Tarb in purgatorio

1

Quando andai alla Taunton, Gatchweiler & Schocken per riavere il mio vecchio lavoro, temevo che Val Dambois non avrebbe neppure voluto vedermi. Su questo mi sbagliavo. Mi ricevette. Era contento. Rise per tutto il colloquio. — Povero sciocco — disse. — Non riesci neanche a stare in piedi. Cosa ti fa credere che abbiamo tanto bisogno di tassisti da prenderti con noi?

Dissi:

— La mia anzianità…

— La tua anzianità, Tarb — disse lui con gusto, — è finita con il tuo congedo disonorevole. Per giusta causa. Sparisci. Meglio ancora, ammazzati. — E mentre scendevo le quarantatré rampe di scale fino all’uscita posteriore (Dambois non aveva ritenuto di darmi un biglietto per l’ascensore) mi chiedevo quanto tempo sarebbe passato prima che quella diventasse una logica possibilità.

C’era una corrente di opinione convinta che questo era precisamente ciò che stavo già facendo. All’atto della mia separazione fisica dal servizio, la dottoressa militare aveva letto i quadranti e i diagrammi con un’espressione sempre più preoccupata, fino a quando non aveva perforato i miei documenti e aveva visto che ero un CD. — Ah, bene — disse allora — immagino che non abbia importanza. Ma direi che siete destinato al totale collasso fisico e mentale entro i prossimi sei mesi. — E stampò a grosse lettere rosse, sulla lunga lista delle mie degenerazioni fisiche, la dicitura NON DIPENDENTE DAL SERVIZIO, cosicché neppure la Cassa Veterani si sarebbe interessata a quello che ne sarebbe stato di Tennison Tarb. Forse Mitzi sì? L’orgoglio mi impedì di chiederglielo… Per cinque giorni. Poi le mandai un messaggio, dal tono sicuro e tranquillo: ci vediamo per un bicchierino, in ricordo dei vecchi tempi? Lei non rispose. Non rispose neppure ai messaggi meno sicuri e tranquilli del decimo, del dodicesimo, del quindicesimo giorno…

Tennison Tarb non aveva più amici, a quanto pareva.

Tennison Tarb non aveva più molti soldi, anche. Il congedo disonorevole comportava la confisca di tutta la paga e di tutte le indennità. Il che fra le altre cose voleva dire che i conti del bar della sala ufficiali di Urumqi erano passati a un’agenzia di riscossione. Il resto del mondo si era dimenticato della mia esistenza, ma gli spaccagambe non ebbero difficoltà a trovare me, e quello che restava del mio conto in banca. Quando se ne andarono, con la cifra dovuta, più gli interessi, più l’indennità di riscossione, più le tasse… più la mancia! (perché, mi spiegarono facendo dondolare i bastoni di gomma, i clienti danno sempre una mancia ai riscossori), non restava finanziariamente di Tennison Tarb molto più di quanto restasse da ogni altro punto di vista.

Eppure avevo ancora la mia brillante, originale, creativa mente! (Oppure si era talmente deteriorata insieme al resto, che le idee più stupide e banali mi sembravano brillanti?) Leggevo l’Era pubblicitaria ogni volta che mi capitava l’occasione di avere a disposizione un’Omni-V, per esempio mentre aspettavo in qualche saletta, per un lavoro che non mi avrebbero dato. Annuivo approvando alcune campagne, aggrottavo la fronte disgustato di fronte ad altre… io avrei saputo fare molto meglio!

Ma nessuno voleva offrirmi una possibilità. La voce si era sparsa. Ero sulla lista nera.


Anche il più miserabile appartamentino in affitto a tempo parziale era più di quanto potessi permettermi, così mi sistemai a pensione con una famiglia di consumatori a Bensonhurst. Avevano messo un annuncio dicendo che c’era spazio per una persona, e il prezzo era giusto. Feci un lungo viaggio in metropolitana, trovai la casa, scesi fino al terzo piano seminterrato, e bussai alla porta. — Salve — dissi alla donna dall’aria stanca e preoccupata che mi aprì. — Sono Tennison Tarb — e alla fine della frase tirai un respiro. Mio Dio! Me n’ero dimenticato! Mi ero dimenticato di come vivevano i consumatori, e soprattutto mi ero dimenticato cosa fa una dieta da consumatori al sistema digestivo. È vero che le proteine di fibre vegetali assomigliano alla carne… almeno un po’… al Manzovero di colture cellulari, almeno… Ma anche se le papille si fanno ingannare, la flora intestinale no. E lei sa cosa farne di quella roba. Se ne libera… in gran parte sotto forma di gas. Per darvi un’idea dell’atmosfera di quell’appartamento di consumatori, vi dirò che era come quando uno si trova in un quartiere di infima classe, ed è costretto a servirsi dei cessi comuni, un po’ prima dell’ora di punta del mattino o della sera. Solo che ora dovevo viverci dentro.

