Immagino che Dio avrebbe potuto fare un animale più stupido della pecora, ma è fuor di dubbio che non l’abbia fatto…
JITTERBUG (1938 – 45)
Ballo di moda nella Seconda guerra mondiale, con passi stravaganti e movimenti atletici. Ballando su ritmi swing da grande orchestra, i ballerini di jitterbug si lanciavano la partner dietro la schiena, tra le gambe e in aria. I soldati diffusero il jitterbug oltremare, nei paesi dov’erano di stanza. Sostituito poi dal cha-cha-cha.
Le catastrofi a volte possono portare a conquiste scientifiche. Una coltura contaminata e un mezzo annegamento portarono alla scoperta della penicillina, alcune lastre fotografiche rovinate portarono alla scoperta dei raggi X. Prendiamo Mendeleev. Tutta la sua vita fu una serie di catastrofi: visse in Siberia, suo padre restò cieco, la vetreria di sua madre, aperta per tirare avanti dopo la morte del padre, fu distrutta da un incendio. Ma fu proprio quell’incendio a spingere la madre a trasferirsi a San Pietroburgo, dove Mendeleev poté studiare con Bunsen e, alla fine, ideare la tavola periodica degli elementi.
Oppure prendiamo James Christy. Dovette affrontare una catastrofe di minore importanza: una macchina Star Scan rotta. Aveva appena preso una fotografia di Plutone e si preparava a buttarla via perché sul bordo del pianeta c’era una sporgenza chiaramente dovuta a un difetto della lastra, quando la Star Scan (fabbricata ovviamente dalla stessa ditta che faceva le fotocopiatrici della HiTek) si guastò.
Invece di gettare via la lastra fotografica, Christy chiamò il tecnico per la riparazione, e costui gli chiese di trattenersi perché forse avrebbe avuto bisogno di aiuto. Christy rimase lì per un poco, poi esaminò meglio la sporgenza che compariva sulla lastra e decise di controllare alcune fotografie precedenti. La prima che trovò aveva la scritta: “Immagine di Plutone. Allungata. Lastra difettosa. Scartare”. Christy la confrontò con quella appena fatta. Le lastre parevano uguali e Christy capì di avere sotto gli occhi non una fotografia difettosa, ma una luna di Plutone.
Di norma, però, le catastrofi sono semplici catastrofi. Come questa.
Grancapo ha a cuore solo una cosa: la modulistica. La Direzione perdonerà quasi tutto — sforamento dei budget, grossolana incompetenza, reati — purché i moduli siano compilati correttamente. E consegnati in tempo.
— Ha dato a Flip il modulo assegnazione finanziamento? — chiesi, stupita, e me ne pentii all’istante.
Bennett divenne ancora più pallido. — Lo so. Stupido, eh?
— Le sue scimmie!
— Le mie ex scimmie. Non insegnerò mai l’hula-hoop ai macachi. — Si avvicinò alla pila di fogli che avevo appena esaminato e cominciò a cercare.
— Lì, ho già guardato io. Non c’è. Ha detto a Grancapo che Flip l’ha smarrito?
— Sì. — Prese i fogli impilati sopra la copiatrice. — Grancapo dice che Flip dice di avere consegnato tutti i moduli avuti dal personale.
— E le hanno creduto? — Be’, certo che le avevano creduto. Le avevano creduto anche quando aveva detto di avere bisogno di un’assistente. — Non manca il modulo di nessun altro?
— No — disse Bennett, torvo. — Altri tre sono stati tanto stupidi da dare a lei il modulo per la consegna, ma Flip ha perduto solo il mio.
— Forse…
— Già chiesto. Non posso rifarlo e consegnarlo in ritardo. — Posò la pila di fogli, la riprese, ricominciò a frugare.
— Senta — dissi, togliendogli i fogli di mano — procediamo con ordine. Lei esamini queste pile. — Le spostai accanto a quella che avevo già esaminato. — Quelle già controllate, da questa parte della stanza. Quelle da controllare, da quest’altra parte. D’accordo?
— D’accordo — disse Bennett, e mi parve che gli tornasse un po’ di colore. Prese i primi fogli di una pila.
Iniziai a controllare il bidone per il riciclaggio della carta, nel quale qualcuno (molto probabilmente Flip) aveva buttato una lattina di Coca-Cola mezza piena. Presi una manciata di fogli appiccicosi, mi sedetti per terra e cominciai a separarli. Il modulo non era nella prima manciata. Mi chinai sul bidone e presi una seconda manciata, augurandomi che la Coca-Cola non fosse gocciolata fin sul fondo. Come non detto.
— Non sono così sprovveduto da affidarlo a Flip — disse Bennett, passando a controllare un’altra pila — ma stavo rivedendo i dati sulla teoria del caos e Flip ha detto che toccava a lei portare i moduli in direzione.
— Lo troveremo — dissi, staccando dal mucchio una pagina incollata con la Coca-Cola. A metà mucchio, lanciai uno strillo.
— L’ha trovato? — chiese Bennett, speranzoso.
— No, mi spiace. — Gli mostrai le pagine appiccicose. — Sono le mie note sulla permanente Marcel, quelle che cercavo. Le avevo date a Flip da fotocopiare.
Il suo viso, con lentiggini e tutto, sbiancò completamente. — Flip ha buttato via il mio modulo.
— No, non l’ha buttato — lo consolai, cercando di non pensare a tutti i ritagli accartocciati nel mio cestino della carta straccia, il giorno in cui avevo conosciuto Bennett. — Vedrà che è qui da qualche parte.
Non c’era. Esaminammo tutte le pile e le esaminammo di nuovo, anche se era chiaro che il modulo non c’era.
— Flip non potrebbe averlo lasciato nel laboratorio? — ipotizzai, quando arrivai al fondo dell’ultima pila. — Forse è uscita senza prenderlo.
Bennett scosse la testa. — Ho già guardato dappertutto. Due volte. — Frugò nel cestino della carta straccia. — E se fosse nel suo laboratorio? Aveva consegnato a lei quel pacchetto. Forse…
Seppure a malincuore, fui costretta a deluderlo. — L’ho appena passato al setaccio. Cercavo questi. — Gli mostrai gli appunti sulla permanente Marcel. — Ma potrebbe essere nel laboratorio di qualcun altro. — Mi alzai, di scatto. — E Flip? Le ha chiesto che cosa ne ha fatto? Ma cosa mi viene in mente? Stiamo parlando di Flip!
Bennett annuì. — Mi ha risposto: “Quale modulo?”.
— Già. Ci serve un piano d’attacco. Lei si prende la sala mensa e io il salottino del personale.
— La sala mensa?
— Sì. Conosce Flip. Probabilmente l’ha consegnato nel posto sbagliato. Come quel pacchetto, il giorno che ci siamo conosciuti. — Provai la sensazione che in quel fatto ci fosse un indizio, una cosa importante, che non riguardava il modulo, ma qualcosa d’altro. Ciò che aveva innescato il taglio alla maschietta? No, non quello. Cercai di non farmi scappare quella sensazione.
— Cosa c’è? Pensa di sapere dov’è finito?
Svanita. — No, mi spiace. M’era solo venuta in mente un’altra cosa. Ci vediamo accanto al bidone del riciclaggio, giù a Chimica. Non si preoccupi, lo ritroveremo. — Usai un tono allegro, ma non avevo molte speranze di ritrovare il modulo. Conoscendola, Flip poteva averlo lasciato da qualsiasi parte. La HiTek era vasta. Poteva essere in qualsiasi laboratorio. O giù all’Economato, da Desiderata, la santa patrona degli oggetti smarriti. O fuori nel parcheggio. — Ci vediamo al bidone del riciclaggio.
Mi diressi al salottino del personale, poi mi venne un’idea migliore. Andai a cercare Shirl. La trovai nel laboratorio di Alicia, impegnata a inserire nel computer dati relativi al Niebnitz Grant.
— Flip ha smarrito il modulo di finanziamento del dottor O’Reilly — dissi senza preamboli.
Avevo una mezza speranza che dicesse: “So io dov’è” ma restai delusa. Shirl esclamò: — Oddio! — e parve sinceramente sconvolta. — Se lui se ne va, la… — S’interruppe. — Cosa posso fare per aiutarlo?
— Cerchi qui. Bennett ci viene spesso. E in qualsiasi altro posto dove Flip avrebbe potuto metterlo.
— Ma il termine ultimo è scaduto, no?
— Sì — ammisi, irritata perché Shirl metteva in evidenza il pensiero che avevo cercato di ignorare: in Direzione, pignoli com’erano sui termini di scadenza, si sarebbero rifiutati di accettarlo, anche se fosse stato appiccicoso di Coca-Cola e chiaramente finito nel posto sbagliato. — Vado nel salottino del personale — dissi, e andai a controllare le caselle postali.
Il modulo non era nelle caselle, non era nella pila di vecchi memo sul tavolo, non era nel microonde. Non era nemmeno nel laboratorio di Alicia.
Shirl sporse la testa nel salottino. — Ho controllato il laboratorio da cima a fondo — disse. — Che giorno era, quando il dottor O’Reilly l’ha dato a Flip?
— Non so. Ma bisognava consegnarlo lunedì.
Shirl scosse la testa, con aria grave. — Proprio come temevo. Il camion della spazzatura passa il martedì e il giovedì.
Mi dispiaceva averla coinvolta in quella storia. Scesi al bidone riciclaggio. Bennett, gambe penzoloni a mezz’aria, ci era quasi dentro. Riemerse tenendo in mano una manciata di fogli e un torsolo di mela.
Presi metà dei fogli e li esaminammo. Niente modulo.
— E va bene — dissi, cercando di mostrare ottimismo. — Se non è qui, sarà in uno dei laboratori. Da dove cominciamo? Chimica o Fisica?
— Inutile — disse stancamente Bennett. Si appoggiò al bidone. — Non è qui, e neanche io sarò qui ancora per molto.
— Non c’è modo di continuare il progetto anche senza finanziamento? Ha già l’habitat, il computer, le telecamere e tutto il resto. Non può usare topolini o altro?
Scosse la testa. — I topolini sono troppo indipendenti. A me servono animali con forte istinto gregario.
E il Pifferaio magico?, pensai.
— E poi, anche i topolini da laboratorio costano soldi — continuò Bennett.
— E l’ente per gli animali randagi? — suggerii. — Lì probabilmente hanno gatti. No, non gatti. Cani. I cani hanno l’istinto del branco, e il canile municipale è sempre pieno.
Mostrò un’espressione disgustata quasi come quella tipica di Flip. — Credevo che fosse un’esperta di mode. Non ha mai sentito parlare dei diritti degli animali?
— Ma lei non li maltratterà di certo. Si limiterà a osservarli. — Però aveva ragione, pensai. Mi ero dimenticata del movimento per i diritti degli animali. Non gli avrebbero mai permesso di usare ospiti del canile municipale. — E gli altri progetti di Biologia? Potrebbe farsi prestare alcuni loro animali.
— Il dottor Kelly sta lavorando sui nematodi e il dottor Riez sui platelminti.
E la dottoressa Turnbull sul modo per vincere il Niebnitz, pensai.
— Inoltre — proseguì Bennett — anche se avessi gli animali, non potrei nutrirli. Non ho consegnato in tempo il modulo di finanziamento, ricorda? Ma non importa — soggiunse, vedendo la mia espressione sconsolata. — Così avrò la possibilità di tornare alla teoria del caos.
Per la quale non c’era finanziamento, pensai, anche consegnando in tempo il modulo.
— Bene — disse Bennett, rialzandosi. — Sarà meglio che cominci a mettere giù il curriculum vitae.
Mi guardò in faccia, serio. — Grazie ancora per l’aiuto. Sinceramente. — Si avviò per il corridoio.
— Aspetti a darsi per vinto — dissi. — Mi verrà in mente qualcosa. — Bella frase, detta da chi non riusciva a capire nemmeno che cosa aveva provocato la moda degli angeli, altro che il taglio alla maschietta.
Bennett scosse la testa. — Qui ci troviamo a combattere contro Flip. Un’impresa più grande di noi.
CATENA DI SANT’ANTONIO (PRIMAVERA 1935)
Moda per fare soldi, che comportava l’invio di dieci centesimi al primo nome di un elenco, l’aggiunta del proprio nome in fondo allo stesso elenco e l’invio di cinque copie ad amici (auspicabilmente) tanto fessi quanto lo eravate stati voi. Causata dall’avidità e da una mancanza di comprensione della statistica, la moda fiorì a Denver e inondò con centomila lettere al giorno l’ufficio postale. Durò tre settimane a Denver, poi si trasferì a Springfield, dove per due deliranti settimane circolarono catene da un dollaro e da cinque dollari, prima dell’inevitabile crollo. Si trasformò nel Cerchio d’Oro (1978), con trasmissione brevi manu delle lettere, e in vari altri schemi a piramide.
Guardai Bennett allontanarsi e tornai nel mio laboratorio. Flip era seduta al mio computer. — Come si scrive adorabile? — mi domandò.
Solo la forza di volontà mi trattenne dall’afferrarla e scuoterla fino a farle cadere la i dalla fronte. — Che ne hai fatto del modulo del dottor O’Reilly?
Flip scosse la testa. — L’avevo detto a Desiderata che se la prende con me perché le ho rubato l’amichetto. Non è giusto. Ha già quel tale delle mucche.
— Pecore — la corressi automaticamente… e rimasi a bocca aperta. — Pecore!
— Dire a un collegamento comunicazioni interdipartimentali a chi può o non può scrivere lettere è molestia — proseguì Flip, ma non l’ascoltavo più. Composi il numero telefonico di Billy Ray.
— Sono contento di sentire la tua voce, bambina — disse Billy Ray. — Ho pensato molto a te, ultimamente.
— Puoi prestarmi alcune pecore? — Non ascoltavo neanche lui.
— Certo. Per cosa?
— Una ricerca sull’apprendimento.
— Quante te ne servono?
— Quante devono essere per comportarsi come gregge?
— Tre. Quando le vuoi?
Era davvero un bravo ragazzo. — Fra un paio di settimane. Non so con precisione. Prima devo controllare alcune cose. Per esempio, quante ne possiamo tenere nel paddock. — E devo riuscire a convincere Bennett, mi dissi. E Grancapo.
— Un cerchietto intorno a un nome non rende uno proprietà di un’altra — disse Flip.
Corsi giù a Biologia. Bennett non era occupato a battere il curriculum vitae. Era fuori nell’habitat, seduto su una pietra, e pareva depresso.
— Ben, ho da farle una proposta.
