All’inizio, è indispensabile porre ogni cura nello stabilire i più esatti equilibri. Ciò è ben noto ad ogni sorella Bene Gesserit. Così, nell’intraprendere lo studio della vita di Muad’Dib, conviene per prima cosa collocarlo esattamente nel suo tempo: egli nacque nel cinquantasettesimo anno dell’imperatore Padiscià Shaddam IV. Cura ancora maggiore va usata nel collocare Muad’Dib nel suo giusto luogo: il pianeta Arrakis. Non ci si deve lasciar ingannare dal fatto che egli sia nato su Caladan e vi abbia trascorso i primi quindici anni. Arrakis, il pianeta noto come Dune, è la sua patria, per sempre.
Nella settimana prima della partenza per Arrakis, quando il tramenio era giunto a livelli quasi insopportabili, una donna vecchia e vizza si presentò alla madre di Paul.
Era una notte calda e soffocante a Castel Caladan, e l’antico cumulo di pietre che era la dimora degli Atreides da ventisei generazioni dava quel senso di frescura umidiccia che preannunciava un cambiamento del tempo.
La vecchia fu fatta entrare da una porta laterale e condotta giù per lo stretto corridoio fino alla camera di Paul, dove poté scorgerlo per un attimo mentre giaceva sul letto.
Una lampada schermata era sospesa vicino al pavimento. Sotto la luce fioca il ragazzo, ora sveglio, scorse il profilo di una donna corpulenta in piedi sulla soglia, accanto alla madre. L’ombra della vecchia era quella di una strega: capelli simili a un’intricata tela di ragno le incappucciavano il viso; solo gli occhi brillavano, come gioielli.
«Non è un po’ piccolo per la sua età, Jessica?» chiese la vecchia. La sua voce strideva e ronzava peggio di un baliset stonato.
La madre di Paul rispose con la sua morbida voce da contralto: «Gli Atreides cominciano a crescere tardi, Vostra Reverenza».
«Lo so, lo so» sibilò l’altra. «Ma ha già quindici anni…»
«Sì, Vostra Reverenza.»
«È sveglio e ci sta ascoltando» disse la vecchia. «È astuto, quel piccolo brigante» sogghignò. «Ma la nobiltà ha bisogno di astuzia. E se è veramente lo Kwisatz Haderach… beh…»
Fra le ombre del letto, gli occhi di Paul si restrinsero fino a due fessure, le pupille della vecchia, due ovali scintillanti come di un uccello, parvero dilatarsi e fiammeggiare mentre fissavano Paul.
«Dormi pure, piccolo brigante» mormorò. «Domani avrai bisogno di tutte le tue forze per affrontare il mio gom jabbar.»
Poi uscì, spingendo fuori la madre, e chiuse la porta con un tonfo sordo.
Paul restò sveglio, chiedendosi: Che cos’è il gom jabbar?
In tutta la confusione di quel periodo di trasloco, la vecchia era la cosa più strana che avesse mai visto.
Vostra Reverenza.
E il fatto che avesse chiamato sua madre «Jessica», come una serva, invece di quel che era: una Lady Bene Gesserit, concubina del Duca e madre del suo erede.
E se il gom jabbar fosse qualcosa di Arrakis che devo imparare prima di andare lassù? si chiese.
Sillabò le due strane frasi: Gom jabbar… Kwisatz Haderach.
C’erano tante cose da imparare. Arrakis era un posto così diverso da Caladan che la mente di Paul si smarriva al solo pensiero.
Arrakis… Dune… Il Pianeta del Deserto.
Thufir Hawat, Maestro degli Assassini di suo padre, glielo aveva spiegato: i loro mortali nemici, gli Harkonnen, erano rimasti su Arrakis per ottant’anni, governando il pianeta in quasifeudo sotto un contratto CHOAM per l’estrazione della spezia geriatrica, il melange. Ora gli Harkonnen se ne andavano per essere sostituiti dalla Casa degli Atreides in pienofeudo: una vittoria del Duca Leto. Tuttavia, aveva detto Hawat, quest’apparenza poteva nascondere pericoli mortali, poiché il Duca Leto era troppo popolare fra le Grandi Case del Landsraad.
«Un uomo troppo popolare risveglia le gelosie dei potenti» aveva detto Hawat.
Arrakis… Dune… Il Pianeta del Deserto.
Paul si addormentò e sognò una caverna su Arrakis, con gente silenziosa che lo circondava muovendosi alla fioca luce dei globi luminosi. C’era qualcosa di solenne in quel luogo, come in una cattedrale; udiva un debole suono: il drip-drip-drip dell’acqua. Anche mentre stava ancora sognando, Paul sapeva che se ne sarebbe ricordato al risveglio. Ricordava sempre i suoi sogni premonitori.
Il sogno svanì.
Paul si svegliò a metà, avvolto dal tepore del letto, e pensò… e pensò. Tutto quel suo mondo di Castel Caladan, dove non c’erano giochi e compagni della sua età, forse non meritava la tristezza dell’addio. Il dottor Yueh, il suo insegnante, aveva lasciato cadere qualche parola occasionale sul fatto che la rigida distinzione tra le classi sociali, il faufreluches, non veniva molto rispettato su Arrakis. La gente, sul pianeta, viveva ai bordi del deserto senza un Caid o un Bashar che la comandasse: erano Fremen, e, elusivi come un turbine di sabbia, non venivano neppure censiti sui Registri Imperiali.
Arrakis… Dune… Il Pianeta del Deserto.
Avvertì una tensione interiore, e mise in pratica una delle lezioni psicofisiche che gli aveva insegnato la madre. Tre inspirazioni rapide fecero scattare il meccanismo: entrò nello stato di consapevolezza distaccata… focalizzare la coscienza… dilatare l’aorta… allontanare dalla mente ogni pensiero non focalizzato… essere cosciente per atto deliberato… sangue ben ossigenato che scorre velocemente alle zone sovraccariche… non si ottiene cibo-sicurezza-libertà solo con l’istinto… la coscienza animale non si estende al di là dell’attimo presente, né ad essa si affaccia l’idea che le sue vittime possono estinguersi… l’animale distrugge e non produce… il piacere dell’animale è strettamente limitato al livello della sensazione, senza giungere a quello percettivo… l’essere umano ha bisogno d’una scala graduata con cui misurare il suo universo… mettere a fuoco la propria coscienza con atto deliberato: così ci si crea la propria scala… l’integrità del corpo dipende dal flusso sanguigno e da quello nervoso, sensibili alle più minute necessità di ogni cellula… ogni cosa, cellula, essere non è permanente… lotta per la continuità del flusso interno…
La lezione passò e ripassò senza sosta nella consapevolezza distaccata di Paul.
Quando l’alba baciò di luce dorata il davanzale della finestra, Paul subito la percepì attraverso le palpebre chiuse; le aprì, e udì il frettoloso andirivieni del castello. Fissò le travi, il fin troppo familiare disegno sul soffitto della stanza.
La porta del corridoio si aprì e sua madre sporse la testa. I suoi capelli color del bronzo erano trattenuti, sotto la corona, da un nastro nero; i suoi occhi verdi lo fissarono solenni, senza emozione, dal volto ovale.
«Sei sveglio» disse. «Hai dormito bene?»
«Sì.»
Paul la osservò, studiando la sua figura alta e sottile, e avvertì una leggera tensione in lei quando si voltò a scegliere i vestiti nell’armadio. Un altro non se ne sarebbe accorto, ma lei gli aveva insegnato la Via Bene Gesserit: l’osservazione minuziosa dei particolari. La donna si voltò: aveva scelto per lui una giacca semiufficiale. Sul taschino era ricamato il falco rosso degli Atreides.
«Sbrigati a vestirti» gli disse. «La Reverenda Madre sta aspettando.»
«Ho sognato di lei, una volta» fece Paul. «Chi è?»
«Era la mia insegnante alla scuola Bene Gesserit. Oggi è la Veridica dell’Imperatore. E, Paul…» esitò «… devi parlarle dei tuoi sogni.»
«Certo. È per merito suo che ci è stato dato Arrakis?»
«Arrakis non ci è stato dato.» Jessica spolverò un paio di calzoni e li appese accanto alla giacca, vicino al letto. «Non devi far aspettare la Reverenda Madre.»
Paul si alzò, afferrandosi alle ginocchia. «Che cos’è un gom jabbar?»
Ancora una volta, l’addestramento che lei gli aveva impartito gli rivelò un’esitazione impercettibile, un moto nervoso involontario che Paul riconobbe: paura.
Jessica si avvicinò alla finestra, spalancò le tende e fissò i frutteti, oltre il fiume, verso il Monte Syubi. «Presto lo saprai…» gli rispose.
Avvertì la paura nella voce di lei, e si chiese a che cosa fosse dovuta.
Jessica continuò senza voltarsi: «La Reverenda Madre sta aspettando nel mio soggiorno. Per favore, fai presto».
La Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam sedeva su una poltrona damascata e guardava madre e figlio che si avvicinavano. Le finestre ai due lati si aprivano sull’ansa meridionale del fiume e sulle verdi proprietà degli Atreides, ma alla donna non interessava il panorama. Quella mattina, gli anni che le gravavano sulle spalle l’affliggevano più del solito. Ne attribuì la colpa al viaggio attraverso il cosmo, con quell’abominevole Gilda Spaziale e tutti i suoi segreti. Ma la missione richiedeva le personali attenzioni di una Veggente Bene Gesserit. Neppure la Veridica dell’Imperatore poteva declinare simili responsabilità, quando il dovere la chiamava.
Maledetta Jessica! esclamò dentro di sé la Reverenda Madre. Se solo avesse generato una figlia, come le era stato ordinato!
Jessica si fermò a tre passi dalla poltrona; fece una piccola riverenza e abbozzò un lieve movimento della sinistra, quasi una carezza alla gonna. Paul si piegò in un breve inchino come il suo maestro di danza gli aveva insegnato: quello per «quando si è in dubbio sull’effettivo rango sociale dell’interlocutore».
La sfumatura dell’inchino di Paul fu notata perfettamente dalla Reverenda Madre. «È un ragazzo prudente» disse.
La mano di Jessica strinse la spalla di Paul. Dalla pulsazione del palmo traspirò la paura del suo cuore. Ma riacquistò subito il controllo di sé. «Così gli è stato insegnato, Vostra Reverenza.»
Che cosa teme? si chiese Paul.
La vecchia studiò il ragazzo esaminando ogni particolare con una sola occhiata d’insieme. Il volto: ovale come quello di Jessica, ma zigomi forti… I capelli: quelli nerissimi del Duca… ma con l’attaccatura del nonno materno (colui che non può essere nominato) e pure il naso sottile e sdegnoso! La forma degli occhi verdi puntati su di lei: quella del vecchio Duca, il nonno paterno ora defunto.
Ecco, quello sì che era un uomo capace di apprezzare la vera spavalderia… perfino nella morte, pensò la Reverenda Madre.
«L’insegnamento è una cosa» dichiarò, «il materiale di partenza un’altra. Vedremo.» I suoi occhi fulminarono Jessica: «Esci e pratica la meditazione della calma. È un ordine».
Jessica tolse la mano dalla spalla di Paul: «Vostra Reverenza, io…»
«Jessica, sai che occorre farlo.»
Paul alzò gli occhi sulla madre, perplesso. Jessica si raddrizzò. «Sì… naturalmente.»
Paul ritornò a guardare la Reverenda Madre. La cortesia, e il potere, fin troppo evidente, della vecchia su sua madre consigliavano la cautela. E tuttavia sentì crescere in sé una rabbiosa reazione alla paura che s’irradiava dalla donna.
«Paul…» Jessica respirò profondamente, «…questa prova alla quale stai per sottoporti… è importante per me.»
«Prova?» La guardò.
«Ricordati che sei figlio di un Duca» concluse Jessica. Si voltò e uscì a lunghi passi dalla stanza, con un irritato fruscio della gonna. La porta si chiuse alle sue spalle.
Paul squadrò la vecchia, dominando a stento la rabbia. «Si manda via così Lady Jessica, come se fosse una serva?»
Un sorriso si disegnò per un attimo sugli angoli di quella bocca rugosa. «Lady Jessica era davvero la mia serva, ragazzo. Lo è stata per quattordici anni, a scuola» assentì col capo. «Ed era anche bravissima. Ma adesso, vieni qui, tu!»
Il comando lo colpì come una sferzata. Paul si accorse di avere obbedito prima ancora di aver pensato. Ha usato la Voce su di me. Lei lo fermò con un gesto, accanto alle sue ginocchia.
«Lo vedi?» gli chiese. Dalle pieghe della veste aveva tirato fuori un cubo di metallo verde, di circa quindici centimetri. Lo girò, e Paul vide che mancava un lato… nero e spaventoso: nessuna luce penetrava in quell’oscurità.
«Infila la mano destra nella scatola» gli ordinò.
Per un attimo, Paul fu attanagliato dalla paura; indietreggiò, ma la vecchia insistette. «È così che obbedisci a tua madre?»
Paul le fissò gli occhi luminosi, da uccello.
Lentamente, come per un ordine interiore, incapace di disobbedire, Paul infilò la mano nella scatola. Provò all’inizio una sensazione di freddo, mentre l’oscurità si chiudeva intorno alla sua mano, poi del metallo liscio sulla pelle e un formicolio, come se le dita gli si fossero intorpidite.
Sul volto della vecchia apparve uno sguardo rapace: staccò la mano destra dalla scatola e l’appoggiò sul collo di Paul. Il ragazzo intravide un luccichio metallico e fece per girare la testa.
«Fermo!» disse lei, con sicurezza.
Ha usato di nuovo la Voce! Fissò nuovamente il volto di lei.
«Stringo il gom jabbar» gli disse, «accanto al tuo collo. Il gom jabbar, il nemico dalla mano levata. È un ago avvelenato… Non tirarti indietro, altrimenti il veleno ti coglierà.»
Paul cercò di deglutire, ma aveva la gola secca. Non riusciva a distogliere l’attenzione da quel vecchio viso grinzoso, da quegli occhi scintillanti, da quelle gengive pallide, da quei denti di metallo argenteo che mandavano bagliori quando la vecchia parlava.
«Il figlio di un Duca deve conoscere i veleni» sibilò la vecchia. «È così che viviamo, oggi, non è vero? Musky per avvelenarti la bevanda. Aumas per le pietanze. I veleni lenti, quelli veloci e gli intermedi. Qui ce n’è uno nuovo per te: il gom jabbar. Uccide solo le bestie.»
L’orgoglio prese il sopravvento sulla paura di Paul. «Osate dire che il figlio di un Duca è un animale?» esclamò.
«Diciamo che potresti anche essere umano» lei ribatté. «Stai fermo! Ti avverto, guai a te se cerchi di divincolarti. Sono vecchia, ma questa mano può piantarti l’ago nel collo prima che tu riesca a sfuggirmi.»
«Chi siete?» bisbigliò Paul. «Come avete fatto a ingannare mia madre, convincendola a lasciarmi solo con voi? Siete mandata dagli Harkonnen?»
«Gli Harkonnen? Cielo, no! Ora stai zitto.» Gli sfiorò il collo con un dito ossuto: Paul frenò l’impulso a fuggire.
«Bene» disse la vecchia, «hai superato la prima prova. E adesso, ecco in che cosa consiste la seconda: se togli la mano dalla scatola, muori. Nient’altro. Tieni la mano nella scatola, e vivi. Toglila, e muori.»
Paul respirò profondamente per calmare il tremito. «Se urlo, in un attimo la stanza sarà piena di servi, e allora voi morirete!»
«I servi non passeranno oltre tua madre, che è di guardia fuori da questa porta. Puoi esserne certo. Jessica ha già superato questa prova. Ora è il tuo turno. Devi esserne onorato. Molto raramente sottoponiamo dei ragazzi ad essa.»
La curiosità ridusse il terrore di Paul a un livello controllabile. Non poteva negarlo: le parole della vecchia gli erano suonate sincere. Se sua madre era di guardia fuori… se questa era veramente una prova… Qualsiasi cosa fosse, sapeva di esserci dentro fino al collo, intrappolato da quella mano con l’ago, il gom jabbar. Richiamò alla mente la litania contro la paura che sua madre gli aveva insegnato, secondo il rito Bene Gesserit.
Non devo aver paura. La paura uccide la mente. La paura è la piccola morte che porta con sé l’annullamento totale. Guarderò in faccia la mia paura. Permetterò che mi calpesti e mi attraversi. E quando sarà passata, aprirò il mio occhio interiore e ne scruterò il percorso. Là dove andrà la paura non ci sarà più nulla. Soltanto io ci sarò.
Sentì la calma invaderlo nuovamente, ed esclamò: «Sbrigatevi, vecchia».
«Vecchia!» ribatté lei. «Hai del coraggio, non si può negare. Bene, vedremo, signor mio.» Si chinò su di lui, sfiorandolo, e abbassò la voce fino a un bisbiglio: «Sentirai dolore alla mano, nella scatola. Un dolore atroce, ma… Ritira la mano e ti toccherò il collo col gom jabbar! La sua morte è rapida come la scure che mozza il capo al condannato. Ritira la mano, e il gom jabbar ti ucciderà. Hai capito?»
«Che cosa c’è nella scatola?»
«Dolore.»
Sentì qualcosa che gli punzecchiava la mano sempre più forte, e strinse le labbra. Com’è possibile che questa sia una prova? si chiese. Il punzecchiamento divenne prurito.
La vecchia disse: «Non hai mai sentito parlare di animali che si sono morsi una gamba fino a troncarla, per sfuggire da una tagliola? Questa è l’astuzia cui ricorrerebbe un animale. Un essere umano resterebbe nella tagliola, sopporterebbe il dolore e fingerebbe di esser morto, per cogliere di sorpresa il cacciatore e ucciderlo, ed eliminare così un pericolo per la razza».
Il prurito crebbe lentamente fino a bruciare. «Perché mi fate questo?» le chiese Paul.
«Per sapere se sei un essere umano. Silenzio!»
Paul strinse spasmodicamente la mano sinistra, mentre la sensazione di bruciore aumentava nella destra. Cresceva lentamente: il calore si sommava al calore, al calore… al calore. Sentì che le unghie della mano sinistra si conficcavano nel palmo. Cercò di distendere le dita della mano che bruciava, ma non riuscì a muoverle.
«Brucia» bisbigliò.
«Silenzio!»
Il dolore gli risalì, pulsando, lungo il braccio. Il sudore gl’imperlava la fronte. Ogni fibra del corpo gli gridava di ritirare la mano da quel pozzo di fiamme… ma… c’era il gom jabbar! Senza girare la testa cercò di ruotare gli occhi per vedere quel terribile ago sospeso accanto al collo. Si accorse di ansimare, cercò di rallentare il respiro ma non vi riuscì.
Dolore!
Il suo universo si vuotò completamente, tranne la mano destra immersa in quell’agonia e per quel volto rugoso che lo fissava da brevissima distanza.
Le labbra erano così secche che gli costò fatica separarle.
Brucia! Brucia!
Gli sembrò che la pelle di quella mano agonizzante s’increspasse, nera, screpolandosi, fino a cadere, lasciando soltanto ossa carbonizzate.
Poi, all’improvviso, cessò!
Come lo scatto di un interruttore, il dolore cessò.
Paul sentì il braccio destro che gli tremava. Era madido di sudore.
«Basta così» mormorò la vecchia. «Kull wahad! Nessuna fanciulla ha mai resistito a tanto. Forse volevo che tu non superassi la prova!» Si piegò all’indietro, e gli allontanò il gom jabbar dal collo. «Togli pure la mano dalla scatola, giovanotto, e guardala!»
Represse un fremito di dolore, e fissò il vuoto senza luce dove la sua mano sembrava ostinarsi a restare, quasi avesse una propria volontà. Il ricordo del dolore gli inibiva qualsiasi movimento. La ragione gli diceva che avrebbe estratto da quella scatola un moncherino annerito.
«Toglila!» insistette lei, bruscamente.
Strappò la mano dalla scatola e la fissò, sconvolto. Non c’era il più piccolo segno. Neppure una traccia dell’atroce agonia appena sperimentata. Alzò la mano, la girò, distese le dita.
«Dolore tramite induzione nervosa» spiegò la vecchia. «Non posso andare in giro storpiando potenziali esseri umani. Tuttavia, molti darebbero ben più di una mano per il segreto della scatola.»
La nascose nuovamente tra le pieghe della veste.
«Ma il dolore…» balbettò Paul.
«Dolore.» Inspirò rumorosamente dal naso. «Un essere umano sa rendersi superiore a una sensazione del proprio corpo.»
Paul sentì che la mano sinistra gli faceva male. Aprì lentamente il pugno e vide quattro tagli sanguinanti dove le unghie si erano conficcate nel palmo. Lasciò ricadere la mano lungo il fianco e guardò la vecchia. «Avete fatto questo anche a mia madre, un giorno?»
«Hai mai setacciato la sabbia?» gli chiese lei.
La risposta obliqua risvegliò in lui un più alto livello di percezione: Sabbia attraverso un setaccio. Annuì.
«Noi Bene Gesserit setacciamo la gente per scoprire gli esseri umani.»
Paul sollevò la mano destra, rievocando il dolore. «Ed è tutto qui?»
«Ti ho osservato mentre affrontavi il dolore, ragazzo. Il dolore è soltanto il veicolo della prova. Tua madre ti ha parlato del nostro modo di osservare: vedo in te i segni del suo insegnamento. La nostra prova consiste nel cagionare una crisi, e osservare.»
Il tono di voce della vecchia confermava quanto stava dicendo. «È vero!» esclamò lui.
Lei lo fissò. Ha percepito la verità! Che sia lui quello che cerchiamo? Frenò la sua eccitazione, ricordando a se stessa: «La speranza offusca l’osservazione».
«Tu sai capire quando la gente crede in ciò che dice» chiese poi.
«Sì.»
Nella voce del ragazzo c’era il tono di chi parla per acquisita esperienza, e sempre con esiti positivi; la vecchia lo avvertì pienamente, e disse: «Potresti essere davvero lo Kwisatz Haderach. Siediti, fratellino, qui ai miei piedi».
«Preferisco restare come sono.»
«Tua madre si sedeva ai miei piedi, una volta.»
«Io non sono mia madre.»
«Ci detesti un po’, non è vero?» La vecchia si voltò verso la porta e chiamò: «Jessica!»
La porta si spalancò e Jessica era lì in piedi che fissava con occhi di ghiaccio l’interno della stanza. Il ghiaccio si sciolse quando vide Paul. Riuscì a sorridere debolmente.
«Jessica» domandò la vecchia, «hai mai smesso di odiarmi?»
«Vi amo e vi odio insieme» rispose Jessica. «L’odio… è dovuto al dolore che non devo mai dimenticare. L’amore e…»
«Soltanto i fatti» l’interruppe la vecchia, ma la sua voce era dolce. «Ora puoi entrare, ma rimani in silenzio. Chiudi quella porta e assicurati che nessuno c’interrompa.»
Jessica scivolò nella stanza, chiuse la porta e restò immobile, appoggiata ad essa. Mio figlio vive, pensava. Mio figlio vive… ed è un essere umano. Io lo sapevo… ma… vive! Adesso anch’io posso continuare a vivere. La superficie della porta era dura e concreta contro la sua schiena. Tutto quello che si trovava nella stanza era immediato e le urgeva contro i sensi.
Mio figlio vive!
Paul fissò la madre. Ha detto la verità. Voleva andarsene, restar solo a meditare su questa esperienza, ma non poteva farlo finché non l’avessero congedato: la vecchia aveva acquisito su di lui una sorta di potere. Tutt’e due hanno detto la verità. Anche sua madre era stata sottoposta a una prova identica. Dietro tutto ciò, Paul intuiva qualcosa: uno scopo terribile… terribili erano stati il dolore e la paura. E Paul conosceva gli scopi terribili: quelli perseguiti anche se hanno tutte le carte contro, quelli che traggono da se stessi la propria necessità. Paul sentiva che uno scopo terribile era stato inoculato anche in lui. Ma non sapeva ancora quale fosse questo terribile scopo.
«Un giorno, ragazzo» disse la vecchia, «dovrai forse anche tu restar fuori di una porta come quella. Ci vuole molta forza per farlo.»
Paul guardò la mano che aveva sperimentato il dolore, poi alzò gli occhi verso la Reverenda Madre. Il suono di quelle parole era diverso da qualsiasi altra voce da lui udita prima. Parole splendide, sonore, taglienti. Sentì che, qualsiasi domanda avesse fatto, avrebbe ricevuto una risposta tale da elevarlo dal suo mondo di carne a un universo più grande.
«Perché cercate gli esseri umani?» domandò.
«Per liberarli.»
«Liberarli?»
«Un tempo gli uomini dedicavano il proprio pensiero alle macchine, nella speranza che esse li avrebbero liberati. Ma questo consentì ad altri uomini di servirsi delle macchine per renderli schiavi.»
«’Non costruirai una macchina a somiglianza della mente di un uomo’» citò Paul.
«Così dice la Bibbia Cattolica Orangista, e così fu ripetuto dal Jihad Butleriano» assentì la vecchia. «Ma in realtà la Bibbia C.O. avrebbe dovuto dire: ’Non costruirai una macchina che contraffaccia la mente di una persona umana’. Non hai mai studiato il Mentat al servizio della tua Casa?»
«Ho studiato con Thufir Hawat.»
«La Grande Rivolta ci ha liberati da una stampella» dichiarò la vecchia. «Ha costretto la mente umana a svilupparsi. Furono fondate scuole per sviluppare il talento umano.»
«Le scuole Bene Gesserit?»
La vecchia annuì. «Due grandi scuole sopravvivono: il Bene Gesserit e la Gilda Spaziale. La Gilda, così noi pensiamo, concentra ogni suo sforzo nella matematica pura. Il Bene Gesserit svolge altre funzioni.»
«Politiche» aggiunse Paul.
«Kull wahad!» esclamò la vecchia lanciando un’occhiataccia a Jessica.
«Non gliel’ho detto io, Vostra Reverenza» Jessica si difese.
La Reverenda Madre rivolse nuovamente la sua attenzione a Paul. «Ti sono bastati ben pochi indizi!» replicò. «Politiche, proprio così. In origine, la scuola Bene Gesserit era diretta da coloro che intuirono quanto fosse necessaria una continuità nelle vicende umane. Si accorsero che una simile continuità non si poteva creare senza separare il ceppo umano da quello animale… per ragioni di allevamento.»
Le parole della vecchia avevano perso all’improvviso, per Paul, il suono particolare, cristallino. Provava un’offesa in quello che sua madre aveva chiamato il suo istinto per la sincerità. Non che la Reverenda Madre gli stesse mentendo. Ovviamente, la vecchia credeva in quello che diceva. Era qualcosa di più profondo, qualcosa legato al terribile scopo della sua esistenza.
Disse: «Ma mia madre mi ha detto che molte Bene Gesserit delle scuole ignorano la propria genealogia».
«Le ascendenze genetiche compaiono sempre nel Registro delle Unioni» replicò lei. «Tua madre, per esempio, sa che la sua ascendenza o è Bene Gesserit, o è accettabile così com’è.»
«Allora, perché non ha mai saputo chi fossero i suoi genitori?»
«Alcuni li conoscono… altri no. Per esempio, avremmo potuto desiderare di accoppiarla con un consanguineo per far affiorare un carattere genetico come dominante. Abbiamo molte ragioni.»
Ancora una volta, Paul si sentì offeso nel suo istinto per la sincerità. Dichiarò: «Sono molte le cose che decidete da sole!»
La Reverenda Madre lo fissò, chiedendosi: C’era della critica nella sua voce? «Il nostro fardello è molto pesante» replicò.
Paul sentì che stava riavendosi completamente dallo shock della prova appena sostenuta. La fissò con uno sguardo acuto. «Avete affermato che forse io sono lo… Kwisatz Haderach. Cos’è, un gom jabbar umano?»
«Paul» l’interruppe Jessica, «non devi parlare in quel tono alla…»
«Ci penso io, Jessica» s’intromise la vecchia. «Dimmi, ragazzo, conosci la droga delle Veridiche?»
«La prendete per incrementare la capacità di scoprire il falso» rispose Paul. «Me l’ha detto mia madre.»
«Hai mai assistito a una veritrance?»
Paul scosse la testa.
«La droga è pericolosa» disse la vecchia, «ma ti conferisce l’intuizione. Quando una Veggente ha il dono della droga, può guardare in molti luoghi della sua memoria… della memoria del suo corpo. Noi percorriamo molte vie del passato… ma unicamente vie femminili.» La sua voce ebbe una sfumatura di tristezza. «E tuttavia c’è un luogo dove nessuna Veridica può guardare. Ne siamo respinte, terrorizzate. Si dice che un giorno verrà un uomo, e che costui troverà nel dono della droga il proprio occhio interiore. Potrà guardare dove noi non possiamo… in entrambi i passati, femminile e maschile.»
«Il vostro Kwisatz Haderach?»
«Sì, colui che può essere in molti luoghi contemporaneamente: lo Kwisatz Haderach. Molti uomini hanno tentato la droga… moltissimi! Ma nessuno c’è riuscito.»
«Tutti hanno tentato e fallito?»
«Oh, no.» Lei scosse la testa. «Hanno tentato e sono morti.»
Cercar di capire Muad’Dib senza capire i suoi mortali nemici, gli Harkonnen, è come cercar di vedere la Verità senza conoscere il Falso. È come cercar di vedere la Luce senza conoscere la Tenebra. È impossibile.
Un globo, la mappa in rilievo di un mondo, parzialmente oscurato, girava sotto la spinta di una mano grassoccia che scintillava di anelli. Il globo era sostenuto da un supporto snodabile su una parete di una stanza senza finestre; le altre pareti erano nascoste da una sorta di mosaico multicolore, pergamene, librofilm, nastri e bobine. Altri globi dorati irradiavano nella stanza una vaga luminosità, sospesi sui loro campi di forza.
Un tavolo ellittico con superficie rosa giada di legno di elacca pietrificato era al centro della stanza. Alcune sedie rigide, sospese, erano disposte intorno ad esso. Due erano occupate: una da un giovane dai capelli neri, di circa sedici anni, il viso rotondo e gli occhi corrucciati; l’altra da un uomo magro e di bassa statura, dal volto effeminato.
Ambedue, il ragazzo e l’uomo, fissavano il globo e l’individuo seminascosto che lo faceva girare.
Un sogghigno echeggiò accanto al globo. Una voce di basso seguì come il rombo di un tuono: «Eccola, Piter… la più grande trappola per uomini di tutta la storia. E il Duca si getta a capofitto tra le sue fauci! Io, il Barone Vladimir Harkonnen, l’ho preparata: non è magnifica?»