Neanche loro furono molto contenti di vedermi, perché la borsa piena di Mokie che mi portavo sulla schiena aggiunse una nuova ruga di preoccupazione a quelle che la donna già aveva sulla faccia. Ma avevano bisogno dei soldi, e io avevo bisogno di un posto per dormire. — Potete anche mangiare con noi — disse lei. — Non vi costerà molto.

— Forse più tardi — dissi. Avevano già messo i bambini a dormire nelle culle appese sopra il lavandino. Con il loro aiuto spostai i mobili per far posto al mio materassino gonfiabile, e mentre mi addormentavo la mia mente brillante, originale, creativa, riuscì a trovare ispirazione perfino nell’avversità. Un nuovo prodotto! Deodoranti antigas da mettere nel cibo. I chimici potevano inventare qualsiasi cosa… che poi funzionasse o no, non aveva molta importanza: l’importante era trovare una buona idea per la campagna e un nome per il marchio.

Quando mi risvegliai la mattina, la campagna era ancora ben delineata nella mia mente, ma c’era qualcosa che non andava. Dov’era la puzza? Non la sentivo più! E mi resi conto che i consumatori non sentono i loro odori. Naturalmente, mi dissi, era soltanto necessario dirglielo. Questa è la gloria della pubblicità: non solo soddisfare i bisogni, ma crearli.

Ma mentre andavo all’ennesima agenzia di collocamento, quella mattina, mi resi conto di una cosa: le idee brillanti non valgono un fico secco se le ha la gente sbagliata. Quand’ero alla T.G.&S., e avevo facile accesso all’ufficio del Vecchio e al Comitato di Pianificazione, il mio progetto si sarebbe trasformato in una campagna da dieci milioni di dollari nel giro di novanta giorni. Incastrato in un vagone della metropolitana, diretto a un’agenzia di collocamento, disoccupato, quasi senza un soldo, senza la mia rete di amici e colleghi, non era più un progetto. Era una fantasia, e prima avessi smesso di fantasticare e mi fossi rassegnato alla mia nuova condizione sociale, tanto meglio sarebbe stato.

Ma orgoglio o non orgoglio, quanto mi mancava la mia signora di ottone!


Quella sera presi una decisione. Non tornai dalla mia famiglia di consumatori per cena. Non mangiai per niente. Mi sedetti fuori dal condominio di Nelson Rockwell, bevendo Mokie e aspettando che si svegliasse. Un vecchio dall’aria stanca, con un vassoio di campioni di Kelpy-Krisp, ne scambiò alcuni per delle Mokie; un giovane poliziotto della Brink, dall’aria cattiva, mi fece sloggiare due volte; un migliaio di consumatori frettolosi mi passarono a fianco ignorandomi, anche quando inciampavano su di me. Ebbi un sacco di tempo per pensare, e nessuno dei miei pensieri era molto piacevole. Ero molto lontano da Mitzi Ku.

Quando finalmente Rockwell uscì e mi vide appoggiato al bidone della spazzatura spalancò la bocca… Non molto, m effetti perché aveva la testa e la faccia avvolta nelle fasce, e sembrava conciato davvero male. — Tenny! — gridò. — Come sono contento di vederti! Ma cosa ti è successo, sembri conciato davvero male! — Quando gli tornai il complimento, lui alzò le spalle imbarazzato. — Oh, niente di serio, sono restato un po’ indietro con i pagamenti. Ma cosa fai qui fuori? Perché non sei entrato e mi hai svegliato?

Be’, la vera ragione era che non volevo vedere chi aveva preso il mio posto nel turno di sonno dalle dieci alle sei. Lasciai perdere la domanda. — Nels — dissi, — devo chiederti un favore. Cioè, lo stesso di prima. Mi porteresti ai Consumisti Anonimi?

Lui aprì due volte la bocca, e per due volte la richiuse senza dire mente. Non ce n’era bisogno. La prima cosa che stava per dire, era che potevo andarci da solo, e l’aveva già detta una volta. La seconda, ne ero quasi certo, era che forse ormai ero arrivato troppo lontano perché i Consumisti Anonimi potessero servirmi a qualcosa; forse l’ospedale era l’idea migliore. La terza volta, il censore gli fece passare quello che voleva dire. — Be’, accidenti, Tenny, non so. Il gruppo si è un po’ sfasciato… ci sono queste nuove associazioni, e un sacco di membri preferiscono la sostituzione all’astinenza. — Rimasi con la bocca chiusa e la faccia inespressiva. — Comunque… — disse, e poi si illuminò. — Be’, accidenti, Tenny, a che servono gli amici? Certo che ti porto! — E insistette lui perché prendessimo un peditaxi, e pagò la corsa.

