CAPITOLO III

Un giorno Robert Wolff tolse il corno d’argento dal suo nascondiglio nel cavo di un albero. Attraverso la foresta, si diresse verso il macigno dal quale l’uomo che si era definito Kickaha gli aveva gettato il corno. Kickaha e le orribili creature erano scomparsi, come se non fossero mai esistiti, e nessuno di coloro ai quali aveva rivolto domande li aveva mai visti né mai aveva sentito parlare di loro. Aveva deciso di ritornare nel suo mondo di origine, e di provare a vivere laggiù. Se avesse deciso che i suoi vantaggi erano superiori a quelli del pianeta Giardino dell’Eden, sarebbe rimasto là. O, forse, avrebbe potuto viaggiare avanti e indietro, traendo così il meglio da entrambi. Quando si fosse stancato di uno, avrebbe passato un periodo di vacanza nell’altro.

Lungo la strada, si fermò un momento per accettare l’invito di Elikopis a bere qualcosa e parlare. Elikopis, il cui nome significava «Occhi splendenti», era una stupenda e formosa driade. Era più vicina alla «normalità» di qualsiasi altra creatura lui avesse incontrato fino a quel momento. Se i suoi capelli non fossero stati purpurei, avrebbe, vestita nel modo adatto, attirato sulla Terra l’attenzione riservata alle femmine dall’aspetto più leggiadro.

Inoltre, era una delle poche capaci di affrontare una conversazione degna di essere portata fino in fondo. Non aveva della conversazione il concetto comune di chiacchierare allegramente e di ridere forte senza ragione e di ignorare le parole di coloro che avrebbero dovuto parlarle. Wolff era rimasto deluso e disgustato, scoprendo che quasi tutti gli abitanti della foresta e della spiaggia si dedicavano ai monologhi, per quanto sembrasse intensa la conversazione, e per quanto sembrassero adoratori dello spirito di gruppo.

Elikopis era diversa, forse perché non apparteneva a nessun «gruppo», sebbene fosse più che probabile che la causa fosse esattamente l’inverso. In quel mondo davanti al mare, che mancava perfino della tecnologia degli aborigeni australiani (e non ne aveva neppure la necessità), si era sviluppato un sistema alquanto complesso di relazioni sociali. Ogni gruppo aveva territori di spiaggia e di foresta ben definiti, con livelli di prestigio interni. Erano in grado di recitare nei particolari (e amavano farlo) la propria posizione rispetto ad ogni altro individuo del gruppo, che di solito si componeva di circa trenta individui. Potevano e volevano recitare le discussioni, le riconciliazioni, i difetti e le virtù, la forza atletica o la sua mancanza, l’abilità nei loro svariati giochi infantili, e valutare le virtù sessuali di ciascuno.

Elikopis aveva un senso dell’umorismo vivido come i suoi occhi, ma possedeva anche una certa sensibilità. Quel giorno aveva un ulteriore motivo di attrazione, uno specchio di vetro incastonato in un cerchio d’oro tempestato di diamanti. Era uno dei pochissimi manufatti che Wolff avesse visto fino a quel momento.

«Dove l’hai preso?» domandò lui.

«Oh, me l’ha dato il Signore» rispose Elikopis. «Una volta, molto tempo fa, ero una delle sue favorite. Quando scendeva dalla cima del mondo per visitarci, passava molto del suo tempo con me. Chryseis e io eravamo quelle che lui preferiva. Ci crederesti? Le altre ci odiano ancora per questo. Ecco perché sono così sola… non che il restare con gli altri valga molto.»

«E che aspetto aveva il Signore?»

Lei rise e disse:

«Dal collo in giù, aveva l’aspetto di qualsiasi uomo alto e ben fatto, come te.»

Lei gli circondò il collo col braccio, e cominciò a baciarlo sulla guancia, lentamente dirigendosi verso l’orecchio.

«Il suo volto?» chiese Wolff.

«Non lo conosco. Potevo toccarlo, ma non vederlo. Un alone di luce si sprigionava da esso e mi accecava. Quando si avvicinava a me, dovevo chiudere gli occhi, tanto era forte.»

Lei gli chiuse le labbra coi suoi baci, e dopo qualche istante Wolff dimenticò le sue domande. Ma quando lei fu sdraiata accanto a lui, sonnolenta, sull’erba soffice, lui prese lo specchio e lo guardò. Il suo cuore fu pervaso dalla felicità. Aveva l’aspetto dei suoi venticinque anni. Lo aveva saputo, ma non se ne era reso conto appieno, fino a quel momento.

