CAPITOLO X

Cavalcarono per due settimane, e finalmente si trovarono ai margini degli Alberi dalle Molte Ombre. Là Kickaha diede un lunghissimo arrivederci agli Hrowakas. Questi, a loro volta, vennero uno a uno da Wolff, e, posandogli le mani sulle spalle, gli fecero un lungo discorso di commiato. Ormai, era uno di loro. Quando fosse ritornato, avrebbe preso una casa e una moglie tra loro, e sarebbe andato a caccia e in guerra con loro. Era KwashingDa, il Forte; aveva fatto le sue vittime fianco a fianco con loro; aveva battuto un Mezzo Cavallo alla lotta; gli sarebbe stato dato un cucciolo d’orso da allevare come suo; sarebbe stato benedetto dal Signore e avrebbe avuto molti figli e molte figlie, e così di questo passo.

Gravemente, Wolff rispose che l’onore più grande cui lui potesse pensare era quello di venire accettato da! Popolo dell’Orso. E parlava sul serio.

Molti giorni dopo, avevano lasciato alle loro spalle gli Alberi dalle Molte Ombre. Persero entrambi i cavalli, una notte, per colpa di qualcosa che lasciava delle impronte larghe dieci volte quelle di un uomo, con quattro dita ciascuna. Wolff si sentì rattristato e furioso, perché si era molto affezionato al suo cavallo. Avrebbe voluto inseguire il WaGanassit per vendicarsi. Kickaha sollevò le mani, terrorizzato, nel sentire quel proposito.

«Puoi stimarti fortunato, se non sei stalo portato via anche tu!» disse lui. «Il WaGanassit è coperto di scaglie che sono semisilicee. Le tue frecce rimbalzerebbero. Dimentica i cavalli. Un giorno possiamo tornare a dargli la caccia. Quegli esseri possono essere catturati e arrostiti col fuoco, e mi piacerebbe farlo, ma dobbiamo essere pratici. Andiamo.»

Usciti dagli Alberi dalle Molte Ombre, costruirono una canoa e discesero un ampio fiume che attraversava diversi laghi di diverse dimensioni. Il paesaggio era collinoso, con delle alture notevoli. Wolff ricordò il Wisconsin.

«Paese magnifico, ma ci vivono i Chacopewachi e gli Enwaddit.»

Tredici giorni dopo, giorni durante i quali per tre volte avevano dovuto remare furiosamente per sfuggire a delle cariche di guerrieri che li avevano inseguiti, essi abbandonarono la loro canoa. Dopo avere attraversato una catena di colline, quasi sempre di notte, raggiunsero un grande lago. Costruirono una nuova canoa. Dopo cinque giorni raggiunsero la base di un grande monolito, l’Abharhploonta. Cominciarono la loro lenta scalata, pericolosa come la prima. Quando giunsero in vetta, avevano esaurito la loro scorta di frecce, e soffrivano a causa di diverse ferite.

«Capisci, adesso, perché il traffico tra i diversi piani è così limitato» disse Kickaha. «In primo luogo, il Signore lo ha proibito. Comunque, questo non impedisce agli empi e agli avventurieri, e soprattutto ai mercanti, di tentarlo.

«Tra l’orlo e Drachelandia si stendono diverse migliaia di chilometri di giungla, intervallata da numerosi altipiani. Il fiume Guzirit si trova a centocinquanta chilometri di distanza. Andremo là, e chiederemo un passaggio a un battello fluviale.»

Adoperarono rami secchi e punte di selce come frecce, e riempirono le faretre. Wolff uccise un animale simile a un tapiro. La sua carne sapeva un po’ di rancido, ma servì a saziarli. A questo punto, notando la riluttanza di Kickaha, incitò l’amico a continuare il cammino.

Kickaha fissò il cielo verde e disse:

«Speravo che una delle aquile di Podarge ci trovasse e ci portasse notizie. Dopotutto, non sappiamo quale direzione hanno preso i gworl. Devono dirigersi verso la montagna, ma ci sono due strade da scegliere. Attraverso la giungla, una strada niente affatto sicura; o discendendo con un battello il Guzirit. Anche questa strada presenta i suoi pericoli, soprattutto per creature straordinarie come i gworl. E Chryseis sarebbe quotata a un prezzo molto alto, nel mercato degli schiavi.»

«Non possiamo aspettare un’aquila per l’eternità» obiettò Wolff.

«No, e neppure dovremo farlo» disse Kickaha. Indicò il cielo, e Wolff, sollevando lo sguardo, vide un lampo giallo. Scomparve, per poi ritornare in vista un attimo dopo. L’aquila stava scendendo velocemente, con le ali ripiegate. Bruscamente, frenò la sua caduta e scese accanto a loro.

