PARTE SECONDA Muad’Dib

Quando mio padre, l’Imperatore Padiscià, ebbe notizia della morte del Duca Leto e delle sue circostanze, s’infuriò come non si era mai infuriato prima. Incolpò mia madre e il complotto che l’aveva costretto a mettere sul trono una Bene Gesserit. Incolpò la Gilda e il vecchio, perfido Barone. Incolpò tutti quelli che gli capitavano davanti, non risparmiando neppure me, poiché urlò che anch’io ero una strega, come tutte le altre. E quando cercai di confortarlo, facendogli osservare che tutto questo era stato fatto in base a una vecchia legge di autoconservazione alla quale anche i più antichi governanti obbedivano, mi schernì e mi chiese se io lo giudicavo un debole. Mi accorsi allora che la sua collera non era stata causata dalla morte del Duca, ma da quello che la sua morte implicava per tutta la nobiltà. Nel ripensare a quei momenti sono convinta che anche mio padre doveva avere una parziale precognizione, poiché è certo che la sua stirpe e quella di Muad’Dib avevano antenati comuni.

da «Nella mia casa paterna», della Principessa Irulan

«Ora, gli Harkonnen uccideranno gli Harkonnen» bisbigliò Paul.

Si era svegliato al cader della notte, e si era alzato nel buio della tenda distillante. Mentre bisbigliava, udì il debole agitarsi di sua madre sul lato opposto della tenda, dove si era distesa a dormire.

Paul gettò uno sguardo al rivelatore di prossimità esaminando i quadranti fosforescenti. «Tra poco sarà notte fonda» disse sua madre. «Perché non alzi gli schermi della tenda?»

Paul si rese conto che da qualche minuto la respirazione di sua madre era diversa. Era rimasta distesa, nell’oscurità, mantenendo il silenzio finché non si era convinta che anche lui era sveglio.

«Alzare gli schermi non servirebbe» replicò Paul. «C’è stata una tempesta. La tenda è coperta di sabbia. Tra poco la toglierò.»

«Ancora nessun segno di Duncan?»

«Niente.»

Sfiorò distrattamente l’anello ducale col sigillo che teneva al pollice, e cominciò a tremare per un improvviso accesso di rabbia contro l’essenza stessa del pianeta che aveva contribuito a uccidere suo padre.

«Ho sentito arrivare la tempesta» disse Jessica.

Queste parole vuote, inutili, l’aiutarono a calmarsi un poco. La sua mente si concentrò sulla tempesta, come l’aveva vista precipitarsi su di loro attraverso la parete trasparente della tenda distillante: vortici di polvere ghiacciata avevano attraversato il bacino, poi fiumi e cateratte di sabbia avevano cancellato il cielo. Stava rissando un pinnacolo roccioso, e questo, investito dal turbine, si era trasformato davanti ai suoi occhi in un cuneo mozzato color giallo sporco. La nube danzava come impazzita, il cielo era diventato rosso cupo, poi la sabbia aveva ricoperto la tenda, tagliandoli fuori da ogni luce esterna.

«Prova un’altra volta col ricevitore» disse Jessica.

«Non serve.»

Cercò il tubo della sua tuta distillante fissato al collo e inghiottì un sorso d’acqua. Paul pensò che in quell’attimo lui diventava realmente un uomo di Arrakis vivendo dell’umidità del proprio corpo, del proprio respiro. L’acqua era insipida, ma gli calmò l’arsura.

Jessica lo sentì bere. Sfiorò con le mani la superficie elastica della tuta distillante che le aderiva al corpo, ma rifiutò di ammettere di essere assetata. Riconoscerlo, avrebbe significato per lei la piena consapevolezza delle terribili necessità di Arrakis, dove ogni infinitesima traccia di umidità doveva essere difesa, accumulando ogni goccia nella tasca di raccolta della tenda, rimpiangendo ogni respiro sprecato all’aria aperta.

Era molto più facile addormentarsi di nuovo.

Ma mentre dormiva, quel giorno, aveva sognato qualcosa al cui ricordo ancora rabbrividiva. Nel sogno lei tuffava le mani nella sabbia sulla quale era scritto un nome: Duca Leto Atreides. La sabbia cancellava il nome e lei tentava di scriverlo ancora, ma la prima lettera era già piena di sabbia quando ancora non aveva finito di tracciare l’ultima.

La sabbia continuava a scivolare.

Il suo sogno divenne un lamento, sempre più alto. Che assurdità! Una parte della sua mente si era resa conto che il sogno era la sua voce di quand’era bambina, quasi ancora in fasce. L’immagine di una donna, che la sua memoria afferrava molto vagamente, si stava allontanando.

La mia sconosciuta madre, pensò Jessica. La Bene Gesserit che mi ha generato e che mi affidò alle Sorelle, come le era stato ordinato. È stato forse un sollievo, per lei, sbarazzarsi così di una figlia degli Harkonnen?

«È nella spezia, dunque, che bisogna colpirli!» esclamò Paul.

Come può pensare ad attaccarli in un momento come questo? pensò Jessica.

«Un intero pianeta pieno di spezia» disse. «Come puoi sperare di colpirli?

Sentì che Paul si muoveva, trascinando lo zaino sul pavimento della tenda.

«Su Caladan» replicò Paul, «era il potere del mare e dell’aria. Qui, è il potere del deserto. E i Fremen ne sono la chiave.»

La sua voce proveniva dall’ingresso a sfintere della tenda. L’addestramento Bene Gesserit rivelò nuovamente a Jessica quel vago tono di amarezza che suo figlio provava nei suoi confronti.

Per tutta la sua vita gli è stato insegnato a odiare gli Harkonnen, pensò. Ora ha scoperto che anche lui è un Harkonnen… per colpa mia. Come mi conosce poco! Io sono stata l’unica donna del mio Duca. Ho accettato la sua vita e i suoi valori, anche se essi sfidavano gli ordini del Bene Gesserit.

Al tocco di Paul il pannello luminoso della tenda si accese, riempiendo il piccolo rifugio di un’intensa luce verde. Paul si accovacciò accanto allo sfintere, il cappuccio della sua tuta distillante regolato per l’uscita nel deserto, stretta la fascia frontale, il filtro al suo posto davanti alla bocca, i tamponi infilati nel naso. Soltanto i suoi occhi scuri erano visibili: una minuscola frazione del suo viso che girò per un attimo verso sua madre.

«Preparati a uscire» le disse. La sua voce era smorzata dal filtro.

Jessica si applicò il filtro alla bocca e sistemò il cappuccio, mentre osservava suo figlio che dissigillava l’entrata della tenda.

Lo sfintere si aprì: con un’intenso stridio la sabbia si rovesciò nella tenda in una nuvola soffocante prima che Paul potesse bloccarla col compressore statico. Ma quando l’azionò, un foro comparve nella muraglia di sabbia e si allargò man mano lo strumento schiacciava i grani gli uni sugli altri. Paul scivolò all’esterno e Jessica ascoltò la sua lenta progressione verso la superficie.

Che cosa troveremo là fuori? si chiese. I soldati Harkonnen e i Sardaukar… questi sono i pericoli che ci aspettiamo. Ma gli altri?

Pensò al compressore statico e agli altri strani strumenti contenuti nel sacco. Nel suo spirito ciascuno di essi corrispondeva a qualche misterioso pericolo.

Una brezza calda, proveniente dalle sabbie della superficie, le sfiorò le guance dov’erano esposte, sopra il filtro.

«Passami lo zaino.» Era la voce di Paul, bassa e prudente.

Obbedì prontamente. Mentre sollevava il pacco dal pavimento, sentì l’acqua gorgogliare nei literjon. Guardò in alto e vide Paul stagliarsi contro le stelle.

«Ecco» disse Paul. Allungò il braccio e afferrò il sacco.

Un istante dopo Jessica vide soltanto un cerchio di stelle. Erano come tante punte aguzze rivolte contro di lei. Una pioggia di meteoriti attraversò quel frammento di cielo, quasi un avvertimento, come i segni lasciati dagli artigli di una tigre, o ferite luminose dalle quali zampillasse il suo sangue. Rabbrividì al pensiero della taglia sulle loro teste.

«Muoviti» disse Paul. «Voglio ripiegare la tenda.»

Un rivolo di sabbia le piovve dalla superficie sulla mano sinistra. Quanta sabbia potrei stringere nel pugno? si chiese.

«Devo aiutarti?» fece Paul.

«No.»

La sua gola era secca, quando s’infilò nel buco. La sabbia compressa le graffiò le mani. Paul l’afferrò per un braccio e la tirò fuori: si trovò accanto a lui, su una striscia di deserto piatto illuminata dalle stelle. Si guardò intorno: la sabbia aveva riempito quasi completamente il bacino in cui si trovavano e ne sporgeva tutto intorno un sottilissimo bordo di roccia. Guardò più lontano, nel buio, sondando la notte con i suoi sensi addestrati.

Un brusio di piccoli animali.

Uccelli.

La sabbia che franava e i deboli tonfi di una creatura dentro di essa. Paul stava sgonfiando la tenda e la spingeva fuori dal buco.

La luce delle stelle dava alla notte una lieve luminosità, sufficiente a creare ombre cariche di minaccia. Jessica aguzzò gli occhi nelle tenebre più profonde.

Le tenebre, pensò. Un ricordo cieco. Aguzzi le orecchie alla ricerca dell’orda selvaggia, delle urla di coloro che hanno dato la caccia ai tuoi antenati in un passato così antico che soltanto le nostre cellule più primitive lo ricordano. Le orecchie vedono, le narici vedono.

Qualche istante dopo Paul la raggiunse: «Duncan mi ha promesso che, se lo avessero catturato, avrebbe potuto resistere… fino ad ora. Dobbiamo fuggire da qui, adesso». Si caricò sulla spalla lo zaino Fremen, attraversò il bacino sabbioso fino all’orlo di roccia e salì su una sporgenza che si protendeva sull’immenso deserto sottostante.

Jessica lo seguì istintivamente, cosciente di vivere ormai nell’orbita di suo figlio.

Poiché ora il mio dolore è più pesante delle sabbie del mare, pensò. Questo mondo mi ha svuotata di tutto, fuorché del più antico degli scopi: la vita di domani. Ora io vivo soltanto per il mio Giovane Duca e per mia figlia che non è ancora nata.

Avanzò faticosamente sulla distesa sabbiosa che sprofondava sotto i suoi piedi, al fianco di Paul.

Suo figlio fissava a nord una lontana barriera rocciosa.

Il profilo di queste rocce assomigliava a un’antica nave da battaglia stagliata contro le stelle. Un’onda invisibile sembrava scandire il risucchio sotto di essa, il ritmico ronzio delle antenne rotanti, le ciminiere ripiegate all’indietro, una torretta a forma di «P» sulla poppa.

Un lampo arancione esplose sopra il profilo roccioso e un’accecante scia purpurea precipitò verso il bagliore.

Un’altra scia purpurea!

E un altro lampo arancione schizzò verso l’alto!

Era come un’antica battaglia navale, il ricordo di un duello di artiglierie. Lo spettacolo li affascinò.

«Colonne di fuoco» mormorò Paul.

Un anello di occhi rossi s’innalzò su quelle rocce lontane. Strisce color porpora s’intrecciavano nel cielo.

«Getti di razzi e scariche laser» disse Jessica.

La prima luna di Arrakis si alzò sull’orizzonte, alla loro sinistra, rossa attraverso un velo di polvere, e alla sua luce videro il sentiero tracciato dalla tempesta: un nastro in movimento sopra il deserto.

«Sono gli ornitotteri degli Harkonnen che ci danno la caccia» disse Paul. «Il modo in cui stanno spazzando il deserto… Vogliono essere sicuri di cancellare qualsiasi cosa vi si trovi… Come noi distruggeremmo un nido d’insetti.»

«O un nido di Atreides» aggiunse Jessica.

«Dobbiamo trovare un rifugio. Dobbiamo dirigerci a sud, al riparo delle rocce. Se dovessero coglierci all’aperto…» Paul si voltò, sistemandosi lo zaino sulle spalle. «Uccidono qualsiasi cosa si muova.»

Fece un passo sulla sporgenza rocciosa e in quell’attimo sentì un sibilo attutito: forme oscure di ornitotteri planavano sopra le loro teste.

Una volta mio padre mi disse che il rispetto per la verità è quasi il fondamento di ogni morale. «Niente esce dal niente» mi disse. Questo è senz’altro un pensiero profondo, quando si pensi fino a qual punto la «verità» può essere instabile.

da «Conversazioni con Muad’Dib», della Principessa Irulan


«Mi sono sempre vantato di vedere le cose come sono realmente» dichiarò Thufir Hawat. «È la maledizione di noi Mentat. Non possiamo mai impedirci di analizzare i dati.»

Il vecchio volto coriaceo appariva calmo e composto nell’oscurità che precedeva l’alba, mentre parlava. Le sue labbra macchiate del sapho erano tese in una linea diritta, da cui s’irradiavano rughe verticali.

Un uomo avvolto in un’ampia tunica era accovacciato sulla sabbia davanti ad Hawat, silenzioso e in apparenza insensibile alle sue parole.

I due si trovavano sotto uno spuntone roccioso rivolto verso un’ampia depressione. La luminosità dell’alba si diffondeva al di sopra delle rocce frastagliate, tingendo di rosa tutto il bacino. Faceva freddo, sotto quello spuntone: un brivido asciutto e penetrante in ricordo della notte appena trascorsa. Poco prima dell’alba vi erano state alcune raffiche di un vento caldo, ma ora faceva freddo. I pochi soldati alle spalle di Hawat, l’ultimo sparuto residuo delle sue forze, battevano i denti.

L’uomo accovacciato davanti a Hawat era un Fremen e li aveva raggiunti alle prime luci dell’alba attraversando il bacino, letteralmente scivolando sulla sabbia, dissimulandosi fra le dune al punto da risultare praticamente invisibile.

Il Fremen tese un dito sulla sabbia e disegnò una figura. Somigliava a una coppa, e ne usciva una freccia. «Vi sono molte pattuglie Harkonnen» disse. Alzò il dito e lo puntò in alto, verso le rocce dalle quali Hawat e i suoi uomini erano discesi.

Hawat annuì.

Molte pattuglie. Sì.

E tuttavia, ancora non sapeva cosa volesse il Fremen. E questo l’insospettiva. L’addestramento Mentat avrebbe dovuto consentirgli di scoprire le sue motivazioni.

Quella notte era stata la peggiore di tutta la vita di Hawat. Quando erano arrivati i primi rapporti sull’attacco si trovava a Timpso, un villaggio di guarnigione, uno degli avamposti della vecchia capitale, Carthag. Sulle prime aveva pensato: È soltanto un’incursione. Gli Harkonnen ci stanno saggiando.

Ma altri rapporti erano giunti, sempre più rapidi.

Due legioni erano sbarcate a Carthag.

Cinque legioni… cinquanta brigate!… attaccavano la base principale del Duca, ad Arrakeen.

Una legione ad Arsunt.

Due gruppi da combattimento alla Roccia Spezzata.

Poi i rapporti si erano fatti più dettagliati: vi erano dei Sardaukar Imperiali fra gli aggressori… forse due legioni. E fu chiaro che gli invasori sapevano in quali punti attaccare. Esattamente. Magnifico spionaggio.

Il furore di Hawat era esploso fin quasi a minacciare le sue capacità di Mentat. La vastità dell’attacco aveva colpito la sua mente con la violenza di un colpo fisico.

Ora si nascondeva dietro uno spuntone di roccia, nel deserto, e scuoteva la testa, tentando invano d’isolarsi dal freddo avvolgendosi nell’uniforme strappata.

La vastità dell’attacco.

Si era convinto che i nemici avrebbero noleggiato un trasporto leggero della Gilda per qualche incursione preliminare. Era un comportamento normale in una guerra fra due Case. I trasporti leggeri atterravano e partivano da Arrakis regolarmente per trasportare la spezia degli Atreides. Hawat aveva preso le sue precauzioni contro le scorrerie compiute da falsi trasporti leggeri. E anche per un attacco in massa non si era mai aspettato più di dieci brigate.

Ma secondo gli ultimi calcoli c’erano più di duemila navi su Arrakis: non soltanto trasporti leggeri, ma anche fregate, ricognitori, corazzate, incrociatori pesanti, trasporti per le truppe e navi da carico…

Più di cento brigate… dieci legioni!

L’intero reddito della spezia di Arrakis, per cinquant’anni, avrebbe pagato a stento un’impresa del genere.

Avrebbe.

Ho sottovalutato quello che il Barone era disposto a spendere per attaccarci, pensò Hawat amaramente. Ho tradito la fiducia del mio Duca.

E c’era poi la traditrice.

Vivrò per vederla strangolata! si disse. Avrei dovuto uccidere quella strega Bene Gesserit quando ne ho avuta l’occasione.

Non c’era il più piccolo dubbio nella sua mente: Lady Jessica li aveva traditi. Coincideva con tutti i dati a sua disposizione.

«Il tuo uomo, Gurney Halleck, e una parte delle sue truppe sono al sicuro presso i nostri amici contrabbandieri» disse il Fremen.

«Bene.»

Così Gurney potrà scamparla da questo infernale pianeta. Non siamo tutti finiti.

Hawat si voltò verso i suoi uomini. Erano trecento all’inizio della notte, tra i migliori. Ne restavano appena venti, una buona metà feriti. Alcuni dormivano letteralmente in piedi appoggiati alla roccia, o distesi sulla sabbia al riparo. Il loro ultimo ornitottero, che avevano usato come un veicolo terrestre per trasportare i feriti, aveva cessato di funzionare poco prima dell’alba. L’avevano tagliato a pezzi coi laser, nascondendo ogni più piccolo frammento, poi erano riusciti a marciare fino a questo rifugio, sull’orlo del bacino.

Hawat aveva soltanto una vaga idea della loro posizione: circa duecento chilometri a sudest di Arrakeen. Le piste più battute dalle comunità sietch del Muro Scudo correvano da qualche parte più a sud.

Il Fremen gettò sulle spalle il cappuccio e la cuffia della tuta distillante, rivelando capigliatura e barba color sabbia. I capelli, pettinati all’indietro, sovrastavano una fronte alta e sottile. Aveva gli occhi completamente azzurri e insondabili dovuti alla spezia. La barba e i baffi erano macchiati, su un lato della bocca, per la pressione esercitata dal tubo che usciva dai tamponi del naso.

L’uomo si sfilò i tamponi e li aggiustò. Si sfregò una cicatrice accanto al naso.

«Se attraversate il sink, questa notte» disse, «non dovete usare gli scudi. C’è una breccia nella parete…» (si girò sui calcagni e puntò l’indice a sud) «…gli scudi potrebbero attirare un…» (esitò) «…un verme. Non vengono spesso da queste parti, ma uno scudo li attira, sempre.»

Ha detto verme, pensò Hawat. Stava per dire qualcos’altro. Che cosa? E che cosa vuole da noi?

Sospirò.

Non era mai stato così stanco. Provava in tutti i muscoli un dolore che nessuna pillola avrebbe placato.

Quei dannati Sardaukar!

Pieno di amarezza nei propri confronti, pensò a quei soldati fanatici e alla perfidia imperiale che essi rappresentavano. Ma, in quanto Mentat, un’attenta valutazione dei fatti gli aveva rivelato quanto fosse scarsa la possibilità di provare una simile perfidia davanti al Gran Consiglio del Landsraad. Mai sarebbe stata resa giustizia.

«Volete raggiungere i contrabbandieri?» domandò il Fremen.

«È possibile?»

«La strada è lunga.»

«Ai Fremen non piace dire di no» gli aveva detto Idaho, un giorno.

Hawat replicò: «Non mi hai ancora detto se il tuo popolo può aiutare i miei feriti».

«Sono feriti.»

Sempre questa maledetta risposta!

«Lo so, che sono feriti!» ribatté Hawat. «Non è…»

«Pace, amico» l’interruppe il Fremen. «Che cosa dicono i tuoi feriti? Vi sono alcuni di essi in grado di capire il bisogno d’acqua della tua tribù?»

«Non abbiamo parlato di acqua» disse Hawat. «Noi…»

«Posso capire la tua riluttanza» proseguì il Fremen. «Sono tuoi amici, della tua stessa tribù. Avete acqua?»

«Non abbastanza.»

Il Fremen fece un gesto verso l’uniforme di Hawat, sotto la quale si vedeva la pelle nuda: «Vi hanno sorpreso nel sietch senza le vostre tute distillanti. Devi prendere una decisione d’acqua, amico».

«Possiamo pagare il tuo aiuto?»

Il Fremen scrollò le spalle. «Non avete acqua.» Lanciò un’occhiata al gruppo dietro le spalle di Hawat. «Quanti dei tuoi feriti sei disposto a sacrificare?»

Hawat fissò l’uomo in silenzio. In quanto Mentat gli era fin troppo chiaro come la loro conversazione fosse fuori fase. Ogni parola, ogni frase suonavano estranee.

«Io sono Thufir Hawat» dichiarò. «E parlo in nome del mio Duca. Posso impegnarmi in questo preciso momento, in cambio del tuo aiuto. Voglio un aiuto limitato, quel tanto che basta a far sopravvivere i miei uomini e a giustiziare una traditrice che si crede al sicuro dalla vendetta.»

«Vuoi che mi unisca a te in una vendetta?»

«Io stesso mi occuperò della vendetta. Voglio soltanto essere sollevato dalla responsabilità dei miei feriti.»

Il Fremen si accigliò. «Come puoi essere responsabile dei tuoi feriti? Essi sono responsabili di se stessi. Il problema è l’acqua, Thufir Hawat. Vuoi che sia io a decidere?»

Afferrò l’impugnatura dell’arma nascosta sotto la sua veste. Un pensiero folgorò Hawat: Un nuovo tradimento?

«Che cosa temi?» chiese il Fremen.

Questa gente e la sua sconcertante franchezza! Hawat disse, cauto: «C’è una taglia sulla mia testa».

«Ahhh…» Il Fremen tolse la mano dall’impugnatura dell’arma. «Ci credi corrotti come i bizantini? Non ci conosci affatto. Gli Harkonnen non hanno acqua bastante a corrompere il più piccolo dei nostri fanciulli.»

Ma hanno pagato alla Gilda il trasporto di duemila navi da battaglia, pensò Hawat. E ancora vacillò all’idea di quella spesa.

«Entrambi combattiamo gli Harkonnen» disse Hawat. «Non dovremmo forse dividerci i problemi e i mezzi per affrontarli in battaglia?»

«Li dividiamo già» replicò il Fremen. «Vi ho visto combattere gli Harkonnen. Siete in gamba. In certi momenti avrei molto apprezzato le vostre armi al mio fianco.»

«Dimmi solo in qual modo possiamo aiutarti» insistette Hawat.

«Chi lo sa?» disse il Fremen. «Gli Harkonnen sono dovunque. Ma tu non hai ancora preso la decisione d’acqua e neppure hai chiesto ai tuoi uomini di prenderla.»

Prudenza, si disse Hawat. C’è qualcosa, qui, che non capisco.

«Vuoi mostrarmi le vostre regole?» riprese. «Quelle di Arrakis?»

«Il modo di pensare degli stranieri» disse il Fremen con un vago disprezzo. Puntò il dito a nordovest, oltre la cresta rocciosa. «Vi abbiamo osservato questa notte, quando avete attraversato la sabbia.» Abbassò il braccio. «Hai fatto marciare i tuoi uomini sul lato friabile delle dune. Male. Non avete tute distillanti, non avete acqua. Non durerete a lungo.»

«Non è facile abituarsi ad Arrakis» replicò Hawat.

«È vero. Ma noi abbiamo ucciso gli Harkonnen.»

«Che cosa fate dei vostri feriti?»

«Forse un uomo non sa quando vale la pena di salvarlo?» chiese il Fremen. «I tuoi feriti sanno che non avete acqua.» Piegò la testa e lanciò un’occhiata obliqua a Hawat. «È chiaro che questo è il momento di prendere la decisione d’acqua. Feriti e non feriti devono pensare al futuro della tribù.»

Il futuro della tribù, pensò Hawat. La tribù degli Atreides. C’è un senso in tutto questo. E fece uno sforzo per fare la domanda che aveva evitato fino a quel momento:

«Avete notizie del Duca o di suo figlio?»

Gli occhi azzurri, inscrutabili, lo fissarono: «Notizie?»

«La loro sorte!» gridò Hawat.

«La sorte è uguale per tutti» disse il Fremen. «Si dice che il tuo Duca abbia incontrato la sua sorte. Per quanto riguarda il Lisan al-Gaib, suo figlio, tutto è nelle mani di Liet. E Liet non ha detto nulla.»

Sapevo la risposta anche senza fare la domanda, pensò Hawat.

Guardò i suoi uomini. Erano tutti svegli, adesso. Avevano ascoltato e fissavano la distesa di sabbia. Si leggeva la rassegnazione sui loro volti: non avrebbero mai più rivisto Caladan, e ora avevano perduto anche Arrakis.

Hawat si voltò nuovamente verso il Fremen: «Hai notizie di Duncan Idaho?»

«Era nella grande casa quando lo scudo è caduto» rispose il Fremen. «Questo ho sentito dire… e nient’altro.»

È stata lei a disattivare lo scudo e a far entrare gli Harkonnen! pensò Hawat. Sono stato io, questa volta, a voltare la schiena alla porta. Ma come ha potuto farlo? Agire contro suo figlio? Ma… chi sa mai cosa pensa una strega Bene Gesserit? Se pure pensa…

Nuovamente cercò d’inghiottire, ma aveva la gola secca. «Quando avrai notizie del ragazzo?»

«Sappiamo poco di quanto è accaduto ad Arrakeen» replicò il Fremen. Alzò le spalle. «Chi lo sa?»

«Hai qualche modo per scoprirlo?»

«Forse.» Il Fremen si sfregò nuovamente la cicatrice al naso. «Dimmi, Thufir Hawat, che cosa ne sai di queste armi pesanti degli Harkonnen?»

L’artiglieria, pensò Hawat, con amarezza. Chi avrebbe mai pensato che avrebbero impiegato l’artiglieria nell’epoca degli scudi?

«Tu parli dell’artiglieria che hanno usato per imprigionare i nostri uomini nelle caverne?» disse. «Io ho… una conoscenza teorica di queste armi esplosive.»

«Chiunque cerchi scampo in una caverna con una sola uscita merita di morire» dichiarò il Fremen.

«Perché mi hai chiesto di queste armi?»

«Liet vuol sapere.»

È questo che vuole da noi? si chiese Hawat. «Sei venuto a informarti sui cannoni?»

«Liet vuole esaminare una di queste armi.»

«Allora» lo schernì Hawat, «andate a prenderne una.»

«Sì» disse il Fremen, «ne abbiamo presa una. L’abbiamo nascosta dove Stilgar può studiarla per Liet e dove Liet può vederla coi suoi occhi, se lo desidera. Ma dubito che voglia farlo: l’arma non è molto buona. È mediocre, per Arrakis.»

«Voi… ne avete presa una?» si sbalordì Hawat.

«È stato un bel combattimento» disse il Fremen. «Abbiamo perduto due uomini, ma abbiamo versato l’acqua di più di duecento di loro.»

C’erano Sardaukar ad ogni cannone, pensò Hawat. E questo pazzo del deserto parla così tranquillamente di aver perduto soltanto due uomini contro i Sardaukar!

«Non avremmo perduto neppure quei due se non fosse stato per quegli altri che combattevano con gli Harkonnen» continuò il Fremen. «Alcuni di loro erano ottimi guerrieri.»

Uno degli uomini di Hawat si avvicinò zoppicando e fissò il Fremen accovacciato: «State parlando dei Sardaukar?»

«Sì, sta parlando dei Sardaukar» confermò Hawat.

«Sardaukar!» esclamò il Fremen, con un’intonazione gioiosa. «Ahhh, ecco quello che sono! Una magnifica notte! Sardaukar! Di quale legione? Lo sapete?»

«Noi… l’ignoriamo» disse Hawat.

«Sardaukar.» Il Fremen sembrò riflettere. «E tuttavia indossavano le uniformi degli Harkonnen. Non è strano?»

«L’Imperatore non vuole che si sappia che egli combatte contro una Grande Casa» replicò Hawat.

«Ma tu sai che sono Sardaukar!»

«Chi sono io?» fece Hawat, in tono amaro.

«Tu sei Thufir Hawat» ribatté il Fremen. «Beh, l’avremmo saputo comunque. Abbiamo inviato tre prigionieri agli uomini di Liet, perché li interrogassero.»

Il luogotenente di Hawat balbettò incredulo: «Voi… avete catturato alcuni Sardaukar?»

«Tre soltanto» disse il Fremen. «Si sono battuti bene.»

Se soltanto avessimo avuto il tempo di allearci a questi Fremen, pensò Hawat, e fu come un lamento nel suo spirito. Se avessimo potuto addestrarli e armarli… Grande Madre! Quale forza sarebbero stati, per noi!

«Forse è la tua preoccupazione per il Lisan al-Gaib che ti fa esitare» insistette il Fremen. «Se è realmente il Lisan al-Gaib nulla può toccarlo. Non perdere il tuo tempo per qualcosa che non è stato ancora provato.»

«Io servo il… Lisan al-Gaib» disse Hawat. «La sua sicurezza è la mia prima preoccupazione. Vi ho consacrato me stesso.»

«Ti sei consacrato alla sua acqua?»

Hawat lanciò un’occhiata al suo aiutante, che stava ancora fissando il Fremen, e rivolse nuovamente la sua attenzione alla figura accovacciata. «Sì, alla sua acqua.»

«Tu vuoi ritornare ad Arrakeen, il luogo della sua acqua?»

«Il… sì, il luogo della sua acqua.»

«Perché non hai detto subito che era una questione d’acqua?» Il Fremen si alzò e sistemò saldamente i tamponi sul naso.

Hawat accennò al suo luogotenente di raggiungere gli altri. Con una scrollata di spalle piena di stanchezza, l’uomo obbedì. Hawat li sentì mormorare.

Il Fremen disse: «C’è sempre una via per l’acqua».

Qualcuno imprecò. L’aiutante di Hawat chiamò: «Thufir! Arkie è morto».

Il Fremen si portò il pugno all’orecchio: «Il vincolo dell’acqua! È un segno!» Fissò Hawat: «C’è un luogo, qui vicino, per ricevere l’acqua. Devo chiamare i miei uomini?»

L’aiutante si avvicinò nuovamente: «Thufir, un paio di uomini hanno lasciato la moglie ad Arrakeen. Sono… ti puoi immaginare».

Il Fremen teneva ancora il pugno schiacciato sull’orecchio: «È il vincolo dell’acqua, Thufir Hawat?» chiese.

Il cervello di Hawat lavorava furiosamente. Ora capiva il senso delle parole del Fremen, ma temeva la reazione degli uomini stremati, sotto lo spuntone roccioso, quando l’avessero saputo.

«Il vincolo dell’acqua» ripeté Hawat.

«Lascia che le nostre tribù si uniscano» disse il Fremen, e abbassò il pugno.

Come a un preciso segnale, quattro uomini si tuffarono giù dallo strapiombo. Giunsero sotto lo sperone roccioso, avvolsero il morto in un ampio mantello, lo sollevarono e corsero via, lungo la parete rocciosa alla loro destra, alzando una nuvola di polvere.

Tutto si era concluso prima che i soldati di Hawat si rendessero conto di quanto accadeva. I quattro uomini, col morto che ciondolava come un sacco nel mantello, erano già scomparsi dietro un macigno.

Qualcuno urlò: «Dove stanno andando con Arkie? Era…»

«Lo portano via per… seppellirlo» disse Hawat.

«I Fremen non seppelliscono i loro morti!» gridò l’altro. «Non cercare d’ingannarci, Thufir! Sappiamo quello che fanno. Arkie era un…»

«Il Paradiso è garantito a chi muore al servizio del Lisan al-Gaib» dichiarò il Fremen. «Se è vero che voi servite il Lisan al-Gaib, come hai detto, perché ti lamenti? Il ricordo di colui che è morto vivrà per sempre.»

Ma gli uomini di Hawat si erano avvicinati, frementi di collera. Uno di essi impugnava un laser.

«Fermi dove siete!» urlò Hawat. Combatté la nausea e la fatica che lo attanagliavano. «Questa gente ha il massimo rispetto per i nostri morti. I costumi sono diversi, ma il significato è lo stesso.»

«Sono andati a distillare Arkie per impadronirsi della sua acqua» ringhiò l’uomo col laser.

«Forse i tuoi uomini vogliono assistere alla cerimonia?» chiese il Fremen.

Non vede neppure il problema, pensò Hawat. L’ingenuità del Fremen gli faceva paura.

«Sono sconvolti per la morte del loro compagno» spiegò.

«Tratteremo il vostro compagno con lo stesso rispetto, come se fosse uno dei nostri» disse il Fremen. «Questo è il vincolo dell’acqua. Noi conosciamo il rito. La carne di un uomo appartiene a lui stesso, l’acqua appartiene alla tribù.»

L’uomo col laser fece un altro passo in avanti. Hawat intervenne rapidamente: «Ora siete disposti ad aiutare i nostri feriti?»

«Non si discute il vincolo» replicò il Fremen. «Faremo per voi quello che una tribù fa per i suoi stessi membri. Prima di tutto, daremo una tuta ad ognuno di voi e provvederemo alle vostre necessità.»

L’uomo col laser esitò.

L’aiutante di Hawat disse: «Stiamo forse comperando il loro aiuto… con l’acqua di Arkie?»

«Non comperiamo nulla» ribatté Hawat. «Noi ora facciamo parte di questa gente.»

«I costumi sono diversi» borbottò uno degli uomini.

Hawat cominciò a rilassarsi.

«E ci aiuteranno a raggiungere Arrakeen?»

«Noi uccideremo gli Harkonnen» dichiarò il Fremen, e sorrise. «E i Sardaukar.» Fece un passo indietro, mise le mani a coppa dietro le orecchie, rovesciò la testa e ascoltò. Poi abbassò le mani e disse: «Una macchina volante è in arrivo. Nascondetevi sotto la roccia e restate immobili».

A un gesto imperioso di Hawat gli uomini obbedirono.

Il Fremen afferrò Hawat per un braccio e lo spinse con gli altri: «Combatterai quando sarà il momento» gl’intimò. La sua mano scivolò dentro il vestito e uscì stringendo una piccola gabbia. Ne tirò fuori un animale.

Hawat riconobbe un minuscolo pipistrello. La bestiola girò la testa mostrando due occhi azzurri, completamente azzurri.

Il Fremen accarezzò il pipistrello per calmarlo, sussurrandogli qualcosa. Si piegò sulla testa dell’animale e lasciò che una goccia di saliva cadesse dalla sua lingua nella bocca aperta della creatura. Il pipistrello aprì le ali, ma non lasciò la mano del Fremen. L’uomo prese un piccolo tubo, l’appoggiò alla testa dell’animale e vi parlò dentro. Quindi sollevò la mano e scagliò la creatura nell’aria.

Il pipistrello sfrecciò lungo le rocce e scomparve.

Il Fremen piegò la gabbia e l’infilò nel vestito. Di nuovo rovesciò la testa e ascoltò: «Stanno perlustrando le terre alte» disse. «C’è da chiedersi che cosa stiano cercando lassù.»

«Sanno che ci siamo ritirati in questa direzione.»

«Non bisogna mai presumere di essere gli unici a cui danno la caccia» sentenziò il Fremen. «Guarda sull’altro lato del bacino. Vedrai qualcosa.»

Passò del tempo.

Alcuni degli uomini di Hawat cominciarono ad agitarsi, a mormorare.

«Restate in silenzio come animali spaventati» sibilò il Fremen.

Hawat riuscì a distinguere qualcosa che si muoveva lungo le rocce in lontananza. Macchie confuse, dello stesso colore della sabbia.

«Il mio piccolo amico ha portato il messaggio» annunciò il Fremen. «È un bravo messaggero, di giorno e di notte. Mi dispiacerebbe perderlo.»

Il movimento, sull’altro lato del sink, cessò. Sull’intera distesa di sabbia, quattro o cinque chilometri, non rimase più nulla, a parte il calore sempre più soffocante e il pulsare dell’aria torrida.

«Ora… il massimo silenzio» bisbigliò il Fremen.

Una lunga fila di figure indistinte emerse da una spaccatura della roccia e faticosamente s’inoltrò nel sink. Ad Hawat parvero dei Fremen, ma curiosamente impacciati. Contò sei uomini che si muovevano con passo incerto tra le dune.

Il battito delle ali di un ornitottero si udì più in alto, a destra, dietro il gruppo di Hawat. Il velivolo spuntò dalla parete di roccia sulle loro teste: un ornitottero degli Atreides con i colori da battaglia degli Harkonnen dipinti frettolosamente. L’ornitottero calò in picchiata verso gli uomini che stavano attraversando il bacino.

Il gruppo si arrestò in cima a una duna, agitando le mani.

L’ornitottero descrisse una curva e tornò indietro, per toccar terra davanti ai Fremen in una nuvola di polvere. Cinque uomini si precipitarono fuori dall’apparecchio, e Hawat vide il luccichio degli scudi che respingevano la sabbia. I loro movimenti rivelavano!a spietata efficienza dei Sardaukar.

«Ah! Usano quei loro stupidi scudi» bisbigliò il Fremen al fianco di Hawat. Lanciò un’occhiata alla spaccatura nella roccia, sul lato sud del sink.

«Sono Sardaukar» mormorò Hawat.

«Bene.»

I Sardaukar si avvicinavano adesso, in semicerchio, al piccolo gruppo dei Fremen in attesa. Il sole scintillò sulle lame che impugnavano. I Fremen non si mossero, quasi indifferenti.

All’improvviso le sabbie intorno ai due gruppi vomitarono Fremen. In un attimo furono intorno all’ornitottero e poi dentro. Dove i due gruppi si erano incontrati, in cima alla duna, una nuvola di polvere oscurava la violenta battaglia.

Qualche istante dopo la polvere si depositò. Soltanto i Fremen erano ancora in piedi.

«C’erano soltanto tre uomini nell’ornitottero» disse il Fremen, al fianco di Hawat. «Abbiamo avuto fortuna. L’abbiamo catturato senza danneggiarlo.»

«Sardaukar! Erano dei Sardaukar!» bisbigliò uno degli uomini di Hawat.

«Avete visto come combattevano bene?» chiese il Fremen.

Hawat respirò profondamente. Sentì la polvere riarsa, intorno a lui, il calore intenso, l’arsura. Con voce rauca, perfettamente intonata all’ambiente, disse: «Sì, combattevano bene».

L’ornitottero catturato si alzò in volo con un improvviso pulsare, s’impennò verso l’alto e virò a sud fulmineo, ripiegando le ali.

Così, questi Fremen sono anche capaci di guidare un ornitottero, pensò Hawat.

Su una duna lontana un Fremen agitò un quadrato di stoffa verde: una… due volte.

«Ne arrivano ancora!» gridò il Fremen al fianco di Hawat. «Tenetevi pronti. Speravo di poterci allontanare senza essere ancora disturbati.»

Disturbati! pensò Hawat.

Altri due ornitotteri spuntarono da ovest, ad altissima quota, precipitandosi giù in picchiata verso il bacino, dal quale era improvvisamente scomparsa ogni traccia di Fremen. Solo otto macchie azzurre (i corpi dei Sardaukar nelle uniformi degli Harkonnen) contrassegnavano il campo di battaglia.

Un altro ornitottero sorvolò la roccia, sopra la testa di Hawat. Gli si mozzò il fiato quando lo vide: un grosso trasporto truppe. Volava lentamente ad ali spiegate, rivelando la pesantezza del carico… come un uccello gigantesco che ritornasse al nido.

In distanza il dito purpureo di un laser guizzò da uno degli ornitotteri in picchiata. Scivolò sulla sabbia alzando ciuffi di polvere oscura.

«Vigliacchi!» ringhiò il Fremen accanto ad Hawat.

Il pesante trasporto si adagiò sulla sabbia a poca distanza dai corpi vestiti di azzurro. Le sue ali si spalancarono del tutto, per una rapida frenata.

Il sole lampeggiò a sud, riflettendosi su una superficie metallica. Hawat vide un ornitottero tuffarsi in picchiata con tutta la forza dei suoi motori, le ali ripiegate sui fianchi. I jet fiammeggiarono dorati contro il grigio argento del cielo. Schizzò come una freccia contro il trasporto truppe, il cui scudo era inattivo a causa dei laser in funzione tutto intorno.

Una fiammata accecante e un’esplosione che scosse tutto il bacino. Blocchi di roccia si staccarono dalle pareti, un geyser verde arancio sprizzò verso il cielo dal punto dov’erano atterrati il trasporto e gli altri ornitotteri. Tutto bruciò nel gigantesco rogo.

Il Fremen che era a bordo, quello volato via con l’ornitottero catturato, pensò Hawat, si è deliberatamente sacrificato per distruggere il trasporto… Grande Madre! Che cosa sono questi Fremen?

«Un ragionevole scambio» esclamò il Fremen al fianco di Hawat. «Dovevano esserci almeno trecento uomini in quel trasporto. Ora dobbiamo occuparci della loro acqua e fare dei piani per impadronirci di un altro velivolo.» Si mosse per uscire dal nascondiglio tra le rocce.

Una pioggia di uniformi azzurre piombò su di loro dalle rocce sovrastanti; uomini che cadevano davanti a loro con la lentezza dei sospensori tenuti al minimo. Bastò un attimo ad Hawat per accorgersi che erano Sardaukar, i volti spietati illuminati dalla frenesia della lotta. Non avevano scudi e ognuno di loro impugnava un coltello con una mano e uno storditore con l’altra.

Uno di essi lanciò un coltello che si conficcò nella gola del Fremen accanto ad Hawat, scagliandolo all’indietro, il viso contorto da un’orribile smorfia. Hawat fece appena in tempo a estrarre il coltello e poi perse i sensi abbattuto dal proiettile di uno storditore.


Muad’Dib poteva veramente vedere il futuro, ma il suo potere aveva dei limiti. Pensate alla vista: voi avete gli occhi, ma non potete vedere senza luce. Se vi trovate sul fondo di una valle, non potete vedere oltre i monti. Nello stesso modo Muad’Dib non poteva guardare sempre nel misterioso territorio dell’avvenire. Egli ci dice che una singola, oscura decisione profetica, forse la scelta di una parola invece di un’altra, potrebbe cambiare l’intero futuro. Ci dice anche: «La visione del tempo è immensa, ma, quando l’attraversate, il tempo diventa una porta mollo stretta». Egli sempre fuggiva la tentazione di scegliere una via chiara e sicura, e ammoniva: «Questo sentiero conduce ineluttabilmente alla stagnazione».

dal «Risveglio di Arrakis», della Principessa Irulan


Nell’istante in cui gli ornitotteri comparvero nel cielo notturno sulle loro teste, Paul afferrò Jessica per un braccio e le intimò: «Non muoverti!»

Poi, al chiaro di luna, seguì con lo sguardo il primo dei velivoli, dal modo in cui le sue ali si aprivano per frenare per l’atterraggio, riconobbe il temerario che era alla guida.

«È Idaho» bisbigliò.

Gli ornitotteri si adagiarono nel bacino come uno stormo di uccelli ritornati al nido. Idaho balzò fuori dal suo apparecchio e si precipitò verso di loro ancora prima che la sabbia si adagiasse al suolo. Due figure vestite come i Fremen lo seguirono. Paul ne riconobbe una, la più alta: la barba inconfondibile di Kynes.

«Di qua!» gridò Kynes, e deviò verso destra.

Dietro di lui altri Fremen lanciavano teloni sugli ornitotteri. Gli apparecchi divennero una fila di basse dune.

Idaho si arrestò davanti a Paul e salutò: «Signore, i Fremen hanno un rifugio, qui vicino, e noi…»

«E quello che accade lassù?»

Paul indicò il turbinio confuso sulle rocce lontane: le fiamme dei jet, i raggi purpurei dei laser che s’intrecciavano sul deserto.

Raramente Paul aveva visto un simile sorriso sul volto largo e placido di Idaho: «Signore… Ho preparato loro una piccola sor…»

Un lampo abbagliante riempì il deserto, più intenso del sole, proiettando le loro ombre sulla roccia. Fulmineamente Idaho afferrò il braccio di Paul e la spalla di Jessica, e si precipitò con loro nel bacino sottostante. Il boato dell’esplosione li schiacciò sulla sabbia. L’onda d’urto sbriciolò il bordo della sporgenza rocciosa che avevano abbandonato un istante prima.

Idaho si raddrizzò, scrollandosi la sabbia di dosso.

«Non le atomiche di famiglia!» gridò Jessica. «Io credevo…»

«Hai sistemato uno scudo, laggiù» disse Paul.

«Uno dei più grandi, acceso a pieno regime» spiegò Idaho. «Il raggio di un laser lo ha toccato, e…» Scrollò le spalle.

«Fusione subatomica» disse Jessica. «È un’arma pericolosa.»

«Non un’arma, mia Signora, una difesa. Quelle canaglie ci penseranno due volte, adesso, prima di usare di nuovo un laser.»

Gli altri Fremen li circondarono. «Dobbiamo metterci al sicuro, amici» mormorò uno di essi.

Paul si alzò e Idaho aiutò Jessica.

«Quell’esplosione attirerà molta attenzione, mio Signore» disse Idaho.

Mio Signore, pensò Paul.

Le parole avevano un suono così strano, indirizzate a lui. Mio Signore era sempre stato suo padre.

Per un attimo il suo potere lo sfiorò e si vide in preda a questa selvaggia coscienza collettiva che trascinava l’universo degli uomini verso il caos. La visione lo sconvolse e lasciò che Idaho lo conducesse lungo l’orlo del bacino, fino a una protuberanza rocciosa. Lì i Fremen si aprivano un cammino nella sabbia con un compressore statico.

«Posso portare il vostro zaino, mio Signore?» chiese Idaho.

«Non è pesante, Duncan.»

«Voi non avete scudo» disse Idaho. «Volete il mio?» Guardò le rocce lontane: «È improbabile che usino ancora i laser».

«Tieni il tuo scudo, Duncan. Il tuo braccio è uno scudo sufficiente per me.»

Jessica vide gli effetti della lode, il modo in cui Idaho si fece più vicino a Paul, e pensò: Mio figlio sa come trattare i suoi!

I Fremen tolsero un blocco di roccia che nascondeva un passaggio, giù verso l’antichissimo basamento della montagna. La roccia era stata tagliata su misura per mimetizzare l’apertura.

«Da questa parte» disse uno di loro, e li condusse giù per una scala intagliata nella roccia, verso le tenebre.

Dietro di loro il macigno fu ricollocato al suo posto, cancellando il chiaro di luna. Un debole bagliore verde comparve davanti a loro, rivelando gradini e pareti rocciose che si curvavano verso sinistra. Fremen che indossavano tute distillanti li circondarono da ogni parte, spingendoli in avanti. Girato l’angolo, s’infilarono in un altro passaggio che s’ingolfava ancora verso il basso e uscirono infine in una cavità sotterranea dalle pareti grossolanamente sbozzate.

Kynes era in piedi davanti a loro. Il cappuccio gli ricadeva sulle spalle e il collo della tuta distillante luccicava alla luce verde. I lunghi capelli e la barba erano arruffati. Gli occhi azzurri sull’azzurro erano due pozzi d’ombra sotto le folte ciglia.

In quell’istante Kynes pensò: Perché mai sto aiutando questa gente? È la cosa più pericolosa che io abbia mai fatto. Potrebbe significare la mia fine, insieme con la loro.

Poi alzò gli occhi su Paul, schiettamente, e vide che il ragazzo aveva assunto il suo fardello di adulto, nascondendo il suo dolore e ogni altra cosa, fuorché il ruolo che ora assumeva: era il Duca. E Kynes capì in quel momento che il Ducato esisteva ancora, grazie a questo ragazzo. E non era da prendersi alla leggera.

Jessica si guardò intorno ancora una volta, registrando l’ambiente con tutti i suoi sensi, nel modo Bene Gesserit. Un laboratorio, un luogo pieno d’angoli e di spigoli all’antica maniera.

«Questa è dunque una delle Stazioni Ecologiche Sperimentali dell’Impero, che mio padre voleva come basi avanzate» disse Paul.

Che suo padre voleva! pensò Kynes.

E ancora una volta si chiese: Sono forse pazzo ad aiutare questi fuggitivi? Perché mai lo faccio? Sarebbe così facile catturarli, ora, e pagarmi con essi la fiducia degli Harkonnen.

Paul, come sua madre, ispezionò la stanza con lo sguardo, registrandola: vide il banco da lavoro lungo una parete, i muri rozzamente squadrati. Vi erano strumenti allineati sul banco: quadranti luminosi, separatori elettrostatici tubolari dai quali uscivano steli di vetro scanalato. Percepì un forte odore di ozono.

Alcuni Fremen si muovevano intorno a un angolo dissimulato della stanza: ne uscivano diversi rumori, il sordo pulsare di una macchina, cigolio di cinghie e di ruote.

Sulla parete di fondo Paul vide alcune piccole gabbie che contenevano animali.

«Avete perfettamente identificato questo luogo» disse Kynes. «Per quale scopo lo utilizzereste, Paul Atreides?»

«Per rendere questo pianeta abitabile dagli uomini.»

Forse è per questo che li aiuto, pensò Kynes.

Improvvisamente il pulsare della macchina divenne un fievole ronzio e si arrestò. Nel silenzio che ne seguì, un animale strillò, in una delle gabbie, ma subito s’interruppe, come imbarazzato.

Paul rivolse nuovamente la sua attenzione alle gabbie: gli animali erano pipistrelli dalle ali brune. Un alimentatore automatico si prolungava accanto alle gabbie lungo tutta la parete.

Un Fremen uscì dall’angolo nascosto e disse a Kynes: «Liet, il generatore di campo non funziona. Non posso più nascondere la nostra presenza ai rivelatori di prossimità».

«Puoi ripararlo?» chiese Kynes.

«Non subito. I pezzi di ricambio…» Il Fremen alzò le spalle.

«Sì» disse Kynes. «E allora ce la caveremo senza macchine. Collega alla superficie una pompa a mano per l’aria.»

«Subito.» L’uomo si allontanò in fretta.

Kynes si rivolse di nuovo a Paul: «Mi piace la vostra risposta» dichiarò.

Jessica notò il timbro sonoro e morbido della sua voce. Una voce regale, abituata a comandare. E l’uomo l’aveva chiamato Liet. Liet era l’alter ego Fremen, l’altra faccia del tranquillo planetologo.

«Vi siamo molto grati per il vostro aiuto, dottor Kynes» gli disse.

«Mmmm… vedremo» rispose Kynes. Accennò a uno degli uomini: «Caffè di spezia nel mio alloggio, Shamir».

«Subito, Liet» disse l’uomo.

Kynes indicò un’apertura ad arco su una parete laterale della stanza: «Qui, per favore».

Jessica annuì regalmente, prima di seguirlo. Vide Paul fare un gesto a Idaho, invitandolo a montare la guardia.

Il passaggio era scavato in un paio di metri di roccia, poi, attraverso una massiccia porta, si apriva in un ufficio, quadrato, che alcuni globi luminosi inondavano di luce dorata. Jessica, entrando, fece scivolare la mano sulla porta, e scoprì, con vivo stupore, che era di plastacciaio.

Paul fece tre passi nella stanza e lasciò cadere lo zaino sul pavimento. Sentì la porta che si chiudeva dietro di lui, e studiò l’ambiente. La stanza aveva circa otto metri di lato; anche qui le pareti erano intagliate nella roccia color ocra. Sulla destra, una serie di classificatori metallici. Un tavolo basso dalla superficie vetrosa color latte, disseminata di bolle gialle, occupava il centro della stanza. Quattro sedie a sospensione lo circondavano.

Kynes girò intorno a Paul e offrì una sedia a Jessica. Lei si sedette, osservando il modo in cui suo figlio studiava la stanza.

Paul restò in piedi per un altro battito di ciglia. Un’alterazione appena percettibile del flusso d’aria nella stanza gli disse che c’era una uscita segreta dissimulata dagli armadietti metallici.

«Volete sedervi, Paul Atreides?» domandò Kynes.

Come evita prudentemente il mio titolo, pensò Paul, ma accettò la sedia e restò in silenzio, mentre a sua volta Kynes si sedeva.

