso quasi tutto con la Liberazione, e adesso era rimasto loro ben poco da perdere. In linea di massima gli uomini erano per le riforme graduali, le donne pronte per la rivoluzione. In quanto Wereliana e ignara della situazione politica di Yeowe, ascoltai senza parlare. Era difficile per me non parlare. Parlare mi piace, e sentivo di aver molto da dire. Ma frenai la lingua e stetti a sentire. Erano persone che valeva la pena di ascoltare.

L'ignoranza difende strenuamente se stessa, e l'analfabetismo, come ben sapevo, può esprimere sagacia. Anche se il Capo, il Presidente della Regione di Yotebber, eletto con elezioni truccate, poteva non capire le nostre contromanovre sui programmi scolastici, non sprecava molta energia nel controllo delle scuole e mandava i suoi ispettori a interferire sui nostri programmi e a censurare i nostri libri. Ma quello a cui dava importanza era il fatto di avere il controllo delle reti, come lo avevano già avuto le Corporazioni. I notiziari, i programmi informativi, i fantocci della rete neosensoriale, tutto e tutti erano attaccati ai suoi fili. Contro un tale apparato che danno avrebbe potuto recare un gruppo di insegnanti? Genitori privi di istruzione avevano figli che si inserivano in rete per ascoltare, vedere, provare quello che il Capo voleva che si imprimessero nel cervello: che la libertà è obbedienza ai Capi, che la giustizia è violenza, che la virilità è dominazione. Contro l'imposizione di tali verità nella vita quotidiana attraverso l'iperreale esperienza della rete sensoriale, a cosa potevano servire le parole?

«L'alfabetizzazione è irrilevante,» asserì tristemente una del nostro gruppo. «I Capi hanno effettuato direttamente sulle nostre teste un balzo a una tecnologia post-letteraria.»

Ci pensai su, infastidita dal preziosismo di vocaboli quali "irrilevante" e "post-letterario", perché temevo che avesse ragione.

All'incontro seguente del nostro gruppo, con mia grande sorpresa, intervenne un Alieno: il Vice-Nunzio dell'Ekumene. Si riteneva che fosse il fiore all'occhiello del nostro Capo, inviato dalla Vecchia Capitale con l'apparente missione di sostenere la presa di posizione del Capo contro il Partito Mondiale, che era ancora forte quaggiù, e ancora in fermento perché Yeowe tenesse alla larga tutti gli stranieri. Avevo sentito dire vagamente che questo personaggio era da quelle parti, ma non mi sarei mai aspettata di incontrarlo a una riunione di insegnanti sovversivi.

Era un uomo piccolino, di carnagione rosso-bruna, con del bianco agli angoli degli occhi, bello, comunque, se si riusciva a ignorare questo dettaglio. Era seduto di fronte a me, perfettamente immobile, come uno che ha l'abitudine di sedere immobile, e ascoltava senza parlare, come uno che ha l'abitudine di ascoltare. Al termine della riunione si guardò attorno e i suoi strani occhi si soffermarono su di me.

«Radosse Rakam?» chiese.

Annuii, stordita.

«Sono Yehedarhed Havzhiva,» si presentò. «Ho dei libri per lei da parte di Vecchia Musica.» Lo guardai fisso. «Libri?»

«Di Vecchia Musica,» precisò, «cioè Esdardon Aya, di Werel.»

«I miei libri?» domandai.

Sorrise. Aveva un sorriso aperto e pronto.

«Oh! Dove?» esclamai.

«Sono a casa mia. Li possiamo prendere stasera, se vuole. Ho una macchina.» C'era qualcosa di ironico e leggero nel modo in cui lo disse, come se fosse uno a cui sembrava indebito, anche se comodo, avere a disposizione una macchina.

