Frederik Pohl Gli antimercanti dello spazio

Perché scrivo satire?

Chiedete piuttosto come potrei farne a meno.

GIOVENALE

Tennison Tarb

1

La donna faceva pena. Aveva cercato pateticamente di rendersi carina per il colloquio, ma era stata una perdita di tempo. Era piccola, con la pelle giallastra, l’aria malaticcia, e si inumidiva continuamente le labbra, guardandosi attorno. Non è per caso che le pareti del mio ufficio sono coperte di poster tridimensionali che reclamizzano prodotti di marca. — Accidenti — sospirò. — Farei qualsiasi cosa per una tazza di buon vecchio Caffeissimo!

La guardai con la mia più falsa espressione di genuino stupore. Toccai il suo dossier. — Strano. Qui dice che ai Venusiani avete detto che il Caffeissimo genera dipendenza ed è dannoso alla salute.

— Signor Tarb, posso spiegarvi tutto!

— Poi c’è quello che si legge sulla vostra richiesta di visto. — Scossi la testa. — È possibile? «Il pianeta Terra è marcio fino al midollo, dilaniato da crudeli campagne pubblicitarie, i suoi cittadini sono solo animali, in mano alle rapaci Agenzie pubblicitarie».

La donna spalancò la bocca. — Come l’avete avuto? Mi avevano detto che i documenti per il visto erano segreti! — Alzai le spalle senza rispondere. — Ho dovuto dirlo. Ti costringono ad abiurare alla pubblicità, altrimenti non ti fanno entrare — finì lamentosamente.

Mantenni la mia espressione cortese ma non troppo: settantacinque per cento «Mi piacerebbe potervi aiutare», e venticinque per cento «Però siete proprio disgustosa». Ormai c’ero abituato. Di quei tipi ne avevo visti almeno uno alla settimana, nei quattro anni che avevo passato su Venere, ma l’abitudine non me li aveva resi più simpatici. — Lo so di aver fatto un brutto sbaglio, signor Tarb — piagnucolò con voce piena di sincerità, gli occhi spalancati nella faccia emaciata. Be’, la sincerità era falsa, anche se ben recitata. Ma gli occhi erano terrorizzati. E il terrore era reale, perché di sicuro lei non voleva più restare su Venere. Si riconoscevano sempre i casi disperati. Il segno distintivo era la magrezza. I medici la chiamano anorexia ignatua. È quello che succede quando un normale consumatore terrestre, ben educato, si trova giorno dopo giorno? far la spesa in un negozio venusiano, e non riesce neppure a decidere cosa comprare per pranzo, perché non dispone dei consigli saggi e preziosi della pubblicità. — Vi prego, vi scongiuro… posso avere il visto di ritorno? — finì la donna, con quello che, suppongo, lei credeva fosse un sorriso d’implorazione.

Strizzai l’occhio all’ologramma di Fowler Schocken appeso al muro. Normalmente, avrei lasciato la derelitta in compagnia dei poster pubblicitari per una decina di minuti, mentre uscivo per qualche faccenda inventata lì per lì. Ma il mio istinto mi diceva che non ne aveva più bisogno… e poi un lieve formicolio alle ghiandole mi ricordò che non stavo parlando solo con quella disgraziata.

Calai la mazzata; basta con le buone maniere. — Elsa Dyckman Hoeniger — ruggii, leggendo il nome sulla richiesta di visto, — siete una traditrice! — La mascella ossuta della donna si abbassò per lo shock. I grandi occhi cominciarono a riempirsi di lacrime. — Secondo il vostro dossier venite da una buona famiglia di consumatori. Iscritta da bambina ai Giovani Inventori di Slogan. Un’ottima educazione alla G. Washington Hill University di New Haven. Un lavoro di responsabilità nelle Pubbliche Relazioni di una delle più grandi catene di gioiellerie… e vedo qui, un indice di resa di meno dello 0,1 per cento, un record che vi ha procurato la qualifica di «Superiore» nel vostro curriculum! Eppure, avete voltato le spalle a tutto. Avete disertato il sistema che vi ha dato la vita, siete fuggita in questo deserto abbandonato dalle vendite!

— Sono stata ingannata — piagnucolò lei, mentre le lacrime le scendevano lungo le guance.

— Certo che siete stata ingannata — ringhiai, — ma avreste dovuto avere l’onestà e il buon senso di impedirlo.

— Oh, vi prego! Farò… farò qualsiasi cosa! Lasciatemi solo tornare a casa!

Era il momento della verità. Strinsi le labbra per un momento. Poi: — Qualsiasi cosa — ripetei, come se non avessi mai sentito una parola del genere da un rinnegato che se la sta facendo sotto. La lasciai singhiozzare ancora un po’ finché le lacrime non si furono asciugate, mentre mi guardava piena di paura e disperazione. Quando il primo segno di speranza fece la sua apparizione, lanciai l’amo.

— Potrebbe esserci un modo dissi. E non aggiunsi altro.

— Sì, sì! Per favore!

Feci finta di studiare da capo il suo dossier. — Non subito, però — l’avvertii alla fine.

— Non importa — proruppe quella. — Aspetterò… settimane, se sarà necessario.

Feci una risata di scherno. — Settimane, eh? — Scossi la testa. — Elsa, non parlerete sul serio? Quello che avete fatto non può essere emendato in un paio di settimane… e neanche di mesi. Vi siete fatta un’idea sbagliata. Dimenticate quello che ho detto. Richiesta respinta. — Misi un timbro sul suo modulo e glielo restituii con una grossa stampigliatura rosso brillante: RESPINTO.

Mi appoggiai allo schienale, in attesa che finisse la sceneggiata. Andò come tutte le altre volte. Prima la costernazione. Poi uno sguardo infuriato. Infine si alzò adagio e uscì come in trance dall’ufficio. La recita non cambiava mai, e io la sapevo bene la mia parte.

Non appena la porta si chiuse, sogghignai rivolto al ritratto di Fowler Schocken e dissi: — Com’è andata? — Il ritratto sparì, e Mitzi Ku mi sorrise.

— Perfetto, Tenny — disse lei. — Vieni giù a festeggiare. — Era la risposta giusta. Mi fermai allo spaccio per comprare qualcosa con cui festeggiare.


Quando costruirono l’ambasciata terrestre, a Courtenay Center (o bisognerebbe dire: quando la scavarono) dovettero servirsi di mano d’opera locale. Era previsto dal trattato. D’altra parte, la roccia venusiana si sbriciola facilmente ed è facile da scavare. Così, quando il primo gruppo di diplomatici arrivò, i marine di guardia ebbero per un anno un doppio lavoro. Quattro ore in alta uniforme, a far la guardia al portone, altre quattro nelle viscere dell’ambasciata, a scavare e a preparare la nostra Sala di Guerra. I Venusiani non hanno mai sospettato di niente, malgrado metà ambasciata fosse piena di operai locali durante l’orario di lavoro: non avevano il permesso di entrare nelle toilette dei funzionari, e nell’ultimo stanzino di ciascuna toilette c’era la porta segreta del luogo dove l’addetta culturale Mitsi Ku teneva il suo poco culturale archivio.

Quando ci arrivai, senza fiato e tenendo in bilico una bottiglia di genuino whisky terrestre e una vaschetta di ghiaccio, Mitzi stava battendo sulla tastiera i dati di quella povera disgraziata. Alzò una mano per dirmi di non interromperla e mi indicò una sedia. Io preparai un paio di bicchieri e aspettai, tutto contento.

Mitzi era un tipo che si faceva notare: a cominciare dal colore bronzeo della pelle, per non dire di come parla e come si muove. Proprio il tipo che piace a me. Ha i capelli nerissimi, tipici delle orientali, ma gli occhi azzurri. È alta come me, ma fatta molto meglio. Presa nell’insieme (com’ero sempre pronto a fare io), era proprio la più bella spia che avessimo mai avuto all’ambasciata. — Peccato che io debba tornare a casa — dissi, quando lei fece una pausa.

— Già, Tenny — disse lei con aria assente, prendendo il bicchiere. — È un peccato.

— Potresti tornare anche tu — suggerii, non per la prima volta, e lei non rispose neppure. Non che me lo fossi aspettato. Non aveva nessuna intenzione di farlo, e sapevo il perché. Mitzi era su Venere solo da un anno e mezzo, e uno non può fare molta carriera in un’Agenzia con meno di tre anni di lavoro duro. La gente che torna tropo presto non si ripaga neppure e spese di viaggio. Provai un approccio differente. — Pensi di poterla utilizzare?

— Quella? Ma certo — disse Mitzi con disprezzo. — L’ho guardata uscire, sui monitor. Era infuriata. Andrà a dire a tutti i suoi amici che la Terra fa ancora più schifo di quello che credeva quando è scappata. Poi comincerà a rodersi. Le darò ancora un paio di giorni, poi la chiamerò per… vediamo, per mettere a posto certi conti che ha lasciato in sospeso sulla Terra. Poi le getterò l’amo. Abboccherà.

Sorseggiai il mio whisky. — Potresti aggiungere qualcos’altro — la punzecchiai.

Gli occhi azzurri si strinsero in maniera allarmante, ma si limitò a dire: — Hai fatto un buon lavoro, Tenny.

— Magari ancora qualcosa — insistei. — Per esempio: «Hai fatto un buon lavoro con quella disgraziata, Tenny caro. Perché non torniamo insieme?»

A questo punto le si aggrottarono anche le sopracciglia. Era una cosa seria. — Accidenti, Tenny! È stato bello fra te e me, ma adesso è finita. Io ho chiesto di rimanere, e tu torni a casa, e questa è la fine.

Non ebbi il buon senso di rinunciare. — Resto qui ancora una settimana — suggerii, e questa volta lei esplose.

— Vuoi piantarla, accidenti!

Perciò la piantai. E imprecai dentro di me. Specialmente imprecai contro Hay Lopez (Jesus Maria Lopez, all’anagrafe) che non era bello come me, e neppure (speravo) così bravo a letto, ma aveva un grosso vantaggio su di me: lui restava, e io me ne tornavo a casa. Così Mitzi aveva pensato al futuro.

— Certe volte sei proprio una noia, Tenny — disse con aria di disapprovazione. Quando Mitzi aveva quell’espressione non c’era rischio di confondersi. Ancor prima di aggrottare la fronte, mentre la tempesta si addensava all’orizzonte, apparivano le prime nubi: due linee verticali sopra il naso, fra le sopracciglia sottili come tratti di matita. Volevano dire: Attenzione! Temporale in arrivo! Poi gli occhi azzurri si raggelavano, e il lampo scoccava…

Oppure no. Questa volta no. — Tenny — disse lei rilassandosi un poco, — ho un’idea per quella sgraziata. Pensi che potremo farla infiltrare nello spionaggio venusiano?

