Il vero Tennison Tarb

1

Nella Fase Due si perde il conto del tempo, perché ogni giorno è brutto come quello successivo. Quando tornai in città, scoprii con sorpresa che era ancora estate, anche se gli alberi nel Central Park stavano cominciando a perdere le foglie. Il sudore correva lungo la schiena della mia pedalatrice di taxi. Il frastuono del traffico, fatto di grida, cigolii e scricchiolii, era punteggiato dai suoi colpi di tosse, secchi e catarrosi. C’era un allarme-smog, naturalmente. E lei non portava filtro sulla faccia, perché con un filtro non si riesce a inspirare abbastanza aria per mantenere il ritmo del traffico intenso. Mentre da Circle prendevamo per Broadway, un furgone bancario corazzato, con sei pedalatori, ci tagliò la strada; la pedalatrice sterzò bruscamente per evitarlo, e scivolò sulla strada viscida. Per un momento pensai che il taxi dovesse rovesciarsi. Lei si voltò a guardarmi con la faccia spaventata. — Scusate, signore — disse ansimando. — Con quelli lì non c’è niente da fare!

— Non importa — dissi. — Anzi, è una giornata così bella che farò il resto della strada a piedi. — Naturalmente lei mi guardò come se fossi matto, specialmente quando le dissi di seguirmi, nel caso avessi cambiato idea. Quando arrivammo all’edificio della Haseldyne & Ku, e la pagai con una grossa mancia, ormai si era convinta che fossi matto. Se ne andò in tutta fretta. Ma il sudore le si era asciugato sulla schiena,en on tossiva quasi più.

Non avevo mai visto una cosa del genere prima.

Salutai con dei cenni i colleghi che riconobbi, entrando. Mi guardarono con vari gradi di stupore, ma io ero troppo occupato a stupirmi di me stesso. Qualcosa era cambiato in me, al Centro Disintossicazione. Ero tornato con qualcosa di più dei buchi per le iniezioni di vitamine e il disgusto per le pillole verdi. Ero tornato con nuovi accessori nella testa. Cosa fossero di preciso non lo sapevo ancora, ma uno di questi sembrava rispondere al nome di «coscienza».

Quando entrai nel mio ufficio, Dixmeister mi guardò ad occhi spalancati, come gli altri. — Accidenti, signor Tarb — disse. — Sembrate scoppiare di salute! La vacanza vi ha fatto proprio bene!

Annuii. Mi stava dicendo solo quello che mi avevano detto nelle ultime mattine la bilancia e lo specchio. Avevo riguadagnato dieci chili. Non tremavo più. Non mi sentivo più neppure teso. Perfino i cartelloni luminosi e sonori della pubblicità non mi avevano risvegliato alcun desiderio, mentre percorrevo le strade. — Vai pure avanti col tuo lavoro — gli dissi. — Devo sentire Mitzi Ku prima di riprendere.

La cosa non fu facile. La prima volta che provai lei non c’era. Non c’era neppure la seconda, e quando la trovai, al terzo tentativo, c’era ma stava uscendo. — Il signor Haseldyne l’aspetta — l’avvertì la Terza Segretaria, ma Mitzi lo lasciò aspettare. Chiuse la porta. Ci baciammo. Poi lei fece un passo indietro.

Mi guardò. La guardai. Mi disse con aria sorpresa: — Tenny, ti trovo bene.

Io dissi: — Anche tu stai bene — e aggiunsi, per amore della verità: — per me. — Perché in realtà lo specchio di Mitzi non sarebbe stato così generoso con lei quanto il mio. Aveva un’aria terribilmente stanca, in effetti, ma al di là di questo fatto oggettivo c’era il fatto soggettivo che a me non importava che aspetto avesse: bastava che fosse con me. Data la sua carnagione, le occhiaie non sembravano così terribili. Ma c’erano; aveva l’aria di chi ha dormito poco, e forse ha saltato qualche pasto… ma ai miei occhi sembrava sempre splendida.

— È stato brutto, Tenny?

— Passabilmente brutto. — Avevo vomitato parecchio, avevo frugato in ogni angolo per cercare qualcosa con cui tagliarmi la gola. Ma non c’ero riuscito, e avevo avuto le convulsioni solo un paio di volte. Lasciai cadere il discorso. — Mitzi — dissi, — ho due cose importanti da dirti.

— Certo, Tenny, ma adesso ho tante di quelle cose da fare…

La interruppi. — Mitzi, voglio sposarti.

Lei serrò le mani. Il suo corpo si irrigidì. Spalancò tanto gli occhi, che temetti che le lenti a contatto le saltassero fuori.

Dissi: — Ho avuto un sacco di tempo per pensarci al Centro. Parlo sul serio.

Da fuori giunse il brontolio impaziente di Haseldyne. — Mitzi! Vogliamo andare?

Silenziosamente, automaticamente, lei tornò in vita. Prese la borsetta, aprì la porta, il tutto senza staccare gli occhi da me. — Muoviti — sbraitò Haseldyne.

— Vengo — disse lei; e rivolta a me, mentre si dirigeva verso l’ascensore: — Caro Tenny, non posso parlare adesso. Ti telefono.

E dopo aver fatto due passi, si voltò e tornò da me. E di fronte a Dio e a tutti quanti, mi baciò. Appena prima di sparire nell’ascensore, sussurrò: — Mi piacerebbe.


Ma non mi telefonò. Per tutta la giornata non sentii la sua voce.

Dal momento che non avevo mai proposto a nessuna di sposarmi, prima, non avevo alcuna esperienza che potesse indicarmi se quella era una reazione ragionevole. A me non pareva. Mi pareva piuttosto che fosse un comportamento tipico di Mitzi; non questa Mitzi, ma quell’altra di ottone che era rimasta su Venere, che quando avevamo fatto l’amore per la prima volta, e io avevo finito molto prima di lei mi aveva detto che avrei fatto meglio a stare più attento la prossima volta, altrimenti… Comunque, era una brutta sensazione. Ero sospeso nell’incertezza. E non le avevo detto l’altra cosa importante.

Per fortuna, c’erano un sacco di cose per tenermi occupato. Dixmeister aveva mandato avanti la baracca come ci si poteva aspettare: decentemente. Ma lui non era me. Lo tenni alzato fino a notte inoltrata, esaminando i suoi errori e ordinando cambiamenti. Quando poté andare a casa, era distrutto e irritato. Quanto a me, buttai una moneta per decidere dove passare la notte, e persi. Mi infilai m un albergo con letti privati a pochi isolati dall’ufficio, e tornai al lavoro la mattina presto. Quando andai all’ufficio di Mitzi, la sua Terza Segretaria mi disse che la Seconda Segretaria le aveva detto che la signorina Ku sarebbe stata fuori tutta mattina, insieme alla Prima Segretaria. Passai l’ora di pranzo (tutti i venticinque minuti che mi erano restati, cioè, perché una giornata non era stata sufficiente a rimettere in moto le cose nella direzione giusta) seduto nell’anticamera di Mitzi, usando il telefono della sua Prima Segretaria per far trottare Dixmeister. Mitzi non comparve. L’impegno della mattina era stato prolungato.

Quella sera andai nell’appartamento di Mitzi.

La porta mi lasciò entrare, ma Mitzi non c’era. Non c’era quando arrivai, alle dieci, e neppure a mezzanotte, e neanche quando mi svegliai alle sei, aspettai un po’, mi vestii e tornai in ufficio. Oh sì, signor Tarb, mi disse la sua Terza Segretaria, la signorina Ku aveva chiamato durante la notte per dire che era stata chiamata fuori città per un tempo indefinito. Si sarebbe messa lei in contatto con me. Presto.

Ma non fu così.

Una parte della mia testa archiviò quel fatto senza alcun commento, e continuò con quello che stava facendo. Che era di portare a compimento gli ordini ricevuti. Quello che Mitzi voleva da me, era far eleggere alcuni candidati. Era già settembre, e mancavano poche settimane alle «elezioni». C’erano molte cose per tenermi occupato, e quella parte della mia mente sfruttava o minuto a disposizione. E anche ogni minuto a disposizione di Dixmeister, e di tutti quelli del dipartimento Intangibili (Politica). Quando passavo per il corridoio, la gente degli altri dipartimenti distoglieva gli occhi e si toglieva di mezzo… per paura che li arruolassi a turni di dodici ore al giorno, immagino.

L’altra parte della mia testa, quella nuova, che avevo scoperto al Centro, non se la cavava tanto bene. Stava male. Non solo per Mitzi, ma per il dolore di quell’altra cosa che avevo dentro, e che non le avevo detto. Poi il fattorino interno schizzò nel mio ufficio il tempo sufficiente per lasciar cadere una busta sul tavolo, e sparire.