«Voi intuite che Arrakis potrebbe essere un paradiso» disse Kynes, «e tuttavia, come vedete, l’Impero ci invia soltanto i suoi tagliagole e cercatori di spezia.»

Paul alzò il pollice col sigillo ducale: «Vedete questo anello?»

«Sì.»

«Ne conoscete il significato?»

Jessica si voltò di scatto a fissare suo figlio.

«Vostro padre giace morto tra le rovine di Arrakis» disse Kynes. «Tecnicamente voi siete il Duca.»

«Io sono un soldato dell’Impero» ribatté Paul. «Tecnicamente un tagliagole.»

Il volto di Kynes si rabbuiò: «Anche quando i Sardaukar dell’Imperatore calpestano il corpo di vostro padre?»

«I Sardaukar sono una cosa, la fonte legale della mia autorità un’altra.»

«Arrakis ha un suo modo tutto particolare di concedere l’autorità!»

Jessica, voltandosi a guardarlo, pensò: C’è dell’acciaio in quest’uomo, che nessuno è ancora riuscito a intaccare… e noi abbiamo bisogno di acciaio. Paul gioca pericolosamente.

«La presenza dei Sardaukar su Arrakis» esclamò Paul, «indica fino a qual punto il nostro beneamato Imperatore avesse paura di mio padre. Ora io darò all’Imperatore Padiscià tutte le ragioni per temere il…»

«Ragazzo» gridò Kynes, «ci sono cose che voi…»

«Voi vi rivolgerete a me come ’Mio Signore’» l’interruppe Paul.

Dolcemente, pensò Jessica.

Kynes fissò Paul, e Jessica notò il lampo di ammirazione sul volto del planetologo e una punta d’ilarità.

«Mio Signore» disse Kynes.

«Io sono un imbarazzo per l’Imperatore» continuò Paul. «Io sono un imbarazzo per tutti quelli che vogliono spartirsi Arrakis. Finché vivrò, voglio continuare a essere un tale imbarazzo, per loro, come un palo piantato in gola, fino a strozzarli!»

«Parole» ribatté Kynes.

Paul lo fissò in silenzio. Qualche istante dopo riprese: «C’è una leggenda, qui, sul Lisan al-Gaib, la Voce di un Altro Mondo, colui che condurrà i Fremen in paradiso. I vostri uomini hanno…»

«Superstizioni!» esclamò Kynes.

«Forse» acconsentì Paul. «E forse no. Le superstizioni a volte hanno strane radici e ramificazioni ancora più strane.»

«Voi avete un piano» disse Kynes. «Questo è ovvio… mio Signore.»

«Credete che i vostri Fremen possano fornirmi una prova concreta che i Sardaukar sono su Arrakis con le uniformi degli Harkonnen?»

«Molto probabilmente.»

«L’Imperatore metterà nuovamente un Harkonnen a capo di Arrakis» disse Paul. «Forse perfino Beast Rabban. Che lo faccia. Quando si sarà compromesso al punto che non potrà più sfuggire alla sua colpevolezza, vedremo se l’Imperatore saprà affrontare l’eventualità di un Atto di Accusa davanti al Landsraad. Vedremo se saprà rispondere quando…»

«Paul!» esclamò Jessica.

«Ammesso che l’Alto Consiglio del Landsraad accetti questo caso» replicò Kynes, «esso riuscirà soltanto a scatenare una guerra disastrosa fra l’Impero e le Grandi Case.»

«Il caos» disse Jessica.

«Ma io presenterò il mio caso all’Imperatore» (Paul sorrise) «e gli offrirò un’alternativa al caos.»

«Un ricatto?» domandò Jessica, seccamente.

«Il ricatto è uno degli strumenti del potere, come hai detto tu stessa» disse Paul, e Jessica sentì l’amarezza nella sua voce. «L’Imperatore non ha figli, soltanto figlie.»

«Stai forse mirando al trono?» gli chiese Jessica.

«L’Imperatore non rischierà di vedere l’Impero ridotto in frantumi da una guerra totale» rispose Paul. «Pianeti che esplodono, disordini dovunque… non rischierà.»

«Quello che voi vi proponete è un azzardo disperato» dichiarò Kynes.

«Che cosa temono di più le Grandi Case del Landsraad?» disse Paul. «Quello che accade in questo preciso momento su Arrakis: i Sardaukar che le distruggono, a una a una. È per questo che c’è un Landsraad. Questo cementa la Grande Intesa. Soltanto unite, esse possono affrontare le forze imperiali.»

«Ma esse sono…»

«Di questo hanno paura» insistette Paul. «Arrakis diventerebbe un grido di allarme e di raccolta. Ogni Casa s’identificherebbe con mio padre… tagliato fuori dal gregge e ucciso.»

Kynes si rivolse a Jessica: «Funzionerebbe un simile piano?»

«Non sono un Mentat» disse Jessica.

«Ma voi siete una Bene Gesserit.»

Jessica gli lanciò un’occhiata penetrante e rispose: «Il suo piano ha punti buoni e cattivi… come un qualsiasi piano, a questo stadio. Un piano dipende sia dalla sua concezione, sia dal modo in cui è realizzato.»

«’La legge è l’ultima scienza’» citò Paul. «È scritto sopra la porta dell’Imperatore. Voglio appunto mostrargli la legge.»

«Io non sono certo di poter concedere la mia fiducia a colui che ha concepito questo piano» disse Kynes. «Arrakis ha i suoi piani, che noi…»

«Dal trono» continuò Paul, «potrei fare di Arrakis un paradiso con un cenno della mano. Questo è il prezzo che vi offro per il vostro appoggio.»

Kynes s’irrigidì: «La mia lealtà non è in vendita, mio Signore».

Paul lo fissò dall’altra parte del tavolo, affrontando lo sguardo gelido di quegli occhi azzurri nell’azzurro, studiando il volto barbuto, l’aspetto autoritario. Sorrise duramente: «Ben detto. Mi scuso».

Kynes continuò a fissare Paul, e qualche istante dopo replicò: «Nessuno degli Harkonnen ha mai ammesso di essersi sbagliato. Forse voi Atreides non siete come loro».

«Potrebbe esserci uno sbaglio nella loro educazione» disse Paul. «Voi dite di non essere in vendita, ma io sono convinto di offrirvi un prezzo che voi accetterete. In cambio della vostra lealtà, io vi offro la mia… totalmente.»

Mio figlio ha la sincerità degli Atreides, pensò Jessica. Ha quel tremendo e quasi ingenuo senso dell’onore… in verità, una formidabile forza.

Vide che le parole di Paul avevano scosso Kynes.

«Questo è assurdo» rispose Kynes. «Voi siete soltanto un ragazzo, e…»

«Io sono il Duca» disse Paul. «Io sono un Atreides. Nessun Atreides ha mai spezzato un simile giuramento.»

Kynes deglutì.

«Quando dico totalmente» continuò Paul, «voglio dire senza alcuna riserva. Darei la mia vita per voi.»

«Signore» gridò Kynes, e fu come se questa parola gli fosse stata strappata, ma Jessica vide che ora non parlava più a un ragazzo di quindici anni, ma a un uomo, a un superiore. Questa volta, aveva detto «Signore» con sincerità.

In questo momento darebbe la vita per Paul, pensò Jessica. Come fanno gli Atreides a compiere cose simili così presto e così facilmente?

«So che voi siete sincero» disse Kynes. «Tuttavia, gli Harkonnen…»

La porta dietro a Paul si aprì con fracasso. Si voltò di scatto e vide un’esplosione di violenza, udì le urla, il cozzare dell’acciaio sull’acciaio, facce di cera che digrignavano nel passaggio.

Con sua madre al fianco, Paul balzò verso la porta. Idaho bloccava il passaggio; i suoi occhi simili a due pozze di sangue brillavano attraverso il confuso alone dello scudo. Numerose mani tentavano di afferrarlo, un turbinio di lame si accaniva inutilmente contro lo scudo. La scarica di uno storditore fu respinta. La spada di Idaho penetrava dovunque in quella massa, guizzando su e giù, grondante sangue.

Poi Kynes fu al fianco di Paul ed entrambi spinsero la porta con tutto il loro peso. Paul vide ancora per un attimo Idaho in piedi, davanti a un’orda di uniformi azzurre degli Harkonnen: barcollava. I suoi scatti erano ancora controllati, ma i suoi capelli neri, riccioluti, erano intrisi di un mortale fiore scarlatto. Poi la porta si chiuse, e Kynes la sbarrò.

«Sembra che io abbia fatto la mia scelta» dichiarò.

«Qualcuno ha scoperto i vostri macchinari prima che fossero spenti» disse Paul. Allontanò sua madre dalla porta, e lesse la disperazione nei suoi occhi.

«Avrei dovuto sospettarlo, quando il caffè non è arrivato» disse Kynes.

«C’è un’altra uscita. Possiamo usarla?»

Kynes respirò profondamente: «Questa porta dovrebbe resistere almeno venti minuti, a meno che non usino i laser».

«Non useranno i laser. Noi potremmo avere degli scudi.»

«Erano Sardaukar nelle uniformi degli Harkonnen» bisbigliò Jessica.

Ora potevano sentire che picchiavano contro la porta, in cadenza.

Kynes indicò i classificatori metallici sulla parete di destra, e disse: «Da questa parte».

Si avvicinò al primo classificatore, aprì un cassetto e azionò una leva all’interno.

L’intera parete si aprì, mostrando la nera imboccatura di un tunnel. «Anche questa porta è di plastacciaio» spiegò Kynes.

«Vi siete ben preparato» commentò Jessica.

«Siamo vissuti sotto gli Harkonnen per ottant’anni» replicò Kynes, e li sospinse verso il buio. Poi chiuse la porta alle loro spalle. Davanti a loro, sul pavimento, Jessica vide subito una freccia luminosa.

La voce di Kynes si fece udire dietro di loro: «Ci separiamo qui. Questa porta è molto più resistente. Ci vorrà almeno un’ora per abbatterla. Seguite le frecce come questa, sul pavimento. Esse si spegneranno dopo il vostro passaggio. Conducono attraverso un labirinto verso un’altra uscita, dove ho nascosto un ornitottero. C’è una tempesta sul deserto, questa notte. La vostra unica speranza è quella di arrivare in tempo per la tempesta: balzate in cima ad essa e cavalcatela. Così ha fatto il mio popolo per rubare gli ornitotteri. Se resterete in alto, sopra la tempesta, vi salverete».

«E voi?» chiese Paul.

«Io cercherò di fuggire da un’altra parte. Se vengo catturato… ebbene, io sono pur sempre il Planetologo Imperiale. Posso dire che ero vostro prigioniero.»

Fuggire come dei codardi, pensò Paul. Ma come potrei sopravvivere altrimenti, per vendicare mio padre? Nell’oscurità, si voltò verso la porta.

Jessica lo sentì muoversi. «Duncan è morto, Paul» gli disse. «Non hai visto la ferita? Non puoi fare più nulla, per lui.»

«Un giorno, gliela farò pagare per tutto questo.»

«No, a meno che non vi muoviate subito e in fretta» intervenne Kynes. Paul sentì la mano dell’uomo sulla sua spalla. «Manderò i Fremen a cercarvi. Il percorso della tempesta è noto. Affrettatevi ora, e che la Grande Madre vi dia velocità e fortuna.»

Sentirono che si allontanava a tentoni, nel buio.

Jessica trovò la mano di Paul e lo attirò a sé, dolcemente: «Non dobbiamo separarci».

«No.»

Lasciò che lei superasse la prima freccia e vide che questa si spegneva mentre la toccavano. Un’altra freccia indicò la via davanti a loro.

La superarono e la freccia si estinse, mentre una terza si accese.

Ora stavano correndo.

Piani nei piani nei piani, pensò Jessica. Siamo forse parte del piano di qualcun altro?

Le frecce li guidarono di curva in curva, sfiorando ingressi laterali appena intravisti nella debole luminescenza. La galleria continuò a sprofondare, finché a un certo punto cominciò a risalire. Alla fine raggiunsero dei gradini. Un’ultima svolta e si trovarono davanti a una parete luminescente con una maniglia nera, ben visibile, al centro.

Paul premette la maniglia.

La parete si allontanò da loro. Una luce si accese rivelando ai loro occhi una caverna intagliata nella roccia e un ornitottero accovacciato al centro. Una parete grigia e piatta era al di là del velivolo, col segno appena visibile di una porta.

«Dov’è Kynes?» chiese Jessica.

«Ha fatto quello che ogni buon capo di guerriglieri farebbe» disse Paul. «Ci ha diviso in due gruppi, e ha fatto in modo che gli fosse impossibile rivelare dove siamo, se fosse catturato. Infatti, egli non lo sa.»

Paul la fece entrare nella caverna e osservò che i loro passi sollevavano fitte nubi di polvere.

«Nessuno è stato qui da molto tempo» disse.

«Sembrava assai fiducioso che i Fremen potranno trovarci» replicò Jessica.

«Condivido la sua fiducia.»

Paul le lasciò la sua mano e si avvicinò allo sportello sinistro dell’ornitottero; lo aprì e infilò dentro lo zaino Fremen, al sicuro, sul sedile posteriore. «Questo ornitottero non rivelerà la sua presenza» disse Paul. «Ha una mascheratura completa. Il quadro di comando controlla a distanza le porte e le luci. Ottant’anni sotto gli Harkonnen hanno insegnato qualcosa.»

Jessica si appoggiò sull’altro lato del velivolo per riprender fiato.

«Gli Harkonnen non sono stupidi» replicò. «Essi avranno disposto una forza aerea su tutta la zona.» Consultò il suo senso dell’orientamento e puntò la mano verso destra: «La tempesta è in quella direzione».

Paul annuì, lottando contro un’improvvisa ripugnanza a muoversi. Ne conosceva la causa, ma questa conoscenza non gli era di alcuna utilità. Quella notte, a un certo momento, aveva superato un nesso decisivo, puntando verso il grande ignoto. Conosceva ormai la regione temporale che lo circondava, ma il qui e l’adesso restavano un mistero. Era come se avesse visto se stesso, da lontano, scomparire in una valle. Fra gli innumerevoli sentieri che uscivano dalla valle, alcuni avrebbero riportato alla sua vista un Paul Atreides, altri no.

«Più aspettiamo, più si saranno organizzati» disse Jessica.

«Entra e allacciati la cintura.»

Paul la raggiunse nell’ornitottero, lottando ancora col pensiero che questa era una regione oscura, una regione che non aveva mai visto nelle sue precognizioni. E all’improvviso capì che si era sempre più affidato ai suoi poteri di preveggenza, e che ora veniva colto impreparato in un momento decisivo.

«Se ti affidi soltanto al tuo sguardo, gli altri tuoi sensi s’indeboliranno» questo era un assioma Bene Gesserit. Ora lo fece suo, giurando a se stesso di non cadere mai più in quella trappola… se fosse sopravvissuto.

Paul si allacciò le cinghie, si assicurò che sua madre fosse a posto, controllò il velivolo. Le ali erano completamente dispiegate, in posizione di riposo. Azionò le leve e vide le ali che si ripiegavano per la spinta iniziale dei jet, nel modo in cui Gurney Halleck gli aveva insegnato. Il contatto per l’accensione si muoveva senza difficoltà. I quadranti s’illuminarono mentre i serbatoi dei jet si caricavano.

«Pronta?» chiese.

«Sì.»

Toccò il comando a distanza per le luci.

Le tenebre li avvolsero.

La sua mano era un’ombra contro i quadranti luminosi, mentre premeva il pulsante del controllo a distanza della porta. Si udì un rumore stridente davanti a loro. Una cascata di sabbia precipitò all’interno con un tonfo, poi di nuovo il silenzio. Una brezza polverosa sfiorò le guance di Paul. Sbatté lo sportello dalla sua parte. Subito si ristabilì la pressione interna.

Un ampio poligono di cielo stellato, offuscato dalla polvere, era comparso dove prima si trovava la parete. Una sporgenza rocciosa si stagliava più avanti, contro le stelle ammiccanti tra turbini di sabbia.

Paul premette il pulsante luminoso per la sequenza automatica del decollo. Le ali cominciarono a battere, proiettando l’ornitottero fuori del nido. L’energia scaturì rombando dai jet, mentre le ali si bloccavano nella posizione di ascesa.

Le mani di Jessica scivolarono leggere sul duplicato dei comandi, imitando i gesti decisi di suo figlio. Era spaventata, e tuttavia esilarata: Ora, pensò, l’addestramento di Paul è la nostra unica speranza, con la sua giovinezza e la sua vitalità.

Paul diede ancora energia alle capsule dei jet. L’ornitottero s’inclinò rapidamente su un lato, schiacciandoli sui loro sedili, mentre una parete oscura si stagliava contro le stelle davanti a loro. Paul impresse al velivolo ancora più potenza, dispiegando le ali. Un altro battito e balzarono più in altro delle rocce, il cui profilo dentato color del ghiaccio sporgeva dal suolo con le angolazioni più bizzarre. La seconda luna, arrossata dalla polvere, spuntò all’orizzonte alla loro destra, illuminando la scia della tempesta.

Le mani di Paul danzarono sopra i comandi. Le ali rientrarono fino a trasformarsi nei moncherini di uno scarabeo. L’accelerazione schiacciò ancora il loro corpo, mentre il velivolo s’inclinava in un’altra curva.

«Fiamme di jet alle nostre spalle!» esclamò Jessica.

«Le ho viste.»

Abbassò del tutto la leva dell’energia.

L’ornitottero balzò in avanti come un animale spaventato, innalzandosi verso sudovest, in direzione della tempesta e della grande curva del deserto. Non molto lontano, Paul scorse delle ombre spezzate che indicavano dove finiva la linea delle rocce, sprofondando sotto la sabbia. Più oltre, sotto la luna, un’immensa distesa di ombre ad artiglio: le dune.

Sopra l’orizzonte imperversava la tempesta, come una muraglia bruna contro le stelle.

L’ornitottero sobbalzò violentemente.

«Proiettili esplosivi!» esclamò Jessica. «Ci bombardano con un cannone!»

Un sogghigno selvaggio si disegnò sul volto di Paul: «Non osano più bersagliarci coi laser!»

«Ma noi non abbiamo scudi!»

«E loro come fanno a saperlo?»

L’ornitottero sobbalzò una seconda volta.

Paul lanciò un’occhiata dietro la spalla: «Solo uno degli apparecchi sembra abbastanza veloce per inseguirci».

Rivolse nuovamente l’attenzione ai comandi, mentre la tempesta s’innalzava sempre più sopra di loro, dall’apparenza sempre più solida e invalicabile.

«Armi da fuoco, missili, tutto l’antico armamentario: ecco che cosa daremo ai Fremen» mormorò Paul.

«La tempesta» disse Jessica. «Non sarebbe meglio tornare indietro?»

«E l’ornitottero alle nostre spalle?»

«Sta virando.»

Paul ritirò bruscamente le ali e virò strettamente verso il ribollire lento e ingannatore della tempesta. Paul sentì le sue guance infossarsi per la violenta accelerazione.

Gli parve di sprofondare in una nuvola di polvere che si faceva via via più densa. Il deserto e la luna scomparvero. L’ornitottero fu soltanto un lungo bisbigliare che volava, orizzontale, nelle tenebre, illuminato unicamente dal riflesso verde dei comandi.

Tutti gli avvertimenti che aveva udito a proposito di queste tempeste passarono in un lampo nella mente di Jessica: esse tagliavano il metallo come burro, corrodevano la carne fino alle ossa, e dissolvevano anche queste. Densi vortici di polvere schiaffeggiavano il velivolo, facendolo roteare mentre Paul lottava ai comandi. Tolse l’energia all’ornitottero e questo s’impennò. Il metallo intorno a loro crepitò e gemette.

«Sabbia!» urlò Jessica.

Vide il cenno negativo di Paul alla debole luce dei quadranti: «Non c’è sabbia a quest’altezza!»

Ma Jessica sentì che s’immergevano sempre più profondamente nel turbinìo.

Paul proiettò all’esterno le ali al massimo: scricchiolarono per lo sforzo. Tenne gli occhi fissi sugli strumenti, pilotando il velivolo istintivamente, lottando per non perdere quota.

Lo stridio intorno a loro diminuì.

L’ornitottero deviò a sinistra e Paul si concentrò sul punto luminoso dell’altimetro, manovrando disperatamente per raddrizzarlo e riportarlo sulla linea di volo. Jessica ebbe l’orribile impressione che il velivolo si fosse fermato e che tutti i movimenti avvenissero all’esterno. Solo la polvere rossiccia che spazzava i finestrini, il rimbombo continuo e il lacerante crepitio le ricordarono le forze che si scatenavano intorno a loro.

Il vento raggiunge senz’altro la velocità di settecento chilometri all’ora, pensò, e percepì il morso dell’adrenalina. Non devo aver paura, si disse, e intonò la litania Bene Gesserit: La paura uccide la mente.

Lentamente i suoi lunghi anni di addestramento fecero sentire il loro effetto e la calma ritornò in lei.

«Stiamo cavalcando la tigre» mormorò Paul. «Non possiamo discendere, non possiamo atterrare… e non credo che riuscirei a schizzar fuori dall’alto. Dobbiamo galoppare con la tempesta fino in fondo.»

La calma l’abbandonò di nuovo. Jessica sentì i denti battere e li strinse con forza. Poi udì la voce di Paul, bassa e controllata, che recitava la litania:

«Non devo aver paura. La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale. Guarderò in faccia la mia paura. Permetterò che mi calpesti e mi attraversi. E quando sarà passata, aprirò il mio occhio interiore e ne scruterò il percorso. Là dove andrà la paura non ci sarà più nulla. Soltanto io ci sarò».

Che cosa disprezzi? È da questo che ti si conosce veramente.

dal «Manuale di Muad’Dib», della Principessa Irulan


«Sono morti, Barone» dichiarò Iakin Nefud, il nuovo capitano delle guardie. «Sono certamente morti, il ragazzo e la donna.»

Il Barone Vladimir Harkonnen sollevò dal letto il proprio corpo avvolto nei sospensori, nel suo appartamento privato. Tutto intorno a lui, al di là dell’appartamento, si stendeva come un uovo dai molti gusci il trasporto spaziale che lo aveva portato su Arrakis. Qui, tuttavia, nel suo appartamento, il nudo metallo della nave era ricoperto di tappezzerie, imbottiture e oggetti rari e raffinati.

«È una certezza» ripeté il capitano delle guardie. «Sono morti.»

Il Barone spostò il suo corpo avvolto nei sospensori e concentrò l’attenzione su una statua di legno mimetico, in una nicchia, che raffigurava un ragazzo colto nell’atto di saltare. Si svegliò completamente. Raddrizzò i sospensori sotto le grasse pieghe del collo, e, al di là dell’unico globo luminoso della stanza, occhieggiò sulla soglia il capitano Nefud, in piedi, immobilizzato dal pentascudo.

«Sono morti, Barone» insistette l’uomo.

Il Barone colse nello sguardo vago dell’uomo i sintomi della semuta. Era fin troppo chiaro che Nefud era sprofondato nella droga, quando aveva ricevuto il rapporto e aveva assorbito l’antidoto prima di precipitarsi verso la sua camera.

«Ho un rapporto completo» dichiarò Nefud.

Facciamolo sudare un poco, pensò il Barone. Gli strumenti del potere devono essere pronti e affilati, sempre. Potere e paura… Pronti e affilati.

«Hai visto i loro corpi?»

Nefud esitò.

«Allora?»

«Mio Signore… li hanno visti mentre si tuffavano in una tempesta di sabbia… raffiche a più di ottocento chilometri all’ora… Niente sopravvive a una simile tempesta, mio Signore, niente! Uno dei nostri velivoli è rimasto distrutto nel tentativo d’inseguirli.»

Il Barone fissava Nefud, notando il tic nervoso nei muscoli della mascella, il modo in cui il mento scattava quando tentava d’inghiottire.

«Hai visto i corpi?» domandò il Barone.

«Mio Signore…»

«E perché mai ti sei precipitato fin qui, con la tua armatura tintinnante, a spacciarmi per sicura una cosa che non lo è?» ruggì il Barone. «Credi forse di meritarti una lode per la tua stupidaggine? O un’altra promozione?»

Il volto di Nefud impallidì come un teschio.

Guarda questo codardo! pensò il Barone. Eccomi circondato da una banda d’idioti. Se spargessi della sabbia davanti a lui e gli dicessi che è grano, si metterebbe a beccarlo.

«Quell’uomo, Idaho… ci ha condotto da loro?» chiese il Barone.

«Sì, mio Signore.»

Guarda come sputa fuori le cose. «Allora, cercavano di raggiungere i Fremen?»

«Sì, mio Signore.»

«C’è ancora altro da aggiungere a questo… rapporto?»

«Il Planetologo Imperiale Kynes è implicato, mio Signore. Idaho ha raggiunto Kynes in circostanze misteriose… potrei dire addirittura sospette.»

«E allora?»

«Ah… sono fuggiti insieme nel deserto verso un rifugio in cui sembra si trovassero già madre e figlio. Nell’eccitazione della caccia, molti dei nostri sono stati uccisi dall’esplosione di un laser contro uno scudo.»

«Quanti uomini abbiamo perduto?»

«Io non… non so ancora la cifra esatta, mio Signore.»

Mente, pensò il Barone. Dev’essere assai alta.

«Quel lacché imperiale, quel Kynes» continuò il Barone, «faceva il doppio gioco, eh?»

«Ci scommetto la mia reputazione, mio Signore.»

La sua reputazione!

«Uccidetelo» ordinò il Barone.

«Mio Signore! Kynes è il Planetologo Imperiale, al servizio personale di Sua Maestà…»

«Fai che sembri un incidente, allora».

«Mio Signore, c’erano dei Sardaukar insieme con i nostri uomini, quando abbiamo attaccato quel nido di Fremen. Ora, Kynes è sotto la loro custodia.»

«Fattelo riconsegnare. Riferisci che voglio interrogarlo.»

«E se rifiutano?»

«Non rifiuteranno, se sarai abbastanza abile.»

Hafud deglutì. «Sì, mio Signore.»

«Quell’uomo deve morire!» urlò il Barone. «Ha tentato di aiutare i miei nemici!» (Nefud spostò il suo peso da un piede all’altro).

«Sì?»

«Mio Signore, i Sardaukar hanno… un’altra persona in custodia, che potrebbe interessarvi. Hanno catturato il Maestro degli Assassini del Duca.»

«Hawat? Thufir Hawat?»

«Ho visto io stesso il prigioniero, mio Signore.»

«Impossibile!»

«Dicono che è stato colpito da uno storditore, mio Signore. Nel deserto, dove non poteva usare lo scudo. È virtualmente illeso. Se lo avessimo tra le mani ci potremmo divertire parecchio.»

«Stai parlando di un Mentat» ringhiò il Barone. «Non si spreca così un Mentat. Ha parlato? Che cosa pensa della sua cattura? Sa l’ampiezza del… ma no.»

«Ha detto soltanto, mio Signore, che è convinto di essere stato tradito da Lady Jessica.»

«Ah!…»

Il Barone si sedette, pensando. Poi: «Ne sei certo? È Lady Jessica che è al centro della sua furia?»

«Lo ha dichiarato in mia presenza, mio Signore.»

«Lasciagli credere che sia viva, allora.»

«Ma, mio Signore…»

«Calma. Voglio che Hawat sia trattato con cortesia. Non dirgli nulla del defunto dottor Yueh, il vero traditore. Digli che il dottor Yueh è morto difendendo il suo Duca. In un certo senso questo può anche essere vero. Invece alimenteremo i suoi sospetti verso Lady Jessica.»

«Ma, mio Signore, io non…»

«Il miglior modo di controllare e dirigere un Mentat, Nefud, è con le informazioni. False informazioni, falsi risultati.»

«Sì, mio Signore, ma…»

«Hawat ha fame? Ha sete?»

«Mio Signore, Hawat è ancora nelle mani dei Sardaukar!»

«Sì, è vero. Sì. Ma i Sardaukar saranno ansiosi quanto me di ottenere informazioni da Hawat. Ho osservato una cosa nei nostri alleati, Nefud. Politicamente non sono molto… tortuosi. Credo che questo sia il desiderio dell’Imperatore. Sì, ne sono convinto. Ricorda al capo dei Sardaukar la mia abilità nell’ottenere informazioni dai soggetti più riluttanti.»

Nefud parve molto infelice. «Sì, mio Signore.»

«Dirai al comandante dei Sardaukar che voglio interrogare sia Hawat che Kynes, contemporaneamente, mettendoli l’uno contro l’altro. Spero che capisca almeno questo.»

«Sì, mio Signore.»

«E quando li avremo nelle nostre mani…» Il Barone annuì.

«Mio Signore, il Sardaukar vorrà che un suo osservatore sia presente ad ogni… interrogatorio.»

«Riusciremo senz’altro a creare una situazione di emergenza che allontani qualsiasi osservatore non richiesto, Nefud.»

«Capisco, mio Signore. E allora Kynes avrà il suo incidente.»

«Sia Kynes sia Hawat avranno incidenti, Nefud. Ma soltanto Kynes avrà un vero incidente. È Hawat che voglio. Sì… Oh, sì.»

Nefud ammiccò e inghiottì. Sembrò sul punto di fargli una domanda, ma si trattenne.

«Darai a Hawat cibo e bevande» disse il Barone. «Farai in modo che sia trattato con gentilezza e simpatia. Nella sua acqua verserai quel veleno residuo messo a punto da Piter de Vries. Ma soprattutto, veglierai che l’antidoto sia sempre presente nel suo cibo, d’ora in poi… a meno che io non dica altrimenti.»

«L’antidoto, sì.» Nefud scosse la testa. «Ma…»

«Non fare l’idiota, Nefud. Il Duca mi ha quasi ucciso con quella capsula nel dente. Il gas che ha esalato in mia presenza mi ha privato del mio Mentat più prezioso, Piter. Ho bisogno di un sostituto.»

«Hawat?»

«Hawat.»

«Ma…»

«Stai per dirmi che Hawat ha una fedeltà assoluta verso gli Atreides. È vero, ma gli Atreides sono morti. Lo convinceremo con paroline dolci. Gli diremo che non è lui che va biasimato per la fine del Duca. È stato tutto un piano di quella strega Bene Gesserit. Il suo padrone era un debole, la cui ragione si lasciava offuscare dalle emozioni. I Mentat ammirano colui che è abile a calcolare senza emozioni, Nefud. Noi alletteremo il formidabile Thufir Hawat.»

«Allettarlo. Sì, mio Signore.»

«Hawat, sfortunatamente, aveva un padrone di scarse risorse, uno che non poteva innalzarlo alle altezze sublimi di ragionamento che spettano di diritto a un Mentat. Hawat dovrà ammettere che c’è un fondo di verità, in questo. Il Duca non poteva permettersi spie più efficienti per garantire al suo Mentat le indispensabili informazioni.» Il Barone fissò Nefud. «Non cerchiamo mai d’ingannarci tra noi, Nefud. La verità è un’arma molto potente. Noi sappiamo come abbiamo trionfato sugli Atreides. Anche Hawat lo sa. Grazie alla nostra ricchezza.»

«La ricchezza. Sì, mio Signore.»

«Alletteremo Hawat» continuò il Barone. «Lo nasconderemo ai Sardaukar. E terremo in riserva… la facoltà di togliergli l’antidoto del veleno. Non c’è alcun modo di asportare un veleno residuo. E, Nefud, Hawat non avrà mai bisogno di sospettarlo. L’antidoto non tradirà la sua presenza al rivelatore di veleni. Hawat potrà controllare le sue pietanze come vorrà, e non troverà alcuna traccia di veleno.»

Gli occhi di Nefud si spalancarono, indicando che aveva capito.

«L’assenza di una cosa può essere mortale come la sua presenza» disse ancora il Barone. «L’assenza dell’aria, eh? L’assenza dell’acqua, l’assenza di qualsiasi altra cosa alla quale siamo abituati.» Il Barone annuì. «Capisci, Nefud?»

Nefud inghiottì. «Sì, mio Signore.»

«Allora, muoviti. Trova il comandante dei Sardaukar e inizia le operazioni.»

«Subito, mio Signore.» Nefud s’inchinò, si voltò e si allontanò di corsa.

Hawat al mio fianco! pensò il Barone. I Sardaukar me lo daranno. Nel peggior dei casi sospetteranno che io voglia distruggere il Mentat. E io confermerò il loro sospetto! Gli idioti! Uno dei più formidabili Mentat di tutta la storia, un Mentat addestrato a uccidere, e me lo lasceranno come uno stupido giocattolo da fare a pezzi! Ma io mostrerò loro in che modo si può usare un simile giocattolo!

Il Barone infilò una mano dietro una tenda, accanto al letto a sospensione e premette un pulsante per chiamare il suo nipote più anziano, Rabban. Poi si distese di nuovo, sorridendo.

E tutti gli Atreides morti!

Quello stupido comandante delle guardie aveva ragione, naturalmente Niente poteva sopravvivere a una tempesta di sabbia su Arrakis. Non certo un ornitottero… o i suoi occupanti. La donna e il ragazzo erano morti. Tutte le corruzioni al punto giusto, le incredibili spese per trasportare quelle soverchianti forze militari sul pianeta… tutti gli ambigui rapporti confezionati su misura per le orecchie dell’Imperatore, tutto il vasto piano accuratamente messo a punto… E tutto questo, infine, dava i suoi frutti!

Potere e paura… paura e potere!

Il Barone vedeva il cammino tracciato davanti a lui. Un giorno, un Harkonnen sarebbe stato Imperatore. Non lui stesso, non il frutto della sua carne. Ma un Harkonnen. Non quel Rabban che aveva appena chiamato, naturalmente. Ma il fratello più giovane di Rabban, Feyd-Rautha. C’era in quel ragazzo una certa acutezza, una ferocia… che facevano gioire il Barone.

Un ragazzo adorabile, pensò. Diamogli ancora un anno o due: quando avrà diciassette anni, allora saprò di sicuro se è lo strumento adatto alla Casa degli Harkonnen per la conquista del trono.

«Mio Signor Barone…»

L’uomo che era comparso sulla soglia della camera da letto, al di là dello scudo, era basso di statura, il volto massiccio coi lineamenti degli Harkonnen, gli occhi stretti e le spalle grosse. C’era una certa rigidità nel suo grasso, ma si capiva chiaramente che un giorno anche lui avrebbe dovuto usare i sospensori portatili per trasportare l’eccesso del proprio peso.

Una mente dura e muscolosa in quel cervello, pensò il Barone. Non è un Mentat, mio nipote, non è un Piter de Vries, ma è senza dubbio adatto per i compiti che gli affiderò adesso. Se gli lascio piena libertà, schiaccerà tutto al suo passaggio. Oh, come lo odieranno, qui su Arrakis!

«Mio caro Rabban» disse il Barone. Disinnescò il campo di forza alla porta, ma conservò, intenzionalmente, il suo scudo individuale, sapendo che il luccichio del globo accanto al suo letto l’avrebbe rivelato.

«Mi hai chiamato» replicò Rabban. Entrò nella stanza, lanciò una rapida occhiata alla turbolenza dell’aria dovuta allo scudo. Si guardò intorno, cercando una sedia, ma non la trovò.

«Avvicinati un po’ di più, fatti vedere» l’invitò il Barone.

Rabban fece un altro passo, maledicendo quel maledetto vecchio che aveva fatto sparire le sedie per obbligare i visitatori a restare in piedi.

«Gli Atreides sono morti» disse il Barone. «Tutti, fino all’ultimo. È per questo che ti ho fatto venire su Arrakis. Di nuovo, questo mondo è tuo.»

Rabban ammiccò: «Ma io credevo che tu avessi proposto a Piter de Vries di…»

«Anche Piter è morto.»

«Piter?»

«Piter.»

Il Barone riattivò il campo della porta, contro qualsiasi penetrazione di energia.

«Ti sei finalmente stancato di lui, eh?» chiese Rabban.

La sua voce risuonò piatta e senza vita nella stanza schermata.

«Una volta per tutte, ascoltami bene» tuonò il Barone. «Tu insinui che io abbia eliminato Piter come si cancella un’inezia… così?» Fece schioccare le dita grassocce. «Non sono così stupido, nipote. La prossima volta che ti salterà in mente di suggerire, con le parole o con gli atti, che io sia uno stupido, non lascerò passare l’offesa!»

Un lampo di paura comparve negli occhi porcini di Rabban. Egli sapeva, entro certi limiti, fino a che punto il Barone avrebbe agito contro un membro della sua famiglia. Non l’avrebbe certo ucciso, a meno che non ne avesse ricavato un enorme profitto o non fosse stato provocato. Ma ugualmente una punizione di famiglia poteva essere molto dolorosa.

«Perdonami, Mio Signore e Barone» balbettò Rabban. Abbassò gli occhi, sia per nascondere la rabbia sia per mostrarsi ossequioso.

«Non cercare d’ingannarmi, Rabban» disse il Barone.

Rabban tenne gli occhi abbassati, inghiottendo.

«Ti ho insegnato una cosa» insistette il Barone. «Mai sopprimere un uomo senza riflettere, come potrebbe farlo una faida con un processo completamente automatico. Fallo sempre per qualche ragione fondamentale… e sii consapevole di questa ragione!»

«Ma tu hai fatto uccidere il traditore, Yueh!» La rabbia trapelava dalle parole di Rabban. «Quando sono arrivato, la notte scorsa, ho visto che trascinavano fuori il suo corpo!» Si arrestò, fissando lo zio, spaventato dal suono delle sue stesse parole.

Ma il Barone sorrise: «Io sono molto prudente con le armi pericolose» disse. «Il dottor Yueh era un traditore. Mi ha consegnato il Duca.» La voce del Barone divenne più squillante. «Ho corrotto un dottore della Scuola Suk! La Scuola Interna! Hai capito, ragazzo? Un’arma micidiale… guai a lasciarla in giro. Non l’ho soppresso senza riflettere.»

«L’Imperatore sa che hai corrotto un dottore della Scuola Suk?»

Domanda acuta, pensò il Barone. Ho forse giudicato male questo mio nipote?

«L’Imperatore ancora non lo sa» rispose. «Ma i suoi Sardaukar certamente glielo diranno. Prima che questo accada, tuttavia, avrò già fatto pervenire nelle sue mani il mio rapporto, attraverso la CHOAM. Gli spiegherò che, per fortuna, ho scoperto un dottore che fingeva di essere condizionato. Un falso dottore, capisci? Poiché tutti sanno che non è possibile violare il condizionamento di una Scuola Suk, la mia affermazione sarà accettata.»

«Ah, vedo» mormorò Rabban.

E il Barone pensò: Spero davvero che tu capisca. Spero che tu capisca la necessità del segreto. Ma all’improvviso si chiese: Perché ho fatto questo? Perché mi sono vantato con questo mio sciocco nipote che dovrò utilizzare e poi scartare? Il Barone s’infuriò con se stesso. Sentì di essersi tradito.

«È necessario che resti segreto» disse Rabban. «Capisco.»

Il Barone sospirò: «Nipote mio, questa volta le tue istruzioni per Arrakis sono diverse. Quando hai governato questo mondo per l’ultima volta, ti ho strettamente imbrigliato. Questa volta, invece, ho un’unica richiesta da farti».

«Mio Signore?»

«Profitto.»

«Profitto?»

«Hai nessuna idea, Rabban, di quanto abbiamo speso per scatenare una simile armata contro gli Atreides? E non sai quanto esige la Gilda per il trasporto di un esercito?»

«Costoso, non è vero?»

«Costosissimo!»

Il Barone puntò il dito grassoccio contro Rabban: «Se spremerai da Arrakis ogni centesimo per i prossimi sessant’anni, questo servirà appena a ripagarci!»

Rabban aprì la bocca, e la richiuse senza dir parola.

«Costosissimo…» sogghignò il Barone. «Quel dannato monopolio spaziale della Gilda ci avrebbe rovinato, se non avessi previsto questa spesa molto tempo fa. Devi sapere, Rabban, che noi ne abbiamo sostenuto tutto il peso. Abbiamo perfino pagato il trasporto dei Sardaukar.»

E il Barone si chiese (non era la prima volta) se mai sarebbe giunto il giorno in cui avrebbe potuto aggirare la Gilda. Erano perfidi: ti toglievano il sangue quel tanto che bastava per impedire che tu facessi obiezioni, fino al giorno in cui ti avevano in pugno e ti costringevano a pagare, a pagare, a pagare.

E come sempre, i costi più esorbitanti toccavano alle spedizioni militari. «La tariffa del rischio» spiegavano gli untuosi agenti della Gilda. E per un solo uomo che riuscivi a infilare dentro alla Banca della Gilda, loro te ne piazzavano due nella tua organizzazione.

Intollerabile!

«Profitto, allora» ripeté Rabban.

Il Barone abbassò il dito e strinse il pugno. «Devi spremere!»

«E potrò fare tutto quello che voglio, finché continuerò a spremere?»

«Tutto quello che vuoi.»

«I cannoni che hai portato» fece Rabban. «Potrei…»

«Li porterò via» disse il Barone.

«Ma…»

«Non hai bisogno di quei giocattoli. Erano un’innovazione tutta speciale, ma ora sono inutili. Ci serve il metallo. Non possono essere usati contro uno scudo, Rabban. È stata un’arma a sorpresa. Era prevedibile che gli uomini del Duca si sarebbero ritirati nelle caverne, fra i dirupi di questo abominevole pianeta. I nostri cannoni sono serviti soltanto a sigillarli dentro.»

«I Fremen non usano scudi.»

«Potrai tenere qualche laser, se lo desideri.»

«Sì, mio Signore. E avrò mano libera?»

«Finché continuerai a spremere.»

Il sorriso di Rabban era carico di cupidigia. «Capisco perfettamente, mio Signore.»

«Non capisci niente perfettamente» grugnì il Barone. «Sia ben chiaro: quello che tu devi capire, è come eseguire i miei ordini. Ti sei mai reso conto, Nipote, che ci sono più di cinque milioni di persone su questo pianeta?»

«Il mio Signore si è forse dimenticato che io ero il suo reggente siridar, qui? E se il mio Signore mi perdona… la tua valutazione potrebbe essere inferiore alla realtà. È difficile contare una popolazione sparsa tra i sink e le depressioni. E se si tien conto dei Fremen che…»

«Non vale la pena tener conto dei Fremen!»

«Scusami, mio Signore, ma i Sardaukar la pensano altrimenti.»

Il Barone esitò, fissando suo nipote. «Sai qualcosa?»

«Il mio Signore si era ritirato, quando sono arrivato la notte scorsa. Io… mi son preso la libertà di prendere contatto con alcuni dei miei luogotenenti di… ah, prima. Hanno fatto da guida ai Sardaukar. E mi hanno riferito che una banda di Fremen ha teso un’imboscata a un gruppo di Sardaukar, in qualche punto a sudest di qui, e l’ha massacrato.»

«Massacrato un gruppo di Sardaukar?»

«Sì, mio Signore.»

«Impossibile!»

Rabban scrollò le spalle.

«Fremen che massacrano dei Sardaukar…» lo canzonò il Barone.

«Ripeto soltanto quello che mi hanno detto» ribatté Rabban. «In più, questi Fremen avevano già messo le mani su quel temibile uomo del Duca, Thufir Hawat.»

«Ah…» fece il Barone, con un sorriso.

«Io credo a quel rapporto» insistette Rabban. «Tu non hai la minima idea di quale problema fossero i Fremen.»

«Forse. Ma quelli visti dai tuoi luogotenenti non erano Fremen: erano uomini degli Atreides addestrati da Hawat e travestiti da Fremen. È l’unica spiegazione possibile.»

Rabban scrollò le spalle una seconda volta: «Ebbene, i Sardaukar sono convinti che fossero Fremen, e hanno già scatenato un pogrom per eliminarli tutti!»

«Benissimo.»

«Ma…»

«Servirà a tenere occupati i Sardaukar. E noi avremo subito Hawat. Lo so! Lo sento! Ah, questa sì che è stata una giornata! I Sardaukar là fuori che danno la caccia a qualche banda di straccioni, mentre noi c’impadroniamo del vero bottino!»

«Mio Signore…» Rabban esitò. «Ho sempre avuto l’impressione che noi sottovalutiamo i Fremen, sia in numero che in…»

«Ignorali, ragazzo! Sono feccia. Le metropoli, le città e i villaggi, ecco quello che c’interessa! C’è moltissima gente, lì, non è vero?»

«Sì, mio Signore.»

«Mi preoccupano, Rabban.»

«Ti preoccupano?»

«Oh… il novanta per cento non mi preoccupa. Ma c’è sempre qualcuno, le Case Minori… gente ambiziosa che potrebbe tentare qualcosa di rischioso. Se qualcuno di loro dovesse lasciare Arrakis con qualche storia spiacevole di quanto è accaduto qui, sarei molto dispiaciuto… Non t’immagini quanto, Rabban?»

Rabban deglutì.

«Prendi misure immediate. Un ostaggio per ciascuna delle Case Minori» disse il Barone. «Fuori di Arrakis, tutti devono credere che questa sia stata soltanto una lotta tra due Case. I Sardaukar non c’entrano, capisci? Il Duca si è visto offrire la grazia e l’esilio, come di consueto, ma è morto in uno sfortunato incidente prima che potesse accettare. Stava per accettare, tuttavia. Questa sarà la storia. E qualunque voce che qui c’erano dei Sardaukar dev’essere fonte di riso.»

«Come l’Imperatore desidera» fece Rabban.

«Come l’Imperatore desidera.»

«E i contrabbandieri?»

«Nessuno crede ai contrabbandieri, Rabban. Sono tollerati, ma non creduti. In ogni caso, un po’ di corruzione… e altre precauzioni alle quali, ne sono convinto, penserai da solo…»

«Sì, mio Signore.»

«Mi aspetto due cose, allora, da Arrakis: profitto e uno spietato pugno di ferro. Non devi mostrare nessuna clemenza, qui. Pensa a questi idioti, a quello che sono veramente: schiavi invidiosi dei loro padroni, che aspettano la prima occasione per ribellarsi. Non devi mostrare la più piccola traccia di pietà o di clemenza.»

«È possibile sterminare un intero pianeta?» chiese Rabban.

«Sterminare?» Il Barone, stupito, si girò di scatto a guardarlo. «Chi ha mai parlato di sterminare?»

«Beh, ho pensato che tu avessi intenzione d’importare un nuovo stock di…»

«Ho detto spremere, non sterminare. Non sprecare la popolazione; limitati a sottometterla totalmente. Tu devi essere un autentico carnivoro, ragazzo mio.» Sorrise, un’espressione da bambino su quel viso pieno di fossette. «Un carnivoro non si arresta. Nessuna clemenza. Non fermarti mai. La clemenza è una chimera. Lo stomaco che gorgoglia affamato, la gola assetata che brama la tua acqua possono sconfiggerla… Tu devi sempre avere fame e sete.» Il Barone accarezzò i suoi rotoli di grasso sotto i sospensori. «Come me.»

«Capisco, mio Signore.»

Rabban lanciava occhiate a destra e a sinistra.

«Allora, è tutto chiaro, Rabban?»

«Sì, tutto. Fuorché una cosa, Zio. Il Planetologo Kynes.»

«Ah, sì. Kynes.»

«È l’uomo dell’Imperatore, mio Signore. Può andare e venire come gli aggrada. Ed è molto vicino ai Fremen… Ne ha sposata una.»

«Kynes sarà morto prima di domani sera.»

«È molto pericoloso, Zio, uccidere un servo dell’Imperatore.»

«Come credi che io sia arrivato così lontano e in così breve tempo?» chiese il Barone. La sua voce era bassa, piena d’implicazioni innominabili. «Inoltre, Kynes non potrà mai lasciare Arrakis. Ti stai dimenticando che è intossicato dalla spezia.»

«Oh, sì!»

«Gli intossicati si guardano bene dal mettere in pericolo i propri rifornimenti» disse il Barone. «E Kynes, certamente, lo sa.»

«L’avevo dimenticato» fece Rabban.

Si fissarono in silenzio.

Quindi il Barone riprese: «Incidentalmente, una delle tue prime preoccupazioni sarà quella di garantirmene una buona scorta. Ne ho una discreta quantità nei magazzini, ma quell’incursione suicida degli uomini del Duca ha distrutto la maggior pane della spezia destinata alle vendite».

Rabban annuì: «Sì, mio Signore».

Il Barone sorrise. «E allora, domani mattina raccoglierai quanto resta dell’organizzazione di questo pianeta, e dirai loro: ’Il Nostro Sublime Imperatore Padiscià mi ha incaricato di prendere possesso di questo pianeta e di porre fine ad ogni disputa.’»

«Sì, mio Signore.»

«Sono sicuro che hai capito, questa volta. Domani discuteremo ogni cosa dettagliatamente. Ora lasciami, che voglio finire il mio sonnellino.»

Il Barone disattivò il campo della porta e seguì con lo sguardo il nipote che usciva: Un cervello come una spugna, pensò. Una mente muscolosa e un cervello che è una spugna. Saranno ridotti a una poltiglia sanguinante, quando avrà finito con loro. E quando manderò Feyd-Rautha a togliere il fardello dalle loro spalle, lo accoglieranno come il salvatore. L’amatissimo Feyd-Rautha, Feyd-Rautha il Benigno. L’eroe misericordioso che li salverà dalla bestia. Feyd-Rautha, un condottiero da seguire in capo al mondo, fino alla morte, se necessario. Quando il tempo sarà venuto, il ragazzo avrà imparato come opprimere garantendosi l’impunità. È lui che mi serve, sì. Imparerà. E ha un corpo così adorabile… Che adorabile ragazzo!

All’età di 15 anni aveva già imparato il silenzio.

dalla «Storia di Muad’Dib per bambini»,

della Principessa Irulan


Mentre lottava ai comandi dell’ornitottero, Paul si rese conto che stavano sfuggendo all’intricato groviglio della tempesta. La sua percezione, superiore a quella di un Mentat, gli consentiva di calcolare fulmineamente in base agli indizi più sottili le muraglie di polvere, le depressioni, i turbini più complessi, l’improvviso esplodere di nuovi vortici.

La cabina era come una scatola furiosamente sballottata, nella luminosità verde dei quadranti. Fuori, la polvere era un velo continuo, denso, color ocra, ma i suoi sensi interiori cominciarono a vedere attraverso quel velo.

Devo incontrare il vortice giusto, pensò.

Già da tempo aveva sentito che la violenza della tempesta si attenuava, anche se li scuoteva ancora selvaggiamente. Aspettò un’altra raffica.

Il turbine si scatenò all’improvviso, agitando freneticamente l’apparecchio. Paul scacciò ogni paura, e inclinò l’ornitottero a sinistra.

Jessica si accorse della manovra sull’altimetro.

«Paul!» gridò.

Il vortice si rovesciò, scagliandoli da ogni parte, trascinando con sé l’ornitottero come una foglia su un geyser, sbattendoli su e giù: un granello alato in un’immensa nube di polvere urlante illuminata dalla seconda luna.

Paul guardò in basso, e vide le colonne ascendenti di vento caldo sature di polvere che li avevano inghiottiti e poi rivomitati, vide la tempesta morente che si allontanava come un fiume asciutto nel deserto: un nastro, grigio nel riflesso lunare, che diventava sempre più piccolo sotto di loro mentre salivano sempre più in alto.

«Ne siamo usciti» bisbigliò Jessica.

Paul fece scivolare l’ornitottero fuori della polvere, accelerando all’improvviso, mentre scrutava il cielo notturno.

«Siamo sfuggiti al nemico» disse.

Jessica sentì il cuore balzarle in gola. Si sforzò di calmarsi, e guardò ancora la tempesta che scompariva in lontananza. Il suo senso del tempo le diceva che avevano cavalcato in quella furia cieca di forze primordiali per quasi quattro ore, ma a una parte della sua mente sembrava che fosse trascorsa tutta una vita. Le sembrò di rinascere.

È stato come nella litania, pensò. L’abbiamo affrontata senza far resistenza, e la tempesta è passata attraverso a noi, intorno a noi. È scomparsa, ma noi restiamo.

«Non mi piace il rumore che fanno le ali» disse Paul. «La tempesta le ha danneggiate.»

Gli bastò saggiare i comandi; il velivolo sussultava e raschiava. Erano sfuggiti alla tempesta, ma lui non aveva ancora riacquistato la preveggenza. E tuttavia, si erano salvati. Paul tremò sulla soglia di una rivelazione.