— E perché? — grugnii. I Venusiani non avevano semplicemente il cervello per essere delle buone spie. Erano i rifiuti della società. La metà dei Conservazionisti che emigravano su Venere, rimpiangeva di averlo fatto entro i primi sei mesi, e la metà di questi venivano a implorare di poter tornare sulla Terra. Io ero quello incaricato di dir loro che non c’era niente da fare: il mio titolo ufficiale all’ambasciata era Vice Capo dei Servizi Consolari. Mitzi era quella che in seguito li sceglieva e li trasformava in suoi agenti. La sua qualifica era Direttore Associato delle Relazioni Culturali, ma le relazioni culturali principali che aveva con i Venusiani erano una bomba in un armadietto dell’aeroporto, o un incendio in un magazzino. Prima o poi i Venusiani si sarebbero resi conto che non potevano combattere contro un pianeta di quaranta miliardi di abitanti, anche se era lontano nello spazio. Allora si sarebbero gettati in ginocchio, pregando di essere riammessi nella famiglia dell’umanità prospera e civilizzata. Nel frattempo, compito di Mitzi era impedire loro di adattarsi alla fame e al freddo. O meglio, considerato che razza di inferno era il loro pianeta, alla fame e al caldo. Spie? Non c’era proprio da preoccuparsi di spie venusiane! — Come? — dissi, rendendomi conto d’improvviso che stava parlando.

— Stanno preparando qualcosa, Tenny. L’ultima volta che sono stata a Port Kathy mi hanno frugato nella stanza d’albergo.

— Sciocchezze — dissi deciso. — Senti: cosa facciamo nel tempo che mi resta?

I due solchi sopra il suo naso si formarono per un momento, poi sparirono. — Tu cos’hai in mente? — chiese.

— Un viaggetto — proposi. — È arrivata la navetta, e devo andare alla CPP per la trattativa sui prigionieri… Potresti venire anche tu.

— Oh, Tenny — disse lei, — che razza di idea! E perché dovrei venirci? — È vero che la Colonia Polare era la principale attrazione turistica di Venere… ma nella lista non c’era nient’altro, essendo Venere quello che era. — E poi la navetta in seguito farà scalo qui, e avrò da fare fin sopra i capelli. Grazie, no. — Ebbe un’esitazione. — Però è un peccato che tu non abbia visto Venere dal vero.

— Dal vero? — Fui io questa volta a mostrare perplessità. Il calore di Venere dal vero era sufficiente per sciogliere le otturazioni dei denti, se uno le aveva; e anche attorno alle città, dove c’è stata una sostanziale modifica del clima, la temperatura è spaventosa, e l’atmosfera un gas velenoso. Volete sapere com’è Venere «dal vero»? Guardate una vecchia fornace a carbone, dopo che è stata spenta, ma è ancora troppo calda per toccarla.

— Non intendevo il deserto — disse lei. — Che ne dici delle Colline Russe? Non sei mai andato a vedere la sonda Venera, e ci vuole solo un’ora… sempre che vogliamo passare una giornata assieme.

— Benissimo! — Avevo qualche idea migliore su come passare una giornata assieme, ma ero disposto ad accontentarmi. — Oggi?

— Diavolo, no, Tenny, cosa ti viene in mente? E il giorno del Lutto Planetario. Tutti i divertimenti sono chiusi.

— Allora quando? — chiesi, ma lei alzò le spalle. Non volevo che aggrottasse di nuovo la fronte, così cambiai argomento. — Cosa intendi offrirle?

Mitzi parve sorpresa. — A chi? Ah, vuoi dire a quella rinnegata. Il solito, credo. Cinque anni come agente, poi il rimpatrio… ma solo se avrà fatto un buon lavoro.

— Forse non è necessario arrivare a tanto — dissi. — L’ho studiata bene. È cotta a puntino. Basta che le offri di poter venire allo spaccio una volta al mese. Se potesse mettere le mani su qualcuno di quei buoni vecchi prodotti terrestri, farebbe qualsiasi cosa le chiedi.

Mitzi finì di bere, e rimise il bicchiere sul vassoio, guardandomi in maniera strana. — Tenny — disse, con un mezzo sorriso e scuotendo la testa, — mi mancherai quando te ne sarai andato. Sai cosa mi viene da pensare certe volte, per esempio quando non riesco ad addormentarmi subito? Penso che forse, da un certo punto di vista, non è giusto trasformare normali cittadini in spie e sabotatori…

— No, un momento… — sbottai. Ci sono certe cose che uno non dice, neanche per scherzo. Ma lei levò una mano.

— Poi guardo te — disse, — e vedo che, da un altro punto di vista, paragonato a te, sono praticamente una santa. E adesso vattene e lasciami lavorare, va bene?

Così me ne andai, chiedendomi se avevo vinto o perso in quella piccola discussione. Ma almeno ci eravamo lasciati con una specie di appuntamento, e avevo qualche idea su come renderlo più interessante.


Il Giorno del Lutto Planetario era una delle più insopportabili festività venusiane. Era l’anniversario della morte di quel vecchio bastardo, Mitchell Courtenay. Naturalmente, il personale venusiano dell’ambasciata si prendeva un giorno di vacanza, e io dovetti portarmi da solo il surrogato di caffè fino al salone del secondo piano. Da lì si godeva una buona vista della «cerimonia» in corso fuori dall’ambasciata.

Il Venusiano è fondamentalmente un troglodita, cioè un abitatore delle caverne, e ciò significa che malgrado i tubi di Hilsch, non sono ancora riusciti a soffiar tutti i gas puzzolenti che impestano la loro aria. Ammetto che hanno fatto dei progressi. Potete uscire con una tuta termica e le bombole dell’ossigeno, se ne avete voglia, almeno nei sobborghi attorno alla città. Personalmente non ne avevo mai molta voglia. Ma anche lì l’aria è velenosa. Perciò i Venusiani hanno scelto le valli più strette e profonde sulla superficie accidentata, e le hanno coperte con tetti. Lunga, stretta, sinuosa, la tipica città venusiana è, per usare le parole di Mitzi, una «tana d’anguilla». Ma una tipica città venusiana non si avvicina neppure a una vera città, naturalmente. La più grande raggiunge a malapena la penosa cifra di un centinaio di migliaia di abitanti, e questo solo quando si riempie di turisti per una delle loro disgustose feste nazionali. Ve l’immaginate: commemorare il traditore Mitch Courtenay! Naturalmente i Venusiani non conoscono la vera storia di Courtenay come me. Il padre di mia nonna era Hamilton Harns, uno dei vice-presidenti anziani della Fowler Schocken Associates, la stessa Agenzia che Courtenay aveva tradito e disonorato. Quando ero piccolo, la nonna mi raccontava come suo nonno si era accorto subito che Courtenay era un piantagrane. E Courtenay l’aveva perfino licenziato, insieme a molti altri dirigenti della filiale di San Diego, timorati dalle vendite, per coprire le sue malefatte. Ma naturalmente i Venusiani sono così pazzi che questa la chiamano una vittoria del diritto e della giustizia.

L’ambasciata è situata lungo la strada principale, l’O’Shea Boulevard, e naturalmente in una giornata come quella i Venusiani erano intenti al loro sport favorito: le dimostrazioni. C’erano cartelli che dicevano Abbasso la pubblicità! e altri che dicevano Terrestri go home! La solita roba. Vidi una cosa che mi divertì: la povera disgraziata della mattina che strappava un cartello dalle mani di un tizio alto, coi capelli rossi e gli occhi verdi, e cominciava a marciare su e giù di fronte all’ambasciata, gridando slogan. Tutto secondo il copione. Le stava crescendo la febbre, e quando fosse scesa, lei sarebbe rimasta indebolita e incapace di resistere.

Nel salone cominciarono ad arrivare i funzionari per la riunione delle undici, e uno dei primi ad arrivare fu il mio compagno di camera e rivale, Hay Lopez. Saltai in piedi e gli versai il caffè. Lui mi guardò con sospetto. Hay ed io non eravamo amici. Dividevamo la stanza; io avevo il letto sopra. C’erano molte buonissime ragioni per non essere in buoni rapporti. Potevo immaginarmi come si fosse sentito per tutti quei mesi, ad ascoltare Mitzi e me nel lettino di sopra. Anzi, non avevo bisogno di immaginare niente, perché anch’io adesso sapevo come ci si sentiva ad ascoltare certi rumori, dall’alto.

Ma c’era un modo per trattare con Hay Lopez, perché aveva una macchia nera nel suo passato. Aveva combinato qualcosa mentre era Assistente Direttore ai Media nella sua Agenzia. Così naturalmente l’avevano prestato all’esercito per quasi un anno, in servizio di riserva, durante la campagna per elevare gli Eschimesi di Port Barrow agli standard civili. Non sapevo esattamente cos’avesse fatto. Ma Hay non sapeva che io non sapevo, e un paio di osservazioni cifrate l’avevano messo in allarme. Comunque, si faceva in quattro per cancellare quella vecchia macchia, lavorando più di qualsiasi altro all’ambasciata. Quello che lo terrorizzava, era il rischio di un’altra missione a nord del Circolo Polare Artico; dopo il mare di ghiaccio e la tundra, era l’unico fra di noi che non si lamentasse per il clima venusiano. Così dissi: — Hay, sentirò la mancanza di questo posto quando tornerò all’Agenzia.

Questo raddoppiò il sospetto nei suoi occhi, perché sapeva che era una bugia. Quello che non sapeva era perché gliela raccontassi. — Anche tu ci mancherai, Tenny — mentì a sua volta. — Hai qualche idea di quello che farai?

Era l’occasione che volevo. — Penso che farò richiesta per passare alla Sezione Personale — mentii. — Mi sembra naturale, non credi? Perché la prima cosa che vorranno, sarà un aggiornamento sul rendimento del personale di qui… ehi — dissi come se me ne ossi ricordato in quel momento siamo della stessa Agenzia! Tu, io e Mitzi. Be’, avrò un sacco di cose da dire su voi due! Siete tutt’e due dei funzionari di prima classe. — Naturalmente, se Lopez ci avesse pensato un po’ su, si sarebbe reso conto che l’ultima cosa che avrei richiesto, o ottenuto, sarebbe stata la Sezione Personale, visto che tutto il mio addestramento era nel campo Redazione e Produzione. Ma ho detto solo che Hay si faceva in quattro, non che fosse molto intelligente. E prima che si fosse reso conto di quello che stava succedendo, mi aveva promesso che sarebbe andato lui alla Colonia Penale Polare… — per prenderci la mano, caso mai l’incarico tocchi a me quando te ne sarai andato. — Lo lasciai a pensarci sopra, e mi unii a un gruppo che parlava delle macchine che avevamo sulla Terra.


L’ambasciata aveva un personale di cento e otto persone. I Venusiani cercavano sempre di farci dimezzare il numero, ma l’ambasciatore non cedeva. Sapeva cosa ci stavano a fare quelle sessanta persone in più… e naturalmente lo sapevano anche i Venusiani. Io ero il decimo o l’undicesimo nella gerarchia, sia a causa del mio grado consolare, sia del mio incarico secondario come Commissario Morale. Sarebbe a dire che dovevo scegliere gli inserti pubblicitari per i circuiti televisivi interni, e… be’… tenere d’occhio gli altri centosette per scoprire eventuali tendenze conservazioniste. Non che questo mi portasse via molto tempo. Eravamo un gruppo altamente selezionato. Più della metà di noi erano ex dipendenti di Agenzie, e anche i consumatori erano mica male, per essere consumatori. Se mai, alcuni dei più giovani erano troppo lealisti. C’erano stati diversi incidenti. Un paio di marine, qualche settimana prima, avevano trangugiato troppo liquore, e avevano lanciato, con le armi d’ordinanza, alcuni comunicati a risonanza oculare contro tre indigeni. I Venusiani non si erano divertiti, e fummo costretti a consegnare nell’ambasciata i due, in attesa di rispedirli sulla Terra. Adesso non erano presenti, naturalmente; la riunione delle undici era riservata ai circa venticinque direttori di grado superiore.