Arrivò la dottoressa Yeron. «L'hai trovata, dunque!» disse al Vice-Nunzio. Lui la guardò con un viso così radioso che pensai: questi due sono amanti. Nonostante che lei fosse molto più vecchia di lui, non avrei trovato niente di strano all'idea. La dottoressa Yeron era una donna dal fascino magnetico. Era strano per me, comunque, pensare a una cosa del genere, perché non faceva parte della mia mentalità pormi domande sulle relazioni sessuali fra le persone. Non m'interessava proprio.

Lui posò la mano sul braccio di lei mentre parlavano, e osservai con inconsueto acume come il suo tocco fosse delicato, quasi esitante, eppure fiducioso. Questo è amore, pensai. Però si lasciarono, notai, senza quello sguardo d'intima intesa che in genere si scambiano gli amanti.

Viaggiammo insieme sulla sua macchina elettrica fornita dal governo, con le sue silenziose guardie del corpo sedute sui sedili anteriori. Parlammo di Esdardon Aya, il cui nome, come mi spiegò, significa Vecchia Musica. Gli narrai di come Esdardon Aya mi avesse salvato la vita facendomi arrivare qui. Ascoltava in maniera tale da mettere a proprio agio l'interlocutore. Gli confidai, «Ero angosciata all'idea di essere stata costretta ad abbandonare i miei libri, ci ho pensato spesso, mi sono mancati, come se fossero una famiglia per me. Forse sono un po' matta a provare un sentimento del genere».

«Perché matta?» chiese. Aveva un accento straniero, ma con la cadenza tipica di Yeowe, e la sua voce era bella, profonda e calda.

Cercai di spiegargli tutto in una volta. «Ecco, erano così importanti per me perché ero analfabeta quando sono arrivata nella Città, e sono stati i libri che mi hanno messo in mano la libertà, che mi hanno messo in mano il mondo, e gli altri mondi. Ma adesso, qui, mi sto rendendo conto di quanto le trasmissioni delle reti multi-dimensionali e sensoriali siano più significative per la gente, perché gli fanno vivere gli eventi del presente. Forse essere attaccati ai libri significa essere attaccati al passato. Gli Yeowiani devono guardare verso il futuro. E non cambieremo mai la mentalità delle persone con delle semplici parole.»

Mi ascoltava attento, come aveva fatto alla riunione, poi mi rispose con ponderazione. «Ma le parole sono un veicolo essenziale del pensiero. E i libri conservano la verità delle parole… Io stesso ho cominciato a leggere da adulto.»

«Davvero?»

«Sapevo come fare, ma non ne avevo la possibilità. Vivevo in un villaggio. I paesi devono avere dei libri!» affermò con decisione, come se avesse già riflettuto sull'argomento. «Quando non ce li hanno, ti tocca ricominciare tutto da capo a ogni nuova generazione. È uno spreco. Bisogna salvaguardare le parole.»

Quando arrivammo a casa sua, in cima alla parte vecchia della città, vidi quattro casse di libri nell'ingresso.

«Non possono essere tutti miei!» esclamai.

«Vecchia Musica ha detto che erano suoi,» affermò il signor Yehedarhed col suo pronto sorriso, lanciandomi un'occhiata veloce. È molto più facile vedere dove si posa lo sguardo di un Alieno che non quello di uno dei nostri. Con i nostri occhi, eccezion fatta per quei pochi che li hanno azzurri, bisogna stare molto vicini per cogliere il moto della pupilla scura nell'occhio scuro.

«Sono così tanti che non so neanche dove metterli,» esclamai sbalordita, rendendomi conto di come quello strano personaggio, Vecchia Musica, mi avesse aiutato ancora una volta nel mio cammino verso la libertà.

«Forse nella sua scuola, nella biblioteca della sua scuola?»

Era una buona idea, ma immaginai subito come i controllori del Capo li avrebbero maneggiati con malagrazia e forse confiscati. Quando lo feci presente, il Vice-Nunzio propose, «E se li offrissi io come dono da parte dell'Ambasciata? Credo che la cosa metterebbe in difficoltà i censori!»

