PARTE SECONDA Gorgoglii

L’umanità, naturalmente, è sempre stata e sempre sarà sotto il giogo delle farfalle per ciò che riguarda riti sociali, abiti, divertimento e la spesa che queste cose comportano.

HUGH SHETFIELD, Il potere supremo della società, 1909

MINIGOLF (1927 – 1931)

Moda di gioco consistente in piccoli percorsi di golf a diciotto buche molto ravvicinate, complicati da mulini, cascatelle e minuscole trappole di sabbia. La sua popolarità aveva facile spiegazione: il minigolf era un luogo a buon mercato per un appuntamento amoroso durante la Depressione, aveva una bassa soglia di abilità e livelli multipli di risultati positivi, consentiva di fingere per un paio d’ore di appartenere al raffinato mondo del country-club. Più di quarantamila minigolf spuntarono in tutto il paese: al suo culmine, la moda era così popolare da fare concorrenza ai film, per cui le case cinematografiche vietarono ai propri attori di giocare a minigolf in pubblico. La moda morì di sovraesposizione.


Neanche le sorgenti del Colorado sembrano sorgenti. Si trovano in una distesa di ghiacciai sui monti Green River, in mezzo a tundra, neve e rocce.

Ma perfino nel cuore dell’inverno c’è un certo scioglimento del ghiaccio, una goccia qui, un rivolo là, un sottile velo d’acqua che si forma ai bordi sudici del ghiacciaio e si riversa sul terreno gelato. Cade e gela, si accumula e riunisce, così lentamente da risultare invisibile.

La ricerca scientifica è simile anche a questo. Gli “Eureka!”, come quello che gridò Archimede quando entrò nella vasca da bagno e intuì all’improvviso la risposta al problema di testare la densità dei metalli, sono pochi e molto distanziati nel tempo; nella maggior parte dei casi, si tratta solo di fare tentativi, constatare l’insuccesso, tentare altre vie, inserire nuovi dati, eliminare variabili ed esaminare con attenzione i risultati per capire dove era stato commesso l’errore.

Arno Penzias e Robert Wilson, per esempio. Si proponevano di misurare l’intensità assoluta di segnali radio provenienti dallo spazio, ma prima dovevano eliminare il rumore di fondo del loro rivelatore. Trasferirono in campagna il rivelatore per sfuggire al frastuono della città, alle stazioni radar e al brusio atmosferico, e ottennero un miglioramento, ma il rumore di fondo persisteva. Cercarono di immaginare quale fosse la causa. Uccelli? Salirono sul tetto ed esaminarono l’antenna a corno. Ah, ecco, c’erano colombi annidati nell’antenna, e i loro escrementi forse erano l’origine del disturbo.

Penzias e Wilson uccisero i colombi, ripulirono l’antenna e sigillarono ogni possibile giunzione e crepa (probabilmente con nastro adesivo industriale). Il rumore di fondo persisteva.

E va bene. Cos’altro poteva provocarlo? Flussi di elettroni prodotti dai test nucleari? In questo caso si sarebbe dovuta notare una diminuzione del rumore, visto che dal 1963 i test atomici erano stati messi al bando. Penzias e Wilson effettuarono decine di esperimenti sull’intensità del rumore, per scoprire se la causa era quella. Non era quella.

Pareva inoltre che il rumore di fondo restasse sempre uguale, a prescindere dalla posizione rispetto alla volta celeste, il che non aveva senso.

Penzias e Wilson provarono e riprovarono, sigillarono e risigillarono, grattarono via escrementi di colombo, e per circa cinque anni disperarono di poter realizzare l’esperimento sull’intensità dei segnali radio, prima di capire che i disturbi non erano affatto rumori di fondo. Erano microonde, la risonante eco del Big Bang.

Venerdì, Flip portò il nuovo modulo per richieste di finanziamento. Era lungo sessantotto pagine malamente graffettate. Tre pagine caddero sulla soglia mentre Flip entrava con andatura dinoccolata, e altre due mentre mi porgeva il malloppo.

— Grazie, Flip — dissi, e le sorrisi.

La sera prima avevo letto gli ultimi due. terzi del poemetto di Browning, Passa Pippa, dove Pippa aveva indotto al suicidio due amanti adulteri con intenzioni omicide, aveva convinto un giovane studente ingannato a scegliere l’amore anziché la vendetta e aveva fatto cambiare vita a un certo numero di fannulloni assortiti. Tutto ciò, solo trillando “Nell’anno è primavera / e nel giorno è mattino”. Pensate un po’ che cosa avrebbe potuto fare se avesse avuto una tessera di biblioteca.

Tu puoi cambiare il mondo, diceva chiaramente Browning. Comportandosi con sicurezza e mettendo la freccia prima di svoltare a sinistra, una persona può avere un effetto positivo sulla società; e risultava chiaro, dal Pifferaio magico, che Browning capiva come funzionavano le mode.

Non avevo notato nessun effetto positivo, ma nemmeno Pippa li aveva notati, lei che probabilmente il giorno dopo era tornata al lavoro nella filanda, senza alcuna idea di tutto il bene che aveva fatto. La immaginai al meeting dello staff che Grancapo aveva indetto per presentare il nuovo sistema manageriale, PESTO. Subito dopo l’esercizio di sensitività, il partner di Pippa si sarebbe sporto a mormorare: “Allora, Pippa, cosa hai fatto nel tuo giorno libero?” e lei avrebbe scrollato le spalle e risposto: “Non molto. Sai, ho girellato”.

Così forse in quel momento avevo, sulla lotta contro l’analfabetismo e sulla segnalazione di svolta a sinistra, più effetto di quanto non mi rendessi conto, e comportandomi amabilmente e cortesemente avrei fermato la tendenza alla villania.

Naturalmente Browning non aveva mai conosciuto Flip. Ma valeva la pena fare un tentativo, poiché avevo il conforto di sapere che mi sarebbe stato impossibile peggiorare le cose.

Perciò, anche se Flip non aveva nemmeno accennato a raccogliere le pagine cadute e anzi in quel momento ne pestava una, le sorrisi e dissi: — Come va, oggi?

— Oh, benissimo! — rispose lei sarcastica. — Magnificamente. — Si lasciò cadere seduta sul mio banco da laboratorio, proprio sopra i ritagli sui capelli alla maschietta. — Non immaginerà mai cosa si aspettano da me, ora!

Qualche minuto di lavoro?, pensai senza molta carità cristiana; poi ricordai che mi ero ripromessa di seguire le orme di Pippa. — Chi? — dissi, chinandomi a raccogliere le pagine seminate per terra.

— Grancapo! — disse Flip, roteando gli occhi. Indossava collant di un giallo fluorescente, T-shirt in tinta e un giubbino davvero bizzarro, corto e pieno di grinze intorno al collo e alle ascelle. — Sa che dovrei avere una nuova qualifica e un’assistente?

— Sì — dissi, continuando a sorridere. — L’hai avuta, la nuova qualifica?

— S-sì — rispose Flip. — Ora sono il collegamento comunicazioni interdipartimentali. Ma per la mia assistente si aspettano che partecipi a un comitato di ricerca. Dopo l’orario!

Lungo l’orlo del giubbino c’era una fila di automatici, uno stile che non avevo mai visto prima. Lo porta a rovescio, pensai.

— Il punto era che avevo troppo lavoro — disse Flip. — Per questo devo avere un’assistente, no? Ehi?

Portare capi d’abbigliamento in modo diverso da quello previsto è una moda sempre popolare (lacci da scarpe slegati, berretti da baseball con la visiera al contrario, cravatta al posto della cintura, sottoveste per vestito) che non si può neppure attribuire al merchandising, perché non costa niente. Non è neppure nuova. Nel 1955 le studentesse cominciarono a mettersi i cardigan a rovescio, mentre nel 1920 le loro madri portavano pellicce di procione su gonne corte e soprascarpe sfibbiate. Le fibbie metalliche tintinnavano e sbatacchiavano, e questo spiega l’origine del termine flappers per indicare ragazze vivaci e spregiudicate. Ma non c’è mai accordo sull’origine di qualcosa che riguardi le mode, ed è quindi possibile che il termine derivi dal movimento da gallina delle braccia nel ballo del charleston. Però il charleston non venne di moda fino al 1923 e flappers era già in uso nel 1920.

— Allora — disse Flip — mi sta a sentire o no?

Non c’era da meravigliarsi che Pippa cantasse mentre passava sotto le finestre dei suoi beneficiati. Se avesse dovuto sopportarli, non sarebbe stata così allegra. Mi costrinsi a mostrarmi interessata. — Chi altri fa parte del comitato?

— Ah, non lo so. Gliel’ho detto, non ho tempo di andare alle riunioni.

— Ma non vuoi accertarti di avere una buona assistente?

— No, se devo fermarmi dopo l’orario. — Con aria irritata si tolse da sotto le cosce alcuni ritagli. — Il suo ufficio è un casino. Non lo pulisce mai?

— “S’alza in volo l’allodola; / la chiocciola è sul rovo.”

— Cosa?

Allora, pensai, Browning si sbagliava. — Farei volentieri quattro chiacchiere — dissi — ma è meglio che mi dedichi al modulo per i finanziamenti.

Flip non si mosse. Guardò distrattamente i ritagli.

— Devi farmi una fotocopia di ciascun ritaglio. Ora. Prima di andare alla riunione del comitato di ricerca.

Ancora niente. Presi una matita, allegai alle altre le pagine appena recuperate e cercai di concentrarmi sul modulo semplificato per i finanziamenti.

Non mi preoccupo mai troppo dei finanziamenti. Ci sono mode sia nella scienza sia nell’industria, è vero, ma l’avidità non passa mai di moda. Alla HiTek piacerebbe da matti sapere che cosa produce le mode, per poter inventare la prossima. E i progetti di statistica non costano molto. Avrei chiesto infatti solo il finanziamento per un computer con più memoria. Ciò non significava però che avrei potuto trascurare il modulo per i finanziamenti. Non importava se il tuo progetto era un infallibile metodo per cambiare il piombo in oro: se non riempivi il modulo e non lo presentavi in tempo, Grancapo ti cancellava senza scampo.