Feci in maniera che ci fosse un posto libero vicino a me per quando fosse arrivata Mitzi, in ritardo come al solito. Lei gettò un’occhiata a Hay Lopez, che se ne stava tutto solo vicino alla finestra, con aria imbronciata, poi alzò le spalle e si sedette, unendosi alla conversazione.

— Buongiorno Mitzi — grugnì il Capo del Protocollo, seduto di fronte a noi, e continuò a parlare: — Anch’io avevo una Puff Adder, ma pompando con le mani in quella maniera non si riesce ad avere l’accelerazione…

— Sicuro che si può, Roger, basta darci dentro — lo interruppi. — E poi: per metà del tempo uno è bloccato in mezzo al traffico, no? Per cui una mano è più che sufficiente per la propulsione. L’altra è libera per fare segnali, o cose del genere.

— Segnali? — ripeté lui fissandomi. — Ma da quanto tempo guidi, Tenny? — La Capo Ufficio Codici, seduta accanto a Mitzi, si sporse in avanti e disse: — Dovreste provare una Viper, superleggera, a trazione diretta. Nessun pedale: basta spingere coi piedi a terra. Più semplice di così!

Roger la guardò con sufficienza. — Sì, e quando devi frenare? Uno si può rompere una gamba in un arresto di emergenza. No, no: pedali e trasmissione a catena, è l’unico modo per… — Cambiò espressione. — Arrivano — mormorò, e si voltò, mentre entravano i pezzi grossi.

L’ambasciatore è davvero un uomo imponente: addetto ai media, sulla Terra, con capelli ondulati sale-e-pepe, la faccia espressiva, dalla carnagione scura. Non era della mia Agenzia, perché quelle più grosse facevano a turno a nominare i gran capi, e non era il nostro turno; ma quanto a professionalità, aveva tutto il mio rispetto. E sapeva come condurre una riunione. Il primo a riferire fu l’Addetto Politico, assillato da un’ennesima crisi. — Abbiamo ricevuto un’altra nota dai Venusiani — disse torcendosi le mani. — A proposito di Hyperion. Ci accusano di violazione dei diritti umani, perché non permettiamo ai minatori di gas di scegliere liberamente i loro mezzi di comunicazione. Sapete cosa vuol dire questo.

Lo sapevamo, e si sentirono mormorii nella sala: «Che coraggio!» «Tipica arroganza venusiana!» I minatori di elio-3 della luna di Saturno raggiungevano le cinquemila unità, e come mercato contavano quasi zero. Ma era una questione di principio fornire loro un’adeguata dose di pubblicità. Una Venere nel sistema solare era abbastanza.

L’ambasciatore non volle neppure sentirne parlare. — Respingete la nota — disse seccamente. — Non sono affari che li riguardino, e voi non avreste neppure dovuto lasciarvela consegnare, Howard.

— Ma come facevo a saperlo prima di leggerla? — disse lamentosamente l’Ufficiale Politico, e l’ambasciatore gli gettò un’occhiata che voleva dire: «Ne parliamo dopo», prima di sorridere.

— Come voi tutti sapete — disse, — la nave terrestre è in orbita da dieci giorni, e dovrebbe mandar giù la navetta da un momento all’altro. Mi sono messo in contatto con il capitano, e ci sono una buona notizia e una cattiva. La buona notizia è che hanno molta roba per noi: una troupe di ballerine esotiche, specializzate in disco e Black Bottom, come scambio culturale. Mitzi, voi vi occuperete di loro, naturalmente. Hanno anche dieci tonnellate di rifornimenti: Caffeissimo, Manzovero, nastri con gli ultimi spot, tutte le belle cose che aspettavate! — Espressioni di gioia e soddisfazione generali. Colsi l’occasione per prendere la mano di Mitzi, e lei non la ritrasse. L’ambasciatore continuò: — Questa è la buona notizia. La cattiva è che, come tutti sapete, quando la navetta ripartirà porterà con sé uno dei membri più amati della nostra grande famiglia. Gli diremo addio in maniera migliore la sera prima che ci lasci… ma nel frattempo, Tennison Tarb, volete alzarvi in maniera che possiamo dimostrarvi quanto ci mancherete?

Be’, non me l’aspettavo. Fu uno dei grandi momenti della mia vita. Non c’è nessun applauso paragonabile a quello dei propri pari, e questo scrosciò senza freni… perfino Hay Lopez applaudiva, anche se con aria corrucciata.

Non so cosa dissi, ma quando ebbi finito e tornai a sedermi, scoprii con sorpresa di non dover allungare la mano per prendere quella di Mitzi. Ci pensò lei.

Ancora al settimo cielo, mi chinai per sussurrarle all’orecchio che avevo rifilato il viaggio alla Colonia Penale a Hay, e così potevamo avere la stanza tutta per noi quella notte. Non riuscii a dirlo. Lei scosse la testa con un sorriso, indicandomi che l’ambasciatore aveva portato con sé i nuovi spot nella valigia diplomatica, e restammo tutti a guardarli in religioso silenzio.

Non riuscii mai a dirlo. Rimasi seduto, felice e con la testa fra le nuvole, un braccio sulle spalle di Mitzi, e non mi preoccupai minimamente che Hay Lopez ci guardasse con aria cupa e offesa… non fino a quando si avvicinò all’ambasciatore, appena finiti i filmati, e gli sussurrò qualcosa nell’orecchio. E a questo punto ormai era troppo tari. Quel figlio di puttana ci aveva pensato su. Non appena le luci si riaccesero si avvicinò, tutto sorrisi e strette di mano, e io sapevo già cosa stava per dire. — Accidenti, Tenny, c’è un maledetto guaio. Non posso più andare alla CPP al tuo posto. C’è una riunione con l’ambasciatore domani… Sono sicuro che capirai. Una maledetta seccatura, adesso che sei arrivato alla fine…

Non ascoltai il resto. Aveva ragione. Era una maledetta seccatura. E capivo. Lo capii meglio ancora quella notte, mentre cercavo di trovare una sistemazione comoda sullo schienale duro del volo supersonico diretto alla Colonia Penale Polare. Sarebbe stato molto più facile per me mettermi comodo, se non fossi stato così sicuro di sapere in quale letto si stava mettendo comodo Hay Lopez.

2

Alle otto in punto della mattina seguente ero seduto nella sala riunioni della prigione, di fronte al burocrate venusiano addetto all’Immigrazione e Controllo Passaporti. — Piacere di rivedervi, Tarb — disse senza sorridere.

— Il piacere è mio, Harriman — risposi. Nessuno di noi due diceva sul serio. Ci eravamo seduti l’uno di fronte all’altro ogni due o tre mesi, ogni volta che una nave prigione arrivava dalla Terra, per quattro anni, e sapevamo che non c’era niente di piacevole da aspettarsi.

La Colonia Penale Polare non era esattamente «polare», anche se si trovava sui monti Akna, circa dove avrebbe dovuto trovarsi il circolo polare artico, se Venere ne avesse avuto uno. Naturalmente non c’era niente di «artico». Non c’era neppure una grande differenza di temperatura rispetto al resto del pianeta, ma suppongo che le prime missioni esplorative dell’Agenzia si fossero illuse che ci fosse. Altrimenti perché rivendicare la proprietà di una delle zone meno desiderabili di Venere? Era proprietà terrestre, stabilita precariamente prima che i coloni venusiani fossero abbastanza forti da farci qualcosa, e mantenuta per abitudine, come i quartieri stranieri a Shanghai prima della ribellione dei Boxer. In quel momento ci trovavamo su territorio venusiano, in uno dei pochi edifici non sotterranei nel perimetro della Colonia. I Venusiani avevano tetti rigidi sulle valli. I prigionieri (noi li chiamavamo grek) vivevano nelle caverne. L’intera Colonia Penale era fuori dalle finestre, ma non si vedeva. Anche qui, dal momento che la roccia venusiana, friabile come se fosse stata cotta in una fornace, era facile da scavare, la prigione era stata scavata.

— Devo avvertirvi, Tarb — disse sorridendo, ma il tono non prometteva niente di buono, — che ho ricevuto diverse critiche dopo il nostro ultimo incontro. Dicono che sono stato troppo accomodante. Non credo che questa volta ci saranno molti compromessi.

Risposi immediatamente alla manovra. — Strano che diciate questo, Harriman, perché è capitata la stessa cosa a me. L’ambasciatore si è arrabbiato moltissimo perché vi ho lasciato prendere quei due truffatori. — In effetti l’ambasciatore non mi aveva detto una parola, ma se è per questo, neppure i capi di Harriman avevano detto qualcosa. Fece un cenno con la testa, accettando la fine del primo round a punti pari.

Harriman era un osso duro, infido e subdolo. E anch’io. Sapevamo entrambi che l’altro era lì per ottenere delle vittorie, solo che le vittorie migliori si ottenevano quando l’altro non si accorgeva cosa aveva perso. La Terra aveva vuotato le sue prigioni, scaricando qui il peggio della sua feccia. Assassini, violentatori, falsificatori di carte di credito, non erano certo i peggiori. Oppure sì, a seconda dei punti di vista. Il rapinatore occasionale non ci interessava, per esempio: costava troppo mantenerlo e farlo stare buono. E neppure lo volevano i Venusiani. Quelli che volevano i Venusiani, da ogni contingente di prigionieri, erano i traditori più vili. Conservazionisti. Truffatori condannati per rottura di contratto. Attivisti antipropaganda, quelli che deturpano i manifesti e mandano in corto circuito gli ologrammi. Volevano trasformarli in cittadini venusiani. Noi non volevamo lasciarglieli. Erano quelli che una volta venivano sottoposti a lobotomia cerebrale, e qualche volta lo facciamo ancora. Ma se erano tanto fortunati da trovare un giudice dal cuore tenero, che lasciava che se la cavassero con cinque o dieci anni di CPP, la nostra idea era che li dovessero scontare tutti. Quella gente si meritava la pena! Lasciarli andar liberi fra la popolazione venusiana non era una condanna. In pratica, si riduceva tutto a un mercato delle vacche. Entrambi cedevamo un po’, entrambi guadagnavamo un po’; l’arte della trattativa consisteva nel «dare» con riluttanza qualcosa che in realtà si desiderava ardentemente che l’altro si prendesse.

Toccai il tasto del display e scorsi i primi sei nomi. — Moskowicz, McCastry, Bliven, la famiglia Farnell. Immagino che li vogliate, ma non potrete averli prima che abbiano scontato almeno sei mesi a regime duro.

— Tre mesi — propose lui. Erano tutti segnati CC: Conservazionisti Criminali, ovvero il tipo di gente che i Venusiani accoglievano a braccia aperte.

Dissi deciso: — Sei mesi, e dovrei chiedere un anno. Sulla Terra sono i criminali peggiori, e hanno bisogno di una lezione.

Lui alzò le spalle, senza nascondere l’antipatia. — E quello che segue, Hamid?

— È il peggiore di tutti — dichiarai. — Non potete averlo. È stato condannato per furto di carte di credito, e per di più è un Indietrista.

Lui si tese sentendo l’epiteto spregiativo, ma esaminò il dossier. — Hamid non è stato accusato di Conservazionismo — osservò.