Rabbrividì.

Una sensazione ipnotica, terrificante. Perché? si chiese. Perché questa tremante consapevolezza? Parte di essa era senz’altro dovuta ai cibi saturi di spezia di Arrakis. Ma si convinse che un’altra parte era dovuta alla litania, quasi che le parole avessero un proprio potere.

Non avrò paura…

Causa ed effetto: era vivo nonostante le forze maligne, e si avvicinava a una nuova percezione grazie al potere magico della litania.

Le parole della Bibbia Cattolica Orangista gli risuonarono nella memoria: «Non ci manca forse un senso per vedere e udire un altro mondo, dovunque intorno a noi?»

«Siamo circondati dalle rocce» disse Jessica.

Paul si concentrò sulla guida dell’ornitottero. Scosse la testa per schiarirsi le idee e si guardò intorno. Vide sulla destra nere forme rocciose che emergevano dalla sabbia. Sentì il vento accarezzargli le caviglie, un turbinio di polvere. La tempesta aveva perforato in qualche punto la cabina.

«Meglio atterrare sulla sabbia» disse ancora Jessica. «Le ali rischiano di fracassarsi a una frenata brusca.»

Paul accennò con la testa ad alcune rocce davanti a loro, che sporgevano oltre le dune, alla luce della luna. «Toccheremo terra laggiù. Controlla la cintura.»

Lei obbedì, pensando: Abbiamo acqua e tute distillanti. Se troviamo cibo possiamo sopravvivere a lungo nel deserto. I Fremen vivono qui. Quello che fanno i Fremen possiamo farlo anche noi.

«Nell’istante in cui ci fermiamo, corri verso quelle rocce» disse Paul. «Io porterò lo zaino Fremen.»

«Correre verso…» Tacque e annuì. «I vermi.»

«I nostri amici, i vermi» la corresse Paul. «Si mangeranno l’ornitottero. Non resterà nessuna traccia del nostro atterraggio.»

Coni’è diretta la sua logica, pensò Jessica.

Scivolarono verso il deserto, sempre più in basso…

La lunga planata sembrò animare ogni cosa al loro passaggio: le ombre confuse delle dune, le rocce come isole nella sabbia. L’ornitottero toccò la cima di una duna con un fruscio di seta e balzò verso la duna successiva.

Smorza la nostra velocità sulla sabbia, pensò ancora Jessica, e ammirò la sua abilità.

«Aggrappati forte!» esclamò Paul.

Azionò i comandi delle ali, le aprì lentamente, poi le spalancò. Sentì che facevano presa sull’aria, mentre il vento urlava sempre più forte tra le fessure e le nervature.

Improvvisamente, un debole rollio: l’ala sinistra, indebolita dalla tempesta, si torse verso l’alto e piombò all’indietro, cozzando contro il fianco dell’ornitottero. Il velivolo scivolò lungo la cresta di una duna, inclinandosi a sinistra, rotolò sul lato opposto e si conficcò sulla duna successiva, in un turbine di sabbia. Giacquero immobili sul fianco, sul lato dell’ala spezzata, mentre l’ala intatta puntava verso le stelle. Paul sganciò la cintura di sicurezza, scivolò oltre sua madre, verso l’alto, e spinse con violenza il portello. La sabbia si precipitò dentro la cabina, portando con sé un odore asciutto di pietra focaia. Paul afferrò lo zaino dal sedile posteriore e controllò che sua madre si fosse liberata dalla cintura di sicurezza. Jessica uscì, appoggiandosi al rivestimento metallico dell’ornitottero, e Paul la seguì trascinando lo zaino.

«Corri!» gridò.

Le indicò il pendio della duna, oltre il quale spiccava una guglia rocciosa, smangiata dalla furia del vento e della sabbia.

Jessica balzò giù dall’ornitottero e corse via, inciampando e scivolando lungo la duna. Sentì Paul che la seguiva ansimando. Giunsero sulla cresta sabbiosa che proseguiva verso le rocce.

«Segui la cresta» le ordinò Paul. «Arriveremo prima.»

Arrancarono verso le rocce. La sabbia sembrava incollarsi ai piedi e risucchiarli.

Percepirono allora un altro suono: un bisbiglio muto, un sibilo, un raschiare ovattato.

«Un verme!» esclamò Paul.

Aumentò d’intensità.

«Più presto!» ansimò Paul.

Il primo scalino roccioso, come una spiaggia digradante nella sabbia, era a non più di dieci metri davanti a loro, quando alle loro spalle udirono un fracasso spaventoso e il frantumarsi del metallo. Paul si passò lo zaino sul braccio destro, afferrandolo per le cinghie. Gli batteva sul fianco, mentre correva. Afferrò la madre per un braccio: s’inerpicarono sul pendio roccioso, lungo una superficie cosparsa di ciottoli, dentro un canalone scavato dal vento. Il loro respiro, nella gola riarsa, divenne rauco e ansimante.

«Non ce la faccio più» balbettò Jessica.

Paul si fermò, la spinse in una spaccatura rocciosa, si voltò e guardò giù nel deserto. Al largo dell’isola di roccia, avanzava una duna; le increspature che si formavano sulla sabbia erano illuminate dalla luna, onde di sabbia, uno scavo sotterraneo la cui cresta, quasi allo stesso livello degli occhi di Paul, era visibile a un chilometro di distanza. Il corrugamento tra le dune formava una sola curva, un breve arco di circonferenza che intersecava il punto dove avevano lasciato l’ornitottero.

Non c’era più alcuna traccia del velivolo.

Il cumulo formato dal movimento sotterraneo si allontanò verso l’immensa distesa piatta, poi si voltò e ripercorse lo stesso cammino, come se cercasse qualcosa.

«È più grande di una nave della Gilda» bisbigliò Paul. «Mi avevano detto che i vermi erano giganteschi, nell’alto deserto, ma non mi ero reso conto…»

«Neanch’io» mormorò Jessica.

Ancora una volta la cosa si allontanò dalle rocce, descrivendo una grande curva, sempre più lontana, verso l’orizzonte. Restarono in ascolto, finché il rumore del suo passaggio si confuse col lieve fruscio della sabbia, intorno a loro.

Paul sospirò, fissò la scarpata illuminata dalla gelida luce della luna e citò una frase del Kitab al-Ibar. «Viaggia di notte e riposati all’ombra durante il giorno». Guardò sua madre. «Abbiamo ancora qualche ora, prima che sorga il sole. Puoi camminare ancora?»

«Fra un momento.»

Paul salì sul masso, si mise lo zaino in spalla, aggiustandone le cinghie. Restò un attimo immobile, consultando una parabussola.

«Appena sei pronta» disse.

Lei si avvicinò, camminando sulla roccia, e sentì che le forze le ritornavano. «Da che parte?»

«Fin dove conduce questa cresta.» E indicò la direzione.

«Nelle profondità del deserto.»

«Il deserto dei Fremen» mormorò Paul.

E si arrestò, ricordando nell’intimo le immagini che si erano stagliate chiaramente in una delle sue premonizioni su Caladan. Aveva visto questo deserto. Ma, nell’insieme, la visione era stata sottilmente diversa, un’immagine ottica scomparsa dalla sua coscienza dopo essere stata assorbita dalla memoria e che ora non riusciva più a sovrapporsi perfettamente alla scena reale. La visione sembrava essersi sfalsata, avvicinandosi da un’angolazione diversa, mentre lui restava lì, immobile.

Idaho era con noi, in quella visione, ricordò. Ma ora Idaho è morto.

«Sai dove andare?» gli chiese Jessica, male interpretando la sua esitazione.

«No» disse lui, «ma andremo lo stesso.»

Si assicurò più saldamente lo zaino sulle spalle e s’incamminò decisamente in un cunicolo scavato dalla sabbia nella roccia. Il solco si apriva su un tavolato roccioso illuminato dalla luna, che s’innalzava verso sud in una serie di terrazze.

Paul si avvicinò al primo gradino roccioso e si arrampicò sopra di esso. Jessica lo seguì. Si rese conto ben presto che il loro cammino esigeva una continua improvvisazione, le sacche di sabbia fra le rocce che rallentavano i loro passi, le creste affilate dal vento che tagliavano le mani, i macigni disseminati qua e là che obbligavano a una scelta: scalarli o aggirarli? Il terreno imponeva il proprio ritmo. Parlavano solo quand’era necessario, con voci rauche per lo sforzo.

«Fai attenzione, qui. La sabbia è scivolosa.»

«Quella sporgenza rocciosa… Giù la testa!»

«Passa sotto a quella cresta: abbiamo la luna alle spalle e chiunque là fuori potrebbe vederci.»

Paul si fermò in una rientranza della roccia, appoggiando lo zaino a una stretta sporgenza. Jessica si appoggiò accanto a lui, felice per quell’istante di riposo. Sentì che Paul aspirava dal tubo della sua tuta distillante, e anche lei sorseggiò qualche goccia dell’acqua rigenerata. Aveva un gusto insipido e si ricordò delle acque di Caladan: un’alta fontana che racchiudeva nel suo zampillo un’intera curva di cielo, una tale ricchezza d’acqua che si distingueva di essa soltanto la forma, o i riflessi, o il suono, fermandosi accanto.

Fermarsi, pensò. Fermarsi… fermarsi davvero.

La vera felicità, si accorse, era questa: la possibilità di fermarsi, sia pure per un istante. Non c’era alcuna felicità, altrimenti.

Paul si allontanò dalla sporgenza rocciosa, si voltò e si arrampicò lungo una superficie inclinata. Jessica lo seguì sospirando.

Scivolarono giù su un’ampia piattaforma che costeggiava, aggirandola, una parete rocciosa a picco. Di nuovo ripresero ad avanzare irregolarmente sul terreno accidentato.

Jessica percepì nella notte le differenti dimensioni delle sostanze sotto i piedi e le mani: macigni, o ghiaia, o roccia frantumata, o sabbia, e ancora sabbia, e polvere grossolana, o un velo sottile, impalpabile.

La polvere ostruiva i filtri del naso e bisognava soffiare per cacciarla via. La sabbia grossolana e la ghiaia slittavano sulla dura superficie delle rocce, e facevano scivolare gli ignari. Le schegge rocciose tagliavano.

E le chiazze di sabbia, onnipresenti, appesantivano i piedi.

Paul si arrestò sulla piattaforma rocciosa, sorreggendo sua madre perché non inciampasse su di lui.

Indicò qualcosa a sinistra. Jessica seguì con lo sguardo il suo braccio e vide che si trovavano sull’orlo di uno strapiombo: duecento metri più in basso il deserto si stendeva come un mare. Giaceva immobile, la superficie solcata da innumerevoli onde argentee sotto il chiaro di luna… ombre taglienti che sfumavano in curve, mentre, in distanza, s’intravedeva in un grigiore opaco e confuso un’altra scarpata.

«Deserto aperto» disse Jessica.

«Ci vorrà molto tempo ad attraversarlo» fece Paul, e la sua voce suonò soffocata dal filtro.

Jessica scrutò a destra e a sinistra: sotto non c’era altro che sabbia.

Paul aguzzò gli occhi oltre le dune, seguendo il movimento delle ombre al passaggio della luna. «È largo tre o quattro chilometri» disse.

«E i vermi?»

«Ce ne saranno senz’altro» replicò Paul.

Jessica si concentrò sulla sua stanchezza, sui muscoli doloranti che le offuscavano i sensi. «Non sarebbe meglio fermarci e mangiare?»

Paul si tolse lo zaino dalle spalle, si sedette sulla roccia e appoggiò la schiena allo zaino. Jessica si sostenne alla sua spalla, mentre si lasciava scivolare sulla roccia accanto a lui. Sentì Paul girarsi e frugare, cercando qualcosa.

«Ecco» disse.

Jessica sentì la sua mano secca e coriacea che le porgeva due capsule energetiche. Le inghiottì con un sorso d’acqua, che aspirò a malincuore dal tubo della tuta.

«Bevi tutta la tua acqua» l’invitò Paul. «Assioma: il miglior posto dove conservare la tua acqua è il tuo corpo. Conserva la tua energia e ti fa sentire più forte. Abbi fiducia nella tua tuta distillante.»

Jessica obbedì e svuotò completamente le tasche di raccolta. Sentì l’energia che le ritornava. Allora assaporò quel momento di calma e di stanchezza, e ricordò le parole che una volta il menestrello guerriero Gurney Halleck le aveva detto: «Meglio un tozzo di pane tranquilli, che una casa piena di lotte e di sospetti».

Jessica le ripeté a voce alta. Paul annuì.

«Tipico di Gurney» disse.

Jessica colse in queste parole la rievocazione di un morto, e pensò: Sì, il povero Gurney potrebbe esser morto. Tutta la gente degli Atreides era morta, o prigioniera, o sperduta in quel vuoto senz’acqua, come loro.

«Gurney aveva sempre pronta la citazione giusta» riprese Paul. «M’immagino di sentirlo, in questo momento: ’Asciugherò questi fiumi, venderò la terra ai cattivi, trasformerò il paese e quanto c’è sopra in un’arida distesa, e questo per mano straniera!’»

Jessica chiuse gli occhi, commossa fino alle lagrime dalla tristezza che sentiva nella voce di suo figlio.

Poco dopo Paul disse ancora: «Come… ti senti?»

Lei capì che la domanda riguardava il suo stato, e rispose: «Tua sorella non nascerà prima di molti mesi. Mi sento ancora… in forze».

E pensò: È mio figlio e gli parlo con tanta rigida formalità! Poi, secondo la Via Bene Gesserit, cercò la spiegazione del proprio comportamento e la trovò: Ho paura di mio figlio. Mi spaventa la sua diversità. E ancor più quello che potrebbe vedere davanti a noi, sulla nostra strada. E quello che potrebbe dirmi.

Paul si calò il cappuccio sugli occhi. Ascoltò il sottile brusio della notte. I suoi polmoni erano pieni del suo stesso silenzio. Il naso gli prudeva. Lo grattò, si tolse il filtro e percepì l’intenso odore di cinnamomo nell’aria.

«C’è del melange qui vicino» disse.

Un vento leggero gli accarezzò le guance e fece ondeggiare il suo «burnus». Ma questo vento, lo sentì chiaramente, non era foriero di tempesta.

«Presto sarà l’alba» disse ancora.

Jessica annuì.

«C’è un solo modo di attraversare senza pericolo le sabbie aperte. I Fremen lo usano.»

«E i vermi?»

«Se piantassimo qui nelle rocce un martellatore… Ne ho uno nello zaino. Terrebbe occupato il verme per un certo tempo.»

Jessica considerò il deserto sotto la luna, fino all’altra scarpata: «Abbastanza tempo per arrivare laggiù?»

«Forse. E se noi riuscissimo a marciare producendo soltanto rumori naturali, quei rumori che non attirano i vermi…»

Paul studiò il deserto piatto cercando nella sua memoria presciente, ritrovando le misteriose allusioni ai martellatori e agli ami da creatore che aveva letto nel manuale dei Fremen. Gli sembrava strano dover provare soltanto quel terrore dei vermi. Giusto al di là della sua consapevolezza, c’era la convinzione che i vermi dovevano essere rispettati, e non temuti, se… se…

Scosse la testa.

«Dovranno essere rumori senza alcun ritmo» disse Jessica.

«Che cosa? Oh, sì. Se camminiamo irregolarmente… La sabbia, ogni tanto, frana spontaneamente. I vermi non possono precipitarsi verso ogni suono. Ma dobbiamo essere completamente riposati, per questo.»

Fissò nuovamente l’alta parete di roccia alle sue spalle e lesse il passaggio del tempo nelle ombre verticali disegnate dalla luna: «Sarà alba tra un’ora».

«Dove passeremo la giornata?»

Paul si voltò a sinistra e puntò la mano: «Lo strapiombo gira a nord da quella parte. Vedi com’è eroso? Quello è il lato esposto al vento. Vi saranno senz’altro profondi crepacci, laggiù».

«Non sarebbe meglio partire subito?» disse Jessica.

Paul si alzò e l’aiutò a rimettersi in piedi. «Sei abbastanza riposata per la discesa? Voglio arrivare il più presto possibile vicino al deserto, prima di accamparci.»

«Abbastanza.» E con un gesto lo invitò ad aprire la marcia.

Paul esitò, poi sollevò lo zaino, lo agganciò alle spalle e cominciò a muoversi sulla roccia.

Se soltanto avessimo dei sospensori, pensò Jessica. Sarebbe così semplice saltare laggiù. Ma forse i sospensori sono un’altra delle cose che vanno evitate in pieno deserto. Forse attirano i vermi allo stesso modo di uno scudo.

Arrivarono a una serie di sporgenze che digradavano verso il basso, e più in là videro una spaccatura, messa in risalto dal chiaro di luna, che sprofondava nella roccia. Paul iniziò la discesa, muovendosi con cautela ma in fretta, poiché era ovvio che il chiaro di luna non sarebbe durato per molto. S’inabissarono in un mondo di ombre sempre più profonde. Forme rocciose appena visibili oscurarono le stelle intorno a loro. Il crepaccio si restrinse fino a soli tre metri di larghezza, sull’orlo di un pendio di sabbia grigia che sprofondava nelle tenebre.

«Possiamo scendere?» bisbigliò Jessica.

«Credo di sì.»

Paul saggiò la superficie col piede.

«Possiamo lasciarci scivolar giù» disse. «Io vado per primo. Aspetta finché non sentirai che mi sono fermato.»

«Sii prudente.»

Paul si lasciò scivolare lungo il pendio, ruzzolando e slittando sulla superficie soffice fino a trovarsi su una distesa quasi piatta ricoperta di sabbia indurita, tra le muraglie rocciose. Sentì allora il rumore della sabbia che franava dietro di lui. Si voltò, cercò di distinguere la sommità del pendio nell’oscurità, e fu investito da una valanga di sabbia che rumoreggiò a lungo prima di fermarsi.

«Madre?» chiamò, nel silenzio improvviso.

Non ci fu risposta.

«Madre?»

Lasciò andare lo zaino e si precipitò sul pendio, cercando di risalirlo, scavando la sabbia come un animale impazzito. «Madre!» ansimò. «Madre, dove sei?»

Un’altra valanga di sabbia lo investì, seppellendolo fino ai fianchi. Si strappò via con violenza.

È stata travolta dalla valanga, pensò. La sabbia l’ha seppellita. Devo restare calmo e avanzare con precauzione. Non soffocherà subito. Entrerà in sospensione bindu per ridurre il consumo di ossigeno. Sa che sto scavando per ritrovarla.

Seguendo l’addestramento Bene Gesserit che lei gli aveva insegnato, Paul placò il furioso battito del cuore e ridusse la mente a una lavagna vuota, sulla quale gli ultimi istanti del passato potevano comparire di nuovo. La sua memoria rievocò ogni singolo movimento, vortice o contorsione della valanga, con enorme ricchezza di particolari, anche se il tempo richiesto fu in realtà una frazione di secondo. Quindi Paul si mosse lungo il pendio, obliquamente, sondando con cautela fino a ritrovare la parete rocciosa e una sporgenza su di essa. Cominciò a scavare, lentamente, per non causare un’altra valanga. Le sue dita incontrarono un lembo di tessuto. Lo seguì, trovò un braccio. Con delicatezza proseguì fino a liberare il viso.

«Mi senti?» bisbigliò.

Nessuna risposta.

Scavò più in fretta, liberando le spalle. Jessica si afflosciava sotto le sue mani, ma sentì il debole battito del suo cuore.

Sospensione bindu, disse tra sé.

La liberò dalla sabbia fino alla vita, l’afferrò per le spalle e la tirò verso il basso, prima lentamente, poi sempre più veloce: sentì la sabbia aprirsi e liberare la presa. Tirò il corpo di Jessica sempre più forte, ansimando e lottando per mantenere l’equilibrio. Poi scivolò sulla sabbia compatta, si caricò il corpo sulle spalle e corse disperatamente mentre l’intero pendio sabbioso precipitava dietro di lui, rombando tra le pareti rocciose.

Si fermò alla fine del crepaccio e guardò trenta metri più in basso l’ininterrotta distesa di dune. Distese dolcemente Jessica sulla sabbia e pronunciò le parole che l’avrebbero fatta uscire dalla catalessi. Jessica si risvegliò lentamente, il suo respiro si fece più intenso.

«Sapevo che mi avresti salvata» bisbigliò.

Lui si guardò alle spalle, seguendo la spaccatura sempre più in alto, «Sarebbe stato meglio che non ti avessi trovata» disse.

«Paul!»

«Ho perduto lo zaino» spiegò. «È sepolto sotto cento tonnellate di sabbia, come minimo…»

«Tutto?»

«L’acqua di riserva, la tenda distillante… tutto quello che conta.» Si toccò una tasca. «Ho ancora la parabussola.» Frugò nella cintura. «Coltello e binocolo. Almeno, faremo in tempo a dare un’occhiata al luogo dove moriremo.»

In quel momento il sole comparve sull’orizzonte, in qualche punto a sinistra, al di là del crepaccio. I colori rifulsero sulla sabbia. Un coro di uccelli intonò il suo canto dai nidi tra le rocce.

Ma Jessica vide soltanto la disperazione negli occhi di Paul. Parlò con una punta di disprezzo: «È questo che ti è stato insegnato?»

«Ma non capisci?» disse lui. «Tutto quello che ci è indispensabile a sopravvivere nel deserto è perduto sotto quella montagna di sabbia!»

«Tu hai ritrovato me» e la sua voce, adesso, era dolce e ragionevole.

Paul si accovacciò sui talloni. Il suo sguardo esaminò il nuovo pendio che si era formato. La sabbia era soffice, instabile.

«Se soltanto potessimo bloccarne una piccola parte» disse, «e scavare un pozzo fino allo zaino. Ma ci serve acqua per questo, e noi non ne abbiamo abbastanza…» S’interruppe di colpo. «Della schiuma!»

Jessica restò immobile, per paura di disturbare l’iperconcentrazione mentale di suo figlio.

Paul scrutò fra le dune, cercando insieme con gli occhi e con le narici: trovò la direzione giusta, poi concentrò la sua attenzione su un tratto di sabbia più scuro, sotto di loro.

«Spezia» disse. «La sua essenza è altamente alcalina. E ho la parabussola. La sua pila contiene dell’acido.»

Jessica si raddrizzò contro la roccia.

Paul l’ignorò, balzò in piedi e si precipitò sulla superficie indurita dal vento che si protendeva dal fondo della spaccatura fin dentro al deserto.

Jessica osservò il modo in cui lui camminava, interrompendosi ad ogni passo: una pausa… un passo… un altro… una scivolata… una pausa…

Non c’era alcun ritmo, in questo, che potesse indicare a un verme in cerca di preda che qualcosa di estraneo al deserto si muoveva laggiù.

Paul raggiunse il giacimento di spezia, ne prelevò una manciata e la raccolse in una piega della tuta, poi ritornò alla spaccatura. Cosparse la spezia sulla sabbia, davanti a Jessica, si accovacciò e cominciò a smontare la parabussola, usando la punta del coltello. Il quadrante si staccò. Paul si sfilò la sciarpa, vi mise sopra le varie parti della bussola, poi estrasse la batteria. Poi tolse il meccanismo interno, lasciando un compartimento vuoto largo e piatto nello strumento.

«Avrai bisogno di acqua» gli disse Jessica.

Paul staccò l’estremità del tubo dal collo, ne succhiò una boccata e la sputò nel compartimento vuoto.

Se non riesce sarà acqua sprecata, pensò Jessica. Ma in questo caso non avrà più importanza.

Col suo coltello Paul praticò un foro nella batteria, spargendo i cristalli nell’acqua. Essi schiumeggiarono leggermente, poi si calmarono.

Jessica percepì un movimento sopra di loro: alzò gli occhi e vide una fila di falchi in alto sulla spaccatura. Erano appollaiati, con lo sguardo fisso nell’acqua.

Grande Madre! pensò Jessica. Possono percepire l’acqua perfino a quella distanza!

Paul aveva di nuovo applicato il coperchio alla parabussola, escludendo il pulsante di regolazione per lasciare un piccolo foro. Afferrando con una mano lo strumento così trasformato e una manciata di spezia con l’altra, risalì lungo il crepaccio, studiando la struttura del pendio. La sua tuta si rigonfiava dolcemente, non più trattenuta dalla sciarpa. Avanzò sprofondando nella sabbia, provocando una serie di piccole frane.

Poi si fermò, infilò un pizzico di spezia nella parabussola e agitò lo strumento.

La schiuma verde ribollì dal foro del pulsante. Paul la fece schizzare sul pendio, creando in quel punto una piccola diga che subito consolidò scalciandovi sopra la sabbia e versando altra schiuma.

Dal basso, Jessica lo chiamò: «Posso aiutarti?»

«Vieni su e scava. Ci sono ancora tre metri. Ce la faremo a stento.» Mentre parlava, la schiuma cessò di schizzare dallo strumento.

«Presto» disse Paul. «Non so per quanto tempo la schiuma tratterrà la sabbia.» Jessica si arrampicò con le mani e i piedi al fianco di Paul, mentre suo figlio versava un altro pizzico di spezia nel buco, scuotendo la parabussola. La schiuma schizzò fuori un’altra volta.

Mentre Paul riprese a consolidare la diga, Jessica scavò con le mani, gettando la sabbia giù per il pendio. «Quanto manca?» ansimò.

«Circa tre metri» disse Paul. «Ma la posizione è approssimativa. Forse dovremo allargare il buco.» Si spostò di un passo, scivolando sulla sabbia molle. «Scava obliquamente all’indietro. Non verso il basso.»

Jessica obbedì.

Lentamente, la buca si approfondì fino al livello del bacino esterno, e non c’era alcuna traccia dello zaino.

È possibile che io abbia sbagliato i calcoli? si chiese Paul. Mi sono lasciato prendere dal panico e ho sbagliato? La paura ha intaccato le mie capacità?

Guardò dentro la parabussola. Ormai l’acido si era quasi consumato.

Jessica si raddrizzò nella buca, si sfregò contro la guancia una mano macchiata di schiuma. I suoi occhi incontrarono quelli di Paul.

«All’altezza della tua testa» disse Paul. «Lentamente.» Aggiunse un altro pizzico di spezia nel contenitore, spruzzando la schiuma intorno alle mani di Jessica mentre cominciava a intagliare un foro verticale sulla parete della buca. Subito le sue mani incontrarono qualcosa di duro. Lentamente, Jessica liberò un pezzo di cinghia con una fibbia di plastica.

«Basta così» bisbigliò Paul. «Non abbiamo più schiuma.»

Jessica strinse la cinghia con la mano e alzò gli occhi, a guardarlo. Paul scaraventò la bussola giù nel bacino e disse: «Porgimi l’altra mano. Ora, ascoltami attentamente. Ti tirerò violentemente verso il basso, lungo il pendio. Non lasciare la cinghia. Non precipiterà più molta sabbia dall’alto; ormai il pendio si è stabilizzato. Cercherò di tenere la tua testa fuori della sabbia. Quando la sabbia avrà riempito tutto, potrò scavarti fuori insieme allo zaino».

«Capisco» disse Jessica.

«Sei pronta?»

«Sono pronta.» Strinse le dita intorno alla cinghia.

Con uno strappo violento Paul la sollevò per metà fuori dalla buca; e le tenne la testa sollevata mentre la barriera di schiuma cedeva e la sabbia si rovesciava giù. Quando la frana si arrestò, Jessica era seppellita fino alla vita, un braccio e una spalla anch’essi prigionieri, ma il suo mento era appoggiato su una piega della tuta di Paul. Le spalle le facevano male per lo sforzo.

«Stringo ancora la cinghia» disse.

Lentamente Paul immerse la mano nella sabbia, accanto alla sua, e trovò la cinghia.

«Ora, insieme» fece. «Tensione costante. Non dobbiamo spezzarla.»

Altra sabbia precipitò mentre tiravano lo zaino. Quando lo zaino comparve alla superficie, Paul si fermò e liberò sua madre dalla sabbia. Poi, insieme, finirono di estrarlo dalla trappola.

Qualche minuto dopo erano entrambi in piedi sul fondo del crepaccio, con lo zaino tra loro.

Paul guardò sua madre. La schiuma le macchiava il viso e la tuta ed era incrostata di sabbia nei punti in cui la schiuma si era asciugata. Sembrava che l’avessero bersagliata con palle di sabbia verde.

«Hai un aspetto ben poco dignitoso» le disse.

«Tu non sei molto meglio» ribatté Jessica.

Scoppiarono a ridere, poi si calmarono.

«Tutto questo non sarebbe dovuto accadere» dichiarò Paul. «Non ho fatto sufficiente attenzione.»

Jessica scrollò le spalle e sentì la sabbia rappresa che le cadeva dalla tuta.

«Alzerò la tenda» disse Paul. «È meglio che ti levi la tuta e la ripulisca.»

Si voltò e prese lo zaino.

Jessica annuì in silenzio, troppo stanca per parlare.

«Ci sono dei fori d’ancoraggio su questa roccia» annunciò Paul, «Qualcuno si è accampato qui prima di noi.»

Perché no? si chiese Jessica, mentre spazzolava la tuta. Era un luogo molto conveniente: protetto dalle pareti rocciose e di fronte a un altro strapiombo, a quattro chilometri. Era inoltre abbastanza alto sul deserto per evitare i vermi, e abbastanza vicino per arrivarvi rapidamente prima della traversata.

Si girò e vide che Paul aveva già rizzato la tenda distillante. Le nervature della sua cupola sembravano confondersi con le pareti rocciose. Paul venne avanti, col binocolo, ne regolò rapidamente la pressione interna e mise a fuoco le lenti a olio sull’altra roccia a picco che risplendeva rossodorata davanti a loro, in distanza, nel sole del mattino.

Jessica l’osservò mentre studiava l’apocalittico paesaggio, esplorando canyon e fiumi di sabbia.

«Cresce qualcosa dall’altra parte» disse Paul.

Jessica tirò fuori dal pacco l’altro binocolo e si rizzò in piedi accanto a Paul.

«Là» disse lui, stringendo il binocolo con una mano e indicando con l’altra.

«Saguaro» fece Jessica dopo aver guardato. «Erba secca.»

«Ci potrebbe essere qualcuno nelle vicinanze.»

«Potrebbero essere i resti di una stazione sperimentale botanica» l’avvertì lei.

«Qui siamo piuttosto lontani, verso il sud» obbiettò Paul. Abbassò il binocolo, grattandosi sotto il filtro. Le sue labbra erano secche e screpolate e sentì il gusto polveroso della sete nella sua bocca: «Sembra un luogo dei Fremen».

«Siamo sicuri che i Fremen ci siano amici?» chiese Jessica.

«Kynes ci ha promesso il loro aiuto.»

Ma questa gente del deserto è piena di disperazione, pensò Jessica. Io stessa oggi l’ho sentita. Gente disperata potrebbe ucciderci per impadronirsi della nostra acqua.

Chiuse gli occhi e, sullo sfondo di quel mondo arido e deserto, rievocò una scena di Caladan. Avevano fatto un viaggio di piacere una volta: lei, e il Duca Leto, prima della nascita di Paul. Avevano volato sulle giungle, a sud, sull’erba folta e selvaggia delle savane urlanti e sulle risaie del delta. E in tutto questo verde avevano visto lunghe file di formiche: uomini che trasportavano i loro carichi su sospensori ancorati ai bilancieri, di traverso sulle spalle. E sul mare, come bianchi petali, i trimarrani di sambuco.

Tutto finito.

Jessica riaprì gli occhi al silenzio del deserto, all’incombente calura del giorno. Gli inquieti demoni delle sabbie cominciavano a far tremolare l’aria sulla distesa piatta del deserto. Il lontano strapiombo, davanti a loro, sembrava avvolto nella nebbia.

Una pioggia di sabbia, per un attimo, formò un’impalpabile cortina all’estremità della spaccatura. La sabbia scricchiolava da ogni parte, dispersa dalla brezza del mattino, dai falchi che cominciavano a volar via dalla cima dello strapiombo. Quando la sabbia tornò a depositarsi le sembrò ancora di udirne il sibilo, che divenne più forte: un suono che, udito una volta, non si poteva più dimenticare.

«Un verme» mormorò Paul.

Comparve sulla loro destra e sfilò davanti a loro con noncurante maestosità. Un cumulo di sabbia in movimento che tagliava le dune in linea retta, vibrando. A un certo punto il cumulo s’impennò, sollevando baffi di sabbia come la prua di una nave. Poi cambiò direzione e si allontanò sulla sinistra.

Il suono diminuì e si estinse.

«Ho visto fregate spaziali più piccole» mormorò Paul.

Lei annuì, continuando a guardare attraverso il deserto. Là, dov’era passato il verme, rimaneva quella scia sconvolgente, un solco senza fine davanti a loro, che s’incurvava sotto l’orizzonte come piegato dal contorno del cielo.

«Quando ci saremo riposati» disse Jessica «riprenderemo le tue lezioni.»

Paul dominò una rabbia improvvisa, e replicò: «Madre, non credi che potremmo farne a…»

«Oggi ti sei lasciato prendere dal panico» continuò lei. «Tu conosci la tua mente e il tuo sistema nervoso bindu forse meglio di me, ma hai ancora molto da imparare sulla muscolatura prana. Il corpo agisce da solo a volte, Paul, e io posso insegnarti qualcosa in proposito. Devi imparare a controllare ogni muscolo, ogni fibra del corpo. Le tue mani, per esempio… Cominceremo dai muscoli delle dita, i tendini e la sensibilità dei polpastrelli.» Si voltò. «Entra nella tenda, adesso.»

Paul fletté più volte le dita della mano sinistra, guardando sua madre che strisciava attraverso l’apertura della valvola a sfintere, sapendo che niente sarebbe riuscito a distoglierla da questa sua determinazione… e che lui avrebbe dovuto acconsentire.

Qualunque cosa mi sia fatta, disse tra sé, io mi sono prestato.

Le mani!

Si guardò le mani. Sembravano così insufficienti, paragonate a creature come il verme.


Siamo venuti da Caladan: un mondo paradisiaco per la nostra forma di vita. Non c’era alcun bisogno, su Caladan, di costruire un paradiso fisico, o uno per la mente… lo vedevamo intorno a noi. E il prezzo che abbiamo pagato è il prezzo che gli uomini hanno sempre pagato nell’ottenere un paradiso in questa vita: diventammo rammolliti, perdemmo la nostra tempra.

da «Conversazioni con Muad’Dib», della Principessa Irulan


«Così, voi siete il grande Gurney Halleck» disse l’uomo.

Halleck era in piedi e fissava, all’opposta estremità della grande caverna ufficio, il contrabbandiere seduto alla scrivania metallica. L’uomo indossava la tuta dei Fremen e l’azzurro troppo chiaro dei suoi occhi indicava che, almeno in parte, si nutriva di cibi importati. L’ufficio era un duplicato del centro di controllo di una fregata spaziale: trasmettitore e schermi per circa trenta gradi della parete curva, controlli a distanza di strumenti e di armi. Anche la scrivania si protendeva in fuori come un’escrescenza della parete.

«Io sono Staban Tuek, figlio di Esmar Tuek» disse il contrabbandiere.

«Allora siete voi la persona che devo ringraziare per l’aiuto ricevuto» dichiarò Halleck.

«Ah… gratitudine» esclamò il contrabbandiere. «Sedete.»

Un sedile di tipo astronautico a forma di coppa emerse dalla parete accanto agli schermi. Halleck vi sprofondò con un sospiro. Era stanco; scorse il proprio riflesso sulla liscia superficie scura, accanto al contrabbandiere, e aggrottò le sopracciglia nel cogliere i segni della fatica sul viso rugoso. La cicatrice della liana indelebilis si contorse sulla sua mascella mentre corrugava la fronte.

Halleck distolse gli occhi dal riflesso del proprio viso e fissò Tuek. Ora scopriva la somiglianza col padre: le sopracciglia folte, il profilo duro e tagliente delle guance e del naso.

«I vostri uomini mi hanno detto che vostro padre è morto, ucciso dagli Harkonnen» disse Halleck.

«Dagli Harkonnen o da uno dei vostri che ha tradito» gli rinfacciò Tuek.

Halleck ebbe uno scatto di collera, nonostante la stanchezza. Si raddrizzò e disse: «Potete farmi il nome del traditore?»

«Non ne siamo certi.»

«Thufir Hawat sospettava di Lady Jessica.»

«Ah… la strega Bene Gesserit… forse. Ma ora Hawat è prigioniero degli Harkonnen.»

«Lo so.» Halleck respirò profondamente. «Sembra che si preparino altri massacri.»

«Noi non faremo niente che attiri l’attenzione» dichiarò Tuek.

Halleck s’irrigidì. «Ma…»

«Voi e i vostri uomini potrete ripararvi fra noi» disse ancora Tuek. «Voi parlate di gratitudine. Molto bene: lavorate per pagare il vostro debito verso di noi. Abbiamo sempre lavoro per degli uomini in gamba. Tuttavia siamo pronti a uccidervi con le nostre mani alla prima mossa contro gli Harkonnen.»

«Ma hanno ucciso vostro padre!»

«Forse, ma vi darò la stessa risposta che avrebbe dato mio padre a quelli che agiscono senza pensare: ’Pesante è la pietra e densa la sabbia; ma non sono nulla al confronto della furia di un pazzo’».

«Volete dire che non farete niente, allora?» lo schernì Halleck.

«Non ho detto niente di simile. Ho detto soltanto che voglio proteggere il nostro contratto con la Gilda. La Gilda esige un comportamento circospetto. Ci sono altri modi per distruggere un nemico.»

«Ah…»

«Sì, davvero. Se avete in mente di cercare la strega, fatelo pure. Ma vi avverto che probabilmente è troppo tardi… E io dubito che sia lei quella che cercate.»

«Hawat si è sbagliato molto di rado.»

«Ma è caduto nelle mani degli Harkonnen.»

«Credete che sia lui il traditore?»

Tuek scrollò le spalle. «Poco importa. Noi siamo convinti che la strega sia morta. Almeno, lo credono gli Harkonnen.»

«Sembra che voi sappiate parecchio sugli Harkonnen.»

«Supposizioni… voci e sospetti.»

«Noi siamo in settantaquattro» disse Halleck. «Se voi ci proponete seriamente di arruolarci nelle vostre file, dovete essere convinto che il nostro Duca sia morto.»

«Il suo corpo è stato visto.»

«E anche il ragazzo, il Giovane Duca Paul?» Tentò invano d’inghiottire: aveva come un nodo alla gola.

«Secondo le ultime informazioni si è sperduto con la madre in una tempesta in pieno deserto. Probabilmente, neppure le sue ossa saranno mai ritrovate.»

«Così, la strega è morta… Tutti morti, allora.»

Tuek annuì. «E Beast Rabban, così mi dicono, riprenderà il suo posto sul trono di Dune.»

«Il Conte Rabban di Lankiveil?»

«Sì.»

Halleck lottò alcuni istanti per dominare l’ondata di rabbia che minacciava di travolgerlo. «Ho un conto personale con Rabban. Le vite dei miei…» (Si sfregò la cicatrice). «… e anche questo…»

«Non si rischia tutto per liquidare un conto troppo presto» disse Tuek. Si accigliò nel vedere il gioco dei muscoli sulla mascella di Halleck, il suo sguardo assente.

«Lo so… lo so…» Halleck sospirò.

«Voi e i vostri uomini… potete pagarvi il viaggio fuori di Arrakis lavorando per noi. C’è una grande disponibilità di posti…»

«Lascio i miei uomini liberi di scegliere… Ma se Rabban è qui, io resto.»

«Dopo le vostre parole, non sono più così sicuro di desiderare che voi restiate.»

Halleck fissò il contrabbandiere: «Dubitate della mia parola?»

«No…»

«Voi mi avete salvato dagli Harkonnen. Ho giurato fedeltà al Duca Leto per l’identica ragione. Resterò su Arrakis… con voi… o con i Fremen.»

«Che un pensiero sia espresso oppure no» replicò Tuek, «è pur sempre una cosa reale e potente. Forse, tra i Fremen, voi scoprireste che la linea che separa la vita dalla morte è troppo fragile e incerta.»

Halleck chiuse gli occhi per un attimo e nuovamente sentì la stanchezza. «’Dov’è il Signore che ci ha guidato in questa terra di deserti e di abissi?’» mormorò.

«Agite lentamente e il giorno della sua vendetta arriverà» disse Tuek. «La rapidità è lo strumento di Shaitan. Placate il vostro dolore… Possiamo aiutarvi in questo. Vi sono tre cose che alleggeriscono l’anima: l’acqua, l’erba verde e la bellezza di una donna.»

Halleck aprì gli occhi. «Preferirei che il sangue di Rabban Harkonnen zampillasse ai miei piedi.» Fissò Tuek. «Verrà quel giorno?»

«Io non posso aiutarvi ad affrontare il domani, Gurney Halleck. Posso soltanto aiutarvi ad affrontare l’oggi.»

«Accetto l’aiuto e resterò fino al giorno in cui voi mi direte di vendicare vostro padre e tutti gli altri che…»

«Ascoltatemi, guerriero.» Tuek si piegò in avanti sulla scrivania, la testa incassata tra le spalle, lo sguardo intenso. Il suo viso era diventato una maschera di pietra. «L’acqua di mio padre… la riacquisterò io stesso, con la mia lama.»

Halleck lo fronteggiò. In quel momento Tuek gli ricordò il Duca Leto: un condottiero di uomini, coraggioso, sicuro di sé e della sua autorità. Era come il Duca… prima di Arrakis.

«Volete la mia lama al vostro fianco?» domandò Halleck.

Tuek si rilassò sulla sedia, studiando Halleck in silenzio.

«Voi pensate a me come un guerriero?» insistette Halleck.

«Voi siete l’unico dei luogotenenti del Duca che sia riuscito a salvarsi» replicò Tuek. «I nemici erano in numero soverchiante e tuttavia voi vi siete battuto contro di essi… e li avete sconfitti, come noi abbiamo sconfitto Arrakis.»

«Come?»

«Qui ci tolleriamo a vicenda, Gurney Halleck» continuò Tuek. «Arrakis è il nostro nemico.»

«Un nemico alla volta, non è così?»

«È così.»

«Anche i Fremen fanno così?»

«Forse.»

«Voi avete detto che potrei trovare la vita coi Fremen troppo dura. Vivono nel deserto, all’aperto. È questa la ragione?»

«Chissà dove vivono i Fremen? Per noi, la Piana Centrale è terra di nessuno. Ma io vorrei che parlassimo un po’ più di…»

«Mi dicono che la Gilda si avventura raramente con le sue navi cariche di spezia sul deserto» disse Halleck. «E corrono voci che, sapendo guardare, si scorgono chiazze di verde qua e là.»

«Voci, soltanto voci!» Tuek lo schernì. «Ora, volete scegliere tra me e i Fremen? Noi garantiamo una certa sicurezza, abbiamo il nostro sietch scavato nella roccia, i nostri bacini nascosti. La nostra vita è quella di esseri civili. I Fremen sono poche bande di pezzenti che noi usiamo come cacciatori di spezia!»

«Ma uccidono gli Harkonnen.»

«E volete sapere i risultati? Anche in questo momento sono perseguitati, cacciati come animali… coi laser, perché non hanno scudi. Saranno sterminati. E perché? Perché hanno ucciso degli Harkonnen.»

«Ma sono proprio Harkonnen quelli che hanno ucciso?» domandò Halleck.

«Che cosa volete dire?»

«Non avete sentito parlare della presenza dei Sardaukar al fianco degli Harkonnen?»

«Ancora voci.»

«Ma un pogrom… Non è una cosa da Harkonnen. Un pogrom è uno spreco.»

«Io credo soltanto a quello che vedo» ribatté Tuek. «Fate la vostra scelta, guerriero. Io, o i Fremen. Io vi prometto un rifugio e la possibilità di spargere quel sangue che voi e io vogliamo. Potete esserne sicuro. I Fremen vi offriranno soltanto la vita di un animale braccato.»

Halleck esitò, poiché sentiva che Tuek era saggio e che provava simpatia nei suoi confronti. E tuttavia era inquieto, e non sapeva perché.

«Fidatevi delle vostre capacità» riprese il contrabbandiere. «Quali decisioni vi hanno consentito di sopravvivere in battaglia? Le vostre. E allora, decidete.»

«Già…» fece Halleck. «Il Duca e suo figlio sono morti?»

«Gli Harkonnen lo credono. E in queste cose io sono propenso a credere agli Harkonnen.» Un fosco sorriso si disegnò sul suo volto. «Soltanto in queste, beninteso.»

«Allora dev’essere così» ripeté Halleck. Tese la mano destra, il palmo in su e il pollice ripiegato su di esso nel gesto tradizionale: «Vi do la mia spada».

«Accetto.»

«Volete che convinca i miei uomini?»

«Li lascereste decidere da soli?»

«Mi hanno seguito fin qui, ma per la maggior parte sono nativi di Caladan. Arrakis non è il pianeta che s’immaginavano. Qui hanno perduto tutto, fuorché la vita. Preferirei che decidessero da soli.»

«Ora non è il momento di esitare» replicò Tuek. «Vi hanno seguito fin qui.»

«Voi avete bisogno di loro, no?»

«Noi abbiamo sempre bisogno di combattenti addestrati… E ora più che mai.»

«Voi avete accettato la mia spada. Volete che li convinca?»

«Penso che vi seguiranno, Gurney Halleck.»

«È da sperarsi.»

«Sì.»

«Dunque, tocca a me decidere?»

«Tocca a voi.»

Halleck si sollevò a fatica dal sedile: anche quel piccolo sforzo gli costava molta energia. «Per ora, voglio garantirmi che siano bene alloggiati» disse.

«Consultatevi col mio intendente» replicò Tuek. «Si chiama Drisq. Ditegli che il mio più vivo desiderio è che vi sia riservata ogni cortesia. Vi raggiungerò io stesso, fra poco. Prima, devo spedire un carico di spezia.»

«La fortuna passa dovunque» commentò Halleck.

«Dovunque» confermò Tuek. «Le rivoluzioni sono una rara opportunità per i nostri affari.»

Halleck annuì. Avvertì un debole sussurrio e uno spostamento d’aria, mentre la camera d’equilibrio si apriva accanto a lui. Si girò, chinò la testa per passare e uscì dall’ufficio.

Si trovò nella grande sala delle adunate, dove lui e i suoi uomini erano stati condotti dagli aiutanti di Tuek. Era una cavità lunga e stretta direttamente scavata nella roccia: le sue pareti lisce rivelavano l’uso della lama laser. Il soffitto si perdeva in lontananza: era abbastanza alto da sostenere la roccia e garantire la libera circolazione dell’aria. Lungo le pareti si allineavano rastrelliere e armadi per le armi.

Halleck notò con orgoglio che la maggior parte dei suoi uomini validi era ancora in piedi. Per loro non c’era riposo nella stanchezza e nella sconfitta. I medici dei contrabbandieri si stavano occupando dei feriti. Alcune lettighe si trovavano più avanti, a sinistra: ogni ferito aveva accanto a sé uno dei suoi.

L’addestramento degli Atreides: «Noi vegliamo sui nostri uomini!» era ancora un nocciolo indistruttibile dentro di essi.

Uno dei suoi luogotenenti si precipitò verso di lui col baliset. Lo tolse dalla custodia, scattò sull’attenti e disse: «Signore, i dottori dicono che non c’è più speranza per Mattai. Qui non hanno banche degli organi e neppure delle ossa… solo medicamenti d’emergenza. Mattai non vivrà a lungo e ha una richiesta da farvi».

«Quale?»

Il luogotenente gli porse il baliset: «Mattai vi chiede una canzone per addolcire la sua morte, capo. Dice che voi sapete… ve l’ha chiesta tante volte». Il luogotenente deglutì. «È quella intitolata ’La mia donna’, signore. Se voi…»

«Sì.» Halleck prese il baliset, staccò il multiplettro dal fermaglio, sulla tastiera, toccò una delle corde sottili dello strumento e capì che qualcuno l’aveva già accordato. Sentì un bruciore agli occhi, ma ricacciò ogni altro pensiero mentre avanzava, provando qualche accordo e sforzandosi di sorridere.

Molti dei suoi uomini e un medico dei contrabbandieri erano curvi su una lettiga. Uno degli uomini cominciò a cantare a bassa voce, mentre Halleck si avvicinava, con la facilità di una lunga consuetudine:

«La mia donna è affacciata alla finestra,

dolce profilo nel riquadro di vetro.

Nel crepuscolo rosso e dorato

Si piega verso di me, mi porge le braccia…

Vieni a me…

Vieni a me, innamorata dalle dolci braccia.

Per me…

Per me, innamorata dalle dolci braccia».

Il cantore s’interruppe, allungò il braccio bendato e chiuse gli occhi all’uomo sulla lettiga.

Halleck trasse un ultimo accordo dal baliset e pensò: Ora siamo settantatré.

Per molta gente è difficile capire la vita familiare dell’Harem Reale, ma io cercherò di darvene una visione condensata. Mio padre, ne sono convinta, aveva un solo, vero amico: il Conte Hasimir Fenring, l’eunuco genetico, uno dei più temibili guerrieri dell’impero. Il Conte, un uomo piccolo, brutto e vivace, presentò un giorno a mio padre una nuova schiava concubina, e io fui mandata da mia madre a spiare la cerimonia. Noi tutte spiavamo mio padre, per proteggerci. Certo, una schiava concubina concessa a mio padre in base all’accordo fra il Bene Gesserit e la Gilda non poteva generare un Successore Reale, ma i loro intrighi continuavano instancabili, ossessionanti e sempre uguali. Mia madre, le mie sorelle e io ci eravamo ormai abituate a evitare i più sottili strumenti di morte. Può sembrare orribile a dirsi, ma non sono sicura che mio padre fosse del tutto estraneo a questi tentativi di morte. Una Famiglia Reale è diversa dalle altre. Dunque, dicevo, c’era questa nuova schiava concubina, snella, graziosa, rossa di capelli come mio padre. Aveva i muscoli di una danzatrice, e certamente la neuroseduzione faceva parte del suo addestramento. Era in piedi, davanti a mio padre, nuda, e lui la guardò a lungo, prima di dichiarare: «È troppo bella. La riserveremo per un dono». Non avete idea della costernazione che questa sua decisione creò nell’Harem Reale. L’astuzia e l’autocontrollo non erano, forse, minacce mortali per noi tutte?

da «Nella mia casa paterna», della Principessa Irulan


Nel tardo pomeriggio, Paul era in piedi, fuori della tenda distillante. Il crepaccio dove si erano accampati era immerso nelle tenebre. Fissò l’ampia distesa del deserto e il lontano strapiombo, incerto se svegliare sua madre che dormiva ancora.

Piega dopo piega, le dune si stendevano davanti al loro rifugio, sotto il sole declinante, disegnando ombre nere e dense come la notte.

Tutto era così piatto.

La sua mente cercò avidamente qualcosa di alto in quel paesaggio. Ma non c’era nulla, da un orizzonte all’altro, che si elevasse in modo convincente nell’aria surriscaldata. Nessun fiore, nessuna pianta che si agitasse alla brezza… soltanto dune e rocce lontane, sotto un cielo d’argento brunito.

E se non ci fosse una stazione sperimentale abbandonata? si chiese. E se non ci fossero neppure i Fremen? Se le piante che vediamo fossero soltanto un caso?

Dentro la tenda, Jessica si svegliò, si girò sulla schiena e guardò il figlio attraverso il lato trasparente. Paul le voltava la schiena, e qualcosa del suo portamento le ricordò suo padre. In fondo al suo spirito, ritrovò allora la voragine oscura del suo dolore, e distolse lo sguardo.

Qualche minuto dopo sistemò la tuta distillante, si rinfrescò con l’acqua della tasca di raccolta della tenda, scivolò fuori e si alzò in piedi, scacciando il sonno dai muscoli.

Paul parlò senza voltarsi: «Mi piace la calma di questo luogo».

Come la mente si adegua all’ambiente! pensò Jessica. E ricordò un assioma Bene Gesserit: «Sotto l’effetto di uno sforzo, la mente va nell’una o nell’altra direzione: il positivo o il negativo, acceso o spento. Devi immaginarlo come uno spettro i cui estremi siano lo stato di incoscienza per il negativo, e l’ipercoscienza per il positivo. La direzione in cui si piega la mente sotto lo sforzo è fortemente influenzata dall’addestramento».

