II

A dieci miglia dalla valle dei Banbeck, tra un panorama desolato di creste, picchi, guglie di pietra, crepacci spaventosi, burroni spogli e campi cosparsi di macigni e sferzati dal vento, si estendeva la Valle Beata. Era ampia quanto la Valle dei Banbeck, ma era lunga e profonda solo la metà: il fondo di terriccio depositato dal vento era meno spesso e perciò meno produttivo.

Il Consigliere Capo della Valle Beata era Ervis Carcolo, un uomo tozzo, dalle gambe corte e dal volto veemente, dalla bocca carnosa, e dall’indole di volta in volta giocosa e furibonda. A differenza di Joaz Banbeck, Carcolo amava soprattutto far visita alle caserme dei draghi, dove trattava tutti, signori dei draghi, stallieri e draghi, a urla e invettive.

Ervis Carcolo era un uomo energico, deciso a rendere alla Valle Beata la preminenza di cui aveva goduto circa dodici generazioni prima. In quei tempi duri, prima dell’avvento dei draghi, erano gli uomini a combattere direttamente le loro battaglie. Gli uomini della Valle Beata erano stati straordinariamente ardimentosi, abili e spietati. La Valle dei Banbeck, la Grande Spaccatura Settentrionale, il Rifugio ad Anello, la Valle di Sadro, il Canalone di Fosforo, tutti riconoscevano l’autorità dei Carcolo.

Poi, dallo spazio, venne una nave dei Basici, o greph, come venivano chiamati a quei tempi. La nave uccise o prese prigionieri tutti gli abitanti di Rifugio ad Anello. Tentò di fare altrettanto nella Grande Spaccatura Settentrionale, ma vi riuscì solo in parte; poi bombardò il resto degli abitati con proiettili esplosivi.

Quando i sopravvissuti fecero ritorno nelle loro valli devastate, il dominio della Valle Beata era diventato ormai una finzione. Una generazione più tardi, durante l’Era del Ferro Bagnato, anche la finzione crollò. In una battaglia decisiva, Goss Carcolo venne catturato da Kergan Banbeck e costretto a evirarsi con il proprio coltello.

C’erano stati cinque anni di pace, e poi erano ritornati i Basici. Dopo aver spopolato la Valle di Sadro, la grande nave nera atterrò nella Valle dei Banbeck, ma gli abitanti, che erano sull’avviso, si erano rifugiati tra le montagne. Verso l’imbrunire, ventitré Basici fecero una sortita, preceduti dai loro guerrieri scrupolosamente addestrati: diversi plotoni di Fanteria Pesante, una squadra di Armieri — questi non si distinguevano quasi dagli uomini di Aerlith — e una squadra di Battitori: questi erano decisamente molto diversi. Sulla valle scoppiò la tempesta del tramonto, rendendo inutili i velivoli usciti dalla nave; e questo permise a Kergan Banbeck di compiere l’impresa straordinaria che lo aveva reso leggendario su tutta Aerlith. Invece di unirsi alla fuga del suo popolo terrorizzato verso i monti, radunò sessanta guerrieri e, provocandoli e insultandoli e svergognandoli, riuscì a instillare in loro il coraggio.

Era un’impresa suicida… in armonia con la situazione.

Balzando fuori dall’imboscata, fecero a pezzi un plotone di Fanteria Pesante, misero in fuga gli altri, e catturarono i ventitré Basici quasi prima ancora che questi si rendessero conto di come stavano le cose. Gli Armieri rimasero indietro, frenetici per la frustrazione, incapaci di usare le loro armi per timore di uccidere i loro padroni. La Fanteria Pesante avanzò all’attacco, e si arrestò solo quando Kergan, a gesti inequivocabili, fece capire che i Basici sarebbero stati i primi a morire.

Confusi, i Fanti si ritirarono. Kergan Banbeck, con i suoi uomini e i ventitré prigionieri, fuggì nell’oscurità.

Trascorse la lunga notte di Aerlith. Il temporale dell’alba salì da oriente, passò tonando, si dileguò maestosamente a occidente; Skene si levò come un atomo sfolgorante.

Tre uomini uscirono da una nave dei Basici: un Armiere e due Battitori. Si inerpicarono su per gli strapiombi, fino all’Orlo dei Banbeck, mentre sopra di loro volava un piccolo apparecchio dei Basici, niente più d’una piattaforma galleggiante, che si tuffava e virava nell’aria come un aquilone mal bilanciato. I tre uomini avanzarono faticosamente verso sud, in direzione del Labirinto Alto, una regione d’ombre caotiche e di luci, di rocce spezzate e di picchi crollati e di macigni ammassati sui macigni. Era il rifugio tradizionale degli uomini braccati.