«E se ritorno sulla Terra, invecchierò con la stessa rapidità con la quale ho riguadagnato la mia gioventù?»

Si alzò, e rimase in piedi immobile, per qualche tempo, immerso nei suoi pensieri. Poi disse:

«Ma chi voglio ingannare? Non tornerò indietro.»

«Se adesso mi lasci» disse Elikopis, languidamente, «cerca Chryseis. Le è accaduto qualcosa: fugge ogni volta che qualcuno le si avvicina. Anch’io, la sua unica amica, non posso avvicinarla. Le è accaduto qualcosa di spaventoso, qualcosa di cui non vuole parlare. Ti piacerà. Non è come le altre; è come me.»

«Benissimo» rispose con aria assente Wolff. «Lo farò.»

Camminò, finché non si trovò solo. Anche se non intendeva servirsi del passaggio dal quale era giunto, voleva fare degli esperimenti col corno. Forse c’erano degli altri passaggi. Era possibile che, in qualsiasi punto si suonasse il corno, venisse aperto un passaggio.

L’albero sotto il quale si era fermato era una delle numerose cornucopie. Era alto sessanta metri, aveva uno spessore di dieci, una corteccia azzurrina, liscia, levigata, e rami grossi come la sua coscia e lunghi venti metri. I rami erano privi di foglie e di germogli. Alla fine di ciascun ramo si trovava un fiore dal calice coriaceo, lungo due metri e mezzo, e dell’esatta forma di una cornucopia.

Dalle cornucopie scendevano, a intervalli regolari, flussi di una sostanza simile alla cioccolata. La sostanza aveva il sapore del miele, con un leggero sentore di tabacco… un miscuglio strano, che però gli piaceva moltissimo. Ogni creatura della foresta ne mangiava.

Sotto l’albero della cornucopia, soffiò nel corno. Non apparve nessun «passaggio». Cercò ancora, a cento metri di distanza, ma senza successo. Così, decise, il corno funzionava soltanto in certe zone, forse soltanto in quel luogo vicino al macigno a forma di fungo.

Allora scorse la testa della fanciulla che si era affacciata tra le fronde quando il passaggio si era aperto per la prima volta. Aveva sempre quel volto a forma di cuore, gli occhi immensi, le labbra piene e scarlatte, e i lunghi capelli tigrati.

Lui la salutò, ma lei fuggì. Il suo corpo era stupendo: le sue gambe erano le più lunghe, in proporzione al corpo, che mai avesse visto in una donna. Inoltre, era più snella delle altre femmine di quel mondo, dai fianchi troppo abbondanti, dalle curve troppo evidenti e dai seni troppo pieni.

Wolff la seguì, di corsa. La ragazza si voltò un istante, emise un grido di disperazione, e continuò a correre. Allora lui fu sul punto di fermarsi, perché nessuno degli indigeni aveva avuto reazioni del genere. Una ritrosia iniziale, sì, ma non panico completo e fuga disperata.

La ragazza corse fino a che le forze l’aiutarono. Singhiozzando, respirando affannosamente, si appoggiò a un piccolo macigno coperto di muschio, vicino a una cascata. Era circondata da fiori gialli, a forma di punto interrogativo, che le arrivavano alla coscia. Un uccello dagli occhi di civetta, dalle penne dritte e dalle lunghe zampe ricurve era appollaiato in cima al macigno, e li fissava. Emise dei deboli squittii.

«Non avere paura di me. Non ti farò del male. Voglio soltanto parlarti.»

La fanciulla indicò con un dito tremante il corno. Con voce malferma, domandò:

«Dove l’hai preso?»

«L’ho avuto da un uomo che ha detto di chiamarsi Kickaha. Tu l’hai visto. Lo conosci?»

Gli occhi enormi della fanciulla erano color acquamarina; Wolff li giudicò gli occhi più belli che mai avesse visto. Questo malgrado, o forse a causa, delle pupille feline.

Lei scosse il capo:

«No! Non lo conosco. L’ho visto per la prima volta quando quelle…» deglutì e impallidì e sembrò sul punto di vomitare «… cose lo hanno respinto fino al macigno. E ho visto che lo trascinavano via dal macigno.»