Era una lettera di Mitzi. Diceva:


Caro Tenny, la tua idea mi face. Se usciremo vivi da questa faccenda, spero che lo vorrai ancora, perché io lo vorrò, moltissimo. Ma questo non è un momento adatto per parlare d’amore. Sono sottoposta a disciplina rivoluzionaria, Tenny, e anche tu. Ti prego, non cambiare idea…

Con tutto l’amore di cui ora posso dirti…

Mitzi


Ancora una volta, la lettera si incendiò e mi bruciò le dita prima che la lasciassi cadere. Ma non importava. Era una risposta!… Ed era la risposta giusta!

Rimaneva la questione di quell’altra cosa che volevo dirle.

Così continuai a tormentare la Terza Segretaria, e quando lei mi disse che sì, la signorina Ku era tornata in città quella mattina, ma era andata direttamente a una riunione urgente, da qualche parte, non potei aspettare.

Anche perché sospettavo dove poterla trovare.


— Tarb! — gridò Semmelweiss. — … Volevo dire, signor Tarb, che piacere rivedervi! Vi trovo veramente bene!

— Grazie — dissi, guardandomi intorno. Le presse sbuffavano, sferragliavano, martellavano, espellendo anelli di tenuta a milioni. Il rumore era lo stesso, la sporcizia era la stessa, ma mancava qualcosa. — Dov’è Rockwell? — chiesi.

— Chi? Oh, Rockwell. È vero, lavorava qui. Gli è capitato un incidente. Abbiamo dovuto licenziarlo. — Il suo sorriso si fece nervoso vedendo la mia espressione. — Be’, non era più in grado di lavorare, capite. Due gambe rotte, e una faccia… Comunque, voi vorrete andare al piano di sopra, vero? Prego, signor Tarb! Penso che siano tutti su. Non si sa mai, con tutte quelle entrate e quelle uscite. Comunque, dico io, se pagano l’affitto puntualmente, che bisogno c’è di tare domande?

Lo lasciai a questo punto. Non c’era nient’altro da dire su Nelson Rockwell, e non volevo dire nulla per soddisfare la curiosità di Semmelweiss circa i suoi inquilini. Povero Rockwell! Così gli esattori non avevano più voluto aspettare. Giurai che avrei fatto qualcosa per Nelson Rockwell, mentre aprivo la porta…

E poi non pensai più a Rockwell per un po’, perché la porta che una volta si apriva in uno stanzone sporco, adesso portava in un compartimento anta-ladri. Alle mie spalle, la porta si chiuse. Davanti a me c’era un’altra porta chiusa. Attorno, pareti d’acciaio. Diverse luci si accesero. Non sentivo niente, ma sapevo di essere osservato.

Un altoparlante sopra la mia testa parlò con la voce di Des Haseldyne: — Spero che abbiate una ragione davvero buona per essere venuto, Tarb. — La porta davanti a me si aprì. Quella alle mie spalle mi spinse fuori dal compartimento mediante una sbarra, e mi trovai in una sala piena di gente. Tutti guardavano me.

C’erano stati dei cambiamenti nella vecchia fabbrica. Alta tecnologia e arredamenti di lusso avevano fatto il loro ingresso. C’era un monitor su una parete che sputava fuori in continuazione rapporti, mentre le altre erano coperte di tende ancora più raffinate di quelle nell’ufficio del Vecchio alla T.G.&S. Al centro della grande sala c’era un immenso tavolo ovale, che sembrava impiallacciato di vero legno, e attorno al tavolo, seduti su delle poltroncine, ciascuno con davanti brocca d’acqua e bicchiere, schermo per appunti e telefono, c’erano più di una dozzina di esseri umani, e che razza di esseri umani! Non solo Mitzi, Haseldyne e il Vecchio. C’era gente che non avevo mai visto prima, se non sugli schermi dell’Omni-V: presidenti di Agenzie della RussCorp, Indiastries, Sud America, Germania, Inghilterra, Africa… metà delle potenze pubblicitarie del mondo si erano riunite in quella stanza. Ad ogni passo, rimanevo esterrefatto di fronte all’ampiezza e alla potenza dell’organizzazione clandestina venusiana. Adesso, fatto l’ultimo passo, avevo raggiunto il centro. E aveva tutta l’aria di essere stato un passo di troppo.

Anche Mitzi dovette pensarlo. Balzò in piedi, con la faccia sconvolta. — Tenny! Maledizione, Tenny, perché sei venuto?

Con voce ferma dissi: — Te l’ho detto che sono a conoscenza di qualcosa che dovete sapere. Riguarda tutti voi, perciò tanto meglio se vi ho trovati riuniti. Il vostro piano è andato a monte. Non avete tempo. C’è una flotta pronta a partire per Venere da un momento all’altro, con armamento campbelliano completo.

C’era una sedia vuota vicino a quella di Mitzi, e mi ci lasciai cadere, aspettando che si scatenasse la bufera.

E la bufera arrivò. Metà di loro non mi credette. L’altra metà poteva credermi oppure no, ma la cosa che più li interessava, in quel momento, era che fossi entrato nel loro rifugio più segreto. C’erano megatoni di furia nell’aria, e non tutti rivolti contro di me. Anche Mitzi ebbe la sua parte… e più della sua parte, specialmente da Haseldyne. — Ti avevo avvertito di liberarti di lui! — gridò. — Adesso non c’è altra scelta! — La rappresentante del Sud America rincarò la dose: — Credo questo un grosso problema! — E l’uomo della RussCorp, battendo sul tavolo con i pugni: — lo dico: come risolvere questo problema? È vostro problema, Ku! — L’uomo dell’Indiastries, con le palme unite e le dita rivolte verso l’alto: — Nessuno desidera prendere vita, certamente, ma in certe classi di situazioni, è difficile trovare alternative che…

Ne avevo avuto abbastanza. Mi alzai e mi appoggiai con le mani al tavolo. — Volete ascoltarmi? — chiesi. — Lo so che per voi la soluzione più facile sarebbe liberarvi di me e dimenticare quello che ho detto. Questo significa perdere Venere.

— State zitto! — grugnì la donna tedesca, ma era sola. Guardò la dozzina di esseri umani raggelati in posizioni di rabbia, poi disse cupamente: — Dite quello che volete. Ascolteremo. Per poco tempo ascolteremo.

Rivolsi loro un gran sorriso. — Grazie — dissi. Non mi sentivo particolarmente coraggioso. Sapevo che, fra le altre cose, stavo rischiando la vita. Ma la mia vita non sembrava più così importante. Non era la stessa cosa, per esempio; di una sessione al Centro Disintossicazione; se mi fosse capitato ancora di dover affrontare una cosa simile, sapendo com’era, mi sarei sparato prima. Ma ne avevo fin sopra i capelli. Dissi: — Avrete tutti sentito delle operazioni condotte negli ultimi anni per eliminare le sacche di aborigeni e portarli alla civiltà. Avete notato dove sono state le ultime? Sudan, Arabia, il Gobi. Non ci trovate qualcosa di singolare in tutti questi posti? — Guardai le facce attorno al tavolo. No, non avevano trovato niente di singolare, ma mi accorgevo che stavano cominciando. — Deserti. Deserti caldi e secchi. Non caldi e secchi quanto Venere, ma quanto di più vicino a Venere ci sia sulla faccia del nostro pianeta. Il terreno migliore su cui allenarsi. Questo è il punto uno.

Mi sedetti, e continuai con tono più discorsivo: — Quando mi hanno spedito alla corte marziale, mi hanno trattenuto in Arizona un paio di settimane. Un’altra zona desertica. C’erano almeno diecimila soldati impegnati in manovre; a quanto mi è parso, erano gli stessi di Urumqi. E vicino c’era una flotta di razzi. E vicino ai razzi, molte casse: equipaggiamento campbelliano. Adesso vediamo di ricapitolare. Si sono allenati in condizioni semi-venusiane; hanno addestrato le truppe nelle tattiche d’assalto; hanno armi campbelliane pronte all’imbarco su navette. Mettete il tutto assieme. Che conclusioni ne traete?

Silenzio totale. Poi la donna del Sud America disse con voce esitante: — E vero, abbiamo saputo che molte navette precedentemente dislocate in Venezuela erano state trasferite per qualche scopo. Pensavamo che l’obiettivo fosse Hyperion.

— Hyperion — sbuffò quello della RussCorp. — Una sola navetta basta per Hyperion.

Haseldyne disse seccamente: — Non fatevi prendere dal panico per quello che dice questo balordo. Sono sicuro che sta esagerando. Gli imbroglioni sono una tigre di carta. Se facciamo il nostro lavoro, non avranno neanche il tempo per occuparsi di Venere. Saranno troppo occupati a leccarsi le ferite, e a chiedersi cosa è successo alla Terra.

— Sono felice — disse cupamente quello della RussCorp, — che voi siate così sicuro. Io ho dubbi. Sentito molte voci, tutte riferite a questo concilio… e tutte trascurate. Erroneamente, penso ora.

— Io personalmente suggerirei… — cominciò la tedesca, ma Haseldyne la interruppe.

