Sedeva accanto a suo padre, presso il bacino di irrigazione. Ali color del fuoco solcavano l'aria del crepuscolo, scendendo a fior d'acqua. Tremuli cerchi si allargavano, s'incrociavano, scemavano sull'immobile specchio d'acqua. «Cos'è che agita così l'acqua?» chiese sottovoce, intimidito dal mistero, e il padre sottovoce gli rispose, «Sono gli araha che la sfiorano per bere». Allora comprese che al centro di ogni cerchio c'era una brama, una sete. Poi fu l'ora di tornare a casa, e lui corse innanzi a suo padre, immaginando di essere un araha in volo nel crepuscolo verso l'alta città dalle finestre illuminate.
Si chiamava Mattinyehedarheddyuragamuruskets Havzhiva. La parola "havzhiva" significa "pietra ad anello". Si tratta di una piccola pietra con un cristallo di quarzo incastonato che attraversandola assume la forma di un cerchio che la circonda. La popolazione di Stse è speciale in fatto di nomi e di pietre. Agli appartenenti ai clan dei Ragazzi del Cielo, dell'Altro Cielo e dell'Interferenza Statica venivano tradizionalmente imposti nomi di pietre o di qualità umane auspicabili quali il coraggio, la pazienza, l'amabilità. Gli Yehedarhed erano molto conservatori, con forti legami di famiglia e di clan. «Se sai chi è la tua gente, sai anche chi sei,» asseriva il padre di Havzhiva, Granito. Era un uomo gentile e tranquillo, che aveva preso molto a cuore la propria responsabilità di genitore, e si esprimeva spesso per proverbi.
Granito era il fratello della madre di Havzhiva, naturalmente, perché questo voleva dire essere padre. L'uomo che aveva aiutato sua madre a concepire Havzhiva viveva in campagna, e si fermava qualche volta a far visita quando era in città. La madre di Havzhiva era l'Erede del Sole. A volte Havzhiva provava invidia per la sua cuginetta Aloe, il cui padre era di soli sei anni più vecchio di lei, e giocava con lei come un fratello maggiore. Talvolta invidiava gli altri bambini che non avevano madri importanti. Sua madre era sempre occupata in digiuni, danze o viaggi, non aveva marito, e raramente dormiva a casa. Stare con lei era stimolante, ma faticoso. Doveva sempre darsi un contegno, in sua presenza. Era un sollievo stare a casa da solo con suo padre, con la nonna che lasciava sempre correre, con la sorella di lei, curatrice delle Danze d'Inverno, con il di lei marito o con qualunque altro parente del clan dell'Altro Cielo che si trovasse in quel momento in visita dalla campagna o dai villaggi.
C'erano due sole dimore di Stse appartenenti ai membri dell'Altro Cielo, e gli Yehedarhed erano più ospitali dei Doyefarad, ragion per cui era da loro che approdavano e si trattenevano i parenti. Sarebbe stata una pesante incombenza ospitarli, se i visitatori non si fossero premurati di portare con sé ogni sorta di prodotti della campagna, e se Tovo non fosse stata l'Erede del Sole. Lei era riccamente compensata per insegnare, per officiare i riti e occuparsi del cerimoniale. I suoi compensi andavano alla famiglia, che spendeva tutto per i parenti, nonché per cerimonie, festività, ricorrenze e funerali.
«Il denaro non può star fermo,» diceva sempre Granito a Havzhiva. «Deve circolare. È come la circolazione del sangue. Se la trattieni, si arresta. Hai l'infarto. E si muore.»
«Morirà il vecchio Hezhe?» chiese il ragazzo. Il vecchio Hezhe non aveva mai speso un soldo per una cerimonia o per un parente, e Havzhiva era un ragazzo attento.
«Sì,» rispose suo padre. «Il suo araha è già morto.»
L'araha è la gioia, è la gloria, è il principio differenziatore del maschile e del femminile, è la generosità, è il gusto per il buon cibo e per il buon vino. È anche il nome dei piccoli pennuti color del fuoco e dalle ali veloci che Havzhiva aveva osservato scendere a bere nei bacini di irrigazione, fiammelle sfreccianti sull'acqua che si incupiva al calar della sera.
Stse è una penisola, separata dalla terraferma del grande continente meridionale da istmi paludosi battuti dalle maree, dove milioni di uccelli acquatici si ritrovano per accoppiarsi e per nidificare. Rovine di un grandioso ponte si possono scorgere sul versante di terraferma, mentre un altro spezzone semisommerso di rovina funge da attracco per le barche della città e da diga frangiflutti. Imponenti vestigia di epoche lontane incombono su Hain, senza suscitare negli Hainesi più interesse o soggezione di un normale paesaggio. Un bambino che in piedi sulla banchina guardi sua madre partire in barca per il continente potrebbe chiedersi perché mai la gente si sia affannata a costruire un ponte quando si poteva benissimo prendere una barca o un razzo. Forse, avrà pensato, gli sarà piaciuto camminare! Io personalmente preferisco andare in barca. O volare.
Ma i razzi argentei passavano sopra Stse senza atterrare, nei loro spostamenti tra i vari luoghi dove si trovavano le dimore degli storici. Numerose barche entravano e uscivano dal porto di Stse, ma la gente della sua razza non ci saliva mai a bordo. Loro vivevano nel pueblo di Stse e seguivano le usanze della loro gente e del loro clan. Apprendevano ciò che era necessario apprendere, e vivevano praticando ciò che avevano appreso.
«La gente deve imparare a essere umana,» disse suo padre. «Guarda la bambina di Shell. Continua a ripetere: insegnami, insegnami!»
"Insegnami", nella lingua di Stse, si dice "aowa".
«Qualche volta la bambina dice uhaaaa,» gli fece notare Havzhiva.
Granito annuì. «Non parla ancora bene il linguaggio umano,» affermò.
Havzhiva si occupò della bimba durante quell'inverno, insegnandole a pronunciare parole umane. Faceva parte del suo parentado di Etsahin, era una sua seconda cugina, da tempo andata a vivere altrove, che si trovava in visita insieme a sua madre, a suo padre e alla di lui moglie. La famiglia osservava con approvazione Havzhiva mentre sillabava paziente "baba" e "gogo" alla placida bimba paffuta che lo guardava stupefatta. Benché non avesse una sorella, e quindi non potesse essere padre, se si fosse applicato con altrettanto impegno nello studio dell'educazione forse avrebbe avuto l'onore di essere scelto come padre adottivo per un bambino la cui madre non aveva un fratello.
Studiava sia a scuola che al tempio, studiava la danza e il gioco del calcio nello stile locale. Era uno studente serio. Era bravo nel gioco del calcio, ma non come la sua migliore amica, una ragazza del Cavo Sepolto di nome Iyan Ivan (nome tradizionale per le ragazze del Cavo Sepolto, indicante un uccello marino). Fino all'età di dodici anni ragazzi e ragazze venivano educati insieme e alla stessa maniera. Iyan Iyan era la miglior giocatrice di calcio della squadra dei bambini. Dovevano sempre trasferirla nel campo opposto a metà partita in modo da equilibrare il punteggio e mandare tutti a casa per cena senza sconfitte o vittorie troppo eclatanti. Iyan Iyan aveva il vantaggio di essere cresciuta precocemente di statura, ma il resto era tutta abilità.
«Andrai a lavorare al tempio?» chiese a Havzhiva mentre sedevano sulla veranda della casa di lei per assistere alla prima giornata dell'Apparizione degli Dei Inconsueti, che aveva luogo ogni undici anni. Non stava accadendo ancora niente di inconsueto, e gli amplificatori non funzionavano bene, per cui la musica proveniente dalla piazza suonava debole e distorta. I due ragazzi chiacchieravano tranquillamente, dondolando i piedi. «No, credo che imparerò a tessere da mio padre,» disse lui.
«Che fortuna! Perché solo degli stupidi maschi possono usare i telai?» Era una domanda retorica, e Havzhiva la ignorò. Non stava alle donne tessere. Non stava agli uomini fabbricar mattoni. La gente dell'Altro Cielo non manovrava barche, bensì riparava apparecchi elettronici. Quelli del Cavo Sepolto non castravano animali ma provvedevano alla manutenzione dei generatori. C'era una serie di lavori permessi, e di lavori proibiti. Ciascuno lavorava per la collettività, e la collettività lavorava per ciascuno. Giunti alla pubertà, Iyan Iyan e Havzhiva dovevano compiere la prima scelta della loro prima professione. Iyan Iyan aveva già scelto di fare apprendistato nella costruzione e manutenzione di case, anche se la squadra di calcio degli adulti avrebbe rischiato di assorbire molto del suo tempo. Una rotonda creatura argentea dalle zampe di ragno scese lungo la strada a lunghi balzi, sprizzando una pioggia di scintille ogni volta che toccava terra. Sei personaggi con lunghe maschere bianche gli correvano dietro, gettandogli addosso dei fagioli. Havzhiva e Iyan Iyan si unirono alle acclamazioni e si sporsero all'infuori per seguirlo mentre girava l'angolo in direzione della piazza. Avevano riconosciuto entrambi, in quel Dio Inconsueto, Chert, un giovane del clan del Cielo, giocatore di punta della squadra di calcio degli adulti, e nello stesso tempo avevano riconosciuto la manifestazione divina. Un dio di nome Zarstsa, o Luce delle Sfere, si stava servendo di Chert per entrare in città per la cerimonia, ed era appena balzato lungo la strada seguito da urla di spavento e di entusiasmo e da lanci propiziatori di fertilità. Divertiti e attratti dallo spettacolo, i due giovani fecero i loro commenti, non privi di acume, sulla foggia del costume indossato dal dio, sui salti, sui fuochi di artificio, rimasero soggiogati dalla stranezza e dalla forza dell'evento. Non proferirono parola per un po' dopo il passaggio del dio, ma rimasero a sedere sulla terrazza, trasognati, nell'incerta luce del tramonto. Erano ragazzi abituati a vivere fra gli dèi quotidiani. Adesso avevano visto uno degli dèi inconsueti. Erano soddisfatti. Un altro dio avrebbe fatto la sua apparizione, prima o poi. Il tempo non ha nessun valore per gli dèi.
A quindici anni, Havzhiva e Iyan Iyan divennero dèi insieme.
Gli adolescenti di Stse fra i dodici e i quindici anni erano attentamente sorvegliati. Sarebbe stato un profondo dolore e un'onta difficile da dimenticare per la famiglia, il parentado, il clan, il popolo tutto, se uno dei suoi figli avesse mutato stato prima del tempo e senza rituale. Lo stato virginale era sacro, e non poteva essere abbandonato con leggerezza. L'attività sessuale era sacra, e con leggerezza non doveva essere intrapresa. Si tollerava che un ragazzo si masturbasse e facesse esperienze omosessuali, ma senza formare coppie. Gli adolescenti che formavano coppie fisse, o quelli che erano sospettati di cercare occasioni di solitudine con le ragazze, erano continuamente redarguiti, rimproverati, strigliati a dovere dagli anziani. Un uomo adulto che avesse fatto proposte sessuali a un vergine dell'uno o dell'altro sesso avrebbe rischiato posizione professionale, incarichi di culto, diritti di proprietà.
Il passaggio di stato richiedeva del tempo. Ai ragazzi e alle ragazze doveva essere insegnato come conoscere e controllare la propria fertilità che, nei processi fisiologici del popolo di Hain, è una questione di decisione personale. Il concepimento non accade: viene eseguito. Non può aver luogo senza che l'uomo e la donna lo abbiano deciso di comune accordo. A tredici anni i ragazzi cominciavano a essere edotti su come rilasciare a comando un potente getto di sperma. L'insegnamento prevedeva ammonizioni, minacce e rimproveri, ma i ragazzi non subivano mai punizioni vere e proprie. Dopo un anno o due si dovevano superare delle prove del potere conseguito: un rito di passaggio terrificante, determinante, rigorosamente segreto ed esclusivamente maschile. Aver superato la prova costituiva motivo di grande orgoglio, e quindi Havzhiva, come molti altri ragazzi, arrivò al compimento dei suoi riti di passaggio con molta apprensione, dissimulando la sua paura sotto un severo stoicismo.
Le ragazze erano state istruite diversamente. Il popolo di Stse riteneva che il ciclo di fertilità della donna rendesse loro facile imparare quando e come concepire, per cui anche l'insegnamento era facile. I riti di passaggio delle ragazze erano festosi, atti a suscitare orgoglio anziché vergogna, a creare attesa anziché paura. Le donne adulte avevano spiegato loro per anni, con dimostrazioni pratiche, ciò che un uomo desidera, cioè come provocargli un'erezione, come fargli comprendere quel che desidera la donna. Nel corso di queste lezioni preparatorie spesso accadeva che le ragazze chiedessero se potevano far pratica tra di loro, e venivano rimproverate e ammonite. No, che non potevano! Dopo aver mutato stato avrebbero potuto agire a loro piacimento, ma a ognuna di loro sarebbe prima toccato oltrepassare la soglia della "doppia porta".
I riti del passaggio di stato avevano luogo ogni volta che gli officianti a essi preposti avevano a disposizione un numero pari di quindicenni dei due sessi provenienti da un villaggio e dalle campagne circostanti. Spesso un ragazzo o una ragazza dovevano essere presi in prestito da un villaggio vicino sia per pareggiare il numero che per creare gli abbinamenti giusti fra membri di clan diversi. Splendidamente abbigliati e mascherati, in silenzio, i partecipanti danzavano ed erano festeggiati per tutto il giorno sulla piazza e nella casa consacrata alla cerimonia. La sera consumavano in silenzio un pasto rituale e venivano condotti via a coppie da officianti mascherati. Molti di loro continuavano a portare le maschere, occultando timori e pudori in quell'anonimità sacrale.
Poiché gli appartenenti all'Altro Cielo potevano avere rapporti sessuali solo con quelli degli Originari e del Cavo Sepolto, e all'interno del gruppo loro erano i soli di questi clan, Iyan Iyan e Havzhiva sapevano già che sarebbero stati accoppiati. Si erano riconosciuti fin dall'inizio delle danze. Quando furono lasciati soli nella stanza sacra, si tolsero le maschere di colpo. I loro occhi s'incontrarono. Distolsero lo sguardo.
Erano stati tenuti separati per gran parte del tempo durante gli ultimi due anni, e completamente durante gli ultimi mesi. Havzhiva era cresciuto, e ora era alto quasi quanto lei. Fu come un incontro tra sconosciuti. Con solenne serietà si avvicinarono l'uno all'altro, con lo stesso pensiero in mente, «Sbrighiamo presto questa faccenda!» Poi si toccarono, e il dio entrò in loro e divenne loro: il dio di cui loro erano il mezzo, la conoscenza di cui erano il verbo. Fu all'inizio un dio perplesso, impacciato, che si rivelò poi in tutta la sua allegria.
Quando lasciarono la casa sacra, il giorno seguente, si diressero insieme verso l'abitazione di Iyan Iyan. «Havzhiva vivrà qui!» affermò Iyan Iyan, forte della sua prerogativa di donna. Tutta la famiglia di lei gli dette il benvenuto, e nessuno sembrò sorpreso.
Quando lui tornò a prendere i suoi vestiti nella casa della nonna, nessuno palesò sorpresa, tutti si congratularono con lui, una vecchia cugina di Etsahin fece della battute salaci, e suo padre gli disse, «Adesso che sei un uomo di questa casa, verrai qui a cenare».
Così dormiva con Iyan Iyan a casa di lei, vi faceva colazione, cenava a casa sua, teneva da lei gli abiti di tutti i giorni, e a casa propria quelli per le danze, e procedeva nella sua istruzione, che adesso consisteva principalmente nella tessitura di tappeti su grandi telai meccanici, e nello studio della natura del cosmo. Sia lui che Iyan Iyan giocavano nella squadra di calcio degli adulti.
