La falsa Mitzi Ku

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Una volta c’era questo Mitchell Courtenay, a cui sono intitolate metà delle strade su Venere. Loro credono che sia un eroe, ma quando la mia insegnante delle medie ci raccontava di lui nelle lezioni di storia, pronunciava il suo nome con disgusto. Come me, lui era un redattore pubblicitario di prima classe. Come me, era stato preso da una crisi di coscienza che lui non aveva voluto, e da cui non sapeva come uscire.

Come me, era un traditore.

È una parola che uno non vuole sentir applicata a se stesso. — Tennison Tarb — urlai con tutto il fiato (nel frastuono della metropolitana, sul convoglio della sera per Bensonhurst, dove nessuno poteva sentire le parole, neppure io) — Tennison Tarb, tu sei un traditore delle Vendite!

Neppure un’eco mi rispose. O se lo fece, venne sommerso dal rombo del tunnel. Non provai alcun dolore per quella parola, anche se sapevo che era giusta, e che mi condannava.

Immagino che fossero le pillole verdi ad attutire il dolore, insieme a tutti gli altri dolori che non sentivo più. Questa era la mia fortuna; ma l’altra faccia della medaglia, era che non sentivo alcuna gioia per essere ancora un pubblicitario. Su e giù. Su e giù. Per quanto sarei rimasto su, questa volta, non potevo immaginarlo, ma adesso c’ero.

Avrei esultato, se il mondo non fosse stato così grigio, e se non fosse stato così grigio, avrei potuto tremare ancora di paura, perché c’era mancato poco, nel capannone abbandonato della fabbrica. Potevo vedere i piani formarsi l’uno dopo l’altro nella mente calcolatrice di Haseldyne: fracassargli la testa, e poi ficcarlo sotto una pressa per nascondere ogni indizio; drogarlo e buttarlo giù da qualche finestra; procurarsi qualche estratto di Mokie e farlo fuori mediante overdose… questo era il sistema più facile e sicuro. Ma non lo fece. Mitzi disse che voleva darmi una possibilità, e Haseldyne non si oppose.

Però non mi restituì la nota con cui annunciavo il mio «suicidio».

Quando guardavo alla vita che mi attendeva, vedevo aprirsi due abissi. Da una parte, Haseldyne si serviva della lettera, e questa sarebbe stata la fine di Tennison Tarb, per sempre. Dall’altra parte, venivo scoperto, arrestato, lobotomizzato. Fra le due possibilità, c’era uno strettissimo passaggio su cui potevo sperare di camminare… e che portava a un futuro in cui il mio nome sarebbe stato in eterno maledetto da generazioni di scolari.

Era una gran fortuna che avessi le pillole verdi.

Dal momento che ero destinato a camminare su quello stretto sentiero, andai avanti. Mi feci la barba, stirai il vestito, mi misi elegante… per quanto me lo permettevano i soldi rimastimi, e i servizi dell’appartamento di Bensonhurst, e Topo aver superato genitori sonnambuli e ragazzini piangenti. La lunga corsa nei tunnel umidi della metropolitana fece sparire la piega degli shorts e mi cosparse di fuliggine i capelli appena lavati, ma comunque ero ragionevolmente presentabile quando entrai nell’atrio della Haseldyne & Ku. Qui un agente della Wackerhut controllò le mie impronte, mi attaccò al colletto un permesso magnetico temporaneo, e mi spedì all’ufficio di Mitzi. Alla porta dell’ufficio, perlomeno, dove il suo nuovo Secondo Segretario mi bloccò. Non l’avevo mai visto, ma lui evidentemente mi conosceva, perché mi chiamò per nome. Dovetti sottopormi a certe formalità. Il Secondo Segretario aveva messo in moto tutto l’Ufficio Personale; c’era la copia di un contratto pronto per ricevere l’impronta del mio pollice, e non appena ebbi firmato lui mi fornì un cartellino di identità dell’Agenzia e due settimane di paga anticipate.

Così, fu con il mio conto in banca rifornito che finalmente feci ingresso nell’ufficio di Mitzi. Era un ufficio di prima classe sontuoso e impressionante quanto quello del Vecchio alla T.G.&S. C’erano una scrivania, un divano, con bar e video, tre finestre e due sedie per gli ospiti. L’unica cosa che mancava era Mitzi Ku. Al suo posto, seduto dietro la scrivania, c’era Des Haseldyne che mi guardava torvo, e sembrava più grosso che mai. — Mitzi è occupata — disse. — Mi occuperò io di voi.

Annuii, anche se l’idea che Des Haseldyne si occupasse di me non era fra le mie massime aspirazioni. — Possiamo parlare qui? — chiesi.

Lui sospirò pazientemente, e indicò le finestre. Mi accorsi allora che finestre e porta mostravano il lieve scintillio di uno schermo antispie: nessun marchingegno elettronico poteva trasmettere fuori dalla stanza, mentre lo schermo era attivo. — Bene — dissi. — Mettetemi al lavoro.

Lui sembrò stranamente esitante. — In effetti non abbiamo un posto per voi — grugnì alla fine.

Questo era ovvio. Non ero entrato nei loro calcoli fino a quando non mi ci ero messo dentro. Non pensavo che qualsiasi idea potessi offrire gli sarebbe sembrata buona; forse poteva ascoltare Mitzi, ma non avrebbe mai ascoltato me. Comunque, cercai di indorargli la pillola. — Mitzi ha parlato di Politica… sono un mago m questo campo — proposi.

No! — Chiaro, brutale, definitivo. Ma perché agitarsi tanto? Alzai le spade e riprovai.

— Ci sono altri Intangibili… per esempio la Religione. O qualunque genere di prodotto…

— Non è il nostro campo — grugnì lui, scuotendo il testone. Alzò una mano per bloccare altri inutili suggerimenti da parte mia. — Ci vuole qualcosa di molto significativo — disse deciso.

Illuminazione. — Ah — dissi. — Capisco. Volete un’azione dimostrativa. Volete che faccia qualcosa che provi la mia lealtà. Volete che commetta un vero crimine, giusto? In maniera che non possa più tornare indietro. Cosa volete da me? Che uccida qualcuno?

Lo dissi con tanta facilità! Forse era colpa dell’insensibilità generale data dalle pillole, ma una volta che ebbi capito le sue intenzioni, le parole mi uscirono senza la minima difficoltà. Ma Haseldyne non aveva preso pillole. La sua faccia si compose in un’espressione granitica di completo disgusto. — Cosa credete che siamo? — disse con disprezzo. Io alzai le alle. — Noi non facciamo cose del genere! — Aspettai che il suo sdegno si sgonfiasse. Ci volle un po’, perché a quanto pare dovette riordinare le idee.

— C’è una possibilità — disse alla fine. — Facevate parte delle forze di assalto limbali, nella campagna del Gobi.

— Sì, come cappellano — dissi. — Mi hanno cacciato con un CD.