— Be’, no. Non siamo riusciti ad ottenere una confessione. — Sorrisi e con aria di confidenza aggiunsi: — Non avevamo neppure testimoni oculari, perché mi dicono che tutta la sua cellula è stata individuata e liquidata anni fa, e lui non è più riuscito a riprendere i contatti. Ci sono anche degli indizi che «Hamid» non sia il suo vero nome… i tecnici pensano che il tatuaggio del Codice Sociale sia stato alterato.

— Non l’avete incriminato, per questo — disse Harriman pensierosamente.

— Non c’era bisogno. E neanche di contestargli l’accusa di Conservazionismo: ce n’era abbastanza del furto delle carte di credito. E adesso — aggiunsi subito, — cosa ne dite di questi tre? Sono tutti simulatori di infermità, non è un reato molto grave… potrei cederveli subito, se volete prenderli…

Se c’è una cosa che i Venusiani odiano è trovarsi in una posizione in cui i loro «ideali» dicono una cosa, e il loro buon senso un’altra. Harriman arrossì e rimase incerto. In teoria i responsabili di truffa ai danni del Servizio Medico erano candidati ideali alla cittadinanza venusiana. Ma erano anche vecchi, e quindi inadatti per quella che dopo tutto era ancora una vita piuttosto dura. Gli fece dimenticare Hamid, come avevo sperato.

Quattro ore più tardi arrivammo alla fine della lista. Gli avevo dato quattordici grek, sei subito e gli altri entro qualche mese. Lui ne aveva rifiutati due e io me ne ero tenuti una ventina. Non avevamo ancora sistemato Hamid. Lui guardò le sue note. — Sono stato incaricato — disse, — di informarvi che il mio governo non è soddisfatto per come applicate il protocollo del ’53, che ci dà il diritto di ispezionare la prigione una volta all’anno.

Reciprocamente le parti si erano accordate, con gran spreco di generosità, a permettere all’altra di ispezionare tutte le istituzioni penali, di correzione e di riabilitazione, per controllare che venissero rispettati gli standard umanitari. Figuriamoci! Il loro «centro di restrizione» di Xeng Wangbo si trovava nel mezzo dell’Anti-Oasi equatoriale, e a nessun diplomatico terrestre era mai stato permesso di avvicinarsi. Naturalmente, anche quello che facevamo noi all’interno della CPP non erano affari loro. La legge venusiana prescriveva che ogni grek disponesse di una sua cuccetta e di un minimo di due metri cubi di spazio. E questa sarebbe una punizione? Ci sono un sacco di fedeli consumatori, sulla Terra, che non hanno mai visto tanto spazio in vita loro. Ma non serviva a niente discuterne. Gli ispettori venusiani avevano insistito che costruissimo con tutto quello spazio, ma non appena la prigione era stata terminata, il direttore aveva chiuso un paio di bracci, e avevano raddoppiato il numero di prigionieri per cella.

— É una questione di diritti umani fondamentali — scattò lui. Non mi preoccupai di rispondere: gli risi in faccia. Non era necessario che gli ricordassi Xeng Wangbo. — E va bene — ringhiò, — cosa mi dite dei comunicati commerciali, allora? Parecchi detenuti dopo essere stati liberati hanno testimoniato che ci sono state violazioni!

Sospirai. La stessa discussione, ogni volta. Dissi: — Secondo l’articolo 6-c del Protocollo, un annuncio commerciale viene definito «offerta di beni e servizi mirante a convincere l’acquirente». Ma non c’è nessuna offerta, no? Voglio dire che non si può offrire qualcosa che non è possibile acquistare, e i grek non potranno mai avere quelle cose. Fa parte della loro pena. — Il resto della pena, era che venivano bombardati in continuazione di pubblicità per cose che non potevano avere. Ma anche questi non erano affari loro.

Il lampo negli occhi di Harriman mi avvertì che ero caduto in una trappola. — Naturalmente — cercai di rimediare, — ci possono essere delle piccolissime eccezioni che non vale neppure la pena di…

— Eccezioni! — disse lui gongolando. — Sì, Tarb, ci sono proprio diverse eccezioni. Abbiamo testimonianze giurate da parte di non meno di otto ex detenuti, secondo cui i prigionieri sono stati spinti dagli annunci pubblicitari a scrivere alle loro famiglie e amici sulla Terra per farsi mandare alcuni dei prodotti pubblicizzati! In particolare abbiamo le prove che confezioni di Caffeissimo, Mokie-Koke, Starrzelius e caramelle Nick-O-Tin sono state infilate in pacchi della Croce Rossa…

Ormai non c’era più niente da fare: abbandonai ogni speranza di prendere il volo della sera, perché sapevo che ne avremmo avuto fin dopo mezzanotte.

E così fu, fra continue consultazioni di «note di chiarimento», «dichiarazioni di principio», «emendamenti senza pregiudizio». Sapevo che Harriman non faceva sul serio. Stava cercando solo di assicurarsi una posizione di forza per ottenere quello che veramente voleva. Ma contrattò con tenacia, finché non gli offrii di cancellare tutti i pacchi della Croce Rossa destinati ai grek, se questo poteva servire a farlo felice. Be’, evidentemente non voleva una cosa del genere, così mi offrì un compromesso. Avrebbe lasciato cadere il problema dei comunicati commerciali, in cambio di un anticipo nella liberazione per alcuni dei suoi grek favoriti.

Così lo fregai: dieci giorni in meno per Moskowicz, McCastry; Bliven, la famiglia Farnell… e Hamid. Come avevo avuto in mente fin dall’inizio.

Harriman era tutto sorrisi e ospitalità, una volta che gli ebbi dato quello che voleva. Insistette perché dormissi nell’appartamentino che aveva alla città Polare. Dormii male, avendo rifiutato la sua offerta di un bicchierino o due: non volevo correre il rischio di lasciarmi sfuggire delle informazioni. E poi continuavo a svegliarmi con quella terribile sensazione di agorafobia che viene quando uno si trova in un posto troppo grande. Maledetti Venusiani! Devono conquistarsi coi denti ogni metro cubo di spazio, eppure Harriman aveva tre stanze intere! E in un appartamento che usava non più di dieci volte all’anno! Così la mattina dopo mi alzai presto, e per le sei ero in fila all’aeroporto per il controllo dei biglietti. Davanti a me c’era un ragazzino venusiano, con una di quelle magliette «patriottiche» con scritto Imbroglioni, go home sul davanti e ABBASSO P*BBL*C*T* sulla schiena… come se «pubblicità» fosse una parolaccia! Non gli diedi la soddisfazione di guardarlo, e mi voltai. Alle mie spalle c’era una negra, piccola ed esile, dall’aria vagamente familiare. — Salve signor Tarb — disse cortesemente, e scoprii chi era: un’ispettrice dei vigili del fuoco o qualcosa del genere. Era venuta a controllare l’ambasciata un paio di volte.

Quando salimmo sull’aereo, saltò fuori che aveva il posto accanto al mio. Avevo pensato subito che fosse una spia: chiunque entrava nell’ambasciata, per qualsiasi ragione, avrebbe probabilmente compilato un rapporto su quello che aveva visto. Ma fu sorprendentemente aperta e amichevole. Non assomigliava per niente alla tipica fanatica venusiana. Non parlò di politica. Mi parlò di una cosa che mi interessava molto di più: Mitzi. Ci aveva visto insieme nell’ambasciata, e aveva immaginato che fossimo amanti (e allora era proprio così!), e disse tutte le cose giuste su di lei: bella, intelligente, energica.

Avevo avuto l’intenzione di dormire, durante il viaggio, ma la conversazione era così piacevole che passai tutto il tempo a chiacchierare. Prima dell’atterraggio avevo cominciato a raccontarle dei miei sogni, delle mie speranze. Del fatto che stavo per tornare sulla Terra. Che avrei voluto che Mitzi tornasse con me, ma lei era decisa a rimanere. Che sognavo una relazione a lungo termine… magari perfino il matrimonio. Una casa a New York, magari fuori, verso La Foresta Protetta di Milford… magari un bambino o due… Fu una cosa strana. Più parlavo, più lei diventava triste e pensierosa.

Ma io ero già abbastanza triste per conto mio, perché non riuscivo a credere che quei sogni potessero avverarsi.

3

Ma le cose cominciarono ad apparirmi in una luce migliore non appena arrivai all’ambasciata. Per prima cosa incontrai Hay Lopez che usciva dal gabinetto degli uomini… cioè quasi sicuramente dal nascondiglio di Mitzi. Non disse niente: si limitò a grugnire passandomi accanto. L’espressione cupa e irritata sulla sua faccia era proprio quello che avevo sperato di vedere.

E quando, facendo scorrere l’acqua del water, aprii la porta segreta ed entrai nella Sala di Guerra, l’espressione sulla faccia di Mitzi era altrettanto promettente. Batteva rabbiosamente sui tasti dell’archivio, nervosa e irritata. Qualunque cosa fosse successa in quelle due notti in cui ero stato via, non era stato un idillio. — Gli ho rifilato Hamid — le dissi soddisfatto, e mi chinai a baciarla. Nessun problema! Neppure entusiasmo, ma rispose al mio bacio, tiepidamente.

— Ne ero certa, Tenny — disse lei con un sospirò, e le linee corrucciate cominciarono a distendersi; non erano indirizzate a me. — Quando potrà venire a rapporto?

— Be’, non gli ho parlato di persona, naturalmente. Sarà fuori fra dieci giorni, sulla parola. Direi due settimane al massimo.

Mitzi parve alquanto soddisfatta. Scrisse un appunto, poi spinse indietro la sedia, fissando il vuoto. — Due settimane — disse pensierosamente. — Peccato che non l’abbiamo avuto qui il giorno del Lutto Nazionale. Avrebbe potuto sentire un sacco di cose in mezzo alla folla. Comunque ci sono altre occasioni in arrivo. Il mese prossimo avranno un’altra delle loro elezioni, ci saranno riunioni politiche di ogni genere…

Le appoggiai le dita sulle labbra. — Quello che è in arrivo — dissi, — domani sera, è la mia festa di addio. Posso invitarti?

Mi rivolse un vero sorriso. — Alla tua festa? Naturalmente.

— E perché non ti prendi una giornata di libertà, domani, per fare qualcosa insieme?

Di nuovo l’ombra del corruccio sulla fronte. — Be’, ho un sacco di cose da fare, Tenn…

Colsi l’occasione al volo. — Ma non con Hay Lopez, giusto?

I solchi fra gli occhi si approfondirono, furiosamente. — Neanche morta! — sibilò. — Nessuno può trattarmi in quella maniera… credere che io sia di sua proprietà!

Mantenni un’espressione blanda e comprensiva, ma dentro di me sorridevo da un orecchio all’altro. — Che facciamo domani, allora?

— E va bene, perché no? Magari potremmo… non so… andare sulle Colline Russe. Qualcosa faremo. — Mi sfiorò la guancia con un bacio. — Se domani voglio prendermi una giornata libera, dovrò lavorare sodo oggi, Tenny… perciò sparisci, d’accordo? — Ma lo disse con affetto.


