IL GIORNO DEL PERDONO

Solly era stata una monella dello spazio, la figlia di un Mobil, passando da un'astronave all'altra, da un mondo all'altro. Aveva viaggiato per cinquecento anni luce ancor prima di compiere i dieci anni. All'età di venticinque anni s'era ritrovata nel bel mezzo di una rivoluzione su Alterra. Aveva imparato l'aiji su Terra e l'arte del pre-pensiero da un vecchio Hilfer su Rokanan, aveva completato in fretta le scuole su Hain ed era sopravvissuta a una missione come osservatrice su Kheakh, posto terribile e morente, saltando in questo modo un altro mezzo millennio quasi alla velocità della luce. Era giovane ma aveva visto un sacco di cose.

Era stufa che la gente dell'ambasciata di Voe Deo le dicesse in continuazione di stare attenta a questo, di ricordare quello. In fondo anche lei era diventata un Mobil. Werel aveva le sue stravaganze come tutti gli altri mondi, no? Aveva studiato, sapeva quando inchinarsi e quando non doveva ruttare, e viceversa. Era un sollievo starsene finalmente per conto proprio in questa splendida cittadina, in questo splendido piccolo continente, la prima e sola inviata dell'Ekumene nel divino regno del Gatay.

Da giorni si sentiva girare la testa a causa dell'altitudine, del piccolo sole brillante che inondava di luce verticale ie strade affollate, delle cime che si stagliavano incredibili dietro ogni palazzo, del cielo blu scuro dove le stelle vicine risplendevano tutto il giorno, delle notti abbaglianti sotto sei o sette mozziconi ballonzolanti di luna, della gente alta e nera con gli occhi scuri, teste strette, piedi e mani lunghi e magri, gente bellissima, la sua gente! Lei li amava tutti, anche se ne vedeva sin troppi.

L'ultima volta che era riuscita a stare un po' da sola era successo nella cabina passeggeri dell'ariaplano inviato dal Gatay per condurla da Voe Deo oltre l'oceano. Sulla pista d'atterraggio le era venuta incontro una delegazione di preti e ufficiali del re e del consiglio, maestosi nei loro colori rossi, marroni e turchesi, ed era stata portata al palazzo, dove per ore non si poteva ruttare e ti toccava fare molti inchini: una presentazione alla sua piccola e raggrinzita maestà, presentazioni ai sommi Muckamuck e ai Lord Hooziwhat, discorsi, un banchetto, tutto assolutamente prevedibile, nessun problema, neanche nel caso dell'incomprensibile, gigantesco fiore fritto che s'era ritrovata sul piatto durante il banchetto. Ma accanto a lei, fin dal primo momento sulla pista d'atterraggio e per ogni istante successivo, ci furono due uomini, che si tenevano discretamente di fianco e alle spalle, oppure molto vicini: erano la sua guida e la sua guardia.

La guida, che di nome faceva San Ubattat, le era stata assegnata dai suoi ospiti del Gatay. Naturalmente lui faceva la spia per il governo, ma era una spia molto cortese, le spianava sempre la strada mostrandole con un piccolo cenno quello che doveva fare e le gaffe da evitare, ed era anche un linguista eccellente, pronto a tradurre appena lei ne aveva bisogno. San era a posto, ma la guardia era tutt'altra faccenda.

Le era stata affidata dagli ospiti dell'Ekumene su questo mondo, il potere dominante su Werel, la grande nazione voedeana. Lei aveva protestato immediatamente presso la sua ambasciata di Voe Deo, dicendo che non ne aveva bisogno e non voleva una guardia del corpo. Nessuno nel Gatay le voleva del male, e anche se così fosse stato avrebbe preferito pensarci da sola. L'ambasciatore sospirò. Ci dispiace, disse, è già deciso, quello rimane. Voe Deo è militarmente presente nel Gatay, che dopotutto è uno stato cliente in condizione di dipendenza economica. È nell'interesse di Voe Deo proteggere il governo legittimo del Gatay contro le sette terroriste locali, e tu vieni protetta come uno dei loro interessi, quindi non possiamo biasimarli.

Sapeva che era meglio non discutere con l'ambasciatore, ma non riuscì lo stesso a rassegnarsi al maggiore, il cui grado, rega, lei aveva tradotto nella parola arcaica maggiore grazie a una vignetta che aveva visto su Terra. Il maggiore della storiella era un pallone gonfiato, un'uniforme impagliata coperta di medaglie e decorazioni, che sbuffava e si pavoneggiava e comandava, e alla fine scoppiava in mille pezzi. Se solo anche questo maggiore fosse saltato per aria! Non che si pavoneggiasse, per l'esattezza, o che comandasse in modo esplicito. Era duro ma gentile, silenzioso come un sasso, rigido e freddo come il rigor mortis. Ben presto Solly desistette da ogni tentativo di parlargli. Qualunque cosa lei dicesse, lui rispondeva sissignora o nossignora, con l'ottusità subitanea di un uomo che non ascolta e non ascolterà mai, un ufficiale ufficialmente incapace di umanità. Lui stava assieme a Solly in ogni occasione pubblica, giorno e notte, per strada, nei negozi, durante gli incontri con uomini d'affari e con ufficiali, nelle visite di piacere, a corte, nel pallone aerostatico sopra le montagne, ovunque… ovunque tranne che a letto.

E neanche a letto riusciva a restare da sola come le sarebbe piaciuto. Di notte la guardia del corpo se ne andava a casa, ovvio, ma nella stanza accanto dormiva la cameriera, un regalo di sua maestà, la sua proprietà privata.

Ricordava l'incredulità provata quando per la prima volta aveva imparato quella parola, tanti anni prima, in un testo sulla schiavitù. «Su Werel i membri della classe dominante sono chiamati possidenti, i membri della classe servile sono chiamati proprietà. Solo i possidenti vengono chiamati uomo e donna, le proprietà sono chiamati schiavo e schiava.»

E così ecco cos'era adesso, la proprietaria di una proprietà. Non si restituisce né si rifiuta il regalo di un re. La sua proprietà si chiamava Rewe. Rewe era probabilmente pure lei una spia, anche se era difficile crederlo. Era una donna bellissima, dignitosa, di pochi anni più vecchia di Solly e quasi della stessa sfumatura di colore della pelle, anche se Solly era d'un marrone rosato mentre Rewe era d'un marrone azzurrognolo. Le palme delle sue mani erano di un delicato colore azzurrino. Le maniere di Rewe erano squisite, aveva tatto, era astuta e aveva un istinto infallibile nel capire quando era desiderata e quando non lo era. Solly naturalmente la trattava come una sua pari, dopo averle detto sin dall'inizio che lei non credeva che gli esseri umani avessero diritto di dominarne altri, né tanto meno possederli, che non le avrebbe impartito nessun ordine e che sperava di poter diventare amica sua. Purtroppo Rewe l'accettò come una nuova serie di ordini. Sorrise e disse di sì. Era assolutamente condiscendente. Qualsiasi cosa Solly dicesse o facesse, veniva assorbita in quella accettazione e andava perduta, lasciando Rewe immutata: una presenza fisica attenta e obbediente, gentile ma distaccata. Lei sorrideva e diceva sempre di sì. E rimaneva inattaccabile.

Solly cominciò a convincersi, dopo l'eccitazione dei primi giorni nel Gatay, che aveva bisogno di Rewe, aveva veramente bisogno di lei come donna con cui parlare. Non c'era modo di conoscere o incontrare le altre donne possidenti, che vivevano rintanate "in casa", così si diceva, cioè nei loro quartieri, i beza. Tutte le donne schiave, tranne Rewe, erano proprietà di altre persone, perciò non le era possibile parlarci. Incontrava solo uomini. Ed eunuchi.

Anche che un uomo scambiasse volontariamente la sua virilità per un minimo di rango sociale era stato difficile da credere, ma lei aveva incontrato a più riprese degli uomini del genere alla corte di re Hotat. Nati proprietà, sfuggivano alla schiavitù per diventare eunuchi e spesso venivano elevati a posizioni di potere e fiducia fra i loro proprietari. L'eunuco Tayandan, maggiordomo della servitù del palazzo, dava ordini persino al re, un sovrano che non governava ma era solo una figura di rappresentanza nel consiglio. Il quale consiglio era costituito da vari tipi di Lord, ma solo un ordine di preti, i Tualiti. Solo le proprietà veneravano Kamye, e la religione originaria del Gatay era stata soppressa allorché la monarchia era diventata Tualita, circa cent'anni prima. Se c'era una cosa che le dava veramente fastidio su Werel, a parte la schiavitù e il predominio sessuale, era la religione. Le canzoni su Madonna Tual erano bellissime, le sue statue e i grandi templi nel Voe Deo erano anch'essi splendidi e l'Arkamye sembrava una storia interessante, anche se alquanto prolissa, ma quella mortale ipocrisia, l'intolleranza, la stupidità dei preti, le dottrine spaventose che giustificavano ogni crudeltà nel nome della fede! Ma in realtà, si chiedeva Solly, c'era forse qualcosa che le piacesse veramente su Werel?

E si rispondeva subito: mi piace, mi piace. Mi piacciono questo piccolo sole strano e abbagliante e tutti quei frammenti di luna e le montagne che si innalzano come pareti di ghiaccio e la gente, gente con occhi neri senza il bianco, simili a occhi di animale, occhi come vetro scuro, come acqua scura, misteriosi. Voglio amarli, voglio conoscerli, voglio raggiungerli!

Doveva purtroppo ammettere che quei pisciasotto dell'ambasciata avevano ragione su una cosa: a Werel era duro essere una donna. Non si sentiva a suo agio da nessuna parte. Andava in giro da sola, aveva una posizione pubblica e quindi era una contraddizione in termini. Le donne per bene se ne stavano a casa, invisibili. Solo le schiave andavano in giro per strada o incontravano sconosciuti o lavoravano in pubblici impieghi. Lei si comportava come una proprietà, non come un possidente, e tuttavia era una persona assai importante, un Nunzio dell'Ekumene. Il Gatay desiderava molto unirsi all'Ekumene e non offendere i suoi inviati. Così gli ufficiali, i funzionari di corte e gli uomini d'affari con cui trattava per conto dell'Ekumene facevano del loro meglio e la trattavano come se fosse un uomo.

La finzione non era mai completa e spesso si rompeva subito. Il povero vecchio re la palpeggiò coscienziosamente, sotto la vaga impressione che Solly fosse una delle sue scaldaletto. Quando Solly contraddisse Lord Gatuyo in una discussione, lui la fissò con lo sconcerto di un uomo rimbrottato dalla propria scarpa. Quello là finora l'aveva creduta una donna, ma in generale la negazione del genere sessuale funzionava, permettendole di lavorare con loro. Così Solly cominciò a sentirsi a proprio agio e parte del gioco, facendo in modo che Rewe l'aiutasse a creare vestiti che somigliassero a quelli che indossavano i possidenti maschi del Gatay, ed evitando tutto quanto fosse specificamente femminile. Rewe era una sarta veloce e industriosa. I pantaloni aderenti, pesanti e lucidi, erano pratici ed eleganti, le giacche ricamate erano splendidamente calde. A lei piaceva indossarle, ma si sentiva desessualizzata da quegli uomini che non la volevano accettare per quel che era. Aveva proprio bisogno di confidarsi con una donna.

Cercò di incontrare attraverso i mariti alcune delle donne possidenti che vivevano rintanate, ma si scontrò contro un muro di gentilezza privo di porta, senza nemeno uno spioncino. Ma che bella idea, organizzeremo sicuramente una visita quando il tempo sarà migliore! Sarebbe fantastico se l'inviata potesse far visita a Lady Mayoyo e alle mie figlie, ma queste stupide ragazze provinciali sono così timide… sono sicuro che capirà. Oh, certo, certo, un giro dei giardini interni, ma non in questo momento che le vigne non sono in fiore! Dobbiamo aspettare che le vigne siano in fiore!

Non c'era nessuno con cui parlare, nessuno, finché non incontrò Batikam, il makil.

Fu un evento: una troupe in tournée dal Voe Deo. Nella piccola capitale montana del Gatay non c'era molto da fare per quanto riguardava i divertimenti, tranne qualche spettacolo di danza – solo ballerini, naturalmente – e le fesserie sdolcinate che venivano fatte passare per commedie sulla rete di Werel. Solly s'era sorbita con cocciutaggine qualcuno di quei quadretti, sperando di farsi un'idea della vita "domestica" locale, ma non riusciva a sopportare quelle vergini svenevoli che morivano d'amore mentre gli eroi altezzosi e stupidi, che per giunta assomigliavano tutti al maggiore, morivano nobilmente in battaglia, e Tual la Misericordiosa si sporgeva dalle nuvole sorridendo sulla loro morte con i suoi occhi leggermente strabici che mostravano il bianco, segno di divinità. Solly si era accorta che gli uomini di Werel non si sintonizzavano mai sul canale delle commedie. Ora sapeva perché. Ma i ricevimenti a palazzo, le feste in suo onore date dai vari Lord e uomini d'affari erano molto noiose, sempre solo uomini, perché non avrebbero accettato le schiave in presenza del Nunzio. Non poteva nemmeno civettare con gli uomini più carini, dal momento che non poteva ricordargli che erano uomini, visto che allora quelli si sarebbero ricordati che lei era una donna e non si comportava come una signora. L'eccitazione era decisamente scemata quando arrivò la troupe dei makil.

Chiese a San, consigliere affidabile in fatto di etichetta, se sarebbe stato opportuno presenziare allo spettacolo. Lui tergiversò, ma alla fine, con una gentilezza più untuosa del solito, le fece capire che non ci sarebbe stato nulla di male, a patto che si vestisse da uomo. «Le donne, sa, non si mostrano in pubblico, ma a volte vogliono vedere gli attori. Lady Amatay era solita accompagnare Lord Amatay vestita con gli abiti del marito, tutti gli anni. Lo sapevano tutti, ma nessuno ha mai detto niente, sa. Per una persona importante come lei non ci dovrebbero essere problemi, nessuno avrà da ridire. Tutto bene, allora. Naturalmente io verrò con lei, e anche il Rega viene con lei. Come due amici, no? Sa, tre amici che vanno a divertirsi, ah! ah!»

Ah! ah! fece lei obbediente. Che spasso! Ma vale la pena di vedere i makil, pensò.

Non comparivano mai nelle varie reti. Le ragazze chiuse in casa non potevano vedere le loro rappresentazioni, alcune delle quali, come le disse San in tono serio, erano piuttosto sconvenienti. Recitavano solo nei teatri. Pagliacci, ballerini, prostitute, attori, musicisti, i makil formavano una specie di sottoclasse, le uniche proprietà che non erano possedute personalmente. Uno schiavo di talento comperato al suo proprietario dalla Corporazione del Divertimento diventava quindi una proprietà aziendale, che gli insegnava il mestiere e badava a lui per il resto della sua vita.

Andarono a piedi fino al teatro, sei o sette strade più in là. Solly si era dimenticata che i makil erano tutti travestiti, e infatti non se lo ricordò neanche quando li vide per la prima volta, una truppa di ballerini alti e snelli che ballavano sul palco con la precisione, la forza, la grazia di grandi uccelli che roteavano a stormi. Stette a guardare senza pensare, rapita dalla loro bellezza fino a che improvvisamente la musica cambiò e i pagliacci entrarono in scena, neri come la notte, neri come i possidenti, indossando delle gonne fantasiose con strabilianti petti sporgenti pieni di gioielli, cantando con vocette da deliquio. «Oh, non mi violentare per favore, gentil signore, no, non ora!» Sono uomini, sono uomini! Finalmente Solly se ne accorse, e già rideva a tutto spiano. Prima che finisse il numero di Batikam, un meraviglioso monologo drammatico, lei era già diventata una sua ammiratrice. «Lo voglio incontrare,» disse a San nell'intervallo. «Quell'attore, Batikam.»

San assunse l'espressione vacua di chi sta pensando come riuscirci, guadagnandoci anche un po' di soldi. Ma il maggiore, che stava in guardia come sempre, rigido come un palo, girò appena la testa per dare un'occhiata a San. L'espressione di San cominciò a cambiare.

Se la proposta di Solly fosse stata un po' fuori dalla norma, San gliel'avrebbe fatto capire. Quel pallone gonfiato del maggiore la stava semplicemente controllando, cercando di tenerla al guinzaglio come se fosse una delle sue donne. Era tempo di sfidarlo. Si girò verso di lui e lo fissò dritto negli occhi. «Rega Teyeo,» gli disse, «capisco che ti hanno ordinato di tenermi sotto controllo. Ma se dai degli ordini a San o a me, devono essere impartiti ad alta voce e devono essere giustificati. Non mi farò manovrare dai tuoi battiti di palpebra o dai tuoi capricci.»

Ci fu una pausa di durata considerevole, una pausa veramente deliziosa e appagante. Era difficile capire se l'espressione del maggiore fosse cambiata. Le luci soffuse del teatro non evidenziavano i dettagli della sua faccia nera bluastra, ma c'era qualcosa di raggelato nella sua immobilità che le rivelò di essere riuscita a bloccarlo. Alla fine lui disse, «Ho il compito di proteggerla, Nunzio».

«Devo temere i makil? È forse poco opportuno che un inviato dell'Ekumene si congratuli con un grande artista di Werel?» Ancora quel silenzio glaciale. «No,» disse lui.

«Allora ti chiedo di accompagnarmi dietro le quinte, dopo lo spettacolo, per parlare con Batikam.»