«Senza alcun dubbio, Barone» disse l’uomo. La sua voce era quella di un tenore di grazia.
La mano grassoccia calò sul globo, bloccandone la rotazione. Ora, tutti i presenti furono in grado di metterne a fuoco la superficie immobile: era quel tipo di mappamondo confezionato per i ricchi collezionisti o i governatori planetari dell’Impero. Tutto, in esso, suggeriva l’abilissima mano degli artigiani imperiali. Le linee della longitudine e della latitudine erano incise con sottili fili di platino. Le calotte polari erano meravigliosi diamanti lattiginosi incastonati.
La mano grassoccia si agitò, indicando i particolari della superficie. «Ti invito a osservare, Piter» tuonò la voce di basso, «a osservare da vicino e anche tu, Feyd-Rautha, mio caro: le deliziose increspature che si trovano qui, fra i sessanta gradi nord e i settanta gradi sud. Questi colori, simili a dolce caramello. Vedete? In nessun punto si scorgono i segni blu dei laghi, dei mari o dei fiumi. E le adorabili calotte polari, così piccole! Chi non riconoscerebbe questo mondo? Arrakis! Veramente unico. Uno scenario superbo per una vittoria unica nel suo genere!»
Un sorriso increspò le labbra di Piter. «E pensare, Barone, che l’Imperatore Padiscià è convinto di avere offerto al Duca il vostro pianeta della spezia. Che beffa piccante!»
«Parole sciocche» tuonò il Barone. «Le dici per confondere il giovane Feyd-Rautha, ma non è necessario confondere mio nipote.»
Il giovane dal volto corrucciato si agitò sulla sedia, lisciando una piega della sua nera calzamaglia. Poi sobbalzò, udendo bussare discretamente alla porta, alle sue spalle.
Piter si districò dalla sedia, si diresse alla porta, la socchiuse quel tanto che bastava per ritirare un messaggio. Chiuse la porta, srotolò il cilindro e l’esaminò attentamente. Sogghignò. Due volte.
«Allora?» chiese il Barone.
«Il pazzo ci ha risposto, Barone.»
«E quando mai un Atreides ha rifiutato l’occasione di mostrare la sua buona volontà?» ribatté il Barone. «Bene, che cosa dice?»
«È molto rozzo, Barone. Si rivolge a voi come ’Harkonnen’, niente, ’Sire et Cher Cousin’, nessun titolo, niente.»
«È un buon nome» ringhiò il Barone. Il suo tono tradì l’impazienza. «E cosa dice il caro Leto?»
«Dice: ’La tua offerta per un incontro è respinta. Spesse volte ho avuto a che fare con la tua perfidia: tutti lo sanno, fin troppo bene.’»
«E poi?» chiese il Barone.
«Dice: ’L’arte del kanly ha ancora i suoi ammiratori, nell’Impero.’ E si firma: ’Duca Leto di Arrakis’!» Piter scoppiò a ridere. «’Di Arrakis’! Ohimè! Questa è bella, anche troppo!»
«Fai silenzio, Piter» gl’intimò il Barone. (La risata si arrestò come allo scatto di un interruttore.) «Kanly, vero?» chiese. «Vendetta, eh? E ha usato le care, vecchie, simpatiche parole così ricche di tradizioni per essere sicuro che io intendessi perfettamente quello che voleva dire.»
«Voi avete fatto un gesto di pace» riprese Piter. «Le formalità sono state rispettate.»
«Per essere un Mentat, Piter, tu parli troppo» replicò il Barone. E pensò: Devo sbarazzarmi al più presto di costui. Ha quasi superato la sua utilità. Il Barone fissò il suo Mentat Assassino, sull’altro lato della stanza, considerando il connotato che la gente notava per primo: gli occhi. Due fenditure azzurre che sfumavano in un azzurro più intenso: occhi nei quali non c’era bianco.
Una smorfia attraversò il volto di Piter, come il sogghigno di una maschera sotto quegli occhi simili a fori. «Barone, mai vendetta è stata più bella. Un piano così squisitamente perfido: costringere Leto a scambiare Caladan con Dune… e senza alcuna alternativa, poiché è stato l’Imperatore stesso a ordinarlo. Che bello scherzo, Barone, da parte vostra!»
Freddamente, il Barone disse: «Parli troppo, Piter».
«Ma io sono felice, mio Barone. E voi… voi provate una punta di invidia!»
«Piter!»
«Ah, ah, Barone! Non è forse un peccato che voi siate stato incapace di divisare questo delizioso piano tutto da solo?»
«Uno di questi giorni ti farò strangolare, Piter.»
«Certamente, Barone. Enfin! Ma una cortesia non si dimentica mai, eh?»
«Hai masticato verite o semuta, Piter?»
«La verità, senza la paura che l’accompagni, stupisce il Barone» disse Piter. Il suo viso si contorse nella caricatura di una maschera aggrottata. «Ah, ah! Vedete, Barone, io so, poiché sono un Mentat, quando voi mi manderete al boia. Eviterete di farlo fin quando vi sarò utile. Muoversi prima sarebbe uno spreco, e io sono ancora molto utile. So cosa vi ha insegnato quel delizioso pianeta, Dune: non sprecare mai nulla. Non è vero, Barone?»
Il Barone continuò a fissare Piter.
Feyd-Rautha fremeva sulla sedia. Questi pazzi attaccabrighe! pensò. Mio zio non può parlare al suo Mentat senza litigare. Pensano che io non abbia altro da fare che ascoltare le loro discussioni?
«Feyd» l’interpellò il Barone, «quando ti ho invitato a venire qui, ti ho detto di ascoltare e imparare. Stai imparando?»
«Sì, zio.» Il tono era prudente e ossequioso.
«A volte mi chiedo di Piter…» cominciò il Barone. «Io procuro dolore per necessità, ma lui… giurerei che ne trae piacere. Per quanto mi riguarda, io provo pietà per il povero Duca Leto. Il dottor Yueh agirà contro di lui molto presto, e questa sarà la fine di tutti gli Atreides. Ma sicuramente Leto saprà di chi è la mano che guida quel dottore così malleabile… e saperlo sarà una cosa tremenda, per lui.»
«Allora, perché non avete ordinato al dottore di piantargli un kindjal tra le costole, con la massima calma e la massima efficacia?» ribatté Piter. «Voi parlate di pietà, ma…»
«Il Duca deve sapere che io l’ho condannato» disse il Barone. «E ugualmente devono saperlo anche le altre Grandi Case. Questo, le fermerà, per un poco, e io avrò più spazio per manovrare. È necessario, ma non per questo mi piace.»
«Spazio per manovrare!» lo canzonò Piter. «Gli occhi dell’Imperatore sono già su di voi, Barone; voi vi muovete troppo spavaldamente. Un giorno l’Imperatore manderà una o due delle sue legioni Sardaukar quaggiù, su Giedi Primo, e sarà la fine del Barone Vladimir Harkonnen.»
«Ti piacerebbe vederla, vero, Piter?» disse il Barone. «Quanto godresti nel vedere i Corpi dei Sardaukar mettere a ferro e a fuoco le mie città e saccheggiare questo castello? Dimmi, quanto ne godresti?»
«Avete bisogno di chiederlo, Barone?» bisbigliò Piter.
«Tu saresti dovuto essere un Bashar dei Corpi» insistette il Barone. «Tu sei troppo affascinato dal sangue e dal dolore. Forse sono stato troppo precipitoso quando ti ho promesso le spoglie di Arrakis.»
Piter attraversò la stanza in punta di piedi, fermandosi dietro a Feyd-Rautha. L’atmosfera era tesa: il giovane alzò gli occhi su Piter, accigliandosi.
«Non prendetevi gioco di Piter, Barone» disse il Mentat. «Voi mi avete promesso Lady Jessica. Me l’avete promessa personalmente.»
«E perché, Piter?» chiese il Barone. «Per il dolore?»
Piter lo fissò senza rispondere. Il silenzio si prolungò.
Feyd-Rautha si agitò sulla sedia sospesa. «Zio, devo proprio restare? Avevi detto che…»
«Il mio caro Feyd-Rautha si spazientisce» l’interruppe il Barone. Si agitò all’ombra del globo. «Pazienza, Feyd» rivolse nuovamente la sua attenzione al Mentat. «E il Duchino, mio caro Piter? Il bambino, Paul?»
«La trappola lo condurrà direttamente tra le vostre mani, Barone» mormorò Piter.
«Non è questa la mia domanda» replicò il Barone. «Ricordi? Avevi predetto che quella strega Bene Gesserit avrebbe generato una figlia al Duca. Ti sei sbagliato, eh, Mentat?»
«Mi sbaglio molto di rado, Barone» disse Piter, e per la prima volta la sua voce tremò. «Concedetemi almeno questo: molto di rado. Lo sapete anche voi che queste Bene Gesserit di solito generano figlie. Anche la moglie dell’Imperatore ha generato soltanto femmine.»
«Zio» s’intromise Feyd-Rautha, «avevi detto che ci sarebbe stato qualcosa d’importante, qui, che io…»
«Ma sentilo, mio nipote!» esclamò il Barone. «Aspira a comandare la mia Baronia, e tuttavia non sa neppure comandare la propria impazienza.» Il Barone si mosse ancora accanto al globo, ombra tra le ombre. «Vedi, Feyd-Rautha Harkonnen, ti ho fatto venire qui sperando di poterti insegnare un po’ di saggezza. Hai osservato il nostro bravo Mentat? Avresti dovuto imparare qualcosa da questo nostro scambio di opinioni.»
«Ma, zio…»
«Un Mentat estremamente efficiente, il nostro Piter. Non sei d’accordo, Feyd?»
«Sì, ma…»
«Ah. proprio così: ’ma…’! Ma consuma troppa spezia, la mangia come fosse frutta candita. Guardagli gli occhi! Potrebbe essere arrivato qui direttamente da una miniera di Arrakis. Efficiente, Piter, ma ancora troppo emotivo e succubo a improvvisi scoppi di passione. Efficiente, Piter, ma capace ancora di sbagliarsi.»
Piter ribatté a bassa voce e di cattivo umore: «Mi avete forse fatto venire qui per nuocere alla mia efficienza con delle critiche, Barone?»
«Nuocere alla tua efficienza? Tu mi conosci bene, Piter. Desidero soltanto che mio nipote sappia quali sono i limiti di un Mentat.»
«State già addestrando, forse, il mio sostituto?» domandò Piter.
«Sostituire te? Perché mai, Piter? Dove troverei un altro Mentat con la tua astuzia e il tuo veleno?»
«Nello stesso luogo dove avete trovato me, Barone.»
«Forse dovrei farlo» meditò il Barone. «Mi sei sembrato un po’ instabile, in questi ultimi tempi. È tutta quella spezia che mangi?»
«Forse che i miei piaceri sono troppo costosi, Barone? Avete qualche obiezione?»
«Mio caro Piter, sono appunto i tuoi piaceri che ti legano a me. Come potrei avere obiezioni? Desidero soltanto che mio nipote prenda nota di questo.»
«Allora sono in vetrina? Devo mettermi a ballare? Devo forse esibirmi in tutte le mie varie funzioni per l’eminente Feyd-Rau…»
«Precisamente» l’interruppe il Barone. «Tu sei in vetrina. E adesso, taci.» Si voltò verso Feyd-Rautha: le labbra di suo nipote, turgide e sporgenti (il marchio genetico degli Harkonnen), erano piegate in una smorfia, quasi un sorriso. «Questo è un Mentat, Feyd. È stato addestrato e condizionato a svolgere certi compiti. Non dobbiamo dimenticarci, tuttavia, che esso dimora all’interno di un corpo umano. Un grave svantaggio: a volte mi convinco che i nostri antenati, con le loro macchine pensanti, avevano visto giusto.»
«Erano soltanto giocattoli, paragonati a me» lo canzonò Piter. «Voi stesso, Barone, potreste battere di gran lunga quelle macchine…»
«Forse» concesse il Barone. «Ah, ora…» (respirò a fondo e ruttò) «ora, Piter, descrivi brevemente a mio nipote le più importanti caratteristiche della nostra campagna contro la Casa degli Atreides. Cerca di funzionare come il nostro Mentat, se non ti dispiace.»
«Barone, vi ho avvertito: non confidate queste informazioni a una persona così giovane. Le mie osservazioni del…»
«Tocca a me giudicare» ribatté il Barone. «Ti ho dato un ordine, Mentat. Ora, esibisci questa tua funzione.»
«Così sia» concluse Piter. Si raddrizzò e assunse uno strano atteggiamento dignitoso: come un’altra delle sue maschere, che questa volta, però, gli copriva tutto il corpo. «Fra pochi giorni standard, l’intera casata del Duca Leto s’imbarcherà su uno dei vascelli della Gilda Spaziale, diretto ad Arrakis. La Gilda li scaricherà nella città di Arrakeen, e non nella nostra Carthag. Il Mentat del Duca, Thufir Hawat, avrà giustamente concluso che Arrakeen è più facile da difendere.»
«Ascolta attentamente» disse il Barone. «Osserva come i piani s’incastrino nei piani, in altri piani.»
Feyd-Rautha assentì, pensando: Questo già assomiglia di più a quanto mi aspettavo. Il vecchio mostro ha finalmente deciso di introdurmi nei suoi segreti. Questo significa che vuole veramente fare di me il suo erede.
«Vi sono molte altre possibilità divergenti» continuò Piter. «Io ho previsto che la Casa degli Atreides verrà su Arrakis, ma non dobbiamo ignorare la possibilità che il Duca abbia un contratto con la Gilda per farsi trasportare in un luogo sicuro, fuori del Sistema. Altri, in simili circostanze, hanno rinnegato le proprie casate, hanno preso con sé atomiche e scudi di famiglia e si sono precipitati al di là dell’Impero.»
«Il Duca è un uomo troppo orgoglioso per farlo» disse il Barone.
«È una possibilità» replicò Piter. «L’effetto finale, tuttavia, per noi sarebbe lo stesso.»
«No, non sarebbe lo stesso!» ruggì il Barone. «Devo averlo morto, e la sua famiglia estinta!»
«Questo è altamente probabile» disse Piter. «Vi sono chiari indizi, quando una Casa ha deciso di rinnegarsi. Non sembra che il Duca si prepari a nulla del genere.»
«Appunto» sospirò il Barone. «Continua, Piter.»
«Ad Arrakeen» disse Piter, «il Duca e la sua famiglia occuperanno la Residenza, che ultimamente ha ospitato il Conte e la Lady Fenring.»
«L’Ambasciatore ai Contrabbandieri» sogghignò il Barone.
«Ambasciatore a che cosa?» domandò Feyd-Rautha.
«Tuo zio scherza» gli spiegò Piter. «Chiama il Conte Fenring ’Ambasciatore ai Contrabbandieri’ a causa del grande interesse dell’Imperatore nel contrabbando su Arrakis.»
Feyd-Rautha fissò perplesso suo zio. «Perché?»
«Non essere stupido, Feyd» gli rispose brusco il Barone. «Finché la Gilda Spaziale rimane virtualmente fuori dal controllo imperiale, non può essere altrimenti. Come fanno le spie e gli assassini a correre su e giù?»
La bocca di Feyd-Rautha produsse un inarticolato «Oooh». «Abbiamo preparato dei diversivi, alla Residenza» disse Piter. «Vi sarà un attentato alia vita dell’erede degli Atreides… un attentato che potrebbe anche avere successo.»
«Piter!» tuonò il Barone. «Avevi detto…»
«Avevo detto che un incidente può sempre capitare» replicò Piter. «E l’attentato deve apparire genuino.»
«Ah, ma il ragazzo ha un corpo così giovane e dolce…» mormorò il Barone. «Certo, potenzialmente è molto più pericoloso del padre… con quella strega di sua madre che lo addestra, maledetta donna! Beh, continua, Piter.»
«Hawat avrà indovinato che abbiamo un agente, tra loro» disse Piter. «I sospetti, ovviamente, cadranno sul dottor Yueh, che per l’appunto è il nostro agente. Ma Hawat ha compiuto indagini, e ha scoperto che il nostro dottore è un laureato della Scuola Suk, con il Condizionamento Imperiale… il che fa presumere che sia abbastanza fedele da poter curare perfino l’Imperatore. Si fa molto affidamento sul Condizionamento Imperiale. Si è convinti che quel condizionamento sia definitivo, e che non sia possibile estinguerlo senza uccidere il soggetto. Tuttavia, come qualcuno ha osservato a suo tempo, con una leva adatta si può scardinare un pianeta. Noi abbiamo trovato la leva che può scardinare il dottore.»
«Come?» esclamò Feyd-Rautha. L’argomento lo affascinava. Tutti sapevano che era impossibile rimuovere un Condizionamento Imperiale!
«Un’altra volta» disse il Barone. «Vai avanti, Piter.»
«Al posto di Yueh» proseguì Piter, «faremo inciampare Hawat su un’altra persona sospetta molto più interessante. La stessa assurdità del sospetto finirà per raccomandare quella donna all’attenzione di Hawat.»
«Donna?» chiese Feyd-Rautha.
«Lady Jessica in persona» confermò il Barone.
«Non è forse sublime?» insistette Piter. «La mente di Hawat sarà così sconvolta da una simile prospettiva, che le sue funzioni di Mentat ne saranno paralizzate. Potrebbe addirittura cercare di ucciderla.» Piter si accigliò. «Ma non credo che lo farà.»
«Tu non vuoi che lo faccia, eh…?» sogghignò il Barone.
«Non mi distraete» ribatté Piter. «Mentre Hawat sarà occupato con Lady Jessica, distoglieremo ulteriormente la sua attenzione con una rivolta delle guarnigioni urbane, o qualcosa di simile. La rivolta sarà soffocata. Il Duca crederà di avere la situazione in pugno. Poi, quando il momento sarà maturo, a un segnale di Yueh noi precipiteremo loro addosso col grosso delle nostre forze…»
«Continua, digli tutto» lo incitò il Barone.
«Li attaccheremo insieme a due legioni di Sardaukar travestite con la divisa degli Harkonnen.»
«Sardaukar!» annaspò Feyd-Rautha. La sua mente corse alle terribili truppe imperiali, gli spietati assassini, i soldati fanatici dell’Imperatore Padiscià.
«Vedi quanta fiducia ho in te, Feyd?» disse il Barone. «Nulla di tutto questo deve trapelare alle altre Grandi Case, altrimenti il Landsraad potrebbe coalizzarsi contro la Casa Imperiale, e tutto precipiterebbe nel caos.»
«Il punto più importante» fece Piter, «è questo: dal momento che la Casa degli Harkonnen viene qui usata per il lavoro sporco dell’Imperatore, noi ne ricaviamo un vantaggio concreto. Certamente è un vantaggio pericoloso, ma, se usato con cautela, apporterà alla Casa degli Harkonnen una ricchezza più grande di qualsiasi altra Casa dell’Impero.»
«Non puoi immaginare quanta ricchezza, Feyd» continuò il Barone. «Neppure nei tuoi sogni più folli. Per prima cosa, avremo in mano, irrevocabilmente, la direzione della CHOAM.»
Feyd-Rautha assentì. Ecco di che cosa si trattava: la ricchezza!
La CHOAM era la chiave della ricchezza, ogni Nobile Casa affondava le mani nei forzieri della Compagnia, sfruttando i propri poteri direttivi per agguantare tutto quello che poteva. I direttorati della CHOAM erano il segno di un effettivo potere nell’Impero: essi, legati all’equilibrio instabile delle forze del Landsraad, servivano a bilanciare la strapotenza dell’Imperatore e dei suoi sostenitori.
«Il Duca Leto» disse ancora Piter, «potrebbe cercar rifugio tra i Fremen, quei pochi pezzenti che abitano ai bordi del deserto. O potrebbe cercar di mandare la sua famiglia in quell’immaginaria oasi di sicurezza. Ma quella via è bloccata da uno degli agenti di Sua Maestà, l’Ecologo Planetario. Forse lo ricorderete… Kynes.»
«Feyd lo ricorda» fece il Barone. «Continua.»
«Non vi piacciono molto i particolari, Barone» replicò Piter.
«Ti ordino di continuare!» ruggì il Barone.
Piter scrollò le spalle. «Se le cose andranno come previsto» dichiarò a Feyd-Rautha, «entro un anno standard la Casa degli Harkonnen avrà un suo vassallaggio su Arrakis. Tuo zio godrà di un beneficio legale su quel feudo. Un suo agente personale dominerà su Arrakis.»
«Più profitti» disse Feyd-Rautha.
«Esatto» confermò il Barone. E pensò: È solo un atto di giustizia. Perché noi siamo quelli che abbiamo soggiogato Arrakis… a parte quei pochi bastardi Fremen che si nascondono sui bordi del deserto… e qualche innocuo contrabbandiere, legato al pianeta più strettamente degli schiavi indigeni.
«E le Grandi Case sapranno che il Barone ha distrutto gli Atreides!» esclamò Piter. «Tutti lo sapranno.»
«Lo sapranno» ansimò il Barone.
«E la cosa più bella» continuò Piter, «è che anche il Duca lo saprà. Già adesso lo sa. Sta fiutando la trappola.»
«È vero, il Duca lo sa» disse il Barone. C’era una sfumatura di tristezza nella sua voce. «Non può fare a meno di saperlo… che peccato!»
Il Barone si allontanò dal globo di Arrakis. Mentre emergeva dall’ombra, la sua figura acquistò una dimensione… era grosso, e immensamente grasso. Le protuberanze quasi invisibili sotto le pieghe della veste scura rivelavano che quel grasso era in parte sostenuto da sospensori portatili sistemati sulla pelle. Doveva pesare, in verità, almeno duecento chilogrammi standard, ma i suoi piedi non ne dovevano sostenere più di cinquanta.
«Ho fame!» tuonò il Barone, e si sfregò le labbra sporgenti con la mano coperta di anelli. Fissò Feyd-Rautha con occhi avvolti da cuscinetti di grasso. «Fai portare qualcosa da mangiare, mio caro. Mangeremo prima di ritirarci.»
Così parlò Santa Alia del Coltello: «La Reverenda Madre deve saper combinare l’arte della seduzione di una cortigiana con l’intoccabile maestà di una dea vergine, mantenendo questi due attributi in perfetto equilibrio fra loro finché durano i poteri della sua giovinezza. Poi, una volta tramontate bellezza e giovinezza, lei scoprirà che quel ’posto di mezzo’ un tempo occupato dalle tensioni che mantenevano l’equilibrio è diventato una fonte di astuzia e d’infinite risorse.»
«Allora, Jessica, hai qualcosa da dirmi?» chiese la Reverenda Madre.
Era quasi l’ora del tramonto a Castel Caladan, il giorno dell’ordalia di Paul. Le due donne erano sole nel soggiorno di Jessica, mentre Paul aspettava nella stanza accanto: quella della Meditazione, isolata acusticamente.
Jessica era in piedi davanti alle finestre che si affacciavano a sud. Guardava, e tuttavia non vedeva, le nubi colorate della sera, al di là del prato e del fiume. Udì, e tuttavia non ascoltò, la domanda della Reverenda Madre.
C’era già stata un’ordalia, molti anni prima. Una ragazza magra, i capelli color del bronzo, il corpo ancora in preda agli sconvolgimenti della pubertà, era entrata nello studio della Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam, Supervisore della Scuola Bene Gesserit su Wallach IX. Jessica chinò gli occhi sulla mano destra. Distese le dita, ricordando il dolore, il terrore, la rabbia.
«Povero Paul» mormorò.
«Ti ho fatto una domanda, Jessica!» La voce della vecchia era brusca, imperiosa.
«Che cosa? Oh…» Jessica, con uno sforzo, si strappò dal passato e rivolse lo sguardo alla Reverenda Madre che sedeva, appoggiando la schiena al muro di pietra, fra le due finestre che guardavano a occidente. «Che devo dirvi?»
«Che devi dirmi? Che devi dirmi?» La vecchia voce la beffeggiò crudelmente.
«Sì, ho avuto un figlio!» esplose Jessica. E sapeva che la vecchia l’aveva condotta deliberatamente allo scoppio d’ira.
«Ti era stato ordinato di generare soltanto figlie agli Atreides.»
«Significava tanto per lui…» si giustificò Jessica.
«E tu, nel tuo orgoglio, pensavi di poter generare lo Kwisatz Haderach!»
Jessica protese il mento, fieramente. «Ne avvertivo la possibilità.»
«Hai pensato soltanto al desiderio del tuo Duca di avere un maschio» le rinfacciò duramente la vecchia, «e i suoi desideri non hanno nulla a che fare con noi. Una figlia degli Atreides avrebbe potuto andare sposa a un erede degli Harkonnen e chiudere la frattura. Hai complicato le cosa in modo irreparabile. Adesso corriamo il rischio di perdere entrambe le linee genetiche.»
«Voi non siete infallibili.» Jessica affrontò lo sguardo gelido di quei vecchi occhi.
La vecchia, dopo un istante di silenzio, mormorò: «Quel che è fatto è fatto».
«Ho fatto voto di non pentirmi mai della mia decisione» ribatté Jessica.
«Molto nobile da parte tua» la canzonò la Reverenda Madre. «Niente pentimenti… Vedremo, quando sarai una fuggitiva con una taglia sulla testa, e la mano di ogni uomo sarà puntata contro di te per uccidere te e tuo figlio.»
Jessica impallidì. «Non c’è alternativa?»
«Alternativa? Una Bene Gesserit che mi chiede questo?»
«Vi chiedo soltanto quello che vedete nel futuro grazie alle vostre superiori capacità.»
«Io vedo nel futuro quello che ho visto nel passato. Tu ben conosci ciò che ti riguarda, Jessica. La razza sa di essere mortale, e teme il ristagno della sua eredità. È il flusso del sangue… l’invincibile impulso a mescolare le caratteristiche genetiche senza una pianificazione. L’Impero, la CHOAM, tutte le Grandi Case, sono soltanto fuscelli trascinati da un fiume in piena.»
«La CHOAM…» mormorò Jessica. «Suppongo che hanno già deciso come si divideranno le spoglie di Arrakis.»
«La CHOAM è solo una banderuola che si muove al soffio dei tempi in cui viviamo» replicò la vecchia. «L’Imperatore e i suoi sostenitori ora controllano il 59,65 per cento dei voti, nel direttivo della CHOAM. Sicuramente hanno visto dei profitti, e poiché altri hanno visto gli stessi profitti, la percentuale aumenterà. È la tendenza storica, ragazza.»
«È proprio quello che mi serve in questo momento» fece Jessica, «una lezione di storia…»
«Risparmiami il tuo sarcasmo, ragazza! Conosci quanto me le forze che ci circondano. La nostra civiltà si basa su tre punti fermi: la Famiglia Imperiale, in equilibrio con le Grandi Case Federate del Landsraad, e in mezzo la Gilda, col suo maledetto monopolio dei trasporti interstellari. In politica, un tripode è la più instabile delle strutture. Sarebbe già brutto, anche senza le complicazioni di una cultura commerciale feudale che osteggia praticamente qualsiasi scienza.»
Jessica ripeté amaramente: «Fuscelli trascinati da un fiume in piena… e i fuscelli in questo caso sono il Duca Leto, e suo figlio, e la sua…»
«Oh, stai zitta. Quando sei entrata a farne parte, sapevi perfettamente su quale crosta bollente t’incamminavi.»
«’Io sono una Bene Gesserit: esisto solo per servire’» citò Jessica.
«Giusto» disse la vecchia. «La nostra unica speranza, adesso, è di impedire l’eruzione di un conflitto generale, e di salvare quanto possiamo delle linee genetiche più importanti.»
Jessica chiuse gli occhi, sul punto di scoppiare in lagrime. Combatté il brivido interiore che l’assaliva, il tremito esterno, il respiro affannoso, il battito disordinato del polso, le palme madide di sudore. Poi disse: «Pagherò per il mio errore».
«E tuo figlio pagherà con te.»
«Lo proteggerò con tutte le mie forze.»
«Proteggere!» ribatté la vecchia. «Sai bene qual è il punto debole, Jessica! Se proteggerai troppo tuo figlio, non diventerà mai forte abbastanza per concretizzarsi un destino, uno qualsiasi.»
Jessica voltò le spalle alla vecchia, e sprofondò lo sguardo nelle tenebre che s’infittivano al di là della finestra. «È veramente così brutto quel pianeta, Arrakis?»
«Abbastanza brutto, ma non così brutto. La Missionaria Protettiva c’è stata e lo ha un po’ raddolcito.»
La Reverenda Madre si alzò in piedi, lisciandosi una piega sulla veste. «Chiama il ragazzo. Dovrò partire fra non molto.»
«Dovete proprio farlo?»
La voce della vecchia si raddolcì. «Jessica, ragazza mia, vorrei essere io al tuo posto e sopportare le tue sofferenze. Ma ognuna di noi deve seguire la propria strada.»
«Lo so.»
«Tu mi sei cara come una delle mie figlie, ma non posso permettere che ciò interferisca col dovere.»
«Capisco… le necessità.»
«Quello che hai fatto, Jessica, e la ragione per cui lo hai fatto, li sappiamo ambedue. Ma devo esser sincera con te, e dirti che esistono ben poche speranze che quel tuo ragazzo sia la Totalità Bene Gesserit. Non sperare troppo.»
Jessica scosse le lagrime che le si erano formate agli angoli degli occhi. Un gesto di rabbia. «Mi fate sentire di nuovo come se fossi una ragazzina che recita la prima lezione.» Si sforzò di dire la formula: «’Gli esseri umani non devono mai assoggettarsi agli animali’» un brusco singhiozzo la scosse. Continuò a bassa voce: «Mi sentivo così sola».
«Questa è appunto una delle prove» disse la vecchia. «Gli esseri umani sono quasi sempre soli. Ora, chiama il ragazzo. È stata una giornata lunga e spaventosa, per lui. Ma ha avuto il tempo di riflettere e di ricordare, e devo fargli altre domande sui sogni che ha avuto.»
Jessica annuì; si diresse verso la porta della Camera della Meditazione e l’aprì. «Paul, per favore, vieni.»
Paul si affacciò con lentezza ostinata. Fissò sua madre come se fosse stata un’estranea. I suoi occhi si rivolsero alla Reverenda Madre con circospezione, ma questa volta accennò con il capo: il cenno che si concede a uno dello stesso rango. Sentì che la madre gli chiudeva la porta alle spalle.
«Giovanotto» disse la vecchia, «torniamo adesso a quella faccenda dei sogni.»
