Connie Willis Il fattore invisibile

PARTE PRIMA Inizio

Fratelli, mogli, sorelle, mariti…

il Pifferaio seguono irretiti.

Di via in via avanza lui suonando:

passo passo lo seguono danzando.

ROBERT BROWNING


HULA-HOOP (MARZO 1958 – GIUGNO 1959)

Prototipo di tutte le mode commerciali, il cui fenomenale successo non si è mai più ripetuto. Nato come cerchio di legno per esercizi ginnici nelle palestre australiane, l’hula-hoop fu riprogettato in plastica di colori sgargianti dalla Wham-O e venduto per $1.98 ad adulti e ragazzini. Monache, Red Skelton, geishe, Jane Russell e la regina di Giordania facevano girare l’hula-hoop muovendo i fianchi; persone meno note si lussarono le anche, si slogarono il collo e si procurarono l’emia del disco. Russia e Cina lo misero al bando come esempio di cultura capitalista, una squadra di esploratori belgi ne portò venti al polo Sud (per darli ai pinguini?) e in tutto il mondo se ne vendettero più di cinquanta milioni di esemplari. Passò di moda con la stessa rapidità con cui si era diffuso.


È quasi impossibile individuare con esattezza l’inizio di una moda. Quando una tendenza comincia a sembrare una moda, ormai non ha più origini chiare e il tentativo di rintracciarle nel passato risulta di gran lunga più difficile che non, poniamo, trovare le sorgenti del Nilo.

In primo luogo una moda ha probabilmente più sorgenti, e in secondo luogo riguarda il comportamento umano. Speke e Burton dovettero vedersela con coccodrilli, rapide, mosche tse-tse e nient’altro. In terzo luogo, sappiamo qualcosa di come si comportano i fiumi… per esempio, scorrono a valle. Le mode sembrano sgorgare dal nulla già bell’e fatte e senza una buona ragione. Per esempio, il salto da un ponte, appesi a un cavo elastico. E le lampade psichedeliche.

Le scoperte scientifiche avvengono in maniera analoga. Alla gente piace pensare che la scienza sia razionale e ragionevole, che proceda passo passo dall’ipotesi all’esperimento e alla conclusione. Il dottor Chin, che l’anno scorso ottenne il Niebnitz Grant, ha scritto: “Il metodo della scoperta scientifica è la logica estensione dell’osservare mediante sperimentazione”.

Niente potrebbe essere più lontano dal vero. Il metodo è esattamente uguale a ogni altro tentativo umano: disordinato, fortuito, mal diretto, fortemente influenzato dalla fortuna. Guardate Alexander Fleming: quando una spora portata dal vento entrò dalla finestra del suo laboratorio e contaminò una coltura, lui scoprì la penicillina.

O Roentgen. Mentre lavorava con un tubo catodico rivestito di cartone nero, notò un luccichio proveniente dall’altra parte del laboratorio. Un foglio ricoperto di platinocianuro di bario era diventato fluorescente, anche se era lontano dal tubo. Incuriosito, Roentgen mise la mano fra il tubo e il foglio. E vide l’ombra delle proprie ossa.

Guardate Galvani: quando scoprì la corrente elettrica, studiava il sistema nervoso delle rane. O Messier. Cercava comete e scoprì galassie. Si limitò a segnarle su una mappa, per liberarsi di un fastidio.

Nessuna di queste considerazioni rende il dottor Chin meno meritevole del milione di dollari messo a sua disposizione dal Niebnitz Grant. Non occorre capire come una cosa funziona, per farla funzionare. Pensate alla guida delle auto. E all’inizio delle mode. E alle cotte amorose.

Ma di cosa parlavo? Ah, sì, come avvengono le scoperte scientifiche. Di solito la catena di eventi che portano alle scoperte, come quella che porta a una moda, segue un corso che è troppo complicato e caotico ricostruire. Ma io so esattamente dove una di queste catene iniziò e chi la iniziò.

Era ottobre. Il due di ottobre, un lunedì. Le nove del mattino. Mi trovavo nel laboratorio di statistica, alla HiTek. Ero alle prese con una scatola di ritagli sulla moda dei capelli corti alla maschietta. A proposito, mi chiamo Sandra Foster, lavoro alla HiTek, dipartimento Ricerca e Sviluppo. Ho passato tutta la settimana a esaminare giornali ingialliti e copie del “Saturday Evening Post” e del “Delineator” del 1920, risalendo faticosamente agli inizi della moda dei capelli corti, alla ricerca di ciò che ha indotto ogni donna d’America a tagliarsi da un giorno all’altro “l’onor del capo”, malgrado la pressione sociale, i sermoni intimidatori e quattromila anni di chiome lunghe.

Avevo raccolto un numero infinito di nuovi ritagli; avevo evidenziato riferimenti, articoli di riviste e inserzioni pubblicitarie; li avevo datati; li avevo raggruppati in categorie. Flip mi aveva rubato la cucitrice, avevo terminato le clips e Desiderata non era riuscita a trovarne altre, così mi ero rassegnata ad ammucchiare in bell’ordine i ritagli nella scatola che ora cercavo di portare nel laboratorio.

La scatola pesava ed era stata fabbricata dalla stessa gente che confeziona sacchetti di carta al supermercato; perciò, quando l’avevo mollata a terra, fuori del laboratorio, per aprire la porta chiusa a chiave, si era lacerata sul fianco. Mentre la portavo, un po’ reggendola e un po’ trascinandola, a uno dei banchi per togliere le pile di ritagli, il fianco cominciò a cedere del tutto.

Una valanga di pagine di rivista e di articoli di giornale si riversò dalla scatola prima che potessi ricacciarla dentro: mentre cercavo di tenere fogli e scatola, Flip aprì la porta ed entrò con aria disgustata. Aveva rossetto nero sulle labbra, prendisole nero e microgonna di pelle nera; portava una scatola grossa più o meno come la mia.

— Non sono tenuta a consegnare pacchi — disse. — Tocca a lei andarseli a prendere nella sala posta.

— Non sapevo che ci fosse un pacco per me — replicai, cercando con una mano di tenere insieme la scatola e allungando l’altra verso il banco di laboratorio per prendere un rotolo di nastro adesivo industriale, che era proprio al centro, fuori portata. — Posalo dove ti pare.

Flip roteò gli occhi. — In teoria ha ricevuto l’avviso dell’arrivo di un pacco.

Sì, pensai, e probabilmente toccava a te consegnare l’avviso, cosa che spiega come mai non l’ho ricevuto. — Ti spiace passarmi quel rotolo di nastro adesivo? — dissi invece.

— Gli impiegati non chiedono alle assistenti interdipartimentali di fare commissioni personali o di preparare il caffè — disse Flip.

— Passarmi un rotolo di nastro non è una commissione personale — replicai.

Flip sospirò. — Sto consegnando la corrispondenza interdipartimentale, in teoria. — Scosse i capelli. La settimana precedente si era rasata la testa, ma si era lasciata un lungo ciuffo sul davanti e su un lato, espressamente allo scopo di scuoterlo quando si sentiva trattata male.

Flip è la punizione per il mio tentativo di far licenziare Desiderata, l’assistente che l’aveva preceduta. Desiderata era incompetente, incapace, completamente priva d’iniziativa. Sbagliava a consegnare la posta, sbagliava a prendere nota dei messaggi e passava tutto il tempo libero a esaminarsi le doppie punte. Dopo due mesi e una telefonata sbagliata che mi era costata una borsa di studio governativa, andai in direzione e chiesi che la licenziassero e assumessero un’altra, una qualsiasi, basandomi sul presupposto che nessuna potesse essere peggiore di Desiderata. Mi sbagliavo.

La direzione trasferì Desiderata all’Economato (la HiTek non licenzia mai nessuno, tranne gli scienziati, e neppure a noi invia la lettera di licenziamento, si limita ad annullare per mancanza di fondi i nostri progetti) e assunse Flip, che ha un anellino alla narice, un tatuaggio raffigurante una civetta delle nevi e l’abitudine di sospirare e roteare gli occhi ogni volta che le si chiede di fare una qualsiasi cosa. Tremo alla sola idea di farla licenziare. Chissà chi potrebbero assumere al suo posto.

Flip sospirò forte. — Questo pacco è davvero pesante.

— Allora mettilo giù — dissi, sforzandomi di arrivare al nastro adesivo. Era appena fuori portata. Allungai di qualche millimetro la mano, spostando più in alto quella che teneva insieme la scatola, e mi sporsi al massimo sul banco di laboratorio. Con la punta delle dita riuscii a sfiorare il rotolo.

— È fragile — disse Flip avvicinandosi a me, e lasciò andare il pacco. Cercai di afferrarlo al volo. Il pacco finì con un tonfo sul banco, il lato della mia scatola cedette, i ritagli fuoruscirono e si sparpagliarono sul pavimento.

— La prossima volta se lo prende da sola — disse Flip, pestando i ritagli mentre andava alla porta.

Scossi il pacco per sentire se dentro c’era qualcosa di rotto. Pareva di no. Inoltre, non vidi nessuna scritta FRAGILE. Sull’etichetta c’era: DEPERIBILE. E anche: DOTT.SSA ALICIA TURNBULL.

— Non è per me — dissi, ma Flip era già uscita. Guadai il mare di ritagli e la raggiunsi. — Il pacco non è per me. È per la dottoressa Turnbull, giù a Biologia.

Flip sospirò.

— Devi portarlo alla dottoressa Turnbull.