Phthie si presentò, e subito dopo disse che era portatrice di buone notizie. Aveva individuato i gworl e la donna, Chryseis, a soli seicento chilometri di distanza, davanti a loro. Avevano ottenuto un passaggio su un battello mercantile, e stavano discendendo il Guzirit. verso la Terra delle Grandi Armature.

«Hai visto il corno?» domandò Kickaha.

«No!» replicò Phthie. «Ma senz’altro esso è stato nascosto in una delle sacche di pelle che essi portano. Ho strappato al volo una di quelle sacche a un gworl, sperando che potesse contenere il corno. Purtroppo, il corno non c’era, e per poco non sono stata colpita da una freccia.»

«I gworl hanno degli archi?» domandò Wolff, stupito.

«No! Mi hanno presa di mira gli uomini del fiume.»

Wolff domandò se c’erano dei corvi, e l’aquila rispose che ce n’erano molti. Sembrava che il Signore avesse loro ordinato di scortare i gworl.

«Brutto affare» disse Kickaha. «Se ci scoprono, saranno guai seri.»

«Non vi conoscono» disse Phthie. «Sono riuscita a cogliere qualche frammento di conversazione dei corvi, nascondendomi mentre desideravo affrontarli e squartarli. Ma la mia padrona mi ha dato degli ordini, e io obbedisco. I gworl hanno tentato di descrivervi agli Occhi del Signore. I corvi sono in cerca di due uomini che viaggiano insieme, alti entrambi, l’uno dai capelli di bronzo, l’altro dai capelli neri. Ma è tutto ciò che sanno, e molti uomini si adattano a questa descrizione. I corvi, però, sono in attesa di due uomini che seguono la strada presa dai gworl.»

«Mi tingerò la barba, e indosseremo degli abiti Khamshem» disse Kickaha.

Phthie disse che doveva proseguire. Stava andando a fare rapporto a Podarge, e aveva lasciato un’altra sorella a sorvegliare i gworl: e solo per caso si era imbattuta nei due viaggiatori. Kickaha la ringraziò, e le domandò di portare i suoi omaggi a Podarge. Quando il gigantesco volatile fu scomparso nel cielo, i due uomini entrarono nella giungla.

«Cammina piano, parla sottovoce disse Kickaha.» Ci sono delle tigri. Diciamo che la giungla ne è piena. Ci sono anche dei giganteschi divoratori. Sono uccelli privi d’ali, tanto feroci che perfino le aquile di Podarge li temono. Ho visto una volta un divoratore affrontare due tigri, e ci volle poco per convincere le tigri che era meglio filarsela.

Malgrado gli avvertimenti di Kickaha, videro poche forme di vita, eccezion fatta per una moltitudine di uccelli dai colori più vari, di scimmie, di scarafaggi grossi come topi e con lunghissime antenne. Per gli scarafaggi, Kickaha usò una sola parola: «velenosi». Da quel momento, Wolff prima di coricarsi o piegarsi si assicurò che non ce ne fosse nessuno in vista.

Prima di raggiungere la loro prima destinazione, Kickaha si mise a cercare una pianta, il ghubharash. Dopo una ricerca lunga mezza giornata, ne trovò una macchia, staccò la corteccia, l’arrostì, e ne estrasse un liquido nerastro. Con esso, si tinse i capelli, la barba e la pelle, da capo a piedi.

«Spiegherò i miei occhi verdi, dicendo che mia madre era una schiava di Teutonia disse lui.» Ecco. Usane anche tu un poco. Puoi farti più scuro.

Raggiunsero una città in rovina, fatta di pietra e di idoli dalle enormi bocche. Gli abitanti erano bassi, magri e neri, che indossavano delle cappe marrone e perizomi neri. Uomini e donne avevano i capelli lunghi e unti di burro, che ricavavano dal latte di strane capre che saltavano di maceria in maceria, e si nutrivano delle erbe che crescevano tra di esse. Quella gente, i Kaidushang, tenevano dei cobra dentro piccole gabbie, e spesso tiravano fuori quegli animaletti da compagnia. Masticavano il dhiz, una pianta che ingialliva i denti e instupidiva lo sguardo e dava loro un aspetto pigro e sonnolento.

Kickaha, servendosi dello H’vaizhum, la lingua delle popolazioni fluviali, mercanteggiò con gli anziani del villaggio. Vendette la coscia di un animale simile all’ippopotamo, che lui e Wolff avevano ucciso, e ne ebbe in cambio degli abiti Khamshem. I due uomini indossarono i turbanti verdi e rossi, adorni di penne di kigglibash, le camicie bianche senza maniche, i pantaloni purpurei e rigonfi, e le fasce di stoffa che dovettero arrotolare intorno alla vita innumerevoli volte, oltre le soffici scarpe nere dalle punte ricurve.