«Cosa volete sapere?» domandò Paul.
«Sogni ogni notte?»
«Sogni che non val la pena ricordare. Posso ricordare tutti i sogni, ma alcuni vale la pena ricordarli, altri no.»
«Come sai la differenza?»
«La so, e basta.»
La vecchia lanciò un’occhiata a Jessica, poi ritornò a Paul. «Che cosa hai sognato la scorsa notte? Vale la pena ricordarlo?»
«Sì.» Paul chiuse gli occhi. «Ho sognato una caverna… e dell’acqua… e una ragazza che era lì… molto magra, con grandi occhi. Occhi azzurri, nessuna traccia di bianco. Le ho parlato di voi, le ho detto che ho visto la Reverenda Madre su Caladan» Paul aprì gli occhi.
«E quello che hai detto di me alla ragazza, è forse accaduto oggi?»
Paul rifletté sulla domanda, poi rispose: «Sì. Ho detto alla ragazza che voi siete venuta, e che avete impresso su di me il marchio della diversità».
«Il marchio della diversità» bisbigliò la vecchia, e lanciò un’altra occhiata a Jessica. Poi si concentrò nuovamente su Paul. «Dimmi la verità, adesso, Paul. Sogni molto spesso cose che accadono nell’identico modo in cui le hai sognate?»
«Sì. E ho già sognato altre volte quella ragazza.»
«Oh, la conosci?»
«La conoscerò.»
«Parlami di lei.»
Paul chiuse nuovamente gli occhi. «Siamo in un posto chiuso, al riparo delle rocce. È quasi notte, ma fa caldo, e vedo chiazze di sabbia, là fuori, tra le fessure. Stiamo… aspettando qualcosa… Io devo incontrare della gente. Lei è terrorizzata ma cerca di nasconderlo, e io sono eccitato. E lei mi dice: ’Parlami ancora delle acque del tuo mondo, Usul.’» Paul aprì gli occhi. «Non è strano? Io sono nato su Caladan. Non ho mai sentito parlare di un pianeta che si chiama Usul.»
«C’è ancora qualcosa in questo sogno?» l’interruppe Jessica.
«Sì, ma forse Usul è il mio nome» disse Paul «Mi viene in mente ora» chiuse ancora gli occhi. «Mi chiede di descriverle le acque. E io le prendo la mano. Le dico che le reciterò una poesia. E la recito, infatti, ma devo spiegarle alcune parole: spiaggia… risacca, alghe, gabbiani.»
«Che poesia?» chiese la Reverenda Madre.
Paul aprì gli occhi. «È soltanto una delle poesie tonali di Gurney Halleck per i tempi tristi.»
Dietro di lui, Jessica cominciò a recitare:
«Ricordo i falò sulla spiaggia e il fumo
E le ombre sotto i pini…
Tutto così immobile, nitido… concreto…
Gabbiani appollaiati sul promontorio,
Bianco sul verde…
E un vento soffia attraverso i pini
E fa ondeggiare le ombre;
I gabbiani distendono le ali,
Spiccano il volo
E riempiono il cielo di strida.
E odo il vento
Che soffia lungo la spiaggia,
E la risacca,
Mentre i falò, consumandosi,
Hanno incenerito le alghe.»
«È proprio questa» disse Paul.
La vecchia lo fissò, quindi: «Giovanotto, come Supervisore Bene Gesserit io cerco lo Kwisatz Haderach, il maschio che potrà diventare in tutto e per tutto come una di noi. Tua madre sembra scorgere in te questa possibilità, ma lei ti guarda con l’occhio della madre. Anch’io intravedo una vaga possibilità, ma niente di più».
Tacque, e Paul si accorse che aspettava da lui una risposta. Lui, invece, aspettò che fosse lei a continuare.
Dopo un po’, lei disse: «Allora, sia come vuoi. C’è qualcosa di profondo in te, questo te lo concedo».
«Posso andare, ora?» chiese Paul.
«Non vuoi sentire quello che la Reverenda Madre può dirti dello Kwisatz Haderach?» l’interruppe Jessica.
«Mi ha detto che tutti quelli che hanno cercato di diventarlo sono morti.»
«Ma io ti posso fornire qualche indizio sul motivo del loro fallimento» disse la Reverenda Madre.
Parla di indizi, pensò Paul, ma in realtà non sa niente. Fece: «Datemi questi indizi, allora».
«E andate al diavolo» concluse per lui la vecchia. Un sorriso le contorse il volto: una nuova rete di rughe sul viso. «Molto bene: ’Colui che si sottomette, domina’.»
Lui la fissò, stupito: si riferiva a una cosa elementare come il contrasto tra i vari livelli di finalità? Cosa credeva, che sua madre non gli avesse insegnato nulla?
«E questo sarebbe un indizio?» chiese.
«Non siamo qui per discutere le parole o equivocare sul loro significato» replicò la vecchia. «Il salice si sottomette al vento e prospera fino al giorno in cui è diventato tanti salici… una barriera che ferma il vento. Questo è lo scopo finale del salice.»
Paul continuò a fissarla. Scopo, aveva detto, e sentì la parola colpirlo con violenza, quasi nuovamente contaminato da quel terribile scopo. E all’improvviso s’infuriò contro di lei: Vecchia, fatua strega dalla bocca piena di luoghi comuni!
«Voi pensate che io potrei essere questo Kwisatz Haderach» disse Paul. «Avete parlato di me, ma non avete detto assolutamente nulla di quello che potremmo fare per aiutare mio padre. Vi ho sentita parlare a mia madre. Voi parlate come se mio padre fosse già morto. Beh, non lo è!»
«Se fosse stato possibile far qualcosa per lui, lo avremmo già fatto» grugnì la vecchia. «Forse riusciremo a salvare te. È molto incerto, ma possibile. Ma tuo padre, no. Quando avrai imparato ad accettare questo fatto, allora avrai imparato una vera lezione Bene Gesserit.»
Paul vide quanto le parole di lei avevano scosso sua madre. Fissò la vecchia con ira. Come poteva dire questo di suo padre? Che cosa la rendeva così sicura? La sua mente ribolliva di risentimento.
La Reverenda Madre guardò Jessica. «Lo hai portato bene avanti sulla Via, ne ho visto i segni. Avrei fatto lo stesso al tuo posto, e al diavolo le Regole.»
Jessica annuì.
«Ora, voglio metterti in guardia» continuò la vecchia. «Non ignorare la giusta successione dell’addestramento. La sua stessa sicurezza esige la Voce. Ha già cominciato bene, ma entrambe sappiamo di quante altre cose abbia bisogno… e disperatamente.» Si avvicinò a Paul, sovrastandolo con tutta la sua statura: «Arrivederci, giovane umano. Spero che tu ci riesca. Ma se tu non ci riuscirai… beh, ce la faremo lo stesso!»
Guardò Jessica un’ultima volta: una rapida occhiata fra le due donne indicò che si erano capite. Poi la vecchia attraversò la stanza con passo rapido, nell’intenso fruscio della veste, senza più voltarsi. La stanza e i suoi occupanti erano già esclusi dai suoi pensieri.
Ma Jessica aveva colto per un attimo il volto della Reverenda Madre mentre questa si voltava. C’erano lagrime su quelle guance screpolate. Lagrime più scoraggianti di qualsiasi parola o segno si fossero scambiate quel giorno.
Tu hai letto che Muad’Dib non ebbe compagni di gioco della sua età su Caladan. I pericoli erano troppo grandi. Ma Muad’Dib ebbe dei meravigliosi compagni nei suoi insegnanti. C’era Gurney Halleck, il guerriero menestrello. Canterai anche tu alcune canzoni di Gurney, man mano che avanzerai nella lettura di questo libro. C’era Thufir Hawat, il vecchio Mentat Maestro degli Assassini, il quale faceva paura perfino all’Imperatore Padiscià. C’erano Duncan Idaho, il Maestro di Scherma dei Ginaz; il dottor Wellington Yueh, un nome disonorato dal tradimento ma illuminato dalla sapienza; Lady Jessica, che istruì suo figlio nella Via Bene Gesserit; e, naturalmente, il Duca Leto, le cui qualità di padre sono state per troppo tempo trascurate.
Thufir Hawat scivolò nella palestra di Castel Caladan, e chiuse lentamente la porta dietro di sé. Restò immobile per un momento, sentendosi vecchio, stanco e infelice. La gamba sinistra, dov’era stato colpito un giorno, al servizio del Vecchio Duca, gli faceva male.
Tre generazioni, pensò.
Guardò nella grande sala illuminata dalla luce intensa del mezzogiorno che penetrava a fiotti attraverso il soffitto trasparente, e vide il ragazzo seduto con la schiena rivolta alla porta, concentrato su grandi carte geografiche distese su un ampio tavolo a «L».
Quante volte dovrò dire a quel ragazzo di non dare mai le spalle a una porta? Hawat si schiarì la gola.
Paul non si mosse, immerso nei suoi pensieri.
L’ombra di una nuvola oscurò la luce del sole. Ancora una volta Hawat si schiarì la gola.
Paul si raddrizzò e parlò senza voltarsi: «Lo so, sono seduto con la schiena alla porta».
Hawat, sopprimendo un sorriso, avanzò nella stanza.
Paul alzò lo sguardo su quell’uomo brizzolato che si era fermato all’angolo della tavola. Gli occhi di Hawat risaltavano come due centri di attenzione nella sua faccia bruna e segnata.
«Ti ho sentito venire per il corridoio» disse Paul. «E inoltre ti ho sentito aprire la porta.»
«Qualcuno potrebbe imitare quei rumori.»
«Saprei comunque distinguere la differenza.»
E ne sarebbe anche capace, pensò Hawat. Quella strega di sua madre gli dà certamente tutto l’addestramento. Chissà cosa ne pensa, quella sua famosa scuola? Forse è proprio per questo che hanno mandato qui la vecchia Veggente… per rimettere in riga la nostra cara Lady Jessica.
Hawat tirò a sé una sedia, sul lato opposto a Paul, e si sedette col viso verso la porta. Lo fece a bella posta, si piegò all’indietro e si mise a studiare la stanza. E subito quel luogo lo colpì in modo strano: era diventato del tutto estraneo, ora che la maggior parte del materiale pesante era già partita per Arrakis. Restava soltanto un tavolo da addestramento, uno specchio da scherma con i suoi cristalli prismatici, inerti, il bersaglio rattoppato e ricucito, lì accanto, con l’aspetto di un vecchio fantaccino storpiato e consunto dalle guerre.
Come me, pensò Hawat.
«Thufir, a cosa stai pensando?» gli chiese Paul.
Hawat guardò il ragazzo. «Stavo pensando che tutti saremo lontani da qui, molto presto, e che probabilmente non vedremo mai più questo posto.»
«E questo ti rattrista?»
«Rattristarmi? Sciocchezze. Lasciare degli amici sarebbe triste, per me. Ma un posto è soltanto un posto!» Gettò uno sguardo alle carte sul tavolo. «E Arrakis è soltanto un altro posto.»
«Ti ha mandato mio padre, per saggiare il mio umore?»
Hawat si accigliò: il ragazzo sapeva valutarlo così acutamente… Annuì. «Tu pensi che sarebbe stato più simpatico se fosse venuto lui stesso, quassù, ma sai quant’è occupato. Verrà più tardi.»
«Stavo studiando le tempeste di Arrakis.»
«Le tempeste. Capisco.»
«Sembra che siano qualcosa di brutto.»
«’Brutto’ è una parola troppo prudente. Queste tempeste si scatenano lungo sei o settemila chilometri di pianura, e si alimentano di qualsiasi cosa possa fornire ad esse un’ulteriore spinta: accelerazione di Coriolis, altre tempeste, una qualsiasi sorgente di energia, anche minima. Soffiano a settecento chilometri all’ora, trascinando con sé ogni cosa mobile che incontrino sul loro cammino: sabbia, polvere… qualsiasi cosa. Ti strappano la carne dalle ossa, e ti scavano le ossa in schegge sottili.»
«È perché non hanno il controllo atmosferico?»
«Arrakis presenta problemi particolari; i costi eccezionalmente alti, la manutenzione proibitiva e tutto il resto. La Gilda chiede un prezzo spaventoso per il controllo a mezzo satelliti, e la Casa di tuo padre non è tra quelle più grandi e più ricche, ragazzo. Lo sai bene.»
«Hai mai visto i Fremen?»
L’attenzione del ragazzo guizza un po’ dappertutto, oggi, pensò Hawat.
«Non ne ho visto molto, ma li ho visti» disse. «Non c’è molto che li distingua dalle genti del graben e del sink. Indossano tutti lunghe vesti fluttuanti. E puzzano come il demonio, in qualsiasi luogo chiuso. Questo dipende appunto dagli abiti che indossano, le chiamano ’tute distillanti’, che recuperano l’acqua del corpo.»
Paul deglutì, improvvisamente conscio dell’umidità della sua bocca, improvvisamente conscio di un sogno in cui era assetato. Il fatto che quel popolo avesse bisogno di acqua al punto da dover rimettere in ciclo l’acqua del proprio corpo lo afferrò alla gola con un senso di desolazione. «L’acqua è preziosa, laggiù» disse.
Hawat annuì, pensando: Forse ce l’ho fatta, forse sono riuscito a fargli capire quanto ci sia ostile quel pianeta, e quanto sia importante per noi saperlo. Sarebbe pazzesco andare laggiù senza averlo ben chiaro nella mente.
Paul alzò gli occhi al tetto trasparente, conscio che era cominciato a piovere. Vide l’acqua spargersi sulla grigia distesa di metavetro. «Acqua» disse.
«Imparerai a preoccuparti moltissimo dell’acqua» insistette Hawat. «Come figlio del Duca, essa non ti mancherà mai, ma dovunque, intorno a te, vedrai quanto sia grande questa ossessione della sete.»
Paul s’inumidì le labbra, ripensando al giorno in cui, una settimana prima, aveva sostenuto l’ordalia con la Reverenda Madre. Anche lei gli aveva detto qualcosa sull’ossessione della morte per sete.
«Imparerai a conoscere le piane dei morti» gli aveva detto, «il più vuoto deserto, le terre aride in cui niente vive, eccettuati la spezia e il verme delle sabbie. Ti sporcherai di nero le palpebre per ridurre il barbaglio del sole. Un rifugio sarà soltanto un buco al riparo dal vento e nascosto alla vista. Cavalcherai il deserto con i tuoi piedi, senza un ornitottero, un qualsiasi veicolo di terra o un animale sellato.»
E Paul era stato colpito più dal suo tono, cantilenante e ondeggiante, che dalle sue parole.
«Quando vivrai su Arrakis» gli aveva detto, «khala! la terra sarà vuota. Le lune saranno le tue amiche, il sole il tuo nemico.»
Paul, a questo punto, aveva sentito sua madre allontanarsi dalla porta dov’era di guardia, e avvicinarsi a lui. Guardando la Reverenda Madre, lei aveva chiesto: «Non vedete alcuna speranza, Vostra Reverenza?»
«Per il padre, no.» La vecchia aveva fatto un gesto con la mano, imponendo a Jessica il silenzio, e aveva guardato Paul. «Incidi questo nella tua memoria, ragazzo: un mondo si sostiene su quattro cose…» (aveva alzato quattro dita dalle nocche nodose) «…l’erudizione del saggio, la giustizia del grande, le preghiere del giusto, e il valore del coraggioso. Ma tutto questo è nulla…» (Aveva stretto le dita a pugno) «…senza un condottiero che conosca l’arte del governare. Fa di essa la tua scienza!»
Era trascorsa una settimana dall’incontro con la Reverenda Madre, e soltanto ora le sue parole acquistavano pieno significato. Ora, seduto nella palestra con Thufir Hawat, Paul provò un’acuta fitta di paura. Guardò verso il Mentat, che lo fissava perplesso e accigliato.
«A cosa pensi?» gli chiese Hawat.
«Hai visto anche tu la Reverenda Madre?»
«La strega Veridica dell’Impero?» Hawat sbatté più volte le palpebre per l’interesse. «Sì, l’ho incontrata.»
«La Reverenda Madre…» Paul esitò, e scoprì che non poteva descrivere ad Hawat l’ordalia subita. C’erano inibizioni troppo profonde.
«Sì. Che cosa ha fatto?»
Paul respirò profondamente due volte. «Ha detto una cosa» chiuse gli occhi, richiamando le parole alla memoria, e, quando parlò, la sua voce, inconsciamente, acquistò in parte la cadenza della vecchia: «Tu, Paul Atreides, discendente di re, figlio di un Duca, devi imparare a governare. Questo, nessuno dei tuoi antenati lo ha mai imparato’». Paul riaprì gli occhi, e disse: «Le sue parole mi fecero infuriare, e ribattei che mio padre governa un intero pianeta. E lei insistette: ’Lo sta perdendo.’ E io ribattei che mio padre stava per avere un pianeta ancora più ricco. E lei: ’Perderà anche quello.’ Io volevo correre ad avvertire mio padre, ma lei mi disse che era già stato avvertito… da te, da mia madre, da molta gente».
«Assolutamente vero» mormorò Hawat.
«Allora, perché ci andiamo?» chiese Paul.
«Perché l’Imperatore l’ha ordinato. E perché, nonostante quello che dice quella vecchia spia, c’è ancora speranza. Che altro è scaturito da quell’antica fonte di saggezza?»
Paul fissò la sua mano destra, stretta a pugno sotto la tavola. Lentamente, ordinò ai muscoli di rilassarsi. La vecchia ha una sorta di potere su di me, pensò. Ma come?
«Mi ha chiesto di dirle che cosa significa governare» disse Paul. «E io le ho risposto: il comando di uno solo. E lei mi ha detto che ci sono cose che devo disimparare.»
Ha fatto centro, la vecchia, pensò Hawat, e col capo invitò Paul a continuare.
«Ha detto che un governante deve convincere, e non obbligare. Ha detto che deve servire il miglior caffè accanto al caminetto, per chiamare accanto a sé gli uomini migliori.»
«Come pensa che tuo padre abbia attirato uomini come Duncan e Gurney?» chiese Hawat.
Paul scrollò le spalle. «Poi ha aggiunto che un buon governante deve imparare la lingua del suo mondo, che è diversa per ogni mondo. Ho creduto che volesse dirmi, con questo, che non parlano Galach su Arrakis, ma non era questo il punto. Lei voleva dire, invece, il linguaggio delle rocce e delle cose che crescono, la lingua che non s’intende solo con le orecchie. E io le ho risposto che è proprio quello che il dottor Yueh chiama ’il Mistero della Vita’.»
Hawat sogghignò: «Come l’ha presa?»
«Penso che si sia infuriata. Ha detto che il Mistero della Vita non è un problema da risolvere, ma una realtà da sperimentare. Così le ho citato la Prima Legge del Mentat: ’Non si può capire un processo arrestandolo. La comprensione deve fluire insieme col processo, deve unirsi ad esso e fluire con esso.’ Questo parve soddisfarla.»
Sembra che si sia riavuto, pensò Hawat, ma quella vecchia strega lo ha spaventato. Perché mai l’ha fatto?
«Thufir» disse Paul, «pensi che Arrakis sia davvero così brutto?»
«Niente può essere così brutto» replicò Hawat, con un sorriso forzato. «Considera i Fremen, per esempio, il popolo rinnegato del deserto. Secondo una prima valutazione, posso dire che sono in molti; molti di più di quanti l’Impero non sospetti. C’è molta gente che vive lì, ragazzo, moltissima gente, e…» (Hawat avvicinò un dito nodoso all’occhio) «…e odiano gli Harkonnen con passione mortale. Non devi farti sfuggire una sola parola di tutto questo, ragazzo, te lo confido soltanto perché sono il migliore aiutante di tuo padre.»
«Mio padre mi ha parlato di Salusa Secundus» riprese Paul. «Sai, Thufir, sembra che sia molto simile ad Arrakis… forse non così brutto, ma molto simile.»
«Non sappiamo molto di Salusa Secundus, oggi» disse Hawat. «Solo com’era molto tempo fa… e nient’altro. Ma in linea di massima, hai ragione.»
«E i Fremen, ci aiuteranno?»
«È una possibilità.» Hawat si alzò in piedi. «Oggi, io parto per Arrakis. Abbi cura di te, Paul. Fallo per un vecchio che ti vuole bene… vuoi? Vieni pure qui, ma, da bravo, non sederti mai con la schiena alla porta. Non credo che ci sia alcun pericolo al castello: è solo un’abitudine che ti voglio far prendere.»
Anche Paul si alzò; fece il giro della tavola. «Parti oggi?»
«Oggi. E domani anche tu. La prossima volta c’incontreremo sul nuovo mondo» strinse il braccio destro di Paul all’altezza del bicipite. «Non dimenticare di tener libero il braccio del coltello, eh? E lo scudo sempre a piena carica.»
Lasciò il braccio, batté la mano sulla spalla di Paul, si girò e in pochi passi raggiunse la porta.
«Thufir!» chiamò Paul.
Hawat si arrestò davanti alla porta, e si voltò.
«Non voltare mai la schiena a nessuna porta!»
Sul vecchio volto si disegnò un ampio sorriso. «Non lo farò, ragazzo, puoi star sicuro.» E se n’era già andato, chiudendo delicatamente la porta dietro di sé.
Paul si sedette dov’era Hawat, prima, e mise in ordine le carte. Ancora un solo giorno qui, disse tra sé. Si guardò intorno. Stiamo per partire. All’improvviso, l’idea della partenza fu qualcosa di concreto, come non lo era mai stata prima. Si ricordò di un’altra cosa che la vecchia gli aveva detto, sul fatto che un mondo è la somma di molte cose: la gente, la sporcizia, le cose che crescono, le lune, le maree, i soli; quella somma dal totale sconosciuto che è la natura. Qualcosa d’indistinto che, ora, non aveva alcun senso. Si chiese: Ma che cos’è, l’«ora»?
La porta davanti a Paul si aprì con un tonfo, e un uomo brutto e massiccio entrò, traballando sotto una bracciata di armi.
«Ehi, Gurney Halleck» esclamò Paul, «sei tu il nuovo maestro d’armi?»
Halleck chiuse la porta con un calcio. «So che preferiresti giocare con me» replicò. Guardò in giro per la stanza, osservando che gli uomini di Hawat l’avevano già controllata da cima a fondo, rendendola sicura per l’erede del Duca. I segnali in codice, quasi impercettibili, erano tracciati dovunque.
Paul fissò il brutto uomo traballante che si rimetteva in moto verso il tavolo d’addestramento col suo carico d’armi, e vide il baliset a nove corde che Gurney portava a tracolla e il multiplettro infilato tra le corde, alla cima della tastiera.
Halleck lasciò cadere le armi sul tavolo d’addestramento e le mise in fila: le spade, i pugnali, i kindjal, gli storditoli a scarica lenta, le cinture scudo.
Si voltò, sorridendo in distanza, e la cicatrice violacea della liana indelebilis gli vibrò sulla mascella.
«Così, non mi dici neppure buongiorno, brutto diavoletto» disse Halleck. «Che tipo di freccia hai piantato nel cuore del vecchio Hawat? Mi è passato accanto, nel corridoio, come se si precipitasse ai funerali del suo peggiore nemico.»
Paul sogghignò; fra tutti gli uomini di suo padre, Gurney era quello che gli piaceva di più. Conosceva il carattere dell’uomo e le sue diavolerie, il suo umorismo; era per lui un amico, più che una spada mercenaria al suo servizio.
Halleck si sfilò il baliset dalle spalle e cominciò ad accordarlo. «Se tu non vuoi parlare, neppure io parlerò.»
Paul si alzò e attraversò la stanza gridando: «Ehi, Gurney, vieni per la musica quando invece sarebbe ora di allenarci?»
«Manchiamo di rispetto ai nostri vecchi, oggi?» replicò Halleck. Provò una corda dello strumento, e annuì.
«Dov’è Duncan Idaho?» chiese Paul. «Non dovrebbe essere qui a insegnarmi l’uso delle armi?»
«Duncan è partito alla testa della seconda ondata per Arrakis» disse Halleck. «Ti è rimasto soltanto il povero Gurney, il quale è appena reduce da un combattimento e brama soltanto un po’ di musica.»
Toccò un’altra corda, ne ascoltò il suono e sorrise. «Abbiamo tenuto consiglio: visto che sei un combattente con così scarse qualità, è molto meglio insegnarti la musica. Almeno non sprecherai del tutto la tua vita.»
«Cantami allora una canzone» ribatté Paul. «Così almeno saprò come non si deve cantare!»
«Ah!» Gurney scoppiò a ridere, poi si precipitò a cantare «Le ragazze galaciane», mentre il suo multiplettro correva come una macchia confusa sulle corde:
«Oh-oh-oooh, le ragazze galaciane
Lo faranno per le perle,
Quelle di Arrakis per l’acqua!
Ma se cerchi una donna
che ti consumi come fiamma,
Prova una ragazza di Caladan!»
«Niente male, per una mano così maldestra col plettro!» disse Paul. «Ma se mia madre ti sentisse cantare una simile canzone nel castello, ti taglierebbe le orecchie per adornare le mura.»
Gurney si tirò l’orecchio sinistro. «Sarebbe un ornamento assai povero, considerando quanto sono rovinate per avere ascoltato, dai buchi della serratura, un certo giovanotto che provava strane canzoni sul baliset!»
«Qualcuno ha dimenticato cosa vuol dire trovarsi il letto pieno di sabbia» replicò Paul. Tirò fuori dal mucchio una cintura scudo e l’allacciò rapidamente alla vita. «Allora, battiamoci!»
Gli occhi di Halleck si allargarono, fingendo sorpresa. «Così, fu la tua mano sacrilega a compiere quell’esecrabile azione? In guardia, subito, mio Giovane Duca!» impugnò una spada, affettando l’aria. «Sono un demonio infernale in cerca di vendetta!»
Paul impugnò un’altra spada, piegò la lama tra le mani e si piazzò in «aguile», con un piede in avanti. I suoi modi si fecero solenni, in una comica imitazione del dottorYueh.
«Che razza d’idiota mi manda mio padre per addestrarmi nell’uso delle armi!» canzonò. «Questo sciocco di Gurney Halleck si è dimenticato perfino la sua prima lezione con armi e scudo!» Fece scattare il pulsante della cintura e sentì la pelle incresparsi sulla fronte e lungo la schiena, e il leggero prurito per l’azione del campo di forza; i suoni esterni assunsero il caratteristico tono smorzato sotto l’effetto filtrante dello scudo. «Quando si combatte con lo scudo, la difesa è rapida e l’attacco è lento» continuò Paul. «L’attacco ha l’unico scopo di obbligare l’avversario a un passo falso, così da poterlo attaccare da sinistra. Lo scudo devia l’affondo veloce, e si lascia trapassare dal lento kindjal!» Paul alzò fulmineo la spada, fece una rapida finta e tirò indietro il braccio per calare un colpo con lentezza misurata, che non fosse arrestato dalla difesa automatica dello scudo.
Halleck seguì l’azione, e all’ultimo momento si girò di scatto, lasciando che la lama smussata gli sfiorasse il petto. «Giusta velocità» esclamò, «ma eri completamente scoperto per un colpo basso di punta.»
Paul arretrò, mortificato.
«Dovrei sculacciarti per questa tua imprudenza» insistette Halleck. Afferrò un kindjal dal tavolo e lo fece lampeggiare. «Questo, nelle mani di un nemico, può spillarti fuori tutto il sangue! Sei un allievo molto in gamba, il migliore, ma ti ho sempre avvertito che neppure quando lo fai per gioco devi consentire a un uomo di penetrare la tua guardia con la morte in mano.»
«Immagino di non essere dell’umore adatto, oggi» disse Paul.
«Umore?» La voce di Halleck suonò oltraggiata anche attraverso il filtro dello scudo. «Che cosa ha a che fare il tuo umore con tutto questo? Si combatte quand’è necessario… l’umore non importa! L’umore va bene per le bestie, o per fare all’amore, o per suonare il baliset. Non è fatto per chi combatte.»
«Mi dispiace, Gurney.»
«Non sei abbastanza dispiaciuto!»
Halleck riattivò il proprio scudo, e si ripiegò su se stesso, il kindjal ben stretto nella mano sinistra, la spada sollevata nella destra, pronto a scattare. «Ora ti avverto, in guardia, e sul serio!» Balzò di fianco e poi in avanti, stringendolo da presso e attaccandolo furiosamente.
Paul batté in ritirata e parò; sentì il crepitio dei campi di forza, mentre gli scudi si toccavano respingendosi a vicenda, e nuovamente il brivido elettrico gli percorse la schiena. Che diavolo gli è preso? si chiese Paul. Non finge! Agitò il braccio, e il pugnale che aveva fissato al polso gli scivolò nella mano.
«Senti il bisogno di una lama in più, eh?» grugnì Halleck.
Un tradimento? si chiese Paul. No, non Gurney!
Combatterono per tutta la sala, colpendo e parando, con finte e controfinte. L’aria all’interno dello scudo cominciò a puzzare, per l’eccessivo consumo e il lento scambio attraverso il campo. Ad ogni nuovo contatto tra gli scudi, l’odore di ozono si faceva più intenso.
Paul continuò ad arretrare, ma ora indirizzò la sua ritirata verso il tavolo. Se riesco a portarlo laggiù, gli farò vedere un bello scherzo, pensò Paul. Su, Gurney, un altro passo.
Halleck fece il passo.
Paul parò un colpo basso, si girò di scatto e vide la spada di Halleck abbattersi sull’orlo del tavolo. Paul fintò di lato, vibrò a sua volta un fendente con la spada e nel medesimo istante fece schizzare il pugnale all’altezza del collo di Halleck. Fermò la lama a un centimetro dalla giugulare.
«È questo che cerchi?» bisbigliò Paul.
«Guarda in basso, ragazzo.» ansimò Gurney.
Paul obbedì, e vide il kindjal di Halleck sotto il bordo del tavolo, la punta quasi conficcata nel suo ventre.
«Saremmo morti tutt’e due» disse Halleck. «Ma devo ammettere che combatti un po’ meglio quando sei sotto pressione. Ora sei dell’umore giusto.» Ed ebbe un sogghigno da lupo, facendo raggrinzire la cicatrice violacea sulla mascella.
«Il modo con cui mi sei balzato addosso…» fece Paul. «Avresti davvero sparso il mio sangue?»
Halleck tirò indietro il kindjal e si raddrizzò. «Se tu avessi combattuto anche un niente al di sotto delle tue capacità, ti avrei procurato un bel graffio, e ti saresti sempre ricordato di quella cicatrice. Non posso permettere che il mio allievo preferito soccomba al primo vagabondo che gli Harkonnen gli manderanno contro.»