Un cenno rigido. Rigido, pomposo e sconfitto. Uno a zero per me! pensò Solly, e si adagiò tutta allegra sulla sedia per ammirare le danze erotiche, i pittori con le luci e la scenetta curiosamente commovente con cui finì la serata. Era in versi arcaici, difficili da capire, ma gli attori erano tanto belli e le loro voci così dolci che lei scoprì di avere le lacrime agli occhi senza sapere perché.

«È un peccato che i makil attingano sempre dall'Arkamye» disse San compiaciuto, con bigotta disapprovazione. Non era un possidente di alta classe, e infatti non possedeva alcuna proprietà, però era sempre un possidente, un Tualita bigotto, e gli piaceva ricordarselo. «Delle scene dalle Incarnazioni di Tual sarebbero più adatte per questo tipo di pubblico.»

«Sono sicura che sarete d'accordo, Rega» disse lei, crogiolandosi nella propria ironia.

«Niente affatto,» replicò il maggiore con una gentilezza così inespressiva che dapprima lei non capì che cosa avesse detto. Poi Solly dimenticò tutto nel trambusto, mentre cercava la maniera di entrare dentro le quinte e nei camerini degli attori.

Quando capirono chi era, i dirigenti della compagnia cercarono di far sloggiare tutti gli altri attori, lasciandola sola con Batikam (e San e il maggiore, naturalmente), ma lei disse, «No no no, no, questi artisti fantastici non devono essere disturbati. Lasciatemi parlare solo per un attimo con Batikam.» Stava lì nel trambusto del cambio dei costumi, tra gente mezza nuda, col trucco disfatto, risate, la tensione che cominciava a dissolversi dopo lo spettacolo, il retroscena qualsiasi di un mondo qualsiasi, parlando con quell'uomo di intensa acutezza vestito con un elaborato costume femminile dei tempi andati. Andarono subito d'accordo. «Puoi venire a casa mia?» gli chiese lei. «Con piacere,» disse Batikam, e i suoi occhi non scattarono verso il viso di San o del Maggiore. Era la prima volta che non vedeva uno schiavo lanciare uno sguardo alla sua guardia o alla sua guida per chiedere il permesso di dire o fare una cosa, qualsiasi cosa. San sembrava evasivo, il maggiore era rigido. «Torno tra un attimo,» disse Batikam. «Devo cambiarmi.»

Si scambiarono un sorriso e lei se ne andò. L'eccitazione era di nuovo nell'aria. Le enormi stelle vicine erano ammassate come grappoli di fuoco, una luna precipitò dietro i picchi ghiacciati, un'altra saltellò sopra i pinnacoli a volute del palazzo come una lanterna sbilenca. Solly camminava a grandi passi per le strade buie godendosi la libertà e il calore del vestito da uomo che indossava, e costringeva San a correre. Il maggiore dalle gambe lunghe, invece, reggeva bene il suo passo. Una voce alta, squillante la chiamò, «Nunzio!» Lei girò il capo con un sorriso, poi si voltò del tutto nel vedere il maggiore avvinghiato con qualcuno all'ombra di un portico. Lui si divincolò, la raggiunse senza dire nulla, le afferrò il braccio in una morsa d'acciaio e la trascinò in una corsa. «Lasciami!» disse Solly, dibattendosi. Non voleva usare una mossa aiji su quell'uomo, ma era l'unica risorsa che avesse a disposizione.

Effettuando una svolta improvvisa in un vicolo, lui la fece quasi cadere. Solly gli correva al fianco, lasciando che la tenesse per il braccio. Arrivarono senza preavviso sotto la sua porta, ed entrarono in casa dopo che lui aveva aperto il cancello con una parola. Come aveva fatto? «Che significa?» chiese lei, liberandosi facilmente e massaggiandosi il braccio dove la morsa dell'uomo le aveva fatto venire dei lividi.

Adirata, Solly scorse l'ultimo guizzo di un sorriso esaltato sul viso dell'uomo. Respirando a fatica lui le chiese, «È ferita?»

«Ferita? Sì, dalle tue strapazzate. Cosa pensavi di fare?»

«Stavo tenendo quel tipo lontano da lei.»

«Quale tipo?»

Lui non rispose.

«Quello che mi ha chiamato? Forse voleva parlarmi.»

Dopo un attimo di esitazione, il maggiore disse, «È possibile. Era nell'ombra, ho pensato che potesse essere armato. Devo uscire a cercare San Ubattat. Per favore, tenga la porta sbarrata finché non torno». Era già fuori dalla porta quando diede quell'ordine, non gli venne affatto in mente che lei avrebbe potuto non obbedire, eppure Solly obbedì, furibonda. Pensava forse che non fosse in grado di badare a se stessa, che avesse bisogno che lui interferisse nella sua vita privata andando in giro a prendere a calci gli schiavi per "proteggerla"? Forse era ora che si accorgesse di cos'era una caduta aiji. Lui era forte e veloce, ma non era molto allenato. Questo tipo di interferenza pasticciona era intollerabile, veramente intollerabile. Le sarebbe toccato andare a protestare all'ambasciata un'altra volta.

Non appena lui tornò con un San nervoso e imbarazzato al guinzaglio, lei gli disse, «Hai aperto la mia porta con una parola d'ordine. Io non sono stata informata che tu avessi il diritto di entrare giorno e notte».

Lui era tornato al suo grigiore militare. «Nossignore,» disse.

«Non farlo più. Non devi mai più mettermi le mani addosso! Ti avverto che, in caso contrario, ti farò male. Se qualcosa ti preoccupa, dimmi che cos'è e io risponderò come ritengo opportuno. Ora, per favore, vattene.»

«Con piacere, signora,» disse lui. Poi si girò e marciò fuori dalla porta.

«Oh, signora, oh, Nunzio,» disse San. «C'era una persona pericolosa, veramente pericolosa, sono veramente dispiaciuto, è vergognoso,» e continuò a balbettare. Lei finalmente lo convinse a dire chi pensava fosse questa persona, e cioè un dissidente religioso, uno dei vecchi credenti della religione originale del Gatay, che voleva cacciar via e ammazzare tutti gli stranieri e i miscredenti. «Uno schiavo?» chiese lei con interesse, al che lui parve scioccato. «Oh, no, no, una persona vera, un uomo… più che altro un debosciato, un fanatico miscredente! Uomini-coltello, si chiamano fra di loro. Ma è un uomo, signora… Nunzio, un uomo senza dubbio.»

La sola idea che lei potesse pensare che una proprietà la potesse toccare lo turbava quasi quanto il tentativo di aggressione, se tale si poteva considerare.

Mentre rifletteva, Solly cominciò a chiedersi se, dal momento che aveva rimesso il maggiore in riga a teatro, lui non avesse trovato una scusa per mettere lei al suo posto "proteggendola". Be', se ci avesse provato un'altra volta, si sarebbe trovato a testa in giù contro il muro di fronte.

«Rewe!» chiamò. La schiava apparve all'istante come sempre. «Uno degli attori sta per arrivare qua. Potresti farci un po' di tè o qualcosa del genere?» Rewe sorrise, disse di sì, e scomparve. Qualcuno bussò alla porta. Il maggiore aprì (doveva stare di guardia all'esterno) e Batikam entrò.

Non aveva previsto che il makil si sarebbe presentato con ancora indosso gli abiti da donna, ma era così che si vestiva anche fuori dalla scena, non in modo sfarzoso bensì con eleganza nei materiali delicati e fluenti e nelle sfumature scure che le donne svenevoli indossavano nella commedia. E poi rende alquanto piccante il mio costume da uomo, pensò Solly. Batikam non era bello quanto il maggiore, che era un uomo incredibilmente attraente finché non apriva bocca. Ma il makil possedeva una personalità magnetica, bastava guardarlo. Era di un bruno grigiastro, non del nero azzurrino di cui i possidenti andavano così fieri (nonostante ci fossero molte proprietà nere, come aveva già notato Solly, ed era ovvio, visto che ogni donna schiava era anche serva sessuale del proprio padrone). Un'intelligenza intensa e vivace e una grande sensibilità brillavano sul suo viso attraverso il trucco nero e stellare del makil, mentre Batikam si guardava intorno con una risata amabile e lenta, rivolta a lei, a San e al maggiore che stava in piedi vicino alla porta. Batikam rideva come una donna, un gorgoglio caldo, non la risata di un uomo. Tese le mani verso Solly. Lei si fece avanti e gliele strinse. «Ti ringrazio per essere venuto, Batikam.» E lui rispose, «Grazie per avermi invitato, inviato alieno».

«San, credo che qui ci debba essere la tua uscita di scena,» fece lei.

Solo l'indecisione sul da farsi avrebbe potuto frenare San finché lei parlava. Esitò un momento, quindi sorrise mellifluo e disse, «Sì, scusate. Le auguro un'ottima serata, Nunzio. A mezzogiorno di domani nell'Ufficio Miniere, vero?» Camminando all'indietro, andò a sbattere proprio contro il maggiore fermo come un palo sull'entrata. Lei gli diede un'occhiata, pronta a ordinargli di uscire alla svelta. Come si era permesso di ritornare dentro! Poi vide l'espressione sul suo viso. Per la prima volta la sua maschera imperturbabile si era incrinata, e quello che rivelava era disprezzo, disprezzo incredulo e disgustato, come se fosse stato obbligato a guardare qualcuno mentre mangiava un pezzo di merda.

«Esci!» gli disse, voltando le spalle a entrambi. «Andiamo, Batikam, l'unica intimità che mi resta è qui dentro,» aggiunse mentre guidava il makil nella sua stanza da letto.


Era nato dove i suoi antenati erano nati prima di lui, in una casa vecchia e fredda nelle colline sopra Noeha. Sua madre non aveva gridato nel darlo alla luce, essendo la moglie di un soldato e adesso la madre di un soldato. Lui era stato chiamato in quel modo in onore di un prozio ucciso quand'era di servizio su Sosa. Era cresciuto nella rigida disciplina di una famiglia povera di puro lignaggio veot. Suo padre, nei periodi di congedo, gli insegnava le arti che un soldato deve conoscere. Quando invece era in servizio, ci pensava il vecchio schiavo-sergente Habbakam a continuare le lezioni che iniziavano alle cinque del mattino, estate o inverno, con la preghiera, l'addestramento nel pugnale e la corsa campestre. Sua madre e sua nonna gli avevano insegnato le altre arti che un uomo deve conoscere, a cominciare dalle buone maniere prima che avesse due anni, passando poi dopo il secondo compleanno alla storia, alla poesia e allo stare seduti immobili senza parlare.

La giornata del bambino era piena di lezioni e scandita dalle materie di studio. Ma la giornata di un bambino è molto lunga. C'era spazio e tempo per la libertà, libertà nell'aia della fattoria e sulle colline. C'era la compagnia di animali domestici, volpini, cani da corsa, gatti maculati, gatti da caccia e il bestiame e i cavalli della fattoria. Non c'era molta altra compagnia. Le proprietà della famiglia, a parte Habbakam e le due domestiche, erano schiavi che lavoravano a mezzadria la terra dura della collina su cui loro, e i loro proprietari, erano vissuti da sempre. I loro bambini erano di pelle chiara, timidi e già rassegnati al lavoro di tutta una vita, ignari di tutto tranne che dei campi e delle colline. A volte nuotavano con Teyeo, d'estate, nelle pozze del fiume. A volte ne raccoglieva un paio per giocarci al soldato. Erano goffi, sgraziati, con un sorriso incerto quando lui gridava, «Carica!» e correva contro un nemico invisibile. «Seguitemi!» urlava con voce stridula, e loro gli andavano appresso goffamente, facendo fuoco con le pistole di legno, a casaccio, «Bang, bang». Il più delle volte andava da solo, sulla sua brava giumenta Tasi o a piedi con un gatto da caccia che gli trotterellava al fianco.

Saltuariamente c'erano degli ospiti nella proprietà, parenti o ufficiali colleghi del padre di Teyeo, che si portavano dietro i bambini e i servi. Teyeo, silenzioso e compito, faceva gli onori di casa ai bambini ospiti, mostrandogli gli animali e portandoli in giro a cavallo. Silenziosi e compiti, lui e suo cugino Gemat cominciarono a odiarsi. All'età di quattordici anni si picchiarono per un'ora intera in una radura dietro casa, seguendo puntigliosamente le regole della lotta libera, facendosi male spietatamente, sempre più sanguinanti, stanchi e disperati, fino a quando, per tacito consenso, smisero per tornare in silenzio verso la casa dove tutti si stavano radunando per la cena. Tutti li guardarono e non dissero nulla. Si lavarono in fretta, e in fretta andarono a tavola. Il naso di Gemat continuò a sanguinare per tutta la cena, la mascella di Teyeo era così dolorante che non riusciva neppure ad aprirla per mangiare. Nessuno fece alcun commento.

Silenziosi e compiti, quando ebbero entrambi quindici anni, Teyeo e la figlia di Rega Toebawe si innamorarono. L'ultimo giorno della visita di lei scapparono per tacito accordo e cavalcarono fianco a fianco per ore, troppo timidi per parlare. Lui le aveva dato da montare Tasi. Scesero di sella per abbeverare e far riposare i cavalli in una valletta selvaggia tra le colline. Si sedettero vicini, ma non troppo, accanto al ruscello silenzioso. «Ti amo,» disse Teyeo. «Ti amo,» disse Emdu, chinando la sua lustra faccia nera. Non si toccarono e neppure si guardarono. Cavalcarono di nuovo verso casa, oltre le colline, gioiosi, in silenzio.

All'età di sedici anni Teyeo fu mandato all'accademia ufficiali nel capoluogo della sua provincia. Là continuò a imparare e a praticare le arti della guerra e le arti della pace. La sua provincia era la più rurale del Voe Deo, i suoi costumi erano conservatori, la sua istruzione per certi versi anacronistica. Naturalmente gli furono insegnate le tecniche di guerra più moderne, che lo resero un pilota di velivolo aerodinamico di prima categoria e un esperto in telericognizione. Non gli furono però insegnate le idee moderne che accompagnavano le tecnologie in altre accademie. Apprese la poesia e la storia del Voe Deo, non la storia e la politica dell'Ekumene. La presenza aliena su Werel per lui rimaneva remota, teorica. La sua realtà era la vecchia realtà della classe veot, i cui uomini si ritenevano distinti da tutti gli uomini che non fossero soldati, e vicini, anzi fraterni, con tutti i soldati, che fossero possidenti, proprietà o nemici. Per quanto riguardava le donne, Teyeo riteneva assoluti i suoi diritti su di loro, e questo lo costringeva in modo inflessibile a una cavalleria responsabile verso le donne della sua classe e a un trattamento protettivo e compassionevole nei confronti delle donne schiave. Credeva che tutti gli stranieri fossero fondamentalmente nemici, dei miscredenti sleali, onorava Madonna Tual ma venerava il Signore Iddio Kamye. Non si aspettava giustizia, non cercava una ricompensa, i valori più alti per lui erano la competenza, il coraggio e il rispetto di sé. Sotto certi aspetti era completamente inadatto al mondo in cui stava per entrare, sotto altri ben preparato, visto che stava per passare sette anni su Yeowe combattendo una guerra in cui non c'era giustizia, nessuna ricompensa e neanche l'illusione di una vittoria finale.

Il rango, fra gli ufficiali veot, era ereditario. Teyeo entrò in servizio attivo come rega, il più alto dei tre gradi. Nessun livello di inettitudine o distinzione poteva abbassare o alzare il suo stato o la sua paga. L'ambizione materiale non serviva a nulla a un veot. Onore e responsabilità occorreva guadagnarseli, e lui li guadagnò in fretta. Amava il servizio militare, amava la vita e sapeva di essere bravo nel suo lavoro, obbediente con intelligenza ed efficiente nel comando. Era uscito dall'accademia con le lettere di raccomandazione più lusinghiere, ed essendo stato comandato nella capitale fu notato sia come ufficiale promettente che come giovane di bell'aspetto. All'età di ventiquattro anni era in perfetta forma, il suo corpo avrebbe fatto qualsiasi cosa gli avesse chiesto. La sua educazione austera gli aveva dato poco gusto per l'indulgenza ma un intenso apprezzamento del piacere, quindi i peccati e i divertimenti della capitale furono per lui una gradevole scoperta. Era riservato e alquanto timido, ma un compagno retto e allegro. Giovane e bello, insieme ad altri giovani come lui per un anno capì cosa voleva dire vivere una vita assolutamente privilegiata di divertimento sfrenato. L'intensità luminosa di quel divertimento contrastava con lo sfondo oscuro della guerra su Yeowe, con la rivolta degli schiavi sul pianeta Colon, che era in corso da quand'era nato e adesso si stava intensificando. Senza quello sfondo lui non sarebbe potuto essere così felice. Una vita intera di giochi e distrazioni non gli interessava. Quando giunsero gli ordini che lo assegnavano come pilota e comandante di divisione su Yeowe, la sua felicità fu pressoché completa.

Tornò a casa per una licenza di trenta giorni. Dopo aver ottenuto l'approvazione dei genitori, cavalcò oltre le colline fino alla fattoria di Rega Toebawe, per chiedergli la mano della figlia. Il rega e sua moglie dissero alla figlia che approvavano la proposta del giovane e le chiesero, non essendo dei genitori severi, se voleva sposare Teyeo. «Sì,» rispose lei. In quanto donna cresciuta e nubile viveva reclusa nella parte della casa adibita alle donne. Ma lei e Teyeo avevano il permesso di incontrarsi e anche di passeggiare insieme mentre lo chaperon si teneva a una certa distanza. Teyeo le disse che aveva una ferma di tre anni: preferiva sposarlo in fretta adesso oppure aspettare tre anni per avere un matrimonio con tutte le carte in regola? «Adesso,» disse lei chinando il viso luminoso e sottile. Teyeo scoppiò in una risata di gioia, e lei rise con lui. Nove giorni dopo erano sposati. Non si poteva fare prima, essendo necessarie alcune formalità e cerimonie, anche se era il matrimonio di un soldato, e per diciassette giorni Teyeo e Emdu fecero l'amore, camminarono insieme, fecero l'amore, cavalcarono insieme, fecero l'amore, impararono a conoscersi, impararono ad amarsi, litigarono, fecero la pace, fecero l'amore, dormirono l'uno nelle braccia dell'altra. Poi lui partì per la guerra su un altro mondo e lei si trasferì nella casa del marito, nelle stanze delle donne.