— A questo si può rimediare facilmente — disse lui con impazienza. Questo era vero, per qualcuno che godesse dell’influenza di un proprietario di Agenzia. — Supponiamo di farvi rientrare nell’esercito. Supponiamo di mettervi in una posizione dove abbiate al vostro comando delle unità campbelliane… saprete come usare quella roba, suppongo.

— Neanche un po’ — dissi allegramente. — È un lavoro da tecnici. Non si impara, si compra.

Lui disse ostinato: — Però potreste comandare i tecnici.

— Naturale. Chiunque potrebbe farlo. A che scopo?

Se avessi avuto qualche dubbio che stava improvvisando, lui me li dissipò allora. — Per sostenere la causa venusiana! — tuonò. — Perché i maledetti imbroglioni ci lascino in pace!

Lo guardai con genuino stupore. — Parlate seriamente? Scordatevelo.

Il brontolio di tuono si fece più basso e più minaccioso. — Perché?

— Ah, Des, capisco ora che dovete essere un agente venusiano, ma non siete certamente un pubblicitario. La stimolazione limale non è una tecnica in sé stessa. È solo un intensificatore. Un acceleratore.

— E allora?

— Allora deve obbedire alle leggi fondamentali della pubblicità. Si può solo indurre la gente a volere le cose, Des. Potete spingerla a comprare per riflesso condizionato, o creare dei bisogni, ma non si può usare la pubblicità per far pensare la gente, per l’amor di Dio! — Avevo messo il dito sulla piaga. Dal punto di vista pubblicitario, quell’uomo era una frana. Come avesse fatto a tener nascosta la sua ignoranza così a lungo in una grande Agenzia, era un mistero… anche se era pur vero quello che avevo detto poco prima: non è necessario imparare quello che si può comprare da altri. Lui grugnì risentito, e io continuai a spiegare: — Per cose del genere ci vuole il lavaggio del cervello, se uno ha fretta, e questo è fuori questione, a parte con piccoli gruppi m condizioni di costrizione. La pubblicità non serve a niente, Des.

— E allora?

— Ci vuole la propaganda — spiegai. — Bisogna diffondere voci, creare un’immagine. Si può cominciare con delle storie sui «Venusiani buoni». Mettere un paio di personaggi venusiani in qualche telefilm, e trasformarli gradatamente da criminali buffoneschi in simpatici eccentrici. Trasmettere qualche spot con uno sfondo venusiano… per esempio: Anche i bambini venusiani fanno colazione con Cioccocrema.

— I bambini venusiani non fanno un accidente! — esplose lui.

— I dettagli possono anche essere diversi, si capisce. Naturalmente, è necessaria la massima cautela. Abbiamo a che fare con pregiudizi profondamente radicati, per non dire che ci muoviamo ai margini della legge. Ma si potrebbe fare, disponendo di soldi e di tempo. Direi cinque o sei anni.

— Non abbiamo cinque o sei anni!

— No, non credo che li abbiate, Des. — Sorrisi. Era una cosa buffa: ma mi scoprii a godere perla sua esasperazione come se non fossi io la spina della sua ferita… e come se lui non avesse, per rimuoverla, il mezzo comodo e ovvio della mia lettera di «suicidio». All’origine di tutto, c’era semplicemente il fatto che non mi importava cosa poteva capitarmi. L’intera faccenda non era nelle mie mani. Mitzi era l’unica amica che avessi al mondo. O mi avrebbe salvato… o no.

Lasciai Des Haseldyne che mi guardava torvo, sentendomi vicino a una condizione di pace come non mi capitava da molti mesi, e quella sera spesi una buona parte del mio conto in banca in abiti nuovi. Li scelsi con la cura e il piacere di chi è convinto di vivere tanto a lungo da consumarli.


Quando venni chiamato la mattina dopo nell’ufficio di Mitzi, c’era lei… con gli occhi rossi, e l’aria di chi non ha dormito bene, e i solchi fra gli occhi più profondi che mai. Mi indicò una sedia, accese gli schermi anti-spie, e appoggiò i gomiti alla scrivania e il mento fra t gomiti, osservandomi. Poi disse: — Com’è che mi sono invischiata con te, Tenny?

Le strizzai l’occhio. — Sono solo fortunato, suppongo.

— Non scherzare! — scattò lei. — Non ti ho cercato io. Non volevo in… in… — Tirò un profondo respiro e si costrinse a dirlo: — Innamorarmi di te, maledizione! Lo sai quanto è pericolosa tutta questa faccenda?

Mi alzai e le diedi un bacio sulla fronte, prima di dire con tutta serietà: — Lo so benissimo, Mitzi. A che serve preoccuparsi?

— Torna subito al tuo posto! — Poi, placandosi mentre tornavo alla mia sedia: — Non è colpa tua se le mie ghiandole mi sconvolgono tanto. Non voglio che tu soffra. Ma se mai si giungesse al punto in cui dovessi scegliere fra te e la causa…

Alzai una mano per fermarla. — Lo so, Mitzi. Ma non dovrai mai farlo. Dovrai ringraziarmi per essere dalla vostra parte, perché, onestamente, voi dilettanti non sapete proprio quello che state facendo.

Lei mi guardò dura. Poi, d’improvviso: — È vero che questa accenda ci ripugna troppo per permetterci di lavorare bene. Se tu potessi fornirci dei consigli…

— Posso. Lo sai che posso.

— Sì — disse lei con riluttanza. — Immagino di sì. L’avevo detto a Des che la tecnica limale era inutile, ma lui non voleva metterti al corrente del vero piano. Mi prenderò io la responsabilità. La nostra è un’operazione politica, Tenny, e tu la condurrai per noi. Condurrai l’intera campagna… sotto la direzione mia e di Des.

— Bene — dissi di cuore. — Qui? 0…

Lei abbassò gli occhi. — Qui, almeno all’inizio. Ci sono domande?

Bene, tanto per cominciare avrei voluto sapere perché lì, e non alla fabbrica del signor Semmelweiss, ma quella non sembrava una domanda a cui avrebbe risposto. Dissi lentamente: — Se potessi spiegarmi cosa state facendo…

— Sì, certo. — Lo disse come se avessi chiesto da che parte era la toilette degli uomini. — Per dirla in breve, la nostra intenzione è di distruggere l’economia terrestre, e il mezzo è di impadronirci del governo.

Annuii, aspettando la frase successiva, che avrebbe reso chiara la cosa. Quando non ci fu nessun’altra frase, chiesi: — Il che?

— Il governo — disse lei con fermezza. — Ti sorprende, vero? È così ovvio, eppure nessuno di voi imbroglioni c’era arrivato, neppure i Conservazionisti.

— Ma Mitzi! Perché vorresti impadronirti del governo? Nessuno ci bada a quei burattini. Il potere è nelle Agenzie.

Lei annuì. — Così è, de facto. Ma de iure il governo conserva il potere supremo. Le leggi non sono mai state cambiate. E solo che le Agenzie controllano la gente che fa le leggi. E nessuno mette mai in discussione le istruzioni delle Agenzie. L’unica differenza è che saremo noia controllarli. I burattini eseguiranno tutti i nostri ordini, e quello che noi ordineremo farà piombare questo pianeta nella più spaventosa crisi economica che 1 umanità abbia mai conosciuto… poi vedremo se avranno ancora voglia di occuparsi delle faccende di Venere!