Con mia grande sorpresa, aveva parlato sul serio a proposito della gita alla vecchia sonda russa. L’accontentai. Immagino che mi sarebbe mancato qualcosa, in un certo senso, se me ne fossi andato da Venere senza vedere uno dei suoi monumenti più famosi. Uscimmo dall’ambasciata resto, e prendemmo un taxi elettrico fino alla stazione dei tram, prima che le strade si riempissero di traffico.

Attorno alle loro città più grandi i Venusiani sono riusciti a far crescere erba, cespugli, perfino alcune cose striminzite che loro chiamano alberi. Naturalmente sono state manipolate geneticamente, ma ogni tanto mostrano un po’ di verde. Le Colline Russe invece non sono state cambiate per niente. Di proposito.

Volete avere un’idea di quanto sono matti i Venusiani? Vi racconto un piccolo aneddoto. Bene, hanno un intero pianeta, cinque volte la superficie delle terre emerse della Terra, perché non ci sono oceani. Per poterlo trasformare in un posto decente e farci crescere qualcosa di verde si sono spaccati a schiena per quarant’anni e più. È una cosa maledettamente difficile, perché Venere è quello che è. Le piante se la vedono brutta. Per prima cosa, non c’è abbastanza luce; secondo, non esiste quasi acqua; terzo, fa troppo caldo. Così perché qualcosa cresca ci vogliono un sacco di trucchi tecnologici e un enorme sforzo. Per prima cosa bisogna piazzare diverse cariche atomiche in qualche faglia tettonica per aprire uno sfogo ai vulcani: questo serve a portare in superficie i vapori d’acqua contenuti nel nucleo del pianeta (è così che la Terra ha avuto la sua acqua, miliardi di anni fa, dicono). Secondo, bisogna incappucciare i vulcani per catturare il vapore. Terzo, bisogna trovare qualcosa di abbastanza freddo per condensare il vapore; questa cosa è l’estremità fredda dei tubi di Hilsch: se ne vedono sulle cime delle montagne, dappertutto su Venere; sono specie di pifferi con un solo buco: l’estremità calda espelle gas attraverso l’atmosfera, disperdendoli nello spazio, quella fredda serve a raffreddare le città, generando nel processo un po’ di elettricità. Quarto, devono far arrivare quel poco d’acqua nelle zone di cultura, e devono farlo sotto terra, per evitare che evapori di nuovo dopo aver percorso i primi tre metri. Quinto, sono necessarie piante geneticamente adattate, che possano assorbire quell’acqua negli steli e nelle foglie prima che evapori. È un miracolo che ci riescano, considerato specialmente che non hanno molta forza lavoro da sprecare per grossi progetti. Ci sono solo ottocentomila Venusiani circa, in tutto.

Eppure, e questa è la cosa assurda, se prendete il tram fino alle Colline Russe, la prima cosa che vedrete nel parco sarà una squadra di sei uomini che lavora ventiquattr’ore su ventiquattro, arrampicata su quelle rocce aguzze, con bidoni da cinquanta chili di diserbante sulla schiena, intenti a estirpare ogni cosa verde!

Matti? Certo che sono matti. È la pazzia conservazionista portata alle estreme conseguenze: vogliono mantenere la zona intorno a Venera nelle esatte condizioni in cui era quando la sonda è atterrata. Ma in effetti non c’è da sorprendersi. — Se i Venusiani non fossero matti, se ne sarebbero restati sulla Terra fin dall’inizio — dissi a Mitzi mentre viaggiavamo sul tram sferragliante. — Guarda in che razza di porcili vivono! — Stavamo attraversando i sobborghi della città. Era una zona residenziale di alta classe, eppure si vedevano dappertutto erbacce e case di plastica pressata; non avevano nemmeno l’Astro-Erba!

Mi venne in mente che forse parlavo a voce un po’ alta. Gli altri passeggeri, tutti Venusiani, si erano voltati a guardarmi. Non c’era da stare molto allegri. I Venusiani sono quasi tutti grandi e grossi, più alti ancora di Mitzi, di solito, e sembrano orgogliosi della loro pelle bianca come la pancia di un pesce. Naturalmente non prendono mai il sole. Però potrebbero usare lampade ultraviolette, come facciamo tutti noi, compresa Mitzi, che non ne avrebbe bisogno con la pelle che ha.

— Sta’ attento a quello che dici — mormorò Mitzi nervosamente. La famiglia seduta di fronte a noi, padre, madre e quattro (sì, ho detto quattro!) bambini, si voltò a guardarci, con espressione poco amichevole. Noi non siamo molto simpatici ai Venusiani. Ci credono degli imbroglioni, venuti a derubarli. C’è da ridere, perché non hanno niente che valga la pena di rubare. Se ci interessiamo dei loro affari, è per il loro bene. Solo che loro non sono abbastanza intelligenti per capirlo.

Per fortuna eravamo entrati nel tunnel che attraversa l’anello di montagne attorno alle Colline Russe. Tutti si prepararono a scendere. Mentre stavo per alzarmi, Mitzi mi diede una gomitata, e vidi un Venusiano grande e grosso, con gli occhi verdi, i capelli rossi e quell’orribile pelle biancastra, che mi guardava storto. Seguendo il muto consiglio di Mitzi, rivolsi al Venusiano un gran sorriso che voleva dire: scusatemi tanto per la mancanza di tatto, e scesi dopo di lui. Mentre compravo una guida, Mitzi ferma vicino a me guardò allontanarsi l’uomo con la testa-semaforo. — Guarda qui — dissi aprendo la guida, ma Mitzi non mi stava ascoltando.

— Sai — disse, — credo di averlo già visto. L’altro ieri. Alla dimostrazione.

— Andiamo, Mitzi! C’erano cinquecento dimostranti. — E forse erano stati anche di più. Avrei giurato che mezza Venere si fosse raccolta fuori dall’ambasciata, con quei loro stupidi cartelli: «Abbasso la pubblicità!» e «Riportatevi a casa la vostra spazzatura!». Non che mi importasse molto delle manifestazioni, ma… che patetico dilettantismo in quegli slogan! — Sono matti — dissi, volendo intendere non che erano matti perché pensavano che noi volessimo usare con loro le nostre tecniche pubblicitarie, ma perché la cosa li sconvolgeva… come se ci fosse la minima possibilità che, alla prima occasione, non l’avremmo fatto.

Con «matti» mi riferivo anche alla loro incompetenza come inventori di slogan, ed era quello che volevo mostrare a Mitzi. Mi guardai intorno, nella rumorosa stazione. Una vettura stava sferragliando sullo smistamento per Port Kathy. Nessun Venusiano poteva sentirci. — Guarda qui — dissi aprendo la guida alla pagina intitolata Servizi. C’era scritto:


Se per qualche ragione non desiderate portarvi da casa i generi di ristoro, nella visita alle Colline Russe, potrete acquistare hamburger, hot-dog e panini alla soia nel chiosco della Sala di Venera. Sono controllati dal Servizio Medico Planetario, ma la qualità è mediocre. È possibile anche acquistare birra e altre bevande, ad un prezzo circa doppio che in città.


— Penoso — grugnii.

Lei disse con aria assente: — Be’, almeno sono onesti.

Alzai le sopracciglia. Cosa c’entrava l’onestà con la promozione di un prodotto? E un posto del genere era una manna per un pubblicitario! Primo: avevano una clientela obbligata. Secondo: avevano un argomento attorno a cui sviluppare gli slogan. Terzo, e più importante di tutti, avevano clienti di umore vacanziero, pronti a comprare tutto ciò che fosse in vendita! Bastava che chiamassero gli hot-dog «Wurstel Odessa», e gli hamburger «Polpetta Komsomol», per dare ai consumatori una scusa per comprare. E invece facevano di tutto per dissuaderli! I consumatori non si aspettano di ottenere quello che la pubblicità promette. Vogliono solo un attimo fuggevole di speranza, prima che il materasso «Supermorbido Sognidoro» gli infili una molla nel sedere, e l’«Elisir di Frutti Tropicali, Fresco come la Natura» lasci in bocca il suo sapore di catrame. — Bene — dissi — visto che ci siamo, andiamo a dare un’occhiata alla loro maledetta sonda spaziale.


Venere faceva schifo fin dall’inizio. L’aria era velenosa, e ce n’era troppa, per cui la pressione era spaventosa. La temperatura faceva bollire tutto ciò che poteva bollire. Non cresceva nulla di cui valesse la pena di parlare quando la prima nave terrestre atterrò, e cinquant’anni di colonizzazione non avevano migliorato le cose: le avevano rese soltanto infinitesimalmente meno spaventose. I tentativi venusiani di trasformare l’atmosfera in qualcosa di respirabile non erano cessati, anzi, erano arrivati al punto che in certi posti si poteva uscire senza una tuta pressurizzata… anche se bisognava portarsi una bombola sulla schiena, perché l’ossigeno è scarsissimo.

Quella parte, che loro chiamavano «parco planetario di Venera-Colline Russe» (così diceva il cartello alla fermata del tram), non era molto peggio del resto, per quanto i conservazionisti si dessero grandi pacche sulle spalle l’uno con l’altro per avere conservato la sua «incontaminata natura selvaggia». Guardai il «parco» dalla finestra, senza provare il minimo desiderio di andarci più vicino.

— Andiamo, Tenn — disse Mitzi.

— Sei sicura di volerlo fare? — Era già abbastanza brutto nella stazione, con il fracasso delle vetture e i Venusiani con i loro ragazzini vocianti. Uscire dalla porta significava passare a un livello superiore di disgusto. Avremmo dovuto caricarci sulle spalle le bombole di ossigeno, e respirare l’aria attraverso i tubi, e sopportare un calore superiore a quello dei forni che i Venusiani chiamano «città». — Forse prima faremmo meglio a mangiare qualcosa — dissi, adocchiando il ristorante. Sotto l’intestazione: «Oggi il cuoco consiglia», qualcuno aveva scritto col gesso: Evitate le uova strapazzate.

Andiamo, Tenn! Dici sempre che non sopporti la cucina venusiana. Vado a prendere un paio di respiratori.

Se non hai scelta, devi dire di sì: questo è il motto dei Tarb. Ha sempre funzionato, visto che siamo nel campo pubblicitario dai tempi di Madison Avenue e delle canzoncine della Pepsi-Cola. Così mi misi sulle spalle le maledette bombole, mi infilai m bocca il maledetto tubo, e bofonchiai: — Avanti verso la valle della morte!

Mitzi non rise. Quel giorno era di umore triste… forse perché me ne dovevo andare. Così le misi un braccio attorno alle spalle, e ci avviammo lungo il sentiero che conduceva a Venera.