Flip roteò gli occhi. — Prima devo distribuire il resto della posta interdipartimentale — disse, agitando il ciuffo di capelli. Riprese a percorrere con andatura dinoccolata il corridoio e intanto lasciò cadere due esemplari di detta posta interdipartimentale.

— Quando hai finito di consegnare la posta, cerca di tornare qui a prenderlo — le gridai dietro. — È deperibile. — Poi, ricordando che di questi tempi l’ignoranza va per la maggiore e che “deperibile” non è una parola di uso comunissimo, soggiunsi: — Significa che andrà a male.

Flip non girò nemmeno la testa, ma una porta a metà corridoio si aprì e Gina si sporse fuori. — Cosa c’è, stavolta?

— Stavolta il nastro adesivo è diventato commissione personale.

Gina si avvicinò. — Hai avuto uno di questi? — Mi porse un foglietto azzurro. Era un annuncio di meeting. Mercoledì. Sala mensa. Tutto il personale della HiTek, compreso il dipartimento Ricerca e Sviluppo. — In teoria Flip doveva consegnarne uno a ogni ufficio — concluse Gina.

— Un meeting a che proposito?

— Grancapo è andato a un altro seminario. E ciò significa per noi un esercizio di sensitività, un nuovo acronimo e altri moduli. Mi darò malata, penso. Fra due settimane è il compleanno di Brittany e devo procurarmi le decorazioni per la festa. Cosa va di moda quest’anno per le feste di compleanno? Circo? Selvaggio West?

— Power Rangers. Pensi che potrebbero riorganizzare i dipartimenti? — Dopo l’ultimo seminario a cui Grancapo aveva partecipato, avevano creato il lavoro di Flip come parte del DARC (Direzione Organizzazione Riforma Comunicazioni). Forse stavolta avrebbero eliminato le assistenti interdipartimentali e sarei tornata a farmi le fotocopie, a consegnare di persona i messaggi e a prendermi la posta. Tutte cose che facevo già adesso.

— Odio i Power Rangers — disse Gina. — Spiegami perché devono essere così popolari!

Se ne tornò nel laboratorio, e io tornai a lavorare al taglio alla maschietta. Non era difficile capire come i capelli corti fossero diventati popolari. Niente lunghe chiome da sistemare con pettini e spilloni e ciuffi rialzati sulla fronte, né da lavare per poi aspettare una settimana che si asciughino. Le crocerossine che avevano prestato servizio nella Prima guerra mondiale avevano dovuto tagliarsi i capelli a causa dei pidocchi e avevano apprezzato la libertà e la leggerezza che ne derivava. E c’erano altri evidenti vantaggi, se si pensava alle mode del periodo: ciclismo e tennis su prato.

Allora perché la moda dei capelli alla maschietta non aveva preso piede nel 1918? Perché aveva aspettato altri quattro anni e poi di colpo, senza nessuna ragione evidente, era esplosa in modo tale da causare l’invasione dei negozi di barbiere e il fallimento dall’oggi al domani delle ditte di spilloni per capelli? Nel 1921 il taglio alla maschietta era ancora abbastanza insolito da ottenere la prima pagina dei giornali e da far licenziare le donne. Ma nel 1925 era così comune che ogni foto di gruppo di fine anno scolastico e ogni cartellone pubblicitario e ogni illustrazione di rivista mostravano donne dai capelli corti, e gli unici cappellini venduti erano quelli a cloche, troppo aderenti per adattarsi bene ai capelli lunghi. Cos’era accaduto nel frattempo? Qual era stata l’azione scatenante?

Passai il resto della giornata a selezionare di nuovo i ritagli. Si penserebbe che le pagine di riviste del 1920 siano ingiallite e ruvide, invece no. Scivolarono come anguille fuori della scatola sulle piastrelle e si aprirono a ventaglio da tutte le parti, l’una sull’altra, mescolandosi ai ritagli di giornale e annullando la divisione in categorie. Alcune clips erano addirittura saltate via.

Iniziai a fare la selezione sul pavimento. Un banco del laboratorio era pieno di ritagli sul gioco dei Pogs che Flip avrebbe dovuto prendere per farne fotocopie e che aveva invece lasciato lì; sull’altro banco c’erano tutti i miei dati sul jitterbug, quel ballo sfrenato a ritmo di jazz. Nessuno dei due banchi era abbastanza largo per tutti i mucchietti che dovevo fare, alcuni dei quali si accavallavano: intero articolo dedicato al taglio alla maschietta, rimando all’articolo dedicato alle ragazze spregiudicate degli anni Venti, riferimento preciso, riferimento casuale, riferimento di disapprovazione, riferimento di presa in giro, riferimento scandalizzato e inorridito, illustrazione nella pubblicità, adozione da parte di donne di mezz’età, adozione da parte di ragazzine, adozione da parte di donne anziane, notizie per data, notizie per stato, riferimento urbano, riferimento rurale, riferimento denigratorio, riferimento di completa accettazione, primi segni del declino della moda, moda dichiarata defunta.

Alle cinque meno cinque tutto il pavimento del laboratorio era coperto di mucchietti e Flip non era ancora tornata. Muovendomi con attenzione fra i mucchietti, andai a dare un’altra occhiata al pacco. Biologia era proprio dall’altra parte del complesso, ma non potevo farci niente. Sulla scatola c’era scritto DEPERIBILE, e anche se la mancanza di responsabilità è la tendenza più in voga degli anni Novanta, ancora non si è diffusa in tutta la società. Presi il pacco e andai dalla dottoressa Turnbull.

La scatola pesava una tonnellata. Dopo due piani di scale e quattro corridoi, mi era diventato chiarissimo il motivo per cui la mancanza di responsabilità avesse attecchito così bene. Almeno, mi consolai, visitavo una parte dell’edificio che di solito non frequentavo. Non sapevo con esattezza dove si trovasse Biologia, sapevo solo che era al pianterreno. Ma di sicuro andavo nella direzione giusta. L’aria era più umida e si sentivano deboli rumori di zoo. Seguii i rumori giù per un’altra rampa di scale e per un lungo corridoio. Naturalmente l’ufficio della dottoressa Turnbull era proprio in fondo.

La porta era chiusa. Presi la scatola con l’altro braccio, bussai e aspettai. Nessuna risposta. Cambiai ancora posizione alla scatola, tenendola appoggiata contro la parete, puntellata sul mio fianco, e provai la maniglia. La porta era chiusa a chiave.

L’ultima cosa che volevo era riportare la scatola nel mio ufficio e cercare un frigorifero. Guardai la fila di porte nel corridoio. Erano tutte chiuse, presumibilmente a chiave, ma da quella al centro della fila di sinistra trapelava una luce.

Ripresi la scatola, che diventava di minuto in minuto sempre più pesante, andai alla porta da cui filtrava la luce e bussai. Nessuna risposta. Ma quando provai la maniglia, la porta si aprì e rivelò una giungla di videocamere, apparecchiature per computer, scatoloni aperti e cavi che correvano da tutte le parti.

— Salve — dissi. — C’è qualcuno?

Mi rispose un grugnito soffocato, che mi augurai non provenisse da un inquilino dello zoo. Diedi un’occhiata alla targa sulla porta. — Dottor O’Reilly?

— Sì? — mi rispose una voce maschile proveniente da sotto quello che pareva un impianto di riscaldamento ad aria.

Girai intorno a quell’affare e vidi che ne sporgevano calzoni di velluto a coste marrone, circondati da una confusione di utensili. — Ho un pacco per la dottoressa Turnbull — dissi rivolta alle gambe. — Non è in ufficio. Posso lasciarlo a lei?

— Lo posi pure — disse la voce, senza troppa pazienza.

Cercai dove posare la scatola… un posto che non fosse coperto di apparecchiature video e di matasse di cavetti.

— Non sulle apparecchiature — dissero bruscamente le gambe. — Per terra. Con cura.

Spinsi da parte una corda e due modem e posai a terra la scatola. Mi acquattai accanto alle gambe e dissi: — C’è scritto DEPERIBILE. Deve metterlo in frigo.

— Va bene! — disse l’uomo, brusco. Comparve un braccio lentigginoso in una manica di camicia gualcita; la mano tastò il pavimento intorno alla base del pacco.

Appena fuori portata delle dita c’era un rotolo di nastro adesivo. — Nastro adesivo? — dissi. Glielo passai.

La mano si chiuse intorno al rotolo e rimase lì.

— Non voleva il nastro? — Mi guardai intorno per scoprire che altro potesse cercare. — Pinze? Cacciavite Phillips?

Gambe e braccio sparirono sotto l’impianto di riscaldamento e da dietro emerse una testa. — Mi spiace — disse. Anche la faccia era lentigginosa e sul naso c’era un paio di occhiali dalle lenti spesse come il fondo di una bottiglia di Coca-Cola. — Pensavo che fosse quella tizia della posta.

— Flip — dissi. — No. Flip ha consegnato il pacco nel mio ufficio, per errore.

— Neanche a dirlo. — Uscì da sotto l’impianto di riscaldamento e si alzò. — Mi spiace davvero — disse, spolverandosi. — Di solito non sono così scortese con persone che cercano di consegnare qualcosa. Solo che quella Flip…

— Lo so, lo so — dissi, con un cenno di grande comprensione.

Si ravviò i capelli biondo-rossicci. — L’ultima volta che ha fatto una consegna ha posato il pacco sopra un monitor, che è caduto e ha rotto una videocamera.

— Tipico di Flip — dissi, ma in realtà non ascoltavo. Guardavo lui.