«Oh!» esclamai, poi non mi trattenni più, «Perché è così premuroso? Lui prima, e lei adesso… anche lei è hainese?»

«Sì,» disse, eludendo la mia prima domanda. «Lo sono stato. Adesso vorrei considerarmi yeowiano.»

Mi chiese di sedermi a bere un bicchiere di vino con lui prima che la sua scorta mi riaccompagnasse a casa. Era disponibile e amichevole, per quanto riservato. Mi accorsi che era stato ferito. C'erano cicatrici recenti sul suo viso, e parte della sua capigliatura non era ricresciuta in un punto in cui era stato colpito al capo. Quando mi chiese di che genere fossero i miei libri, risposi, «Di storia».

Il suo sorriso si aprì, lentamente, questa volta. Non disse niente ma alzò il bicchiere verso di me. Sollevai il mio, imitando il suo gesto, e bevemmo.

Il giorno seguente provvide a far recapitare i libri alla scuola. Nel tirarli fuori e disporli sugli scaffali ci rendemmo conto di aver ricevuto un tesoro immenso. «Non esiste niente del genere all'università,» disse uno degli insegnanti, che vi aveva studiato per un anno.

C'erano volumi di storia e di antropologia riguardanti Werel e i mondi dell'Ekumene, saggi di filosofia e di politica di autori wereliani e di altri mondi, sommarii di letteratura, poesia e racconti, enciclopedie, libri di scienza, atlanti, dizionari. In un angolo di una delle casse c'erano i miei pochi libri, il mio tesoro personale, compresa quella prima, scarna Storia di Yeowe, stampata presso l'Università di Yeowe nell'Anno Primo della Libertà. Quasi tutti i miei libri li lasciai alla biblioteca, ma quello e pochi altri me li portai a casa, per un senso di affetto e di sicurezza.

Non molto tempo prima avevo trovato un altro oggetto di affetto e di sicurezza. Un ragazzo della scuola mi aveva portato in regalo un gattino maculato, appena svezzato. Il ragazzo me l'aveva offerto con tale amorevole orgoglio che non avevo potuto rifiutare. Quando cercai di rifilarlo a un'altra insegnante, tutti mi presero in giro. «Sei tu l'eletta, Rakam!» mi dissero. Così, controvoglia, mi portai la creaturina a casa, timorosa della sua fragilità e minutezza, e provandone quasi un certo disgusto. Le donne del beza a Zeskra avevano tenuto delle bestiole, gatti maculati e cani volpini, animaletti viziati e nutriti meglio di quanto non lo fossimo noi. Mi era stato imposto il nome di una di quelle bestiole, un tempo.

Spaventai il gattino estraendolo dalla sua cesta, tanto che mi morse il pollice fino all'osso. Era minuscolo e fragile ma aveva buoni denti. Cominciai a guardarlo con più rispetto.

Quella notte lo misi a dormire nella sua cesta, ma si arrampicò sul mio letto e non mi si spostò dalla faccia finché non gli permisi di entrare sotto le coperte. Lì dormì perfettamente immobile tutta la notte. La mattina dopo mi svegliò saltellando sopra di me, intento a cacciare le particelle di polvere in un fascio di luce. Mi fece ridere nello svegliarmi, il che è una sensazione piacevole. Mi resi conto di non aver mai riso molto, e di averne una gran voglia.

Il gattino era tutto nero, dato che le sue pezzature si vedevano solo in controluce, nero su nero. Lo chiamai Possidente. Era piacevole tornare a casa la sera e trovare ad attendermi il mio piccolo Possidente.