La sua ferma di tre anni veniva prorogata anno dopo anno, mentre il suo valore di ufficiale veniva riconosciuto, mentre la guerra su Yeowe passava dalle sporadiche scaramucce di contenimento a una ritirata sempre più angosciosa. Nel suo settimo anno di servizio, un ordine di congedo per gravi motivi familiari fu inviato ai quartieri generali di Yeowe per il Rega Teyeo, la cui consorte stava morendo per complicazioni del berlot. A quel punto non c'erano più quartieri generali su Yeowe, l'esercito si stava ritirando da tre direzioni verso la vecchia capitale coloniale, la divisione di Teyeo stava combattendo una difesa di retroguardia nelle paludi costiere, le comunicazioni erano interrotte.

Il comando supremo di Werel continuava a ritenere assurdo che una massa di schiavi incapaci di maneggiare anche i più rudimentali tipi di arma potesse sconfiggere l'esercito del Voe Deo, un corpo di soldati disciplinati e allenati con un'infallibile rete di comunicazione, velivoli vari e tutti gli armamenti e strumenti permessi dal Patto della Convenzione deH'Ekumene. Una consistente fazione nel Voe Deo diede la colpa di quegli insuccessi a questa adesione sottomessa alle regole aliene. Al diavolo le convenzioni deH'Ekumene! Bombardate quei dannati straccioni e ricacciateli nel fango da cui sono usciti. Usate la bio-bomba. A che cosa serve, se no? Tirate fuori i nostri uomini da quel lurido pianeta e spazzatelo via. Ricominciamo da capo. Se non vinciamo la guerra su Yeowe, la prossima rivoluzione sarà proprio qui su Werel, nelle nostre città, nelle nostre case! Il governo traballante tenne duro contro questa pressione. Werel era sotto osservazione, e il Voe Deo voleva guidare il pianeta allo stato ecumenico. Le sconfitte venivano minimizzate, le perdite non erano elencate, gli uomini, i mezzi e le armi non venivano rimpiazzati. Alla fine del settimo anno di Teyeo, l'esercito su Yeowe era stato praticamente abbandonato dal suo governo. All'inizio dell'ottavo anno, quando all'Ekumene fu finalmente permesso di mandare inviati su Yeowe, il Voe Deo e gli altri paesi che avevano fornito truppe ausiliarie finalmente cominciarono a rispedire a casa i loro soldati.

Fu soltanto quando tornò su Werel che Teyeo venne a sapere della morte della moglie.

Tornò a casa, a Noeha. Lui e suo padre si salutarono con un abbraccio silenzioso, e sua madre pianse mentre l'abbracciava. Lui si inginocchiò di fronte a lei per scusarsi di averle arrecato più dolore di quanto lei potesse sopportare.

Quella notte restò sdraiato in una stanza fredda nella casa silenziosa, ascoltando il suo cuore che batteva come un lento tamburo. Non era infelice, il sollievo di essere in pace e la dolcezza di ritrovarsi a casa erano troppo grandi. Ma era una calma desolata, con un sottofondo di rabbia. Lui non era abituato alla rabbia e non era sicuro di quello che provava. Era quasi come se un fioco lampo di un rosso cupo gli stesse colorando ogni immagine nella mente. Mentre giaceva sdraiato, cercò di ricapitolare i sette anni su Werel, prima come pilota, poi nella guerra al suolo, e infine nella lunga ritirata, uccidere o essere uccisi. Perché erano stati lasciati là per essere cacciati e massacrati? Perché il governo non aveva mandato dei rinforzi? Erano domande che non valeva la pena di farsi allora, quindi neanche adesso. Avevano solo una risposta: facciamo quello che ci chiedono di fare e non protestiamo. Ho combattuto sempre e comunque, pensò, senza orgoglio alcuno. Una nuova consapevolezza lo colpì di netto, come un coltello, attraverso tutte le altre consapevolezze… E mentre combattevo lei moriva. Tutto uno spreco là su Yeowe, tutto uno spreco qua su Werel. Si sedette nell'oscurità, la fredda oscurità, silenziosa e dolce, della notte sulle colline. «Signore Iddio Kamye,» disse ad alta voce. «Aiutami, la mente mi tradisce.»

Durante il lungo congedo a casa rimase spesso seduto accanto alla madre. Lei voleva parlare di Emdu, e all'inizio lui si dovette sforzare di ascoltarla. Sarebbe stato così facile dimenticare la ragazza che aveva frequentato per diciassette giorni sette anni prima, se soltanto sua madre gli avesse permesso di dimenticare. Gradualmente imparò a prendere quello che lei gli voleva donare, la conoscenza di colei che era stata sua moglie. Sua madre voleva dividere tutto quello che poteva con lui, la gioia che aveva trovato in Emdu, la sua amata figlia e amica. Anche suo padre, ora in pensione, un uomo silenzioso e spento, era capace di dire, «Era la luce della casa». Lo stavano ringraziando per lei, gli stavano dicendo che non era stato uno spreco.

Ma cosa li aspettava? La vecchiaia, una casa vuota. Naturalmente non si lamentavano, e sembravano contenti del loro tranquillo e austero tran tran quotidiano. Ma per loro la continuità del passato col futuro era stata interrotta. «Dovrei risposarmi,» disse Teyeo alla madre. «Hai notato qualche ragazza?»

Stava piovendo, luce grigia attraverso le finestre bagnate, un ticchettio soffice sulle grondaie. Il viso di sua madre era indistinto mentre stava china a rammendare. «No,» disse lei. «Non proprio.» Lo guardò dopo una pausa e gli chiese, «Dove pensi che ti manderanno?»

«Non lo so.»

«Ora non siamo più in guerra,» disse sua madre, con la sua voce sottile e dolce.

«No,» fece Teyeo. «Non siamo più in guerra.»

«Ce ne sarà mai un'altra? Che ne pensi?»

Lui si alzò, camminò avanti e indietro per la stanza, poi sedette di nuovo sul ripiano coperto di cuscini, di fianco alla donna. Entrambi stavano seduti eretti, fermi, immobili tranne che per il movimento lieve delle mani di lei che cuciva, mentre le mani di Teyeo erano appoggiate una sull'altra, come gli avevano insegnato da quando aveva due anni.

«Non lo so,» disse. «È strano. È come se non ci fosse mai stata una guerra, come se non fossimo mai stati su Yeowe… la colonia, le rivolte, tutto quanto. Non ne parlano. Non è successo. Noi non combattiamo guerre. Questa è una nuova èra, dicono spesso sulla rete, è l'età della pace, della fratellanza fra le stelle. Così, siamo in pace con Yeowe adesso, siamo in pace con il Gatay e il Bambur e con i Quaranta Stati? Siamo in pace con le nostre proprietà? Non mi sembra abbia senso. Non so quello che intendono, non so dove andrò a stare.» Anche la sua voce era ferma e tranquilla.

«Non penso ti fermerai qui, non ancora,» disse lei.

Dopo un po' lui disse, «Pensavo… ai bambini».

«Naturalmente, quando sarà il momento.» Gli sorrise. «Tu non riuscivi mai a stare fermo per più di mezz'ora… Aspetta, aspetta e vedrai.»

Sua madre aveva ragione, naturalmente, eppure quello che lui aveva visto sulla rete e in città sfidava la sua pazienza e il suo orgoglio. Ormai sembrava che fare il soldato fosse una disgrazia. I comunicati del governo, i notiziari, le analisi che costantemente definivano l'esercito e anche la classe dei veot come fossili di un lontano passato. Costavano molto ed erano inutili, erano l'ostacolo principale all'ammissione del Voe Deo nell'Ekumene. La sua stessa inutilità gli fu chiara quando, alla sua richiesta di assegnazione, risposero con un'estensione infinita del suo congedo a mezza paga. All'età di trentadue anni sembrava che gli dicessero che era ormai superato.

Prospettò di nuovo a sua madre la decisione di accettare quella situazione, di rassegnarsi e cercare una moglie. «Parla con tuo padre,» gli suggerì la donna, e lui così fece. Suo padre gli disse, «Naturalmente il tuo aiuto è benvenuto, ma io riesco a far andare avanti la fattoria abbastanza bene da solo per un altro po'. Tua madre pensa che faresti meglio ad andare alla capitale, presso il comando. Non possono ignorarti se sei là. Dopo tutto quel che è successo, dopo sette anni di combattimento… e con il tuo curriculum…»

Teyeo sapeva che quello non valeva più niente. Ma era chiaro che alla fattoria non avevano bisogno di lui, e probabilmente riusciva solo a dare sui nervi a suo padre con le sue idee di cambiamenti, e di questo e di quello. Avevano ragione, doveva andare nella capitale e scoprire da solo che parte poteva giocare nel nuovo mondo di pace.

I suoi primi sei mesi laggiù furono duri. Non conosceva nessuno al comando o in caserma, la sua generazione era morta o invalida, oppure congedata a mezza paga. Gli ufficiali più giovani, che non erano stati su Yeowe, gli sembravano una combriccola abbottonata, sempre impegnata a discutere di soldi e di politica. Piccoli affaristi, li giudicava in privato. Sapeva che avevano paura di lui, del suo curriculum, della sua reputazione. Che lo volesse o no, Teyeo ricordava loro che c'era stata una guerra che Werel aveva combattuto e perso, una guerra civile, la loro razza che combatteva contro se stessa, classe contro classe. Quelli volevano archiviare il caso come una baruffa senza significato su un altro mondo, che non aveva niente a che vedere con loro.

Teyeo si aggirava per le strade della capitale, guardava le migliaia di schiavi correre di qua e di là per seguire gli interessi dei possidenti, e si domandava che cosa stessero aspettando.

«L'Ekumene non interferisce con gli affari sociali, culturali ed economici della gente,» ripetevano i portavoce del governo e dell'ambasciata. «Il pieno diritto di appartenenza a ogni nazione o persona che lo desideri è condizionato all'assenza, o alla relativa rinuncia, di certi metodi specifici e strumenti bellici,» e seguiva la lista di armi terribili, la maggior parte delle quali per Teyeo erano meri nomi. Solo alcuni erano invenzione del suo stesso paese: la bio-bomba, come la chiamavano, e la neuronica.

Personalmente era d'accordo col giudizio dell'Ekumene su quegli strumenti. Apprezzava la loro pazienza nell'attesa che il Voe Deo e il resto di Werel dimostrassero non solo di rispettarne il bando ma accettassero anche il principio. Però detestava profondamente la loro condiscendenza. Si arrogavano l'autorità di giudicare su qualunque cosa riguardasse Werel, osservando dall'alto. Meno parlavano della divisione delle classi, e più chiara era la loro riprovazione. «La schiavitù è un fenomeno molto raro nei mondi dell'Ekumene,» dicevano i loro libri, «e sparisce del tutto con la partecipazione piena alla politica ecumenica». Era quello che l'ambasciata aliena stava veramente aspettando?

«Santo cielo!» disse un giovane ufficiale – molti di loro erano Tualiti, oltre che uomini d'affari. «Gli Alieni ammetteranno i polverosi prima di ammettere noi!» Stava borbottando indignato, come un vecchio rega paonazzo in volto di fronte a uno schiavo insolente. «Yeowe, un dannato pianeta di selvaggi, di tribù regredite nella barbarie… preferiscono quelli a noi!»

«Hanno combattuto da valorosi,» osservò Teyeo, sapendo che non avrebbe dovuto dire quello che aveva appena detto, ma non gli piaceva sentir dare del polveroso agli uomini e alle donne contro cui aveva combattuto. Ribelli, nemici, proprietà, questo sì.

Il giovane lo squadrò ben bene, e dopo un momento gli disse, «Suppongo che tu gli voglia bene, eh, ai polverosi?»

«Ne ho ammazzati più che potevo,» replicò Teyeo con voce cortese, poi cambiò discorso. Il giovane, anche se nominalmente superiore di Teyeo al comando generale, era un oga, il rango più basso dei veot, e sarebbe stato maleducato snobbarlo ulteriormente.

Quelli erano dei presuntuosi, e lui era permaloso. I bei tempi andati in amicizia e allegria erano un ricordo fievole. I capi del comando ascoltarono la sua richiesta di essere messo di nuovo in servizio attivo e lo schiaffarono da un dipartimento all'altro. Non poteva vivere in caserma, doveva trovare un appartamento, come un civile. La sua mezza paga non gli permetteva di indulgere nei piaceri costosi della città. Mentre aspettava di essere ricevuto da questo o da quell'ufficiale, passava le giornate nella biblioteca in rete dell'accademia degli ufficiali. Sapeva che la sua educazione era incompleta e superata. Se il suo paese si fosse unito all'Ekumene, per dimostrarsi utile doveva saperne di più sui sistemi di pensiero alieni e sulle nuove tecnologie. Poco sicuro di quello che doveva sapere, si muoveva a casaccio nel complesso della rete, meravigliato dalle infinite informazioni accessibili, sempre più consapevole di non essere un intellettuale o uno studioso, e che non avrebbe mai capito le menti aliene. Eppure, con testardaggine, si sforzava di farcela.

Un tale dell'ambasciata teneva sulla rete pubblica un corso introduttivo sulla storia dell'Ekumene. Teyeo si unì al gruppo e partecipò a otto o dieci lezioni e dibattiti, fermo e deciso, con le sole mani che si muovevano appena mentre prendeva appunti metodici. L'insegnante, originario di Hain, che traduceva il suo nome terribilmente lungo in lingua hainese come "Vecchia Musica", guardava spesso Teyeo e cercava di coinvolgerlo nella discussione. Alla fine gli chiese di trattenersi dopo la lezione. «Mi piacerebbe fare due chiacchiere con te, rega,» disse quando gli altri avevano già finito.

Si incontrarono in un caffè. Si incontrarono ancora. Teyeo non gradiva le maniere dell'Alieno, che trovava troppo espansive. Non si fidava della sua mente veloce e scaltra. Era convinto che Vecchia Musica si servisse di lui, che lo studiasse come un esemplare del veot, del soldato, probabilmente del barbaro. L'Alieno, sicuro della sua superiorità, era indifferente alla freddezza di Teyeo, ignorava la sua diffidenza, insisteva nell'aiutarlo con informazioni e consigli, e ripeteva spudoratamente le domande a cui Teyeo evitava di rispondere. Una di queste era, «Perché te ne stai qui a mezza paga?»

«Non è una mia scelta, signor Vecchia Musica,» rispose finalmente Teyeo la terza volta che glielo chiese. Era molto arrabbiato per l'impudenza dell'uomo e quindi parlò con particolare moderazione. Teneva lo sguardo discosto dagli occhi di Vecchia Musica, occhi azzurrognoli, con il bianco che spuntava come in un cavallo impaurito. Non riusciva ad abituarsi agli occhi degli Alieni.

«Non ti rimettono in servizio attivo?»

Teyeo annuì gentilmente. Possibile che quell'uomo, nonostante fosse di un altro mondo, non s'accorgesse minimamente del fatto che le sue domande erano smaccatamente umilianti?

«Vorresti servire nella guardia dell'ambasciata?»

Quella domanda lasciò Teyeo senza parole per un momento, poi commise l'estrema scorrettezza di rispondere a una domanda con un'altra domanda. «Perché me lo chiede?»

«Mi piacerebbe avere un uomo con le tue capacità in quel corpo,» disse Vecchia Musica, aggiungendo, con la sua franchezza terrificante, «Per la maggior parte sono spie o stupidi. Sarebbe fantastico avere un uomo che so non essere né l'uno né l'altro. Non si tratta soltanto di fare la sentinella, sai? Immagino che il tuo governo ti chiederà informazioni, c'è da aspettarselo. E noi ti useremo, appena ti sarai impratichito, e solo se sarai d'accordo, come ufficiale di collegamento, qui o in altri paesi. Però non ti chiederemo di darci informazioni. Sono stato chiaro, Teyeo? Non voglio che ci siano degli equivoci fra noi riguardo a quello che ti sto chiedendo».

«Lei sarebbe in grado…?» chiese cautamente Teyeo.

Vecchia Musica si mise a ridere e disse, «Sì, ho un aggancio nel vostro comando, un vecchio favore che mi devono. Ci penserai su?»

Teyeo rimase in silenzio per un minuto. Era quasi un anno che stava nella capitale, e le sue richieste di assunzione avevano solo incontrato evasività burocratiche e recentemente accenni al fatto che venivano considerate gesti insubordinati. «Accetto subito, se posso,» disse con una fredda deferenza.

L'Hainese lo guardò, passando dal sorriso a uno sguardo fisso e pensieroso. «Grazie,» disse. «Avrai notizie dal comando fra pochi giorni.»

Così Teyeo si rimise l'uniforme, tornò alla caserma cittadina e prestò servizio altri sette anni in territorio alieno. L'ambasciata ecumenica, per un accordo diplomatico, non faceva parte di Werel ma dell'Ekumene, un pezzo del pianeta che si era ormai staccato. Le guardie, fornite dal Voe Deo, erano protettive e decorative, una presenza altamente visibile nei prati dell'ambasciata con le loro uniformi bianche e dorate. Erano anche visibilmente armate, visto che le proteste contro la presenza aliena talvolta sfociavano nella violenza.