La guardai ad occhi spalancati. Era l’idea più pazzesca che avessi mai sentito. Anche se avesse funzionato, e il semplice buon senso mi diceva che non poteva funzionare, era questo quello che volevo? Una crisi economica? Disoccupazione di massa? La distruzione di tutto quello che mi era stato insegnato a riverire?

D’altra parte, dovevo ammettere in umiltà, chi ero io, drogato e disgraziato, per emettere giudizi? I miei princìpi erano stati talmente scossi e sbatacchiati negli ultimi mesi, che non potevo illudermi di sapere niente. Annaspavo… e Mitzi pareva così sicura di sé…

Cominciai a dire cautamente: — Senti Mitzi, dal momento che alcuni dei nostri costumi terrestri vi sono così estranei…

— Non estranei! — esplose lei. — Degenerati! Criminali. Malati!

Allargai le braccia, arrendendomi… specialmente dal momento che in quella discussione mi sembrava di far la parte dell’avvocato del diavolo. — Il problema è: come fate ad essere sicuri che funzionerà?

Lei disse con forza: — Ci credi dei selvaggi ignoranti? È stato tutto calcolato e simulato centinaia di volte. Al progetto hanno lavorato le menti migliori di Venere: psicologi, antropologi, politologi, economisti e strateghi… Al diavolo — finì, — no. Non sappiamo se funzionerà. Ma è l’unica cosa fra quelle proposte che potrebbe funzionare.


Rimasi lì qualche momento a fissare la mia signora di ottone. E così, adesso sapevo per cosa lavoravo: un’immensa e mortale cospirazione, pianificata da cervelloni e portata avanti da fanatici. Era una farsa ridicola e senza speranze, tranne che non era poi così divertente, quando uno cominciava a pensare alle implicazioni. Tradimento, Rottura di Controllo, Pratiche Commerciali Sleali. Se andava male, il meglio che potevo sperare era di tornare alla Colonia Penale Polare, questa volta dalla parte sbagliata delle sbarre.

L’espressione sulla faccia di Mitzi doveva essere quale a quella che aveva avuto ai suoi tempi Giovanna d’Arco. Sembrava quasi risplendere, gli occhi alzati al cielo, il suo color bronzo trasformato in puro, caldo oro, i due solchi impressi profondamente fra gli occhi.

Allungai una mano e li toccai. — Chirurgia plastica, immagino — dissi.

Lei mi guardò scura, con un vero cipiglio che si sovrapponeva a quello falso, e strinse le labbra. — Diavolo, Tenny — disse, — si capisce che ho dovuto fare un po’ di chirurgia. Assomigliavo solo un po’ a Mitsui Ku.

— Già — dissi, annuendo. — Lo immaginavo. L’idea era di ucciderci tutti e due alla stazione del tram, vero? Poi avreste annunciato che grazie a uno sforzo eccezionale e all’abilità dei chirurghi venusiani, eravate riusciti a salvare almeno Mitzi. Solo che saresti stata tu.

Lei disse duramente: — Qualcosa del genere.

— Già. A proposito, qual è il tuo vero nome?

— Maledizione, Tenny, che differenza fa? — Rimase in silenzio qualche momento, poi disse: — Sophie Yamaguchi se proprio ti interessa.

— Sophie Yamaguchi — ripetei, assaporando il nome. Non aveva il sapore giusto. — Credo che continuerò a chiamarti Mitzi, se non ti dispiace.

— Se mi dispiace? Io sono Mitzi Ku! Ho passato sette mesi a imitarla, guardando i nastri che avevamo girato, copiando il suo modo di fare, imparando a memoria la sua vita. Ho ingannato perfino te, no? Adesso mi ricordo appena di Sophia Yamaguchi. È come se Sophie fosse morta, invece di…

Si fermò. Io dissi: — Allora Mitzi è morta.

Di malavoglia, la falsa Mitzi disse: — Sì, è morta. Ma non è stata uccisa dal tram. E credimi, Tenn, ne sono stata felice! Non siamo assassini. Non vogliamo fare del male a nessuno, senza necessità. P — solo che le condizioni oggettive… Comunque, l’hanno portata via per… la riabilitazione.

— Ah. — Annuii. — L’Anti-Oasi.

— Certo, è stata portata là! E ci sarebbe stata anche bene. O si sarebbe convertita al nostro modo di pensare, o almeno sarebbe rimasta viva, e nascosta. Ma ha cercato di scappare. È rimasta senza ossigeno, o qualcosa del genere, nel deserto. Tenny — disse con forza, — non è stata colpa di nessuno.

— E chi ha detto niente? Ma per tornare a quello che volete che faccia…

Quando si arriva al dunque, immagino che mai niente sia colpa di qualcuno, o almeno nessuno lo pensa. Uno deve fare quello che deve.

Eppure, tornando a Bensonhurst quella sera, guardavo le facce stanche e tristi dei pendolari, aggrappati alle maniglie, mentre le pareti sporche del tunnel scorrevano via veloci, il vento carico di smog ci soffiava in faccia, le luci saettavano via. E mi chiedevo: voglio davvero rendere ancora più dura la vita di questi consumatori? Mandare a pezzi l’economia terrestre non era qualcosa di astratto; voleva dire cose concrete, una concreta perdita del posto per un impiegato o un poliziotto. Una concreta perdita di grado per un pubblicitario. Un concreto taglio delle risorse alimentari per la famiglia con cui vivevo. Sì, è vero, adesso pensavo che la Terra sbagliava cercando di sabotare e mettere in ginocchio Venere, ed era giusto unire le mie forze con Mitzi, cioè la falsa Mitzi, per porre fine a quell’ingiustizia. Ma quale grado di ingiustizia era appropriato per raggiungere quel giusto fine?

A tutti i miei guai, le mie preoccupazioni, i miei dilemmi, non volevo aggiungere l’unica cosa di cui finora non avessi molto sofferto: il senso di colpa.

E tuttavia…


Tuttavia, feci il lavoro che Mitzi mi aveva assegnato. E lo feci maledettamente bene, anche. — Quello che devi fare, Tenny — mi aveva ordinato, — è eleggere. Non cercare niente di complicato. Non cercare di mettere dei princìpi nella campagna. Usa solo tutti i tuoi dannati trucchi da imbroglione per far vincere i nostri candidati.

Bene, Mitzi. Usai i miei dannati trucchi, cercando di non sentirmi dannato. Una delle persone che aveva portato via alla G.S.&T. era il mio vecchio tirapiedi, Dixmeister; gli era stato affidato il mio lavoro, e adesso, con cupa rassegnazione, se lo vide togliere. Si consolò quando gli dissi che questa volta avrebbe avuto più autorità; gli lasciai la preselezione dei candidati, e gli affidai anche la scelta definitiva. Non gli dissi che lo tenevo d’occhio mediante Tv a circuito chiuso, dal mio ufficio. Ma non era necessario: lasciato da solo, e avendo avuto il beneficio del mio addestramento, il ragazzo se la cavava egregiamente.