Paul disattivò lo scudo e si appoggiò al tavolo per riprender fiato. «Me lo sono meritato, Gurney. Ma mio padre si sarebbe infuriato se tu mi avessi ferito. Non voglio che tu sia punito per i miei errori.»
«Se è per questo» replicò Halleck, «gli errori sarebbero stati anche miei. Ma non c’è ragione che ti preoccupi per una o due cicatrici da allenamento. Sei fortunato ad averne così poche. E per quanto riguarda tuo padre, mi punirebbe soltanto se non facessi di te un combattente di prima classe. E avrei fallito, se non ti avessi spiegato l’errore che facevi parlando di umore, di questa espressione che ti è uscita così all’improvviso.»
Paul si raddrizzò, facendo scivolare il pugnale dentro il fodero al polso.
«Non stiamo giocando, qui» disse Halleck.
Paul annuì. Si meravigliò per l’insolita serietà di Halleck e per quella sua fredda risoluzione. Fissò la cicatrice, dovuta a una sferzata della liana indelebilis, che ornava la mascella di Gurney, e ricordò che era stato Beast Rabban a procurargliela nel puzzo degli schiavi degli Harkonnen, su Giedi Primo. Provò una brusca vergogna per aver dubitato di Halleck, sia pure per un solo istante. Capì, allora, che quella cicatrice significava molto dolore per Halleck… un dolore intenso, forse, come quello che gli aveva inflitto la Reverenda Madre. Ma si affrettò a scacciare quest’idea, che aveva gettato un’ombra gelida sul loro mondo.
«Forse speravo davvero di giocare un po’, oggi» disse Paul. «Tutto è così serio, ultimamente.»
Halleck si girò per nascondere la sua emozione. Qualcosa gli bruciava negli occhi. Sentì dolore… come se qualcosa l’avesse ustionato, dentro. Le ferite di un ieri dimenticato lo fecero nuovamente spasimare.
Questo ragazzo ha dovuto diventare uomo molto precocemente, pensò. Ha dovuto imparare le necessità brutali della prudenza, e attenersi alla regola spietata: «Tutto ricade sul successore».
Halleck parlò senza voltarsi: «Hai detto che volevi giocare, ragazzo mio? Niente mi farebbe più piacere. Ma non possiamo più giocare. Domani andremo su Arrakis. E Arrakis è una realtà concreta. E così pure gli Harkonnen».
Paul si toccò la fronte con la lama della spada.
Halleck si voltò, vide il saluto e lo ricambiò con un cenno del capo. Indicò con la mano il manichino da allenamento: «Ora controlleremo i tuoi tempi. Fammi vedere come lo colpisci da sinistra. Controllerò da qui, dove posso seguire meglio l’azione. E ti avverto che oggi proveremo nuovi contrattacchi. Questo è un avvertimento che nessun vero nemico ti darà».
Paul si alzò in punta di piedi, per alleggerire i muscoli. Diventò serio, poiché aveva capito che la sua vita si arricchiva all’improvviso di rapidi mutamenti. Si avvicinò al manichino e colpì con la punta della spada l’interruttore in mezzo al petto: lo schermo, prontamente attivato, respinse la sua lama.
«In guardia!» gridò Halleck, e il manichino si lanciò all’attacco.
Paul attivò il suo scudo, parò e contrattaccò.
Halleck guardava, maneggiando i controlli. La sua mente sembrò dividersi in due: mentre una parte seguiva l’addestramento, l’altra vagò tra le nuvole.
Io sono un albero da frutta ben curato, pensò. Pieno di buoni sentimenti e di abilità. E tutte queste belle cose cresciute su di me… perché un altro le colga.
Per qualche ragione, ricordò la sorella più giovane: il suo viso da elfo gli apparve nella mente. Era morta in una casa di piacere per le truppe degli Harkonnen. Le erano piaciute le viole… o non erano invece i crisantemi? Non riuscì a ricordare.
Paul evitò un colpo basso del manichino e con la mano sinistra portò un «entretisser».
Quel piccolo demonietto astuto! pensò Halleck, concentrandosi sui complicati movimenti di Paul. Ha fatto esercizi per conto suo. Non è lo stile di Duncan. e io non gli ho mai insegnato niente di simile!
Questo pensiero servì soltanto ad aumentare la tristezza di Halleck. Mi ha contagiato il suo umore, disse tra sé. E cominciò a pensare a Paul, e si chiese se il ragazzo, certe notti, avesse mai ascoltato con terrore i fruscii del suo guanciale.
«Se i desideri fossero pesci, saremmo tutti lì a lanciare la rete» mormorò.
Era una frase di sua madre, e lui l’usava sempre quando sentiva le tenebre del domani incombere più forti su di lui. Poi rifletté: quanto sarebbe stato strano usare questa espressione su un pianeta che non aveva mai conosciuto né il mare, né i pesci!
YUEH Wellington, Strd 10082–191; dott med Scuola Suk (Ho Strd 10112; cngto Wanna Marcus, B.G. (Strd 10092–186?); noto principalmente per avere tradito il Duca Leto Atreides. Cfr. Bibliografia, Appendice VII: «Condizionamento Imperiale», e «Tradimento, Il».
Nonostante che avesse sentito il dottor Yueh entrare nella palestra con passo volutamente sonoro, Paul rimase, prono, sul tavolo delle esercitazioni dove la massaggiatrice l’aveva lasciato. Si sentiva gradevolmente rilassato, dopo gli esercizi con Gurney Halleck.
«Hai un aspetto riposato» disse Yueh, con la sua voce tranquilla e acuta.
Paul alzò la testa e vide la sagoma asciutta dell’uomo ad alcuni metri da lui, e in una sola occhiata considerò il suo abito nero spiegazzato, la testa quadra dalle labbra purpuree e i baffi spioventi, la losanga del Condizionamento Imperiale tatuata sulla fronte, i lunghi capelli neri stretti nell’anello d’argento della Scuola Suk che gli ricadevano sulla spalla sinistra.
«Sarai lieto di sapere che oggi non c’è tempo per la solita lezione» disse Yueh. «Tuo padre sarà qui fra poco.»
Paul si alzò.
«Tuttavia ti ho preparato un visore per minimicrofilm e molte lezioni registrate, da studiare durante la traversata per Arrakis.»
«Oh!»
Paul cominciò a vestirsi. Era eccitato all’idea che suo padre sarebbe stato con lui. Avevano passato insieme poco tempo da quando l’Imperatore gli aveva imposto il feudo di Arrakis.
Yueh si avvicinò alla tavola a «L», pensando: È un tale spreco, se si pensa a come il ragazzo è maturato in questi ultimi mesi! Oh, un tale spreco! E così triste! Ma ricordò a se stesso: Non devo esitare. Quello che faccio, lo faccio nella certezza che la mia Wanna non soffrirà più a causa di quei mostri degli Harkonnen!
Paul lo raggiunse accanto al tavolo, abbottonandosi la giacca. «Che cosa studierò durante la traversata?»
«Eh, le forme terrestri su Arrakis. Alcune forme terrestri di vita sembrano essersi magnificamente adattate al pianeta. Non è chiaro come sia successo. Dovrò consultare l’ecologo planetario, non appena arrivati… un certo dottor Kynes. Gli offrirò il mio aiuto in questa indagine.»
E Yueh pensò: Che cosa sto dicendo? Faccio la parte dell’ipocrita anche con me stesso?
«Ci sarà qualcosa anche sui Fremen?» chiese Paul.
«I Fremen?» Yueh tamburellò con le dita sul tavolo, poi si accorse che Paul osservava quel gesto nervoso e ritirò la mano.
«Puoi dirmi qualcosa sull’intera popolazione di Arrakis?» insistette Paul.
«Sì» rispose Yueh. «La popolazione è divisa in due gruppi principali: il primo gruppo sono i Fremen, e l’altro è il popolo del graben, del sink e del pan. Mi dicono che qualche volta si sposano tra loro. Le donne del pan e del sink preferiscono un marito Fremen, e i loro uomini cercano una sposa Fremen. Hanno un detto: ’La buona creanza dalle città, la saggezza dal deserto’.»
«Hai qualche fotografia?»
«Cercherò qualcosa per te. La caratteristica più interessante sono i loro occhi: completamente azzurri, senza alcuna traccia di bianco.»
«Una mutazione?»
«No, è dovuto al melange. Il loro sangue ne è saturo.»
«Devono essere ben coraggiosi, i Fremen, per vivere ai limiti del deserto.»
«Senza dubbio» disse Yueh. «Compongono poesie sul loro coltello: il cryss. Le donne sono fiere quanto gli uomini. Perfino i loro bambini sono violenti, pericolosi. Non credo che ti sarà consentito mescolarti a loro.»
Paul fissò Yueh. Quelle brevi parole sui Fremen avevano acceso tutto il suo interesse. Che alleato poteva essere quel popolo!
«E i vermi?» chiese Paul.
«Che cosa?»
«Vorrei sapere qualcosa di più sui vermi delle sabbie.»
«Ah, certo. Ho un librofilm su un piccolo esemplare, lungo soltanto centodieci metri e largo ventidue. L’hanno ripreso molto a nord. Testimoni degni di fede hanno parlato di vermi lunghi più di quattrocento metri, e probabilmente ne esistono anche di più grandi.»
Lo sguardo di Paul cercò sul tavolo una carta con la proiezione conica delle regioni settentrionali di Arrakis. «La grande fascia desertica e la zona polare sud sono qualificate inabitabili. A causa dei vermi?»
«E anche delle tempeste.»
«Ma qualsiasi posto può essere reso abitabile!»
«Se è possibile economicamente» replicò Yueh. «I pericoli di Arrakis sono molti, e costosi.» Si lisciò i baffi spioventi. «Tuo padre sarà qui tra poco. Prima di andar via, ho un regalo per te, qualcosa che ho trovato mentre facevo i bagagli» mise un oggetto sul tavolo, nero e oblungo, non più largo dell’ultima falange del pollice di Paul.
Paul lo guardò. Yueh notò che il ragazzo non faceva il minimo gesto per toccarlo. Com’è prudente, pensò.
«È un’antichissima Bibbia Cattolica Orangista, confezionata per i viaggiatori spaziali. Non è un librofilm, ma è stampata su sottilissimi fogli di carta. Ha il suo ingranditore e un sistema a carica elettrostatica.» La prese in mano per fargliela vedere. «Il libro è tenuto chiuso dalla carica, che contrasta le molle che aprono la copertina. Premi l’orlo… così… e le pagine che hai scelto, si respingono a vicenda: il libro si apre.»
«È così piccola.»
«Ma sono mille e ottocento pagine. Premi l’orlo, così, ecco… la carica fa voltare le pagine man mano che leggi. Non toccare mai le pagine con le dita. La carta è troppo delicata.» Chiuse il libro e lo porse a Paul. «Prova.»
Poi osservò Paul che provava il regolatore elettrostatico: Salvo la mia coscienza. Gli ho offerto la salvezza della religione prima di tradirlo. Così potrò dire a me stesso che è andato dove io non posso andare.
«Dev’essere stata fatta prima della diffusione dei librofilm» disse Paul.
«È molto vecchia. Sarà il nostro segreto, eh? I tuoi genitori potrebbero pensare che ha troppo valore per uno giovane come te.»
Yueh pensò: Sua madre si chiederebbe senz’altro quali sono state le mie ragioni.
«Ebbene…» (Paul chiuse il libro e lo tenne in mano) «se ha tanto valore…»
«Compatisci il capriccio di un vecchio» si affrettò a dire Yueh. «Mi fu donato quand’ero molto giovane.» E pensò ancora: Devo conquistare la sua mente, così come la sua cupidigia.
«Aprilo al Kalima 467… dove dice: ’L’acqua è l’inizio di ogni vita.’ C’è una piccola tacca sulla copertina per segnare il punto.»
Paul tastò la copertina, trovò due tacche, una meno profonda dell’altra. Premette quella meno profonda, e il libro gli si aprì tra le dita, mentre l’ingranditore scivolava al suo posto.
«Leggi ad alta voce» disse Yueh.
Paul s’inumidì le labbra, e lesse: «’Pensa al sordo: non può udire. E allora, chi fra noi può dire di non esser sordo? Non ci manca forse un senso per vedere e udire un altro mondo, dovunque intorno a noi? Che cosa c’è intorno a noi che non possiamo…’»
«Basta!» abbaiò Yueh.
Paul s’interruppe, fissandolo.
Yueh chiuse gli occhi, lottando contro la sua emozione. Quale perversità ha fatto sì che il libro si aprisse sul passaggio favorito di Wanna? Aprì gli occhi e vide Paul che lo guardava, stupito.
«Qualcosa che non va?» chiese Paul.
«Io… mi dispiace» balbettò Yueh. «Quello era il passaggio favorito di mia… della mia defunta sposa. Non è quello che io volevo farti leggere. Ridesta in me ricordi… dolorosi.»
«Ci sono due tacche» disse Paul.
Naturalmente, si disse Yueh. Wanna ha segnato il punto. Le sue dita sono più sensibili delle mie e l’ha trovato. È stato solo un incidente, e nient’altro.
«Forse troverai il libro interessante» continuò. «C’è molta verità storica, e anche molta filosofia della morale.»
Paul considerò il libro tra le sue mani… così piccolo. Tuttavia, conteneva un mistero… Qualcosa che era accaduto mentre lo leggeva. Qualcosa che aveva riportato alla sua mente l’idea di un terribile scopo.
«Tuo padre sarà qui fra un minuto» disse Yueh. «Metti via il libro e leggilo con tuo comodo.»
Paul sfiorò il bordo del libro, come Yueh gli aveva insegnato, e la Bibbia si chiuse da sola. La fece scivolare nella tunica. Per un attimo, all’urlo di Yueh, Paul aveva temuto che il dottore volesse riprendersi il dono.
«Ti ringrazio per questo regalo, dottor Yueh» disse Paul, solennemente. «Sarà il nostro segreto. Se c’è un dono o un favore che tu desideri da me, ti prego, non esitare a chiedermelo.»
«Non ho bisogno di… nulla» fece Yueh.
E pensò: Perché mai sto qui a torturarmi? E a torturare questo povero ragazzo?… Anche se lui ancora non lo sa. Ah, quelle belve maledette degli Harkonnen! Perché mai hanno scelto me per questo abominio?
Come affrontare lo studio della figura del padre di Muad’Dib? Un uomo dal cuore caldo e gelido insieme? E tuttavia molti fatti della sua vita ci aiutano: il devoto amore per la sua Lady Bene Gesserit; quello che sognava per suo figlio; la devozione degli uomini che lo servivano. Potete immaginarlo: un uomo intrappolato dal destino, una figura solitaria la cui luce è oscurata dalla gloria del figlio. Ma ci si chiede, tuttavia: Che cos’è il figlio, se non l’estensione del padre?
Paul osservò il padre, al suo ingresso in palestra, e vide i soldati schierarsi all’esterno, di guardia. Uno di essi chiuse la porta. Come al solito, Paul percepì la presenza di suo padre, una presenza totale.
Il Duca era alto, la pelle olivastra. Il suo volto lungo e stretto era sbozzato ad angoli vivi, addolcito soltanto dai profondi occhi grigi. Indossava un’uniforme nera da lavoro, col falco rosso sul petto. Una cintura scudo d’argento, lucidata dall’uso, gli circondava la vita sottile.
Il Duca disse: «Hai lavorato duramente, figlio mio?»
Si avvicinò al tavolo a «L», gettò uno sguardo alle carte che lo ricoprivano e tutt’intorno alla sala, poi fissò nuovamente Paul. Si sentiva stanco, esaurito dallo sforzo che s’imponeva per non far vedere la stanchezza. Dovrò approfittare di ogni occasione per riposarmi durante il viaggio per Arrakis, pensò. Non ne avrò più il tempo, una volta laggiù.
«Non troppo» rispose Paul. «È tutto così…» scrollò le spalle.
«Sì, domani partiamo. Ci farà bene sistemarci nella nuova casa e lasciare tutto questo scompiglio dietro di noi.»
Paul annuì, improvvisamente sopraffatto dal ricordo delle parole della Reverenda Madre:… per il padre, no.
«Padre» disse Paul, «credi che Arrakis sarà pericoloso come tutti dicono?»
Il Duca, con uno sforzo, fece un gesto disinvolto e si sedette su un angolo del tavolo, sorridendo. Prese forma nella sua mente tutta una serie di frasi fatte, di quelle che usava per calmare gli ultimi timori dei suoi uomini prima di una battaglia… Ma non fece neppure in tempo ad aprire la bocca, colpito da un unico pensiero: È mio figlio.
«È pericoloso» ammise, infine.
«Hawat mi ha detto che abbiamo un progetto, per i Fremen» disse Paul, e pensò: Perché non gli rivelo quello che la vecchia mi ha detto? In qual modo è riuscita a sigillare la mia lingua?
Il Duca si accorse dello smarrimento del figlio. «Come sempre. Hawat capisce subito qual è il nostro massimo vantaggio. Ma c’è molto di più. La Combine Honnete Ober Advancer Mercantiles, la CHOAM. Dandomi Arrakis, Sua Maestà è stato costretto a concedermi uno dei direttorati della CHOAM… un vantaggio assai sottile.»
«La CHOAM controlla la spezia» osservò Paul.
«E Arrakis, con la sua spezia, ci aprirà la strada nella CHOAM» replicò il Duca. «C’è molto nella CHOAM, oltre al melange.»
«La Reverenda Madre ti ha avvertito?» chiese Paul, con voce strozzata. Strinse i pugni, e si sentì le mani madide di sudore. Quella domanda gli era costata uno sforzo terribile.
«Hawat mi ha detto che la vecchia ti ha spaventato con i suoi avvertimenti su Arrakis» disse il Duca. «Non lasciare che le paure di una donna ti offuschino la mente. Nessuna donna vuole che i suoi cari siano esposti ai pericoli. C’era la mano di tua madre, dietro a quegli avvertimenti. Prendilo come un segno del suo amore per noi.»
«Lei sa dei Fremen?»
«Sì, e molto di più.»
«Che cosa?»
La verità potrebbe essere peggiore di quanto lui non si sia immaginato, pensò il Duca. Ma anche la conoscenza dei pericoli ha un suo valore per chi ha imparato ad affrontarli. E se c’è una cosa da cui non ho mai tenuto lontano mio figlio, quella cosa è appunto il come affrontare i pericoli. E tuttavia occorre aspettare; è ancora tanto giovane.
«Pochi sono i prodotti che sfuggono alle grinfie della CHOAM» riprese il Duca. «Legname, cavalli, mucche, kulon, mobili antichi, concime, pelli di balena, squali… perfino il nostro misero riso pundi di Caladan. Qualsiasi cosa che la Gilda sia pronta a trasportare: le opere d’arte di Ecaz, le macchine di Richesse e di Ix. Ma tutto questo impallidisce davanti al melange. Un pugno di spezia consente di acquistare una casa su Tupile. Non può essere fabbricata artificialmente; occorre estrarla su Arrakis. È unica, e le sue proprietà geriatriche sono indiscusse.»
«E noi ora la controlliamo?»
«Fino a un certo punto. Ma questa è la cosa più importante: considera quante Case dipendono dai profitti della CHOAM. E il fatto che la gran parte di questi profitti dipendono da un solo prodotto, la spezia. Immagina cosa accadrebbe se qualcosa bloccasse la produzione della spezia!»
«Chiunque abbia accumulato il melange nei magazzini controllerebbe il mercato» disse Paul. «E gli altri resterebbero a bocca asciutta.»
Il Duca si permise un attimo di amara soddisfazione, guardando suo figlio, considerando quanto fosse penetrante quell’osservazione e quanto rivelasse l’educazione che gli era stata impartita. Annuì.
«Gli Harkonnen ne accumulano da più di vent’anni.»
«Vogliono che la produzione della spezia vada in crisi e che la colpa ricada su di te?»
«Vogliono che il nome degli Atreides sia odiato» disse il Duca. «Pensa alle Case del Landsraad, che in un certo senso guardano a me come a una guida… un portavoce non ufficiale. Pensa a come reagirebbero se io fossi responsabile di una drastica riduzione dei loro profitti! In fin dei conti, i profitti sono l’unica cosa che conta. ’Al diavolo la Grande Intesa! Non puoi lasciarti ridurre in miseria!’» un sogghigno contorse la bocca del Duca. «Tutti si volteranno dall’altra parte, senza dar peso a quello che sarà stato fatto a me.»
«Neanche se ci avranno attaccato con le atomiche?»
«Niente di così grave. Non ci sarà un’aperta violazione dell’Intesa. Ma arriveranno a tutto, atomiche escluse. Forse perfino alla polvere radioattiva o alla contaminazione del suolo!»
«Ma allora, perché precipitarci in tutto questo?»
«Paul!» Il Duca si accigliò. «Sapere dov’è la trappola è il primo passo per evitarla. Questo è un corpo a corpo, figlio mio, ma su una scala infinitamente più grande; finta e controfinta e così via… senza fine. Il nostro problema è sciogliere l’intrigo. Noi sappiamo che gli Harkonnen hanno immagazzinato melange; allora chiediamoci: ’Chi altri lo fa?’ Così avremo la lista dei nostri nemici.»
«Chi sono?»
«Certe Case che credevamo amiche, e altre che sapevamo nemiche. Ma non è necessario considerarle, per ora, perché c’è qualcuno molto più importante: il nostro beneamato Imperatore Padiscià.»
Paul deglutì penosamente. «Ma non potresti convocare il Landsraad, e spiegare…»
«Per informare i nostri nemici che sappiamo di chi è la mano che stringe il pugnale? Ah, Paul, noi oggi lo vediamo, il pugnale. Chi può sapere chi l’impugnerà domani? Se riferissimo tutto questo al Landsraad, creeremmo soltanto un’enorme confusione. L’Imperatore negherebbe ogni cosa, e chi potrebbe confutarlo? Sì, guadagneremmo qualche attimo in più, ma rischiando il caos. E da dove verrebbe il prossimo attacco?»
«Tutte le Case potrebbero mettersi a immagazzinare spezia.»
«I nostri nemici hanno un vantaggio troppo grande per essere superati.»
«L’Imperatore» disse Paul. «Questo significa i Sardaukar.»
«Travestiti con le uniformi degli Harkonnen. senza dubbio» continuò il Duca. «Ma sempre gli stessi soldati fanatici, né più né meno.»
«Come potranno aiutarci i Fremen contro i Sardaukar?»
«Hawat ti ha parlato di Salusa Secundus?»
«Il pianeta prigione dell’Imperatore? No.»
«E se fosse più di un pianeta prigione, Paul? C’è una domanda che nessuno si pone mai sul Corpo Imperiale dei Sardaukar: da dove vengono?»
«Dal pianeta prigione?»
«Vengono da qualche parte.»
«Ma tutti i coscritti che l’Imperatore arruola con le tasse…»
«È questo che vogliono farci credere: che i Sardaukar siano soltanto i coscritti dell’Imperatore, provenienti dai vari pianeti e magnificamente addestrati fin da giovani. Ogni tanto sorgono delle lamentele sulla coscrizione dell’Imperatore e le tasse che essa comporta, ma l’equilibrio della nostra civiltà è sempre rimasto lo stesso: le forze militari delle Grandi Case del Landsraad da una parte, contro i Sardaukar e i giovani di leva dall’altra. E i giovani di leva, Paul. I Sardaukar restano sempre i Sardaukar.»
«Ma tutti i rapporti su Salusa Secundus dicono che è un pianeta infernale!»
«Senza dubbio. Ma se tu dovessi allevare una razza di uomini forti, duri e feroci, non imporresti loro un mondo infernale?»
«E com’è possibile garantirsi la lealtà di simili uomini?»
«Vi sono dei modi sicuri: instillare in loro la convinzione della propria superiorità, la mistica della setta segreta, lo spirito di corpo di tante sofferenze affrontate insieme. Si può fare. Ha funzionato su diversi mondi, in epoche diverse.»
Paul annuì, continuando a fissare suo padre. Sentiva che stava per essergli fatta qualche rivelazione.
«Considera bene Arrakis» disse il Duca. «Fatta eccezione per le città e i villaggi di guarnigione, è un mondo terribile sotto ogni aspetto, come Salusa Secundus.»
Paul sbarrò gli occhi. «I Fremen!»
«Noi disponiamo laggiù di una forza potenziale, selvaggia e mortale quanto i Sardaukar. Ci vorrà molta pazienza per addestrarli segretamente, e molto denaro per equipaggiarli. Ma i Fremen sono là… e anche la spezia, con la sua ricchezza. Vedi adesso perché andiamo su Arrakis, pur sapendo la trappola che ci aspetta?»
«Ma gli Harkonnen non conoscono i Fremen?»
«Gli Harkonnen guardano ai Fremen con disprezzo, li cacciano come bestie, non si sono neppure preoccupati di censirli. Sappiamo bene la politica degli Harkonnen con le popolazioni planetarie: spendere il meno possibile.»
La trama metallica che gli componeva il simbolo del falco sul petto scintillò, quando il Duca cambiò posizione. «Capisci?»
«Stiamo già negoziando coi Fremen» disse Paul.
«Ho inviato una missione capeggiata da Duncan Idaho» confermò il Duca. «Duncan è un uomo orgoglioso e spietato, ma rispetta la verità. I Fremen lo ammireranno. Se avremo fortuna, ci giudicheranno prendendo lui a modello: Duncan, l’onesto.»
«Duncan l’onesto, e Gurney il coraggioso» aggiunse Paul.
«Li hai ben giudicati.»
E Paul pensò: La Reverenda Madre pensava a Gurney, quando ha parlato degli uomini che sostengono i mondi… i coraggiosi.
«Gurney mi ha detto che te la sei cavata molto bene con le armi, oggi» riprese il Duca.
«Non è quello che ha detto a me.»
Il Duca scoppiò a ridere. «Immagino che Gurney sia sempre avaro di lodi. Comunque, mi ha garantito (sono le sue precise parole) che distingui magnificamente la differenza tra la punta e il taglio di una spada.»
«Gurney dice che non c’è nulla di artistico nell’uccidere con la punta. Bisogna farlo con la lama.»
«Gurney è un romantico» grugnì il Duca. I discorsi del figlio sul modo migliore di uccidere lo turbavano. «Vorrei che tu non fossi mai costretto a uccidere… Ma se tu lo sarai, fallo come puoi, punta o taglio non ha importanza.» Alzò gli occhi al lucernario, sul quale la pioggia tamburellava.
Paul seguì lo sguardo di suo padre, e pensò al cielo grondante umidità, là fuori: uno spettacolo ignoto ad Arrakis. E immaginò lo spazio al di là del cielo. «Le navi della Gilda sono veramente così grandi?» chiese.
Il Duca lo guardò. «Questo è il tuo primo viaggio fuori del pianeta. Sì, sono molto grandi. Noi viaggeremo in un ’transatlantico’ spaziale, perché il viaggio è lungo. Un transatlantico è immenso: tutte le nostre fregate e le nostre navi da carico occuperanno un angolo della stiva. Saremo soltanto una piccola voce nella lista delle merci.»
«E non ci permetteranno di lasciare le fregate?»
«Fa parte dello scotto per godere della Tregua della Gilda. Ci potrebbero essere navi Harkonnen al nostro fianco, e non avremmo nulla da temere. Gli Harkonnen preferiscono non rischiare i propri privilegi di trasporto.»
«Non lascerò mai gli schermi. Cercherò di vedere un pilota della Gilda.»
«No. Neppure i loro agenti planetari hanno mai visto un pilota della Gilda. La Gilda è gelosa della propria intimità, come lo è del proprio monopolio. Non far nulla che possa mettere in pericolo i nostri privilegi, Paul.»
«Pensi che si nascondano perché hanno subito delle mutazioni e non hanno più un aspetto… umano?»
«Chi lo sa?» Il Duca alzò le spalle. «È un mistero che, probabilmente non saremo noi a risolvere. Abbiamo problemi più urgenti, uno dei quali sei tu.»
«Io?»
«Tua madre ha voluto che fossi io a dirtelo, figlio mio. Vedi, tu potresti avere capacità da Mentat.»
Paul fissò il padre, incapace per un attimo di parlare. Poi esclamò: «Un Mentat, io? Ma io…»
«Hawat è d’accordo, figlio. È la verità.»
«Ma io credevo che l’addestramento di un Mentat dovesse cominciare fin dall’infanzia, e che il soggetto non dovesse saperlo, perché questo avrebbe potuto inibire le prime…» s’interruppe: tutti gli ultimi avvenimenti di quei giorni si saldarono all’improvviso in un unico disegno. «Capisco» disse.
«Viene un giorno» continuò suo padre, «in cui il futuro Mentat dev’esserne informato. Non è più possibile fargli subire l’addestramento: lui stesso deve scegliere se continuare o abbandonarlo. Alcuni possono continuare, altri abbandonano: soltanto un Mentat può decidere su se stesso.»
Paul si sfregò il mento. Tutti quegli addestramenti speciali datigli da Hawat e da sua madre (gli esercizi mnemonici, la focalizzazione della coscienza, il controllo muscolare, l’acutizzazione dei sensi, lo studio delle lingue e delle sfumature di voce) tutto ora acquistava per lui un nuovo significato.
«Tu sarai Duca un giorno, figlio mio» disse suo padre. «Un Duca Mentat sarebbe davvero formidabile. Puoi decidere subito, o hai bisogno di tempo?»
Non vi fu esitazione nella risposta. «Continuerò.»
«Davvero formidabile» ripeté il Duca, e Paul gli vide un sorriso d’orgoglio disegnarsi sul volto. Il sorriso lo sbigottì: per un attimo, il volto sottile di suo padre gli era parso un teschio. Paul chiuse gli occhi, e sentì che l’idea di un terribile scopo si risvegliava in lui. Forse, essere un Mentat è un terribile scopo, pensò.
Ma nel medesimo istante in cui formava questo pensiero, la sua nuova comprensione lo negò.
Con Lady Jessica su Arrakis, il Sistema Bene Gesserit d’impiantare leggende tramite la Missionaria Protectiva diede i suoi frutti. Si era già potuta apprezzare la saggezza che aveva spinto a disseminare nell’universo conosciuto un singolo tema profetico a protezione del Bene Gesserit, ma mai si era vista una combinazione così perfetta tra persona e preparativi. Le leggende profetiche avevano attecchito su Arrakis al punto di conservare intatto ogni simbolo originale (la Reverenda Madre, canto e respondu, e la maggior parte del panoplia propheticus Shari-a). Oggi in generale si ammette che le abilità latenti di Lady Jessica erano state grossolanamente sottovalutate.