Scopi del progetto, metodo sperimentale, proiezione dei risultati, classifica analisi della matrice… Classifica analisi della matrice?

Girai la pagina per vedere se c’erano istruzioni e la pagina si staccò del tutto. Non c’erano istruzioni, né lì né alla fine del modulo.

— Al modulo erano accluse delle istruzioni? — domandai a Flip.

— Come faccio a saperlo? — Si alzò. — E questo cos’è? — Mi mise sotto il naso un ritaglio, un avviso pubblicitario con una bionda dai capelli alla maschietta ferma accanto a una Hupmobile.

— L’auto?

— No-o-o — rispose Flip, lasciando uscire il fiato in un lungo sospiro. — I suoi capelli.

— Un’acconciatura — dissi. Mi sporsi per vedere se era alla Eton o à la garsonne. I capelli erano arricciati in onde regolari ai lati della testa. — Permanente Marcel — dissi. — Una messa in piega ottenuta con uno speciale arricciatore elettrico, divertente come una seduta dal dentista.

Ma Flip aveva già perso interesse. — Se ti fanno restare dopo l’orario o ti danno lavori extra, ti devono pagare lo straordinario, penso. Come cucire questo mucchio di moduli e consegnarli a tutti. Alcuni dovevano andare giù fino a Biologia.

— Ne hai consegnato uno al dottor O’Reilly? — domandai, ricordando che Flip aveva l’abitudine di scaricare i pacchetti nell’ufficio più vicino.

— Naturalmente! Non mi ha nemmeno ringraziato. Che zarro!

— Zarro? — ripetei. È impossibile stare al passo con le mode del linguaggio e non ci provo neanche dal punto di vista della ricerca, ma conosco buona parte dei termini gergali, perché con quelli si descrivono le mode. Però “zarro” non l’avevo mai sentito.

— Non sa cosa significa zarro? — disse Flip, in un tono che mi fece desiderare che Pippa fosse andata in giro per l’Italia a schiaffeggiare le persone. — Non alla moda. Non attraente. Cybercesso. Zarro. — Agitò le braccia, cercando le parole. — Completamente negato per la moda — disse infine e si precipitò fuori, con i bracciali di nastro adesivo e il giubbino a rovescio. Senza i ritagli.

CAFFÈ (1450 – 1544)

Moda mediorientale che ebbe inizio nell’Aden e poi si diffuse alla Mecca e per tutta la Persia e la Turchia. Uomini seduti a gambe incrociate su tappeti sorseggiavano da piccole tazze un caffè denso, nero, amaro e intanto ascoltavano recite di poesie. Alla fine i caffè divennero più popolari delle moschee e furono messi al bando dalle autorità religiose perché frequentati da persone “di bassi costumi e di pochissima industriosità”. Si diffusero a Londra (1652), Parigi (1669), Boston (1675), Seattle (1985).


Sabato mattina mi telefonarono dalla biblioteca per dirmi che il mio nome era al primo posto nella lista di prenotazioni per Sotto la guida del fato; perciò andai a Boulder a prendere il libro e a comprare un regalo di compleanno per Brittany.

— Se vuole, può prendere anche Angeli, angeli dappertutto — mi disse Lorraine in biblioteca. Indossava una felpa con un dalmata e orecchini rosso presa antincendio. — Finalmente ne abbiamo avute altre due copie, ora che nessuno le vuole.

Sfogliai il libro mentre lei passava al lettore di codice a barre la copia di Sotto la guida del fato.

“Il tuo angelo custode viene con te dappertutto” diceva. “È sempre presente, al tuo fianco, dovunque tu vada.” C’era il disegno di un angelo dalle grandi ali che incombeva su una donna in fila davanti alla cassa del supermercato. “Puoi ignorarlo, puoi perfino fingere che non esista, ma questo non lo farà andare via.”

Finché non passa la moda, commentai tra me.

Presi Sotto la guida del fato e un libro sulla teoria del caos e sui diagrammi di Mandelbrot, un pretesto per scendere a Biologia e vedere che cosa indossava il dottor O’Reilly. Poi feci un salto al Mall di Pearl Street.

Lorraine aveva ragione. La libreria esponeva su uno scaffale L’angelo nel mio condominio e Il ricettario del cherubino e, a metà prezzo, Il calendario degli angeli. In vetrina c’era una grande esposizione di Incontri fatati del quarto tipo.

Salii al piano di sopra, nel reparto libri per bambini, e trovai altre fate: Le fate dei fiori (che era stato di moda già un’altra volta, negli anni Dieci); Fate, fate dappertutto; Ancora fate, fate dappertutto; e Il paese del divertimento fatato. Anche libri di Batman, del Re Leone, dei Power Rangers e di Barbie.

Alla fine riuscii a trovare una copia rilegata di Rospi e diamanti, che mi era piaciuta moltissimo da bambina. Anche lì c’era una fata, ma non come quelle in Fate, fate ecc., con ali color lavanda e campanule per cappellini. Il libro parlava di una bambina che aiuta una brutta vecchia che si rivela una buona fata travestita. Valori interiori contrapposti a frivole apparenze. Il mio tipo di morale.

Comprai il libro e uscii nel centro commerciale. Era una bella giornata — estate di San Martino — con temperatura mite e cielo azzurro. Di sabato il Mall di Pearl Street è un luogo meraviglioso per analizzare le mode, perché, primo, ci sono orde di persone, e, secondo, Boulder è aggiornata quasi all’estremo. Il resto dello stato la chiama Repubblica Popolare di Boulder, perché in città si trova ogni tipo possibile di fanatici della New Age, di banchetti che vendono falafel e di suonatori ambulanti.

Ci sono mode perfino nella musica dei suonatori ambulanti. La chitarra era di nuovo fuori moda e i bongo erano tornati di moda. (La prima volta fu nel 1958, all’apice del movimento Beat. Soglia d’abilità molto bassa.) La rasatura-con-ciuffo di Flip era molto di moda, come anche la rasatura-con-scritta. E il nastro adesivo industriale. Vidi due persone con strisce intorno alle maniche; un tale, con bombetta e capelli infeltriti a riccioli fitti, aveva una larga striscia di nastro adesivo intorno al collo, come i nastri che i francesi sfoggiavano per la moda à la victime, dopo la Rivoluzione.

Periodo che, per inciso, fu l’ultimo in cui le donne portarono i capelli corti, prima che tornassero di moda nel 1920: un buon indizio per ricostruirne l’origine. Gli aristocratici si erano tagliati i capelli per non intralciare la ghigliottina; inoltre, dopo la restaurazione dell’impero, parenti e amici avevano portato i capelli corti in segno di simpatia. Si legavano anche intorno al collo stretti nastri rossi, ma non credevo che fosse questo ciò che aveva in mente il tizio con i riccioli infeltriti. O forse sì.

Gli zainetti erano fuori moda ed erano di moda piccole borse appese a una cordicella. Inoltre, stivaletti imbottiti di lana di pecora e jeans tagliati al ginocchio e camicie scozzesi di flanella. Da nessuna parte si vedeva un solo centimetro di velluto a coste. Il pattinaggio in fila senza alcun riguardo per l’altrui incolumità era molto di moda, al pari del procedere per quattro, fianco a fianco, lentamente, incuranti di tutto. I girasoli erano fuori moda, le violette erano di moda. Idem per il look alla Sinéad O’Connor e per le treccine colorate: lunghi e sottili ciuffi di capelli avvolti in un filo di colori vivaci si vedevano dappertutto.

Cristalli e aromaterapia erano fuori moda, sostituiti dalla etnicità ricreativa. I negozi New Age pubblicizzavano saune irochesi, terapia banya russa e ricerche di visionarie peruviane, 249 dollari per due notti di permanenza, pasti inclusi. C’erano due ristoranti etiopici, una gastronomia filippina e un carretto che vendeva pane fritto navajo.

E almeno sei caffè, evidentemente spuntati come funghi nel giro di una notte: il Jumpstart, l’Espresso Espress, il Caffè Lottie, il Cup o’ Joe e il Caffè Java.

Dopo un poco, stufa di scansare mimi e pattinatori in fila, entrai all’Earth Mother, che ora si chiamava Caffè Krakatoa (a est di Giava). Dentro c’era tanta ressa come fuori nel Mall. Una cameriera con un taglio di capelli alla moda prendeva i nomi. — Vuole sedersi al tavolo comune? — chiese in quel momento al tizio davanti a me, indicando un lungo tavolo con due clienti, uno per estremità.

Il tavolo comune è una moda giunta dall’Inghilterra, dove perfetti estranei devono sedersi allo stesso tavolo per tenersi aggiornati sui pettegolezzi riguardanti il principe Carlo e Camilla. Non ha attecchito particolarmente qui da noi, dove è più facile che gli estranei vogliano parlare di Rush Limbaugh o del proprio trapianto di capelli.

Quando la moda aveva fatto la sua comparsa, mi ero seduta qualche volta al tavolo comune, ritenendolo un buon sistema per scoprire nuove tendenze del linguaggio e del pensiero, ma quegli assaggi erano stati più che sufficienti. Il solo fatto che la gente sperimenti certe cose non significa che abbia perspicacia, come i talk show (moda ormai allo stadio della crescita tumorale incontrollata, che presto dovrebbe esaurire la propria provvista di cibo) avrebbero già dovuto scoprire.

In quel momento il tizio chiese: — Se non mi siedo al tavolo comune, quanto devo aspettare?

La cameriera sospirò. — Non lo so! Quaranta minuti? — Mi augurai di cuore che non diventasse una moda.

La cameriera si rivolse a me. — Quanti?

— Due — dissi, solo per non dover sedere al tavolo comune. — Foster.

— Deve dirmi il nome.

— Perché?

Roteò gli occhi. — Così posso chiamarla!

— Sandra.

— Scritto come?

No, ti prego, pensai, non dirmi che Flip diventa una moda.

