CAPITOLO XI

Quella notte, si nascose tra i rami di un alto albero che cresceva a una certa distanza dalla città. Aveva deciso di seguire i trafficanti di schiavi, e di salvare Chryseis e il corno alla prima opportunità. I mercanti di schiavi avrebbero dovuto prendere la strada vicino alla quale lui aspettava; era la sola che conducesse verso l’interno, a Teutonia. L’alba giunse e lui aspettava, assetato e affamato. A mezzogiorno, divenne impaziente. Non lo stavano certamente ancora cercando! A sera, decise che avrebbe dovuto almeno bere un po’ d’acqua. Discese dall’albero e si diresse verso un torrente. Un grugnito lo fece salire sull’albero più vicino. Una famiglia di leopardi stava avanzando tra gli arbusti. Gli animali si fermarono vicino al torrente, e cominciarono a bere. Quando ebbero terminato, e furono di nuovo scomparsi tra gli arbusti, il sole era già vicino ai margini della montagna.

Ritornò sulla pista, sicuro che i mercanti di schiavi non avrebbero potuto passare mentre lui si trovava vicino al torrente, senza che lui li avesse uditi. E non passò nessuno. Quella notte, tornò tra le rovine, e si avvicinò all’edificio dal quale era fuggito. Nessuno in vista. Ormai certo della partenza dei mercanti di schiavi, vagò tra i viali ricoperti di erbacce e tra le enormi macerie, fino a quando non si imbatté in un uomo seduto a terra, appoggiato al tronco di un albero. L’uomo era instupidito dal dhiz, ma Wolff lo risvegliò, schiaffeggiandolo violentemente. Puntandogli il coltello alla gola, Wolff gli estorse delle informazioni. Malgrado il suo limitato vocabolario Khamshem, e la sua ancor più incompleta conoscenza del Dholinz, riuscì a comunicare. Abiru e i suoi uomini erano partiti al mattino, su tre grosse canoe da guerra, con un equipaggio di rematori Dholinz assoldati sul posto.


Wolff stordì l’uomo con un pugno, e si avviò verso la banchina. Era deserta, e tutte le imbarcazioni erano a sua disposizione. Rubò un minuscolo battello a vela, e salpò quasi subito.

Tremila chilometri dopo, era sul confine tra Teutonia e il Khamshem civilizzato. Aveva percorso per cinquecento chilometri il fiume Guzirit, poi aveva proseguito a piedi. Avrebbe dovuto raggiungere la carovana, che procedeva lentamente, già da molto tempo: ma incidenti di vario genere, non esclusa la presenza di tigri e divoratori, gli avevano fatto perdere per tre volte la pista.

Gradualmente, il paesaggio saliva. Di colpo, un altipiano interruppe la giungla. Una scalata di appena duemila metri non era nulla per un uomo che per tre volte aveva scalato cime di dieci chilometri. Una volta in vetta, si trovò in un territorio diverso. Sebbene l’aria non fosse più fredda, ovunque crescevano querce, sicomori, castani, noci e così via. Anche gli animali erano diversi. Aveva percorso circa tre chilometri, nella penombra di una foresta di altissime querce, quando fu costretto a nascondersi.

Un drago gli passò lentamente vicino, lo guardò una volta, sibilò, e se ne andò per la sua strada. Aveva l’aspetto delle rappresentazioni convenzionali dell’Occidente, era lungo circa dieci metri, alto tre, ed era coperto di scaglie. Non lanciava fiamme. Si fermò anzi a trenta metri dall’albero su cui si era rifugiato Wolff, e cominciò a brucare l’erba. Wolff concluse che dovevano esistere almeno due tipi di draghi. Scendendo dal suo riparo, Wolff si chiese come avrebbe potuto fare a distinguere il tipo erbivoro da quello carnivoro, senza prima essere salito sul ramo più alto dell’albero più vicino. Il drago continuò a riempirsi la pancia, e, soddisfatto, ruttò rumorosamente.