Se, come me, passate un mucchio di tempo ad analizzare le mode e le manie, poi le individuate a prima vista: hippie ecologico, patito del jogging, dottore in scienze commerciali di Wall Street, terrorista urbano. Il dottor O’Reilly non apparteneva a nessuna di queste categorie. Aveva all’incirca la mia età e la mia statura. Portava un camice da laboratorio e calzoni di velluto a coste che erano stati lavati così spesso che le coste erano completamente consumate sulle ginocchia. Si erano anche ristretti e la linea chiara sopra le caviglie rivelava che erano stati allungati.

L’insieme, in particolare le lenti a fondo di bottiglia, avrebbe dovuto produrre un effetto tipo scienziato pazzo, e invece no. Intanto, O’Reilly aveva le lentiggini. E poi calzava scarpe di tela originariamente bianche, sfondate in punta e mezzo scucite. Gli scienziati pazzi portano scarpe nere e calzini bianchi. O’Reilly non aveva neppure un salva-taschino, che invece gli sarebbe servito. Sul taschino del camice da laboratorio c’erano due macchie d’inchiostro di biro e una chiazza di Magic Marker; e una delle tasche applicate era scucita in fondo. E in lui c’era qualcos’altro, una cosa che non riuscivo a individuare e che mi rendeva impossibile classificarlo.

Lo fissai di sottecchi e cercai di stabilire di che cosa si trattasse; lo fissai tanto a lungo che lui mi guardò curiosamente.

— Ho portato il pacco nell’ufficio della dottoressa Tumbull — dissi in fretta — ma lei dev’essere già andata a casa.

— Oggi aveva un meeting sovvenzioni — disse lui. — È bravissima a procurarsele.

— La più importante qualità di uno scienziato, di questi tempi.

— Già. — Sorrise timidamente. — L’avessi io!

— Sandra Foster — mi presentai. Tesi la mano. — Sociologia.

Si ripulì la mano sui calzoni e strinse la mia. — Bennett O’Reilly.

Anche questo era bizzarro. Aveva la mia età. Si sarebbe dovuto chiamare Matt o Mike o, Dio ce ne scampi, Troy. Bennett, invece.

Lo fissai di nuovo. — Biologo? — domandai.

— Teoria del caos.

— Non è un ossimoro?

Rise. — Come ho fatto io, sì. Per questo ho perduto i finanziamenti per il mio progetto e sono venuto a lavorare alla HiTek.

Forse questo giustificava la sua bizzarria, e i calzoni di velluto a coste e le scarpe di tela erano ciò che i teorici del caos indossavano di questi tempi. No, il dottor Applegate, a Chimica, era sempre nel caos e si vestiva come ogni altro del dipartimento Ricerca e Sviluppo: camicia di flanella, berretto da baseball, jeans e Nike.

E quasi tutti alla HiTek lavoravano al di fuori del proprio campo. La scienza ha le sue mode e le sue manie, come qualsiasi altra cosa: teoria delle stringhe, eugenetica, mesmerismo. La teoria del caos era stata di gran moda per un paio d’anni, malgrado l’Utah e la fusione fredda o forse proprio per questo; ma l’una e l’altra erano state soppiantate dall’ingegneria genetica. Se voleva il denaro delle sovvenzioni, il dottor O’Reilly doveva mettere da parte il caos e progettare un esemplare migliorato di topo.

Si chinò sulla scatola. — Non ho un frigo — disse. — Dovrò metterla fuori, sulla veranda. — La raccolse e borbottò un poco. — Oddio, quanto pesa. Probabilmente Flip l’ha consegnata a lei apposta, per non doverla portare fin quaggiù. — La sollevò col ginocchio. — Bene, a nome della dottoressa Turnbull e di tutte le altre vittime di Flip, grazie. — Si avviò in mezzo alla confusione di apparecchiature.

Un chiaro segno di congedo; e poi, a proposito di sovvenzioni, avevo ancora metà dei ritagli sui capelli alla maschietta da suddividere in mucchi ordinati, prima di andare a casa. Ma cercavo ancora di individuare ciò che trovavo di così insolito in lui. Lo seguii nel labirinto di apparecchiature.

— Flip è responsabile anche di questo? — dissi, infilandomi fra due cataste di scatole.

— No — rispose O’Reilly. — Sto mettendo in atto il mio nuovo progetto. — Scavalcò una matassa di cavo.

— Ossia? — Scostai una rete di plastica penzolante.

— Diffusione delle informazioni. — Aprì una porta e uscì sulla veranda. — Qua fuori dovrebbe stare abbastanza al fresco.

— Ah, certo — dissi, stringendomi nelle braccia per difendermi dal gelido vento d’ottobre. La veranda dava su un ampio paddock cintato, con alte staccionate su tutti i lati e una copertura di rete metallica. In fondo c’era un cancello.

— Viene usato per esperimenti su animali di grossa taglia — disse il dottor O’Reilly. — Speravo di avere le scimmie per luglio, così avrebbero potuto stare fuori, ma le scartoffie hanno richiesto più tempo del previsto.

— Scimmie?

— Il mio progetto studia gli schemi di diffusione di informazioni in un gruppo di macachi. Si insegna una cosa a un macaco e poi si documenta come l’informazione si diffonde nel gruppo. Sto lavorando al rapporto fra destrezza utilitaristica e non utilitaristica. Insegno a un macaco una operazione non utilitaristica che presenti una bassa soglia di abilità e molteplici livelli di destrezza…

— Come l’hula-hoop — commentai.

O’Reilly posò la scatola accanto alla porta e si rialzò. — L’hula-hoop?

— L’hula-hoop, il minigolf, il twist. Tutte le mode hanno una bassa soglia di abilità. Per questo non vengono mai di moda le partite lampo a scacchi. E nemmeno la scherma.

O’Reilly spinse contro l’attaccatura del naso gli occhiali dalle lenti a fondo di bottiglia.

— Lavoro a un progetto sulle mode — spiegai. — Cosa le determina, da dove provengono.

— Da dove provengono?

— Non ne ho idea. E se non torno al lavoro, non l’avrò mai. — Gli tesi di nuovo la mano. — Sono lieta d’averla conosciuta, dottor O’Reilly. — Cominciai a ripercorrere il labirinto.

Lui mi seguì. — Non mi era mai venuto in mente di insegnare ai macachi l’hula-hoop — disse pensieroso.

Fui sul punto di dire che lì secondo me non ci sarebbe stato spazio, ma erano quasi le sei e prima di andare a casa dovevo almeno togliere dal pavimento i mucchietti di ritagli e metterli in varie cartelline.

Così salutai di nuovo il dottor O’Reilly e tornai su a Sociologia. Flip era ferma nel corridoio, le mani sui fianchi della microgonna di pelle.

— Sono tornata e lei era andata via — mi assalì, come se mi incolpasse d’averla lasciata a sprofondare nelle sabbie mobili.

— Ero giù a Biologia.

— Sono dovuta tornare fin qui dal Personale — continuò lei, agitando il ciuffo di capelli. — Mi ha detto di tornare!

— Mi ero messa l’animo in pace, con te, e ho consegnato io stessa il pacco — replicai, aspettandomi che protestasse e dicesse che era compito suo consegnare la posta. Avrei dovuto avere più buon senso: in quel modo avrebbe ammesso d’essere realmente responsabile di qualche cosa.

— Ho cercato il pacco per tutto l’ufficio — disse Flip, in tono virtuoso. — Poi, mentre aspettavo, ho raccolto tutte le cartacce che lei ha lasciato per terra e le ho buttate nella spazzatura.

LA BOTTEGA DI VECCHIE CURIOSITÀ (1840 – 41)

Moda d’origine letteraria, nata dalla pubblicazione a puntate del romanzo di Dickens su una bambina e il suo sventurato nonno, cacciati dalla loro bottega e costretti a vagare per l’Inghilterra. L’interesse per quel libro fu così grande che in America la gente affollò il molo in attesa che la nave dall’Inghilterra portasse la puntata successiva e, incapace di aspettare che la nave terminasse la manovra d’ormeggio, gridò ai passeggeri: “La Piccola Nell è morta?”. La bambina era morta e la cosa provocò sofferenza e cordoglio in lettori di ogni età, sesso e grado di durezza d’animo. Nel West, mandriani e minatori piansero apertamente sulle ultime pagine, mentre un parlamentare irlandese gettò dal treno il libro e scoppiò in lacrime.


Le sorgenti del Tamigi non sembrano sorgenti. Sembrano un pascolo e neanche tanto inzuppato d’acqua. Non ci cresce nemmeno una sola pianta acquatica. Se non fosse per un vecchio pozzo, ora riempito di pietre, sarebbe impossibile perfino localizzare il punto. Le mucche, non interessate alle pietre, vagano pigramente sopra le sorgenti, ruminando ranuncoli e carote selvatiche, inconsapevoli del fatto che sotto i loro zoccoli ha origine qualcosa di importante.

La scienza è perfino meno ovvia. Comincia con una mela che cade, con un bricco da tè che bolle. Alex Fleming, mentre dava un’ultima occhiata al suo laboratorio prima di uscire per un lungo fine settimana, non vide nulla di importante nella finestra socchiusa, nell’aria fuligginosa della stazione Paddington che entrava nella stanza. Mentre raccoglieva gli appunti e raccomandava ai suoi assistenti di non toccare niente e chiudeva a chiave la porta, non notò che il coperchio di una delle vaschette di coltura era scivolato di lato di qualche millimetro. Pensava solo alla vacanza, alle commissioni da fare, al ritorno a casa.