«Si potrebbe vivere bene, qui» continuò Paul.

Lei cercò di vedere il deserto attraverso i suoi occhi, cercando di afferrare in una sola volta tutti i rigori che Arrakis accettava come normali, e chiedendosi quali fossero i futuri possibili intravisti da Paul. Qui, pensò, si potrebbe viver soli, senza paura che qualcuno ti pugnali alle spalle, senza sentirsi braccati.

Passò davanti a Paul, prese il binocolo, regolò le lenti a olio e studiò la scarpata davanti a loro. Sì, saguaro e altra vegetazione spinosa nei canali… e un groviglio d’erba giallo verde nei punti in ombra.

«Tolgo il campo» disse Paul.

Jessica annuì, e uscì dalla spaccatura per avere una visione panoramica del deserto. Puntò il binocolo verso sinistra. Un pan salato col suo biancore accecante si stendeva su quel lato, macchiato d’ocra sui bordi: una distesa bianca, dove il bianco significava morte. Ma un pan salato voleva dire anche un’altra cosa: acqua. Un tempo questa distesa di sale scintillante era stata coperta d’acqua. Abbassò il binocolo, si aggiustò il burnus e ascoltò per un attimo i movimenti di Paul.

Il sole si avvicinò ancora di più all’orizzonte, le ombre si allungarono sul pan. Colori sfolgoranti si disegnarono nel cielo, scivolando sempre più nella tenebra dove sfioravano la sabbia. I colori e il fulmineo addensarsi della notte cancellarono il deserto.

Le stelle!

Jessica alzò gli occhi per guardarle, e sentì Paul avvicinarsi. La notte si consolidò sul deserto e le stelle parvero salire dalla sabbia. Il peso opprimente del giorno scivolava via. Per un attimo la brezza le accarezzò il viso.

«La prima luna sorgerà molto presto» disse Paul. «Lo zaino è pronto. Ho piantato il martellatore.

Potremmo perderci per sempre in questo posto infernale, pensò Jessica. E nessuno lo saprebbe.

Si levò il vento notturno e alzò spruzzi di sabbia che le sfiorarono il volto, portando con sé l’odore di cinnamomo. Una pioggia di odori nel buio.

«Senti il profumo?» chiese Paul.

«Lo sento perfino attraverso il filtro» disse Jessica. «Ricchezza. Ma come può procurarci l’acqua?» Indicò l’altro lato del bacino. «Non si vedono luci artificiali, laggiù.»

«I Fremen si nasconderanno in un sietch, dentro la roccia» replicò Paul.

Un disco d’argento si alzò sull’orizzonte, davanti a loro: la prima luna. Comparve lentamente; il profilo di una mano si distingueva chiaramente sulla sua superficie. Jessica fissò la sabbia che al chiaro di luna appariva anch’essa argentea.

«Ho piantato il martellatore nella parte più profonda del crepaccio» disse Paul. «Quando accenderò la miccia, avremo circa trenta minuti.»

«Trenta minuti?»

«Prima che cominci a chiamare un… un verme.»

«Oh. Sono pronta.»

Paul scivolò via e Jessica l’udì che risaliva la spaccatura.

La notte è un tunnel, pensò. Un buco al domani… sempre che ci sia un domani per noi. Scosse la testa. Perché questi pensieri morbosi? Dov’è finito il mio addestramento?

Paul ritornò, alzò lo zaino e aprì la strada verso la prima duna, dove si fermò ad ascoltare, mentre la madre lo raggiungeva. Sentì il suo soffice avanzare e il gelido irregolare crepitio dei granelli di sabbia. La lingua del deserto, la difesa dei suoi segreti.

«Dobbiamo procedere senza ritmo» disse Paul, e richiamò alla memoria i ricordi di uomini che camminavano sulla sabbia… sia la memoria reale che quella presciente.

«Guardami» disse ancora. «È così che un Fremen cammina sulla sabbia.»

Fece un passo avanti sul lato anteriore della duna, seguendone la curva, trascinando il piede.

Jessica studiò il modo in cui avanzava e lo seguì imitandolo. Ne capì il senso: dovevano produrre suoni simili agli spostamenti naturali della sabbia… come il vento, per esempio. Ma i muscoli protestavano a questo movimento spezzato, innaturale: un passo… una scivolata… una scivolata… un passo… un passo… sosta… scivolata… passo.

Il tempo si dilatava intorno a loro. La scarpata rocciosa di fronte a loro sembrava non avvicinarsi mai. Quella alle loro spalle incombeva altissima.

«Bum! Bum! Bum! Bum!»

Il ritmico pulsare s’innalzò dalla roccia, alle loro spalle.

«Il martellatore» disse Paul.

Il battito continuò e ambedue trovarono difficile evitare il suo ritmo, mentre avanzavano.

«Bum!… Bum!… Bum!… Bum!…»

Si muovevano in una conca rocciosa illuminata dalla luna, perseguitati dal cupo martellare, su e giù per le dune, arrancando: passo… scivolata… sosta… passo… passo… La sabbia agglomerata rotolava sotto i loro piedi: scivolata… sosta… passo…

E non cessavano un solo istante di ascoltare, pronti a cogliere quel sibilo particolare.

Il suono, quando arrivò, fu così lieve all’inizio che il fruscio della sabbia lo mascherò. Ma divenne più intenso… sempre più intenso… da ovest.

«Bum!… Bum!… Bum!… Bum!…» continuava il martellatore.

Il sibilo si estese, si sparse attraverso la notte alle loro spalle. Volsero la testa, camminando, e videro l’onda del verme precipitarsi in avanti.

«Continua!» bisbigliò Paul. «Non voltarti.»

Un fracasso terrificante, furioso, esplose tra le rocce che avevano lasciato. Una valanga assordante li sferzò.

«Continua!» disse ancora Paul. «Avanti!»

Avevano raggiunto il punto ideale dal quale ambedue le scarpate rocciose, quella alle loro spalle e quella davanti a loro, sembravano ugualmente distanti.

E sempre, dietro di loro, il frastuono di rocce frantumate dominava la notte.

Continuarono a camminare avanti, sempre avanti… Il dolore dei muscoli divenne qualcosa di meccanico che sembrò allungarsi all’infinito. Ma Paul vedeva che l’invitante dirupo, davanti a loro, era diventato più alto.

Jessica si muoveva in un vuoto assoluto, conscia che soltanto una volontà disperata la spingeva in avanti. La sua bocca disseccata era un’unica piaga, ma il fracasso alle spalle le toglieva ogni speranza di potersi fermare, anche per una sola sorsata dalla tasca di raccolta della tuta.

«Bum… Bum… Bum…»

E un nuovo parossismo furioso eruppe dalla lontana scarpata, soffocando ogni martellio.

Silenzio!

«Più presto!» bisbigliò Paul.

Jessica annuì, pur sapendo che lui non poteva vedere il suo gesto. Ma aveva bisogno di farlo, per esigere ancora di più dai muscoli stremati. Quei movimenti innaturali…

La parete di roccia (e la sicurezza che essa rappresentava) s’innalzava sempre più davanti a loro, cancellando le stelle. Paul vide un ripiano sabbioso prolungarsi in fuori dalla base. Vi montò sopra, inciampando per la fatica, e si raddrizzò con un movimento istintivo.

Un rimbombo si elevò dalla sabbia circostante.

Paul fece due passi, barcollando.

«Boom! Boom!»

«Un tamburo delle sabbie» sibilò Jessica.

Paul ritrovò l’equilibrio. Con uno sguardo valutò la distesa di sabbia intorno a loro: la scarpata di roccia distava circa duecento metri.

Dietro si udì un risucchio… un turbine di vento, un ribollire della marea dove non c’era acqua.

«Corri!» urlò Jessica. «Paul, corri!»

Si precipitarono in avanti.

Il rullio del tamburo rimbalzava sotto i loro piedi. Poi finalmente cessò, e proseguirono calpestando ghiaia grossolana. Per qualche istante fu un sollievo per i loro muscoli doloranti a causa dell’assurda marcia attraverso il deserto. Ritrovarono il ritmo, l’abitudine. Ma la sabbia e la ghiaia li impacciavano. E il soffio del verme s’innalzava alle loro spalle come una tempesta.

Jessica inciampò e cadde sulle ginocchia. Riuscì soltanto a pensare alla fatica, al fracasso e al terrore.

Paul impetuosamente la rialzò e ripresero a correre mano nella mano.

Un palo sottile spuntò tra la sabbia davanti a loro. Lo superarono e ne videro un altro.

La mente di Jessica non se ne accorse finché non li ebbero superati.

Un altro palo: uno spuntone corroso dal vento che s’innalzava da una spaccatura della roccia.

Un altro ancora.

Roccia!

La sentì sotto i piedi: l’impatto di una superficie che non rallentava i movimenti. Raddoppiò il vigore su quel terreno più solido.

Una profonda spaccatura proiettava un’ombra verticale nella parete rocciosa, davanti a loro. Balzarono verso di essa e si schiacciarono nello stretto pertugio.

Alle loro spalle il soffio del verme cessò.

Jessica e Paul si voltarono, frugando il deserto con lo sguardo.

Dove s’iniziavano le dune, a una cinquantina di metri di distanza, ai piedi di una spiaggia rocciosa, una cupola grigio argento si sollevò nel deserto, scagliando zampilli di sabbia e polvere tutto intorno. Salì sempre più in alto fino a delinearsi in una enorme bocca spalancata. Un foro tondo e nero i cui contorni luccicavano al chiaro di luna.

La bocca si contorse verso la stretta fessura in cui Paul e Jessica si erano rifugiati. Il sentore di cinnamomo rischiò di soffocarli. Il riflesso dei raggi lunari scintillò sui denti di cristallo.

La grande bocca ondeggiava avanti e indietro.

Paul trattenne il respiro.

Jessica, raggomitolata su se stessa, guardò affascinata.

Le furono necessari tutta la sua concentrazione e l’addestramento Bene Gesserit per respingere il terrore primordiale, per trionfare sulla paura ancestrale che minacciava di travolgerle la mente.

Paul provò una specie di ebbrezza. Qualche istante prima aveva attraversato una barriera temporale, penetrando in un territorio sconosciuto. Sentiva le tenebre davanti a sé: niente si rivelava al suo occhio interiore. Era come se gli ultimi passi lo avessero fatto precipitare in un pozzo… o nel cavo di un’onda da cui era invisibile il futuro. L’intero paesaggio era stato profondamente sconvolto.

Questa sensazione di tenebra temporale, invece di spaventarlo gli scatenò un’iperaccelerazione negli altri sensi. Scoprì di poter registrare gli infimi particolari della cosa che, davanti a lui, sorgeva dalle sabbie per cercarlo… La bocca, ottanta metri di diametro… sui bordi, denti di cristallo dalla forma ricurva del cryss… l’alito ruggente, odoroso di cinnamomo e di indefinibili aldeidi… acidi…

Il verme oscurò la luna, mentre sfiorava le rocce sopra la loro testa. Una pioggia di ciottoli e sabbia franò su di loro.

Paul schiacciò ancora di più la madre dentro il rifugio.

Cinnamomo!

L’odore avvolgeva tutto.

Che cosa ha a che fare un verme col melange? si chiese Paul. Si ricordò che Liet-Kynes aveva velatamente accennato a un qualche rapporto tra il verme e la spezia.

«Barrrroooom!»

La violenta esplosione di un tuono, in qualche punto alla loro destra.

E poi, di nuovo: «Barrrroooom!»

Il verme si rovesciò nuovamente sulla sabbia e restò immobile; i raggi lunari continuarono a scintillare sui denti di cristallo.

«Bum! Bum! Bum! Bum!»

Un altro martellatore! pensò Paul.

Il rumore si ripeté alla loro destra.

Il verme ebbe come un gigantesco brivido. Sprofondò ancora di più nella sabbia e ne sporse soltanto la metà superiore, come la mezza bocca di una campana, un tunnel torreggiante sulle dune.

La sabbia stridette.

La creatura sprofondò ancora, ritirandosi su se stessa, girandosi. Poi fu soltanto un cumulo di sabbia, una cresta mobile che descrisse una lunghissima curva tra le dune, allontanandosi sempre più.

Paul uscì dalla spaccatura e contemplò l’onda di sabbia che procedeva attraverso il deserto, verso il richiamo del nuovo martellatore.

Jessica lo seguì, ascoltando: «Bum!… Bum!… Bum!… Bum!… Bum!…»

Qualche istante dopo il rumore cessò.

Paul afferrò il tubo della tuta e si concesse un lungo sorso. Jessica lo guardò, ma la sua mente era come svuotata dalla fatica e dai postumi del terrore. «Se n’è davvero andato?» sussurrò.

«Qualcuno l’ha chiamato» disse Paul. «I Fremen.»

Sentì che le forze le tornavano. «Era enorme!»

«Non così grosso come quello che si è divorato l’ornitottero.»

«Sei sicuro che fossero i Fremen?»

«Hanno usato un martellatore.»

«Perché dovrebbero aiutarci?»

«Forse non l’hanno fatto per aiutarci. Forse hanno voluto soltanto chiamare il verme.»

«Perché?»

La risposta era appena al di là della sua consapevolezza, ma si rifiutò di emergere. Nella sua mente ebbe la visione di qualcosa che era in relazione con gli uncini telescopici che aveva visto nello zaino: gli «ami da creatore».

«Perché dovrebbero chiamare un verme?» insistette Jessica.

Un brivido di paura sfiorò la mente di Paul: con uno sforzo distolse gli occhi da sua madre e li fissò sullo strapiombo. «Dobbiamo trovare una strada che ci porti lassù prima che sia giorno.» Puntò il dito: «Quei pali che abbiamo superato… ce ne sono degli altri!»

Jessica guardò nella direzione indicata e vide i pali (segnali corrosi dal vento) che si stagliavano all’ombra di una stretta sporgenza, incurvandosi poi per scomparire in un crepaccio, a un livello molto più alto.

«Indicano una via per salire lungo la scarpata» disse Paul. Si allacciò lo zaino, raggiunse la base della sporgenza e la costeggiò.

Jessica aspettò un attimo, rilassandosi e recuperando le forze, poi lo seguì. Cominciarono a salire seguendo i pali indicatori, finché la sporgenza si ridusse a una stretta cornice di roccia, all’imboccatura di un tenebroso crepaccio.

Paul sporse la testa per sondare l’oscurità. Aveva coscienza della precarietà della sua posizione sulla sottile striscia di roccia, ma volle usare cautela e circospezione. Vide soltanto tenebre all’interno del crepaccio, il quale si estendeva verso l’alto, aprendosi infine sul cielo stellato. Tese le orecchie e udì soltanto i suoni che si aspettava: il fruscio della sabbia, lo sfarfallio di un insetto, il picchiettio di minuscole creature in corsa. Saggiò il crepaccio col piede e sotto la sabbia granulosa trovò la roccia compatta. Lentamente, girò intorno all’angolo e invitò con un gesto la madre a seguirlo. L’afferrò per un lembo della veste e l’aiutò a venire avanti.

Guardarono in alto, verso la luce delle stelle inquadrata da due pareti di roccia, Paul percepì la madre, accanto a sé, come un profilo grigio e nebuloso. «Se soltanto potessimo arrischiarci ad accendere una luce…» bisbigliò.

«Abbiamo altri sensi oltre agli occhi» disse Jessica.

Paul fece scivolare un piede in avanti, spostò il proprio peso ed esplorò il terreno con l’altro piede. Trovò un ostacolo. Alzò il piede, scoprì che l’ostacolo era un gradino, e vi salì sopra. Allungò un braccio all’indietro, trovò la madre e l’afferrò per la veste invitandola ad avanzare.

Un altro passo.

«Credo che salga fino in cima» bisbigliò.

Gradini bassi e regolari, pensò Jessica. Certamente scolpiti dall’uomo.

Seguì i movimenti di Paul, confusa nell’ombra, gradino su gradino. Le pareti rocciose si restrinsero fin quasi a sfiorarle le spalle. I gradini finivano in una stretta gola, lunga circa venti metri e dal fondo piatto. A sua volta la gola si apriva su un bacino poco profondo, illuminato dalla luna.

Paul avanzò sull’orlo del bacino e mormorò: «Che posto meraviglioso!»

Un passo dietro di lui Jessica non rispose, ma contemplò anch’essa e assentì silenziosamente.

Nonostante la stanchezza, l’irritazione causata dai tubi e dai tamponi al naso e l’impaccio della tuta distillante, nonostante la paura e il desiderio quasi doloroso di riposare, la bellezza di quel bacino le afferrò i sensi e la costrinse a fermarsi per ammirarlo.

«Il paese delle fate» mormorò Paul.

Jessica annuì.

Davanti a lei si stendeva la vegetazione del deserto: cespugli, cacti, ciuffi di foglie coriacee, e tutto vibrava alla luce della luna. Le pareti che circondavano il bacino erano buie, sul lato sinistro, ma a destra risplendevano come ghiaccio argenteo.

«Dev’essere un luogo dei Fremen» disse Paul.

«È necessario che ci siano degli uomini, perché tutte queste piante sopravvivano» annuì Jessica. Liberò il tubo della tasca di raccolta e ne aspirò un sorso. Un liquido caldo, leggermente acre, le scivolò in gola, e tuttavia la rinfrescò. Applicando nuovamente l’otturatore al tubo, sentì lo stridio dei granelli di sabbia.

Un movimento attirò l’attenzione di Paul, alla sua destra, sul fondo del bacino, tra i cespugli e l’erba: sulla superficie sabbiosa, parzialmente illuminata dalla luna, qualcosa si agitava: su-giù, salta, su-giù…

«Topi!» bisbigliò.

Su-giù, salta… In pochi istanti sparirono nell’ombra.

Qualcosa piombò fulmineo sui topi. Si udì un lieve squittio, un battito d’ali, e un uccello grigio simile a un fantasma attraversò in volo il bacino stringendo un minuscolo oggetto scuro fra gli artigli.

Un utile avvertimento, pensò Jessica.

Paul continuò a osservare il bacino da un’estremità all’altra. Respirò l’aria della notte e percepì l’acuto profumo della salvia sullo sfondo di ogni altro odore. Considerò l’uccello da preda una componente normale del deserto. Ora il silenzio era così profondo che era quasi possibile percepire il fluire della luce azzurro-lattea della luna sui saguari e sull’intrico spinoso dei cespugli. Il chiaro di luna, qui, era una sorta di mormorio silenzioso, un’armonia più profonda di ogni altra nell’universo.

«È meglio trovare un posto dove piantare la tenda» disse Paul. «Domani cercheremo i Fremen che…»

«Gli intrusi rimpiangono di aver trovato i Fremen!»

Era una voce d’uomo, dura e imperiosa, che l’aveva interrotto, rompendo l’incanto. Veniva da destra, sopra di loro.

«Non correte, intrusi!» intimò la voce, quando Paul accennò a tuffarsi nella gola. «Sprechereste l’acqua del vostro corpo!

Questo vogliono! pensò Jessica. L’acqua del nostro corpo. Cancellò ogni fatica dai suoi muscoli, li tese al massimo pronta ad agire, senza che nulla trasparisse all’esterno. Localizzò il punto da cui proveniva la voce: Così furtivo! Non l’ho neppure udito avvicinarsi! E capì che il proprietario della voce si era avvicinato producendo soltanto i rumori naturali del deserto.

Un’altra voce chiamò dall’orlo del bacino, alla loro sinistra. «Fai presto, Stil. Prendi la loro acqua. Abbiamo una lunga marcia nel deserto, e fra poco è l’alba.»

Paul, meno addestrato di sua madre a reagire fulmineamente, si pentì di essersi spaventato e di aver tentato la fuga. L’istante di panico aveva offuscato le sue facoltà. Ora si sforzò di ubbidire agli insegnamenti: rilassarsi completamente, poi fingere di essere rilassati e tendere i muscoli fin quasi a spezzarli, come fruste pronte a scattare in qualsiasi direzione.

Tuttavia sentì ancora una punta di paura e ne riconobbe l’origine. Questo era un tempo cieco, un futuro che non aveva visto… Erano preda di due Fremen selvaggi il cui unico interesse nei loro confronti era l’acqua del loro corpo privo di scudo.


Questo adattamento religioso dei Fremen e dunque l’origine di ciò che ora conosciamo come «I Pilastri dell’Universo», di cui i Quizara Tawfid sono i rappresentanti fra noi, con i segni, le prove e le profezie. Ci portano questa fusione mistica di Arrakis, la cui profonda bellezza noi ritroviamo nella commovente musica composta sulle antiche forme, ma contrassegnata da questo nuovo risveglio. Chi non ha ascoltato, senza commuoversi profondamente, l’«Inno al Vecchio»?

Ho calpestalo un deserto

Abitato da miraggi ondeggianti.

Vorace di gloria, avido di pericolo,

Ho vagabondato sugli orizzonti di al-Kulab,

Ho visto il tempo livellare le montagne

Nella sua ricerca e nella sua fame di me.

E ho visto i passeri sfrecciare fulminei,

Più arditi di un lupo da preda.

Si sono dispersi nell’albero della mia giovinezza.

Ho sentito lo stormo fra i miei rami

E ho conosciuto i loro becchi e gli artigli!

dal «Risveglio di Arrakis», della Principessa Irulan


L’uomo strisciò sulla cresta di una duna. Era come una pagliuzza nel riflesso del sole di mezzodì. Indossava soltanto i resti di un jubba, e, attraverso gli squarci, la sua pelle nuda era esposta alla vampa ardente. Il cappuccio gli era stato strappato dal mantello, ma egli si era confezionato un turbante con un pezzo del jubba. Ciuffi di capelli color sabbia ne uscivano, intonati al colore della barba e delle folte sopracciglia. Sotto gli occhi azzurri nell’azzurro, una macchia scura gli segnava le guance. Un solco di peli impastati attraverso i baffi e la barba indicavano la posizione del tubo di una tuta distillante, dal naso alla tasca di raccolta.

L’uomo si fermò sulla cresta, le braccia distese sull’altro versante. Sangue rappreso gli copriva la schiena, le braccia e le gambe: sulle ferite gli aderivano chiazze di sabbia grigiastra. Lentamente trascinò le mani fin sotto al corpo, riuscì a sollevarsi in piedi e si fermò, vacillando. Anche stremato di forze, i suoi movimenti conservavano una certa precisione.

«Io sono Liet-Kynes» disse rivolgendosi all’orizzonte vuoto, e la sua voce era una rauca caricatura della forza di un tempo. «Io sono il Planetologo di Sua Maestà Imperiale» bisbigliò poi. «Ecologo planetario di Arrakis. Il servitore di questo mondo.»

Incespicò e crollò sul fianco della duna esposto al vento. Le sue mani scavarono lentamente nella cresta sabbiosa.

Io sono il servitore di queste sabbie, pensò.

Capì di trovarsi sull’orlo del delirio. Doveva scavarsi una fossa nella sabbia, fino a trovare uno strato sotterraneo relativamente freddo, e seppellirsi in esso. Ma percepì l’odore dolciastro, rancido, delle sacche di prespezia in qualche punto sotto la sabbia: sapeva il pericolo che quell’odore rappresentava, più di qualsiasi altro Fremen. Se l’odore della massa prespezia era giunto fino a lui, ciò significava che i gas nella profondità della sabbia avevano raggiunto una pressione molto prossima all’esplosione. Doveva allontanarsi al più presto.

Le sue mani cercarono debolmente di spingerlo lungo la superficie della duna. Un pensiero gli attraversò la mente, chiaro, distinto: La vera ricchezza di un pianeta è nel suo terreno, nel ruolo che noi giochiamo in questa fonte primordiale di civiltà, l’agricoltura.

E pensò quanto fosse strano che la mente, abituata da lungo tempo a seguire un’unica direzione, fosse incapace di cambiarla. Le truppe degli Harkonnen lo avevano abbandonato lì senz’acqua, dopo avergli strappato la tuta distillante, convinti che un verme, o il deserto, l’avrebbero distrutto. Si erano divertiti all’idea di lasciarlo vivo tra le dune, a morire un po’ per volta nella morsa impersonale del pianeta.

Gli Harkonnen hanno sempre trovato assai difficile uccidere i Fremen, pensò. Noi non moriamo facilmente. Io dovrei essere morto, a quest’ora… sarò morto fra non molto… ma non posso impedirmi di essere ancora un ecologo…

«La più alta funzione dell’ecologia è la comprensione delle conseguenze.»

Questa voce lo sconvolse, perché colui al quale apparteneva era morto. Era la voce di suo padre, che era stato planetologo su Arrakis prima di lui… suo padre, morto da tempo, ucciso nel crollo del Bacino Plastico.

«Ti sei cacciato in un bel guaio, figlio mio» disse il padre. «Avresti dovuto comprendere le conseguenze, quando hai cercato di aiutare il figlio di quel Duca.

Sto delirando, pensò Kynes.

La voce sembrava provenire da destra. Kynes girò la testa, graffiandosi il viso sulla sabbia, per guardare in quella direzione, ma non c’era nulla, a parte la distesa ondulata delle dune che sembravano danzare al calore infernale del deserto.

«Più vita c’è in un sistema, maggiore è la quantità di nicchie ecologiche che presenta» continuò il padre. La voce giungeva ora da sinistra, alle sue spalle.

Perché continua a muoversi? si chiese Kynes. Non vuole che lo veda?

«La vita accresce la capacità di un ambiente a sostenere la vita» disse ancora il padre. «La vita aumenta la disponibilità di sostanze nutritizie. E lega più energia nel sistema grazie ai colossali scambi chimici tra un organismo e l’altro.»

Perché insiste a ripetere sempre le stesse cose? pensò Kynes. Sapevo già tutto prima di avere dieci anni.

I falchi del deserto, che in questa terra (al pari della maggioranza degli animali selvatici) erano divoratori di carogne, cominciarono a volare sopra di lui. Kynes vide un’ombra sfiorargli la mano e si sforzò di alzare la testa. Gli uccelli erano macchie confuse in un cielo azzurro argento, chiazze ondeggianti di foschia.

«Noi dobbiamo generalizzare» disse il padre. «Non è possibile tracciare nette separazioni tra i problemi che coinvolgono un intero pianeta. La planetologia è la scienza del ’taglia e ricuci’.»

Che cosa sta cercando di dirmi? C’è forse qualche effetto di cui non mi sono accorto?

Il suo viso ricadde sulla sabbia bollente. Nell’odore dei gas della prespezia percepì il sentore della roccia bruciata. In qualche punto della sua mente, ancora controllata dalla logica, si formò un nuovo pensiero: Vi sono uccelli sopra di me. Forse alcuni dei miei Fremen verranno a investigare.

«Il più importante strumento per il lavoro di un planetologo è l’essere umano» insistette il padre. «È indispensabile sviluppare la cultura ecologica fra la gente. È per questo che ho messo a punto un metodo interamente nuovo di notazione ecologica.»

Ancora le cose che mi ha detto fin da quando ero bambino.

Kynes sentì freddo, ma l’angolo ancora lucido della sua mente gli disse: Il sole è a picco sulla tua testa. Non hai la tuta distillante e fa un caldo infernale. Il sole ti asciuga tutta l’umidità del corpo.

Tentò di aggrapparsi alla sabbia.

Non mi hanno neppure lasciato la tuta distillante!

«La presenza di umidità nell’aria» riprese il padre, «previene l’evaporazione troppo rapida del corpo.»

Perché continua a ripetere ciò che è ovvio?

S’immaginò l’aria satura di umidità… la duna rivestita di erba… una distesa d’acqua, all’aperto, dietro di lui, un lungo qanat le cui acque scorrevano nel deserto, e file di alberi sulle rive… Non aveva mai visto l’acqua libera sotto il cielo, fuorché nelle illustrazioni dei libri. Acqua libera, aperta… acqua per le irrigazioni… Ci volevano cinquemila metri cubi di acqua per irrigare un ettaro ogni semina, ricordò.

«Il nostro primo obiettivo su Arrakis» disse suo padre, «è di creare zone d’erba. Cominceremo con una varietà mutante arida. Quando avremo imprigionato l’umidità nelle zone erbose, allora pianteremo foreste sui declivi; poi qualche pozza d’acqua all’aperto… piccole all’inizio e situate lungo percorsi battuti dal vento, con trappole precipitatrici di umidità per riprendere al vento quello che avrà rubato. Dobbiamo creare uno scirocco, un vento umido… ma le trappole a vento saranno sempre necessarie»

Continua a parlare dalla cattedra. Perché non sta zitto? Non vede che sto per morire?

«E davvero morirai» proseguì il padre, «se non ti togli da quella bolla di gas che sta formandosi sotto di te. È lì e lo sai. Senti già le esalazioni della prespezia. Sai che i piccoli creatori stanno per perdere un po’ della loro acqua nella massa.»

Il pensiero di quell’acqua sotto di lui lo faceva impazzire. La immaginò, bloccata negli strati di roccia porosa da quegli esseri coriacei, metà bestie, metà piante… i piccoli creatori… e la sottile fenditura da cui si riversava il liquido chiaro, puro, rinfrescante nella…

Una massa prespezia!

Respirò, odorando il sentore dolciastro. L’odore lo avvolgeva, sempre più intenso.

Kynes si sollevò sulle ginocchia, sentì un uccello stridere, un battito affrettato di ali.

Deserto da spezia, pensò. I Fremen non possono essere lontani, anche se è giorno. Certamente hanno visto gli uccelli. Verranno a investigare.

«Muoversi per il territorio è una necessità per la vita animale» continuò il padre. «Ed è una necessità anche per i nomadi. Sono il bisogno fisico dell’acqua, quello del cibo e dei minerali che guidano i loro movimenti. Ora dobbiamo controllare questo movimento, adattarlo ai nostri scopi.»

«Chiudi la bocca, vecchio» borbottò Kynes.

«Dobbiamo fare su Arrakis quello che non è mai stato tentato per un intero pianeta» replicò il padre. «Dobbiamo usare l’uomo come una forza ecologica costruttiva, inserire in questo mondo una vita terrestre, adattata: una pianta qui, là un animale, un uomo. Per trasformare il ciclo dell’acqua e creare un nuovo paesaggio.»

«Chiudi la bocca!» ripeté Kynes.

«La direzione dei movimenti ci diede il primo indizio del rapporto fra i vermi e la spezia» disse il padre.

Un verme, pensò Kynes, con un soprassalto di speranza. Quando la bolla esploderà, certamente verrà un creatore. Ma non ho l’amo con me. Come potrei cavalcare un gigantesco creatore senza l’amo?

La frustrazione minava quel poco d’energia che restava in lui. L’acqua era così vicina… cento metri, più o meno, sotto di lui: un verme sarebbe certamente arrivato, ma non aveva modo di bloccarlo alla superficie e di usarlo.

Ricadde sulla sabbia nella depressione scavata dal suo corpo. Sentì la sabbia bollente sulla guancia sinistra, ma era una sensazione lontana.

«L’ambiente di Arrakis si è incorporato entro lo schema evoluzionistico delle forme di vita locali» riprese il padre. «È strano che solo pochissimi abbiano distolto lo sguardo dalla spezia quel tanto che bastava per chiedersi come fosse possibile che, in un mondo dove le vaste zone di vegetazione erano assenti, potesse conservarsi un equilibrio quasi ideale fra l’azoto, l’ossigeno e l’anidride carbonica. La sfera energetica del pianeta esiste, per essere vista e capita: un ciclo inesorabile, ma sempre un ciclo. Manca un anello del ciclo? Vuol dire che qualcosa d’altro lo sostituisce. La scienza è fatta di tante piccole cose, che sembrano poi evidenti quando sono state spiegate. Molto prima di averlo visto coi miei occhi io già sapevo che doveva esserci il piccolo creatore nella profondità delle sabbie.»

«Per favore, smettila con queste lezioni, Padre mio» bisbigliò Kynes.

Un falco si calò sulla sabbia accanto alla sua mano protesa. Kynes lo vide ripiegare le ali e piegare la testa per guardarlo. Trovò la forza di scacciarlo. L’uccello fece due salti più in là, ma continuò a fissarlo.

«Fino ad oggi gli uomini e le loro opere sono stati un flagello per i pianeti» disse ancora il padre, «La natura reagisce ai flagelli: li elimina o li assorbe per incorporarli nel suo sistema.»

Il falco abbassò la testa, distese le ali e le ripiegò. Trasferì la sua attenzione alla mano protesa.

Kynes scoprì di non avere più la forza di scacciarlo.

«Qui su Arrakis» proseguì il padre, «l’antico sistema storico di mutue estorsioni e saccheggi si è bloccato. Non puoi continuare a rubare per sempre senza preoccuparti di quelli che verranno dopo di te. Le particolarità fisiche di un pianeta incidono un segno profondo sulla sua storia economica e politica. Quel segno è davanti ai nostri occhi e ci chiarisce i nostri obiettivi.»

Nessuno è mai riuscito a fermarti, sospirò Kynes. Lezioni, lezioni. Facevi sempre lezione a tutti.

Il falco fece un passo verso la mano protesa di Kynes. Girò la testa da una parte e poi dall’altra, studiando la pelle nuda.

«Arrakis è un pianeta dal singolo raccolto» continuò il padre. «Un singolo raccolto. Esso mantiene una classe dominante, che vive come sono sempre vissute le classi dominanti, schiacciando sotto di sé una massa semiumana di mezzi schiavi, che sopravvive dei suoi rifiuti. Sono le masse e i rifiuti che richiamano la nostra attenzione. Hanno molto più valore di quanto non si sia mai sospettato.»

«Neppure ti ascolto, Padre mio» mormorò Kynes. «Vattene.»

E pensò: Qualcuno dei miei Fremen è certamente qua vicino. È impossibile che non vedano gli uccelli sopra di me. Verranno senzaltro a investigare, se non altro per cercare l’acqua.

«Il popolo di Arrakis saprà che noi lavoriamo perché questa terra un giorno trabocchi d’acqua» insistette il padre. «La maggior parte, ovviamente, avrà una comprensione quasi mistica del nostro progetto. Molti, addirittura, ignorando il proibitivo rapporto tra le masse interessate, crederanno che noi porteremo l’acqua da un altro pianeta che ne sia ricco. Lascia che credano quello che vogliono, finché credono in noi.»

Fra un minuto mi alzerò per dirgli quello che penso di lui, disse tra sé Kynes. Continua a farmi paternali invece di aiutarmi!

Il falco fece un altro salto verso la mano di Kynes. Altri due uccelli si calarono sulla sabbia dietro al primo.

«Religione e legge dovranno essere un’unica cosa, per le masse» riprese il padre. «Tutti gli atti di disobbedienza devono essere peccati e comportare una punizione religiosa. Questo avrà un doppio beneficio: decuplicare l’obbedienza e insieme il coraggio. Noi non dobbiamo dipendere dal coraggio del singolo, capisci, ma dal coraggio di tutta una popolazione.»

Dov’è il mio popolo, ora che più che mai ho bisogno di lui? si chiese Kynes. Fece appello alle sue ultime forze e proiettò la mano, per la lunghezza di un dito, verso il falco più vicino. L’uccello saltò indietro fra i suoi compagni e tutt’e tre lo fissarono, allarmati.

«La nostra tabella di marcia sarà regolata sui valori dei fenomeni naturali» proseguì il padre. «La vita di un pianeta è un ampio tessuto, fittamente intrecciato. Mutazioni animali e vegetali sorgeranno, all’inizio, a causa delle forze primordiali della natura che noi manipoleremo. Man mano che si stabilizzeranno, le nostre mutazioni diventeranno anch’esse delle influenze determinanti e dovremo occuparci anche di esse. Ricorda, però, che ci basta controllare soltanto il tre per cento dell’energia alla superficie… solo il tre per cento!… per trasformare l’intera struttura in un sistema autosufficiente.»

Perché non mi aiuti? Sempre così; quando ho più bisogno di te, non ci sei. Volle girare la testa verso la direzione dalla quale sembrava giungere la voce del vecchio, ma i muscoli si rifiutavano di obbedire.

Kynes vide che il falco si muoveva. Si avvicinò alla mano, un passo dopo l’altro, prudente, mentre i suoi compagni ostentavano indifferenza. Il falco tornò a fermarsi a pochi centimetri dalla mano.

La mente di Kynes s’illuminò. All’improvviso fu consapevole di una possibilità per Arrakis che era sfuggita a suo padre. E tutte le sue implicazioni lo travolsero.

«Non ci sarebbe peggior disastro per il tuo popolo che quello di cadere in mano di un Eroe» lo ammonì il padre.

Legge i miei pensieri! si disse Kynes. Ebbene… li legga pure.

I messaggi sono già partiti verso i miei sietch. Niente può arrestarli. Se il figlio del Duca è vivo lo troveranno e lo proteggeranno, come ho ordinato. Potrebbero respingere la donna, sua madre, ma salveranno il figlio.

Il falco fece un altro balzo in avanti, che lo portò a sfiorare la mano. Piegò la testa per esaminare la carne inerte. Ma all’improvviso si raddrizzò, tese il collo verso l’alto e con un grido s’innalzò nell’aria, seguito dai suoi compagni; fecero un ampio giro e si allontanarono.

Eccoli, pensò Kynes. I miei Fremen mi hanno trovato!

Poi udì il brontolio nella sabbia.

Tutti i Fremen conoscevano quel rombo, così diverso dal sibilo dei vermi e dai rumori delle altre forme di vita del deserto. In qualche punto, sotto di lui, la massa prespezia aveva accumulato acqua e sostanza organica dai piccoli creatori, e aveva raggiunto il punto critico della sua crescita incontrollata. Una gigantesca bolla di anidride carbonica si stava formando nelle profondità sotto la duna, alzandosi irresistibilmente verso la superficie, trascinando con sé un vortice di sabbia. Tutto quello che si trovava alla superficie sarebbe stato inghiottito, scambiato con la sostanza che risaliva dal basso.

I falchi roteavano sulla sua testa, gracidando per la frustrazione. Sapevano quanto stava accadendo. Ogni creatura del deserto lo sapeva.

E io sono una creatura del deserto, pensò Kynes. Mi vedi, Padre? Sono una creatura del deserto.

Sentì che la bolla lo sollevava, lo trascinava con sé, esplodeva. Il turbine di sabbia l’afferrò, l’inghiottì in un abisso di gelida tenebra. Per un attimo, la sensazione di freddo e di umidità fu un sollievo. Poi, nell’istante in cui il suo pianeta lo uccideva, capì che suo padre e tutti gli altri scienziati si erano sbagliati e che i princìpi fondamentali dell’universo erano pur sempre l’errore e il caso.

Perfino i falchi lo sapevano.


Profezia e preveggenza. Com’è possibile provarne la verità davanti a domande senza risposta? Considera: in quale misura l’«onda» (come Muad’Dib chiama la sua visione-immagine) è vera profezia, e quanto invece il profeta contribuisce a plasmare il futuro perché si adatti alla profezia? Il profeta vede veramente l’avvenire, oppure una linea di frattura, una crepa, un difetto che lui potrebbe spezzare con le decisioni o le parole, come il tagliatore di diamanti spezza una gemma con un colpo di scalpello?

da «Riflessioni personali su Muad’Dib», della Principessa Irulan


«Prendi la loro acqua», aveva detto l’uomo avvolto dalle tenebre della notte. Paul scacciò la paura e fissò sua madre. I suoi occhi addestrati videro che era pronta alla battaglia, i muscoli tesi al primo segnale.

«Sarebbe un peccato se fossimo costretti a distruggervi subito» fece la voce sopra di loro.

È quello che ha parlato per primo, pensò Jessica. Sono almeno in due, uno a destra e uno a sinistra.

«Cignoro hrobosa sukares hin mange la pchagavas doi me kamavas na beslas lelele pal hrobas!»

L’uomo alla loro destra chiamava qualcuno sull’altro lato del bacino.

Le parole erano incomprensibili per Paul, ma Jessica, grazie al suo addestramento Bene Gesserit, riconobbe la lingua. Era Chakobsa, una delle antiche lingue dei cacciatori, e l’uomo sopra di loro stava dicendo che forse erano gli stranieri che stavano cercando.

Nell’improvviso silenzio che seguì a quella frase, si alzò la seconda luna: un disco azzurro pallido e avorio, che sembrava sfiorare le rocce e guardarli curioso.

Poi, tra le rocce, si udì un rumore furtivo di mani e di piedi, su entrambi i lati… Ombre si mossero nel chiaro di luna. Altre figure scivolarono fuori dal buio.

Un’intera squadra! pensò Paul, e sentì il cuore balzargli in gola.

Un uomo alto con un burnus screziato, avanzò verso Jessica. Si era tolto il velo per parlare più chiaramente, rivelando una folta barba alla pallida luce della luna. Ma il cappuccio gli nascondeva il viso e gli occhi.

«Che cosa abbiamo qui? Djinn o esseri umani?» chiese.

Jessica gli sentì un vago tono canzonatorio nella voce e si concesse una debole speranza. Quella era la voce imperiosa che li aveva scossi per prima, interrompendoli mentre contemplavano la notte.

«Umani, penso» disse l’uomo.

Jessica percepì, più che vederlo, il coltello nascosto nella sua tuta. Per un breve istante rimpianse amaramente gli scudi.

«Parlate, anche?» continuò a chiedere l’uomo.

Jessica fece appello a tutta l’arroganza ducale che ancora le rimaneva nella voce e nel portamento. Era urgente rispondere a quest’uomo. Ma non lo aveva sentito parlare abbastanza per avere una «registrazione» della sua cultura e delle sue debolezze.

«Chi piomba su di noi nella notte, come un assassino?» domandò lei.

La testa avvolta nel cappuccio del burnus sussultò, rivelando la tensione dell’uomo. Poi, lentamente, si rilassò, e questo rivelò ancora di più a Jessica: l’uomo sapeva controllarsi.

Paul si allontanò dalla madre per distanziare i bersagli e disporre di uno spazio più ampio per agire.

L’incappucciato girò la testa, seguendo Paul, e offrì un angolo del proprio viso alla luce della luna. Jessica vide un naso aguzzo, un occhio lucido (cupo, un occhio cupo, senza la minima traccia di bianco) folte sopracciglia e baffi rivolti all’insù.

«Il cucciolo è abile» disse l’uomo. «Se siete sfuggiti agli Harkonnen, può darsi che siate accolti fra noi. Cosa ne dici, ragazzo?»

Tutte le ipotesi possibili attraversarono la mente di Paul: È la verità? o una trappola? Bisognava decidere subito.

«Perché dovreste accogliere dei fuggitivi?» domandò.

«Un fanciullo che pensa e parla come un uomo» disse il Fremen. «Bene, ora rispondo alla tua domanda, mio giovane wali: io sono uno che non paga il fai, il tributo d’acqua, agli Harkonnen. Per questo, appunto, potrei accogliere dei fuggitivi.»

Sa perfettamente chi siamo, si disse Paul. Lo nasconde, ma lo sento nella sua voce.

«Io sono Stilgar, il Fremen» riprese l’uomo. «Questo può sciogliere la tua lingua, ragazzo?»

La stessa voce, pensò Paul. Si ricordò di quest’uomo quand’era venuto alla riunione del Consiglio a reclamare il corpo di un amico trucidato dagli Harkonnen.

«Io ti conosco, Stilgar» disse Paul. «Ero con mio padre al Consiglio quando sei venuto a reclamare l’acqua del tuo amico. Hai preso con te l’uomo di mio padre, Duncan Idaho… uno scambio di amici.»

«E Idaho ci ha abbandonati per ritornare al suo Duca» replicò Stilgar.

Jessica percepì il disgusto nella sua voce e si tenne pronta per l’attacco.

L’altra voce tra le rocce gridò: «Stiamo perdendo tempo, Stil!»

«Questo è il figlio del Duca!» urlò Stilgar, di rimando. «È certamente lui che Liet ci ha ordinato di cercare.»

«Ma… un ragazzo, Stil.»

«Il Duca era un uomo, e questo ragazzo si è servito di un martellatore» ribatté Stilgar. «È stato coraggioso ad attraversare il sentiero di Shai-hulud.»

Jessica sentì che l’uomo l’aveva esclusa dai suoi pensieri. L’aveva già condannata?

«Non abbiamo il tempo di metterlo alla prova» obiettò nuovamente la voce.

«E tuttavia potrebbe essere il Lisan al-Gaib» replicò Stilgar.

Sta cercando un segno! pensò Jessica.

«Ma la donna…»

Jessica si preparò. Quella voce suonava morte, per lei.

«Sì, la donna» fece Stilgar, «e la sua acqua.»

«Tu sai la legge» disse ancora la voce. «Colui che non può vivere nel deserto…»

«Silenzio!» l’interruppe Stilgar. «I tempi cambiano.»

«Liet l’ha ordinato?»

«Hai udito la voce del cielago, Jamis» disse Stilgar. «Perché insisti?»

Cielago! pensò Jessica. Questa parola la illuminò. Era la lingua dell’Ilm e del Fiqh, e «cielago» voleva dire pipistrello, un piccolo mammifero volante. La voce del cielago: avevano ricevuto un messaggio distrans con l’ordine di cercarli, Paul e lei.

«Volevo soltanto ricordarti i tuoi doveri, amico Stilgar» riprese la voce sopra di loro.

«Il mio dovere è la forza della tribù» disse Stilgar. «Questo è il mio solo dovere. Non ho bisogno che nessuno me lo ricordi. Il fanciullo-uomo m’interessa. È carnoso. È vissuto con molta acqua. Lontano dal sole natio. Non ha gli occhi di Ibad. Ma non parla e neppure agisce come i deboli dei pan. E neppure suo padre era un debole. Com’è possibile?»

«Non possiamo restare qua fuori a discutere tutta la notte» replicò la voce tra le rocce. «Se una pattuglia…»

«Questa è l’ultima volta che ti ordino di tacere, Jamis» disse Stilgar.

L’uomo tra le rocce tacque, ma Jessica lo sentì attraversare la gola con un balzo, dirigendosi sul fondo del bacino alla loro sinistra.

«La voce del cielago ha fatto capire che sarebbe stato conveniente per noi salvarvi tutt’e due» disse Stilgar. «La forza del fanciullo-uomo è promettente: è giovane e può imparare. Ma tu, donna?» Fissò Jessica.

Ora, pensò Jessica, ho registrato la sua voce, il suo schema. Potrei controllarlo con una sola parola, ma è un uomo forte… Per noi è molto più prezioso così, libero, intatto… Vedremo.

«Io sono la madre di questo ragazzo» disse Jessica. «La forza che tu ammiri in parte è data dal mio addestramento.»

«La forza di una donna può essere illimitata» dichiarò Stilgar. «Certamente è così per una Reverenda Madre. Sei forse una Reverenda Madre?»

Per il momento Jessica ignorò le implicazioni di quella domanda, e disse francamente: «No».

«Conosci gli usi del deserto?»

«No, ma molti giudicano prezioso il mio addestramento.»

«Tocca a noi giudicare cosa sia prezioso» ribatté Stilgar.

«Ciascuno ha diritto al proprio giudizio» rispose Jessica.

«È bene che tu capisca» riprese Stilgar. «Non c’è tempo di metterti alla prova, donna. Ma non vogliamo che la tua ombra ci affligga. Prenderò tuo figlio. Il fanciullo-uomo avrà tutto il mio appoggio e sarà accolto nella mia tribù. Ma tu, donna… Non c’è niente di personale in questo, capisci? È Istislah, la regola nell’interesse di tutti. Non ti basta?»

Paul fece un passo avanti. «Cosa vuol dire tutto questo?»

Stilgar gli lanciò un’occhiata, senza distogliere la sua attenzione da Jessica. «A meno che tu non sia stata addestrata sin dalla fanciullezza a vivere qui, potresti causare la distruzione dell’intera tribù. È la legge, non possiamo accettare gli inutili.»

Il movimento di Jessica s’iniziò come uno svenimento: il corpo parve sul punto di afflosciarsi. Fin troppo ovvio, da parte di una straniera debole e infelice. E ciò che è ovvio rallenta le reazioni dell’avversario. Ci vuole qualche istante per riconoscere una cosa nota, se essa ci viene mascherata come qualcosa di diverso. Jessica entrò in azione nell’istante in cui vide la sua mano sinistra frugare nel mantello per estrarre un’arma e puntarla contro di lei. Girò fulminea su se stessa, calò un colpo col taglio della mano in un turbinio confuso di vesti, e si ritrovò con le spalle alla roccia e l’uomo indifeso davanti a lei.

Al primo movimento della madre, Paul era balzato indietro. Mentre lei attaccava, si tuffò nell’ombra. Un uomo barbuto gli tagliò la strada, puntando un’arma. Paul colpì l’uomo sotto lo sterno con un colpo secco della mano, lo schivò e colpì ancora alla base del collo, strappandogli l’arma mentre cadeva.

Poi si nascose nell’ombra, arrampicandosi fra le rocce, l’arma infilata nella cintura. L’aveva identificata nonostante la sua forma poco familiare: un’arma che scagliava piccoli dardi, e questo diceva molte cose su quegli uomini, un altro indizio che qui non si usavano gli scudi.

Concentreranno le loro forze su mia madre e su Stilgar. Lei può neutralizzarlo. Devo trovare una posizione dalla quale attaccarli e darle il tempo di fuggire.

Nel bacino, numerose molle scattarono: dardi crepitarono sulle rocce intorno a lui. Uno gli sfiorò la tuta. Scivolò dietro una roccia al riparo, e si trovò in una stretta fenditura verticale: cominciò a scalarla, centimetro per centimetro, schiacciando la schiena su un lato e puntando i piedi sull’altro, il più silenziosamente possibile.

La voce di Stilgar ruggì: «Stai indietro, pidocchio dalla testa di verme! Mi spezzerà il collo se ti avvicini!»

Un’altra voce disse: «Stil, il ragazzo è fuggito! Che cosa…»

«Ma certo che è fuggito, cervello di sabbia… Ahi, donna, ferma!»

«Di’ che smettano d’inseguire mio figlio!» ordinò Jessica.

«Hanno già smesso, donna. È fuggito come volevi tu. Grandi Dèi del profondo! Perché non mi hai detto che eri una maga e una guerriera?»

«Di’ ai tuoi uomini di ritirarsi» disse Jessica. «Di’ che vadano in mezzo al bacino, dove posso vederli… ed è meglio che tu dia per certo che io sappia quanti sono.»

E pensò: Siamo in un momento delicato. Ma se quest’uomo è sveglio quanto sembra, abbiamo una speranza.

Paul continuava a salire, centimetro per centimetro. Trovò una stretta sporgenza su cui riposare, si fermò e guardò giù nel bacino. La voce di Stilgar lo raggiunse.

«E se rifiuto? Come puoi… Uuugh! Ferma, donna! Non voglio più farti del male. Grandi Dèi! Se puoi far questo al più forte di noi, vali dieci volte il tuo peso in acqua!

Ora, la prova della ragione, pensò Jessica, e disse: «Tu cerchi il Lisan al-Gaib».

«Voi potreste essere le persone della leggenda» disse Stilgar, «ma non lo crederò finché non sarà stato provato. Tutto quello che so è che siete venuti qui con quello stupido Duca, il quale… Aaaah! donna! Non m’importa se mi uccidi! Era un uomo d’onore e coraggioso, ma è stato stupido a cacciarsi nella trappola degli Harkonnen!»

Silenzio.

«Non aveva scelta» replicò Jessica, dopo qualche istante. «Ma non parliamo di questo. Ora, ordina al tuo uomo dietro il cespuglio, laggiù, di smetterla di puntare la sua arma contro di me, altrimenti sbarazzerò l’universo della tua presenza e dopo mi occuperò anche di lui.»

«Tu, laggiù!» ruggì Stilgar. «Fa’ come dice!»

«Ma, Stil…»

«Fa’ come dice, faccia di verme, testa di sabbia, sterco di lucertola! Fallo, o l’aiuterò a farti a pezzi! Non capisci il valore di questa donna?»

L’uomo nel cespuglio si alzò in piedi e abbassò l’arma.

«Ha obbedito» disse Stilgar.

«Ora» replicò Jessica, «spiega chiaramente ai tuoi quello che ti aspetti da me. Non voglio che qualche giovane testa calda compia un errore così pazzo.»