Durante la successiva metà dell'anno fummo impegnate a organizzare la grande dimostrazione delle donne. Ci furono molte riunioni, ad alcune delle quali incontrai di nuovo il Vice-Nunzio, e così cominciai a guardare sempre se c'era. Mi piaceva osservarlo mentre ascoltava le nostre discussioni. Alcuni sostenevano che la dimostrazione non doveva essere limitata ai torti subiti dalle donne e ai loro diritti, perché l'uguaglianza è un diritto di tutti. Altri sostenevano che non doveva dipendere in alcun modo dal sostegno di stranieri, ma restare un'iniziativa strettamente yeowiana. Il signor Yehedarhed li stava ad ascoltare, ma io mi risentii. «Io sono una straniera,» affermai. «Questo significa che non conto nulla per voi? È un modo di ragionare da padroni, come se voi foste superiori agii altri popoli!» La dottoressa Yeron soggiunse, «Crederò all'uguaglianza come diritto di tutti il giorno in cui lo vedrò scritto sulla Costituzione di Yeowe». La nostra Costituzione, infatti, ratificata dal suffragio universale durante il mio soggiorno ad Hagayot, si riferiva solo ai cittadini maschi. Lo scopo della dimostrazione fu esplicitato alla fine in una richiesta di emendamento della Costituzione che comprendesse nella definizione di "cittadino" anche le donne, che definisse modalità di voto segreto, garantisse libertà di parola, di stampa e di assemblea, e istruzione gratuita per tutti i bambini.

Mi distesi sui binari insieme ad altre settantamila donne, in quella calda giornata. Cantai con loro. Ascoltai il suono formato da tante voci di donne che cantavano insieme, un suono così intenso, così profondo.

Avevo cominciato a parlare di nuovo in pubblico mentre stavamo reclutando donne per la grande manifestazione. Era un dono che avevo, e ne facevo uso. Qualche volta bande di ragazzi o di uomini ignoranti venivano a provocarmi e a minacciarmi gridandomi, «Donna-Boss, Donna-Padrona, sesso nera, tornatene da dove sei venuta!» Una volta mentre mi gridavano quel "tornatene da dove sei venuta" mi chinai sul microfono e dissi, «Non posso tornare. C'è una canzone che cantavamo spesso nella piantagione in cui ero schiava,» e cantai,

Oh, oh, Yeowe!

Nessuno mai più tornerà!

Quella canzone li mise a tacere per un po'. Lo sentirono anche loro, quell'atroce dolore, quel desiderio cocente.

Dopo la grande manifestazione l'attività frenetica non venne mai meno, ma c'erano periodi in cui veniva meno l'energia, in cui "il movimento non si muoveva", come scherzava la dottoressa Yeron. Durante uno di questi periodi andai da lei a proporle di metter su una tipografia per stampare libri. Era da tempo uno dei miei sogni, nato quel giorno ad Hagayot in cui Seugi aveva pianto toccando le sue parole.

«Le parole volano via,» dissi. «Tutte le parole o le immagini nella rete volano via, e chiunque può alterarne la memoria, ma i libri restano. I libri durano. Sono il corpo della storia, come dice il signor Yehedarhed.» «Ci sono gli ispettori,» obiettò la dottoressa Yeron. «Finché non otterremo l'emendamento della Costituzione sulla libertà di stampa, i Capi non permetteranno a nessuno di pubblicare qualcosa che non sia stato scritto sotto loro dettatura.»

Non volevo rinunciare all'idea. Sapevo che nella regione di Yotebber non avremmo potuto pubblicare niente di politico, ma feci presente che avremmo potuto pubblicare racconti e poesie di donne della regione. Altri sostennero che sarebbe stato uno spreco di tempo. Discutemmo a lungo sull'argomento sviscerandone ogni aspetto. Il signor Yehedarhed rientrò da un viaggio all'ambasciata, lassù a nord, nella Vecchia Capitale. Stette ad ascoltare le nostre discussioni, ma non si pronunciò, il che mi deluse. Avevo contato sul suo appoggio al mio progetto.