Rega Teyeo, all'inizio assegnato al comando di un plotone di queste guardie, presto fu trasferito a un compito diverso, quello di accompagnare i vari membri del personale dell'ambasciata per la città e in viaggio. Servì come guardia del corpo in bassa uniforme. L'ambasciata preferiva non usare la loro propria gente e le proprie armi, ma affidava la protezione al Voe Deo. Spesso gli veniva chiesto di fare da guida e interprete, e a volte da accompagnatore. Non gli piaceva quando visitatori di altri mondi dello spazio volevano essere amichevoli, chiedendogli notizie su di lui e invitandolo a bere con loro. Con disgusto perfettamente nascosto, con assoluta correttezza, rifiutava le offerte, faceva il suo lavoro e manteneva le distanze. Sapeva che era precisamente quello che l'ambasciata voleva da lui. La loro fiducia in lui gli dava una gelida soddisfazione.

Il suo stesso governo non aveva mai chiesto di fornirgli informazioni, nonostante lui sapesse cose a cui loro erano certamente interessati. I servizi segreti del Voe Deo non reclutavano agenti fra i veot. Lui sapeva chi erano gli agenti a guardia dell'ambasciata. Alcuni di loro cercarono di strappargli informazioni, ma Teyeo non aveva nessuna voglia di spiare per le spie.

Vecchia Musica, che lui supponeva fosse a capo del sistema dei servizi segreti dell'ambasciata, lo chiamò a casa sua al ritorno da un congedo invernale. L'Hainese aveva imparato a non fare discorsi personali con Teyeo, ma non poté nascondere una nota di affetto nel salutarlo. «Ciao, rega, spero che la tua famiglia stia bene. Ottimo. Ho un lavoro molto pericoloso per te. Il regno del Gatay. Tu eri là con Kemehan due anni fa, vero? Be', adesso vogliono che gli mandiamo un inviato, sostengono che vogliono unirsi. Naturalmente il vecchio re è una marionetta del tuo governo, ma c'è molto di più. Un movimento separatista religioso molto forte. Una causa nazionalista che vuol cacciar via tutti gli stranieri, che siano del Voe Deo oppure alieni. Ma il re e il consiglio hanno richiesto un Nunzio e tutto quello che abbiamo da mandargli è una pivellina. Ti potrà dare qualche problema finché non avrà imparato i segreti del mestiere. La trovo un po' testarda. Materiale di prim'ordine, ma giovane, molto giovane. Ed è qui solo da qualche settimana. Ho richiesto te perché quella ha bisogno della tua esperienza. Sii paziente con lei, rega. Penso che la troverai piacevole.»

Non fu così. In sette anni si era abituato agli occhi degli Alieni, i loro vari odori, colori e maniere. Al riparo della sua cortesia impassibile e del suo codice stoico, aveva sopportato e ignorato il loro comportamento strano o disturbante, la loro ignoranza e il loro modo di pensare così diverso. Mentre serviva e proteggeva gli stranieri affidati a lui, si manteneva alla larga da loro, non si lasciava coinvolgere né li coinvolgeva. Le persone affidate alle sue cure impararono a contare su di lui senza pretendere troppo. Le donne erano spesso più veloci degli uomini a rispondere al suo segnale di stare alla larga. Teyeo aveva un rapporto rilassato, quasi amichevole, con un vecchio osservatore terrestre che aveva accompagnato in vari viaggi di esplorazione. «È così tranquillizzante stare con te, rega, che sembra di stare con un gatto,» gli disse una volta, mentre lui soppesava il complimento. Ma l'inviato per il Gatay era un altro paio di maniche.

Lei era fisicamente splendida, con la pelle chiara, d'un marrone rossiccio, come quella di un bambino, capelli ondulati lucidi, una camminata sciolta… troppo sciolta. Faceva sfoggio del suo corpo giovane e snello a uomini che non ne avevano l'accesso, esibendolo a lui e a chiunque altro senza pudore, con sollecitudine. Esprimeva la sua opinione su tutto con una rude sicurezza. Era una bambina viziata e aggressiva con la sessualità di un adulto, date le responsabilità di un diplomatico in un paese pericolosamente instabile. Teyeo scoprì, non appena l'ebbe conosciuta meglio, che questo era un incarico impossibile. Non poteva fidarsi di lei né di se stesso. La sua spudoratezza sessuale lo attraeva e lo disgustava. Era una puttana che lui doveva trattare come una principessa. Costretto a resistere e incapace di ignorarla, la odiò.

Era più predisposto alla rabbia di quanto non fosse mai stato, ma non all'odio. E questo gli dava molto fastidio. Non aveva mai chiesto in vita sua una riassegnazione, ma il giorno dopo che quella aveva fatto entrare il makil nella sua stanza, mandò una supplica decisa all'ambasciata. Vecchia Musica gli rispose con un messaggio sonoro sigillato, attraverso il canale diplomatico, «L'amore di Dio e del tuo paese è come il fuoco, un amico stupendo, un nemico terribile. Solo i bambini giocano col fuoco. Non mi piace questa situazione. Non c'è nessuno con cui ti posso sostituire, o sostituire lei. Riesci a resistere per un altro po'?»

Non sapeva come rifiutare. Un veot non rifiutava mai il dovere. Si vergognava di averci anche solo pensato, e la odiò anche per avergli causato quella vergogna.

La prima frase del messaggio era enigmatica, non era nello stile usuale di Vecchia Musica, ma ornato, indiretto, come un avvertimento in codice. Teyeo naturalmente non conosceva nessuno dei codici del servizio segreto del suo paese o di quello dell'Ekumene. Con lui Vecchia Musica doveva usare accenni e vie traverse. "L'amore di Dio e del tuo paese" poteva riferirsi ai Vecchi Credenti e ai Patrioti, due gruppi sovversivi del Gatay, entrambi fanatici nemici dell'influenza straniera, e il Nunzio poteva essere il bambino che giocava col fuoco. Possibile che lei fosse stata avvicinata da un gruppo o dall'altro? Non ne aveva nessuna prova, a meno che l'uomo nell'ombra di quella notte non fosse un uomo armato di coltello bensì un messaggero. Lei era sotto i suoi occhi tutto il giorno, la sua casa era sorvegliata tutta la notte dai soldati posti sotto il suo comando. Di sicuro il makil, Batikam, non agiva per nessuno di quei gruppi. Poteva anche essere un membro dell'Hame, il movimento clandestino di liberazione delle proprietà del Voe Deo, ma ciò non avrebbe messo in pericolo il Nunzio, visto che l'Hame vedeva l'Ekumene come il lasciapassare per Yeowe e la libertà.

Teyeo si scervellò sulle parole, riflettendoci in continuazione, conscio della propria stupidità di fronte a questo tipo di finezze, ai retroscena del labirinto della politica. Alla fine cancellò il messaggio e sbadigliò perché era tardi. Fece il bagno, si sdraiò nel letto, spense la luce e bisbigliò, «Kamye, fa' che riesca a tener fede con coraggio alla sola cosa nobile che mi resta!» e dormì come un sasso.


Il makil tornò a casa del Nunzio tutte le sere dopo il teatro. Teyeo cercava di ripetersi che non c'era niente di sbagliato in ciò. Lui stesso aveva passato notti intere con i makil nei bei giorni prima della guerra. Il sesso artistico, esperto, faceva parte del loro lavoro. Sapeva, per sentito dire, che le donne abbienti di città spesso li pagavano per sopperire alle deficienze dei mariti. Ma anche quelle donne lo facevano discretamente, in segreto, non in modo così volgare, senza pudore e decenza, facendosi beffe del codice morale, come se lei avesse il diritto di fare quello che voleva ovunque e sempre. Naturalmente Batikam agiva in perfetto accordo con il Nunzio, approfittava della sua infatuazione, prendendo in giro gli abitanti del Gatay, Teyeo… e lei stessa, anche se l'inviato non lo sapeva. Che grande opportunità per una proprietà di farsi beffe di tutti i possidenti in una volta sola.

Guardando Batikam, Teyeo era sicuro che fosse un membro dell'Hame. Questo sbeffeggiamento era molto sottile, non cercava di disonorare il Nunzio. Infatti la discrezione di Batikam era molto più grande di quella della donna, perché cercava di impedirle di disonorarsi da sola. Il makil ricambiava la fredda cortesia di Teyeo, ma una o due volte i loro occhi si incrociarono, e una breve comprensione involontaria passò fra di loro, fraterna, ironica.

Era prevista una celebrazione pubblica in osservanza della festa tualita del Perdono, alla quale il Nunzio fu invitato con insistenza dal re e dal consiglio. Lei veniva messa in mostra in molti eventi del genere. Teyeo non aveva opinioni al riguardo, si preoccupava solo a provvedere alla sua sicurezza in mezzo a una folla eccitata per la festa, finché San gli disse che il giorno della ricorrenza era la festa comandata più importante della vecchia religione del Gatay, e che i vecchi credenti risentivano fortemente l'imposizione dei riti stranieri sopra i propri. L'ometto sembrava genuinamente preoccupato. Teyeo si preoccupò anche lui quando il giorno dopo San fu sostituito improvvisamente da un uomo più anziano che parlava solo in gatayano, e che era incapace di spiegare cosa fosse successo a San Ubattat. «Altri doveri, altri doveri chiamare,» disse quello in un voedeano molto rozzo, sorridendo e inchinandosi. «Tempo di grandi gioie, eh? Gioie chiamare a doveri.»

Durante i giorni che precedettero la festa, in città si diffuse una certa tensione. Su tutti i muri erano comparsi dei graffiti con i simboli della vecchia religione, un tempio tualita fu profanato, dopodiché la guardia reale invase massicciamente le strade. Teyeo andò al palazzo a chiedere di propria iniziativa che all'inviato non fosse richiesto di apparire in pubblico durante una cerimonia che "con molta probabilità sarebbe stata disturbata da dimostrazioni inappropriate". Fu fatto entrare e trattato da un ufficiale di corte con un misto di insolenza sdegnosa, cenni conniventi e strizzate d'occhio che lo misero veramente a disagio. Quella notte, lasciò quattro uomini di guardia di fronte alla casa dell'inviato. Tornando al suo alloggio, in una piccola caserma in fondo alla strada che era stata ceduta alla guardia dell'ambasciata, trovò la finestra della sua stanza aperta e un pezzo di carta scritto nella sua lingua, sul tavolo: La f del Perd è pronta per un assassisnio.

La mattina successiva raggiunse la casa dell'inviato di buon'ora, e chiese alla sua proprietà di dirle che doveva parlarle. Solly uscì dalla stanza da letto coprendosi il corpo nudo con un drappo bianco. Batikam la seguì mezzo svestito, ancora assonnato, e divertito. Teyeo gli lanciò un'occhiata che gli intimava di andarsene, che il makil accolse con un sorriso superiore, sereno, mormorando alla donna, «Vado a fare colazione. Rewe, hai qualcosa da mangiare?» Poi seguì la schiava fuori dalla stanza. Teyeo affrontò direttamente il Nunzio, tirando fuori il pezzo di carta.

«Ho ricevuto questo ieri sera, signora,» disse. «Devo chiederle di non presenziare alla festa di domani.» Lei studiò il foglio, lesse lo scritto e sbadigliò. «Di chi è?»

«Non lo so, signora.»

«Cosa vuol dire assassisnio? Assassinio? Non sanno neanche scriverlo correttamente?»

Dopo un istante di pausa, lui disse, «Abbiamo un certo numero di altre indicazioni… sufficienti perché io le chieda…»

«Di non presenziare alla festa del Perdono, sì, ti ho sentito.» Si avvicinò a uno sgabello vicino alla finestra. Nel sedersi, la vestaglia si aprì, scoprendole le gambe. I nudi piedi scuri erano piccoli e agili, le piante rosa, le dita piccole e regolari. Teyeo si mise a fissare l'aria dietro la testa della donna. Lei rigirò il pezzo di carta fra le dita. «Se pensi che sia pericoloso, rega, portati dietro una guardia o due,» disse con un vago tono di disprezzo. «Devo andarci assolutamente. Lo sai, il re l'ha richiesto espressamente. Devo accendere il grande fuoco e cose del genere. Una delle poche cose che le donne possono fare in pubblico in questo posto… Non posso tirarmi indietro.» Levò in alto il foglio, e poco dopo lui si avvicinò abbastanza per toglierglielo di mano. Lei lo guardò sorridendo. Quando lo sconfiggeva, gli rivolgeva sempre un sorriso. «Chi pensi che voglia farmi saltare in aria? I Patrioti?»

«O i Vecchi Credenti, signora. Domani è una delle loro festività.»

«I tuoi Tualiti gliel'hanno tolta. Be', non possono dar la colpa all'Ekumene, no?»

«Penso ci sia qualche possibilità che il governo permetta atti di violenza per avere la scusa per un contrattacco, signora.»

Lei stava per rispondere con noncuranza, poi si rese conto di quello che lui intendeva dire e aggrottò le sopracciglia. «Pensi che il consiglio stia cercando di fregarmi? Che prove hai?»

Dopo un momento di pausa, Teyeo le disse, «Molto poche, signora. San Ubattat…»

«San è malato. Quel vecchio che ci hanno mandato non serve a molto, ma è ben poco pericoloso. È tutto qui?» Visto che lui non rispondeva, Solly continuò, «Finché non hai delle vere prove, rega, non interferire nei miei impegni. La tua paranoia militaristica non è accettabile quando si estende alla gente con cui ho a che fare quaggiù. Controllati, per favore, mi aspetto che ci siano una guardia o due in più domani, e mi basta».

«Sissignore,» disse lui, e uscì. Gli fischiavano le orecchie per la rabbia. Gli venne in mente che la nuova guida aveva detto che San Ubattat non era potuto venire per certi doveri religiosi, non perché era malato. Non si girò. A cosa serviva? «Stai di guardia per un'ora o due, va bene, Seyem?» disse alla guardia al cancello, e risalì a grandi passi la strada, cercando di allontanarsi da lei, dalle sue cosce brune e soffici, e dalle piante rosa dei suoi piedi, e dalla sua stupida voce insolente da puttana che gli dava degli ordini. Cercò di farsi distrarre dall'aria fredda, dalla luce per le strade, dalle vie a gradoni scintillanti per gli stendardi della festa, dal luccichio delle grandi montagne, dal clamore dei mercatini. Ma mentre camminava vedeva solo la sua stessa ombra cadergli davanti come un coltello fra le pietre, conscia della futilità della sua esistenza.

«Il veot sembrava preoccupato,» disse Batikam con la sua voce vellutata, e Solly rise, mentre infilzava un frutto dal piatto e se lo ficcava in bocca.

«Sono pronta per la colazione, adesso, Rewe,» chiamò Solly, e si sedette di fronte a Batikam. «Ho fame! Quello stava facendo una delle sue solite scenate fallocratiche. Non mi ha salvato da niente, in questi ultimi tempi. È la sua sola funzione, dopotutto. Così deve inventarsi delle occasioni. Vorrei tanto che stesse lontano da me. È così bello non avere il povero vecchio San intorno come una specie di piattola. Se solo riuscissi a sbarazzarmi anche del maggiore!»

«È un uomo d'onore,» disse il makil. Il suo tono non sembrava affatto ironico.

«Come fa un proprietario di schiavi a essere un uomo d'onore?»

Batikam la guardò coi suoi grandi occhi scuri. Lei non riusciva a leggere negli occhi della gente di Werel, belli com'erano, colmi di buio.

«I rappresentanti della gerarchia maschile blaterano di continuo del loro onore prezioso,» proseguì lei. «E dell'onore delle loro donne, naturalmente.»

«L'onore è un gran privilegio,» disse Batikam. «Glielo invidio. E invidio anche lui.»

«Oh, al diavolo tutta quella falsa dignità, è solo piscia per marcare il tuo territorio. La sola cosa che gli devi invidiare, Batikam, è la sua libertà.»

Lui sorrise. «Tu sei la sola persona che abbia mai conosciuto che non fosse né posseduta né possidente. Questa sì che è libertà. Mi chiedo se tu te ne renda conto.»

«Naturale che me ne rendo conto,» disse Solly. Lui sorrise, e continuò a mangiare, ma c'era stato qualcosa nella sua voce che lei non aveva mai sentito prima. Commossa e un po' turbata, poco dopo gli disse, «Te ne andrai presto».

«Mi leggi nel pensiero. Sì, fra dieci giorni la compagnia va in tournée per i Quaranta Stati.»

«Oh, Batikam, mi mancherai tanto! Sei l'unica persona di qui con cui possa parlare… a parte il sesso…»

«L'abbiamo mai fatto?»

«Non spesso,» fece lei ridendo, ma con voce un po' turbata. Lui le tese la mano, lei gli andò incontro e gli si sedette in grembo, con la vestaglia che si apriva. «Piccoli e dolci seni da diplomatico,» disse il makil, sfiorandola con le labbra e accarezzandola, «dolce pancino da diplomatico…» Rewe entrò con un vassoio e lo appoggiò piano. «Mangia la tua colazione, piccolo Nunzio,» disse Batikam, e lei si liberò dal suo abbraccio per tornare sorridente alla sua sedia.

«Visto che sei libera, sta a te essere onesta,» disse lui, sbucciando meticolosamente un frutto. «Non essere troppo dura con quelli di noi che non lo sono e non possono esserlo.» Tagliò un pezzetto e la imboccò dall'altra parte del tavolo. «È stato un assaggio di libertà conoscerti,» disse. «Un accenno, un'ombra…»

«Nel giro di pochi anni al massimo, Batikam, tu sarai libero. Questa intera struttura idiota di padroni e schiavi collasserà completamente appena Werel entrerà nell'Ekumene.»