Vedete, io non mi sarei immaginato una gentilezza simile da parte di Rockwell. Tutto quello che volevo da lui era un piccolo favore, così piccolo che non avrebbe neppure saputo cos’era. Considerazione, tatto, generosità… erano più di quanto cercassi, e più di quanto volessi accettare; se uno accetta più generosità di quanta se ne possa permettere colui che la offre, si crea un debito che io non volevo ripagare. Perciò lasciai che il suo tatto si scontrasse con un muro di sorrisi, cordialità, riservatezza, superiorità; e rifiutai la sua generosità: no, non avevo bisogno di venti dollari finché non mi fossi sistemato. No, davvero, avevo già mangiato, non c’era bisogno di fermarci per un soyaburger. Risposi in maniera cortese ma scoraggiante alle sue aperture, e quanto a conversazione, mi limitai ad osservare quanto si fossero degradati i quartieri che attraversavamo, o a far notare che la donna che tirava a destra il taxi zoppicava alla gamba sinistra, su una salita non molto ripida. (Mentre mi chiedevo se questo l’avrebbe costretta a lasciare il lavoro, e a chi potevo rivolgermi per sostituirla.)

La chiesa era squallida come l’ultima volta che l’avevo vista, e i fedeli molto meno numerosi; il mio piccolo progetto aveva evidentemente sortito il suo effetto. Ma la fortuna non mi aveva del tutto abbandonato. La persona che avevo sperato di vedere c’era. Dopo dieci minuti di esortazioni dal pulpito e di accorati voti di astinenza dai disgraziati del pubblico, mi scusai un momento, e quando tornai avevo ciò che mi serviva.

Tutto quello che volevo a questo punto era andarmene. Ma non potevo. Non ero incorso volontariamente nel debito di cortesia con Nelson Rockwell, ma ormai l’avevo contratto.

Così rimasi con lui fino alla fine, e lasciai perfino che comprasse i soyaburger. Fu un errore. Volle offrirmi ancora il suo aiuto. — No, Nels, non voglio prendere in prestito soldi — dissi. — Soprattutto dal momento che non so quando potrò restituirteli.

— Capisco — disse lui con aria grave, leccandosi il succo del burger dalle dita. — È difficile trovare dei buoni lavori. — Alzai le spalle, come se il problema per me fosse di decidere quale offerta accettare. Ce n’era solo una. Inserviente in un istituto di custodia per i lobotomizzati, e non avevo nessun problema a rifiutarlo: chi ha voglia di cambiare i pannolini a un criminale di quarant’anni, condannato per rottura di contratto? — Senti — disse, — forse potrei farti entrare nella mia fabbrica. Naturalmente non si guadagna molto… per uno come te, cioè.

Sorrisi, con aria di condiscendenza. Lui sembrò mortificato. — Immagino che tu abbia delle offerte dalle Agenzie, eh Tenny? Quella tua amica, ho sentito che ha una sua Agenzia. Adesso che sei nei CA, e il tuo problema è sotto controllo, presto ritornerai in cima.

— Certo — dissi, guardandolo mentre immergeva l’ultimo pezzetto di soyaburger nel Caffeissimo. — Ma per il momento… Quanto pagano esattamente nella tua fabbrica?

E così, prima di prendere la metropolitana verso Bensonhurst, avevo la promessa di un lavoro. Non un buon lavoro. Neppure un lavoro passabile. Ma l’unico lavoro in vista.

Nella luce intermittente del tunnel del metrò, tirai fuori la bottiglietta di plastica che avevo comprato dall’uomo dalla faccia di furetto, fuori dalla chiesa. C’era un forte vento, e la aprii con cautela. Mi era costata troppo per rischiare di farmi soffiare via il contenuto.

Con quelle, probabilmente, avevo il problema sotto controllo. Almeno per un po’.

Guardai la pastiglia verde a lungo. Dicevano che in sei mesi uno diventa pazzo, e dopo un anno muore.

Tirai un profondo respiro e la mandai giù.

Non so cosa mi aspettassi. Un senso di liberazione, di benessere.

Quello che sentii fu quasi niente. Potrei descriverlo come un lieve formicolio, poi l’assenza di ogni sensazione. Anche se avevo preso l’ultima Mokie tre ore prima, non ne sentivo più la necessità.

Oh, ma come era grigio il mondo!