Le compitai Sandra, presi i quotidiani alternativi e mi sistemai in un angolo ad aspettare. Era inutile controllare gli annunci personali prima di avere un tavolino, ma gli articoli erano quasi altrettanto buoni. C’era una nuova tecnica laser per eliminare i tatuaggi; Berkeley aveva messo al bando il fumo anche all’aperto; il colore di cui non si poteva fare a meno per la primavera era il rosa postmoderno; il matrimonio tornava di moda. “Convivere è passé” dichiaravano attrici assortite di Hollywood. “Ora le figate sono anelli con brillante, cerimonie nuziali, impegno e tutta la solfa.”

— Susie — chiamò la cameriera.

Nessuno rispose.

— Susie, gruppo di due — ripeté, agitando i capelli a coda di topo. — Susie!

O chiamava me, decisi, o chiamava un’altra che aveva rinunciato e se n’era andata.

— Eccomi — dissi.

Un cameriere con pettinatura alla Three Stooges mi accompagnò a un tavolino schiacciaginocchia accanto alla vetrina. — Ordino subito — dissi, prima che se ne andasse.

— Pensavo che foste in due.

— L’altro arriverà presto. Un doppio caffellatte lungo con latte scremato e spolverata di cioccolato semidolce — dissi vivacemente.

Il cameriere sospirò e sembrò aspettare che proseguissi.

— Zucchero scuro a parte.

Roteò gli occhi. — Sumatra, Yegarcheffe o Sulawesi?

Guardai il menu in cerca di aiuto, ma lì non c’era niente, se non una citazione da Kahlil Gibran. — Sumatra — dissi, perché sapevo dove si trova.

Lui sospirò. — Alla Seattle o California?

— Seattle.

— Con?

— Cucchiaio? — azzardai speranzosa.

Roteò gli occhi. — Sciroppo di che gusto?

Pensai: acero?, anche se pareva improbabile. — Lampone?

Evidentemente era uno dei gusti disponibili. Il cameriere si allontanò con andatura dinoccolata e io attaccai gli annunci personali. Inutile cerchiare ogni NF. In pratica era dappertutto. Due annunci lo mettevano nel titolo e uno, di un atleta molto intelligente e singolarmente bello, lo usava due volte.

Friends era fuori moda e la ricerca dell’anima gemella era di moda. C’erano due riferimenti a fate e ancora un’altra abbreviazione: GC. “Ebreo single divorziato cerca bianca single NF. Dev’essere GC. A sud della Baseline. A ovest della Ventottesima.”

Cerchiai l’annuncio e tornai indietro alla tabella dei codici, GC: Geograficamente Compatibile, cioè della stessa zona.

Non c’erano altri GC, ma c’era un “Preferibilmente zona del Mall di Boulder”; un altro annuncio precisava: “Valmont o Pearl, esclusivamente isolato dal numero 2500”.

Sì, in un pacco largo tre metri e consegnata a domicilio dal Federal Express. Quell’annuncio mi fece pensare con tenerezza a Billy Ray, disposto a farsi in macchina tutta la strada da Laramie a qui per portarmi a cena.

— Questo posto è proprio assurdo! — disse Flip, sedendosi davanti a me. Portava un baby-doll, calze rosa a mezza coscia e un paio di Mary Jane da quattro soldi, il tutto più o meno alla rovescia. — C’è una coda di quaranta minuti.

Sì, pensai, e dovresti essere lì a farla. — Il tavolo comune — suggerii.

— Nessuno si siede insieme, tranne zarri e sfigati — replicò. — Brine mi ha fatto sedere una volta al tavolo comune. — Si chinò a tirarsi su le calze a mezza coscia.

Non vedevo nastro adesivo. Flip chiamò con un gesto il cameriere e ordinò: — LattemacchiatoscrematolungoJazula e senza tanta schiuma. — Si girò a guardarmi. — Brine aveva ordinato latte con Sumatra! — Prese il sacchetto della libreria. — Cos’è?

— Il regalo di compleanno per la figlia della dottoressa Damati.

Flip aveva già tirato fuori il libro, e lo esaminò con curiosità.

— È un libro — dissi.

— Non hanno il videoregistratore? — Rimise il libro nel sacchetto. — Io le avrei comprato una Barbie.

Si tirò indietro il ciuffo di capelli e vidi che aveva sulla fronte una striscia di nastro adesivo. Nel mezzo aveva ritagliato un cerchio al cui centro c’era quella che pareva una i minuscola tatuata proprio fra gli occhi.

— Cos’è quel tatuaggio?

— Non è un tatuaggio — disse Flip, scostando i capelli per farmi vedere meglio. Era davvero una i minuscola. — Nessuno porta ancora i tatuaggi!

Stavo per ricordarle la sua civetta delle nevi, ma notai che anche lì aveva del nastro adesivo, una piccola toppa circolare proprio dove c’era stato il tatuaggio.

— I tatuaggi sono artificiali! Mettersi sotto la pelle tutti quei prodotti chimici e cancerogeni! Questo è un marchio.

— Un marchio — ripetei, rimpiangendo come al solito d’avere iniziato la discussione.

— I marchi sono organici. Non iniettano niente nel corpo. Portano alla luce ciò che già è presente nel corpo naturale. Il fuoco è uno dei quattro elementi, sa.

Sarah, a Chimica, sarebbe stata contenta di sentirglielo dire.

— Non ne avevo mai visti — dissi. — La i sta per…?

Flip parve confusa. — Sta per? Non sta per niente. Sono io! Io me, capisce. Chi sono io. Una asserzione personale.

Decisi di non domandarle perché il marchio era in minuscolo né se le era venuto in mente che qualcuno, vedendola con quel marchio, avrebbe subito supposto che i stava per “incompetente”.

— È “Io” — continuò Flip. — Una persona che non ha bisogno di nessun altro, soprattutto non di uno zarro che si siede al tavolo comune e ordina Sumatra. — Sospirò profondamente.

Il cameriere ci portò i caffellatte in tazze formato Alice nel Paese delle Meraviglie, cosa che poteva essere una moda, ma probabilmente era solo una soluzione pratica. Versare liquidi fumanti in bicchieri di vetro a volte genera risultati disastrosi.

Flip sospirò di nuovo, un sospiro smisurato, e con aria avvilita leccò la schiuma dalla parte convessa del cucchiaio dal lungo manico.

— Lei si sente mai prudere?

Poiché non avevo idea di dove volesse arrivare, leccai anch’io il cucchiaio e mi augurai che la domanda fosse retorica.

Avevo visto giusto. — Cioè, come oggi, per esempio — riprese Flip. — Arriva finalmente il weekend e mi ritrovo a stare seduta qui con lei. — Roteò gli occhi e sospirò di nuovo. — Gli uomini fregano, sa.

Immaginai che si riferisse a Brine dagli stivali rinforzati e borchie assortite.

— La vita frega! Dici a te stessa: “Cosa sto facendo nel mio lavoro?”.

Non molto, pensai.

— Così, tutti fregano. Non vai da nessuna parte, non realizzi niente. Ho già ventidue anni! — Mangiò una cucchiaiata di schiuma. — Perché non incontro mai un uomo che non sia uno zarro?

Forse per colpa del tatuaggio frontale, pensai; però io stessa, mi dissi, non ero in condizioni migliori delle sue.

— È proprio come dicono i Groupthink — soggiunse Flip. Mi guardò con aspettativa e poi emise un tale sospiro che pensai si sarebbe sgonfiata. — Come fa a non conoscere i Groupthink? Sono il complesso più alla moda di Seattle. È proprio come dice la loro canzone: “Perdendo tempo inutilmente sulla piattaforma di lancio, non so un tubo e mi sento prudere”. Questo posto è troppo deprimente. — Mi guardò male, come se fosse colpa mia. — Devo uscire di qui.

Prese lo scontrino e si aprì la strada fra la calca, verso il nostro cameriere.

Dopo un minuto quest’ultimo si avvicinò e mi diede lo scontrino. — La sua amica ha detto che paga lei — spiegò. — Ha detto anche di darmi il venti per cento di mancia.

AZZURRO ALICE (1902 – 1904)

Moda di colori ispirata dalla figlia del presidente Teddy Roosevelt, una vivace ragazzina della quale il padre una volta disse: “O faccio il presidente degli Stati Uniti o tengo sotto controllo Alice. Fare l’una e l’altra cosa è impossibile”. Alice Roosevelt fu una delle prime star dei media, e il pubblico copiava con entusiasmo ogni sua mossa, commento, modo di vestire. Quando un sarto creò per lei un abito grigioazzurro intonato ai suoi occhi, i giornalisti chiamarono “azzurro Alice” quel colore e lo resero subito popolare. La commedia musicale Irene presentò una canzone intitolata L’abito azzurro Alice, i negozi misero in commercio stoffa, cappellini e nastri color grigioazzurro, e centinaia di neonate furono chiamate Alice e vestite non nel rosa tradizionale, ma in azzurro Alice.


Uscita Flip, tornai agli annunci personali, ma parevano tristi e un po’ disperati: “Single bianca solitaria cerca qualcuno che capisca davvero”.

Girai per il Mall e notai T-shirt ispirate alle fate, cuscini ispirati alle fate, saponette ispirate alle fate e un’acqua di colonia Piccola Fata in una boccetta a forma di fiore. Il Paper Doll aveva cartoline d’auguri, calendari e carta da regalo ispirati alle fate. Il Peppercorn aveva un servizio da tè ispirato alle fate. Il Quilted Unicorn, mescolando varie mode, aveva una tazza da caffellatte dipinta con una fata vestita come una viola mammola.

Il sole era sceso, la giornata era diventata grigia e fredda. Pareva addirittura che dovesse nevicare. Passai davanti al Latte Lenya ed entrai al Fashion Front per scaldarmi e per scoprire quale fosse il colore rosa postmoderno.

Le mode riguardanti i colori di solito sono il risultato di una conquista tecnologica. Malva e turchese, i colori in voga nel 1870, furono lanciati da una conquista scientifica nella fabbricazione delle tinture. Lo stesso vale per i colori Day-Glo degli anni Sessanta. E per i nuovi colori delle auto, marrone metallizzato e verde smeraldo.