— Ne parleremo in privato — disse minacciosamente Haseldyne, lanciandomi un’occhiata cupa. — Voi! Fuori! Vi richiameremo quando avremo bisogno di voi!

Rivolsi loro un’alzata di spalle e un sorriso, e uscii per la porta apertami dal rappresentante dell’Indiastries. Scoprii senza sorpresa che dava su una corta scala, ai piedi della quale c’era una porta ora chiusa. Mi sedetti sui gradini, e aspettai.

Quando finalmente la porta si aprì, e Haseldyne mi chiamò, non cercai neppure di decifrare la sua espressione. Gli passai a fianco e presi posto sulla sedia vuota. Lui non la prese bene: diventò rosso in faccia, e aveva un’espressione omicida, ma non disse niente. Non ne aveva il diritto. Non era lui a dirigere i lavori.

Chi dirigeva, adesso, era il Vecchio in persona. Alzò gli occhi a fissarmi, e la sua faccia era quella di sempre: rosea, grassoccia, incorniciata dai capelli bianchi, solo che non era per niente benevola. La sua espressione era gelida. E contrariamente all’abitudine del Vecchio che avevo conosciuto, non si perse in convenevoli. Per un lungo momento non disse niente, si limitò a guardarmi, poi guardò lo schermo montato nel tavolo davanti a lui, mentre le sue dita erano occupate a comporre nuove domande, e lui a ricevere cattive notizie. Dalle scale avevo sentito un gran vociare: brontolii bassi, concitati, e squittii perentori. Ma adesso erano tutti silenziosi. L’aroma soffocante del vero tabacco arrivava dall’uomo della RussCorp, che stava silenziosamente fumando la pipa. La donna del Sud America stava accarezzando qualcosa che teneva in grembo… qualche animaletto, forse un gattino.

Il vecchio batté sulla tastiera per liberare lo schermo e disse stancamente: — Tarb, non portate buone notizie. Ma dobbiamo pensare che siano vere.

— Sì, signore — dissi automaticamente.

— Dobbiamo agire con rapidità, per rispondere a questo pericolo — dichiarò. La sua pomposità non se n’era andata insieme al suo buon umore. — Capirete, naturalmente, che non possiamo comunicarvi i nostri piani…

— Certamente no, signore!

— … e capirete anche che non possiamo ancora fidarci completamente, anche se Mitzi Ku garantisce per voi — continuò, mentre il suo sguardo freddo passava sul tavolo per fissarsi su di lei. Mitzi si stava guardando la punta delle dita, e non alzò gli occhi. — Provvisoriamente, accettiamo la sua garanzia. — A quelle parole Mitzi ebbe una smorfia, ed io intuii quali potevano essere state le alternative discusse.

— Capisco — dissi. — Cosa volete che faccia?

— Vi si ordina di continuare con il vostro lavoro. Questo è il nostro progetto principale, e non può essere interrotto. Mitzi e il resto di noi dovremo fare… altre cose. Per cui agirete autonomamente, in un certa misura. Che questo non vi renda trascurato.

Annuii, aspettando se c’era dell’altro. Non c’era. Des Haseldyne mi condusse alla porta, e mi scortò fin dall’altra parte. Mitzi non aveva detto una parola. Ai piedi della scala, Haseldyne mi spinse in un altro compartimento antiladri. Prima di chiudere la porta, disse secco: — Aspettate i ringraziamenti? Dimenticatevene! Vi abbiamo ringraziato abbastanza lasciandovi vivo.

Mentre aspettava che la porta esterna si aprisse, sentii i brontolii e gli squittii infuriati, mentre ricominciavano a discutere fra di loro. Quello che Haseldyne aveva detto era vero: mi avevano lasciato vivo. Ma era altrettanto vero che potevano rovesciare la decisione m qualsiasi momento. Potevo prevenirlo? Sì, decisi, ma in un solo modo: facendo un lavoro talmente buono da rendermi indispensabile… o più esattamente, da far loro pensare che fossi indispensabile.

Poi la porta si aprì.

Doveva esserci Des Haseldyne ai controlli. La sbarra della porta interna mi spinse fuori con tale forza che inciampai e caddi, finendo fra le gambe dei pedoni frettolosi. — Tutto bene, signore? — chiese un vecchio consumatore, guardandomi allarmato.

— Sto benissimo — dissi, rimettendomi in piedi. Non credo di aver mai detto una bugia più grossa in tutta la mia vita.

2

È una brutta faccenda, e faticosa, essersi alleati con una banda di criminali candidati alla lobotomia. Ed è ancor peggio accorgersi che sono degli inetti. Quella congrega di spie e sabotatori venusiani, messi tutti assieme, avrebbero forse avuto l’abilità e la perversità sufficienti a passare i controlli di un supermercato con dei buoni-sconto falsificati. Ma quanto a salvare il loro mondo contro la potenza della Terra, non erano semplicemente all’altezza.

Dixmeister fu fortunato quel pomeriggio. Quando tornai zoppicante nel mio ufficio, gli sbraitai di farsi i suoi affari e di lasciarmi solo fino a nuovo ordine. Poi mi chiusi a chiave, e cominciai a pensare.

Senza Mokie e pillole verdi dietro cui nascondersi, quello che vedevo quando aprivo gli occhi era la nuda realtà. Non era una vista attraente, perché era piena di problemi… tre in particolare.

Primo: se non riuscivo a convincere i Venusiani che avevano bisogno di me, e che potevano anche fidarsi, il buon vecchio Haseldyne avrebbe saputo cosa fare. Dopo di che non avrei avuto altre preoccupazioni.

Secondo: se facevo quello che mi dicevano, il futuro si prospettava nero. Non ero stato consultato nella pianificazione della loro campagna strategica, ma più ci pensavo, meno mi sentivo sicuro che avrebbe funzionato.

Terzo, e peggio di tutto: se non funzionava eravamo tutti quanti fritti. Avremmo passato il resto della nostra vita a rotolarci per terra, con addosso pannolini, imboccati da inservienti a cui stavamo antipatici, ricevendo i nostri principali stimoli mentali dalle lucette che si accendevano e spegnevano. Tutti noi. Non solo io. Anche la donna che amavo.

Non volevo che Mitzi Ku fosse lobotomizzata.

Non volevo neanche che fosse lobotomizzato Tennison Tarb. La limpidezza di pensiero che avevo acquisito di recente mi indicava che almeno per quest’ultima parte c’era una via di uscita. Dovevo solo prendere il telefono, chiamare la Commissione per la Moralità Commerciale, e denunciare i Venusiani; me la sarei cavata probabilmente con la Colonia Penale Polare, forse anche solo con la riduzione allo stato di consumatore. Ma questo non avrebbe salvato Mitzi…

Poco prima dell’ora di chiusura, Mitz: e Des convocarono una riunione di tutti i dirigenti. Mitzi non aprì bocca, e non mi guardò neppure. Parlò solo Haseldyne: Disse che c’erano delle inattese possibilità di espansione, e che lui e Mitzi sarebbero stati via qualche tempo per investigarle. Nel frattempo, era stato reclutato Val Dambois dalla T.G.&S., che sarebbe subentrato come direttore generale protempore; il Dipartimento Intangibili sarebbe stato diretto autonomamente da Tennison Tarb, cioè io, e lui, Des Haseldyne, era sicuro che avremmo proseguito il nostro lavoro in perfetta efficienza.

Non fu un discorso molto convincente. La gente si scambiò occhiate preoccupate e furtive. Mentre ci alzavamo, riuscii ad accostarmi a Mitzi, e le sussurrai nell’orecchio: — Va bene se mi sistemo nel tuo appartamento?Lei si limitò a guardarmi e ad alzare le spalle.

Non ebbi occasione di continuare il discorso, perché a questo punto Val Dambois mi prese per le spalle. — Devo dirti una parola, Tenny — sibilò, e mi portò nell’ufficio di Mitzi… che adesso era diventato il suo. Chiuse la porta, accese lo schermo anti-spie, e disse: — Non diventare troppo autonomo, Tarb. Ricordati che io sarò qui a sorvegliarti. — Non avevo bisogno che me lo ricordasse. Quando non risposi, mi fissò negli occhi. — Puoi farcela? — chiese. — Stai bene?

Risposi nell’ordine: — Posso farcela — il che era più una speranza che una convinzione. E: — Mi sento come uno che ha due interi pianeti sulle spalle. — Il che era vero.

Lui annuì. — Ricorda solo, che se devi lasciarne cadere uno, deve essere quello giusto.

— Sicuro, Val — dissi. Ma qual era quello giusto?