«Allora non è stato finito?» domandò Wolff. Non disse ucciso o morto o assassinato, perché si trattava di parole tabù.

«No! Forse quelle cose volevano fargli qualcosa di peggio che… finirlo?»

«Perché sei fuggita da me?» domandò Wolff. «Io non sono una di quelle cose.»

«Io… non posso parlarne.»

Wolff meditò sulla sua riluttanza a parlare di cose sgradevoli. Quella gente aveva così pochi fenomeni sgradevoli o repellenti nella vita, che non era in grado di affrontare neppure quelli. Era condizionata completamente al bello e al facile.

«Non mi importa che tu voglia parlarne o meno» disse luì. «Devi farlo. È molto importante.»

Lei voltò il capo.

«No!»

«Da che parte sono andati?»

«Chi?»

«Quei mostri. E Kickaha.»

«Ho sentito che lui li chiamava gworl» disse lei. «Non ho mai sentito prima questa parola. Loro… i gworl… devono venire da… qualche altro posto.» Indicò un punto in alto, verso il mare. «Devono venire dalla montagna. Di lassù, da qualche parte.»

Bruscamente, si rivolse a lui e gli si avvicinò. I suoi occhi immensi fissavano quelli di Wolff, e anche in quel momento lui non poté fare a meno di considerare quanto fossero squisiti i suoi lineamenti e quanto fosse liscia e appetibile la sua pelle.

«Andiamocene di qui!» gridò lei. «Andiamocene lontano! Quelle cose sono ancora qui. Alcune possono avere portato via Kickaha, ma non se ne sono andate tutte! Ne ho viste un paio, qualche giorno fa. Si nascondevano nel cavo di un albero. I loro occhi splendevano come quelli degli animali, e hanno tutte un odore orribile, come frutti marciti e imputriditi!»

Posò la mano sul corno.

«Credo che vogliano questo!»

Wolff disse:

«E io ho suonato il corno. Se c’è qualcuno di loro nelle vicinanze, lo avrà sentito per forza!»

Si guardò intorno. Qualcosa brillava dietro un cespuglio, a circa cento metri.

Tenne gli occhi sul cespuglio, e dopo qualche tempo vide tremare le foglie, e di nuovo un lampo di luce. Strinse la mano sottile della fanciulla, e disse:

«Andiamocene. Ma cerca di camminare come se non avessi visto nulla. Fa’ finta di niente.»

Lei gli strinse la mano, e disse:

«Cosa succede?»

«Non allarmarti. Mi sembra di avere visto qualcosa, dietro un cespuglio. Potrebbe non essere niente, ma potrebbe anche trattarsi di un gworl. Non guardare! Sarebbe un disastro.»

Ma le sue parole erano giunte in ritardo, perché lei aveva già voltato il capo. Ansimò, e si avvicinò ancora di più all’uomo.

«Loro… loro!»

Lui guardò nella direzione indicata dal dito affusolato della fanciulla, e vide due figure nere e tozze che uscivano dai cespugli. Ciascuna stringeva in mano una lunga lama d’acciaio, grossa e ricurva. Facevano ondeggiare le lame e gridavano qualcosa con voce raspante. Non indossavano vesti sui neri corpi pelosi, ma un’ampia cintura intorno alla vita portava armi da taglio delle più svariate fogge.

Wolff disse:

«Non allarmarti. Non credo che possano correre molto forte, con quelle buffe gambe. Dov’è un buon rifugio, un posto in cui non possano raggiungerci?»

«Oltre il mare» disse con voce tremula. «Non credo che possano ritrovarci, se fuggiamo laggiù. Potremmo servirci di un histoikhthys.»

Si riferiva a uno dei grossi molluschi che abbondavano nell’oceano. Avevano dei corpi ricoperti da gusci sottilissimi ma solidi, simili alla chiglia di un’imbarcazione da turismo. Una cartilagine sottile ma robusta usciva verticalmente dalla parte esterna di ciascuna valva, e una vela triangolare di carne, sottile fino al punto di sembrare trasparente, cresceva intorno all’asse cartilagineo. L’angolazione della vela era controllata dai movimenti muscolari, e la forza del vento sulla vela, oltre all’espulsione di getti d’acqua, permetteva alla creatura di muoversi rapidamente in acqua, sia che ci fosse vento o meno. Le sirene e le creature che vivevano sulla spiaggia si servivano spesso di quelle creature, pilotandole a volontà, esercitando una pressione sui centri nervosi esposti.