Ancora più prudentemente di prima, Wolff avanzò tra gli altissimi tronchi e le cascate di muschio che formavano quella sinfonia di verde. L’alba del giorno seguente lo trovò ai margini opposti della foresta. Davanti a lui, il paesaggio era ondulato. Si poteva avere una visione di parecchi chilometri. Alla sua destra, sul fondo di una valle, scorreva un fiume. Dalla parte opposta, in cima a una collina impervia, sorgeva un castello. Ai piedi della collina c’era un minuscolo villaggio. Dai comignoli si alzava del fumo, e questo gli fece avvertire un morso allo stomaco. Quanto gli sarebbe piaciuto sedere accanto al fuoco, davanti a una tazza di caffè, insieme ad amici, dopo una buona notte di riposo! Dio! Quanto gli mancava un luogo in cui tutto non fosse contro di lui!

Il suo viso si bagnò di lacrime. Le asciugò, e proseguì per la sua strada. Aveva fatto la sua scelta, e doveva accettarne vantaggi e svantaggi, come avrebbe dovuto fare sulla Terra a cui aveva rinunciato. E quel mondo, per lo meno ora, non era poi tanto male. Era fresco e verde senza linee telefoniche, conti da pagare, giornali e lattine disseminate ovunque, senza fumo e senza paura della bomba. C’era molto da dire a suo favore, a prescindere dalle sue condizioni attuali. E lui aveva ottenuto quello per cui molti uomini avrebbero venduto la propria anima: la giovinezza e l’esperienza dell’età.

Appena un’ora dopo, si domandò se quel dono lui l’avrebbe potuto conservare. Stava percorrendo una stradicciola stretta e sporca, quando un cavaliere apparve da una curva, seguito da due armigeri. Il suo cavallo era nero e immenso e parzialmente corazzato da lamiere di ferro. Il cavaliere indossava una maglia di ferro nera che, secondo Wolff, somigliava a quella usata dai cavalieri tedeschi del tredicesimo secolo. L’elmo era sollevato, e rivelava un volto aguzzo, da falco, dai vividi occhi azzurri.

Il cavaliere fece arrestare il suo cavallo. Apostrofò Wolff in un tedesco arcaico che Wolff aveva imparato sia da Kickaha che dai suoi studi compiuti sulla Terra. Il linguaggio era, naturalmente, mutato, ed era pieno di corruzioni e di voci Khamshem: ma Wolff riuscì a comprendere quasi tutto ciò che l’inaspettato collega di viaggio gli stava dicendo.

«Fermati, marrano!» gridò l’uomo. «Che vai facendo con un arco?»

«Se così piace alla tua augusta signoria» replicò in tono ironico Wolff, «io fo il cacciatore, e perciò porto regolare licenza del re.»

«Tu sei un mentitore! Conosco tutti i cacciatori legali di queste contrade. In fede mia, tu sembri un saraceno, o perfino un giudeo, tanto sei scuro. Getta il tuo arco e arrenditi, o ti abbatterò come merita un’erba maligna quale sei tu!»

«Vieni a prenderlo» disse furioso Wolff.

Il cavaliere sollevò la lancia, e il suo cavallo parti al galoppo.

Wolff resistette all’impulso di gettarsi da una parte, davanti allo sfolgorio della lancia. Nel momento che ritenne esalto, si gettò avanti. La lancia si abbassò per infilzarlo, gli passò a meno di un centimetro, e si conficcò a terra. Come un saltatore con l’asta, il cavaliere saltò di sella e, sempre stringendo la lancia, descrisse un arco. Alla fine dell’arco, fu l’elmo a colpire per primo la terra: il colpo doveva averlo stordito, o, peggio, doveva avergli spezzato l’osso del collo, perché egli giacque immobile al suolo.