Sorrise debolmente. — Grazie, ma…
— Mi ascolti e non dica no finché non avrà sentito tutta la storia. Le propongo di unire i nostri progetti. No, no, mi lasci finire. Ho chiesto il finanziamento per avere un computer con più memoria, ma potrei adoperare il suo computer. Tanto al mio c’è sempre Flip. E poi potremmo usare il mio finanziamento per comprare cibo e provviste.
— Questo non risolve il problema dei macachi. A meno che non abbia chiesto un computer davvero costoso.
— Un mio amico ha un allevamento di pecore nel Wyoming.
— Sì, lo so.
— È disposto a prestarci quante pecore ci servono, niente costi, solo spese di mantenimento. — Pareva deciso a rifiutare, così mi affrettai a spiegare. — Le pecore non hanno l’organizzazione sociale dei macachi, lo so, ma hanno un forte istinto imitativo. Se una pecora fa una cosa, tutte le altre fanno la stessa cosa. Inoltre sopportano il freddo e quindi possono stare all’aperto.
Da dietro le spesse lenti, Ben mi guardava con aria molto seria.
— Non è il progetto che si proponeva, lo so, ma sarebbe già qualcosa. Le eviterebbe di lasciare la HiTek, e quando fra qualche mese Grancapo inventerà un nuovo acronimo e una nuova procedura per la richiesta di finanziamenti, lei potrà di nuovo dedicarsi ai macachi.
— Di pecore non so niente.
— Possiamo documentarci, mentre aspettiamo che le pratiche facciano il loro corso.
— E lei, Sandy, cosa ne otterrà? Le pecore non si scelgono da sole il sistema di tosatura.
Non potevo certo dirgli che secondo me la sua immunità alle mode faceva parte della chiave per scoprire da dove le mode derivassero. — Intanto un computer dove far girare i nuovi diagrammi che ho pensato — dissi. — E una diversa prospettiva. Col mio progetto sul taglio alla maschietta non vado da nessuna parte. Richard Feynman ha detto che se sei impantanato in un problema scientifico, dovresti lavorare ad altro per un poco. Così poi riesci a vedere il problema da un’angolatura differente. Lui si dedicò ai tamburi bongo. E molti scienziati hanno ottenuto le più importanti conquiste scientifiche lavorando fuori del proprio campo. Alfred Wegener, che scoprì la deriva dei continenti, era un meteorologo, non un geologo. E Joseph Black, che scoprì l’anidride carbonica, non era un chimico, ma un medico. Einstein era un funzionario dell’ufficio brevetti. Il lavoro fuori del proprio campo fa intuire agli scienziati collegamenti che di norma non avrebbero mai visto.
— Uhm — disse Ben. — E c’è senz’altro un collegamento fra le pecore e le persone che seguono una moda.
— Giusto. Chissà? Forse le pecore daranno origine a una moda.
— Flagpole-sitting?
— Cruciverba. Animali da laboratorio, cinque lettere: Ovini. — Gli sorrisi. — E anche se non lo faranno, sarà un vero sollievo lavorare con loro. A parte quella canzoncina su Mary e l’agnellino che la seguiva dappertutto, le pecore non sono mai state una moda. Allora, cosa ne pensa?
Sorrise con aria triste. — Penso che Grancapo non accetterà mai.
— Ma se accettasse?
— Se accettasse… sarei davvero lieto di lavorare con lei. Ma non accetterà. E anche se accettasse, ci vorranno mesi per riempire tutti i moduli, altro che aspettare solo che facciano il loro corso.
— Allora la cosa darebbe a tutt’e due una prospettiva diversa! Non dimentichi Mendeleev e la sua conferenza sulla produzione dei formaggi.
— Come suggerisce di presentare a Grancapo la sua proposta?
— Questa parte la lasci a me. Lei pensi ad adattare alle pecore il suo progetto. Io andrò a parlare con un’esperta.
Salii da Gina. Era impegnata a mettere l’indirizzo su inviti di Barbie rosa brillante. — Ancora non sono riuscita a trovare da nessuna parte una Barbie Sposa Romantica — disse. — Ho telefonato a cinque negozi di giocattoli.
Le raccontai che cos’era accaduto.
Gina scosse tristemente la testa. — Davvero un peccato. O’Reilly mi è sempre stato simpatico… anche se non ha il minimo senso della moda.
— Mi serve il tuo aiuto. — Le parlai della mia idea di combinare i progetti.
— Così lui si becca il tuo finanziamento e le pecore di Billy Ray. Tu cosa ne ricavi?
— Una piccola vittoria su Flip e le forze del caos. Non è giusto che lui perda il finanziamento solo perché Flip è incompetente.
Mi diede una lunga occhiata pensierosa, poi scosse la testa. — Grancapo non accetterà mai. Primo, è una ricerca su animali vivi e quindi si presta a controversie. Grancapo odia le controversie. Secondo, è un progetto innovativo e perciò Grancapo lo odierà per principio.
— Una delle pietre angolari del GRIM non era l’innovazione?
— Scherzi? Se il progetto è nuovo, non esiste un modulo già pronto, e Grancapo ama i moduli quasi quanto odia le controversie. Mi spiace. So che O’Reilly ti è simpatico. — Riprese a scrivere indirizzi sulle buste.
— Se mi aiuti, ti trovo una Barbie Romantica.
Gina alzò gli occhi dagli inviti. — Dev’essere Barbie Sposa Romantica. Non Barbie Sposa Contadina né Barbie Fantasia Nuziale.
Annuii. — Affare fatto?
— Anche se ti aiuto, non posso garantirti che Grancapo accetterà — disse, mettendo da parte gli inviti e passandomi un notes e una biro. — E va bene, sentiamo cosa avresti detto a Grancapo.
— Ah, pensavo di cominciare spiegando che fine aveva fatto il modulo di finanziamento…
— Errore — disse Gina. — Quello scoprirà le tue intenzioni in un minuto. Dirai di aver lavorato a questo progetto congiunto fin dalla penultima riunione, quando lui ha messo in chiaro quanto siano importanti l’input dello staff e l’interazione. Usa parole come ottimizzare e sistemi aderenti a modelli comportamentali.
— Okay. — Presi appunti.
— Ricordagli un po’ di conquiste scientifiche ottenute da scienziati che lavoravano insieme, come Crick e Watson, Penzias e Wilson, Gilbert e Sullivan…
Alzai gli occhi dal notes. — Gilbert e Sullivan non erano scienziati!
— Grancapo non lo sa. E potrebbe avere già sentito quei due nomi. Ti serve un prospetto di due pagine sugli scopi del progetto. Metti nella seconda pagina tutto quello che pensi riterrà un problema. Non legge mai la seconda pagina.
— Vuoi dire uno schema del progetto? — dissi, prendendo appunti. — La spiegazione del metodo sperimentale che useremo e la descrizione dei collegamenti fra analisi di tendenze e ricerca sulla diffusione dati?
— No — disse Gina. Si girò verso il computer. — Lascia perdere, te lo scrivo io. — Cominciò a battere velocemente. — Dirai che i progetti di squadra interdisciplinari integrati sono l’ultima moda al MIT. Dirai che i progetti di singoli sono passé. — Premette PRINT e un foglio cominciò a srotolarsi dalla stampante.
— E stai attenta al linguaggio gestuale di Grancapo. Se tamburella col dito sulla scrivania, sei nei guai.
Mi diede il foglio. Lo guardai con sospetto, come avevo guardato il suo elenco di cinque obiettivi buoni per tutti gli usi… ma questo significava che probabilmente avrebbe funzionato.
— E non metterti quella roba. — Indicò la gonna e il camice da laboratorio. — Dovresti vestire casual.
— Grazie — dissi. — Pensi che questo basterà?
— Quando si tratta di ricerca su animali viventi? Scherzi? La Barbie Sposa Romantica è quella con le rose di tulle rosa — soggiunse. — Ah, Bethany la vuole con i capelli neri.
MAH-JONG (1922 – 24)
Moda americana ispirata dall’antico gioco cinese di tessere. Il Mah-jong, come lo giocavano gli americani, era una sorta d’incrocio fra il ramino e il domino; bisognava costruire muri di tessere e poi abbatterli e “prendere la luna dal fondo del mare”. C’erano entusiastiche chiamate di “Pung!” e “Chow!” e gran tintinnio di tessere d’avorio. I giocatori indossavano abiti orientali (a volte, se ai giocatori non era chiaro il concetto di Cina, si trattava di kimono giapponesi) e bevevano tè. Anche se soppiantato dalla mania per i cruciverba e per il bridge a contratto, il Mah-jong, continuò a essere popolare tra le signore ebree fino agli anni Sessanta.
Non ero riuscita a includere tutte le variabili. Era vero che Grancapo valutava le scartoffie più di qualsiasi altra cosa. Tranne il Niebnitz Grant.
Avevo appena iniziato, nell’ufficio dal tappeto bianco, la mia tirata d’imbonimento, quando Grancapo si illuminò e disse: — Sarebbe un progetto interdisciplinare?
— Sì — confermai. — L’analisi delle tendenze combinata con i vettori di apprendimento nei mammiferi superiori. Ci sono inoltre alcuni aspetti della teoria del caos…
— Teoria del caos? — disse lui, tamburellando con l’indice sul piano della costosa scrivania di tek.
— Solo nel senso che questi sono sistemi non lineari che richiedono un esperimento studiato su misura — mi affrettai a precisare. — Il risalto spetta in primo luogo alla diffusione dell’informazione nei mammiferi superiori, della quale le mode umane sono un sottoinsieme.
— Esperimento studiato su misura? — disse lui, impaziente.
— Sì. Il valore pratico per la HiTek sarebbe una migliore comprensione di come le informazioni si diffondono fra le società umane e…
— Qual era il suo campo originario? — mi interruppe.
— Statistica — risposi. — I vantaggi di usare pecore anziché macachi sono… — Non riuscii a terminare, perché Grancapo era già in piedi e mi stringeva la mano.
— Questo è proprio il tipo di progetto GRIM. Interfacciare discipline scientifiche, implementare iniziativa e cooperazione per creare nuovi paradigmi di lavoro.
Parla davvero per acronimi pensai, stupita, e rischiai di perdere il seguito.
— …esattamente il tipo di progetto che il Comitato del Niebnitz Grant cerca. Voglio che questo progetto sia immediatamente implementato. In quanto tempo potete lanciarlo?
— Ah, io… noi… — balbettai. — Dobbiamo fare delle ricerche di base sul comportamento delle pecore. E ci sono le disposizioni sull’uso di animali viventi, che bisogna…
Fece un gesto affettato. — Questo sarà problema nostro. Voglio che lei e il dottor O’Reilly vi concentriate su quel pensiero divergente e sulla sensibilità scientifica. Mi aspetto grandi cose. — Mi strinse la mano con entusiasmo. — La HiTek farà tutto il possibile per eliminare la burocrazia e mettere immediatamente on line questo progetto.
E così fu.
Il tempo per battere autorizzazioni, accantonare moduli e inoltrare la domanda di permesso per l’uso di animali viventi fu quasi inferiore a quello che impiegai per scendere a Biologia e riferire a Bennett che avevano approvato il progetto.
— Cosa significa “immediatamente on line”? — chiese lui, con aria preoccupata. — Non abbiamo fatto nessuna ricerca di base sulle pecore, come si comportano, come interagiscono, cosa sono capaci di apprendere, cosa mangiano…
— Avremo tempo a volontà — dissi. — Non dimentichi che c’è di mezzo Grancapo.
Sbagliavo di nuovo. Venerdì Grancapo mi richiamò sul tappeto bianco e mi disse che tutti i permessi erano stati ottenuti e che l’approvazione per l’uso di animali viventi era stata concessa. — Potete avere qui le pecore per lunedì?
— Vedrò se il proprietario può combinare — dissi, augurandomi che Billy Ray non potesse.
Poteva… e combinò. Ma non le portò lui stesso: era impegnato a Lander, a un meeting sulla conduzione virtuale dei ranch. Mandò al suo posto Miguel, che aveva anellino alla narice, cappello all’australiana, auricolari e nessuna intenzione di scaricare le pecore.
— Dove le vuole? — chiese, in un tono che mi indusse a scrutare sotto la tesa del cappello all’australiana per vedere se anche lui aveva una i sulla fronte.
Gli mostrammo il cancello del paddock. Miguel sospirò pesantemente, vi accostò in retromarcia il camion e poi rimase appoggiato alla cabina, con l’aria di chi si sente bistrattato.
— Non le scarica? — disse alla fine Ben.
— Billy Ray mi ha detto di consegnarle. Non ha parlato di scarico.
— Dovrebbe conoscere la nostra addetta alla distribuzione della posta — dissi io. — Siete fatti l’uno per l’altra.
Miguel piegò in avanti, con cautela, il cappello all’australiana. — Dove sta?
Bennett era andato sul retro del camion ad alzare la sbarra che teneva chiuso il portello. — Non verranno giù di corsa tutte insieme e ci travolgeranno, vero?
No, le trenta pecore erano sul bordo del pianale, belavano e parevano atterrite.
— Su, su — le blandì Ben. Si rivolse a me. — Pensa che per loro sia un salto troppo alto?
— Saltarono da un dirupo, in Via dalla pazza folla — dissi. — Come potrebbe essere troppo alto?
Comunque Ben andò a prendere una tavola di compensato per fare una rampa di fortuna e io andai a vedere se il dottor Riez, che aveva lavorato sugli equini prima di passare ai platelminti, aveva ancora una cavezza da prestarci.
A Riez occorse un’eternità per trovare una cavezza, e quando tornai al laboratorio ero convinta che ormai non sarebbe più stata necessaria; ma le pecore erano ancora ammassate sul pianale.
Ben aveva l’aria frustrata e Miguel, davanti alla cabina, si dondolava al ritmo della musica proveniente dagli auricolari.
— Non vogliono scendere — disse Ben. — Ho provato a chiamarle, a blandirle, a fischiare.
Gli diedi la cavezza.
— Forse, se riusciamo a farne scendere una dalla rampa, tutte le altre la seguiranno — disse lui.
Prese la cavezza e risalì la rampa. — Stia da parte, nel caso si mettano a correre all’impazzata.
Allungò la mano per far scivolare la cavezza sulla testa della pecora più vicina, e tutte si misero a correre all’impazzata, certo. Verso il fondo del camion.
— Forse, se ne prende una e la porta giù di peso… — suggerii, ricordando la copertina di uno dei libri sugli angeli, raffigurante un angelo scalzo che teneva fra le braccia una pecorella smarrita. — Una piccola.
Ben annuì. Mi diede la cavezza e salì la rampa, lentamente, per non spaventare le pecore. — Shh, shh — disse piano a una pecorella. — Non ti farò niente. Shh, shh.
La pecora non si mosse. Ben piegò il ginocchio, le passò le braccia sotto la pancia e la alzò; poi si diresse alla rampa.