— Noi fabbrichiamo anelli di tenuta, e li fabbrichiamo a poco prezzo — disse il signor Semmelweiss. — Questo significa che non ci devono essere scarti. Questo significa che non possiamo correre il rischio di avere dei pasticcioni che lavorano. Ci sono in ballo troppi soldi. — Scrutò con aria di disapprovazione il mio curriculum. Non potevo vedere lo schermo da dove stavo, ma sapevo cosa c’era scritto. — D’altra parte — continuò, — Rockwell e uno dei miei uomini migliori, e se lui dice che siete a posto…

Così ebbi il lavoro. Per quella ragione e per altre due. Prima ragione: la paga era schifosa; avrei preso di più con i lobotomizzati, anche se in fabbrica non rischiavo di farmi morsicare le dita mentre davo da mangiare a qualcuno. Seconda ragione: Semmelweiss ci provava un gran gusto a far vedere ai visitatori il suo operaio-pubblicitario. Mentre trascinavo via scatole piene, e mettevo sotto la macchina quelle vuote, lo vedevo nel suo cubicolo con le pareti di vetro, all’estremità dello stanzone, che mi indicava. E rideva. E la gente che era con lui, clienti o azionisti, o quello che erano, sorridevano increduli.

Non mi importava.

No, non è vero. Mi importava, e molto. Ma meno di quanto mi importasse tenermi stretto il lavoro, fino a quando non avessi trovato un modo per tornare alla mia vita di prima. Le pillole verdi erano forse il primo passo. Forse. È vero che non bevevo più Mokie. Ma quello era l’unico vantaggio. Non avevo riacquistato nessun peso, non mi ero liberato di quella tensione che mi faceva contrarre continuamente le dita, e rivoltarmi sul materassino, fino a quando, certe volte, svegliavo uno dei bambini, e sentivo i genitori brontolare e parlottare fra loro. Ma la maggior parte era dentro di me, dove non si vedeva, e la mia mente era più attiva che mai. Sognavo grandi slogan, campagne pubblicitarie, nuovi prodotti. Feci passare tutte le Agenzie, mandando il mio curriculum, chiedendo un colloquio, telefonando ai capi del personale. I curriculum non ricevevano alcuna risposta. Quando telefonavo, mi riappendevano l’apparecchio. Le mie visite finivano quando mi sbattevano fuori. Le provai tutte, le grandi e le piccole. Tutte tranne una.

Ci andai vicino. Arrivai fino al marciapiede davanti al piccolo edificio anonimo, vicino al vecchio Lincoln Center, che ospitava la nuovissima Agenzia Haseldyne & Ku. Ma non entrai.

Non so cosa mi facesse andare avanti, perché certamente non era l’ambizione, e ancor meno le soddisfazioni che trovavo nella vita. La grigia insensibilità teneva lontano il dolore e il desiderio, ma era altrettanto efficace contro il piacere e la gioia. Dormivo. Mangiavo. Lavoravo ai miei curriculum e alle nuove idee. Facevo il mio lavoro in fabbrica. Un giorno seguiva all’altro.

Certamente non c’era niente di affascinante nella fabbricazione degli anelli di tenuta. Era un lavoro noioso, e l’industria pareva moribonda. Non vedevamo mai il prodotto finito. Gli anelli venivano spediti via nave a Calcutta o in Cambogia per essere utilizzati sa Dio come. Per gli Indiani e i Cambogiani era più economico comprarli da noi che farseli da soli, ma non molto, e perciò gli affari non andavano gran che bene. Durante la mia prima settimana chiusero la divisione plastica rinforzata, anche se l’alluminio estruso e l’ottone smaltato tiravano ancora. Ai piani superiori c’era un sacco di spazio inutilizzato, e durante le pause del lavoro andavo a curiosare. Nella stratigrafia della vecchia fabbrica si poteva leggere la storia dell’industria. I fori dei bulloni, sul pavimento, dove un tempo c’erano state le presse… poi i solchi delle linee di estrusione ad alta velocità… cancellate a loro volta dai segni delle macchine automatiche, controllate da microprocessori… soppiantate ora dalle nuove presse manuali. Il tutto coperto di polvere, ruggine e muffa. C’erano molte lampade al soffitto, ma premendo il pulsante se ne accendevano solo alcune, vecchi tubi al neon, e la maggior parte funzionavano a intermittenza. C’era posto per far dormire un reggimento di persone, ma il signor Semmelweiss inseguiva il sogno di inquilini più «desiderabili»… o l’ancor più fantastica speranza che un giorno gli anelli di tenuta avrebbero conosciuto un nuovo boom, e tutto lo spazio sarebbe stato utilizzato.

Sogni, pensavo… con invidia, perché le pillole verdi non solo eliminavano il bisogno di Mokie, ma avevano tarpato anche le ali ai miei sogni. È una cosa terribile svegliarsi alla mattina e rendersi conto che il giorno appena iniziato non sarà migliore di quello precedente.

2

Cosa cambiò la situazione? Non lo so. Non ci fu nulla. Non presi nessuna decisione, non ottenni la risposta a nessuna domanda irrisolvibile. Ma una mattina mi alzai presto, presi un’altra linea a una stazione diversa, e risalii alla superficie in un punto dove da tempo non ero più stato, e mi presentai all’appartamento di Mitzi.