Wolff non voile perdere tempo. Tolse la cintura che reggeva la spada al cavaliere, e se la infilò. Il cavallo del morto, uno stupendo roano, era tornato indietro e si era fermato accanto a colui che era stato il suo padrone. Wolff montò in sella, e fuggì.


Teutonia doveva il suo nome alla conquista di un gruppo di Cavalieri dell’Ordine Teutonico di Santa Maria di Gerusalemme. Questo ordine era nato durante la Terza Crociata, ma in seguito aveva deviato dai suoi primitivi scopi. Nel 1229 der Deutsche Orden aveva iniziato a conquistare la Prussia per convertire i baltici pagani e per preparare la colonizzazione da parte dei tedeschi. Un gruppo di essi era entrato nel mondo del Signore, su quel piano, o per cause accidentali, la qual cosa pareva improbabile, o perché il Signore aveva aperto un passaggio e li aveva costretti a entrare.

Qualunque fosse stata la causa, i Cavalieri Teutonici avevano soggiogato gli aborigeni e avevano fondato una società basata su quella che avevano lasciato sulla Tetta. Essa, naturalmente, era poi stata mutata sia da un’evoluzione naturale che dal volere del Signore. Quello che in origine era stato il regno unito del Gran Maresciallo si era trasformato in un insieme di staterelli indipendenti. Erano regni, ciascuno diviso in piccole zone d’influenza di baronetti locali, e di baronetti fuorilegge o briganti.

Un altro aspetto dell’altipiano era costituito dallo stato di Giudaica. I fondatori di questo stato erano entrati da un passaggio che si era aperto nella stessa epoca nella quale avevano vissuto i Cavalieri Teutonici. Neanche in questo caso si sapeva se ciò fosse avvenuto casualmente o per volere del Signore. Ma un certo numero di ebrei di lingua tedesca si era stabilito ai confini orientali dell’altipiano. Pur essendo in origine dei mercanti, avevano soggiogato la popolazione locale. E avevano dovuto adottare l’ordinamento feudale dei Cavalieri Teutonici… probabilmente per sopravvivere. Era stato a questo gruppo che il cavaliere aveva alluso, quando aveva accusato Wolff di essere giudeo.

Pensando a questo, Wolff ridacchiò. Poteva essere stato un caso anche il fatto che i tedeschi fossero entrati in un piano in cui già esistevano i Khamshem, di antico ceppo semitico, contemporaneamente agli odiati ebrei. Ma Wolff vedeva l’ironico sorriso del Signore dietro a questa situazione.

In verità, non c’erano né cristiani né ebrei a Drachelandia.

Anche se le due religioni si avvalevano degli antichi nomi, ormai si erano pervertite. Il Signore aveva preso il posto di Yahweh e di Gott, ma a lui ci si rivolgeva chiamandolo Dio o Yahweh. Le cerimonie, i riti, i sacramenti, e le scritture erano stati abilmente trasformati. Le fedi originarie, sulla Terra, avrebbero chiamato eretici quei discendenti che vivevano sul mondo del Signore.

Wolff si dirigeva verso la baronia di Von Elger. Non poté procedere come desiderava, perché fu costretto a evitare strade e villaggi, lungo la strada. Dopo essere stato costretto a uccidere il cavaliere, non osò neppure attraversare la baronia di Von Laurentius, come aveva inizialmente progettato. L’intero paese doveva essere alla sua ricerca; uomini e cani potevano nascondersi ovunque. Le colline che segnavano il confine erano il passaggio più sicuro; ed egli scelse quella strada.