Cominciò a vedere più spesso sua madre, poiché quando Havzhiva ebbe diciassette anni, lei gli chiese se era interessato a istruirsi assieme a lei sulla tradizione del Sole, cioè sui riti e le regole del commercio, su come promuovere scambi paritari fra i coltivatori di Stse e su come contrattare con gli altri villaggi del clan e con la gente di fuori. I riti andavano imparati a memoria, le regole si apprendevano con la pratica. Havzhiva si recava con sua madre al mercato, nelle fattorie più distanti, e nei villaggi della terraferma al di là dello stretto. Era divenuto instancabile nella tessitura, che gli occupava la mente con modelli e forme che non lasciavano spazio ad altri pensieri. I viaggi erano piacevoli, il lavoro interessante, e ammirava l'autorevolezza, l'abilità e la diplomazia di Tovo. Stare ad ascoltare lei o un gruppo di vecchi mercanti e altra gente del Sole contrattare un affare era altamente istruttivo. Lei non lo forzava: nella conduzione delle trattative Havzhiva rivestiva un ruolo marginale. L'apprendistato in un'attività complessa come quella della tradizione del Sole richiedeva anni, e c'erano altri più avanti di lui nel praticantato. Ma lei aveva fatto la sua scelta. «Tu hai il dono della persuasione,» gli disse un pomeriggio mentre tornavano verso casa solcando l'acqua dai baluginii dorati e guardando da lontano il profilo della città di Stse prendere forma nell'incerta luce del tramonto. «Potresti essere tu l'Erede del Sole, se volessi».
Lo voglio? si chiese lui. Non trovò risposta, soltanto un oscuro senso di evanescenza, che non riusciva a comprendere. Il lavoro era di suo gusto, e lo sapeva. Non c'erano percorsi chiusi. Poteva uscire da Stse, recarsi in mezzo a gente diversa, e questo gli piaceva.
«La donna che ha vissuto con tuo padre sta per venire in visita,» disse Tovo.
Havzhiva ci rifletté su. Granito non si era mai sposato. Le donne che erano rimaste incinte di Granito vivevano, e avevano sempre vissuto, a Stse. Non fece domande, un educato silenzio era il modo in uso fra gli adulti di far capire che non si capiva.
«Erano giovani. Non arrivò nessun figlio,» disse sua madre. «Dopodiché lei partì. E divenne una storica.» «Ah!» esclamò Havzhiva, còlto di sorpresa.
Non aveva mai sentito dire di qualcuno che fosse divenuto uno storico. Non gli era mai passato per la mente che qualcuno potesse diventarlo, allo stesso modo che uno non diventa un abitante di Stse. Sei quello che nasci. Nasci quello che sei.
Il suo educato silenzio aveva una forte carica di tensione, cui Tovo non rimase insensibile. Da buona maestra sapeva quando una domanda esige una risposta. E tacque.
Come la loro vela si abbassò e la barca scivolò verso la banchina costruita sulle antiche fondamenta del ponte, Havzhiva chiese, «Quella storica appartiene al Cavo Sepolto o agli Originari?»
«Al Cavo Sepolto,» rispose la madre. «Oh, come mi sento anchilosata! Queste barche sono così dure!» La donna che li aveva trasportati, una traghettatrice del clan dell'Erba, fece tanto d'occhi, ma non proferì parola in difesa della sua graziosa barchetta così flessibile.
«È in arrivo un tuo parente?», chiese Havzhiva a Iyan Iyan, quella sera.
«Oh, sì, si è già annunciata al tempio.» Iyan Iyan intendeva dire che al centro d'informazione di Stse era pervenuto un messaggio che era stato trasmesso all'apparecchio ricevente di casa sua. «Mi ha detto mia madre che un tempo ha abitato nella tua casa. Chi hai incontrato a Etsahin oggi?»
«La solita gente del Sole. È una storica questa tua parente?»
«Sono dei pazzi,» asserì con noncuranza Iyan Iyan, chinandosi nuda a massaggiare la schiena del nudo Havzhiva.
Arrivò la storica, una donnetta piccola e minuta sulla cinquantina, di nome Mezha. Quando Havzhiva la incontrò la prima volta era vestita con abiti di Stse e sedeva a colazione con tutti gli altri. Aveva occhi luminosi ed era briosa ma poco loquace. Niente nella sua persona lasciava trasparire che aveva infranto il patto sociale, fatto cose sconvenienti per una donna, ignorato il suo clan, e che si era mutata in un essere di un'altra specie. Sapeva di lei che era sposata col padre dei suoi figli, che tesseva al telaio e che castrava animali. Ma nessuno cercò di schivarla, anzi, dopo colazione gli anziani la condussero fuori per una cerimonia di benvenuto, quasi fosse ancora una di loro.
Havzhiva era quanto mai incuriosito dalla sua persona, e dalle sue vicende. Interrogò Iyan Iyan su di lei, finché Iyan Iyan non gli rispose risentita, «Non so cosa faccia e non so cosa pensi. Gli storici sono dei pazzi. Vai a domandarglielo da te!»
Quando Havzhiva si rese conto di provare timore a farlo, senza alcuna ragione apparente, capì che si trovava in presenza di un dio che voleva qualcosa da lui. Salì fino a un gradino tra le sacre pietre sulle alture che dominavano il paese. Sotto di lui le nere tegole dei tetti e le bianche mura di Stse si adagiavano sui declivi, e i bacini di irrigazione brillavano argentei in mezzo ai campi e ai frutteti. Al di là della terra coltivata si stendevano le paludi marine. Trascorse un intero giorno seduto in silenzio, scrutando il mare di fuori e il suo animo di dentro. Poi ridiscese a casa sua, e vi rimase a dormire. Quando si presentò per colazione alla casa di Iyan Iyan, lei lo guardò senza dir nulla. «Ho digiunato,» spiegò lui.
Con una lieve alzata di spalle, lei gli disse, sedendoglisi accanto, «Mangia, allora!» Dopo colazione Iyan Iyan uscì per andare al lavoro. Lui no, benché fosse di turno ai telai.
«Madre di tutti i Figli!» disse rivolgendosi alla storica col più alto titolo onorifico dato dal suo clan alla donna di un altro, «ci sono cose che io non so, e che tu sai.»
«Quello che so sarò felice d'insegnartelo,» rispose lei, pronta con la frase di rito come se avesse sempre vissuto lì. Poi sorrise, e, prevenendo la seguente richiesta indiretta, «Io dono agli altri ciò che ho avuto in dono,» disse, lasciando intendere che non avrebbe preteso alcun compenso o favore. «Vieni, andiamo in piazza.»
Tutti, a Stse, vanno in piazza per parlare, si siedono sui gradini oppure, nelle giornate calde, sotto i portici, e osservano gli altri andare e venire, sedersi e parlare. Era forse un po' troppo pubblico rispetto alle aspettative di Havzhiva, che però si sottomise al volere del suo dio e della sua maestra.
Si sedettero in una nicchia del basamento della grande fontana, salutando qualcuno quasi a ogni frase con un cenno o una parola.
«Perché sei…?» cominciò a domandare Havzhiva, poi si bloccò.
«Perché sono partita? Dove sono stata?» Lei chinò la testa di lato, gli occhi luminosi come un araha, chiedendosi se erano proprio quelle le domande a cui il giovane attendeva risposta. «Ecco, vedi, io sono stata innamorata pazza di Granito, ma non abbiamo avuto figli, e lui voleva un figlio… Tu gli somigli, per com'era allora. È un piacere per me starti a guardare… Dunque, io ero infelice. Niente mi andava bene, qui. Sapevo tutto quel che c'era da sapere. O per lo meno lo pensavo».
Havzhiva annuì.
«Lavoravo al tempio. Leggevo i messaggi in arrivo o in partenza, e mi ponevo delle domande. Pensavo: quante cose accadono nel mondo! Perché dovrei restar qui tutta la vita? La mia mente è forse ancorata a questo luogo? Così cominciai a comunicare con altri luoghi del tempio: chi sei?, cosa fai?, come si vive laggiù? Mi misero immediatamente in contatto con un gruppo di storici che erano nati nei villaggi e che erano alla ricerca di persone come me, per non rischiare di sprecare tempo o di offendere qualche dio».
Il discorso suonava molto familiare a Havzhiva, che annuì di nuovo con convinzione.
«Feci loro delle domande. Loro fecero domande a me. Una pratica comune fra gli storici. Venni a sapere che avevano delle scuole, e chiesi di poterne frequentare una. Alcuni di loro vennero qui a parlare con me, con la mia famiglia e con gli altri, per vedere se ci sarebbero stati problemi per la mia partenza. Stse è un paese conservatore. Non c'era stato uno storico proveniente da qui per quattrocento anni».
Sorrise, con un sorriso improvviso e accattivante, ma il giovane ascoltava con serietà estrema, impassibile. Lei lo guardò in viso con tenerezza.
«La gente di qui manifestò inquietudine, ma nessuno andò in collera. Così, appena furono presi gli accordi, partii con loro. Andammo in volo a Kathhad, dove c'è una scuola. Io avevo ventidue anni. Cominciai la mia nuova educazione. Imparai a fare la storica».
«Come?» chiese lui, dopo un lungo silenzio.
Lei sospirò profondamente. «Facendo domande difficili», disse. «Proprio come fai tu adesso… E rinunciando a tutto il sapere che avevo, scartandolo.»
«Come?» chiese lui di nuovo, aggrottando le sopracciglia. «Perché?»
«Adesso ti spiego. Quando sono partita sapevo di essere una donna del Cavo Sepolto. Una volta arrivata là ho dovuto disconoscere questa cognizione. Là, io non sono una donna del Cavo Sepolto. Sono una donna. Posso avere rapporti sessuali con chiunque mi piaccia. Posso intraprendere qualsiasi professione di mia scelta. Qui, è il clan che conta. Là, non conta niente. Qui ha un senso, e un'utilità. Non ha alcun senso né alcuna utilità in nessun'altra parte dell'Universo.» Era serissima adesso, come lo era lui. «Esistono due tipi di sapere: locale e universale. Esistono due misure di tempo: locale e storico.»
«Esistono due tipi di dèi?»
«No», rispose lei. «Non ci sono dèi laggiù. Gli dèi sono qui.»
Vide il suo viso che cambiava.
Dopo una pausa, riprese, «Ci sono anime laggiù. Tante, tante anime, menti, menti dotate di tanta conoscenza e passione. Vive e morte. Gente vissuta su questa terra cento, mille, centomila anni fa. Menti e anime di abitanti di mondi lontani centinaia di anni-luce dal nostro, ognuno dei quali ha il proprio sapere e la propria storia. Il mondo è sacro, Havzhiva. Il cosmo è sacro. Questa non è una nozione di quelle che m'è toccato lasciarmi alle spalle. Tutto quello che ho appreso, sia qui che là, non ha fatto che rinforzarla. Non c'è niente che non sia sacro.» Parlava lentamente e a bassa voce, al modo degli abitanti del pueblo. «Puoi scegliere tra la sacralità locale e quella che la trascende. In fin dei conti è la stessa cosa. Ma non nella vita che viviamo. Sapere che c'è una scelta significa compiere la scelta: divenire o stare. Fiume o sasso. I popoli sono il sasso. Gli storici sono il fiume.»
Dopo un po' lui disse, «I sassi sono il letto del fiume».
Lei rise. Il suo sguardo indugiò di nuovo sul giovane, con benevolenza e affetto. «Così sono tornata a casa,» disse. «Per riposare.»
«Ma non sei… non sei più una donna del tuo clan?»
«Certo, quando sono qui. Lo sono ancora, lo sarò sempre.»
«Ma hai cambiato natura! Partirai di nuovo!»
«Certo,» affermò lei con decisione. «È possibile avere più di una natura. Ho un compito da portare a termine, laggiù.»
Lui scosse la testa, lentamente ma con altrettanta decisione. «Che senso ha un compito, senza gli dèi? Non significa niente per me, Madre di Tutti i Figli! Non riesco proprio a ficcarmelo in testa.»
Il doppio senso la fece sorridere. «Ci entrerà quando deciderai di farlo, Uomo del mio popolo,» disse, rivolgendosi a lui in maniera formale per fargli capire che era libero di andarsene.
Lui esitò, poi prese congedo. Andò a lavorare, immergendosi totalmente negli ampi motivi seriali dei grandi tappeti a telaio.
Quella notte si unì a Iyan Iyan in maniera così appassionata da lasciarla esausta e un po' perplessa. Il dio era tornato a visitarli, come fuoco che arde e consuma.
«Voglio un figlio,» disse Havzhiva mentre giacevano avvinghiati insieme, sudati, un intrico di braccia, gambe, seni e respiri nell'oscurità densa di afrori.
«Oh!» sospirò Iyan Iyan, che non aveva voglia di parlare, di decidere, di impegnarsi. «Forse… non subito… più tardi…»
«Ora!» disse lui «Adesso!»
«No!» mormorò lei «Lasciami stare!»
Lui rimase in silenzio. Lei si addormentò.
Più di un anno dopo, quando avevano diciannove anni, Iyan Iyan gli disse, prima di spegnere la luce, «Voglio un bambino».
«È troppo presto.»
«Perché? Mio fratello ha quasi trent'anni. E a sua moglie farebbe piacere avere un bambino in casa. Dopo lo svezzamento verrei a dormire con te a casa tua. Hai sempre detto che ti sarebbe piaciuto.»
«È troppo presto,» ripeté lui. «Non voglio.»
Mettendo da parte il tono dolce e persuasivo, Iyan Iyan insistette, «Cosa vuoi, Havzhiva?»
«Non lo so.»
«Tu stai per partire. Stai per abbandonare il tuo Popolo. Stai diventando pazzo. Per colpa di quella maledetta strega!»
«Non ci sono streghe,» replicò lui risentito. «Sono tutte stupidaggini. Superstizione!»
Si fronteggiarono guardandosi negli occhi, gli amici diletti, gli amanti.
«Allora cos'è che hai? Se vuoi tornare a casa tua, dillo. Se vuoi un'altra donna, va' da lei. Ma fammi avere mio figlio, prima! Ora che sono io a chiedertelo! Hai forse perso il tuo araha?» Lo guardò con gli occhi pieni di lacrime, fiera, indomita.
Lui si nascose il viso tra le mani. «Non è giusto!» disse. «Non è giusto. Tutto quello che faccio, sono costretto a farlo perché così si usa, ma per me… non ha senso. Ci sono altre vie…»
«C'è una sola via giusta che conosco,» affermò Iyan Iyan, «ed è quella che io seguo. C'è un solo modo di fare figli. Se ne conosci un altro, mettilo in pratica, ma non con me!» Dopodiché esplose in un pianto convulso, dando libero sfogo alle paure e alle angosce represse per mesi, mentre lui cercava di trattenerla e calmarla.
Quando fu di nuovo in grado di parlare, lei gli poggiò la testa sulla spalla, e con una vocetta roca mormorò a fatica, «Che almeno mi resti qualcosa di te quando sarai partito, Havzhiva».
Fu lui allora a piangere di dolore e di vergogna, mormorando, «Sì, sì!». Ma quella notte rimasero allacciati l'uno all'altra, cercando di consolarsi a vicenda, finché scivolarono nel sonno come bambini.
«Che vergogna,» disse Granito, con voce dolente.
«Sei stato tu a provocare tutto questo?» chiese seccamente la sorella.
«Come faccio a saperlo? Può darsi. Prima Mezha, adesso mio figlio. Sono stato forse troppo severo con lui?»
«No, no.»
«Troppo indulgente, allora! Non l'ho saputo educare. Perché è così pazzo?»
«Non è pazzo, fratello. Lascia che ti spieghi. Da bambino chiedeva sempre "Perché? Perché?" come fanno tutti i bambini. E io gli rispondevo. Come fanno tutti, com'è giusto fare. Lui capiva. Ma la sua mente non conosce requie. Sarei anch'io come lui, ma mi controllo. Quando stava imparando le tradizioni del Sole chiedeva sempre: perché così? Perché così e non in un altro modo? E io gli spiegavo: perché nelle nostre azioni quotidiane, e nel modo in cui le compiamo, rappresentiamo gli dèi. Lui replicava: allora gli dèi esistono solo attraverso le nostre azioni. È vero! gli dicevo io. Ma non era soddisfatto di questa verità. Non è pazzo, fratello, è mutilato. Non può camminare come noi. Allora, se un uomo non può camminare, cosa gli resta?»