L’angelo, era chiaro, aveva cloroformizzato la pecorella prima di prenderla in braccio. Quella di Ben scalciò con i quattro zoccoli in quattro direzioni diverse, agitandosi come impazzita, e col muso diede a Ben un forte colpo sul mento. Ben barcollò, la pecora si contorse e gli diede un calcio allo stomaco. Ben la lasciò cadere con un tonfo e quella tornò in mezzo alle altre, belando istericamente.
Subito tutte la imitarono.
— Sta bene? — domandai a Ben.
— No — rispose, palpandosi la mascella. — Dov’è finito “l’agnellino così mite e mansueto”?
— Evidentemente Blake non aveva mai incontrato una pecora — commentai. Aiutai Ben a scendere la rampa e lo accompagnai all’abbeveratoio. — E ora?
Ben si appoggiò all’abbeveratoio, respirando pesantemente. — Prima o poi avranno sete — disse, tastandosi il mento con cautela. — Propongo di aspettare.
Miguel si avvicinò a noi, a tempo di musica. — Non ho tutto il giorno da perdere, sapete! — gridò per superare il frastuono degli auricolari, poi tornò davanti alla cabina.
— Vado a chiamare Billy Ray — dissi.
Il suo cellulare era fuori portata.
— Forse se ci accostiamo di soppiatto con la cavezza… — propose Ben quando tornai.
Provammo. Provammo pure ad aggirare le pecore e a spingerle da dietro, provammo a minacciare Miguel e facemmo varie lunghe pause, appoggiati all’abbeveratoio per riprendere fiato.
— Be’, di sicuro è in atto una diffusione di informazioni — disse Ben, massaggiandosi il braccio. — Hanno deciso tutte di non scendere dal camion.
Spuntò Alicia. — Ho un profilo del candidato ottimale per il Niebnitz Grant — disse a Ben, fingendo di non vedermi. — E ho trovato un altro Niebnitz. Un industriale che ha fatto fortuna con raffinerie di minerali e ha fondato varie istituzioni benefiche. Sto esaminando i criteri di selezione dei loro comitati. — Poi soggiunse, sempre rivolta a Ben: — Venga a vedere il profilo.
— Vada pure — dissi a Ben. — Tanto qui non si perderà niente. Io provo ancora a chiamare Billy Ray.
Riuscii a mettermi in contatto. Billy Ray disse: — Ecco cosa devi fare… — e fu di nuovo fuori portata.
Tornai fuori nel paddock. Le pecore erano scese dal camion e brucavano l’erba secca.
— Cos’ha fatto? — disse Ben, giungendomi alle spalle.
— Io, niente — risposi. — Miguel si sarà stancato di aspettare.
Ma lui era ancora davanti alla cabina del camion a godersi la musica dei Groupthink o di chissà quale altra band.
Guardai le pecore. Brucavano in santa pace, girando allegramente per il paddock come se fossero sempre state lì. Anche quando Miguel, sempre con gli auricolari, mise in moto il camion e se ne andò, le pecore non si spaventarono. Una di esse, vicino allo steccato, alzò il muso verso di me e mi diede un’occhiata pensierosa e intelligente. Funzionerà, mi dissi.
La pecora mi fissò ancora un momento, abbassò la testa per brucare e rimase incastrata nello steccato.
QIAO PAI (1977 – 95)
Gioco cinese ispirato al bridge americano (a sua volta di moda negli anni Trenta). Reso popolare da Deng Xiaoping, che lo imparò in Francia, il qiao pai attrasse rapidamente più di un milione di entusiasti, che lo giocavano soprattutto sul lavoro. A differenza del bridge americano, la licitazione avviene in silenzio, i giocatori non dispongono in ordine le smazzate e la partita è estremamente cerimoniosa. La moda del qiao pai soppiantò quella del ping-pong.
Nei giorni seguenti fu subito chiaro che in un gregge la diffusione di informazioni era quasi inesistente. E non c’erano neppure mode.
— Voglio osservarle per qualche giorno — disse Ben. — Dobbiamo stabilire quali sono i loro normali schemi di diffusione di informazioni.
Le osservammo. Le pecore brucavano l’erba secca, muovevano un paio di passi, brucavano ancora, si spostavano un poco più in là, riprendevano a brucare. Sarebbero sembrate un quadro pastorale, se non fosse stato per i musi allungati e inespressivi e per il loro vello. Non so chi abbia dato origine al mito che le pecore sono soffici e bianche. Le nostre erano piuttosto del colore di uno straccio vecchio, e altrettanto sporche.
Continuarono a brucare. Di tanto in tanto una pecora smetteva di brucare, percorreva incerta sulle zampe il perimetro del paddock, alla ricerca di un dirupo da cui precipitare, e poi tornava a brucare. Una vomitò. Alcune brucarono lungo lo steccato. Giunte all’angolo, rimasero lì, incapaci di girarsi, e continuarono a brucare, mangiando l’erba fino al terriccio. Poi, in mancanza di idee migliori, mangiarono il terriccio.
— È sicura che le pecore siano mammiferi superiori? — chiese Ben, guardandole appoggiato alla staccionata.
— Mi spiace davvero. Non immaginavo che fossero così stupide.
— Be’, in realtà una struttura comportamentale così semplice potrebbe tornare a nostro vantaggio — disse Ben. — Il problema, con i macachi, è la loro furbizia. Il loro comportamento è complesso, un mucchio di cose accadono contemporaneamente: dominanza, interazione familiare, pulizia del proprio corpo, comunicazione, apprendimento, struttura di cortesia. I fattori operanti nello stesso tempo sono così numerosi che diventa problematico separare la diffusione di informazione dagli altri comportamenti. Con un numero inferiore di comportamenti, sarà più facile capire come si diffondono le informazioni.
Ammesso che ci sia comunicazione, pensai osservando le pecore.
Una pecora mosse un passo, brucò, mosse altri due passi, poi dimenticò evidentemente quel che stava facendo e si guardò intorno con aria vacua.
Arrivò Flip, in uniforme da cameriera, con bordini rossi sul colletto e DON’S DINER ricamato in rosso sul taschino. Aveva con sé un foglio.
— Hai trovato un nuovo lavoro? — chiese Ben, speranzoso.
Roteare d’occhi. Sospiro. Agitare di capelli. — No-o-o-o.
— Allora perché porti l’uniforme? — le domandai.
— Non è una uniforme! È un abito fatto per sembrare una uniforme. A causa di tutto il lavoro che devo fare qui. È una dichiarazione. Deve mettere una firma qui. — Mi diede il foglio e si appoggiò alla staccionata. — Sono quelle, le pecore?
Il foglio era una petizione per vietare il fumo nel parcheggio.
Ben disse: — Una sola persona che fumi una sola sigaretta al giorno in un parcheggio di tre acri non produce fumo passivo sufficiente a destare preoccupazioni.
Flip agitò i capelli, facendo ondeggiare scompostamente le treccine avvolte in filo colorato. — Non fumo passivo! — disse indignata. — Inquinamento atmosferico.
Si allontanò con la solita andatura dinoccolata, e noi tornammo a osservare le pecore. Se non altro, la mancanza di impegno attivo ci lasciava un mucchio di tempo per stabilire i programmi di osservazione e per leggere articoli sull’argomento.
Non c’era molto. Un biologo dell’istituto William and Mary aveva studiato un gregge di cinquecento pecore e aveva concluso che quegli animali hanno “un forte istinto gregario”; un ricercatore dell’Indiana aveva identificato cinque diverse forme di comunicazione ovina (i beee erano elencati in ordine fonetico); ma nessuno aveva fatto esperimenti attivi sull’apprendimento. Tutti avevano fatto solo ciò che facevamo noi in quel momento: osservare le pecore che brucavano, si muovevano a passi incerti, giravano in tondo tutte insieme e vomitavano.
Avevamo un mucchio di tempo per parlare di taglio alla maschietta e di teoria del caos. — La cosa stupefacente è che i sistemi caotici non si mantengono sempre caotici — disse Ben, appoggiato al cancello. — A volte si riorganizzano spontaneamente in una struttura ordinata.
— All’improvviso diventano meno caotici? — dissi, con la speranza che accadesse anche alla HiTek.
— No, ecco il punto. Diventano sempre più caotici, fino a raggiungere una sorta di massa critica caotica. Quando avviene, si riorganizzano spontaneamente in un livello d’equilibrio più alto. Si chiama criticità auto-organizzata.
Anche noi eravamo sulla buona strada, pareva. Grancapo sfornava memo, le pecore incastravano la testa nella staccionata, nel cancello e sotto il distributore di cibo, Flip veniva periodicamente ad appollaiarsi sul cancello fra il paddock e il laboratorio, muovendo su e giù il saliscendi con l’espressione di chi soffre di mal d’amore.
Dopo tre giorni fu chiaro che le pecore non avrebbero dato origine a nessun comportamento ripetitivo. E che non avrebbero mai imparato a premere un pulsante per ottenere il cibo. La mattina dopo l’arrivo delle pecore, Ben aveva montato un distributore di cibo e aveva fatto varie dimostrazioni, mettendosi a quattro zampe e premendo col naso il pulsante largo e piatto. A ogni pressione uscivano tavolette di cibo, e Ben infilava la testa nella mangiatoia e fingeva rumorosamente di masticare. Le pecore guardavano, impassibili.
— Dovremo costringerne una a farlo — dissi. Avevamo guardato la registrazione su nastro del giorno del loro arrivo e avevamo visto come erano scese dal camion. A furia di urtarsi e di indietreggiare, una pecora era finita sulla rampa. Le altre si erano subito precipitate dietro di lei. — Se riusciamo a insegnarlo a una, sappiamo che le altre la imiteranno.
Ben, rassegnato, andò a prendere la cavezza.
— Quale?
— Non quella. — Indicai la pecora che aveva vomitato. Guardai le altre e ne soppesai prontezza e intelligenza. Non c’era poi molta scelta. — Quella là, direi.
Ben annuì e ci muovemmo verso la prescelta portando la cavezza. La pecora ruminò pensierosamente per qualche istante e poi corse nell’angolo più lontano. Tutte le pecore la seguirono, saltando l’una sull’altra nell’ansia di arrivare al muro.
— “E fuor delle case irruppero i topi” — mormorai.
— Be’, almeno sono tutte in un angolo — disse Ben. — Dovrei riuscire a mettere la cavezza a una.
Niente da fare… anche se Ben riuscì ad afferrare un pugno di vello e a tenere duro fino al centro del paddock.
— Penso che le spaventa — disse Flip dal cancello. Vi era rimasta appollaiata per mezza mattina, immusonita, muovendo su e giù il paletto e parlandoci di Darrell il dentista.
— Loro spaventano me — disse Ben, ripulendosi i calzoni di velluto a coste — perciò siamo pari.
— Forse dovremmo provare a blandirle — suggerii. Mi chinai sulle ginocchia. — Vieni qui — cinguettai con la vocina da bambino che la gente usa con i cani. — Su, vieni. Non ti faccio niente.
Le pecore mi fissarono dall’angolo e continuarono a ruminare, impassibili.
— Cosa fanno i pastori, quando guidano il gregge? — domandò Ben.
Cercai di ricordarlo da qualche film. — Non so. Camminano davanti al gregge e le pecore li seguono.
Provammo anche noi. Provammo anche ad avvicinarci di soppiatto dai due lati e ad arrivare da dietro, nell’improbabile caso che corressero nell’altra direzione e che una di esse finisse per urtare il pulsante senza volerlo.
— Forse non gli piacciono le tavolette di cibo — insinuò Flip.
— Ha ragione, sa — dissi a Ben che mi fissò, incredulo. — Dobbiamo saperne di più sulle loro abitudini alimentari e le loro capacità. Chiamo Billy Ray e mi faccio dire cosa piace alle pecore.
Trovai l’audiomessaggio di Billy Ray. “Premere uno se si vuole la fattoria del ranch, premere due se si vuole la stalla, premere tre se si vuole il campo pecore.” Billy Ray non era in nessuno dei tre posti. Era per strada, diretto a Casper.
Tornai nel laboratorio, dissi a Bennett e a Flip che sarei andata in biblioteca e presi l’auto.
Al banco della biblioteca c’era il clone di Flip, con una fascetta di nastro adesivo sulla fronte e una i marchiata.
— Avete qualche libro sugli ovini? — le domandai.
— Come si scrive?
— Con una v sola. — Aveva ancora l’aria assente. — O-v-i-n-i.
— Vini di Borgogna — lesse lei dallo schermo. — Vini e viticci della California…
— Ovini — dissi. — Pecore.
— Oh. — Batté la parola, usando varie volte il tasto per cancellare. — Il mistero della pecora smarrita — lesse. — Peregrinazioni di pacifiche pecore prosperose, La sindrome della pecora nera…
— Libri sulle pecore. Su come allevarle e addestrarle.
Roteò gli occhi. — Non poteva dirlo subito?
Alla fine riuscii ad avere una segnatura e presi Allevare pecore per divertimento e profitto; Storie di un pastore australiano; Il segreto delle campane di Dorothy Sayers, nel quale mi pareva di ricordare ci fossero delle pecore; Cura e gestione delle pecore; e infine, ricordando la scabbia ovina di Billy Ray, presi anche Le più comuni malattie delle pecore. Li portai al banco per farli registrare.
— Qui mi risulta un suo ritardo nella restituzione — disse il clone di Flip. — Opere con prete di Robert Browning.
— Complete — la corressi. — Opere complete. Ne abbiamo parlato la volta scorsa. L’ho già restituito.
— Qui non mi dà la restituzione. Segna una multa di sedici e cinquanta. Segna che l’ha preso il marzo scorso. Non si possono prendere libri, se le multe non pagate superano i cinque dollari.
— Il libro l’ho restituito — protestai, ma sbattei sulla scrivania una banconota da venti dollari.
— In più deve pagare la sostituzione del libro. Fa 55 e 95.
So riconoscere una sconfitta. Compilai un assegno e portai i libri da Ben. Cominciammo a esaminarli.
Non erano incoraggianti. “Col caldo le pecore tendono ad ammassarsi e muoiono per soffocamento” diceva Allevare pecore per divertimento ecc., e “A volte le pecore si girano sulla schiena e non riescono più a rialzarsi da sole.”
— Senta questa — disse Ben. — “Se spaventate, le pecore possono andare a sbattere contro alberi o altri ostacoli”.
Non c’era niente sulle loro abilità, tranne “Tenere le pecore dentro uno steccato è molto più facile che riportarvele”; ma c’era un mucchio di suggerimenti sul modo di trattarle, suggerimenti che ci avrebbero fatto comodo in precedenza.
In teoria non bisognava mai toccare una pecora sul muso né grattarla dietro le orecchie; e il pastore australiano lanciava un inquietante ammonimento: “Gettando a terra il berretto e calpestandolo per la rabbia ottieni solo di rovinare il berretto”.