«Quando noi scivoliamo nei villaggi e nelle città dobbiamo mascherare la nostra origine, mescolandoci alla gente del graben e del pan» fece Stilgar. «Non portiamo armi, perché il cryss è sacro. Ma tu, donna, tu conosci l’arte magica del combattimento. Ne avevamo sentito parlare, e molti dubitavano, ma non si può dubitare di quello che si è visto coi propri occhi. Hai vinto un Fremen armato. Una simile arma, nessuna perquisizione potrà mai scoprirla…»

Un confuso agitarsi nel bacino indicò che le parole di Stilgar coglievano nel segno.

«E se io acconsentissi a insegnarvi questa… arte magica?»

«Avrai il mio appoggio, come tuo figlio.»

«Come possiamo esser certi che dici il vero?»

La voce di Stilgar smarrì un po’ della sua ragione e divenne amara. «Qui all’aperto, donna, non abbiamo carte o contratti. Noi non facciamo promesse alla sera, per dimenticarle all’alba successiva. Quando un uomo dice una cosa, è un contratto. Io sono il capo del mio popolo. Esso è legato alla mia parola. Insegnaci la tua magica abilità nel combattere, e avrai protezione fin quando lo vorrai. La tua acqua si mescolerà con la nostra acqua.»

«Puoi parlare per tutti i Fremen?» domandò Jessica.

«Col tempo, può darsi. Mio fratello Liet è l’unico che può parlare a nome di tutti. Qui, io posso soltanto prometterti il segreto. La mia gente non parlerà di voi a nessun altro sietch. Gli Harkonnen sono ritornati in forze su Dune, e il vostro Duca è morto. Si dice che anche voi siate morti in una Madre delle Tempeste. Il cacciatore non cerca prede già morte.»

È una protezione, pensò Jessica. Ma questa gente dispone di buoni mezzi di comunicazione e può sempre inviare un messaggio.

«Penso che sia stata posta una taglia sulla nostra testa» disse.

Stilgar tacque, e Jessica riuscì quasi a vedere i pensieri che gli vorticavano nella mente, mentre i suoi muscoli le guizzavano tra le dita.

Poco dopo, parlò: «Lo ripeto, vi ho dato la parola della tribù. La mia gente ora conosce il vostro valore. Che cosa potrebbero offrirci gli Harkonnen? La nostra libertà? Ah! … No, voi siete il taqwa, che può comperare più cose di tutta la spezia nei forzieri degli Harkonnen».

«Allora v’insegnerò il modo di combattere» disse Jessica, e percepì l’intensità rituale che inconsciamente animava le sue parole.

«Ora mi lascerai andare?»

«Così sia» fece Jessica. Lo liberò e fece un passo di lato, offrendosi alla vista di tutti gli uomini riuniti nel bacino. Questo è il mashad, pensò, l’ultima prova. Ma Paul deve sapere come sono questi uomini, anche se dovessi morire perché lui lo sappia.

Nel silenzio pieno di tensione, Paul si protese in avanti per meglio vedere la madre. Sopra di lui, in verticale sulla spaccatura rocciosa, udì un respiro affannoso che subito si arrestò, e percepì la presenza di un’ombra delineata contro le stelle.

La voce di Stilgar salì dal bacino: «Tu, lassù! Smettila di dar la caccia al ragazzo! Scenderà da solo».

La voce di un giovane, o di una ragazza, risuonò nel buio qualche metro sopra Paul: «Ma Stil, è proprio qui…»

«Ti ho detto di lasciarlo stare, Chani, maledetta figlia di una lucertola!

Un’imprecazione appena bisbigliata uscì da qualche punto sopra Paul, poi una voce mormorò: «Chiamare me figlia di una lucertola!» L’ombra scomparve.

Paul riportò la sua attenzione al bacino. Stilgar era un’ombra grigia accanto a sua madre.

«Venite tutti!» gridò Stilgar. Si voltò verso Jessica: «E ora io ti chiedo: come puoi garantirci che manterrai la tua metà del contratto? Sei tu quella che vive tra le carte e i contratti privi di valore che…»

«Noi Bene Gesserit non rompiamo le nostre promesse più di quanto non facciate voi» disse Jessica.

Vi fu un silenzio pieno di tensione, poi un intrecciarsi di voci: «Una strega Bene Gesserit!»

Paul impugnò l’arma di cui si era impadronito e la puntò sull’indistinta figura di Stilgar, ma l’uomo e i suoi compagni erano come impietriti, fissando Jessica.

«La leggenda» disse qualcuno.

«La Shadout Mapes aveva detto questo, di te» aggiunse Stilgar. «Ma una cosa di questa importanza va provata. Se tu sei la Bene Gesserit della leggenda, il cui figlio ci porterà al paradiso…» Scrollò le spalle.

Jessica sospirò, pensando: Così, la nostra Missionaria Protectiva ha disseminato perfino questo inferno di valvole di sicurezza. Ebbene… ci serviranno. Esistono proprio per questo.

E disse: «La Veggente che vi ha portato la leggenda, ve l’ha concessa sotto il vincolo del karama e dell’ijaz, il miracolo e l’immutabilità della profezia. Questo mi è noto. Volete un segno?»

Stilgar alzò la testa, nel chiaro di luna. «Non c’è tempo per i riti» dichiarò.

Jessica si ricordò di una carta che Kynes le aveva mostrato mentre organizzava le vie di fuga. Come sembrava lontano! C’era un nome, «Stilgar», accanto a un luogo chiamato «Sietch Tabr».

«Forse, quando saremo arrivati al Sietch Tabr» replicò.

La rivelazione lo scosse, e Jessica pensò: Se conoscesse i nostri trucchi! Dev’essere stata in gamba, la Bene Gesserit della Missionaria Protectiva. Questi Fremen sono splendidamente pronti a crederci.

Stilgar si agitò, inquieto. «Dobbiamo andare, adesso.»

Lei annuì, perché lui capisse che si mettevano in marcia col suo permesso.

Stilgar guardò in alto, verso la roccia a picco e la sporgenza sulla quale Paul era accovacciato. «Tu lassù, ragazzo, vieni giù, ora.» Rivolse ancora la sua attenzione a Jessica, e aggiunse in tono di scusa: «Tuo figlio ha fatto un baccano incredibile, arrampicandosi. Ha molto da imparare, se non vuole metterci tutti in pericolo. Ma è giovane».

«Non c’è dubbio che abbiamo molto da insegnarci, gli uni agli altri» disse Jessica. «Ma ora dovresti occuparti del tuo compagno, laggiù. Mio figlio l’ha disarmato un po’ brutalmente.»

Stilgar si voltò di scatto, facendo svolazzare il cappuccio. «Dove?»

«Dietro quei cespugli» gl’indicò Jessica.

Stilgar fece un cenno a due dei suoi uomini: «Andate a vedere». Contò i suoi compagni, identificandoli uno a uno: «Manca Jamis». Fissò nuovamente Jessica: «Anche il tuo cucciolo ha quella abilità magica».

«E noterai che non si è mosso da lassù nonostante il tuo ordine» disse lei.

I due uomini inviati da Stilgar ritornarono sostenendone un terzo che ansimava e incespicava. Stilgar li considerò un attimo, poi fissò ancora Jessica. «Tuo figlio prende solo i tuoi ordini, eh? Bene, conosce la disciplina.»

«Paul, puoi scendere adesso» disse Jessica.

Paul si alzò in piedi nel chiaro di luna e fece scivolare l’arma nella cintura. Mentre si voltava, un’altra figura spuntò tra le rocce, davanti a lui.

Alla luce della luna e al grigio riflesso della pietra, Paul intravide un profilo sottile nella tuta dei Fremen e un volto nascosto nell’ombra che lo fissava da sotto il cappuccio. Da una piega della tuta spuntava un’arma a dardi puntata contro di lui.

«Io sono Chani, figlia di Liet.»

La voce era melodiosa, con una punta di allegria.

«Non ti avrei permesso di far del male ai miei compagni» dichiarò.

Paul deglutì. La figura davanti a lui si agitò nel chiaro di luna, lasciandogli intravedere un viso da elfo e due occhi neri e profondi. Un viso familiare, che gli era apparso innumerevoli volte nelle sue visioni. Restò immobile, sbalordito. Ricordò l’irosa bravata con cui un giorno aveva descritto questo viso da lui sognato alla Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam: «La incontrerò!»

E quel viso era lì, davanti a lui. Ma questo incontro lui non l’aveva sognato.

«Hai fatto più baccano di uno Shai-hulud infuriato» disse lei. «E sei salito per il lato più difficile. Seguimi, ti mostrerò la via più facile per discendere.»

Uscì dalla spaccatura aiutandosi con le mani e i piedi e seguì il suo mantello ondeggiante tra gli spuntoni di roccia. Lei sembrava danzare tra le rocce, come una gazzella. Paul sentì il sangue salirgli al viso, e ringraziò l’oscurità della notte.

La stessa ragazza! Era come un tocco del destino. Si sentì come afferrato da un’onda, in armonia con un movimento che sembrava esaltare i suoi pensieri.

Qualche istante dopo uscirono nel bacino tra i Fremen.

Jessica sorrise a Paul, ma parlò rivolgendosi a Stilgar: «Questo scambio d’insegnamenti sarà assai utile. Spero che tu e la tua gente non siate in collera per la nostra violenza. Ma ci è sembrata… necessaria. Stavi per commettere un… errore.»

«Salvare qualcuno dall’errore è un dono del paradiso» disse Stilgar. Si sfiorò le labbra con la mano sinistra, con l’altra sfilò l’arma dalla cintura di Paul e la gettò a uno degli uomini: «Avrai la tua pistola maula quando te la sarai meritata, ragazzo».

Paul fu sul punto di replicare, esitò, e si ricordò della lezione di sua madre: «Gli inizi sono sempre difficili».

«Mio figlio ha tutte le armi di cui ha bisogno» intervenne Jessica. Affrontò lo sguardo di Stilgar, obbligandolo a ricordarsi del modo in cui Paul si era impadronito dell’arma.

Stilgar fissò l’uomo disarmato da Paul, Jamis; si teneva in disparte, a testa bassa, e respirava affannosamente. «Sei una donna difficile.» Alzò la mano sinistra e fece schioccare le dita.

«Kushti bakka te.»

Ancora il Chakobsa, pensò Jessica.

Un uomo porse a Stilgar due quadrati di tela. Stilgar li arrotolò tra le dita e annodò il primo al collo di Jessica, sotto il cappuccio, e poi fece lo stesso con Paul.

«Ora portate il fazzoletto del bakka» disse. «Se dovessimo separarci, tutti comunque sapranno che appartenete al sietch di Stilgar. Parleremo di armi un’altra volta.»

Avanzò tra i suoi uomini, ispezionandoli, e affidò a uno di loro lo zaino di Paul.

Il bakka, pensò Jessica. Conosceva assai bene questa parola. Bakka… colui che piange. Ora, capiva il simbolismo che li univa a quei Fremen. Ma perché il pianto?

Stilgar si avvicinò alla ragazza che aveva turbato Paul, e le disse: «Chani, prendi il fanciullo-uomo sotto le tue ali. Tienlo lontano dai guai».

Chani sfiorò il braccio di Paul. «Vieni, fanciullo-uomo.»

Paul era furioso, ma riuscì a dominarsi. «Il mio nome è Paul. È meglio che tu…»

«Noi ti daremo un nome, piccolo uomo» l’interruppe Stilgar. «Al tempo del mihna, alla prova dell’aql

La prova della ragione, tradusse Jessica. E all’improvviso il desiderio di affermare la superiorità di Paul cancellò in lei ogni altra considerazione, e gridò: «Mio figlio ha superato la prova del gom jabbar!»

Nell’improvviso silenzio, seppe di averli colpiti nel profondo del cuore.

«Vi sono troppe cose che non sappiamo gli uni degli altri» riprese Stilgar. «Ma stiamo indugiando troppo. La luce del giorno non deve trovarci all’aperto.» Si avvicinò all’uomo che Paul aveva colpito e gli disse: «Jamis, puoi camminare?»

Un grugnito fu la risposta: «Mi ha colto di sorpresa. È stato un incidente. Posso marciare».

«Non è stato un incidente. Tu dividerai con Chani la responsabilità del ragazzo, Jamis. Questa gente ha la mia protezione.»

Jessica fissò Jamis. Era sua la voce che aveva risposto a Stilgar tra le rocce. Una voce che parlava di morte. E Stilgar aveva dovuto imporsi su Jamis con tutta la sua autorità.

Stilgar fissò nuovamente il gruppo. Accennò a due uomini di farsi avanti. «Larrus e Farok, voi ci seguirete e cancellerete le nostre tracce. Assicuratevi che non rimanga nulla. Fate più attenzione del solito. Abbiamo due persone con noi che non sono state addestrate.» Si voltò, alzò una mano e indicò il Iato opposto del bacino: «In formazione. Guardie su entrambi i lati. Dobbiamo arrivare alla Caverna del Culmine prima dell’alba».

Jessica si mise al passo con Stilgar, contando le teste. C’erano quaranta Fremen. Con lei e Paul erano quarantadue. E pensò: Marciano come dei militari. Anche la ragazza, Chani.

Paul s’infilò dietro Chani. La penosa impressione di essersi lasciato cogliere alle spalle dalla ragazza andava attenuandosi. Ripensò invece alle parole gridate da sua madre: «Mio figlio ha superato la prova del gom jabbar!» La mano cominciò a prudergli, al ricordo dell’atroce dolore.

«Stai attento a dove cammini!» gli sibilò Chani. «Non sfiorare i cespugli, altrimenti lascerai una traccia del nostro passaggio.»

Paul inghiottì e annuì.

Jessica prestò orecchio al rumore dei passi, distinguendo i suoi e quelli di Paul. Si stupì del modo in cui i Fremen si muovevano. Erano quaranta persone che attraversavano il bacino, riempiendo la notte di crepitii e fruscii perfettamente naturali. I mantelli, ondeggiando nell’ombra, sembravano fantasmi. La loro meta era il Sietch Tabr, il sietch di Stilgar.

Sietch: questa parola si agitò a lungo nella sua mente. Una parola Chakobsa, immutata per lunghi secoli nell’antica lingua dei cacciatori. Sietch: un luogo d’incontro nei momenti di pericolo. Le profonde implicazioni della parola e della lingua soltanto adesso cominciavano ad acquistare un significato per lei, dopo la tensione dell’incontro.

«Stiamo marciando velocemente» disse Stilgar. «Con l’aiuto di Shai-hulud, saremo alla Caverna del Culmine prima dell’alba.»

Jessica annuì, economizzando le forze, cosciente della tremenda fatica che riusciva a superare grazie alla sua volontà… e, lo ammise, all’ebbrezza esaltante che la pervadeva. La sua mente si concentrò sul valore di quel gruppo di uomini, su quanto le era stato rivelato della cultura dei Fremen.

Tutti, nessuno escluso, pensò, formano un’unica società militare. Quale potenza inestimabile per un Duca in esilio!

I Fremen erano i supremi maestri della qualità che gli antichi chiamavano «spannungsbogen»: l’imposizione volontaria di un indugio fra il desiderio di una cosa e l’atto di procurarsela.

dalla «Saggezza di Muad’Dib», della Principessa Irulan


Giunsero alla Caverna del Culmine alle prime luci dell’alba, scivolando attraverso la muraglia del bacino in una fessura così stretta da costringerli a girarsi sul fianco. Stilgar mandò alcuni uomini in avanscoperta, alla debole luminosità, e Jessica li seguì per un attimo con lo sguardo mentre si arrampicavano con le mani e i piedi sul contrafforte.

Paul, a sua volta, alzò gli occhi verso il nastro sottile e grigio azzurro del cielo, che spezzava in due la montagna.

Chani lo tirò per il mantello, intimandogli di affrettarsi. «Più presto. È quasi giorno.»

«Dove sono andati quegli uomini?» bisbigliò Paul.

«Il primo turno di guardia della giornata» rispose Chani. «E adesso, muoviti!»

Guardie all’esterno, pensò Paul. Molto saggio. Ma sarebbe stato ancora più saggio avvicinarsi alla caverna in gruppi separati. Ci sarebbero minori rischi che tutte le nostre forze siano annientate.

Si arrestò per un attimo a quel pensiero; questo era l’atteggiamento di un guerrigliero! E ricordò che questo era uno dei timori di suo padre: che la Casa degli Atreides dovesse trasformarsi in una Casa di guerriglia.

«Più presto!» bisbigliò Chani.

Paul affrettò il passo e sentì il fruscio delle tute dietro di lui. Ripensò alle parole del sirat che aveva letto sulla minuscola Bibbia Cattolica Orangista di Yueh.

«Il paradiso alla mia destra, l’inferno alla mia sinistra, e dietro a me l’angelo della morte.» Ripeté più volte la citazione nella propria mente.

Superarono una curva e il passaggio si fece più largo. Stilgar era in piedi su un lato, indicando una bassa apertura sulla parete di roccia.

«Presto!» sibilò. «Siamo come conigli in gabbia, se una pattuglia ci sorprende qui!»

Paul si piegò per scivolare dentro l’apertura e seguì Chani in una caverna illuminata da una debole luce grigia che proveniva da qualche punto davanti a loro.

«Puoi alzarti.»

Paul si raddrizzò, studiando il posto: una cavità ampia e profonda, con un soffitto a cupola alto circa tre metri. I Fremen si dispersero tra le ombre della caverna. Jessica si fece avanti, esaminando i loro compagni. Paul notò che evitava di mescolarsi a loro, anche se era vestita all’identico modo. C’era sempre la stessa grazia, la stessa forza nei suoi movimenti.

«Trova un posto per riposarti e non dar fastidio, fanciullo-uomo» disse Chani. «Ecco, qui c’è da mangiare.» Gli cacciò in mano due bocconi avvolti in foglie. Odoravano di spezia.

Stilgar comparve accanto a Jessica e lanciò un ordine a un gruppo d’uomini alla sua sinistra. «Sigillate la porta e controllate l’umidità.» Si voltò verso un altro Fremen. «Lemil, porta i globi» Afferrò Jessica per un braccio: «Voglio mostrarti qualcosa, femmina maga». La spinse al di là di un macigno, verso la fonte luminosa.

Jessica si trovò davanti a un’altra spaccatura della roccia che si apriva all’esterno, molto in alto nella parete a picco, su un altro bacino largo dieci o dodici chilometri, circondato da altissimi strapiombi e disseminato di piante.

Mentre Jessica contemplava il bacino alla grigia luce dell’alba, il sole si alzò sulla lontana scarpata, illuminando un paesaggio di sabbie e rocce color terracotta. Le parve quasi che il sole balzasse fulmineo dall’orizzonte.

Questo è perché noi vorremmo trattenerlo, pensò. La notte è più sicura. E si sorprese allora a sognare un arcobaleno, in quel mondo che non avrebbe mai conosciuto la pioggia. Devo scacciare queste nostalgìe, pensò ancora. Sono un segno di debolezza. E io non posso più permettermi di esser debole.

Stilgar l’afferrò ancora e le disse, puntando il dito: «Laggiù! Guarda! I veri Drusi!»

Jessica seguì il suo dito puntato e vide qualcosa che sì muoveva: gente sul fondo del bacino che nella luce crescente del giorno si disperdeva tra le ombre delle rocce, sull’altro versante. Nonostante la distanza, i loro movimenti si distinguevano assai bene nell’aria limpida. Jessica estrasse il binocolo dalla tuta, mise a fuoco le lenti a olio e lo puntò verso gli uomini lontani.

Dei fazzoletti ondeggiavano come farfalle multicolori.

«La nostra casa è laggiù» disse Stilgar. «Ci arriveremo questa notte.» Esplorò il bacino con lo sguardo, tirandosi i baffi: «La mia gente ha lavorato più a lungo del solito. Questo vuol dire che non ci sono pattuglie in giro. Quando li avrò avvertiti si prepareranno ad accoglierci».

«La tua gente è molto disciplinata» fece Jessica. Abbassò il binocolo e vide che Stilgar li stava osservando.

«Obbediscono alle leggi che garantiscono la salvezza alla tribù» replicò. «Così viene scelto un capo tra noi. Il capo è il più forte di tutti. Quello che procura l’acqua e la sicurezza.» La fissò intensamente.

Jessica sostenne il suo sguardo, notò gli occhi privi di bianco, le palpebre macchiate, la barba e i baffi bordati di polvere, il tubo fissato alle narici che sprofondava nella tuta distillante.

«Ho compromesso la tua posizione di capo, Stilgar?»

«Non mi avevi sfidato.»

«È importante che un capo conservi il rispetto dei suoi uomini» disse Jessica.

«Non c’è uno solo di questi pidocchi della sabbia che io non possa scaraventare a terra» dichiarò Stilgar. «Vincendo me, li hai vinti tutti. Ora, sperano di imparare da te… la tua magica abilità. E qualcuno di loro si aspetta che tu mi sfidi.»

Lei soppesò le implicazioni. «A lottare per il comando?»

Stilgar annuì. «E io ti consiglio di non farlo, perché non ti seguirebbero. Tu non sei della sabbia. L’hanno visto durante la nostra marcia notturna.»

«Gente pratica.»

«È vero.» Guardò ancora il bacino. «Noi conosciamo i nostri bisogni, ma non tutti vi dedicano ogni loro pensiero, ora che siamo così vicini a casa. Abbiamo perso troppo tempo a consegnare la nostra quota di spezia ai liberi commercianti della Gilda… che siano maledetti! Che i loro volti siano neri per sempre!»

Jessica si voltò bruscamente. «La Gilda? Cosa ha a che fare la Gilda con la vostra spezia?»

«Liet l’ha ordinato» disse Stilgar. «Noi sappiamo il perché, anche se questo ha un gusto amaro per noi. Noi paghiamo alla Gilda una quantità mostruosa di spezia perché nessun satellite ci spii dal cielo e non sappia che cosa facciamo alla superficie di Arrakis.»

Jessica soppesò le sue parole, ricordandosi quello che Paul aveva detto per spiegare l’assenza di satelliti intorno al pianeta. «E che cosa fate, alla superficie di Arrakis, che non dev’esser visto?»

«La stiamo cambiando… lentamente, ma sicuramente… per renderla adatta alla vita umana. La nostra generazione non lo vedrà e neppure i nostri figli o i figli dei figli, né i loro pronipoti… ma verrà il giorno.» Il suo sguardo assente vagò sul lato opposto del bacino. Acque aperte, piante verdi e gente che cammina liberamente senza tute distillanti.

Questo è dunque il sogno di Liet-Kynes, pensò Jessica. E disse: «Il prezzo della corruzione ha un rischio. Tende ad aumentare sempre più».

«Aumenta, infatti. Ma la via più lenta è la più sicura.»

Jessica contemplò il bacino, sforzandosi di vedere quello che Stilgar sognava. Vide solo le grandi macchie color mostarda delle rocce lontane e un improvviso offuscamento del cielo sopra le rocce.

«Aahh…» fece Stilgar.

A tutta prima lei pensò che fosse un ornitottero di pattuglia, poi si rese conto che era un miraggio… un altro paesaggio sospeso sul deserto sabbioso, un verde ondeggiare, lontano, e più vicino un lungo verme che sembrava viaggiare in superficie e aveva sul dorso qualcosa che sembravano mantelli ondeggianti di Fremen.

Il miraggio svanì.

«Sarebbe meglio cavalcare» disse Stilgar, «ma non possiamo ammettere un creatore in questo bacino, e così dovremo camminare di nuovo questa notte.»

Creatore… chiamano così il verme, pensò Jessica.

Valutò l’importanza di questa parola e l’affermazione di Stilgar che non potevano ammettere un verme in quel bacino. Capiva, ora, quanto aveva visto nel miraggio: Fremen che cavalcavano un verme gigantesco. Le costò uno sforzo terribile non tradire lo choc di quella scoperta.

«Dobbiamo ritornare con gli altri» disse Stilgar. «Altrimenti la mia gente crederà che io ti stia seducendo. Già alcuni sono gelosi perché le mie mani hanno sfiorato la tua bellezza, la notte scorsa, quando abbiamo lottato nel Bacino del Tuono.»

«Basta così!» esclamò Jessica.

«Non volevo offenderti» replicò Stilgar, e la sua voce era gentile. «Da noi le donne non sono mai prese contro la loro volontà… e con te… (scrollò le spalle) …anche questa regola non conta.»

«Non dimenticare che io ero la Lady del Duca» disse Jessica, ma la sua voce era più calma.

«Come vuoi» fece Stilgar. «Ma è tempo di sigillare questa apertura, perché tutti possano rilassarsi dopo la disciplina delle tute distillanti. I miei uomini, oggi, hanno bisogno di star comodi e di riposarsi. Domani, in famiglia, non avranno un attimo di respiro.»

Il silenzio calò tra loro.

Jessica guardò il paesaggio illuminato dal sole. Nella voce di Stilgar c’era qualcosa di più che l’offerta di una protezione. Aveva forse bisogno di una moglie? Lei avrebbe potuto benissimo sostenere quel ruolo, al suo fianco. Sarebbe stato un modo per metter fine ad ogni conflitto per la guida della tribù: la femmina sulla stessa linea del maschio.

Ma che cosa sarebbe accaduto a Paul, allora? A questo punto, quali erano le regole di parentela? E cosa sarebbe accaduto alla figlia non ancora nata che portava in grembo da alcune settimane? Che cosa sarebbe accaduto alla figlia del Duca morto? Decise, una volta per tutte, di confessare il vero significato di questa nuova creatura che cresceva dentro di lei, l’origine autentica di questo concepimento. Lei ne era ben conscia. Aveva ceduto a quell’istinto profondo di tutte le creature di fronte alla morte: la spinta all’immortalità attraverso la propria progenie. L’impulso alla fertilità della specie che aveva sempre trionfato.

Jessica guardò Stilgar e vide che lui la stava studiando, e aspettava. Una figlia, qui, da una donna sposata a quest’uomo… Quale sarebbe il suo destino? Forse lui tenterebbe di ostacolare gli obblighi ai quali una Bene Gesserit è sottoposta?

Stilgar si schiarì la gola, rivelando di avere intuito la maggior parte delle domande che si agitavano in lei. «Quello che importa, in un capo, sono le qualità che lo hanno reso tale. I bisogni del popolo. Se tu m’insegnerai i tuoi poteri, verrà il giorno in cui uno dei due dovrà sfidare l’altro. Preferirei un’altra soluzione.»

«Esistono forse alternative?» chiese Jessica.

«Le Sayyadina» lui disse. «La nostra Reverenda Madre è vecchia.»

La nostra Reverenda Madre!

Prima che lei potesse replicare, Stilgar riprese: «Non mi sto necessariamente offrendo come compagno della tua vita. Non c’è niente di personale in ciò. Tu sei bella e desiderabile. Ma se tu dovessi diventare una delle mie donne, questo potrebbe far credere ai miei uomini più giovani che io mi preoccupi più dei piaceri della carne che dei bisogni della tribù. Anche in questo momento ci guardano e ci ascoltano».

Ecco un uomo che pesa le sue decisioni e che pensa alle conseguenze, disse Jessica tra sé.

«Vi sono alcuni, fra i giovani della mia tribù, che hanno raggiunto l’età dei pensieri selvaggi. Devono essere guidati con cautela durante questo periodo. Non devo dar loro nessun motivo per sfidarmi. Perché allora dovrei ucciderne o storpiarne un gran numero. Questo non è il giusto atteggiamento di un capo, se può essere evitato con onore. È il capo, capisci, che fa la differenza tra un popolo e un branco. Che crea e conserva gli individui. Troppo pochi individui, e il popolo ridiventa un branco selvaggio.»

Le sue parole, la sua profonda consapevolezza, il fatto che parlasse sia a lei, sia a quelli che l’ascoltavano segretamente, spinsero Jessica a rivalutarlo.

È degno della sua posizione, pensò. Dove mai avrà imparato questo equilibrio interiore?

«La legge che c’impone il modo di scegliere un capo è giusta» riprese Stilgar, «ma non sempre il popolo vuole giustizia. Quello di cui ora abbiamo soprattutto bisogno è di crescere e prosperare in pace, di espanderci su un territorio sempre più vasto.»

Quali sono i suoi antenati? si chiese Jessica. Come si ottiene una simile razza? «Stilgar» replicò, «ti ho sottovalutata.»

«Lo sospettavo.»

«Sembra che ognuno di noi abbia sottovalutato l’altro.»

«Vorrei metter fine a tutto questo» disse Stilgar. «Vorrei esserti amico… e offrirti la mia fiducia. Vorrei che nascesse tra noi quel rispetto che cresce nei cuori senza esigere l’amplesso della carne.»

«Capisco.»

«Hai fiducia in me?»

«Sento che sei sincero.»

«Fra noi, le Sayyadina, quando non rappresentano l’autorità ufficiale, hanno diritto a un posto d’onore. Insegnano. Mantengono la potenza di Dio in noi.» Si toccò il petto.

Ora devo chiarire questo mistero della Reverenda Madre, pensò Jessica. E disse: «Hai parlato della vostra Reverenda Madre… E ho sentito allusioni a leggende e profezie».

«Una Bene Gesserit e suo figlio hanno in pugno il nostro destino. Così è detto.»

«Credi che io sia questa Bene Gesserit?»

E lo fissò in silenzio, pensando: Il giovane germoglio muore così facilmente! «L’inizio è sempre un tempo di pericolo».

«Non lo sappiamo» disse lui.

Lei annuì, pensando: È un uomo d’onore. Vuole un segno da me, ma non è disposto a influenzare il destino dandomi lui quel segno.

Jessica girò la testa e guardò il bacino, le ombre dorate e violette, le vibrazioni della polvere sospesa nell’aria davanti all’imboccatura della caverna. All’improvviso il suo spirito fu invaso dalla prudenza di un felino. Sapeva il canto della Missionaria Protectiva, e come servirsi della leggenda, della paura e della speranza per le sue necessità più urgenti, ma percepiva alterazioni profonde in quel luogo… come se qualcuno fosse venuto tra i Fremen e si fosse servito per i suoi scopi dell’impronta lasciata dalla Missionaria Protectiva.

Stilgar si schiarì la gola.

Jessica sentì la sua impazienza, capì che il giorno stava avanzando e che gli uomini volevano sigillare questa apertura. Doveva giocare d’audacia e fu cosciente di ciò che le mancava: un dar al-hikman, un’antica scuola di traduzione che le consentisse…

«Adab» bisbigliò.

Le parve che la sua mente si ripiegasse all’improvviso su se stessa. Riconobbe la sensazione e il suo polso accelerò. Niente, nell’addestramento Bene Gesserit, si accompagnava a un tal segno. Poteva soltanto essere l’adab, la memoria che si risvegliava da sola. Vi si abbandonò, lasciando che le parole uscissero dalla sua bocca:

«Ibn qirtaiba» disse,«lontano, dove la polvere finisce.» Alzò un braccio, liberandolo dalle pieghe del mantello, vide Stilgar stralunare gli occhi e udì un fruscio di molte tute alle sue spalle. «Vedo un… Fremen col libro degli esempi. Lo legge ad al-Lat, il sole da lui sfidato e vinto. Lo legge al Sadus del Giudizio, ed ecco quello che legge:

«I mici nemici sono fili d’erba spezzati,

che si ergevano sul sentiero della tempesta.

Non hai visto quello che ha fatto il nostro Signore?

Ha inviato la pestilenza fra coloro

Che hanno tramato contro di noi.

Ora sono come uccelli dispersi dal cacciatore.

I loro complotti sono cibo avvelenato

Che ogni bocca rifiuta.»

Fu colta da un tremito, e il braccio le ricadde.

Dalle ombre profonde della caverna le giunse in risposta il mormorio di molte voci: «Le loro opere sono state distrutte.»

«Il fuoco di Dio domina il tuo cuore» disse Jessica, e pensò: Questo va detto, appunto.

«Il fuoco di Dio c’illumina» fu la risposta.

Jessica annuì. «I tuoi nemici cadranno.»

«Bi-la kaifa» risposero.

Nell’improvviso silenzio, Stilgar s’inchinò davanti a lei: «Sayyadina» disse, «se Shai-hulud lo consente, allora potrai fare il passo interiore come Reverenda Madre».

Passo interiore, pensò Jessica. Strano modo di esprimersi. Ma il resto corrisponde abbastanza bene al canto. Provò una sorta di cinica amarezza per quanto aveva fatto. La Missionaria Protectiva fallisce raramente. In questo mondo desolato, un rifugio è stato preparato per noi. Con l’aiuto della preghiera del salat. Ora… devo recitare la parte di Auliya, l’Amica di Dio… la Sayyadina di questo popolo vagabondo, talmente impregnato dalle profezie del Bene Gesserit da chiamare Reverende Madri le sue sacerdotesse.

Paul, nell’ombra della caverna, era accanto a Chani: sentiva ancora il sapore del cibo che lei gli aveva dato: carne di uccello e grano impastati con miele di spezia e avvolti in una foglia. Mangiandolo, si era reso conto di non aver mai assorbito prima una tale concentrazione di spezia e per un attimo si era spaventato. Sapeva che quell’essenza di spezia lo avrebbe ancora più trasformato, facendo di lui sempre più un Veggente.

«Bi-la kaifa» bisbigliò Chani.

La fissò, e vide l’emozione con cui i Fremen ascoltavano le parole di sua madre. Soltanto l’uomo chiamato Jamis si teneva in disparte, immobile, le braccia ripiegate sul petto.

«Duy yakha hin mange» mormorò ancora Chani. «Duy punra hin mange. Ho due occhi. Ho due piedi.»

E fissò Paul con uno sguardo pieno di stupore.

Paul respirò profondamente, cercando di placare la tempesta inferiore. Le parole di sua madre avevano scatenato in lui l’effetto della spezia concentrata, e la sua voce aveva danzato in lui come le ombre di un fuoco all’aperto. Ne aveva percepito il cinismo… la conosceva troppo bene… ma niente poteva arrestare questa trasformazione iniziatasi con qualche boccone di cibo.

Il terribile scopo!

Lo percepiva. Quella coscienza razziale alla quale non poteva sfuggire. Quella sua mente così acuta, quel flusso d’informazioni, la consapevolezza gelida, precisa. Scivolò a terra, appoggiandosi a una roccia, abbandonandosi a quella sensazione. La consapevolezza fluì in quello strato immobile da cui poteva contemplare il tempo, percepire i sentieri aperti davanti a lui, le correnti del futuro… e quelle del passato: passato, presente e futuro visti con un occhio solo, tre immagini combinate in una visione tridimensionale, come se il tempo fosse diventato spazio.

C’era il pericolo, poteva sentirlo, di andare troppo lontano. Doveva afferrarsi disperatamente al presente, mentre la sua esperienza era sempre più confusa e distorta, nel continuo fluire di ogni istante, e nel consolidarsi del ciò che è nel perpetuo è stato.

Per la prima volta, aggrappandosi al presente, percepì la monumentale regolarità del movimento del tempo, complicata dovunque da vortici, onde, flussi e riflussi; lo schiumeggiante continuo di un mare contro una scogliera a picco. Questo gli fornì una nuova comprensione della sua prescienza e percepì la fonte del cieco fluire d’innumerevoli istanti, la fonte prima dell’errore, e rabbrividì all’immediato contatto della paura.

Capì che la prescienza era un’illuminazione che aveva in se stessa i limiti di quanto rivelava. Una combinazione di esattezza e di errori significativi. Vi interveniva una sorta d’indeterminazione di Heisenberg: la stessa energia delle sue visioni alterava, nel medesimo istante, le immagini.

E quello che percepiva era il nodo temporale di quella stessa caverna, un ribollire di possibilità concentrato in un punto, in cui l’azione più impercettibile (il dibattito di una palpebra, una parola irriflessiva, un granello di sabbia fuori posto) avrebbe agito su una leva gigantesca, moltiplicandosi in tutto l’universo. La violenza incombeva con un tal numero di variabili che il minimo movimento scatenava immense alterazioni nello schema.

Questa visione lo spinse a un’assoluta immobilità, ma anche questa immobilità era un’azione e avrebbe avuto le sue conseguenze.

Innumerevoli conseguenze, innumerevoli linee che si diramavano da quella caverna, e lungo la maggior parte di queste sequenze logiche vide il suo corpo, ucciso, e il sangue che sgorgava da un’orrenda ferita di coltello.

Mio padre, l’Imperatore Padiscià, aveva settantadue anni e tuttavia non ne dimostrava più di trentacinque, quando meditò la morte del Duca Leto e il ritorno degli Harkonnen su Arrakis. Raramente compariva in pubblico indossando qualcosa di diverso da un’uniforme dei Sardaukar e un elmetto da Burseg, nero, col leone imperiale ricamato in oro. L’uniforme ricordava a tutti la fonte prima del potere. Non era sempre così urtante: quando voleva, sapeva irradiare simpatia e sincerità. Ma, in questi ultimi tempi, a molti anni di distanza, mi sono chiesta se tutto, in lui, fosse realmente ciò che sembrava. Oggi, sono convinta che fosse un uomo il quale lottava, costantemente, contro le sbarre di una gabbia invisibile. Non dimenticate che era Imperatore, capo di una dinastia le cui origini si perdevano nel tempo. Ma noi gli negammo un figlio legittimo. Non è questa la più terribile sconfitta che possa subire un capo? Mia madre obbedì alle sue Sorelle Superiori, là dove Lady Jessica aveva disobbedito. Chi si mostrò più forte? La Storia ci ha già risposto.

da «Nella mia casa paterna», della Principessa Irulan


Jessica si svegliò nell’oscurità della caverna e percepì l’agitarsi dei Fremen intorno a lei e l’acre odore delle tute distillanti. Il suo senso del tempo l’informò che presto sarebbe calata la notte, là fuori. Ma la caverna era ancora immersa nelle tenebre, isolata dal deserto dagli schermi di plastica che intrappolavano l’umidità del corpo.

Si era completamente abbandonata al sonno, dopo la grande fatica: questo sembrava suggerire che lei accettava inconsciamente la propria sicurezza personale, finché fosse rimasta in seno al gruppo di Stilgar. Si girò nell’amaca formata col mantello, scivolò coi piedi sul pavimento roccioso e si infilò gli stivali da sabbia.

Non devo dimenticarmi di stringerli a metà per consentire l’azione pompante della tuta, pensò. Quante cose da ricordare!

Sentiva ancora il sapore del cibo (carne di uccello, grano e miele di spezia, avvolti in una foglia) il pasto del mattino. Il tempo, qui, era invertito. Il giorno serviva al riposo, la notte all’attività.

La notte nasconde. La notte è più sicura.

Sganciò il mantello dai punti in cui era fissato, dentro la nicchia scavata nella roccia. Trovò al buio il lato superiore, e se l’avvolse intorno al corpo.

Come inviare un messaggio al Bene Gesserit? Come informarlo della loro fuga e della salvezza che avevano trovato nelle caverne di Arrakis?

All’estremità opposta della caverna si accesero alcuni globi luminosi. Vide tra la gente Paul, già vestito, il cappuccio gettato all’indietro che rivelava il profilo aquilino degli Atreides.

Si era comportato in modo così strano, prima di ritirarsi a dormire. Assente, come se fosse ritornato dal regno dei morti, non ancora del tutto cosciente, gli occhi vitrei, socchiusi, lo sguardo rivolto all’interno di se stesso. Questo le ricordò quanto le era stato detto, a proposito dei cibi impregnati di spezia: assuefazione.

Vi sono forse altri effetti collaterali? si chiese. Paul ha detto che la spezia aveva qualcosa a che fare con le sue capacità di preveggenza, ma è stato stranamente silenzioso quanto alle sue visioni.

Stilgar uscì alla luce, alla sua destra, e si avvicinò al gruppo sotto i globi. Jessica notò la sua andatura prudente, felina e il modo in cui giocherellava con la barba.

Un’improvvisa paura l’afferrò, mentre i suoi sensi le rivelavano la tensione del gruppo raccolto intorno a Paul: le figure immobili, le posizioni rituali.

«Hanno il mio appoggio!» tuonò Stilgar.

Jessica riconobbe l’uomo che Stilgar affrontava: Jamis! Indovinò la rabbia nelle sue spalle irrigidite.

Jamis, l’uomo vinto da Paul!

«Tu sai le regole, Stilgar» disse Jamis.

«Chi le conosce meglio di me?» replicò Stilgar. La sua voce suonò distensiva, nel tentativo di placare gli animi.

«Scelgo il combattimento» ringhiò Jamis.

Jessica si precipitò attraverso la caverna, avvinghiandosi a un braccio di Stilgar.

«Cosa succede?» ansimò.

«La regola dell’amtal» spiegò Stilgar. «Jamis esige la prova che tu e tuo figlio siete le persone della leggenda.»

«Il suo campione dev’essere messo alla prova» disse Jamis. «Se il suo campione vince, allora è vero. Ma è detto…» si voltò a guardare quelli che si affollavano intorno a lui, «che non sceglierà il suo campione tra i Fremen. È dunque colui che l’accompagna!»

Vuole un duello con Paul! pensò Jessica.

Lasciò il braccio di Stilgar e avanzò di un passo. «Io sono il campione di me stessa» dichiarò. «Questo è il senso delle…»

«Tu non detterai le condizioni!» ruggì Jamis. «Le prove che ci hai dato non bastano. Stilgar questa mattina può averti suggerito le parole più adatte a ingannarci, e tu hai dovuto soltanto ripeterle.»

Potrei vincerlo, pensò Jessica, ma questo violerebbe la loro interpretazione della leggenda. E ancora si domandò in che modo fosse stata alterata l’opera della Missionaria Protectiva su questo pianeta.

Stilgar guardò Jessica e parlò a bassa voce, ma in modo che tutti lo udissero: «Jamis è uno che serba rancore, Sayyadina. Tuo figlio lo ha vinto, e…»

«È stato un caso!» gridò Jamis. «La stregoneria ha avuto la sua parte nel Bacino del Tuono. Io, ora, lo proverò!»

«…e anch’io l’ho vinto» continuò Stilgar. «Con questa sfida tahaddi cerca di vendicarsi anche di me. C’è troppa violenza in Jamis, non sarà mai un buon capo: troppa ghafla. troppa instabilità. La bocca piena di regole, ma il cuore rivolto al sarfa, all’abbandono di Dio. No, non sarà mai un buon capo. Finora l’ho risparmiato perché è un buon combattente, ma nulla più. Quando la rabbia lo travolge, è pericoloso per sé e per la sua gente.»

«Stilgaarrr!» ruggì Jamis.

E Jessica capì le intenzioni di Stilgar. Cercava di scatenare la furia di Jamis, perché sfidasse lui invece di Paul.

Stilgar fronteggiò Jamis, e Jessica udì nuovamente l’invito alla calma in quella voce tonante. «Jamis! È solo un ragazzo, e…»

«Tu l’hai chiamato uomo» ribatté Jamis. «Sua madre dice che ha superato la prova del gom jabbar. La sua carne è gonfia d’acqua. Quelli che hanno portato il suo sacco dicono che ci sono almeno due literjon d’acqua, là dentro. Due literjon! E noi a succhiare le tasche di raccolta alla prima goccia di rugiada!»

Stilgar fissò Jessica. «È vero? C’è acqua nel vostro zaino?»

«Sì.»

«Due literjon?»

«Due literjon.»

«A cosa vi serviva tanta ricchezza?»

Ricchezza? pensò Jessica. E avvertì il gelo improvviso nella voce di Stilgar.

«Là dove io sono nata, l’acqua cade dal cielo e scorre sulla terra in larghi fiumi» disse. «In quel mondo gli oceani sono così vasti che da una riva è impossibile scorgere l’altra. Non sono stata educata alla vostra disciplina dell’acqua. Non ho mai dovuto pensare come voi.»

Un sospiro s’innalzò dalla folla, intorno a lei. «L’acqua cade dal cielo… e scorre sulla terra.»

«Sai che alcuni tra noi hanno perduto l’acqua delle tasche di raccolta per incidenti, e saranno in pericolo prima di aver raggiunto Tabr, questa notte?»

«Come potevo saperlo?» Jessica scosse la testa. «Se ne hanno bisogno, dai loro l’acqua del nostro zaino.»

«Questo volevi fare con la tua ricchezza?»

«Volevo salvare delle vite.»

«Allora accettiamo la tua benedizione, Sayyadina.»

«Non ci comprerai con la tua acqua!» gridò Jamis. «E tu, Stilgar, non riuscirai a rivolgere contro di te il mio furore. Ho capito, sai? Vuoi che io ti sfidi prima di aver provato le mie parole.»

Stilgar l’affrontò: «Sei proprio deciso a sfidare questo fanciullo, Jamis?» la sua voce si era fatta insinuante.

«Lei dev’essere sfidata!»

«Anche se ha il mio appoggio?»

«Invoco la legge dell’amtal» ribatté Jamis. «È il mio diritto.»

Stilgar annuì. «Allora, se il ragazzo non ti farà a pezzi, dovrai affrontare il mio coltello, dopo. E questa volta, la mia lama non si fermerà.»

«Non potete far questo» disse Jessica. «Paul è soltanto…»

«Tu non puoi intervenire, Sayyadina» l’interruppe Stilgar. «Oh, so che puoi vincermi e quindi puoi vincere chiunque di noi. Ma non puoi trionfare su di noi tutti insieme. Questo dev’essere. È la legge dell’amtal!»

Jessica non parlò più, ma lo fissò alla luce gialla dei globi luminosi, scoprendo la rigidità demoniaca che all’improvviso era scesa sui suoi tratti. Poi il suo sguardo si soffermò su Jamis, osservò la sua espressione accigliata, meditativa, e pensò: Avrei dovuto accorgermene prima. È un tipo silenzioso, che rumina dentro di sé e accumula rabbia. Avrei dovuto esser pronta.

«Se farai del male a mio figlio» disse Jessica, «dovrai affrontare anche me. Ti sfido. Ti farò a pezzi come un…»

«Madre!» Paul venne avanti e le appoggiò una mano sul braccio: «Se avessi una spiegazione con Jamis…»

«Una spiegazione!» lo beffeggiò Jamis.

Paul tacque e lo fissò. Non aveva paura di lui. Jamis era maldestro nei movimenti ed era caduto così presto nel loro breve scontro, la notte prima, sulla sabbia. Ma Paul percepiva ancora il ribollire del nodo in quella caverna e vedeva ancora se stesso, morto, il coltello piantato nel corpo. Erano state così poche le vie di fuga per lui, in quella visione…

Stilgar ordinò: «Sayyadina, ora tu devi ritirarti dove…»

«Smettila di chiamarla Sayyadina!» gridò Jamis. «Questo dev’essere ancora provato. Sa la preghiera. E allora? Non c’è bambino, fra noi, che non la sappia!»

Ha parlato abbastanza, pensò Jessica. Ho la chiave. Potrei immobilizzarlo con una sola parola. Esitò. Ma non posso fermarli tutti.

«Allora tu ne risponderai a me» disse Jessica. La sua voce si era distorta in un lamento, e l’ultima parola servì a incatenarlo.

Jamis la fissò spaventato.

«T’insegnerò il dolore» continuò Jessica con la stessa voce. «Ricordalo, mentre combatti. Al confronto della tua sofferenza il gom jabbar sarà una gioia. Ti contorcerai con tutto il tuo…»

«Sta gettando un incantesimo su di me!» gridò Jamis. Strinse il pugno e lo portò dietro l’orecchio: «Invoco il silenzio su di lei!»

«Così sia, allora» disse Stilgar. Lanciò uno sguardo imperioso a Jessica. «Se parlerai ancora, Sayyadina, sapremo che è stata la tua stregoneria, e dovrai pagare.» La invitò a farsi indietro.

Alcune mani l’afferrarono e la spinsero via, ma sentì che non erano male intenzionate. Vide Paul separato dagli altri, e il viso da elfo di Chani che si piegava verso di lui per bisbigliargli qualcosa all’orecchio, mentre accennava a Jamis col capo.

Si formò un cerchio. Furono portati altri globi luminosi, tutti regolati sul giallo.

Jamis entrò nel cerchio, si sfilò il manto e lo gettò tra la folla. Restò immobile, nella sua tuta distillante color grigio nuvola, rattoppata e macchiata. Piegò la testa sulla spalla e inghiottì una rapida sorsata dalla tasca di raccolta. Poi si raddrizzò e si sfilò anche la tuta, porgendola con cautela a uno degli uomini. Poi, attese: indossava soltanto un panno intorno ai fianchi e aveva ai piedi una stretta fascia di tessuto. Impugnava un cryss nella destra.

Jessica vide la ragazza Chani che aiutava Paul e gli porgeva un cryss. Paul prese l’arma, la soppesò controllando l’equilibrio. E Jessica ricordò che era stato addestrato prana e bindu, nervo e fibra. Che gli era stato insegnato a battersi alla morte da uomini come Idaho e Gurney Halleck, leggendari già fra i contemporanei. Il ragazzo sapeva i trucchi Bene Gesserit e aveva un aspetto fiducioso e disteso.

Ma ha solo quindici anni, pensò, ed è privo di scudo! Devo fermarlo. Dev’esserci un mezzo… Alzò gli occhi e vide Stilgar che la fissava.

«Non puoi impedirlo» le disse. «Non devi parlare.»

Jessica si portò una mano alla bocca, e pensò: Ho instillato la paura nella mente di Jamis. Sarà più lento e maldestro… forse. Se potessi pregare… pregare veramente!

Ora Paul era solo, dentro il cerchio. Aveva soltanto i calzoni da combattimento, che portava sotto la tuta, e impugnava il cryss con la destra. I suoi piedi erano nudi, sulla roccia corrosa. Idaho lo aveva più volte ammaestrato: «Quando dubiti del terreno resta a piedi nudi». E le parole di Chani erano ancora vive nella sua coscienza: «Dopo una parata, Jamis balza a destra. È un’abitudine che tutti conosciamo. E mirerà agli occhi, per poi colpire mentre li chiudi. E… attento: combatte con entrambe le mani. Il suo coltello salterà da una mano all’altra».

Ma così intenso era stato il suo addestramento, giorno dopo giorno, ora dopo ora, che gli sembrava di sentire in tutto il corpo il meccanismo delle reazioni istintive che gli erano state inculcate.

Le parole di Gurney Halleck gli balzarono ancora alla mente: «Il buon combattente deve pensare simultaneamente alla punta e al taglio del coltello, e alla guardia. La punta può tagliare, il taglio può pugnalare, e la tua guardia può anche agganciare la lama dell’avversario».

Esaminò il cryss. Non c’era alcuna guardia: solo un sottile anello sull’impugnatura, per proteggere la mano. Si ricordò, all’improvviso, che ignorava del tutto la resistenza della lama. Non sapeva neppure se poteva essere spezzata.

Jamis cominciò a scivolare verso destra, lungo il cerchio, sul lato opposto a quello di Paul.

Paul si rannicchiò su se stesso e in quell’istante si rese conto di non avere uno scudo, mentre tutto il suo addestramento alla lotta era basato sulla presenza di quel sottile schermo intorno a lui, che esigeva la più grande rapidità nel difendersi, mentre l’attacco era calibrato sulla lentezza necessaria a penetrare nello scudo del nemico. Nonostante tutti gli avvertimenti dei suoi istruttori, Paul si rendeva conto, ora, che lo scudo faceva intimamente parte delle sue reazioni.

Jamis lanciò la sfida rituale: «Possa il tuo coltello scheggiarsi e spezzarsi!»

Questo coltello può spezzarsi, allora, pensò Paul.

Anche Jamis non aveva scudo, ma non era addestrato a usarlo e non era vittima di inibizioni.

Paul fissò il suo avversario sul lato opposto del cerchio. Il corpo di Jamis sembrava cuoio teso su uno scheletro disseccato. Il suo cryss lanciava riflessi lattei nella luce gialla dei globi.

Paul ebbe un brivido di paura. All’improvviso si sentì solo e nudo in quella confusa luminosità gialla, al centro dei Fremen. La prescienza l’aveva nutrito d’innumerevoli esperienze, facendogli intravedere le grandi correnti del futuro, le decisioni e le spinte che le guidavano. Ma questo non era il futuro: era il vero, l’adesso. La morte era presente in un numero infinito di possibilità.

In quell’istante il minimo gesto avrebbe cambiato il futuro. Bastava un colpo di tosse tra gli spettatori, un attimo di distrazione, un’impercettibile variazione di luce, un’ombra ingannatrice.

Ho paura, si disse Paul.