Due giorni dopo, giunse in un punto dal quale poteva discendere senza trovarsi nel territorio di Von Laurentius. Scendendo da un’altura ripida, ma non particolarmente difficoltosa, compì una larga curva: sotto di lui si stendeva un’ampia pianura. C’era una prateria, alle cui estremità opposte sorgevano due accampamenti. Intorno alla grande tenda, con pennone e insegne, che sorgeva al centro di ogni accampamento, si trovavano diverse altre tende più piccole, molti fuochi, e molti cavalli. Quasi tutti gli uomini erano radunati in due gruppi. Stavano guardando i loro campioni che stavano per scontrarsi, con le lance sollevate. Mentre Wolff guardava, i due s’incontrarono al centro del campo, con un clangore assordante. Un cavaliere arretrò, con la lancia dell’avversario piantata nello scudo. L’altro, comunque, perse l’equilibrio e cadde subito dopo, con fragore.

Wolff studiò la scena. Non era uno dei soliti tornei cavallereschi. I villici e i paesani che avrebbero dovuto affollare i bordi dell’arena, e i nobili eleganti con le loro dame, erano assenti. Era un luogo solitario, vicino alla strada, dove alcuni cavalieri avevano piantato le tende e sfidavano chiunque passasse a singoiar tenzone.

Wolff scese dalla collina. Pur essendo visibile a quelli che si trovavano in basso, era sicuro che in quel momento non si sarebbero interessati di un viaggiatore solitario. Aveva ragione. Nessuno uscì dai due accampamenti per rivolgergli delle domande. Riuscì a raggiungere i margini del campo, e a darsi un’occhiata intorno.

La bandiera sulla tenda centrale alla sua sinistra mostrava un sigillo di Salomone in campo giallo. Da ciò comprese che era stato un campione giudeo a piantare le tende in quel luogo. Sotto la bandiera nazionale si trovava una bandiera verde con un pesce e un falco d’argento. L’altro accampamento esibiva bandiere di diversi stati e di diverse casate. Una di esse balzò agli occhi di Wolff, e lo fece gridare di sorpresa. Su campo bianco, spiccava una testa d’asino rossa, con una mano sotto, con tutte le dita strette a pugno tranne il medio. Kickaha gliene aveva parlato, una volta, e allora Wolff aveva riso di gusto. Era davvero degno di Kickaha scegliersi un simile emblema.

Poi Wolff si calmò, sapendo che era probabilissimo che la bandiera fosse portata dall’uomo che si occupava del territorio di Kickaha mentre egli era assente.

Cambiò la decisione che aveva preso, e cioè di passare oltre. Doveva sapere con assoluta certezza che l’uomo che portava quella bandiera non fosse Kickaha, anche se sapeva che le ossa del suo amico dovevano in quel momento marcire su un mucchio di rifiuti, sul fondo di una fossa che si trovava in una città in rovina circondata dalla giungla.

Senza incontrare ostacoli, attraversò il campo e raggiunse l’accampamento che si trovava a occidente. Armigeri e servi lo fissarono, distogliendo lo sguardo quando lui li guardava direttamente. Qualcuno brontolò: «Cane giudeo!» ma quando lui si voltò, nessuno reclamò la paternità dell’insulto. Passò oltre un gruppo di cavalli, e raggiunse il cavaliere che stava cercando. Questi indossava un’armatura rossa e splendente, con l’elmo abbassato, e teneva sollevata un’enorme lancia, aspettando il suo turno. La lancia portava quasi sulla punta un pennone sul quale si trovavano la testa d’asino rossa e la mano umana.

Wolff si fermò vicino al cavallo sbuffante, innervosendolo ancora di più. Gridò in tedesco:

«Barone Von Horstmann?»

Si udì un’esclamazione soffocata, una pausa, e la mano del cavaliere salì verso l’elmo. Wolff fu sul punto di piangere di gioia; il volto ilare di Finnegan-Kickaha-Von Horstmann gli apparve davanti.

«Non dire niente» lo avvertì Kickaha. «Non so come diavolo tu abbia fatto a trovarmi, ma ne sono più che felice. Ci vediamo tra un istante. Sempre che ritorni indietro vivo. Quel funem Laksfalk è un osso duro.»

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