Un giorno stavo rientrando da scuola nel mio appartamentino che si trovava in un grande edificio, vecchio e rumoroso, non lontano dal lungofiume. Mi piaceva quel posto perché le mie finestre si aprivano fra i rami degli alberi, e attraverso gli alberi potevo scorgere il fiume, largo sei chilometri in quel punto, che scorreva tranquillo in mezzo a strisce di rena, cespugli acquatici e isolotti coperti di salici nella stagione secca, e sfiorava il limitare degli argini nella stagione umida quando era gonfiato dai temporali. Quel giorno, mentre stavo per arrivare a casa, incontrai il signor Yehedarhed con due delle sue guardie del corpo dalle facce scorbutiche che lo seguivano come di consueto. Mi salutò e mi chiese se potevamo parlare. Imbarazzata, non trovai di meglio che invitarlo a salire di sopra da me.

Le sue guardie rimasero nell'atrio. Io avevo una sola stanza spaziosa al terzo piano. Mi sedetti sul letto e il Vice-Nunzio si accomodò su una sedia. Possidente gli si strofinò ripetutamente contro le gambe, ronfando.

Avevo spesso osservato che il Vice-Nunzio si divertiva a deludere le aspettative del Capo e dei suoi accoliti che avevano una grande passione per la pompa, le parate di macchine, l'esibizione di decorazioni e alte uniformi. Lui e le sue guardie del corpo andavano in giro per tutta la città e per tutta la regione di Yotebber sulla sua macchina governativa oppure a piedi. Alla gente lui piaceva per questo. Sapevano, come avevo saputo anch'io, che era stato assalito, picchiato e lasciato esanime per strada da un commando del Partito Mondiale il suo primo giorno qui, mentre passeggiava da solo. I cittadini apprezzavano il suo coraggio e la sua disponibilità a intrattenersi con chiunque e dovunque. Lo avevano adottato. Noi del Movimento di Liberazione lo consideravamo il "nostro Nunzio", ma lo era in realtà degli altri, e anche del Capo. Il Capo poteva essere forse infastidito dalla sua popolarità, ma ne approfittava.

«Così ha intenzione di fondare una casa editrice,» esordì, carezzando Possidente che si era sdraiato zampe all'aria.

«La dottoressa Yeron dice che è del tutto inutile finché non avremo ottenuto gli Emendamenti.»

«Esiste una stampa qui su Yeowe che non è direttamente controllata dal governo,» continuò il signor Yehedarhed accarezzando il pancino di Possidente.

«Stia attento, che la morde,» dissi. «E quale sarebbe?»

«Quella dell'università. Eccoci!» esclamò il signor Yehedarhed guardandosi il pollice. Presentai le mie scuse. Mi domandò se ero sicura che Possidente fosse maschio. Risposi che così mi era stato detto, ma che non mi ero mai presa la briga di controllare. «Ho l'impressione che il suo Possidente sia in realtà una signora,» disse il signor Yehedarhed in un tono tale da farmi sbellicare dalle risate.

Rise anche lui con me, si succhiò il sangue dal pollice e proseguì. «L'università non ha mai contato molto. Era un espediente delle Corporazioni per dare agli schiavi l'illusione di accedere agli studi superiori. Durante gli ultimi anni della guerra era stata chiusa. Dal Giorno della Liberazione è stata riaperta ed è andata avanti alla bell'e meglio senza che nessuno ci facesse molto caso. Le facoltà sono per lo più antiquate. È tornata in auge dopo la guerra. Il Governo Nazionale le dà un contributo per poter dire di avere un'università di Yeowe, ma non le dà importanza in quanto non ha alcun prestigio. E i suoi membri non brillano certo per la genialità,» Lo disse non con tono di disprezzo, ma semplicemente descrittivo. «Però dispongono di una tipografia.»

«Lo so,» dissi. Tesi una mano verso il mio vecchio libro e glielo mostrai.

Lo sfogliò per qualche minuto. Il suo viso assunse un'espressione quasi di tenerezza. Non potevo fare a meno di guardarlo. Era come guardare una donna con un bambino, un gioco costante e mutevole di richiami e di risposte.

«Pieno di propaganda, di errori e di speranza,» decretò alla fine, e anche la sua voce tradiva tenerezza. «Credo che partendo da qui si possa andare oltre. Non è d'accordo? Non manca che un editore. E degli autori.»