Il fatto che i colori nuovi siano pochi e molto intervallati nel tempo, però, non ha mai fermato gli stilisti. Costoro si limitano a dare un nuovo nome a un vecchio colore. Come il “rosa shocking” di Schiaparelli negli anni Venti e il “beige” di Chanel per quella che fino allora era stata una indefinibile sfumatura di marrone. Oppure danno al colore il nome di qualcuno, che lo porti o no, come il blu Vittoria, il verde Vittoria, il rosso Vittoria e il sempre popolare (e molto più logico) nero Vittoria.

La commessa del Fashion Front parlava al telefono con il suo ragazzo e si esaminava le doppie punte.

— Avete rosa postmoderno? — domandai.

— Sì! — rispose la commessa, in tono bellicoso, e tornò a parlare al telefono. — Ho una cliente. A dopo! — disse. Sbatté sul banco la cornetta e con andatura dinoccolata si avvicinò agli scaffali.

È una moda, pensai seguendola: Flip è una moda.

La commessa passò davanti a un bancone pieno di felpe ispirate agli angeli, offerte con uno sconto del 75%, e indicò lo scaffale. — Eccolo — disse, roteando gli occhi. — Rosa po-mo. Non postmoderno.

— Dovrebbe essere il colore di gran moda per l’autunno.

— Assolutamente — disse lei e tornò al telefono, mentre io esaminavo “il nuovo colore più sensazionale che si sia visto dagli anni Sessanta”.

Non era nuovo. Si chiamava “rosa cenere” la prima volta, intorno al 1928, e “rosa tortora” la seconda volta, nel 1954.

In tutt’e due i casi era stato un rosa sgradevole, grigiastro, che faceva sembrare slavati carnagione e capelli, difetto che non ne aveva evitato l’enorme popolarità. E senza dubbio avrebbe avuto ancora enorme popolarità nell’attuale incarnazione “rosa postmoderno”.

Il nome non era bello come “rosa cenere”, ma non è necessario che i nomi, per essere alla moda, siano allettanti. Per esempio, “pulce”, il vincente del 1776. Il massimo alla corte di Luigi XVI era stato, non scherzo, il color pulce. E non pulce e basta. Era stato così popolare da originare una serie di sfumature appetitose: pulce giovane, pulce vecchia, pancia-di-pulce, coscia-di-pulce e pulce-con-febbre-da-latte.

Comprai un metro di nastro rosa postmoderno da portare in laboratorio: ciò significava che la commessa avrebbe dovuto staccarsi dal telefono di nuovo.

— Quello è per le treccine — disse, guardando con disapprovazione i miei capelli corti, e sbagliò a darmi il resto.

— Le piace il rosa postmoderno? — domandai.

La commessa sospirò. — È il colore che la farà da padrone questo autunno.

Naturalmente. E in quel “padrone” c’era il segreto di tutte le mode: l’istinto gregario. Le persone volevano avere lo stesso aspetto di tutti gli altri. Per questo compravano calzoni di pelle scamosciata bianca e brache a metà polpaccio e bikini. Ma qualcuna doveva pur essere la prima a portare zatteroni, a tagliarsi i capelli alla maschietta… e questo richiedeva l’opposto dell’istinto gregario.

Misi nella borsa a tracolla (molto passé) il resto sbagliato e il nastro e tornai fuori nel Mall. Ormai piovigginava e i suonatori ambulanti rabbrividivano, in Birkenstock e camicie Ecuador. Mi infilai le muffole (completamente zarre!) e tornai verso la biblioteca, guardando i negozi yuppie e i banchetti per la vendita di ciambelle di pane ebraico e sentendomi sempre più depressa. Non avevo idea da dove provenisse una sola di quelle mode, nemmeno il rosa postmoderno, che qualche stilista aveva appena inventato. Ma quello stilista non poteva costringere la gente a comprare il rosa postmoderno, non poteva costringere nessuno a indossarlo e a fare battute su quel colore e a scrivere editoriali sull’argomento “Dove va la moda?”.

Gli stilisti potevano renderlo popolare durante questa stagione, soprattutto perché nessuno sarebbe riuscito a trovare qualcosa d’altro nei magazzini, ma non potevano farlo diventare una moda. Nel 1971 avevano provato a introdurre la gonna midi lunga a metà polpaccio, fallendo completamente, e da anni prevedevano il “ritorno del cappellino”, senza risultati. Per creare una moda occorreva ben altro che la commercializzazione, e io non avevo idea di che cosa fosse.

E più accumulavo dati, più mi convincevo che lì non c’era la risposta, che l’accresciuta indipendenza e i pidocchi e la bicicletta erano semplici scuse escogitate a posteriori per spiegare una cosa che nessuno capiva. Soprattutto io.

Mi domandai addirittura se fossi nel campo giusto. Provavo una grande insoddisfazione, come se tutto ciò che facevo fosse inutile, un grande… prurito.

Flip, mi dissi. Era stata lei a condizionarmi, con le sue chiacchiere su Brine e i Groupthink. Era una sorta di anti-angelo custode che mi seguiva dappertutto, mi ostacolava anziché aiutarmi e mi metteva di cattivo umore. Non le avrei permesso di rovinarmi il weekend. Mi rovinava già abbastanza il resto della settimana.

Comprai un pezzo di cheesecake al cioccolato, tornai in biblioteca e presi in prestito Il segno rosso del coraggio, Com’era verde la mia valle e Il colore viola, ma il malumore persistette per tutto quel pomeriggio grigio e per tutto il gelido ritorno a casa, e non riuscii a lavorare.

Provai a leggere il libro sulla teoria del caos, ma il risultato fu che mi sentii ancora più depressa. I sistemi caotici avevano tante di quelle variabili da rendere quasi impossibile qualsiasi previsione sul loro comportamento anche se avessero funzionato in modo logico e diretto. Cosa che però non facevano.

Ogni variabile interagiva con tutte le altre, entrava in collisione e in collegamento in maniere inaspettate, stabiliva cicli d’iterazione che alimentavano e rialimentavano il sistema, incrociando e collegando le variabili in così tanti modi che non c’era da sorprendersi se una farfalla potesse avere davvero un effetto devastante. O nessun effetto.

Capivo perché il dottor O’Reilly voleva studiare un sistema con un numero limitato di variabili. Ma quanto limitato? Secondo il libro, qualsiasi cosa era una variabile: entropia, gravità, gli effetti quantici di un elettrone, una stella dall’altra parte dell’universo.

Perciò, anche se il dottor O’Reilly avesse avuto ragione e nel sistema non avesse operato nessun fattore X esterno, non c’era modo di calcolare tutte le variabili e neppure di stabilire quali erano.

La questione aveva una sconfortante rassomiglianza con le mode e mi indusse a domandarmi quali variabili non prendevo in considerazione; così, quando Billy Ray telefonò, mi aggrappai a lui come chi sta per affogare. — Sono davvero contenta di sentirti — dissi. — La mia ricerca è andata avanti più velocemente del previsto, perciò dopotutto sono libera. Dove ti trovi?

— Sulla strada per Bozeman. Avevi detto di essere occupata, così ho deciso di saltare il seminario e di andare a prendere quelle Targhee che mi interessavano. — Esitò, e sentii il ronzio rivelatore del cellulare. — Torno lunedì. Che ne dici di pranzare insieme un giorno della prossima settimana?

Volevo andare a cena stasera, pensai acidamente. — Magnifico. Chiamami quando torni.

Il ronzio aumentò. — Mi dispiace che non ci siamo incontra… — E fu fuori portata.

Andai alla finestra e guardai la pioggia mista a neve; poi mi misi a letto e lessi da cima a fondo Sotto la guida del fato. Non era poi una grande impresa: il libro contava solo 94 pagine ed era talmente mal scritto che sarebbe diventato sicuramente una grossa moda.

Si basava sulla premessa che ogni evento fosse stabilito e organizzato da angeli custodi, e l’eroina diceva cose come: “Tutto accade per una ragione, Derek! Hai rotto il fidanzamento e sei andato a letto con Edwina e sei stato implicato nella sua morte e io mi sono rivolta a Paolo per trovare conforto e sono andata con lui in Nepal per imparare il significato della sofferenza e della disperazione, senza le quali il vero amore è privo di senso. Tutto — l’incidente ferroviario, il suicidio di Lilith, l’assuefazione di Halvard, il crollo del mercato azionario — tutto è accaduto perché potessimo stare insieme. Oh, Derek, c’è una ragione dietro ogni cosa!”.

Escluso, a quanto pareva, il taglio alla maschietta. Mi svegliai alle tre, con l’impressione che Irene Castle e alcune mazze da golf mi ballassero nella testa. Una cosa del genere era accaduta a Henri Poincaré. Da giorni e giorni lavorava alle funzioni matematiche, e una notte bevve troppo caffè (che probabilmente aveva avuto lo stesso effetto dei libercoli da quattro soldi) e non riuscì a dormire, e nella sua testa le idee “si alzarono a stormi”.

Era accaduto anche a Friedrich Kekulé, che a bordo di un autobus si era messo a fantasticare e aveva visto catene di atomi di carbonio danzare follemente tutt’intorno. Una catena all’improvviso aveva preso in bocca la propria coda e formato un anello: così Kekulé aveva finito per scoprire l’anello benzenico e rivoluzionare la chimica organica.

Tutto ciò che Irene Castle faceva con le mazze da golf era il valzer all’inglese. Dopo un poco, accesi la luce e aprii Browning.

Scoprii che aveva conosciuto Flip, in fin dei conti. Aveva scritto una poesia, Soliloquio del chiostro spagnolo, su di lei. “G-r-r, brutta porca” aveva scritto, ovviamente dopo che lei aveva accartocciato tutti i fogli con le sue poesie, e: “Vattene, avversione del mio cuore”. Decisi di dirlo a Flip la prossima volta che mi avesse rifilato il conto da pagare.

HOT PANTS (1971)

Capo d’abbigliamento femminile portato da tutte le donne, che faceva un bell’effetto solo su ragazzine giovanissime e graziose. Successori della minigonna degli anni Sessanta, gli hot pants erano una reazione ai tentativi degli stilisti di introdurre la gonna midi, lunga fino a metà polpaccio. Gli hot pants erano di satin o di velluto, spesso con bretelle, ed erano indossati con scarpe di coppale. Le donne li portavano anche in ufficio, e furono ammessi perfino nella sfilata per Miss America.