«Pensi che i gworl dovranno usare un’imbarcazione?» domandò lui. «In questo caso, dovranno fabbricarsene una. Non ne esistono, qui intorno.»

Wolff si guardava continuamente alle spalle. I gworl avevano accelerato l’andatura, e i loro corpi si muovevano come quelli di un marinaio ubriaco, ad ogni passo. Wolff e la fanciulla raggiunsero un torrente ampio circa venti metri e che, nel punto di maggiore profondità, arrivava loro alla vita. L’acqua era fresca, ma era una frescura gradevole, limpida, e si vedevano guizzare dei pesciolini argentati. Quando giunsero sull’altra sponda, si nascosero dietro un grosso albero della cornucopia. La ragazza insisteva perché continuassero a fuggire, ma lui le rispose:

«Saranno in difficoltà, quando raggiungeranno il centro del torrente.»

«Che vuoi dire?» domandò lei.

Lui non rispose. Nascose il corno dietro l’albero, e si guardò intorno, fino a che non riuscì a trovare una pietra. Era piuttosto grossa, rotonda, e scabra quel tanto che bastava a permettergli di maneggiarla agevolmente. Sollevò una cornucopia, caduta a terra, e la soppesò. Era grossa, ma vuota all’interno, e pesava circa dieci chili. Quando ebbe finito queste operazioni, i gworl avevano già raggiunto la sponda opposta del torrente. Fu allora che scoprì un punto debole di quelle spaventose creature. Camminavano avanti e indietro, lungo la sponda, e agitavano furiosamente le loro lame, e grugnivano con tanta violenza, nel loro linguaggio gutturale, che egli poté sentirle a quella distanza. Finalmente, una di esse mise un piede nell’acqua. Lo ritirò quasi immediatamente, lo scosse come un gatto si scuote una zampa bagnata, e disse qualcosa all’altro gworl. Questi si fece indietro, e gridò qualcosa.

Il gworl con il piede bagnato gridò a sua volta, ma avanzò verso l’acqua, e, riluttante, cominciò a procedere. Wolff lo seguì con lo sguardo, e notò che l’altro era deciso a restare di guardia, finché il suo compagno non avesse compiuto la traversata sano e salvo. Wolff aspettò che la creatura avesse superato il centro del torrente; poi sollevò con una mano la cornucopia, il sasso con l’altra, e corse verso il corso d’acqua. Alle sue spalle, la fanciulla gridò. Wolff imprecò, perché il grido avvertiva i gworl del suo arrivo.

Il gworl si fermò, con l’acqua fino alla cintola, gridò qualcosa a Wolff e brandì la sua lama. Wolff risparmiò il fiato, perché voleva tesaurizzare ogni energia. Corse verso la sponda del torrente, mentre il gworl riprendeva la sua avanzata verso il medesimo punto. Il gworl che si trovava dalla parte opposta si era immobilizzato, all’apparizione di Wolff; subito dopo, si era tuffato nell’acqua per soccorrere il suo compagno. Questo rientrava nei piani di Wolff. Sperava soltanto di riuscire a sistemare il primo, prima che il secondo fosse riuscito a raggiungerlo.

Il gworl più vicino lanciò il coltello; Wolff sollevò la cornucopia davanti a sé. Il coltello affondò sulla superficie sottile ma solidissima del frutto con una forza incredibile, e quasi glielo fece saltar via di mano. Il gworl fece per estrarre un altro coltello dalla sua cintura. Wolff non perse tempo a estrarre il primo coltello dalla cornucopia; continuò a correre. Nel momento in cui il gworl sollevò il coltello per colpire Wolff, Wolff mollò la pietra, sollevò il grande frutto a forma di campana, e lo sbatté sulla creatura.

Un guaito attutito si udì giungere dall’interno della cornucopia. La cornucopia si rovesciò, insieme al gworl, ed entrambi cominciarono a galleggiare, portati verso il mare dalla corrente. Wolff corse nell’acqua, riprese il sasso, e afferrò il gworl per una gamba. Diede un’occhiata frettolosa all’altro, e vide che stava per lanciare il coltello. Wolff afferrò il manico del coltello che sporgeva dalla cornucopia, lo tirò fuori, e poi si gettò giù, al riparo della cornucopia. Fu costretto a lasciare la presa, abbandonando il piede peloso del gworl, ma riuscì a evitare il coltello. Rimbalzò sul bordo della cornucopia e si piantò fino all’impugnatura nella fanghiglia della sponda.