Malgrado la loro mente obnubilata da dhiz, gli anziani erano abili nel mercanteggiare. Finché Kickaha non ebbe estratto dalla borsa un minuscolo zaffiro… uno dei gioielli che gli erano stati donati da Podarge… non vollero vendergli le fondine tempestate di perle e le scimitarre.

«Credo che un battello debba passare presto» disse Kickaha. «O, almeno, lo spero. Adesso che sanno che ho delle gemme, potrebbero tentare di tagliarci la gola. Mi spiace, Bob, ma dovremo montare la guardia a intervalli, la notte. Questa gente ha la simpatica abitudine di mandare, molto spesso, i suoi serpenti a fare il loro sudicio lavoro.»

Ma quel giorno, un mercantile apparve sul fiume. Vedendo i due uomini in piedi sulla banchina marcita, che agitavano dei fazzoletti bianchi, il capitano ordinò di calare l’ancora e di ammainare le vele.

Wolff e Kickaha salirono sulla scialuppa che era venuta a prenderli, e furono portati a bordo del Khrillquz. Il battello era lungo una quindicina di metri, basso al centro ma con i castelli di prua e di poppa torreggianti, ed era a vela. I marinai erano quasi tutti della razza Khamshem chiamata Shibacub. Parlavano una lingua le cui caratteristiche Kickaha aveva già spiegato a Wolff. Wolff era sicuro che si trattasse di una forma arcaica di semitico, alterata dai linguaggi degli aborigeni.

li capitano. Arkhyurel, li accolse cordialmente sul cassero di poppa. Sedeva a gambe incrociate su una catasta di cuscini, e beveva da una bottiglia di vino nero.

Kickaha. presentandosi sotto il nome di Ishnaqrubel, gli fornì la storia che già aveva accuratamente elaborato. Lui e il suo compagno, che aveva fatto il voto di non parlare fino a quando non fosse ritornato da sua moglie, nella remota terra di Shiashtu, erano stati per diversi anni nella giungla. Avevano cercato la favolosa città perduta di Ziquooant.

Il capitano sollevò un sopracciglio, e si carezzò la lunga barba scura che gli scendeva fino alla cintola. Domandò loro di sedersi e di accettare una tazza di vino Akhashtum, mentre gli narravano la loro storia. Gli occhi di Kickaha brillarono, ed egli sorrise, iniziando il suo racconto. Wolff non lo comprendeva, ma era sicuro che il suo amico si divertiva infinitamente a narrare le sue menzogne lunghe, ricche di particolari e avventurose. Sperava che Kickaha non si lasciasse trasportare troppo dalla sua fantasia, fino a destare l’incredulità del capitano.

Le ore passarono, e il battello discendeva il corso del fiume. Un marinaio, che indossava solo un perizoma scarlatto, suonò dolcemente un flauto, a prua. Fu loro portato del cibo, in vassoi d’argento e d’oro: scimmia arrosto, uccello arrosto, del pane nero, e della gelatina. Wolff trovò il cibo troppo piccante, ma mangiò ugualmente.

Il sole si avvicinò ai margini della montagna, e il capitano si alzò. Li portò verso un tempietto, dietro il timone: vi si trovava un idolo di giada, Tartartar. Il capitano cantò una preghiera, la prima preghiera al Signore. Poi Arkhyurel si inginocchiò davanti al dio minore della sua nazione, e fece le riverenze. Un marinaio versò un po’ di incenso sul fuoco che ardeva nell’apertura praticata nel grembo di Tartartar. Mentre i fumi d’incenso si diffondevano nella nave, i compagni di fede del capitano pregarono. Più tardi, i marinai di religioni diverse avrebbero pregato i loro dèi.

Quella notte, i due dormirono sul ponte di mezzo, su una pila di pelli che erano state fornite dal capitano.

«Non posso dirti niente su Arkhyurel disse Kickaha.» Gli ho detto che non siamo riusciti a trovare la città di Ziquooant, ma che abbiamo scoperto un piccolo tesoro. Niente di clamoroso, ma sufficiente a farci vivere modestamente, senza preoccupazioni, al nostro ritorno a Shiashtu. Lui non mi ha chiesto di vedere le gemme, anche se gli ho promesso un grosso rubino come prezzo del passaggio. Questa gente prende tempo negli affari, cercare di affrettarli costituisce un insulto. Ma la sua avidità può vincere il suo senso dell’ospitalità e la sua etica degli affari, se crede di ottenere un grosso guadagno, tagliandoci la gola e gettando i nostri cadaveri nel fiume.