«Star seduto a cantare,» disse Granito lentamente.
«E se non potesse star seduto? Non gli resta che volare.»
«Volare?»
«Loro hanno ali per lui, fratello!»
«Che vergogna,» disse Granito, e nascose la testa tra le mani.
Tovo si recò al tempio e inviò un messaggio per Mezha, a Kathhad: "Il tuo pupillo desidera unirsi a te". C'era una certa malignità in quelle parole. Tovo reputava la storica colpevole di aver turbato l'equilibrio di suo figlio, alterandolo al punto di mutilargli l'anima, come diceva lei. Era gelosa della donna che in pochi giorni aveva vanificato gli insegnamenti di anni. Si rendeva conto di essere gelosa, ma non se ne curava. Che importanza poteva avere la sua gelosia, o l'umiliazione di suo fratello? Ormai non restava loro che il dolore.
Mentre la barca diretta a Daha prendeva il largo, Havzhiva si guardò indietro a osservare Stse: una coltre di mille tonalità di verde, le paludi marine, i pascoli, i campi, le siepi, i frutteti. La città che si inerpicava sulle alture circostanti: mura di granito chiaro, muri bianchi di calce, tetti di tegole nere, muro sopra muro, tetto sopra tetto. Rimpicciolendosi in distanza sembrava un uccello marino là appollaiato, bianco e nero, un uccello sul suo nido. Al di sopra della città si potevano scorgere i contorni dell'isola: le macchie grigiazzurre delle paludi, gli alti colli boscosi che si perdevano fra le nuvole, bianchi stormi di uccelli acquatici in volo.
Al porto di Daha, benché si trovasse più lontano da Stse di quanto non fosse mai stato, e la gente avesse un accento strano, riusciva a capire e a leggere i cartelli. Non aveva mai visto alcun cartello prima, ma la loro funzione era evidente. Seguendoli, trovò la direzione della sala d'attesa per il volo diretto a Kathhad. I viaggiatori dormivano sulle cuccette a loro disposizione, avvolti nelle proprie coperte. Trovò una cuccetta vuota e vi si distese, infagottato nella coperta che Granito aveva tessuto per lui anni prima. Dopo una breve notte strana arrivarono alcune persone con frutta e bevande calde. Uno di loro consegnò a Havzhiva il biglietto. Nessuno dei passeggeri conosceva gli altri, erano stranieri, e tenevano gli occhi bassi. Si udirono degli annunci, e tutti uscirono all'aperto per imbarcarsi sull'apparecchio.
Havzhiva si costrinse a guardare il mondo che scivolava via sotto di lui. Con voce appena percettibile ma decisa intonò il Canto della Permanenza. Lo straniero nel sedile accanto si unì a lui.
Quando la terra balzò in alto e gli si fece incontro, chiuse gli occhi e si sforzò di continuare a respirare.
Uno per uno uscirono dal velivolo su una specie di piattaforma nera su cui stava piovendo. Mezha gli corse incontro nella pioggia, chiamandolo per nome. «Benvenuto, Havzhiva, Uomo del mio Popolo! Andiamo! C'è un posto per te alla Scuola.»
Al terzo anno di corso a Kathhad, Havzhiva imparò molte cose che lo sconcertavano. La sua istruzione precedente era stata difficile, ma non stancante. Era tutta basata su miti e paradossi, e aveva un senso. La nuova istruzione era basata su fatti e ragionamenti, e non aveva senso.
Aveva appreso, per esempio, che gli storici non studiavano la storia. Nessuna mente umana avrebbe mai potuto abbracciare la storia di Hain, durata circa tre milioni di anni. Gli eventi dei primi due milioni di anni, le Pre-Ere, come altrettanti strati di magma roccioso erano state talmente compresse e distorte sotto il peso dei successivi millenni e dei loro infiniti avvenimenti da rendere possibile solo una ricostruzione generica e a grandi linee dall'esame dei minuti frammenti tramandati. E se a qualcuno accadeva per caso di imbattersi in qualche documento rimasto miracolosamente intatto attraverso i millenni, allora… allora cosa? Un certo re aveva regnato su Azbahan, l'Impero era caduto in mano agli infedeli, un ordigno nucleare era esploso su Ve… Ma c'erano stati innumerevoli re, imperi, invenzioni, milioni di vite vissute in milioni di paesi, monarchie, democrazie, oligarchie, anarchie, epoche di caos ed epoche d'ordine, nuovi dèi succedutisi ai vecchi, infinite guerre e periodi di pace, incessanti scoperte e cadute nell'oblio, innumerevoli orrori e trionfi, una replica infinita di eventi senza fine. A che serve cercar di descrivere lo scorrere di un fiume in un dato istante, poi nel seguente, e nel seguente ancora? Non ne vieni mai a capo, e allora dici: c'è un grande fiume che scorre attraverso tutta la terra, e si chiama Storia.
Per Havzhiva la consapevolezza che la sua vita, che qualsiasi vita non era che un luccichio della durata di un attimo sulla corrente di quel fiume era talvolta sconvolgente, talaltra riposante.
L'attività principale degli storici era esplorare, con metodo semplice ma non affrettato, l'andamento locale e la situazione del fiume. Lo stesso Hain aveva attraversato, per parecchie migliaia di anni, un irrilevante periodo caratterizzato dalla coesistenza di piccole società stabili e autonome comunemente chiamate pueblos, collegate a una rete di città ad alta tecnologia e a bassa densità, e di centri d'informazione comunemente chiamati templi. Molti degli addetti ai templi, gli storici, passavano la vita viaggiando e compiendo ricerche sugli altri pianeti abitati del vicino Braccio di Orione, colonizzato dai loro antenati un paio di milioni di anni prima, durante le Pre-Ere. Non attribuivano a questi contatti e ricerche altro movente se non la curiosità e l'interesse verso i propri simili. Mantenevano contatti con le parentele più distanti e sperdute. Chiamavano questa estesa rete di mondi Ekumene, parola di un altro pianeta che significa "la dimora".
Ormai Havzhiva sapeva che tutto ciò che aveva imparato a Stse, tutto quello che era stato il suo sapere precedente, poteva essere etichettato come "tipica cultura di villaggio della costa nord-occidentale del Continente Meridionale". Sapeva che le credenze, le pratiche, i sistemi di parentela, le tecnologie, i metodi di organizzazione dei diversi villaggi erano completamente diversi l'uno dall'altro, pazzamente diversi, del tutto madornali, come madornale era il sistema di Stse, e sapeva che era inevitabile imbattersi in uno di tali sistemi su uno qualunque dei Mondi Conosciuti in cui fosse presente una popolazione umana organizzata in piccoli gruppi stabili, con una tecnologia sviluppata a seconda dell'ambiente, un tasso di natalità basso e costante, e una politica basata sul consenso.
All'inizio tale consapevolezza era stata devastante. E anche dolorosa. Gli aveva fatto provare umiliazione e rabbia. Dapprima aveva pensato che gli storici celassero il loro sapere ai villaggi, poi pensò che fossero i villaggi a celare il sapere alla propria gente. Accusò. I suoi maestri respinsero gentilmente le accuse. Non è così, gli dissero. Ti è stato insegnato che certe cose erano vere e necessarie, e quelle cose sono vere e necessarie. Sono la conoscenza locale di Stse.
«Sono credenze infantili, irrazionali!» esclamò lui. Quando lo guardarono, si rese conto di essere stato lui stesso infantile e irrazionale.
Sapere locale non significa sapere parziale, gli spiegarono. Esistono vari modi di conoscere. Ognuno ha i suoi pregi, difetti, soddisfazioni. La conoscenza storica e la conoscenza scientifica rappresentano un modo di conoscere. Come la conoscenza locale, richiedono apprendimento. Il modo di conoscere della "Dimora" non viene insegnato nei villaggi, ma non ti è stato tenuto nascosto né dalla tua gente né da noi. Chiunque in qualunque regione di Hain ha accesso a tutte le informazioni del tempio.
Era vero. Sapeva che era vero. Quello che stava imparando adesso avrebbe potuto scoprirlo da solo, sugli schermi del tempio di Stse. Alcuni suoi compagni di studio di altri villaggi avevano imparato da soli come attingere informazioni dagli schermi, e si erano interessati di storia ancor prima di aver mai incontrato uno storico.
I libri, tuttavia, i libri che costituivano il corpo della storia, la sua realtà durevole, erano rarissimi a Stse, e questo rinfocolò il suo furore. Ci sottraete i libri, tutti i libri della Biblioteca di Stse! No, gli spiegarono benevoli. Sono i villaggi che hanno deciso di non tenere molti libri. Preferiscono la conoscenza viva, parlata o trasmessa sugli schermi, quella che passa di bocca in bocca, da viva mente a viva mente. Vorresti rinunciare a quel che hai imparato in quel modo? È forse minore, o meno importante di quel che hai imparato qui sui libri? Non esiste un solo tipo di sapere, asserirono gli storici.
Al terzo anno, Havzhiva aveva deciso che non esiste un solo tipo di persona. La popolazione dei villaggi, capace di accettare la fondamentale arbitrarietà dell'esistenza, offriva al mondo un contributo intellettuale e spirituale. Coloro che non riuscivano ad accontentarsi del mistero potevano svolgere un ruolo utile come storici, offrendo al mondo un contributo intellettuale e materiale.
Si stava intanto abituando a persone che non avevano clan, né parentele, né religione. Talvolta si diceva, con una punta di vanità, «Io appartengo alla storia, alla storia di Hain di molti milioni di anni, e la mia patria è l'intera galassia!» A volte si sentiva invece piccolo piccolo, e allora abbandonava i suoi schermi o i suoi libri e cercava la compagnia degli altri studenti, specialmente delle ragazze, che erano così gentili, così socievoli.
All'età di ventiquattro anni Havzhiva, o Zhiv, come lo chiamavano adesso, aveva frequentato per un anno la Scuola Ecumenica su Ve.
Ve, il pianeta più vicino ad Hain, era colonizzato da tempo immemorabile, prima tappa della grande espansione hainiana delle Pre-Ere. Aveva attraversato fasi diverse, da subordinato ad alleato della civiltà espansionistica di Hain. In quel periodo era interamente abitato da storici e da gente di altri mondi.
Nella loro attuale (nel senso degli ultimi cento millenni o giù di lì) politica di non-ingerenza, gli Hainesi avevano consentito a Ve di tornare ai propri livelli standard di temperatura, umidità, pressione: un clima compreso nei limiti della tollerabilità umana, ma che può essere apprezzato solo da chi provenga dall'Altopiano Terrestre o dalle alture di Chiffewar. Zhiv stava esplorando quella cruda landa insieme a Tiu, sua compagna, amica, innamorata.
Si erano conosciuti due anni prima a Kathhad. A quell'epoca Zhiv era soddisfatto di avere a disposizione tutte le donne e di essere a sua volta totalmente disponibile, una libertà di cui stava sempre più abusando e sulla quale Mezha l'aveva gentilmente messo in guardia. «Ti può sembrare che tutto avvenga senza regola, ma c'è sempre una regola,» gli aveva detto. Ma l'attenzione di Zhiv era concentrata soprattutto sulle proprie trasgressioni, sempre più audaci e irrispettose, verso quelle che erano le regole. Non tutte le donne erano interessate al sesso, e non tutte le donne, come non aveva tardato a scoprire, erano interessate a praticarlo con gli uomini, ma questo lasciava aperte comunque infinite possibilità. Si accorse di essere considerato attraente. Essere un Hainese rappresentava un indubbio vantaggio con le donne aliene.
L'alterazione genetica che permetteva agli Hainesi di controllare la propria fertilità non era una semplice questione di ingegneria genetica, ma prevedeva una profonda ristrutturazione radicale della fisiologia umana, che aveva probabilmente richiesto venticinque generazioni per attuarsi. Almeno questa è l'opinione degli storici di Hain che pensano di conoscere, in termini generali, le fasi attraverso cui tale trasformazione aveva avuto luogo. Quali che fossero le pratiche degli antichi Hainesi, non le avevano comunque trasmesse ai loro colonizzati. Avevano invece lasciato che le popolazioni dei mondi colonizzati trovassero modi autoctoni per la risoluzione del Primo Problema Eterosessuale. Svariati e ingegnosi furono, naturalmente, i metodi trovati, ma ognuno di essi prevedeva, per evitare il concepimento, o un'azione da compiersi prima o dopo, oppure l'assunzione o l'uso di qualcosa. Oppure avere rapporti con Hainesi.
Zhiv si era sentito offeso una volta che una ragazza di Beidane gli aveva chiesto come faceva a esser tanto sicuro di non metterla incinta. «Come fai a esserne certo?» gli chiese. «Sarà bene che prenda la mia solita cosa, tanto per stare più tranquilla.» Colpito nel cuore della sua mascolinità, Zhiv si divincolò da lei dicendo, «Starai ancora più tranquilla senza di me!» E se ne andò a grandi passi. Nessun'altra, per fortuna, mise mai più in dubbio il suo privilegio genetico, e continuò a passar di donna in donna finché incontrò Tiu.
Non era Aliena. Lui aveva sempre cercato donne di altri mondi. Per aggiungere un tocco di esotismo alla trasgressione o, per dirla in altre parole, per allargare il campo della propria conoscenza, com'è dovere di uno storico. Ma Tiu era hainese. Era nata e cresciuta su Darranda, come i suoi antenati prima di lei. Era una figlia di storici come lui era un figlio del popolo. Si rese conto ben presto che la loro origine comune, seppur diversa, creava un'attrazione ben più forte di qualunque fascino esotico, che la loro disuguaglianza era autentica diversità e la loro affinità un vero legame di parentela. Tiu rappresentava il paese per scoprire il quale Zhiv aveva dovuto abbandonare il proprio. Lei era quello che lui avrebbe desiderato essere. Era quello che lui desiderava.
Lei aveva il dono, così almeno sembrava a Zhiv, del perfetto equilibrio. Stando con lei aveva provato la sensazione, per la prima volta nella vita, di imparare a camminare. Camminare come faceva lei, con la scioltezza e disinvoltura di un animale e tuttavia conscia e vigile, prestando attenzione a tutto ciò che avrebbe rischiato di farle perdere l'equilibrio, e usandolo come un acrobata sulla fune usa la sua lunga pertica… Questa, pensò, è una conoscitrice della vera libertà di spirito, è una donna libera di esprimere tutta la sua umanità, la quintessenza della misura e della grazia.
Era assolutamente felice quand'era con lei, non domandava di meglio che stare assieme a lei. A lungo Tiu rimase guardinga nei suoi confronti, gentile ma distante. Un ragazzo di villaggio, uno che confondeva suo zio con suo padre, ecco che cos'era lui qui, agli occhi dei malevoli e dei timorosi del diverso. Nonostante la loro conoscenza dei diversi stili di vita umani, gli storici non avevano superato l'umana tendenza all'intolleranza. Tiu non aveva pregiudizi, ma cos'aveva lui da offrirle? Lei aveva, ed era, tutto. Perché l'avrebbe dovuto guardare? Se soltanto gli avesse permesso di guardarla, di stare insieme a lei, non avrebbe desiderato altro.
Lei lo aveva guardato, le era piaciuto, lo aveva trovato interessante e un po' inquietante. Aveva notato come lui la desiderava, come aveva bisogno di lei, come l'aveva messa al centro della propria vita senza neanche rendersene conto. Non andava bene. Aveva cercato di essere fredda, di allontanarlo. Lui si era adeguato. Non era stato a supplicare. S'era tenuto lontano.
Ma dopo quindici giorni era tornato da lei e le aveva detto, «Tiu, non posso vivere senza di te». Sapendo che Zhiv diceva la pura verità, lei aveva risposto, «Allora vivi con me per un po'». Le era mancato l'ardore che emanava dalla sua presenza. Tutti gli altri sembravano così tranquilli, così misurati.