Tutto intorno a Lady Jessica, accatastati dovunque nella grande sala di Arrakeen, si trovavano gli innumerevoli pacchi trasportati fin qui: essi rappresentavano l’intera sua vita, scatole, bauli, valige, cartoni, per la maggior parte ancora da aprire. Udì gli scaricatori della Gilda che rovesciavano un’altra slitta della nave traghetto nell’ingresso.
Jessica era in piedi al centro della sala. Si girò lentamente, facendo scorrere lo sguardo sui bassorilievi che spuntavano dall’ombra, le feritoie sulle pareti e le finestre profondamente incassate. L’aspetto anacronistico di quel luogo gigantesco le ricordava la Sala delle Sorelle, alla Scuola Bene Gesserit. Ma alla Scuola c’era stata un’atmosfera calda e accogliente. Qui, le immense pareti di pietra ispiravano soltanto desolazione.
L’architetto, pensò, doveva essersi ispirato a qualche remoto periodo storico, nel ricreare quelle arcate e quegli oscuri drappeggi. Il soffitto ricurvo incombeva su di lei da un’altezza di due piani, con enormi travi incrociate le quali, ne era certa, erano state trasportate su Arrakis a un costo favoloso. Nessun pianeta di quel sistema possedeva alberi che potessero fornire simili travi, a meno che non fossero di legno finto…
Ma Jessica non credeva che lo fossero.
Questa era la Residenza del governo, ai tempi del Vecchio Impero. I costi non avevano avuto una grande importanza, allora, molto prima della venuta degli Harkonnen e della fondazione di Carthag, la loro megalopoli: un luogo scintillante e miserabile duecento chilometri a nordest, al di là della Terra Spezzata. Leto aveva dimostrato molta saggezza, scegliendo questo luogo come sede del governo. Già il suo nome, Arrakeen, aveva un suono simpatico, tradizionale, solenne. Ed era una città più piccola, più facile da difendere e da risanare.
Udì nuovamente il rumore delle slitte scaricate nell’entrata, e sospirò.
Contro una scatola di cartone, alla sua sinistra, era appoggiato il ritratto del padre del Duca. Il nastro d’imballaggio era sciolto e pendeva come una decorazione consunta. Jessica ne stringeva ancora l’estremità. Accanto al dipinto giaceva la testa di un toro nero, montata su una tavola di legno, lucida. La testa era un’isola nera in un mare di carta d’imballaggio. La tavola era distesa sul pavimento, e il muso lustro del toro era rivolto al soffitto come se la bestia stesse per muggire una sfida all’immensa sala echeggiante.
Jessica si chiese che cosa mai l’avesse spinta a tirar fuori quei due oggetti per primi: la testa e il dipinto. Sapeva che c’era qualcosa di simbolico nel gesto. Mai, dal giorno in cui gli inviati del Duca l’avevano comperata alla Scuola, si era sentita così spaventata e insicura.
La testa e il dipinto.
Accrescevano la sua confusione. Rabbrividì, lanciando uno sguardo alle feritoie sopra la sua testa. Erano le prime ore del pomeriggio, ma a quelle latitudini il cielo era cupo e freddo; molto più cupo del caldo colore azzurro di Caladan. Una fitta di nostalgia per il suo mondo perduto l’attanagliò.
Caladan è così lontano.
«Eccoci qui!»
Era la voce del Duca Leto.
Si girò di scatto e lo vide avanzare a lunghi passi sotto l’immensa volta. La sua nera uniforme da lavoro, col rosso falco sul petto, era polverosa e spiegazzata.
«Temevo che ti fossi perduta in questo posto terribile» disse il Duca.
«È una dimora gelida» rispose Lady Jessica. Lo guardò: era alto, la pelle scura le ricordava il verde degli olivi sotto un sole dorato riflesso su acque azzurre. Il grigio dei suoi occhi era il colore del fumo in un bosco, ma il viso era quello di un uccello da preda: sottile e tagliente.
Un’improvvisa paura di lui le afferrò il petto. Era diventato così imperioso, dal giorno in cui aveva deciso di ubbidire all’Imperatore…
«Tutta la città dà una sensazione di freddo» disse ancora.
«È una piccola, sporca città di guarnigione» consentì il Duca, «ma noi la cambieremo» si guardò intorno. «Questa è una sala per ricevimenti ufficiali e cerimonie di Stato. Ho appena dato un’occhiata agli appartamenti dell’ala sud. Sono molto più accoglienti.» Le si avvicinò e le sfiorò il braccio, ammirando in silenzio la sua dignità.
E si chiese ancora una volta chi fossero i suoi ignoti genitori… una Casa rinnegata, forse? Membri della Famiglia Reale caduti in disgrazia? La sua maestà suggeriva sangue imperiale.
Sotto il suo sguardo, lei si girò, rivelando il profilo. Non c’era nessun particolare che s’imponesse sugli altri, nella sua bellezza. Il suo viso era ovale sotto una folta chioma di capelli color del bronzo. I suoi occhi erano verdi e limpidi come il cielo di Caladan al mattino, e distanti. Il naso era piccolo, la bocca grande e generosa. Il suo corpo era aggraziato ma discreto: era alta e sottile.
Le Sorelle della Scuola, si ricordò, la chiamavano «pelle e ossa»; così gli avevano detto i suoi inviati. Ma era una descrizione fin troppo riduttiva. Jessica aveva portato agli Atreides una bellezza regale. Si sentiva lieta che Paul ne avesse beneficiato.
«Dov’è Paul?» chiese il Duca.
«In qualche parte di questa casa: a lezione da Yueh.»
«È certamente nell’ala sud. Mi è parso infatti di udire la voce di Yueh, ma non ho avuto il tempo di guardare» la fissò, esitando. «Sono venuto qui soltanto per appendere la chiave di Castel Caladan in questa sala.»
Lei trattenne il respiro, fece per toccarlo ma non osò. Appendere la chiave… un gesto definitivo di rinuncia. Ma non era né il tempo né il luogo per cercar conforto. «Ho visto il nostro stendardo sulla casa, mentre arrivavo» disse.
Il Duca fissò il ritratto di suo padre. «Dove avresti intenzione di appenderlo?»
«Una di queste pareti.»
«No.» Una decisione netta; qualsiasi argomentazione sarebbe stata inutile, anche ricorrendo all’astuzia. Tuttavia, lei doveva pur tentare, se non altro per sentirsi confermare che ogni astuzia era inutile.
«Mio signore» cominciò, «se solo…»
«La risposta è sempre no. Ti concedo, vergognosamente, quasi tutto, ma non questo. Sono appena passato per la sala da pranzo, dove…»
«Mio signore! Ti prego!»
«La scelta è fra la tua digestione e la mia dignità ancestrale, mia cara» l’interruppe. «L’appenderemo nella sala da pranzo.»
Lei sospirò. «Sì, mio signore.»
«Appena possibile, tu pranzerai di nuovo nelle tue stanze, com’è tua abitudine. Mi aspetto però di vederti al tuo giusto posto nelle occasioni ufficiali.»
«Grazie, mio signore.»
«E non essere così, fredda e ufficiale! Ringraziami di non averti mai sposata, mia cara. Altrimenti sarebbe tuo preciso dovere essere presente al mio tavolo ad ogni pasto!»
Jessica annuì, impassibile.
«Hawat ha già sistemato il rivelatore di veleni sulla tavola» disse il Duca. «Ce n’è uno portatile anche nella tua stanza.»
«Avevi previsto anche questo… fastidio.»
«Mia cara, mi preoccupo anche di te. Ho ingaggiato delle domestiche: sono di qui, ma Hawat le ha controllate. Sono tutte Fremen. Andranno bene finché i nostri servi non avranno completato i loro attuali compiti.»
«Siamo certi che la gente di questo pianeta sia sicura?»
«La gente che odia gli Harkonnen. Forse poi vorrai tenerti la governante: la Shadout Mapes.»
«Shadout?» ripeté Jessica. «Un titolo Fremen?»
«Mi hanno detto che significa ’Scavatore di Pozzi’: un nome pieno d’implicazioni importanti, qui. Può darsi che non sia il tuo ideale domestico, ma Hawat ne parla assai bene, basandosi su un rapporto di Duncan. Sono convinti che desideri servire, e servire te, soprattutto.»
«Servire me?»
«I Fremen sanno che sei una Bene Gesserit» spiegò il Duca. «Circolano varie leggende su di voi.»
La Missionaria Protettiva, pensò Jessica. Non c’è pianeta che le sfugga.
«Questo forse significa che la missione di Duncan ha avuto buon esito e che i Fremen saranno nostri alleati?»
«Non c’è niente di definitivo» replicò il Duca. «Duncan crede che desiderino osservarci per un po’. Tuttavia hanno promesso di non saccheggiare i villaggi confinari durante il periodo di tregua. È un successo molto più importante di quanto non sembri. Hawat mi ha detto che i Fremen erano una profonda spina nel cuore degli Harkonnen, i quali si sono sempre ben guardati dal far sapere esattamente l’estensione delle loro scorrerie: meglio che l’Imperatore non sapesse l’inefficienza delle forze degli Harkonnen.»
«Una governante Fremen» mormorò Jessica, tornando con la mente alla Shadout Mapes. «Avrà gli occhi completamente azzurri.»
«Non lasciarti ingannare dall’aspetto di questa gente» replicò il Duca. «Sono forti e profondamente sani. Saranno perfettamente all’altezza delle nostre necessità; in tutto.»
«È un gioco pericoloso.»
«Non ricominciamo a discutere su queste cose.»
Lei si sforzò di sorridere. «Ci siamo dentro fino al collo, non c’è dubbio.» Si concentrò nell’esercizio per il rapido ritorno alla calma: due respiri profondi, il pensiero rituale. E poi: «Quando assegnerò gli appartamenti, hai qualche desiderio particolare?»
«Un giorno devi insegnarmi come fai» disse il Duca. «Quel tuo modo di respingere le preoccupazioni più gravi, pensando alle cose pratiche. Dev’essere una cosa Bene Gesserit.»
«È una cosa di noi donne» replicò Jessica.
Il Duca sorrise. «Bene; allora: voglio che accanto alla mia camera ci sia un ampio ufficio. Qui ci sarà una montagna di scartoffie, più che a Caladan. E un vestibolo per le guardie, naturalmente. Questo è tutto. Non preoccupatevi per la sicurezza della casa. Le guardie di Hawat l’hanno già rastrellata a fondo.»
«Ne sono convinta.»
Lui lanciò un’occhiata all’orologio. «E assicurati che tutti gli orologi siano sincronizzati sull’ora di Arrakeen. Ho incaricato un tecnico di occuparsene, sarà qui tra poco.» Le scostò una ciocca di capelli che le era caduta sulla fronte. «Ora devo ritornare all’area di sbarco. La seconda nave traghetto sarà qui a momenti.»
«Non potrebbe occuparsene Hawat, mio signore? Hai un aspetto così stanco.»
«Il buon Thufir è ancora più occupato di me. Lo sai che è infestato dagli intrighi degli Harkonnen, questo pianeta. Inoltre, devo convincere i migliori cacciatori di spezia a restare. Il passaggio del feudo lascia loro libera scelta, e non posso corrompere il planetologo che l’Imperatore e il Landsraad hanno designato come Arbitro del Cambio. È stato lui a consentire la libera scelta. Ottocento uomini perfettamente addestrati vogliono partire col traghetto della spezia, e un cargo della Gilda li aspetta in orbita.»
«Mio signore…» s’interruppe, esitando.
«Sì?»
Nessuno gl’impedirà di tentare l’impossibile, perché questo pianeta sia abitabile per noi, pensò lei. E i miei trucchi con lui non servono.
«A che ora devo prepararti la cena?» gli chiese, infine.
Non era questo che stavi per dire, pensò lui. Ah, Jessica, come vorrei che fossimo lontani da qui, noi due soli, non importa dove, il più possibile distanti da questo terribile pianeta, senza alcuna preoccupazione!
«Mangerò al campo, alla mensa ufficiali. Tornerò molto tardi. E… sì, manderò un carro blindato per Paul. Voglio che sia presente anche lui alla conferenza militare.»
Si schiarì la gola, come per dire qualcos’altro, ma poi, in silenzio, si voltò e uscì. Fuori, Jessica udì i tonfi di un altro carico che veniva rovesciato al suolo. Udì ancora una volta la sua voce, imperativa e sdegnosa, nel tono con cui parlava ai servitori quando aveva fretta: «Lady Jessica è nella Grande Sala, raggiungila subito!»
La porta esterna si chiuse con violenza.
Jessica si voltò, e fissò il ritratto del padre di Leto. L’aveva eseguito un artista famoso, Albe, quando il Vecchio Duca era un uomo di mezza età. Il quadro lo rappresentava in costume da matador, con una cappa violacea avvolta sul braccio sinistro. Il suo volto era giovane, non più vecchio di Leto oggi: lo stesso sguardo grigio, l’espressione da falco. Strinse i pugni sui fianchi e fissò il ritratto con odio.
«Maledetto! Maledetto! Maledetto!» bisbigliò.
«Quali sono i vostri ordini, Nobile Nata?»
La voce di una donna, sottile, simile a una corda tesa.
Jessica si voltò di scatto: vide una donna nodosa, dai capelli grigi, avvolta nell’informe abito a sacco indossato abitualmente dagli schiavi. La donna aveva l’identico aspetto rugoso e consunto della folla che li aveva accolti al mattino, lungo il cammino dal campo di atterraggio alla Residenza. Non c’era un solo nativo di quel pianeta, pensò Jessica, che non avesse quell’aspetto consunto e famelico. E tuttavia Leto aveva detto che erano forti e sani. E, naturalmente, gli occhi di un azzurro cupo come gli abissi del mare, senza bianco; occhi segreti e misteriosi. Jessica si sforzò di evitare il suo sguardo.
La donna chinò brevemente la testa e disse: «Mi chiamano la Shadout Mapes, Nobile Nata. Quali sono i vostri ordini?»
«Chiamami ’mia Signora’» replicò Jessica. «Non sono una Nobile Nata. Sono la concubina ufficiale del Duca Leto.»
Di nuovo quello strano cenno del capo. La donna alzò gli occhi su Jessica e le rivolse un’insidiosa domanda: «C’è una moglie, dunque?»
«Non c’è, e non c’è mai stata. Io sono l’unica… compagna del Duca, la madre dell’erede designato.»
Dicendo questo, Jessica rideva dentro di sé dell’orgoglio che traspariva da queste parole. Che cosa ha detto Sant’Agostino? disse tra sé. «La mente comanda il corpo, e il corpo obbedisce.» Ma quando la mente comanda a se stessa?… Sì, ultimamente incontro sempre più resistenza. Ah, se avessi un posto, dentro di me, dove ritirarmi tutta sola!1
Uno strano richiamo si alzò fuori, nella strada: «Soo-soo Sook! Soo-soo Sook!» E ancora: «Ikhut-eigh! Ikhut-eigh!» E di nuovo: «Soo-soo Sook!»
«Che cos’è?» chiese Jessica. «L’ho udito molte volte lungo la strada, questa mattina.»
«Solo un venditore d’acqua, mia Signora. Ma voi non dovete preoccuparvene. Le cisterne di questa dimora contengono cinquantamila litri, e sono sempre piene.» Piegò la testa e si guardò il vestito informe: «Pensate, mia Signora: qui non devo neppure indossare la tuta distillante…» scoppiò a ridere. «E non sono morta!»
Jessica esitò; voleva fare delle domande alla donna Fremen, aveva bisogno di una guida, ma la cosa più urgente era mettere ordine nella spaventosa confusione del castello. Tuttavia, trovò sconcertante l’idea che in quel luogo l’acqua fosse un segno di ricchezza.
«Il mio sposo mi ha detto il tuo titolo, Shadout» cominciò. «Ho riconosciuto la parola. È molto antica.»
«Voi sapete le antiche lingue, allora?» chiese Mapes, e la fissò attentamente, in attesa.
«Le lingue sono la prima cosa che impara una Bene Gesserit» disse Jessica. «Conosco il Bhotani-Jib e il Chakobsa, tutte le lingue dei cacciatori.»
Mapes annuì. «Proprio come dice la leggenda.»
E Jessica si chiese: Perché accetto questa commedia? Ma le vie del Bene Gesserit, mai chiare e semplici, si facevano rispettare.
«Conosco le Cose Oscure e le vie della Grande Madre» continuò Jessica. Nell’aspetto di Mapes, in ciascuno dei suoi gesti, aveva letto i segni rivelatori, i più chiari. «Miseces prejia» intonò, in Chakobsa. «Andral t’re pera! Trada cik buscakri miseces perakri…»
Mapes balzò indietro, pronta a fuggire.
«So molte cose» continuò Jessica. «So che hai generato figli e che hai perduto quelli che amavi, che ti sei nascosta per la paura e che hai commesso atti violenti, e che altri ne compirai. So molte cose.»
A bassa voce, Mapes replicò: «Non vengo con l’animo ostile, mia Signora».
«Tu parli della leggenda e cerchi le risposte. Guardati dalle risposte che potrai trovare. So che sei venuta qui pronta alla violenza, e con un’arma nel corsetto.»
«Mia Signora, io…»
«C’è una vaga possibilità che tu riesca a spillare il sangue della mia vita» disse Jessica, «ma così facendo causeresti più rovine di quante tu possa immaginare nella tua più folle paura. Vi sono cose peggiori della morte, sai?… anche per tutto un popolo.»
«Mia Signora!» implorò Mapes. Sembrò sul punto di cadere in ginocchio. «Quest’arma è un dono per voi, se potrete provare di essere l’Unica.»
«E lo strumento della mia morte, se io non lo potrò» concluse Jessica, e attese, nella calma apparente che rendeva più terribili le Bene Gesserit nei momenti di crisi.
Ora vedremo cosa succederà, pensò.
Lentamente, Mapes infilò la mano nel vestito, all’altezza del collo, e ne estrasse un fodero scuro. Un’impugnatura nera ne sporgeva, profondamente scavata per una presa sicura. Afferrò il fodero con una mano e l’impugnatura con l’altra, e con rapido gesto ne estrasse una lama bianco latte. La brandì, alta sulla propria testa, e la lama sembrò lampeggiare di luce propria. Era un’arma a doppio taglio, come un kindjal, e la lama era lunga quasi venti centimetri.
«Lo conoscete, mia Signora?»
Non poteva che trattarsi di una cosa: il famoso cryss di Arrakis. La lama che non era mai uscita dal pianeta, e che negli altri mondi era un mistero.
«È un cryss» disse Jessica.
«Non pronunciate mai il suo nome con leggerezza» ribatté Mapes. «Sapete il suo significato?»
Jessica pensò: La tensione cresce. Ecco la ragione per cui questa Fremen ha preso servizio da me: doveva pormi proprio questa domanda. La mia risposta può scatenare la sua violenza o… che cosa? Esige una risposta: che cosa significa il coltello. La chiamano Shadout nella lingua Chakobsa. In Chakobsa, il coltello è il «Creatore di Morte». È sempre più impaziente. Ora devo rispondere. Ritardare può essere pericoloso quanto sbagliare.
Jessica disse: «È un Creatore…»
«Ah…!» gemette Mapes, dolore ed esultanza insieme. Tremava così violentemente che il riflesso del coltello guizzava in tutta la sala.
Jessica attese, pronta a scattare. Era stata sul punto di dire che il coltello era un «Creatore di Morte», aggiungendo la seconda antica parola, ma ora tutti i suoi sensi l’avvertivano, con l’acutezza di un addestramento capace di rivelare il significato del più piccolo fremito muscolare.
La parola chiave era… Creatore.
Creatore? Creatore.
E Mapes impugnava ancora il coltello come se fosse pronta a usarlo.
Jessica aggiunse: «Come hai potuto pensare che io, che conosco i misteri della Grande Madre, ignorassi il Creatore?»
Mapes abbassò il coltello. «Mia Signora, quando si è vissuti così a lungo con una profezia, il momento della rivelazione è una scossa terribile.»
Jessica pensò alla profezia… Lo Shari-a e tutto il panoplia propheticus. Una Bene Gesserit della Missionaria Protectiva era stata inviata su Arrakis molti secoli prima. Era morta da lungo tempo, senza dubbio, ma la sua missione era compiuta: leggende protettrici solidamente impiantate fra queste genti, nel caso che, un giorno, un’altra Bene Gesserit ne avesse bisogno.
Ecco: quel giorno era venuto.
Mapes infilò nuovamente il coltello nel fodero, e disse: «Questa è una lama instabile, mia Signora. Tenetela sempre su di voi. Se rimane più di una settimana lontana dalla carne, comincia a disintegrarsi. Per tutta la vita resterà su di voi questo dente di shai-hulud».
Jessica tese la mano destra, e osò: «Mapes, hai infilato la lama nel fodero senza segnarla col sangue!»
Con un’esclamazione strozzata, Mapes lasciò cadere il coltello inguainato nelle mani di Jessica. Si slacciò il corsetto, e con un gemito, disse: «Prendete l’acqua della mia vita!»
Jessica sfilò la lama dal fodero. Come lampeggiava! La puntò contro Mapes, vide nei suoi occhi un terrore più grande della morte.
La punta è avvelenata? si chiese Jessica. Alzò la lama e tracciò una linea sottile col fianco della lama sul seno sinistro di Mapes. Uscì qualche goccia di sangue che subito si arrestò. Coagulazione ultrarapida, pensò Jessica. Una mutazione per conservare l’umidità del corpo?
Infilò nuovamente la lama nel fodero e disse: «Riallacciati il vestito, Mapes».
Mapes ubbidì, tremando. I suoi occhi privi di bianco fissavano Jessica. «Voi siete dei nostri» mormorò. «Voi siete l’Unica.»
Si udì nuovamente, fuori, lo scaricarsi di un’altra montagna di pacchi. Mapes afferrò il coltello inguainato e lo nascose nel corpetto di Jessica. «Chiunque veda il coltello dev’essere purificato o ucciso!» sibilò, in tono di vago rimprovero. «Ma voi certamente lo sapete, mia Signora.»
Lo vengo a sapere ora, pensò Jessica.
Gli scaricatori se ne andarono senza passare per la Grande Sala.
Mapes si ricompose, e disse: «Ma chi è impuro e ha visto un cryss non può lasciar vivo Arrakis. Non lo dimenticate mai, mia Signora. Vi è stato affidato un cryss.» Respirò profondamente. «Ora le cose devono seguire il loro corso. Impossibile affrettarle.» Lasciò scivolare lo sguardo sugli enormi cumuli di merci ammucchiate tutto intorno. «E qui c’è molto lavoro per passare il tempo.»
Jessica esitò. «Le cose devono seguire il loro corso.» Una tipica frase che proveniva direttamente dagli incantesimi della Missionaria Protectiva. «La Reverenda Madre verrà a liberarvi.»
Ma io non sono una Reverenda Madre, pensò Jessica. E poi: Grande Madre! Questo mondo dev’essere orribile perché vi abbiano instillato questo!
Con voce tranquilla, Mapes disse: «Qual è la prima cosa che debbo fare, mia Signora?»
L’istinto spinse Jessica a rispondere con lo stesso tono tranquillo. «Quel ritratto del Vecchio Duca… dev’essere appeso su un lato della sala da pranzo. E la testa del toro sul lato opposto.»
Mapes si avvicinò alla testa di toro. «Doveva essere una bestia enorme per avere una testa così grossa» si chinò a osservarla. «Dovrò ripulirla prima di appenderla, mia Signora?»
«No.»
«Ma le corna sono incrostate di sudiciume.»
«Non è sudiciume, Mapes. È sangue del Vecchio Duca. Quelle corna sono state spruzzate con un fissativo trasparente, poche ore dopo che il toro lo uccise.»
Mapes si rizzò di scatto. «Oh…?»
«È soltanto sangue» spiegò Jessica. «Sangue antico. Cerca qualcuno che ti aiuti ad appenderli. Questi oggetti sono molto pesanti.»
«Credete che un po’ di sangue mi faccia impressione?» chiese Mapes. «Io vengo dal deserto, e ho visto sangue in abbondanza.»
«Ne sono convinta» disse Jessica.
«E a volte, era il mio sangue. Molto più sangue di quanto ne abbia sparso il vostro piccolo graffio.»
«Avresti voluto che incidessi più a fondo?»
«Oh, no! L’acqua del corpo è già poca, e non c’è bisogno di sprecarla spargendola all’aria. Voi avete agito correttamente.»
Al di là di queste parole, e del modo in cui erano state dette, Jessica ne afferrò le profonde implicazioni. L’acqua del corpo. Nuovamente si sentì oppressa dall’importanza dell’acqua su Arrakis.
«Su quale parete della sala da pranzo devo appendere queste ricchezze, mia Signora?» chiese Mapes.
Sempre pratica, questa Mapes. «Mi fido del tuo giudizio, Mapes» disse Jessica. «Non ha molta importanza.»
«Come voi desiderate, mia Signora.» Mapes si curvò e cominciò a liberare la testa di toro dall’imballaggio. «E così, hai ucciso un Vecchio Duca?» borbottò sottovoce.
«Devo chiamare un facchino per aiutarti?» chiese Jessica.
«Posso farcela da sola, mia Signora.»
Sì, ce la farai, disse Jessica tra sé. Voi Fremen avete la volontà di farcela!
Percepì il gelido contatto del cryss, nel corsetto, e pensò alla lunga catena d’intrighi del Bene Gesserit e al nuovo anello che era stato appena forgiato in quel luogo. E proprio quegli intrighi l’avevano salvata da una crisi mortale. Impossibile affrettarle aveva detto Mapes. E tuttavia questi luoghi erano dominati da un crescendo che riempiva Jessica di paura. Tutti gli intrighi della Missionaria Protectiva, tutte le sospettose perquisizioni eseguite da Hawat in quel mostruoso cumulo di pietre a forma di castello, non riuscivano a cancellare i suoi foschi presagi.
«Quando avrai finito di appendere queste cose, comincia a disfare i bauli» disse ancora. «Uno degli scaricatori è all’ingresso principale con tutte le chiavi, e ti dirà dove mettere ogni cosa. Fatti dare da lui le chiavi e la lista. Se hai qualcosa da chiedermi, sono nell’ala sud.»
«Come voi desiderate, mia Signora.»
Jessica si allontanò, pensando: Hawat avrà giudicato sicura la Residenza, ma c’è qualcosa di storto in questo posto, lo sento.
Sentì l’urgente bisogno di vedere suo figlio. S’incamminò verso la grande porta a volta che si apriva sul passaggio per la sala da pranzo e gli appartamenti privati. Camminò sempre più in fretta. Alla fine quasi correva.
Dietro di lei, Mapes smise per un attimo di svolgere dagli imballaggi la testa di toro, e fissò la schiena di Jessica che si allontanava. «È l’Unica, non c’è dubbio» mormorò. «Poveretta.»
«Yueh! Yueh! Yueh!» dice il ritornello. «Mille morti non sarebbero abbastanza per Yueh!»
La porta era socchiusa, e Jessica l’aprì entrando in una stanza dalle pareti gialle. Alla sua sinistra, un basso divano di pelle nera, due scaffali vuoti e una fiasca per l’acqua, dai fianchi tondeggianti, che pendeva vuota e polverosa. Alla sua destra, altri scaffali vuoti intorno a un’altra porta, una scrivania venuta da Caladan e tre sedie. Alla finestra, proprio davanti a lei, il dottor Yueh: le voltava la schiena e tutta la sua attenzione era rivolta al mondo esterno.
Jessica avanzò di un altro passo, in silenzio.
Vide che il mantello del dottore era spiegazzato, e che c’erano delle chiazze bianche all’altezza del gomito sinistro, come se si fosse appoggiato sul gesso. Visto così, di schiena, sembrava uno scheletro privo di carne, avvolto in una veste nera troppo larga per lui; una marionetta che aspettava a muoversi quando il burattinaio avrebbe tirato i fili. Solo la testa sembrava viva, con lunghi capelli, chiusi nell’anello d’argento della Scuola Suk, che gli scendevano sulla spalla e si muovevano leggermente quando si spostava per seguire qualche movimento là fuori.
Jessica esplorò nuovamente la stanza con lo sguardo, ma non vide traccia del figlio. Sapeva però che la porta chiusa, alla sua destra, conduceva alla stanza più piccola che Paul aveva preferito.
«Buona sera, dottor Yueh» disse. «Dov’è Paul?»
Il dottore mosse la testa come se si stesse rivolgendo a qualcuno, là fuori, e parlò con voce assente, senza voltarsi: «Tuo figlio era stanco, Jessica. L’ho mandato a riposarsi nell’altra stanza».
Poi s’irrigidì bruscamente, si girò di scatto e i baffi gli ricaddero sulle labbra purpuree. «Perdonatemi, mia Signora! I miei pensieri erano lontani da qui… io… non intendevo parlarvi così familiarmente.»
Lei sorrise e alzò la mano destra. Per un attimo ebbe paura che s’inginocchiasse. «Wellington, per favore.»
«Usare il vostro nome così… io…»
«Ci conosciamo da sei anni» Jessica l’interruppe. «Già da un pezzo avremmo dovuto bandire le formalità tra noi… in privato.»
Yueh azzardò un debole sorriso, e pensò: Credo che abbia funzionato. Adesso penserà che la diversità nel mio modo di comportarmi sia dovuta all’imbarazzo. Non cercherà ragioni più profonde: sarà convinta di sapere già la risposta.
«Mi dispiace, avevo la testa fra le nuvole» disse. «Quando… quando mi sento particolarmente dispiaciuto per voi, mi accade di pensare a voi, temo, come… beh, come a ’Jessica’, semplicemente.»
«Dispiaciuto per me? E perché mai?»
Yueh scrollò le spalle. Da tempo si era accorto che Jessica non aveva il dono completo della Verità, a differenza di Wanna. Tuttavia, quand’era possibile, diceva sempre la verità a Jessica: era più prudente.
«Avete visto questo pianeta, mia… Jessica» s’impappinò sul nome, poi continuò rapidamente: «È così spoglio, confronto a Caladan. E la gente! Tutte quelle donne, lungo il cammino per venire fin qui, che gemevano sotto il velo… E il modo con cui ci guardavano!»
Jessica incrociò le braccia sul petto, e sentì il cryss sulla pelle: la lama ottenuta da un dente del verme delle sabbie, a quanto si diceva. «Noi siamo degli estranei, nient’altro. Siamo una razza diversa, e così pure i nostri modi. Finora hanno conosciuto soltanto quelli degli Harkonnen» guardò a sua volta fuori della finestra. «Che cosa stavi osservando, là fuori?»