Fermandosi davanti al Labirinto, l’Armiere chiamò Kergan Banbeck, proponendogli di parlamentare.

Kergan Banbeck si fece avanti. Si svolse allora il colloquio più strano di tutta la storia di Aerlith. L’Armiere parlava con difficoltà il linguaggio degli uomini; aveva le labbra, la lingua e le corde vocali più adatte alla favella dei Basici.

— Tu tieni prigionieri ventitré dei nostri Riveriti. È necessario che li lasci liberi, con tutta umiltà. — Parlava con calma, e con una sorta di gentile malinconia, senza intimare, comandare o esortare. Come le sue abitudini linguistiche erano state modellate su quelle dei Basici, si erano modificati allo stesso modo i suoi processi mentali.

Kergan Banbeck, un uomo alto e scarno dalle nere sopracciglia laccate, i capelli neri acconciati e laccati in una cresta a cinque alti speroni, scoppiò in una risata priva di gaiezza. — E gli abitanti di Aerlith che sono stati uccisi, e la gente trascinata a bordo della vostra nave?

L’Armiere si protese verso di lui: era un uomo imponente, dalla nobile testa aquilina. Era glabro, aveva solo minuscoli boccoli gialli e lanosi. La sua pelle luceva, come brunita. Le orecchie, la caratteristica che più lo rendeva diverso dagli uomini non adattati di Aerlith, erano falde di pelle, piccole e fragili. Indossava un semplice indumento blu e bianco, e non aveva armi, tranne un semplice eiettore a molti usi. Con assoluta tranquillità e con serena ragionevolezza, rispose alla domanda di Kergan Banbeck: — Gli abitanti di Aerlith che sono stati uccisi sono morti. Coloro che si trovano a bordo della nave si mescoleranno con il substrato, dove l’infusione di sangue nuovo è importante.

Kergan Banbeck scrutò l’Armiere con sprezzante lentezza. Sotto certi aspetti, pensò, quell’uomo modificato e programmato somigliava ai sacerdoti del suo pianeta, soprattutto per la carnagione chiara, i lineamenti modellati fortemente, le braccia e le gambe lunghe.

Forse era in opera la telepatia, o forse una traccia del caratteristico odore dolce-acidulo era arrivata fino a lui; girando la testa scorse un sacerdote ritto tra le rocce, a meno di cinquanta passi… tutto nudo, a eccezione del monile d’oro e dei lunghi capelli che sventolavano dietro di lui come un’orifiamma. Obbedendo all’antica etichetta, Kergan Banbeck guardò oltre, fingendo che non esistesse neppure. Dopo una rapida occhiata, l’Armiere fece altrettanto.

— Richiedo che lasciate liberi gli abitanti di Aerlith prigionieri sulla vostra nave — disse Kergan Banbeck con voce secca.

Sorridendo, l’Armiere scosse il capo, e fece del suo meglio per farsi capire. — Quelle persone non sono in discussione. Il loro… — Fece una pausa, cercando le parole. — Il loro destino è… parcellizzato, quantificato, ordinato. Stabilito. Non c’è altro da aggiungere.

Il sorriso di Kergan Banbeck divenne una smorfia cinica. Restò chiuso in un silenzio altero, mentre l’Armiere continuava a gracchiare. Il sacerdote si fece avanti lentamente, pochi passi alla volta. — Devi capire — disse l’Armiere — che esiste un modello degli eventi. È funzione di quelli come me plasmare gli eventi affinché si conformino al modello. — Si chinò, muovendo elegantemente un braccio, e afferrò un ciottolo aguzzo. — Come posso modellare questo pezzo di pietra perché si adegui a un’apertura rotonda.

Kergan Banbeck tese la mano, prese il ciottolo e lo lanciò in alto, sopra i macigni ammassati. — Non modellerai mai quel pezzo di pietra per adattarlo a un foro rotondo.

L’Armiere scosse il capo, con aria di blanda riprovazione. — Ci sono sempre altre pietre.

— E ci sono sempre altri fori — dichiarò Kergan Banbeck.

— Parliamo sul serio, allora — disse l’Armiere. — Io propongo di modellare la situazione nella sua forma esatta.

— Che cosa offri in cambio dei ventitré greph?