— “Una pecora teme più di tutto di restare intrappolata” — lessi a Ben.
— Adesso me lo dice! — replicò lui.
E alcuni consigli non parevano affatto affidabili. “State in silenzio” suggeriva Cura e gestione delle pecore “e la pecora, incuriosita, verrà a vedere che cosa fate.”
Le nostre non lo facevano; ma il pastore australiano aveva un metodo pratico per costringere una pecora ad andare dove voleva lui.
— “Mettetevi in ginocchio accanto alla pecora” — lessi dal libro.
Ben eseguì.
— “Mettete una mano sulla culatta” — lessi. — Sarebbe la zona della coda.
— Sulla coda?
— No. Un po’ più su, all’attaccatura delle cosce.
Shirl uscì dal laboratorio, si fermò sotto il portico, si accese una sigaretta e si avvicinò alla staccionata per guardare.
— “Mettete l’altra mano sotto il mento” — lessi. — “Quando la tenete in questo modo, la pecora non può scostarsi da voi e non può andare né avanti né indietro”.
— Per adesso, tutto bene — disse Ben.
— Ora, “reggete con forza il mento e date una gentile stretta alla culatta per fare andare avanti la pecora”. — Abbassai il libro e guardai. — Per fermarla, bisogna spingere con la mano sotto il mento.
— D’accordo — disse Ben, rialzandosi. — Ora vediamo.
Diede una gentile stretta al deretano villoso della pecora. L’animale non si mosse.
Shirl tirò una lunga boccata, tossì, scosse la testa.
— Dove sbagliamo? — le chiese Ben.
— Dipende. Cosa cerca di fare?
— Be’, vorrei insegnare a una pecora a premere un pulsante per ottenere il cibo. Ma per il momento mi basterebbe farla andare nella parte del paddock dove c’è la mangiatoia.
Mentre parlava, aveva continuato a tenere la pecora e a stringere, ma l’animale, evidentemente, agiva con una sorta di meccanismo ritardato. Mosse docilmente due passi in avanti e cominciò a sgroppare.
— Non lasci il muso — dissi, cosa più facile a dirsi che a farsi. Tutt’e due allungammo le mani verso il collo della pecora. Lasciai cadere il libro e afferrai un ciuffo di lana. Ben si prese un calcio al braccio. La pecora si buttò verso il centro del gregge.
— Fanno così — disse Shirl, soffiando il fumo. — Quando sono separate dal gregge, puntano dritto al centro. Istinto di gruppo che si riafferma. Pensare per proprio conto mette troppa paura.
Ben e io andammo alla staccionata. — Conosce le pecore? — chiese Ben.
Shirl annuì, continuando a fumare. — Sono le creature più strambe, stupide e testarde del pianeta.
— L’avevamo già intuito — disse Ben.
— Come fa a conoscere le pecore? — domandai.
— Sono cresciuta in un ranch di pecore nel Montana.
Ben emise un sospirp di sollievo. — Può darci suggerimenti? A queste qui non riusciamo a far fare niente.
Shirl trasse una lunga boccata. — Vi serve una guida.
— Una guida? Che diavolo è? Una cavezza di tipo speciale?
Shirl scosse la testa. — Una leader.
— Come un cane da pastore? — domandai.
— No. Un cane può spingere, guidare e tenere in linea le pecore, ma non è in grado di farsi seguire. Una guida è una pecora.
— Di razza speciale? — domandò Ben.
— No. Stessa razza. Una pecora come le altre, solo che ha qualcosa che induce il resto del gregge a seguirla. Di solito è una femmina anziana, e qualcuno pensa che la faccenda sia legata in qualche modo agli ormoni; altri ritengono che si tratti di qualcosa nel suo sguardo. Un mio professore diceva che le guide possiedono una sorta di leadership innata.
— Struttura d’attenzione — disse Ben. — Fra le scimmie, i maschi dominanti la possiedono.
— E lei come la pensa? — domandai.
— Io? — si stupì Shirl, guardando il fumo della sigaretta roteare verso l’alto. — Penso che una guida sia una pecora come le altre, ma con qualcosa in più. Un po’ più affamata, un po’ più veloce, un po’ più avida. Vuole arrivare per prima al cibo, al riparo, all’accoppiamento: perciò è sempre davanti alle altre. — Si interruppe per una boccata. — Non di molto. Se si staccasse troppo, il gregge dovrebbe farsi strada da solo per seguirla e questo significherebbe pensare per proprio conto. Avanti solo un poco, così le altre non sanno di essere guidate. E la guida non sa di guidarle.
Gettò nell’erba il mozzicone della sigaretta e lo pestò per spegnerlo. — Se insegnate alla guida a premere un pulsante, lo farà anche il resto del gregge.
— Dove possiamo procurarcene una? — disse Ben, ansioso.
— Dove avete preso quelle pecore? Probabilmente il gregge ne aveva già una, ma non è stata messa nel mucchio. Quelle pecore non sono tutto il gregge, giusto?
— No — confermai. — Billy Ray ha duecento capi.
Shirl annuì. — Un gregge così numeroso ha quasi sempre una guida.
Guardai Ben. — Telefono a Billy Ray.
— Buona idea — disse lui, ma pareva avere perduto l’entusiasmo.
— Cosa c’è? Non pensa che una guida sia una buona idea? Teme che interferisca con l’esperimento?
— Quale esperimento? No, no, è una buona idea. La struttura d’attenzione e i suoi effetti sul rapporto di apprendimento sono una delle variabili che volevo studiare. Telefoni pure a Billy Ray.
— D’accordo. — Entrai nel laboratorio. Mentre aprivo la porta, quella del corridoio si chiuse con un tonfo. Attraversai l’habitat e guardai nel corridoio.
Flip, in tuta e oxford da sella blu Cerenkhov e bianco, scomparve su per le scale. Forse ci aveva portato la posta. Chissà perché non era venuta nel paddock a chiederci se la trovavamo seducente.
Tornai nel laboratorio. Flip aveva lasciato la posta sulla scrivania di Ben. Due pacchetti per il dottor Ravenwood di Fisica e una lettera da Gina ai Bell Laboratories.
MATRIMONI DEI FIGLI DEI FIORI (1968 – 75)
Moda di ribellione, resa popolare da gente che non voleva ribellarsi del tutto alla tradizione e non sposarsi affatto. Allestita in un prato o sulla cima di una montagna, la cerimonia comprendeva Feelings suonata sul sitar e solenni promesse scritte dai partecipanti con l’aiuto di Kahlil Gibran. In genere la sposa portava fiori nei capelli ed era scalza. Lo sposo portava un simbolo della pace e i basettoni. Soppiantata negli anni Settanta dalla convivenza senza alcun impegno.
Billy Ray portò di persona la guida. — L’ho messa nel paddock — disse, entrando nel laboratorio di statistica. — La ragazza di sotto ha detto che bastava metterla con il resto del gregge.
Probabilmente si riferiva ad Alicia, che aveva trascorso tutto il pomeriggio appiccicata a Ben a discutere il profilo Niebnitz, motivo per cui ero risalita al laboratorio di statistica per inserire nel computer i dati relativi agli anni Venti. Chissà come mai Ben non era nel suo laboratorio.
— Graziosa? — domandai. — Tipo dirigente d’azienda? Con tanto rosa addosso?
— La guida?
— Quella con cui hai parlato. Bruna, con un fermacapelli?
— No. Tatuaggio sulla fronte.
— Marchio — lo corressi distrattamente. — Sarà meglio scendere a controllare la guida.
— Starà benissimo — disse Billy Ray. — L’ho portata io stesso, così posso offrirti quel pranzo che abbiamo saltato la settimana scorsa.
— Oh, bene. — Avrei avuto l’occasione di farmi un’idea delle cose con bassa soglia di abilità da insegnare alle pecore. — Prendo il soprabito.
— Grande! — s’illuminò Billy Ray. — C’è un nuovo ristorante favoloso e dobbiamo proprio andarci.
— Prateria?
— No, ristorante siberiano. Pare che la cucina siberiana sia l’ultimo grido.
Mi augurai che fosse anche calda, visto il freddo siberiano e il vento gelido nel parcheggio. Fui felice che Shirl non dovesse stare lì fuori per fumare una sigaretta.
Billy Ray mi guidò al suo camion e mi aiutò a salire. Mentre usciva dal parcheggio, lo presi per il braccio e lo fermai. — Aspetta — dissi, ricordando la fine che Flip aveva fatto fare ai miei ritagli. — Prima di andare via è meglio controllare che la guida stia bene. Cos’ha detto esattamente? La ragazza nel laboratorio. Non era nel paddock, vero?
— No. Cercavo qualcuno a cui affidare la guida, e quella ragazza è entrata con delle lettere e ha detto che erano nel laboratorio della dottoressa Turnbull e di lasciare la guida nel paddock, e così ho fatto. Sta bene. È subito scesa dal camion e ha cominciato a brucare.
Significava che era proprio una guida. Le cose cominciavano ad andare meglio.
— Quando te ne sei andato, non era ancora lì, vero? La ragazza, non la guida.
— No. Mi ha chiesto se pensavo che avesse un buon senso dell’umorismo, le ho risposto che non lo sapevo, non l’avevo sentita dire niente di spiritoso, allora ha fatto un sospiro, ha roteato gli occhi e se n’è andata.
— Bene — dissi. Erano già le cinque e mezzo. Flip non si sarebbe fermata nemmeno un minuto dopo le cinque, anzi in genere usciva un po’ prima, per cui le probabilità che fosse tornata nel laboratorio a combinare qualche guaio erano in pratica inesistenti. E poi c’era Ben; prima di andare a casa, sarebbe tornato dal laboratorio di Alicia per dare un’occhiata di controllo. A meno che non fosse troppo innamorato di Alicia e del Niebnitz Grant per ricordarsi del gregge.
— Quel posto è fantastico — disse Billy Ray. — Ci toccherà un’ora di coda per entrare.
— Pare proprio fantastico. Andiamo.
In realtà la coda durò un’ora e venti minuti, e nell’ultima mezz’ora il vento aumentò e iniziò a nevicare. Billy Ray mi diede il suo giaccone foderato di pelliccia di pecora da mettere sulle spalle. Indossava camicia alla coreana e calzoni da cavallerizzo. Si era fatto crescere i capelli e portava guanti da automobilista di pelle gialla. Il look alla Brad Pitt. Visto che continuavo a rabbrividire, mi diede anche i guanti.
— Questo posto ti piacerà — disse. — Pare che il cibo siberiano sia fantastico. Sono felice che ci siamo venuti insieme. C’è una cosa di cui volevo parlarti.
— Anch’io volevo parlarti — dissi, con le labbra irrigidite dal freddo. — Che tipo di trucchi puoi insegnare alle pecore?
— Trucchi? — ripeté con aria assente. — In che senso?
— Be’, imparare ad associare un colore a una leccornia o a percorrere un labirinto. Preferibilmente qualcosa con una bassa soglia di abilità e un certo numero di livelli di destrezza.
— Insegnare alle pecore? — Rifletté a lungo, mentre il vento ululava intorno a noi. — Sono bravissime a uscire dai recinti dove dovrebbero stare.
Ciò che avevo in mente era un po’ diverso.
— Possiamo fare così — continuò Billy Ray. — Vado su Internet e cerco se qualcuno ha insegnato un trucco a una pecora. — Si tolse il cappello, nonostante la neve, e lo rigirò fra le dita. — Ti ho detto che c’era una cosa di cui volevo parlarti. Ultimamente ho avuto un mucchio di tempo per riflettere, durante il viaggio a Durango e tutto il resto, e ho pensato parecchio alla vita nel ranch. È una vita solitaria, là fuori nei pascoli per tutto il tempo, senza mai vedere nessuno, senza mai andare in nessun posto.
A parte Lodge Grass e Lander e Durango, pensai.
— Ultimamente mi sono chiesto se ne vale la pena e per che cosa lo faccio. E continuavo a pensare a te.
— Barbara Rose — chiamò la cameriera siberiana.
— Siamo noi — dissi. Restituii a Billy Ray il giaccone e i guanti, lui si rimise il cappello e seguimmo al nostro tavolo la cameriera. Al centro c’era un samovar, e ne approfittai per scaldarmi le mani.
— T’ho detto l’altro giorno che mi sentivo insoddisfatto senza niente da fare, — continuò Billy Ray, dopo che arrivarono i menu.
— Prurito — dissi.
— È una buona parola. Sentivo come un prurito, infatti, e mentre tornavo in macchina da Lodgepole, ho scoperto il motivo di quel prurito. — Mi prese la mano.
— E cioè? — domandai.
— Te.
Ritrassi involontariamente la mano e lui disse: — Ah, lo so che per te è un po’ una sorpresa. È stata una sorpresa anche per me. Guidavo fra le Rockies sentendomi depresso, come se niente mi importasse più, poi ho pensato: chiamo Sandy; e dopo la telefonata ho pensato: forse dovremmo sposarci.
— Sposarci? — squittii.
— Voglio dirti prima di tutto che, quale che sia la tua risposta, puoi tenere le pecore per tutto il tempo che vuoi. Senza condizioni. E so che hai una carriera davanti a te e che non vuoi rinunciarci. Ci ho pensato. Potremmo sposarci appena avrai concluso quella faccenda del taglio alla maschietta, e poi potremmo stabilirci nel ranch, con fax e modem ed e-mail. Non ti accorgerai neppure di non essere più alla HiTek.
A parte il fatto, pensai con poca coerenza, che non ci saranno Flip e Alicia. E che non dovrò andare ai meeting e fare esercizi di sensitività. Ma… sposata!
— Ora, non devi darmi la risposta proprio subito — proseguì Billy Ray. — Prenditi tutto il tempo che vuoi. Io ho avuto un paio di centinaia di miglia per rifletterci. Puoi farmelo sapere dopo il dessert. Fino a quel momento ti lascio in pace.
Prese un menu, tutto rosso e illustrato con un orso russo, e cominciò a leggere; io rimasi a fissare lui, cercando di capire. Matrimonio. Billy Ray voleva che lo sposassi.
Be’, perché no? Era un ragazzo simpatico, disposto a farsi in macchina centinaia di miglia per vedermi; io, come avevo detto ad Alicia, avevo trentun anni, e dove ne avrei trovato un altro così? Negli annunci personali, con gli atletici e premurosi NF che non erano neanche disposti ad attraversare la strada per un appuntamento?
Billy Ray si era sciroppato tutta quella strada, venendo da chissà dove, nella remota speranza di portarmi a cena. Mi aveva prestato un gregge e anche una guida. E i suoi guanti. Dove ne avrei trovato un altro così bravo? Alla HiTek nessuno avrebbe chiesto la mia mano, di sicuro.