Dal momento che Mitzi non mi aveva detto che non potevo andare nel suo appartamento, ci andai. Non mi aspettavo di trovarla quella notte, e infatti fu così. Ma non rimasi del tutto solo. Val Dambois si preoccupò di fornirmi compagnia. Mentre aspettavo un taxi, fuori dall’ufficio, notai un tipo tutto muscoli che bighellonava lì vicino, e ritrovai lo stesso individuo fuori dal condominio di Mitzi, quando uscii la mattina dopo. Non mi importava. In ufficio mi lasciavano solo, ma anche se non l’avessero fatto, probabilmente non me ne sarei accorto. Ero troppo occupato. Volevo togliermi dalle spalle quel peso di due mondi, e l’unico sistema era vincere quella guerra per loro… in qualche modo.

C’era una dozzina di importanti temi pubblicitari da preparare per le elezioni, e solo pochi giorni di tempo. Diedi l’incarico a Dixmeister di trovare gli spazi sulle varie reti e di occuparsi della produzione, mentre io mi dedicavo completamente alla ricerca degli attori e alla composizione dei copioni.

Normalmente, quando il capo di un progetto dice una cosa del genere, significa che c’è una mezza dozzina di cacciatori di teste che cercano gli attori per lui, e come minimo altrettanti redattori che si occupano dei copioni; quello che gli resta da fare, più che altro, è dare calci nel sedere per essere sicuro che facciano il lavoro. Nel mio caso, la cosa era leggermente diversa. Avevo lo staff, e li prendevo a calci nel sedere. Ma avevo anche dei progetti personali. Non che mi fossero molto chiari. Ed erano ben lungi dal soddisfarmi. E non c’era nessuno con cui potessi parlarne, per vedere che effetto facevano. Ma erano quelli che mi tenevano in ufficio sedici ore al giorno, invece delle dieci o dodici che sarebbero normalmente bastate. Non mi lamentavo: cos’altro avevo da fare?

Sapevo cosa avrei voluto fare. Ma Mitzi era… come dire? Fuori dalla mia portata? Non proprio. Andavamo a letto insieme tutte le volte che capitava in città. Ma in un certo modo sì, perché il letto era l’unico posto dove la vedessi, e neanche troppo spesso. Avevo scatenato un vespaio fra i Venusiani con le mie notizie, e adesso volavano come impazziti in tutte le direzioni. Quando Mitzi era in città. partecipava in continuazione a riunioni segrete ad alto livello; quando non era in riunione a New York, era in giro per il mondo. O fuori dal mondo, perché andò sulla Luna per una settimana intera, scambiando furtivi messaggi in codice con uno spedizioniere di Port Kathy, su Venere.

Una sera avevo perso ogni speranza di vederla, ed ero già andato a dormire, quando nel mezzo di un orribile sogno, in cui un brutto ceffo della Moralità Commerciale si infilava nel mio letto, mi svegliai e scoprii che qualcuno si era davvero infilato nel letto, e che era Mitzi.

Mi ci volle un po’ per svegliarmi del tutto, a causa della stanchezza, e quando ci riuscii, Mitzi si era già addormentata. Mi accorsi, guardandola, che doveva essere ancora più stanca di me. Se avessi avuto un briciolo di compassione, l’avrei abbracciata silenziosamente, e l’avrei lasciata dormire per tutta la notte, e io pure. Non potevo. Mi alzai, e preparai un po’ di quel caffè vero dal sapore strano, e mi sedetti sul bordo del letto, finché lei non sentì l’odore e cominciò a muoversi. Non voleva svegliarsi. Era sepolta sotto le lenzuola, e teneva fuori solo la punta del naso per respirare. C’era un odore caldo e dolce di donna addormentata, che si mescolava con quello del caffè. Si girò dall’altra parte, farfugliando qualcosa… le uniche parole che capii furono «sostituire i fusibili». Aspettai. Poi il ritmo del suo respiro cambiò, e capii che era sveglia.

Aprì gli occhi. — Ciao, Tenny — disse.

— Ciao, Mitzi. — Le porsi la tazza di caffè, ma lei l’ignorò per un momento, guardandomi molto seria.

— Vuoi davvero sposarmi?

— Puoi scommetterci, se…

Non aspettò che finissi la frase. Annuì. — Anch’io — disse. — Se. — Si mise a sedere e prese la tazza. — Bene — disse, cambiando argomento, — come va?

Dissi: — Ho preparato alcuni nuovi argomenti, piuttosto forti. Forse dovremmo vederli assieme.

— E perché? Sei tu il responsabile. — Anche quell’argomento venne abbandonato. Le toccai una spalla. Lei non si spostò, ma non reagì neppure. C’erano molti altri argomenti che mi sarebbe piaciuto discutere. Dove saremmo andati a vivere. Se volevamo dei bambini, e di che sesso. Cosa avremmo fatto per divertirci, e poi, argomento sempre caro a chi è appena fidanzato, quanto e in qual modo ci amavamo l’un l’altra…

Ma non dissi nessuna di queste cose. Invece chiesi: — Cosa volevi dire con «sostituire i fusibili», Mitzi?

Lei si raddrizzò di scatto, facendo rovesciare il caffè nel piattino e fissandomi. — Cosa diavolo mi chiedi, Tenny? — disse con voce dura.

— A me sembra che stessi parlando di sabotare qualcosa. Proiettori campbelliani, giusto? State infiltrando degli agenti nelle unità limbali per danneggiare le apparecchiature?

Stai zitto, Tenny.

— Perché in questo caso — continuai con aria ragionevole, — non credo che funzionerebbe. Vedi, il viaggio fino a Venere è lungo, e ci saranno squadre di manutenzione tenute sveglie a rotazione. Non avranno altro da fare che controllare e ricontrollare l’equipaggiamento. Avranno un sacco di tempo per aggiustare quello che avrete sabotato.

Questo la scosse. Mise giù la tazza sul comodino, fissandomi.

— L’altra cosa che non mi convince, in questa faccenda — continuai, — e che quando scopriranno che c’è stato un sabotaggio, cominceranno a cercare i responsabili. È vero che i servizi di controspionaggio terrestre riposano sugli allori… e un sacco di tempo che non devono preoccuparsi di niente. Però voi potreste risvegliarli.

— Tenny — esplose Mitzi, — piantala. Fai il tuo maledetto lavoro. Lascia che ci preoccupiamo noi della sicurezza.

Così feci quello che avrei dovuto fare subito. Spensi la luce, mi infilai a letto e la presi fra le braccia. Non parlammo più. Mentre scivolavo nel sonno, mi resi conto che stava piangendo. Non ne rimasi sorpreso. Era un pessimo modo di passare il tempo per una copia di fidanzatini, quello, ma era 1 unico che avessimo. Non potevamo parlare normalmente, per il semplice fatto che lei aveva dei segreti che doveva proteggere.

E io avevo il mio.


Il sedici ottobre comparvero le decorazioni natalizie, con le tradizionali dieci settimane di anticipo. Il giorno delle elezioni si avvicinava.

Sono gli ultimi dieci giorni della campagna quelli che contano. Io ero pronto. Avevo fatto tutto quello che avevo potuto escogitare, e l’avevo fatto bene. Filava tutto liscio, in quei giorni, a parte una certa tendenza a tremare quando c’era una lattina di Mokie nella stanza (effetto della terapia di rigetto, se non lo sapeste), e una considerevole perdita di peso. La gente aveva smesso di dirmi che bell’aspetto avevo. Non ce n’era bisogno. Avevo esattamente l’aspetto che avrebbe chiunque quando ogni notte si sogna la lobotomia. Dixmeister entrava e usciva dal mio ufficio, tutto eccitato dalle sue nuove responsabilità, intimorito dai nuovi temi che gli andavo svelando. — È roba davvero forte, signor Tarb — mi disse a disagio. — Siete sicuro di non spingervi troppo in là?

— Se fosse così — dissi con un sorriso — non credi che la signorina Ku mi avrebbe bloccato? — Forse l’avrebbe fatto, se gliel’avessi detto. Ma ormai era troppo tardi. Dovevo andare avanti.

Lo fermai mentre si voltava per uscire. — Dixmeister, ho ricevuto una lamentela dalle reti per dei segnali imperfetti nelle nostre trasmissioni.

— Difetti di trasmissione? Accidenti, signor Tarb, non ho visto nessuna nota…

— Arriveranno fra poco. A me l’hanno detto direttamente per telefono. Perciò voglio vederci chiaro. Portami il diagramma dei collegamenti di questo edificio. Voglio vedere dove finisce ogni segnale, dal punto di origine al centralino telefonico esterno.

— Senz’altro, signor Tarb! Volete solo le trasmissioni commerciali, naturalmente?

— Naturalmente no. Voglio tutto. E lo voglio subito.

— Ci vorrà qualche ora, signor Tarb — si lamentò. Aveva famiglia, e stava pensando a cosa avrebbe detto sua moglie se non tornava per la sera del Primo Regalo.

— Ce le hai le ore — gli dissi. Infatti era così. E non volevo che le passasse a cercare note dalle reti che non sarebbero arrivate, o a raccontare a qualcun altro dello staff quello che il signor Tarb stava facendo in quel momento. Quando mi ebbe trasmesso sul video l’intero sistema di circuiti, ne feci una copia su carta, me la misi in tasca, e lo portai con me a ispezionare fisicamente il posto dove tutte le linee convergevano: la sala comunicazioni, in cantina.