E io avevo cose più importanti da fare. Volevo degli slogan. Combinazioni di parole che potevano o non potevano significare qualcosa (questo non era importante) ma che fossero brevi e facili da ricordare. Misi al lavoro il Dipartimento Ricerche, per trovarmi gli slogan e le parole d’ordine utilizzate nelle campagne politiche, e ben presto il mio monitor ne venne inondato. New Deal. Maggioranza silenziosa. Nuova frontiera. Potere al popolo. Togliamo il peso del governo dalle spalle degli Americani. Giù le mani da Cuba. Io aiuto Israele. Nella pubblicità la verità… No, quello non suonava giusto. Guerra alla povertà. Questo andava meglio, anche se quella guerra era stata persa. Ce n’erano a centinaia. Naturalmente la maggioranza non aveva alcun riferimento con il mondo in cui vivevamo, ma come dicevo ai miei sottoposti, non è importante quello che dice uno slogan, ma quello che la gente ci legge, e che tocca il loro subconscio. Era un lavoro lungo e faticoso, reso più complicato dal fatto che avevo perso qualcosa. Quello che avevo perso, era la sensazione che vincere fosse un fine in se stesso. In questo caso lo era… me lo aveva detto Mitzi. Ma io non lo sentivo più.

Comunque, trovai delle vere perle. Chiamai Dixmeister a vederle, scritte in bellissima calligrafia svolazzante dalla Sezione Artistica, con tema musicale e sfondo multisensoriale forniti dalla Produzione. Lui guardò a bocca spalancata il monitor, perplesso.

Giù le mani da Hyperion. Veramente superbo, signor Tarb — disse automaticamente. Poi, dopo averci pensato: — Ma non sarebbe il contrario? Voglio dire, noi non vogliamo mollare Hyperion come mercato, no?

— Non sono le nostre mani, Dixmeister — dissi pazientemente. — Sono quelle dei Venusiani. Vogliamo che i Venusiani non interferiscano.

La sua espressione si illuminò. — Un capolavoro, signor Tarb — disse con aria rapita. — E questo: Libertà d’informazione. Significa nessun tentativo di censurare la pubblicità, giusto? E Togliamo il peso del governo dalle spalle dei consumatori?

Significa l’abolizione dei cartelli di avviso nelle zone campbelliane — spiegai.

— Geniale! — E lo spedii a provare gli slogan sui candidati del giorno, per vedere chi riusciva a pronunciarli senza balbettare e sembrare confuso, mentre mi davo da fare per mettere in piedi un sistema spionistico che controllasse i candidati delle altre Agenzie. C’era un sacco da fare! Lavoravo dodici, quattordici ore al giorno, perdendo peso lentamente ma continuamente, qualche volta quasi mi addormentavo e mi sfuggiva la presa, durante i lunghi viaggi verso Bensonhurst. Non mi importava. Avevo dato la mia parola, e l’avrei mantenuta, a qualsiasi costo. Le pillole funzionavano ancora; da un bel po’ non mi veniva più neppure il desiderio di una Mokie.

Non mi veniva neanche il desiderio di qualsiasi altra cosa… a parte una, e quello non era il genere di impellente bisogno fisico che le pillole anestetizzavano così bene. Era uno struggimento mentale, un desiderio della memoria, la nostalgia del dolce tocco di una donna addormentata, e il suono del respiro proveniente da un corpo morbido stretto fra le mie braccia. Era Mitzi che volevo.

Non la vedevo molto. Una volta al giorno andavo a rapporto nel suo ufficio. Qualche volta era occupata in qualche altra riunione e mi trovavo di fronte Des Haseldyne che si agitava irritato sulla sedia, leggendo corrucciato le mie relazioni, che non erano mai abbastanza complete e abbastanza aggiornate per soddisfarlo. Qualche volta queste riunioni erano molto lontane. Sapevo che succedevano parecchie cose di cui non venivo informato, mentre loro cercavano di far funzionare quel piano balordo in cui mi ero imbarcato anch’io. Era una fortuna che fossi anestetizzato. Le pillole non cancellavano completamente gli incubi in cui le squadre d’assalto della Moralità Commerciale piombavano nel mio ufficio o nell’appartamento di Bensonhurst, ma rendevano sopportabili.

Anche quando Mitzi c’era, non ci toccavamo. L’unica differenza tra fare rapporto a Mitzi e farlo a Haseldyne, era che una volta ogni tanto mi chiamava «caro». I giorni passavano…

Poi, una sera tardi, stavo spiegando a uno dei nostri candidati le mosse tradizionali dei dibattiti televisivi: le sopracciglia alzate in segno di divertito scetticismo; le mascelle serrate con decisione; il cipiglio indignato e minaccioso dell’incredulità; l’occhiata di stupore e il ritrarsi, come se l’avversario avesse improvvisamente lasciato andare un peto. Mentre stavo istruendo la nostra marionetta nelle varie possibili storpiature del nome dell’avversario, entrò Mitzi. — Non ti voglio interrompere, Tenny — disse. Poi si avvicinò e mi mormorò all’orecchio: — Quando ha finito… Lavori troppo per farti il viaggio fino a Bensonhurst ogni sera. C’è un sacco di posto a casa mia.


Era ciò per cui avrei pregato, se mai avessi pregato.

Sfortunatamente, non fu molto soddisfacente. Le pillole non avevano solo reso grigio il mondo intorno a me, avevano reso grigio anche me. Non avevo la passione, la spinta, il desiderio travolgente. Ero contento di fare quello che facevamo, ma non mi sembrava che fosse poi così importante, e Mitzi era nervosa e tesa.

Suppongo che coppie sposate da molto tempo attraversino dei periodi in cui entrambi sono stanchi o irritabili, o sull’orlo dell’esaurimento nervoso, come me; e quello che fanno, lo fanno perché non hanno niente di meglio da fare al momento.

In effetti, sembrava che noi avessimo qualcosa di meglio da fare. Parlavamo. A letto. Ma non erano quel genere di discorsi. Parlavamo perché nessuno di noi due dormiva bene, e perché, dopo aver fatto l’amore in maniera che di rado era molto soddisfacente, era meglio parlare che far finta di dormire, e sentire la persona vicina fingere altrettanto.

C’erano certe cose di cui non parlavamo, naturalmente. Mitzi non fece mai parola della massa sommersa dell’iceberg, le riunioni misteriose a cui non mi era permesso partecipare, e di cui neppure dovevo sapere l’esistenza. Per parte mia, non espressi più i miei dubbi. Che la cospirazione venusiana procedesse alla giornata, era chiaro. L’avevo capito dal momento in cui Des Haseldyne mi aveva parlato di stimolazione limbale. Non ne discussi mai.

Ogni tanto pensavo alla lobotomia. Quando Mitzi gridava e si agitava nel sonno, sapevo che ci stava pensando anche lei.