Si interruppe per un istante. Dai rami degli alberi che costeggiavano il fiume giungevano le strida di molti uccelli; di quando in quando, un grosso sauriano urlava dalla riva o dalle acque.

«Se ha intenzione di fare qualcosa di disonorevole, lo farà nei prossimi mille chilometri. È un tratto del fiume solitario; dopo, le città e i villaggi cominciano a infittirsi.»

La sera dopo, comodamente seduto, Kickaha donò al capitano il rubino, enorme e tagliato stupendamente. Con esso, Kickaha avrebbe potuto comprare il battello con i suoi uomini. Sperava che Arkhyurel ne fosse soddisfatto; il capitano, se voleva, poteva ritirarsi dagli affari, vendendo la gemma. Kickaha fece subito dopo ciò che avrebbe voluto evitare, ma che sapeva di dover affrontare. Mostrò il resto dei gioielli: diamanti, zaffiri, rubini, tormaline e topazi. Arkhyurel sorrise e si leccò le labbra e soppesò i gioielli per tre ore.

Quella notte, mentre riposavano sul ponte, Kickaha gli mostrò una carta geografica che aveva ottenuto dal capitano. Essa indicava una grande curva del fiume, e Kickaha indicò un circolo tracciato nella contorta scrittura Khamshem.

«La città di Khotsiqsh. Abbandonata dal popolo che l’ha costruita, come quella che abbiamo raggiunto prima di salire a bordo, e abitata da una tribù semiselvaggia, i Weezwart. Lasceremo la nave di nascosto, di notte, quando arriveremo in porto, e prenderemo una scorciatoia. Può darsi che siano in grado di intercettare la nave che trasporta i gworl. Se no, ce ne andremo lo stesso da questa nave. Prenderemo un altro mercantile. E se non ne troveremo nessuno, noleggeremo una nave con equipaggio Weezwart.»

Dodici giorni dopo, il Khrillquz gettò l’àncora davanti a una banchina massiccia, ma ricca di crepe. I Weezwart affollarono la banchina, gridarono in direzione dei marinai, e mostrarono loro giare di dhiz, uccelli parlanti dentro gabbie di legno, scimmie e artifatti, oggetti presi dalle città nascoste della giungla, e merci di ogni genere, tra i quali borsette fatte della pelle dei giganteschi sauriani del fiume, e mantelli di pelle di tigre e di leopardo. Avevano anche un piccolo divoratore, un animale che il capitano avrebbe potuto rivendere con un buon profitto al re Bashishub di Shibacub. Le loro merci più pregiate, comunque, erano le loro donne. Queste, rivestite da capo a piedi di abiti di cotone verde e scarlatto, sfilavano avanti e indietro sulla banchina. Aprivano per un istante le loro vesti, poi le richiudevano, gridando in continuazione il prezzo per una notte offerta ai marinai desiderosi di compagnia femminile. Gli uomini, che indossavano solo turbanti bianchi e perizoma, stavano in un angolo, masticavano dhiz, e sorridevano. Portavano tutti delle cerbottane lunghe due metri, e dei coltelli lunghi, sottili e ricurvi, infilati tra i capelli, che si intrecciavano elaboratamente sul capo.

Durante il mercato tra il capitano e i Weezwart. Kickaha e Wolff si insinuarono tra le rovine ciclopiche della città. Bruscamente, Wolff ruppe il silenzio:

«Hai i gioielli con te. Perché non prendiamo una guida Weezwart e ce ne andiamo subito? Perché aspettare fino a notte?»

«Amico, mi piace il tuo stile» disse Kickaha. «Bene, andiamocene.»

Trovarono un uomo alto e allampanato, Wiwhin, che accettò con mille salamelecchi la loro proposta, quando Kickaha gli ebbe mostrato un topazio. Insistettero perché l’uomo non dicesse neppure alla moglie del suo viaggio: e l’uomo li condusse direttamente nella giungla. Conosceva i vari sentieri alla perfezione, e, come promesso, li condusse alla città di Cirruqshak in due giorni. Una volta giunto, domandò un altro gioiello, dicendo che non avrebbe detto niente a nessuno, se gli fosse stato concesso quel premio.

«Non ti avevo promesso nessun premio» disse Kickaha. «Ma mi piace lo spirito di libera impresa che ti anima, amico. Così, ecco un’altra gemma. Ma se cercherai di averne un’altra, ti ucciderò.»

Wiwhin sorrise e si inchinò e prese il secondo topazio e scomparve nella giungla. Kickaha, seguendolo con lo sguardo, brontolò:

«Avrei dovuto ucciderlo davvero. I Weezwart non hanno neppure la parola onore nel loro vocabolario.»