Yueh si voltò anche lui. «La gente.»
Jessica gli venne al fianco e seguì il suo sguardo, verso sinistra. C’era una ventina di palme, e il terreno era arido, brullo. Una barriera a schermo proteggeva le palme dalla gente che passava, infagottata nei suoi vestiti, lungo la strada. Jessica notò il leggero tremolio nell’aria fra lei e la gente (il campo di forza che avvolgeva completamente la casa) e studiò la folla, chiedendosi che cosa mai Yueh vi trovasse di così interessante.
Poi, all’improvviso capì, e istintivamente si portò una mano alla guancia. Il modo in cui la gente guardava le palme! In alcuni si leggeva l’invidia, in altri l’odio… e la speranza, anche. Tutti quelli che passavano sembravano letteralmente ipnotizzati da quegli alberi.
«Sapete cosa stanno pensando?» le chiese Yueh.
«Pretenderesti di leggere nella loro mente?»
«La loro mente» ribatté Yueh, «guarda gli alberi, e pensa: ’Lì ci sono almeno cento di noi.’ Ecco cosa pensa la gente.»
Lei lo fissò, perplessa e accigliata. «Perché?»
«Quelle sono palme da datteri. Ognuna di quelle palme richiede quaranta litri di acqua al giorno. A un uomo, invece, ne bastano otto. Una palma, quindi, equivale a cinque uomini. Ci sono venti palme, là fuori: cento uomini.»
«Ma alcuni guardano quegli alberi con una sorta di speranza.»
«Sperano che cada qualche dattero. Ma siamo fuori stagione.»
«Osserviamo questo luogo con occhio troppo critico» replicò Jessica. «Eppure, qui c’è pericolo, è vero, ma anche speranza. La spezia potrebbe davvero farci ricchi. E, accumulando una grande ricchezza, potremmo trasformare completamente questo mondo.»
Rise silenziosamente dentro di sé: Chi cerco di convincere? Questa ilarità silenziosa ruppe il suo controllo, e la lasciò triste e amara. «Ma la sicurezza non è cosa che si possa comprare con quelle ricchezze.»
Yueh si voltò, per nasconderle il suo viso: Se mi fosse solo possibile odiare questa gente, invece di amarla! A modo suo, e per molti tratti, Jessica assomigliava alla sua Wanna. E proprio questo pensiero irrigidì ancora di più i suoi propositi. La crudeltà degli Harkonnen prendeva strade tortuose. Wanna, forse, non era morta, e lui non poteva saperlo.
«Non preoccuparti per noi» disse Jessica. «Il problema è nostro, e non tuo.»
È convinta che sia preoccupato per lei! Sbatté le palpebre per ricacciare le lagrime. Ed è vero. Ma finirò pure col trovarmi davanti al Barone Nero, una volta compiuta la sua volontà, e coglierò l’occasione per colpirlo… proprio nel momento in cui sarà più debole: l’istante del trionfo! Sospirò.
«Disturberei Paul, se entrassi a dargli un’occhiata?» disse lei.
«Per niente. Gli ho dato un calmante.»
«Sopporta bene il cambiamento?»
«È soltanto un po’ stanco, ed eccitato, naturalmente. Ogni quindicenne lo sarebbe, date le circostanze» s’incamminò verso la porta e l’aprì. «È qua dentro.»
Jessica lo seguì, aguzzando gli occhi nella penombra.
Paul riposava su una branda, un braccio infilato sotto una leggera coperta, l’altro ripiegato all’indietro sulla testa. Le stecche della veneziana, accanto al letto, stendevano le loro ombre sul viso e la coperta.
Jessica guardò suo figlio, il volto ovale così simile al suo. Ma i capelli erano quelli del Duca: neri come il carbone e scarmigliati. Le lunghe ciglia gli nascondevano gli occhi verdi. Jessica sorrise, e sentì svanire le proprie paure. Si cimentò a rintracciare le ascendenze genetiche nei lineamenti del figlio: gli occhi erano i suoi, e così il profilo del viso, ma i tratti aguzzi del padre emergevano sempre più marcati in quel viso, come la maturità emerge dalla fanciullezza.
I tratti del viso del figlio le parvero la quintessenza raffinata di un procedimento casuale: un’interminabile fila di coincidenze che convergevano in un punto focale. Provò il desiderio improvviso d’inginocchiarsi accanto al letto e di stringerlo tra le braccia, ma la presenza di Yueh gliel’impedì. Indietreggiò, e chiuse lentamente la porta.
Yueh era ritornato alla finestra, incapace di resistere accanto a Jessica che contemplava il figlio. Perché Wanna non mi ha dato figli? si chiese. Sono un dottore, so che non c’erano impedimenti fisici. A meno che non fosse qualche motivo Bene Gesserit. Forse era destinata a qualcosa di diverso? Ma a che cosa? Mi amava, ne sono certo.
Per la prima volta fu colto dal pensiero che lui, forse, poteva far parte di un piano molto più involuto e complesso di quanto la sua mente non potesse mai concepire.
Jessica si fermò accanto a lui. «Che delizioso abbandono, il sonno di un bambino.»
Yueh rispose meccanicamente: «Se anche gli adulti potessero riposare così…»
«Davvero!»
«Perché dover perdere quella capacità?» disse ancora.
Lei lo fissò, cogliendo la strana sfumatura della sua voce. Ma il suo pensiero era rivolto a Paul, e ai nuovi rigori ai quali l’avrebbe sottoposto l’addestramento in quel pianeta. Come sarebbe stata diversa la sua vita, adesso; e così lontana da quella che un tempo avevano sognato per lui!
«Sì, perdiamo veramente qualcosa» confermò.
Guardò fuori, verso destra; una distesa di arbusti grigioverdi, le foglie secche e i rami polverosi a forma di artiglio che si agitavano al vento. Il cielo, cupo, era sospeso sopra il declivio come una macchia d’inchiostro, e la luminosità lattea del sole di Arrakis inondava la scena di riflessi argentei, come quelli del cryss che nascondeva in seno.
«Il cielo è così buio.»
«In parte è dovuto alla mancanza di umidità» rispose lui.
«Acqua!» esclamò Jessica, all’improvviso. «Da qualsiasi parte ci si volti, sempre questa mancanza dell’acqua!»
«È il grande mistero di Arrakis» disse Yueh.
«Perché mai ce n’è così poca? Ci sono rocce vulcaniche, su questo pianeta. E potrei citare un’altra dozzina di fonti d’umidità. C’è il ghiaccio ai poli. Dicono che è impossibile praticare trivellazioni nel deserto: che le tempeste e le maree di sabbia distruggono gli apparecchi prima che si finisca d’installarli, sempre che non siano divorati dai vermi, ancor prima. Comunque, non hanno mai trovato acqua, laggiù. Ma il mistero, Wellington, il vero mistero sono i pozzi scavati nel sink e nei bacini. Ne hai mai sentito parlare?»
«Prima un rivolo d’acqua, poi più niente» rispose Yueh.
«Wellington, è proprio questo il mistero! C’è dell’acqua laggiù. Il pozzo si prosciuga e l’acqua non ricompare più. E tuttavia, una successiva trivellazione nelle vicinanze dà l’identico risultato: un rivolo d’acqua, che subito scompare. Possibile che nessuno abbia mai provato curiosità per questo fenomeno?»
«Sì, è strano» ammise Yueh. «Sospettate la presenza di qualche essere vivente? I campioni estratti dal terreno l’avrebbero rivelato.»
«Che cosa avrebbero rivelato? Una pianta locale… o un animale? E come identificarli?» Lo sguardo di Jessica ritornò nuovamente al declivio. «L’acqua si ferma, qualcosa ne blocca l’uscita. Ne sono convinta.»
«Forse il mistero è già stato chiarito» disse Yueh. «Gli Harkonnen hanno censurato molte fonti d’informazione su Arrakis. Forse avevano qualche ragione per sopprimere anche questa.»
«E quale ragione?» replicò Jessica. «Inoltre c’è l’umidità atmosferica; non molta, certo, ma c’è. È la fonte più importante d’acqua, su Arrakis, quella che viene catturata dalle trappole a vento e dai precipitatori. Da dove viene?»
«Dalle calotte polari?»
«L’aria fredda porta con sé ben poca umidità, Wellington. Dietro il fitto velo steso dagli Harkonnen, vi sono molte cose che meritano di essere esplorate più a fondo. E non tutte direttamente legate alla spezia.»
«Certo, siamo avvolti dal velo degli Harkonnen. Forse noi…» s’interruppe: Jessica gli aveva piantato gli occhi addosso. «Qualcosa che non va?»
«Il modo con cui hai detto ’Harkonnen’» disse lei. «Neppure la voce del mio Duca è tanto carica di veleno, quando pronuncia quel nome odiato. Non sapevo che tu avessi qualche ragione speciale per detestarli, Wellington.»
Grande Madre! pensò Yueh. Ho risvegliato i suoi sospetti! Ora dovrò usare tutti i trucchi che la mia Wanna mi ha insegnato. C’è una sola soluzione: dirle il più possibile della verità.
«Non sapevate che mia moglie, la mia Wanna…» Scrollò le spalle: la gola gli si era stretta all’improvviso. Balbettò: «Essi…»
Le parole non volevano uscire. Sentì il panico impadronirsi di lui, chiuse gli occhi; li strinse, sentì un dolore acuto al petto, soltanto quello, finché una mano gli sfiorò gentilmente il braccio.
«Perdonami» mormorò Jessica, «non volevo riaprire una vecchia ferita.» Quei mostri! pensò. Sua moglie era una Bene Gesserit. I segni sono dovunque, in lui. Ed è evidente che gli Harkonnen l’hanno uccisa. Yueh è un’altra vittima, un altro sventurato legato agli Atreides da un cherem, da un desiderio di vendetta.
«Mi spiace» riprese Yueh, «ma non riesco a parlarne» aprì gli occhi, abbandonandosi alla sofferenza interiore. Questa, almeno, era vera. Jessica studiò il suo viso, gli zigomi alti e acuti, il riflesso d’oro zecchino nei suoi occhi a mandorla, la carnagione color burro, i baffi simili a spaghi che pendevano come due parentesi ai lati delle labbra purpuree, il mento aguzzo. Le rughe sulle guance e sulla fronte erano dovute più al dolore che all’età. Provò un profondo affetto per l’uomo.
«Wellington, mi dispiace che ti abbiamo portato su questo mondo pericoloso» gli disse.
«Ci sono venuto di mia spontanea volontà» ribatté Yueh. E anche questo era vero.
«Ma questo pianeta è un’unica, immensa trappola degli Harkonnen. Anche tu lo sai!»
«Ci vorrà molto più di una trappola per catturare il Duca Leto» replicò Yueh. E, ancora una volta, anche questo era vero.
«Forse dovrei avere più fiducia in lui» fece Jessica. «È un brillante stratega.»
«Ci hanno sradicati dal nostro mondo. È per questo che siamo così inquieti.»
«Ed è così facile uccidere una pianta sradicata… Specialmente quand’è trapiantata in un terreno ostile.»
«Siamo certi che il terreno sia ostile?»
«Vi sono state ribellioni per l’acqua quando hanno saputo quante persone il Duca avrebbe aggiunto alla loro gente. Si sono calmati soltanto quando hanno saputo che avremmo aggiunto trappole a vento e precipitatori per il nuovo fabbisogno.»
«C’è solo una data quantità d’acqua, su Arrakis, per sostentare la vita» disse Yueh. «La gente sa fin troppo bene che se altri vengono a berla, il prezzo dell’acqua salirà e i più poveri moriranno. Ma il Duca ha risolto questo problema. Le ribellioni non significano affatto un’ostilità permanente nei suoi confronti.»
«E le guardie?» ribatté Jessica. «Guardie dappertutto. E scudi. Si coglie il loro tremolio dovunque si guardi. Non vivevamo certo così, su Caladan.»
«Lasciate una possibilità a questo pianeta.»
Ma Jessica continuò a guardare fuori dalla finestra, con occhi duri. «Questo luogo puzza di morte. Hawat ha inviato qui un battaglione di agenti in avanscoperta. Quelle guardie là fuori sono i suoi uomini. E anche gli scaricatori. Vi sono stati importanti prelievi di denaro dal tesoro, senza una spiegazione. Significano soltanto una cosa: corruzione di potenti.» Scosse il capo. «Dovunque vada Thufir Hawat, subito l’accompagnano morte e inganno.»
«Lo state insultando?»
«Insultando? Sto tessendo le sue lodi! La morte e l’inganno sono la nostra unica speranza, qui. Soltanto, non mi illudo sui metodi di Thufir.»
«Dovreste… Trovate qualcosa da fare» disse Yueh. «Non passereste tutto il tempo con questi morbosi…»
«Qualcosa da fare! Che cosa mi tiene occupata la maggior parte del tempo, Wellington? Io sono la segretaria del Duca; ho tanto da fare che ogni giorno imparo cose nuove di cui aver paura… cose che lui non sospetta che io sappia.» Strinse le labbra e parlò con un filo di voce: «A volte mi chiedo quanto abbia influito il mio addestramento Bene Gesserit nella sua scelta».
«Che cosa volete dire?» L’avevano colpito quell’amarezza, quel cinismo insoliti in lei.
«Wellington, non pensi che una segretaria legata dall’amore sia infinitamente più sicura?»
«È un pensiero indegno di voi, Jessica.»
Il rimprovero gli era salito spontaneamente alle labbra. Nessun dubbio era possibile sui sentimenti del Duca verso la sua concubina. Bastava guardarlo quando la seguiva con gli occhi.
Lei sospirò. «Hai ragione, non è degno di me.»
Ancora una volta incrociò le braccia sul petto, premendo il cryss contro la pelle,
e pensando all’opera ancora incompiuta che esso rappresentava.
«Presto ci sarà spargimento di sangue» continuò. «Gli Harkonnen non avranno pace finché non avranno distrutto il mio Duca, o non li avremo completamente sterminati. Il Barone non può dimenticare che Leto è cugino del sangue reale (non importa di quale grado) mentre la nobiltà degli Harkonnen è nata tra i fatturati della CHOAM. Ma l’autentico veleno, instillato nelle profondità della sua mente, è la consapevolezza che fu un Atreides a bandire un Harkonnen per codardia dopo la Battaglia di Corrin.»
«L’antica faida» mormorò Yueh. Per un attimo, sentì l’acre sapore dell’odio. L’antica faida che aveva imprigionato anche lui nella sua tela, e che aveva ucciso la sua Wanna… o, peggio ancora, l’aveva lasciata agli Harkonnen perché la torturassero finché lui non avesse eseguito il loro ordine. La faida l’aveva imprigionato, e tutta questa gente intorno a lui faceva parte di quell’antica trappola velenosa. Quale ironia che tutto quell’odio mortale fosse destinata a fiorire pienamente qui, su Arrakis, unica fonte in tutto l’universo del melange, la droga della salute che prolungava la vita!
«A che cosa stai pensando?» gli chiese Jessica.
«Penso che la spezia vale seicentoventimila solari al decagrammo sul mercato libero, oggi. È una ricchezza che può comperare tante cose!»
«Anche tu sei stato afferrato dall’avidità, Wellington?»
«Non dall’avidità.»
«E da che cosa, allora?»
Scosse le spalle. «La futilità.» La fissò. «Vi ricordate di quando avete provato la spezia, la prima volta?»
«Sì, ha un gusto di cinnamomo.»
«Non ha mai due volte lo stesso gusto» replicò Yueh. «È come la vita, ha ogni volta un diverso sapore. Alcuni pensano che la spezia induca una reazione di sapore favorevole. Il corpo, una volta imparato che una cosa è buona per lui, l’accetta, e ce ne trasmette il sapore come gradevole… leggermente euforico. Come la vita, questa sostanza non può essere prodotta per sintesi.»
«Penso che sarebbe stato molto più saggio rinnegare la Casa e fuggire il più lontano possibile dall’Impero» disse Jessica.
Yueh, accorgendosi che Jessica non lo aveva ascoltato, rifletté sulla parole di lei: Sì… e perché non lo ha convinto a farlo? Lei potrebbe convincerlo a fare qualsiasi cosa.
Disse rapidamente, perché cambiava argomento ed era ancora la verità: «Mi giudichereste sfrontato, Jessica… se vi rivolgessi una domanda personale?»
Lei premette il suo corpo sul davanzale, in preda a un’inesplicabile inquietudine: «Naturalmente no. Tu sei un… amico».
«Perché non avete convinto il Duca a sposarvi?»
Lei si girò di scatto, a testa alta, e i suoi occhi lanciavano fiamme: «Convincerlo a sposarmi? Ma…»
«Non avrei dovuto chiederlo» disse Yueh.
«No, no» lei scrollò le spalle. «Ci sono delle ottime ragioni politiche… Finché il mio Duca è scapolo, alcune Grandi Case possono sperare in un’alleanza. E…» (sospirò) «…e inoltre, costringere qualcuno a fare qualcosa, piegarlo al tuo volere, crea in te un atteggiamento cinico verso l’umanità. Degrada qualsiasi cosa tu tocchi. Se lo avessi convinto… in realtà non sarebbe stato lui a farlo.»
«Questo, anche la mia Wanna avrebbe potuto dirlo» mormorò Yueh. E anche questa era la verità. Si portò una mano alla bocca, e inghiottì convulsamente. Non era mai stato così vicino a parlare, a confessare il suo ruolo segreto.
Jessica riprese, spezzando l’incantesimo: «Inoltre, Wellington, il Duca è in realtà due uomini. Uno, quello che io amo moltissimo, è affascinante, intelligente, premuroso, tenero… tutto quello che una donna può desiderare. Ma l’altro è… freddo, insensibile, esigente, egoista… duro e crudele come il vento dell’inverno. È l’uomo formato da suo padre». Una smorfia le contorse il viso. «Se quel vecchio fosse morto quando il Duca è nato!»
Vi fu un improvviso silenzio, e si udì il ticchettio della veneziana nella brezza del ventilatore.
Dopo un po’, Jessica sospirò e disse: «Leto ha ragione… le camere di quest’ala sono molto più accoglienti che quelle dell’altro lato del castello» si guardò intorno, esaminando l’intera stanza. «Se mi vuoi scusare, Wellington, vorrei dare un’altra occhiata a tutta quest’ala prima di assegnare gli appartamenti e di scegliere l’ufficio del Duca.»
Yueh annuì. «Senz’altro.» E pensò: Se solo esistesse il modo di sfuggire al mio compito!
Jessica lasciò ricadere le braccia, si diresse verso la porta che dava nella Grande Sala; esitò sulla soglia per un attimo, poi uscì. Per tutto il tempo che abbiamo parlato mi stava nascondendo qualcosa. Si è tenuto qualcosa per sé, pensò. Per risparmiare i miei sentimenti, senza dubbio. È un brav’uomo. Esitò ancora, stava quasi per tornare indietro ad affrontare Yueh, per strappargli qualsiasi cosa volesse mantenere segreta. Ma questo potrebbe soltanto causargli vergogna, lo spaventerebbe sapere che è così facile leggere in lui. Dovrei fidarmi di più dei miei amici.
Molti hanno ricordato la rapidità con cui Muad’Dib si familiarizzò con le necessità di Arrakis. Le Bene Gesserit, naturalmente, sanno il perché. Agli altri possiamo dire che Muad’Dib imparò rapidamente perché il suo primo addestramento consisteva appunto nel saper imparare. La prima lezione era la certezza di poter imparare. È sconvolgente scoprire quanti non credono di poter imparare e quanti, ancora, credono che imparare sia difficile. Muad’Dib sapeva che ogni esperienza porta in sé una lezione.
Nel suo letto, Paul fingeva di dormire. Era stato facile sbarazzarsi della pillola di sonnifero datagli dal dottor Yueh, facendo finta di averla inghiottita. Paul trattenne a stento una risata. Perfino sua madre aveva creduto che dormisse. Avrebbe voluto saltar su e chiederle il permesso di esplorare la casa, ma lei non avrebbe approvato. Tutto era ancora troppo incerto. No, c’era un sistema migliore.
Se io scivolo fuori di qui, allora non avrò disubbidito a nessun ordine. E resterò in casa, dove non ci sono pericoli.
Sentì sua madre e Yueh che parlavano nell’altra stanza. Un brusio indistinto, qualcosa sulla spezia… gli Harkonnen. La conversazione aumentava e diminuiva d’intensità. L’attenzione di Paul si concentrò sulla testiera scolpita del letto: una falsa testiera, fissata alla parete, che nascondeva in sé tutti i controlli della stanza. C’era un pesce volante, scolpito nel legno, con onde brune sotto di esso. Sapeva che se avesse premuto l’unico occhio visibile del pesce avrebbe acceso le lampade a sospensione, e che facendo ruotare una delle onde avrebbe regolato la ventilazione della stanza. Un’altra comandava la temperatura.
Silenziosamente, Paul si alzò a sedere. Un’alta libreria occupava la parete alla sua sinistra. Facendola girare su un perno, rivelava dietro di sé un armadio con un gran numero di cassetti. La maniglia della porta che si apriva all’esterno aveva la forma della leva di comando di un ornitottero.
La stanza sembrava concepita apposta per accattivarsi tutta la sua simpatia.
La stanza, e l’intero pianeta.
Ripensò al librofilm che Yueh gli aveva mostrato: Arrakis: Stazione Botanica Sperimentale del Deserto di Sua Maestà Imperiale. Era un vecchio librofilm, anteriore alla scoperta della spezia. Un turbinio di nomi passò nella testa di Paul, come uno sciame di vespe, ognuno con la sua fotografia, grazie agli impulsi mnemonici del libro: saguaro, rovo dell’asino, palma da datteri, verbena delle sabbie, primula della sera, cactus a barile, rovo dell’incenso, rovo creosoto… volpe nana, falco del deserto, topo canguro…
Nomi e fotografie, nomi risalenti al passato terrestre dell’uomo; molti di quei nomi non si trovavano più in nessuna parte dell’universo, fuorché su Arrakis.
E tante cose nuove da imparare… la spezia.
E i vermi delle sabbie.
Sentì una porta chiudersi nell’altra stanza, e i passi di sua madre che si allontanavano nel corridoio. Sapeva che il dottor Yueh avrebbe trovato qualcosa da leggere e che sarebbe rimasto nell’altra stanza.
Era giunto il momento dell’esplorazione.
Paul scivolò fuori dal letto e si diresse verso la libreria mobile che dissimulava l’armadio. Vi fu un rumore dietro di lui: si arrestò. La testiera scolpita s’incurvò in avanti. Paul non fece il più piccolo movimento, e questa immobilità gli salvò la vita.
Da dietro il capezzale balzò fuori un piccolo cercatore-assassino, non più lungo di cinque centimetri. Paul lo riconobbe subito: un’arma omicida che ogni bambino di sangue nobile imparava a conoscere in tenera età. Era una sottila scheggia di metallo famelico, guidata da un occhio e da una mano che si trovavano lì vicino. Si conficcava nella carne viva e si scavava una strada lungo il sistema nervoso fino al più vicino organo vitale.
Il metallo assassino si alzò, curvò attraversando la stanza e tornò indietro.
Nella mente di Paul passarono in un lampo tutte le sue cognizioni relative al cercatore-assassino, e alle sue limitazioni. Il debole campo di sospensione distorceva la visuale dell’occhio trasmettitore. Senz’altra sorgente luminosa che la luce ambiente, l’operatore doveva affidarsi unicamente al movimento, scagliare cioè l’arma contro qualsiasi cosa si movesse. Paul aveva lasciato sul letto la cintura scudo. Una pistola laser avrebbe potuto abbatterlo, ma erano armi costose e delicate, richiedevano frequenti riparazioni, e c’era sempre il pericolo di causare un pericoloso «scoppio pirotecnico» se il raggio del laser toccava uno scudo attivato. Gli Atreides facevano tradizionalmente affidamento sui propri scudi e sulla propria abilità.
Ora Paul aveva assunto un’immobilità catatonica, sapendo che disponeva soltanto della propria abilità per affrontare il pericolo.
Il cercatore-assassino si alzò di un altro mezzo metro. Continuava a oscillare nella trama di ombre e luci della finestra, sondando la stanza.
Devo afferrarlo, pensò Paul. Il campo di sospensione lo rende scivoloso: devo afferrarlo strettamente.
L’oggetto tornò ad abbassarsi, ruotò a sinistra e girò intorno al letto. Produceva un debole ronzio.
Chi lo starà manovrando? si chiese Paul. È qualcuno qui vicino. Potrei chiamare Yueh, ma verrebbe ucciso nel preciso istante in cui apre la porta.
La porta esterna, alle spalle di Paul, cigolò. Un bussare discreto, poi la porta si aprì.
Il cercatore-assassino sfrecciò accanto alla sua testa, verso il movimento.
La mano destra di Paul scattò fulminea, e afferrò l’oggetto mortale. Il cercatore-assassino ronzò e si dibatté nelle sue mani, ma i muscoli del ragazzo si erano chiusi su di esso con la forza della disperazione. Si girò di scatto e colpì il metallo della porta con la punta. Udì fracassarsi l’occhio dell’oggetto tra le sue dita, e il cercatore gli morì tra le mani.
Ma continuò ancora a stringerlo.
Paul alzò gli occhi e incontrò lo sguardo azzurro e impavido della Shadout Mapes.
«Tuo padre mi ha inviato a cercarti» disse la Shadout. «Un gruppo di uomini ti aspetta nella Sala per scortarti.»
Paul annuì. I suoi occhi e tutta la sua attenzione si erano concentrati su questa strana donna avvolta nell’informe abito bruno degli schiavi. La donna fissava, adesso, l’oggetto che lui stringeva tra le mani.
«Ne ho sentito parlare» fece. «Mi avrebbe ucciso, non è vero?»
Paul inghiottì a fatica, e rispose: «L’obiettivo ero… io».
«Ma si stava precipitando su di me.»
«Perché ti muovevi.» E si chiese: Chi è questa creatura?
«Allora, mi hai salvato la vita.»
«Ho salvato la vita a tutt’e due.»
«Avresti potuto lasciare che mi colpisse, e fuggire» insistette la donna.
«Chi sei?» le chiese Paul.
«La Shadout Mapes, la governante.»
«Come sapevi dov’ero?»
«Me l’ha detto tua madre. L’ho incontrata nel corridoio, accanto alla scala che conduce alla camera strana.» Accennò alla porta. «Gli uomini ti stanno aspettando.»
Uomini di Hawat, pensò Paul. Dobbiamo scoprire chi azionava l’assassino!
«Corri da quegli uomini» ordinò. «Informali che ho preso un cercatore-assassino qui, nella casa. Devono perquisire l’edificio e scoprire chi lo manovrava. Di’ che sigillino immediatamente la casa e il terreno antistante. Loro sanno come fare. L’operatore è certamente uno straniero fra noi.»
E si chiese: Potrebbe essere questa donna? Ma sapeva che era impossibile. Il cercatore-assassino si trovava ancora sotto controllo quando lei era entrata.
«Prima che io esegua i tuoi ordini, giovanotto» disse Mapes, «devo purificare la strada tra noi. Tu hai posto su di me un fardello d’acqua che non sono certa di poter reggere. Ma noi Fremen paghiamo sempre i nostri debiti, bianchi o neri che siano. Noi sappiamo che c’è un traditore tra voi. Chi sia, non possiamo dirlo, ma siamo certi che esiste. Forse è la stessa mano che ha guidato quell’arma.»
Paul assimilò la notizia in silenzio: Un traditore. Ma prima ancora che potesse parlare, quella strana donna si era precipitata verso la porta.
Pensò di chiamarla indietro, ma c’era qualcosa in lei che lo arrestò. Non le sarebbe piaciuto. Gli aveva detto quello che sapeva, e ora eseguiva i suoi ordini. Fra un attimo, gli uomini di Hawat avrebbero invaso la casa.
La sua mente riandò ad altri frammenti di conversazione: la camera strana. Guardò a sinistra, nella direzione indicata dalla mano della donna. Noi Fremen. Così, era una Fremen. Attese, finché la sua memoria non ebbe perfettamente registrato il suo aspetto: un volto ascetico, bruno, rugoso, occhi azzurri su un fondo azzurro senza alcuna traccia di bianco. Vi applicò l’etichetta: La Shadnut Mapes.
Sempre stringendo l’assassino ucciso, Paul ritornò accanto al letto, raccolse con la sinistra la cintura scudo, se la fece girare intorno alla vita e l’affibbiò, mentre già correva nel corridoio.
Quella donna aveva detto che sua madre era laggiù… le scale… la camera strana.
Che cosa sostenne Lady Jessica, durante la sua disgrazia? Riflettete su questo proverbio Bene Gesserit, e forse capirete anche voi: «Qualsiasi strada, se seguita fino alla fine, non conduce da nessuna parte. Arrampicati solo un poco sulla montagna, per vedere se è una montagna. Dalla cima, non potresti vedere se è davvero una montagna».
In fondo all’ala sud, Jessica trovò una scala a chiocciola, con scalini di metallo, che saliva verso una porta ovale. Guardò indietro, verso il corridoio, e poi di nuovo, verso la porta.
Una porta ovale? si chiese. Che forma strana in una casa!
C’era una finestra, sotto la scala, e Jessica vide il grande sole bianco di Arrakis che scivolava verso la sera. Lunghe ombre si allungavano nella sala. Jessica rivolse nuovamente la sua attenzione alla scala. La viva luce che l’illuminava faceva spiccare dei frammenti di terra disseccata su ogni scalino. Jessica appoggiò una mano sulla ringhiera e cominciò a salire. La ringhiera era fredda sotto il suo palmo umido. Giunse davanti alla porta e si fermò. Non c’era maniglia, ma soltanto una lieve depressione dove la maniglia avrebbe dovuto esserci.
Non sarà per caso una serratura a palmo? si disse. Una simile serratura dev’essere sincronizzata sulla forma di una mano, e sulle linee del palmo. Ma sembrava proprio una serratura di quel tipo. E a scuola le avevano insegnato il modo di aprirla.
Jessica si guardò alle spalle per essere sicura che nessuno l’osservava, appoggiò il palmo della mano sulla depressione della porta… e poi si voltò, vedendo Mapes che si avvicinava ai piedi della scala.
«Ci sono degli uomini nella Grande Sala. Dicono che li ha mandati il Duca per scortare il Giovane Duca» disse Mapes. «Hanno il sigillo del Duca e le guardie li hanno identificati.» Guardò la porta ovale, e poi di nuovo Jessica.