Quello di cui soprattutto parlavo, erano i segreti di cui ero a conoscenza e che pensavo potessero aiutare i Venusiani: i piani dell’Agenzia, le operazioni segrete dell’Ambasciata, i dettagli della campagna nel Gobi. Ogni volta lei soffiava e diceva qualcosa come: — Un tipico esempio di brutalità pubblicitaria — e io dovevo pensare a qualche altra notizia top secret da svelarle. Avete mai sentito parlare di Sheherazade? lo ero lo stesso: raccontavo una storia ogni sera per restare vivo il giorno dopo, perché non mi ero dimenticato di quanto poco fossi indispensabile.

Naturalmente questo mi era di ostacolo in faccende più intimamente importanti.

Ma non era solo di questo che parlavamo. Io le raccontavo della mia infanzia, e di come la mamma mi aveva fatto l’uniforme con le sue mani quando ero entrato nei Giovani Inventori di Slogan, e dei miei anni di scuola, dei miei primi amori. E lei mi raccontava… be’, mi raccontava tutto. Cioè, tutto di se stessa. Molto meno su quello che intendevano fare i miei compagni di congiura, ma del resto questo non me l’aspettavo. — Mio padre arrivò su Venere con la prima nave — diceva, ed io sapevo che mi diceva queste cose per evitare il rischio di dire cose più rischiose.

Però era interessante. Mitzi era ossessionata dal ricordo di suo padre. Era stato uno di, quei rivoluzionari conservazionisti, della banda di Mitchell Courtenay, che odiavano a tal punto il lavaggio del cervello e la manipolazione della gente operati dalla società mercantile, che erano saltati dalla padella terrestre alle braci infernali di Venere. Quando mi raccontava la storia di suo padre agli inizi della colonizzazione, sembrava proprio la copia carbone dell’inferno. E suo padre non era stato un pezzo grosso. Solo un ragazzo. Il suo lavoro principale consisteva nello scavare dei buchi in cui vivere, con le mani nude, e portare fuori dalla nave i rifiuti per seppellirli, fra un turno e un altro. Mentre le squadre di operai costruivano i primi grandi tubi di Hilsch per sfruttare la risorsa più grande di Venere: l’immensa energia dei suoi venti densi e selvaggi, papà cambiava i pannolini alla prima generazione di bambini venusiani, nel nido d’infanzia. — Mio padre — diceva Mitzi con gli occhi umidi, — non era solo un ragazzo senza alcuna specializzazione, era anche un rottame, fisicamente. Troppo cibo schifoso quando era piccolo, e qualche malformazione della spina dorsale, che non era stata curata… ma questo non gli impedì mai di fare del suo meglio!

Circa all’epoca in cui cominciarono a minare le faglie tettoniche per creare vulcani, trovò il tempo per sposarsi e generare Mitzi. Fu sempre allora che venne promosso, e poi morì. I vulcani servivano a liberare l’ossigeno e il vapore acqueo sotterranei. È da lì che erano venuti gli oceani e l’aria della Terra, ma i Venusiani non potevano sprecarli come la Terra primitiva, perché non potevano permettersi di attendere il risultato per quattro miliardi di anni. Così i vulcani dovevano essere incappucciati. — Era un lavoro duro e pericoloso — dissi Mitzi. — E una volta che andò male, e uno dei cappucci esplose, portò con sé mio padre. Avevo tre anni.

Distrutto, esausto, sfinito com’ero, mi sentii commosso. Le presi la mano.

Lei mi voltò le spalle. — È questo l’amore — disse con la bocca contro il cuscino. — Ami qualcuno, e te ne verrà del male. Dopo che mio padre morì, usai tutto il mio amore per Venere… non volevo più amare un’altra persona!

Dopo un momento mi alzai,, malfermo. Lei non mi chiamò.

L’alba stava sorgendo; potevo anche cominciare un altro giorno schifoso. Misi a bollire un po’ del suo «caffè», guardando fuori dalla finestra la grande città nebbiosa, con il suo esercito di imbroglioni, e mi chiesi cosa ne stavo facendo della mia vita. Fisicamente la risposta era facile: la stavo rovinando. Il pallido riflesso del vetro mi mostrò quanto si fosse smagrita la mia faccia, quanto gli occhi fossero infossati e vuoti. Alle mie spalle Mitzi disse: — Guardati bene, Tenny. Sei uno straccio.

Be’, cominciavo ad essere stufo di sentirmelo dire. Mi voltai. Era seduta sul letto, e mi fissava. Non si era ancora messa le lenti a contatto. Dissi: — Mitzi, amore, mi dispiace…

— Sono stufa di sentirmelo dire! — scattò lei, come se mi avesse letto nel pensiero. — Ti dispiace, lo so. Sei l’essere più spiacente che abbia mai conosciuto, Tenny! Un giorno o l’altro mi morirai sopra!

Guardai fuori dalla finestra per vedere se qualcuno, nella vecchia sporca città, potesse fornirmi una risposta. Non c’era nessuno. Dal momento che quello che aveva detto era una possibilità molto reale, la cosa migliore pareva lasciar perdere.

Ma Mitzi non aveva intenzione di lasciar perdere. — Morirai a causa delle dannate pillole — disse furiosa, — e allora oltre alle mie dannate preoccupazioni e alla mia dannata paura, avrò anche un dannato dolore.

Mi mossi verso il letto per accarezzarle le spalle nude, e calmarla. Non si calmò. Mi guardò con lo sguardo rabbioso di un gatto in trappola.

L’anestesia si stava affievolendo.

Presi il flacone e ingoiai la mia pillola mattutina, pregando che questa volta mi tirasse un po’ su, invece di stordirmi soltanto, che mi desse la saggezza e la compassione per risponderle in un modo che alleviasse il suo dolore. Saggezza e compassione non vennero. Cercai di fare del mio meglio con nello che avevo a disposizione. Dissi: — Mitzi, forse sarà meglio che ci vestiamo e andiamo al lavoro, prima di dire qualcosa che non dovremmo. Siamo tutti e due un po’ stanchi; forse questa notte riusciremo a dormire un po’…

— Dormire! — sibilò lei. — Dormire! Come faccio a dormire quando ogni quarto d’ora mi sveglio e mi immagino che gli scagnozzi del Dipartimento per la Moralità Commerciale stanno buttando giù la porta?

Ebbi un brivido; avevo gli stessi incubi; pensavo sempre alla lobotomia. Con voce malferma dissi: — Non ne vale la pena, Mitzi? Ogni giorno ci conosciamo meglio.

— Ti conosco anche troppo, Tenny! Sei un drogato! Sei un relitto! Non sei neanche bravo a letto…

E qui si fermò, perché sapeva bene quanto me cosa voleva dire questo. Era una sentenza di morte. Dopo di quello, non c’era altro da dire, se non: «Fra noi è finita». E date le particolari circostanze della nostra relazione, c’era un solo modo per finirla.