«Se avverrà.»

«Certo che avverrà.»

Lui si strinse nelle spalle. «La mia casa è Yeowe,» asserì.

Lei lo guardò fisso, confusa. «Tu vieni da Yeowe?»

«Non ci sono mai stato,» disse lui. «Probabilmente non ci andrò mai. Cosa se ne fanno quelli dei makil? Ma è la mia patria, quella è la mia gente, quella è la mia libertà. Quand'è che capirai?» Il suo pugno era serrato, e l'aprì con un gesto leggero, come se lasciasse cadere qualcosa. Poi sorrise e ritornò alla sua colazione. «Devo tornare a teatro,» disse. «Dobbiamo fare le prove di una rappresentazione per il giorno del Perdono.»

Lei perse tutto il giorno a corte. Aveva fatto ripetuti tentativi per ottenere il permesso di visitare le miniere e le immense fattorie del governo dall'altra parte delle montagne, da cui derivava il benessere del Gatay. Era stata ostacolata con altrettanta insistenza. Dal protocollo e dalla burocrazia del governo, aveva pensato dapprima, dalla loro scarsa volontà di lasciare che un diplomatico facesse qualsiasi cosa tranne andare in giro a presenziare a eventi inutili. Ma alcuni uomini d'affari avevano lasciato trapelare, a proposito delle condizioni di miniere e fattorie, qualcosa che le aveva fatto pensare che quei luoghi potessero nascondere un tipo di schiavitù molto più brutale di quella riscontrabile nella capitale. Quel giorno non era andata da nessuna parte, nell'attesa di appuntamenti che non erano stati rispettati. Il vecchio che aveva preso il posto di San fraintendeva la maggior parte di quello che lei diceva in lingua del Voe Deo, e anche quando Solly provava a parlare in gatayano, lui non ci capiva nulla, vuoi per stupidità vuoi per cattiva volontà. Il maggiore, per fortuna, restò via la maggior parte della mattina, sostituito da uno dei suoi soldati. Ma poi comparve a corte, rigido, silenzioso e con la mascella protesa, e rimase con lei fino a quando, stremata, decise di tornare a casa a farsi un bagno.

Batikam arrivò tardi, quella notte. Nel mezzo di uno degli elaborati giochi di fantasia con tanto di scambi di ruolo che aveva imparato da lui e che aveva sempre trovato così eccitanti, le carezze del makil diventarono sempre più lente, soffici come piume, tanto che lei tremò di desiderio insoddisfatto e, premendo il suo corpo contro quello dell'uomo, si accorse che si era addormentato. «Svegliati,» gli disse ridendo ma con tono gelido, e lo scosse un po'. Gli occhi scuri si spalancarono, confusi, pieni di timore.

«Mi dispiace,» gli disse subito, «torna a dormire, sei stanco. No no, è tutto a posto, è tardi.» Ma lui riprese quello che lei ora era costretta a considerare un lavoro, nonostante la sua tenerezza e abilità.

La mattina a colazione gli disse, «Mi vedi come un tuo pari, Batikam?»

Lui era stanco e sembrava più vecchio del solito. Non sorrise. Dopo un po' disse, «Cosa vuoi che ti dica?»

«Dì sì.»

«Sì,» rispose lui con calma.

«Non ti fidi di me,» fece lei amareggiata

Dopo un po' lui disse, «Oggi è il Giorno del Perdono. Nostra Signora di Tual venne agli uomini di Asdok, che avevano sguinzagliato i gatti da caccia dietro ai suoi seguaci. Lei giunse fra di loro cavalcando un grande gatto da caccia con la lingua di fuoco ed essi caddero in preda al terrore, ma lei li benedisse perdonandoli.» Il tono di voce e i gesti delle mani le facevano intravedere la storia mentre lui la raccontava. «Perdonami,» le disse.

«Tu non hai bisogno di alcun perdono.»

«Oh, tutti ne abbiamo bisogno, è per questo che noi Kamyiti ricorriamo a Nostra Signora di Tual, certe volte. Quando abbiamo bisogno di lei. Così, oggi sarai tu la Nostra Signora di Tual, nel rito?»

«Tutto quel che devo fare è accendere un fuoco, almeno così mi hanno detto,» replicò lei, ansiosa, e lui rise. Mentre il makil se ne andava, Solly gli disse che sarebbe andata a teatro a vederlo, la sera, dopo la festa.

La pista per le corse di cavalli, l'unica area piatta di una certa grandezza vicino alla città, era gremita di venditori urlanti e di stendardi che svolazzavano. Le auto reali passarono proprio in mezzo alla folla, che si divise come l'acqua e si richiuse dopo il passaggio. Per i notabili e i possidenti erano state erette alcune gradinate dall'aspetto instabile, con una zona protetta da tende per le signore. Lei vide un'auto sfrecciare verso gli spalti. Una figura avvolta in un tessuto rosso fu scacciata in fretta e furia dalle tende, e sparì. C'erano dei buchi da cui le signore potessero guardare la cerimonia? Scorse delle donne nella folla, ma erano solo schiave, proprietà. Capì anche che sarebbe stata nascosta fino al momento della cerimonia. Una tenda rossa l'aspettava di fianco alle gradinate, non lontana dalla zona coperta, dove i preti stavano salmodiando. Fu fatta scendere dall'auto e portata velocemente nella tenda da gentiluomini ossequiosi e determinati.

Le schiave nella tenda le offrirono tè, dolci, specchi, trucco e balsamo per capelli, e l'aiutarono a indossare il pomposo vestito di tessuto rosso e giallo, il suo costume per la breve impersonificazione di Nostra Signora di Tual. Nessuno le aveva detto chiaramente quello che doveva fare, e alle sue domande le donne risposero, «I preti te lo mostreranno, Signora, tu vai con loro. Tu devi solo accendere il fuoco. È tutto pronto». Aveva l'impressione che non sapessero molto di più di quello che sapeva lei stessa. Erano tutte ragazze carine, schiave di corte, chiamate a far parte dello spettacolo, indifferenti alla religione. Conosceva il simbolismo del fuoco che doveva accendere. In esso gli errori e i peccati potevano essere respinti e bruciati, dimenticati. Era un'idea simpatica.

Là fuori i preti si stavano scatenando. Diede un'occhiata. C'erano in effetti dei buchi nella tenda. Vide che la folla si era infittita. Nessuno che non si trovasse sulle gradinate o vicino ai cordoni poteva vedere alcunché, ma tutti agitavano stendardi rossi e gialli, mangiavano frittelle e facevano festa mentre i preti continuavano a cantare. Alla destra del suo piccolo campo visivo disturbato notò un braccio familiare. Naturalmente era quello del maggiore. Non l'avevano lasciato salire nell'auto con lei, doveva essere furioso. Ma era arrivato sin lì, e si era piazzato di guardia. «Signora, Signora,» dicevano le damigelle di corte, «adesso arrivano i preti,» e le ronzarono intorno accertandosi che la sua acconciatura fosse a posto e che quelle gonne maledette avessero la piega giusta. La stavano ancora lisciando e aggiustando mentre usciva dalla tenda. Abbagliata dalla luce del giorno, sorridente, cercò di tenersi eretta e dignitosa, come si conveniva a una dea. Non voleva certo rovinare la cerimonia.

Due uomini con paramenti sacerdotali la stavano aspettando proprio fuori dalla porta della tenda. Subito l'afferrarono per i gomiti, dicendo, «Da questa parte, da questa parte, Signora». Evidentemente non doveva cercare di capire quello che doveva fare. Senza dubbio consideravano le donne esseri incapaci di pensare, ma in quelle circostanze era un sollievo. I preti si affrettarono, più veloci di quanto lei potesse camminare con quella gonna attillata. Adesso erano giunti dietro le gradinate. Ma l'entrata non era dall'altra parte? Una macchina stava arrivando verso di loro facendo spostare la poca gente che le si parava davanti. Qualcuno gridò, i preti cominciarono improvvisamente a spingerla con violenza, cercando di mettersi a correre. Uno di loro strillò e le lasciò il braccio, essendo stato gettato a terra da un'ombra volante che l'aveva colpito all'improvviso. Lei si ritrovò nel mezzo di una rissa, incapace di liberare il braccio dalla morsa, con le gambe imprigionate nella gonna, e sentì un rumore, un rumore fortissimo che la colpì alla testa e gliela fece piegare. Non riusciva più a sentire né a vedere nulla, mentre si dibatteva accecata. Fu spinta a faccia in giù in un posto buio, con il viso premuto contro una soffocante oscurità scabrosa e le braccia bloccate dietro la schiena.

Una macchina in movimento. Passò molto tempo. Uomini che parlavano a bassa voce. La lingua del Gatay. Riusciva a malapena a respirare. Lei non lottò, non aveva senso. Le avevano legato braccia e gambe, coperta la testa con un sacco. Dopo un lungo intervallo fu sollevata come un cadavere, trasportata velocemente al piano di sotto e depositata su un divano o su un letto, con la stessa fretta disperata ma senza durezza. Lei rimase immobile. Gli uomini parlavano, quasi sottovoce. Non capiva nulla. In testa sentiva ancora quel rumore fortissimo. Era un rumore, vero? Era stata colpita? Si sentiva sorda come se stesse dietro un muro di cotone. Il tessuto del sacco continuava a incastrarsi in bocca, attaccandosi alle narici mentre cercava di respirare.

Glielo tolsero. Un uomo, chinandosi su di lei, la girò in modo da poterle slegare le braccia, e poi le gambe, mormorando nella lingua del Voe Deo, «Non aver paura, Signora. Non vogliamo farti del male». Quindi arretrò velocemente. Erano in quattro o cinque, era difficile vedere, c'era poca luce. «Aspettare qui,» disse un altro. «Tutto bene. Solo per farti contenta.» Cercò di mettersi seduta, ma quel gesto le fece venire le vertigini. Quando la testa smise di girare erano spariti tutti, come per magia. Solo per farla contenta.

Era una stanza piccola, molto alta, muri di mattoni scuri, aria polverosa. La luce veniva da una placca bio-luminescente attaccata al soffitto, un debole bagliore senza ombra, forse sufficiente per occhi wereliani. Solo per farmi contenta. Sono stata rapita, pensa un po'. Cercò di inventariare quello che aveva intorno: il grosso materasso su cui giaceva; una coperta; una porta; una piccola caraffa e una tazza; un buco di scarico, o qualcosa del genere, là nell'angolo. Quando gettò le gambe giù dal materasso, i piedi colpirono qualcosa sul pavimento. Si tirò su e scrutò la massa buia, il corpo lì disteso. Un uomo. L'uniforme scura, la pelle così nera che non riusciva a scorgerne i lineamenti. Ma lo riconobbe. Anche lì, il maggiore era con lei.

Si alzò vacillante, cercando di investigare sul buco di scarico, che era semplicemente quello che pensava: un buco bordato di cemento aperto nel pavimento, che puzzava di sostanze chimiche, leggermente ripugnante. La testa le doleva, e si risedette sul letto, per massaggiarsi le braccia e le caviglie, per rallentare la tensione e il dolore, toccandosi come per assicurarsi che fosse tutto vero, ritmica e metodica. Mi hanno rapita, pensa un po'. Solo per farmi contenta. E a lui che è successo?

Pensando di colpo che potesse essere morto, rabbrividì e rimase immobile.

Dopo un po' si abbassò lentamente sul maggiore cercando di vedergli il viso, di ascoltare. Di nuovo si sentì come sorda. Non udiva nessun respiro. Si allungò tremante, con la nausea, e appoggiò il palmo della mano sulla faccia dell'uomo. Era fredda, molto fredda. Ma il calore tornò a soffiarle tra le dita, di nuovo. Si accovacciò sul materasso a studiare il maggiore. Giaceva assolutamente immobile, ma quando gli mise la mano sul petto sentì il lento battito del cuore.

«Teyeo,» disse in un bisbiglio. La sua voce non sarebbe andata oltre il bisbiglio.

Gli mise di nuovo la mano sul petto. Voleva sentire quel battito regolare, lento, il debole calore così rassicurante. Solo per farla contenta.

Che altro avevano detto? Di aspettare. Sì, sembrava fosse quello il programma. Forse poteva dormire, e al risveglio sarebbe arrivato il riscatto, o qualunque altra cosa volevano.


Si svegliò con in testa il pensiero che aveva ancora l'orologio, e dopo aver studiato mezza addormentata il piccolo quadrante d'argento, decise che aveva dormito tre ore. Era ancora il giorno della festa, troppo presto per il riscatto, probabilmente. E non sarebbe potuta andare a teatro a vedere i makil, quella sera. I suoi occhi si erano abituati alla luce bassa, così riuscì a vedere che c'era del sangue secco sulla testa dell'uomo. Tastando, trovò un bozzo caldo come un pugno sopra la tempia. Le sue dita si macchiarono. Era stato colpito alla testa. Doveva essere stato lui a lanciarsi contro il prete, il falso prete. Tutto quello che riusciva a ricordare era un'ombra volante, un colpo duro, e un uff! che pareva un attacco con tecnica aiji. Poi c'era stato quel rumore assordante che aveva confuso tutto. Fece schioccare la lingua, batté contro il muro per controllare l'udito. Sembrava che fosse a posto. Il muro di cotone era sparito. Forse era stata colpita anche lei. Si toccò la testa, ma non trovò dei bernoccoli. Il maggiore doveva avere una commozione cerebrale, se era ancora privo di sensi dopo tre ore. Brutta? Quando sarebbero tornati quegli uomini?

Appena si alzò quasi cadde per terra, intrappolata in quella dannata gonna da dea. Se solo avesse avuto indosso i suoi vestiti, invece di quell'abito sfarzoso, tre capi impalpabili che per infilarseli ci voleva l'aiuto delle schiave. Si tolse la gonna e usò lo scialle per improvvisare un gonnellino aderente che le arrivava alle ginocchia. Non faceva affatto caldo in quello scantinato, o qualsiasi cosa fosse. Era umido e assai freddo. Camminò su e giù, quattro passi e si girava, quattro passi e si girava, per fare un po' di riscaldamento. Avevano buttato l'uomo sul pavimento. Quant'era freddo? Poteva essere una commozione cerebrale? Chi subisce un trauma dev'essere tenuto al caldo. Esitò a lungo, incapace di reagire alle proprie indecisioni, al fatto di non sapere cosa fare. Doveva cercare di sollevarlo sul materasso? Era forse meglio non muoverlo? E dove diavolo erano quegli uomini? Stava per morire?

Si chinò su di lui e disse decisa, «Rega! Teyeo!» e dopo un po' il maggiore cominciò a respirare.

«Svegliati!» In quel momento si ricordò, o almeno credette di ricordare, che era importante non lasciare che le persone con una commozione cerebrale cadessero in coma. A parte che lui c'era già caduto.

L'uomo trattenne di nuovo il respiro e il suo viso cambiò, uscendo da quella immobilità rigida, gli occhi si aprirono e si chiusero, annebbiati. «Oh, Kamye,» disse a bassa voce.

Lei non poteva credere a quanto era felice di rivederlo. Solo per farla contenta. Era chiaro che il maggiore aveva un mal di testa accecante, e lui ammise anche di vederci doppio. Lei lo aiutò a tirarsi su e lo coprì con la coperta. Lui non fece domande, giacque muto, scivolando subito nel sonno. Una volta che fu sistemato, lei ricominciò coi suoi esercizi, proseguendo per circa un'ora. Guardò l'orologio. Erano passate due ore dello stesso giorno, il giorno della festa del Perdono. Non era ancora sera. Quando sarebbero arrivati quegli uomini?

Arrivarono la mattina presto, dopo una notte infinita, che fu uguale al pomeriggio e al mattino. La porta di metallo venne aperta con fragore e uno di loro entrò con un vassoio, mentre altri due restarono vicino all'entrata con le armi alzate e puntate. Non c'era posto dove mettere il vassoio tranne che per terra, così il primo uomo lo spinse verso Solly, dicendo, «Mi dispiace, Signora!» e se ne andò. La porta si chiuse con fragore, i chiavistelli scattarono e lei rimase pietrificata, con il vassoio in mano. «Aspettate!» disse.

Il maggiore si era svegliato e si stava guardando intorno intontito. Trovandosi prigioniera in quel posto con lui, Solly aveva dimenticato il suo soprannome, non pensava più a lui come al maggiore, comunque evitò di chiamarlo col nome vero. «Ecco la colazione, immagino,» disse, e si sedette sul bordo del materasso. Sopra il vassoio di vimini era stato gettato un panno, sotto il quale trovò una pila di panini del Gatay ripieni di carne e verdure, un po' di frutta e una caraffa di lega leggera ornata di perline. «Colazione, pranzo e cena, forse,» disse lei. «Merda! Oh, be'. Non sembra male. Ce la fai a mangiare? Ce la fai a sederti?»

Lui si sforzò di sedersi con la schiena contro il muro, poi chiuse gli occhi.

«Ci vedi ancora doppio?»

Lui fece un piccolo cenno di assenso.

«Hai sete?»

Mormorio di assenso.

«Tieni,» disse, e gli passò la tazza. Reggendola con entrambe le mani, lui se la portò alla bocca e bevve l'acqua lentamente, un sorso alla volta. Nel frattempo lei divorò tre panini di fila, poi s'impose di fermarsi e mangiò la frutta. «Vuoi mangiare anche tu un po' di frutta?» gli chiese, sentendosi in colpa. Lui non rispose. Solly pensava a Batikam che l'aveva imboccata con le fette di frutta il giorno prima, a colazione. Sembrava cent'anni fa.