Penetrarono nelle rovine. Dopo mezz’ora di faticoso procedere tra i detriti, si trovarono nella parte della città che dava sul fiume. Qui erano radunati i Dholinz, una popolazione dello stesso ceppo linguistico dei Weezwart. Ma qui gli uomini avevano dei lunghi baffi cascanti, e le donne si dipingevano di nero il labbro superiore e portavano un anello al naso. Con essi c’era un gruppo di mercanti della terra che aveva dato a tutte le popolazioni di lingua Kamshem il suo nome. Non c’era nessun battello ormeggiato alla banchina. Kickaha, vedendo questo, si arrestò e fece per ritornare tra le rovine. Era troppo tardi, perché i Khamshem lo avevano visto, e stavano gridando qualcosa.

«Sarà meglio affrontarli» mormorò Kickaha a Wolff. «Se va male, scappa! Quei tipi sono trafficanti di schiavi.»

C’erano circa trenta Khamshem, tutti armati di pugnale e scimitarra. Inoltre, avevano una cinquantina di soldati, uomini alti dalle spalle larghe, di carnagione più chiara dei Khamshem, con il volto e le spalle ricoperti di tatuaggi. Quelli, disse Kickaha, erano i mercenari Sholkin di cui spesso si servivano i Khamshem. Erano lancieri famosi, gente di montagna, pastori di capre, nemici delle donne, buone solo ai lavori di casa, contadine, e madri.

«Non farti prendere vivo» fu l’ultimo consiglio di Kickaha, prima che il giovane avventuriero si avvicinasse con sorrisi e convenevoli al capo dei Khamshem. Questi era un individuo altissimo e muscoloso, chiamato Abiru. Aveva un volto che sarebbe stato bello se non fosse stato troppo largo e ricurvo come una scimitarra. Rispose a Kickaha con una certa cortesia, ma i suoi occhi neri li soppesarono come se essi fossero soltanto libbre di mercanzia commerciabile.

Kickaha gli raccontò la storia che aveva narrato ad Arkhyurel, ma l’abbreviò notevolmente, e lasciò fuori le pietre preziose. Disse che avrebbero aspettato l’arrivo di un mercantile che li potesse trasportare a Shiashtu. E che cosa andava facendo il grande Abiru?

(A questo punto, Wolff era riuscito, con la sua sbalorditiva facilità di apprendimento delle lingue, a impadronirsi del khamshem, tanto da comprendere quasi tutte le parole, se la conversazione si manteneva a un livello puramente colloquiale.)

Abiru rispose che, grazie al signore e a Tartartar, il suo viaggio d’affari era stato molto profittevole. Oltre i soliti tipi di schiavi, aveva catturato un gruppo di stranissime creature. E inoltre, una donna di incredibile bellezza, quale mai era stata vista. Non, per lo meno, su questo piano.

Il cuore di Wolff cominciò a battere più forte. Era mai possibile?

Abiru domandò se sarebbe stato di loro gradimento dare un’occhiata ai prigionieri.

Kickaha lanciò un’occhiata di avvertimento a Wolff, ma rispose che gli sarebbe assai piaciuto vedere le curiose bestie e la donna favolosamente bella. Abiru fece segno al capitano dei mercenari di avvicinarsi, e ordinò a lui e a dieci dei suoi uomini di accompagnarlo. Allora Wolff fiutò il pericolo di cui Kickaha era stato consapevole fin dall’inizio. Sapeva che avrebbero dovuto fuggire. anche se questo non sarebbe stato di molto giovamento. Sembrava che i Sholkin fossero abituati ad abbattere i fuggitivi con le loro lance. Ma desiderava disperatamente rivedere Chryseis. Dato che Kickaha non gli faceva alcun segno, Wolff decise di non agire di testa sua. Kickaha, dato che aveva una maggiore esperienza, probabilmente sapeva come meglio comportarsi.

Abiru, con piacevoli conversari sulle attrattive della capitale di Khamshein, li condusse lungo strade coperte d’erba, fino a un edificio enorme, circondato da statue in rovina. Si fermò davanti a una porta sorvegliata da altri dieci Sholkin. Anche prima di entrare Wolff capì che dentro c’erano i gworl. Al di sopra del puzzo di carne umana sudata e sporca si sentiva l’odore di frutta marcia delle creature bitorzolute.

La stanza nella quale entrarono era enorme e fredda e buia. Sulla parete opposta, acquattati sul sudiciume ammucchiato sul pavimento di pietra, c’era una fila di circa cento tra uomini e donne, e trenta gworl. Erano tutti uniti l’uno all’altro da lunghe e sottili catene d’acciaio, che passavano per dei collari d’acciaio stretti intorno al collo dei prigionieri.

Wolff cercò con lo sguardo Chryseis. Non c’era.