— Non sono mai stato in cantina, signor Tarb — si lamentò lui. — Non possiamo lasciare l’incarico alla compagnia dei telefoni?

— No, se vogliamo essere promossi, Dixmeister — gli dissi gentilmente, e così scendemmo con l’ascensore fin dove poteva scendere, poi facemmo altri due piani col montacarichi. La cantina era sporca, squallida, scura, soffocante… era un sacco di cose che cominciavano per «S», anche solitaria. C’erano centinaia di metri quadrati di spazio, ma era tropo brutta per essere affittata, perno per la notte soltanto. Era proprio quello che mi ci voleva.

La sala comunicazioni era posta alla fine di un lungo corridoio, sepolto nella polvere. Vicino c’erano tre stanze piene di micro-dossier, la maggior parte direttive urgenti della MC e del Dipartimento per il Commercio, che naturalmente non erano mai stati aperti. Guardai attentamente in ognuna delle stanze, poi entrai nella sala comunicazioni e diedi una rapida occhiata in giro. Ogni chiamata telefonica, messaggio-dati, facsimile e trasmissione video provenienti dall’Agenzia passavano da quella stanza. Naturalmente era tutto elettronico e automatico: non c’era niente che si muovesse, che si accendesse, che ticchettasse. C’erano terminali manuali per far passare segnali attorno a un circuito malfunzionante, o per annullarli del tutto. Ma non c’era alcuna ragione per farli funzionare. — Mi pare che sia tutto a posto — dissi.

Dixmeister mi lanciò un’occhiata cupa. — Immagino che vorrete controllare tutti i circuiti.

— No, a che scopo? Il difetto dev’essere fuori. — Lui aprì la bocca per protestare, ma lo prevenni: — Ah, senti, tirami fuori tutta quella robaccia dai magazzini. Mi serviranno come uffici.

— Ma signor Tarb!

— Dixmeister — dissi gentilmente, — quando sarai di Prima Classe, comprenderai la necessità di restare solo, in certi momenti. Per il momento, non provarci. Fai solo quello che ti dico.

Lo lasciai al suo lavoro, e tornai nell’appartamento di Mitzi, sperando molto di trovarcela. Avevo ancora un problema o due da risolvere. Mitzi non era la persona che poteva aiutarmi, ma poteva almeno darmi il tocco di una elle amata, e la consolazione di un corpo caldo.

Ma non c’era. C’era solo una nota su carta auto — distruttiva, sul cuscino, che diceva che sarebbe andata a Roma per alcuni giorni.

Non era quello che volevo, ma mentre guardavo dalla finestra la città sporca e addormentata, con mezzo decilitro di spiriti neutri in mano, mi venne in mente che forse era quello di cui avevo bisogno.

3

I copioni erano pronti. I candidati che dovevano recitarli erano stati selezionati e nascosti in giro per la città. Non era stato difficile trovarli, perché sapevo quello che mi serviva; portar in città, e prepararli era stato molto più complicato. Ma adesso erano pronti. Da casa telefonai alla Wackerhut perché mandassero due agenti a prelevarli e portarli allo studio di registrazione, e quando arrivai in ufficio, c’erano anche loro.

La registrazione non presentò difficoltà… be’, relativamente. Relativamente a un’operazione al cervello di sei ore, per esempio. Mi ci volle tutta la mia abilità e la mia concentrazione, per far provare gli attori, controllare i truccatori che li preparavano, far marciare le squadre di produzione, e dirigere ogni mossa e ogni parola. La cosa facile, consisteva nel fatto che ognuno degli attori diceva le sue battute con facilità e convinzione, dal momento che io le avevo scritte appositamente per loro. La cosa difficile, era che potevo usare solo troupe ridotte al minimo, dal momento che meno gente sapeva cosa stavo facendo, meglio era. Quando l’ultimo filmato fu terminato, spedii tutti quanti, truccatori, cameramen, elettricisti, a San Antonio, Texas, per immaginarie riprese in loco, con l’ordine di aspettare il mio arrivo. Che non sarebbe mai avvenuto.

Ma almeno a San Antonio non avrebbero parlato con nessun altro. Poi spedii i miei attori nelle stanze ripulite in cantina, e mi preparai alla parte più difficile. Avrei voluto avere il coraggio di prendere una pillola per calmarmi i nervi. Tirai un profondo respiro, feci un po’ di vigorosi piegamenti, per cinque minuti, in maniera da essere affannato, e mi precipitai nell’ex ufficio di Mitzi. Val Dambois alzò la testa di scatto, dai numeri sul suo schermo, mentre io ansimavo: — Val! Chiamata urgente da Mitzi! Devi partire per la Luna! L’agente ha avuto un attacco di cuore, l’anello di comunicazione è saltato!

— Cosa diavolo stai dicendo?La faccia grassoccia gli tremava. In tempi normali, Dambois non ci sarebbe cascato, ma anche lui era stato tartassato duramente nelle ultime settimane.

Farfugliai: — Messaggio da Mitzi! Ha detto che è urgentissimo. C’è giù un taxi pronto… hai appena il tempo di arrivare all’astroporto…

— Ma Mitzi è… — Si interruppe, guardandomi incerto.

— A Roma, lo so. Ha chiamato da lì. Ha detto che deve arrivare un ordine molto importante, e dev’esserci qualcuno sulla Luna per riceverlo. Muoviti, Val! — lo pregai, prendendogli la valigetta, il cappello, il passaporto; lo spinsi fuori dall’ufficio, nell’ascensore, nel taxi. Un’ora più tardi chiamai lo spazioporto per sapere se era partito.

Mi dissero di sì.

— Dixmeister! — chiamai. Dixmeister apparve immediatamente sulla porta, con la faccia rossa, mezzo panino alla soia in una mano, mentre con l’altra stringeva ancora il telefono. — Dixmeister, quei nuovi spot che ho appena registrato. Devono essere trasmessi questa sera.

Lui inghiottì il boccone che aveva in bocca. — Sì, certo, signor Tarb, suppongo che si possa fare, ma ce ne sono degli altri in programma…

— Spostateli — ordinai. — Nuovi ordini dall’alto. Li voglio in onda fra un’ora, per il momento del massimo ascolto. Annulla tutta gli altri e usa quelli nuovi. Forza, Dixmeister.

Era tempo di passare all’azione.

Non appena Dixmeister fu uscito, me ne andai a mia volta, e chiusi la porta alle mie spalle. Non l’avrei più riaperta, nello stesso mondo. Molto probabilmente non l’avrei più riaperta del tutto.


Il mio nuovo ufficio era molto meno lussuoso del vecchio, soprattutto a causa del posto dove si trovava: sei piani sotto terra. Comunque, considerando il poco tempo che avevano avuto a disposizione, quelli della Manutenzione avevano fatto del loro meglio. Ci avevano messo tutto quello che avevo chiesto, compresi una dozzina di schermi, che mi fornivano tutto quello di cui potevo aver bisogno. C’erano una decina di scrivanie, tutte occupate dai membri della mia piccola squadra d’assalto. Ancor meglio: il Servizio Tecnico aveva chiuso un paio di porte, e ne aveva aperte di nuove, secondo gli ordini. Non era più possibile accedere direttamente dal corridoio alla sala comunicazioni. L’unica via d’accesso al centro nervoso dell’Agenzia passava attraverso i miei nuovi uffici. Il piccolo stanzino dove di solito oziavano gli ingegneri addetti alle comunicazioni era vuoto, e la porta adesso aveva una serratura. Gli ingegneri poi se n’erano andati da un po’, perché avevo dato loro una settimana di ferie, spiegando che essendo il sistema completamente automatico volevo provare a lasciarlo senza sorveglianza. Non erano sembrati troppo convinti, fino a quando non li avevo rassicurati che la cosa non minacciava il loro posto di lavoro. A questo punto erano stati contentissimi di andarsene.

In breve, il posto corrispondeva in tutto a ciò che avevo ordinato, ed era dotato di tutto ciò che concepibilmente poteva servire al successo del mio progetto. Se poi fosse anche sufficiente, questa era una questione del tutto diversa, ma ormai era troppo tardi per preoccuparsene. Feci il mio sorriso più tranquillo e sicuro, mentre mi avvicinavo a Jimmy Paleologue, seduto alla scrivania nel corridoio. — Hai tutto quello che ti serve? — chiesi allegramente.