Attesi le parole successive, che dovevano essere: «Esci di qui! Esci dalla mia vita!». Dopo che mi avesse buttato fuori, pensai vagamente, la cosa migliore da fare era filare dritto all’aeroporto, volare fin dove potevano portarmi i miei soldi, e perdermi fra la massa ribollente dei consumatori di Los Angeles, di Dallas, o magari ancora più lontano. Forse Des Haseldyne non mi avrebbe trovato. Potevo starmene nascosto per qualche mese, fino a quando il colpo riusciva o non riusciva. Dopo di che, le cose si sarebbero messe ancora peggio: chiunque vinceva, avrebbe voluto certamente regolare i conti con me…

Notai che non aveva detto quelle parole. Era seduta immobile, ascoltando dei suoni lievi che arrivavano dalla porta. — Oh mio Dio! — disse disperatamente, — sono già qui!

Era vero. C’era qualcuno alla porta dell’appartamento di Mitzi. Non la stavano abbattendo. La stavano aprendo con una chiave. Perciò non erano le squadre della Moralità. Erano tre persone. Una di esse era una donna che non avevo mai visto prima. Gli altri due, erano uomini che non mi sarei mai immaginato, per tutto l’oro del mondo, che potessero entrare nell’appartamento di Mitzi in quella maniera: Val Dambois e il Vecchio.

Quando li vidi, io rimasi solo sorpreso. Loro furono esterrefatti, e anche furibondi. — Maledizione, Mitzi! — sbraitò Dambois, — questo è troppo! Cosa ci fa qui quel mokomane.

Avrei potuto dirgli che non ero u un mokomane, esattamente. Non ci provai neanche. Stavo usando tutte le mie facoltà mentali per capire cosa significasse la loro presenza lì. In ogni modo, non avrei avuto il tempo di dirglielo, perché il Vecchio alzò una mano. La sua faccia era come granito. — Tu, Val — ordinò. — Rimani cui e tienilo d’occhio. Voi altri venite con me.


Li guardai uscire: Mitzi, il Vecchio e la donna: un tipo piccoletto, tozzo, e quello che aveva mormorato, vedendomi, pareva avesse un accento. — È della RussCorp, vero? — chiesi a Dambois, e lui mi diede la risposta che aspettavo. Ringhiò:

— Zitto!

Annuii. Non aveva bisogno di confermarmelo. Il semplice fatto che lui e il Vecchio si fossero infilati nell’appartamento di Mitzi in quella maniera, mi aveva detto tutto quello che avevo bisogno di sapere. La cospirazione era molto più grossa di quanto Mitzi avesse ammesso. E molto più antica. Come aveva fatto i soldi il Vecchio? Con una «lotteria» che aveva vinto non si sa come. E Mitzi come aveva fatto i suoi? Grazie al pagamento dei danni subiti in un «incidente». E Dambois? Da «profitti commerciali». Tutti da Venere. Tutti incontrollabili dalla Terra.

Tutti utilizzati per lo stesso scopo.

E se la RussCorp era implicata, il piano non si limitava all’America. Dovevo dedurne che aveva implicazioni mondiali. Dovevo dedurne che per ogni frammento di informazione che Mitzi mi aveva fornito con tanta riluttanza, c’era dietro una montagna intera. — Puoi anche raccontarmi qualcosa — osservai rivolto a Dambois. — Dopo tutto, finora non ho detto una parola.

E naturalmente lui rispose solo: — Sta’ zitto.

— Ma certo — dissi annuendo. — Be’, ti dispiace se prendo del caffè?

— Non muoverti — scattò lui, poi ci ripensò, e disse con riluttanza:

— Te lo prendo io, ma tu non muoverti. — Andò in cucina, ma senza staccarmi gli occhi di dosso. Sa il cielo cosa si aspettava. Io rimasi immobile, come mi era stato ordinato, ascoltando le voci che giungevano dalla camera da letto, in una discussione accalorata. Non riuscivo a distinguere le parole. D’altra parte, non ne avevo bisogno. Potevo immaginarmi benissimo di cosa stessero discutendo.

Quando uscirono, scrutai le loro facce. Erano tutte serie. Quella di Mitzi era impenetrabile. — Siamo giunti a una decisione — disse cupamente. — Siedi e bevi il tuo caffè, e te la dirò.

Bene, era il primo raggio di speranza in un cielo nuvoloso. Ascoltai con attenzione. In primo luogo — disse lei lentamente, — è stata colpa mia. Avrei dovuto farti uscire un’ora fa. Lo sapevo che c’era una riunione.

Annuii, per far vedere che ascoltavo, cercando di decifrare le loro espressioni. Nessuna mi fornì qualche indizio. — Sì? — dissi vivacemente.

— Perciò sarebbe sbagliato, moralmente sbagliato — disse lei, pronunciando ogni parola a un certo intervallo dal] altra, come se le soppesasse una ad una, — affermare che tu abbia qualche colpa. — Fece una pausa, come se si aspettasse da me una risposta.

— Grazie — dissi nervosamente, sorseggiando il caffè. Ma lei non continuò. Si limitò a guardarmi, e cosa strana, l’espressione della sua faccia non cambiò, ma la faccia sì. Divenne indistinta. I tratti si mescolarono. L’intera stanza si oscurò e parve restringersi… Mi ci volle tutto quel tempo per accorgermi che il caffè aveva un leggero sapore strano.

In quel momento, non avrei mai voluto aver scritto quella lettera di suicidio. Lo desiderai con tutto il mio essere, fino a quando i miei desideri smisero di funzionare, e così pure i miei occhi, e le mie orecchie, e così pure, nel mezzo di un urlo silenzioso di terrore, con cui invocavo ancora una possibilità, pregavo di vivere un altro giorno, il mio cervello.

Il mondo era sparito, mi aveva lasciato.

2

Anche allora Mitzi doveva aver combattuto aspramente per me. Quello che mi avevano infilato nel caffè non era stato letale, dopo tutto. Mi aveva solo fatto addormentare profondamente.

Nel sogno qualcuno gridò: «Prima chiamata, fra cinque minuti!», e io mi svegliai.

Non ero più nell’appartamento di Mitzi. Ero in una piccola cella disadorna, con una porta e una finestra, e fuori era buio.

Una volta convintomi del fatto strano di essere vivo, mi guardai attorno. Non ero legato, come scoprii con mia sorpresa, né pareva che fossi stato picchiato, di recente. Ero sdraiato piuttosto comodamente su un lettino, con un cuscino sotto la testa, e una leggera coperta sul mio corpo mezzo spogliato. Vicino al letto c’era un tavolo. Sul tavolo c’era un piatto con dei cereali, un bicchiere di Vitafrut, e fra i due una busta del tipo utilizzato per i messaggi di Agenzia segretissimi. L’aprii e la lessi in fretta, prima che scadesse il tempo. Diceva:


Caro Tenny, non puoi più continuare a vivere da drogato. Se sopravviverai alla disintossicazione, ci rivedremo. Buona fortuna!


Non c’era alcuna firma, ma un P.S.:


Abbiamo molti amici al centro che ci diranno come te la cavi. Devo dirti che sono autorizzati ad assumere iniziative autonome.