Passai il resto del weekend a lisciare col ferro da stiro i ritagli e a cercare di decifrare il modulo semplificato per l’assegnazione dei finanziamenti. Cos’erano i Parametri Selezione Ambizioni? E la mia Scala Priorità Efficienza? E cosa diavolo volevano dire con “Elenca area riservata parentesi restrizioni?” Al confronto, la ricerca dell’origine del taglio alla maschietta (o delle sorgenti del Nilo) pareva una quisquilia.

Nessun altro sapeva inoltre che cosa fossero le approvazioni dell’Ente federale per lo scambio elettronico dei dati. Quando andai al lavoro, lunedì, tutti quelli che conoscevo vennero al laboratorio di statistica a chiedere informazioni.

— Hai idea di come riempire questo stupido modulo? — mi domandò Sarah, facendo capolino a metà mattina.

— Nessuna — risposi.

— Secondo te, cosa può essere un indice gradazione spese? — Si appoggiò alla porta. — Non hai mai l’impressione che ti converrebbe piantare tutto e cominciare da capo?

Sì, pensai guardando lo schermo del computer. Avevo trascorso gran parte della mattinata a leggere ritagli, a estrarre ciò che mi auguravo fossero dati significativi, a inserirli su un dischetto e a progettare programmi statistici per interpretarli. Ciò che Billy Ray definiva “cacciare tutto nel computer e premere il pulsante”.

Avevo premuto il pulsante e — sorpresa! sorpresa! — non c’erano state sorprese. Esisteva una correlazione fra il numero di donne nella forza lavoro e il numero di riferimenti contrari al taglio alla maschietta nei quotidiani, una correlazione ancora più marcata fra taglio e vendita di sigarette e nessuna correlazione fra la lunghezza dei capelli e la lunghezza delle gonne, che avrei potuto prevedere benissimo da sola. Le gonne erano tornate a metà polpaccio nel 1926, mentre i capelli si erano fatti sempre più corti fino al crollo borsistico del ’29, con il taglio alla paggetto nel 1925 e l’ancora più corto taglio Eton nel 1926.

La correlazione più marcata di tutte riguardava il cappellino a cloche, e avvalorava così la teoria del carro davanti ai buoi e dimostrava senza ombra di dubbio che le statistiche non sono poi quella meraviglia che si crede.

— Ultimamente mi sento depressa per tutta questa storia — diceva Sarah. — Ho sempre creduto che fosse solo una questione di lui che aveva una soglia di relazione più alta della mia, ma forse questa è solo parte della struttura di rifiuto legata alle relazioni codipendenti.

Ted, pensai, stiamo parlando di Ted, che non vuole farsi sposare.

— E nel weekend mi sono messa a pensare: qual è il punto? Sto seguendo un sentiero d’intimità e lui è staccato fuori strada.

— Prurito — dissi.

— Cosa?

— Il tuo stato d’animo. Come se stessi perdendo tempo inutilmente sulla piattaforma di lancio. Non hai incontrato Flip nel weekend, vero?

— L’ho vista stamattina. Ha portato a me la posta del dottor Applegate.

Un anti-angelo vagante per il mondo a diffondere tenebre e rovina.

— Be’, è meglio che vada a vedere se qualcuno in Direzione mi sa dire cos’è un indice gradazione spese — disse Sarah, e se ne andò.

Tornai ai miei dati sul taglio alla maschietta. Chiesi al computer la distribuzione geografica per il 1923 e poi per il 1922. I grafici mostravano raggruppamenti a New York e a Hollywood (non era una sorpresa), a St. Paul, Minnesota, e a Marydale, Ohio (questa era una sorpresa). Seguendo una vaga sensazione, chiesi una analisi di Montgomery, Alabama. C’era un raggruppamento troppo piccolo per essere statisticamente significativo, ma sufficiente a spiegare quello di St. Paul. Montgomery era la città dove F. Scott Fitzgerald aveva incontrato Zelda e St. Paul era la sua città natale. I locali ovviamente cercavano di essere degni di Bernice si taglia i capelli. Questo però non spiegava Marydale, Ohio. Chiesi la distribuzione geografica per il 1921. Il raggruppamento di Marydale c’era ancora.

— Ecco qua! — disse Flip, mettendomi sotto il naso la posta. A quanto pareva, nessuno le aveva detto che il rosa postmoderno era il colore di moda per l’autunno. Indossava una casacca di un brillante blu bile, e gambali e un assortimento di nastro adesivo.

— Sono lieta che tu sia qui — dissi, prendendo una pila di ritagli. — Mi devi due e cinquanta per il caffellatte e mi serve una copia di questi ritagli. Oh, aspetta. — Andai a prendere gli annunci personali che avevo esaminato sabato e due articoli sugli angeli. Le diedi il tutto. — Una copia di ognuno.

— Non credo negli angeli — disse Flip.

Proprio nella piaga, come al solito.

— Una volta ci credevo — continuò — ma non ci credo più, dopo Brine. Cioè, se hai davvero un angelo custode, quello ti tira su di morale quando sei depressa e ti fa togliere dai meeting del comitato e roba del genere.

— E le fate?

— Vuol dire come le fate madrine? Naturalmente. Certo che ci credo.

Naturalmente.

Tornai al taglio alla maschietta. Marydale, Ohio. Che cosa avrà avuto, per diventare un punto caldo nel taglio di capelli? Caldo, pensai. E se ci fosse stato un caldo insolito in Ohio nell’estate del 1921? Un caldo tale da appiccicare i capelli lunghi alla pelle sudata della nuca e da far dire alle donne: “Non li sopporto più”.

Richiamai i dati meteorologici dello stato dell’Ohio da giugno a settembre e cominciai a cercare Marydale.

— Hai un minuto? — disse una voce dalla porta. Era Elaine, del Personale. Aveva una fascia elastica sulla fronte e un’aria acida. — Hai idea di cosa siano le razioni struttura implementativa assunzionale? — domandò.

— Neanche per sbaglio. Hai provato in Direzione?

— Ci sono già salita due volte e non sono riuscita a entrare. C’è una vera folla. — Trasse un gran respiro. — Sto diventando totalmente stressata. Hai voglia di fare allenamento?

— Salire scale? — chiesi poco convinta. Elaine scosse con decisione la testa. — Salire scale non allena i muscoli più estesi. Wall-walking. Palestra nella Ventottesima. Hanno chiodi da roccia e tutto il resto.

— No, grazie. Le pareti le ho già qui.

Elaine le guardò con disapprovazione e uscì. Tornai al taglio alla maschietta. Nel 1921 le temperature a Marydale erano state leggermente più basse del normale, e poi quella non era la città natale né di Irene Castle né di Isadora Duncan.

Lasciai perdere per il momento e tracciai un grafico di Pareto e alcune altre regressioni. C’era una debole correlazione tra la frequenza in chiesa e il taglio alla maschietta, una forte correlazione fra capelli corti e vendite di Hupmobile, ma non di Packard o di Ford modello T, e una tortissima correlazione fra caschetti e infermiere professionali. Chiesi al computer l’elenco degli ospedali americani nel 1921. Non ce n’era nemmeno uno nel raggio di cento miglia da Marydale.

Entrò Gina, con un’espressione tormentata.

— No, non so come compilare il modulo per il finanziamento — la anticipai. — E non lo sa nessun altro.

— Davvero? — disse lei vagamente. — Non l’ho ancora neppure guardato. Sto sprecando tutto il tempo in quello stupido comitato di ricerca per l’assistente di Flip. Secondo te, qual è la più importante qualità di una assistente?

— Essere l’esatto contrario di Flip — risposi. Visto che non rideva, azzardai: — Competenza? Disponibilità? Voglia di lavorare?

— Esatto. E se una persona avesse queste qualità, l’assumeresti immediatamente, vero? E se loro fossero tanto qualificati per il loro lavoro come lo è lei per il suo, la prenderebbero subito. Tu non la bocceresti a causa di un solo piccolo lato negativo e non aspetteresti che intervistassero decine di altre candidate, soprattutto se hai altro da fare. Riempire quel ridicolo modulo, per dirne una, e preparare una festa di compleanno. Sai cos’ha scelto Brittany, quando le ho detto che non poteva avere i Power Rangers? Barney. E non è che non sia competente e disponibile e piena di voglia di lavorare. Giusto?

Non era chiaro se parlava di Brittany o della candidata al posto di assistente. — Barney è davvero orribile — dissi.

— Proprio così — convenne Gina, come se avessi dimostrato il suo punto, quale che fosse. — L’assumo — e si precipitò fuori.

Tornai a sedermi davanti al computer. Cappellini a cloche, auto Hupmobile e Marydale, Ohio. Pareva poco verosimile che una di queste cose costituisse l’azione scatenante. Qual era, allora? Che cosa aveva messo in moto all’improvviso la moda?

Entrò Flip, con la pila di ritagli e di annunci personali che le avevo appena dato. — Cosa vuole che ne faccio di questa roba?

MESMERISMO (1778 – 84)

Moda scientifica risultante da nuove scoperte sul magnetismo, da ipotesi sulle sue possibilità mediche e dall’avidità. La buona società parigina si riversava dal dottor Mesmer per avere terapie a base di “magnetismo animale” che comprendevano vasche di “acqua magnetizzata”, bacchette di ferro e assistenti in camice color lavanda, che massaggiavano i pazienti e li guardavano intensamente negli occhi. I pazienti urlavano, piangevano, sprofondavano in stato di trance e nell’uscire pagavano il dottor Mesmer. Il magnetismo animale (in realtà ipnotismo) era ritenuto in grado di curare qualsiasi malattia, dai tumori al mal sottile. Passò di moda quando un’indagine scientifica guidata da Ben Franklin dimostrò che non faceva niente del genere.


Martedì Grancapo indisse un altro meeting. — Per spiegare i moduli semplificati per il finanziamento — dissi a Gina mentre andavamo in sala mensa.