La sonda spaziale Venera è un guscio di metallo corroso, grande circa come un taxi a pedali, con delle specie di bastoni e di piatti che spuntano qua e là. Non è in buono stato. Ci fu un tempo in cui venne issata sulla cima di un razzo, nella nevosa Tyuratam, e si lanciò fra le fiamme, attraverso centinaia di milioni di chilometri di spazio, per scendere come una meteora nell’aria rovente di Venere. Doveva essere un bello spettacolo, ma naturalmente non c’era nessuno a guardarla. Dopo tutta quella fatica, e le spese, funzionò per un paio d’ore. Abbastanza per inviare sulla Terra qualche dato sulla temperatura e la pressione, e trasmettere qualche foto distorta e sfocata delle rocce su cui si era posata. Questa fu la sua intera carriera. Poi i gas velenosi filtrarono nello scafo, e tutti i circuiti e i meccanismi e i marchingegni si fermarono. Immagino che fosse una bella impresa per quegli antichi tempi pre-tecnologici. Quelle foto grigie e nebbiose fornirono la prima immagine della superficie di Venere che occhio umano avesse mai visto, e quando i Venusiani la ritrovarono, nei primi mesi della colonizzazione, vi aspettereste che celebrassero l’avvenimento come un trionfo, no? E invece no. La ragione per cui i Venusiani fanno tante storie per un pezzo di metallo è un’altra delle loro stranezze. Vedete, in quei tempi antichi i Russi erano Sovietici. Non so bene cosa fossero i Sovietici (me li confondo sempre con gli Scientologi e i Ghibellini), ma so una cosa: non credevano (sentite questa!) nel profitto! Proprio così. Nel profitto. Non credevano nella gente che faceva soldi fabbricando e vendendo cose. E per quel che riguarda l’ancella del profitto, la pubblicità, be’, non ce l’avevano! Lo so che sembra strano, e quando ho studiato la storia, all’università, non riuscivo a crederci, così ho controllato bene. È proprio vero. A parte alcune cosine, come insegne luminose che decantavano la produzione di acciaio, o comunicati televisivi che invitavano gli operai a non ubriacarsi durante le ore di lavoro, la pubblicità proprio non esisteva. Ma con i Venusiani era più o meno lo stesso, ed è per questa ragione che di un paio di tonnellate di rottami ne hanno fatto un santuario. La grossa differenza fra i Venusiani e i Russi è che dopo un po’ quelli si sono fatti furbi, e si sono uniti alla libera confraternita degli amanti del profitto, mentre i Venusiani fanno del loro meglio per andare nella direzione opposta.

Dopo mezz’ora che giravo attorno a Venera ne avevo abbastanza. Il posto era pieno di turisti, e mi ero proprio stufato di ingurgitare aria attraverso una cannuccia da bibite. Così mentre Mitzi era china sulla sonda, con le labbra che si muovevano, mentre cercava di decifrare le scritte in cirillico, allungai una mano verso la valvola di scarico delle bombole e le diedi una giratina. Emise un sibilo acuto mentre il gas usciva, ma io mi misi a tossire, e comunque l’urlo dei tubi di Hilsch, sulle colline attorno, sopraffà tutti i rumori più piccoli. Poi le tirai una manica.

— Che mi venga un accidente, guarda qui! — gridai, e le feci vedere il manometro dell’ossigeno. La lancetta era sul giallo, e sfiorava il settore rosso. Ne avevo fatto uscire un po’ più di quanto volessi. — Quei dannati Venusiani mi hanno venduto un serbatoio mezzo vuoto! Be’ — dissi con aria molto rassegnata, — mi dispiace, ma dovrò tornare alla stazione. E poi è quasi ora di rientrare all’ambasciata.

Mitzi mi diede un’occhiata strana. Non disse niente; si voltò e si avviò lungo la salita che portava alla stazione. Di sicuro aveva controllato il manometro nel comprare le bombole, ma probabilmente non poteva essere sicura di averlo fatto. Per distrarla, sulla via del ritorno, mi levai il tubo dalla bocca e dissi: — Cosa ne dici di bere qualcosa prima di prendere il tram? — È vero che non posso sopportare il cibo venusiano: è colpa dell’anidride carbonica nell’aria, che fa crescere le cose troppo in fretta, e poi i Venusiani mangiano tutto fresco, e uno non ha mai il piacere di sentire. quell’aroma della refrigerazione istantanea. Ma un liquore è un liquore, in qualsiasi parte del sistema solare. E dopo diciotto mesi che uscivo con Mitzi, avevo capito che lei diventava sempre più allegra dopo un paio di bicchierini. Si illuminò subito, e dopo aver riconsegnato le bombole (la convinsi a non protestare per la faccenda dell’ossigeno) ci dirigemmo subito verso le scale.

La stazione dei tram era una tipica costruzione venusiana: sulla Terra non sarebbe mai stata accettata come stazione di terza classe. Niente distributori automatici, giochi, mostre educative di nuovi prodotti e servizi. Era stata scavata nella roccia, e l’unica cosa che avevano fatto per abbellirla un po’, era stato di pitturare le pareti e metterci qualche pianta ornamentale. Da una parte c’era il tunnel della linea tramviaria. Avevano scavato un po’ di spazio per il marciapiede, la sala di attesa e cose del genere. Non avevano voluto rovinare la Bellezza (con la B maiuscola) Naturale (con la N maiuscola) del arco, e perciò avevano nascosto la stazione nelle colline.

La cosa peggiore, pensai all’inizio, era il rumore. Quando arrivava una vettura, in quello spazio dalle pareti riverberanti, sembrava giorno di demolizione in un impianto per il recupero di rottami metallici. Quasi mi passò la voglia di bere, ma non volevo deludere Mitzi. Ma quando ci fummo seduti a un tavolo, scoprii qualcosa ancora peggio del rumore. — Guarda qui — dissi girando il menu per farlo leggere anche a lei. Era un altro esempio della disgustosa «onestà» venusiana:


Tutti i cocktail sono preconfezionati in lattina, e si sente. Il vino rosso sa di tappo, e non è di una buona annata.

Il bianco è un po’ più decente. Se volete mangiare, è meglio scendere al piano di sotto e portarvelo su da soli. Altrimenti pagate $ 2 per il servizio.


Mitzi alzò le spalle. — È il loro pianeta — disse, decisa a divertirsi, e allungò il collo per sbirciare fuori dalla finestra. È questa era un’altra delle loro trovate. Per non rovinare il paesaggio, avevano nascosto le finestre in fenditure della roccia. Dal di fuori forse era una buona idea; ma dall’interno uno non riusciva a vedere niente senza torcere il collo, e a cosa serve una finestra panoramica se non si vede niente?

Sopporta e sorridi! Stavo per andarmene da quel buco, finalmente. Ordinammo il vino bianco, e Mitzi osservò: — Guarda, c’è un elicottero ambulanza vicino al sentiero. Forse qualcuno si è ferito.

— Probabilmente lo tengono lì per quelli che restano senza ossigeno — scherzai, sporgendomi a guardare. L’elicottero era lì da un po’, perché i rotori erano fermi. Due uomini stavano discutendo vicino ad esso. Rimasi un po’ sorpreso nel vedere che uno di questi era l’uomo con i capelli rossi che avevo incontrato sul tram. Ma non tanto, perché non ce ne sono poi molti di Venusiani, e non si può fare a meno di incontrare la stessa persona più volte. Ma quello lì cominciava a darmi sui nervi. — Beviamo — dissi, senza pensarci più, e pagando la cameriera. — Un brindisi! Ai bei giorni passati insieme: passati, presenti e futuri!

— Ah, Tenn — disse Mitzi sollevando il bicchiere. — Lo vorrei tanto. Ma io resto ancora.

Il vino era buono e fresco… cioè no, non era poi così buono, ma almeno era fresco. Pensare a Mitzi che sprecava se stessa per un altro anno e mezzo, come minimo, in quel buco puzzolente di pianeta, me lo faceva andare per traverso. — Dicono che se uno passa troppo tempo con i Venusiani, diventa un Venusiano anche lui. — Non dicevo seriamente… Non del tutto, almeno. E immediatamente lei prese la sua espressione difensiva.

— La mia Agenzia non ha alcuna ragione per essere insoddisfatta del mio lavoro — disse bruscamente. — I Venusiani non sono cattivi! Solo mal consigliati.

— Mal consigliati. — Mi guardai attorno. I tavoli erano di nuda plastica. Non c’era musica di sottofondo, nessun poster pubblicitario a rallegrare le pareti.

— Hanno solo un diverso stile di vita — insistette lei. — Naturalmente a paragone di quello che abbiamo sulla Terra fa pena. Ma l’unica cosa che vogliono, in realtà, è che li lasciamo m pace.

La conversazione aveva preso una piega che non mi piaceva. Qualche volta, parlando con Mitzi quando non era sul lavoro, mi chiedevo se il vecchio detto non fosse vero, nel suo caso. Era su Venere da diciotto mesi. Aveva visitato tutto il pianeta, o quasi, e aveva avuto a che fare con i suoi cittadini peggiori: i rinnegati. Se c’era qualcuno all’ambasciata che avrebbe dovuto essere disgustato da quel posto primitivo, era Mitzi Ku. E invece no. Intendeva chiedere di restare per altri diciotto mesi nel forno. Qualche volta si comportava perfino come se le piacesse! Si raccontava addirittura che andasse a far compere nei negozi venusiani, invece che allo spaccio dell’ambasciata. Io non ci credevo, naturalmente. Però certe volte mi venivano dei dubbi… Comunque quello che diceva era vero: la sua Agenzia, che poi era anche la mia, non poteva trovare niente da dire sul suo lavoro. Il suo incarico ufficiale all’ambasciata era quello di «addetta ai visti», ma il suo vero lavoro era quello di dirigere una rete di spie e sabotatori che andava da Port Kathy alla Colonia Penale Polare. Lo faceva in maniera superba. L’analisi computerizzata diceva che il Prodotto Planetario Lordo venusiano era sceso di un buon tre per cento solo grazie al lavoro di Mitzi.

Eppure diceva cose così strane! Come: — Oh, Tenn, dai loro un po’ di fiducia. Hanno avuto un pianeta in cui non riuscirebbe a sopravvivere neanche un serpente a sonagli dell’Arizona, e in meno di trent’anni l’hanno reso abitabile…

— Abitabile! — sogghignai, gettando un’occhiata verso la finestra.

— Sicuro che è abitabile! Almeno dove l’anno coperto. Naturalmente non è un paradiso dei Mari del Sud, ma hanno fatto un buon lavoro, considerando quello che avevano fra le mani. — Guardò irritata verso una famiglia venusiana che stava cercando di calmare un bambino che piangeva. Poi alzò le spalle. — Oh, sono fastidiosi — ammise. — Ma non sono cattivi. Pensa da dove sono partiti. La metà è venuta qui perché sulla Terra erano dei disadattati, e l’altra metà vi è stata esiliata perché erano criminali.

— Disadattati e criminali, proprio così! La feccia della società! E non è che siano migliorati molto.

Ma non aveva senso passare l’ultimo giorno insieme discutendo di politica. Inghiottii e cambiai argomento. — Alcuni non sono così male — concessi. — Specialmente i bambini. — Qui andavo sul sicuro. Nessuno dice mai male dei bambini, e la piccola peste non aveva ancora smesso di piangere. — Vorrei consolarlo — provai a dire, — ma credo che lo potrei soltanto spaventare… uno sconosciuto che arriva all’improvviso…

— Lascialo piangere — disse Mitzi, guardando fuori dalla finestra.

Sospirai… ma senza farmi sentire. Certe volte mi chiedevo se valeva la pena di tenere dietro agli umori e alle stranezze di Mitzi. Ma il fatto è che ne valeva la pena. La cosa più importante di Mitzi Ku è che era una donna splendida. Aveva quella pelle perfetta, liscia come seta, color miele e mandorla, e per essere di discendenza orientale, una figura molto femminile. Neanche gli occhi erano neri come quelli di tutte le orientali, ma azzurri: qualche strano incrocio fra i suoi antenati, senza dubbio. E aveva denti perfetti, e sapeva quando usarli, con molta delicatezza. Presa nell’insieme, valeva proprio la pena di prenderla.