Ero nelle sue stesse condizioni. L’unica cosa di cui mi rendevo conto era che Flip aveva accuratamente appallottolato ogni ritaglio, prima di gettarlo nel cestino, e che non avevo modo di lisciarli tutti quella sera. Come risultato, non solo non mi accorsi del primo evento di una catena che avrebbe portato a una scoperta scientifica, ma fui sul punto di perdermi anche il secondo. E il terzo.

Misi il cestino della carta straccia sul banco del laboratorio, sopra la mia ricerca sul jitterbug, sigillai col nastro adesivo la parte superiore della scatola, vi incollai un’etichetta che diceva: NON TOCCARE! MI RIFERISCO A TE, FLIP! e andai all’auto. Nel parcheggio pensai che probabilmente Flip non sapeva nemmeno leggere e tornai in ufficio a prendere il cestino della carta straccia.

Mentre aprivo la porta, squillò il telefono. — Come va? — disse Billy Ray, quando risposi. — Indovina dove sono?

— Nel Wyoming? — tentai. Billy Ray era il proprietario di un ranch di Laramie. Uscivamo insieme, qualche tempo prima, quando facevo ricerche sui balli dei cowboy.

— Nel Montana — disse Billy Ray. — A metà strada fra Lodge Grass e Billings. — Quindi chiamava dal cellulare. — Sono in viaggio per vedere delle Targhee. Sono le più in voga del momento.

Immaginai che fossero anche mucche. Al tempo della mia fase balli, le più in voga del momento erano state le Longhorn Aberdeen. Billy Ray era un simpatico ragazzo e un compendio ambulante di mode country-western. Due piccioni con una fava.

— Questo sabato sono a Denver — disse Billy Ray, con un balbettio che significava che il cellulare cominciava a trovarsi fuori portata. — Per un seminario sull’uso dei computer nella conduzione dei ranch.

Mi domandai oziosamente quale sarebbe stato l’acronimo. Metodologia Ultimativa Conduzione Computerizzata Allevamento?

— Così ho pensato che potevamo mangiare un boccone insieme. A Boulder c’è un nuovo locale prateria.

La cucina della prateria era l’ultimo grido. — Mi dispiace — dissi, guardando il cestino sul tavolo. — Ho avuto un imprevisto. Questo fine settimana mi tocca lavorare.

— Dovresti solo cacciare tutto dentro il computer e far lavorare lui. Io ho infilato nel PC il mio intero ranch.

— Lo so — dissi. Magari fosse stato così semplice!

— Ti serve uno scanner di testi — disse Billy Ray, mentre il ronzio del cellulare diventava più insistente. — Così non devi neppure battere sui tasti.

Chissà se uno scanner legge anche i fogli spiegazzati, pensai.

Il ronzio divenne una serie di scariche. — Bene, facciamo per un’altra volta — disse più o meno Billy Ray e finì nell’oblio cellulare.

Riagganciai la mia modesta cornetta non cellulare e presi il cestino. Sotto, semisepolti nella ricerca sul jitterbug, c’erano i libri che già da due giorni avrei dovuto restituire alla biblioteca. Li misi sopra la striscia di nastro adesivo, che resse, presi il cestino della carta straccia, portai il tutto in macchina e andai alla biblioteca.

Visto che passo i giorni lavorativi a studiare mode, molte delle quali sono francamente disgustose, ho l’impressione che sia mio dovere, dopo il lavoro, incoraggiare quelle che mi piacerebbe vedere attecchire, come la segnalazione di cambio di corsia e il cheesecake al cioccolato. E la lettura.

Inoltre le biblioteche sono ottimi luoghi per osservare tendenze nei bestseller e nella gestione delle biblioteche. E nell’abbigliamento delle bibliotecarie.

— Cosa c’è nella lista prenotazione di questa settimana, Lorraine? — domandai alla bibliotecaria seduta al banco. La donna portava una felpa mélange bianco e nero, con la scritta POPPAMENTE FANTASTICO, e un paio di orecchini a mucca Holstein bianca e nera.

Sotto la guida del fato — rispose. — Ancora. La lista prenotazione è lunga un braccio. Lei è… — Guardò lo schermo del computer e contò. — Al quinto posto. Era al sesto, ma la signora Roxbury ha rinunciato.

— Davvero? — dissi interessata. Di solito un libro non passa di moda finché non esce il seguito, momento in cui i lettori si rendono conto d’essere stati fregati. Come Storia di Oliver e Valzer lento a Cedar Bend. Ecco perché la moda di Via col vento tenne duro per quasi sei anni, col risultato di migliaia d’infelici marmocchi costretti a vivere col nome di Rhett o, ancora peggio, Ashley. Se Margaret Mitchell fosse venuta fuori con Valzer lento a Tara Bend, tutto sarebbe finito. La qual cosa mi ricordò che avrei dovuto controllare se c’erano stati crolli di popolarità di Via col vento dopo la pubblicazione di Rossella.

— Non ci speri troppo, per il Fato — disse Lorraine. — La signora Roxbury ha rinunciato solo perché non riusciva a sopportare l’attesa e ne ha comprato una copia. — Scosse la testa, con un ondeggiare di mucche. — Cosa ci trova, la gente?

Sì, certo, e nel 1890 che cosa ci trovava nel Piccolo lord di Frances Hodgson Burnett, quella storia insulsa e melensa di un bambino dai lunghi riccioli che eredita un castello inglese? Qualsiasi cosa fosse, aveva fatto diventare il romanzo un bestseller e una commedia di successo e un film con Mary Pickford (lei li aveva già, i lunghi riccioli), aveva lanciato uno stile di vestiti di velluto ed era diventato la sventura di una generazione di bambini costretti dalla madre a portare colletti di trina, bigodini e il nome Cedric, che sarebbero stati ben felici di chiamarsi solo Ashley.

— Cos’altro c’è nella lista?

— Il nuovo John Grisham, il nuovo Stephen King, Angeli dall’alto, Sfiorata dall’ala di un angelo, Incontri celesti del terzo tipo, Angeli al tuo fianco, Angeli, angeli dappertutto, Fai lavorare per te il tuo angelo custode e Angeli in sala consiglio.

Niente di utile, per ma Il Grisham e il King erano solo bestseller e la moda degli angeli era in giro da più di un anno.

— La metto nella lista per uno di questi? — domandò Lorraine. — Angeli in sala consiglio è grande.

— No, grazie. Non ci sono novità, eh?

Lorraine corrugò la fronte. — Mi pareva che qualcosa ci fosse… — Guardò lo schermo del computer. — La novelization di Piccole donne — disse — ma non era questo.

La ringraziai e andai agli scaffali. Presi Bernice si taglia i capelli di Scott Fitzgerald e un paio di gialli, che hanno sempre problemi semplici, risolvibili, tipo: “Come ha fatto l’assassino a entrare nella camera chiusa?” invece di problemi molto meno risolvibili tipo: “Cosa provoca le mode?” e “Cosa ho fatto per meritarmi Flip?”, e poi passai all’Ottocento.

Una delle tendenze più sgradevoli nella gestione delle biblioteche negli anni recenti è il concetto che la biblioteca dovrebbe essere “sensibile ai gusti dei clienti”. Ciò significa avere decine di copie de I ponti di Madison County e dei romanzi di Danielle Steel, con conseguente scarsità di spazio negli scaffali, per far fronte alla quale i bibliotecari si sono messi a eliminare i libri che negli ultimi tempi non sono stati richiesti.

“Perché fate fuori Dickens?” avevo domandato a Lorraine l’anno prima, in occasione delle svendite della biblioteca, brandendo una copia de La casa desolata. “Non potete far fuori Dickens.”

“Nessuno l’ha mai preso” mi aveva risposto. “Se nessuno lo prende per un anno, il libro viene tolto dagli scaffali.” Portava una felpa con la scritta UN ORSACCHIOTTO E PER SEMPRE e un paio di orecchini felpati a orsacchiotto. “Evidentemente nessuno l’ha letto.”

“E nessuno lo leggerà mai, perché non ci sarà più” avevo replicato. “La casa desolata è un libro meraviglioso.”

“Allora questa è la sua occasione per comprarlo” aveva detto lei.

Bene, anche questa era una moda, e come sociologa avrei dovuto notarla con interesse e cercare di stabilirne le origini. Non avevo fatto niente. Invece avevo iniziato a prendere libri. Tutti i miei preferiti, che non avevo mai preso perché ne avevo una copia a casa, e tutti i classici e ogni libro con una vecchia legatura in tela, che forse un giorno qualcuno potrebbe voler leggere, quando si saranno esaurite le mode correnti di sentimentalismo e cattivo gusto.

Stavolta presi La scatola sbagliata, in onore degli eventi di quel giorno; e poiché del dottor O’Reilly avevo visto per prima cosa le gambe che sporgevano da sotto un grande oggetto, Il mago di Oz, poi continuai con gli autori della B e cercai Bennett. Il racconto delle vecchie non c’era (probabilmente era già finito nei libri svenduti), ma proprio accanto a Beckett c’era Così muore la carne di Butler, e ciò significava che Il racconto delle vecchie poteva semplicemente essere finito nello scaffale sbagliato.

Cominciai a passare in rassegna gli scaffali, cercando qualcosa di polposo, rilegato in tela e intonso. Borges; Cime tempestose, che avevo già preso quest’anno; Rupert Brooke. E Robert Browning. Opere complete. Non era Arnold Bennett, ma era rilegato in tela e polposo e aveva ancora una tasca all’antica e un cartoncino di restituzione. Presi Browning e Borges e li portai al banco.