Lui aprì il cassetto per farmi vedere la pistola paralizzatrice, prima di sorridere a sua volta. Se c’era un’ombra di fatica nel sorriso, non si poteva biasimarlo; dopo che era uscito dal centro di disintossicazione, gli era stato promesso che avrebbe riavuto il suo vecchio lavoro di tecnico campbelliano; io l’avevo trovato, e l’avevo convinto a seguirmi in quell’impresa incerta. — Gert ed io abbiamo preparato una retetrappola appena dopo la porta, e un’altra dentro la vostra stanza — disse. — Sono tutti armati tranne Nelson Rockwell… non riesce a sollevare abbastanza il braccio per sparare. Dice che vorrebbe tenere una granata limbale… come ultima risorsa. Cosa ne pensi?

— Penso che sarebbe un pericolo più per noi che per chiunque altro — dissi con un sorriso. Però mi venne in mente che l’idea aveva i suoi meriti. Ma forse era meglio dell’esplosivo. O magari una miniatomica. Se le cose si mettevano male, sarebbe stato meglio per tutti un’evaporazione istantanea e pulita, invece dell’alternativa… Lasciai perdere quei pensieri ed entrai negli uffici.

Gert Martels balzò in piedi e mi venne ad abbracciare. Era stata quella più difficile da reclutare: non avevano voluto farla uscire di prigione, anche dopo che avevo fatto valere il peso dell’Agenzia. Alla fine avevo dovuto offrire un lavoro al comandante della prigione. E Gert era anche quella più felice dell’occasione che le veniva offerta. — Oh, Tenny — disse, ridendo e singhiozzando insieme. — Davvero lo facciamo?

— È già mezzo fatto — le dissi. — I primi spot dovrebbero andare in onda da un momento all’altro.

— Sono già partiti! — gridò la grossa Marie, dal suo lettino. — Abbiamo appena visto Gwenny… è stata fantastica! — Gwendolyn Baltic era la più giovane delle mie reclute: aveva quindici anni, e una storia terribile alle spalle. L’avevo trovata attraverso Nelson Rockwell. Era il prodotto di una famiglia rovinata: la madre lobotomizzata per ripetuta falsificazione di carte di credito, il padre suicida per non aver voluto affrontare la disintossicazione da NicoHype. L’avevo scelta per condurre la campagna della Marcia dei Dollari, destinata a sollecitare fondi per più numerosi e migliori centri di disintossicazione. Avevo scelto questa campagna come inizio, perché era quella destinata a suscitare meno reazioni violente da parte dei direttori delle reti. — È stata grande — ripeté Marie.

Se erano già in onda, dovevamo aspettarci ben presto una reazione. Arrivò nel giro di dieci minuti. — Arriva qualcuno — chiamò Jimmy dal corridoio, e quando vidi chi era ordinai di farlo passare.

Era Dixmeister, che arrivava di corsa con messaggi urgenti. — Signor Tarb! — cominciò, ma rimase interdetto vedendo le scrivanie. Vedendo chi c’era seduto, cioè. — Signor Tarb? — chiese lamentosamente. — Avete degli attori qui?

— Nel caso ci servano per variazioni dell’ultimo momento — dissi tranquillamente, facendo segno a Gert di lasciar stare la pistola nel cassetto. — Avevi bisogno di me?

— Diavolo, sì… Cioè, sì, signor Tarb. Ho ricevuto delle telefonate dalle reti. Hanno guardato i vostri inserti elettorali, sapete…

— Lo so — dissi, con il mio cipiglio più minaccioso. — Cos’è questa storia, Dixmeister? Non mi direte che vorrebbero censurare la pubblicità?

Lui assunse un’espressione di orrore. — Oh no, signor Tarb, no! Niente del genere. solo che alcuni della Divisione Accettazione hanno pensato che c’era, ecco, una sfumatura di, ehm, Co… eh, Co…

— Conservazionismo vuoi dire, Dixmeister? — chiesi gentilmente. — Guardami, Dixmeister. Ti sembro un conservazionista?

— Oh, mio Dio, no, signor Tarb!

— O pensi forse che questa Agenzia manderebbe in onda propaganda Indietrista?

— Assolutamente no! Ma non è solo la propaganda per i candidati. questa nuova raccolta, sapete… la Marcia dei Dollari.

— Hanno qualcosa da dire anche su questo? — chiesi, sorridendo con aria di condiscendenza.

— Be’, in effetti sì. Ma non è questo che volevo chiedervi. Il fatto è che ho controllato, e non ho trovato nessun ordine dall’alto per dare inizio all’intera campagna.

— Ma certo! — dissi spalancando gli occhi per la sorpresa. — Si vede che Val non ha avuto il tempo di finirlo, prima di partire in fretta e furia per la Luna. Non ti preoccupare, Dixmeister — ordinai. — Non appena torna, ci penso io. Hai fatto bene ad accorgertene, Dixmeister.

— Grazie, signor Tarb! — disse lui sorridendo tutto soddisfatto. — Comunque proverò a cercarlo di nuovo.

— Benissimo — dissi. Naturalmente l’avrebbe fatto. E naturalmente non avrebbe trovato niente. — E non farti menare per il naso da quelli delle reti. Digli che non stiamo giocando ai bussolotti, qui. Non vorremmo sollevare un’accusa per Rottura di Contratto.

Lui ebbe un sobbalzo e se ne andò, anche se non poté evitare di gettare un’ultima occhiata dubbiosa a Marie e Gert Martels. — La faccenda si sta scaldando, vero? — chiese Gert.

— Puoi dirlo forte — confermai. — È uno dei nostri quello che state guardando? Volete farlo vedere anche a me?

Marie schiacciò un pulsante, e il primo degli schermi sulla parete si accese. C’era Nelson Rockwell, con gli occhi che brillavano in mezzo alle bende, mentre raccontava la sua storia: — …distacco della rotula, che sarebbe il ginocchio, due costole rotte, emorragia interna, e commozione cerebrale. È quello che mi hanno fatto per non aver potuto pagare cose che in realtà non avevo mai voluto…

Gert ridacchiò. — Non è carino?

— Un vero Don Giovanni — dissi allegramente. — Avete tutti quanti le pistole paralizzatrici a portata di mano? — Gert annuì, e il sorriso d’improvviso si gelò sulla sua faccia. Non era più un sorriso. Era un ghigno. Pensai che la fatica che mi era costata tirarla fuori di prigione era stata ben spesa.

Rockwell staccò gli occhi dalla sua immagine, e li rivolse su di me. — Credi che ci saranno dei guai, Tenny? — chiese. La voce non gli tremava, ma mi accorsi che la mano sinistra, quella che non era inserita nel gesso che gli incapsulava tutto il resto del corpo, si muoveva verso il cassetto della scrivania.

— Be’, non si sa mai — dissi avvicinandomi con aria noncurante alla scrivania. — È sempre meglio essere pronti, no? — Tutti annuirono, e io allungai il collo per vedere cosa c’era nel cassetto. Mi ci volle un momento per rendermi conto che non era una bomba a mano; era una di quelle sue dannate Autentiche Maschere della Morte in Simil-Rame dei più Prestigiosi Indossatori di Biancheria Intima Maschile. Mi sentii venire le lacrime agli occhi. Poveretto. — Nels — dissi sotto voce, — se ce la faremo, ti prometto che la settimana prossima sarai in un centro di disintossicazione.

Per quello che si poteva capire attraverso le bende, la sua espressione era impaurita ma decisa, e credo che mi facesse se no di sì. Ad alta voce, dissi rivolo a tutti: — Sarà una notte lunga. )r meglio che cerchiamo di dormire. Faremo dei turni.

Tutti si dichiararono d’accordo, e mentre io mi dirigevo nel mio ufficio, finirono di guardare lo spot di Rockwell. — …questa è la mia storia, e se vorrete aiutarmi ad essere eletto, vi prego di mandare il vostro contributo a…

Chiusi la porta e andai alla mia scrivania. Composi il codice dell’ultima edizione dell’Era pubblicitaria, e guardai lo schermo. Non avevano aspettato l’ultima edizione. C’era uno special a lettere rosse. Il titolo diceva:


NUOVI SORPRENDENTI SPOT
DELLA H&C
LA MC ORDINA UN’INCHIESTA

Le cose si stavano proprio scaldando.

Non ero stato del tutto sincero con i miei compagni. Certe volte uno lo sapeva se aspettarsi dei guai. Io lo sapevo. E sapevo che non erano molto lontani.


Seguii le mie stesse istruzioni, ma senza molto successo. Il sonno faceva fatica a venire. E quando arrivava, finiva molto in fretta… Un rumore preoccupante dalla stanza vicina, un brutto sogno, e soprattutto le chiamate sempre più agitate di Dixmeister dal mondo esterno. Aveva lasciato ogni speranza di tornare a casa, quella notte, ed ogni ora si faceva sentire con qualche nuova e sempre più allarmata protesta della Moralità Commerciale, o delle reti. Non che me ne preoccupassi. — Pensaci tu — ordinai ogni volta, e lui ci pensava. Tirò giù dal letto per tre volte gli avvocati della Haseldyne & Ku quella notte, per assoldare un giudice che emanasse un’ingiunzione di Libertà Pubblicitaria. Non furono soddisfatti. Le udienze si sarebbero tenute entro una settimana, ma fra meno di una settimana, in una maniera o nell’altra, non avrebbe più avuto importanza.