La porta aprì le sue mascelle per annusarmi la punta delle dita e leggermi le impronte del palmo. Ebbi successo a metà. Non mi fece entrare, ma non mi bloccò neppure la mano, fino a quando non fossero arrivati i poliziotti. Un minuto dopo, la faccia assonnata di Mitzi apparve sullo schermo. — Sei proprio tu — disse; pensò un momento, poi aggiunse: — Tanto vale che tu venga su.

La porta si aprì il tempo sufficiente per farmi passare, e mentre salivo appeso alla maniglia dell’ascensore, cercavo di capire cosa c’era di strano nel suo aspetto. I capelli in disordine? Evidentemente l’avevo fatta alzare. L’espressione? Forse. Non era sembrata particolarmente contenta di vedermi.

Scacciai la domanda in un angolo della mente, dove si stava accumulando una montagna di domande senza risposta e di dubbi vari. Quando mi fece entrare, si era lavata la faccia, e si era annodata un foulard attorno ai capelli. L’unica espressione che avesse era di cortese curiosità. Cortese e distante. — Non so perché sono qui — dissi. — Solo che… be’, non avevo nessun altro posto dove andare. — Non avevo avuto intenzione di dire così. Non avevo avuto nessuna intenzione, ma mentre le parole mi uscivano di bocca e le sentivo, mi accorgevo che erano vere.

Lei guardò le mie mani vuote, le tasche altrettanto vuote. — Non ho Mokie, qui, Tenny.

Feci un gesto. — Non bevo più Mokie. No, non le ho eliminate. Le ho sostituite.

Lei spalancò gli occhi. — Pillole? Capisco perché hai un’aria distrutta.

Con calma dissi: — Mitzi, non sono pazzo, e non penso che tu mi debba qualcosa, ma pensavo che mi avresti ascoltato. Ho bisogno di un lavoro. Un lavoro che mi permetta di usare le mie capacità, perché adesso, per quello che faccio, potrei anche essere morto, e una mattina non sarò capace di svegliarmi perché non riuscirò a vedere la differenza. Sono sulla lista nera, lo sai. Non è colpa tua; non dico questo. Ma tu sei la mia sola speranza.

— Ah — disse lei. L’espressione di cortese curiosità sparì, e per un momento pensai che stesse per piangere. — Ah, Tenny… Vieni in cucina e facciamo colazione.


Anche quando il mondo è tutto grigio, quanto tutte le circostanze sono talmente diverse da quelle che avete conosciuto prima, che la vostra mente si morde la coda, le abitudini e l’educazione vi fanno tirare avanti. Osservai Mitzi spremere le arance (veri frutti! Spremuti!), e macinare semi di caffè per fare il caffè, e nel frattempo snocciolavo il mio discorsetto come se fossi davanti al Vecchio. — Il prodotto, Mitzi. L questa la mia specialità, e ho pensato nuove campagne promozionali. Per esempio: non ti è mai venuto in mente che è un grosso fastidio usare i prodotti da gettare: fazzoletti di carta, rasoi, spazzolini da denti, pettini? Bisogna sempre averne una scorta. Se invece uno ne avesse di permanenti…

Lei aggrottò la fronte. I solchi erano evidenti. — Non capisco dove vuoi arrivare, Tenny.

— Un sostituto permanente per i fazzolettini, per esempio. Ho fatto delle ricerche. Una volta li usavano di stoffa. Un articolo di lusso, capisci? Di prestigio, e quindi caro.

Lei disse dubbiosamente: — Però non hanno un mercato illimitato. Se sono permanenti…

Scossi la testa. — L permanente solo fino a quando il consumatore vuole tenerlo. Il segreto è la moda. Il primo anno li vendiamo quadrati. Quello dopo triangolari, per esempio… poi con disegni e colori diversi, magari con dei ricami; se fai i conti, ti accorgi che il guadagno lordo è maggiore che con i prodotti a perdere.

— Non è male come idea, Tenny — ammise lei, mettendomi davanti una tazza del suo caffè. In effetti non era male.

— Questa è solo una, e delle meno importanti — dissi inghiottendo il primo sorso. — Ne ho delle altre più grosse. Molto grosse. Val Dambois ha cercato di portarmi via i gruppi di auto-sostituzione, ma non si immagina cosa altro si potrebbe tirarne fuori.

— Perché, c’è dell’altro? — disse guardando l’orologio.

— Puoi scommetterci! Non mi hanno lasciato andare fino in fondo, ecco il guaio. Vedi, dopo che i gruppi si sono formati, ogni membro cerca altri membri. Per ognuno che ne trova prende una percentuale. Se procura dieci membri, a cinquanta dollari l’anno ciascuno, ha una percentuale del dieci per cento su ognuno… questo serve a pagare la sua quota.