Abiru, rispondendo alla muta domanda, disse:

«Ho tenuto da parte la donna dagli occhi di gatto. Ha un’inserviente femmina, e una guardia speciale. Riceve tutta l’attenzione e la cura che si danno a un prezioso gioiello.»

Wolff non riuscì a frenarsi. Disse

«Mi piacerebbe vederla.»

Abiru lo guardò, e disse:

«Hai uno strano accento. Il tuo compagno non ha detto che anche tu vieni dalla terra di Shiashtu?»

Fece un segno ai soldati, che si fecero avanti, con le lance sollevate.

«Non importa. Se vedrai la donna, la vedrai attaccato a una catena.»

Kickaha gridò, indignato:

«Siamo soggetti alle leggi di Khamshem, e siamo uomini liberi! Non puoi farci questo. Ti costerà la testa, dopo certe torture legali, naturalmente!»

Abiru sorrise:

«Non intendo riportarti a Khamshem, amico. Stiamo andando a Teutonia, dove voi, essendo uomini forti, anche se un po’ troppo loquaci, sarete pagati bene. Del piccolo problema di cui ho parlato prima potremo occuparci con molta semplicità, tagliandovi la lingua.»

Ai due amici furono tolte le scimitarre e la borsa. Spinti dalle lance, si avvicinarono al termine della fila, subito dopo i gworl, e furono assicurati a dei collari di acciaio. Abiru, versando il contenuto della borsa sul pavimento, bestemmiò alla vista del mucchio di pietre preziose.

«Così avete trovato qualcosa, nelle città perdute! Una fortuna per noi. Sono quasi tentato di liberarvi… ma non lo farò… per avermi procurato un simile guadagno.»

«Quanto puoi sopportare?» brontolò in inglese Kickaha. «Parla come il cattivo di un film di terz’ordine. Accidenti a lui! Se ne avrò la possibilità, gli taglierò qualcosa di più della lingua.»

Abiru, soddisfatto della sua fortuna, se ne andò. Wolff esaminò la catena attaccata al collare di acciaio. Era fatta di piccoli anelli. Avrebbe potuto spezzarla, se l’acciaio non fosse stato di qualità eccezionale. Sulla Terra, di nascosto, si era divertito a spezzare catene di quel tipo. Ma non avrebbe provato fino a notte.

Accanto u lui, Kickaha mormorò:

«Con questo travestimento i gworl non ci riconosceranno: così lasciamo che le cose seguano il loro corso.»

«E il corno?» domandò Wolff.

Kickaha, parlando l’elaborato tedesco di Teutonia, cercò di iniziare una conversazione coi gworl. Dopo essere riuscito a stento a evitare una pioggia di saliva, rinunciò. Riuscì a parlare a un soldato Sholkin e ad alcuni degli schiavi umani. Da essi, ottenne delle informazioni.

I gworl erano stati passeggeri del Qaqiirzhub, capitanato da un certo Rakhhamen. Fermandosi a quella citta, il capitano aveva incontrato Abiru, e lo aveva invitato a prendere una tazza di vino a bordo. Quella notte (la notte prima del loro arrivo) Abiru e i suoi uomini si erano impadroniti del battello. Durante il combattimento, il capitano e parte dei suoi uomini erano stati uccisi. I superstiti erano attaccati alla lunga catena. Il battello aveva risalito il corso di un affluente del fiume, con equipaggio a bordo, per essere venduto a un pirata del fiume di cui Abiru aveva sentito parlare.

In quanto al corno, nessuno dell’equipaggio del Qaqiirzhub ne aveva sentito parlare. E il soldato non forni la minima informazione. Kickaha spiegò a Wolff che senza dubbio Abiru non ne avrebbe parlato a nessuno. Doveva averlo riconosciuto, perché tutti avevano sentito parlare del corno del Signore. Faceva parte della religione universale, ed era stato descritto nelle diverse letterature sacre.

Venne la notte. Entrarono dei soldati, con torce e cibo per gli schiavi. Dopo mangiato, rimasero nella stanza due Sholkin, e fuori rimase un numero imprecisato di guardie. I servizi igienici erano inesistenti; il puzzo divenne asfissiante. A quanto sembrava, Abiru non rispettava l’ordine delle cose stabilito dal Signore. Comunque, alcuni dei Sholkin più religiosi dovevano essersi lamentati, perché entrarono a pulire diversi Dholinz. Furono versati sugli schiavi dei secchi d’acqua, e numerosi secchi di acqua da bere furono lasciati ai prigionieri. I gworl ulularono, quando fu gettata loro addosso l’acqua, e si lamentarono e imprecarono per molto tempo. Kickaha spiegò a Wolff che i gworl, come certi animali del deserto della Terra, non dovevano bere acqua. Avevano un apparato biologico, simile a quello degli abitatori del deserto, che trasformava il loro grasso nell’acqua necessaria.