— Cosa prendi? — mi chiese Billy Ray. — Io proverò gli gnocchi di patate.
Presi borscht insaporito al basilico (che non ricordavo fosse previsto nella cucina siberiana) e gnocchi di patate. Cercai di riflettere. Che cosa volevo veramente?
Scoprire da dove derivava il taglio alla maschietta, pensai, e capii che le probabilità di riuscire nell’impresa erano quasi uguali a quelle di vincere il Niebnitz. Nonostante la teoria di Feynman che il lavoro in un campo totalmente diverso stimola le scoperte scientifiche, non ero più vicina di prima a individuare l’origine delle mode. Forse mi occorreva andare via dalla HiTek, all’aria fresca, in un isolato ranch del Wyoming.
— Via dalla pazza folla — mormorai.
— Prego? — disse Billy Ray.
— Niente, niente — dissi, e lui tornò alla sua cena.
Lo guardai mangiare gli gnocchi. Assomigliava davvero a Brad Pitt. Era terribilmente alla moda… ma forse sarebbe stato un vantaggio per il mio progetto. E poi non ci saremmo dovuti sposare subito. Aveva detto che potevo aspettare fino alla conclusione del mio progetto. E, a differenza del dentista di Flip, non avrebbe badato al fatto che, mentre ero impegnata nel lavoro, sarei stata geograficamente incompatibile.
Flip e il suo dentista, pensai. Mi domandai a disagio se non fosse solo un’altra moda. Quell’articolo diceva che il matrimonio era “in” e che tutte le bambine andavano pazze per Barbie Sposa Romantica. La madre di Lindsay pensava di risposarsi malgrado l’esperienza con quello stupido di Matt, Sarah cercava di convincere Ted a farle la proposta di matrimonio e Bennett lasciava che Alicia scegliesse per lui le cravatte. E se avessero fatto tutti quanti parte di una moda di coinvolgimento? Ero ingiusta verso Billy Ray. Amava ciò che era alla moda, poteva perfino fare la coda in una tempesta di neve per un’ora e mezzo, ma non avrebbe mai sposato una donna solo perché il matrimonio era “in”. E se fosse stata una mania passeggera? Le mode non sono poi tutte cattive. Basta pensare al riciclaggio dei rifiuti e al movimento per i diritti civili. E al valzer. E poi cosa c’è di male a seguire la moda, una volta tanto?
— È il momento del dessert — disse Billy Ray, guardandomi da sotto la tesa del cappello.
Chiamò la cameriera, che ci elencò le solite cose: crème brûlée, tiramisù, budino di pane.
— Niente cheesecake al cioccolato? — chiesi.
Lei roteò gli occhi.
— Cosa prendi? — mi domandò Billy Ray.
— Dammi un minuto — risposi. — Fai tu, intanto.
Billy Ray sorrise alla cameriera. — Prendo il budino di pane.
— Budino di pane? — ripetei, stupita.
La cameriera venne in aiuto: — È il nostro dessert più popolare.
— Pensavo che non ti piacesse — dissi a Billy Ray.
Mi guardò con aria assente. — Quand’è che l’ho detto?
— In quel posto dove mi hai portato, quello con cucina della prateria. Il Kansas Rose. Prendesti un tiramisù.
— Più nessuno mangia i tiramisù — disse Billy Ray. — Adoro il budino di pane.
ANIMALI DA COMPAGNIA VIRTUALI
(AUTUNNO 1994 – PRIMAVERA 1996)
Moda riguardante un gioco computerizzato giapponese costituito da un animale da compagnia programmato. Il cagnolino o gattino cresce se il padrone lo nutre e lo fa giocare, impara trucchi (i cani, si presume, non i gatti) e deperisce se trascurato. Moda nata dall’amore dei giapponesi per gli animali e da un problema di sovrappopolazione che rende poco pratico tenere animali da compagnia.
Il mattino seguente incontrai Ben nel parcheggio. — Dov’è la guida? — mi domandò.
— Non è con le altre pecore? — Scesi in fretta dalla macchina. Non mi sarei dovuta fidare di Flip, lo sapevo! — Billy Ray mi ha detto d’averla messa nel paddock.
— Be’, se c’è, non si distingue dalle altre.
Aveva ragione, non si distingueva. Una rapida conta mostrò che c’era una pecora in più, la guida, ma era impossibile stabilire quale fosse.
— Che aspetto aveva, quando il suo amico l’ha messa nel paddock?
— Non c’ero — confessai. Guardai le pecore e cercai di individuarne una che avesse un aspetto diverso dalle altre. — Avrei dovuto venire giù a controllare, lo sapevo. Ma stavamo per andare a cena e…
— Già — m’interruppe lui. — Meglio cercare Shirl.
Shirl era introvabile. Cercai nella stanza delle fotocopie e all’Economato, dove Desiderata si esaminava le doppie punte dei capelli.
— Cosa ti è successo, Desiderata? — domandai, notando sul banco delle ciocche tagliate.
— Non riuscivo a togliere il nastro adesivo — disse sconsolata, mostrandomi una ciocca ancora avvolta. — Peggio di quando ho provato il mastice.
Trasalii. — Sai dov’è Shirl?
— Sarà da qualche parte a fumare — rispose lei, con disapprovazione. — Non sai quanto fa male il fumo passivo-passivo?
— Quasi quanto il nastro — replicai. Scesi nel laboratorio di Alicia, nell’eventualità che Shirl fosse là a inserire per lei nel computer altri dati statistici.
Shirl non era lì a inserire dati statistici, ma c’era Alicia, con una blusa di seta rosa postmoderno e pantaloni palazzo. — Nessun vincitore del Niebnitz Grant era un fumatore — mi rispose quando le domandai se avesse visto Shirl.
Fui sul punto di spiegarle che, vista la percentuale di non fumatori nella popolazione generale e il piccolissimo numero di vincitori del Niebnitz Grant, la probabilità che questi ultimi fossero non fumatori (o qualsiasi altra cosa) era statisticamente insignificante, ma lasciai perdere: non avevamo ancora identificato la guida.
— Non sa dove potrebbe essere Shirl?
— L’ho mandata in Direzione a consegnare un rapporto.
Ma Shirl non era neppure in Direzione. Tornai giù nel laboratorio. Anche Bennett non era riuscito a trovarla. — Dobbiamo arrangiarci da soli — disse.
— Bene. È una guida, perciò è una leader. Mettiamo nel paddock un po’ di fieno e stiamo a vedere che cosa succede.
Mettemmo nel paddock un po’ di fieno.
Non successe niente. Quando Ben scaricò nel paddock forconate di fieno, le pecore più vicino a lui si sparpagliarono e continuarono a brucare. Una andò all’abbeveratoio, infilò la testa fra trogolo e muro e rimase lì incastrata a belare.
— Forse ha portato la pecora sbagliata — disse Ben.
— Ha le cassette registrate della notte scorsa?
— Sì. — Si illuminò. — Ci sarà il suo amico che porta la guida.
C’era: rivedemmo Billy Ray che abbassava la sponda del camion e la guida che scendeva docilmente la rampa e si univa al gregge. Ora bastava seguire i suoi movimenti, fotogramma per fotogramma, fino al momento attuale.
O sarebbe bastato, se Flip non si fosse messa in mezzo. Per almeno dieci minuti nascose completamente il gregge, e quando finalmente si spostò di lato le pecore avevano assunto una disposizione del tutto diversa.
— Flip ha chiesto a Billy Ray se la riteneva dotata di senso dell’umorismo — dissi.
— Naturalmente. E ora?
— Torniamo indietro. Blocchiamo l’inquadratura nel momento in cui la guida scende dal camion. Forse quella pecora ha qualche caratteristica particolare.
Ben tornò indietro e studiammo il fotogramma. La guida pareva esattamente simile alle altre. Se aveva caratteristiche particolari, solo le pecore potevano riconoscerle.
— Sembra un po’ strabica — disse alla fine Ben, indicando lo schermo. — Vede?
Passammo la mezz’ora seguente a farci strada nel gregge, prendendo per il muso le pecore e guardandole negli occhi. Erano tutte un po’ strabiche e con un’aria così assente che avrebbero dovuto avere una i (per indecifrabile) marcata sulla fronte allungata e color bianco sporco.
— Dev’esserci un sistema migliore — dissi, dopo che una pecora mi spinse contro lo steccato e per poco non mi spezzò tutt’e due le gambe. — Guardiamo di nuovo la registrazione.
— Della notte scorsa?
— No, di stamattina. E continui a registrare, torno subito.
Corsi al laboratorio di statistica, presi il dischetto con i miei programmi vettore e frugai nella raccolta di materiale sulle mode.
Mentre salivo, mi era venuto in mente che, se fossimo riusciti a individuare la guida, ci sarebbe servito qualcosa per contrassegnarla. Così presi il pezzo di nastro rosa postmoderno comprato a Boulder e tornai di corsa al laboratorio.
Le pecore si erano radunate intorno al fieno e mangiavano con diligenza, muovendo quei loro denti larghi e quadrati. — Ha visto chi le ha guidate? — domandai a Ben.
Lui scosse la testa. — Sono finite tutte insieme attorno al fieno. Guardi. — Mise in funzione il videoregistratore e mi mostrò la scena.
Aveva ragione. Sullo schermo le pecore vagavano senza meta per il paddock, fermandosi a brucare a ogni passo senza badare alle altre né al fieno, finché, apparentemente per caso, si ritrovarono tutte con le zampe in mezzo fieno, mangiucchiando distrattamente.
— D’accordo. — Mi sedetti al computer. — Colleghi la cassetta e vedrò se riesco a isolare la guida. Registra sempre?
Ben annuì. — Originale e copia di riserva.
— Bene. — Riavvolsi il nastro fino a dieci fotogrammi dal momento in cui Ben inforcava il fieno, bloccai il fotogramma e creai un grafico, assegnando a ogni pecora un diverso punto colorato e ripetendo l’operazione per i venti fotogrammi successivi, in modo da stabilire un vettore. Poi cominciai una serie di esperimenti per vedere quanti fotogrammi potevo saltare senza perdere traccia dell’identità delle singole pecore.
Quaranta. Le pecore brucavano per poco più di due minuti, poi muovevano una media di tre passi e si fermavano a brucare ancora. Cominciai da quaranta, in due tentativi persi le tracce di tre pecore, ridussi a trenta i fotogrammi e proseguii. Quando ebbi dieci punti per ogni pecora, lanciai un programma d’analisi per calcolare le prossimità e la direzione media, e continuai a tracciare vettori. Sullo schermo il movimento era sempre casuale, determinato dall’altezza dell’erba o dalla direzione del vento o da qualsiasi cosa induca una pecora a spostarsi da una parte o dall’altra.
Un vettore puntava verso il fieno; lo isolai e lo seguii per i cento fotogrammi successivi, ma si trattava solo di una pecora dal pelame arruffato, decisa a infilarsi in un angolo. Tornai a seguire tutti i vettori.
Ancora niente, sullo schermo, ma nei numeri cominciò a emergere uno schema. Blu ceruleo. Lo seguii in avanti, non del tutto convinta. La pecora pareva brucare più o meno in cerchio, e le prossimità mostravano che si muoveva irregolarmente ma costantemente verso il fieno.
Isolai il vettore e osservai sul video quella pecora. Pareva del tutto normale e assolutamente inconsapevole del fieno. Mosse un paio di passi, brucò, mosse un altro passo, si girò leggermente, brucò ancora, avvicinandosi sempre un po’ di più al fieno. Da metà dei fotogrammi in poi la regressione mostrò che il resto del gregge la seguiva.
Volevo essere sicura. — Ben — dissi — copra l’abbeveratoio e metta una padella d’acqua vicino al cancello posteriore. Aspetti un momento che mi collego al nastro, così posso seguire direttamente. Fatto. Cammini lungo il lato per non coprire la telecamera.
Seguii sul monitor Ben che usava un foglio di compensato per coprire l’abbeveratoio, portava fuori una padella e la riempiva con la manichetta, e tenni d’occhio le pecore per scoprire se qualcuna notava i suoi movimenti.
Nessuna notò niente.
Restarono tutte accanto al fieno. Ci fu una breve agitazione quando Ben rimise a posto la manichetta e il paletto del cancello, poi le pecore tornarono ai propri affari, come al solito.
Seguii in tempo reale il blu ceruleo, stando attenta ai numeri. — L’ho trovata — dissi.
Bennett venne a guardare da sopra la mia spalla. — Ne è sicura? Non pare più intelligente delle altre.
— Se lo sembrasse, le altre non la seguirebbero.
— L’ho cercata di sopra — disse Flip arrivando all’improvviso — ma non c’era.
— Siamo occupati, Flip — dissi, senza togliere gli occhi dallo schermo.
— Vado a prendere la cavezza e un collare — disse Ben. — Mi dia le indicazioni.
— Solo un minuto — disse Flip. — Voglio che guardi una cosa.
— Non ora — replicai, gli occhi sempre fissi sullo schermo. Dopo un minuto Ben comparve nel quadro, reggendo collare e cavezza.
— Quale? — gridò.
— Vada a sinistra — gridai io. — Tre, no, quattro pecore. Bene. Ora, verso il muro ovest.
— La causa è Darrell, vero? — disse Flip. — L’ha messo in un giornale! Chiunque lo leggeva aveva il diritto di rispondere.
— Ancora una a sinistra — gridai. — No, non quella. L’altra davanti. Bene, ora non la spaventi. Le metta la mano sul sedere.
— Inoltre diceva “sofisticata ed elegante” — continuò Flip. — Le scienziate non sono eleganti, a parte la dottoressa Turnbull.
— Attento! — gridai. — Non la spaventi. — Mi mossi per uscire ad aiutarlo.
Flip mi bloccò la strada. — Voglio solo che guardi una cosa. Basta un minuto.
— Presto — chiamò Ben. — Non riesco a trattenerla.
— Non ho un minuto — dissi, e passai davanti a Flip, pregando che Ben non avesse già perso la guida. La teneva ancora, ma per poco. Si era appeso a due mani alla coda e reggeva ancora cavezza e collare. Non aveva modo di passarmeli. Tolsi di tasca il nastro, lo avvolsi intorno al collo della pecora e lo annodai. — Fatto — dissi, piantandomi a gambe larghe — può lasciarla.
Il contraccolpo rischiò di sbattermi a terra, e la guida cominciò immediatamente ad allontanarsi da me e dal nastro ben poco resistente, ma Ben stava già mettendole la cavezza. Me la passò da tenere e mise alla pecora il collare, proprio mentre il nastro cedeva con un forte strappo. Ben afferrò la cavezza e insieme trattenemmo la pecora, come due bambini che fanno volare un aquilone. — Ha il collare — ansimò Ben.