Così ci riprovai. Le presi la mano, e dissi con sentimento: — C’è qualcosa in quel bambino, tesoro… Lo guardo e penso che noi due un giorno potremmo…

Lei andò su tutte le furie. — Basta così, Tarb!

— Volevo solo dire…

— Lo so cosa volevi dire! Adesso ascolta quello che ti dico io: primo, non mi piacciono i bambini; secondo, non c’è bisogno che mi piacciano, perché non c’è bisogno che ne abbia… ci sono già un sacco di consumatori per mantenere alta la popolazione; terzo, neanche a te interessano i bambini, ti interessa solo quello che si fa per averli, e la risposta è no.

Lasciai perdere. Comunque non era vero. Non del tutto, almeno.


Poi le cose cominciarono a migliorare un po’. Avevo un alleato prezioso nel vino venusiano; anche se non era granché, giocava lo stesso brutti scherzi. E l’altro alleato era Mitzi stessa, perché la logica della situazione la portò alle stesse mie conclusioni: non aveva senso mettersi a litigare quando ci restava così poco tempo.

Prima di finire la bottiglia, mi ero messo vicino a lei. E quando le misi la mano attorno alla vita, fu come ai vecchi tempi, e come ai vecchi tempi lei si appoggiò a me. Usando la mano libera, presi il bicchiere con l’ultimo dito di vino e lo sollevai per un brindisi. — A noi due, Mitzi, e alle poste ultime ore insieme. — Lo sguardo mi cadde su una cameriera che stava sparecchiando i tavoli. Strano, pensai: assomigliava moltissimo alla donna che si era seduta vicino a me durante il volo dal Polo.

Poi me ne dimenticai, perché Mitzi levò il suo bicchiere, sorridendomi al di sopra dell’orlo, e mi restituì il brindisi. — Al nostro ultimo giorno insieme, Tenn, e alla nostra ultima notte.

Un invito più chiaro di questo non l’avevo ancora sentito. Ci alzammo e ci dirigemmo verso le scale che portavano alla stazione, abbracciati l’uno all’altra. Eravamo tutt’e due un po’ alticci, ma diedi lo stesso uno strattone a Mitzi mentre passavamo accanto al tavolo vicino alla porta. Metà dei Venusiani che conoscevo sembravano radunati in quel posto; quello era il vecchio testarossa. Evidentemente aveva risolto la sua discussione vicino all’ambulanza, perché era seduto da solo, facendo finta di leggere il menù. Come se ci volesse più di una decina di secondi! Alzò gli occhi, proprio mentre passavamo. Al diavolo. Non avrei più dovuto vedere quelle facce da citrulli, fra poche ore, così gli sorrisi. Lui non rispose al sorriso.

Non me l’ero neppure aspettato. Così scesi insieme a Mitzi lungo le scale, e dimenticai tutta la faccenda… per un po’.

Mano nella mano, raggiungemmo il tram più vicino in attesa. Mi era sembrato di vedere della gente salirci, ma al momento di entrare un vigile ci raggiunse di corsa. — Spiacente — ansimò, — ma questo è fuori servizio. C’è stato… un guasto. Il prossimo — indicò, — parte dal binario tre fra poco.

Non c’era ancora nessun tram sul binario tre, ma ne vidi uno sul raccordo, appena fuori dal tunnel, un attesa del segnale di via libera.

Per qualche ragione, mi sentivo la testa girare. Il vino, pensai. Mi aveva anche fatto passare la voglia di discutere. Ci voltammo per tornare indietro lungo il marciapiede, ma il vigile ci fece cenno di attraversare i binari. — Di qui fate prima — disse.

Anche Mitzi sembrava un po’ confusa, però chiese: — Non è pericoloso? — e il vigile fece una risatina come per dire: la prossima volta andateci piano con il vino, e ci guardò attraverso i binari. No, non ci guidò. Ci spinse… proprio mentre si sentiva sferragliare alla parte del tunnel. Con la coda dell’occhio vidi il tram che ci veniva addosso, dritto su di noi.

— Salta! — gridai, e — Salta, Tenny! — gridò Mitzi nello stesso istante, e tutti e due saltammo. Io afferrai Mitzi e lei afferrò me, e sarebbe andata benissimo se avessimo saltato nella stessa direzione. Invece sbattemmo l’uno addosso all’altra. Se Mitzi fosse stata più piccola, invece che più alta di me, avrei potuto spingerla via o trascinarla con me. Così finì che io andai da una parte e lei dall’altra. Ma non in tempo. Il tram mi scaraventò sul marciapiede, fra grida, imprecazioni, stridere di freni. Vampate di dolore mi corsero lungo la gamba, mentre strisciavo con le ginocchia sul cemento ruvido. Ad un certo punto diedi una brutta botta con la testa… o il tram la diede a me.

L’istante seguente, la testa e le ginocchia facevano a gara a chi mi faceva più male, e sentivo delle voci…

— …un paio di Terrestri hanno cercato di attraversare i binari…

— …una è morta, l’altro è conciato male…

— Chiamate quel medico!

E qualcuno era chino su di me, baffi rossastri e occhi spalancati, e con mia grande sorpresa era Marty MacLeod, il Vice Capo Stazione.

Non ricordo molto di quello che successe dopo. Solo scene staccate: Marty che insisteva perché venissi portato subito all’ambasciata, il medico che si ostinava a dire che i pazienti messi sull’ambulanza potevano andare solo all’ospedale, qualcuno che sbirciava da dietro le spalle di Marty e diceva: — Accidenti, è l’imbroglione! Ed è ancora vivo! — Quel qualcuno era il solito Venusiano coi capelli rossi.

Poi ricordo i sobbalzi da betoniera dell’elicottero ambulanza, mentre superava le colline attorno al parco, e mi addormentai. Pensando a Mitzi. Pensando a come mi sentivo. Pensando che non si poteva dire esattamente che l’amavo, e certo nulla di quello che mi aveva detto, dentro o fuori dal letto, indicava che lei sentisse qualcosa del genere… ma soprattutto pensando che era davvero triste che fosse morta.

Ma non era morta.

Mi tennero un’ora al pronto soccorso, mi appiccicarono un paio di cerotti e mi fecero una serie di lastre, e quando mi riconsegnarono a Marty, mi dissero che Mitzi aveva nove fratture certe, e almeno sei lesioni interne, rivelate dalla tomografia. Era in sala rianimazione, e ci avrebbero tenuti informati.

Buone notizie! Ma non mi sentii troppo allegro. Perché avevo cominciato a riordinare le idee, e più le riordinavo, più mi convincevo che l’incidente non era stato un incidente.


Devo dare atto a Marty che quando ci trovammo nell’edificio a prova di microfoni-spie dell’ambasciata, ascoltò con attenzione quello che pensavo. — Controlleremo — promise cupamente, — però non possiamo fare niente, fino a quando non abbiamo sentito Mitzi… e per il momento devi dormire. — Non era un suggerimento. E nemmeno un ordine. Era un fatto, perché mi avevano fatto un’iniezione che ormai stava facendo effetto.

Quando mi svegliai ebbi appena il tempo di vestirmi e di scendere per la festa di addio in mio onore.

Questo, in effetti, è tutto uno scherzo. I Venusiani non hanno molte feste nazionali, ma quelle che hanno le celebrano con grande entusiasmo. Per noi la cosa è imbarazzante. Dobbiamo prendere parte ai festeggiamenti, perché lo richiede l’etichetta diplomatica, ma non possiamo neanche festeggiare la maggior parte delle loro ricorrenze: per esempio il Giorno della Liberazione dalla Pubblicità, oppure l’Antinatale. Però dobbiamo pur fare qualcosa, e così per ogni festività troviamo una scusa per festeggiare qualcosa, di completamente diverso naturalmente. C’è sempre qualche scusa. Certe volte vengono preparate ancora prima che il personale arrivi su Venere. Il vecchio Jim Holder, per esempio, della sezione Decifrazione Codici, dicono che sia stato mandato lì perché è nato lo stesso giorno del rinnegato Mitchell Courtenay.

Così, la festa di quella sera doveva celebrare, in teoria, la mia partenza. Tutti quelli che incontrai si congratularono con me perché finalmente potevo andarmene… e solo in secondo luogo, perché non ci avevo lasciato la pelle sotto il tram. Questo i Terrestri; i Venusiani, come al solito, erano tutta un’altra cosa.

Bisogna essere onesti. A loro questi ricevimenti non piacciono più di quanto piacciano a noi. Se sono abbastanza importanti, vengono invitati. Se sono invitati, vengono. Nessuno li obbliga a divertirsi. Sono cortesi. Ragionevolmente cortesi. Se sono donne fanno due balli con due maschi terrestri diversi. Penso che almeno questo non gli dispiaccia, perché sono quasi sempre più alte dei loro partner. La conversazione è quasi sempre la stessa…

— Fa caldo oggi.

— Davvero? Non me n’ero accorta.

— La costruzione del nuovo impianto di Hilsch prosegue bene.

— Grazie.

…quindi il secondo ballo obbligatorio con un diverso partner, e poi, se vi guardate attorno per cercarle (anche se non saprei perché dovreste farlo), sono sparite. I maschi venusiani fanno più o meno la stessa cosa, tranne che si tratta di bere due bicchieri al bar, invece che di ballare, e la conversazione non è sul tempo, ma sulla prossima partita fra il Port Kathy e il North Star nel campionato di hockey. È altrettanto triste quando siamo noi a dover andare a una delle loro feste. Neanche noi ci tratteniamo molto. Mitzi dice che le sue spie riferiscono che le feste venusiane di solito si scatenano dopo che noi ce ne andiamo, ma nessuno insiste mai per farci restare. Le feste all’ambasciata sono strettamente diplomatiche: non si discute di niente di importante, e di sicuro non ci si diverte.

Ma qualche volta le cose vanno diversamente. Il mio primo giro di ballo lo feci con una tipa giovane ed esile del Dipartimento Affari Extraplanetari. Era bianca come un lenzuolo, naturalmente, ma non stonava con i capelli biondo platino. Se non fossi stato così risentito per Mitzi, avrebbe anche potuto piacermi. Ma lei rovinò tutto lo stesso. — Signor Tarb — disse subito, — pensate che sia giusto obbligare i minatori di Hyperion ad ascoltare i vostri sproloqui pubblicitari?

Be’, era molto giovane. I suoi superiori non avrebbero mai detto una cosa del genere. Il guaio era che c’erano i miei superiori nei dintorni, e la conversazione cominciò a peggiorare. Perché le astronavi da guerra terrestri ogni tanto si mettevano in orbita attorno a Venere senza spiegare la loro missione? E perché avevamo rifiutato ai Venusiani il permesso di mandare una missione «scientifica» su Marte? E… tutto il resto era più o meno sullo stesso tono. Le diedi tutte le giuste risposte difensive, ma lei parlava a voce piuttosto alta, e la gente cominciava a guardarci. Hay Lopez era uno di questi; era insieme alla Capo Stazione, e si scambiavano certe occhiate che non mi piacquero. Quando finalmente il ballo finì, mi diressi con sollievo verso il bar.