L’Armiere scrollò le spalle, inquieto. Le idee di quell’uomo erano folli, barbare e arbitrarie quanto le creste laccate della sua acconciatura. — Se lo desideri io ti darò istruzioni e consigli, affinché…

Kergan Banbeck fece un gesto brusco, improvviso. — Pongo tre condizioni. — Il sacerdote, adesso, era a dieci passi, il volto cieco, lo sguardo vago. — Prima — disse Kergan Banbeck — una garanzia contro futuri attacchi ai danni degli uomini di Aerlith. Cinque greph dovranno rimanere in nostra custodia, in qualità di ostaggi. Seconda, sempre per assicurare la validità perpetua della garanzia, dovete consegnarmi un’astronave, equipaggiata, energizzata e armata. E dovete insegnarmi a usarla.

L’Armiere ributtò la testa all’indietro ed emise, dal naso, una serie di suoni belanti.

— Terza condizione — continuò Kergan Banbeck — dovete liberare tutti gli uomini e le donne che si trovano a bordo della vostra nave.

L’Armiere sbatté le palpebre, pronunciò rapide parole rauche di sbalordimento, rivolgendosi ai Battitori. Questi si agitarono, inquieti e impazienti, osservando di straforo Kergan Banbeck come se fosse non solo un selvaggio, ma anche un pazzo. Il velivolo stava librato lassù; l’Armiere alzò lo sguardo e parve trarre incoraggiamento da quella vista. Rivolgendosi a Kergan Banbeck con un nuovo atteggiamento di fermezza, parlò come se il precedente dialogo non fosse mai avvenuto. — Sono qui per dirti che i ventitré Riveriti debbono venire immediatamente rilasciati.

Kergan Banbeck ripeté le sue richieste. — Dovete fornirmi un’astronave, non dovete più compiere scorrerie, dovete liberare i prigionieri. Sei d’accordo, sì o no?

L’Armiere sembrava confuso. — È una situazione bizzarra… indefinita, inquantificabile.

— Non riesci a capirmi? — latrò Kergan Banbeck, esasperato. Lanciò un’occhiata al sacerdote, un atto di decoro discutibile, poi si comportò in modo totalmente anticonvenzionale: — Sacerdote, come posso trattare con questo idiota? Sembra che non mi ascolti.

Il sacerdote si avvicinò di un altro passo, con la stessa espressione blanda e vacua. Poiché viveva secondo una dottrina che vietava ogni interferenza attiva o intenzionale negli affari degli altri umani, poteva dare a ogni domanda solo una risposta specifica e limitata. — Ti ascolto, ma tra voi non esiste alcun incontro di idee. La struttura del suo pensiero è derivata da quella dei suoi padroni. È incommensurabile con la tua. E non so dire come tu possa trattare con lui.

Kergan Banbeck guardò di nuovo l’Armiere. — Hai sentito ciò che ti ho chiesto? Hai compreso le mie condizioni per la liberazione dei greph?

— Ti ho udito distintamente — rispose l’Armiere. — Le tue parole non hanno significato, sono assurdità, paradossi. Ascoltami con attenzione. È ordinato, completo, un quanto del destino, che tu ci renda i Riveriti. È irregolare, non è ordinato che tu debba avere una nave, o che le altre tue richieste vengano accolte.

Il volto di Kergan Banbeck s’imporporò. Si girò a mezzo verso i suoi uomini ma, trattenendo la collera, parlò lentamente e con meticolosa chiarezza. — Io ho qualcosa che voi volete. Voi avete qualcosa che io voglio. Trattiamo.

Per venti secondi i due uomini si fissarono negli occhi. Poi l’Armiere trasse un profondo respiro. — Mi spiegherò usando le tue parole, in modo che tu comprenda. Esistono certezze… no, non certezze. Esistono i definiti. Sono unità di certezza, quanti di necessità e d’ordine. L’esistenza è la costante successione di tali unità, una dopo l’altra. L’attività dell’universo può venire espressa riferendosi a tali unità. L’irregolarità, l’assurdità… sono come… un mezzo uomo, con mezzo cervello, mezzo cuore, metà di tutti i suoi organi vitali. Né le une né l’altro possono esistere. Il fatto che tu trattenga prigionieri ventitré Riveriti è un’assurdità di questo genere: un oltraggio al flusso razionale dell’universo.

Kergan Banbeck levò le mani e si rivolse di nuovo al sacerdote. — Come posso far cessare questa pazzia? Come posso fargli intendere la ragione?

Il sacerdote rifletté. — Non dice pazzie, ma usa piuttosto un linguaggio che tu non riesci a comprendere. Potrai fargli comprendere il tuo linguaggio cancellando dalla sua mente tutte le nozioni impresse dall’addestramento, e sostituendole con schemi tuoi.

Kergan Banbeck dominò un inquietante senso di frustrazione e di irrealtà. Per ottenere risposte esatte da un sacerdote, era necessaria una domanda esatta: era già straordinario che quel sacerdote rimanesse lì a farsi interrogare. Riflettendo scrupolosamente, chiese: — Come mi consigli di comportarmi con quest’uomo?