Lei strinse le labbra. — Suppongo sia un buon sistema per espandersi.

— Non solo per espandersi! Come si fa a reclutare questi nuovi membri? Si dà una festa nel proprio condominio. Si invitano amici. C’è da mangiare, da bere, dei regalini (e i regalini glieli vendiamo noi), e poi… — tirai un profondo respiro. — Poi viene il bello. Il membro che recluta nuovi membri viene promosso. Diventa Socio Onorario, e la sua quota sale a settantacinque dollari. Con venti iscritti, diventa Consigliere… quota, cento dollari. Con trenta è… non so… Eminentissimo Eccellente Selezionatore, o qualcosa del genere. Vedi, noi gli stiamo sempre davanti: per quanti membri raccolga, ci ripaga la metà della sua quota… e noi continuiamo a vendergli la mercanzia.

Mi accomodai col mio caffè, osservando la sua espressione. Qualsiasi fosse. Avevo pensato che potesse essere di ammirazione, ma non riuscivo a capire bene. — Tenny — disse lei con un sospiro, — sei il più colossale imbroglione che abbia mai conosciuto.

E ancora una volta, questo fece scattare qualcosa. Misi giù la tazza con tale forza che un po’ di caffè si rovesciò sul piattino. Ascoltai le parole uscirmi dalla bocca, e anche se non avevo progettato di dirle, riconobbi che erano vere. — No — dissi, — non lo sono. Per quello che vedo, non sono niente di niente. La ragione per cui voglio tornare al mio lavoro è che mi pare che devo volerlo. Ma quello che voglio veramente è solo…

E mi fermai lì, perché avevo paura a finire la frase con la parola «te»… e perché mi ero accorto che la voce mi tremava.

— Vorrei — dissi disperatamente, e pensai un minuto prima di continuare:

— Vorrei che questo fosse un mondo diverso.

Voi cosa pensate che volessi dire con quelle parole? Non è una domanda retorica. Non conoscevo la risposta allora, e non la conosco adesso; il mio cuore diceva qualcosa che la mia mente non aveva ancora preso in considerazione. Immagino che la domanda non sia così importante. Quello che contava era il sentimento, e vidi che aveva toccato Mitzi. — Oh, accidenti, Tenny — disse, e abbassò gli occhi.

Quando li rialzò, mi scrutò un momento prima di parlare. — Lo sai — disse, rivolgendosi più a se stessa, mi parve, che a me — che mi tieni sveglia la notte?

Esterrefatto, cominciai: — Non immaginavo… — ma lei non mi lasciò continuare.

— È assurdo — disse pensierosamente. — Perché tu sei un imbroglione. È vero che adesso te la passi male, e che pensi cose che non ti saresti permesso di pensare qualche settimana fa. Ma sei sempre un imbroglione.

Non per essere polemico, ma per la precisione, dissi: — Sono un pubblicitario, Mitzi. — Non era da lei usare quel linguaggio.

Fu come se non mi avesse sentito. — Quando ero piccola, mio padre mi diceva che se mi innamoravo, non avrei più potuto farci niente, e che la cosa migliore per me era stare lontano dal tipo di uomo che mi avrebbe fatto innamorare. Avrei dovuto dare ascolto a mio padre.

Il cuore mi si gonfiò in petto. Con voce rauca dissi: — Oh, Mitzi! — E allungai una mano per toccarla. Ma non la toccai. Con calma, ma abbastanza in fretta perché la mia mano non arrivasse a sfiorarla, lei si alzò e fece un passo indietro. — Rimani fermo lì, Tenny — mi ordinò, e sparì nella camera da letto. La porta si chiuse alle sue spalle. Dopo un momento sentii scorrere la doccia. Rimasi lì, studiando le bizzarre idee di Mitzi a proposito di arredamento, cercando di capire cosa ci si potesse trovare di bello nel quadro di Venere appeso alla parete… cercando di dare un senso a quello che lei aveva detto.

Mitzi mi lasciò un sacco di tempo per pensare. Ma non ci capii niente lo stesso, e quando uscì, perfettamente vestita, coni capelli pettinati, la faccia composta, era una persona completamente diversa. — Tenny — disse subito,stammi a sentire. Credo di essere matta, e sono sicura che avrò dei guai. Comunque, ti dirò tre cose.

«Primo: non mi interessano le tue idee per nuovi prodotti o i tuoi imbrogli sui Consumasti Anonimi. La nostra Agenzia si occupa di altre cose.

«Secondo: in questo momento non posso fare niente per te. Probabilmente non dovrei, anche se potessi. Probabilmente fra un giorno o due, ricomincerò a ragionare, e allora non ti rivedrò più. In questo momento non c’è posto per un altro pubblicitario nei nostri uffici… e non c’è neppure tempo nella mia vita.