— Ho ricordato cosa c’era nella lista prenotazioni — disse Lorraine. — Una novità. Guida alle fate.

— Cos’è, un libro per bambini?

— No. — Lorraine lo tolse dallo scaffale dei prenotati. — Parla della presenza di fate nella nostra vita quotidiana.

Mi porse il libro. Aveva sulla copertina una fata che scrutava da dietro un computer e rispondeva a uno dei requisiti di un libro alla moda: era lungo solo 80 pagine. I ponti di Madison County contava 192 pagine, Il gabbiano Jonathan Livingston ne aveva 93 e Addio, Mister Chip, molto di moda nel 1934, solo 84.

Era anche un cumulo di sciocchezze. I titoli dei capitoli erano: “Come entrare in contatto con la tua fata interiore”, “Come le fate ci possono aiutare ad avere successo nel mondo aziendale” e “Perché non dovresti badare agli increduli”.

— Mi metta pure nella lista — dissi. Le passai il Browning.

— Questo non l’ha preso nessuno per quasi un anno — disse Lorraine.

— Davvero? Be’, ora l’ho preso io. — Raccolsi i miei Borges, Browning e Baum e andai a mangiare un boccone all’Earth Mother.

POULAINES (1350–1480)

Morbide calzature di pelle o di stoffa, con punta allungata. Originarie della Polonia (da qui, poulaines; gli inglesi le chiamavano crackowes, da Cracovia) o più logicamente importate dal Medio Oriente dai crociati, furono in breve una mania presso tutte le corti europee. Le punte diventarono più complicate, imbottite di muschio e sagomate a zampa di leone o a becco d’aquila, e progressivamente più lunghe, al punto che era impossibile camminare senza inciamparvi e del tutto impossibile inginocchiarsi; per tenere in alto la punta, bisognava legarsi al ginocchio una catenella, d’oro o d’argento. Trasferita alle armature, la moda delle poulaines divenne un vero pericolo: nella battaglia di Sempach, nel 1386, i cavalieri austriaci erano inchiodati sul posto dalle calzature metalliche à la poulaine, e furono costretti a tagliare via la punta a colpi di spada per non farsi prendere, diciamo così, in contropiede. Moda soppiantata dalla scarpa a becco d’oca, legata alla caviglia, a punta quadrata, che subito divenne assurdamente larga.


L’Earth Mother ha cibo decente e un tè freddo così buono che lo ordino in qualsiasi periodo dell’anno. In più è un ottimo locale per studiare le mode. Non solo il suo menu è trendy (al momento, vegetariano ruspante) ma sono trendy anche i camerieri. E poi lì davanti c’è un’edicola che tiene tutti i quotidiani alternativi.

Li comprai ed entrai. L’ingresso era pieno di gente in attesa di entrare. Evidentemente il tè freddo dell’Earth Mother cominciava a venire di moda. Mi avvicinai alla cameriera, che aveva capelli corti alla detenuta, shorts da jogging e Teva ai piedi.

Anche questa è una moda: cameriere vestite in modo da sembrare il meno possibile cameriere, probabilmente perché così non riesci mai a trovarle quando vuoi il conto.

— Nome e numero del gruppo? — chiese la cameriera. Sul suo blocchetto di carta c’erano almeno venti nomi.

— Foster, solo io — risposi. — Sala fumatori o non fumatori, la più rapida.

Sembrò indignata. — Qui non abbiamo una sala fumatori! Non sa cosa può farle il fumo?

In genere fa ottenere prima il posto, pensai. Ma quella pareva pronta a cancellare il mio nome, perciò dissi: — Io non fumo. Ero solo disposta a stare anche tra fumatori.

— Il fumo passivo è altrettanto dannoso — disse lei e tracciò una X accanto al mio nome, probabilmente per indicare che avrei trovato posto solo non appena l’inferno si fosse congelato. — La chiamo io — concluse, roteando gli occhi… e mi augurai davvero che anche quel roteare d’occhi non fosse una moda.

Mi accomodai sulla panca accanto alla porta e sfogliai i giornali. Erano pieni di articoli sui diritti degli animali e di inserzioni per la rimozione dei tatuaggi. Passai alla piccola pubblicità. Gli annunci personali non sono una moda. Lo furono sul finire degli anni Ottanta, e poi, come tante altre mode, anziché estinguersi si sono guadagnati una piccola ma solida nicchia nella società.

Accade a molte mode: le ricetrasmittenti su banda cittadina furono così popolari per alcuni mesi che “CQ, CQ” divenne uno slogan e tutti avevano un nome in codice come “Red Hot Mama”, e poi tornarono a essere usate da camionisti e automobilisti dalla guida superveloce. Biciclette, Monopoli, cruciverba: tutte manie che si sono stabilite nella corrente principale. Gli annunci personali hanno trovato posto nei quotidiani alternativi.

Possono esserci mode nelle mode, però, e gli annunci personali seguono mode tutte loro. Insolite varietà di pratiche sessuali sono state di gran moda per un poco. Ora vanno forte le attività all’aperto.

La cameriera, con aria d’infinita disapprovazione, disse: — Foster, gruppo di uno — e mi guidò a un tavolino proprio davanti alla cucina. — Abbiamo messo al bando il fumo già da due anni! — soggiunse, sbattendo sul tavolo un menu.

Presi il foglio, diedi un’occhiata per vedere se avevano ancora la tortina di cavoletti e pomodori seccati al sole, e ripresi a esaminare gli annunci personali. Il jogging era fuori moda, mentre andavano per la maggiore la mountain bike e il kayak. E gli angeli. Un annuncio era intestato MESSAGGERO CELESTE e un altro diceva: “I tuoi angeli ti dicono di chiamarmi? I miei mi hanno detto di scrivere questo annuncio”, cosa che trovai inverosimile.

Anche la ricerca dell’anima gemella era di moda, così come lo erano la spiritualità e gli annunci per i cuori solitari. “Cerco single-divorziata bianca” e “In area orientale-nativoamericana-crescita personale” e “Partner per divertimento-possibile convivenza”. Be’, non è quello che cerchiamo tutti?

Comparve un cameriere, anche lui con shorts da jogging, Teva ai piedi ed espressione imbronciata. Doveva aver visto la X accanto al mio nome. Prima che mi facesse la predica sui pericoli della nicotina, ordinai: — Tortina di cavoletti e tè freddo.

— Finito.

— I cavoletti?

— Tè. — Aprì il menu e indicò la pagina di destra. — Le bevande sono qui.

C’erano, certo. L’intera pagina era dedicata alle bevande: espresso, cappuccino, caffellatte, caffè moka, caffè cacao. Ma niente tè. — Mi piaceva il vostro tè freddo — dissi.

— Nessuno lo beve più.

Perché l’avete tolto dal menu, pensai. Forse usavano lo stesso principio della biblioteca; forse avrei dovuto andarci più spesso e ordinarne più d’uno per salvarlo dalla scure. Provai anche un certo senso di colpa: mi ero persa l’inizio di una moda o almeno di un suo nuovo stadio.

A dire il vero, la moda dell’espresso esisteva da parecchi anni, in particolare sulla West Coast e a Seattle, dove era iniziata. Un mucchio di mode sono nate a Seattle di recente: le orchestrine nei garage, il modo di vestire semplice e trascurato, il caffellatte. Prima di Seattle, le mode iniziavano solitamente a Los Angeles e, prima ancora, a New York. Negli ultimi tempi, Boulder sembra candidata a divenire il prossimo centro delle mode, ma la diffusione dell’espresso a Boulder probabilmente era legata più al nocciolo della questione che alle leggi scientifiche delle mode; comunque rimpiangevo ancora di non essere stata sul posto a osservare come avveniva e a cercare di individuarne l’azione scatenante.

— Prendo un caffellatte — dissi.

— Normale o doppio?

— Doppio.

— Lungo o corto?

— Lungo.

— Con una spolverata di cioccolato o di cinnamomo?

— Cioccolato.

— Poco zuccherato o amaro?

Mi ero sbagliata, quando avevo detto al dottor O’Reilly che tutte le mode devono avere una bassa soglia di abilità.

Dopo varie altre domande e risposte — volevo zucchero in zollette o zucchero scuro? niente grassi o due per cento di grassi? — il cameriere se ne andò e io tornai agli annunci personali.

L’onestà era fuori moda, come al solito. Gli uomini erano tutti “alto, bello, finanziariamente benestante” e le donne “magnifico aspetto, snella, sensibile”. I partner dello stesso sesso erano tutti “attraenti, sofisticati, premurosi”. Ognuno aveva un “eccezionale senso dell’umorismo”, altra cosa che trovai inverosimile. E tutti cercavano NF sensibile, intelligente, ecologista, romantico, buon parlatore.

NF. Cos’era, NF? Nordico Frenetico? Notturno Filarmonico? Notevole Fornicatore? Niente Fellatio? E c’era anche SNF. Sesso Non Fattibile? Tornai indietro di qualche pagina, guardai l’elenco delle abbreviazioni. E ti pareva! Soltanto Non Fumatore.

Le persone in forma, belle, premurose che mettono quelle inserzioni spesso sembrano fare confusione tra annunci personali e il catalogo della L.L. Bean: vorrei l’art. D2481, colore rosso passione. Taglia: piccola. E di frequente precisano colore, forma e niente animali domestici. Ma il numero di non fumatori pareva radicalmente aumentato, dall’ultima volta che avevo fatto un conteggio. Presi dalla borsetta una penna rossa e cominciai a cerchiare le inserzioni NF.