Avanzò a sua volta, cautamente, sul lato opposto a quello di Jamis, ripetendo in silenzio la litania Bene Gesserit contro la paura: «La paura uccide la mente…» Fu come un getto d’acqua fresca. Sentì i muscoli sciogliersi; un solo istante e fu calmo e pronto.

«Bagnerò il coltello nel tuo sangue» ringhiò Jamis. E all’ultima parola balzò contro di lui. Jessica colse il movimento e soffocò un urlo.

Ma dove Jamis aveva colpito, non c’era già più nessuno. Paul, ora, era alle spalle di Jamis e avrebbe potuto trafiggere facilmente la sua schiena indifesa.

Colpisci, Paul! Ora! urlò Jessica nella sua mente.

Colpì. Con misurata lentezza. Un gesto fluido, coordinato, che diede a Jamis la possibilità di schivare, indietreggiare e balzare a destra.

Paul batté in ritirata, raccogliendosi su se stesso. «Prima devi trovarlo, il mio sangue» esclamò.

Jessica riconobbe in suo figlio il lento agire del combattente avvezzo allo scudo e valutò il pericolo di quest’arma a doppio taglio. Le reazioni di Paul avevano l’impeto e la vivacità della giovinezza ed erano il risultato di un addestramento sconosciuto ai Fremen. Ma anche l’attacco era condizionato alla necessità di penetrare uno scudo. Uno scudo avrebbe respinto un affondo troppo veloce, lasciando penetrare invece il contrattacco lento e sornione. Occorrevano astuzia e un perfetto controllo per penetrare uno scudo.

Paul l’ha capito? si chiese Jessica. Deve!

Jamis attaccò di nuovo. I suoi occhi, neri come l’inchiostro a quella luce, lampeggiarono, il suo corpo fu una macchia confusa nella luce gialla dei globi.

Ancora una volta, Paul lo schivò e attaccò troppo lentamente.

E ancora.

E ancora.

Tutte le volte, il contrattacco di Paul arrivò troppo tardi.

Jessica vide allora una cosa, e sperò che a Jamis sfuggisse. Le reazioni difensive erano fulminee, ma ad ogni parata Paul assumeva l’esatta posizione che gli avrebbe permesso di deviare in parte sul suo scudo i colpi di Jamis.

«Tuo figlio sta forse giocando, con quel povero pazzo?» chiese Stilgar. Ma prima che Jessica potesse rispondere, le intimò il silenzio: «Scusami, tu non devi parlare».

Ora, i due avversali giravano l’uno intorno all’altro: Jamis puntava il coltello in avanti, a braccio teso; Paul, ripiegato su se stesso, teneva il coltello in basso.

Una volta ancora Jamis attaccò, balzando a destra dove Paul si era portato per schivare il colpo.

Paul non indietreggiò, e parò il colpo con la propria lama, colpendo la mano di Jamis che impugnava il cryss. Un attimo e il ragazzo era già fuori tiro, piroettando a sinistra e ringraziando Chani dentro di sé per l’avvertimento.

Jamis indietreggiò fino al centro del cerchio, sfregandosi la mano ferita. Il sangue zampillò per un attimo, poi si fermò. Stralunò gli occhi (due voragini oscure) e studiò Paul con improvvisa diffidenza.

«Ah, gli ha fatto male» mormorò Stilgar.

Paul tese i muscoli, pronto a balzare, e, dopo il primo sangue, interpellò l’avversario come gli avevano insegnato: «Ti arrendi?»

«Aahhh!» ruggì Jamis.

Un mormorio di collera salì dai presenti.

«Calma!» esclamò Stilgar. «Il ragazzo ignora le nostre regole.» Poi, rivolgendosi a Paul: «Nessuno può arrendersi, nel tahaddi. La morte è l’unica conclusione».

Jessica vide Paul inghiottire a fatica: Non ha mai ucciso un uomo così… in un duello all’ultimo sangue. Riuscirà a farlo?

Lentamente, seguendo i movimenti di Jamis, Paul si spostò verso destra. Il ricordo delle variabili che aveva intravisto nel ribollire del tempo in questa caverna ritornava a perseguitarlo. La sua nuova percezione gli diceva che c’erano troppe decisioni, in questo combattimento, perché tra le innumerevoli strade possibili una si distinguesse chiaramente fra le altre. Le variabili si moltiplicavano, e appunto per questo il nodo temporale della caverna era confuso. Come una gigantesca roccia in mezzo a un fiume, che creasse correnti e vortici.

«Falla finita, ragazzo» mormorò Stilgar. «Non giocare con lui.»

Paul avanzò all’interno del cerchio, confidando nella sua rapidità.

E Jamis invece indietreggiò, perché si era reso conto all’improvviso che davanti a lui, nel cerchio del tahaddi, non c’era affatto uno straniero rammollito, facile preda per un cryss.

Jessica lesse la disperazione sul viso del Fremen. Ora è il momento in cui è più pericoloso, pensò. È disperato e può fare qualsiasi cosa. Ha scoperto che Paul non è un fanciullo come quelli della sua razza, ma una macchina da combattimento addestrata fin dall’infanzia. La paura che ho seminato in lui è sbocciata.

Scoprì dentro di sé un vago senso di pietà per Jamis… una pietà dominata dalla coscienza del pericolo che correva suo figlio.

Jamis potrebbe fare qualsiasi cosa… Un gesto inatteso. Jessica si chiese se Paul avesse intravisto anche questo futuro, se stesse rivivendo questa esperienza. Ma osservò i suoi movimenti, il sudore che gli stillava dalla fronte e dalle spalle, la tensione dei suoi muscoli, e vide in lui l’attenzione più profonda. E per la prima volta capì quanto fosse incerto il potere del figlio.

Paul cercava il combattimento, adesso, ma continuava a spostarsi senza attaccare. Aveva visto la paura impadronirsi di Jamis e il ricordo della voce di Idaho fluì dalla sua memoria: «Quando il tuo avversario ti teme, lascerai che la paura cavalchi da sola, che completi la sua opera… che si trasformi in terrore. L’uomo terrorizzato lotta contro se stesso. Alla fine attacca per disperazione. È il momento più pericoloso, ma si può esser certi che l’uomo terrorizzato compirà un errore. Tu sei stato addestrato per cogliere questi errori e per approfittarne».

La folla rumoreggiò sempre più forte.

Sono convinti che Paul stia giocando con Jamis, pensò Jessica. Pensano che sia inutilmente crudele.

Ma nello stesso tempo percepì nella folla un’eccitazione sotterranea, come se i Fremen godessero dello spettacolo. Jamis era sempre più teso. E Jessica colse l’istante in cui questa tensione esplose… come lo stesso Jamis… o Paul.

Jamis saltò, fintò e colpì in basso con la destra, ma la mano era vuota. Il cryss era balzato nella sinistra.

Jessica s’impietrì.

Ma Paul era stato avvertito da Chani: «Jamis combatte con entrambe le mani». Il suo addestramento aveva già assimilato quel trucco: «Pensa al coltello e non alla mano che lo stringe», gli aveva sempre detto Gurney Halleck. «Il coltello è più pericoloso della mano e può trovarsi ugualmente nella destra o nella sinistra.»

E Paul aveva colto l’errore di Jamis: un attimo di esitazione dopo quel salto che avrebbe dovuto disorientarlo, mentre passava il coltello da una mano all’altra.

C’era la luce gialla nella caverna, e la gente lo fissava con i suoi occhi neri, enormi. Ma a parte questo, tutto era simile a una lezione in palestra. Gli scudi non contavano, quando lo stesso movimento dell’avversario poteva essere usato contro di lui. Paul, con uguale rapidità, si passò il coltello da una mano all’altra, balzò di fianco e colpì dal basso in alto il petto di Jamis che stava precipitandosi su di lui, poi scivolò di lato e vide l’uomo crollare.

Jamis cadde col viso all’ingiù, come uno straccio, rantolò, girò gli occhi verso Paul, poi giacque immobile sul pavimento roccioso. I suoi occhi spenti lo fissarono come perle di vetro nero.

Uccidere di punta non è artistico, aveva detto un giorno Idaho a Paul, ma questo non deve frenare la tua mano quando ne avrai l’occasione.

I Fremen si precipitarono in avanti, riempiendo il cerchio, urtando Paul, e si affollarono concitati intorno al corpo di Jamis. Qualche istante dopo alcuni di essi corsero via nelle profondità della caverna trasportando un fagotto avvolto in un mantello.

Sul pavimento roccioso non c’era più nulla.

Jessica si fece largo verso suo figlio. Le sembrò di nuotare in un mare di schiene avvolte in mantelli e puzzolenti, un mare stranamente silenzioso.

Ecco il momento terribile, pensò. Ha ucciso un uomo grazie all’evidente superiorità dei suoi muscoli e della sua mente. Non devo permettergli di gioire di questa vittoria.

Superò gli ultimi uomini e si trovò in uno stretto spazio dove due Fremen barbuti aiutavano Paul a indossare la tuta distillante.

Jessica fissò il figlio. Aveva gli occhi brillanti e ansimava. Sembrava accettare l’aiuto dei Fremen con indifferenza.

«Si è battuto con Jamis e non ha neanche un graffio» commentò uno degli uomini.

Chani si teneva in disparte, gli occhi puntati su Paul. Jessica indovinò la sua eccitazione e vide l’ammirazione sul suo viso da elfo.

Bisogna far presto, pensò Jessica.

Mise il massimo disprezzo nella voce e nell’atteggiamento, e disse: «Ebbene… come ci si sente, a essere un assassino

Paul s’irrigidì, come se l’avesse schiaffeggiato. Incontrò gli occhi gelidi della madre e il sangue gli affluì al viso. Involontariamente lanciò un’occhiata al punto dov’era crollato Jamis.

Stilgar si fece largo a sua volta e raggiunse Jessica, dopo aver seguito il corpo di Jamis nelle profondità della caverna. Le sue parole ebbero una sfumatura amara: «Quando sarà il tempo di sfidarmi per strapparmi il burda, non credere di poter giocare con me come hai fatto con Jamis».

Jessica vide che le parole di Stilgar, dopo le sue, s’imprimevano profondamente in Paul, completando l’opera. L’errore di questa gente… era utile, adesso. Si guardò intorno e vide nei volti che li circondavano le stesse cose che vi scorgeva Paul. Ammirazione, sì, e paura… e odio, in alcuni. Guardò Stilgar e comprese il perché del suo fatalismo, e come egli aveva visto il combattimento.

Paul fissò sua madre: «Tu sai com’è stato» disse.

Lei percepì il ritorno alla ragione, il rimorso. Fece scorrere gli occhi sulla gente, e dichiarò: «Paul non aveva mai ucciso un uomo con una lama».

Stilgar la fronteggiò, incredulo.

«Non giocavo, con lui» disse Paul. A sua volta affrontò sua madre, lisciandosi le pieghe della tuta e lanciando un’occhiata al sangue che imbrattava il pavimento. «Io non volevo ucciderlo.»

Jessica vide che, lentamente, Stilgar accettava la verità; l’uomo portò alla barba una mano dalle vene prominenti, con un gesto pieno di sollievo. Si udì un mormorio di assenso tra la folla.

«È per questo che gli hai chiesto di arrendersi» disse Stilgar. «Capisco. I nostri costumi sono diversi, ma ne saprai le ragioni. Temevo di aver accolto uno scorpione fra noi.» Esitò, e poi concluse: «Non ti chiamerò più ’ragazzo’».

Una voce dalla folla gridò: «Ha bisogno di un nome, Stil».

Stilgar annuì, tirandosi la barba: «C’è della forza in te… una forza simile a quella di un pilastro». Di nuovo esitò prima di continuare: «Noi tutti ti conosceremo col nome di Usul, la base del pilastro. Questo è il tuo nome segreto, da soldato. Noi soli del Sietch Tabr potremo usarlo… Usul».

Un nuovo mormorio della folla: «Ottima scelta… Quella forza… ci porterà fortuna».

E Jessica sentì che lo accettavano, e con suo figlio, il suo campione, accettavano lei, la Sayyadina.

«Ora, quale nome da adulto tu sceglierai per noi, perché sia possibile chiamarti davanti a tutti?» chiese Stilgar.

Paul guardò sua madre e ancora Stilgar. Frammenti di questo istante corrispondevano alla sua memoria, presciente, ma percepì una differenza fisica, una pressione che lo forzava attraverso la stretta porta del presente.

«Come chiamate quel piccolo topo… il topo che salta!» chiese Paul, ricordandosi del trepestio di tante piccole zampe nel Bacino del Tuono. Illustrò il movimento con una mano.

Qualcuno scoppiò a ridere, tra la gente.

«È il muad’dib» disse Stilgar.

Jessica s’irrigidì. Era il nome che Paul le aveva detto, affermando che i Fremen li avrebbero accettati e lo avrebbero chiamato così. All’improvviso, ebbe paura di lui, e per lui.

Paul inghiottì. Stava recitando una parte, in questo istante, che aveva già recitato innumerevoli volte nella sua mente, e tuttavia… era diverso. Si vide su una vetta vertiginosa, ricco d’esperienza e di conoscenza, ma intorno a lui, dovunque, l’abisso.

E ricordò ancora una volta la visione: legioni di fanatici che seguivano lo stendardo verde nero degli Atreides, che depredavano e bruciavano l’intero universo in nome del profeta Muad’Dib.

Non deve accadere!

«Questo è il nome che desideri, Muad’Dib?» chiese Stilgar.

«Io sono un Atreides» Paul bisbigliò, e poi, a voce più alta: «Non è giusto che io rinunci del tutto al nome che mio padre mi ha dato. Potreste chiamarmi Paul Muad’Dib?»

«Tu sei Paul Muad’Dib» dichiarò Stilgar.

E Paul pensò: Questo non era in nessuna delle mie visioni. Ho fatto qualcosa di diverso.

Ma, intorno a lui, c’era sempre l’abisso.

Ancora una volta si alzarono dei mormoni dalla folla, mentre i Fremen si guardavano in viso: «Saggezza e potenza… Non potevano chiedere di più… È certamente la leggenda… Lisan al-Gaib… Lisan al-Gaib…»

«Questo ti dico del tuo nuovo nome» riprese Stilgar. «Ci piace. Muad’Dib è saggio alla maniera del deserto. Muad’Dib si crea la propria acqua. Muad’Dib si nasconde al sole e viaggia nel fresco della notte. Muad’Dib è prolifico e si moltiplica sulla terra. Noi chiamiamo Muad’Dib il ’Maestro dei bambini’. Questa è la solida base sulla quale edificherai la tua vita, Paul Muad’Dib, Usul per noi. Noi ti diamo il benvenuto.» Stilgar toccò la fronte di Paul col palmo della mano, lo abbracciò e mormorò: «Usul».

E quando Stilgar lo lasciò andare, un altro dei Fremen lo abbracciò, ripetendo il suo nome. E Paul passò di abbraccio in abbraccio attraverso tutta la folla e udì in tutte le voci e le sfumature «Usul… Usul… Usul…». Paul già ne riconosceva alcuni e il modo in cui si chiamavano. E infine vi fu Chani, che premette la guancia contro la sua, stringendolo a sé e pronunciando il suo nome.

Poi Paul fronteggiò nuovamente Stilgar, il quale disse: «Ora tu appartieni all’Ichwan Bedwain, fratello». Il suo volto s’indurì e la sua voce divenne imperiosa: «E ora, Paul Muad’Dib, chiudi la tua tuta distillante!» Fulminò Chani con un’occhiata: «Chani! Il filtro al naso di Paul Muad’Dib è sistemato nel peggior modo possibile! Credevo di averti ordinato di badare a lui!»

«Non ho i tamponi, Stil. Ci sarebbero quelli di Jamis, ma…»

«Basta!»

«Ne cederò a Paul Muad’Dib uno dei miei» disse Chani. «Io posso cavarmela con uno solo, finché…»

«No. Abbiamo dei pezzi di ricambio. Dove sono? Siamo un gruppo organizzato o una banda di selvaggi?»

Alcune mani uscirono dalla folla porgendo oggetti duri e fibrosi. Stilgar ne scelse quattro e li diede a Chani: «Occupati di Usul e della Sayyadina».

Una voce si alzò dalle ultime file: «E l’acqua, Stil? Quei literjon nel loro sacco?»

«Conosco il tuo bisogno, Farok» disse Stilgar. Guardò Jessica. Lei annuì.

«Spillane uno per quelli che ne hanno bisogno» riprese Stilgar. «Maestro d’Acqua… dov’è il Maestro d’Acqua? Ah, Shimoon, misura la quantità necessaria, non una goccia di più. Quest’acqua è di proprietà della Sayyadina, e le sarà rimborsata dal sietch alla tariffa del deserto, dedotte le spese d’imballaggio.»

«La tariffa del deserto?» chiese Jessica.

«Dieci a uno» spiegò Stilgar.

«Ma…»

«Una regola molto saggia, come scoprirai» concluse Stilgar.

In un fruscio di mantelli, gli uomini andarono a prendere l’acqua.

Stilgar alzò una mano, e si fece silenzio. «Quanto a Jamis» disse, «io ordino che si svolga la cerimonia completa. Jamis era un nostro compagno e un fratello dell’Ichwan Bedwain. Non ce ne andremo senza il rispetto dovuto a colui che col suo tahaddi ha messo alla prova la nostra fortuna. Io invoco il rito… al calar del sole, quando l’ombra lo coprirà.»

Paul, nell’udire queste parole, scivolò una volta ancora nell’abisso… nel tempo cieco. Nella sua mente non c’era alcun passato per questo futuro… eccettuato… sì, poteva ancora distinguere lo stendardo verde e nero degli Atreides che sventolava… in qualche punto davanti a lui… le spade insanguinate del jihad e le orde dei fanatici.

Non accadrà, disse tra sé. Non lo consentirò, mai.


Dio creò Arrakis per temprare il fedele.

dalla «Saggezza di Muad’Dib», della Principessa Irulan


Nell’oscurità della caverna, Jessica udì lo stridio della sabbia sulla roccia, sotto i passi dei Fremen, e il grido lontano di un uccello: era il richiamo delle sentinelle, come aveva detto Stilgar.

I grandi sigilli di plastica furono tolti dalle aperture della caverna. Jessica vide le ombre della sera che avanzavano sul labbro di roccia davanti a lei e sul bacino che si spalancava più sotto. Nel calore asciutto e nelle ombre sentì il giorno che si allontanava. Ben presto, lei lo sapeva, il suo addestramento le avrebbe dato ciò che i Fremen già avevano: l’abilità di accorgersi anche del più piccolo cambiamento di umidità.

Come si erano affrettati a stringere le tute distillanti, quando erano stati tolti i sigilli! Dalle profondità della caverna qualcuno cominciò a cantare:

«Ima trava okolo!

I korenka okolo!»

Jessica tradusse, dentro di sé: «Queste sono le ceneri! E queste le radici!» La cerimonia funebre era cominciata.

Guardò il tramonto di Arrakis, le pennellate di colore che si dispiegavano nel cielo. La notte scandiva le sue prime ombre sulle rocce lontane e sulle dune. E tuttavia il calore persisteva.

Il calore la indusse a pensare all’acqua e a tutto questo popolo temprato ad aver sete solo in certi momenti.

Sete.

Ricordò le onde, su Caladan, sotto la luna e la schiuma che avviluppava gli scogli in tanti mantelli candidi… il vento saturo di umidità. Ora, invece, la brezza che le agitava il mantello le inaridiva la pelle delle guance e della fronte. Il nuovo filtro per il naso l’infastiva, e scoprì spiacevolmente che il tubo che dal suo volto si tuffava nelle profondità della tuta, recuperando l’umidità del respiro, le dava fastidio.

La stessa tuta distillante era un bagno turco.

«La tuta ti sembrerà più comoda quando il tuo corpo conterrà meno acqua» le aveva detto Stilgar.

Era vero, sapeva che Stilgar aveva ragione, ma questo non la faceva star meglio, in quel preciso momento. Inconsciamente l’acqua la preoccupava ed era un peso per la sua mente. No, si corresse, è l’umidità che mi preoccupa.

Era un problema più profondo e sottile.

Sentì dei passi che si avvicinavano, si voltò e vide Paul uscire dalle profondità della caverna seguito da Chani dal volto di elfo.

Un’altra cosa, pensò Jessica. Le loro donne: Paul dev’essere messo in guardia. Una di queste donne del deserto non sarà mai una moglie degna di un Duca. Concubina, sì. Ma non moglie.

Poi pensò a se stessa: Forse mi ha convinta ai suoi progetti? Era stata così ben condizionata. Posso pensare alle necessità matrimoniali di un Duca senza neppure ricordarmi del mio concubinato. E tuttavia, io ero… più di una concubina.

«Madre.»

Paul si fermò di fronte a lei. Chani era al suo fianco.

«Madre, sai quello che stanno facendo, laggiù?»

Jessica alzò gli occhi e incontrò il suo sguardo cupo sotto il cappuccio.

«Penso di sì.»

«Chani mi ha mostrato… Io devo vedere, e dare il mio… consenso, per la misura dell’acqua.»

Jessica guardò Chani.

«Stanno recuperando l’acqua di Jamis» spiegò Chani. La sua voce acuta acquistava un tono nasale a causa dei filtri. «È la regola. La carne appartiene alla persona, ma l’acqua è della tribù… fuorché in combattimento.»

«Dicono che quell’acqua è mia» disse Paul.

Jessica si chiese perché tutto questo risvegliasse all’improvviso la sua diffidenza.

«L’acqua del combattimento appartiene al vincitore» spiegò ancora Chani. «Perché si combatte senza tuta. Il vincitore ha il diritto di recuperare l’acqua che ha perduto nella lotta.

«Non voglio la sua acqua» mormorò Paul. Sentì di appartenere a molte immagini diverse che si agitavano simultaneamente, a caso, sconcertando la sua vista interiore. Non sapeva assolutamente quello che avrebbe fatto, ma di una cosa era certo: non voleva l’acqua distillata dalla carne di Jamis.

«È… acqua» disse Chani.

Jessica si stupì del modo in cui lo diceva. «Acqua.» Un suono semplice, e tuttavia così pieno di significato. Un assioma Bene Gesserit diceva: «La sopravvivenza è la capacità di nuotare nelle acque più strane». E Jessica pensò: In queste acque strane, Paul ed io dobbiamo trovare le correnti favorevoli… se vogliamo sopravvivere.

«Accetta l’acqua» gli disse.

Riconobbe il tono. L’aveva già usato col Duca scomparso, un giorno, quando gli aveva ingiunto di accettare una grossa somma in cambio della sua partecipazione a un’impresa rischiosa, semplicemente perché il denaro contribuiva alla potenza degli Atreides.

Su Arrakis l’acqua era il denaro. Lei l’aveva capito.

Paul restò silenzioso: avrebbe fatto quanto lei gli aveva detto non perché era un ordine, ma perché il tono della sua voce l’aveva costretto a riflettere. Rifiutare l’acqua sarebbe stato infrangere le usanze dei Fremen.

Ricordò le parole del Kalima 467 della Bibbia C.O. di Yueh, e disse: «’L’acqua è l’inizio di ogni vita’».

Jessica lo fissò. Dove ha imparato questa citazione? si chiese. Non ha mai studiato i misteri.

«Così è detto» replicò Chani. «Giudichar mantene: è scritto nel Shah-Nama che l’acqua è stata l’origine di ogni cosa creata.»

Jessica ebbe un brivido improvviso, per una ragione che non riuscì a spiegare (e questo la spaventò molto di più della sensazione). Si voltò per nascondere la sua confusione, appena in tempo per vedere il sole che scompariva all’orizzonte. Colori smaglianti esplosero nel cielo.

«È l’ora!»

La voce di Stilgar risuonò nella caverna: «L’arma di Jamis è stata uccisa. Jamis è stato chiamato da Lui, da Shai-hulud, il quale ha ordinato le fasi delle lune che svaniscono ogni giorno di più, per diventare alla fine sottili ramoscelli disseccati». La voce di Stilgar si abbassò: «Così è stato con Jamis».

Il silenzio calò come un velo palpabile sulla caverna.

Jessica distinse nell’ombra la grigia figura di Stilgar nelle viscere tenebrose della caverna. Fissò nuovamente il bacino e sentì sul viso il fresco preludio della notte.

«Gli amici di Jamis si avvicinino» fece Stilgar.

Dietro a Jessica, alcuni uomini calarono una tenda sull’apertura. Un solo globo luminoso risplendeva in alto, in fondo alla caverna. Il bagliore giallo rivelò una folla in movimento. Jessica ascoltò il lento fruscio delle vesti.

Chani avanzò di un passo, attirata dalla luce.

Jessica si piegò verso Paul e gli parlò all’orecchio nel dialetto di famiglia: «Seguili. Fai come loro. È una semplice cerimonia per placare l’anima di Jamis».

Sarà molto più di questo, pensò Paul. Sentì come una lacerazione nella sua intima consapevolezza, come se cercasse di afferrare qualcosa in perenne movimento.

Chani scivolò al fianco di Jessica e le afferrò una mano: «Vieni, Sayyadina. Noi dobbiamo restare appartate».

Paul le osservò mentre sparivano nell’ombra, lasciandolo solo. Si sentì abbandonato.

Gli uomini che avevano calato la tenda gli si avvicinarono.

«Vieni, Usul.»

Lasciò che lo guidassero, che lo spingessero all’interno di un cerchio che si era formato attorno a Stilgar, il quale era in piedi sotto il globo luminoso, accanto a un oggetto informe e angoloso avvolto in un mantello.

I Fremen, a un gesto di Stilgar, si accovacciarono al suolo con un intenso fruscio. Paul seguì il loro esempio, sempre con gli occhi puntati su Stilgar. Sotto il globo luminoso, gli occhi del Fremen erano due voragini oscure, mentre la tela verde brillava intorno al suo collo. Paul abbassò lo sguardo sul mucchio informe ai piedi di Stilgar e riconobbe l’impugnatura di un baliset che usciva dal mantello.

«Lo spirito lascia l’acqua del corpo quando si alza la prima luna» intonò Stilgar. «Così è detto. Quando la prima luna si alzerà, questa notte, chi chiamerà?»

«Jamis» dissero i Fremen in coro.

Stilgar girò su se stesso, facendo passare il suo sguardo sul cerchio dei volti: «Ero amico di Jamis» disse. «Al Buco nella Roccia, quando il falco meccanico si è precipitato su di noi, è stato Jamis a salvarmi.»

Si curvò, tolse il mantello dal mucchio. «In quanto amico di Jamis, prendo questo mantello. È il diritto del capo.» Si avvolse nel mantello, raddrizzandosi.

Ora Paul vide esposto il contenuto del mucchio: la lucentezza grigia di una tuta, un literjon tutto ammaccato, un fazzoletto e un piccolo libro, l’impugnatura priva di lama di un cryss, un fodero vuoto, un frammento di tessuto ripiegato, una parabussola, un distrans, un martellatore, una pila di ami metallici grossi come un pugno, minuscoli frammenti di roccia avvolti in un panno, una manciata di piume legate insieme… e un baliset.

Così, Jamis suonava il baliset, pensò Paul. Lo strumento gli ricordò Gurney Halleck, e tutto quello che era perduto. Paul sapeva, grazie alla sua memoria del futuro, che alcune linee casuali avrebbero potuto farlo incontrare un giorno con Halleck, ma le intersezioni erano poche e confuse. Questo l’inquietò. Fu sgradevolmente colpito da questo fattore d’incertezza. Vuol dire forse che io farò qualcosa… che potrei farla… e Gurney sarà distrutto… o riportato in vita?… oppure…

Paul inghiottì, e scosse la testa.

Di nuovo, Stilgar si piegò sul mucchio.

«Per la donna di Jamis e per le guardie» disse. I frammenti di roccia e il libro sparirono tra le pieghe del suo mantello.

«Il diritto del capo» intonò la folla.

«Il contrassegno del servizio da caffè di Jamis.» Stilgar sollevò un piccolo disco di metallo verde. «Sarà offerto a Usul al nostro ritorno al sietch, durante la cerimonia.»

«Il diritto del capo» disse ancora la folla.

Infine, Stilgar impugnò il manico del cryss. «Per la Piana dei Morti.»

«Per la Piana dei Morti» ripeté la folla.

In piedi nel cerchio, sul lato opposto a Paul, Jessica annuì riconoscendo le antiche fonti del rito, e pensò: L’incontro fra l’ignoranza e la conoscenza… fra la brutalità e la cultura, tutto incomincia con la dignità che usiamo nei confronti dei morti. Fissò Paul e si chiese: L’ha capito? Saprà come fare?

«Noi siamo gli amici di Jamis» disse Stilgar. «Noi non piangiamo i nostri morti come un branco di garvarg.»

Alla sinistra di Paul, un uomo dalla barba grigia si alzò: «Io ero amico di Jamis» dichiarò. Si avvicinò al mucchio, prese il distrans. «Quando l’acqua mi mancò all’assedio dei Due Uccelli, Jamis mi offrì la sua.» L’uomo ritornò al suo posto nel cerchio.

Devo forse dire anch’io che ero amico di Jamis? si chiese Paul. Si aspettano che anch’io prenda qualcosa da quel mucchio? I Fremen si voltarono a guardarlo, poi distolsero gli occhi. Sì, se lo aspettano.

Dalla parte opposta di Paul, un altro uomo si alzò, si avvicinò al mucchio e ne tolse la parabussola. «Io ero amico di Jamis» disse. «Quando la pattuglia ci sorprese nell’Ansa della Collina e io fui ferito, Jamis li respinse, e tutti i feriti furono tratti in salvo». Ritornò al suo posto nel cerchio.

Ancora una volta i Fremen si voltarono verso Paul, e lui colse l’attesa in loro. Abbassò gli occhi. Un gomito l’urtò e una voce gli disse, sibilando: «Vuoi forse distruggerci tutti?»

Come posso dire che ero suo amico? pensò Paul.

Un’altra figura si alzò dal cerchio di fronte a lui, e quando il volto incappucciato si fece avanti alla luce, Paul riconobbe sua madre. Jessica prese il fazzoletto dal mucchio di oggetti: «Io ero amica di Jamis» disse. «Quando lo spirito degli spiriti che era in lui vide quant’era necessaria la verità, si ritirò e risparmiò mio figlio.» E riprese il suo posto nel cerchio.

Paul si ricordò del disprezzo nella sua voce, quando gli aveva detto, dopo il combattimento: «Ebbene… come ci si sente a essere un assassino?»

Una volta ancora tutti si voltarono a guardarlo, e sentì nuovamente la rabbia e la paura. All’improvviso, ricordò un librofilm che sua madre gli aveva proiettato: Il Culto dei Morti. Ora sapeva quello che doveva fare.

Lentamente, si alzò.

Un sospiro attraversò il cerchio.

Paul, avanzando verso il centro, ebbe l’impressione che il suo Io si cancellasse progressivamente. Era come se avesse smarrito là dentro un frammento di se stesso. Si curvò sul mucchio degli oggetti e afferrò il baliset. Una corda s’impigliò e produsse un dolcissimo accordo.

«Io ero amico di Jamis» bisbigliò Paul. Sentì gli occhi che gli bruciavano e si sforzò di parlare più forte. «Jamis mi ha insegnato che… quando si uccide… c’è sempre un prezzo da pagare. Vorrei averlo conosciuto meglio.»

Inciampando, alla cieca, ritornò al suo posto nel cerchio e si lasciò cadere a terra.

Una voce bisbigliò: «Ha sparso lagrime!»

Un mormorio si alzò dal cerchio: «Usul ha donato umidità al morto!»

Sentì una mano sfiorargli le guance, e un’esclamazione soffocata.

Jessica percepì le origini profonde di queste reazioni, la tremenda inibizione nei confronti delle lagrime sparse. Ripeté dentro di sé le parole che aveva appena udito: «Ha donato umidità al morto!» Era un dono al mondo delle ombre. Lagrime sacre al di là di ogni dubbio.

Niente, su questo mondo, le aveva dato a tal punto il senso del valore supremo dell’acqua. Non i venditori di acqua, non le pelli disseccate dei nativi, non le tute distillanti o le ferree leggi della disciplina d’acqua. Qui era una sostanza ben più preziosa: la vita stessa che s’intrecciava di rituali e simbolismi.

L’acqua.

«Gli ho toccato le guance» disse qualcuno. «Ho sentito il dono.»

A tutta prima le dita che gli sfioravano il viso avevano spaventato Paul. Strinse con forza la fredda impugnatura del baliset, al punto che le corde gli incisero le dita. Poi vide i volti dietro a quelle mani protese: occhi sgranati, pieni di meraviglia.

Poi le mani si ritirarono, lentamente. La cerimonia funebre riprese. Ma ora c’era un vuoto sottile intorno a Paul, un ritirarsi dei Fremen che lo onoravano lasciandolo solo, in un rispettoso isolamento.

La cerimonia finì con un canto profondo:

«La luna piena ti chiama…

Shai-hulud vedrai.

Rossa è la notte, cupo il cielo,

Tu sei morto versando il tuo sangue.

Preghiamo alla luna piena…

Per noi verrà la fortuna,

E quello che abbiamo sempre cercato

Infine troveremo sulla solida terra.»

Ai piedi di Stilgar, ora, c’era soltanto più un sacco rigonfio. Stilgar si accovacciò, appoggiò le mani sul sacco. Qualcuno scivolò accanto a lui: Paul riconobbe il viso di Chani sotto il cappuccio.

«Jamis portava trentatré litri, sette dracme e un terzo di acqua della tribù» disse Chani. «Io ora la benedico in presenza di una Sayyadina. Ekkeri-akairi, questa è l’acqua, fillissim-follasy, di Paul Muad’Dib! Kivi a-kavi, mai più, nakalas! Nakelas! da misurarsi e contarsi, ukair-an! dai battiti del cuore jan-jan-jan del nostro amico… Jamis.»

Nell’improvviso e profondo silenzio, Chani alzò gli occhi e fissò Paul. E riprese: «Dove io sono fiamma, tu sii carbone. Dove io sono rugiada, tu sii acqua!»

«Bi-la kaifa» intonarono i Fremen.

«A Paul Muad’Dib va questa parte» continuò Chani. «Possa egli conservarla per la tribù e preservarla da ogni perdita. Sia egli generoso nei momenti difficili. Possa egli trasmetterla, quando sarà giunto il momento, agli altri, per il bene della tribù.»

«Bi-la kaifa.»

Devo accettare quest’acqua, pensò Paul. Lentamente si alzò, portandosi al fianco di Chani. Stilgar si scostò per lasciargli posto e gentilmente gli tolse il baliset.

«Inginocchiati» lo invitò Chani.

Paul s’inginocchiò.

Chani guidò la sua mano verso il contenitore d’acqua e la tenne appoggiata sulla superficie elastica. «La tribù ti affida quest’acqua» disse. «Jamis l’ha lasciata. Prendila in pace.» Si alzò e lo fece alzare.

Stilgar gli restituì il baliset e gli presentò nella mano aperta alcuni anelli metallici. Paul notò che erano di differenti grandezze e che scintillavano alla luce del globo.

Chani prese l’anello più grande e lo sostenne con un dito: «Trenta litri» disse. A uno a uno, prese gli altri, mostrando ciascuno di essi a Paul, e valutandoli: «Due litri; un litro; sette misure di una dracma ciascuna; una misura d’acqua di un terzo di dracma».

Li tenne in alto, sulla punta delle dita, perché Paul li vedesse.

«Li accetti?» chiese Stilgar.

Paul inghiottì. «Sì.»

«Più tardi» disse Chani, «ti mostrerò come legarli insieme in un fazzoletto, perché non tintinnino e non tradiscano la tua presenza quando hai bisogno di silenzio.» Gli tese la mano.

«Ti dispiace… tenerli per me?» chiese Paul.

Chani fissò Stilgar stupita.

Stilgar sorrise. «Paul Muad’Dib, che è Usul, non conosce ancora le nostre usanze, Chani. Tieni le sue misure d’acqua, senza impegno, finché non sarà giunto il momento di mostrargli come vanno usate.»

Chani annuì. Tirò fuori un nastro di stoffa e lo infilò attraverso gli anelli, legandolo poi sopra e sotto in un nodo assai complicato. Esitò, poi lo fece scivolare dentro la sciarpa.

Qualcosa mi è sfuggita, pensò Paul. Intorno sentì aleggiare un’atmosfera canzonatoria e la sua mente la collegò a un ricordo della sua preveggenza: Misure d’acqua offerte a una donna… un rituale del corteggiamento.

«Maestri d’Acqua!» chiamò Stilgar.

I Fremen si alzarono con un fruscio di mantelli. Due uomini uscirono dal gruppo e presero il sacco con l’acqua. Stilgar tirò giù il globo luminoso e guidò la gente verso le profondità della caverna.

Paul si affrettò dietro a Chani. Intorno a loro le ombre danzavano sulle pareti con riflessi oleosi. Sentì che tutti erano tesi, come se stessero aspettando qualcosa.

Jessica, sballottata tra i corpi che si affrettavano, sospinta da mani bramose, lottò un istante contro il panico. Aveva riconosciuto, in certe fasi del rito, le tracce del Chakobsa e del Bhotani-jib nelle parole pronunciate, e sapeva quale selvaggia violenza poteva scatenarsi all’improvviso da questi momenti in apparenza tranquilli.

Jan-jan-jan, pensò. Vai, vai, vai.

Era come un gioco di bambini, libero da ogni inibizione, nelle mani degli adulti.

Stilgar si arrestò accanto a una roccia gialla. Premette la mano su una protuberanza, e la parete sprofondò silenziosamente rivelando una spaccatura irregolare. Stilgar guidò il gruppo superando un pannello oscuro, a riquadri esagonali; quando gli passò davanti a sua volta, Paul fu investito da un fiotto di aria fredda. Si voltò verso Chani, interrogandola con gli occhi e le sfiorò il braccio.

«Quest’aria è umida.»

«Shhh…» bisbigliò Chani.

Ma un uomo, dietro a loro, esclamò: «C’è molta umidità nella trappola, stanotte. Jamis ci fa sapere così che è soddisfatto».

Jessica sentì la muraglia chiudersi dietro di loro. Osservò il modo in cui i Fremen rallentavano il passo quand’erano davanti al pannello e a sua volta fu investita dall’aria umida.

Una trappola a vento! pensò. C’è una trappola a vento alla superficie che convoglia l’aria quaggiù, dov’è più freddo e l’umidità si condensa.

Un’altra porta, un altro pannello. La porta si chiuse alle loro spalle. L’aria che avvolse Jessica e Paul era satura di umidità.

In testa al gruppo, il globo luminoso nelle mani di Stilgar si abbassò e scomparve. Paul sentì i gradini sotto i piedi, che discendevano curvando a sinistra. La luce gialla danzò sulle teste incappucciate, mentre i Fremen proseguivano sempre più in basso, lungo una spirale.

Jessica percepì la tensione che aumentava intorno a lei, sentì i suoi stessi nervi tendersi dolorosamente nel silenzio.

I gradini finirono e il gruppo attraversò un’altra porta. La luce del globo luminoso si disperse in un’immensa cavità sotterranea dall’altissimo soffitto a cupola.

Paul sentì Chani stringergli il braccio e udì, nell’aria fredda, un gocciolio. In questa atmosfera di cattedrale, creata dallo stillicidio dell’acqua, un’immobilità assoluta sembrò impadronirsi dei Fremen.

Ho visto questo luogo in un sogno, pensò Paul.

Era, nello stesso tempo, rassicurante e frustrante. C’erano sempre, nel suo avvenire, le orde di fanatici che si tracciavano un cammino sanguinoso attraverso l’intero universo, in suo nome. Lo stendardo verde nero degli Atreides sarebbe diventato un simbolo di terrore. Legioni selvagge si sarebbero gettate nella mischia lanciando il grido di battaglia: «Muad’Dib!»

Non sarà mai! pensò. Non posso permetterlo.

Ma sentì ugualmente dentro di sé la disperata urgenza razziale, il suo terribile scopo, e seppe che sarebbe stato quasi impossibile deviare il flagello che stava acquistando forza e slancio. Se lui fosse morto in quell’istante, esso sarebbe continuato attraverso sua madre e sua sorella non ancora nata. Niente l’avrebbe fermato, se non la morte di tutti, là dentro: i Fremen, lui stesso, sua madre.

Paul si guardò intorno e vide il gruppo disposto in una lunga fila. Lo stavano spingendo verso una bassa barriera intagliata nella roccia. Al di là, alla luce del globo di Stilgar, Paul distinse la cupa superficie di una distesa d’acqua che si perdeva nell’ombra. La muraglia opposta era appena visibile, forse a più di cento metri di distanza.

Jessica sentì che la sua pelle arida e secca si distendeva, sulle guance e la fronte, nell’aria umida. La pozza d’acqua era profonda: percepì questa profondità e lottò contro il desiderio di affondarvi le mani.

Vi furono un tonfo e uno spruzzo alla sua sinistra. Oltre la linea nera dei Fremen, vide Stilgar e Paul, e accanto a loro i Maestri d’Acqua che rovesciavano il loro fardello attraverso un contatore di flusso. Il contatore era un occhio tondo e grigio sull’orlo della pozza. Vide il suo indice luminoso muoversi mentre l’acqua vi fluiva attraverso, e fermarsi ai trentatré litri, sette dracme e un terzo.

Magnifica precisione, pensò Jessica. E vide che le pareti del contatore non conservavano la minima traccia di umidità dopo il passaggio dell’acqua. La tensione superficiale del liquido era annullata. Questo semplice fatto era un eloquente indizio sulla tecnologia dei Fremen: erano dei perfezionisti.

Jessica si aprì facilmente il cammino fino a Stilgar, e avvicinandosi notò lo sguardo assente di Paul. Ma il mistero di questa grande pozza d’acqua occupava tutti i suoi pensieri.

Stilgar la fissò. «Alcuni di noi avevano urgente bisogno d’acqua. E tuttavia sono venuti qui e non l’hanno toccata. Hai visto?»

«Ho visto.»

Stilgar guardò la pozza. «Qui, noi abbiamo più di trentotto milioni di decalitri d’acqua. Nascosti e ben protetti dai piccoli creatori. Al sicuro.

«Un tesoro» disse Jessica.

Stilgar alzò il globo luminoso e la folgorò con lo sguardo. «Molto più di un tesoro. Abbiamo migliaia di questi nascondigli. Pochi di noi li conoscono tutti.» Piegò la testa: la luminosità del globo accentuò le ombre sul suo viso: «Sentite?»

Tutti ascoltarono.

Il gocciolio dell’acqua catturata dalla trappola a vento riempì la caverna con la sua presenza. Jessica colse l’estasi sui volti di tutti i Fremen, immobili. Paul soltanto sembrava distaccato, estraneo a quel gocciolio.

Per lui, ogni goccia che cadeva era un attimo che moriva. Sentiva il tempo scorrere dentro di lui, e ogni istante non poteva esser più ricatturato. Sentì il bisogno di prendere una decisione, ma non aveva la forza di muoversi.

«Tutto è stato calcolato con precisione» bisbigliò Stilgar. «Con l’approssimazione di un milione di decalitri, noi sappiamo quanta acqua ci serve. Quando l’avremo, allora cambieremo il volto di Arrakis.»

La risposta salì dall’oscurità con un mormorio. «Bi-la kaifa.»

«Intrappoleremo le dune sotto ciuffi d’erba» continuò Stilgar, mentre la sua voce aumentava d’intensità. «Trasformeremo il suolo in una spugna con alberi e radici.»

«Bi-la kaifa» intonarono i Fremen.

«Ogni anno i ghiacci polari si ritirano sempre più.»

«Bi-la kaifa.»

«Faremo di Arrakis la nostra vera casa, i laghi nelle zone temperate, le calotte di ghiaccio ai poli, e solo l’alto deserto per il creatore e la sua spezia.»

«Bi-la kaifa.»

«E nessun uomo avrà più bisogno di acqua. Potrà prelevarla dai pozzi, dai laghi o dai canali, e sarà sua. Scorrerà lungo i qanat per nutrire le piante. Sarà a disposizione di chiunque. Sarà di ogni uomo, basterà solo che porga la mano.»

«Bi-la kaifa.»

Jessica percepì la ritualità religiosa delle parole e la sua istintiva reverenza: Essi hanno concluso un’alleanza con l’avvenire, pensò. Devono anch’essi scalare una montagna. È un sogno scientifico… e questo popolo semplice, questi contadini ne sono imbevuti.

I suoi pensieri si volsero a Liet-Kynes, l’Ecologo Planetario dell’Imperatore, l’uomo che si era trasformato in un nativo, e provò meraviglia per lui. Era un sogno capace di avvincere l’anima di quegli uomini, e Jessica sentì la presenza dell’ecologo in quel sogno. Gli uomini erano pronti a morire per lui. Era un altro degli elementi essenziali di cui Paul aveva bisogno: un popolo con uno scopo. Sarebbe stato assai facile suscitare fervore e fanatismo in un simile popolo. Avrebbe potuto impugnarlo come una spada per riconquistare il suo posto.

«Dobbiamo partire, adesso» disse Stilgar. «Aspetteremo il sorgere della prima luna. Quando Jamis sarà sulla buona strada, ritorneremo a casa.»

Mormorando, con riluttanza, i Fremen lo seguirono su per la scala intagliata nella roccia, voltando le spalle all’acqua.

Paul, incamminandosi dietro a Chani, sentì che gli sfuggiva un istante vitale, che si era lasciato sfuggire una decisione di fondamentale importanza, e che era prigioniero, ormai, del suo stesso mito. Sapeva di aver già visto questo luogo in un sogno presciente, sul lontano Caladan, ma c’erano dei particolari che non aveva mai conosciuto e che arricchivano il suo sogno. Una volta ancora i limiti del suo potere lo turbarono. Era come se cavalcasse in un’onda del tempo, a volte nel suo cavo, a volte sulla cresta… e intorno a lui, a perdita d’occhio, altre onde si alzavano e ricadevano, rivelando e poi nascondendo quello che trasportavano sulla superficie.

Ma, instancabile, il selvaggio jihad compariva davanti a lui con la violenza e i massacri, come uno scoglio incrollabile.

La folla sfilò attraverso l’ultima porta per riunirsi nella caverna principale. La porta fu chiusa. Le luci furono spente, gli orifizi della cavità nuovamente aperti, rivelando la notte intorno a loro e le stelle che illuminavano il deserto.

Jessica si diresse verso il bordo disseccato, al di là della soglia, e guardò in alto le stelle. Erano brillanti, vicine. I Fremen si mossero intorno a lei, sentì il suono di un baliset che qualcuno accordava, alle sue spalle, e la voce di Paul che ne regolava la tonalità a bocca chiusa. C’era una malinconia, in quella voce, che non le piacque.

«Parlami delle acque del tuo pianeta natale» disse la voce di Chani dall’oscurità della caverna.

«Un’altra volta, Chani, te lo prometto» rispose Paul.

Così triste…

«È un buon baliset» riprese Chani.

«Molto buono… Credi che Jamis mi odierà se lo uso?»

Parla dei morti come se fossero vivi, pensò Jessica, turbata.

Una voce d’uomo s’intromise: «Gli piaceva cantare qualcosa, a quest’ora».

«Allora cantami una delle tue canzoni» lo pregò Chani.

C’è tanta femminilità nella voce di questa ragazza, si disse Jessica. Dovrò mettere Paul in guardia verso le loro donne… al più presto.

«È una canzone che cantava un mio amico» disse Paul. «Credo che Gurney sia morto, adesso. La chiamava la sua canzone della sera.»

I Fremen tacquero, mentre la voce squillante di Paul s’innalzava sugli accordi del baliset:

«In questo cielo di ceneri ardenti…

Nel sole dorato che si perde nel crepuscolo,

Quali sensi impazziti, profumo di disperazione,

Sono compagni dei nostri ricordi…»

Jessica sentì nel suo petto la musica delle parole: pagana, carica di suoni che all’improvviso la resero acutamente conscia di se stessa, del suo corpo, dei suoi desideri. Ascoltò nel silenzio pieno di tensione:

«Perle d’incenso nel requiem della notte…

Per noi!

Quale gioia allora risplende

Luminosa nei tuoi occhi…

Quali amorini trapunti di fiori

Attirano i nostri cuori…

Quali amorini trapunti di fiori

Placano i nostri desideri».

Dopo l’ultima nota il silenzio si prolungò. Perché mio figlio ha cantato una canzone d’amore alla fanciulla? si chiese Jessica. Sentì un’improvvisa paura. La vita scorreva tutto intorno a lei e le era impossibile afferrarla. Perché ha scelto quella canzone? A volte gli istinti sono veri. Perché lo ha fatto?

Nell’ombra, Paul restò silenzioso, immobile, dominato da un unico pensiero: Mia madre è la mia nemica. Lei non lo sa, ma lo è. È lei che ha il jihad nel sangue. Mi ha fatto nascere, mi ha addestrato. È lei la mia nemica.


Il concetto di progresso è un meccanismo protettivo che ci difende dai terrori del futuro.

dalla «Raccolta dei detti di Muad’Dib», della Principessa Irulan


Ai giochi familiari per il suo diciassettesimo compleanno, Feyd-Rautha Harkonnen uccise il suo centesimo gladiatore schiavo. Gli osservatori della Corte Imperiale, il Conte Fenring e la sua Lady erano sul mondo degli Harkonnen, Giedi Primo, e avevano preso posto con la famiglia di Feyd-Rautha nella loggia dorata, sopra l’arena triangolare.

Per l’anniversario del na-Barone e allo scopo di ricordare a tutti gli Harkonnen e ai loro sudditi che Feyd-Rautha era l’erede designato, quel giorno era festa su tutto Giedi Primo. Il vecchio Barone aveva ordinato che ogni lavoro fosse interrotto da un meridiano all’altro, e nella città familiare di Harko era stato compiuto ogni sforzo per creare un’illusione di gaiezza: gli stendardi garrivano su tutti gli edifici e lungo la Grande Via i muri erano stati ridipinti.

Ma, tra una casa e l’altra, il Conte Fenring e la sua Lady videro mucchi d’immondizia e le pareti stillanti sporcizia che si riflettevano sulle pozzanghere nere dei vicoli, nei quali la gente scivolava furtiva.

Tra le pareti azzurre del castello del Barone regnava una perfezione ispirata dal terrore, ma il Conte e la sua Lady videro il prezzo pagato: guardie dovunque e armi con quella particolare lucentezza che indica un uso frequente. C’erano posti di controllo in quasi tutte le strade e perfino all’interno del castello. I servitori rivelavano l’addestramento militare nel modo in cui camminavano, le spalle rigide… lo sguardo vigile che frugava instancabilmente.

«La tensione aumenta» mormorò il Conte alla Lady nella loro lingua segreta. «Soltanto adesso il Barone comincia veramente a capire il prezzo che ha pagato per sbarazzarsi dei Duca Leto.»

«Un giorno ti racconterò la leggenda della fenice» disse Lady Fenring.

Erano nella sala dei ricevimenti del castello in attesa di recarsi ai giochi di famiglia. Non era una grande sala (era lunga circa quaranta metri e larga la metà) ma i finti pilastri, sulle pareti laterali, finivano ad angolo acuto sul soffitto leggermente incurvato e davano un’illusione di spazio.

«Aaahh, ecco il Barone» fece il Conte.

Il Barone avanzò nella sala col suo caratteristico passo ondeggiante, guidando i sospensori che sostenevano il suo immenso corpo. Le sue guance tremolavano e i sospensori si spostavano sotto il suo manto arancione. Gli anelli scintillavano alle sue dita e opalfuochi riempivano d’iridescenze il suo manto.

Accanto a lui veniva Feyd-Rautha. I suoi capelli scuri erano fittamente arricciolati in un’acconciatura gaia che faceva un bizzarro contrasto con gli occhi cupi. Indossava una tunica nera aderente e calzoni scampanati. I suoi minuscoli piedi calzavano morbide pantofole.

Lady Fenring notò il portamento sicuro del giovane e i muscoli sotto la tunica: Costui, pensò, non si lascerà certo ingrassare.

Il Barone si arrestò davanti a loro, afferrò il braccio di Feyd-Rautha in un gesto possessivo e disse: «Mio nipote, il na-Barone Feyd-Rautha Harkonnen». E girando il suo grasso volto da bambino verso Feyd-Rautha, aggiunse: «Il Conte Fenring e la sua Lady, di cui ti ho parlato».