Nello stesso tempo, il gworl dentro la cornucopia cercò di uscirne, annaspando. Wolff lo colpì al fianco; il coltello scivolò su una delle protuberanze cartilaginee. Il gworl urlò e si voltò ad affrontarlo. Wolff si alzò e colpì allo stomaco la creatura, con tutte le sue forze. Il coltello affondò fino all’impugnatura. Il gworl cercò di afferrarlo; Wolff arretrò d’un passo; il gworl cadde nell’acqua. La cornucopia, galleggiando, si allontanò, lasciando esposto Wolff, senza coltello, e solo con la pietra in mano. Il gworl superstite stava avanzando verso di lui, stringendo il coltello all’altezza del petto. Evidentemente, non intendeva tentare un secondo lancio. Voleva affrontare Wolff direttamente.

Wolff si costrinse ad attendere, fino a quando la cosa non fu a tre metri da lui. Aspettando, si raccolse, tanto che l’acqua gli arrivò al petto e nascose la pietra, che aveva passato dalla mano sinistra alla destra. Ora poteva vedere chiaramente il volto del gworl. Aveva una fronte bassissima, una doppia arcata sopraccigliare, delle sopracciglia spesse e folte, occhi giallo-limone vicinissimi l’uno all’altro, un naso appiattito, con una sola narice, delle labbra bestiali nere e sottili, una mascella sporgente che si curvava all’esterno e dava alla bocca un aspetto da rospo, niente mento, e i denti aguzzi e spaziati dei carnivori. La testa, il volto e il corpo erano coperti di un pelo lungo, folto e nero. Il collo era grossissimo, e le spalle erano curve. Il pelo bagnato puzzava come un frutto marcito.

Wolff fu spaventato dall’orribile deformità della creatura, ma non arretrò d’un passo. Se avesse ceduto, e si fosse messo a correre verso la salvezza, si sarebbe trovato con un coltello infilato nella schiena.

Quando il gworl, alternando sibili e suoni raschianti nel suo sgradevole linguaggio, fu giunto a due metri da lui, Wolff si eresse. Sollevò la pietra, e il gworl, vedendo le sue intenzioni, sollevò il coltello per lanciarlo. La pietra partì velocissima, diritta, e colpì alla fronte il gworl. La creatura barcollò, lasciò cadere il coltello, e cadde all’indietro nell’acqua. Wolff annaspò in quella direzione, si tuffò alla ricerca della pietra, la trovò, e uscì dall’acqua mentre il gworl si stava rimettendo in piedi. Sebbene conservasse un’espressione di stordimento, non era fuori combattimento. E impugnava un altro coltello.

Wolff sollevò la pietra e la fece piombare con forza sul cranio della creatura. Si udì uno schianto. Il gworl tornò a cadere, sparendo nell’acqua, e apparve a diversi metri di distanza, galleggiando bocconi.

Allora subentrò la reazione. Il suo cuore batteva così forte che sembrava dover cedere da un momento all’altro, e lui tremava in ogni fibra, e una violenta nausea lo attanagliava. Ma ricordò il coltello piantato nel fango, e andò a riprenderlo.

La fanciulla era ancora dietro l’albero. Aveva un aspetto terrorizzato, era ammutolita dallo spavento. Wolff raccolse il corno, strinse con una mano il braccio della fanciulla, e la scosse con violenza.

«Scuotiti, avanti! Pensa a quanto sei stata fortunata! Avresti potuto morire tu, al posto loro!»

Lei cominciò a lamentarsi fiocamente, poi scoppiò in lacrime. Lui attese che lo sfogo si fosse esaurito, poi riprese a parlare.

«Non so neppure il tuo nome.»

I suoi occhi enormi erano arrossati, e il volto sembrava invecchiato. Malgrado ciò, nessuna donna della Terra che Wolff avesse mai visto avrebbe potuto paragonarsi a lei. La sua bellezza rese lontano l’orrore della lotta.

«Sono Chryseis» disse lei. Come se ne fosse orgogliosa, e nel contempo si vergognasse del suo orgoglio, aggiunse. «Sono la sola, qui, cui sia permesso portare questo nome. Il Signore l’ha proibito a tutte le altre.»