«Terzo… — esitò, poi alzò le spalle. — Terzo: potrebbe esserci qualcosa di cui potremmo parlare, fra un po’ di tempo. Intangibili. Politica. Un progetto speciale. Ma non parlarne con nessuno. Non dovrei neppure dirti che esiste. Forse non esisterà mai. A meno che non riusciamo a mettere insieme un sacco di cose… Abbiamo perfino bisogno di un posto per prepararlo, con discrezione, perché è davvero segreto. E anche allora potremmo decidere che il momento non è maturo, e che non possiamo cominciare. Capisci quanto è aleatorio tutto quanto? Ma se andrà in porto, allora forse, solo forse, potrei trovare un posto per te. Chiamami fra una settimana.»

Avanzò svelta verso di me. Con il cuore in gola, allargai le braccia, ma lei mi schivò, mi diede un casto bacetto sulla guancia e andò verso la porta. — Non uscire con me — ordinò. — Aspetta dieci minuti, poi vattene.

E sparì.


Anche se le pastiglie verdi sembravano avere degli effetti chiarificatori sulle mie idee, non servirono a chiarirmi le idee su Mitzi. Ripensai ad ogni parola della nostra conversazione, rigirandomi sul materassino, mentre i bambini frignavano e i genitori russavano o litigavano a bassa voce fra di loro, nella piccola stanza. Non aveva senso. Non riuscivo a capire cosa provasse Mitzi per me (oh, non si era mai sognata di pronunciare la parola «amore»… ma di sicuro non aveva mai finto con me). Non riuscivo a far quadrare la Mitzi che avevo conosciuto così superficialmente e carnalmente su Venere, i cui unici segreti erano quelli dell’Agenzia, con quella sempre più misteriosa e imprevedibile della Terra.

Non riuscivo a capire niente… tranne una cosa, che si era fissata chiaramente nella mia memoria. Così, quando finii il turno in fabbrica, mi ripulii ben bene, mi pettinai e mi presentai all’ufficio di vetro del principale. Semmelweiss non era solo; l’uomo che era con lui veniva a trovarlo almeno una volta alla settimana, si fermava a volte per ore, uscivano a pranzo insieme e tornavano malfermi sulle gambe. Sapevo di cosa parlavano: di niente. Tossicchiai sulla soglia e dissi: — Scusatemi, signor Semmelweiss.

Lui grugnì, con il tono di chi vuol dire: non vedi che sono in riunione? — Aspettate un minuto, Tarb! — E tornò al suo amico. La conversazione verteva sulle loro pedauto.

— Accelerazione? Senti, avevo una vecchia Ford a spinta esterna. La prima pedauto che abbia avuto, di seconda mano, un vero rottame… ma quando dovevo ripartire a un semaforo, bastava che mettessi fuori il piede, e zac! passavo davanti anche ai taxi!

Tossii ancora. Semmelweiss rivolse un’occhiata disperata al cielo e si voltò verso di me. — Perché non siete alla vostra macchina, Tarb?

— Ho finito il turno, signor Semmelweiss. Volevo chiedervi una cosa.

— Uffa — disse lui guardando l’amico, le sopracciglia sollevate con aria di disprezzo… disprezzo per me, che una volta avevo un bicicletta a batteria! — Cosa diavolo volete?

— È per quello spazio vuoto, signor Semmelweiss. Conosco qualcuno che potrebbe affittarlo. Un’Agenzia.

Lui spalancò gli occhi. — Diavolo, Tarb! Perché non me l’avete detto subito? — E da quel momento tutto filò liscio come l’olio. Certo che potevo portare Mitzi e Haseldyne a vedere il posto. Certo che potevo uscire prima dal lavoro per portarli lì. Certo che potevo interromperlo, diavolo, Tarb, sicuro, ogni volta che volete! Andava tutto nel migliore dei modi possibili… Tranne forse per me, e per tutte le preoccupazioni, le paure, i dubbi a cui non riuscivo a dare neppure un nome.

3

Quando finalmente riuscii a parlare con Mitzi per telefono, lei era molto irritata, esattamente come se fosse arrabbiata con se stessa per avermi incoraggiato… e doveva essere proprio così. Sollevò obiezioni, tergiversò; alla fine ammise che sì, aveva detto che avevano bisogno di un posto segreto. Però doveva sentire Haseldyne.

Ma quando la richiamai, come mi aveva detto, dieci minuti più tardi, disse: — Ci saremo. — E così fu.

Quando andai loro incontro, sul marciapiede sporco fuori dalla fabbrica, Haseldyne sembrava assai più irritato di quanto non lo fosse stata Mitzi per telefono. Gli porsi la mano. — Salve Des — dissi.

Lui la ignorò. — Hai un aspetto orribile — disse con evidente antipatia. — Dov’è questo buco che vuoi rifilarci?