Salì la luna. Gli schiavi giacevano sul pavimento, o si appoggiavano alla parete, e dormivano. Kickaha e Wolff finsero di fare lo stesso. Quando la luna fu visibile dalla porta, Wolff disse:

«Cerco di spezzare la catena. Se non avrò tempo di spezzare la tua, dovremo fare i gemelli siamesi.»

«Va bene» mormorò Kickaha.

Tra ogni collare si stendevano circa due metri di catena. Wolff si avvicinò silenziosamente al gworl più vicino, per avere spazio maggiore a disposizione. Kickaha lo seguì in silenzio. Ci vollero circa quindici minuti, per evitare che le sentinelle che si trovavano nella stanza si accorgessero del loro procedere. Poi Wolff, voltanto la schiena alle guardie, prese con entrambe le mani la catena. Tirò, e le maglie si tesero. Una tensione graduale non avrebbe giovato: meglio uno strattone violento. La catena si spezzò rumorosamente.

I due Sholkin, che parlavano a voce alta e ridevano per tenersi svegli, tacquero bruscamente. Wolff non osò voltarsi a guardarli. Rimase in attesa, mentre i Sholkin discutevano sulle possibili origini del rumore. Apparentemente, non pensarono alla catena. Passarono un minuto a osservare il soffitto, tenendo alte le torce. Uno disse una battuta, l’altro rise, e ripresero la loro conversazione.

«Devi riprovare?» domandò Kickaha.

«Non vorrei, ma è necessario. Uniti, saremmo svantaggiati» rispose Wolff.

Fu costretto ad attendere ancora, perché il gworl a cui era stato unito dalla catena, si era svegliato nell’udire il rumore. La creatura alzò il capo e disse qualcosa, nella sua lingua raschiarne, Wolff cominciò a sudare ancora più copiosamente. Se il gworl si alzava, o cercava di alzarsi, il suo gesto avrebbe rivelato il danno.

Dopo un minuto di tensione, il gworl tornò a sdraiarsi, e riprese a russare, Wolff si calmò un poco. Riuscì perfino a sorridere, perché i gworl gli aveva fornito un’idea.

«Avvicinati, come se volessi scaldarti vicino a me» disse piano Wolff.

«Scherzi?» rispose Kickaha. «Mi sento come in un bagno turco. Va bene, comunque. Vengo.»

Si avvicinò, finché la sua fronte non sfiorò le ginocchia di Wolff.

«Quando spezzo la catena, non agire subito» disse Wolff. «Ho un’idea per attirare le guardie senza che diano l’allarme a quelle che sono fuori.»

«Spero che non cambino le guardie proprio quando entriamo in azione» disse Kickaha.

«Prega il Signore» rispose Wolff. «Quello della Terra.»

«Quello aiuta chi si aiuta» replicò Kickaha.

Wolff tirò con tutte le sue forze: la catena si spezzò, rumorosamente. Questa volta, le guardie tacquero e il gworl si sollevò bruscamente. Wolff diede un colpo notevole alla creatura. La creatura non disse niente, ma cominciò ad alzarsi. Una delle guardie gli ordinò di restare a terra, ed entrambi i soldati si diressero verso di lui. Il gworl non comprese le parole. Comprese il tono di voce, e le lance puntate contro di lui. Cominciò a strofinarsi la parte colpita, imprecando contro Wolff.

Le guardie si avvicinarono alla parete. Wolff disse:

«Via!»

Lui e Kickaha si alzarono all’unisono, si girarono, e affrontarono i Sholkin sbalorditi. La punta di una lancia era a portata di mano di Wolff. L’afferrò appena sotto la punta, e tirò. La guardia spalancò la bocca per gridare, ma la richiuse quando l’impugnatura della lancia colpi il soldato alla mascella.

Kickaha non era stato così fortunato. Il soldato aveva fatto un passo indietro, e stava per lanciare la lancia. Kickaha esegui un perfetto placcaggio da rugby; la lancia cozzò contro la parete.

A questo punto, il silenzio era terminato. Una guardia cominciò a gridare. Il gworl raccolse l’arma che era caduta ai suoi piedi, e la scagliò con violenza. La punta penetrò nella gola della guardia, e uscì dalla nuca.

Kickaha si impadronì della lancia, la tirò fuori dal collo del soldato, tolse il pugnale della guardia dalla sua fondina e lo lanciò. Il primo Sholkin che entrò dall’esterno ricevette il colpo al plesso solare, e, vedendo cadere il compagno, gli altri si ritirarono. Wolff prese il coltello dell’altra guardia, e disse:

«E adesso, dove scappiamo?»