Donna prudente, questa Mapes, pensò Jessica. Buon segno.
«È la quinta stanza su questo lato del corridoio, una piccola camera da letto» disse. «Se non riesci a svegliarlo, chiama il dottor Yueh, nella stanza accanto. Paul potrebbe aver bisogno di un’iniezione tonificante.»
Ancora una volta, Mapes lanciò un’occhiata penetrante alla porta ovale, e Jessica ebbe l’impressione che quell’occhiata rivelasse, quasi, dell’odio. Ma non poté interrogarla e chiederle che cosa mai nascondesse la porta, perché Mapes era già corsa via lungo il corridoio.
Hawat ha frugato da cima a fondo questa dimora, pensò Jessica. Non ci può essere niente di terribile qua dentro.
Spinse la porta. Questa si aprì verso l’interno, rivelando una piccola stanza e un’altra porta ovale sul lato opposto, con un volante al posto della maniglia.
Una porta a chiusura stagna! si stupì Jessica. Abbassò gli occhi e vide un puntello metallico, col marchio di Hawat, sul pavimento della cella. Serviva a mantenere la porta aperta, pensò. Qualcuno l’ha fatto cadere accidentalmente, urtandolo, e la porta esterna si è chiusa sulla serratura a palmo.
Scavalcò la soglia ed entrò nella piccola stanza.
Perché una porta a tenuta stagna in questa casa? si chiese. E improvvisamente pensò a una creatura esotica sigillata là dentro in condizioni climatiche particolari.
Condizioni climatiche particolari!
Questo sembrava logico su Arrakis, dove anche la pianta straniera più secca avrebbe dovuto venire irrigata.
La porta alle sue spalle cominciò a chiudersi. La fermò, bloccandola col puntello lasciato da Hawat. Ancora una volta fronteggiò la porta interna col volante, e ora si accorse di una scritta quasi invisibile incisa sul metallo sopra la maniglia. Riconobbe parole in Galach. Lesse: «O Uomo! Ecco un’adorabile parte della Creazione di Dio: allora, guarda e impara ad amare la perfezione del tuo Amico Supremo».
Jessica afferrò il volante e premette con tutto il suo peso. Girò a sinistra e la porta interna si aprì. Una brezza leggera le sfiorò le guance e le scompigliò i capelli. L’aria era ricca e profumata. Aprì la porta del tutto e scoprì una massa di vegetazione illuminata da una luce dorata.
Un sole giallo? si chiese. No, un filtro!
Entrò, e la porta le si chiuse alle spalle.
«Una serra» bisbigliò.
Si trovò circondata da piante in vaso e da arbusti sapientemente potati. Riconobbe una mimosa, una cidonia, un sondagi, una pleniscenta dai fiori ancora in boccio, alcuni akarsi a strisce verdi e bianche… delle rose…
Perfino le rose!
Si chinò a respirare la fragranza di un enorme bocciolo, poi si raddrizzò e si guardò intorno.
Percepì una pulsazione ritmica.
Scostò una parete di foglie e guardò verso il centro della stanza. Scoprì una bassa fontana dalla conchiglia scannellata: la pulsazione era dovuta a uno zampillo che ricadeva nella vasca con un ritmo tambureggiante.
Jessica cominciò a esplorare la stanza centimetro per centimetro, dominando l’esaltazione dei sensi. La stanza era quadrata, di circa dieci metri di lato. Dalla sua posizione all’estremità del corridoio, e da piccole differenze nella sua struttura, indovinò che era stata aggiunta a quest’ala del castello molti anni dopo l’originaria costruzione.
Si fermò sul lato sud della stanza, davanti all’ampia superficie di vetro filtrante, e si guardò intorno. Ogni centimetro disponibile della stanza era gremito di piante esotiche tipiche dei climi umidi. Qualcosa frusciò tra il verde, poi Jessica, trattenendo il respiro, vide un semplice servok meccanico, con tubo e nebulizzatore. Il nebulizzatore si alzò e una lieve spruzzata di umidità le irrorò la guancia. Il braccio si ritirò e Jessica vide la pianta gratificata: una felce.
C’era acqua dovunque in quella stanza… su un pianeta dove l’acqua era il succo prezioso della vita. Tanta acqua sperperata… Restò immobile per l’emozione.
Guardò fuori in direzione del sole, giallo attraverso il filtro. Era sospeso nel cielo, sopra un orizzonte dentato di rocce a picco, su quella cresta gigantesca che chiamavano il Muro Scudo.
Un filtro, pensò, per trasformare un sole bianco in qualcosa di più dolce e familiare. Chi ha potuto concepire un simile luogo? Leto? Sarebbe degno di lui farmi la sorpresa di un simile dono, ma non ce n’è stato il tempo. E aveva problemi molto più importanti a cui pensare.
Si ricordò allora di un rapporto in cui aveva letto che molte case di Arrakeen erano sigillate, per conservare e condensare l’umidità interna. Leto aveva affermato che, come deliberata dichiarazione di ricchezza e di potere, questo edificio ignorava tali precauzioni. Porte e finestre erano chiuse solo alla polvere, onnipresente.
Ma la presenza della serra era molto più eloquente dell’assenza di sigilli sulle porte esterne. Jessica calcolò che la serra conteneva abbastanza acqua per sostentare mille persone su Arrakis, forse più.
Jessica si spostò lungo la parete di vetro, continuando a esplorare la stanza. Una superficie metallica comparve accanto alla fontana, all’altezza di un tavolo, e sopra di essa un taccuino e uno stilo, parzialmente nascosti da un’ampia foglia che vi pendeva sopra. Si avvicinò, vide i segni del passaggio di Hawat e lesse il messaggio scritto sul foglio:
«A Lady Jessica,
Possa questo luogo darvi tanto piacere quanto ne ha procurato a me. Permettete che questa stanza vi ricordi una lezione che abbiamo imparato dagli stessi maestri: la vicinanza di un oggetto desiderato è una tentazione ad abusarne. Là ci aspetta il pericolo.
Con i miei migliori auguri,
Jessica annuì. Leto, appunto, si era riferito al precedente inviato dell’Imperatore su Arrakis come al Conte Fenring. Ma il messaggio contenuto in quelle parole richiedeva tutta la sua attenzione: le parole erano state vergate in modo da far capire che erano state scritte da un’altra Bene Gesserit. Un pensiero amaro la sfiorò per un istante: Il Conte ha sposato la sua Lady…
E, contemporaneamente, Jessica si piegò sulla superficie metallica, cercando l’altro messaggio, quello nascosto. Doveva essercene uno. Il messaggio visibile conteneva una frase che ogni Bene Gesserit (a meno che non fosse inibita da un’Ingiunzione della Scuola) era tenuta a trasmettere a un’altra Bene Gesserit quando la situazione l’avesse richiesto: «Là ci aspetta il pericolo».
Jessica sfiorò la superficie del taccuino, cercando perforazioni in codice. Niente. Ispezionò l’orlo delle pagine con le dita. Niente ancora. Passò le mani sul lato inferiore, poi rimise il blocco dove l’aveva trovato. Provò una sensazione di urgenza…
Qualcosa nella posizione? si chiese.
Ma Hawat aveva perquisito la serra, e senza dubbio aveva spostato il taccuino. Guardò la foglia sopra le pagine. La foglia! Strofinò le dita sulla superficie vellutata, lungo l’orlo, il picciolo… Era lì! Le sue dita sfiorarono i sottili punti in codice e il messaggio fu subito chiaro.
«Tuo figlio e il Duca corrono un pericolo immediato. Una stanza da letto è stata disegnata in modo da attirarvi tuo figlio. Gli H l’hanno caricata di trappole mortali, in modo che siano tutte scoperte eccetto una sola, nascosta bene.» Jessica lottò contro il desiderio improvviso di precipitarsi da Paul: doveva leggere fino in fondo. Le sue dita scivolarono sui punti ancora più rapide. «Non conosco l’esatta natura del pericolo, ma esso ha a che fare con un letto. La minaccia per il Duca è il tradimento di un amico fedele o di un luogotenente. Il piano degli H prevede di offrirti in dono a uno dei loro sicari. Posso garantirti che questo orto botanico è sicuro, al limite delle mie conoscenze. Scusami se non posso dirti di più: le mie fonti d’informazione sono scarse, poiché il mio Conte non è al soldo degli H. In fretta, M.F.»
Jessica liberò la foglia e si voltò, per precipitarsi da Paul. In quel preciso istante, la porta stagna si spalancò: Paul balzò dentro, stringendo qualcosa nella mano destra, e sbatté la porta dietro di sé. Vide la madre e si fece strada fra le piante verso di lei, vide la fontana, allungò la mano e mise sotto lo zampillo l’oggetto che stringeva.
«Paul!» Lo afferrò alle spalle, fissandogli la mano. «Cos’è quello?»
«Un cercatore-assassino. L’ho preso nella mia stanza e gli ho fracassato la punta. Ma voglio essere ben sicuro: l’acqua dovrebbe cortocircuitarlo» parlava in tono disinvolto, ma Jessica intuì la tensione dietro alle sue parole.
«Immergilo completamente!» intimò.
Paul ubbidì.
Poi: «Lascialo nell’acqua. Ritira la mano».
Paul tirò fuori la mano, scrollandola per asciugarla, e fissò il metallo inerte nell’acqua. Jessica spezzò una foglia e con lo stelo stuzzicò il frammento mortale.
Restò immobile.
Jessica lasciò cadere lo stelo nell’acqua e guardò Paul. Gli occhi del figlio esaminavano la stanza con un’acutezza che lei conosceva fin troppo bene… la Via Bene Gesserit.
«Questo posto potrebbe nascondere le peggiori insidie» disse Paul.
«No. Ho ragione di credere che sia assolutamente sicuro» rispose lei.
«Hawat aveva detto che la mia camera era sicura…»
«Era un cercatore-assassino» lei gli ricordò. «Questo significa che c’era un operatore dentro la casa. L’onda di comando di un cercatore ha un raggio d’azione limitato. È possibile che l’abbiano nascosto dentro la camera dopo la perquisizione di Hawat.»
Ma, nello stesso tempo, lei pensava al messaggio della foglia: «… Il tradimento di un amico fedele o di un luogotenente». Oh, non Hawat, impossibile! Assolutamente, no!
«Gli uomini di Hawat stanno frugando dovunque nella Residenza, ora» disse Paul. «Quell’assassino ha quasi ucciso la vecchia donna che è venuta a svegliarmi.»
«La Shadout Mapes» fece Jessica, ricordando l’incontro sulle scale. «Tuo padre ti chiamava per…»
«Può aspettare» replicò Paul. «Perché sei convinta che questa stanza sia sicura?»
Jessica gli mostrò il taccuino e gli spiegò il significato.
Paul si rilassò leggermente.
Ma Jessica continuò a pensare: Un cercatore-assassino! Madre Misericordiosa! Ci volle tutto il suo addestramento per non cadere in un attacco isterico.
Paul riprese, con calma: «Sono gli Harkonnen, naturalmente. Dovremo distruggerli».
Qualcuno bussò alla porta, secondo il codice degli uomini di Hawat.
«Avanti» disse Paul.
La porta si spalancò, e un uomo alto, con l’uniforme degli Atreides e l’insegna di Hawat sul berretto si piegò per entrare nella serra. «Ah, eccovi, Signore» fece. «La governante ha detto che vi avrei trovato qui» il suo sguardo esplorò la serra. «Abbiamo trovato un tumulo funebre nelle cantine. Un uomo si nascondeva all’interno. Aveva con sé il quadro di controllo di un cercatore.»
«Voglio assistere al suo interrogatorio» disse Jessica, impulsivamente.
«Mi dispiace, mia Signora, ma c’è stato un po’ di trambusto quando l’abbiamo preso. È morto.»
«Niente che possa identificarlo?»
«Finora niente, mia Signora.»
«Era un nativo di Arrakis?» chiese Paul. (Jessica annuì: una domanda intelligente.)
«Ha l’aspetto di un nativo» disse l’uomo. «L’hanno infilato nel tumulo più di un mese fa, a quanto abbiamo visto. L’hanno lasciato là dentro ad aspettare il nostro arrivo. Abbiamo ispezionato le cantine ieri: la pietra e l’intonaco erano intatti. Lo posso affermare sulla mia reputazione.»
«Nessuno può fare un rimprovero alla vostra meticolosità» replicò Jessica.
«Io, le faccio un rimprovero, mia Signora. Avremmo dovuto usare le sonde soniche.»
«Immagino che lo stiate facendo adesso» disse Paul.
«Sì, Giovane Duca.»
«Fate sapere a mio padre che arriverò in ritardo.»
«Subito, Signore.» Guardò Jessica: «Hawat ha ordinato che in simili circostanze il Giovane Duca sia custodito in luogo sicuro.» Ancora i suoi occhi scrutarono ogni punto della serra. «Com’è questo luogo?»
«Ho buone ragioni di credere che sia sicuro» rispose Jessica. «L’abbiamo ispezionato Hawat e io stessa.»
«Allora, mi metterò di guardia qua fuori, mia Signora, finché non avremo perquisito l’intero castello un’altra volta.» Si inchinò, si toccò il berretto, rivolgendosi a Paul, indietreggiò e chiuse la porta dietro di sé.
Paul interruppe l’improvviso silenzio: «Non sarà meglio ispezionare noi stessi la casa, più tardi? I tuoi occhi potrebbero accorgersi di cose che gli altri hanno ignorato».
«Quest’ala era l’unica che non avevo esaminato» disse Jessica. «L’avevo lasciata per ultima, poiché…»
«Poiché Hawat l’ha ispezionata personalmente» completò Paul.
Lei gli lanciò uno sguardo rapido, interrogativo: «Non hai fiducia in Hawat?»
«Non è questo, ma sta invecchiando… Ha troppo lavoro. Potremmo accollarci una parte del suo.»
«Questo servirà soltanto a farlo vergognare e a ridurre la sua efficienza» ribatté lei. «Neppure un insetto potrà più insinuarsi in quest’ala del castello, non appena Hawat lo avrà saputo. Avrà vergogna di…»
«Dobbiamo prendere le nostre precauzioni» ribatté Paul.
«Hawat ha servito con onore tre generazioni di Atreides» insistette Jessica. «Merita ogni rispetto e fiducia da parte nostra… molto rispetto, e molta fiducia.»
Paul scrollò le spalle. «Quando mio padre è irritato con te, esclama ’Bene Gesserit!’ come se fosse una bestemmia.»
«E quand’è che tuo padre è irritato con me?»
«Quando ti metti a discutere.»
«Tu non sei tuo padre, Paul.»
Tutto questo le causerà dolore, pensò Paul, ma devo dirle ciò che mi ha detto quella donna, Mapes, di un traditore che si è insinuato tra noi.
«Che cosa mi nascondi?» esclamò Jessica. «Questo non è da te, Paul.»
Paul sospirò e le riferì il colloquio con Mapes.
E Jessica pensò al messaggio della foglia. All’improvviso, si decise e mostrò a Paul la foglia, leggendo il messaggio fino in fondo.
«Mio padre deve saperlo subito» disse Paul. «Vado a radiotrasmetterlo in codice.»
«No.» Jessica lo fermò. «Aspetta finché non lo incontrerai da solo. È bene che soltanto pochi di noi sappiano.»
«Vuoi dire che non dobbiamo fidarci di nessuno?»
«C’è un’altra possibilità» continuò Jessica. «Il messaggio potrebbe essere stato concepito perché noi lo scoprissimo. La gente che ce l’ha inviato forse è convinta che è vero, ma può anche darsi che il suo unico scopo sia stato quello di raggiungerci.»
Paul s’incupì. «Per seminare sfiducia e sospetti nelle nostre file, e indebolirci.»
«Devi parlarne privatamente a tuo padre, e metterlo in guardia anche su questa possibilità» disse lei.
«Capisco.»
Jessica si voltò a guardare la grande parete filtrante, fissando il sole di Arrakis che tramontava: una sfera dorata che si nascondeva tra le rocce a strapiombo.
Anche Paul si voltò a fissare il sole. «Neppure io credo che si tratti di Hawat. È possibile che sia Yueh?»
«Non è né un amico né un luogotenente» disse Jessica, «e ti posso garantire che odia gli Harkonnen con la nostra stessa intensità.»
Paul rivolse la sua attenzione alle rocce a picco: E non è possibile che si tratti di Gurney… o di Duncan. Uno dei sottotenenti? Impossibile, appartengono tutti a famiglie che ci sono fedeli da generazioni… e per ottime ragioni.
Jessica si passò una mano sulla fronte, stanchissima. È così pericoloso, qui! Studiò il panorama tinto di giallo che si stendeva davanti a lei. Al di là del terreno ducale, c’era una spianata che fungeva da deposito, circondata da un alto recinto: lunghe file di silos per la spezia. Era protetta da numerose torrette di guardia montate su lunghi pali simili a trampoli, che le rendevano simili a enormi ragni in allarme. Vide non meno di venti recinti coi loro silos che si spingevano fino al Muro Scudo e che si moltiplicavano, identici, lungo l’intera spianata.
Lentamente il sole filtrato scomparve. Si accesero le stelle. Una di esse, bassa all’orizzonte, scintillava, ammiccando, secondo un ritmo preciso: blink, blink, blink, blink, blink…
Nell’ombra della stanza, sentì Paul muoversi accanto a lei.
Ma Jessica si concentrò su quella stella luminosa e si rese conto che era troppo bassa e che doveva trovarsi sul Muro Scudo.
Qualcuno faceva segnali!
Cercò di leggere il messaggio, ma era un codice a lei sconosciuto.
Altre luci si erano accese nel pianoro, sotto la parete rocciosa: piccole, gialle e distanziate, sullo sfondo azzurro cupo della notte. Un’altra luce alla sua sinistra crebbe d’intensità e cominciò ad accendersi e a spegnersi rapidamente in direzione della roccia: punto, linea, punto!
E scomparve.
Nel medesimo istante, anche la falsa stella alla sommità del Muro Scudo si estinse.
Segnali… Jessica fu colta da un presentimento.
Perché utilizzavano le luci per segnalare da un capo all’altro della depressione? Perché non usare la normale rete di comunicazioni?
La risposta era ovvia: tutte le comunicazioni erano ormai sotto controllo da parte degli uomini del Duca Leto. I segnali luminosi significavano una sola cosa: i loro nemici si scambiavano messaggi… erano agenti degli Harkonnen!
Qualcuno bussò alla porta, alle loro spalle, e udirono la voce dell’uomo di Hawat: «Tutto a posto, Signore… mia Signora. È tempo di condurre il Giovane Duca da suo padre».
Si dice che il Duca Leto abbia chiuso gli occhi davanti ai pericoli di Arrakis e che si sia precipitato sconsideratamente verso l’abisso. Non sarebbe più giusto affermare che era vissuto così a lungo a contatto con i più gravi pericoli da non poter più valutare un cambiamento nella loro intensità? O non è forse possibile che abbia sacrificato deliberatamente se stesso per consentire a suo figlio una vita migliore? Tutto sta a indicare, del resto, che il Duca non era un uomo che si lasciasse ingannare facilmente.
Il Duca Leto era appoggiato al parapetto della torre di controllo, sui bordi del campo di atterraggio di Arrakeen. In alto sull’orizzonte, a sud, era sospesa la prima luna, sotto di essa, le pareti frastagliate del Muro Scudo scintillavano come ghiaccio secco, attraverso un alone di polvere. Alla sua sinistra le luci di Arrakeen risplendevano di diversi colori: giallo… bianco… azzurro… attraverso il medesimo alone.
Pensò a tutti gli avvisi, con la sua firma, esposti nei centri popolati del pianeta: «Il Nostro Sublime Imperatore Padiscià mi ha incaricato di prendere possesso di questo pianeta e di porre fine ad ogni contesa».
Una formalità, che aumentò il suo senso di solitudine. Chi mai si lascerà ingannare da questo vacuo linguaggio legale? Certamente non i Fremen e neppure le Case Minori che controllano i commerci interni di Arrakis… tutte creature degli Harkonnen, quasi fino all’ultimo uomo.
Hanno tentato di uccidere mio figlio!
Gli era difficile frenare la collera.
Vide le luci di un veicolo che proveniva da Arrakeen e che si avvicinava al campo d’atterraggio. Sperò che Paul fosse a bordo, con la scorta. Il ritardo cominciava a inquietarlo, anche se sapeva che era dovuto alle precauzioni del luogotenente di Hawat.
Hanno tentato di uccidere mio figlio!
Scosse la testa per ricacciare indietro la collera e contemplò nuovamente il campo: ai bordi, cinque delle sue fregate si drizzavano come sentinelle monolitiche.
Meglio un ritardo dovuto alla prudenza, che…
Il luogotenente era un uomo in gamba. Di una lealtà a tutta prova, segnalato per la promozione.
«Il Nostro Sublime Imperatore Padiscià…»
Se la gente di questa fatiscente città di guarnigione avesse potuto leggere il messaggio privato inviato al suo «Nobile Duca» e le sdegnose allusioni agli uomini e alle donne velati: «… ma che altro ci si può aspettare da barbari il cui desiderio più caro è vivere al di fuori della sicurezza del faufreluches?…»
In quell’istante, il Duca sentì che il suo desiderio più caro sarebbe stato quello di mettere la parola fine a tutte le distinzioni di classe e di smetterla una volta per tutte con quelle insopportabili divisioni. Distolse lo sguardo dalla polvere e lo alzò alle stelle immote, pensando: Intorno a una di quelle piccole luci gira Caladan… non vedrò mai più la mia casa. La nostalgia per Caladan gli serrò il petto, dolorosamente. Sentì che non nasceva da lui: era Caladan che lo chiamava. Non riusciva a convincersi che quel deserto polveroso, Arrakis, fosse la sua casa, e dubitò di riuscirci mai.
Devo nascondere i miei sentimenti, pensò. Per il bene del ragazzo. Se avrà mai una casa, questa è la sua. Per quanto mi riguarda, posso pensare che Arrakis sia un inferno nel quale sono precipitato prima di morire, ma lui deve ispirarsi a questo mondo. Dev’esserci qualcosa, per lui.
Fu travolto da un’ondata di pietà verso se stesso, ma subito la respinse, sdegnato e chissà per quale ragione gli vennero alla memoria due versi di una poesia che Gurney Halleck ripeteva spesso…
«I miei polmoni respirano l’aria del Tempo
Che soffia oltre le sabbie che ricadono…»
Bene, Gurney avrebbe trovato sabbie a sazietà, in quel mondo. Le immense distese centrali, al di là di quei monti gelidi come la luna, erano deserte… rocce nude e sabbia vorticante, un territorio secco, selvaggio, inesplorato, con nuclei di Fremen sparsi qua e là sui bordi e forse anche nel cuore del deserto. Se c’era qualcuno che poteva garantire un futuro alla stirpe degli Atreides, quelli erano i Fremen.
A condizione che gli Harkonnen non fossero riusciti a contagiare anche i Fremen con i loro piani velenosi.
Hanno tentato di uccidere mio figlio!
Un rumore di metallo contro metallo fece vibrare la torre; il parapetto sussultò sotto le sue braccia. Le paratie protettive ricaddero davanti a lui, bloccandogli la vista.
Arriva un traghetto, pensò. È tempo di scender giù e lavorare. S’infilò nella scala che portava all’immensa sala di raccolta, cercando di calmarsi e di mostrarsi impassibile per l’imminente incontro.
Hanno tentato di uccidere mio figlio!
Gli uomini, eccitatissimi, si rovesciavano dal campo dentro l’immensa cupola gialla, quando lui li raggiunse. Avevano lo zaino spaziale a tracolla, e urlavano e bisbigliavano tra loro allegramente come studenti di ritorno da una vacanza.
«Ehi, te la senti la gravità sotto le suole?»
«Quante G tira questo posto? Sembra solido.»
«Nove decimi, dice il manuale.»
Il tiro incrociato delle voci riempiva la sala.
«Hai dato una buona occhiata a questo buco, mentre venivi giù? Dov’è tutta quella roba da saccheggiare che ci hanno detto?»
«Gli Harkonnen hanno ripulito tutto!»
«Una buona doccia calda e un letto!»
«Ma non hai sentito, pezzo d’idiota, che non ci sono docce, quaggiù? Ti gratti le chiappe con la sabbia!»
«Ehi, attenti! Il Duca!»
Il Duca discese l’ultimo gradino e si fece avanti nella sala in un improvviso silenzio.
Gurney Halleck avanzò a grandi passi, in testa alla folla, con lo zaino su una spalla, impugnando il baliset a nove corde. Le sue dita erano lunghe, i pollici grossi e sapevano trarre le più dolci melodie dallo strumento.
Il Duca osservò Halleck, ammirando quell’uomo tozzo e brutto, gli occhi simili a schegge di vetro che scintillavano di brusca decisione. Ecco un uomo completamente al di fuori dei faufreluches, ma che pur ne obbedisce ogni minimo precetto. Come l’aveva chiamato Paul? «Gurney, il coraggioso».
I biondi capelli di Halleck gli ricoprivano a ciuffi il cranio. La sua enorme bocca era contorta in un ghigno beffardo e la cicatrice della liana indelebilis che gli solcava la mascella sembrava animata di vita propria. Il suo aspetto era dimesso, ma s’intravedeva in lui un uomo integro, d’acciaio. Si avvicinò al Duca e s’inchinò.
«Gurney» disse Leto.
«Mio Signore» Gurney indicò col baliset gli uomini che si affollavano nella sala, «questa è l’ultima ondata. Avrei preferito venire con la prima, ma…»
«Ci sono ancora degli Harkonnen, per te» replicò il Duca. «Vieni un momento con me, Gurney, ho qualcosa da dirti.»
«Ai vostri ordini, mio Signore.»
Si ritirarono in un’alcova, non lontano da un distributore d’acqua a gettone, mentre gli uomini passeggiavano nell’ampia sala in tutte le direzioni. Halleck lasciò cadere lo zaino in un angolo. Continuò tuttavia a impugnare il baliset.
«Quanti uomini puoi fornire a Hawat?» chiese il Duca.
«Thufir è nei guai, Signore?»
«Ha perduto soltanto due agenti, ma gli uomini da lui inviati in avanscoperta ci hanno fornito un’eccellente idea dello schieramento degli Harkonnen su questo pianeta. Se ci muoviamo in fretta, potremo garantirci una sicurezza maggiore: quel respiro di cui abbiamo bisogno. Hawat ha bisogno di quanti più uomini tu gli puoi dare… uomini che non disdegnino di maneggiare il coltello.»
«Gliene darò trecento dei migliori» disse Halleck. «Dove devo mandarli?»
«All’ingresso principale. C’è un uomo di Hawat ad aspettarli.»
«Devo farlo subito, Signore?»
«No, aspetta. C’è un altro problema. Il comandante del campo bloccherà qui il traghetto, fino all’alba, con un pretesto. Il transatlantico della Gilda che ci ha portati fin qui se n’è già andato, e la nave traghetto dovrebbe entrare in contatto con un cargo che aspetta un carico di spezia.»
«La nostra spezia, Signore?»
«Sì, la nostra spezia. Ma il traghetto porterà con sé anche molti cacciatori di spezia che lavoravano col passato regime. Hanno scelto di partire dopo il cambiamento di feudo, e l’Arbitro del Cambio lo ha consentito. Sono lavoratori preziosi, Gurney. Sono ottocento; prima che la nave traghetto parta, devi convincerne il maggior numero possibile a lavorare per noi.»
«Fino a qual punto devo spingere la convinzione, Signore?»
«Voglio una cooperazione volontaria, Gurney. Quegli uomini hanno l’esperienza e l’abilità di cui abbiamo bisogno. Il fatto che vogliano andarsene indica che non fanno parte degli intrighi degli Harkonnen. Hawat pensa che ce ne possa essere qualcuno, nel gruppo, ma Hawat vede assassini in ogni ombra.»
«Thufir ha visto talune ombre molto concrete ai suoi tempi, mio Signore.»
«E altre non le ha viste. Ma sono convinto che impiantare degli agenti invisibili in quella folla in partenza sarebbe una prova d’immaginazione del tutto insolita per gli Harkonnen.»
«Forse, Signore. Dove sono quegli uomini?»
«Giù, nella sala d’aspetto più bassa. Se posso darti un suggerimento, suona una canzone o due, prima, per ammorbidire la loro mente, e poi applica un po’ di pressione. Offri posti di comando ai più qualificati. E aumenta la paga di un venti per cento, rispetto a quello che prendevano sotto gli Harkonnen.»
«Non di più, signore? So quanto pagavano gli Harkonnen. E con degli uomini che hanno la liquidazione in tasca e una gran voglia di andarsene via… insomma, il venti per cento in più non mi sembra molto allettante.»
Leto ribatté, in tono impaziente: «Allora, usa la tua discrezione nei casi particolari. Solo, ricordati che il tesoro non è un pozzo senza fondo. Cerca di mantenerti sul venti per cento il più possibile. Abbiamo bisogno soprattutto di timonieri, di meteorologi, di uomini da duna; insomma, di chiunque abbia un briciolo d’esperienza con le sabbie».
«Capisco, mio Signore: ’Verranno all’appello della violenza: i loro volti si offriranno al vento dell’est e mieteranno la sabbia’.»
«Citazione molto adatta» disse il Duca. «Passa il comando del tuo gruppo a un luogotenente. Digli di fornire a tutti una breve lezione sulla disciplina dell’acqua, poi sistema gli uomini per questa notte nelle baracche accanto al campo. Il personale mostrerà loro la strada. E non dimenticarti gli uomini per Hawat.»
«Trecento dei migliori, Signore.» Sollevò da terra il sacco. «Dove verrò a rapporto, una volta completato il lavoro?»
«Ho occupato una sala del consiglio. Terremo una riunione lassù. Voglio studiare un nuovo piano per distribuire gli uomini sul pianeta, prima di tutto le squadre blindate, naturalmente.»
Halleck fece per voltarsi, ma si arrestò, colpito dallo sguardo di Leto. «Voi prevedete quel tipo di guai, mio Signore? Pensavo che ci fosse un Arbitro del Cambio.»
«Battaglie aperte e clandestine» disse il Duca. «Ci sarà da spargere molto sangue prima di aver finito.»
«’E l’acqua che hai bevuto dal fiume si cambierà in sangue sul terreno asciutto.’»
Il Duca sospirò. «Fai presto.»
«Subito, mio Signore.» La cicatrice si contrasse nuovamente sotto il suo sorriso. «’Ecco l’asino del deserto che si precipita verso il suo lavoro!’» Si voltò, raggiunse a larghi passi il centro della sala, si fermò un attimo a trasmettere gli ordini, e riprese a camminare in fretta, aprendosi un varco tra la folla.