I loro incontri amorosi erano piacere immediato, immenso, continuo. Tiu era stupita di se stessa, dell'attrazione folle che provava per Zhiv, della capacità che aveva quell'uomo di mandarla in orbita. Non aveva mai immaginato che cosa significasse adorare qualcuno, men che meno essere adorata. Aveva condotto una vita ordinata, nella quale il controllo era personale e interiore, non sociale ed esterno com'era stato per Zhiv a Stse. Sapeva che cosa voleva essere e che cosa voleva fare. C'era in lei una direzione precisa che avrebbe sempre seguito, come il nord l'ago di una bussola. Il loro primo anno insieme fu una serie continua di cambiamenti e di ribaltamenti del loro rapporto, una sorta di eccitante danza d'amore, imprevedibile, estasiante. Poi lei cominciò poco per volta a resistere al coinvolgimento, all'intensità, all'estasi. Era molto piacevole ma era sbagliato, pensava. La direzione del suo ago magnetico interno la stava portando di nuovo lontano da lui, e lui stava lottando con tutto il suo essere per trattenerla.
Zhiv era appunto impegnato in questa lotta al termine di una lunga giornata di viaggio nel deserto di Asu Asi su Ve, sotto la loro tenda fabbricata a Gethenia, miracolosamente calda. Un vento secco, gelido, fischiava fra le alture di roccia rossa sopra di loro. Erano state levigate dall'incessante soffio del vento fino a una levigatezza smaltata, e solcate da ampie tracce geometriche di una civiltà scomparsa.
Potevano sembrare fratello e sorella, mentre sedevano al chiarore della stufa di Chabe: identico era il loro colorito bruno-rossastro, identici i folti, lucidi capelli neri, e la corporatura snella e solida. La serietà e la calma da uomo di villaggio nella voce e nei gesti di Zhiv facevano da contrappunto all'eloquenza, spigliatezza e vivacità di Tiu.
Ora però Tiu stava parlando lentamente, quasi con sforzo. «Non costringermi a scegliere, Zhiv,» disse. «È da quando ho iniziato i miei studi che desidero andare su Terra. Da prima ancora. Fin da bambina. Tutta la vita. Adesso mi si offre la realizzazione del desiderio e dello scopo che perseguo da sempre. Come puoi chiedermi di rifiutare?»
«Non te l'ho chiesto.»
«Ma vuoi che rimandi la cosa. Se lo facessi, potrei perdere per sempre questa opportunità. O forse no. Ma perché correre il rischio, per un anno? Mi puoi raggiungere tu l'anno prossimo!»
Lui non disse nulla.
«Se t'interessa,» aggiunse lei con voce dura. Era sempre stata fin troppo pronta a rinunciare a ogni pretesa su di lui. Forse non aveva mai creduto fino in fondo al suo amore. Non si considerava tanto amabile, così degna della sua appassionata devozione. Ne era spaventata, si sentiva inadeguata, in una posizione falsa. La sua autostima era limitata all'intelletto. «Mi tratti come se fossi un dio,» gli aveva detto una volta, e non aveva capito quando lui aveva risposto, con gioiosa solennità, «Noi due insieme siamo un dio».
«Mi dispiace,» le stava dicendo adesso. «È un modo diverso di considerare le cose. Superstizione, se vuoi. Non ci posso far nulla, Tiu. Terra si trova a centoquaranta anni-luce di distanza. Se parti, quando sarai arrivata io sarò morto.»
«Non è vero! Avrai vissuto qui ancora per un anno, sarai in viaggio per laggiù, e arriverai un anno dopo di me!»
«Lo so. Queste cose si imparano perfino a Stse,» replicò Zhiv, paziente. «Ma io ho le mie superstizioni. Saremo morti l'uno per l'altro, se parti. Questo dovresti averlo imparato perfino a Kathhad.»
«No. Non è vero. Come puoi chiedermi di rinunciare a questa opportunità per qualcosa che tu stesso riconosci essere una superstizione? Sii onesto, Zhiv!»
Dopo un lungo silenzio, lui chinò il capo.
Lei rimase seduta, esterrefatta dalla sua vittoria. Una vittoria amara.
Si avvicinò a Zhiv, cercando di far coraggio a lui e a se stessa. Era atterrita dal suo umore cupo, dal suo dolore, dalla sua muta rassegnazione al tradimento. Ma non era tradimento! Respinse subito quella parola. Non avrebbe mai potuto tradirlo. Erano innamorati. Si amavano. Lui l'avrebbe seguita dopo uno, al massimo due anni. Erano adulti, non potevano restarsene aggrappati insieme come bambini. Le relazioni tra adulti sono basate sulla libertà reciproca. Si diceva tutto questo mentre si rivolgeva a Zhiv. Lui disse di sì, l'abbracciò, la confortò. Durante la notte, nel silenzio solenne del deserto, il rombo del sangue nelle orecchie, Zhiv giacque insonne e pensò, È morto senza essere nato. Non è mai stato concepito.
Rimasero insieme nel loro piccolo alloggio alla Scuola durante le poche settimane precedenti la partenza di Tiu. Facevano l'amore con cautela, con dolcezza, parlavano di storia, di economia, di etnologia, si tenevano occupati. Tiu si doveva preparare a lavorare con il gruppo con cui sarebbe partita, e studiava il concetto terrestre di gerarchia. Zhiv doveva stendere una relazione sull'energia generata dall'interazione sociale su Werel. Lavorarono sodo. I loro amici organizzarono una grande festa d'addio per Tiu. Il giorno dopo Zhiv l'accompagnò al porto di Ve. Lei lo baciò e l'abbracciò, raccomandandogli di sbrigarsi, di far presto a raggiungerla su Terra. Lui la guardò salire a bordo del razzo che l'avrebbe condotta sull'astronave NAFAL che attendeva in orbita. Tornò nell'appartamento nel Recinto Sud della Scuola. Un amico lo trovò lì tre giorni dopo, seduto alla sua scrivania, in una strana condizione: abulico, lentissimo nel parlare, sempre che fosse disposto ad aprir bocca, incapace di mangiare e di bere. Provenendo egli stesso da un villaggio, l'amico comprese in che stato era e chiamò il guaritore (gli Hainesi non li chiamavano dottori). Constatato che veniva da uno dei villaggi del Sud, il guaritore gli disse, «Havzhiva! Il tuo dio non può morirti dentro quaggiù!»
Dopo un lungo silenzio il giovane rispose piano, con voce che non pareva affatto la sua, «Voglio tornare a casa!»
«Non è possibile in questo momento,» disse il guaritore. «Ma possiamo organizzare un Canto della Permanenza, mentre cerco qualcuno in grado di comunicare col dio.» Prontamente lanciò un appello agli studenti originari dei Popoli del Sud. Risposero in quattro. Stettero tutta la notte seduti con Havzhiva intonando il Canto della Permanenza in due lingue e quattro dialetti, finché Havzhiva si unì a loro in un quinto dialetto, mormorando con voce roca le parole finché non crollò e dormì per trenta ore di seguito.
Si risvegliò nella sua stanza. Accanto a lui una donna anziana intratteneva una conversazione, con nessuno in particolare. «Tu non sei qui,» stava dicendo. «No, ti sbagli, tu non puoi morire qui. Non sarebbe giusto, sarebbe un grosso errore. Tu lo sai. Questo è il posto sbagliato. Questa è la vita sbagliata. Lo sai bene! Cosa ci fai qui? Ti sei perduto? Vuoi sapere la strada di casa? Ecco! Ascoltami!» Cominciò a cantare, con voce esile e acuta, una nenia quasi priva di cadenza e quasi senza parole che suonava familiare a Havzhiva, come se l'avesse sentita tanto tempo prima. Si addormentò di nuovo mentre l'anziana signora continuava a parlare con nessuno.
Quando si risvegliò era andata via. Non seppe mai chi fosse né di dove venisse, non lo chiese mai. Aveva parlato e cantato nella sua lingua, nel dialetto di Stse.
Non stava più per morire, adesso, ma stava molto male. Il guaritore lo fece ricoverare all'ospedale di Tes, il posto più bello di tutto Ve, un'oasi in cui sorgenti d'acqua calda e una cerchia di colline creano un'isola dal clima mite dove possono crescere fiori e foreste. Ci sono sentieri che si intrecciano senza fine sotto i grandi alberi, caldi laghi dove nuotare all'infinito, piccoli stagni brumosi da cui si levano in volo cantando gli uccelli, calde sorgenti avvolte nei vapori, e mille cascate la cui voce è l'unico suono della notte. Era stato mandato lì per restarvi finché fosse guarito.
Dopo circa venti giorni di soggiorno a Tes, cominciò a incidere sul suo taccuino. Si sedeva al sole, sui gradini della sua casetta di legno in una radura di erbe e di felci e si parlava sottovoce tramite il piccolo registratore. «Gli elementi tra cui devi scegliere per narrare la tua storia non sono niente di meno del tutto,» disse guardando i rami dei vecchi alberi nereggianti contro il cielo. «Gli elementi dai quali costruisci il tuo mondo, il tuo mondo particolare, comprensibile, logico e coerente, non sono niente di meno del tutto. Perciò ogni scelta è arbitraria. Ogni sapere è parziale, infinitamente parziale. La ragione è una rete gettata nell'oceano. La verità che riporta in superficie non è che un frammento, un riflesso, una scintilla della verità totale. L'intera conoscenza umana è particolare. Ogni vita, ogni vita umana, è particolare, arbitraria, uno sprazzo infinitesimale e momentaneo di…» Si interruppe, rimase in silenzio della radura fra i grandi alberi.
Dopo quarantacinque giorni rientrò alla Scuola. Si trasferì in un altro appartamento. Cambiò settore di studi, abbandonando le scienze sociali, il campo di Tiu, per quello dei servizi sociali ecumenici, strettamente collegato dal punto di vista teorico, ma che conduceva a un diverso tipo di lavoro. Il cambiamento avrebbe prolungato la sua permanenza alla Scuola di almeno un anno, dopodiché, se avesse conseguito buoni risultati, avrebbe potuto sperare in un incarico nell'Ekumene. Li conseguì, e dopo due anni gli fu chiesto, con la formula di cortesia in uso nei consigli dell'Ekumene, se era disposto ad andare su Werel. Sì, rispose, era disposto. Gli amici organizzarono per lui una grande festa d'addio.
«Credevo che puntassi a Terra!» disse la più sprovveduta delle sue compagne di studi. «Tutte queste faccende di guerra, schiavitù, divisioni per classi, per casta e per sesso, non sono forse la storia di Terra?»
«Sono fenomeni diffusi anche su Werel,» rispose Havzhiva. Non era più Zhiv. Era tornato dall'Ospedale col nome di Havzhiva.
Qualcuno pestò un piede alla sprovveduta, ma lei non ci fece caso. «Credevo che volessi seguire Tiu,» disse quest'ultima, «e che per questo non fossi mai stato con nessun'altra. Oh, se l'avessi immaginato prima!» Gli altri trasalirono, ma Havzhiva sorrise e abbracciò la ragazza come per chiederle scusa.
Tutto era chiaro, nella sua mente. Come lui aveva tradito e abbandonato Iyan Iyan, così Tiu aveva tradito e abbandonato lui. Non c'era modo di tornare indietro né di andare avanti. Quindi doveva procedere di traverso. Per quanto fosse uno di loro, non poteva più tornare a vivere tra il Popolo, per quanto fosse diventato uno di loro, non voleva vivere insieme agli storici. Quindi doveva andare a vivere con gli Alieni.
Non aveva alcuna speranza di gioia. L'aveva guastata, pensò. Ma sapeva che i due lunghi, intensi tirocini cui aveva dedicato la sua vita, quello sugli dèi e quello di storia, gli avevano procurato una conoscenza fuori del comune, che poteva essere utilmente impiegata da qualche parte, e sapeva che il corretto uso della conoscenza è la soddisfazione interiore.
Il guaritore andò a visitarlo il giorno prima della partenza, lo esaminò, poi rimase seduto per un po' senza dir niente. Havzhiva sedette con lui. Era stato tanto a lungo abituato al silenzio da dimenticarsi ancora, qualche volta, che non era pratica comune tra gli storici.
«Cosa c'è che non va?» chiese il guaritore. Sembrava una domanda retorica, dal tono pensoso della voce. In ogni modo, Havzhiva non rispose.
«Alzati in piedi, per favore,» disse il guaritore e quando Havzhiva si fu alzato, «Adesso cammina un po'». Fece qualche passo, mentre il guaritore lo osservava. «Sei sbilanciato. Te n'eri accorto?»
«Sì.»
«Potrei mettere insieme un Canto della Permanenza per stasera.»
«Non importa,» disse Havzhiva. «Sono sempre stato fuori equilibrio.»
«Non dovresti,» aggiunse il guaritore. «D'altra parte, forse è meglio così, dato che devi andare su Werel. Allora, addio per questa vita!»
Si abbracciarono formalmente, come si usa fra gli storici, specialmente quando, come in questo caso, si ha l'assoluta certezza di non rivedersi mai più. Quel giorno Havzhiva ebbe da dare e da ricevere un gran numero di abbracci rituali. Il giorno seguente s'imbarcò sul Terrazze di Darranda e attraversò il buio.
Durante il suo viaggio di ottanta anni-luce a velocità NAFAL, sua madre morì e anche suo padre, e Iyan Iyan e tutti quelli che aveva conosciuto a Stse, e quelli che conosceva a Kathhad e su Ve. Quando l'astronave atterrò, erano già morti da anni. Il figlio che Iyan Iyan aveva dato alla luce era vissuto, era invecchiato ed era morto.
Zhiv era convissuto con questa consapevolezza fin da quando aveva visto Tiu salire a bordo della sua astronave, lasciando lui a morire. Grazie al guaritore, ai quattro compagni che avevano cantato con lui, all'anziana signora e alle cascate di Tes, lui era sopravvissuto, ma era anche convissuto con quella consapevolezza.
Altri cambiamenti avevano avuto luogo. All'epoca in cui aveva lasciato Ve, il pianeta Yeowe, colonia di Werel, era un mondo tenuto in schiavitù, un immenso campo di lavoro. Quando arrivò su Werel, la Guerra di Liberazione era finita, Yeowe aveva dichiarato la sua indipendenza e l'istituto della schiavitù cominciava a sgretolarsi su Werel stesso.
Havzhiva avrebbe voluto essere testimone di questo processo tremendo e grandioso, ma l'ambasciata lo spedì prontamente su Yeowe. Un Hainese di nome Sohikelwenyanmurkeres Esdardon Aya lo aveva messo in guardia prima della sua partenza. «Se vuoi il pericolo, è pieno di pericoli,» disse, «e se cerchi la speranza è pieno di speranza. Werel si sta distruggendo, mentre Yeowe sta cercando di costruirsi. Non so se ci riuscirà, ma sai cosa ti dico, Yehedarhed Havzhiva? Grandi dèi si stanno scatenando su quei mondi!»
Yeowe si era liberato dei suoi Boss e Possidenti, delle Quattro Corporazioni che avevano diretto le grandi piantagioni di schiavi per trecento anni, ma anche dopo la fine dei trent'anni della Guerra di Liberazione la lotta non era cessata. Comandanti e signori della guerra che, dalla condizione di schiavi, erano saliti al potere durante la Liberazione, adesso combattevano per mantenere ed estendere quel potere. Opposte fazioni si erano scontrate sulla questione se cacciare per sempre gli stranieri dal pianeta o se ammettere gente degli altri mondi ed entrare a far parte dell'Ekumene. Gli isolazionisti erano stati infine sconfitti e una nuova ambasciata ecumenica era stata aperta nell'antica capitale coloniale. Havzhiva vi trascorse un certo tempo per imparare "la lingua e il galateo a tavola", come dicevano. Poi l'ambasciatore, una giovane terrestre scaltra di nome Solly, lo inviò in una regione meridionale chiamata Yotebber, che era in fermento per ottenere l'autonomia.
La storia è una vergogna! pensò Havzhiva mentre attraversava in treno quel mondo dal paesaggio devastato.