Quando arrivarono il sandwich e il complesso latte, la pagina era già coperta di segni rossi. Mangiai il sandwich, sorseggiai il caffellatte e continuai a segnare inserzioni.

La moda dei non fumatori è iniziata negli ultimi anni Settanta e finora ha seguito il tipico schema delle mode d’avversione, ma mi domandai se stesse per raggiungere un altro, più volubile livello. “Qualsiasi razza, religione, partito politico e preferenza sessuale sono okay” diceva una inserzione, e aggiungeva: “NON FUMATORI”. Tutte maiuscole.

E: “Dev’essere avventuroso, intrepido, ardito, non fumatore”. E: “Io: uomo di successo, ma stanco d’essere solo. Tu: comprensiva, premurosa, non fumatrice, senza figli”. E la mia preferita: “Cerco disperatamente uno che marcia al suono di un tamburo diverso, disprezza le convenzioni, se ne frega di ciò che è o non è alla moda. I fumatori facciano a meno di rispondere.”

Qualcuno era in piedi davanti a me. Il cameriere, probabilmente, in attesa di darmi un cerotto antinicotina. Alzai gli occhi.

— Non sapevo che veniva qui — disse Flip, roteando gli occhi.

— Neanch’io sapevo che ci venissi tu! — replicai. E ora che lo so, pensai, non ci metterò più piede. Soprattutto perché non servono più il tè freddo.

— Gli annunci personali, eh? — disse Flip. Allungò il collo per sbirciare quelli che avevo segnato. — Sono okay, immagino, se una è disperata.

Sono disperata, infatti, pensai; e in un lampo di follia mi domandai se Flip, prima di entrare, si era fermata a svuotare il cestino e se avevo chiuso a chiave la macchina.

— Io non ho bisogno di aiuti artificiali, ho Brine — disse Flip, indicando un tizio dalla testa rasata, stivali dalla punta di ferro e borchie nelle narici, sulle sopracciglia e sul labbro inferiore. Ma in realtà non guardavo lui, guardavo il braccio di Flip, adorno di tre larghi bracciali grigi, intorno al polso, a metà dell’avambraccio e proprio sotto il gomito. Nastro adesivo industriale.

Il che spiegava come mai quel pomeriggio avesse fatto la battuta sulle commissioni personali. Se questa è l’ultima moda, pensai, pianto lì.

— Devo andare — dissi, raccogliendo giornali e borsetta. Diedi in giro un’occhiata frenetica in cerca del cameriere, che non trovai perché era vestito come tutti gli altri. Posai sul tavolino un biglietto da venti e andai di corsa all’uscita.

Mentre scappavo, udii Flip dire a Brine: — Non mi apprezza per niente. Poteva almeno ringraziarmi per averle pulito l’ufficio.

Avevo chiuso a chiave la macchina. Nel tornare a casa, cominciai a sentirmi quasi allegra pensando ai bracciali di nastro adesivo. Prima o poi Flip avrebbe dovuto toglierli. Pensai anche a Brine e a Billy Ray, che porta uno Stetson, jeans tagliati per gli stivaletti e un cercapersone; e a quale grande dote fosse realmente la totale estraneità alla moda che esibiva il dottor O’Reilly.

Al giorno d’oggi, per gli uomini quasi tutto è alla moda: bomber, calzoni da ciclista, quelle ampie tuniche vivacemente colorate degli africani, eleganti abiti da Gentlemen’s Quarterly, jeans troppo larghi, canotte troppo strette, scarpe antisdrucciolo, stivali da escursionista, Birkenstocks. E ora, con l’aggiunta delle sbiadite camicie di flanella del vestire semplice e trascurato e della biancheria termica, è difficile trovare qualcosa che abbia un aspetto tanto brutto da non essere di moda. Ma il dottor O’Reilly ci era riuscito.

Portava capelli troppo lunghi e calzoni troppo corti, ma non era solo quello. In una delle garage bands c’è un batterista che sul palco porta calzoni a metà polpaccio e le trecce, e pare all’ultimo grido in fatto di moda. Non erano neppure gli occhiali: basta guardare Elton John. E Buddy Holly.

Era qualcos’altro, qualcosa che mi aveva tormentato per tutta la sera. Forse dovevo tornare a Biologia e chiedere al dottor O’Reilly il permesso di studiarlo. Forse, se l’avessi seguito mentre insegnava alle sue scimmie l’hula-hoop o quello che aveva in programma, avrei capito come faceva a non essere soggetto alle mode. E studiando un tipo immune alle mode avrei avuto qualche indizio sui tipi non immuni. O forse era meglio che andassi a casa, che lisciassi col ferro da stiro i ritagli e cercassi di immaginare che cosa aveva indotto all’improvviso due milioni di donne a impugnare all’unisono le forbici e a tagliarsi i riccioli alla Piccolo Lord Fauntleroy.

Invece, tornata a casa, lessi Browning. Lessi Il Pifferaio magico, una poesia che, abbastanza curiosamente, riguardava proprio le mode, e iniziai Passa Pippa, una lunga poesia su una operaia italiana di Asolo che aveva un solo giorno di festa all’anno (chiaramente lavorava per la filiale italiana della HiTek) e lo trascorreva girando sotto le finestre e cantando, fra l’altro, “S’alza in volo l’allodola; / la chiocciola è sul rovo”, ispirando tutti quelli che l’ascoltavano.

Mi sarebbe piaciuto che passasse sotto la mia finestra e ispirasse anche me, ma non pareva un evento verosimile. L’ispirazione sarebbe dovuta giungere, come di solito accade nella scienza, grazie alla stiratura di tutti quei ritagli e all’inserimento dei dati in un computer. Tentativi, fallimenti, nuovi tentativi.

Mi sbagliavo. Ero già stata ispirata. Solo che ancora non lo sapevo.

TAVOLE ROTONDE AZIENDALI (1980 – 1985)

Moda d’economia, ispirata dal successo di una pratica aziendale giapponese. Nell’azienda, un comitato di impiegati di tutti i reparti si riunisce una volta al mese, di solito dopo l’orario di lavoro, per condividere esperienze, scambiare idee e fare proposte sul modo di migliorare la conduzione societaria. La moda morì quando fu chiaro che nessuna di quelle proposte veniva accettata. Fu rimpiazzata dai Sistemi Informazione di Qualità, dalla Dinamica dei Sistemi, dai Collegamenti in Tempo Reale e gruppi consimili.


Mercoledì c’era un meeting di tutto lo staff. Arrivai quasi in ritardo. Ero scesa all’Economato e avevo cercato di strappare una scatola di clips a Desiderata, che non sapeva dove (o che cosa) fossero le clips; di conseguenza, quando entrai nella sala mensa, ogni tavolo era occupato.

Gina, dall’altra parte della sala, mi chiamò con un gesto e mi indicò una sedia libera accanto a lei. Mi sedetti proprio mentre Grancapo diceva: — Noi della HiTek non smettiamo mai di lottare per l’eccellenza.

— Cosa succede? — bisbigliai a Gina.

— Grancapo dimostra senza ombra di dubbio che non hanno abbastanza da fare — mi rispose Gina in un bisbiglio. — Così ha inventato un nuovo acronimo. Lo sta illustrando proprio adesso.

— …principio del nostro nuovo entusiasmante programma manageriale è l’Iniziativa. — Con un Magic Marker tracciò una grossa I maiuscola sul primo foglio della lavagna di carta. — L’Iniziativa è la pietra angolare di una buona azienda.

Mi guardai intorno e cercai di scorgere il dottor O’Reilly. Vidi Flip scompostamente appoggiata alla parete di fondo, bracciali di nastro adesivo e aria scontrosa.

— La pietra angolare dell’Iniziativa sono le Risorse — disse Grancapo. Tracciò una R davanti alla I. — E quali sono le più preziose risorse della HiTek? Voi!

Finalmente scorsi il dottor O’Reilly, in piedi accanto ai vassoi e alla posateria, le mani nelle tasche. Quel giorno sembrava un po’ più presentabile, ma non molto. Si era messo un blazer marrone di poliestere, di tonalità un po’ diversa dal marrone dei calzoni di velluto a coste, e una camicia a quadretti bianchi e marroni di una sfumatura ancora diversa.

— Risorse e Iniziativa sono inutili, a meno che non siano guidate — disse Grancapo, tracciando una G davanti alla R e alla I. — Guida alle Risorse e Iniziative del Management — concluse, trionfante, indicando una lettera dopo l’altra. — GRIM.

— Grim …aldello del successo — borbottò Gina, caustica.

— La pietra angolare del GRIM è l’Input dello Staff — disse Grancapo. Tracciò is sul foglio. — Voglio che vi dividiate in gruppi di discussione ed elenchiate cinque obiettivi. — Tracciò sul foglio un grosso 5.

Guardai il dottor O’Reilly, sempre in piedi accanto alla posateria, e mi domandai se potevo invitarlo a unirsi al nostro gruppo di discussione, ma Gina aveva già abbrancato Sarah di Chimica e una certa Elaine del Personale, che portava una fascia elastica sulla fronte e calzoni da ciclista.

— Cinque obiettivi — disse Grancapo (Elaine estrasse immediatamente un notes e numerò da uno a cinque le pagine) — per migliorare l’ambiente di lavoro alla HiTek.

— Licenziare Flip — suggerii.

— Sai cosa mi ha fatto l’altro giorno? — disse Sarah. — Ha archiviato sotto la L i miei grafici di laboratorio.