«Ci sono gli ispettori,» feci presente, imitando la dottoressa Yeron.

«La libertà accademica è un campo in cui l'Ekumene può facilmente esercitare la sua influenza,» disse, «per il fatto che invitiamo persone a frequentare le Scuole Ecumeniche su Hain e su Ve. È ovvio che intenderemmo invitare anche laureati dell'Università di Yeowe. Ma naturalmente, se il loro livello di istruzione è troppo basso a causa della mancanza di libri, di informazione…»

«Signor Yehedarhed, ha intenzione di sovvertire i programmi del governo?» La domanda mi era scappata senza riflettere.

Lui non rise. Esitò prima di rispondere. «Non saprei,» disse. «Finora ho avuto l'appoggio dell'ambasciatore. Forse subiremo entrambi dei richiami. O saremo licenziati. Quello che vorrei è…»

I suoi strani occhi erano di nuovo puntati su di me. Li abbassò sul libro che teneva ancora in mano. «Quello che vorrei è diventare cittadino di Yeowe,» disse. «Ma la mia utilità per Yeowe e per il Movimento di Liberazione risiede nella mia posizione presso l'Ekumene. Quindi continuerò a usarla, o ad abusarne, finché non mi obbligheranno a fermarmi.»

Quando se ne andò riflettei su quel che mi aveva appena chiesto di fare. Entrare all'università come insegnante di storia, e una volta entrata offrirmi volontaria per la gestione della tipografia. Mi sembrava così assurdo, per una donna col mio passato e della mia scarsa cultura, che pensai di aver capito male. Quando mi confermò cheavevo capito benissimo, pensai che doveva aver equivocato lui sulla mia persona e sulle mie capacità. Dopo averne discusso per un po' andò via, evidentemente con la sensazione di avermi messo a disagio, e forse sentendosi a disagio lui stesso, nonostante che in effetti avessimo riso molto e io non mi fossi sentita affatto a disagio, ma solo in una situazione un po' irreale.

Cercai di riflettere su quel che mi aveva chiesto di fare, un balzo in avanti così ai di là delle mie forze. Mi riusciva difficile anche solo pensarci. Era come qualcosa che mi pendeva sul capo, quest'ardua scelta che dovevo compiere, questo futuro che non riuscivo neanche a immaginare. Il mio pensiero era invece concentrato su di lui, su Yehedarhed Havzhiva. Lo rivedevo seduto sulla mia vecchia sedia, chino ad accarezzare Possidente. Nell'atto di succhiarsi il sangue dal pollice. Di ridere. Di guardarmi coi suoi occhi dagli angoli bianchi. Vedevo il suo viso rosso-bruno e le sue mani rosso-brune, del colore della terracotta. Riascoltavo mentalmente la sua voce sommessa.

Presi il gattino, ormai abbastanza grandicello, e lo esaminai tra le zampe posteriori. Non c'era traccia di attributi maschili. Il suo corpicino serico mi si divincolava tra le mani. Pensai a lui mentre mi diceva, "Il suo Possidente è una signora" e mi venne di nuovo da ridere, e da piangere. Carezzai la gattina e la misi giù, e lei mi si accoccolò accanto, mettendosi a leccarsi la schiena. «Oh, povera piccola signora!» dissi. Senza sapere a chi mi riferivo. Alla gattina, o alla signora Tazeu, oppure a me stessa.

Mi aveva detto di riflettere sulla sua proposta tutto il tempo necessario, tutto il tempo che volevo. Ma io non ci avevo riflettuto affatto quando, non più tardi del giorno dopo, me lo trovai lì che mi aspettava all'uscita della scuola. «Ha voglia di fare un giro con me sul lungofiume?» propose.

Mi guardai intorno.

«Sono là,» disse, indicando le sue guardie del corpo dallo sguardo glaciale. «Ovunque io vada, loro sono là, fra i tre e i cinque metri di distanza. Passeggiare con me può essere noioso, ma non rischioso. La mia virtù è sempre sotto controllo.»