Lui brontolò:

«Di nuovo il Signore. Sempre il Signore. Chi diavolo è il Signore?»

«Non lo sai davvero?» rispose lei, come se non riuscisse a credergli.

«No, non lo so.» Rimase in silenzio per un momento, poi ripeté il suo nome, come se lo stesse assaporando. «Chryseis, eh? Criseide. Non è ignoto sulla Terra, sebbene io tema che l’università nella quale insegnavo sia piena di analfabeti che non lo hanno mai sentito nominare. Sanno soltanto che Omero ha composto l’Iliade, e le loro nozioni si fermano qui.

«Criseide, figlia di Crise, sacerdote di Apollo. Fu catturata dai greci durante l’assedio di Troia, e data ad Agamennone. Ma Agamennone fu costretto a restituirla a suo padre, a causa della pestilenza mandata da Apollo.»

Chryseis rimase in silenzio per un periodo così lungo che Wolff si spazientì. Era deciso ad andarsene il più lontano possibile con lei, ma non sapeva quale fosse la direzione migliore da prendere.

Chryseis, aggrottando la fronte, disse:

«È successo tanto, tanto tempo fa. Lo ricordo a stento. È tutto così vago, ormai.»

«Di che cosa stai parlando?»

«Di me. Di mio padre. Di Agamennone. Della guerra.»

«Be’, e allora?» Stava pensando che avrebbe fatto bene ad andare fino ai piedi della montagna. Laggiù avrebbe potuto farsi un’idea dell’entità della scalata.

«lo sono Chryseis» disse lei. «Quella di cui stavi parlando. Parli come se fossi appena giunto dalla Terra. Oh, dimmi, è vero?»

Sospirò. Quella gente non mentiva, ma non era detto che le storie che raccontavano, e che secondo loro erano vere, lo fossero davvero. Aveva sentito abbastanza cose incredibili per rendersi conto che essi non solo avevano delle informazioni parziali ed erronee, ma ricostruivano il passato in modo assolutamente personale. Lo facevano in tutta sincerità, ovviamente.

«Non voglio spezzare il tuo bel mondo di sogno» disse lui. «Ma quella Chryseis. se è mai esistita, morì almeno 3000 anni or sono. Inoltre, era una creatura umana. Non aveva capelli tigrati e occhi dalle pupille feline.»

«Neppure io… allora. È stato il Signore che mi ha presa, mi ha portata in questo Universo, e ha mutato il mio corpo. Ed è stato lui che ha preso gli altri, li ha cambiati, oppure ha messo le loro menti all’interno di corpi da lui fabbricati.»

Indicò verso il mare e verso l’alto un punto lontano.

«Ora vive lassù, e non lo vediamo molto spesso. Alcuni dicono che è scomparso da molto tempo, e che un nuovo Signore ha preso il suo posto.»

«Andiamocene di qui» disse lui. «Di questo, possiamo parlarne dopo.»

Avevano percorso quasi mezzo chilometro, quando Chryseis gli fece un segno, e gli indicò di nascondersi con lei dietro un arbusto dai grossi rami purpurei e dalle foglie dorate. Si nascose vicino a lei, aprì un poco le fronde, e vide quello che aveva allarmato la fanciulla. A diversi metri di distanza c’era un uomo dalle gambe pelose, con delle grosse corna caprine sulla fronte. All’altezza degli occhi dell’uomo, appollaiato su un ramo d’albero, c’era un corvo gigantesco. Era grande come un’aquila reale e aveva una fronte altissima. Il cranio era di dimensioni capaci di ospitare un cervello grande come quello di un fox-terrier.

Wolff non fu sorpreso delle dimensioni del corvo, perché aveva già visto altre enormi creature. Ma fu sbalordito nel vedere che uomo e pennuto stavano conversando.

«L’Occhio del Signore» mormorò Chryseis. E puntò un dito in direzione del corvo, in risposta alla sua muta domanda. «È una delle spie del Signore. Volano sul mondo e vedono quanto vi accade e poi vanno a riferire tutto al Signore.»

Wolff ripensò all’affermazione, sincera in apparenza, a proposito della possibilità che il Signore aveva di porre cervelli umani all’interno di corpi da lui fabbricati. Lui formulò la domanda, e la fanciulla rispose:

«Sì, ma non so se ha messo cervelli umani nelle teste dei corvi. Può darsi che abbia fabbricato dei piccoli cervelli, servendosi del cervello umano come modello, e che poi abbia istruito i corvi. O potrebbe essersi limitato a usare parti di un cervello umano.»