Feyd-Rautha piegò il capo con la cortesia richiesta. Fissò Lady Fenring. La sua squisita figura era inguainata in una semplice veste ondeggiante di lino, senza alcun ornamento. I capelli della donna erano soffici e dorati e i suoi occhi grigio verdi gli restituirono lo sguardo. Aveva la serena tranquillità delle Bene Gesserit, e lo rendeva vagamente inquieto.

«Uhmmmmm…» fece il Conte. Studiò Feyd-Rautha. «È… uhmmm… quel bravo giovane… Ah, sì… Mio caro?» Lanciò un’occhiata al Barone: «Mio caro Barone, voi avete detto di aver parlato di noi a questo bravo giovane? Che cosa gli avete detto?»

«Gli ho parlato della grande stima in cui vi tiene l’Imperatore, Conte Fenring» replicò il Barone. E disse tra sé: Guardalo bene, Feyd! È un assassino dai modi di coniglio… il tipo più pericoloso!

«Naturalmente» disse il Conte, e sorrise alla sua Lady.

L’atteggiamento e le parole di quest’uomo sembrarono quasi insultanti a Feyd-Rautha. Giusto al di qua dei limiti dell’affronto. Il giovane concentrò la sua attenzione sul Conte: un uomo piccolo di statura e dall’aspetto fragile. I suoi occhi neri erano troppo grandi per il suo volto da faina. Le tempie erano sfumate di grigio. Quanto ai suoi gesti… muoveva una mano, girava la testa da un lato e parlava dall’altro… Era quasi impossibile seguirlo.

«Una… uhmmmmm… una simile qualità s’incontra… uhmmm… di rado» disse ancora il Conte, gli occhi puntati sulla spalla del Barone. «Io… ah… mi congratulo con voi per la… uhmmm… perfezione del vostro… ah… erede. Egli trae… uhmmm… vantaggio dall’esperienza degli avi, per così dire.»

«Voi siete troppo gentile» rispose il Barone, inchinandosi, ma Feyd-Rautha notò che non c’era la minima cortesia negli occhi di suo zio.

«Quando voi… mmmmh… siete ironico, questo… ah… suggerisce che voi stiate meditando… uhmmm… ah… qualcosa» continuò il Conte.

Ecco che ricomincia, pensò Feyd-Rautha. Si esprime in modo insultante, ma non c’è nulla nelle sue parole che ci consenta di chiedergli soddisfazione.

Ascoltare quell’uomo dava a Feyd-Rautha la sensazione che qualcuno gli facesse bollire la testa… Uhmmmm… ah! Feyd-Rautha rivolse ancora la sua attenzione a Lady Fenring.

«Stiamo… ah… stiamo rubando troppo tempo a questo giovanotto» disse lei. «Non ho inteso forse che deve comparire nell’arena, oggi?»

Per le urì dell’Harem Imperiale, quant’è adorabile! pensò Feyd-Rautha. E rispose: «Ucciderò qualcuno per voi, mia Signora. Col vostro permesso, lo proclamerò nell’arena».

Lei lo guardò placidamente, ma la sua voce fu come una frustata quando rispose: «Voi non avete il mio permesso».

«Feyd!» esclamò il Barone. E pensò: Questo moccioso! Vuol farsi sfidare dal Conte Assassino?

Ma il Conte si limitò a sorridere, e disse: «Uhmmmm… mmmmh…»

«Devi prepararti per l’arena, Feyd» intervenne il Barone. «Devi essere ben riposato e non correre stupidi rischi.»

Feyd-Rautha s’inchinò fremente di rabbia. «Sono certo che tutto sarà secondo i tuoi desideri, Zio.» Accennò col capo al Conte Fenring: «Signore». E alla Lady: «Mia Signora». E si voltò, uscendo a larghi passi dal salone, senza degnare di uno sguardo i membri delle Famiglie Minori, raccolti vicino alle porte.

«È così giovane» sospirò il Barone.

«Uhnmmm… davvero… uhm» fece il Conte.

Lady Fenring pensò: È forse lui il giovane cui si riferiva la Reverenda Madre? È la linea genetica che dobbiamo preservare?

«Ci resta ancora più di un’ora, prima di andare all’arena» disse il Barone. «Forse ci basterà per la nostra piccola conversazione, Conte Fenring?» Piegò a destra l’enorme testa. «Ci sono ancora molti punti da discutere.»

E pensò: Vediamo dunque come se la caverà questo lacché dell’Imperatore per trasmettermi il messaggio che porta con sé, senza spingere la sua villania al punto di dirlo ad alta voce.

Il Conte si rivolse alla Lady: «Uhmmmm… ah… mmmm, ti dispiace scusarci… uhm… mia cara?»

«Ogni giorno, e a volte ogni ora, porta dei cambiamenti» disse Lady Fenring. «Mmmmm…» Sorrise al Barone e si allontanò, facendo frusciare la lunga gonna. Avanzò, superba e regale, attraverso il salone verso le porte.

Il Barone notò che tutte le conversazioni fra le Case Minori cessarono al suo avvicinarsi e tutti gli occhi la seguirono. Bene Gesserit! imprecò dentro di sé. Quanto sarebbe meglio per tutti se ci sbarazzassimo di loro!

«C’è una zona di silenzio acustico fra i due pilastri, qui alla nostra sinistra» disse il Barone. «Potremo parlare senza timore che qualcuno ci ascolti.» Fece strada al Conte con la sua andatura ondeggiante all’interno del campo isolante e sentì che il brusio della sala diventava confuso e lontano.

Il Conte scivolò al suo fianco e ambedue si voltarono verso la parete per impedire che qualcuno leggesse loro le labbra.

«Non siamo affatto soddisfatti del modo in cui voi avete cacciato i Sardaukar da Arrakis» disse il Conte.

Diavolo, parla chiaro! pensò il Barone.

«I Sardaukar non potevano fermarsi più a lungo senza il pericolo che altri scoprissero in qual modo l’Imperatore mi aveva aiutato.»

«Ma vostro nipote, Rabban, non sembra affatto preoccupato di risolvere il problema dei Fremen.»

«Che cosa vuole, dunque, l’Imperatore?» chiese il Barone. «Non è rimasto più di un pugno di Fremen, su Arrakis. Il deserto meridionale è inabitabile e il deserto settentrionale è continuamente battuto dalle mie pattuglie.»

«Chi ha detto che il deserto meridionale è inabitabile?»

«Il vostro stesso planetologo l’ha detto, caro Conte.»

«Ma il dottor Kynes è morto.»

«Ah, sì… che sfortuna.»

«I territori meridionali sono stati sorvolati» disse il Conte. «Ci sono tracce di vita vegetale.»

«Allora la Gilda ha accettato di esplorare Arrakis dall’alto?»

«Voi lo sapete fin troppo bene, Barone, che l’Imperatore non può legalmente far sorvegliare Arrakis.»

«E io neppure» replicò il Barone. «Chi ha fatto quel volo?»

«Un… un contrabbandiere.»

«Qualcuno vi ha mentito, Conte. I contrabbandieri non possono volare sui territori meridionali, non più degli uomini di Rabban. Tempeste e tutto il resto… I segnalatori per la navigazione sono abbattuti prima ancora di essere installati.»

«Discuteremo un’altra volta dei vari tipi di tempesta.»

Ahhh, pensò il Barone. «Ho forse riferito qualcosa di sbagliato?»

«Se voi già pensate agli errori, come potrete difendervi, poi?» ribatté il Conte.

Sta tentando deliberatamente di farmi infuriare, pensò il Barone. Respirò a fondo due volte per calmarsi. Sentì l’acre odore del suo stesso sudore e all’improvviso le cinghie dei sospensori, sotto il vestito, sembrarono causargli un folle prurito.

«L’Imperatore non può inalberarsi per la morte della concubina e del ragazzo» replicò il Barone. «Sono fuggiti nel deserto, in piena tempesta.»

«Sì, capita sempre qualche incidente opportuno» fu d’accordo il Conte.

«Non mi piace il vostro tono» dichiarò il Barone.

La collera è una cosa, la violenza un’altra» disse il Conte. «Permettetemi di mettervi in guardia: se dovesse accadermi qualche sfortunato incidente mentre mi trovo qui, tutte le Grandi Case sapranno ciò che voi avete fatto su Arrakis. È molto tempo che sospettano il modo in cui voi conducete i vostri affari.»

«L’unico affare recente che io ricordi» fece il Barone, «è il trasporto di due legioni di Sardaukar su Arrakis.»

«Credete veramente di poter minacciare l’Imperatore in questo modo?»

«Non ci penso neppure!»

Il Conte sorrise. «Troveremmo sempre qualche ufficiale dei Sardaukar pronto a confessare di aver agito di testa sua perché voleva massacrare quella vostra ciurmaglia, i Fremen.»

«Molti potrebbero dubitare di una simile confessione» replicò il Barone, ma la minaccia l’aveva sconvolto: Sono veramente così devoti all’Imperatore questi Sardaukar? si chiese.

«L’Imperatore vuol controllare i vostri libri contabili» continuò il Conte.

«Quando lo vorrà.»

«Voi non avete… uhmmm… nessuna obiezione?»

«Nessuna. Il mio direttorato CHOAM può sfidare qualsiasi indagine. E pensò: Lasciamo che mi accusi falsamente, che si esponga in pubblico. E io dirò a tutti, come Prometeo: «Guardatemi, sono vittima di un’ingiustizia!» Allora, che lanci pure qualsiasi altra accusa contro di me, anche un’accusa vera, provata. Le Grandi Case non gli crederanno più!

«Non c’è alcun dubbio che i vostri libri possano sfidare qualsiasi indagine» mormorò il Conte.

«Perché l’Imperatore ci tiene tanto a sterminare i Fremen?» domandò il Barone.

«Volete cambiare argomento, non è vero?» Il Conte alzò le spalle. «Sono i Sardaukar, non l’Imperatore. Ad essi piace uccidere… e odiano lasciarsi alle spalle un lavoro incompiuto.»

Tenta di spaventarmi? Vuol ricordarmi di avere al suo fianco questi assassini bramosi di sangue? si chiese il Barone.

«Un certo numero di morti ha sempre fatto parte degli affari» disse il Barone. «Ma bisogna fissare un limite. Qualcuno deve pur sopravvivere per occuparsi della spezia.»

Il Conte scoppiò a ridere: «Sperate forse di addomesticare i Fremen?»

«Non sono mai stati abbastanza numerosi da preoccuparmi. Ma il massacro ha creato molta inquietudine nel resto della popolazione. E la tensione è giunta a tal punto, caro Fenring, che sto pensando a un’altra soluzione per il problema di Arrakis. E devo confessare che è stato lo stesso Imperatore a ispirarmi.»

«Ah?»

«Vedete, Conte, è il pianeta prigione dell’Imperatore che m’ispira, Salusa Secundus.»

Il Conte lo fissò, con un lampo negli occhi. «Quale rapporto può esistere mai fra Salusa Secundus e Arrakis?»

Il Barone percepì la tensione nel Conte e rispose: «Finora, nessun rapporto».

«Finora?»

«Voi ammetterete con me che il fatto di utilizzare Arrakis come pianeta prigione consentirebbe di sviluppare il lavoro in modo notevole.»

«Voi prevedete un aumento di prigionieri?»

«Vi sono stati disordini» ammise il Barone. «Ho dovuto prendere misure assai severe, Fenring. Dopo tutto, voi sapete il prezzo che ho dovuto pagare a quella dannata Gilda per il trasporto delle nostre forze su Arrakis. Devo ben procurarmi questa somma in qualche modo.»

«Vi sconsiglio di usare Arrakis come pianeta prigione senza il permesso dell’Imperatore.»

«Certamente no» disse il Barone, e si chiese il perché di questo gelo improvviso nella voce del Conte.

«E un’altra cosa» riprese il Conte. «Abbiamo saputo che il Mentat del Duca Leto, Thufir Hawat, non è morto, ma lavora per voi.»

«Non mi sentivo proprio di sprecarlo così…»

«Quindi, voi avete mentito al comandante dei Sardaukar, quando avete detto che Hawat era morto?»

«Un’innocente bugia, mio caro Fenring. Non ho avuto abbastanza stomaco per discutere con quell’uomo.»

«Era Hawat il vero traditore?»

«Oh, Dio, no! Era il falso dottore.» Il Barone si asciugò il copioso sudore sul collo. «Dovete capirmi, Fenring, io non avevo più un Mentat. Voi lo sapete bene. Non mi era mai accaduto. Ero del tutto disorientato.»

«Come siete riuscito a convincere Hawat a cambiar partito?»

«Il suo Duca era morto.» Il Barone si sforzò di sorridere. «Non c’è niente da temere da Hawat, mio caro Conte. La carne del Mentat è stata impregnata di un veleno residuo. Gli somministriamo un antidoto ad ogni pasto. Senza l’antidoto, il veleno entra subito in azione… Hawat morirebbe entro pochi giorni.»

«Toglietegli l’antidoto» intimò il Conte.

«Ma mi è utile!»

«Sa troppe cose che nessun uomo vivo dovrebbe conoscere.»

«Voi avete detto che l’Imperatore non ha paura di esporsi.»

«Non scherzate con me, Barone!»

«Quando vedrò questo ordine col sigillo imperiale, obbedirò» dichiarò il Barone. «Ma rifiuto di sottomettermi a un vostro capriccio.»

«Pensate che sia un capriccio?»

«Che altro potrebbe essere? L’Imperatore, anche lui, ha parecchi obblighi verso di me, Fenring. L’ho sbarazzato di quell’ingombrante Duca.»

«Con l’aiuto di qualche Sardaukar.»

«Quale altra Casa avrebbe trovato, l’Imperatore, che gli fornisse le uniformi per nascondere la sua mano in questa faccenda?»

«Anche lui si è posto la domanda, Barone, ma in modo leggermente diverso.»

Il Barone studiò Fenring, il volto rigido, la tensione, il perfetto controllo di sé. «Ah, su» proseguì, «l’Imperatore non crederà di potermi attaccare conservando il segreto’?»

«Spera che non sia necessario.»

«L’Imperatore non può credere che io lo minacci!» Il Barone diede sfogo alla collera e all’amarezza. Lascia pure che mi faccia un torto su questo punto! Potrei salire sul trono senza cessare un solo istante di protestare la mia innocenza!

La voce del Conte replicò, asciutta e lontana: «L’Imperatore crede a quello che gli dicono i sensi».

«Oserebbe l’Imperatore accusarmi di tradimento davanti all’intero Consiglio del Landsraad?» Il Barone trattenne il fiato, sperando che fosse così.

«L’Imperatore non ha bisogno di osare.»

Il Barone si girò di scatto, ondeggiando sui sospensori, per nascondere la sua espressione. Potrebbe accadere mentre sono ancora in vita! pensò. Imperatore! Che mi accusi, dunque! Poi, basterà un po’ di coercizione, di corruzione. Le Grandi Case chiameranno aiuto e si precipiteranno tutte sotto il mio stendardo come una folla di contadini in cerca di un rifugio. Quello che temono più di ogni altra cosa sono i Sardaukar dell’Imperatore, che le aggrediscano una alla volta.

«L’Imperatore spera sinceramente di non dovervi mai accusare di tradimento» disse il Conte.

Il Barone trovò difficile cancellare ogni ironia dalla propria voce e permettersi solo un tono dolente, ma ci riuscì. «Sono sempre stato un suddito fedele. Queste parole mi feriscono oltre ogni dire.»

«Uhmmmmmmmm» fece il Conte.

Il Barone continuò a voltare la schiena al Conte, e annuì. Poco dopo, riprese: «È tempo di recarci all’arena».

«Ma certamente» disse il Conte.

Uscirono dalla zona di silenzio e, fianco a fianco, s’incamminarono verso la folla delle Case Minori, sull’altro lato del salone. Una campana batté lentamente alcuni rintocchi in qualche punto del castello. Mancavano venti minuti ai giochi.

«Le Case Minori vi aspettano perché voi le guidiate» disse il Conte, accennando col mento.

Doppio senso… pensò il Barone. Doppio senso.

Alzò lo sguardo verso i nuovi talismani che ornavano i due lati dell’ingresso principale: la testa del toro e il ritratto a olio del Vecchio Duca Atreides, padre del defunto Duca Leto. Questa visione lo riempì di una strana premonizione, e si chiese quali pensieri avessero mai ispirato al Duca Leto quand’erano appesi nelle sale di Caladan e poi in quelle di Arrakis… l’arrogante bravata del padre e il toro che lo aveva ucciso.

«L’umanità ha… ah… solo una… uhmmmm… scienza» disse il Conte, mentre lasciavano il salone, precedendo la folla che si riuniva dietro di loro. Emersero nella sala d’attesa, un locale assai stretto con alte finestre e un pavimento piastrellato bianco e porpora.

«E, qual è?» chiese il Barone.

«E la… mmmh… scienza del… aah… malcontento» spiegò il Conte.

Dietro a loro, la gente delle Case Minori, dai volti docili come montoni, rise come si conveniva, ma l’allegria suonò falsa, mescolandosi all’improvviso rimbombo dei motori che li investì nell’istante in cui i paggi spalancarono le porte verso l’esterno, rivelando la fila di macchine e gli stendardi che sventolavano.

Il Barone alzò la voce per sovrastare il frastuono improvviso e disse: «Mi auguro che l’esibizione di mio nipote, oggi, non vi deluda, Conte Fenring».

«Ahhh… mi aspetto… uhmmmm… veramente molto da… ah… questo spettacolo» replicò il Conte. «In un… uhmmmm… proces verbal… ah… bisogna sempre tener… uhmmmm… conto… mmmmh… dell’origine.»

Inciampando nel primo gradino, il Barone riuscì a dissimulare la sorpresa. Proces verbal! Il rapporto di un crimine contro l’Impero!

Ma il Conte scoppiò a ridere, battendo con la mano sul braccio del Barone per farlo apparire uno scherzo.

Per tutta la strada verso l’arena, tuttavia, il Barone tacque, sprofondato nei cuscini della sua macchina corazzata, lanciando occhiate furtive al Conte seduto accanto a lui, chiedendosi perché questo lacché dell’Imperatore avesse ritenuto necessario pronunciare quella battuta davanti alle Case Minori. Era ovvio che Fenring faceva raramente qualcosa d’inutile, come non usava mai due parole al posto di una o non si accontentava di un solo significato per ogni frase.

Ebbe la risposta soltanto quand’ebbero preso posto nella loggia dorata, sull’arena triangolare, tra gli stendardi e la folla che gremiva le scalinate. I corni squillarono e il Conte accostò la bocca al suo orecchio: «Mio caro Barone, voi saprete, vero, che l’Imperatore non ha sanzionato ufficialmente la vostra scelta dell’erede?»

Al Barone sembrò di essere sprofondato all’improvviso per lo choc, in un cono di silenzio. Fissò Fenring e a stento si accorse della sua Lady che si avvicinava tra i cordoni di guardie per raggiungerli nella loggia.

«Questa è la vera ragione della mia presenza» proseguì il Conte. «L’Imperatore vuole che io gli dica se voi avete scelto un valido successore. Non c’è niente di meglio dell’arena per rivelare un individuo, non è vero?»

«L’Imperatore mi ha garantito la libera scelta del mio erede!» ringhiò il Barone.

«Vedremo» disse Fenring, e si voltò per accogliere la moglie. Lady Fenring si sedette, sorrise al Barone, poi rivolse la sua attenzione alla sabbia dell’arena dove Feyd-Rautha era comparso, in maglia aderente e corsetto, il guanto nero e il coltello lungo nella destra, il guanto bianco e il coltello corto nella sinistra.

«Bianco per il veleno, nero per la purezza» dichiarò Lady Fenring. «Che usanza curiosa, non è vero, amore mio?»

«Uhmmmm» fece il Conte.

Acclamazioni si alzarono dalla galleria di famiglia e Feyd-Rautha si arrestò per rispondere, alzando gli occhi e scrutando quei volti: cugini e cugine, fratellastri, concubine e parenti fuori freyn, una confusione di bocche rosate che vociferavano in un ondeggiare multicolore di vesti e di stendardi.

Feyd-Rautha si rese conto che quei volti avrebbero manifestato uguale avidità contemplando sia il suo sangue sia quello del gladiatore schiavo. Non c’era alcun dubbio sul risultato del combattimento, naturalmente. C’era soltanto l’apparenza del pericolo, non la sostanza. Tuttavia…

Feyd-Rautha alzò i coltelli verso il sole, salutando i tre lati dell’arena nell’antica maniera. La lama corta nel guanto bianco (bianco, il segno del veleno) si calò per prima nel fodero. Poi fu la volta della lama lunga nel guanto nero… la lama pura, ora impura, la sua arma segreta per trasformare quel giorno in una vittoria personale: il veleno era sulla lama nera.

Gli bastò un attimo per regolare lo scudo, e, immobile, percepì la tensione della pelle sulla fronte, che gli garantiva una perfetta difesa.

Era il suo spettacolo, e Feyd-Rautha cominciò ad orchestrarlo con mano da maestro. Accennò col capo ai suoi manipolatori e distrattori, verificando con un’occhiata il loro equipaggiamento, le catene dentate, aguzze e scintillanti, gli artigli e gli uncini ornati di festoni azzurri.

Poi voltò il capo verso i musicisti.

La lenta marcia, antica e solenne, s’innalzò nell’arena e Feyd-Rautha, alla testa della sua truppa, avanzò fin sotto al palco dello zio per rendergli omaggio. Afferrò la chiave cerimoniale che gli fu lanciata.

La musica cessò.

Nell’improvviso silenzio, Feyd-Rautha fece due passi indietro, alzò la chiave e gridò: «Dedico questa verità a…» S’interruppe, indovinando il pensiero che aveva folgorato suo zio: Questo giovane pazzo vuol dedicare la verità a Lady Fenring, contro tutto e tutti, e provocherà uno scandalo!

«…a mio Zio, il mio patrono, il Barone Vladimir Harkonnen!» urlò Feyd-Rautha.

E sorrise, cogliendo il sospiro di suo zio.

I musicisti intonarono una marcia più rapida e Feyd-Rautha condusse nuovamente i propri uomini attraverso l’arena, verso la porta della prudenza attraverso la quale passava soltanto chi mostrava lo speciale nastro d’identificazione. Feyd-Rautha si vantava di non aver mai usato quella porta e di aver fatto ricorso assai raramente ai distrattori. Ma, quel giorno, era piacevole pensare di averli a sua disposizione… i piani speciali a volte comportano rischi speciali.

Il silenzio calò nuovamente sull’arena.

Feyd-Rautha si voltò e fronteggiò la grande porta rossa dalla quale sarebbe emerso il gladiatore.

Il gladiatore speciale.

Il piano escogitato da Thufir Hawat era mirabilmente semplice e diretto, pensò Feyd-Rautha. Lo schiavo non sarebbe stato drogato… e questo era il pericolo. Ma una parola chiave era stata impressa nell’inconscio dell’uomo, per bloccarlo nell’istante cruciale. Feyd-Rautha ripeté più volte, dentro di sé, la parola chiave: «Canaglia!» Agli occhi degli spettatori tutto si sarebbe svolto come se qualcuno fosse riuscito a introdurre nell’arena uno schiavo non drogato, per uccidere il na-Barone. E le prove schiaccianti, accuratamente preparate, avrebbero indicato nel Maestro degli Schiavi il colpevole.

Un sordo ronzio si alzò dai servomotori della grande porta rossa, la quale cominciò ad aprirsi.

Feyd-Rautha concentrò tutta la sua attenzione sulla porta. Il primo momento era il più critico. Nel preciso istante in cui il gladiatore appariva, un occhio esercitato avrebbe colto, fulmineamente, quant’era necessario sapere. Si dava per scontato che tutti i gladiatori fossero sotto l’influenza dell’elacca, pronti a morire in combattimento… ma bisognava osservare il modo in cui brandivano il coltello e calavano la guardia, per rendersi conto se erano coscienti della folla, oppure no. La semplice inclinazione della testa poteva fornire l’indizio più importante per una finta o un contrattacco.

La porta rossa si spalancò.

Ne uscì a passo di carica un uomo alto e muscoloso, la testa rasata e gli occhi simili a pozzi tenebrosi. La sua pelle era del colore rosso carota che conferiva l’elacca, ma Feyd-Rautha sapeva che era dipinta. Lo schiavo indossava una calzamaglia verde e la cintura rossa di un semiscudo: la freccia, sulla cintura, era inclinata a sinistra, indicando che solo il lato sinistro dello schiavo era schermato. Impugnava il coltello come una spada, leggermente puntato in avanti, al modo di un combattente sperimentato. Lentamente avanzò verso il centro dell’arena, presentando il fianco schermato a Feyd-Rautha e ai suoi uomini riuniti accanto alla porta della prudenza.

«Non mi piace il suo aspetto» disse uno degli alabardieri di Feyd-Rautha. «Siete certo che sia drogato, signore?

«Ne ha il colore» fece Feyd-Rautha.

«Tuttavia, è in posizione di combattimento» insisté un altro degli uomini.

Feyd-Rautha avanzò di due passi sulla sabbia e studiò il suo avversario.

«Che cosa si è fatto al braccio?» disse uno dei distrattori.

Feyd-Rautha fissò affascinato il graffio sanguinante sull’avambraccio sinistro dell’uomo. Poi vide la mano che gli indicava un disegno che l’uomo si era tracciato col sangue sul fianco sinistro della calzamaglia verde. Un profilo stilizzato, ancora umido: un falco.

Un falco!

Feyd-Rautha guardò dritto nei suoi occhi tenebrosi e colse un lampo di eccitazione.

È uno dei soldati del Duca Leto che abbiamo catturato su Arrakis! pensò. Non un semplice gladiatore! Rabbrividì da capo a piedi e si chiese, angosciato, se Hawat non avesse in realtà un altro piano per l’arena, un trucco ancora più raffinato… E anche in questo caso il Maestro degli Schiavi sarebbe apparso l’unico colpevole!

Il capo dei manipolatori parlò all’orecchio di Feyd-Rautha: «Non mi piace lo sguardo di quell’uomo, signore. Lasciate che gli pianti una o due picche sul braccio che impugna il coltello, per metterlo alla prova».

«Pianterò io stesso le picche» dichiarò Feyd-Rautha. Afferrò un paio di lunghe aste uncinate, le sollevò, saggiandone l’equilibrio. Di solito anche le picche erano avvelenate… ma non questa volta, e questo avrebbe potuto costar la vita al capo dei manipolatori. Ma tutto ciò faceva parte del piano.

«Uscirai come un eroe da questo duello» gli aveva detto Hawat. «Avrai ucciso il tuo gladiatore in un combattimento da uomo a uomo, nonostante il tradimento. Il Maestro degli Schiavi sarà giustiziato e il tuo uomo prenderà il suo posto.»

Feyd-Rautha avanzò di altri cinque passi nell’arena, sempre osservando lo schiavo. Sapeva che gli esperti, sui palchi sopra di lui, già avevano capito che c’era qualcosa di sbagliato. Il gladiatore aveva la pelle del giusto colore per un drogato, ma era immobile e non tremava. Gli intenditori avrebbero bisbigliato tra loro: «Vedi come sta in guardia? Dovrebbe agitarsi… attaccare o fuggire. Vedi come conserva le forze? Come aspetta? Non dovrebbe aspettare».

Feyd-Rautha sentì crescere la propria eccitazione. Tradimento o no, disse tra sé, riuscirò ad abbatterlo. Il veleno si trova nel mio coltello lungo, oggi, e non in quello corto. Neppure Hawat lo sa.

«Ehi, Harkonnen!» gridò lo schiavo. «Sei pronto a morire?»

Un silenzio mortale calò sull’arena: gli schiavi non lanciavano mai la sfida!

Ora Feyd-Rautha vide chiaramente gli occhi del gladiatore, la gelida ferocia della disperazione. L’uomo era sempre immobile, agile e scattante, i muscoli pronti per la vittoria. Il messaggio segreto di Hawat era passato da schiavo a schiavo e l’aveva raggiunto: «Avrai la possibilità di uccidere il na-Barone». Finora, il piano funzionava alla perfezione.

Un sorriso aleggiò per un attimo sulle labbra di Feyd-Rautha. Alzò le picche, pronto a cogliere il trionfo che il gladiatore, col suo comportamento, gli garantiva.

«Hai! Hai!» lo sfidò lo schiavo e fece due passi in avanti, lentamente.

Nessuno tra il pubblico può sbagliarsi, ora, pensò Feyd-Rautha.

Questo schiavo avrebbe dovuto essere quasi paralizzato dal terrore indotto dalla droga. Ogni suo movimento avrebbe dovuto rivelare la consapevolezza che non c’era via di scampo, per lui… che in nessun modo avrebbe potuto vincere. Il suo cervello avrebbe dovuto contorcersi al ricordo delle innumerevoli storie che circolavano sui diversi veleni che il na-Barone sceglieva per lo stocco nel guanto bianco. Il na-Barone non concedeva mai una morte rapida, si dilettava a esibire i veleni più rari, poteva restare a lungo nell’arena, illustrando i più interessanti effetti sulle vittime in preda alle contorsioni. C’era paura in questo schiavo, sì… ma non terrore.

Feyd-Rautha sollevò in alto le picche, accennò con la testa, quasi un saluto.

Il gladiatore attaccò.

Le sue finte e le sue parate erano le migliori che Feyd-Rautha avesse mai visto. Un colpo laterale mancò per una frazione di secondo di troncare i tendini della gamba sinistra del na-Barone.

Feyd-Rautha balzò indietro, quasi danzando, lasciando una picca conficcata nell’avambraccio destro dello schiavo: gli uncini erano completamente piantati nella carne e l’uomo non avrebbe potuto strapparli via senza recidersi i tendini.

Grida soffocate si alzarono dalle tribune.

E Feyd-Rautha si sentì invaso dall’esaltazione.

Sapeva quello che provava suo zio in quell’istante, seduto lassù accanto ai Fenring, gli osservatori della Corte Imperiale. In questo combattimento non poteva esserci alcuna interferenza. Davanti a simili testimoni ogni formalità doveva essere rispettata. E il Barone avrebbe interpretato gli avvenimenti, giù nell’arena, soltanto in un modo: una minaccia contro la sua persona.

Lo schiavo indietreggiò, stringendo il coltello fra i denti e allacciandosi la picca al braccio con la banderuola. «Non sento il tuo ago!» gridò. Nuovamente impugnò il coltello e partì all’attacco, esponendo il fianco sinistro, il corpo piegato all’indietro per proteggersi il più possibile col mezzo scudo.

Anche questa azione non sfuggì alle tribune. Grida acute si alzarono dai palchi familiari. I manipolatori di Feyd-Rautha lo chiamarono, offrendogli il proprio aiuto.

Feyd-Rautha li invitò bruscamente a ritirarsi.

Sarà uno spettacolo mai visto, pensò. Niente massacri addomesticati in cui ammirare lo stile tranquillamente seduti in poltrona. No… sarà qualcosa da torcer loro le budella. Quando sarò Barone tutti si ricorderanno di questo giorno e a causa di questo giorno avranno paura di me.

Il gladiatore continuò ad avanzare come un granchio e Feyd-Rautha si ritirò lentamente. La sabbia strideva sotto i suoi piedi. Sentì l’ansimare dello schiavo, l’odore acre del proprio sudore e un vago sentore di sangue nell’aria.

Continuò a indietreggiare, curvando a destra e preparando la seconda picca. Lo schiavo si preparò al balzo. Sembrò che Feyd-Rautha inciampasse: qualcuno urlò dalle tribune.

Ancora una volta lo schiavo attaccò.

Dio! Che avversario! pensò Feyd-Rautha, schivando il fulmineo attacco. Soltanto l’impetuosità della sua giovinezza lo aveva salvato, ma aveva lasciato la seconda picca piantata nel muscolo deltoide destro dell’avversario.

Applausi frenetici piovvero dalle tribune.

Ora mi acclamano, pensò Feyd-Rautha. Urla selvagge si alzavano, come Hawat aveva previsto. Non avevano mai applaudito così un campione familiare. E ricordò con una punta di ferocia quello che Hawat gli aveva detto: «Sarà poi più facile essere terrorizzati da un nemico che si ammira».

Rapidamente batté in ritirata verso il centro dell’arena dove tutti l’avrebbero visto chiaramente. Sguainò la lama lunga, si rannicchiò su se stesso e attese.

Lo schiavo si arrestò per il tempo sufficiente ad allacciarsi la seconda picca al braccio, poi caricò.

Che la famiglia mi guardi! sogghignò Feyd-Rautha. Io sono il loro nemico. Che pensino sempre a me come mi vedono ora!

Sguainò la lama corta.

«Non ho paura di te, porco Harkonnen!» urlò il gladiatore. «Non puoi torturare un morto. Posso uccidermi con la mia stessa lama prima che i manipolatori riescano soltanto a sfiorare la mia pelle. E tu sarai morto accanto a me!»

Feyd-Rautha sorrise. Puntò la lama lunga avvelenata. «Prova questa» disse, e fintò con la lama corta.

Lo schiavo fece saltare il suo coltello da una mano all’altra e si girò di scatto, parando e fintando per agganciare la lama corta del na-Barone: quella stretta dal guanto bianco, che avrebbe dovuto essere avvelenata.

«Ti ucciderò, Harkonnen!» ringhiò lo schiavo.

Si precipitarono l’uno contro l’altro attraverso l’arena. Lo scudo di Feyd-Rautha sfiorò il mezzo scudo dello schiavo, con un crepitio azzurro e un forte sentore di ozono.

«Muori del tuo stesso veleno!» ruggì lo schiavo.

Afferrò il polso guantato di bianco di Feyd-Rautha e lo piegò violentemente contro di lui, puntandogli la lama corta sul petto.

Che tutti vedano! ansimò Feyd-Rautha. Calò un fendente con la lama lunga, che rimbalzò contro la picca legata al braccio dello schiavo.

Ebbe un attimo di disperazione. Non aveva pensato che le sue picche potessero rappresentare un vantaggio per l’avversario: in realtà erano un altro scudo. E la forza di quel gladiatore! La lama corta si avvicinava inesorabilmente e Feyd-Rautha si rese conto all’improvviso che un uomo poteva essere ucciso anche da una lama non avvelenata.

«Canaglia!» ringhiò.

Alla parola chiave i muscoli del gladiatore si rilassarono per un breve istante. Questo bastò a Feyd-Rautha: trovò lo spazio sufficiente per la lama lunga: la punta avvelenata guizzò e tracciò una linea scarlatta sul petto dello schiavo. Il veleno agì fulmineamente. L’uomo, in preda al dolore, si staccò da lui e brancolò all’indietro.

Ora, che la cara famiglia guardi! pensò Feyd-Rautha. Lascia che tutti credano che questo schiavo fosse sul punto di piantarti in corpo il pugnale avvelenato. Che si domandino come un gladiatore sia potuto entrare nell’arena pronto a un simile tentativo. E che non sappiano mai con certezza quale delle tue mani porta il veleno.

Immobile, in silenzio, Feyd-Rautha osservò lo schiavo. L’uomo arrancava affannosamente. Ognuno avrebbe potuto leggere nel suo viso la consapevolezza della morte. Lo schiavo sapeva quel che gli era stato fatto e il modo. Il veleno era sulla lama sbagliata.

«Tu!» rantolò.

Feyd-Rautha si tirò indietro, per fare spazio alla morte. La droga paralizzante contenuta nel veleno non aveva ancora completato il suo effetto, ma i movimenti sempre più lenti dell’uomo indicavano il suo progredire.

Lo schiavo barcollò in avanti come guidato da un filo… trascinò un piede, poi l’altro. E ogni passo era l’ultimo nel suo particolare universo. Il coltello sussultava tra le sue mani.

«Un giorno… uno di noi… ti farà… a pezzi…» balbettò.

Una piccola smorfia triste gli deformò la bocca. Cadde seduto, si abbatté al suolo, rigido e rotolò lontano da Feyd-Rautha, il volto all’ingiù.

Feyd-Rautha avanzò nell’arena silenziosa, infilò un piede sotto il gladiatore e lo girò sulla schiena perché tutti, dalle tribune, potessero contemplargli le violente contorsioni sul viso. Ma il corpo del gladiatore, una volta girato, rivelò il suo stesso pugnale conficcato nel petto.

Nonostante la frustrazione, Feyd-Rautha provò uno slancio di ammirazione per lo sforzo compiuto dallo schiavo per vincere la paralisi e piantarsi il coltello nel cuore. E nello stesso tempo capì che c’era veramente qualcosa da temere.

È terrificante ciò che trasforma un uomo in un superuomo, pensò.

Mentre si concentrava su questo pensiero, Feyd-Rautha prese coscienza del clamore esploso nelle tribune e nei palchi. Tutti applaudivano e urlavano intorno a lui freneticamente.

Feyd-Rautha alzò la testa e li guardò.

Tutti battevano le mani, fuorché il Barone il quale, sprofondato nella poltrona, lo contemplava in silenzio. Il Conte e la sua Lady lo stavano fissando con un gelido sorriso.

Il Conte Fenring si voltò verso la sua Lady: «Ahhh… uhm… un giovanotto… uhmmm… pieno di risorse. Non è vero… uhmmmm… mia cara?»

«I suoi… ahhh… riflessi sono assai rapidi» disse lei.

Il Barone lanciò un’occhiata a lei e al Conte e riportò la sua attenzione sull’arena. E dire che qualcuno è riuscito ad arrivare così vicino a uno dei miei! pensò. La rabbia, ora, prendeva il posto della paura. Farò arrostire a fuoco lento il Maestro degli Schiavi, questa notte… e se il Conte e la sua Lady hanno avuto una mano in questo…

Per Feyd-Rautha, la conversazione sul palco del Barone era qualcosa di remoto, le voci scomparivano nel battito ritmico d’innumerevoli piedi sulle tribune e nel coro di urla:

«Testa! Testa! Testa!»

Il Barone si accigliò, vedendo il modo in cui Feyd-Rautha lo guardava. Lentamente, controllando con difficoltà la sua rabbia, il Barone fece un gesto con la mano, indicando al nipote il corpo immobile sulla sabbia. Dai al ragazzo la testa… se l’è guadagnata, denunciando il Maestro degli Schiavi!

Feyd-Rautha vide il gesto di consenso, e disse tra sé: Crede di onorarmi. Che veda dunque ciò che ne penso!

I manipolatori si avvicinavano, stringendo i coltelli sega per gli onori. Con un gesto imperativo li arrestò: li vide esitare, e ripeté l’ordine. Credono di onorarmi con una testa! pensò ancora. Si curvò, incrociò le mani del gladiatore intorno all’impugnatura del coltello che gli sporgeva dal petto, poi estrasse il coltello e lo lasciò tra quelle mani inerti.

Gli bastò un attimo. Poi si raddrizzò e fece un cenno ai suoi manipolatori. «Seppellite questo schiavo intatto, col suo coltello tra le mani» ordinò. «Quest’uomo se lo è guadagnato.»

Nel palco dorato il Conte si piegò verso il Barone: «Un grande gesto» disse. «Autentica bravura. Vostro nipote non ha soltanto coraggio. Ha stile.»

«Insulta la folla, rifiutando la testa» borbottò il Barone.

«Niente affatto» replicò Lady Fenring. Si voltò e contemplò la folla delle tribune: così facendo, mostrò al Barone l’adorabile gioco dei suoi muscoli, la linea del collo, snella ed elegante come quella di un adolescente.

«Il gesto di vostro nipote è molto apprezzato» disse Lady Fenring.

Il Barone guardò e vide che la folla, effettivamente, aveva correttamente interpretato il gesto di Feyd-Rautha. Fino alle ultime file, tutti fissavano affascinati il corpo intatto del gladiatore che veniva trasportato fuori dell’arena.

La folla impazziva, urlando, pestando i piedi e dandosi violenti colpi sulle spalle.

Il Barone disse in tono desolato: «Dovrò dare una festa. Non è possibile congedare il popolo senza che abbia speso tutte le sue energie. È necessario che vedano quanto io partecipi alla loro gioia». Fece un gesto alla sua guardia e un servitore sopra di loro calò una banderuola sul palco: una, due, tre volte… il segnale della festa.

Feyd-Rautha attraversò l’arena fin sotto il palco dorato; i suoi coltelli erano nuovamente nel fodero, le braccia gli pendevano inerti sui fianchi: «Una festa Zio?» domandò.

Il frastuono d’innumerevoli voci si attenuò, man mano la gente si accorgeva del colloquio e cessò del tutto.

«In tuo onore, Feyd!» esclamò il Barone. Una volta ancora la banderuola si abbassò.

Sull’altro lato dell’arena ogni barriera era stata tolta e numerosi giovani stavano balzando sulla sabbia, in direzione di Feyd-Rautha.

«Avete fatto abbassare gli scudi, Barone?» chiese il Conte.

«Nessuno farà del male al ragazzo» disse il Barone. È un eroe.

I primi giovani raggiunsero Feyd-Rautha, lo sollevarono sulle loro spalle e lo portarono in trionfo intorno all’arena.

«Questa notte potrebbe passeggiare disarmato e senza scudo attraverso i quartieri più poveri di Harko» dichiarò il Barone. «Gli offrirebbero fin l’ultimo tozzo di cibo e l’ultimo sorso del loro vino, per l’onore della sua compagnia.»

Il Barone si alzò faticosamente, regolando il suo peso sui sospensori. «Mi scuserete, spero. Vi sono alcune faccende che richiedono la mia immediata attenzione. Le guardie vi scorteranno al castello.»

Il Conte si alzò a sua volta e s’inchinò. «Certamente, Barone. Parteciperemo volentieri alla festa. Non ho… uhmmmm… non ho mai visto una festa degli Harkonnen.»

«Sì» disse il Barone. «La festa.» Si voltò, e circondato dalle guardie uscì dal palco.

Un capitano delle guardie s’inchinò davanti al Conte Fenring: «I vostri ordini, mio Signore?»

«Aspettiamo… uhmmm… che la gente sia… ahhhh… sfollata» disse il Conte.

«Sì, mio Signore.» Il capitano s’inchinò e fece tre passi indietro.

Il Conte Fenring si rivolse alla sua Lady, parlando nel loro linguaggio sussurrato: «Hai visto anche tu, non è vero?»

Nella stessa lingua mugolante lei rispose: «Il ragazzo sapeva che il gladiatore non sarebbe stato drogato. Ha avuto un attimo di paura, sì, ma non di sorpresa».

«Tutto lo spettacolo è stato preparato» disse.

«Senza alcun dubbio.»

«C’è puzza di Hawat.»

«Proprio così» disse lei.

«Avevo chiesto al Barone che eliminasse Hawat.»

«Era un errore, mio caro.»

«Ora lo capisco.»

«Gli Harkonnen potrebbero avere un nuovo Barone tra non molto.»

«Se ciò è nei piani di Hawat.»

«Questo richiede un attento esame» replicò Lady Fenring.

«Il giovane sarà più facile da controllare.»

«Per noi… dopo questa notte.»

«Non prevedi nessuna difficoltà a sedurlo, mia piccola gallinella?»

«No, amor mio. Hai visto come mi ha guardato?»

«Sì, e ora capisco perché ci è indispensabile questa linea genetica.»

«Proprio così. Ed è ovvio che è necessario esercitare su di lui un controllo completo. Pianterò nel più profondo del suo Io le frasi pranabindu che lo piegheranno ai nostri voleri.»

«Ce ne andremo il più presto possibile… non appena ne sarai sicura» disse il Conte.

Lady Fenring tremò. «Certamente. Non voglio dare alla luce un figlio in questo orribile luogo.»

«Tutto questo noi lo facciamo in nome dell’umanità» replicò il Conte.

«La tua è la parte più facile.»

«Tuttavia, ho dovuto vincere alcuni antichi pregiudizi… piuttosto primitivi, sai?»

«Povero caro» lei gli disse, accarezzandogli una guancia. «E tuttavia… è l’unico modo di preservare la linea genetica.»

Lui replicò, seccamente: «So perfettamente quello che facciamo».

«Non falliremo» dichiarò Lady Fenring.

«Il senso di colpa incomincia dal timore di fallire.»

«Nessun senso di colpa» replicò lei. «Una influenza ipnotica nella psiche di quel Feyd-Rautha; suo figlio nel mio seno. E poi… ce ne andremo.»

«Suo zio» disse il Conte. «Hai mai visto un essere più contorto?»

«È un mostro di crudeltà… Ma il nipote potrebbe rivelarsi peggiore.»

«Grazie a suo zio. Quando penso a questo ragazzo e a quello che sarebbe potuto diventare con una diversa educazione… Quella degli Atreides, per esempio.»

«È triste» disse Lady Fenring.

«Avremmo potuto salvarli tutti e due, lui e il giovane Atreides» riprese il Conte. «Il giovane Paul, da quanto ho sentito dire, era un ragazzo ammirevole, una combinazione perfetta di eredità genetica e di educazione.» Scosse la testa. «Ma è inutile versare lagrime per l’aristocrazia della sfortuna.»

«È una massima Bene Gesserit» disse Lady Fenring.

«Voi avete massime per qualsiasi cosa» replicò il Conte.

«Questa ti piacerà. Essa dice: ’Non considerare morto un essere umano finché non hai visto il suo corpo. E anche allora, potresti sbagliarti’.»

In «Tempo di riflessione», Muad’Dib ci dice che la sua vera educazione ebbe inizio ai suoi primi contatti con gli imperativi di Arrakis. Imparò allora a piantar pali nella sabbia per valutare le condizioni del tempo, e il linguaggio del vento che gli pungeva la pelle con mille aghi aguzzi. Conobbe allora il prurito della sabbia nel naso e il modo migliore di raccogliere e consentire l’umidità del suo corpo. Mentre i suoi occhi assumevano il blu di Ibad, ricevette l’insegnamento Chakobsa.

dalla prefazione di Stilgar a «Muad’Dib, l’uomo»,

della Principessa Irulan


Nella debole luce della prima luna la gente di Stilgar, con i due dispersi del deserto, lasciò il bacino per ritornare al sietch. Le figure avvolte nei mantelli si affrettarono: l’odore del focolare già solleticava le loro nari. La linea grigia dell’alba, alle loro spalle, era più brillante: secondo le indicazioni del loro calendario indicava metà autunno, il mese di Caprock.

Ai piedi della muraglia rocciosa le foglie ammucchiate dai bambini del sietch vorticavano nel vento, ma il calpestio dei Fremen (salvo qualche distrazione occasionale di Paul e della madre) non si distingueva dai rumori casuali della notte.

Paul si asciugò la fronte incrostata di sudore e di polvere. Sentì qualcuno che lo tirava per il braccio, e la voce sibilante di Chani: «Fai come ti ho detto! Calati il cappuccio sulla fronte… Stai sprecando umidità!»

Un comando bisbigliato dietro a loro intimò il silenzio: «Il deserto vi ascolta!»

Il cinguettio di un uccello si udì fra le rocce, sopra di loro. I Fremen si arrestarono: Paul avvertì un’improvvisa tensione.

Un lieve tamburellare giunse dalla roccia: un topo canguro non avrebbe fatto più rumore.

L’uccello cinguettò di nuovo.

Un fremito attraversò la fila dei Fremen. Nuovamente si udì il tamburellio del topo.

L’uccello cinguettò per la terza volta.

I Fremen cominciarono a risalire lungo una spaccatura della roccia, ma il modo in cui gli uomini, intorno a Paul, respiravano, rivelava l’allerta. Colse numerose occhiate dirette a Chani, e la stessa Chani sembrò isolarsi, chiudersi in se stessa.

I suoi piedi calpestavano la roccia, adesso, e, nel fruscio dei mantelli grigi intorno a lui, Paul avvertì come un rilassarsi della disciplina. Ma c’era sempre quello strano isolamento di Chani, il silenzio. Seguì un’ombra indistinta dal profilo umano per una lunga fila di gradini, poi una svolta, ancora gradini, un tunnel, e infine superò due porte sigillate contro le perdite di umidità ed entrò in uno stretto passaggio illuminato da un globo, tra due pareti e un soffitto di roccia giallastra.

Dovunque intorno a lui, Paul vide i Fremen gettare indietro i cappucci, togliersi i tamponi dal naso e respirare profondamente. Qualcuno sospirò. Paul cercò Chani, ma scoprì che non era più al suo fianco. Era circondato da molti corpi ancora avvolti nel mantello che lo spingevano qua e là: qualcuno lo urtò col gomito e disse: «Scusami, Usul… Che corsa! È sempre così».

Alla sua sinistra vide il volto sottile e barbuto dell’uomo chiamato Farok. Alla luce gialla del globo, le orbite macchiate e gli occhi azzurri sembravano ancora più tenebrosi. «Togliti il cappuccio, Usul» disse Farok. «Sei a casa.» E aiutò Paul facendogli largo nella calca a gomitate.

Paul si tolse i tamponi dal naso, poi disimpegnò la bocca. L’acre odore della caverna l’investì: corpi incrostati di sporcizia, esalazioni distillate dai rifiuti rimessi in ciclo; dovunque l’acido effluvio dell’umanità, mescolato al profumo della spezia.

«Chi aspettiamo, Farok?»

«La Reverenda Madre, credo. Non hai sentito il messaggio? Povera Chani.»

Povera Chani? si chiese Paul. Si guardò attorno chiedendosi dove fosse finita, e cercò anche sua madre.

Farok respirò profondamente. «Gli odori di casa» disse.

Paul si accorse che l’uomo veramente godeva il fetore dell’aria: non c’era ironia nella sua voce. Poi udì sua madre che tossicchiava, e la sua voce gli arrivò tra la calca: «Come sono ricchi gli odori del tuo sietch, Stilgar. Vedo che fate molte cose con la spezia… carta… plastica… e quelli, non sono forse esplosivi chimici?»

«Sai riconoscerli dall’odore?» Era un’altra voce di uomo.

Paul capì che sua madre parlava per lui. Voleva che accettasse subito quell’assalto alle narici.

Poi un’agitazione improvvisa animò la folla, sul lato opposto della caverna: un respiro profondo e prolungato sembrò passare attraverso i Fremen, e Paul udì voci soffocate lungo la fila: «Allora è vero… Liet è morto!»

Liet! pensò Paul. Quindi: Chani, figlia di Liet. Il mosaico si ricompose nella sua mente. Liet era il nome Fremen del planetologo.

Paul fissò Farok e gli chiese: «È questo il Liet che noi conosciamo col nome di Kynes?»

«C’è un solo Liet» disse Farok.

Paul si voltò e il suo sguardo corse sulla folla dei Fremen: Così, pensò, Kynes è morto.

«La perfidia degli Harkonnen» esclamò qualcuno. «Hanno fatto in modo che sembrasse un incidente… perduto nel deserto… un ornitottero precipitato…»

Paul fu travolto da un’ondata di rabbia. L’uomo che aveva offerto loro amicizia, che li aveva salvati dalla caccia degli Harkonnen, l’uomo che aveva inviato le coorti dei Fremen a cercare due creature sperdute nel deserto… Un’altra vittima degli Harkonnen.

«Usul ha già sete di vendetta?» domandò Farok.

Prima che Paul potesse rispondere, fu dato un ordine a bassa voce e il gruppo si mosse in avanti, entrando in una caverna più grande e trascinando Paul con sé. Nell’improvviso spazio aperto Paul si trovò davanti a Stilgar e a una donna sconosciuta, avvolta in una veste ondeggiante dai colori vivaci: arancio e verde. Aveva braccia nude fino alle spalle, e Paul vide che non indossava tuta distillante. La pelle della donna era color oliva pallido. I suoi capelli erano pettinati all’indietro sulla fronte, mettendo in risalto gli zigomi e il naso aquilino e gli occhi scuri dallo sguardo intenso.

Si girò verso di lui: le pendevano dalle orecchie anelli dorati intrecciati a misure d’acqua.

«È lui che ha vinto il mio Jamis?» chiese.

«Zitta Harah» le intimò Stilgar. «È Jamis che l’ha sfidato. Ha invocato il tahaddi al-burhan.»

«Ma è un ragazzo!» esclamò lei. Agitò bruscamente la testa, facendo tintinnare le misure d’acqua. «I miei bambini sono dunque orfani per colpa di un altro bambino? Certo è stato un incidente!»

«Usul, quanti anni hai?» chiese Stilgar.

«Quindici anni standard» disse Paul.

Lo sguardo di Stilgar corse sugli uomini riuniti davanti a lui.