Ma il collare era invisibile, sepolto nel folto pelame della guida.
— La tenga ancora un minuto. — Avvolsi sotto il collare i resti del nastro. — La tenga ferma — dissi, facendo un bel nodo a fiocco. — Rosa postmoderno è il colore dell’autunno! — Aggiustai i capi del fiocco. — Ecco fatto, sei proprio una pecora all’ultima moda.
Evidentemente era d’accordo. Smise di dibattersi e rimase immobile. Ben si inginocchiò accanto a me e le tolse la cavezza. — Facciamo una gran bella squadra — disse sorridendomi.
— Davvero — ammisi.
— Bene — disse Flip dal cancello, muovendo su e giù il paletto. — Ora ha un minuto?
Ben roteò gli occhi.
— Sì — risposi ridendo. Mi rialzai. — Ho un minuto. Cosa vuoi che guardi?
Era chiarissimo, ora che la guardavo bene. Si era tinta i capelli — ciuffo, treccine, perfino la peluria sulla parte rasata — di un brillante, bilioso blu Cherenkhov.
— Allora? — disse Flip. — Gli piacerà?
— Non so, Flip. I dentisti hanno la tendenza a essere piuttosto conservatori.
— Lo so! — disse lei, roteando gli occhi. — Per questo li ho tinti di blu. Il blu è conservatore. — Agitò il ciuffo blu. — Lei non mi è di nessun aiuto — concluse, e se ne andò.
Mi girai verso Ben e la guida, che era sempre immobile. — E ora?
Ben si accovacciò accanto alla guida e le prese il muso. — Ti insegneremo cose con bassa soglia di abilità — disse — e tu le insegnerai alle tue amiche. Capito?
La guida ruminò pensierosamente.
— Cosa suggerisce, dottoressa Foster? Scarabeo? Ping-pong? — Si rivolse alla guida. — Ti piacerebbe iniziare una catena di sant’Antonio?
— Penso sarebbe meglio limitarci al premere un pulsante per aprire un contenitore di cibo — dissi. — Come mi ha fatto notare, non sembra molto intelligente.
Ben piegò la testa da un lato, poi dall’altro, e corrugò la fronte. — Assomiglia a Flip. — Mi sorrise. — D’accordo, le insegneremo Trivial Pursuit. Ma prima devo procurarmi un po’ di burro di arachidi. Cura e gestione delle pecore dice che le pecore amano il burro di arachidi. — Si allontanò.
Raddoppiai il nodo al fiocco della guida e mi appoggiai al cancello a guardare le pecore. I movimenti parevano casuali e privi di direzione, come sempre. Le pecore brucavano, muovevano un passo, brucavano di nuovo; e così faceva la guida, distinguibile dalle altre soltanto per il fiocco rosa pallido. Non si faceva notare e non notava niente. Ma nel frattempo guidava le altre.
Strappò un ciuffo d’erba, lo masticò, mosse due passi, guardò con aria assente nel vuoto per un minuto… pensando a cosa? A farsi il piercing al naso? La nuova moda per l’autunno?
— Ah, eccola qui — disse Shirl, arrivando con un fascio di fogli. Pareva arrabbiata. — Non è fidanzata con quel Billy Ray, vero? Perché, se è fidanzata, questo cambia il mio intero… — Si interruppe. — Allora, è fidanzata?
— No. Chi le ha detto che lo ero?
— Flip — rispose Shirl, disgustata. Posò i fogli e si accese una sigaretta. — Ha detto a Sarah che lei si sarebbe sposata e trasferita nel Nevada.
— Wyoming — la corressi. — Ma non mi sposo.
— Bene! — disse Shirl, tirando con enfasi una boccata dalla sigaretta. — Lei è una scienziata di grande talento, con un futuro molto brillante. Con la sua abilità, tante buone cose le capiteranno fra non molto, e lei non ha il diritto di gettarle via.
— Non le getto — dissi, facendo uno sforzo per cambiare argomento. — Voleva vedermi per qualche cosa?
— Sì — disse Shirl, indicando il paddock. — Quando arriva la guida, le metta un segno prima che si confonda con le altre pecore, così sarà sicura di riconoscerla. Ah, domani c’è un meeting di tutto lo staff. — Raccolse il fascio di memo e mi porse un foglio. — Alle due del pomeriggio.
— Oh no, un altro meeting! — dissi.
Shirl spense la sigaretta e se ne andò. Tornai ad appoggiarmi allo steccato e a osservare le pecore. Brucavano pacificamente, la guida in mezzo alle altre, distinguibile solo per il fiocco rosa.
Dovrei spostare in mezzo al paddock il trogolo del cibo, pensai, e controllare i circuiti, così saremo pronti quando Ben torna. Invece mi rimisi al computer, seguii i vettori per un po’ e poi restai a fissare lo schermo, guardando le pecore muoversi con la guida in mezzo, e pensando a Robert Browning e al taglio alla maschietta.
ANELLI DELL’UMORE (1975)
Moda di gioielleria consistente in un anello con una grossa “pietra”, che era in realtà un cristallo liquido sensibile alla temperatura. In teoria, questi anelli dovevano riflettere l’umore di chi li portava e rivelarne i pensieri. Azzurro significava tranquillità; rosso, irritabilità; nero, depressione. Poiché la pietra reagiva in realtà alla temperatura, e dopo poco tempo nemmeno a quella, nessuno otteneva il viola della “beatitudine” senza avere la febbre alta, finché, quando gli anelli diventavano definitivamente neri, tutti sprofondavano nella malinconia e nella disperazione. Soppiantati dalle pietre predilette, che non reagivano a niente.
La guida poteva effettivamente indurre il gregge a fare ciò che voleva lei. Indurre la guida a fare ciò che volevamo noi era tutt’altra faccenda. Ci guardò spalmare burro di arachidi sul pulsante che avrebbe dovuto premere e poi guidò il gregge in un tumultuoso pigia pigia nell’angolo più lontano.
Riprovammo. Ben la blandì offrendole una mela marcia che, secondo Allevare pecore per divertimento e profitto, era una vera leccornia per le pecore, e la guida lo seguì accanto al trogolo. — Brava bambina — disse Ben. Si chinò per darle la mela e quella gli rifilò una sapiente testata nello stomaco, lasciandolo senza fiato.
Allora provammo lattuga vizza e poi broccoli freschi, senza grandi risultati (“Almeno non l’ha presa a testate” dissi a Ben) e per quel giorno lasciammo perdere.
Quando tornai al lavoro il mattino dopo, con una sporta piena di cavoli e di kiwi (Storie di un pastore australiano), trovai Ben che spalmava melassa sul pulsante.
— Bene, c’è stata decisamente una diffusione di informazioni — mi disse. — Stamattina già tre pecore mi hanno preso a testate.
Conducemmo la guida al trogolo, usando il metodo mento-coda-cavezza e una pistola ad acqua suggerita da Cura e gestione delle pecore. — In teoria dovrebbe evitarci le testate — spiegò Ben.
Non evitò un bel niente.
Aiutai Ben a rialzarsi. — Storie di un pastore australiano diceva che solo i montoni danno testate, non le pecore. — Gli spolverai i vestiti. — Questo basta a far perdere fiducia nella letteratura.
— No — disse Ben, massaggiandosi lo stomaco. — Aveva ragione il poeta: “La pecora è animal pericoloso”.
Al quinto tentativo riuscimmo a farle leccare la melassa. Tavolette di cibo tintinnarono nel trogolo. La guida le osservò con interesse per un minuto buono (durante il quale Ben guardò me e incrociò le dita), poi sgroppò e mi colpì con precisione alle caviglie, costringendomi a mollare la cavezza. Allora si tuffò a capofitto nel gregge disperdendo le pecore, una delle quali finì dritta contro una gamba di Ben.
— Guardi il lato bello — dissi, massaggiandomi le caviglie. — Alle due c’è un meeting di tutto lo staff.
Zoppicando Ben recuperò la cavezza, che si era staccata. — Il burro di arachidi dovrebbe piacere alle pecore.
Alla guida non piaceva il burro di arachidi né il sedano né che noi pestassimo i piedi per incoraggiarla. Le piaceva imbizzarrirsi invece, rinculare e cercare di togliersi il collare. Quando mancava un quarto all’una, Ben guardò l’orologio e disse: — È quasi ora del meeting. — Non obiettai nemmeno.
Salii zoppicando al laboratorio di statistica, mi diedi una sciacquata per togliermi di dosso lanolina e terriccio e salii al meeting, con la speranza che Grancapo considerasse il mio aspetto un genuino sforzo di vestire casual.
Sarah mi incrociò sulla porta della sala mensa.
— Non è fantastico? — disse, mettendomi sotto il naso la mano sinistra. — Ted mi ha chiesto di sposarlo!
Quel Ted riluttante a lasciarsi coinvolgere?, pensai. Quello che aveva gravi problemi affettivi e che nell’intimo era un bambino cattivo?
— Siamo stati a fare un’arrampicata sul ghiaccio, e lui ha piantato il chiodo e ha detto: “Ecco, so che l’aspettavi” e mi ha dato l’anello. Non me lo sono nemmeno fatto. Era così romantico! Gina, guarda! — riprese, avanzando a passo di carica verso la vittima seguente. — Non è fantastico?
Entrai nella sala mensa. Grancapo era in piedi in fondo alla sala, vicino a Flip. Portava jeans con la piega. Flip portava calzoni da toreador blu Cerenkhov e un cappello floscio calato sulle orecchie. Tutt’e due avevano T-shirt con le lettere GAGS sul petto.
— Oh, no! — mormorai, chiedendomi quali sarebbero state le conseguenze per il nostro progetto. — Un altro acronimo!
— Gestione per Avanzamento Gerarchico Sistematizzato — disse Ben, sistemandosi sulla sedia accanto a me. — È il tipo di gestione in uso nel nove per cento delle compagnie i cui scienziati hanno vinto il Niebnitz Grant.
— Ossia quante?
— Una. E lo usava solo da tre giorni.
— Significa che dovremo rifare domanda per il finanziamento del nostro progetto?
Ben scosse la testa. — Ho chiesto a Shirl. Non hanno ancora fatto stampare i nuovi moduli di finanziamento.
— Oggi abbiamo in agenda un mucchio di cose — esordì Grancapo. — Per cui cominciamo. Primo, ci sono stati alcuni problemi con l’Economato, e per rimediare abbiamo creato un nuovo modulo di approvvigionamento rapido. Il direttore agevolazione messaggi interdipartimentali… — con un cenno indicò Flip, che reggeva una massiccia pila di fascicoli — li distribuirà.
— Il direttore agevolazione messaggi interdipartimentali? — borbottai.
— Si accontenti che non l’abbiamo fatta vicepresidente.
— Secondo — disse Grancapo — vorrei comunicarvi alcune eccellenti notizie relative al Niebnitz Grant. La dottoressa Alicia Turnbull ha lavorato con noi su una strategia che implementeremo oggi. Ma prima, ciascuno di voi scelga un partner…
Ben mi afferrò la mano.
— …e si alzi, mettendosi di fronte a lui o a lei.
Ci alzammo. Alzai le mani, palme in fuori. — Se dobbiamo dire tre cose che ci piacciono sulle pecore, me ne vado.
— Bene, HiTekiani — disse Grancapo — ora voglio che ciascuno abbracci stretto il partner.
— La prossima grande moda alla HiTek saranno le molestie sessuali — dissi, e Ben mi prese tra le braccia.
— Su, su, non tutti partecipano — disse Grancapo. — Un bell’abbraccio!
Le braccia di Ben, nelle maniche di plaid sbiadito, mi attirarono più vicino e mi strinsero. Misi le mani attorno al collo di Ben. Il cuore cominciò a battermi forte.
— Un abbraccio vuol dire: “Grazie di lavorare con me” — proseguì Grancapo. — Un abbraccio vuol dire: “Apprezzo la tua essenza individuale”.
Avevo la guancia contro l’orecchio di Ben. Ben odorava lievemente di pecora. Sentivo il suo cuore battere forte, il calore del suo alito sul mio collo. Trattenni il respiro.
— Adesso, HiTekiani — disse Grancapo — voglio che ciascuno guardi il partner… sempre abbracciandolo, non lasciatelo andare… e gli o le dica quanto sia importante per lei o lui.
Ben alzò la testa, sfiorandomi con le labbra i capelli, e mi guardò. I suoi occhi grigi dietro le lenti erano seri.
— Io… — dissi, sottraendomi di scatto all’abbraccio.
— Dove va? — disse Ben.
— Devo… Ho appena pensato una cosa che si collega alla mia teoria sul taglio alla maschietta — dissi affannosamente. — Devo inserirlo nel computer prima che mi passi di mente. Sulle maratone di ballo.
— Aspetti. — Mi afferrò per la mano. — Pensavo che le maratone di ballo risalissero solo agli anni Trenta.
— Vennero di moda nel 1927. — Mi divincolai.
— Ma sempre dopo la moda dei capelli alla maschietta, no? — disse Ben. Ormai però ero fuori, su per le scale.
SERTI DI CAPELLI (1870 – 90)
Moda vittoriana di artigianato macabro, secondo la quale i capelli di una persona amata defunta erano confezionati come fossero fiori. I capelli (ottenuti in un modo o nell’altro) venivano intrecciati per farne bouquet e serti, e sistemati sotto una cupola di vetro oppure incorniciati e appesi alla parete. Soppiantata dal movimento per il diritto di voto, dal croquet e da Elinor Glyn. La moda dei serti di capelli può aver contribuito alla moda del taglio alla maschietta degli anni Venti.
Importanti conquiste scientifiche sono state avviate da ogni sorta di cose — mele, zampe di rana, lastre fotografiche, fringuelli — ma la mia è di sicuro l’unica che sia stata avviata da uno degli stupidi esercizi di sensitività di Grancapo.
Non mi fermai finché non fui nel laboratorio di statistica. Mi strinsi nelle braccia e mi appoggiai alla porta, ansimando e ripetendomi: — Stupida, stupida, stupida.
In teoria ero una grande esperta nell’individuare mode, ma avevo impiegato settimane per capire dove questa mi portava. Per tutto il tempo avevo pensato di essere interessata solo alla sua immunità alle mode. Avevo preso appunti sulle sue scarpe di tela e sulle sue cravatte. Avevo perfino preso in seria considerazione la proposta di Billy Ray. E per tutto il tempo…
Qualcuno percorreva il corridoio. Mi affrettai a sedermi al computer, richiamai un file e fissai lo schermo senza vederlo.
— Sei impegnata? — disse Gina, entrando.
— Sì.