— Da questa parte, prego — dissi, come un portiere, e li feci entrare con un inchino. Non dissi loro di stare attenti allo sporco. Potevano vederlo da soli. Non mi scusai per lo sporco, né per i borbottii, i ruggiti, qualche volta i colpi di pistola delle macchine che sputavano fuori il loro milione di anelli di tenuta all’ora; e neppure per Semmelweiss che ci salutava untuosamente dal suo cubicolo; né per la puzza; né per il quartiere. Né per qualsiasi altra cosa. Erano loro a dover prendere la decisione. Non avevo intenzione di pregarlo.

Una volta saliti al piano di sopra, fu un po’ meglio. Quei vecchi edifici erano stati costruiti solidamente. Si sentivano le macchine, di sotto, ma solo come un mormorio lontano e non spiacevole. Le luci funzionavano sempre a intermittenza, e la polvere fece starnutire Mitzi. Ma loro sembrarono non accorgersene. Erano più interessati alle scale antincendio, al montacarichi, alle porticine con la scritta USCITA, che nessuno apriva da decenni. — Ci sono un sacco di entrate e uscite — disse Desmond rudemente. Annuii, ma non l’avevo veramente sentito. Ero perso nei miei pensieri. Era buffo. Con Mitzi nella stessa stanza con me, mi sembrava di essere più che mai lontano da lei. Forse ero solo intossicato. Anche le pillole avevano il loro effetto, e anche se la perdita di peso aveva rallentato, non si era arrestata, né era finita la mia insonnia. Eppure c’era qualcosa di molto strano…

— Tarb! — chiamò bruscamente Haseldyne. — Vi state addormentando? Vi ho chiesto dei trasporti.

— Trasporti? — Contai sulle dita. — Vediamo, ci sono due linee metropolitane, tutti i bus dell’asse nord-sud, quelli che attraversano la città, la striscia pedonale. E naturalmente i taxi.

— E la disponibilità di energia? — chiese Mitzi con uno starnuto. — Ce n’è di energia. Se no con che cosa farebbero funzionare le macchine? — spiegai.

— Voglio dire, è affidabile? Non ci sono interruzioni?

Alzai le spalle. Non ci avevo fatto caso. — Credo di no — dissi.

Non mi ero reso conto che lei era più tesa di me. — Credi? — sbraitò. — Cristo, Tenny, anche per un mokomane sei… eh, eh… sei proprio stupido… eh…

Quando il ciù arrivò fu violento. Lei si mise le mani sulla faccia. — Al diavolo! — grugnì. Si inginocchiò per terra, frugando in mezzo alla polvere, e quando alzò la faccia inviperita, uno dei suoi occhi blu era marrone.


Immagino che se non fossi stato un mokomane, l’avrei capito da un pezzo. Mangiava insalata. Lenti a contatto per nascondere il colore degli occhi. Evitava la madre che voleva disperatamente vederla. Mi chiamava «imbroglione» quando si arrabbiava. Un’altra dozzina di piccole incongruenze.

E una sola spiegazione si adattava a tutte.

Immagino che se non fossi stato prima un mokomane, e poi un succhia-pillole, avrei reagito in maniera completamente diversa. Chiamando la polizia, per esempio. O almeno avrei cercato di farlo, anche se questo mi sarebbe probabilmente costato la vita. Ma ero stato torchiato. Quello che lei stava facendo era forse terribilmente sbagliato. Ma non mi era rimasto nulla a cui potessi credere.

Fu come se avessi tutto il tempo del mondo. Presi dalla tasca il mio notes, scrissi rapidamente, poi strappai la pagina e la piegai. — Mitzi — dissi facendo un passo verso di lei, senza curarmi della lente persa, — tu non sei Mitzi, vero?

Come se si fosse congelata, lei mi fissò con un occhio azzurro e uno marrone.

— Tu non sei Mitzi, vero? — chiesi. — Sei un agente venusiano. Un falso della vera Mitzi Ku.

Haseldyne emise un lungo respiro. Lo sentii muoversi verso di me, pronto ad agire. — Leggete qui! — dissi, e gli misi in mano il foglio. Lui quasi non si fermò, poi gettò un’occhiata al foglio, aggrottò la fronte, sembrò sorpreso e lesse ad alta voce:

Non posso più sopportare questa vita da drogato. Il suicidio è per me l’unica via d’uscita. Firmato Tennison Tarb. Cosa diavolo vorrebbe dire, Tarb?

Glielo spiegai. — Usatelo se volete liberarvi di me. Oppure lasciate che vi aiuti. Vi aiuterò come meglio potrò, in ogni modo che potrò, qualunque cosa stiate facendo. Non m’importa cos’è. Lo so che siete Venusiani. Non mi importa.

E aggiunsi:

— Per favore.

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