Quando sbirciavo nell’altra stanza, di tanto in tanto, mi accorgevo che la mia intrepida truppa non dormiva meglio di me. Si svegliavano di soprassalto per qualsiasi rumore, e tornavano a dormire solo con difficoltà, perché anche loro facevano dei brutti sogni. Non tutti i miei erano incubi. Ma nessuno era particolarmente piacevole. L’ultimo che ricordo, era di un Natale, un qualche improbabile Natale futuro insieme a Mitzi. Sembrava un ricordo d’infanzia, con la neve sporca attaccata ai vetri, e l’albero di Natale che cinguettava i suoi messaggi di dono senza pagamento anticipato… solo che Mitzi non la smetteva di strappare la pubblicità dall’albero e di buttare nel water i dolci drogati dei bambini, e qualcuno bussava alla porta, e io sapevo che erano gli aiutanti di Babbo Natale con le pistole in pugno, pronti a fare un’irruzione…

Una parte del sogno era vera. Qualcuno bussava alla porta.

Se avessi avuto voglia di scommettere, avrei detto che il primo a battere alla porta sarebbe stato il Vecchio, perché doveva solo attraversare mezza città per arrivare da me. Mi sbagliavo. Il Vecchio doveva essere a Roma con Mitzi e Des… probabilmente già a bordo del volo notturno, in arrivo per spegnere quell’inatteso incendio. Comunque, il primo a bussare fu Val Dambois. Il bastardo era stato furbo, e mi aveva fregato. — Non sei partito sul razzo per la Luna, allora — dissi un po’ stupidamente. Lui mi lanciò un’occhiata cattiva.

L’occhiata non era cattiva neanche la metà di quello che stringeva in mano. Non era una pistola paralizzatrice, e non era neppure mortale. Era peggio. Era un fucile campbelliano, un’arma assolutamente illegale per qualsiasi civile, e ancor più illegale da usare al di fuori di zone segnalate. E la parte peggiore, era che Marie, rimasta sola in ufficio, si era addormentata sul letto. Val aveva superato la rete alla porta prima che qualcuno potesse fermarlo.

Mi misi a tremare. Questo è sorprendente, a pensarci, perché non avrei mai pensato che tosse possibile che qualcosa spaventasse uno che aveva già tanti motivi per aver paura, come me. Mi sbagliavo. Guardando la canna del proiettore puntato contro di me, la mia spina dorsale si trasformò in gelatina, e il mio cuore in un pezzo di ghiaccio. — Bastardo imbroglione! — sibilò lui. — Lo sapevo che avevi in mente qualcosa per spedirmi via in quel modo. Per fortuna c’è sempre qualche mokomane in giro per il terminal, che si può pagare perché si faccia un volo gratis. Così ho potuto tornare e coglierti sul fatto i.

Aveva sempre avuto il difetto di parlare troppo, Val Dambois. Questo mi diede la possibilità di ritrovare la calma. Con tutto il coraggio che riuscii a raccogliere, e con un sorriso forzato, dissi in tono freddo e sicuro (o almeno così speravo): — Hai aspettato troppo, Val. È tutto finito. I comunicati sono già stati trasmessi.

— Non vivrai abbastanza per andarlo a raccontare! — urlò lui, alzando la canna del fucile.

Io continuai a sorridere. — Val — dissi pazientemente, — sei uno sciocco. Non sai cosa sta succedendo?

Una lieve oscillazione del fucile. Sospettosamente chiese: — Cosa?

— Ho dovuto farti andar via — spiegai, — perché parli troppo. Ordini di Mitzi. Non si fidava di te.

— Non si fidava di me?

— Perché non sei capace di vedere al di là del tuo naso. Non devi credermi sulla parola… guarda da solo. Al prossimo spot ci sarà Mitzi stessa… — E guardai verso gli schermi.

E così fece Val. Aveva già fatto degli errori, ma questo fu quello finale. Staccò gli occhi da Marie. Non che si possa fargliene una colpa, considerando le condizioni in cui si trovava Marie, ma dovette pentirsene. Zunggg fece la pistola della donna, e il proiettore limbale cadde dalla mano di Val, e Val lo seguì a ruota.

Un po’ in ritardo, la porta del deposito si aprì, e il resto della mia banda piombò dentro, svegliata dai suoi sonni inquieti. Mane era appoggiata a un gomito, sorridente. Il lettino conteneva anche il suo cuore meccanico, e lei non poteva alzarsi, ma aveva una mano libera per la pistola paralizzatrice, in caso di necessità. — L’ho beccato, Tenny — disse orgogliosa.

— Sicuro, Marie — dissi; poi, rivolto a Gert: — Aiutami a trasportarlo nel deposito.

Così lo sistemammo nella stanza dove un tempo gli ingegneri sonnecchiavano nei loro turni di sorveglianza, e lo lasciammo a fare lo stesso. Il proiettore lo consegnai a Jimmy Paleologue.

Lui corse fuori, e sentii scorrere l’acqua nel bagno; tornò indietro con l’arma gocciolante. — Questo non funzionerà più — disse seccamente, buttandolo in un cestino. — Cosa ne dici, Tarb? Torniamo a dormire a turni?

Scossi la testa. Il dormitorio era diventato una prigione, e poi ormai ci eravamo svegliati tutti per bene. — Tanto vale goderci lo spettacolo — dissi, e li lasciai che preparavano Kaf, per toglierci da dosso la sonnolenza. Volevo guardare l’Era pubblicitaria, e volevo farlo da solo, nel mio ufficio.

Le notizie non erano rassicuranti. Non trasmettevano altro che bollettini, con titoli come:


IL CAPO DELLA MC DECIDE DI APRIRE IL PROCEDIMENTO
LA LOBOTOMIA SEMBRA PROBABILE NEL CASO DELLA H&K

Mi strofinai a disagio il collo, chiedendomi che effetto facesse essere un vegetale.

Non ebbi molto tempo per dedicarmi a quella triste attività, perché dopo tutto, Mitzi aveva preso davvero il volo della sera. Si sentì un rumore secco, un grido, risate soddisfatte. Quando aprii la porta, era lì: imprigionata nella rete di Gert Martels. — Cosa ne facciamo di questa? — chiese Nelson Rockwell attraverso le sue bende. — C’è ancora un sacco di spazio nel deposito.

Scossi la testa. — Lei no. Può venire nel mio ufficio.

Quando Marie tolse la tensione dalla rete, Mitzi per poco non cadde a terra. Si rimise in piedi, e mi guardò infuriata. — Tenn, imbecille! — esplose. — Cosa diavolo ti sei messo m testa?

La presi per un braccio. — Non avresti dovuto curarmi, Mitzi. La cura ha funzionato.

Lei spalancò la bocca. Si lasciò accompagnare nel mio ufficio senza resistenze. Si sedette pesantemente, fissandomi. — Tenny — disse, — lo sai cos’hai fatto? Non potevo crederci quando mi hanno detto che razza di annunci politici stavi trasmettendo… È una cosa inaudita!

— Sì: gente che dice la verità. Mai stato fatto, per quel che ne so.

— Oh, Tenny! «La verità». Svegliati! — si infuriò lei. — Come possiamo vincere con la verità?

Con voce calma dissi: — Quando ero al centro, ho dovuto praticare molta introspezione… sempre meglio che tagliarmi la gola, capisci. Così mi facevo molte domande. Lascia che ne faccia una a te: in che senso quello che facciamo è giusto?

— Tenny! — Era esterrefatta. — Stai difendendo gli imbroglioni? Hanno rovinato il loro pianeta, e adesso vogliono fare la stessa cosa con Venere.

— No — dissi scuotendo la testa, — non hai risposto alla domanda. Non ho chiesto perché loro sbagliano; questo lo so. Volevo solamente sapere perché noi abbiamo ragione.

— A paragone degli imbroglioni…

— No, anche questo non va bene. Non «a paragone di». Vedi, non basta essere meno cattivi per essere buoni.

— Non ho mai sentito tante chiacchiere da predica… — cominciò lei, e poi si fermò, in ascolto. Dall’altra stanza si sentirono provenire rumori di colluttazione: le urla furiose di un uomo… Haseldyne? Ordini secchi di una voce più acuta… Gert Martels? Una porta che si chiudeva. Mitzi mi guardò, stupita. — Non ci riuscirai mai — mormorò. — Lo sai cosa ti faranno?

La pelle della nuca mi si accapponò, perché lo sapevo. — La lobotomia forse. O magari si limiteranno semplicemente a uccidermi. Ma questo solo se fallisco, Mitzi. Ci sono ventidue comunicati separati in onda. Vuoi vederne qualcuno?