Disgraziatamente, sebbene tendesse al massimo i suoi sensi, Wolff riuscì a cogliere solo qualche parola qua e là. Passarono diversi minuti. Il corvo, gracchiando forte un arrivederci in un greco distorto ma comprensibile, spiccò il volo dal ramo. Le sue grandi ali cominciarono a sbattere velocemente, ed esse lo sollevarono verso il cielo, e presto scomparve oltre la folta cupola vegetale. Dopo qualche istante, Wolff colse una rapida visione del corvo, attraverso una breccia del fogliame. Il gigantesco uccello nero stava salendo sempre di più, e il suo volo lo portava verso le montagne di là dal mare.

Si accorse che Chryseis stava tremando. Le disse:

«Cosa potrebbe dire il corvo al Signore, per spaventarti tanto?»

«Non sono spaventata tanto per me, quanto per te. Se il Signore scopre che tu sei qui, vorrà ucciderti. Non ama che nel suo mondo si trovino degli ospiti non invitati.»

Lei posò la mano sul corno, e tremò di nuovo.

«So che è stato Kickaha a dartelo, e che non è colpa tua, se ora lo possiedi. Ma il Signore potrebbe non sapere che non è colpa tua. E, anche se lo sapesse, potrebbe non curarsene affatto. Si adirerebbe spaventosamente, se sospettasse che tu hai avuto qualcosa a che fare col suo furto. Ti farebbe delle cose spaventevoli; meglio sarebbe che tu ti finissi ora, piuttosto che permettere al Signore di mettere le mani su di te.»

«Kickaha ha rubato il corno? Come fai a saperlo?»

«Oh, credimi, lo so. È del Signore. E Kickaha deve averlo rubato, perché il Signore non l’avrebbe mai dato a nessuno.»

«Sono confuso» disse Wolff. Ma forse un giorno potremo aggiustare tutto. Adesso sono preoccupato di più per Kickaha: dove si trova?

Chryseis indicò la montagna, e disse:

«I gworl l’hanno portato lassù. Ma prima di farlo…»

Si coprì il volto con le mani; tra le dita filtrarono delle lacrime.

«Gli hanno fatto qualcosa?» domandò Wolff.

Lei scosse il capo.

«No! Hanno fatto qualcosa a… a…»

Wolff le strinse le mani, e con fermezza le tolse dagli occhi di lei.

«Se non riesci a parlarne, potresti mostrarmelo?»

«Non posso. È… troppo orribile. Mi fa star male.»

«Mostramelo, comunque.»

«Ti porterò laggiù. Ma non chiedermi di… guardarla… un’altra volta.»

Lei cominciò a camminare, e Wolff la seguì. Spesso lei si fermava, ma subito lui con dolcezza la faceva procedere. Dopo un percorso fatto per vie tortuose, circa un chilometro, lei si fermò. Davanti a loro c’era una piccola boscaglia di arbusti bassi. Le foglie dei rami di uno erano strettamente allacciate a quelle dell’arbusto vicino. Le foglie erano larghe e a forma di orecchio di elefante, color verde pallido con venature rossastre, e terminavano in una specie di fiordaliso rugginoso.

«È là dentro» disse Chryseis. «Ho visto i gworl… prenderla e portarla tra gli arbusti. Li ho seguiti… Io…»

Wolff, stringendo il coltello in pugno, si aprì un varco tra gli arbusti. Si trovò in una radura naturale. Al centro, sull’erbetta bassa e verde, giacevano le ossa disseminate di una femmina umana. Le ossa erano grige e prive di carne, e portavano dei segni di piccoli denti, dai quali seppe che i piccoli bipedi volpini si erano occupati di lei.

Non rimase gelato dall’orrore, ma riuscì a immaginare quello che aveva dovuto provare Chryseis. Doveva avere visto parte della scena, probabilmente uno stupro, e poi l’uccisione, fatta sicuramente con metodi barbari e crudeli. Doveva avere reagito come gli altri abitatori del Giardino. La morte era una cosa tanto orribile, che la parola stessa era divenuta tabù da molto tempo, e quindi era caduta dalla lingua. In essa venivano contemplate soltanto le cose piacevoli, e tutto il resto doveva essere escluso.