I capitalisti wereliani che avevano colonizzato il pianeta avevano sfruttato sia le sue risorse sia i loro schiavi, senza sosta e senza alcun criterio, in una lunga orgia di ricerca del profitto. Ci vuol del tempo a saccheggiare un mondo, ma si può fare. Lo smantellamento del suolo con le miniere e le coltivazioni intensive d'un solo prodotto avevano sfigurato e reso sterile la terraferma. I fiumi erano inquinati, privi di vita. Vaste tormente di polvere oscuravano l'orizzonte orientale.
I Boss avevano gestito le loro piantagioni tramite l'uso della forza e del terrore. Per più di un secolo vi avevano spedito soltanto schiavi maschi, li avevano fatti lavorare fino alla morte, importandone dei nuovi a seconda del bisogno. Le squadre di lavoro, in questi insediamenti di soli maschi, si erano strutturate secondo gerarchie di tipo tribale. In seguito, a causa dell'aumento del prezzo degli schiavi su Werel e del costo delle spedizioni, le Corporazioni cominciarono a comprare schiave per la colonia di Yeowe. Così, durante i due secoli seguenti, la popolazione degli schiavi aumentò, e furono fondate città di schiavi chiamate Proprietopoli e Polveronia, che si sviluppavano intorno ai vecchi insediamenti delle piantagioni. Havzhiva sapeva che il movimento di liberazione era partito dalle donne all'interno dei gruppi tribali, una ribellione contro il potere maschile, prima di trasformarsi in una guerra di tutti gli schiavi contro i padroni.
Il treno pigro si fermava in tutte le città: chilometri e chilometri di catapecchie e capanne, senza alberi, intere zone bombardate o incendiate durante la guerra e non ancora ricostruite, fabbriche, alcune delle quali solo rovine sventrate, altre funzionanti ma dall'aspetto antiquato, malandate, vomitanti fumo. A ogni stazione centinaia di persone scendevano dal treno o vi salivano, spingendosi, affollandosi, gridando offerte ai facchini, arrampicandosi sui tetti dei vagoni, brutalmente respinte a terra da guardie e poliziotti. Nella parte settentrionale del lungo continente, come su Werel, aveva visto molta gente dalla pelle nera, nerissima, ma via via che il treno procedeva verso sud ce n'erano sempre meno finché, a Yotebber, la gente dei villaggi e delle desolate lande lungo la ferrovia gli parve di pelle molto più chiara della sua, d'un colore azzurrognolo e opaco. Si trattava del "popolo della polvere", dei discendenti di centinaia di generazioni di schiavi wereliani.
Yotebber era stato uno dei centri che avevano dato inizio alla lotta di liberazione. I Boss vi avevano effettuato rappresaglie con bombe e gas venefici. Migliaia di persone erano morte. Intere città erano state bruciate per eliminare i cadaveri non sepolti di uomini e di animali. Alla foce del grande fiume si era formata una diga di corpi putrescenti. Ma tutto questo apparteneva al passato. Adesso Yeowe era libero, e nuovo membro dell'Ekumene dei Mondi. Havzhiva, nel suo ruolo di Vice-Nunzio, era in arrivo per aiutare la popolazione della regione di Yotebber a dare inizio alla sua nuova storia. Ovvero, dal punto di vista di un Hainese, a ricollegarsi alla storia del passato.
Fu ricevuto alla stazione di Città di Yotebber da una gran folla in agitazione, urlante e festante, dietro transenne controllate da poliziotti e soldati. Dinanzi alle transenne c'era una delegazione di autorità che indossavano splendidi mantelli, emblemi del loro grado e uniformi variamente decorate. Erano quasi tutti grandi, maestosi, molto appariscenti. Ci furono discorsi di benvenuto, cronisti e fotografi per i notiziari della olorete e delle emittenti neosensoriali. Non ci fu confusione, comunque. Quei personaggi maestosi tenevano la situazione sotto controllo. Volevano che il loro ospite sentisse di essere benvenuto, di essere ben accetto, di essere, come aveva detto il Capo nel suo discorso conciso ed eloquente, il "nunzio del futuro".
Quella notte, nel suo lussuoso appartamento nel palazzo di uno dei possidenti della città trasformato in albergo, Havzhiva pensò, Se sapessero che il loro uomo del futuro è cresciuto in un villaggio e non ha mai visto una trasmissione neosensoriale prima di venire qui…
Sperava di non deludere quella gente. Fin da quando aveva fatto per la prima volta la loro conoscenza su Werel gli erano piaciuti, nonostante il loro sistema sociale abnorme. Erano ricchi di energia vitale e orgoglio e, qui su Yeowe, anche di aneliti di giustizia. Havzhiva considerava la giustizia alla stessa stregua di quell'antico Terrestre che aveva detto, a proposito di un dio a lui estraneo: Ci credo perché è impossibile. Dormì bene e si svegliò di buon'ora, nel mattino luminoso e tiepido, pieno di aspettative. Uscì per cominciare a esplorare la città, la sua città.
Il portiere (era sconcertante pensare che gente che aveva combattuto così strenuamente per la propria libertà mantenesse impieghi di tipo servile) tentò in tutti i modi di convincerlo a prendere una vettura, una guida, evidentemente sconvolto dall'idea che un personaggio così importante potesse uscire tanto di buon'ora, a piedi, senza una scorta. Mentre usciva, il disgraziato portiere gli gridò dietro, «Oh, signore, non entri nel parco, mi raccomando, signore!»
Havzhiva seguì il consiglio, pensando che il parco doveva esser chiuso per qualche cerimonia o sistemazione di piante. Sbucato in una piazza dove era in pieno svolgimento un mercato, si rese conto che rischiava di ritrovarsi preso in mezzo a una folla di curiosi. La gente non poteva fare a meno di notarlo. Indossava i bei capi di vestiario di Yeowe: corpetto, pantaloni, un mantello corto e leggero, ma era l'unica persona dalla pelle color bruno-rossiccio in una città di quattrocentomila abitanti. Appena vedevano la sua pelle, i suoi occhi, capivano subito chi era: lo Straniero! Così sgusciò via dal mercato e passeggiò per tranquille strade residenziali, gustando l'aria lieve e tiepida e il magnifico stile coloniale e decadente delle abitazioni. Si soffermò ad ammirare un ornato tempio tualita. Aveva una certa atmosfera di incuria e di abbandono, ma sulla soglia c'era, come notò, un mazzo votivo di fiori ai piedi dell'immagine della Madre. Nonostante il naso fosse stato mozzato durante la guerra, la Madre sorrideva serena, gli occhi un po' strabici. Sentì uno schiamazzo alle sue spalle. Qualcuno gli intimò, da vicino, «Fuori dal nostro mondo, straniero di merda!» Fu afferrato per un braccio, mentre le gambe gli venivano sollevate da sotto il corpo a forza di calci. Facce stravolte, urlanti, incombevano su di lui. Un forte crampo doloroso lo percorse tutto, facendolo sprofondare ancora di più in una rossa oscurità di lotta, di grida e di dolore, poi fu un confuso dissolversi di luci e di suoni.
Una vecchia sedeva accanto a lui mormorando una nenia stonata che gli suonava vagamente familiare.
Stava lavorando a maglia. Per molto tempo non lo guardò, e quando lo fece si lasciò sfuggire un, «Ah!» Lui ebbe difficoltà a mettere a fuoco l'immagine, ma riuscì a distinguere il viso azzurrognolo della vecchia, d'una carnagione molto pallida, e gli occhi scuri, privi di bianco.
La donna sistemò una specie di apparecchio a cui lui era collegato da qualche parte, poi disse, «Sono la guaritrice, l'infermiera. Lei ha subito uno choc, ha un lieve trauma cranico, un rene lesionato, una ferita da coltello all'addome, ma andrà tutto a posto, non si preoccupi». Tutto questo era stato detto in una lingua straniera, che gli sembrava di capire. Di sicuro capì il "non si preoccupi" e seguì il consiglio.
Pensò di essere a bordo del Terrazze di Darranda su coordinate NAFAL. Cent'anni trascorsero come in un brutto sogno, ma non erano trascorsi. Persone e orologi non avevano faccia. Cercò di mormorare il Canto della Permanenza, ma non trovò le parole. Erano scomparse. La vecchia gli prese la mano, la trattenne, e piano piano lo riportò nel tempo, in quel tempo, nella quieta oscurità della stanza dove era seduta a lavorare a maglia.
La calda luce del mattino entrava dalla finestra. Il Capo della regione di Yotebber era in piedi accanto al suo letto, torreggiante nei suoi panni bianchi e porpora.
«Mi dispiace,» disse Havzhiva lentamente e a fatica a causa di una ferita alla bocca. «È stato stupido da parte mia uscire da solo. La colpa è stata solo mia.»
«Quei delinquenti sono stati presi, saranno giudicati da un tribunale,» disse il Capo.
«Erano dei ragazzi!» protestò Havzhiva. «Sono state solo la mia ignoranza e la mia follia a provocare l'incidente.»
«Saranno puniti,» asserì il Capo.
Le infermiere di giorno tenevano sempre acceso l'oloschermo per seguire i notiziari e gli sceneggiati mentre sedevano con lui. Tenevano il volume basso, e Havzhiva poteva anche non ascoltare. Era un pomeriggio caldo. Stava guardando vaghe nuvole muoversi lentamente nel cielo quando l'infermiera disse, chiamandolo col titolo formale riservato alle persone di alto rango, «Oh, presto! Se Sua Eccellenza lo desidera, può assistere alla punizione di quegli infami che l'hanno aggredita!»
Havzhiva obbedì. Vide un esile corpo umano appeso per i piedi le braccia e le mani che si agitavano in modo spasmodico, le interiora che si rovesciavano sul petto e sulla faccia. Urlò con quanto fiato aveva in corpo e si nascose il viso tra le mani. «Spegnete!» supplicò. «Spegnete!» Ebbe un conato di vomito e si sentì mancare l'aria. «Voi non siete esseri umani!» urlò nella sua lingua, nel dialetto di Stse. Ci fu un certo andirivieni nella stanza. Il brusio della folla in delirio cessò di colpo. Riuscì a controllare il respiro e giacque a occhi chiusi, ripetendo un verso del Canto della Permanenza ancora e poi ancora, finché il corpo cominciò a rilassarsi e a ritrovare un po' di equilibrio, non molto.
Gli portarono del cibo. Lo rimandò indietro.
La stanza era buia, rischiarata soltanto da un lumino da notte sulla parete in basso e dalle luci della città che filtravano dalla finestra. La vecchia, l'infermiera di notte, era lì che sferruzzava nella semioscurità.
«Mi dispiace,» disse Havzhiva a casaccio, non sapendo di preciso cosa avesse detto a quella gente.
«Oh, signor Nunzio!», disse la vecchia con un lungo sospiro. «Ho letto del suo popolo. Del popolo di Hain. Voi non vi torturate e non vi uccidete l'un l'altro. Voi vivete in pace. Vorrei sapere, vorrei proprio sapere cosa vi sembriamo. Streghe, forse, o diavoli.»
«No,» rispose lui, respingendo un'ondata di nausea.
«Quando starà meglio, quando sarà più in forze, signor Nunzio, c'è una cosa di cui vonei parlarle.» La sua voce era calma e dotata di un'autorità naturale che avrebbe potuto all'occorrenza diventare formale e temibile. Da sempre lui aveva incontrato persone che parlavano a quel modo.
«Posso ascoltare anche adesso,» disse, ma lei ripeté, «Non adesso. Un'altra volta. Ora è stanco. Vuole che canti per lei?»
«Sì,» rispose, e la vecchia, seduta col suo lavoro a maglia, intonò un canto muto e stonato, un sussurro. I nomi dei suoi dèi comparivano nel canto: Tual, Kamye. Non sono i miei dèi, pensò lui, ma chiuse gli occhi cullato dalla nenia rassicurante.
Si chiamava Yeron, e non era tanto anziana. Aveva quarantasette anni. Era passata attraverso trent'anni di guerra e numerose carestie. Aveva denti finti, cosa di cui Havzhiva non aveva mai sentito parlare, e portava occhiali con la montatura di metallo. La correzione dei difetti del corpo non era sconosciuta su Werel, ma a Yotebber la maggior parte della popolazione non poteva permettersela, almeno così disse la donna. Era molto magra, e i suoi capelli erano fini. Aveva un'andatura altera ma si muoveva con difficoltà a causa di una vecchia ferita al fianco sinistro. «Tutti, proprio tutti in questo mondo hanno un proiettile in corpo, o cicatrici deturpanti, o una gamba tranciata, o un morticino nel cuore. Adesso lei è uno di noi, signor Nunzio. Ha avuto il battesimo del fuoco.»
Si stava riprendendo bene. C'erano cinque o sei specialisti a trattare il suo caso. Il Capo della regione veniva a fargli visita solo di tanto in tanto, ma inviava ogni giorno qualche suo incaricato. Il Capo, scoprì Havzhiva, provava gratitudine nei suoi confronti. L'oltraggioso attacco a un rappresentante dell'Ekumene gli aveva fornito il pretesto e il forte consenso popolare per un attacco contro gli irriducibili isolazionisti del Partito Mondiale, capeggiato dal suo rivale, un altro signore della guerra, eroe della Liberazione. Il Capo inviava esaltanti bollettini delle sue vittorie al Vice-Nunzio nella sua stanza d'ospedale. Gli olonotiziari non mostravano che uomini in uniforme che correvano e sparavano, e apparecchi rombanti su alture deserte. Quando Havzhiva, un po' più in forze, cominciò a passeggiare per i corridoi, vide pazienti distesi nei letti dei vari reparti che, collegati alla rete neosensoriale, "vivevano le sensazioni" della battaglia nell'ottica, naturalmente, di quelli con le armi, di quelli con gli apparecchi da ripresa, di quelli, insomma, che sparavano.
Di notte gli schermi erano bui, la rete era spenta, e Yeron entrò per sederglisi accanto alla fioca luce della finestra.
«Mi avevi detto che volevi parlarmi di qualche cosa,» disse Havzhiva. La notte cittadina era agitata, risuonava di rumori, musica e voci giù nella strada sotto la finestra che la donna aveva aperto per lasciar entrare l'aria tiepida e carica di effluvi.
«È vero.» Yeron posò il lavoro a maglia. «Sono la sua infermiera, signor Nunzio, ma anche una messaggera. Quando ho saputo che era stato ferito, mi perdoni, ma mi sono detta: Siano lodati il nostro signore Kamye e la divina Signora del Soccorso! Perché prima non sapevo come portare il mio messaggio, e ora invece lo so.» La sua voce serena tacque per un momento. «Ho mandato avanti questo ospedale per quindici anni. Durante la guerra. Posso ancora manovrare qualcuno qua dentro.» Tacque di nuovo. Come la sua voce, i silenzi della donna gli erano familiari. «Le porto un messaggio per l'Ekumene,» riprese Yeron, «da parte delle donne. Delle donne di qui. Delle donne di tutto Yeowe. Vogliamo stipulare un'alleanza con lei… Lo so, l'ha già fatto il nostro governo. Yeowe è un membro dell'Ekumene dei Mondi. Lo sappiamo. Ma che cosa significa per noi? Non significa niente. Lo sa che cosa sono le donne qui, su questo pianeta? Sono niente. Non partecipano al governo. Le donne hanno fatto la Liberazione. Hanno lottato, e sono morte esattamente come gli uomini. Ma non sono mai state condottieri, e oggi non sono capi. Non sono nessuno. Nei villaggi sono meno di nessuno: animali da soma, capi da riproduzione. Qui va un po' meglio. Ma non troppo. Io ho frequentato la Scuola Medica di Besso. Sono un medico, non un'infermiera. Al tempo dei Boss ho diretto quest'ospedale. Adesso lo dirige un uomo. I nostri uomini ora sono i possidenti. E noi siamo quello che siamo sempre state: proprietà! Non penso che sia per questo che abbiamo combattuto una lunga guerra. Neanche lei, vero, signor Nunzio? Secondo me, dobbiamo attuare una nuova liberazione. Portare a termine un lavoro iniziato.»