Li ho già visti! Quella grassona là fuori, che si lamentava di come è stata indotta a mangiare e mangiare… e l’indigeno che racconta di come i modi di vita della sua gente sono stati completamente distrutti…

— Sì, Marie. E il Sudanese. — Trovarlo era stato un colpo di fortuna… merito di Gert Martels, quando le avevo detto cosa volevo fare. — E sono solo due, amore. Ce n’è uno davvero buono, in cui Jimmy Paleologue spiega come funzionano le tecniche campbelliane… su gente come me, o sugli indigeni. Anche Nels Rockwell è bravo…

— Li ho visti, ti dico! Oh, Tenny, credevo che fossi dalla nostra parte.

— Non sono né con voi né contro di voi, Mitzi.

Lei ghignò dicendomi. — Questa è un’ottima ricetta per non fare niente. — Non avevo bisogno di risponderle su questo: quella non era una cosa di cui potessi essere ritenuto colpevole, e lei se ne accorse non appena ebbe pronunciato quelle parole. — Ti andrà malissimo, Tenny. Non puoi pretendere di sconfiggere il male con del moralismo da quattro soldi!

— Forse no. Forse il male non si può mai sconfiggere. Forse i mali sociali del mondo sono troppo radicati, e il male vincerà. Ma non c’è bisogno che tu sia mia complice, Mitzi. E non dovrai rinunciare, come il tuo eroe, Mitch Courtenay.

— Tenny! — Non era arrabbiata, solo incredula per quella bestemmia.

— Ma è proprio quello che ha fatto, Mitzi. Non ha risolto il problema, è scappato.

— Noi non stiamo assolutamente scappando.

Annuii. — Giusto, voi combattete. E usate le stesse armi. E ottenete gli stessi risultati! Gli imbroglioni hanno trasformato la Terra m quaranta miliardi di bocche senza testa… Quello che voi volete è farle morire di fame, così non vi daranno più fastidio! Per questo io non sono dalla parte egli imbroglioni, né da quella dei Venusiani. Mi tiro fuori. Scelgo qualcosa di diverso.

— La verità?

— La verità, Mitzi — dichiarai, — è la sola arma che non colpisce entrambe le parti!

E qui mi fermai. Mi stavo per lanciare in un comizio in piena regola, e sa il cielo quali altezze oratorie avrei potuto raggiungere per il mio pubblico formato da una sola persona. Ma la parte migliore l’avevo già detta, e l’avevo registrata su nastro. Armeggiai con la tastiera, per avere sul monitor i miei annunci, e mi fermai, con il dito sul pulsante «Esecuzione». — Senti, Mitzi — dissi. — Ci sono ventidue annunci in tutto, tre per ciascuna delle sette persone di cui mi sono servito…

— Perché sette? — chiese. — Ne ho visto solamente quattro là fuori.

— Due erano bambini, e li ho mandati via con il Sudanese per tenerli lontani dal pericolo. Fai attenzione, Mitzi! 1 primi ventuno servono solo a preparare il pubblico per il ventiduesimo: Questo l’ho fatto io. Cioè, sono io che parlo… ma è diretto a te.

Premetti il pulsante. Lo schermo si accese. Ed eccomi lì, con l’aria seria e segnata dalle preoccupazioni, sullo sfondo di una foto di Port Kathy. — Il mio nome — disse la mia voce registrata, e la parte professionale del mio cervello pensò: Non è male. Non è troppo pomposo, anche se forse parla un po’ troppo in fretta, — il mio nome è Tennison Tarb. Sono un redattore pubblicitario di prima classe, e quella che vedete alle mie spalle è una delle città di Venere. Vedete la gente? Sembrano proprio uguali a noi, non è vero? Ma sono diversi da noi per una ragione. Non vogliono che le loro menti vengano condizionate dalla pubblicità. Sfortunatamente questo ha dato origine a un sacco di guai, perché adesso le loro menti sono condizionate in una maniera diversa. Sono arrivati ad odiarci. Ci chiamano «imbroglioni». Pensano che vogliamo conquistarli e costringerli a ingoiare a forza la nostra pubblicità. Questo li ha resi spietati quanto qualsiasi uomo di Agenzia, e il peggio è che i loro sospetti sono giusti. Abbiamo infiltrato molte spie nel loro governo. Mandiamo squadre di terroristi a sabotare la loro economia. E in questo momento stiamo progettano di invaderli con armi campbelliane, la stessa cosa che ho visto succedere poco tempo fa nel deserto del Gobi…

— Oh, Tenny — mi sussurrò Mitzi, — credo che ti lobotomizzeranno.

Annuii. — Sì, è proprio quello che ci faranno, se ci andrà male.

— Ma è inevitabile!

Le abitudini sono dure a morire; per quanto volessi spiegarmi con Mitzi, non potei fare a meno di gettare un’occhiata di rimpianto allo schermo… Stava per cominciare la parte migliore! Ma dissi: — Lo scopriremo presto, Mitzi. Vediamo cosa dicono. — E lasciando che il monitor continuasse a trasmettere la mia immagine, mi sintonizzai sulle notizie con lo schermo della scrivania. La prima mezza dozzina di titoli erano le solite terribili minacce e sinistre previsioni, ma poi ne arrivò una che mi fece balzare il cuore in gola:


La città in fermento,

folle per le strade


E subito sotto:


Il capo della Brinks dice:

«Le dimostrazioni sono incontrollabili».


Non mi preoccupai di leggere il testo. Spalancai la porta dell’ufficio dove i miei quattro fedeli erano tutti intenti a guardare gli schermi sulle scrivanie. — Cosa succede? — chiesi. — C’è uno spettacolo? Controllate i canali con le notizie!

— Stiamo proprio guardando uno spettacolo! — gridò Gert Martels sorridendo. Mentre i monitor della parete si accendevano, capii di cosa stesse parlando. Le stazioni locali si erano sguinzagliate in giro per raccogliere le reazioni… e le reazioni erano imponenti.

— Accidenti, Tenny — gridò Rockwell, — è tutto bloccato! — Ed era proprio così. Le telecamere passavano da un incrocio all’altro: Times Square, Wall Street, Central Park Mall, Riverspace… e tutti avevano lo stesso aspetto. Era l’ora di punta del mattino, ma il traffico si era praticamente bloccato, mentre i milioni di abitanti della città ascoltavano le radioline portatili, o guardavano gli schermi murali, e tutti ascoltavano uno dei nostri comunicati.

Riuscivo a malapena a respirare per l’eccitazione. — Le reti nazionali! — gridai. — E cosa sta succedendo nel resto del paese?

— La stessa cosa, Tenny — disse Gert, quindi aggiunse: — Non vedi cosa succede, là in quell’angolo?

Sullo schermo c’era Union Square, e nell’angolo destro in basso, c’era un gruppo di persone che non si limitava a rimanere con la bocca spalancata. Anzi, si stavano dando un gran da fare. Erano tutti intenti a sfasciare metodicamente e brutalmente uno schermo murale.

— Stanno distruggendo i nostri comunicati! — ansimai.

— No, no, Tenny! Quello è dei Kelpy-Crisp! E guarda là… nella zona limbale. Hanno distrutto il proiettore!

Sentii che Mitzi mi prendeva la mano, e quando mi voltai, lei stava sorridendo, con gli occhi umidi. — Almeno hai un pubblico — disse; e dalla porta, una nuova voce disse solennemente: — Il più grande pubblico mai visto, signor Tarb.

Era Dixmeister. Gert Martels aveva già tirato fuori la pistola e gliela aveva puntata alla testa. Lui non la guardò neppure. In mano non aveva niente. Disse: — Sarà meglio che veniate di sopra, signor Tarb.

Il mio primo pensiero fu il peggiore. — Uno squadrone della Moralità Commerciale? — domandai. — Stanno cancellando gli spot? Hanno una contro-ingiunzione…

Lui aggrottò la fronte. — Niente di tutto questo, signor Tarb. Accidenti! Non ho mai visto simili indici di gradimento! Ognuno degli spot arriva a più cinquanta, e la Marcia dei Dollari è subissata da offerte… No, no, va tutto a gonfie vele.

— E allora cosa c’è, Dixmeister? — gridai.

Con voce incerta, lui disse: — È tutta quella gente. Sarà meglio che veniate su a vedere.


E così feci, e dal secondo piano dell’edificio si vedeva la strada, la piazza, le finestre di fronte. E ogni centimetro quadrato era occupato dalla gente.

La cosa buffa è che all’inizio non riuscivo neppure a rendermene conto. Pensai che volessero linciarmi… fino a quando non li sentii acclamare.

E il resto del mondo? RussCorp, Indiastries, SA… tutti quanti? Anche lì si comincia a sentire la gente che acclama; e dove finirà, non lo so. Le vecchie abitudini fanno fatica a morire, sia per gli individui che per le nazioni. I monoliti sono duri da demolire.

Ma hanno cominciato a scaricare i traghetti, in Arizona, e il monolito ha cominciato a fendersi.


FINE
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