Il cibo nello stomaco le fece venire la nausea. Prese la tazza dalle mani rilassate dell'uomo, che si era addormentato di nuovo, e si versò dell'acqua. Bevve lentamente, un sorso alla volta.

Quando si sentì meglio, andò alla porta e ne controllò i cardini, la serratura e la superficie. Palpò e scrutò le pareti di mattoni, il pavimento di cemento, cercando chissà che, qualcosa con cui scappare, qualcosa… Avrebbe dovuto fare esercizio. Si sforzò di muoversi, ma il malessere tornò e con esso l'apatia. Tornò a sedersi sul materasso. Dopo un po' s'accorse che stava piangendo. Dopo un po' scoprì di avere dormito. Doveva pisciare. Si accucciò sul buco e ascoltò l'urina che ci cadeva dentro. Non c'era niente con cui pulirsi. Tornò a letto e si sedette allungando i muscoli, tenendosi le caviglie fra le mani. C'era un silenzio totale.

Si girò a guardare l'uomo. Lui la stava osservando, poi si voltò dall'altra parte. Giaceva ancora mezzo puntellato contro il muro, scomodo ma rilassato.

«Hai sete?» gli chiese.

«Grazie,» disse lui. In quel luogo, dove niente era familiare e il tempo era separato dal passato, la sua voce dolce e leggera era benvenuta, nella sua familiarità. Lei gli versò una tazza piena e gliela porse. Lui riuscì a sedersi più comodamente per bere. «Grazie,» bisbigliò ancora, restituendole la tazza.

«Come va la testa?»

Lui si portò la mano al bernoccolo, fece una smorfia e si lasciò andare sulla schiena.

«Uno di loro aveva un bastone,» gli disse, vedendolo come in un déjà vu, nel guazzabuglio dei suoi ricordi. «Un bastone pastorale. Tu hai assalito l'altro.»

«Mi hanno preso la pistola,» disse lui. «La festa.» Teneva gli occhi chiusi.

«Sono rimasta intrappolata in quei dannati vestiti, non ti potevo aiutare. Senti, c'è stato un rumore? Un'esplosione?»

«Sì, forse uno stratagemma per distrarre l'attenzione.»

«Chi pensi che siano questi ragazzi?»

«Rivoluzionari. Oppure…»

«Hai detto che pensavi fosse coinvolto il governo del Gatay.»

«Non lo so,» mormorò lui.

«Avevi ragione, e io avevo torto. Mi dispiace,» disse lei con una sensazione virtuosa al pensiero di chiedere scusa.

Lui mosse la mano lentamente, come per dire "non importa".

«Ci vedi ancora doppio?»

Lui non rispose. Stava di nuovo per perdere i sensi.

Solly era in piedi, cercando di ricordarsi gli esercizi di respirazione Selish, quando la porta si aprì rumorosamente, ed entrarono gli stessi tre uomini, due di loro armati, tutti giovani di pelle scura, capelli corti, molto nervosi. Il capo appoggiò un altro vassoio per terra. Senza la minima premeditazione, Solly gli pestò la mano con tutto il peso. «Aspettate!» disse. Fissò i volti e le canne delle pistole degli altri due. «Aspettate un momento, ascoltate! Lui ha una ferita alla testa, abbiamo bisogno di un dottore, abbiamo bisogno di altra acqua, non riesco neanche a pulirgli la ferita, non c'è carta igienica. Chi diavolo siete?»

Quello a cui aveva pestato stava urlando. «Si sposta, Signora! Spostare dalla mia mano!» Ma gli altri l'avevano sentita. Lei sollevò il piede e si spostò mentre lui si alzava velocemente, ritornando accanto ai suoi compagni armati. «Va bene, Signora. Ci dispiace creare problemi,» disse con le lacrime agli occhi, cullandosi la mano. «Siamo Patrioti. Tu mandare nostro messaggio a quell'impostore del re, e nessuno si farà male. Va bene?» Continuò ad arretrare, poi uno degli uomini con la pistola chiuse la porta. Crash!

Lei, dopo un respiro profondo, si girò. Teyeo la stava guardando. «È stato molto pericoloso,» disse con un mezzo sorriso.

«Lo so,» fece lei, respirando a fatica. «E anche stupido. Non riesco a controllarmi. Mi sento a pezzi, ma buttano dentro la roba e scappano, accidenti. Ci serve dell'acqua!» Era in lacrime, come le capitava sempre dopo una crisi violenta o una lite. «Vediamo cosa ci hanno portato questa volta.» Sollevò il vassoio sul materasso. Come l'altro, in una finzione ridicola di servizio alberghiero o di casa con schiavi, era coperto da un tovagliolo. «Tutte le comodità!» mormorò. Sotto il tovagliolo trovò un mucchio di pasticcini, uno specchietto di plastica, un pettine, un piccolo contenitore con qualcosa che puzzava come fiori marciti, e una scatola di quelli che identificò dopo un attimo come assorbenti gatayani.

«È roba da donna,» disse lei. «Gli venga un accidente, che bastardi! Uno specchio!» Lanciò l'oggetto dall'altra parte della stanza. «Naturalmente non riesco a sopravvivere un giorno senza guardarmi allo specchio. Al diavolo!» Lanciò tutto, tranne le paste, sapendo che avrebbe preso gli assorbenti e se li sarebbe messi sotto il materasso e li avrebbe usati, in caso di necessità, se fossero dovuti restare là per molto tempo, Dio ce ne scampi! Quanto sarebbe stato? Dieci giorni o di più? «Dio mio,» ripeté. Si alzò, raccolse tutto, mise lo specchio, il contenitore, la caraffa e le bucce di frutta dell'ultimo pasto su uno dei vassoi, che appoggiò vicino alla porta. «Rifiuti,» disse lei in voedeano. S'era appena accorta che la sua sfuriata era stata fatta in un'altra lingua, probabilmente la lingua di Alterra. «Hai una pallida idea,» disse, sedendosi di nuovo sul materasso, «di quanto rendete difficile a una donna essere una donna? Sareste capaci di convincere una signora a desiderare di cambiar sesso!»

«Penso che le loro intenzioni fossero buone,» disse Teyeo. Lei si accorse che non c'era la minima ombra di scherno o di divertimento nella sua voce. Se lui si stava divertendo della sua vergogna, si vergognava di mostrarlo. «Penso che siano dei principianti,» aggiunse.

Dopo un po' lei disse, «Ciò potrebbe essere un male».

«Forse,» disse lui. Teyeo si era seduto e si toccava il bernoccolo sulla testa. I suoi capelli duri e ruvidi erano tutti incrostati di sangue. «Rapimento,» aggiunse. «Richiesta di riscatto. Non sono assassini, non avevano delle pistole. Non sarebbero potuti entrare con le pistole. Anch'io ho dovuto cedere la mia.»

«Vuoi dire che non sono quelli contro cui eri stato avvertito?»

«Non lo so.» Le sue esplorazioni gli scatenarono un tremito di dolore, perciò desistette. «Abbiamo davvero poca acqua?»

Lei gli portò un'altra tazza piena. «Troppo poca per lavarsi. Cosa ce ne facciamo di quel maledetto stupido specchio quando quello che ci serve è l'acqua?»

Lui la ringraziò, bevve e si risedette, centellinando quello che era rimasto nella tazza. «Il loro piano non prevedeva la mia cattura,» disse.

Lei ci pensò su e annuì. «Avevano paura che li identificassi?»

«Se avessero un posto per me non mi metterebbero qui con una signora.» Parlava senza la minima ironia. «Questo buco era pronto per lei. Dovremmo trovarci da qualche parte della città.»

Solly annuì. «La scarrozzata in macchina è durata meno di mezz'ora, ma avevo la testa in un sacco.»

«Hanno mandato un messaggio al palazzo. Non hanno avuto risposta o forse ne hanno avuta una poco soddisfacente. Vogliono un messaggio da parte sua.»

«Per convincere il governo che mi hanno veramente? Perché hanno bisogno di convincerlo?»

Entrambi rimasero in silenzio.

«Mi dispiace,» disse lui. «Non riesco a pensare.» E si sdraiò. Sentendosi stanca e turbata dopo l'aumentata secrezione di adrenalina, Solly gli si sdraiò a fianco. Aveva fatto un cuscino con la gonna da dea. Lui non ne aveva. La coperta copriva le gambe di entrambi.

«Un cuscino,» disse lei, «più coperte e sapone. Che altro?»

«La chiave,» mormorò lui.

Rimasero distesi fianco a fianco nel silenzio e nella luce debole e costante.


Il giorno dopo, circa alle otto di mattina, secondo l'orologio di Solly, i patrioti tornarono nella stanza, in quattro. Due rimasero a guardia della porta con le pistole spianate, gli altri due stavano in piedi scomodamente in quel po' di spazio rimasto, guardando i loro prigionieri, entrambi seduti a gambe incrociate sul materasso. Il nuovo portavoce parlava il voedeano meglio degli altri. Disse che gli dispiaceva arrecare tanto disturbo alla signora, che avrebbe fatto qualsiasi cosa in suo potere per farla stare più comoda. Lei doveva essere tanto paziente da scrivere un messaggio autografo per il preteso re, spiegando che l'avrebbero lasciata libera e incolume appena il re avesse comandato al consiglio di rescindere il loro trattato con il Voe Deo.

«Non lo farà mai,» disse lei. «Non glielo lasceranno fare.»

«Per favore, non discuta,» disse l'uomo con tono secco e convulso. «Questo è il materiale per scrivere, questo è il messaggio,» e posò i fogli e la penna sul materasso, con un gesto nervoso, come se avesse paura di avvicinarsi a lei.

Solly era consapevole che Teyeo si teneva in disparte, seduto immobile con la testa china, gli occhi bassi. Gli uomini lo ignoravano.

«Se vi scrivo questo, voglio acqua, molta acqua, e sapone e coperte e carta igienica e cuscini e un dottore. E voglio che qualcuno venga subito appena busso a quella porta, e voglio dei vestiti decenti, vestiti caldi, vestiti da uomo.»

«Niente dottore,» disse l'uomo. «Scriva, per favore. Ora!» Era nervoso, irrequieto. Lei non osò insistere. Lesse il messaggio, lo copiò nella sua larga grafia infantile, perché scriveva a mano raramente, e lo consegnò al portavoce. Questi gli diede un'occhiata e senza una parola fece uscire gli altri uomini, poi chiusero la porta.

«Dovevo rifiutarmi?»

«Non penso,» disse Teyeo. Sì alzò, si stirò, poi si sedette di nuovo, in preda alle vertigini. «Sa trattare bene.»

«Vedremo quello che otterremo. Dio mio, cosa sta succedendo?»

«Forse il Gatay non ha intenzione di sottostare a queste richieste, ma quando il Voe Deo e il suo Ekumene lo scopriranno, faranno più pressione sul Gatay.»

«Vorrei che si sbrigassero, immagino che il Gatay sia terribilmente imbarazzato e cerchi di salvarsi la faccia coprendo l'intera faccenda. È possibile? Quanto possono tenerla nascosta? E la tua gente? Non ti cercheranno?»

«Certamente,» rispose Teyeo alla sua maniera gentile.

Era strano come il suo modo di fare così rigido, le sue maniere che l'avevano sempre tenuta lontana da lui, tagliata fuori, quaggiù avessero tutto un altro effetto. Il suo riserbo e il formalismo la rassicuravano sul fatto di fare ancora parte del mondo al di fuori di quella cella, il mondo da cui provenivano e a cui sarebbero tornati, un mondo dove la gente viveva una lunga vita.

Quanto importava una vita lunga? Non lo sapeva. Non ci aveva mai pensato prima. Ma questi giovani patrioti vivevano in un mondo di vite brevi. Bisogni e violenza, emergenza e morte. Per che cosa? Per fanatismo, odio, sete di potere.

«Quando se ne vanno,» disse lei sottovoce, «mi viene davvero paura.»

Teyeo si schiarì la gola e disse, «Anche a me».


Esercizi.

«Afferra… no, tieniti saldo! Non sono fatta di vetro! Adesso!»

«Ah!» fece lui con un sorriso eccitato, mentre Solly gli mostrava la mossa, e a sua volta lui la ripeté, staccandosi da lei.

«D'accordo. Ora tu aspetti qui.» Tunff. «Visto?»

«Ahi.»

«Scusa, mi dispiace, Teyeo, non pensavo alla tua testa, stai bene? Mi dispiace davvero.»

«Oh, Kamye,» si lamentò lui, sedendosi e tenendosi fra le mani la testa bruna e sottile. Respirò a fondo varie volte. Lei si inginocchiò, pentita e ansiosa.

«Non è…» disse lui e respirò ancora. «Non è leale.»

«No, è chiaro che non lo è. È aiji. Tutto è lecito in amore e in guerra, dicono su Terra. Davvero, mi dispiace, mi dispiace terribilmente. È stato così stupido da parte mia.»

Lui si mise a ridere, una risata disperata. Scosse la testa, la scosse di nuovo e disse, «Mostramelo, non capisco come hai fatto».


Esercizi.

«Cosa fai con la tua mente?»

«Niente.»

«La lasci solo vagare?»

«No. Siamo forse esseri diversi, io e la mia mente?»

«Allora non ti focalizzi su qualcosa? Vaghi soltanto?»

«No.»

«Allora non la lasci vagare.»

«Chi?» disse lui, alquanto stizzito.

Una pausa.

«Pensi a…»

«No,» disse lui. «Stai ferma.»

Una lunga pausa, forse un quarto d'ora.

«Teyeo, non ce la faccio, mi brucia, la mia mente brucia. Da quanto tempo lo fai?»

Una pausa e una risposta riluttante. «Fin da quando avevo due anni.»

Lui sciolse la sua posa immobile e del tutto rilassata, piegò la testa per stirare il collo e i muscoli delle spalle. Lei lo stette a guardare.

«Continuo a pensare alla vita, a vivere a lungo,» disse Solly. «Non voglio dire solo essere vivi per molto tempo, accidenti. Io sono viva da circa mille e cento anni. Cosa vuol dire? Nulla. Cioè, c'è qualcosa che fa la differenza nel pensare a una vita lunga, come avere dei figli, anche solo il pensare di avere dei figli. È come se cambiasse un equilibrio. Mi fa ridere il fatto di continuare a pensare a queste cose proprio adesso che le mie possibilità di avere una vita lunga si fanno più scarse.»

Lui non disse niente. Era capace di non dire niente in un modo che le permetteva di continuare a parlare. Era uno degli uomini meno loquaci che avesse mai conosciuto. La maggior parte degli uomini parlava sempre. Anche lei era una gran chiacchierona. Teyeo era un tipo taciturno. Solly avrebbe voluto imparare la virtù del silenzio.

«È solo questione di pratica, vero?» gli chiese. «Solo starsene seduto là.»

Lui annuì.

«Anni e anni e anni di pratica. Dio mio, forse…»

«No, no,» disse lui, leggendole nel pensiero.

«Ma perché non fanno qualcosa? Cosa stanno aspettando? Sono già nove giorni.»


Sin dall'inizio, per un accordo non pianificato e non stipulato a parole, la stanza era stata divisa in due. La linea correva nel mezzo del materasso e fino al muro di fronte. La porta stava dalla parte di Solly, a sinistra, il cesso dalla parte di Teyeo, a destra. Ogni invasione dello spazio dell'altro veniva richiesta con un cenno quasi impercettibile e il permesso veniva dato allo stesso modo. Quando uno dei due usava il cesso, l'altro gli voltava le spalle con discrezione. Quando avevano abbastanza acqua per lavarsi, cosa piuttosto rara, vigeva lo stesso principio. La linea di demarcazione nel mezzo del materasso era assoluta. Le loro voci la oltrepassavano, e così i suoni e gli odori dei loro corpi. A volte lei sentiva il calore del compagno. La temperatura corporea del wereliano era più alta, e nell'aria umida stagnante sentiva quel calore che si irradiava mentre lui dormiva. Ma non varcavano mai la linea, neanche con un dito, neanche nel sonno più profondo.

Solly ci pensava, e trovava la cosa abbastanza divertente, a volte. In altri momenti le sembrava stupido e perverso. Non potevano ottenere entrambi un po' di calore umano? L'unica volta che lo aveva toccato era stato il primo giorno, quando lo aveva aiutato a salire sul materasso, e poi, appena avevano ottenuto abbastanza acqua, quando gli aveva pulito la ferita alla testa e pian piano aveva sciacquato il sangue raggrumato e puzzolente dai capelli servendosi del pettine, che dopotutto si era rivelato un oggetto utile, e di alcuni pezzi della gonna da dea, inesauribile fonte di bende e asciugamani. Poi, una volta che la testa era guarita, avevano fatto esercizi aiji tutti i giorni. L'aiji presentava una purezza rituale impersonale in quel suo sistema di prese e abbracci che era molto distante dal conforto di un essere umano. Per tutto il resto del tempo la presenza fisica di Teyeo era chiaramente, invariabilmente intoccabile.

Lui stava solo mantenendo, in circostanze incredibilmente difficili, la sua solita rigidità, la sua riservatezza. Non solo lui, ma anche Rewe. Tutti quanti, tutti tranne Batikam. Eppure, il cedimento istantaneo di Batikam al suo capriccio era stato davvero il vero contatto che lei cercava? Pensava alla paura nei suoi occhi quell'ultima notte. Non era riservatezza, ma costrizione.

Era la mentalità di una società di schiavi, schiavi e padroni intrappolati nella stessa trappola di autoprotezione e sfiducia radicale.