— Devo scriverlo? — domandò Elaine.

— No — disse Gina. — Scrivete invece che siete tutte invitate al compleanno di Brittany, il diciotto. Alle due. Regali, dolci e niente Power Rangers. Mi sono impuntata. Puoi avere la festa che vuoi, ho detto a Brittany, ma niente Power Rangers.

Il dottor O’Reilly si era finalmente seduto a un tavolino nel centro della sala e si era tolto la giacca. Non era un miglioramento. Così si vedeva la cravatta, un esemplare davvero fuori moda.

— Avete mai guardato bene i Power Rangers? — diceva in quel momento Gina.

— Non posso venire — disse Sarah. — Faccio una dieci chilometri con Paul Ottermeyer.

— In Sicurezza? — disse Gina. — Pensavo che stessi con Ted.

— Ted ha problemi di relazioni affettive. Finché non impara a risolverli, non ha senso che tentiamo una storia seria.

— Così ti accontenti di una dieci chilometri?

— Dovresti provare lo stair-walking — disse Elaine. — Camminare su e giù per le scale ti consente un esercizio preatletico di tutto il corpo, molto migliore della corsa.

Appoggiai il mento sulla mano e meditai sulla cravatta del dottor O’Reilly. Le cravatte sono molto simili al resto dell’abbigliamento maschile. Quasi tutto è di moda. Ma fino a poco tempo fa non era vero. Ogni periodo aveva la sua moda, in fatto di cravatte. Quelle a righe erano di moda nel 1860 e quelle color lavanda nel 1890. Negli anni Venti andavano per la maggiore le cravatte a farfalla; negli anni Quaranta quelle con danzatrici di hula dipinte a mano; negli anni Sessanta quelle con margherite fluorescenti; e tutto ciò che non era di moda, era fuori moda. Ma ora tutto è di moda, comprese stringhe con fermaglio, bandane e il sempre popolare “niente cravatta”. Quella di Bennett non rientrava in nessuna categoria: era brutta e basta.

— Cosa guardi? — mi domandò Gina.

— Il dottor O’Reilly — risposi. Chissà se era abbastanza giovane da avere comprato quella cravatta quando era ancora nuova.

— L’eccentrico giù a Biologia? — disse Elaine, allungando il collo.

— Brutta cravatta — notò Gina.

— E quegli occhiali! — infierì Sarah. — Hanno lenti così spesse che non riesci nemmeno a vedere il colore degli occhi.

— Grigi — dissi io, ma Elaine e Sarah erano tornate a parlare di stair-walking.

— Le scale migliori sono su al campus — disse Elaine. — L’edificio di ingegneria. Sessantotto gradini, ma molto affollati. Perciò di solito faccio quella a Clover.

— Ted è un po’ troppo delicato — disse Sarah. — Deve dimostrare il suo spirito guerriero maschile, altrimenti non riuscirà mai ad accettare il suo lato femminile.

— Bene, colleghi — disse Grancapo. — Avete segnato i vostri cinque obiettivi? Flip, ti spiace raccoglierli?

Elaine parve sbigottita. Gina le strappò il notes e scrisse rapidamente:


1. Ottimizzare il potenziale.

2. Facilitare la disponibilità.

3. Implementare l’intuizione.

4. Stabilire strategicamente le priorità.

5. Aumentare l’assetto centrale.


— Come ci sei riuscita? — domandai con ammirazione.

— Sono le cinque cose che scrivo sempre — rispose Gina. Diede il foglio a Flip che passava con andatura dinoccolata.

— Prima di continuare — disse Grancapo — voglio che vi alziate tutti.

— Bagno-break — mormorò Gina.

— Ora facciamo un esercizio di sensitività — disse Grancapo. — Ognuno si trovi un partner.

Mi girai. Sarah ed Elaine si erano già messe insieme e Gina era sparita. Esitai, chiedendomi se avrei fatto in tempo a raggiungere il dottor O’Reilly, quando vidi una donna con una elegante pettinatura e un tailleur rosso elettrico muoversi con decisione tra la folla e venire verso di me.

— Sono Alicia Turnbull — disse.

— Ah, proprio lei! — Sorrisi. — Ha ricevuto il pacchetto? Era tutto a posto?

— Ciascuno ha un partner? — rombò Grancapo. — Ora, mettetevi uno di fronte all’altro e alzate le mani, palme in fuori.

Eseguimmo. — Siete tutti in arresto — scherzai. La dottoressa Turnbull inarcò il sopracciglio.

— Bene, colleghi — disse Grancapo. — Ora mettete le palme contro quelle del partner.

L’imbecillità è sempre stata una tendenza dominante in America, ma solo di recente ha invaso il luogo di lavoro, per quanto abbia le sue origini negli esperti d’efficienza degli anni Venti. Frank e Lillian Gilbreth, i fondatori del clan “A dozzine costa meno”, che chiaramente non passavano in azienda tutto il loro tempo (dodici figli, proprio così, una dozzina), resero popolari le idee di studio delle istanze, di psicologia nel posto di lavoro e di esperti esterni, e da allora le imprese americane sono sempre state in declino.

— Ora, guardate nel profondo degli occhi il vostro partner — disse Grancapo — e ditegli o ditele tre cose che vi piacciono di lui o di lei. Bene. Uno.

— Dove tirano fuori questa roba? — dissi, guardando nel profondo degli occhi la dottoressa Turnbull.

— Alcuni studi hanno dimostrato che l’addestramento sensitivo migliora notevolmente le relazioni nel luogo di lavoro aziendale — rispose lei, gelida.

— Bene — dissi. — Cominci lei.

— Sul pacco era ben chiara la scritta DEPERIBILE — disse la Turnbull, premendo le mani contro le mie. — Avrebbe dovuto consegnarmelo subito.

— Non era in ufficio.

— Allora doveva scoprire dov’ero.

— Due — disse Grancapo.

— Quel pacco conteneva preziose colture. Avrebbero potuto rovinarsi.

Pareva non tenere in conto un punto importante. — Era Flip, quella che avrebbe dovuto consegnarglielo.

— Allora cosa ci faceva nel suo ufficio?

— Tre — disse Grancapo.

— Le sarò grata se la prossima volta lascerà un messaggio nella mia e-mail — disse la Turnbull. — Ebbene? Non mi dice tre cose che le piacciono di me? Tocca a lei.

Mi piace che lei lavori a Biologia e che quel dipartimento si trovi proprio dall’altra parte del complesso, pensai. — Mi piace il suo vestito — dissi invece — anche se le spalline imbottite sono terribilmente passé. E anche il rosso. Troppo minaccioso. Vanno di moda colori più femminili.

— Non vi sentite meglio con voi stessi? — disse Grancapo, raggiante. — Non vi sentite più vicini al vostro collega operativo?

Anche troppo vicini, in realtà. Battei rapidamente in ritirata verso il tavolino. Gina era tornata. — Dove sei andata? — le domandai.

— In bagno. Regola Numero Uno per Sopravvivere ai Meeting. Andare sempre in bagno durante gli esercizi di sensitività.

— Prima di procedere… — disse Grancapo, e mi preparai a scappare in bagno, nel caso che ci fosse un altro esercizio di sensitività; ma Grancapo passò ad aumentare la quota di scartoffie del nostro programma, che risultarono essere moduli di approvvigionamento.

— Abbiamo avuto alcune lamentele sull’Economato — disse Grancapo. — Così abbiamo istituito una nuova politica che accrescerà l’efficienza di quel dipartimento. Anziché i vecchi moduli dipartimentali di approvvigionamento, userete un nuovo modulo interdipartimentale. Abbiamo anche ristrutturato la procedura di assegnazione dei finanziamenti. Uno degli aspetti più rivoluzionali del GRIM è il modo in cui ottimizza i finanziamenti. Tutte le domande di finanziamento di progetti saranno trattate da un Comitato Revisione Assegnazioni, e questo riguarda anche i progetti che erano già stati approvati. Tutti i moduli devono essere consegnati entro lunedì ventitré. Tutte le domande devono essere inoltrate sui nuovi moduli semplificati di richiesta assegnazione finanziamenti.

Se la pila di fogli che Flip, passando tra la folla, reggeva sulle braccia ornate di nastro adesivo era indicativa, i nuovi moduli di richiesta assegnazione finanziamenti erano più lunghi dei precedenti. Che contavano già trentadue pagine.

— Mentre l’assistente interdipartimentale distribuisce i moduli, voglio sentire il vostro input. Cosa possiamo fare ancora per rendere la HiTek un luogo migliore?

Eliminare le riunioni di staff, pensai, ma rimasi zitta. Forse non sono versata come Gina in Sopravvivenza Riunioni, ma sono abbastanza smaliziata da non alzare la mano. Chi ci casca riesce solo a farsi mettere in un comitato.

A quanto pareva, anche tutti gli altri erano abbastanza smaliziati.

— L’Input dello Staff è la pietra angolare della HiTek — disse Grancapo.

Ancora niente.

— Nessuno? — disse Grancapo, con aria torva come il suo GRIM. Poi si illuminò. — Ah, finalmente una persona che non teme di risaltare nella massa.

Tutti si girarono a guardare. Era Flip. — L’assistente interdipartimentale ha troppi compiti — disse, agitando il ciuffo di capelli.

— Ecco! — disse Grancapo, indicando Flip. — Questo è proprio il tipo di comportamento volto alla soluzione di problemi su cui GRIM si basa. Lei quale soluzione suggerisce?

— Una diversa qualifica — disse Flip. — E un’assistente.