Scendemmo lungo le strade verso l'argine e da lì proseguimmo nell'obliqua luce del crepuscolo, calda e color rosa e oro, negli effluvi del fiume, della terra bagnata, delle erbe acquatiche. Le due donne armate ci seguivano a circa quattro metri di distanza.

«Se decide di andare all'università,» disse dopo un lungo silenzio, «io là le sarò costantemente vicino.»

«Io non avrei ancora…» farfugliai.

«Se resterà qui, le sarò costantemente vicino qui,» disse. «Naturalmente se lei è d'accordo.»

Non dissi nulla. Mi guardò senza voltare la testa. «Mi piace riuscire a scorgere la direzione del suo sguardo,» mi scappò detto senza intenzione.

«Mi piace non riuscire a scorgere quella del suo,» disse lui guardandomi dritto negli occhi.

Proseguimmo la passeggiata. Un airone si levò in volo da un isolotto erboso e le sue grandi ali sfiorarono in volo il pelo dell'acqua. Andavamo verso sud, come il corso del fiume. Il cielo a occidente era pieno di luce mentre il sole tramontava dietro la città in una cortina di caligine.

«Rakam, vorrei conoscere le sue origini, sapere della sua vita su Werel,» mi chiese in un sussurro.

Emisi un lungo sospiro. «Tutto è finito,» dissi, «Passato.»

«Noi siamo il nostro passato. Anche se non siamo solo quello. Desidero conoscerla. Mi scuserà, ma desidero sapere tutto di lei.»

Dopo un po' dissi, «Le racconterò. Ma è talmente triste. Talmente brutto. È così bello qui, adesso. E non voglio rovinare tutto».

«Qualsiasi cosa mi dirà sarà per me un dono di valore,» disse con quella voce sommessa che mi arrivava dritta al cuore. Allora gli raccontai tutto del complesso di Shomeke, e poi feci scorrere in fretta il resto della mia storia. Qualche volta mi fece delle domande. Più che altro ascoltò. A un certo punto della mia narrazione mi posò la mano sul braccio, ma non ci feci molto caso. Quando la ritirò, credendo che un mio movimento significasse che non gradivo, sentii la mancanza di quel suo tocco lieve. La sua mano era fresca. Continuai a sentirmela sull'avambraccio dopo che l'ebbe ritirata.

«Signor Yehedarhed!» chiamò una voce dietro di noi. Era una delle guardie del corpo. Il sole era calato, il cielo si era colmato di rosso e di oro. «Torniamo indietro?»

«Sì,» disse lui, «grazie.» Mentre ci giravamo gli presi il braccio. Sentii che tratteneva il respiro. Non avevo desiderato né uomo né donna sin dai tempi di Shomeke, questa è la verità. Avevo voluto bene a delle persone, e le avevo toccate con amore, ma mai con desiderio. Il mio cancello era rimasto chiuso.

Ora si era aperto. Ora mi sentivo venir meno tanto da non poter quasi camminare al solo tocco della sua mano.

Dissi, «È bello camminare con te, è così sicuro».

Non sapevo bene neanch'io cosa stavo dicendo. Avevo trent'anni ma ero come una ragazzina. La ragazzina che non ero mai stata.

Lui non disse nulla. Camminammo insieme in silenzio tra il fiume e la città nello splendore del tramonto.

«Vieni a casa con me, Rakam?»

Questa volta fui io a non dire nulla.

«Loro non verrebbero con noi!» mi disse piano piano all'orecchio, sfiorandomi col suo respiro.

«Non mi far ridere!» esclamai, e scoppiai a piangere. Piansi per tutta la strada di ritorno lungo il fiume. Fui colta da singhiozzi, e quando credevo di poter smettere ne fui sopraffatta di nuovo. Piansi su tutti i miei dolori, su tutte le mie vergogne. Piansi perché erano parte di me, e lo sarebbero rimasti per sempre. Piansi perché il cancello era aperto e finalmente l'avrei potuto varcare e raggiungere il mondo dall'altra parte, ma avevo paura.