«Teyeo,» disse, «non capisco la schiavitù. E lasciami spiegare quello che voglio dire,» aggiunse, nonostante lui non avesse palesato nessun segno di volerla interrompere o contraddire, ma solo una cortese attenzione. «Voglio dire, capisco come un'istituzione sociale si possa costituire e come un individuo ne diventi semplicemente una parte. Non ti sto chiedendo perché non sei d'accordo con me nel considerare questa istituzione malvagia e priva di profitto. Non ti sto chiedendo di difenderla o di rinunciarci, sto solo cercando di capire cosa si prova a credere che due terzi degli esseri umani del tuo mondo siano di fatto, legalmente, una vostra proprietà. Anzi, cinque sesti, se includiamo le donne della vostra casta.»

Dopo un po' lui rispose, «La mia famiglia possiede circa venticinque proprietà».

«Non cavillare.»

Lui accettò il rimprovero.

«Mi sembra che voi escludiate il contatto umano. Non toccate gli schiavi, gli schiavi non vi toccano nel modo in cui gli umani dovrebbero toccarsi a vicenda. Dovete restare separati, sempre attenti a mantenere quella separazione. Perché non è una separazione naturale, è totalmente artificiale, creata dall'uomo. Io non riesco a distinguere possidenti e proprietà dall'aspetto fisico, e tu?»

«Quasi sempre.»

«Grazie a indizi culturali e di comportamento, vero?»

Dopo averci pensato su un po' Teyeo annuì.

«Voi siete della stessa specie, razza, popolo, esattamente uguali in tutto tranne una leggera differenza nel colore. Se tu fai crescere un bambino proprietà come un possidente, diventerebbe un possidente sotto ogni punto di vista e viceversa, quindi passi la vita mantenendo questa divisione tremenda che non esiste, e non capisco come faccia a non accorgerti di quanto sia tutto terribilmente inutile, e non voglio dire dal punto di vista economico.»

«Durante la guerra…» disse lui, e poi ci fu una lunga pausa. Nonostante Solly avesse molte altre cose da dire, aspettò incuriosita. «Io ero su Yeowe, sai, la guerra civile.»

È lì che ha raccolto tutti quei graffi e le cicatrici, pensò lei. Per quanto guardasse altrove con scrupolo, ormai le era impossibile non provare una certa familiarità col suo corpo snello di onice. Lei sapeva che nell'aiji lui era costretto a proteggere il braccio sinistro, a cui mancava una grossa parte di muscolo sopra il bicipite. «Gli schiavi delle colonie si ribellarono, questo lo sai. All'inizio solo alcuni, poi tutti, quasi tutti. A quel tempo noi dell'esercito eravamo tutti possidenti, non potevamo mandare soldati-proprietà, che avrebbero potuto disertare. Eravamo tutti veot e volontari, possidenti contro proprietà. Stavo combattendo i miei simili, lo compresi subito. Successivamente capii che stavo combattendo i miei superiori. Erano loro che ci avevano fatto perdere.»

«Ma quello…» disse Solly e si fermò. Non sapeva più cosa dire.

«Ci hanno fatto perdere dall'inizio alla fine,» proseguì lui, «soprattutto perché il mio governo non capiva che quelli potevano farcela, e che combattevano meglio e più strenuamente e con più intelligenza e coraggio di quanto non facessimo noi.»

«Perché stavano combattendo per la loro libertà!»

«Forse,» concesse lui, educatamente.

«E allora?»

«Ti volevo solo dire che rispetto la gente contro cui ho combattuto.»

«So così poco della guerra, del modo di combattere,» disse lei con un misto di pentimento e irritazione. «Anzi, niente in realtà. Ero su Kheakh, ma quella non era guerra. Era suicidio razziale, una carneficina di massa di un'intera biosfera. Credo ci sia differenza. Fu allora che l'Ekumene decise per la Convenzione sulle Armi. E lo sai perché? A causa di Kheakh e Orint che si distruggevano da soli. I Terrestri spingevano per la convenzione da secoli. Dopo che si erano quasi suicidati anche loro. Io sono mezza terrestre, i miei antenati andavano in giro per il loro pianeta ammazzandosi tra di loro. Per millenni. Erano padroni e schiavi. Anche loro, molti di loro. Ma non so se la convenzione sia stata una buona idea, se sia stata giusta. Chi siamo noi per dire a qualcuno cosa fare e cosa non fare? L'idea dell'Ekumene era di offrire una scappatoia. Di aprire la strada, non di sbarrarla.»

Lui ascoltò con attenzione, ma parlò dopo una lunga pausa. «Abbiamo imparato a serrare i ranghi… sempre. Hai ragione tu, immagino, è uno spreco di energia. Tu hai una mentalità aperta.»

Quelle parole gli saranno costate molto, pensò lei, non come le sue, che le erano uscite come se niente fosse. Lui parlava come se le frasi gli uscissero dal profondo delle ossa. Era una specie di complimento solenne che lei accettò con gratitudine, perché più i giorni passavano più lei si accorgeva occasionalmente di quanta fiducia avesse perso e continuava a perdere. Fiducia in se stessa. Fiducia nel fatto che sarebbero stati riscattati, salvati, che sarebbero usciti da quella cella, che ne sarebbero usciti vivi.

«La guerra era molto brutale?»

«Sì,» rispose lui, «non posso… non sono mai stato in grado di… di percepirla. È solo un lampo…» Teneva le mani alzate come per coprirsi gli occhi. Poi le lanciò un'occhiata sospettosa. Il suo autorispetto apparentemente incrollabile era vulnerabile in molti punti, e adesso lei lo capiva.

«Cose di Kheakh che non sapevo neanche di aver visto. Avvengono così,» disse lei dopo un po'. «Di notte. Per quanto tempo ci sei stato?»

«Sette anni.»

Lei sobbalzò. «Ti è andata bene?»

Era una domanda bizzarra, che non le era uscita nel modo in cui intendeva, ma lui rispose comunque. «Sì,» disse. «Sempre. Gli uomini con cui sono arrivato là sono morti. Quasi tutti nei primi anni. Abbiamo perso trecentomila uomini su Yeowe, non ne hanno mai parlato, due terzi dei veot del Voe Deo sono stati uccisi. Se sopravvivere si può considerare una fortuna, allora io sono stato fortunato.» Si guardò le mani strette sul proprio corpo. Dopo un po', Solly disse con voce suadente, «Spero che tu lo sia ancora».

Lui non rispose.


«Quanto è passato?» le chiese. E lei rispose, schiarendosi la gola, dopo un'occhiata automatica all'orologio, «Sessanta ore».

I loro rapitori non erano arrivati il giorno prima a quella che era ormai diventata l'ora classica, alle otto del mattino, e neppure quella mattina.

Senza più niente da mangiare e ormai privi d'acqua, erano diventati sempre più silenziosi e inerti. Erano passate delle ore senza che nessuno aprisse bocca. Lui aveva smesso di chiedere l'ora.

«È orribile,» disse lei «È così orribile. Continuo a pensare…»

«Non ti abbandoneranno,» disse lui. «Sentono la responsabilità.»

«Perché sono una donna?»

«In parte.»

«Merda.»

Lui si ricordò che in passato le sue volgarità lo offendevano.

«Sono stati presi, ammazzati, nessuno si è preoccupato di scoprire dove ci tenevano,» disse lei.

Avendo pensato la stessa cosa centinaia di volte, lui non replicò.

«Ma è un posto così orrendo in cui morire,» disse lei. «È sordido. Io puzzo, puzzo da venti giorni, ora mi sento la diarrea perché ho paura ma non riesco a cagare. Ho sete e non posso bere.»

«Solly,» disse Teyeo con tono fermo. Era la prima volta che la chiamava per nome. «Stai calma, tieniti salda.»

Lei lo guardò.

«Tieniti salda a che cosa?»

Lui non rispose subito, e lei disse, «Tu non ti fai nemmeno toccare!»

«Non intendevo a me,» disse lui.

«E allora a che cosa? Non c'è niente.» Lui temeva che sarebbe scoppiata in lacrime, ma invece Solly si alzò, prese il vassoio vuoto e lo sbatté contro la porta fino a che non si spaccò in tanti frammenti di vimini e polvere. «Venite, Dio vi maledica, venite, bastardi!» urlava. «Fateci uscire di qua!»

Dopodiché si sedette di nuovo sul materasso. «Bene,» disse.

«Ascolta,» disse Teyeo.

Avevano teso l'orecchio altre volte, ma nessun rumore di città era mai arrivato in quella cella, ovunque si trovasse. Stavolta era qualcosa di più grande. Esplosioni, pensarono entrambi.

La porta tremò. Erano entrambi in piedi quando si aprì, non con il solito fragore ma lentamente. Un uomo aspettò fuori, due entrarono, uno dei quali armati. Non l'avevano mai visto prima. L'altro, il giovane dalla faccia dura che chiamavano il "portavoce", sembrava che avesse corso o lottato, era tutto coperto di polvere, stremato, un po' confuso. Chiuse la porta. Aveva dei fogli in mano. I quattro si fissarono in silenzio per un istante.

«Acqua,» disse Solly. «Bastardi!»

«Signora,» disse il portavoce, «mi dispiace.» Non la stava nemmeno ascoltando. I suoi occhi non erano rivolti a lei, stavano guardando Teyeo per la prima volta. «Ci sono molti disordini,» disse lui.

«Chi sta combattendo?» chiese Teyeo, sentendosi scivolare nel tono uniforme dell'autorità, e il giovane gli rispose automaticamente, «Voe Deo, hanno mandato delle truppe, dopo il funerale hanno detto che avrebbero mandato truppe se non ci fossimo arresi. Sono arrivati ieri, attraversano la città uccidendo. Conoscono tutti i centri dei Vecchi Credenti, alcuni dei nostri». Aveva una sfumatura nella voce, come di accusa e di perplessità.

«Quale funerale?» disse Solly.

Quando lui non rispose Teyeo ripeté, «Quale funerale?»

«Il funerale della Signora, il vostro. Ecco, ho portato ritagli di giornale. Un funerale di stato, hanno detto che siete morti nell'esplosione.»

«Ma che esplosione?» fece Solly con la voce roca e secca, e questa volta l'uomo le rispose, «Alla festa. I Vecchi Credenti. Il fuoco di Tual. C'erano degli esplosivi, solo che sono saltati troppo presto. Noi conoscevamo i loro piani. L'abbiamo salvata, Signora,» disse il portavoce, girandosi d'improvviso verso di lei con quello stesso tono accusatorio.

«Salvata? Bastardo!» gridò lei, e le labbra secche di Teyeo si aprirono in una risata sbigottita che soffocò immediatamente.

«Dammi quella roba,» disse. Il giovane gli consegnò i fogli.

«Portaci dell'acqua,» disse Solly.

«State qui per favore, abbiamo bisogno di parlare,» disse Teyeo, facendo istintivamente leva sul suo ascendente. Si sedette sul materasso con i fogli di giornale in mano. Nel giro di pochi minuti lui e Solly si studiarono i resoconti della violenta sommossa del Giorno del Perdono: la morte dolorosa dell'inviato deH'Ekumene in seguito a un attentato terrorista perpetrato dal culto dei Vecchi Credenti, il breve accenno alla morte di una guardia dell'ambasciata del Voe Deo nell'esplosione che aveva ucciso oltre settanta tra preti e passanti, la lunga descrizione dei funerali di stato, i resoconti di disordini, terrorismo, rappresaglie, poi i comunicati del palazzo che accettava con gratitudine le offerte di assistenza da parte del Voe Deo per estirpare la mala pianta del terrorismo…

«Così,» disse alla fine, «non avete avuto risposta dal palazzo. Perché ci avete tenuti in vita?»

Solly aveva l'aspetto di chi trovava che quella domanda non fosse molto delicata, ma il portavoce rispose con la stessa indelicatezza, «Pensavamo che il vostro paese vi avrebbe riscattato».

«E lo faranno,» disse Teyeo, «solo che non hai informato il governo del fatto che siamo vivi. Se tu…»

«Aspetta,» disse Solly toccandogli la mano. «Aspetta un momento, voglio pensarci bene. È meglio non lasciare l'Ekumene fuori dalla discussione. Ma riuscire a contattarli è la parte più difficile.»

«Se ci sono truppe del Voe Deo nei paraggi, tutto quello di cui ho bisogno è fare arrivare un messaggio a qualcuno del mio comando o alle guardie dell'ambasciata.»

La mano di Solly era ancora appoggiata sulla sua, esercitando una cauta pressione. Il Nunzio agitò l'altra mano, rivolgendosi al portavoce col dito puntato. «Tu hai rapito l'inviato deH'Ekumene, bastardo, e adesso devi pensare a come sbrogliare tutto, e anch'io, perché non voglio essere eliminata dal tuo piccolo governo maledetto solo perché sono rimasta viva mettendoli in imbarazzo. Dove vi state nascondendo? C'è qualche possibilità, se non altro, di uscire da questa stanza?»

L'uomo scosse la testa con un'espressione rigida e un po' altezzosa. «Siamo tutti quaggiù, adesso,» disse. «Quasi sempre. Qui siete al sicuro.»

«Sì, è meglio che teniate i vostri passaporti al sicuro,» disse Solly. «Portateci dell'acqua, maledizione, fateci discutere. Tornate tra un'ora.»

Il giovane si abbassò di colpo verso di lei col volto deformato da una smorfia. «Che razza di Signora sei?» disse. «Sporca troia puzzolente e straniera.»

Teyeo scattò subito in piedi, ma la morsa di Solly sulla sua mano era sempre più stretta. Dopo un momento di silenzio, il portavoce e l'altro uomo si avviarono verso la porta, fecero sferragliare la serratura e uscirono.

«Uffa,» disse lei, frastornata.

«No,» disse lui. «Non fare…» Non sapeva come dirlo. «Quelli non capiscono. È meglio se parlo io.»

«È naturale, le donne non danno ordini. Le donne non sanno parlare. Che teste di cazzo. Pensavo che avessi detto che si sentivano responsabili per la mia vita.»

«È vero, ma sono giovani. Fanatici. Molto impauriti.» E tu gli parli come se fossero delle proprietà, pensò anche, ma non lo disse.

«Anch'io sono impaurita!» disse Solly, trattenendo a stento le lacrime. Si asciugò gli occhi e si sedette di nuovo fra le carte. «Dio mio, siamo morti da venti giorni. Sepolti da quindici. Chi pensi che abbiano seppellito?»

La sua stretta era energica. A Teyeo dolevano il polso e la mano. Si massaggiò delicatamente, guardandola.

«Grazie,» disse. «Stavo per picchiarlo.»

«Oh, lo so. Maledetta cavalleria. E quello con la pistola ti avrebbe sparato in testa. Ascolta, Teyeo, sei sicuro che ti basti far arrivare la voce a qualcuno dell'esercito o della guardia?»

«Sì, certo.»

«Sei sicuro che il tuo paese non stia facendo lo stesso gioco del Gatay?»

Lui la fissò. Man mano che cominciava a capire, la rabbia che aveva spento e negato in tutti quegli interminabili giorni di prigionia assieme a lei improvvisamente aumentava, come una possente ondata di risentimento, odio e disprezzo.

Fu incapace di parlare, per paura di rivolgersi a lei come il giovane patriota.

Si ritirò nella sua parte della stanza sedendosi sul suo angolo di materasso, discosto da lei, con le gambe incrociate, una mano appena appoggiata sull'altra.

Lei parlò ancora. Lui non ascoltava e non rispondeva

Dopo un po', Solly disse, «Dovremmo discutere, Teyeo. Abbiamo solo un'ora. Credo che quei ragazzi possano fare quello che gli diciamo, se gli raccontiamo qualcosa di plausibile, qualcosa che funzioni».

Lui non rispose. Si morse il labbro e rimase immobile.

«Teyeo, che ho detto? Ho detto qualcosa di sbagliato? Non so che cosa fosse, mi dispiace.»

«Quelli non…» cominciò a dire lui, sforzandosi di controllare la voce e le labbra «Quelli non ci tradirebbero mai.»

«Chi? I Patrioti?»

Lui non rispose.

«Vuoi dire il Voe Deo? Non ci tradirebbero?»

Nella pausa che seguì alla sua domanda gentile e incredula, lui capì che Solly aveva ragione. Era tutta una collusione fra le potenze del mondo. La sua lealtà verso il paese e il servizio era sprecata, futile come il resto della sua vita. Lei continuò a parlare, minimizzando, dicendo che poteva anche aver ragione lui. Lui si prese la testa fra le mani, invocando le lacrime, ma i suoi occhi erano aridi come la pietra…

Solly varcò la linea. Teyeo si sentì la sua mano sulla spalla.

«Teyeo, mi dispiace molto,» disse lei. «Non volevo insultarti. Io ti stimo. Mi hai dato tutta la speranza e l'aiuto di cui avevo bisogno.»

«Non importa. Se soltanto… Se avessimo dell'acqua…»

Solly balzò in piedi e cominciò a sbattere sulla porta con i pugni e un sandalo.

«Bastardi, bastardi,» urlò.

Teyeo si alzò in piedi, mettendosi a camminare. Tre passi e un giro, tre passi e un giro, poi si fermò dalla sua parte della stanza. «Se hai ragione tu,» disse lui parlando lentamente, in modo formale, «noi e i nostri rapitori non corriamo pericoli solo da parte del Gatay ma anche della mia stessa gente, che forse… Che ha favorito queste fazioni antigovernative per trovare la scusa per portare qui delle truppe, con lo scopo di pacificare il Gatay. Ecco perché sanno dove trovare i faziosi. Noi siamo stati fortunati… che il nostro gruppo fosse fatto di gente sincera.»