Kickaha tolse il pugnale dal plesso solare della sua vittima, e lo ripulì sul cadavere.

«Non da quella porta. Ce ne sono troppi.»

Wolff indicò una porta, dalla parte opposta, e cominciò a correre verso di essa. Si fermò a raccogliere la torcia caduta al soldato, e Kickaha lo imitò. La porta era quasi interamente bloccata dai detriti, ed essi furono costretti a strisciare per entrarvi. Dopo poco tempo, si trovarono nel punto da cui erano caduti i detriti. La luna rivelava un’apertura nel soffitto di pietra.

«Devono essere al corrente di questa apertura» disse Wolff. «Non possono essere tanto incauti. Sarà meglio procedere.»

Avevano appena superato il punto che si trovava sotto l’apertura nel soffitto, quando dall’alto scese la luce di molte torce. I due amici corsero lungo il passaggio, e un attimo dopo una lancia si conficcò a terra, sfiorando la gamba di Wolff.

«Adesso ci seguiranno per la stessa strada» disse Kickaha.

Continuarono per quella strada, addentrandosi nelle diramazioni che parevano condurre alla parte posteriore dell’edificio. Improvvisamente, il pavimento mancò sotto i piedi di Kickaha. Egli cercò di saltare, prima che la pietra che lo sosteneva cadesse, ma non riuscì a farcela. Una parte del pavimento si sollevò, e quella che aveva ceduto sotto il peso di Kickaha si abbassò, facendo precipitare l’uomo in una grossa fossa. Kickaha gridò, lasciando contemporaneamente la torcia. Uomo e torcia caddero insieme.

Wolff rimase a guardare la fossa. Da essa non usciva luce, così che la torcia doveva essersi spenta, oppure la fossa era tanto profonda da assorbire completamente la luce. Ansiosamente, strisciò in avanti e tenne la torcia sospesa sulla fossa. Era una specie di pozzo, ampio circa tre metri e profondo quindici. Il fondo era un gorgo di macerie. Ma non c’era Kickaha, e neppure una depressione a indicare il punto della sua caduta.

Wolff gridò il nome dell’amico, e nello stesso tempo udì le grida dei Sholkin che si avvicinavano.

Non ricevendo risposta, si protese per quanto possibile sul bordo della fossa, cercando di vedere qualcosa di più. Agitò la torcia intorno più volte, ma vide solo detriti, e la torcia di Kickaha, che si era spenta cadendo.

Sembrava che ci fossero delle aperture, all’interno della fossa. L’unica conclusione possibile era che Kickaha fosse finito in una di esse.

Il rumore delle voci si fece più forte, e si vide, in fondo, il chiarore delle torce. Non poteva sostare più a lungo. Doveva continuare. Lanciò la torcia dall’altra parte e saltò con tutte le sue forze. Cadde disteso, e le gambe annasparono sul bordo della fossa: ma era in salvo.

Raccolse la torcia, che era rimasta accesa, e prosegui. Al termine della galleria trovò una diramazione completamente ostruita dal pietrisco. La seconda era ostruita da un grosso macigno, ma c’era uno stretto pertugio, e, faticosamente, egli riusci a penetrarvi. Oltre l’apertura c’era un’immensa stanza, più grande di quella degli schiavi.

C’era una serie di rozze terrazze, formate dallo slittamento delle pietre, dalla parte opposta. Si arrampicò su di esse, e raggiunse un pertugio dal quale si vedeva la luce della luna. Era la sola via di scampo. Se i Sholkin stavano pattugliando il tetto dell’edificio, avrebbero visto la luce della sua torcia. Rimase immobile nell’apertura, in ascolto. Se la torcia era stata vista, sarebbe stato catturato al momento di uscire, e non avrebbe potuto difendersi. Alla fine, udendo solo delle grida lontane, e rendendosi conto che quella era la sola via d’uscita che gli veniva offerta, vi penetrò.

Era vicino alla cima della montagna di detriti che copriva la parte posteriore dell’edificio. Sotto di lui c’erano delle torce. Nella luce, si trovava Abiru, che agitava i pugni contro i soldati, e gridava.

Wolff guardò la terra che si trovava sotto i suoi piedi, immaginò la pietra e i passaggi che esistevano in essa, e il pozzo nel quale Kickaha si era sfracellato.

Sollevò la lancia e mormorò:

«Ave atque vale, Kickaha!»

Avrebbe voluto uccidere degli altri Sholkin… e soprattutto Abiru… per vendicare la morte di Kickaha. Ma doveva agire logicamente. C’era sempre Chryseis, e c’era il corno. Ma si sentiva stanco e svuotato, come se avesse perduto una parte della sua anima.

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