Quando arrivammo alla macchina, parcheggiata vicino alla mia scuola, mi prese tra le braccia e mi tenne così, in silenzio. Le due donne sui sedili anteriori non si voltarono mai indietro.

Andammo nella sua casa, che io avevo già visto una volta, una vecchia casa padronale dei tempi delle Corporazioni. Ringraziò le guardie e chiuse la porta. «La cena!» disse. «Il cuoco oggi non c'è. Avevo pensato di portarti al ristorante. Me ne sono dimenticato.» Mi accompagnò in cucina, dove rimediammo del riso freddo, insalata e vino. Dopo mangiato mi guardò attraverso il tavolo di cucina, poi abbassò lo sguardo. La sua incertezza mi rendeva tesa e silenziosa. Dopo un intervallo interminabile disse, «Oh, Rakam! Posso fare l'amore con te?»

«Voglio fare l'amore con te,» risposi io. «Non l'ho mai fatto. Non ho mai fatto l'amore con nessuno.»

Si alzò sorridendo e mi prese per mano. Salimmo insieme al piano di sopra, oltrepassando quello che era stato l'ingresso al reparto degli uomini della casa. «Mi sono sistemato nel beza,» disse, «nell'harem. Abito nel reparto delle donne. Mi piace il panorama.»

Entrammo nella sua stanza. Restò lì fermò, a guardarmi, poi distolse lo sguardo. Ero così intimorita, così stranita, che pensai che non ce l'avrei mai fatta ad avvicinarmi a lui e a toccarlo. Invece lo feci. Alzai la mano e gli sfiorai il viso, le cicatrici vicino all'occhio e sulla bocca, poi lo presi tra le braccia. Finalmente lo tenevo stretto a me, sempre più stretto.

A un certo punto della notte, mentre giacevamo allacciati ed esausti gli chiesi, «Hai mai fatto l'amore con la dottoressa Yeron?»

Sentii Havzhiva ridere, un lento riso soffocato dal suo ventre poggiato contro il mio. «No,» disse. «Con nessuno. Su Yeowe sei la prima. E anch'io sono per te il primo su Yeowe. Siamo vergini, due vergini yeowiani… Oh, Rakam, mia araha…» Mi poggiò la testa sull'incavo della spalla, disse qualcos'altro in una lingua straniera e cadde addormentato. Dormì d'un sonno profondo e silenzioso.

Quello stesso anno entrai all'università, su a nord, assunta come insegnante di storia. Per il livello a cui erano a quel tempo, ero abbastanza adeguata. È da allora che ci lavoro, come insegnante e come responsabile editoriale.

Come aveva promesso, Havzhiva mi fu vicino costantemente, o quasi.

Gli Emendamenti della Costituzione furono approvati con voto segreto, quasi tutti, nell'Anno XVIII della Libertà di Yeowe. Sugli eventi che hanno condotto a ciò, e sulle conseguenze che ne sono derivate, potete leggere la nuova Storia di Yeowe in tre volumi pubblicata dalle Edizioni Universitarie. Vi ho narrato la storia che mi è stato chiesto di narrare. L'ho conclusa, come si concludono molte storie, con l'unione di due persone. Che valore hanno l'amore e il desiderio di un uomo o di una donna rispetto alla storia di due mondi, ai grandi rivolgimenti del tempo che stiamo vivendo, alla speranza, alla crudeltà infinita della nostra specie? Molto poco. Ma una chiave è molto piccola rispetto alla porta che apre. Se perdete la chiave, la porta potrebbe rimanere chiusa per sempre. È nei nostri corpi che perdiamo o diamo inizio alla libertà, nei nostri corpi che subiamo o poniamo fine alla schiavitù. Dedico questo libro al mio amico, col quale ho vissuto e col quale morirò libera.

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