Lei lo guardò con una tenerezza che lui ritenne irrilevante.

«Quello che non sappiamo,» riprese, «è da che parte si schiererà l'Ekumene. Cioè… in realtà c'è solo una parte.»

«No, c'è anche la nostra parte. Gli sfortunati. Se l'ambasciata vede che il Voe Deo sta cercando di annettersi il Gatay, non interverranno, ma neanche approveranno. Specialmente se dovesse comportare la prevedibile repressione.»

«La violenza si scatenerebbe solo contro le fazioni anti-Ekumene.»

«Ma non approveranno lo stesso. E se scoprono che sono viva s'incazzano a morte con la gente che ha dichiarato che sono morta bruciata. Il nostro problema è come riuscire a parlarci. Io ero la sola persona che rappresentava l'Ekumene nel Gatay. Chi potrebbe essere un canale sicuro?»

«Tutti i miei uomini. Ma…»

«Saranno stati rispediti indietro. Perché tenere guardie dell'ambasciata qui quando l'inviato è morto e sepolto? Suppongo che potremmo provare. O meglio, chiedi ai ragazzi di provare.» Aggiunse poi ansiosa, «Non credo che ci facciano semplicemente andare via… camuffati. Sarebbe la cosa più sicura per loro.»

«C'è un oceano di mezzo,» disse Teyeo.

Solly si colpì la testa. «Oh, perché non ci portano un po' d'acqua?» La sua voce era come un rumore di carta che striscia su carta. Teyeo si vergognava della propria rabbia, del suo dolore, di se stesso. Le avrebbe voluto dire che anche lei era stata un aiuto e una speranza per lui, che anche lui la stimava, e che era coraggiosa oltre ogni immaginazione, ma nessuna di quelle parole uscì. Si sentiva vuoto, sfinito. Si sentiva vecchio. Se solo avessero portato dell'acqua!

Finalmente l'acqua fu portata. Un po' di cibo, non molto e nemmeno fresco. Chiaramente i loro rapitori erano alla macchia e in ristrettezze. Il portavoce – disse di chiamarsi Kergat, Libertà in gatayano – gli riferì che interi quartieri erano stati spazzati via, bruciati, che le truppe del Voe Deo avevano assunto il controllo della maggior parte della città incluso il palazzo, e che quasi nessuna di queste notizie veniva riferita in rete. «Quando tutto sarà finito, il Voe Deo dominerà il mio paese,» concluse con rabbia incredula.

«Non per molto,» disse Teyeo.

«Chi può sconfiggerli?» chiese il giovane.

«Yeowe, l'idea di Yeowe.»

Sia Kergat che Solly lo guardarono strabiliati.

«La rivoluzione,» aggiunse Teyeo. «Quanto tempo passerà prima che Werel diventi una nuova Yeowe?»

«Le proprietà, vuoi dire?» chiese Kergat, come se Teyeo avesse suggerito una rivolta di mucche o di mosche. «Non si organizzeranno mai.»

«Attenti a quando lo faranno,» disse Teyeo, sereno.

«Non avete delle proprietà nel vostro gruppo?» chiese stupita Solly a Kergat. Lui non si preoccupò di rispondere. L'aveva classificata come una proprietà. Teyeo se ne era accorto e lo capiva. Era capitato anche a lui nell'altra vita, quando tali distinzioni avevano senso.

«La tua schiava Rewe,» chiese allora a Solly. «Era un'amica?»

«Sì,» disse Solly. «No, in realtà ero io che volevo che lo fosse.»

«Il makil?»

Dopo una pausa, Solly rispose, «Penso di sì».

«È ancora qui?»

Solly scosse la testa. «La compagnia doveva partire in tournée alcuni giorni dopo la festa.»

«Il permesso di viaggiare è stato revocato quel giorno stesso,» disse Kergat. «Possono viaggiare solo i funzionari e le truppe.»

«Lui è del Voe Deo. Se è ancora qui, probabilmente lo rispediranno a casa con la sua compagnia. Cerca di contattarlo, Kergat.»

«Un makil?» chiese il giovane, con disgusto e incredulità. «Uno dei vostri pagliacci omosessuali del Voe Deo?»

Teyeo lanciò un'occhiata a Solly: pazienza, pazienza.

«Attori bisessuali,» disse Solly senza curarsi di lui, ma fortunatamente Kergat era determinato a non curarsi di lei.

«Un uomo intelligente,» disse Teyeo, «con molti agganci. Ci potrebbe aiutare. Noi e voi. Ne potrebbe valere la pena. Se è ancora qui. Dobbiamo fare in fretta.»

«Perché ci dovrebbe aiutare? È del Voe Deo.»

«Ma non è un cittadino, è una proprietà,» disse Teyeo, «e un membro dell'Hame, la setta delle proprietà che lavora contro il governo del Voe Deo. L'Ekumene ammette la legittimità dell'Hame. Lui potrebbe riferire all'ambasciata che un gruppo patriota ha salvato il Nunzio e la sta tenendo nascosta, con suo estremo pericolo. L'Ekumene agirà di conseguenza e con decisione, almeno penso. Vero, inviato?»

Improvvisamente chiamata in causa, Solly fece un cenno secco, dignitoso. «Ma in modo discreto,» disse. «Eviteranno la violenza se solo possono usare la coercizione politica.»

Il giovane stava cercando di capire tutto e di assimilare. Comprensivo nei confronti della stanchezza di quell'uomo, della sua diffidenza e confusione, Teyeo rimase seduto, in silenzio, ad aspettare. Notò che Solly se ne stava ugualmente in silenzio, con una mano nel palmo dell'altra. Era magra e sporca e i suoi capelli unti erano raccolti in una treccia sparuta. Era coraggiosa, come una puledra spavalda, tutta nervi. Si sarebbe spaccata il cuore piuttosto che mollare.

Kerget fece delle domande, Teyeo gli rispose saggiamente, rassicurandolo. Ogni tanto Solly interveniva e Kergat ora la ascoltava di nuovo, ma a stento, svogliato, visto come l'aveva chiamata. Alla fine se ne andò, senza dire quello che aveva intenzione di dire. Ma aveva il nome di Batikam e un messaggio in codice da parte di Teyeo per l'ambasciata. «Veot a mezza paga imparano a cantare vecchie canzoni velocemente.»

«Che diavolo!» esclamò Solly appena Kergat se ne andò.

«Conoscevi un uomo chiamato Vecchia Musica, all'ambasciata?»

«Ah, è un amico tuo?»

«È stato molto gentile.»

«È qui su Werel sin dal principio. Un primo osservatore. Un uomo abbastanza potente, sì. E "velocemente", pure… La mia mente non sta funzionando come dovrebbe. Vorrei soltanto distendermi accanto a un ruscello in un prato e bere tutto il giorno, capisci? Ogni volta che lo desidero. Allungare il collo e slurp, slurp, slurp, acqua corrente… Sotto il sole… Oh Dio, Dio mio, il sole. Teyeo, è molto difficile, è più difficile di tutto il resto. Pensare che ci può essere veramente un modo per uscire di qui. Solo non saperlo. Cercando di non sperare e non disperare. Oh, sono così stanca di starmene seduta qui.»

«Che ore sono?»

«Le venti e trenta. Sera. Buio, fuori. Dio mio, il buio. Soltanto il buio. Non c'è un modo per coprire quel dannato lume, anche parzialmente, per fare finta di avere una notte, così possiamo fingere anche di avere un giorno?»

«Se ti metti in piedi sulle mie spalle forse ci arrivi, ma come facciamo ad attaccarci un telo?»

Rifletterono, fissando la lampada.

«Non so. Hai notato che c'è un pezzettino che sembra stia perdendo energia? Forse non dobbiamo più preoccuparci di fare buio se stiamo qui abbastanza a lungo, Dio mio.»

«Bene,» disse lui dopo una lunga pausa, stranamente imbarazzato. «Sono stanco.» Si alzò, si stirò, chiese con un'occhiata il permesso di entrare nel territorio di lei, bevve un sorso d'acqua, tornò nel suo territorio, si tolse la giacca e le scarpe, e a quel punto lei si era già girata, poi si tolse i pantaloni e si sdraiò. Si coprì con la coperta e disse fra sé e sé, «Signore, Kamye, lascia che tenga stretta l'unica cosa nobile.» Ma non riuscì a dormire.

Sentiva i più piccoli movimenti della compagna. Solly pisciò, si versò un po' d'acqua, si tolse i sandali e si sdraiò.

Una lunga pausa.

«Teyeo.»

«Sì?»

«Pensi che sarebbe uno sbaglio, date le circostanze, fare l'amore?»

Una pausa.

«No, date le circostanze…» rispose lui quasi in modo impercettibile «Ma nell'altra vita…»

Pausa.

«Vita breve contro vita lunga,» mormorò lei.

«Sì.»

Pausa.

«No,» disse lui e si girò verso di lei. «No, è sbagliato.» Si avvicinarono, si strinsero, si avvinghiarono in una fretta cieca, con avidità, con voglia, urlando insieme il nome di Dio nelle loro lingue diverse e poi come animali con una voce senza parole. Si misero l'uno addosso all'altra, sudati, appiccicosi, esausti, eppure rinati, riuniti nella tenerezza del corpo, nell'esplorazione infinita, nella scoperta antica. Nel lungo volo verso il nuovo mondo.

Lui si svegliò lentamente, felice e soddisfatto. Erano abbracciati, il viso di Teyeo era accosto al braccio e al seno di lei. Solly gli stava accarezzando i capelli, il collo e le spalle. Lui rimase sdraiato a lungo, conscio solo di quel ritmo pigro e della freschezza della sua pelle contro il proprio viso, contro la propria mano, contro la propria gamba.

«Ora lo so,» disse Solly, bisbigliandogli all'orecchio. «So che non ti conosco. Che ho bisogno di conoscerti.» Si piegò verso di lui per sfiorargli il viso con le labbra e con le guance.

«Cosa vuoi sapere?»

«Tutto, dimmi chi è Teyeo.»

«Non saprei,» disse lui. «Un uomo che ti vuole bene.»

«Dio mio,» disse Solly, affondando il viso per un momento nella coperta ruvida e puzzolente.

«Chi è Dio?» chiese lui mezzo addormentato. Parlavano in voedeano, ma lei di solito imprecava in terrestre o alterrano, in questa evenienza in alterrano, nel nome di Seyt. «Chi è Seyt?» chiese lui.

«Oh… Tual… Kamye… quello che vuoi. Lo dico e basta, è solo un'imprecazione. Tu credi in qualcuno di loro? Mi dispiace. Mi sento stupida con te, Teyeo. Mi muovo a casaccio nella tua anima, ti invado… Gli invasori siamo noi, non importa quanto possiamo essere pacifisti o presuntuosi…»

«Devo amare l'intero Ekumene?» chiese lui, cominciando ad accarezzarle i seni, sentendo il suo tremore di desiderio e anche il proprio.

«Sì,» disse lei. «Sì, sì.»


È curioso, pensava Teyeo, come un po' di sesso cambi tutto. Tutto è lo stesso, ma un po' più facile, meno imbarazzante e inibito. E c'era in più una certa amabile fonte di piacere a loro disposizione, per quando avessero avuto abbastanza acqua e cibo per poter essere più in forma per fare l'amore. L'unica cosa che era veramente diversa era qualcosa per cui non avevano parole. Sesso, conforto, tenerezza, amore, fiducia, nessuna parola era quella giusta. Era una sensazione di assoluta intimità, nascosta nella comunione dei loro corpi, e non cambiava nulla date le circostanze, nulla nel mondo, neanche nel piccolo mondo della loro prigionia. Erano ancora in trappola. Erano ormai ridotti allo sfinimento, e avevano fame la maggior parte del tempo. Erano sempre più impauriti dai loro rapitori sempre più disperati.

«Sarò una signora,» disse Solly. «Una brava ragazza. Dimmi come, Teyeo.»

«Non voglio che ti arrenda,» disse lui fiero e con le lacrime agli occhi, tanto che lei lo abbracciò.

«Resisti,» disse lui.

«Lo farò,» disse lei. Ma quando Kergat e gli altri entrarono, Solly era mogia e abbacchiata. Lasciò parlare gli uomini, tenendo gli occhi bassi. Lui non sopportava di vederla così, eppure sapeva che faceva bene a comportarsi in quel modo.

La serratura fece un rumore secco, la porta si spalancò svegliandolo da un sogno orribile, assetato. Era notte, o mattino presto. Lui e Solly avevano dormito abbracciati per darsi calore e conforto. Vedendo la faccia di Kergat, Teyeo ebbe paura. Era successo ciò che aveva temuto: mostrare, provare la vulnerabilità sessuale di Solly. Lei era ancora mezza addormentata, appiccicata a lui.

Era entrato anche un altro uomo. Kergat non disse nulla. Ci volle un po' di tempo prima che Teyeo si accorgesse che si trattava di Batikam.

Quando lo riconobbe, la sua mente rimase vuota. Riuscì solo a pronunciare il nome del makil. Nient'altro.

«Batikam,» gracchiò Solly «Oh, Dio mio.»

«Questo è proprio un momento interessante,» disse Batikam con la sua voce calda da attore. Non era travestito, ma indossava abiti maschili del Gatay. «Volevo salvarti, non metterti in imbarazzo, Nunzio. Possiamo procedere?»

Teyeo si tirò su e indossò i suoi pantaloni sporchi. Solly aveva dormito nei pantaloni stracciati che le avevano dato i rapitori. Entrambi avevano tenuto addosso le maglie per scaldarsi.

«Hai contattato l'ambasciata, Batikam?» gli chiese lei con voce tremante mentre si metteva i sandali.

«Oh, sì, sono stato là e sono ritornato. Mi spiace se ci ho messo tanto tempo, non sapevo quale fosse la vostra situazione qui.»

«Kergat ha fatto del suo meglio,» disse Teyeo alla fine, risolutamente.

«Lo vedo. Un rischio considerevole. Penso che il rischio d'ora in poi sia più basso, sempre che…» e guardò dritto verso Teyeo. «Rega, cosa ne diresti di metterti totalmente nelle mani dell'Hame?» disse lui. «Ti crea qualche problema?»

«No, Batikam,» disse Solly. «Abbi fiducia in lui.»

Teyeo si allacciò la scarpa, si alzò e disse, «Siamo tutti nelle mani del Signore Iddio Kamye».

Batikam rise, quella bella risata piena di cui si ricordavano.

«Nelle mani del Signore, allora,» disse, e li fece uscire dalla stanza.


È scritto nell'Arkamye: "Vivere in modo semplice è molto complicato".

Solly fece richiesta di restare su Werel e, dopo un periodo di convalescenza sulla costa, fu mandata come osservatore nella zona meridionale del Voe Deo. Teyeo andò dritto a casa, dopo aver appreso che suo padre era molto malato. Dopo la morte del padre, chiese il congedo illimitato dalla guardia dell'ambasciata e rimase con la madre alla fattoria fino alla morte di lei, due anni più tardi. Durante quegli anni lui e Solly, separati da un intero continente, si incontrarono solo saltuariamente.

Quando la madre morì, Teyeo liberò le proprietà della famiglia con un atto di emancipazione irrevocabile, cedendo loro la fattoria con tanto di atto legale. Vendette la sua proprietà ormai senza valore a un'asta e si trasferì nella capitale. Sapeva che Solly soggiornava temporaneamente all'ambasciata. Vecchia Musica gli aveva detto dove la poteva trovare. La trovò in un piccolo ufficio nel palazzo. Lei dimostrava qualche anno di più, era molto elegante. Solly lo accolse con una faccia stupita, e tuttavia circospetta. Non gli si avvicinò per salutarlo o toccarlo, ma disse, «Teyeo, mi hanno chiesto di diventare primo ambasciatore dell'Ekumene su Yeowe.»

Lui non disse nulla.

«Proprio adesso vengo dalle trattative…» Mise il viso fra le mani. «Oddio!» disse.

«Le mie congratulazioni, davvero, Solly.»

Lei di colpo gli corse incontro, gli buttò le braccia al collo e con le lacrime agli occhi esclamò, «Oh, Teyeo, e tua madre è morta. Non lo sapevo, mi dispiace. Mai, mai… pensavo che avremmo potuto… Cosa farai? Ti fermi là?»

«L'ho venduta,» disse lui. Resisteva, invece di ricambiare il suo abbraccio. «Ho pensato che potevo tornare in servizio.»

«Hai venduto la tua fattoria? Ma se non l'avevo mai vista.»

«Io non ho mai visto dove sei nata tu,» replicò lui.

Ci fu una pausa. Lei si staccò da Teyeo, e si guardarono in faccia.

«Ci verresti?» chiese lei.

«Sì,» disse lui.


Parecchi anni dopo che Yeowe era entrato a far parte dell'Ekumene, l'ambasciatrice Solly Agat Terwa fu mandata su Terra come inviato dell'Ekumen. Poi fu mandata su Hain, dove servì con grande distinzione come ambasciatore permanente. In tutti i suoi viaggi e servizi era accompagnata dal marito, un ufficiale dell'esercito di Werel di alcuni anni più vecchio di lei, un uomo bellissimo, tanto riservato quanto lei era socievole. La gente che li conosceva sapeva del loro orgoglio appassionato e della fiducia che avevano l'uno nell'altra. Solly era forse, tra i due, la più felice, ripagata e soddisfatta del suo lavoro. Ma Teyeo non aveva rimpianti. Aveva perso il suo mondo, però aveva tenuto ben stretta la sola cosa nobile che gli restava.

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