— Me lo auguro — disse lei, con espressione ancora più tormentata del giorno prima. — Sarebbe bello vedere qualcun altro sulla difensiva, tanto per cambiare.

Stavo per chiederle cosa volesse dire, quando dall’altra parte della sala scorsi il dottor O’Reilly che parlava con la dottoressa Turnbull. Quest’ultima aveva un abito color rosa postmoderno (senza spalline imbottite) e lui portava una di quelle camicie di poliestere stampato degli anni Settanta. Mentre notavo tutto questo, Gina si era già sistemata al nostro tavolino, con Sarah, Elaine e un gruppetto di altri.

Mi avvicinai, preparandomi a una discussione su problemi di intimità e camminate energetiche ma parlavano della nuova assistente di Flip.

— Credevo che fosse impossibile assumere qualcuno peggiore di Flip — diceva in quel momento Elaine. — Come hai potuto, Gina?

— Ma è molto competente — replicò Gina, sulla difensiva. — Ha esperienza con Windows e con il software di analisi statistica e sa anche riparare la fotocopiatrice.

— Tutte cose senza importanza — disse una di Fisica, ma a me non parevano cose prive d’importanza.

— Be’, io non sto lavorando con lei — disse uno dello Sviluppo Prodotti. — E non dirmi che non sapevi che era una di quelle. Basta guardarla.

Il settarismo è una delle mode più vecchie e più brutte, così persistente che si può considerare come moda solo perché il suo bersaglio cambia di continuo: ugonotti, coreani, omosessuali, musulmani, tutsi, ebrei, quaccheri, lupi, serbi, casalinghe di Salem. Quasi ogni gruppo, purché piccolo e diverso, ha avuto il suo turno, e lo schema non cambia mai: disapprovazione, isolamento, demonizzazione, persecuzione. Già questa è una ragione per cui sarebbe bello trovare l’interruttore che accende le mode. Questa moda qui mi piacerebbe spegnerla una volta per tutte.

— Non dovrebbero permettere a persone come lei di lavorare in una grossa azienda come la HiTek — diceva Sarah, che a dire il vero era una brava persona, malgrado le sue psico-ciance su Ted.

E il dottor Applegate, che decisamente avrebbe dovuto sapere come va il mondo, aggiunse con disgusto: — Immagino che se tu la licenziassi ci citerebbe in giudizio per discriminazione. Ecco cosa c’è di sbagliato in tutta questa robaccia sull’azione assertiva.

Mi domandai a quale minoranza la nuova assistente di Flip avesse la sfortuna di appartenere: latino-americane? lesbiche? membri dell’associazione possessori di armi?

— Quella non mette piede nel mio laboratorio — disse una donna col turbante. — Non voglio espormi senza necessità a rischi per la mia salute.

— Ma non fumerà sul lavoro! — obiettò Gina. — Può battere a macchina cento parole al minuto.

— Non riesco a credere alle mie orecchie — disse Elaine. — Non avete letto il rapporto della Sanità sui pericoli del fumo passivo?

D’altro canto, ci sono momenti in cui, più che riformare la razza umana, preferirei abbandonarla del tutto e diventare, che so, uno dei macachi del dottor O’Reilly, che di sicuro hanno più buonsenso.

Stavo per dirlo a Elaine, quando il dottor O’Reilly mi prese per il braccio. — Venga a sedersi con me — disse, tirandomi via. — Voglio che sia la mia partner, nel caso che Grancapo faccia a sorpresa un’altra seduta di sensitività. — Mi guardò incerto. — A meno che non preferisca stare con i suoi amici.

— No — dissi, guardandoli circondare Gina. — Non in questo momento.

— Oh, bene. Nell’ultimo esercizio di sensitività mi sono ritrovato con Flip. — Ci sedemmo. — Allora, la sua ricerca sulle mode viene al dunque?

— No. Ho scelto il taglio alla maschietta perché volevo una moda che non avesse una causa ovvia. Molte mode sono dovute a conquiste tecnologiche: nylon, letti ad acqua, scarpe di tela illuminate…

— Ricoveri antiatomici.

Annuii. — Oppure sono fenomeni di marketing, come il Trivial Pursuit e gli orsacchiotti.

— E i ricoveri antiatomici.

— Giusto. Il taglio alla maschietta non costava niente, a parte la tariffa del barbiere; e se non avevi i soldi, ti bastava usare un paio di forbici, cioè una tecnologia che esiste da una vita. — Cominciai a emettere un sospiro, ma mi resi conto che mi sarei comportata proprio come Flip.

— Allora qual è il problema? — domandò Bennett.

— Il problema è che il taglio alla maschietta non ha una chiara origine. Per un poco ho sospettato di Irene Castle, ma poi ho scoperto che seguiva una moda olandese assai popolare a Parigi l’anno precedente. E nessuna delle altre fonti ha una correlazione diretta col periodo critico. Ha mai sentito parlare di un posto chiamato Marydale, Ohio?

— Buon giorno! — disse dal podio Grancapo. Aveva una polo, un paio di Docker e un sorriso compiaciuto. — Siamo davvero entusiasti di vedervi tutti qui.

— Che intenzioni ha Grancapo? — bisbigliai a Bennett.

— Un nuovo acronimo, direi — mi rispose in un bisbiglio. — Iniziative Dirigenziali Interdipartimentali Oggettive Trasferibili Altrove. — Scrisse sul notes le iniziali. — I.D.I.O.T.A.

— Oggi abbiamo parecchi argomenti — disse allegramente Grancapo. — Primo, alcuni di voi hanno piccole difficoltà nel compilare il modulo semplificato per l’assegnazione finanziamenti. Riceverete un memo che risponde a tutte le vostre domande. Proprio adesso il collegamento comunicazioni interdipartimentale sta facendo una copia per ciascuno di voi.

Bennett appoggiò la testa sul tavolino.

— Secondo, sono lieto di annunciare che a partire da questa settimana la HiTek istituisce una politica “vesti casual”. È un’idea innovativa che tutte le migliori aziende stanno implementando. L’abbigliamento casual incoraggia un luogo di lavoro più rilassato e più forti interfacce interimpiegati. Perciò a partire da domani mi aspetto di vedervi tutti in abbigliamento casual.

Smisi di ascoltarlo ed esaminai Bennett. Vestiva in modo orrendo. Aveva una camicia di poliestere stampato a piccole margherite in un assortimento di tonalità di marrone, nessuna delle quali si avvicinava a quella dei calzoni di velluto a coste. Sulla camicia portava uno spelacchiato cardigan grigio.

Ma non si trattava solo dei capi di vestiario. Il film basato sulla serie televisiva Brady Bunch aveva riportato di moda gli stili degli anni Venti. L’altro giorno Flip indossava disco-pants di satin e zatteroni, e nel Mall di Boulder si vedevano catene d’oro dappertutto. Ma Bennett non aveva l’aria rétro. Aveva l’aria da “zarro”. Ed ero convinta che avrebbe continuato ad averla anche con un bomber e un paio di Nike. Come se fosse un “anti-moda”.

No, neppure questa definizione era giusta. Quasi tutte le mode iniziavano come rifiuto di mode già esistenti. I capelli lunghi degli anni Sessanta erano un rifiuto del taglio a spazzola degli anni Cinquanta; gli abiti corti, piatti, sformati, poco femminili, erano una reazione ai vestiti vittoriani con un’esagerazione di crinoline e corsetteria.

Bennett non si ribellava alla moda. Più verosimilmente, era ignaro del concetto di moda. No, nemmeno questa era la parola giusta. Bennett era immune alle mode.

E la sua immunità significava forse che le mode stesse erano causate da una sorta di virus? Diedi un’occhiata al tavolo di Gina: Elaine e il dottor Applegate parlottavano animatamente con lei di enfisema e degli avvertimenti della Sanità. Bennett era davvero immune alle mode o solo totalmente estraneo alle mode, come aveva detto Flip?

Aprii il notes, scrissi: “Hanno assunto la nuova assistente di Flip” e lo spinsi davanti a Bennett.

Lui scrisse: “Lo so. L’ho incontrata stamattina. Si chiama Shirl”.

“Sa che fuma?”

Mentre leggeva, studiai la sua espressione. Non mi parve né sorpreso né disgustato.

“Flip me l’ha detto” scrisse Bennett. “Ha detto che Shirl avrebbe inquinato il posto di lavoro. Il bue dice cornuto all’asino.”

Risi.

“Cosa significa quella i che Flip ha tatuata sulla fronte?” scrisse Bennett.

“Non è un tatuaggio, è un marchio.”

“Incompetente o impossibile?”

— Iniziativa — disse Grancapo e tutt’e due alzammo gli occhi, come colti in fallo. — E questo mi porta al terzo argomento. Quanti di voi sanno che cos’è il Niebnitz Grant?

Io lo sapevo e avrei scommesso che lo sapevano tutti, anche se nessuno aveva alzato la mano. È la più ricca borsa di studio per la ricerca, superiore perfino al MacArthur Grant, e virtualmente senza condizioni. Lo scienziato riceve il denaro e può usarlo per qualsiasi tipo di ricerca. O per ritirarsi alle Bahamas.

È anche la borsa di studio più misteriosa che ci sia. Nessuno sa chi l’assegna, perché l’assegna e neppure quando l’assegna. L’anno prima era stata assegnata a Lawrence Chin, che aveva svolto ricerche sull’intelligenza artificiale; l’anno prima ancora ne erano state assegnate quattro, ma erano trascorsi più di tre anni dalla precedente assegnazione. Quelli del Niebnitz Grant (chiunque fossero) planavano periodicamente come Angeli dei Cieli su uno scienziato che nulla sospettava, e facevano in modo che non dovesse mai più compilare un modulo semplificato per l’assegnazione dei finanziamenti.

Non ci sono requisiti né candidature né particolari campi di studio privilegiati. I quattro vincitori del penultimo anno erano un Nobel, un assistente universitario, un chimico che lavorava in un istituto di ricerca francese e un inventore part-time. L’unica cosa certa del Niebnitz Grant è il suo ammontare, che Grancapo aveva appena scritto sulla lavagna a fogli mobili: 1.000.000 di dollari.