Ritornò da Chryseis, che lo fissò con i suoi grandi occhi, quasi supplicandolo di dirle che non c’era nulla nella radura. Lui disse:

«Ormai ne restano soltanto le ossa, e lei non può più soffrire.»

«I gworl pagheranno per questo!» disse ferocemente lei. «Il Signore non permette che le sue creature soffrano! Questo Giardino è suo, e tutti gli intrusi sono puniti.»

«Buon per te» disse lui. «Cominciavo a credere che la scossa ti avesse paralizzata. Odia i gworl finché vuoi; lo meritano. E hai bisogno di sfogarti.»

Lei gridò, e balzò contro di lui e gli martellò il petto coi suoi piccoli pugni. Poi cominciò a piangere, e dopo qualche tempo lui la strinse tra le braccia. Le sollevò il capo e la baciò. Lei rispose al bacio appassionatamente, anche se le lacrime scendevano ancora.

Dopo, lei disse:

«Ho corso fino alla spiaggia per dire alla mia gente quello che avevo visto. Ma non hanno voluto ascoltare. Mi hanno voltato la schiena e hanno fatto finta di non avermi udita. Ho cercato di farli ascoltare, ma Owisandros… l’uomo dalle corna d’ariete che parlava al corvo… Owisandros mi ha colpita con un pugno e mi ha detto di andarmene. Dopo questo, nessuno di loro ha più voluto avere qualcosa a che fare con me. E io… avevo bisogno di amicizia e di amore.»

«Non puoi ottenere amicizia o amore dicendo alla gente quello che la gente non vuole sentire» rispose lui. «Né qui, né sulla Terra. Ma tu hai me, Chryseis, e io ho te. Penso di cominciare a innamorarmi di te, sebbene possa trattarsi solo di una reazione alla solitudine e alla bellezza più strana che mai io abbia visto. E alla mia rinnovata giovinezza.»

Si sollevò, mettendosi a sedere sull’erba, e indicò la montagna.

«Se i gworl sono intrusi, qui, da dove vengono? Perché cercavano il corno? Perché hanno portato con loro Kickaha? E chi è Kickaha?»

«Viene anche lui di lassù. Ma penso che sia un terrestre.»

«Che vuoi dire con «terrestre»? Hai detto di venire anche tu dalla Terra.»

«Voglio dire che si tratta di un nuovo arrivato. Non lo so. Mi è sembrato che fosse così, ecco tutto.»

Lui si alzò, e l’aiutò a rialzarsi.

«Andiamo a cercarlo.»

Chryseis trattenne il respiro e, portando una mano al seno, si ritrasse da lui.

«No!»

«Chryseis, potrei restare qui con te ed essere molto felice. Per qualche tempo. Ma mi domanderei sempre che cosa si nasconde dietro al Signore e a Kickaha. L’ho visto solo per pochi istanti, ma mi è piaciuto moltissimo. Inoltre, non mi ha gettato il corno solo perché io mi trovavo per caso davanti a lui. Penso che l’abbia fatto per una buona ragione, e io devo scoprire qual è. E non posso riposare, mentre lui si trova nelle mani di quegli orribili gworl.»

Le tolse la mano dal seno, e baciò la mano.

«È tempo orinai che tu lasci un paradiso che non è il paradiso. Non puoi restare qui per sempre, per sempre fanciulla.»

Lei scosse il capo.

«Non ti potrei aiutare affatto. Ti intralcerei soltanto. E… partendo… partendo… io… bene, finirei.»

«Devi cominciare ad apprendere un nuovo vocabolario» le disse lui. «La morte dovrà essere una delle tante parole che potrai pronunciare senza rabbrividire né tremare. Ti renderà una donna migliore. Rifiutare di pronunciare questa parola non può impedirle di esistere, lo sai. Le ossa della tua amica sono là, che tu possa parlarne o meno.»

«È orribile!»

«Spesso la verità lo è.»

Le voltò le spalle, e si diresse verso la spiaggia. Dopo cento metri, si fermò e si voltò indietro. Lei aveva cominciato a corrergli dietro, proprio in quel momento. L’attese, la strinse tra le braccia, la baciò, e disse:

«Troverai il cammino difficile, Chryseis, ma non ti annoierai, non dovrai suggere il loto per sopportare la vita.»

«Lo spero» mormorò lei. «Ma ho paura.»

«Anch’io, ma ormai siamo in cammino.»

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