Rimuginai nella mente le parole «iniziative autonome»… e ci misi un momento di troppo, perché la carta prese fuoco e mi scottò le dita. Lasciai cadere le braci in fretta e furia e mi guardai attorno.

Non c’era molto da vedere. La porta era chiusa a chiave. La finestra era di vetro infrangibile, sigillata. Evidentemente quel centro non voleva che io abbandonassi la disintossicazione. La cosa aveva un aspetto minaccioso, e non c’erano più le pillole verdi ad attutire la sensazione. Comunque, c’era da mangiare e io avevo una gran fame. Evidentemente ero rimasto addormentato a lungo. Mentre allungavo una mano verso il Vitafrut, si scatenò l’inferno. La voce che urlava nel mio sogno non era un sogno. Adesso urlò: — Ultima chiamata! Tutti fuori! — E non c’era solo la voce. Era accompagnata da sirene e campane, per essere sicuri che avessi sentito; la serratura della porta si aprì, e nel corridoio si sentì un rumore di piedi in corsa, accompagnato da colpi battuti su ogni porta. — Fuori! — gridò un individuo in carne ed ossa, guardandomi torvo e facendomi segno col dito.

Non vidi ragione per protestare, dal momento che era almeno due misure più grosso di Des Haseldyne.

Indossava una tuta da ginnastica blu. E così pure una dozzina di altri individui, quelli che urlavano. Avevo visto un paio di short, e li avevo afferrati all’ultimo minuto, sentendomi terribilmente nudo… ma non solo. Oltre agli aguzzini in tuta, c’erano una ventina di altri esseri umani, che uscivano dall’edificio, tutti svestiti quanto me, e con un’aria altrettanto infelice. Ci spinsero fuori, nell’aria umida e piena di smog, ancora buia, anche se si scorgeva uno scoraggiante chiarore rossastro in un angolo del cielo, e noi ci stringemmo 1 uno all’altro, aspettando che ci dicessero cosa dovevamo fare. Era, come sotto le armi pensai.

No, mi sbagliavo. Era molto peggio che sotto le armi. L’addestramento militare almeno inizia con individui in discreta salute. Fra i miei compagni, non c’era nessuno che lo fosse anche lontanamente. Ce n’era di tutte le forme e dimensioni, tranne che buoni. C’era una donna che doveva pesare più di un quintale e mezzo, e un paio d’altri, di entrambi i sessi, che forse pesavano meno, ma in compenso erano molto più piccoli, e straripavano da sopra le cinture. C’erano degli spaventapasseri più magri di me e almeno altrettanto consumati. C’erano uomini e donne piuttosto anziani, che non parevano del tutto disumani, a parte il fatto che avevano dei tic che non riuscivano a controllare: portavano in continuazione la mano alla bocca, nei gesti ripetuti all’infinito del fumare, del mangiare, del bere. Ma non avevano niente in mano. Ah già, pioveva.

I guardiani ci spinsero in un gruppo disordinato in mezzo a un quadrato di cemento, circondato da bassi edifici simili a baracche militari. Sulla porta dell’edificio da cui eravamo appena usciti, c’era una scritta:


CENTRO INTOSSICAZIONI ACUTE
DIVISIONE TERAPIA INTENSIVA

Uno degli istruttori soffiò in un fischietto, vicino al mio orecchio destro. Quando il suono smise di rimbalzarmi nel cranio, vidi che un’amazzone, con la stessa tuta degli altri, ma fornita di una striscia d’oro sulla giacca, camminava impettita verso di noi. Ci guardava con disgusto. — Mio Dio — disse rivolta al pazzo con il fischietto, — ogni mese sono peggio. E va bene. Voi! — sbraitò, salendo su una cassetta per vederci meglio, e sottolineando i suoi ordini con un colpo del suo fischietto che quasi mi staccò la testa e la mandò a rotolare verso le baracche. — Fate attenzione! Vedete quel cartello? «Divisione terapia intensiva.» La parola più importante è intensiva. Noi ci sforzeremo intensamente. Voi vi sforzerete intensamente, ve lo garantisco io. Ma malgrado tutti i nostri sforzi, di solito non abbiamo successo. Basta leggere le statistiche. Su dieci di voi, quattro usciranno puliti… e ci ricascheranno entro un mese. Tre svilupperanno sintomi fisici o psiconeurotici incapacitanti, e avranno bisogno di un trattamento prolungato. Prolungato fino alla fine della loro vita, che di solito è molto breve. E due di voi non arriveranno alla fine della cura. — Fece un sorriso gentile… lei almeno doveva pensare che fosse gentile. Erano passate almeno sei ore di troppo senza che prendessi una pillola, e in quel momento neanche la Madonna mi sarebbe sembrata gentile.

Un altro devastante fischio. Aveva fatto un secondo di pausa, e non voleva che ci mettessimo a sognare ad occhi aperti. — Il vostro trattamento — disse, — avverrà in due fasi. La prima è quella spiacevole. Vi riduciamo la dose al minimo, vi nutriamo per accrescere la resistenza, vi alleniamo per sviluppare il tono muscolare, vi insegniamo nuovi comportamenti per spezzare le abitudini dei movimenti che rinforzano la dipendenza. E qualche altra cosa. E si comincia subito. Stendetevi a pancia in giù, tutti, e fate cinquanta piegamenti sulle braccia. Poi vi spogliate e andate a fare la doccia!

Cinquanta piegamenti! Ci guardammo l’un l’altro increduli, nell’alba grigia e scura. Non avevo mai fatto cinquanta piegamenti in tutta la mia vita, e non credevo che fosse possibile farli in una volta sola… finché non scoprii che non si poteva fare la doccia, non si poteva mangiare, non si poteva lasciare il cortile… e soprattutto non ci sarebbero state pillole finché non li avessi fatti tutti e cinquanta.

Divenne possibile, perfino per quelli che pesavano un quintale e mezzo.


La signora non aveva mentito. La Fase Uno era spiacevole, non c’erano dubbi. L’unico modo in cui riuscii a superare ognuna di quelle miserevoli ore, fu di pensare alla benedetta pillola verde che sarebbe arrivata alla fine del giorno. Non mi portarono via le pillole; solo mi costrinsero a guadagnarmele. E la cosa orribile consisteva in questo: che più miglioravo nel guadagnarmele, meno ne ricevevo; il terzo giorno cominciarono a togliermi un pezzettino di pillola; il sesto le tagliarono a metà. Tre di noi avevano una dipendenza da pillole in seguito a intossicazione da Mokie. Gli altri avevano ogni altra intossicazione immaginabile. La donna grassa, che scoprii si chiamava Marie, era cibo-dipendente; sbuffava come un mantice nella corsa a ostacoli, ma correva sempre, perché non c’era altro modo di arrivare alla sala mensa. Un ometto dai capelli scuri, di nome Jimmy Paleologue, era stato un tecnico campbelliano, prestato dalla sua Agenzia all’esercito, per insegnare la civiltà ai Maori della Nuova Zelanda. Era troppo esperto per farsi prendere dagli stimoli campbelliani, ma era inesplicabilmente caduto nella trappola di un campione gratuito di Caffeissimo. — Era collegato a una lotteria — spiegò timidamente, mentre stavamo distesi sul terreno fangoso, ansimando fra i piegamenti sulle ginocchia e l’arrampicata sulla fune. — Il primo premio era un appartamento di tre stanze, e io pensavo di sposarmi… — Mentre si trascinava tremante lungo l’ultimo tratto dei cinque chilometri di corsa, aveva ormai smesso di pensarci.