— Oh. — La sua espressione diceva chiaramente: “Non sembri impegnata”. — Non riuscivo a trovarti, dopo il meeting. Ho fatto un bagno-break proprio prima che iniziasse l’esercizio di sensitività. Quando sono tornata eri sparita. Volevo solo darti l’elenco dei negozi di giocattoli che ho già provato, così non perdi tempo.
— Giusto. Farò il giro questa settimana.
— Oh, non c’è fretta. Il compleanno di Bethany è fra due settimane, ma mi innervosisce il fatto che neppure Toys-R-Us aveva quella Barbie. La madre di Chelsea ha trovato da Toys-R-Us quella per Brittany e ha detto che era l’unico negozio ad averla. — Corrugò la fronte. — Stai bene? Sembri una che sia stata mandata in camera per un ritiro.
Un ritiro. Devi solo startene lì tranquilla, signorina, finché non hai il controllo dei tuoi sentimenti.
— Sto benissimo — risposi. — Avrei dovuto seguire il tuo consiglio e fare anch’io un bagno-break, ecco tutto.
Gina annuì. — Gli esercizi di sensitività ti distruggono. Bene, ti lascio lavorare. — Mi diede un colpetto sulla spalla.
— Ti troverò Barbie Sposa Romantica, non preoccuparti. Te la troverò io. — Cominciai a frugare alla cieca in una pila di ritagli.
Appena Gina fu uscita, chiusi la porta, tornai a sedermi al computer e fissai lo schermo.
Il file che avevo aperto conteneva il modello grafico del taglio alla maschietta. Era lì sullo schermo, con le sue linee colorate che si intersecavano e con quel raggruppamento anomalo a Marydale, Ohio, simile a un rimprovero.
Come potevo sperare di capire che cosa avesse spinto le donne a tagliarsi i capelli settant’anni prima se non capivo neppure che cosa spingeva me?
Non avevo avuto neanche un preavviso. Finché Ben non mi aveva messo le braccia al collo e mi aveva attirato a sé, avevo pensato in tutta onestà di aver cercato di salvare il suo progetto perché non potevo più sopportare Flip. Avevo perfino pensato che il motivo per cui ero irritata con Alicia fosse il suo tentativo di produrre scienza a comando. E per tutto il tempo…
Sentii un rumore nel corridoio e allungai le mani sulla tastiera. Dovevo sembrare impegnata, così nessun altro sarebbe venuto a disturbarmi.
Fissai il modello e gli schemi che si intersecavano, le curve che si incrociavano, ogni evento che entrava in collisione con ogni altro, e portava inevitabilmente a un risultato.
Come il mio fallimento. E forse ciò che avrei dovuto fare in quel momento era proprio rappresentare il mio fallimento, mettere in un grafico gli eventi e le interazioni che mi avevano portato a quella situazione critica. Richiamai il programma di pittura e tentai di ricostruire in un nuovo file l’intera débâcle.
Avevo preso in prestito le pecore di Billy Ray. No, tutto era iniziato prima, con Grancapo e il GRIM. Grancapo aveva ordinato un nuovo modulo per finanziamenti e quello di Ben era andato perso, e io avevo proposto di unire i nostri due progetti. E Grancapo aveva approvato, perché voleva che uno scienziato della HiTek vincesse il Niebnitz Grant.
Cominciai a tracciare le linee di collegamento, dai meeting ai moduli e a Shirl, la nuova assistente che mi aveva portato quella copia extra delle pagine mancanti che io avevo portato giù a Ben, fino ad Alicia, che voleva collaborare con Bennett per vincere un Niebnitz. E all’indietro, tracciai le linee fino a Grancapo e al GRIM. E a Flip.
— Ha lasciato il meeting in anticipo — disse Flip in tono di rimprovero, aprendo la porta. Portava ancora il cappello calato sulle orecchie, ma si era tolta la T-shirt GAGS e portava un abito trasparente sopra una tuta molto attillata che pareva fatta di nastro adesivo blu Cerenkhov.
— Non ha avuto il nuovo modulo di approvvigionamento rapido — continuò, e mi porse un fascicolo. — E io volevo farle una domanda.
— Sono occupata, Flip.
— Ci vuole solo un minuto! Lo so, è ancora arrabbiata perché ho risposto all’annuncio, ma lei è l’unica a cui posso rivolgermi. Desiderata e Shirl sono proprio arrabbiate con me.
“Chissà mai perché?” pensai. — Sono davvero occupata, Flip.
— Basta un minuto. — Avvicinò al computer uno sgabello e vi si appollaiò. — Fino a che punto si può arrivare, quando si è realmente sbilanciati verso qualcuno?
Proprio ciò che ci voleva, per me: discutere la vita sessuale di una persona col piercing al naso e la biancheria di nastro adesivo.
— Voglio dire, se pensa di non rivederlo mai più è stupido fare una cosa davvero zarra?
Ero stata io a convincere Ben a unire i nostri progetti. A prendere in prestito un gregge. Stupida, stupida, stupida.
— Si tratta dei miei capelli — continuò Flip, e si tolse il cappello. — Li ho tagliati.
Ah, certo, li aveva tagliati. Le arrivavano a un centimetro dal cuoio capelluto tinto di blu. Per un istante pensai che avesse avuto lo stesso problema di Desiderata col nastro adesivo, ma si era tagliata anche il ciuffo ondeggiante. Pareva un pulcino spelacchiato e livido per il freddo.
Provai un moto improvviso di simpatia per lei, che si era innamorata, fra tutte le persone possibili, di un dentista che non sapeva della sua esistenza e che probabilmente era già fidanzato.
— Così mi sono chiesta — continuò — se va bene così o se devo aggiungerne ancora. — Mi mostrò la tempia destra, proprio sotto la zona rasata.
— Di cosa? — domandai debolmente.
Flip sospirò. — Di nastro adesivo, naturalmente. Naturalmente.
— Penso che dipenderà da come ti farai crescere i capelli — dissi, augurandomi che lo facesse.
Doveva aver deciso così, perché si rimise il cappello e disse: — Allora pensa di no, eh? Pensa che è stupido?
Evidentemente non si aspettava una risposta, perché stava già per andarsene.
— Flip, mi faresti un favore? Andresti giù a Biologia a dire al dottor O’Reilly che uscirò presto e che gli parlerò domani?
— Biologia è dall’altra parte dell’edificio — disse Flip, irritata. — Comunque non credo che è laggiù. Quando ho lasciato il meeting, parlava con la dottoressa Turnbull. Come sempre. Scommetto che voleva avere lei come partner per quella faccenda dell’abbraccio.
— Sono proprio occupata, Flip. — Cominciai a battere sulla tastiera per dimostrarglielo. Flip. Era tutta colpa di Flip. Era stata lei a perdere il modulo di finanziamento di Bennett e a rubare i miei annunci personali, il motivo per cui mi ero trovata nella stanza delle fotocopie quando vi era entrato Bennett.
— Sa che la dottoressa Patton si è fidanzata? — chiese Flip, per fare conversazione. — Con quel tipo che non voleva sentire parlare di matrimonio.
— Sì.
— Scommetto che il dottor O’Reilly e la dottoressa Turnbull presto si sposeranno.
Continuai caparbiamente a battere sui tasti finché Flip si annoiò e si allontanò, ma non mi fermai. Non scherzavo, quando pensavo che quel casino fosse colpa di Flip. Non aveva solo perduto il modulo di finanziamento e rubato gli annunci personali. Se, tanto per cominciare, non avesse consegnato a me il pacchetto della Turnbull, non avrei conosciuto Ben. Non ero mai scesa a Biologia.
Continuai ad aggiungere linee, seguendo gli eventi interconnessi. Flip aveva buttato via il mio lavoro di ricerca di sei settimane e mi aveva preso la cucitrice. E aveva saltato alcune pagine del modulo di finanziamento. Avevo dovuto portare a Ben le pagine mancanti. Le impronte delle sue Mary Jane e dei suoi zoccoletti erano da tutte le parti.
Flip era una sorta di lago. O una sorta di malefico angelo custode. “Sempre lì, accanto a te, dovunque tu vada” diceva Angeli, angeli dappertutto. Ed era vero. Flip era dappertutto, come una terribile anti-Pippa, vagava sotto le finestre di gente che non sospettava nulla, e dovunque andasse, provocava il caos.
Aggiunsi altre linee. Flip che alzava la mano e otteneva l’assistente, Flip che diffondeva la campagna antifumo che mi aveva indotto a suggerire il paddock a Shirl, che ci aveva parlato della pecora guida. Flip che mi aveva fatto sentire depressa quel giorno a Boulder. Se lei non avesse detto di sentire una sorta di prurito, non sarei mai uscita con Billy Ray, non avrei mai saputo che le Targhee erano pecore e non mi sarei mai fatta venire l’idea di chiederle in prestito.
E Ben sarebbe stato lontano, da qualche parte in Francia, a studiare la teoria del caos, pensai cupamente. Sapevo che niente di tutto questo era colpa di Flip. Ero stata io a inventare scuse per vedere Ben, per parlare con lui, da quel primo giorno in cui l’avevo seguito fuori nella veranda.
Flip non era la causa. Forse aveva fatto precipitare gli eventi, ma il risultato era colpa mia. Avevo seguito la moda più antica di tutte, fin giù nel precipizio.
Flip era tornata e guardava con interesse da sopra la mia spalla.
— Sono ancora occupata, Flip.
Lei scosse il ciuffo ormai inesistente. — Il dottor O’Reilly se n’è già andato. Scommetto che aveva un appuntamento con la dottoressa Turnbull.
Uno spettrale angelo custode di cui era impossibile liberarsi. — Non hai un altro posto dove andare?
— Sono venuta apposta per dirglielo. Arrivederci.
Se ne andò. Meditai sulla schermata, chiedendomi come rappresentare graficamente quel piccolo incontro, ma Flip era di nuovo lì.
— Ci sono cappelli nel Texas? — domandò.
— Quelli da cowboy.
Flip se ne andò di nuovo, stavolta definitivamente. Aggiunsi altre linee al mio diagramma e poi rimasi a fissare le regressioni che si incrociavano.
— Sono le sette — disse Gina, mettendo dentro la testa. Aveva già il cappotto. — Ora puoi uscire dal ritiro.
Sorrisi. — Grazie, mammina.
Ma restai nel laboratorio. Quando fui sicura che tutti erano andati via, scesi al paddock e mi sedetti sul cancello a guardare le pecore che si spostavano, brucavano e si spostavano di nuovo, belando di tanto in tanto, spinte da una guida di cui non si accorgevano e da istinti che non sapevano di avere.
KEWPIES (1909 – 15)
Moda di bambole ispirate da poesie illustrate del Ladies’ Home Journal. Le bambole Kewpie avevano l’aspetto di cherubini dalle guance rosee, con sederini tondi e un ricciolo biondo sulla testa. Incredibilmente popolari fra donne adulte e ragazzine, le Kewpie comparvero anche come bambole di carta, saliere, cartoline d’auguri, decorazioni per torte nuziali e premi alle sagre paesane.
Nei due giorni seguenti mi tenni lontana da Ben e dal suo laboratorio; misi in ordine il mio e inserii tonnellate di dati sul Mah-jong e sulla traversata dell’Atlantico di Lindbergh.
Ti comporti in maniera ridicola, dissi a me stessa giovedì, non sei una bambina come Peyton. Un giorno o l’altro dovrai pur vederlo. Fai la persona adulta.
Quando scesi al laboratorio di Ben trovai Alicia, appoggiata al cancello. Ben teneva la pecora guida per il nastro rosa postmoderno e spiegava il principio della struttura di attenzione. Aveva una cravatta blu.
— Questo ha possibilità reali — disse Alicia. — Il trentuno per cento di tutti i progetti ai quali i vincitori del Niebnitz lavoravano al tempo del premio riguardava collaborazioni interdisciplinari. Il trucco sta nell’avere la giusta collaborazione. Il comitato cerca chiaramente un equilibrio fra maschi e femmine, cosa che per te va bene, ma la teoria del caos e la statistica sono tutt’e due basate sulla matematica. Ti serve una biologa.
— Avete bisogno di me? — dissi.
Tutt’e due alzarono gli occhi.
— Altrimenti ho da fare alcune ricerche in biblioteca.
— No, faccia pure — disse Ben. — Stamattina la guida non è dell’idea di apprendere qualcosa. — Si massaggiò le ginocchia. — Mi ha preso a testate già due volte. Mentre è in biblioteca, veda se hanno qualcosa su come indurre un leader a seguire.
— Guarderò. — Uscii nel corridoio.
— Aspetti — disse Ben raggiungendomi. — Volevo parlarle. Ha avuto successo con la faccenda delle maratone di ballo?
Sì, pensai guardandolo con aria triste. Un gran successo. — No — risposi. — Credevo che ci fosse un collegamento, ma non c’era. — E andai a Boulder a cercare Barbie Sposa Romantica.
Gina mi aveva dato un elenco di negozi di giocattoli: aveva cancellato quelli già visitati e non ne restavano poi tanti. Iniziai dal primo, decisa a passarli in rassegna tutti, uno dopo l’altro, con ordine.
Avevo creduto di capire la moda Barbie: neppure la festa di compleanno di Brittany mi aveva preparato a quello che trovai.
C’erano Elegantissima Barbie, Barbie Ballo in Costume, Barbie Angelo, Barbie Girasole e perfino una Barbie a Sorpresa, il cui petto di plastica si apriva per dispensare fard e rossetto per le labbra. C’erano Barbie multiculturali, Barbie che si illuminavano, Barbie telecomandate, Barbie i cui capelli potevano essere tagliati alla maschietta.
Barbie aveva una Porsche, una Jaguar, una Corvette, una Mustang, un motoscafo da competizione, un caravan e un cavallo. Anche un istituto di bellezza, un frigo dei divertimenti, una stazione termale e un McDonald’s. Per non parlare degli scrigni di gioielli, cestini da pranzo, tapis-roulants da allenamento, audio e videocassette e smalto rosa per unghie.
Ma niente Barbie Sposa Romantica. Il Toy Palace aveva Barbie Sposa Contadina, con una sciarpa di percalle a quadretti rosa e un bouquet di margherite. Il Toys-R-Us aveva Barbie Nozze di Sogno e Barbie Fantasia Nuziale, che presi in seria considerazione malgrado le istruzioni di Gina.
Il Cabbage Patch aveva quattro intere scaffalature di Barbie e una commessa con una i timbrata sulla fronte. — Abbiamo la Barbie Troll — mi rispose quando le domandai una Barbie Sposa Romantica. — E la Barbie Pocahontas.
Visitai quattro negozi di giocattoli e tre discount; poi andai al Caffè Krakatoa per dare un’occhiata ai piccoli annunci, nel caso ci fosse qualche Barbie in offerta.