— Lascia liberi i ventitré greph. — Il sacerdote toccò le borchie gemelle nella parte anteriore della collana d’oro: era un gesto rituale indicante che, sia pure con riluttanza, aveva compiuto un atto che poteva, concepibilmente, modificare il corso del futuro. Batté di nuovo le dita sul monile e intonò: — Lascia liberi i greph; allora lui se ne andrà.

Kergan Banbeck lanciò un grido di rabbia trattenuta. — Ma tu chi servi? L’uomo o il greph? Sentiamo la verità! Parla!

— Per la mia fede, per il mio credo, per la verità del mio tand, io non servo altri che me stesso. — Il sacerdote girò il volto verso il grande picco di Monte Gethron e si allontanò lentamente. Il vento faceva svolazzare lateralmente i suoi lunghi, finissimi capelli.

Kergan Banbeck lo guardò allontanarsi, e poi, con fredda decisione, si rivolse di nuovo all’Armiere. — La tua discussione delle certezze e delle assurdità è interessante. Ritengo che le abbia confuse. Ecco una certezza, dal mio punto di vista: non lascerò liberi i ventitré greph, a meno che tu accetti le mie condizioni. Se ci attaccherete ancora, li taglierò a metà, per illustrare e realizzare la tua similitudine, e forse ti convincerò che le assurdità sono possibili. Non ho altro da dire.

L’Armiere scosse lentamente la testa in un gesto di commiserazione. — Ascolta, ti spiegherò. Certe condizioni sono impensabili. Sono inquantificabili, non destinate…

— Vattene — tuonò Kergan Banbeck. — Altrimenti andrai a far compagnia ai tuoi ventitré Riveriti, e ti insegnerò quanto può diventare reale l’impensabile!

L’Armiere e i due Battitori, gracchiando e borbottando, si voltarono, si ritirarono dal Labirinto all’Orlo dei Banbeck e discesero nella valle. Il velivolo li sorvolava svolazzando come una foglia cadente.

Osservandoli dal loro rifugio tra i picchi, gli uomini della Valle dei Banbeck assistettero poco dopo a una scena straordinaria. Mezz’ora dopo che l’Armiere era ritornato alla nave, ne uscì di nuovo, saltando, danzando, caprioleggiando. Altri lo seguirono, Armieri, Battitori, Fanti e altri otto greph… e tutti sussultavano, saltavano, correvano avanti e indietro, a passi disperati. Dagli oblò della nave si irradiarono luci di vari colori, e poi si levò un lento suono crescente di meccanismi torturati.

— Sono impazziti! — mormorò Kergan Banbeck. Esitò un istante, poi impartì un ordine. — Radunate tutti gli uomini! Attacchiamoli mentre non sono in grado di difendersi!

Dal Labirinto Alto si avventarono gli uomini della Valle dei Banbeck. Mentre scendevano dagli strapiombi, alcuni uomini e donne della Valle di Sadro, che erano stati catturati, uscirono timidamente dalla nave, e poiché non incontrarono resistenza fuggirono verso la libertà, attraverso la Valle dei Banbeck. Altri li seguirono… e poi i guerrieri di Banbeck raggiunsero il fondovalle.

Accanto all’astronave, la follia si era acquietata. Gli esseri venuti da un altro mondo stavano ammassati in silenzio accanto allo scafo. Poi vi fu un’esplosione improvvisa, sconvolgente, un vuoto di fuoco bianco e giallo. La nave si disintegrò. Un grande cratere deturpava adesso il fondovalle: frammenti di metallo cominciarono a piovere sui Guerrieri di Banbeck lanciati all’assalto.

Kergan Banbeck fissava a occhi sbarrati quella scena di distruzione.

Lentamente, abbassando le spalle, chiamò la sua gente e la condusse verso la loro valle devastata. Alla retroguardia, legati insieme da funi, venivano i ventitré greph, con gli occhi spenti, docili, già lontani dalla loro precedente esistenza.

La struttura del Destino era inevitabile. Le circostanze attuali non potevano essere valide per ventitré Riveriti. Perciò il meccanismo doveva adattarsi, per assicurare la serena progressione degli eventi. I ventitré, quindi, erano qualcosa di diverso dai Riveriti: appartenevano a un ordine d’esseri completamente diversi.

Se questo era vero, che cos’erano? Rivolgendosi l’un l’altro questa domanda in sommessi, tristi toni gracchianti, scesero dagli strapiombi verso la Valle dei Banbeck.

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