— Il vincitore del Niebnitz Grant riceve un milione di dollari da spendere nella ricerca in uno o più campi a sua scelta — disse Grancapo, e girò il foglio della lavagna. — Il Niebnitz Grant viene assegnato per sensibilità scientifica. — Scrisse scienza sul foglio. — Modo di pensare divergente. — Scrisse pensiero. — E circostanziata predisposizione a importanti conquiste scientifiche. — Aggiunse conquista e con la bacchetta picchiettò sulle tre parole. — Scienza. Pensiero. Conquista.

— Che c’entra con noi? — bisbigliò Bennett.

— Due anni fa, l’Istituto di Parigi ha ottenuto un Niebnitz Grant — disse Grancapo.

— No, non è vero — bisbigliai. — L’ha ottenuto uno scienziato che lavorava per l’Istituto.

— E lì usavano tecniche manageriali antiquate — disse Grancapo.

— Oh, no — mormorai. — Grancapo si aspetta che uno di noi vinca un Niebnitz.

— Come può aspettarselo? — bisbigliò Bennett. — Nessuno sa come venga assegnato.

Grancapo lanciò una occhiata gelida nella nostra direzione. — Il Comitato del Niebnitz Grant ricerca progetti creativi in fase di sviluppo che presentino il potenziale per importanti conquiste scientifiche, cioè proprio la materia del nostro programma GRIM. Ora vorrei che formaste dei gruppi e scriveste cinque cose che potete fare per vincere il Niebnitz.

— Pregare — disse Bennett. Strappai dal notes un foglio e scrissi:


1. Ottimizzare il potenziale.

2. Facilitare la disponibilità.

3. Implementare l’intuizione.

4. Stabilire strategicamente le priorità.

5. Aumentare l’assetto centrale.


— Cos’è questa roba? — disse Bennett, guardando l’elenco. — Non ha senso.

— Non ha senso neppure aspettarsi che otteniamo un Niebnitz. — Consegnai il foglio.

— Ora mettiamoci all’opera — concluse Grancapo. — Seguite modi di pensiero divergenti. E fatemi vedere qualche importante conquista scientifica.

Uscì dalla sala, con il bastone di comando sotto il braccio, e tutti rimasero seduti dov’erano, attoniti, tranne Alicia Turnbull, che cominciò a prendere rapidi appunti sull’agenda, e Flip, che si mise a distribuire dei fogli.

— Proiezione Risultati: Importante Conquista Scientifica — dissi, scuotendo la testa. — Be’, il taglio alla maschietta non lo è di sicuro.

— La scienza non funziona a questo modo, non lo sanno? Le nuove conquiste scientifiche non vengono fatte su ordinazione. Si verificano quando guardi ciò a cui lavori per anni e a un tratto vedi un collegamento che non avevi mai notato prima; oppure quando cerchi una cosa completamente diversa. A volte avvengono addirittura per caso. Non si può avere una conquista scientifica solo perché la si vuole, non lo sanno?

— Sono gli stessi che hanno dato a Flip una promozione, ricorda? — Corrugai la fronte. — Cosa vuol dire “circostanziata predisposizione a importanti conquiste scientifiche”?

— Per Fleming, significava guardare una coltura contaminata e notare la muffa che aveva ucciso i batteri — disse Ben.

— E Grancapo come fa a sapere che il Comitato del Niebnitz Grant concede la borsa di studio a progetti creativi che ne presentino il potenziale? Come fa a sapere che c’è un comitato? Per quanto ne sappiamo, Niebnitz potrebbe essere un vecchio straricco che regala denaro a progetti che non presentano alcun potenziale.

— In questo caso, la nostra vittoria è scontata — disse Bennett.

— Per quanto ne sappiamo, Niebnitz potrebbe dare la borsa di studio a gente il cui nome comincia per C, oppure estrarre i nomi da un cappello.

Flip si avvicinò con andatura dinoccolata e diede a Bennett un foglio. — È il memo che spiega il modulo semplificato per il finanziamento? — domandò lui.

— No-o-o-o — rispose Flip, roteando gli occhi. — È una petizione. Per rendere la sala mensa un ambiente al cento per cento senza fumo. — Si allontanò con la stessa andatura.

— So per cosa sta quella i — dissi. — Irritante.

Bennett scosse la testa. — Insopportabile.

BERRETTI DI PELLICCIA DI PROCIONE

(MAGGIO 1955-D1CEMBRE 1955)

Moda per bambini ispirata dalla serie televisiva di Walt Disney Davy Crockett, il kentuckiano eroe di frontiera che combatté ad Alamo e “uccise un orso” all’età di tre anni. Parte di una grande moda commerciale che comprendeva assortimenti arco-e-frecce, coltelli giocattolo, fucili giocattolo, giubbotti con la frangia, corni per la polvere da sparo, cestini per la colazione, puzzle, album da colorare, pigiami, calzoncini e diciassette versioni documentate della “Ballata di Davy Crockett”, di cui ogni ragazzino d’America sapeva i versi. La moda provocò scarsità di pelli di procione e la distruzione di una moda precedente: le giacche di procione degli anni Venti furono fatte a pezzi per ricavarne berretti. Alcuni bambini arrivarono a farsi tagliare i capelli a forma di berretto. La moda crollò proprio prima del Natale 1955, lasciando i commercianti con centinaia di berretti invenduti.


Il giorno dopo, mentre frugavo il laboratorio per trovare i ritagli che avevo dato a Flip da fotocopiare, mi venne in mente la frase di Bennett: se lui aveva già conosciuto la nuova assistente, significava di sicuro che quella era stata assegnata a Biologia. Ma nel pomeriggio Gina venne nel mio laboratorio. Aveva l’aria tormentata. — Non m’interessa cosa dicono — si sfogò. — Ho fatto la cosa giusta, assumendola. Shirl ha appena stampato e rilegato venti copie di un mio articolo. Senza errori. Me ne frego, se respiro fumo passivo-passivo.

— Fumo passivo-passivo?

— Flip chiama così l’aria normalmente espirata dai fumatori. Ma io me ne frego. Ne vale la pena.

— Shirl è stata assegnata a te?

Gina annuì. — Stamattina mi ha consegnato la posta. La mia posta. Dovresti fartela assegnare.

— Ci proverò — dissi. Ma era più facile a dirsi che a farsi. Ora che aveva un’assistente, Flip (con i miei ritagli) era scomparsa dalla faccia della terra. Cercai due volte in tutto l’edificio, compresa la sala mensa, dove su tutti i tavoli erano comparsi grandi cartelli VIETATO FUMARE, e l’Economato, dove Desiderata cercava di scoprire cosa fossero le cartucce per stampante; alla fine la trovai nel mio laboratorio, seduta al mio computer, impegnata a battere qualcosa sulla tastiera.

Flip cancellò ciò che c’era sullo schermo prima che potessi vederlo e si alzò di scatto. Se non fosse stata incapace di provare sensi di colpa, avrei detto che aveva un’aria colpevole.

— Lei non lo stava usando! — disse. — Non era neanche qui!

— Hai fatto la fotocopia dei ritagli che ti ho dato lunedì?

Rimase interdetta.

— Oltre ai ritagli c’erano copie degli annunci personali.

Agitò il ciuffo di capelli. — Userebbe la parola “elegante” per descrivermi?

Aveva aggiunto al ciuffo una lunga trecciolina avvolta in filo da ricamo blu bile e una fascia di nastro adesivo sulla fronte, tagliato in modo da incorniciare la i.

— No — dissi.

— Be’, nessuno si aspetta che tu sei tutte quelle cose — disse Flip, oscuramente. — Comunque, non so perché lei è tanto fanatica per gli annunci personali. Ha già quel cowboy.

— Come?

— Quel Billy Boy Vattelapesca. — Fece un gesto in direzione del telefono. — Ha chiamato e ha detto che sarà in città per un seminario e che lei deve incontrarlo a pranzo da qualche parte. Stasera, penso. Al Nebraska Daisy o qualcosa del genere. Alle sette.

Controllai il blocco dei messaggi telefonici. Intonso. — Non hai scritto il messaggio?

Flip sospirò. — Non posso fare tutto io! Proprio per questo mi hanno dato un’assistente, no? Così dovrei lavorare meno duramente, ma poiché quella è una fumatrice, metà delle persone a cui l’ho assegnata non la vogliono nel proprio laboratorio, così devo ancora copiare tutta quella roba e scendere a Biologia e tutto il resto. Bisognerebbe costringere i fumatori a smettere di fumare.

— Chi le hai assegnato?

— Biologia e Sviluppo Produzione e Chimica e Fisica e Personale e Paghe e tutti quelli che mi gridano e mi fanno fare un mucchio di lavoro. Oppure bisognerebbe metterli in un campo o in qualche posto dove non possono esporre il resto di noi a tutto quel fumo.

— Perché non l’assegni a me? Non m’importa se fuma.

Si mise le mani sui fianchi della gonna di pelle blu. — Provoca il cancro, sa? — disse con aria di disapprovazione. — Inoltre, a lei non la assegnerei mai. Lei è l’unica che mostra una certa gentilezza nei miei confronti, qui in giro.

PAN DEGLI ANGELI (1880 – 90)

Torta di gran moda, così chiamata per suggerirne la celestiale leggerezza e il candore. Ebbe origine o in un ristorante di St. Louis o lungo il fiume Hudson o in India. Il segreto della torta era una dozzina (o undici o quindici) di chiare d’uovo montate a neve. Difficile da cuocere, ispirò un intero folklore: la teglia non doveva essere unta e nessuno doveva camminare in cucina mentre la torta era in forno. Soppiantata ovviamente dal pan dei diavoli al cioccolato.


L’appuntamento era al Kansas Rose alle cinque e mezzo. — Ah, bene, hai ricevuto il mio messaggio — disse Billy Ray, venendomi incontro nel parcheggio. Portava jeans neri, camicia da cowboy bianca e nera, Stetson bianco. Aveva i capelli più lunghi dell’ultima volta. Di sicuro i capelli lunghi stavano tornando di moda.

— Più o meno — dissi. — Ma eccomi qui.