Ora quel caffè si chiamava Kepler’s Quark: brutto segno.
— Ho già capito, non avete più il caffellatte — dissi al cameriere in pullover nero a collo alto, jeans neri e occhiali da sole.
— La caffeina fa male — disse lui porgendomi il menu, che ora contava dieci pagine. — Suggerirei uno smart drink.
— Non è un ossimoro, pensare che una bevanda possa accrescere il quoziente d’intelligenza?
Lui scrollò la testa, mostrando una i sulla fronte.
Naturalmente.
— Gli smart drink sono bevande analcoliche con neurotrasmettitori per aumentare la memoria e l’attenzione e per migliorare le funzioni cerebrali — spiegò. — Suggerirei il Brain Blast, che accresce le capacità matematiche, oppure il Get Up and Van Gogh, che migliora l’abilità artistica.
— Prendo un Reality Check — dissi, augurandomi che migliorasse la mia abilità di affrontare i fatti.
Provai a leggere gli annunci personali, ma erano troppo deprimenti: “Alla bionda che fa colazione ogni giorno al Jane’s Java Joint, non mi conosci ma sono disperatamente innamorato di te. Per favore, rispondi”.
Passai agli articoli.
Un terapeuta della scuola del “legame armonico” offriva allineamenti spirituali con nastro adesivo. A New York due uomini erano stati arrestati perché gestivano una nuova moda, un “ritrovo clandestino per fumatori”. La moda del rosa postmoderno si era esaurita. Uno stilista dichiarava: “Non c’è spiegazione per il gusto del pubblico”.
Parole sacrosante, pensai, ed era tempo che affrontassi anche questo. Non avrei mai scoperto l’origine del taglio alla maschietta, per quanti dati inserissi nel mio modello computerizzato e quante linee colorate tracciassi.
Perché quella moda non aveva niente a che fare col diritto di voto o con la Prima guerra mondiale o con qualsiasi altra cosa. E anche se avessi potuto chiedere a Bernice e a Irene e alle altre perché si erano tagliate i capelli, sarebbe stato inutile: non avrebbero saputo rispondermi.
Erano cieche come ero stata io, mosse da sentimenti di cui non si rendevano conto, da forze che non capivano. Spinte dritto nel fiume.
Arrivò il mio smart drink. Era color verde chartreuse, una tinta che era stata di moda nei tardi anni Venti. — Cosa c’è dentro? — domandai.
Il cameriere sospirò profondamente, come un personaggio di Dostoevskij. — Tirosina, L-fenilalanina e cofattori sinergici — disse. — E succo di ananas.
Lo assaggiai. Non mi sentii più intelligente di prima. — Perché si è marchiato la fronte?
Evidentemente non aveva ancora bevuto il suo smart drink. Mi fissò con aria assente.
— Quella i — dissi, indicandola. — Perché si è deciso a farsi marchiare?
— Tutti ce l’hanno — rispose, e si allontanò con andatura dinoccolata.
Mi domandai se si fosse fatto marchiare per compiacere la propria amica o per ribellione contro l’anti-intellettualismo o contro i genitori, oppure per amore di una ragazza che non conosceva nemmeno.
Sorseggiai il drink e continuai a leggere. Non mi sentii più intelligente. La casa editrice Bantam Books aveva pagato un anticipo a otto cifre per Prendi contatto con la tua fata madrina interiore. Il blu Cerenkhov era il colore “giusto/di moda” per l’inverno; a Los Angeles uomini e donne fumavano il sigaro, ispirati da Rush Limbaugh o David Letterman o da forze che non capivano. Come pecore. Come topi.
Niente di tutto questo risolveva il problema di come avrei continuato a lavorare con Bennett. Né quello di Barbie Sposa Romantica.
Andai in biblioteca e presi in prestito Anna Karenina e Cyrano de Bergerac; poi presi dal reparto consultazione la guida telefonica di Denver e copiai l’indirizzo di tutti i negozi di giocattoli che non comparivano nell’elenco di Gina e di tutti i grandi magazzini e dei discount; spiegai al clone di Flip che avevo già pagato la multa per le Opere complete di Browning e ripresi il giro, spuntando man mano i negozi dall’elenco.
Alla fine, in un supermercato Target di Aurora Street, trovai Barbie Sposa Romantica (la scatola era rimasta nascosta dietro la Scuderia di Barbie) e la portai alla cassa.
La commessa tentò di dare il resto all’uomo davanti a me.
— Diciotto e settantotto — disse.
— Lo so! — sbuffò l’uomo. — Le ho dato un biglietto da venti dollari e poi, quando lei ha battuto 18,78, le ho dato tre cents. Mi deve un dollaro e un quarto.
La commessa agitò con irritazione la testa, mettendo in mostra una i.
Rinuncia, mio caro, pensai; è inutile.
— Il registratore dice 1,22 — osservò la commessa.
— Lo so! — disse l’uomo. — Per questo le ho dato i tre cents. Ventidue più tre fa un quarto.
— Un quarto di cosa?
Posai sul banco Barbie Sposa Romantica. Lessi i titoli del tabloid e guardai gli oggetti che la gente acquista per impulso, sistemati nell’espositore accanto alla cassa. Nastro adesivo industriale in rotoli di varie altezze e confezioni di tacchi alti per Barbie in colori assortiti.
— D’accordo, va bene — disse l’uomo. — Mi renda i tre cents e mi dia il dollaro e ventidue.
Presi una confezione di tacchi alti. NUOVI! BLU CERENKHOV! c’era scritto. La posai accanto al nastro adesivo e, nel farlo, provai una bizzarra sensazione, come se fossi sull’orlo di una cosa importante, come quando l’ultima faccia del cubo di Rubik va a posto.
— Non c’è il prezzo — disse la cassiera. Teneva in mano Barbie Sposa Romantica. — Non posso vendere niente se manca il prezzo.
— Trentotto e novantanove — dichiarai. — Il direttore ha detto di batterlo sotto Miscellanea.
— Oh — disse lei, e batté il prezzo.
Ecco una moda che potrebbe finire per piacermi, pensai sorridendo. Donna avvisata, mezza salvata.
— Fa quarantuno e trentatré.
Lì ferma, portafoglio in mano, guardai le scatole di matite colorate e cercai di catturare la sensazione che avevo appena avuto. Qualcosa sul blu Cerenkhov e il nastro adesivo o…
— Quarantuno e trentatré — ripeté la cassiera.
Contai con cura banconote e monete e me ne andai con la Barbie Sposa Romantica. Nell’uscire pestai qualcosa. Un cent. Più avanti ne vidi altri due. Parevano gettati via con rabbia.
PROIBIZIONISMO (1895 – 16 GENNAIO 1920)
Moda di avversione all’alcol, alimentata dalla Women’s Chrìstian Temperance Union, dalla distruzione dei saloon a opera di Carry Nation e dai tristi effetti dell’alcolismo. Gli scolari erano esortati a “firmare l’impegno” e le donne a giurare di non toccare labbra che avessero toccato liquori. Il movimento trovò impulso e sostegno politico fino ai primi anni del Novecento (i politici brindavano con bicchieri d’acqua, e vari stati votarono la proibizione degli alcolici) e culminò nel Volstead Act. La moda si esaurì non appena fu emanata la legge sul Proibizionismo. Sostituita dal contrabbando di alcolici, dagli spacci clandestini, dai liquori fatti in casa, dalle fiaschette da tasca, dal crimine organizzato e dall’Abrogazione.
Gina non riusciva a credere che avessi trovato Barbie Sposa Romantica. Mi abbracciò due volte. — Sei una santa! Sai fare i miracoli!
— Non proprio — dissi, cercando di sorridere. — Pare che non abbia fortuna nel trovare l’origine del taglio alla maschietta.
— A proposito — disse Gina, rimirando Barbie Sposa Romantica — poco fa il dottor O’Reilly è salito a cercarti. Pareva preoccupato.
Cos’altro aveva perduto, Flip? La pecora guida? Mi avviai a Biologia. A metà strada incontrai Ben, che mi prese per il braccio. — Dovevamo essere nell’ufficio di Grancapo dieci minuti fa!
— Perché? Cos’è successo? — Cercai di stargli al passo. — Siamo nei guai?
Be’, naturalmente eravamo nei guai. Input di staff o no, l’unica volta che qualcuno vedeva l’interno dell’ufficio di Grancapo era quando veniva trasferito all’Economato. O quando gli tagliavano i finanziamenti.
— Speriamo che non siano gli attivisti per i diritti degli animali — disse Ben, fermandosi davanti alla porta di Grancapo. — Pensa che avrei dovuto mettere la giacca?
— No — risposi, ricordando le sue giacche. — Forse si tratta solo di una sciocchezza. Forse non ci siamo vestiti abbastanza casual.
La segretaria nell’anticamera ci disse di entrare subito. — Non è una sciocchezza — bisbigliò Ben. Allungò la mano verso la maniglia.
— Forse non siamo nei guai — dissi. — Forse Grancapo vuole farci un encomio per cooperazione interdisciplinare.
Ben aprì la porta. Grancapo, a braccia conserte, era in piedi dietro la scrivania.
— Non credo proprio — bisbigliò Ben. Entrammo.
Grancapo ci disse di sederci, altro brutto segno. Uno degli Otto Miglioratori di Efficienza del GAGS era: “Tenere meeting in piedi favorisce la concisione”.
Ci sedemmo.
Grancapo rimase in piedi. — È giunta alla mia attenzione una faccenda estremamente seria che riguarda voi e il vostro progetto.
Gli animalisti, pensai; e mi preparai per ciò che avrebbe detto.
— L’aiuto agevolazione messaggi interdipartimentali è stata vista fumare nell’area del complesso animali. Sostiene di avere avuto il permesso. È vero?
Fumare. La faccenda riguardava Shirl e le sue sigarette.
— Chi le ha dato il permesso? — domandò Grancapo.
— Io — dicemmo insieme.
— L’idea è stata mia — soggiunsi. — Ho chiesto al dottor O’Reilly se per lui andava bene.
— Sapete che nell’edificio della HiTek non si fuma?
— Era all’esterno — dissi, e poi ricordai Berkeley e il divieto di fumare anche all’aperto. — Non mi pareva giusto che dovesse stare fuori sotto la neve per fumare una sigaretta.
— Nemmeno a me — disse Ben. — Non fumava all’interno. Solo nel paddock.
Grancapo divenne ancora più torvo. — Conoscete la linea di condotta della HiTek riguardo alla ricerca su animali viventi?
— Sì — disse Ben, confuso. — Abbiamo seguito…
— Si richiede che gli animali viventi abbiano un ambiente salutare — disse Grancapo. — Siete consapevoli dei pericoli dei carcinogeni atmosferici, del rapporto della Sanità sui rischi del fumo passivo? Può provocare cancro ai polmoni, enfisema, pressione alta e infarto.
Ben parve ancora più confuso. — Non fumava vicino a noi e si trovava fuori…
— Si richiede che gli animali abbiano un ambiente salutare — disse Grancapo. — Definite il fumo salutare?
Mai sottovalutare il potere di una moda d’avversione, pensai; l’ultima in questo paese portò ad accuse generalizzate di tendenze comuniste, reputazioni rovinate e carriere distrutte.
— “…corsero i topi fuori delle case” — mormorai.
— Prego? — disse Grancapo, guardandomi storto.
— Niente, niente.
— Conoscete gli effetti del fumo passivo sulle pecore? — disse Grancapo.
No, pensai, e tu neppure; stai solo seguendo il gregge.
— La vostra sfacciata mancanza di riguardo per la salute delle pecore ha chiaramente precluso ogni possibilità che il progetto fosse preso in seria considerazione come concorrente al premio.
— Quella donna ha fumato solo una sigaretta al giorno — disse Ben. — Il recinto dove si trovano le pecore misura cento piedi per ottanta. La densità di fumo di una sola sigaretta sarebbe minore di una parte per miliardo.
Lasci perdere, Ben, pensai. Le mode di avversione non hanno niente a che vedere con la logica scientifica, e la nostra colpa non riguarda la semplice esposizione di pecore al fumo passivo: la HiTek ritiene che abbiamo messo a repentaglio le sue possibilità di vincere ciò che più desidera, il Niebnitz Grant.
Guardai Grancapo. La HiTek sta davvero per licenziare qualcuno, pensai, e quel qualcuno siamo noi.
Sbagliavo.
— Dottoressa Foster, è stata lei a ottenere le pecore, vero?
— Sì — risposi, resistendo all’impulso di aggiungere: “Signore”. — Dal proprietario di un ranch nel Wyoming.
— E questo proprietario è consapevole che lei intendeva esporre le pecore a pericolosi carcinogeni?
— No, ma non farà obiezioni — dissi, e subito ricordai il budino di pane. Non avevo mai chiesto a Billy Ray le sue opinioni sul fumo, ma sapevo quali erano: quelle di tutti gli altri.
— Se ricordo bene, anche questo progetto era un’idea sua, dottoressa Foster — disse Grancapo. — È stata sua l’idea di usare delle pecore, malgrado le obiezioni della Direzione.
— La dottoressa Foster cercava solo di aiutarmi a salvare il mio progetto — intervenne Ben, ma Grancapo non ascoltava.
— Dottor O’Reilly — disse — è chiaro che questa sfortunata situazione non è colpa sua. Il progetto dovrà essere interrotto, purtroppo, ma la dottoressa Turnbull ha bisogno di un collega per il progetto al quale lavora e ha richiesto specificamente lei.
— Quale progetto? — disse Ben.
— Non è stato ancora deciso. La dottoressa sta esaminando diverse possibilità. In ogni caso, sono sicuro che si tratterà di un eccellente progetto. Pensiamo che abbia un 75% di possibilità di vincere il Niebnitz Grant. — Si rivolse a me. — Dottoressa Foster, la ritengo responsabile dell’immediata restituzione delle pecore al loro proprietario.
Entrò la segretaria. — Mi spiace interromperla, signor…
— Una nota di ammonimento sarà inserita nel suo dossier, dottoressa Foster — continuò Grancapo, senza badare alla segretaria — e verrà fatta una seria revisione del suo progetto in occasione della prossima assegnazione di finanziamenti. Nel frattempo…
— Signore, è indispensabile che venga fuori — disse la segretaria.
— Sono in riunione — replicò Grancapo. — Voglio un rapporto completo con i particolari dei suoi progressi nella ricerca sulle mode — disse a me.
— Un momento — intervenne Ben. — La dottoressa Foster voleva solo…
La segretaria disse: — Mi scusi, signore…
— Cosa c’è, signora Shepard?
— Le pecore…
— Il proprietario ha telefonato per lamentarsi? — disse Grancapo, squadrandomi con astio.
— No, signore. Si tratta proprio delle pecore. Sono nel corridoio.