Dopo un lungo silenzio, Havzhiva chiese sottovoce, «Siete organizzate?»
«Oh, sì, sì, proprio come ai vecchi tempi. Ci organizziamo in segreto!» Ridacchiò. «Ma non credo che possiamo ottenere la nostra libertà da sole. Ci dev'essere un cambiamento. Gli uomini pensano di dover essere loro i capi. Devono smettere di pensarlo. Vede, c'è una cosa che ho imparato nella mia vita: non si cambiano le teste con i fucili. Ammazzi il capo, e diventi capo tu. Bisogna cambiare questa mentalità, la vecchia mentalità dello schiavo, del padrone. Bisogna cambiarla, signor Nunzio. Con il suo aiuto. Con l'aiuto dell'Ekumene.»
«Sono qui per fare da tramite tra la tua gente e l'Ekumene. Ma ho bisogno di tempo,» disse. «Ho bisogno di imparare.»
«Tutto il tempo che vuole. Sappiamo di non poter cambiare la mentalità da capetto in un giorno o in un anno. Occorre educazione.» Pronunciò quella parola come se fosse sacra. «Ci vorrà molto tempo. Si prenda tutto il tempo che le occorre. Ci basta sapere che ci ascolterà.»
«Vi ascolterò.»
Lei emise un lungo sospiro, e riprese il lavoro a maglia. Poi aggiunse, «Non sarà facile ascoltarci».
Lui era stanco. L'intensità di quel discorso era più di quanto potesse reggere al momento. Non capiva cosa intendesse dire Yeron. Un silenzio educato è il modo in uso tra gli adulti per far capire che non si capisce. Non disse nulla.
Lei lo guardò. «Come faremo per arrivare fino a lei? Vede, è un problema. Come le ho detto, non siamo niente. Possiamo arrivare a lei come infermiere, come domestiche, come donne che le lavano i panni. Siamo separate dai capi. Non partecipiamo ai consigli. A tavola serviamo, non partecipiamo al banchetto.»
«Dimmi…» Esitò. «Dimmi come iniziare. Chiedi di vedermi, se puoi. Vieni come puoi se… se non c'è rischio.» Era sempre stato pronto nell'apprendere qualsiasi lezione. «Io ascolterò. Farò quel che sarà in mio potere.» Non avrebbe mai appreso la diffidenza.
Lei si chinò a sfiorarlo con un lieve bacio sulla bocca. Le sue labbra erano leggere, asciutte, morbide. «Ecco,» disse, «nessun capo le darà mai questo.»
Riprese il lavoro a maglia. Lui s'era quasi addormentato quando gli chiese, «Sua madre è viva, signor Havzhiva?»
«Tutta la mia gente è morta.»
Lei emise un lieve lamento. «Che cosa triste!» disse. «E non ha una moglie?»
«No.»
«Noi saremo per lei madri, sorelle, figlie. Saremo la sua gente. L'ho baciato in pegno dell'amore che sarà fra noi. Vedrà!»
«Ecco l'elenco degli invitati al ricevimento, signor Yehedarhed,» disse Doranden, l'addetto alle relazioni tra il Capo e il Vice-Nunzio.
Havzhiva esaminò attentamente la lista sullo schermo manuale, arrivò in fondo e disse, «E il resto?»
«Scusi, signor Nunzio, ci sono forse delle omissioni? Questo è l'elenco completo.»
«Ma sono tutti uomini!»
Nell'infinitesima frazione di secondo che precedette la risposta di Doranden, Havzhiva sentì oscillare l'ago della bilancia della sua vita.
«Desidera che gli ospiti portino con sé le loro mogli? Ma certo! Se questa è l'usanza dell'Ekumene, saremo ben lieti di invitare le signore!»
C'era una punta di disprezzo nella piega delle labbra quando gli uomini di Yeowe pronunciavano la parola "signore", parola che Havzhiva aveva pensato si riferisse solo alle donne della classe dominante su Werel. L'ago della bilancia precipitò. «Quali signore?» chiese accigliato. «Parlo di donne. Non fanno forse parte di questa società?»
Era molto teso nel parlare, perché si rendeva conto della sua totale ignoranza di ciò che lì poteva costituire un pericolo. Se una passeggiata per una strada tranquilla aveva quasi rischiato di essergli fatale, mettere in imbarazzo l'addetto alle relazioni col Capo poteva esserlo del tutto. Doranden, sicuramente imbarazzato, costernato, aprì la bocca e la richiuse subito.
«Sono desolato, signor Doranden, voglia scusare la mia scarsa attitudine all'umorismo. So benissimo che le donne occupano posti di responsabilità in ogni settore della vostra società. Intendevo semplicemente dire, con espressione stupidamente inappropriata, che sarei molto felice di invitare al ricevimento alcune di queste signore con i loro mariti, insieme alle mogli degli altri invitati. Sto forse facendo una terribile confusione riguardo alle vostre usanze? Non mi era parso che su Werel ci fosse segregazione sociale dei sessi. La prego, se ho sbagliato, di scusare ancora una volta la mia ignoranza di forestiero.»
L'eloquenza è metà della diplomazia, aveva già deciso Havzhiva, l'altra metà è il silenzio.
Doranden optò per quest'ultimo, e tra le sincere rassicurazioni si accomiatò. Havzhiva rimase sulle spine fino alla mattina seguente, quando Doranden apparve con un elenco aggiornato comprendente undici nomi nuovi, tutti di donne. C'erano una preside di scuola e un paio d'insegnanti, le rimanenti erano tutte designate come "in pensione".
«Ottimo, ottimo,» commentò Havzhiva. «Posso aggiungere un altro nome?»
«Certo, certo, chiunque Sua Eccellenza gradisca…»
«La dottoressa Yeron.»
Di nuovo quella frazione infinitesimale di secondo, il granello di sabbia gettato sul piatto della bilancia. A Doranden era già noto quel nome. «Sì,» disse.
«Vede, la dottoressa Yeron mi ha fatto da infermiera nel vostro eccellente ospedale. Abbiamo fatto amicizia. Un'infermiera qualsiasi sarebbe forse poco adatta in una compagnia così selezionata, ma ho visto che ci sono molti altri medici nella nostra lista.»
«Abbastanza,» ammise Doranden. Era stupefatto. Il Capo e i suoi collaboratori avevano preso l'abitudine di trattare con condiscendenza il Vice-Nunzio, seppur con la dovuta delicatezza e riguardo. Un convalescente, benché ormai ristabilito, una vittima, un uomo di pace, che ignorava l'attacco e perfino l'autodifesa, uno studioso, uno straniero, insomma, un uomo di mondo. Era all'incirca così che lo vedevano, e lui lo sapeva. Per quanto lo tenessero in considerazione come simbolo e come mezzo per il raggiungimento dei loro scopi, lo consideravano un uomo irrilevante. Lui era d'accordo sul dato di fatto, ma non sul grado della sua irrilevanza. Sapeva che quel che faceva poteva essere di qualche rilievo. Lo aveva appena constatato.
«Lei certamente comprende la necessità di avere una scorta, Nunzio!» gli disse il generale con una certa impazienza.
«È una città pericolosa, generale Denkam, sì, lo capisco. Pericolosa per chiunque. Vedo bande di giovani, come quelli che mi hanno aggredito, che spadroneggiano per le strade senza che la polizia possa fare più di tanto. Ogni bambino, ogni donna avrebbe bisogno di una guardia del corpo. Mi turba profondamente l'idea che quel che dovrebbe spettare di diritto a ciascun abitante debba essere un mio privilegio speciale.»
Il generale trasalì, ma non cedette le armi. «Non possiamo permettere che si faccia assassinare,» disse.
A Havzhiva non dispiaceva la brutale franchezza degli Yeowiani. «Non intendo affatto farmi assassinare,» rispose. «Avrei un suggerimento, generale. Ci sono delle donne-poliziotto, una divisione femminile del corpo di polizia cittadino, vero? Potreste scegliere tra di loro le mie guardie del corpo. In fin dei conti, una donna armata è altrettanto temibile di un uomo armato, no? E io sarei felice di rendere onore al grande contributo dato dalle donne alla conquista della libertà di Yeowe, come ha detto così elegantemente il Capo nel suo discorso di ieri.»
Il generale uscì con una faccia impietrita.
Havzhiva non amava particolarmente le sue guardie del corpo. Erano donne dure, rudi, scorbutiche, e parlavano un dialetto che capiva a malapena. Molte di loro avevano dei figli a casa, ma si rifiutavano di parlare della loro prole. Erano truci ed efficienti. Era ben protetto. Notò che, da quando andava in giro con queste guardie dallo sguardo di ghiaccio, la gente della città aveva cominciato a guardarlo con occhio diverso, divertito e amichevole. Sentì un vecchietto al mercato che diceva, «Quello lì è uno che se ne intende!»
Tutti chiamavano "Capo" il Capo, tranne che in sua presenza. «Signor Presidente,» disse Havzhiva, «non è affatto questione di principi dell'Ekumene o di tradizione hainese. Considerazioni del genere non hanno e non dovrebbero avere il minimo valore, la minima importanza qui su Yeowe. È il vostro mondo.»
Il Capo approvò energicamente.
«Nel quale,» continuò Havzhiva, che aveva sviluppato un'insuperabile facondia, «stanno cominciando ad arrivare emigranti da tutto Werel, e arriveranno sempre più numerosi dato che la classe dominante di Werel sta allentando la rigidità dei principi rivoluzionari permettendo a un numero sempre più ampio di membri delle classi inferiori di emigrare. Lei, signor Presidente, conosce meglio di me i vantaggi e i problemi che questo grande flusso di popolazione porterà qui a Yotebber. Per esempio, almeno metà degli immigranti saranno donne, e credo sarebbe utile riflettere sul fatto che esiste una considerevole discrepanza tra Werel e Yeowe in quel che viene definito il ruolo sociale dei due sessi, cioè le regole, le prospettive, il comportamento e le relazioni fra uomini e donne. Tra gli immigranti provenienti da Werel la maggior parte di quelli che contano, le autorità, saranno donne. Il Consiglio dell'Hame è formato per nove decimi da donne. I loro portavoce e gli incaricati delle trattative sono quasi tutti donne. Questa gente sta facendo il suo ingresso in una società governata e rappresentata esclusivamente da uomini. Temo che potranno verificarsi equivoci e conflitti, a meno che la situazione sia presa in esame in modo attento e tempestivo. Forse l'impiego di qualche donna in ruoli rappresentativi…»
«Fra gli schiavi del Vecchio Mondo i capi erano donne,» disse il Capo. «Fra la nostra gente sono gli uomini a fare i capi. Così stanno le cose. Gli schiavi del Vecchio Mondo saranno gli uomini liberi del Mondo Nuovo.»
«E le donne, signor Presidente?»
«Le donne di un uomo libero sono libere,» concluse il Capo.
«Bene, allora,» disse Yeron con uno dei suoi profondi sospiri, «credo che ci toccherà sollevare un po' di polvere»
«Da bravi polverosi,» aggiunse Dobibe.
«Allora sarà meglio sollevare un gran polverone,» disse Tualyan. «Perché, qualunque cosa facciamo, avranno un diavolo per capello. Urleranno e sbraiteranno di sterilizzare le stregacce lesbiche che ammazzano i bambini maschi. Se ci saranno cinque di noi a cantare una qualunque canzone, nelle reti neosensoriali diventerà una folla di cinquecento di noi armate di mitra e la fine della civiltà su Yeowe. Allora io dico: facciamolo! Scendiamo in cinquemila donne a cantare in corteo. Fermiamo i treni. Sdraiamoci sui binari. Cinquantamila donne sdraiate sui binari di tutta Yotebber! Che ve ne pare?»
L'incontro dell'Associazione per il Sussidio Didattico della Città e della Regione di Yotebber si svolgeva in un'aula di una delle scuole cittadine. Due delle guardie del corpo di Havzhiva, in borghese, aspettavano discretamente nell'ingresso. Quarantotto donne, insieme a Havzhiva, erano stipate su minuscole sedie collegate a schermi spenti.
«Quali richieste?» domandò Havzhiva.
«Il voto segreto!»
«Niente discriminazioni sul lavoro!»
«Essere pagate per il nostro lavoro!»
«Il voto segreto!»
«Assistenza per i bambini!»
«Il voto segreto!»
«Rispetto!»
Il taccuino automatico di Havzhiva si riempiva di segni all'impazzata. Le donne continuarono a urlare per un po', poi ripresero a discutere con calma. Una delle guardie del corpo si rivolse a Havzhiva mentre lo conduceva a casa, «Signore,» gli chiese, «erano tutte insegnanti?»
«Sì,» rispose lui, «in un certo senso.»
«Accidenti! Molto diverse da quelle di una volta!»
«Yehedarhed! Cosa diavolo ci faceva laggiù?»
«Prego, signora?»
«Era nei notiziari. Insieme a un milione di donne sdraiate sulle traversine delle rotaie, sulle piste di atterraggio, disposte a mo' di cordone sanitario intorno alla Residenza Presidenziale. Parlava con quelle donne e sorrideva!»
«Sarebbe stato difficile non farlo!»
«Quando il governo regionale comincerà a sparare, smetterà di sorridere?»
«Sì. È disposta ad appoggiarci?»
«Come?»
«Con parole di incoraggiamento alle donne di Yotebber da parte dell'Ambasciatore dell'Ekumene. Additando Yeowe come esempio di vera libertà per gli immigranti del Mondo Schiavo. Con parole di elogio per il governo di Yotebber. Additando Yotebber come esempio di moderazione e progresso per tutta Yeowe.»
«Certo. Spero che sia utile. È la rivoluzione, Havzhiva?»
«È educazione, signora.»
Il cancello era aperto in tutta la sua struttura massiccia, non c'erano pareti.
«Ai tempi della colonia,» disse l'Anziano, «questo cancello veniva aperto due volte al giorno: per far uscire la gente a lavorare la mattina, e per farla rientrare dal lavoro la sera. Tutto il resto del tempo era chiuso a chiave e sbarrato.» Mostrò la grande serratura rotta che pendeva dal lato esterno del cancello, le possenti sbarre arrugginite nei loro supporti. I suoi gesti erano solenni, misurati, come le parole, e di nuovo Havzhiva ammirò la dignità che quella gente aveva mantenuto nella degradazione, l'atteggiamento fiero rimasto inalterato durante, e contro, la loro schiavitù. Aveva cominciato ad apprezzare l'influenza del loro testo sacro, l'Arkamye, tramandato per tradizione orale. «Questo è tutto quel che avevamo. Questo era la nostra ricchezza,» gli aveva detto in città un vecchio, toccando il libro che stava imparando a leggere a sessantacinque o settant'anni.
Havzhiva stesso aveva cominciato a leggere il libro nella lingua originale. Lo leggeva lentamente, cercando di capire come questa narrazione di arduo coraggio e abnegazione avesse potuto formare ed educare per tre millenni le menti di un popolo in catene. Ritrovava spesso, nei suoi versetti, le voci che aveva udito durante il giorno.
Stava trascorrendo un mese di soggiorno nel villaggio tribale di Hayawa, che era stato il primo insediamento di schiavi della Corporazione delle Piantagioni Agricole di Yeowe e Yotebber, tre secoli e mezzo prima. In questa vasta regione remota della costa orientale, gran parte dell'assetto sociale e della cultura della schiavitù delle piantagioni era rimasta intatta. Yeron e altre donne del movimento di liberazione gli avevano suggerito che, se voleva capire chi fossero gli Yeowiani, doveva conoscere le piantagioni e le tribù.