Il centro si trovava in un sobborgo, chiamato Rochester, e una volta era stato il campus di una università. Gli edifici avevano ancora i nomi incisi sulle pareti di cemento: Dipartimento di Psicologia, Sezione Economia, Fisica Applicata, e così via. C’era una massa di liquido fangoso a un’estremità del terreno e per quel che riguardava l’ambiente fisico, quella era la parte peggiore. Lo chiamavano «Lago Ontario». Quando il vento soffiava da nord, la puzza faceva svenire. Alcuni dei vecchi edifici fungevano da dormitori, altri da sale da terapia, da mensa, da uffici. Ma ce n’erano un paio ai confini del campus a cui non eravamo ammessi. Non erano disabitati. Di tanto in tanto vi scorgevamo delle creature miserabili come noi, che venivano fatte entrare e uscire, ma chiunque fossero, non potevamo mescolarci a loro. — Tenny — ansimò Marie, appoggiandosi a me mentre passavamo vicino a loro, diretti verso la nostra terapia pomeridiana. — Cosa credi che facciano là dentro? — Una donna in tuta da ginnastica rosa (anche i loro istruttori erano diversi dai nostri) si sporse dalla porta di uno de li edifici, e gettò qualcosa nel buone della spazzatura, guardandoci torva. Quando fu entrata, tirai per un braccio Marie.

— Andiamo a dare un’occhiata — dissi, guardandomi attorno per vedere se non c’erano tute blu nei dintorni. Non pensavo che potessero esserci delle pillole verdi, nel bidone, e sono sicuro che Marie non si aspettava di trovarci qualche boccone di cibo. Con nostro disappunto, era proprio così. Trovammo solo un paio di stivaletti dorati e una pistola giocattolo, rotta, con l’impugnatura di finto avorio. Non volevano dire niente per me, ma Marie emise un gridolino.

— Oh, mio Dio, Tenny, sono oggetti da collezionismo! Mia sorella ne aveva. Questi sono una Replica Autentica in Miniatura delle Scarpe da Bambino dei Gangster del Ventesimo Secolo in Bronzo…, queste sono di Bugs Moran, credo… E sono sicura che la pistola appartiene alla Collezione di Armi da Fuoco Intagliate della Frontiera. Là dentro fanno la Terapia di Rigetto… Prima ti fanno smettere di averne bisogno, poi te le fanno odiare! Forse è questa la Fase Due?

A questo punto l’istruttore urlò alle nostre spalle: — Bene, voi due fannulloni, se avete tempo di starvene lì a chiacchierare, avrete anche tempo per fare un po’ di piegamenti supplementari. Diciamo cinquanta! E muovetevi, perché sapete cosa succede se arrivate tardi alla terapia!

Lo sapevamo.

Quando non facevo piegamenti, non correvo, non saltavo, non mi facevo riaggiustare la testa, mangiavo… ogni dieci minuti, a quanto pareva. Cibo semplice e genuino, come Pane del Fornaio, e Manzovero, e Succobuono, e non c’era da discutere: ripulivo il piatto ogni volta, altrimenti erano cinquanta piegamenti sulle braccia per dessert. Non che cinquanta piegamenti in più facessero molta differenza. Ne facevo quattro o cinquecento al giorno, più quelli sulle ginocchia e quelli per toccarsi la punta dei piedi, e quaranta vasche al giorno nella piscina. C’era posto solo per tre alla volta, e facevano sempre in modo che fossimo tutti e tre più o meno alla pari… Provate a indovinare cosa succedeva a chi arrivava ultimo?

Avevamo cominciato in quaranta, poi scendemmo a trentuno, a venticinque, a ventidue… Quella che mi colpì più duramente fu Marie. Era riuscita a perdere una ventina di chili, e adesso riusciva a mangiare i suoi pasti (tavolette di vitamine e proteine, e poche anche di quelle) senza piagnucolare, quando il dodicesimo giorno, mentre si arrampicava sulla rete, spalancò la bocca, annaspò e rotolò a terra. Era morta. Non morì del tutto, perché tirarono fuori l’unità di rianimazione cardiaca, e la spedirono via su un’ambulanza pneumatica, ma era troppo morta per tornare nel nostro gruppo.

E per tutto il tempo, i nervi mi strisciavano sotto la pelle, e quello che desideravo di più al mondo era dare una randellata in testa all’infermiere, portargli via le chiavi, e aprire l’armadietto dove tenevano le pillole. Ma non lo feci.

La cosa strana è che dopo due settimane, con la razione ridotta a un quarto di pillola, cominciai a sentirmi leggermente meglio. Non bene. Solo meno peggio, meno teso, meno ossessionato dalla pillola. — È una falsa sensazione di benessere — ansimò Paleologue quando glielo dissi, appena usciti alla piscina, in attesa di partire per la corsa di tre chilometri. — Capitano questi momenti di rilassamento, ma non vogliono dire niente. Ho già visto gente con la sindrome di Campbell…

Gli risi in faccia. Certe cose poteva raccontarle a qualcun altro: era il mio corpo, no? Potevo perfino trovare il tempo per pensare qualcosa di diverso dalle pillole verdi. Una volta arrivai a mettermi in fila per l’unico telefono pubblico, con tutte le intenzioni di chiamare Mitzi. E ci sarei anche riuscito, se non mi avesse preso uno di quegli attacchi di nausea, che mi costrinse a correre ai cessi; e dopo non ci fu più tempo per ricominciare la fila da capo.

Altre due settimane passarono, e arrivò la fine della Fase Uno, quella spiacevole.

Povero ingenuo. Non avevo chiesto ai nostri istruttori come sarebbe stata la Fase Due. Avevo pensato che se la Uno era definita spiacevole, la Due sarebbe stata almeno decente.

Questo prima di iniziare la terapia di rigetto e la disintossicazione finale, e di scoprire che la Fase Due certamente non si poteva chiamare semplicemente spiacevole. Era molto di più che spiacevole. Era un inferno.


Credo di non voler più parlare della Fase Due, perché ogni volta che cerco di farlo comincio a tremare. Però la superai. Mentre i veleni mi uscivano dal corpo, pareva che mi uscissero anche dalla mente. Quando il direttore mi strinse la mano, e mi rispedì nel mondo, questa volta coscientemente, mi sentivo… non ancora bene: più triste che bene, e più arrabbiato che triste. Ma forse, per la prima volta nella mia vita, razionale.

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