L’unico posto libero era vicino a Pavel Borkmann, capo di qualche settore dell’Industria Pesante venusiana. L’avevo già incontrato, e potevo sperare in dieci minuti di innocue chiacchiere sul nuovo sbarramento di tubi di Hilsch nell’Anti-Oasi, o suoi progressi della nuova fabbrica di razzi. Ma non funzionò: anche lui aveva sentito qualche brano della mia conversazione con quella degli Affari Extraplanetari. — Non dovreste mettervi a discutere con chi è più grosso di voi — disse sogghignando, riferendosi contemporaneamente alla mia ex partner e alle ferite che mi ero guadagnato finendo addosso al tram. Se avessi avuto un po’ di buon senso, avrei scelto il significato meno pericoloso, e gli avrei raccontato tutto dell’incidente. Ma ero teso, e scelsi la strada sbagliata. — Faceva discorsi campati in aria — mi lamentai, facendo segno che mi portassero un liquore di cui certamente non avevo bisogno.

Ma a quanto pareva anche Borkmann aveva bevuto un bicchiere di troppo, perché si lanciò lungo una strada piena di trappole. — Oh, non so — disse. — Dovete capire che noi liberi Venusiani abbiamo molte obiezioni morali ad obbligare la gente a comprare delle cose… specialmente con il fucile puntato alla gola.

— Non c’è nessun fucile su Hyperion, Borkmann! Lo sapete.

— Non ancora — ammise, — ma non ci sono stati dei casi del genere, proprio sul vostro pianeta?

Mi misi a ridere, con commiserazione. — State parlando degli aborigeni, immagino.

— Sto parlando degli ultimi lembi di Terra non ancora corrotti dalla pubblicità, sì.

Be’, cominciavo ad arrabbiarmi. — Borkmann — dissi, — lo sapete benissimo che non è vero. Abbiamo delle forze di pace, naturalmente. Immagino che alcuni siano armati di fucili, ma sono per protezione. Ho fatto anch’io l’addestramento militare, mentre ero all’università; so di cosa sto parlando. Non vengono mai impiegati in azioni offensive, solo per mantenere l’ordine. Dovete capire che anche fra i popoli il primitivi ci sono un sacco di individui che desiderano i benefici della società di mercato. Naturalmente i vecchi retrogradi resistono. Ma quando gli elementi migliori ci chiedono il loro aiuto, noi gliel’offriamo.

— Già, mandando l’esercito.

— Mandiamo squadre di pubblicitari — lo corressi. — Non c’è costrizione. Non c’è violenza.

— E non c’è speranza — disse facendomi il verso. — L’hanno scoperto nella Nuova Guinea.

— È vero che le cose sono degenerate nella Nuova Guinea — ammisi. — Ma in realtà…

— In realtà — disse lui sbattendo giù il bicchiere, — adesso devo andare, Tarb. Piacere di avervi visto. — E mi lasciò lì furente. Ma come, non era successo proprio niente di terribile in Nuova Guinea! C’erano stati meno di mille morti in tutto. E adesso l’isola faceva fermamente parte del mondo moderno… Avevamo perfino una succursale dell’Agenzia a Papua! Trangugiai il liquore in un sorso solo, e mi voltai… e quasi andai a sbattere contro Hay Lopez, che mi guardava sogghignando. La Capo Stazione si stava allontanando, guardandomi da sopra la spalla. La vidi raggiungere ambasciatore, e mormorargli qualcosa all’orecchio, senza smettere di guardarmi, e mi resi conto che quella si stava rivelando una giornataccia nera. Dal momento che me ne stavo tornando a casa, quelli dell’ambasciata non potevano crearmi grane, ma decisi comunque di comportarmi da buon diplomatico per il resto della serata.

Ma neanche questo funzionò. Sfortuna volle che la seconda partner che mi toccò fosse Berta la Porcona, la Terrestre rinnegata. Avrei dovuto tagliare la corda. Ma avevo ancora le idee confuse, immagino. Mi voltai, e me la trovai di fronte, con l’alito che sapeva di liquore, flaccida e grassa, un’acconciatura enorme che doveva servire a farla sembrare più alta. — È il mio ballo, vero Tenny? — disse ridacchiando.

Mentii con galanteria: — Non vedevo l’ora! — L’unica cosa buona di Berta la Porcona è che, anche coi tacchi alti e l’acconciatura a baldacchino, non riesce a dominarti, come le Venusiane. È l’unica cosa che si possa dire a suo favore. I convertiti sono sempre i peggiori, e Berta, che adesso è vice-direttrice del sistema bibliotecario di Venere, era un tempo Vice-Presidente Anziana del Settore Ricerche dell’Agenzia Taunton, Gatchweiler e Schocken! Aveva abbandonato tutto per emigrare su Venere, e adesso si sente in obbligo di provare, con ogni parola che dice, di essere più Venusiana dei Venusiani. — Bene, signor Tennison Tarb — disse appoggiandosi al mio braccio e osservando il mio occhio pesto, — pare che qualche marito sia tornato prima del previsto.

Solo una battuta innocente? Neanche per sogno! Le battute di Berta la Porcona sono sempre cattive. Ti saluta con un «Quante bugie avete inventato oggi?», e se ne va con: «Be’, non voglio farvi perder tempo: con tutti quei cioccolatini avvelenati che dovete vendere ai bambini…». A noi non è permesso dire cose del genere. Per essere onesti, la maggior parte dei cittadini venusiani non lo fa, ma Berta è il peggior concentrato di due mondi. La nostra politica ufficiale nei confronti di erta è sorridere e non dire niente. È quello che avevo fatto anch’io per tutti quegli anni, ma il troppo è troppo. Dissi…

Be’, non posso giustificare quello che dissi. Per capirlo, dovete sapere che il marito di Berta, quello per il quale lei aveva piantato lavoro e carriera, faceva il pilota sulla rotta Kathy-Discovery, e aveva perso parte della gamba destra, e qualche parte adiacente non specificata, in un incidente, l’anno dopo che si erano sposati. È l’unica cosa su cui sia sensibile. Così le rivolsi un dolcissimo sorriso, e dissi: — Volevo solo dare una mano a Carlos, ma ho sbagliato casa.

Non era una battuta molto divertente. Berta non cercò neanche di rispondermi con un’altra. Spalancò la bocca. Si liberò dalle mie braccia, rimase immobile un istante in mezzo alla pista da ballo, e gridò con tutto il fiato che aveva in gola: — Bastardo! — C’erano lacrime nei suoi occhi… di rabbia, suppongo.

Non ebbi la possibilità di studiare le sue reazioni. Un paio di braccia si chiusero come una morsa attorno alle mie spalle, e la Capo Stazione in persona disse gentilmente: — Posso rubarti Tenny un momento, Berta? Ci sono ancora alcune cosine da sistemare… — Una volta nel corridoio mi squadrò fissandomi negli occhi. — Imbecille! — sibilò. Spruzzi di saliva, come veleno di serpente, mi bruciarono le guance.

Cercai di difendermi. — È stata lei a cominciare! Ha detto…

— Ho sentito quello che ha detto, e tutti quanti hanno sentito quello che hai detto tu! Cristo, Tarb! — Mi aveva lasciato andare le spalle, e adesso aveva l’aria di volermi stringere la gola, invece.

Arretrai. — Pam, lo so di aver sbagliato, ma sono un po’ scosso. Non dimenticarti che hanno cercato di farmi fuori oggi!

— È stato un incidente. L’ambasciata l’ha ufficialmente dichiarato un incidente. Cerca di ricordartelo. È assurdo pensare altrimenti. Perché qualcuno avrebbe voluto ucciderti, quando stai per tornare a casa?

— Non me. Mitzi. Forse qualcuno fra le spie che ha reclutato ha fatto il doppio gioco, e adesso loro sanno quello che lei fa.

Tarb. — Non c’era veleno nella sua voce questa volta, e neppure rabbia. Era solo un gelido avvertimento. Si guardò intorno, per essere sicura che non ci fosse nessuno. Naturalmente non avrei dovuto dire una cosa del genere mentre c’erano dei Venusiani nell’edificio… era la regola Numero Uno. Feci per dire qualcosa, e lei alzò una mano. — Mitsi Ku non è morta — disse. — L’hanno operata. Sono andata io stesso a trovarla in ospedale. Non aveva ripreso conoscenza, ma la prognosi è buona. Se la volevano morta, avrebbero potuto farlo nella sala operatoria, e noi non l’avremmo mai saputo. Non l’hanno fatto.

— Però…

— Tornatene a letto, Tarb. Le tue ferite sono più gravi di quanto pensassimo. — Non mi lasciò il tempo di replicare. Fece un segno verso le camere private. — Subito. Io devo tornare dagli ospiti… ma prima mi fermo in ufficio per aggiungere qualche nota a una scheda personale. La tua. — Rimase lì ferma, guardandomi mentre me ne andavo.

E quella fu l’ultima volta che vidi la Capo Stazione, e praticamente chiunque altro, per un bel pezzo (i due anni circa del viaggio), perché la mattina seguente venni svegliato da due guardie dell’ambasciata, infilato in una macchina, trasportato allo spazioporto e caricato su una navetta. Dopo tre ore ero in orbita. Dopo tre ore e mezzo ero steso nel bozzolo refrigerante, in attesa che il sonnifero facesse effetto e iniziasse il congelamento. La nave non avrebbe acceso i motori prima di altre nove orbite, cioè più di mezza giornata, ma l’ambasciatore aveva dato ordine di mettermi fuori circolazione. E così fecero.

Quando ripresi conoscenza, un esercito di formiche rosse mi stava mangiando vivo. Era quell’insopportabile formicolio che si prova quando si viene scongelati. Ero ancora nel bozzolo; ma indossavo una tuta termica, che mi lasciava scoperti solo gli occhi. Chino su di me c’era qualcuno che conoscevo. — Salve Tenny — disse Mitzi Ku. — Sorpreso di vedermi?

Lo ero. Dissi che lo ero, ma dubito di essere riuscito ad esprimere quanto lo fossi, perché l’ultimo pensiero che ricordavo, appena prima che il vortice del sonno mi rapisse, era di rimpianto per non aver potuto dare l’addio a Mitzi nel suo letto, e perché presumibilmente non mi si sarebbe più presentata un’altra occasione.

Rimasi anche sorpreso per il suo aspetto. Aveva metà della faccia bendata: si vedevano solo il mento e la bocca, e due sottili fessure per gli occhi. Ma era naturale: quando uno è congelato non guarisce. A tutti gli effetti, Mitzi era uscita solo da pochi giorni dalla sala operatoria. — Stai bene? — chiesi.

Disse subito: — Certo che sto bene. Benissimo! Voglio dire — aggiunse, — che probabilmente non starò tutta bene ancora per qualche settimana, ma posso camminare. Come vedi. — Sorrise. Cioè, penso che sorridesse. — Quando i dottori mi hanno detto che potevo lasciare l’ospedale, ho deciso che di Venere non ne volevo più sapere. Così ho stracciato la richiesta di rinnovo dell’incarico, e mi hanno caricato sull’ultima navetta. Sono rimasta scongelata per un po’, finché non hanno potuto togliermi i punti… ed eccomi qui!

Il formicolio era diventato quasi sopportabile. Il mondo d’improvviso mi apparve più allegro, e cominciai a togliermi la tuta termica. Mitzi annuì: — Così va bene, Tenny! Atterriamo sulla Luna fra novanta minuti. È meglio che ti metta i pantaloni!

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