Sapeva che gli insediamenti erano stati abitati, durante il primo secolo, da soli uomini, senza donne e senza bambini. Avevano sviluppato un'autorità interna, una gerarchia rigida basata sulla forza e sul favoritismo. Si conquistava il potere superando prove e cimenti, e lo si manteneva trovandosi un equilibrio tra autonomia e compromesso. Quando alla fine vennero introdotte le schiave, esse furono inserite in questo schema rigido come schiave degli schiavi. Sia dai compagni di schiavitù che dai padroni erano usate come serve e come sfoghi sessuali. Fedeltà sessuale e situazioni di coppia venivano riconosciute solo tra uomini: legami intrisi di passione, patteggiamenti, affermazione sociale e politica tribale. Durante il secolo seguente la presenza dei bambini negli insediamenti aveva ampliato e diversificato i costumi tribali, ma il sistema di predominio maschile, così conveniente per gli schiavi-padroni, non era essenzialmente mutato.
«Speriamo di avere la sua presenza all'iniziazione di domani,» disse l'Anziano col suo fare solenne, e Havzhiva gli assicurò che sarebbe stato più che felice di assistere a una cerimonia di tale importanza. L'Anziano espresse una contentezza sobria quanto visibile. Era un uomo di più di cinquant'anni, il che significava che era nato schiavo e che aveva vissuto l'adolescenza e la maturità negli anni della Liberazione. Havzhiva controllò se aveva cicatrici, memore delle parole di Yeron, e le vide. L'Anziano era magro, macilento, zoppo e privo dei denti superiori, l'intero corpo segnato dalla carestia e dalla guerra. Aveva anche cicatrici rituali: quattro strisce parallele in rilievo che partivano dal collo per arrivare al gomito disegnando sulla punta delle clavicole come delle specie di lunghe spalline, e un occhio blu scuro tatuato sulla fronte, simbolo per la sua tribù di comando conferito e irrevocabile. Un capo schiavo, un uomo in catene padrone di altri uomini in catene, finché le mura non erano state abbattute.
L'Anziano imboccò un sentiero fra il cancello e la casa comune, e Havzhiva nel seguirlo notò che nessun altro usava quel sentiero: uomini, donne e bambini corricchiavano tutti su una via più ampia e parallela, che deviava poi verso un diverso ingresso della casa comune. La via più corta era riservata al solo capo.
Quella notte, mentre i ragazzi che dovevano essere iniziati il giorno seguente digiunavano e vegliavano nei quartieri delle donne, tutti i capi e gli anziani si radunarono per un festino. C'erano strabocchevoli quantità del cibo indigeribile cui gli Yeowiani erano avvezzi, condito con spezie e riccamente guarnito, il riso di palude che era la base della loro cucina tutto impreziosito con colori ed erbe, con in cima la carne. Le donne andavano e venivano servendo portate sempre più elaborate e sempre più cariche di carne: carne di armenti, il cibo dei Boss, simbolo sicuro e tangibile di libertà.
Havzhiva non era cresciuto mangiando carne, ed era quasi certo che gli avrebbe fatto venire la diarrea, ma affrontò virilmente la lunga serie di stufati e grigliate, ben conscio del significato del cibo e del valore dell'abbondanza per chi non aveva conosciuto altro che la penuria.
Dopo che grandi ceste di frutta ebbero rimpiazzato i vassoi, le donne scomparvero e cominciò la musica. Il capo tribale fece cenno al suo "leos" (parola che significa favorito sessuale, fratello adottivo, non-figlio, non-erede). Il giovane, di sfrontata bellezza e animo gentile, sorrise, batté una volta le mani affusolate, poi cominciò a strofinare lievemente le palme grigio-bluastre in un ritmo appena cadenzato. Appena i convitati fecero silenzio cantò, ma in un sussurro.
Gli strumenti musicali erano stati proibiti in molte piantagioni, molti Boss non avevano permesso il canto, eccezion fatta per gli inni in onore di Tual nelle cerimonie celebrate ogni decimo giorno. Uno schiavo sorpreso a sprecare in canzoni il tempo della Corporazione rischiava una sorsata di acido giù per la gola. Se doveva lavorare, che bisogno c'era di produrre rumori inutili?
In queste piantagioni gli schiavi si erano inventati questa musica quasi silenziosa: il tocco e lo sfioramento di palma contro palma, una lunga melodia appena accennata, appena variata. Le parole del canto erano deliberatamente spezzate, distorte, divise in modo da suonare incomprensibili. "Shesh" l'avevano chiamata i possidenti, immondizia, e gli schiavi erano autorizzati a "sfregare le mani e cantare la loro immondizia", purché lo facessero così piano da non poter essere uditi al di là delle mura dei loro recinti. Avendo cantato così per trecento anni, continuavano adesso allo stesso modo.
Per Havzhiva era snervante, quasi minaccioso. Nuove voci entravano l'una dopo l'altra, sempre in un sussurro, accrescendo la complessità del ritmo finché l'accavallarsi delle note si distendeva in un unico ordito sommesso e sibilante attraversato da una trama melodica di note tetratonali prolungate, abbinate a sillabe che parevano sempre sul punto di unirsi in una parola compiuta, ma senza arrivarci mai. Soggiogato, quasi perduto in quel suono, Havzhiva continuava a pensare: Adesso qualcuno di loro alzerà il tono, adesso il leos esploderà in un grido di trionfo, dando libero sfogo alla sua voce! Ma non lo fece. Nessuno lo fece. La musica sommessa, simile allo scorrere dell'acqua nelle sue infinite, impercettibili variazioni, continuò all'infinito. Bottiglie di vino di Yote di colore arancio furono fatte passare lungo il tavolo. Tutti bevvero. A sazietà, finalmente. Si ubriacarono. Risate e grida cominciarono a interrompere la musica. Ma nessuno mai cantava al di sopra di un sussurro.
Rientrarono tutti nella casa attraverso il sentiero del capo, abbracciandosi, bisbigliando amichevolmente, e qua e là qualcuno sostava per vomitare. Un tipo gentile, dalla pelle scura, che a tavola era seduto vicino a Havzhiva, lo raggiunse nel suo letto nell'alcova della casa comune.
Poco prima, durante la serata, costui lo aveva informato che durante la notte e il giorno dell'iniziazione ogni rapporto eterosessuale era proibito, perché avrebbe alterato la struttura energetica. L'iniziazione sarebbe stata sfalsata, i ragazzi avrebbero rischiato di non diventare buoni membri della tribù. Solo una strega, è ovvio, avrebbe deliberatamente infranto il tabù, ma molte donne erano streghe, e avrebbero potuto cercare di sedurre un uomo con intento malevolo. Il rapporto normale, cioè quello omosessuale, avrebbe rafforzato le energie, fatto procedere regolarmente l'iniziazione, conferito ai ragazzi la forza per affrontare il cimento. Pertanto ogni uomo, all'uscita del banchetto, doveva avere un compagno per la notte. Havzhiva era contento di esser stato affidato a quel tale e non a uno dei capi, che l'avrebbe intimidito e che si sarebbe aspettato da lui una prestazione energica e adeguata. Stando così le cose, per lo meno da quanto riuscì a ricordare la mattina dopo, lui e il suo compagno erano stati troppo ubriachi per combinare un granché, ma si erano addormentati nel bel mezzo di mirate carezze.
Già sapeva che il troppo vino di Yote lasciava tremendi cerchi alla testa, e al suo risveglio il suo cranio confermò tale informazione.
A mezzogiorno il suo nuovo amico lo accompagnò al posto d'onore nella piazza che si stava riempiendo di uomini. Dietro di loro si ergevano le case comuni degli uomini, e di fronte stava il fossato che separava la zona delle donne, la più interna, da quella degli uomini, o del cancello. Era così chiamata nonostante che le mura dell'abitato non esistessero più e non restasse che il cancello, come un monumento, a torreggiare sopra le capanne e le case comuni e i bassi campi di grano che si stendevano in tutte le direzioni, lucenti nella calura senza vento e senz'ombra.
Dalle capanne delle donne uscirono sei ragazzi, correndo fino al fossato. Era più largo di quanto potesse saltare un tredicenne, secondo Havzhiva, ma due dei ragazzi ce la fecero. Gli altri quattro si lanciarono con audacia, spiccarono un balzo troppo corto, poi si inerpicarono fuori dal fosso. Uno di loro zoppicava, forse si era rotto una gamba o un piede nella caduta. Ma perfino i due che avevano eseguito il salto con successo avevano l'aria esausta e spaurita, e tutti e sei erano terrei per il digiuno e per la veglia. Gli anziani li circondarono e li disposero in fila sulla piazza, nudi e tremanti, di fronte alla platea di tutti gli uomini della tribù.
Non v'era alcuna femmina in vista, nella zona delle donne.
Ebbe inizio un esame, con i capi e gli anziani a sparare domande che richiedevano una risposta immediata, a volte da un solo ragazzo, a volte da tutti insieme, a seconda del gesto, specifico o generico, di chi interrogava. Si trattava di domande sui riti, sulle procedure, sulla morale. I ragazzi erano stati ben addestrati e fornivano le risposte con voce alta e sicura. Quello che si era azzoppato nel salto all'improvviso si mise a vomitare e svenne, afflosciandosi lentamente a terra in un mucchietto di stracci. Nessuno reagì, e altre domande continuarono a essergli rivolte, seguite da intervalli di penoso silenzio. Poco dopo il ragazzo si scosse, si alzò a sedere, rimase seduto per un po', rabbrividendo, poi fece uno sforzo e si alzò in piedi con gli altri. Le sue labbra cianotiche si mossero in risposta a tutte le domande, benché nessuna voce arrivasse all'uditorio.
Havzhiva seguì il rito solo in apparenza, mentre la sua mente vagava a ritroso, a un tempo e a un luogo lontani. Noi insegnamo quel che sappiamo, pensò, e tutta la nostra conoscenza è circoscritta.
Dopo l'interrogatorio venne l'imposizione del marchio: un unico taglio profondo dalla base del collo all'apice della spalla e giù per il lato esterno del braccio fino al gomito, eseguito con un punteruolo di legno duro e appuntito confitto a tranciare la pelle e la carne per lasciare, una volta rimarginato, la cicatrice in rilievo, segno di riconoscimento dell'adulto. Gli schiavi non dovevano aver avuto alcun utensile in metallo, rifletté Havzhiva, osservando con l'attenzione adeguata da parte di un forestiero e ospite. Dopo ogni braccio e ogni ragazzo, gli anziani concelebranti si fermavano per riaffilare il punteruolo strofinandolo su una grossa pietra piena di scanalature collocata sulla piazza. Le pallide labbra azzurrine dei ragazzi si aggricciavano scoprendo i denti candidi. I giovani spasimavano, prossimi al crollo. A uno di loro sfuggì un grido, ma si zittì subito premendosi la mano libera sulla bocca. Uno si morse il pollice finché non ne uscì tanto sangue quanto dal braccio lacerato. Terminata la marchiatura di un ragazzo, il Capo della Tribù lavava le ferite e le frizionava con unguento. Intontiti e barcollanti, i giovani erano di nuovo in fila, e adesso gli anziani si mostravano benevoli con loro, sorridenti, li chiamavano "uomini della tribù", "eroi". Havzhiva tirò un lungo sospiro di sollievo.
Ma poi venne condotto sulla piazza un gruppo di sei ragazze giovanissime, guidato attraverso il ponte sul fossato da donne anziane. Erano fanciulle, ornate di cavigliere e bracciali, senza null'altro addosso. Al loro apparire dal pubblico di uomini partì una grande ovazione. Havzhiva era sorpreso. Possibile che anche le donne potessero diventare membri della tribù? Questa almeno era una bella cosa, pensò.
Due delle ragazzine erano appena adolescenti, le altre ancora più pìccole: una di loro non doveva avere più di sei anni. Furono allineate di fronte ai ragazzi, con la schiena rivolta al pubblico. Dietro ciascuna di loro stava la donna velata che l'aveva guidata attraverso il ponte, dietro ciascun ragazzo stava uno degli anziani nudi. Mentre Havzhiva faceva da spettatore, incapace di staccare gli occhi e la mente da quel che vedeva, le fanciulle si sdraiarono supine sulla nuda terra grigiastra della piazza. Una di loro, più lenta nello sdraiarsi, fu spinta giù a forza dalla donna che le stava alle spalle. Gli anziani si fecero attorno ai ragazzi, poi ognuno si distese su una delle bambine, in un gran frastuono di incitamenti, grida di scherno e risate e un ritmato ah-ah-ah-ah! da parte degli spettatori. Le donne velate erano accoccolate accanto al capo di ciascuna ragazza. Una di loro tirò fuori un frustino, che posò a terra. Le nude natiche degli anziani si muovevano su e giù come in un coito, vero o simulato che fosse. Havzhiva non riusciva a distinguere. «È così che si fa! Guardate!» urlavano gli spettatori ai ragazzi fra battute, commenti e scoppi di risa. Gli anziani si rialzarono uno per uno, proteggendo ciascuno il proprio pene con singolare modestia.
Appena l'ultimo si fu alzato si fecero avanti i ragazzi. Ognuno si distese su una fanciulla e mosse le natiche in su e in giù, benché nessuno di loro, notò Havzhiva, avesse un'erezione. Gli uomini che lo attorniavano si afferrarono il pene e gridarono, «Ecco qua, prova il mio!», e continuarono così, fra incitamenti e cori, fino a che l'ultimo dei ragazzi si fu rimesso faticosamente in piedi. Le ragazze giacquero distese, a gambe aperte, come piccole lucertole morte. Iniziò un moto lento e minaccioso verso di loro da parte della folla degli uomini. Ma le anziane stavano già rimettendo in piedi le giovani, sorreggendole, sospingendole in fretta attraverso il ponte, seguite da un'ondata di acclamazioni e di scherno da parte del pubblico.
«Sono sotto effetto di una droga, sai,» spiegò l'uomo bruno e gentile che aveva condiviso il letto con Havzhiva, scrutandolo in volto. «Le ragazze. Non provano alcun dolore.»
«Sì, vedo,» disse Havzhiva, immobile al suo posto d'onore.
«Queste qui sono fortunate, privilegiate, a prender parte all'iniziazione. Sai, è importante che le ragazze perdano la verginità prima possibile. Devono essere possedute da più di un uomo. In modo da non avanzare pretese del tipo: "questo è tuo figlio", "questo bambino è figlio del Capo". È solo roba da streghe. Un figlio è una scelta. Essere un figlio non ha niente a che vedere con il sesso di una schiava. Le schiave dovevano impararlo molto presto. Ma adesso alle ragazze somministriamo una droga. Non è più come ai vecchi tempi, sotto il dominio delle Corporazioni.»
«Capisco,» disse Havzhiva. Guardò in viso il suo amico, pensando che la pelle scura indicava che nelle sue vene doveva scorrere molto sangue di razza padrona, che forse era proprio figlio di un possidente o di un Boss. Figlio di nessuno, uscito da un utero di schiava. Un figlio è una scelta. Ogni sapere è locale. Ogni sapere è parziale. A Stse, come nelle scuole dell'Ekumene, come negli agglomerati di Yeowe.
«Tu chiami ancora schiave le donne,» precisò. Il suo tatto, la sua sensibilità erano come congelati, e parlava per pura e semplice curiosità intellettuale.
«No,» replicò l'uomo bruno, «no, mi dispiace, è il linguaggio che ho imparato da bambino… chiedo scusa…»
«Non devi chiederla a me.»
Di nuovo Havzhiva aveva espresso in modo conciso e distaccato quello che aveva in mente. L'uomo fece una smorfia e rimase in silenzio, a testa bassa.
«Per favore, amico, riportami nella mia stanza,» disse Havzhiva, e l'uomo bruno gliene fu grato.
Parlava sottovoce nel suo taccuino automatico in hainese, al buio. «Non si può cambiare niente dall'esterno. Stando al di fuori, guardando dall'alto, con un colpo d'occhio generale puoi scorgere le linee del disegno. Vedi cosa è sbagliato, cosa manca. Vorresti aggiustarlo. Ma non puoi annodare i fili. Devi esserci dentro, tesserli. Tu stesso devi esser parte del tessuto.» Quest'ultima frase era nel dialetto di Stse.