Silenzio.

Stilgar guardò la donna: «E io, finché non avrò imparato il suo modo magico di combattere, non lo sfiderò».

Lei lo fissò a sua volta. «Ma…»

«Hai visto la straniera che si è recata con Chani dalla Reverenda Madre?» le chiese Stilgar. «È una Sayyadina che non viene dal freyn, madre di questo ragazzo. Madre e figlio sono maestri nell’arte magica di battersi.»

«Lisan al-Gaib» bisbigliò la donna. I suoi occhi erano pieni di stupore quando fissarono nuovamente Paul.

Ancora la leggenda, pensò lui.

«Forse» disse Stilgar. «Ma non è stato ancora provato.» Guardò Paul: «Usul, è nel nostro costume che tu, ora, sia responsabile della donna di Jamis e dei suoi due figli. Il suo yali… il suo appartamento… è tuo. Il suo servizio da caffè è tuo… e questa… la sua donna».

Paul fissò, perplesso: Perché non piange il suo uomo? Perché non mostra di odiarmi? Improvvisamente si accorse che i Fremen lo guardavano, in attesa.

Qualcuno mormorò: «C’è del lavoro da fare. Deciditi… in qual modo l’accetti?»

Stilgar aggiunse: «Accetti Harah come donna o come serva?»

Harah alzò le braccia e girò lentamente su se stessa: «Sono ancora giovane, Usul. Si dice che io sembri giovane come il giorno in cui Jamis vinse Geoff… e mi tolse a lui».

Jamis ha ucciso un uomo per averla! pensò Paul. E disse: «Se l’accetto come serva, mi sarà possibile cambiare idea più tardi?»

«Hai un anno di tempo per cambiare la tua decisione» fece Stilgar. «Tra un anno sarà una donna libera e potrà scegliere secondo i suoi desideri… A meno che tu non la liberi prima, in qualsiasi momento. Ma per un anno è sotto la tua responsabilità, qualunque cosa accada… e sarai sempre in parte responsabile dei figli di Jamis.»

«L’accetto come serva» disse Paul.

Harah batté i piedi per terra e scrollò le spalle, infuriata: «Ma io sono giovane!»

Stilgar guardò Paul: «La prudenza è una qualità per colui che dirige».

«Ma io sono giovane!» insisté Harah.

«Silenzio!» le ordinò Stilgar. «Se una cosa ha un qualche merito, lo avrà. Conduci Usul nel suo appartamento, procuragli una veste pulita e un luogo per riposare.»

«Ohhh» si lamentò la donna.

Paul aveva registrato a sufficienza la donna per poterla già giudicare con una certa precisione. Avvertì l’impazienza dei Fremen, l’urgenza di molte cose che stavano subendo un ritardo. Avrebbe voluto informarsi di sua madre e di Chani, ma Stilgar era nervoso, e capì che sarebbe stato un errore.

Si rivolse a Harah e accentuò la sua paura e lo stupore dando alla propria voce un lieve tremolio: «Mostrami la mia casa, Harah! Discuteremo della tua giovinezza un’altra volta».

Lei indietreggiò e guardò Stilgar, terrorizzata: «Ha la voce magica…» balbettò.

«Stilgar» disse Paul. «Il padre di Chani ha posto pesanti obblighi su di me. Se c’è qualcosa…»

«Sarà deciso in consiglio» replicò Stilgar. «Tu potrai parlare, allora.» Fece un cenno di commiato, poi si voltò allontanandosi con la sua gente.

Paul sfiorò il braccio di Harah: sentì che la sua pelle era gelida, tremava. «Non ti farò del male, Harah» la rassicurò. «Conducimi nel mio appartamento.» Addolcì la sua voce.

«Non mi caccerai, quando sarà trascorso un anno?» domandò Harah. «In verità, so di non essere più giovane come un tempo…»

«Finché vivrò tu starai sempre con me» disse Paul. La lasciò libera: «Vieni, ora. Dov’è il mio appartamento?»

Lei si voltò e lo condusse lungo il corridoio, girando a destra in un’ampia galleria illuminata a intervalli regolari dai globi che traevano riflessi gialli dalle rocce. Il pavimento di pietra era liscio, senza alcuna traccia di sabbia.

Paul le si affiancò, studiando il suo profilo aquilino: «Non mi detesti, Harah?»

«Perché dovrei detestarti?»

Salutò con un gesto del capo alcuni bambini che li fissavano da un corridoio laterale. Paul intravide alcuni adulti, dietro i bambini, seminascosti dai tendaggi.

«Io ho… vinto Jamis.»

«Stilgar ha detto che vi è stata la cerimonia, e che tu eri un amico di Jamis.» Gli lanciò un’occhiata. «Ha detto che tu hai dato la tua umidità al morto. È vero?»

«Sì.»

«È più di quanto avrei fatto io… più di quanto io stessa potrei fare.»

«Non piangi?»

«Quando sarà il tempo di piangere, piangerò.»

Passarono accanto a un’arcata. Paul vide, in un ampio locale vivamente illuminato, uomini e donne che si affaccendavano intorno ad alcune macchine montate su piedestalli. Lavoravano con ritmo febbrile.

«Che cosa stanno facendo, là dentro?» chiese Paul.

Harah seguì il suo sguardo mentre superavano l’arcata, e disse: «Si affrettano a finire la loro quota di lavoro prima della fuga. Ci serve un gran numero di condensatori di rugiada per le coltivazioni».

«Fuga?»

«Finché i macellai non avranno finito di darci la caccia o non saranno stati cacciati dalla nostra terra.»

Per un attimo a Paul sembrò che il tempo si arrestasse. Gli ritornò un frammento di visione presciente… ma l’immagine era sfalsata, deformata. I frammenti della sua memoria non erano esattamente disposti come lui li ricordava.

«I Sardaukar ci danno la caccia» disse.

«Non troveranno molto, a parte uno o due sietch vuoti» replicò Harah. «E incontreranno anch’essi la loro razione di morte nella sabbia.»

«Troveranno anche questo posto?»

«Probabilmente.»

«E tuttavia perdiamo tempo a…» accennò con la testa all’arcata ormai lontana dietro di loro, «a fare questi condensatori di… rugiada?»

«La semina continua.»

«Che cosa sono i condensatori di rugiada?» chiese Paul.

Lei lo fissò sbalordita. «Non ti hanno insegnato nulla nel… da qualsiasi luogo tu venga?»

«Niente sui condensatori di rugiada.»

«Ah!» E in questa esclamazione c’era tutto un discorso.

«Ebbene, che cosa sono?»

«Ogni cespuglio, ogni erba che tu vedi là fuori nell’erg» spiegò Harah, «come pensi che viva dopo che noi lo piantiamo? Ognuno di essi è piantato con la massima cura nel suo piccolo pozzo, e ogni pozzo è riempito di piccole uova lisce di cromoplastica. La luce le fa virare al bianco. Se tu le guardi da un’altura puoi vederle brillare all’alba. Il bianco riflette il calore. Ma quando il Vecchio Padre Sole se ne va, la cromoplastica ridiventa trasparente e si raffredda al buio con estrema rapidità. La superficie condensa l’umidità dell’aria, e questa umidità scorre in basso e tiene in vita le nostre piante.»

«Condensatori di rugiada» mormorò Paul, incantato dalla semplice bellezza di un simile progetto.

«Piangerò Jamis quando sarà il momento giusto» disse Harah, come se la sua mente non avesse mai smesso di pensare all’altra sua domanda. «Jamis era un brav’uomo, ma si arrabbiava troppo facilmente. Ci nutriva assai bene ed era meraviglioso coi bambini. Non ha fatto alcuna differenza tra il figlio di Geoff, il mio primo nato, e il suo vero figlio. Ai suoi occhi erano uguali.» Alzò gli occhi a fissare Paul: «Sarà così anche con te, Usul?»

«Noi non avremo questo problema.»

«Ma se…»

«Harah!»

Al tono aspro della sua voce lei si azzitti.

Passarono davanti a un’altra caverna illuminata a giorno, oltre un arco alla loro sinistra. «Che cosa fanno qui?» chiese Paul.

«Riparano le macchine per la tessitura» spiegò Harah. «Ma questa notte dovrà essere tutto smontato.» Indicò il tunnel che si biforcava a sinistra: «Laggiù si prepara il cibo e si riparano le tute distillanti». Fissò Paul: «La tua tuta sembra nuova, ma ha bisogno di qualche riparazione. Io sono brava con le tute. Lavoro in fabbrica durante la stagione».

Ora, incontravano gruppi sempre più numerosi di Fremen, e su ambedue i lati della galleria le diramazioni erano frequenti. Una fila di uomini e di donne passò accanto a loro trasportando sacchi gorgoglianti che emanavano un intenso odore di spezia.

«Non avranno né la nostra acqua né la nostra spezia» disse Harah. «Te lo garantisco.»

Passando davanti alle aperture sulle pareti della galleria, coperte da pesanti tendaggi fissati alle sporgenze della roccia, Paul intravide ampie stanze dai muri rivestiti di tessuti vivaci e mucchi di cuscini. La gente affacciata alle aperture si zittiva al loro avvicinarsi, fissando Paul con occhi di fuoco.

«La gente trova strano che tu abbia vinto Jamis» disse Harah. «Probabilmente dovrai dare altre prove, quando saremo sistemati nel nuovo sietch.»

«Non mi piace uccidere» ribatté Paul.

«È quello che Stilgar ci ha detto» fece Harah, ma la sua voce tradiva l’incredulità.

Davanti a loro si alzò un canto stridulo. Giunsero a un’apertura laterale, più larga di tutte le altre. Paul rallentò il passo e guardò dentro una stanza gremita di bambini seduti a gambe incrociate sul pavimento ricoperto da un tappeto marrone.

Una donna avvolta in una tunica gialla era accanto a una lavagna, sulla parete opposta, e indicava con uno stiloproiettore diversi disegni: cerchi, angoli e curve, quadrati, linee ondulate e archi tagliati da rette parallele. La donna indicava i disegni, uno dopo l’altro, il più rapidamente possibile, e i fanciulli cantavano al ritmo della sua mano. Allontanandosi, Paul ascoltò il canto che si affievoliva alle sue spalle.

«Albero» cantavano i bambini, «erba, duna, vento, montagna, collina, fuoco, lampo, rocce, polvere, sabbia, calore, rifugio, pieno, inverno, freddo, vuoto, erosione, estate, caverna, giorno, tensione, luna, notte, marea di sabbia, pendio, semina, legaccio…»

«Fate lezione in un momento come questo?» si stupì Paul.

Il volto di Harah s’incupì e il dolore trasparì dalla sua voce: «È quello che Liet ci ha insegnato. Non dobbiamo fermarci un solo istante. Liet è morto, ma non dev’essere dimenticato. Così vuole il Chakobsa».

Deviò a sinistra, salì su una sporgenza della roccia, alzò una tenda arancione e si fece da parte: «Il tuo yali, Usul».

Paul esitò prima di salire a sua volta. Provò un’improvvisa riluttanza a trovarsi solo con quella donna. Si era reso conto di essere circondato da un modo di vivere che avrebbe potuto capire soltanto dopo avere assimilato un intero sistema ecologico d’idee e significati. Sentiva che questo mondo dei Fremen cercava d’intrappolarlo, di avvolgerlo inestricabilmente nella rete delle sue usanze. E sapeva fin troppo bene ciò che prometteva la trappola… il selvaggio jihad, la guerra religiosa che lui tentava di evitare a tutti i costi.

«Questo è il tuo yali» ripeté Harah. «Perché esiti?»

Paul annuì, la raggiunse sulla sporgenza, alzò ancor di più la tenda e sentì che le sue mani sfioravano fibre metalliche. La seguì in un piccolo atrio e poi in una stanza più ampia, un quadrato di circa sei metri di lato. Il pavimento era nascosto da un fitto strato di tappeti azzurri, e la roccia delle pareti era rivestita di tessuto verde e ancora azzurro. Sulla sua testa ondeggiavano alcuni globi luminosi, sotto un soffitto nascosto da un drappo giallo.

Paul ebbe l’impressione di trovarsi in un’antica tenda.

Harah lo fronteggiò, la mano sinistra su un fianco. I suoi occhi gli studiavano il viso. «I bambini sono con un amico» disse. «Si presenteranno a te più tardi.»

Paul mascherò la sua inquietudine scrutando rapidamente la stanza. A destra alcune tende sottili nascondevano una stanza più grande, con numerosi cuscini ammucchiati lungo le pareti. Sentì un lieve alito di vento provenire da un condotto per l’aria, ne vide lo sfogo abilmente dissimulato nel disegno delle tappezzerie proprio di fronte a lui.

«Vuoi che ti aiuti a toglierti la tuta distillante?» chiese Harah.

«No… grazie.»

«Vuoi del cibo?»

«Sì.»

«Oltre quella stanza c’è una camera di riposo. (L’indicò). Per la tua comodità e il tuo piacere, quando sei fuori dalla tuta distillante.»

«Hai detto che dovremo lasciare questo sietch» disse Paul. «Non dovremmo cominciare a fare i bagagli o qualcosa del genere?»

«Sarà fatto a suo tempo» ribatté Harah. «I macellai non sono ancora penetrati nel nostro territorio.»

Esitò ancora fissandolo.

«Che cosa c’è?» le chiese Paul.

«Tu non hai gli occhi di Ibad» disse Harah. «È strano… ma non del tutto spiacevole.»

«Vai a prendere il cibo» le intimò Paul. «Ho fame.»

Harah gli sorrise… un sorriso di donna fin troppo consapevole che l’inquietò. «Sono la tua serva» lei gli disse, e si girò, allontanandosi con passo agile, chinando il capo per passare sotto una pesante tenda sulla parete, che rivelò uno stretto passaggio prima di ricadere al suo posto.

Infuriato con se stesso, Paul superò, sfiorandola, la tenda sottile alla sua destra ed entrò nella stanza più grande. Restò immobile, combattuto dall’incertezza. E si domandò dove fosse Chani… Chani che aveva appena perduto suo padre.

In questo, siamo uguali, pensò.

Un ululato gli giunse dai corridoi, all’esterno, soffocato dai tendaggi. Si ripeté, più lontano, una seconda volta, e una terza. Paul si rese conto che qualcuno stava annunciando l’ora. Si ricordò di non aver visto orologi.

Il debole odore d’un fuoco di creosoto lo raggiunse alle narici, mescolandosi all’onnipresente puzzo del sietch. Paul si accorse di aver già abolito il fetore dalla sua coscienza.

E nuovamente si chiese dove fosse sua madre, e quale sarebbe stato il suo ruolo nelle immagini del futuro che aveva appena intravisto… e quello della figlia che portava in grembo. Il tempo, quel tempo sempre diverso, danzava intorno a lui. Scosse violentemente la testa, concentrando la sua attenzione sulla molteplice profondità e ampiezza della cultura dei Fremen che li aveva appena inghiottiti.

Con tutte le sue elusive differenze.

Nelle caverne dei Fremen e nella stanza in cui si trovava in quel momento aveva notato un particolare che, da solo, bastava a suggerire differenze ancora più grandi di quelle che finora aveva visto.

Non c’era, qui, il più piccolo rivelatore di veleni, nessuna indicazione che qualcuno lo usasse, in quel formicaio sotterraneo. E tuttavia, nell’universale fetore del sietch, egli sentiva i veleni, i più comuni e potenti.

Udì un fruscio di tende, pensò che fosse Harah di ritorno col cibo e si voltò. Invece, sotto un lembo di tenda scostato, vide due bambini, forse di nove o dieci anni, che lo fissavano con occhi bramosi. Tutti e due avevano un piccolo cryss simile a un kindjal, e la mano appoggiata all’impugnatura.

E Paul si ricordò delle storie sui Fremen, in cui si diceva che i loro bambini combattevano ancor più ferocemente degli adulti.

Le mani si muovono, le labbra si muovono,

Le idee nascono dalle sue parole,

E i suoi occhi ti divorano!

Egli è un universo di egoismo.

descrizione dal «Manuale di Muad’Dib», della Principessa Irulan


La folla gremiva la caverna debolmente illuminata dai tubi fosforescenti sulle pareti più lontane… La cavità nelle rocce era immensa, pensò Jessica, più grande perfino della Sala delle Adunanze alla Scuola Bene Gesserit. Dovevano esserci almeno cinquemila persone là dentro, stimò, sotto la sporgenza rocciosa sulla quale lei si trovava accanto a Stilgar.

E altre stavano arrivando.

L’aria era piena del mormorio della gente.

«Tuo figlio è stato svegliato e convocato, Sayyadina» disse Stilgar. «Vuoi che sia partecipe della tua decisione?»

«Potrebbe forse cambiarla?»

«Certo, l’aria con cui tu ne parli viene dai tuoi polmoni, ma…»

«La mia decisione è presa» disse Jessica.

Ma era in preda al dubbio, e si chiese se avrebbe potuto usare Paul come pretesto per tirarsi indietro dal pericoloso cammino. C’era anche una figlia non ancora nata cui pensare. Ciò che metteva in pericolo la carne della madre, metteva in pericolo anche quella della figlia.

Alcuni uomini avanzarono, vacillando sotto pesanti tappeti arrotolati: scaricarono il loro fardello sotto la sporgenza, sollevando nuvole di polvere.

Stilgar l’afferrò per un braccio e la condusse fino all’interno della cavità acustica che formava il lato posteriore della sporgenza. Le indicò un sedile di roccia in fondo alla cavità. «La Reverenda Madre prenderà posto qui, ma tu puoi sederti e riposarti fino al suo arrivo.»

«Preferisco restare in piedi» disse Jessica.

Guardò gli uomini che srotolavano i tappeti, rivestendone la sporgenza, e la gente sempre più numerosa. C’erano, ora, almeno diecimila persone nella caverna.

E continuavano ad arrivare.

Fuori nel deserto, lei lo sapeva, le sabbie si tingevano di rosso al tramonto, ma qui dentro regnava un perpetuo crepuscolo, una grigia immensità dove la gente si affollava per vederla rischiare la vita.

Un varco si aprì tra la folla, alla sua destra, e vide Paul che si avvicinava in compagnia di due bambini dall’aria molto seria. Stringevano l’impugnatura del coltello, fissando trucemente la folla su entrambi i lati.

«I figli di Jamis che ora sono i figli di Usul» disse Stilgar. «Lo scortano con molta convinzione.» Azzardò un sorriso a Jessica.

Lei indovinò lo sforzo di Stilgar per rasserenarla e gliene fu grata, ma non riuscì a distogliere la mente dal pericolo che stava per affrontare.

Non avevo altra scelta, pensò. Dobbiamo agire rapidamente per garantirci un posto tra questi Fremen.

Paul salì sulla terrazza lasciando i bambini più sotto. Fronteggiò Jessica, lanciò un’occhiata a Stilgar, poi fissò di nuovo la madre: «Che cosa succede? Pensavo che mi avesse convocato il consiglio».

Stilgar alzò una mano per ottenere silenzio, e indicò un altro varco che si era aperto tra la folla. Chani si stava avvicinando, il suo viso da elfo segnato dal dolore. Si era sfilata la tuta distillante e indossava una graziosa tunica azzurra che le lasciava scoperte le braccia. Un fazzoletto verde era annodato al suo braccio, vicino alla spalla.

Verde, il colore del pianto, pensò Paul.

I due figli di Jamis gli avevano spiegato indirettamente l’usanza, quando avevano dichiarato che non indossavano niente di verde poiché avevano accettato lui come padre custode.

«Sei tu il Lisan al-Gaib?» gli avevano chiesto. Paul aveva avvertito il jihad nelle loro parole, ma aveva stornato la minaccia facendo a sua volta una domanda. E aveva appreso, in tal modo, che Kaleff, il più vecchio dei due, aveva dieci anni ed era il figlio naturale di Geoff. Orlop, il più giovane, aveva otto anni ed era il figlio naturale di Jamis.

Aveva passato una strana giornata in compagnia dei due bambini, ai quali aveva chiesto di montare la guardia per allontanare i curiosi. Così, aveva avuto tutto il tempo di riflettere con calma e di restituire un po’ di ordine ai suoi ricordi prescienti, studiando il modo di prevenire il jihad.

Ora, in piedi accanto alla madre sulla sporgenza rocciosa, guardò la folla e si chiese se mai sarebbe stato possibile impedire lo scatenarsi di quelle orde di fanatici.

Chani era ormai vicina, seguita a distanza da quattro donne che ne trasportavano un’altra in una lettiga.

Jessica ignorò l’avvicinarsi di Chani, concentrando tutta la sua attenzione sulla donna della lettiga: una megera, un essere antico e raggrinzito, rivestito di un abito nero con un cappuccio rovesciato all’indietro che rivelava un collo rugoso e un ciuffo di capelli grigi legati strettamente in un nodo.

Le quattro portatrici calarono con delicatezza il fardello sulla sporgenza rocciosa e Chani aiutò la vecchia ad alzarsi.

Così, questa è la loro Reverenda Madre, pensò Jessica.

La vecchia si appoggiò pesantemente a Chani e avanzò ondeggiando verso Jessica. Le parve un mazzo di bastoni chiuso in un sacco nero. Si arrestò davanti a lei, la scrutò dal basso in alto per un lungo attimo, prima di rivolgere uno stridulo bisbiglio.

«Così, tu sei l’Unica.» La vecchia testa ondeggiò precariamente sul collo sottile. «La Shadout Mapes aveva ragione, quando provava pietà per te.»

Jessica replicò in tono sdegnato: «Non ho bisogno della pietà di nessuno».

«Questo è da vedersi» stridette la vecchia. Si voltò con sorprendente agilità a fronteggiare la folla. «Diglielo, Stilgar.»

«Devo dirglielo io?»

«Noi siamo il popolo dei Misr» disse la vecchia con voce raschiante. «Dal giorno in cui i nostri antenati fuggirono da Nilotic al-Ouruba, noi abbiamo conosciuto soltanto la fuga e la morte. I giovani vivono perché il nostro popolo non deve morire.»

Stilgar respirò profondamente e fece due passi avanti.

Jessica sentì la folla che si azzittiva: almeno ventimila persone, ora, in piedi, in silenzio, quasi senza muoversi; all’improvviso la fecero sentire piccola e vulnerabile.

«Questa notte dobbiamo abbandonare il sietch che ci ha dato rifugio per tanto tempo, e andare a sud, nel deserto» disse Stilgar. La sua voce tuonò sulla marea dei volti sollevati, rimbombando nella cavità acustica alle sue spalle.

La folla mantenne un silenzio assoluto.

«La Reverenda Madre mi ha detto che non potrà sopravvivere a un altro hajra» continuò Stilgar. «Noi siamo già vissuti senza Reverenda Madre, ma non è bene che un popolo in cerca di un nuovo focolare ne sia privo.»

Ora la folla aveva cominciato ad agitarsi, percorsa da un fremito d’inquietudine e da bisbiglii sempre più intensi.

«Perché questo non accada» riprese Stilgar, «la nostra nuova Sayyadina, Jessica dalla Magica Arte, ha acconsentito a dedicarsi ai riti. Tenterà il passo interiore, per non farci perdere la forza della nostra Reverenda Madre.»

Jessica dalla Magica Arte, pensò lei. Colse lo sguardo di Paul puntato su di lei, i suoi occhi pieni di perplessità. Ma la sua bocca era costretta al silenzio dall’assoluta stravaganza di quanto li circondava.

Se morirò nel tentativo, che cosa gli accadrà? si chiese Jessica. Ancora una volta la sua mente fu piena di dubbi.

Chani condusse la Reverenda Madre fino al sedile di roccia, nel cuore della cavità acustica, poi ritornò accanto a Stilgar.

«Acciocché noi non perdiamo tutto se Jessica dalla Magica Arte dovesse fallire la prova» riprese Stilgar, «Chani, figlia di Liet, sarà consacrata Sayyadina oggi stesso.»

Si scostò, e dalle profondità della cavità acustica giunse a loro la voce della vecchia, un bisbiglio amplificato, aspro e penetrante: «Chani è ritornata dal suo hajra… Chani ha visto le acque».

Il mormorio della folla si alzò in risposta: «Ha visto le acque».

«Io consacro Sayyadina la figlia di Liet» sibilò la vecchia.

«È accettata» rispose la folla.

Paul ascoltava appena la cerimonia, la sua attenzione era ancora concentrata su quello che era stato appena detto di sua madre.

Se dovesse fallire?

Si voltò a guardare colei che chiamavano Reverenda Madre, studiandone le asciutte sembianze da vecchia megera, l’imperscrutabile fissità degli occhi azzurri. Sembrava che la più piccola brezza dovesse soffiarla via, e tuttavia qualcosa in lei suggeriva che avrebbe resistito perfino a una tempesta di Coriolis. Da lei emanava la stessa forza che Paul si ricordò di aver percepito nella Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam, quando gli aveva fatto subire l’atroce agonia del gom jabbar.

«Io, la Reverenda Madre Ramallo, la cui voce è quella di una moltitudine, vi dico questo» proseguì la vecchia. «È giusto che Chani sia accettata come Sayyadina.»

«È giusto» rispose la folla.

La vecchia annuì e bisbigliò ancora: «Io le do i cieli argentei, il deserto dorato e le sue rocce scintillanti, e i campi verdi che verranno. Io do tutto questo alla Sayyadina Chani. E per evitare che dimentichi di essere al servizio di tutti noi, saranno suoi i compiti domestici in questa Cerimonia del Seme. Che tutto sia secondo la volontà di Shai-hulud». Alzò un braccio scuro e rinsecchito come un bastone e lo lasciò ricadere.

Jessica ebbe l’impressione, all’improvviso, che la cerimonia l’avesse afferrata come una corrente impetuosa, trascinandola via senza alcuna possibilità di ritorno. Lanciò un’ultima occhiata al volto perplesso di Paul e si preparò ad affrontare l’ordalia.

«Che si avanzino i Maestri dell’Acqua» disse Chani, con un’esitazione appena percettibile nella sua voce di fanciulla.

In quel preciso istante Jessica sentì il pericolo addensarsi su di lei, nell’improvviso silenzio della folla, nei suoi sguardi.

Un gruppo di uomini si aprì la strada lungo un varco serpentino tra la gente. Comparvero dal fondo della caverna e vennero avanti a coppie. Ogni coppia portava un sacco di pelle, grande il doppio di una testa umana. I sacchi oscillavano pesantemente.

I due primi uomini depositarono il sacco ai piedi di Chani sulla terrazza rocciosa e indietreggiarono. Jessica fissò il sacco e poi i due uomini. Avevano i cappucci gettati all’indietro, rivelando i lunghi capelli annodati alla base del collo. I loro occhi tenebrosi affrontarono impassibili il suo sguardo.

Un pesante aroma di cinnamomo si alzò dal sacco. Spezia? si chiese Jessica.

«C’è l’acqua?» chiese Chani.

Il Maestro alla sinistra, un uomo sfregiato da una cicatrice purpurea alla radice del naso, annuì. «C’è l’acqua, Sayyadina. Ma non possiamo berla.»

«C’è il seme?» chiese Chani.

«C’è il seme» disse l’uomo.

Chani s’inginocchiò e appoggiò le mani sul sacco ondeggiante. «Siano benedetti l’acqua e il seme.»

C’era qualcosa di familiare nel rito e Jessica fissò nuovamente la Reverenda Madre Ramallo. La vecchia si era raggomitolata sul sedile, chiudendo gli occhi, e sembrava dormisse.

«Sayyadina Jessica» l’interpellò Chani.

Jessica si voltò e affrontò lo sguardo della fanciulla.

«Hai bevuto l’acqua benedetta?» le chiese Chani.

Prima che Jessica potesse rispondere, Chani continuò: «È impossibile che tu abbia bevuto l’acqua benedetta. Tu vieni da un altro mondo e non godi del privilegio».

Un sospiro passò tra la folla, un fruscio di mantelli, che fecero rizzare i capelli sulla nuca di Jessica.

«Il raccolto è stato abbondante e il creatore distrutto» riprese Chani. Cominciò a slegare il tubo in cima al sacco.

Il pericolo urlava intorno a Jessica. Lanciò un’occhiata a Paul, ma vide che era affascinato dal rito e aveva occhi soltanto per Chani.

Ha già vissuto questo istante nel tempo? si chiese Jessica. Si portò una mano al ventre, pensando alla figlia non ancora nata, lì dentro: È giusto che io metta in pericolo la vita di entrambe?

Chani le porse l’estremità del tubo e disse: «Qui c’è l’Acqua della Vita, l’acqua più grande dell’acqua… Kan, l’acqua che libera l’anima. Se tu sei una Reverenda Madre, essa ti aprirà l’universo. Spetta a Shai-hulud giudicare».

Jessica fu combattuta tra il dovere verso la figlia non nata e gli obblighi nei confronti di Paul. Per lui, lo sapeva, avrebbe dovuto afferrare il tubo e bere il liquido contenuto nel sacco… ma nell’istante in cui si piegò ad accettarlo tutti i suoi sensi l’avvertirono del pericolo. Il contenuto del sacco esalava un odore amaro, simile a quello di molti veleni a lei ben noti, ma anche diverso.

«Ora, devi bere» disse Chani.

Non c’è scampo, pensò Jessica. Niente in tutto il suo addestramento Bene Gesserit le suggeriva una via d’uscita.

Che cos’è, dunque? si chiese. Un liquore? Una droga?

Si piegò ancora di più sul tubo, percepì altri odori eterei tra quello di cinnamomo e ricordò l’ubriachezza di Idaho. Birra di spezia? si chiese. Afferrò l’estremità del tubo tra i denti e inghiottì un piccolo sorso. Sentì il gusto della spezia sulla lingua, con qualcosa di acre.

Chani allora schiacciò il sacco e un getto violento schizzò in gola a Jessica, che si sforzò d’inghiottirlo conservando tutta la sua dignità.

«Accettare una piccola morte è spesso peggiore della grande morte» disse Chani. Fissò Jessica e attese.

E Jessica le restituì lo sguardo, sempre col tubo in bocca. Il sapore del liquido era sul suo palato, nelle narici, nelle guance, negli occhi… Era dolce, adesso.

Fresco.

Ancora una volta Chani spremette il liquido nella bocca di Jessica.

Delicato.

Jessica studiò il viso di Chani, i suoi tratti da elfo, ritrovando le somiglianze con Liet-Kynes, lievi tracce che il tempo non aveva ancora fissato.

Mi hanno somministrato una droga, pensò.

Ma era diversa da ogni altra sostanza a lei conosciuta, e l’addestramento Bene Gesserit le aveva imposto l’assaggio d’innumerevoli narcotici.

Le sembianze di Chani erano sempre più nette, come se si stagliassero contro una luce violenta.

Una droga.

Il silenzio turbinò intorno a Jessica. Ogni fibra del suo corpo aveva accettato la profonda trasformazione che avveniva in lei. Le sembrò di essere un’infimo granello di polvere cosciente, più piccolo di qualsiasi particella subatomica e tuttavia capace di muoversi e di percepire il mondo intorno a sé. Il velo si squarciò e lei si accorse improvvisamente di una estensione psichica, sensoria e motoria, di se stessa. Era un granello di sabbia, e tuttavia…

Intorno a lei la caverna esisteva ancora… e la gente. Li percepì: Paul, Chani, Stilgar, la Reverenda Madre Ramai lo.

Reverenda Madre!

Alla scuola correvano voci che, a volte, non si sopravviveva all’ordalia della Reverenda Madre; che la droga uccideva.

Jessica concentrò la sua attenzione sulla Reverenda Madre Ramallo, e ora si accorse che tutto questo accadeva in un breve istante… in un tempo sospeso soltanto per lei.

Perché mai il tempo si è fermato? si chiese. Contemplò tutti quei volti pietrificati intorno a lei; un granello di polvere era sospeso sulla testa di Chani, in attesa.

In quel preciso istante la risposta le giunse come un’esplosione nella coscienza: il suo tempo personale era sospeso per salvarle la vita.

Concentrò quell’estensione psico-sensori-motoria di se stessa, guardò nel proprio interiore e le si stagliò dinanzi un nucleo cellulare, un pozzo di tenebra dal quale fuggì inorridita.

È il luogo in cui non possiamo guardare, pensò. Quello che le Reverende Madri menzionano con tanta riluttanza e che soltanto lo Kwisatz Haderach può osservare.

Comprendendo questo, si sentì un po’ rinfrancata, e osò nuovamente concentrare quella estensione: si trasformò in un granello di polvere intento a esplorare se stesso, alla ricerca del pericolo.

Lo trovò nella droga che aveva inghiottito.

Dentro di lei la droga era un turbine di particelle danzanti, così rapide che neppure l’arresto del tempo riusciva a fermarle. Particelle danzanti. Riconobbe talune strutture chimiche familiari, taluni legami atomici: qui un atomo di carbonio, lì una catena elicoidale… una molecola di glucosio. Fronteggiò un’intera catena di molecole, una proteina… una proteina metilica.

Ahhh!

Fu come un sospiro mentale, privo di suono, nel più profondo di se stessa. Aveva identificato la natura del veleno.

Scivolò dentro di esso con la sua sonda psico-sensori-motoria; staccò un atomo di ossigeno, legò un carbonio, un ossidrile.

Il mutamento si diffuse… sempre più rapido mentre la superficie di contatto della reazione catalitica si estendeva.

Il tempo sospeso l’abbandonò: Jessica percepì movimento. L’estremità del tubo si agitò ancora tra le sue labbra, lievemente e raccolse una goccia della sua saliva.

Chani sta prendendo il catalizzatore dal mio corpo per trasformare il veleno di quel sacco, pensò Jessica. Perché?

Qualcuno la fece sedere. Vide che altri accompagnavano accanto a lei la Reverenda Madre Ramallo, sull’orlo della sporgenza rocciosa ricoperto dai tappeti. Una mano rinsecchita le sfiorò il collo.

E un’altra particella psico-sensori-motoria penetrò la sua coscienza! Jessica cercò di respingerla, ma la particella avanzò verso di lei, più vicina, sempre più vicina…

Si toccarono!

Fu l’intima unione, la più completa e definitiva, tra due individui, e fu due persone nello stesso tempo. Non già telepatia ma la reciproca coscienza.

Era la Reverenda Madre!

Ma Jessica vide che la Reverenda Madre non pensava a se stessa come a una vecchia. Nelle due menti fuse insieme, un’immagine si dispiegò: una fanciulla dallo spirito allegro e danzante.

All’interno della mutua coscienza la fanciulla disse: «Sì, questa sono io». Jessica poté soltanto accettare queste parole, senza rispondere.

«Presto avrai tutto» disse l’immagine interiore.

Un’allucinazione, pensò Jessica.

«Sai che non è vero» continuò l’immagine. «Dobbiamo far presto, ora. Non combattermi. Non c’è molto tempo. Noi…» Una lunga pausa, quindi un grido silenzioso: «Perché non ci hai detto che sei incinta?»

Jessica riuscì in qualche modo a risponderle, dentro di sé: «Perché?»

«Questo vi ha cambiato tutte e due! Santa Madre, che cosa abbiamo fatto?»

Jessica percepì un mutamento nella mutua coscienza e una terza particella apparve al suo occhio interiore. Irradiava puro terrore.

«Dovrai esser forte» disse l’immagine della Reverenda Madre. «Sei fortunata ad avere in grembo una figlia. Un feto maschile sarebbe stato ucciso. Ora, con prudenza… lentamente… tocca tua figlia. Sii tua figlia. Assorbi la sua paura… usa il tuo coraggio e la tua forza per calmarla… lentamente… lentamente…»

La particella turbinante si avvicinò e Jessica si sforzò di toccarla.

Il terrore minacciò di sopraffarla.

Lo combatté con l’unico mezzo che conosceva: «Non avrò paura. La paura uccide la mente…»

La litania le restituì una parvenza di calma. La particella s’immobilizzò accanto a lei.

Le parole non servirebbero, pensò Jessica.

Si abbassò al livello delle emozioni primordiali, irradiò amore, conforto, una calda tranquillità protettiva.

Il terrore si ritirò.

Ancora una volta la presenza della Reverenda Madre s’impose, ma la percezione, ora, era triplice… Due erano attive e la terza, immobile, assorbiva tranquillamente.

«Il tempo stringe» disse la Reverenda Madre, «e ho molto da darti. E ignoro se tua figlia potrà accettare tutto e conservare la sua sanità mentale. Ma così dev’essere: i bisogni della tribù vengono prima di ogni altra cosa.»

«Che…»

«Fai silenzio!… Sei pronta a ricevere?»

E davanti a Jessica sfilò una serie di esperienze, immagini istantanee come il nastro registrato di un proiettore subliminale alla scuola Bene Gesserit… ma più rapido… terribilmente più rapido.

E tuttavia… chiaro.

Riconobbe ogni esperienza nel medesimo istante in cui essa si manifestava: c’era un amante, virile, barbuto, con gli occhi scuri dei Fremen, e Jessica sentì la sua forza e la sua tenerezza, e l’intera sua vita in un attimo, nella memoria della Reverenda Madre.

Non c’era tempo di pensare all’effetto che tutto questo avrebbe avuto sul feto di sua figlia, c’era soltanto il tempo di accettare e registrare. Le esperienze si riversavano su Jessica: la nascita, la vita, la morte, una miriade di episodi importanti e trascurabili, un’intera esistenza in una successione di lampi.

Perché mai uno scroscio di sabbia dall’alto di una roccia si è inciso in tal modo tra i ricordi? si chiese Jessica.

Troppo tardi si accorse di quanto stava accadendo: la vecchia moriva e nel morire riversava le sue esperienze nella coscienza di Jessica, come acqua in una tazza. La terza particella svanì lentamente nella propria coscienza prenatale, sotto lo sguardo interiore della madre, mentre la vecchia Reverenda Madre lasciava l’intera sua vita nella memoria di Jessica, con un ultimo gemito confuso.

«Ti ho atteso a lungo» bisbigliò. «Eccoti la mia vita.»

E in verità, la sua vita era lì, dentro Jessica, intatta e ben conservata.

Perfino l’istante della morte.

Ora, sono una Reverenda Madre. Questo pensiero folgorò Jessica.

Le bastò un attimo per capire. E seppe, finalmente, che cos’era in realtà una Reverenda Madre del Bene Gesserit. La droga velenosa l’aveva trasformata.

Non era esattamente così alla scuola Bene Gesserit, pensò. Lei lo sapeva, adesso, anche se nessuno l’aveva introdotta a questi misteri.

Ma il risultato era identico.

Jessica sentì la particella infinitesimale di sua figlia che sfiorava ancora la sua coscienza interiore. A sua volta la toccò, ma non ebbe risposta.

E in quell’istante, con la comprensione di quanto le era accaduto, Jessica fu invasa da un profondo senso di solitudine. Vide la propria vita rallentare, mentre intorno a lei, al contrario, le altre vite si svolgevano sempre più rapide, al punto che il complesso disegno delle reciproche influenze era chiaramente visibile.

La sua percezione interiore si faceva meno intensa col diminuire degli effetti della droga, ma sentiva ancora la presenza dell’altra particella: la sfiorò nuovamente, con un senso di colpa per quanto aveva consentito le accadesse.

L’ho fatto, mia povera piccola figlia ancora priva di forma. Ti ho portato in questo universo e ti ho esposta senza alcuna difesa alla infinita varietà delle sue conoscenze.

Un infinitesimo flusso di amore-conforto, come un riflesso di quello che lei aveva riversato, le giunse dall’altra particella.

Prima di potervi rispondere, sentì la presenza dell’adab, il ricordo che esige. C’era qualcosa che andava fatto. Cercò di liberarsi, ancora stordita dalle ultime tracce della droga che impregnavano i suoi sensi.

Potrei cambiare quelle tracce! disse tra sé. Potrei cambiare l’azione della droga e renderla inoffensiva. Ma sarebbe un errore. Sto partecipando a un’unione rituale.

Seppe, allora, quello che andava fatto.

Aprì gli occhi e accennò al sacco dell’acqua che Chani teneva sospeso sopra di lei.

«È stato benedetto» disse Jessica. «Mescolate le acque, lasciate che il mutamento giunga a tutti, che il popolo possa partecipare e condividere la benedizione.»

Lascia che il catalizzatore svolga la sua opera, pensò. Lascia che il popolo ne beva, e che ognuno, per un attimo, abbia la più intensa percezione. La droga non è più pericolosa… ora che una Reverenda Madre l’ha mutata.

E tuttavia, l’imperioso richiamo del ricordo che esige agiva ancora su di lei. Seppe che c’era un’altra cosa da fare, ma la droga le impediva di concentrarsi.

Ahhhh… La Reverenda Madre.

«Ho incontrato la Reverenda Madre Ramallo» disse Jessica. «Lei se n’è andata, ma ugualmente rimane tra noi. Che il rito onori la sua memoria.»

Dove ho imparato queste parole? si chiese.

E subito capì che provenivano da un’altra memoria, la vita che le era stata donata e che era parte di lei stessa. Tuttavia le sembrò che mancasse qualcosa.

«Che facciano pure la loro orgia», disse l’altra memoria dentro di lei. «Hanno così pochi piaceri, dalla vita! Inoltre, tu e io abbiamo bisogno di un altro breve istante per conoscerci, prima che io mi dissolva completamente nei tuoi ricordi. Mi sento già legata a molti di essi. Ahhh… la tua mente è piena di cose interessanti! Innumerevoli cose che non avrei mai immaginato.»

E la memoria incapsulata nella sua mente si aprì a Jessica, come un immenso corridoio, in una successione infinita di Reverende Madri…

Jessica indietreggiò terrorizzata all’idea di sprofondare in quest’oceano sconfinato. Ma il corridoio non si cancellò, rivelando l’incredibile antichità della cultura dei Fremen.

Seppe così che vi erano stati dei Fremen su Poritrin, un intero popolo che si era rammollito su quel pianeta troppo facile, vittima predestinata degli incursori imperiali in cerca di prede per le colonie umane di Bela Tegeusi e Salusa Secundus.

Oh, il lamento che Jessica percepì!

Dalle profondità del corridoio, una voce immagine gridò: «Ci hanno negato lo Hajj

E Jessica, nel corridoio interiore, vide le luride capanne degli schiavi su Bela Tegeusi e il modo in cui gli uomini erano stati eliminati e selezionati per popolare Rossak e Harmonthep. Scene di ferocia incredibile si dispiegavano davanti a lei come i petali d’un orribile fiore. E vide il filo del passato, da Sayyadina a Sayyadina, dapprima trasmesso a voce, nascosto nei canti della sabbia, poi nelle Reverende Madri, grazie alla scoperta della droga su Rossak… E il filo era più solido che mai ora, su Arrakis, con la scoperta dell’Acqua della Vita.

Sempre più in giù, nel corridoio, un’altra voce gridò: «Mai perdonare! Mai dimenticare!»

Ma l’attenzione di Jessica si era concentrata sulla rivelazione dell’Acqua della Vita. Vide la fonte: l’esalazione liquida di un verme delle sabbie morente, di un creatore. E quando vide come veniva ucciso il creatore, in qualche punto della sua memoria, ne fu sconvolta.

Il creatore veniva annegato!

«Madre, che cos’hai?»

La voce di Paul. Lottò per uscire dalla vista interiore e lo guardò, conscia dei suoi doveri verso di lui, ma irritata per la sua intromissione.

Sono come una persona le cui mani siano rimaste paralizzate per tutta la vita, intorpidite, finché un giorno, all’improvviso, hanno ritrovato la loro sensibilità.

Il pensiero restò sospeso nella sua mente, una consapevolezza totale.

E io dico: «Guardate! Ho due mani!» Ma la folla qui intorno mi chiede. «Che cosa sono le mani?»

«Che cos’hai?» ripeté Paul.

«Niente.»

«Posso bere?» indicò il sacco tra le mani di Chani. «Vogliono che beva.»

Jessica percepì il significato nascosto tra le parole e comprese che lui aveva visto il veleno nella sostanza originale, prima che fosse cambiata, ed era preoccupato per lei. Allora Jessica cominciò a chiedersi quali fossero i limiti della prescienza di suo figlio. Quella domanda rivelava molte cose.

«Puoi bere» gli disse. «È stato cambiato.» E guardò Stilgar, alle spalle di Paul, che la studiava con occhi tenebrosi.

«Ora sappiamo che non hai mentito» dichiarò Stilgar.

Lei avvertì un significato nascosto anche in quella frase, ma il languore della droga le ottenebrava ancora i sensi. Com’era calda e rilassante! I Fremen erano stati così buoni con lei a procurarle una simile unione…

Paul vide che la droga si impadroniva di sua madre.

Cercò allora nella propria memoria… il passato immutabile, le onde di futuri possibili. Col suo occhio interiore gli pareva di esplorare una successione d’istanti immobili e sconcertanti: i frammenti, strappati al flusso del tempo, erano assai difficili a capirsi.

La droga… Poteva accumulare un gran numero di dati su di essa, capire ciò che stava facendo a sua madre, ma era una conoscenza priva del suo ritmo naturale, di un sistema di riflessione reciproca.

All’improvviso capì che una cosa era la visione del passato nel presente, ma che l’autentica prova della preveggenza era ben diversa: vedere il passato nell’avvenire.

Tutto continuava a essere diverso da ciò che sembrava.

«Bevi» disse Chani. Gli fece ondeggiare l’imboccatura del tubo sotto il naso.

Paul s’irrigidì, fissando Chani. Sentì nell’aria l’eccitazione che annunciava una festa. Sapeva quello che sarebbe accaduto se avesse bevuto la droga: la quintessenza della sostanza che aveva causato in lui il mutamento. Sarebbe ritornato alla visione del tempo puro, un tempo divenuto spazio. La droga lo avrebbe portato su una cima, ad altezze vertiginose, e lo avrebbe sfidato a capire.

«Bevi, ragazzo» disse Stilgar, alle spalle di Chani. «Stai ritardando il rito.»

Prestò orecchio alla folla e percepì, nelle innumerevoli voci, una nota selvaggia. «Lisan al-Gaib» dicevano. «Muad’Dib!» Fissò la madre: Jessica dormiva tranquilla; il suo respiro era profondo e regolare. Nella sua mente sorse una frase giunta da quell’avvenire che era il suo solitario passato: «Dorme nell’Acqua della Vita».

Chani lo tirò per la manica.

Paul afferrò con le labbra l’imboccatura del tubo, e udì la gente che gridava, intorno a lui. Sentì il liquido gorgogliargli nella gola, mentre Chani schiacciava il sacco, e la droga lo stordì. Poi Chani gli tolse il tubo e affidò il sacco alle innumerevoli mani che si protendevano verso di lei dal fondo della caverna. Gli occhi di Paul fissarono il suo braccio e il verde bracciale del dolore.

Chani, rialzandosi, vide il suo sguardo. Disse: «Posso piangerlo anche nella felicità dell’Acqua. Anche questo ci ha dato». Gli afferrò le mani e lo sospinse attraverso la sporgenza rocciosa. «Siamo uguali in questo, Usul: entrambi abbiamo perduto il padre per mano degli Harkonnen.»

Paul la seguì. Gli sembrava che qualcuno gli avesse staccato la testa dal corpo e l’avesse poi ricollocata a posto con nuove, strane connessioni. Sentiva le gambe lontane e molli.

Scivolarono dentro a uno stretto passaggio laterale, le cui pareti erano debolmente illuminate. La droga già produceva il suo effetto su Paul, e il tempo sbocciava davanti a lui come un fiore. Dovette appoggiarsi a Chani, quando la fanciulla scivolò in un altro tunnel oscuro. Il contatto della sua carne tenera e robusta gli eccitò il sangue. La sensazione si mescolò all’effetto della droga, ripiegando passato e futuro sul presente, in una triplice, quasi istantanea messa a fuoco.

«Ti conosco, Chani» bisbigliò. «Eravamo seduti su una sporgenza sopra la sabbia e io ho calmato le tue paure. Ci siamo accarezzati nell’oscurità del sietch. Noi…» Tutto gli si offuscò davanti agli occhi, scosse la testa e incespicò.

Chani lo sostenne e gli fece strada al di là di pesanti tende gialle, nel calore di un appartamento privato… tavoli bassi, cuscini, un materasso sotto una coperta arancione.

Paul capì vagamente che si erano fermati. Chani era in piedi, davanti a lui e lo fissava. I suoi occhi tradivano un silenzioso terrore.

«Dimmelo» mormorò.

«Tu sei Sihaya» disse Paul, «la primavera del deserto.»

«Quando la tribù divide l’Acqua» replicò Chani, «noi siamo tutti una… una cosa sola. Noi… dividiamo. Io posso sentire gli altri… in me. Ma ho paura di dividere con te.»

«Perché?»

Cercò di concentrarsi su di lei, ma il passato e il futuro si confondevano col presente, offuscando la sua immagine. La vide in un numero infinito di luoghi e di situazioni.

«C’è qualcosa che mi spaventa, in te» continuò Chani. «Quando ti ho strappato agli altri… l’ho fatto perché era questo che volevano. Tu… sei come una forza. Ci fai vedere… cose

Paul si sforzò di parlare distintamente: «Tu… che cosa vedi?»

Lei si guardò le mani: «Vedo un bambino… qui. È nostro figlio, mio e tuo». Si portò una mano alla bocca. «Com’è possibile che io conosca ogni sua sembianza?»

Hanno un po’ del talento, pensò Paul, ma lo rimuovono perché li atterrisce.

Ebbe un attimo di lucidità e vide che Chani tremava.

«Che cosa vuoi dire?» le chiese.

«Usul» disse Chani, e tremava ancora.

«Non puoi ritornare nel futuro» replicò Paul.

Una profonda compassione per lei lo invase. La strinse a sé, accarezzandole la testa. «Chani, Chani, non aver paura.»

«Usul, aiutami!»

Mentre lei parlava, Paul sentì che la droga completava il suo effetto dentro di lui. Il velo del tempo si squarciava per rivelargli il lontano turbine grigio del suo futuro.

«Sei così tranquillo» disse Chani.

Paul s’immobilizzò nella sua visione interiore, in mezzo al tempo che si dilatava nella sua strana dimensione, un vortice stabile e tuttavia tumultuoso, stretto e nel medesimo istante proiettato a raccogliere mondi ed energie innumerevoli: una corda tesa, sulla quale lui doveva procedere, oscillante come un’altalena.

Da un lato, vedeva l’Impero, un Harkonnen chiamato Feyd-Rautha che lo minacciava come una lama mortale, i Sardaukar che si rovesciavano fuori dal loro pianeta per riprendere il massacro su Arrakis, la Gilda che complottava e tacitamente approvava, il Bene Gesserit col suo piano di selezione genetica. Si ammassavano tutti sull’orizzonte, trattenuti soltanto dai Fremen e dal loro Muad’Dib: il gigante Fremen ancora dormiente in attesa della selvaggia crociata che avrebbe devastato l’universo.

Paul sentì di essere il centro, il perno di quell’immensa struttura rotante, e di procedere lungo la corda sottile, l’impercettibile segmento di pace e serenità, insieme con Chani. Davanti a lui una breve parentesi relativamente tranquilla in un sietch nascosto, un istante di quiete in un universo di violenza.

«Non c’è altro luogo possibile per un po’ di pace» concluse.

«Usul, tu piangi!» ansimò Chani. «Usul, mia forza, dai forse la tua umidità ai morti? A quali morti?»

«A quelli che non lo sono ancora» disse Paul.

«Allora, lascia che vivano il tempo della loro vita.»

Attraverso la nebbia della droga Paul seppe che aveva ragione, e la strinse ancora più forte, selvaggiamente. «Sihaya!» gridò.

Chani gli appoggiò una mano sulla guancia: «Non ho più paura, Usul. Guardami. Quando mi stringi così, anch’io vedo quello che tu vedi».

«Che cosa vedi?»

«Vedo noi due che ci scambiamo il nostro amore in un momento di calma fra due tempeste. Questo noi dovremo fare.»

La droga s’impadronì ancora di lui, e pensò: Tu mi hai dato così spesso il conforto e l’oblio. L’afferrò nuovamente l’iperpercezione, con le sue immagini che si stagliavano nel tempo, e sentì il suo futuro trasformarsi in ricordo: le tenere aggressioni dell’amore fisico, la comunione di sé, la spartizione, la dolcezza e la violenza.

«Tu sei forte, Chani» mormorò. «Resta con me.»

«Sempre» disse Chani, e lo baciò sulla guancia.

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