Guardai dall’altra parte della stanza il dottor OHeilly: si teneva la testa fra le mani.

— Okay. Altre idee?

Quaranta mani si alzarono di scatto. Quell’agitare di mani mi fece pensare al Pifferaio magico e ai suoi topi. E ai capelli alla maschietta. Molte mode erano un chiaro caso di “seguire il Pifferaio”. Bo Derek, Dorothy Hamill, Jackie Kennedy avevano lanciato mode di acconciature e non erano state certamente le prime. Madame de Pompadour era responsabile di quelle enormi parrucche incipriate comprendenti navi a vela e famose battaglie d’artiglieria, e Veronica Lake era responsabile di milioni di donne americane che potevano guardare con un occhio solo.

Perciò era logico ritenere che il taglio alla maschietta fosse stato lanciato da qualcuna, ma da chi? Isadora Duncan si era tagliata i capelli nei primi del Novecento e, molto prima, diverse suffragette avevano portato il taglio alla maschietta (e abiti maschili), ma né l’una né le altre avevano attirato un consistente numero di seguaci. Le suffragette erano ovviamente in anticipo sui tempi (e formavano un gruppo piuttosto formidabile, con cui era meglio andarci piano). Isadora Duncan, che saltava scalza per il palcoscenico in striminzite vesti di chiffon, era troppo originale.

La candidata più ovvia era la ballerina da sala Irene Castle. Lei e il marito Vernon (altri miserandi figlioletti) avevano lanciato diverse mode di ballo: l’one-step, il valzer all’inglese, il tango, il “ballo del tacchino” e ovviamente il “passo alla Castle”.

Irene era graziosa e quasi tutto ciò che indossava aveva generato una moda, dalle scarpe di satin bianco alle cuffiette all’olandese. Nel 1913, al culmine della popolarità, mentre era in ospedale per una appendicite, si era tagliata i capelli e aveva continuato a tenerli corti anche dopo la convalescenza, accompagnandoli con un largo nastro che chiaramente preannunciava le ragazze spregiudicate degli anni Venti.

Irene Castle era una nota lanciatrice di mode e aveva le sue seguaci. Ma se era lei la fonte, perché la moda aveva impiegato tanto tempo ad attecchire? Quando nel 1979 comparve sugli schermi Bo Derek con i capelli divisi in file di treccine appiattite contro la testa, nel giro di una settimana si videro dappertutto donne con quella pettinatura. Se Irene era la fonte, perché il taglio alla maschietta non era venuto di moda nel 1913?

Forse i film erano la chiave. No, Mary Pickford si era tagliata i lunghi riccioli solo nel 1928. E se Irene e Vernon avessero per caso girato un film muto nel, diciamo, 1921?

Grancapo invitò di nuovo a parlare chi aveva alzato la mano.

— Penso che dovremmo avere in azienda un carrello col caffè espresso — disse il dottor Applegate.

— Penso che dovremmo avere una palestra d’allenamento — disse Elaine. — E qualche scala in più.

Poteva continuare così per tutto il giorno, e io volevo controllare quali film erano usciti nel 1922. Mi alzai, cercando di dare nell’occhio il meno possibile, presi un modulo da Flip (che aveva saltato il nostro tavolino) e me la svignai verso il fondo della sala, sfogliando il modulo per scoprire quanto era lungo.

Meraviglia delle meraviglie, era davvero più corto del precedente: solo ventidue pagine. E i caratteri erano in un corpo poco più piccolo del… Urtai qualcuno e alzai gli occhi.

Era il dottor O’Reilly, che di sicuro stava facendo la stessa cosa che facevo io. — Mi scusi — disse. — Pensavo alla ripetizione della richiesta di finanziamento. — Alzò le mani, tenendo ancora nella destra il modulo per i finanziamenti, e mi mostrò la palma della sinistra. — Dica al suo partner tre cose che non le piacciono di Grancapo.

— Non potrebbero essere più di tre? — replicai. — Con questa storia, immagino, non otterrà subito i macachi, dottor O’Reilly.

— Mi chiami Bennett. Flip è l’unica che abbia un titolo. Avrei dovuto averli questa settimana. Ora dovrò aspettare chissà quanto. E lei? Questa storia influisce sul suo progetto hula-hoop?

— Taglio alla maschietta — rettificai. — L’unico effetto è che non avrò tempo per lavorarci perché sarò impegnata a compilare questo stupido modulo. Quanto vorrei che Grancapo trovasse qualcos’altro a cui pensare, oltre a inventare nuovi moduli.

— Sst! — fece seccamente qualcuno dalla porta.

Ci spostammo più avanti nel corridoio, fuori portata.

— Riempire moduli è la pietra angolare di Grancapo — bisbigliò Bennett. — Quelli sono convinti che ridurre tutto a moduli sia la chiave della scoperta scientifica. Sfortunatamente la scienza non funziona a questo modo. Guardi Newton. Guardi Archimede.

— Grancapo non avrebbe mai approvato finanziamenti per un frutteto — convenni. — Né per una vasca da bagno.

— Né per un fiume — disse Bennett. — Ecco perché abbiamo perduto il finanziamento per la teoria del caos e io sono dovuto venire a lavorare per GRIM.

— Su cosa lavorava?

— Il Loue. È un fiume francese. Ha la sorgente in una grotta, e ciò significa che è un piccolo sistema delimitato, con un numero di variabili relativamente ridotto. I sistemi che in precedenza gli scienziati hanno cercato di studiare erano enormi: meteorologia, corpo umano, fiumi. Avevano migliaia, perfino milioni di variabili, cosa che rendeva impossibile fare predizioni, così abbiamo trovato…

Da vicino la sua cravatta era ancora più indefinibile che da lontano. Sembrava avere una sorta di disegno, ma non riuscivo a stabilire con esattezza quale. Non era di lana sottile a figure curve astratte (tessuto e disegno paisley erano stati di moda nel 1988), né a pois (1970). E non era neppure a tinta unita.

— …e misurato la temperatura dell’aria, dell’acqua, le dimensioni della grotta, la composizione dell’acqua, la vegetazione lungo le rive… — Si fermò. — Probabilmente ha da fare e non ha il tempo di ascoltare tutto questo.

— No, no, va bene. Devo tornare in ufficio, ma la accompagnerò fino alle scale.

— D’accordo. Be’, la mia idea era che misurando con precisione ogni fattore in un sistema caotico avrei potuto isolare le cause del caos.

— Flip — dissi. — La causa del caos.

Il dottor O’Reilly si mise a ridere. — L’altra causa del caos! So che parlare di cause del caos sembra una contraddizione in termini, poiché i sistemi caotici sono in teoria sistemi dove non vale il comune rapporto di causa ed effetto. Sono sistemi non lineari, ossia comprendono un numero elevato di fattori che operano in un modo così interconnesso da rendere impossibile la previsione.

Come le mode, pensai.

— Ma ci sono leggi che li governano. Abbiamo definito matematicamente alcune di esse: entropia, instabilità interna e iterazione, che è…

— L’effetto farfalla — dissi.

— Esatto. Una minuscola variabile ha un effetto di ritorno sul sistema e poi il feedback ha a sua volta un effetto di ritorno, finché non influenza il sistema in modo sproporzionato alla propria grandezza.

— Una farfalla che batte le ali a Los Angeles può provocare un tifone a Hong Kong. O un meeting di tutto lo staff alla HiTek.

Sembrò soddisfatto. — Sa qualcosa sul caos?

— Solo da esperienze personali.

— Già, il caos pare all’ordine del giorno, da queste parti. Ah, be’, il mio progetto consisteva nel calcolare gli effetti di iterazione e di entropia per vedere se giustificavano il caos o se vi era implicato un altro fattore.

— E vi era implicato?

Divenne pensieroso. — Secondo i teorici del caos, il principio d’incertezza di Heisenberg significa che i sistemi caotici sono intrinsecamente imprevedibili. Verhoest ritiene che la previsione sia possibile, ma ha proposto l’esistenza di un’altra forza che spinge il caos, un fattore X che ne influenza il comportamento.

— Falene — dissi.

— Prego?

— O locuste. Qualcosa di diverso dalle farfalle.

— Oh. Giusto. Ma Verhoest sbaglia. La mia teoria è che l’iterazione può giustificare qualsiasi cosa avvenga in un sistema caotico, una volta che tutti i fattori siano noti e adeguatamente misurati. Non ho mai avuto la possibilità di scoprirlo. Sono riuscito a fare solo due cicli di elaborazione, prima che mi tagliassero i finanziamenti. Non hanno mostrato un aumento di prevedibilità: ciò significa che o mi sbagliavo o non avevo tutte le variabili. — Si interruppe, con le mani sulla maniglia di una porta, e mi resi conto che eravamo davanti al suo ufficio. Evidentemente l’avevo accompagnato giù fino a Biologia.

— Bene — dissi, rimpiangendo di non avere maggior tempo per analizzare la sua cravatta — è meglio che torni al lavoro. Devo prepararmi alla nuova assistente di Flip. E devo riempire il modulo per il finanziamento. — Guardai tristemente i fogli. — Almeno, è corto.

Da dietro le grosse lenti mi guardò come se non avesse capito.

— Solo ventidue pagine — spiegai, mostrandogli il modulo.

— I moduli per il finanziamento non sono stati ancora stampati — disse il dottor O’Reilly. — Dovremmo averli domani, in teoria. — Indicò i fogli che tenevo in mano. — Quello è il nuovo modulo semplificato per il reperimento di forniture da ufficio. Per ordinare clips.

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