Quattro donne stavano accucciate su uno spiazzo nella zona delle donne, che aveva attirato la sua curiosità per la levigatezza incalpestata: una specie di spazio sacro, aveva pensato. Si diresse verso di loro. Erano accucciate in modo sgraziato, stavano piegate in avanti, con l'indifferenza verso il proprio aspetto e l'incuranza dello sguardo degli uomini che aveva già notato nel settore delle donne. Le teste erano rasate, la pelle gessosa e pallida. Popolo della polvere, "polverosi", secondo il vecchio epiteto, ma a Havzhiva il loro colore ricordava più che altro la creta o la cenere. La sfumatura azzurrina delle palme e delle piante dei piedi e di tutti i punti in cui la pelle era più fine era quasi nascosta dalla terra che stavano manipolando. Parlavano in fretta e sottovoce, ma tacquero al suo approssimarsi. Due di loro erano vecchie, sfiorite, con ginocchia e piedi ossuti e grinzosi. Due erano giovani. Tutte quante gli lanciarono occhiate oblique di tanto in tanto, dopo che si fu acquattato vicino al bordo dello spiazzo levigato.
Su di esso vide che avevano sparso della polvere, delle terre colorate che formavano una specie di disegno, di immagine. Seguendo i contorni tra i colori, distinse una figura chiara e allungata, tipo una mano, o un ramo, e una larga curva di terra rossa.
Dopo averle salutate, non disse nient'altro, se ne stette semplicemente lì chinato. Nel frattempo le donne erano tornate alla loro occupazione, sussurrandosi qualcosa tra di loro di tanto in tanto.
Quando smisero di lavorare chiese, «È sacro?»
Le anziane lo guardarono, aggrottarono la fronte e tacquero.
«Non lo puoi vedere,» disse la più scura delle due giovani con un subitaneo sorriso canzonatorio che colse Havzhiva di sorpresa.
«Intendi dire che non dovrei essere qui?»
«No, puoi stare qui, ma non lo puoi vedere.»
Lui si alzò per osservare dall'alto la pittura di terra che avevano formato con polvere grigia, bruna, rossa e ruggine. Le linee e le forme avevano una proporzione definita, schematica ma inafferrabile.
«Non è tutto qui,» disse lui.
«È soltanto una parte, una piccola parte,» rispose la donna scherzosa, gli occhi scuri scintillanti di ironia nel viso scuro.
«Non è mai tutto insieme?»
«No,» disse lei. «No,» dissero le altre, e tutte sorrisero, anche le vecchie.
«Mi potete dire cosa rappresenta il quadro?»
Lei non conosceva la parola "quadro". Scambiò occhiate con le altre, rifletté, poi lo guardò furbescamente.
«Facciamo quello che sappiamo, qui,» disse, con lieve cenno verso il disegno dai toni tenui. La tiepida brezza della sera stava già dissolvendo i contorni dei colori.
«Loro non lo sanno,» disse l'altra giovane dalla pelle di cenere, in un bisbiglio.
«Gli uomini? Non l'hanno mai visto per intero?»
«No. Nessuno. Solo noi. Lo abbiamo qui.» La donna bruna si toccò non la testa ma il cuore, coprendo i seni con le lunghe mani indurite dal lavoro. Sorrise di nuovo.
Le anziane si alzarono, borbottarono qualcosa fra loro, una si rivolse alle giovani con una frase che Havzhiva non capì, poi se ne andarono con passo pesante.
«Non approvano che tu parli di quest'opera con un uomo,» disse Havzhiva.
«Un uomo di città,» precisò la donna scura, e rise. «Pensano che vogliamo fuggire.»
«Vorresti fuggire?»
Lei si strinse nelle spalle. «E dove?» disse.
Si alzò in piedi con mossa aggraziata per osservare il disegno di terra, un astratto schema di linee e colori, curve e superfici dall'apparenza casuale.
«Tu riesci a scorgerlo?» chiese a Havzhiva, con quel suo lampo negli occhi, ironico, liquido.
«Forse un giorno potrei imparare a farlo,» disse lui, incrociando il suo sguardo.
«Dovresti trovare una donna che t'insegni,» disse la donna color della cenere.
«Siamo un popolo libero, ora,» affermò il Giovane Capo, il Figlio ed Erede, l'Eletto.
«Devo ancora conoscere un popolo libero,» osservò Havzhiva, cortese e ambiguo.
«La nostra libertà l'abbiamo conquistata. Abbiamo fatto di noi stessi degli uomini liberi. Con coraggio, con sacrificio, con tenace attaccamento a questo sommo valore. Siamo un popolo libero.» L'Eletto era un uomo sui quarant'anni dai lineamenti marcati, bello, intelligente. Sei cicatrici gli correvano rilevate lungo le braccia, quasi un ruvido mantello, e un occhio blu spalancato guatava immobile tra i suoi occhi.
«Siete uomini liberi,» disse Havzhiva.
Ci fu un momento di silenzio.
«Gli uomini di città non capiscono le nostre donne,» disse l'Eletto. «Le nostre donne non vogliono la libertà come gli uomini. Non fa per loro. Una donna è attaccata al suo bambino. Questo è per lei il valore supremo. È così che il nostro signore Kamye ha creato la donna, e Tual la Misericordiosa ne è l'esempio. In altri luoghi può essere diverso. Può esserci un altro tipo di donna, che non si cura dei propri figli. Può essere. Qui è come ti ho detto.»
Havzhiva accennò di sì, con un solo cenno profondo del capo, come aveva appreso dagli Yeowiani, quasi un inchino. «Così è,» disse.
L'Eletto fece un'aria soddisfatta.
«Ho visto un'immagine,» continuò Havzhiva.
L'Eletto rimase impassibile, forse non conosceva quella parola. «Linee e colori formati con terra sulla terra possono contenere una porzione di sapere. Ogni sapere è particolare, ogni verità è parziale,» disse Havzhiva imitando di proposito la semplice gravità del linguaggio quotidiano con cui sua madre, l'Erede del Sole, si rivolgeva ai mercanti stranieri. «Nessuna verità può rendere non vera un'altra verità. Ogni conoscenza è parte della conoscenza totale. Un'autentica linea, un colore autentico. Una volta che hai visto lo schema più ampio, non puoi tornare a vedere la parte come il tutto.»
L'Eletto rimase immobile come un macigno di pietra grigia. Dopo un po' disse, «Se noi vivessimo come si vive nelle città, tutto quel che sappiamo andrebbe perduto». Sotto il tono dogmatico s'intuivano paura e dolore.
«O Eletto!» disse Havzhiva. «Tu dici il vero. Molto andrebbe perduto. Lo so. La conoscenza minore dev'essere appresa per poter arrivare a quella superiore. E non una sola volta.»
«Gli uomini di questa tribù non rinnegheranno la nostra verità,» disse l'Eletto. Il suo occhio centrale cieco e immobile era fisso sul sole, avvolto in una bruma giallastra al di sopra dei campi sconfinati, mentre gli occhi scuri erano rivolti in basso, verso la terra.
Il suo ospite distolse lo sguardo da quel viso straniero verso il piccolo sole, ardente e biancastro, che gettava gli ultimi bagliori su quella terra straniera. «Ne sono convinto,» disse.
All'età di cinquantacinque anni, il Conestabile Yehederhed Havzhiva tornò in visita a Yotebber. Non ci era più passato da molto tempo. Il suo incarico di Consulente Ecumenico presso il Ministero per la Giustizia Sociale di Yeowa lo aveva trattenuto su al Nord, con frequenti viaggi sull'altro emisfero. Aveva vissuto per anni nella Vecchia Capitale insieme alla sua compagna, ma spesso si recava in visita alla Nuova Capitale su richiesta di un nuovo ambasciatore che voleva trarre profitto dalla sua esperienza. La sua compagna (vivevano insieme da diciotto anni, ma non esisteva matrimonio su Yeowa) stava cercando di terminare la stesura di un libro, e gli fece capire che avrebbe desiderato l'appartamento tutto per sé per un paio di settimane per poter scrivere. «Perché non fai quel viaggio a Sud che vagheggi da tanto?» gli disse. «Io verrò laggiù appena avrò finito. Non dirò a nessuno di questi maledetti politicanti dove ti trovi. Dài, su, scappa! Vai, vai!»
Andò. Non gli era mai piaciuto volare, per quanto fosse stato costretto a farlo spessissimo, così intraprese il lungo viaggio in treno. Erano treni funzionali e veloci, terribilmente affollati, con gente che sciamava e si precipitava su a ogni stazione, offrendo compensi ai conducenti, ma senza cercare di salire sul tetto delle carrozze, non quando si viaggia a centotrenta chilometri orari. Aveva il suo scompartimento privato in una carrozza diretta a Città di Yotebber. Passò le lunghe ore in silenzio, guardando scorrere il paesaggio, i progetti di bonifica, le vecchie terre incolte, le foreste recenti, le città gremite, chilometri e chilometri di catapecchie e capanne, casette di legno, case e palazzi di appartamenti, sparsi agglomerati urbani nello stile di Werel con le case a schiera, giardini sul retro e capanni da lavoro, fabbriche, imponenti nuovi impianti, poi all'improvviso di nuovo la campagna, canali e bacini di irrigazione che riflettevano i colori del cielo della sera, un ragazzo a gambe nude che attraversava con un grosso bue bianco un campo di grano all'imbrunire. Le notti erano brevi, nell'oscura dolcezza cullante del sonno.
Il terzo pomeriggio scese dal treno alla stazione di Città di Yotebber. Niente folla. Niente capi. Niente guardie del corpo. Percorse le calde strade familiari, di là dal mercato, attraverso il parco. Una piccola bravata, quella. I malintenzionati, isolati e in bande, erano ancora in circolazione. Tenne gli occhi bene aperti, e i piedi sui percorsi più battuti. Arrivò dinanzi l'antico tempio tualita. Aveva raccolto un fiore bianco che era caduto da un cespuglio nel parco. Lo collocò ai piedi della Madre. Lei gli sorrise, guardandosi con occhi strabici il naso mancante. Proseguì verso il grande complesso, nuovo e tentacolare, dove viveva Yeron.
Aveva settantaquattro anni ed era andata da poco in pensione dall'ospedale in cui aveva insegnato, esercitato e curato l'amministrazione durante gli ultimi quindici anni. Non era cambiata molto dalla donna che aveva visto per la prima volta seduta al suo capezzale, sembrava solo rimpicciolita in tutta la persona. Non le erano rimasti molti capelli, e portava un fazzoletto dai colori vivaci annodato intorno alla testa. Si abbracciarono forte e si baciarono, e lei lo accarezzò e lo vezzeggiò senza poter fare a meno di sorridere. Non avevano mai fatto l'amore, ma c'era sempre stato tra loro un desiderio, un'attrazione reciproca, un senso di grande benessere nel toccarsi. «Guarda, guarda quanto grigio!» esclamò lei, carezzandogli i capelli. «Come ti dona! Entra a bere un bicchiere di vino con me! Come sta la tua araha? Quando arriverà? Hai attraversato la città con quella borsa? Sempre il solito pazzo!»
Le consegnò il regalo che le aveva portato, un trattato sulle Patologie tipiche di Werel-Yeowe a cura di un gruppo di ricercatori medici dell'Ekumene, e lei lo accettò con grande interesse. Per un certo tempo mandò avanti la conversazione soltanto fra un'occhiata e l'altra all'indice e al capitolo sul berlot, poi versò il pallido vino color arancio. Bevvero un secondo bicchiere. «Hai un bell'aspetto, Havzhiva,» disse lei, posando il libro e guardandolo con fermezza. I suoi occhi si erano appannati in un'opaca ombra bluastra. «Il ruolo di santo ti si addice.»
«Non esagerare, Yeron»
«Di eroe, allora. Non puoi negare di essere un eroe.»
«No,» disse lui ridendo, «sapendo cosa significa essere un eroe, non lo negherò.»
«A che punto saremmo senza di te?»
«Al punto in cui siamo ora…» sospirò. «A volte penso che stiamo perdendo quel poco che abbiamo conquistato. Questo Tualbeda della provincia di Detake, non sottovalutarlo, Yeron. I suoi discorsi grondano di misoginia e di pregiudizi contro gli immigrati, e la gente ci si abbevera…»
Lei fece un gesto, come per scacciare quel demagogo. «Non ci sarà mai fine,» disse. «Ma io ho sempre saputo cosa saresti stato per noi. Fin dal primo momento, fin da quando ho udito il tuo nome, addirittura. Lo sapevo.»
«Non mi hai lasciato molta scelta, sai.»
«Hai compiuto tu la scelta, amico.»
«Sì,» disse lui, sorseggiando il vino. «L'ho compiuta io.» Dopo un po' aggiunse, «Non sono stati in molti ad avere in sorte le scelte che ho avuto io. Come vivere, quale lavoro svolgere. A volte penso di essere stato capace di scegliere solo perché sono cresciuto dove tutte le scelte erano già state fatte per me».
«Così ti sei ribellato, e ti sei aperto la strada,» disse lei, annuendo.
Lui sorrise. «Non sono un ribelle.»
«Mah!» obiettò lei. «Non sei un ribelle? Tu, sempre in mezzo alla mischia, nel cuore stesso del nostro movimento per tutto il suo cammino?»
«Oh, sì, ma senza spirito di ribellione. Quello doveva essere il vostro spirito. Il mio compito era essere disponibile. Mantenere uno spirito di accettazione. È quanto ho imparato crescendo. Ad accettare. Non a cambiare il mondo, ma a cambiare la nostra anima, in modo che possa stare al mondo, che possa trovare il suo giusto posto nel mondo.»
Lei lo ascoltava, ma non sembrava convinta. «Stai esprimendo il modo di sentire di una donna,» disse, «gli uomini in genere vogliono cambiare le cose a loro piacimento.»
«Non gli uomini della mia gente,» ribatté lui.
Yeron versò a entrambi un terzo bicchiere di vino. «Parlami della tua gente. Ho sempre avuto timore a chiedertelo. Gli Hainesi sono così antichi, e così sapienti! Conoscono tanta storia, tanti mondi! E noi qui coi nostri trecento anni di miseria, delitti e ignoranza… Non hai idea di come tu ci faccia sentire piccoli piccoli.»
«Invece capisco,» disse Havzhiva. Dopo un po' aggiunse, «Sono nato in un posto chiamato Stse».
Le raccontò del villaggio, del clan dell'Altro Cielo, di suo padre che era suo zio, di sua madre l'Erede del Sole, dei riti, delle feste, degli dèi quotidiani, degli dèi inconsueti. Le parlò del passaggio di stato, le parlò della visita della storica, e di come lui aveva cambiato stato di nuovo, andando a Kathhad.
«Tutte quelle regole!» esclamò Yeron. «Cose complicate e inutili. Come nelle nostre tribù. Non c'è da meravigliarsi che tu sia fuggito.»
«Io sono semplicemente andato a imparare a Kathhad quello che non avrei potuto imparare a Stse,» disse Havzhiva sorridendo, «cioè che cosa sono le regole. Sono espressioni del bisogno che abbiamo gli uni degli altri. Ecologia umana. Cos'altro abbiamo fatto qui, in tutti questi anni, se non cercare di trovare un buon insieme di regole, un sistema che avesse senso?» Si alzò in piedi, stirò le braccia e riprese, «Sono ubriaco. Vieni a fare una passeggiata con me».
Uscirono nei soleggiati giardini del quartiere e passeggiarono lentamente lungo i sentieri fra gli orti e le aiuole fiorite. Yeron salutava con un cenno le varie persone intente a strappare le erbacce e a zappare, che alzavano gli occhi e la chiamavano per nome. Dava il braccio a Havzhiva, con decisione e orgoglio. Lui adeguava i suoi passi a quelli della donna.
«Quando devi stare seduto e quieto, desideri volare,» le disse, guardando la mano pallida, nodosa e delicata dell'amica posata sul suo braccio. «Quando devi volare, vorresti star seduto e quieto. Ho imparato a restar seduto e quieto, e ho imparato a volare con gli storici. Ma non avevo ancora trovato il mio equilibrio.»
«Poi sei venuto qui,» disse lei.
«Poi sono venuto qui.»
«E hai imparato?»
«A camminare,» rispose lui, «a camminare con il mio popolo.»