— Mi spiace d’avere dovuto combinare così presto, ma c’è un seminario serale su “Irrigazione su Internet” che non voglio perdermi. — Mi prese a braccetto. — Questo è in teoria il locale più alla moda della città.

Aveva ragione. Anche con la prenotazione bisognava aspettare una mezz’ora, e ogni donna in coda vestiva rosa postmoderno.

— Hai preso le Targhee? — gli domandai, appoggiandomi a un cartello ASSOLUTAMENTE VIETATO FUMARE.

— Sì, sono magnifiche. Basso mantenimento, alta tolleranza al freddo e quindici libbre di lana a stagione.

— Lana? Credevo che le Targhee fossero mucche.

— Ormai più nessuno alleva mucche — disse lui corrugando la fronte, come se avessi dovuto saperlo. — Per la storia del colesterolo. L’agnello ha una percentuale più bassa di colesterolo e il montone dovrebbe essere il capo più alla moda per l’inverno.

— Bobby Jay — chiamò la cameriera, che aveva un grembiule di percalle rosso e treccioline colorate.

— Siamo noi — dissi.

— Non vogliamo sederci nemmeno nelle vicinanze della vecchia sezione fumatori — disse Billy Ray, e seguimmo la cameriera al tavolino.

La moda del girasole, a quanto pareva, era venuta lì a morire. C’erano girasoli intrecciati nella palizzata bianca che circondava il nostro tavolino, incorniciati alle pareti, dipinti sulla porta del bagno, ricamati sui tovaglioli. C’era un grosso mazzo di quelli artificiali nel vaso Mason al centro della tovaglia a girasoli.

— Freddo, eh? — disse Billy Ray, aprendo il menu a forma di girasole. — Tutti dicono che la prateria sarà la prossima grande moda.

— Credevo che fosse il montone — borbottai, prendendo il menu. La cucina della prateria era non tanto alla moda quanto sostanziosa: bistecca di pollo fritto, intingolo alla panna, pannocchia abbrustolita, il tutto servito stile famiglia.

— Da bere? — disse un cameriere in calzoni di pelle scamosciata e bandana girasole.

Guardai il menu. Avevano espresso, cappuccino e caffellatte… Anche quelli andavano forte, ai tempi della prateria. Niente tè freddo.

— Il tè freddo è la bevanda del Kansas — dissi al cameriere. — Come mai non l’avete?

Evidentemente andava a scuola da Flip. Roteò gli occhi, sospirò con aria esperta e disse: — Il tè freddo è outré.

Parola mai pronunciata nella prateria, pensai; ma Billy Ray stava già ordinando polpettone, purea di patate e cappuccino per tutt’e due.

— Allora, parlami di questa ricerca che ti fa lavorare anche nei weekend.

Gliene parlai. — Il guaio è che ho tante di quelle possibili cause che ormai mi escono dalle orecchie — dissi, dopo avergli spiegato che cosa facevo. — Uguaglianza femminile, bicicletta, uno stilista francese di nome Poiret, la Prima guerra mondiale e Coco Chanel che si strinò i capelli per lo scoppio di una stufetta. Purtroppo nessuna di esse pare essere la causa principale.

Il pranzo arrivò, su piatti di terracotta marrone decorati a girasoli. La coleslaw, un’insalata di cavolo tritato, carote, cipolle e maionese, era guarnita con foglioline di basilico fresco (che, come la coleslaw, non mi pareva fosse in gran voga nella prateria), il polpettone con fettine di limone.

Mentre mangiavamo, Billy Ray mi parlò dei pregi dell’allevamento di ovini. Le pecore godevano di buona salute, procuravano guadagni, non erano difficili da imbrancare e potevano pascolare dappertutto, cose che sarei stata più incline a credere se sei mesi prima non mi avesse detto la stessa cosa sull’allevamento dei bovini Longhorn.

— Dessert? — chiese il cameriere, passandoci il menu dei dolci.

Immaginai che il dessert della prateria sarebbe stato crostata di uva spina o forse pesche sciroppate, invece si trattava dei soliti noti: crème brûlé, tiramisù e “il nostro nuovissimo dessert, budino di pane”.

Be’, pareva un dessert del Kansas, d’accordo, il genere di cosa che sei ridotta a mangiare dopo che ti è morta la vacca e le cavallette hanno divorato il raccolto.

— Prendo il tiramisù — dissi.

— Anch’io — disse Billy Ray. — Ho sempre odiato il budino di pan secco. Sembra di mangiare gli avanzi.

— Tutti impazziscono per il nostro budino di pane — disse il cameriere, in tono di rimprovero. — È il nostro dessert più popolare.

Il brutto di studiare le mode è che non puoi mai togliere la spina. Te ne stai lì seduta davanti al tuo cavaliere che mangia il tiramisù, e invece di pensare che è proprio un bravo ragazzo ti ritrovi a meditare sulle mode nei dessert e su come sembra sempre che abbiano un contenuto di zuccheri e di calorie direttamente proporzionale all’ossessione per la dieta.

Il tiramisù, per esempio, che contiene cioccolato e panna montata e due tipi di formaggio. E lo zucchero caramellato, che andava forte negli anni Quaranta malgrado i razionamenti del tempo di guerra.

Negli anni Venti era di moda la torta capovolta all’ananas, un dessert che mi auguro non faccia ritorno tanto presto; negli anni Cinquanta il pan di Spagna; nei Sessanta la fonduta di cioccolato.

Mi domandai se Bennett fosse immune anche alle mode alimentari e cosa ne pensasse del budino di pane e del cheesecake al cioccolato.

— Pensi di nuovo al taglio alla maschietta? — disse Billy Ray. — Forse guardi troppe cose. Nel seminario a cui sono iscritto dicono che devi RIPF.

— Rif?

— RIPF. Restringere il punto focale. Eliminare tutti gli aspetti secondari e focalizzarsi sulle variabili essenziali. Questa faccenda del taglio alla maschietta può avere una sola causa, giusto? Devi restringere il punto focale alle possibilità più probabili e concentrarti su quelle. Funziona, anche. L’ho provato in un caso di scabbia ovina. Sei sicura di non voler venire con me al seminario?

— Devo andare in biblioteca.

— C’è un libro che dovresti prendere: Cinque passi per focalizzarsi sul successo.

Terminato di pranzare, Billy Ray se ne andò a RIPF e io andai in biblioteca a cercare le opere complete di Browning. Lorraine non c’era. C’era invece una ragazza che aveva nastro adesivo, treccine avvolte in filo colorato e un’espressione arcigna. — Ha tre settimane di ritardo — disse.

— Impossibile. L’ho preso la scorsa settimana. E l’ho restituito lunedì. — Dopo avere provato Pippa su Flip e deciso che Browning non sapeva di che cosa parlava. Avevo restituito Browning e preso Otello, quell’altra storia sulle influenze indebite.

La ragazza sospirò. — Il computer dice che è ancora in prestito. Ha guardato a casa?

— Non c’è Lorraine?

Roteò gli occhi. — No-o-o-o.

Decisi che era meglio aspettare che ci fosse Lorraine e andai agli scaffali a cercare da me il Browning.

Le opere complete non c’erano, e non riuscivo a ricordare il titolo del libro suggeritomi da Billy Ray. Presi due libri di Willa Cather, che sapeva bene com’era la cucina della prateria, e Via dalla pazza folla, dove, a quanto ricordavo, comparivano delle pecore; poi gironzolai, cercando di farmi venire in mente il titolo e augurandomi che mi venisse un’ispirazione.

Le biblioteche sono state responsabili di un mucchio di importanti conquiste scientifiche. Darwin leggeva Malthus per svago (il che dovrebbe dirvi qualcosa su di lui) e Alfred Wegener ebbe l’idea della deriva continentale mentre, nella biblioteca dell’università di Marburg, faceva ruotare oziosamente il mappamondo e sfogliava pubblicazioni scientifiche. A me invece non venne niente, neppure il titolo del libro di Billy Ray. Andai alla sezione Economia per vedere se ricordavo il titolo del libro, quando mi folgorò un’intuizione.

Qualcosa sulla tecnica di restringere il punto focale, di eliminare tutti gli aspetti secondari. “Può avere solo una causa, giusto?” aveva detto Billy Ray.

Sbagliato. In un sistema lineare sarebbe stato possibile, ma il taglio alla maschietta non era come la scabbia ovina. Era come uno dei sistemi caotici di Bennett. C’erano decine di variabili e tutte erano importanti. Si alimentavano l’una dell’altra, iterando e reiterando, incrociandosi ed entrando in collisione, determinandosi a vicenda in modi che nessuno si sarebbe aspettato. Forse il problema non era che avevo troppe cause, ma che non ne avevo a sufficienza. Passai al Novecento, presi Quei ruggenti anni Venti; Ragazze spregiudicate, macinini e flagpole-sitters; Gli anni Venti: Uno studio sociologico e tutti i libri su quel periodo che potevo portare e andai al banco.

— Registro a suo nome un ritardo di restituzione — disse la ragazza. — Quattro settimane.

Tornai a casa, eccitata all’idea di trovarmi per la prima volta sulla pista giusta, e mi misi a lavorare sulle nuove variabili.

Gli anni Venti affogavano nelle mode: il jazz, le fiaschette da tasca, le calze arrotolate alle caviglie, i balli, le pellicce di procione, il Mah-jong, le maratone di corsa, le maratone di ballo, le maratone di bacio, le auto da corsa Stutz Bearcat, il flagpole-sitting: ossia la moda lanciata dal famoso stuntman Alvin Kelly di stare appollaiati in cima a un’asta di bandiera, la conseguente mania di stare seduti sugli alberi, i cruciverba. E da qualche parte, fra tutte quelle ginocchia dipinte di rosso e gli impermeabili di tela cerata e le gare di sedia a dondolo, c’era l’azione scatenante che aveva messo in moto la moda del taglio alla maschietta.

Lavorai fino a tardi e poi andai a letto. Prima di addormentarmi, lessi Via dalla pazza folla. Avevo ragione, riguardava le pecore. E le mode. Nel capitolo 5, una pecora cadeva in un burrone e le altre la seguivano, precipitando una dopo l’altra sulle rocce sottostanti.

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