Leto scosse la testa, guardando la schiena di Gurney che si allontanava. Halleck non finiva mai di stupirlo: una testa piena di canzoni, di citazioni e d’immagini fiorite… e un cuore d’Assassino, quando si trattava degli Harkonnen!
Un istante dopo, Leto si avviò senza affrettarsi verso l’ascensore, rispondendo ai saluti con un gesto della mano. Riconobbe uno del gruppo dei propagandisti e si fermò per comunicargli un messaggio che sarebbe stato diffuso in varie forme: chi aveva portato la propria donna era certamente ansioso di sapere che era al sicuro e dove poteva trovarla. Per gli altri sarebbe stato interessante sapere che la popolazione locale vantava più donne che uomini.
Il Duca batté sul braccio dell’uomo della propaganda il segno convenuto che indicava la massima priorità e la necessità di un’immediata diffusione. Poi continuò il cammino attraverso la sala. Salutò con un cenno del capo alcuni uomini, scambiò un paio di battute con un gruppo di subalterni.
Chi comanda deve sempre apparire fiducioso, pensò. Questa fiducia è un peso assai grave sulle tue spalle, mentre fronteggi i pericoli. Ma nessuno deve mai accorgersene.
Sospirò di sollievo quando l’ascensore lo inghiottì e fu circondato da quattro pareti gelide e impersonali.
Hanno tentato di uccidere mio figlio!
All’ingresso del campo di atterraggio di Arrakeen c’era una scritta rozzamente scolpita, come se fosse stato usato uno strumento rudimentale. Muad’Dib certamente se l’è ripetuta molte volte, a cominciare da quella prima notte su Arrakis, quando fu portato al posto di comando del Duca per assistere alla prima riunione dello stato maggiore. L’iscrizione era una supplica a coloro che lasciavano Arrakis, ma agli occhi di un ragazzo appena sfuggito alla morte acquistava un significato cupo. Diceva: «Oh, tu che sai quanto soffriamo, qui, non dimenticarci nelle tue preghiere.»
«Tutta l’arte militare si basa sul rischio calcolato» disse il Duca. «Ma quando si arriva al punto di dover rischiare la propria famiglia, il calcolo matematico viene sommerso da… altre cose.»
Sapeva di non essere riuscito a controllare il suo furore così completamente come avrebbe voluto; si voltò e cominciò a camminare a lunghi passi su e giù lungo il tavolo.
Il Duca e Paul erano soli nella sala delle conferenze al campo di atterraggio: un locale pieno di echi, ammobiliato soltanto dal lungo tavolo e da alcune sedie a tre gambe di foggia antica. Su un lato, in fondo, c’erano proiettore e uno schermo cartografico. Paul aveva raccontato al padre tutti i particolari dell’attentato col cercatore-assassino, e l’aveva informato della presenza di un traditore.
Il Duca si arrestò di fronte a Paul e picchiò i pugni sul tavolo. «Hawat mi aveva garantito che la casa era sicura!»
Paul disse, esitante: «Anch’io sulle prime ero infuriato. E ho biasimato Hawat. Ma la minaccia veniva dall’esterno: una cosa semplice, abile, diretta. E sarebbe riuscita, senza l’addestramento che tu e molti altri, compreso Hawat, mi avete dato.»
«Perché, vuoi difenderlo?» chiese il Duca.
«Sì.»
«Diventa vecchio. Dovrebbe…»
«È saggio e ha molta esperienza» disse Paul. «Quanti errori di Hawat puoi ricordare?»
«Dovrei essere io a difenderlo, non tu.»
Paul sorrise.
Leto si sedette a capotavola e mise una mano su quella del figlio. «Sei… maturato, in questi ultimi tempi, figlio mio» alzò la mano. «Questo mi rende lieto.» Paul sorrise e anche il Duca di rimando. «Hawat si punirà da solo. S’infurierà con se stesso molto più di quanto potremmo arrabbiarci noi due messi insieme.»
Paul alzò gli occhi alle finestre buie, al di là della carta geografica, sulla notte. La luce della stanza si rifletteva sulla ringhiera, là fuori. Colse un movimento, riconobbe il profilo di una guardia degli Atreides. Poi i suoi occhi scivolarono sulla parete bianca, dietro a suo padre e giù sulla superficie del tavolo, sulle proprie mani strette a pugno.
La porta di fronte al Duca si aprì di colpo. Thufir Hawat comparve sulla soglia. Sembrava invecchiato e il suo aspetto era più consunto del solito. Percorse l’intera lunghezza del tavolo e si arrestò sull’attenti davanti a Leto.
«Mio Signore» disse, fissando un punto sopra la testa del Duca, «ho appena appreso come io sia venuto meno alla fiducia che voi avevate riposto in me. Devo perciò presentarvi le mie di…»
«Oh, siediti, non fare il pazzo» esclamò il Duca. Gli indicò la sedia dalla parte opposta di Paul. «Se hai commesso un errore, lo hai fatto sopravvalutando gli Harkonnen. Le loro semplici menti hanno messo in opera un semplice trucco. Noi non pensavamo a trucchi così semplici. Mio figlio, in quel frangente, ha tenuto a sottolineare più volte che si è salvato grazie soprattutto all’addestramento che gli hai dato. Qui, non hai fallito!» Tamburellò con le dita sulla sedia. «Siediti, ti dico!»
Hawat sprofondò sulla sedia: «Io…»
«Non voglio più sentirne parlare» troncò netto il Duca. «L’incidente è chiuso. Abbiamo cose più importanti di cui occuparci. Dove sono gli altri?»
«Ho chiesto loro di aspettare fuori, mentre io…»
«Falli entrare.»
Hawat guardò Leto negli occhi. «Mio Signore, io…»
«So quali sono i miei veri amici, Thufir» disse il Duca. «Fai entrare gli uomini.»
Hawat deglutì: «Subito, mio Signore» piroettò sulla sedia e gridò verso la porta aperta: «Gurney, falli entrare!»
Halleck entrò, precedendo gli altri: gli ufficiali dello stato maggiore seri in volto, seguiti dai loro aiutanti più giovani e dagli specialisti, tutti impazienti e decisi. Lo scalpiccio riempì per qualche istante la stanza, mentre gli uomini prendevano posto. Un sottile, penetrante odore di rachag si diffuse lungo il tavolo.
«C’è del caffè per quelli che lo desiderano» disse il Duca.
Passò in rivista i suoi uomini. Sono una buona squadra. A un uomo, di solito, ne capitano di molto peggio in questo tipo di guerra. Aspettò, mentre qualcuno portava il caffè dalla stanza accanto e lo serviva. Lesse la fatica su alcuni dei volti che lo circondavano.
Poi, indossata la sua maschera di tranquilla efficienza, si alzò e richiamò l’attenzione dei presenti battendo il pugno sul tavolo.
«Ebbene, signori» cominciò, «la nostra civiltà sembra essersi così profondamente assuefatta alle invasioni, che noi non possiamo ubbidire a un semplice ordine dell’Imperatore senza che spuntino di nuovo le vecchie usanze.»
Risatine discrete risuonarono intorno al tavolo. Paul si rese conto che suo padre aveva detto la cosa giusta nel giusto tono per sgelare l’ambiente. Perfino la stanchezza che si percepiva nella sua voce aveva la giusta intensità.
«Penso che prima di tutto sia meglio ascoltare Thufir, il quale ci dirà se non ha nulla da aggiungere al suo rapporto sui Fremen» proseguì il Duca. «Thufir?»
Hawat alzò gli occhi. «Vi sarebbero alcune questioni economiche da esaminare dopo il mio rapporto generale, Signore, ma posso fin d’ora confermare che i Fremen sono proprio gli alleati di cui abbiamo bisogno. Aspettano ancora, per vedere se possono fidarsi di noi, ma sembrano agire con franchezza. Ci hanno inviato dei doni: tute distillanti che hanno confezionato essi stessi… mappe di certe zone del deserto che circondano le fortezze abbandonate dagli Harkonnen…» chinò gli occhi sul tavolo. «Le loro informazioni si sono rivelate esatte e ci hanno considerevolmente aiutati nelle nostre trattative con l’Arbitro del Cambio. Hanno anche inviato altri regali: gioielli per Lady Jessica, birra di spezia, dolci, medicinali. I miei uomini stanno esaminando tutto, in questo momento, ma non sembra che ci sia nessun trucco.»
«Ti piace questa gente, Thufir?» chiese un uomo, dal fondo del tavolo.
Hawat si voltò di scatto. «Duncan Idaho dice che sono da ammirare.»
Paul guardò suo padre, poi Hawat, e azzardò una domanda: «Hai nessuna informazione sul loro numero?»
Hawat a sua volta fissò Paul. «In base al cibo prodotto e ad altri indizi, Idaho ha stimato che il complesso di caverne da lui visitato dia asilo ad almeno diecimila persone. Il capo gli ha dichiarato di governare un sietch di duemila focolari. Abbiamo ragione di credere che ci siano moltissime di queste comunità sietch. Tutte sembrano ubbidire a qualcuno chiamato Liet.»
«Questa è una novità» disse Leto.
«Potrebbe essere un errore da parte mia, signore. Certi indizi sembrano indicare che questo Liet sia una divinità locale.»
Un altro uomo, all’altra estremità del tavolo, si schiarì la gola: «È accertato che trattano con i contrabbandieri?»
«Una carovana di contrabbandieri ha lasciato il sietch dove si trovava Idaho per un viaggio di diciotto giorni. Le bestie portavano un ingente carico di spezia.»
«Sembra che i contrabbandieri abbiano raddoppiato la propria attività in questo periodo di disordini» disse il Duca. «Questo merita un’attenta riflessione. Non conviene occuparci troppo delle fregate senza autorizzazione che vanno e vengono sul pianeta. L’hanno sempre fatto. Ma alcune di esse sfuggono completamente al nostro controllo… e non è bene.»
«Avete un progetto, Signore?» chiese Hawat.
Il Duca guardò Halleck. «Gurney, voglio che tu guidi una delegazione, un’ambasciata, se vuoi chiamarla così, e che tu prenda contatto con questi romanzeschi uomini d’affari. Informali che io ignorerò le loro attività finché mi verseranno la decima ducale. Hawat ha calcolato che per condurre i loro affari in questo periodo di disordini hanno dovuto assoldare parecchi mercenari, spendendo quattro volte tanto.»
«E se l’Imperatore lo venisse a sapere?» domandò Halleck «È molto geloso dei suoi profitti nella CHOAM, mio Signore.»
Leto sorrise. «Verseremo ufficialmente l’intero ammontare della decima sul conto di Shaddam IV e la dedurremo legalmente dalle tasse per la coscrizione che paghiamo all’Imperatore. Lasciate pure che gli Harkonnen cerchino d’interferire! In questo modo manderemo in rovina qualcuno di quelli che si sono ingrassati, su Arrakis, coi loro sistemi di raccolta dei tributi. Basta con le illegalità!»
Halleck sogghignò apertamente. «Ah, mio Signore, un meraviglioso colpo basso! Mi piacerebbe vedere la faccia del Barone quando lo saprà.»
Il Duca si voltò verso Hawat. «Thufir, hai poi avuto quei libri contabili che mi dicevi di poter comperare?»
«Sì, mio Signore. Li stiamo vagliando accuratamente. Ho già dato una scorsa a quelle pagine e posso darvi una prima valutazione.»
«Parla, allora.»
«Gli Harkonnen, ogni trecentotrenta giorni standard, realizzavano qui un guadagno di dieci miliardi di solari.»
Esclamazioni soffocate si alzarono dovunque, nella stanza. Perfino i subalterni più giovani, vagamente annoiati fino a quel momento, si drizzarono di scatto, scambiandosi sguardi stupefatti.
«’Perché succhieranno l’abbondanza dei mari e i tesori nascosti nella sabbia’» mormorò Halleck.
«Allora, signori» disse Leto, «c’è ancora tra voi qualcuno così ingenuo da pensare che gli Harkonnen abbiano fatto i bagagli e se ne siano andati soltanto perché l’Imperatore ha così ordinato?»
Tutte le teste si scossero, e vi fu un generale mormorio.
«Dovremo vedercela sulla punta della spada» dichiarò Leto. Si voltò nuovamente verso Hawat: «Questo è il momento buono per parlarci dell’equipaggiamento. Quanti trattori da sabbia, quante mietitrici, quante fabbriche di spezia ci hanno lasciato? E quanto materiale di ricambio?»
«Un’attrezzatura completa, come è detto nell’inventario imperiale presentato all’Arbitro del Cambio, mio Signore» disse Hawat. Fece un gesto, e uno degli aiutanti gli porse un dossier, che Hawat aprì. «Hanno trascurato di precisare che meno della metà dei trattori sono in condizione di funzionare, e che un terzo soltanto dispongono di ali trasporto in grado di farli giungere in volo fino alle sabbie della spezia… Tutto quello che ci hanno lasciato gli Harkonnen è sul punto di guastarsi e di andare in pezzi. Potremo dirci fortunati se riusciremo a far funzionare metà dell’equipaggiamento, e ancora più fortunati se un quarto di esso funzionerà ancora tra sei mesi.»
«Più o meno come ci aspettavamo» commentò Leto. «Qual è la valutazione definitiva, per l’equipaggiamento essenziale?»
Hawat consultò il dossier: «Circa novecentotrenta tra mietitrici e fabbriche potranno essere mandate fuori fra qualche giorno. Circa seimiladuecentocinquanta ornitotteri per esplorare, sorvegliare e osservare le condizioni meteorologiche… ali, un po’ meno di mille».
Halleck l’interruppe: «Non sarebbe più economico riaprire i negoziati con la Gilda e chiedere il permesso di mettere in orbita una fregata con funzioni di satellite meteorologico?»
Il Duca guardò Hawat. «Niente di nuovo, qui, non è vero, Thufir?»
«Per ora, è necessario trovare altre soluzioni» rispose Hawat. «L’agente della Gilda, in realtà, non aveva intenzione di negoziare con noi. Ha semplicemente messo in chiaro, Mentat a Mentat, che il prezzo sarebbe stato sempre al di fuori della nostra portata, qualunque cifra fossimo disposti a sborsare. Il nostro compito, ora, è scoprire il perché, prima di avvicinarlo di nuovo.»
Uno degli aiutanti di Halleck, in fondo al tavolo, si agitò sulla sedia ed esclamò, bruscamente: «È ingiusto!»
«Ingiusto?» Il Duca lo fissò. «Chi parla di giustizia? Noi ci dobbiamo fare giustizia da soli. Qui su Arrakis: vivi o morti. Vi dispiace di esservi messo dalla nostra parte, Signore?»
L’uomo a sua volta lo fissò, quindi: «No, mio Signore. Come si potrebbe rifiutare la più ricca fonte di guadagno di tutto il nostro universo?… E io, posso soltanto seguirvi. Perdonate il mio scatto, ma…» scosse le spalle «… tutti proviamo un po’ di amarezza, a volte.»
«Capisco questa amarezza» disse il Duca. «Ma non lamentiamoci della mancanza di giustizia finché abbiamo armi e finché siamo liberi di usarle. C’è nessun altro, tra voi, che si sente amareggiato? Se è così, lo dica adesso. Questa è una riunione di amici, nella quale ognuno può dire ciò che pensa.»
Halleck si agitò. «Penso che sia stata la mancanza di volontari delle altre Grandi Case ad amareggiarci tutti. Parlano di voi come di ’Leto il Giusto’, e vi promettono eterna amicizia… finché non costa nulla.»
«Non sanno ancora chi vincerà questa mano» rispose il Duca. «La maggior parte delle Case si sono ingrassate rischiando il meno che potevano. Non si può in verità biasimarle per questo; si può soltanto disprezzarle» guardò nuovamente Hawat: «Stavamo parlando dell’equipaggiamento. Ti dispiace proiettare qualcosa, per familiarizzare gli uomini con queste macchine?»
Hawat annuì, e fece un cenno a un aiutante, accanto al proiettore.
Una proiezione solido in 3-D comparve sul ripiano del tavolo, a circa un terzo di distanza dal Duca. Alcuni degli uomini all’altra estremità si alzarono per vedere meglio.
Paul si piegò in avanti e fissò la macchina.
In proporzione alle minuscole figure umane accanto ad essa, la macchina doveva essere lunga centoventi metri, circa, e larga quaranta. Era essenzialmente un massiccio corpo centrale a forma di insetto, che si muoveva su varie sezioni cingolate indipendenti.
«Questa è una mietitrice» disse Hawat. «Ne, abbiamo scelta una in buone condizioni per questa proiezione. È una specie di raccoglitore cingolato che certamente è arrivato qui con la prima squadra di ecologi imperiali, e funziona ancora, anche se non so come… e perché.»
«È quella che chiamano La Vecchia Maria, buona per un museo» fece uno degli aiutanti. «Credo che gli Harkonnen l’abbiano conservata per i lavori forzati, una minaccia appesa sulla testa dei lavoratori. ’Fai il bravo, o sarai assegnato alla Vecchia Maria.’»
Un coro di risa esplose intorno al tavolo.
Paul non partecipò a quell’esplosione di buonumore. Tutta la sua attenzione era concentrata sulla proiezione solido e numerose domande presero forma nella sua mente. Puntò il dito sull’immagine tridimensionale, e chiese: «Thufir, esistono vermi delle sabbie grandi abbastanza da inghiottire quell’arnese?»
Vi fu un improvviso silenzio. Il Duca imprecò sottovoce, poi pensò: No, dobbiamo guardare in faccia la realtà.
«Ci sono vermi, nell’alto deserto, che potrebbero fare un sol boccone di quella mietitrice» disse Hawat. «Anche quassù, vicino al Muro Scudo, dove si estrae la maggior parte della spezia, ci sono vermi che potrebbero stritolare la macchina e divorarla.»
«Perché non le circondiamo di scudi?» chiese Paul.
«Stando al rapporto di Idaho» riprese Hawat, «gli scudi sono pericolosi, nel deserto. Anche un semplice scudo individuale attirerebbe ogni verme presente, da centinaia di metri all’intorno. Sembra che gli scudi creino nei vermi una sorta di follia omicida. Non abbiamo alcuna ragione di dubitare della parola dei Fremen. Idaho non ha visto nessuna traccia di scudi nel sietch.»
«Proprio nessuna?»
«Sarebbe assai difficile nascondere questo tipo di materiale fra migliaia di persone» disse Hawat. «Idaho aveva libero accesso ad ogni parte del sietch. Non ha visto nessuno scudo e nessun indizio che fossero usati.»
«È un enigma» fece il Duca.
«È certo, invece» continuò Hawat, «che gli Harkonnen hanno fatto un uso abbondante di scudi. Avevano depositi con pezzi di ricambio in ogni villaggio di guarnigione, e la loro contabilità indica forti spese per gli scudi.»
«È possibile che i Fremen abbiano qualche mezzo per neutralizzare gli scudi?» chiese Paul.
«Non sembra probabile» disse Hawat. «Certo, in teoria è possibile. Una controcarica statica potrebbe cortocircuitare uno scudo, se avesse le dimensioni di una contea, ma nessuno è mai riuscito a metterla in opera.»
«Ne avremmo già sentito parlare» replicò Halleck. «I contrabbandieri hanno frequenti contatti coi Fremen, e avrebbero già acquistato un simile strumento, se fosse disponibile, e non avrebbero avuto scrupoli a commerciarlo fuori del pianeta.»
«Non mi piace che una domanda importante come questa rimanga senza risposta» fece il Duca Leto. «Thufir, voglio che tu accordi la priorità assoluta a questo argomento.»
«Ci stiamo già lavorando, mio Signore.» Hawat si schiarì la gola: «Ah, Idaho ha detto una cosa interessante: non ci si poteva sbagliare sull’atteggiamento dei Fremen verso gli scudi. Ha detto che soprattutto sembravano divertiti all’idea».
Il Duca si accigliò. «L’oggetto di questa riunione è l’equipaggiamento per la spezia.»
Hawat fece un gesto all’uomo del proiettore.
L’immagine tridimensionale della mietitrice fu sostituita dalla proiezione di un apparecchio alato che rendeva minuscoli gli uomini intorno ad esso. «Questa è un’ala trasporto» spiegò Hawat. «Essenzialmente, è un grande velivolo ad ala fissa, la cui unica funzione è quella di trasportare un raccoglitore sulle sabbie ricche di spezia e di metterlo in salvo quando fa la sua comparsa un verme. E, puntualmente, ne arriva sempre uno. La raccolta della spezia è un correre continuo avanti e indietro, cercando di arraffare il più possibile.»
«Mirabilmente adeguato alla morale degli Harkonnen» disse il Duca.
Tutti scoppiarono a ridere, troppo forte.
Un ornitottero sostituì l’ala nel campo di proiezione.
«Questi ornitotteri sono abbastanza convenzionali» spiegò Hawat. «Sono però assai migliorati, e con un raggio d’azione molto più vasto. Accorgimenti speciali permettono di sigillare ermeticamente le parti essenziali contro la sabbia e la polvere. Solo uno su trenta è schermato: probabilmente il peso del generatore per lo scudo è stato eliminato per ampliare il raggio d’azione.»
«Non mi piace questo togliere importanza agli scudi» mormorò il Duca. E pensò: È forse questo il segreto degli Harkonnen? Vuol dire, forse, che non potremo neppure trovare scampo sulle nostre fregate, schermandole, se le cose precipitassero? Scosse bruscamente la testa per allontanare questi pensieri, e riprese: «Passiamo ora al preventivo. A quanto ammonterà il nostro profitto?»
Hawat voltò due pagine del suo taccuino. «Considerato lo stato del materiale e le spese per le riparazioni, abbiamo fatto un primo preventivo sulle spese di gestione. Naturalmente, le abbiamo aumentate, per garantirci un più ampio margine di sicurezza» chiuse gli occhi e sprofondò nella semitrance dei Mentat. «Sotto gli Harkonnen, le spese per i salari e la manutenzione erano contenute in un quattordici per cento. Noi saremo fortunati se riusciremo a limitarle, nei primi tempi, a un trenta per cento. Tenendo conto dei reinvestimenti e dei fattori di sviluppo, oltre alla percentuale della CHOAM e alle spese militari, il nostro margine di profitto si ridurrà a un esiguo sei-sette per cento, finché non avremo sostituito l’equipaggiamento fuori uso. Allora dovremmo riuscire ad alzarlo fino al dodici o al quindici per cento: la giusta percentuale» aprì gli occhi. «A meno che il mio Signore non voglia adottare i metodi degli Harkonnen.»
«Stiamo lavorando per avere una base planetaria solida e permanente» disse il Duca. «Dobbiamo fare in modo che la maggior parte della popolazione sia felice, specialmente i Fremen.»
«Specialmente i Fremen» confermò Hawat.
«La nostra supremazia su Caladan» continuò il Duca, «dipendeva dalla nostra supremazia in mare e in cielo. Qui dobbiamo sviluppare qualcosa che io chiamerò il potere del deserto. Questo potrebbe anche includere la supremazia aerea, ma probabilmente non è così. Voglio richiamare la vostra attenzione sulla mancanza di scudi negli ornitotteri.» Scosse la testa. «Gli Harkonnen contavano su una continua rotazione di personale proveniente da altri pianeti, per i loro posti chiave. Noi non possiamo rischiarlo. Ogni nuovo gruppo in arrivo avrebbe la sua percentuale di agenti provocatori.»
«Quindi dovremo accontentarci di minori profitti e di un raccolto ridotto» disse Hawat. «La nostra produzione, per le prime due stagioni, dovrebbe essere inferiore di un terzo rispetto a quella degli Harkonnen.»
«Esattamente quello che avevamo previsto» concluse il Duca. «Dobbiamo far presto, coi Fremen. Vorrei disporre di cinque battaglioni Fremen, quando avremo il primo controllo della CHOAM.»
«C’è pochissimo tempo, allora» disse Hawat.
«Non ce n’è affatto, come tutti sappiamo. Alla prima occasione, si precipiteranno qui con i Sardaukar travestiti da Harkonnen. Quanti credi che ce ne scaraventeranno addosso, Thufir?»
«Quattro o cinque battaglioni, complessivamente, Signore, non di più. I trasporti della Gilda costano cari.»
«Allora, cinque battaglioni Fremen, più le nostre truppe, dovrebbero bastare a bloccarli. Aspettate soltanto che abbiamo qualche prigioniero Sardaukar da trascinare davanti al Consiglio del Landsraad e vedrete se le cose non cambieranno, profitti o no.»
«Faremo del nostro meglio, Signore.»
Paul fissò suo padre, poi di nuovo Hawat, improvvisamente conscio degli anni del Mentat, e del fatto che Thufir aveva servito tre generazioni di Atreides. Vecchio. Lo si capiva dal riflesso appannato dei suoi occhi bruni e acquosi, dalle guance screpolate e bruciate dalla luce e dall’aria dei più lontani pianeti, dalle spalle curve, dalle labbra rinsecchite macchiate di sapho.
Troppe cose dipendono da un solo uomo, e vecchio, pensò Paul.
«Ci troviamo ora a combattere una Guerra di Assassini» disse il Duca, «la quale non ha ancora raggiunto tutta la sua ampiezza. Thufir, a che punto siamo con l’organizzazione degli Harkonnen, su questo pianeta?»
«Abbiamo eliminato duecentocinquantanove dei loro uomini chiave, mio Signore. Non rimangono più di tre cellule Harkonnen, forse cento persone in tutto.»
«Queste creature degli Harkonnen che avete eliminato, appartenevano alla classe dei possidenti?»
«La maggior parte aveva una buona posizione, mio Signore: la classe degli imprenditori planetari.»
«Voglio che tu falsifichi degli attestati di lealtà, con le firme di ciascuno di loro» disse il Duca. «Li consegnerai in copia all’Arbitro del Cambio. Ci costituiremo legalmente contro di loro, affermando che questi uomini erano rimasti con attestati falsi. Confischeremo le loro proprietà, prenderemo tutto, scacceremo le loro famiglie, li spoglieremo completamente. E assicurati che la Corona riceva il suo dieci per cento. Tutto dev’essere legale.»
Thufir sorrise, rivelando macchie rosse sotto le labbra color carminio: «Una mossa degna di un gran signore, mio Duca. Mi vergogno di non averla pensata per primo».
Halleck aggrottò le sopracciglia, all’altra estremità del tavolo, e colse un’espressione ugualmente accigliata sul viso di Paul. Tutti gli altri sorridevano e approvavano.
È un errore, disse Paul, tra sé. Farà solo combattere gli altri più accanitamente. Non avranno nulla da guadagnare ad arrendersi.
Era al corrente di quanto consentiva l’accordo del kanly, ma questo era il tipo di ritorsione che poteva distruggerli nel medesimo istante in cui dava ad essi la vittoria.
«’Ero uno straniero in terra straniera’» citò Halleck.
Paul lo fissò, riconoscendo la citazione della Bibbia C.O., e si chiese: Forse anche Gurney vorrebbe por fine agli intrighi?
Il Duca fissò l’oscurità fuori della finestra, poi si voltò verso Halleck. «Gurney, quanti lavoratori della sabbia sei riuscito a convincere a restare con noi?»
«Duecentottantasei in tutto, signore. Penso che dovremo accettarli e considerarci fortunati. Appartengono tutti alle categorie più utili.»
«Così pochi?» Il Duca strinse le labbra. Quindi: «Bene, allora fai dire a tutti…»
Fu interrotto da un rumore fuori della porta. Duncan Idaho entrò, facendosi largo tra le guardie e precipitandosi a bisbigliare nell’orecchio del Duca.
Leto lo scostò. «Parla a voce alta, Duncan. Come puoi vedere, qui c’è tutto lo stato maggiore.»
Paul fissò Idaho, studiandone i movimenti felini, la rapidità dei riflessi che lo rendeva un ineguagliabile maestro d’armi. Il volto abbronzato di Idaho si voltò verso Paul; quei suoi occhi che sembravano risplendere nel profondo di due caverne non diedero segno di averlo riconosciuto, ma Paul riconobbe la calma forzata che dissimula a stento l’eccitazione. Idaho esplorò con lo sguardo il tavolo in tutta la sua lunghezza, e annunciò: «Abbiamo sorpreso un distaccamento di mercenari Harkonnen travestiti da Fremen. Sono stati gli stessi Fremen a inviarci un corriere per avvertirci di questo inganno. Durante l’attacco, tuttavia, abbiamo scoperto che gli Harkonnen avevano teso un agguato al corriere dei Fremen, ferendolo gravemente. Lo stavamo trasportando fin qui per farlo curare dai nostri medici, ma è morto. L’uomo era in condizioni disperate: mi sono fermato per tentare di salvarlo, e l’ho sorpreso mentre tentava di gettare via qualcosa» Idaho fissò Leto negli occhi «un coltello, mio Signore, un coltello di foggia mai vista».
«Un cryss?» chiese qualcuno.
«Senza dubbio» confermò Idaho. «Color bianco latteo, e risplendente di luce propria come…» Infilò la mano nella tunica e ne estrasse un fodero dal quale sporgeva un’impugnatura striata di nero.
«Lascia quella lama nel fodero!»
L’ordine imperioso era giunto dalla porta in fondo alla stanza: una voce vibrante e penetrante che li fece balzare in piedi e voltarsi di scatto.
Una figura alta e paludata era in piedi sulla soglia, dietro le spade incrociate delle guardie. La veste era color del bronzo e rivestiva completamente l’uomo, fatta eccezione per un’apertura del cappuccio, velata di nero, che lasciava scoperti due occhi completamente azzurri, senza la minima traccia di bianco.
«Lasciatelo entrare» mormorò Idaho.
«Fate passare quell’uomo» ordinò il Duca.
Le guardie esitarono, poi abbassarono le spade.
L’uomo attraversò rapidamente la stanza e si fermò davanti al Duca.
«Questi è Stilgar, il capo del sietch che ho visitato» disse Idaho. «Uno dei suoi uomini ci ha avvertito dell’inganno.»
«Benvenuto, signore» disse Leto. «Perché non dovremmo togliere il coltello dal fodero?»
Lo sguardo di Stilgar era fisso su Idaho. Disse: «Tu hai scrupolosamente osservato, tra noi, i costumi dell’onestà e della purezza. Io ti consentirò di guardare la lama dell’uomo al quale hai mostrato la tua amicizia». I suoi occhi scivolarono sul resto dell’assemblea: «Ma non a costoro. Vuoi che infanghino un’arma onorevole?»
«Io sono il Duca Leto» disse il Duca. «Mi consentite di guardare la lama?»
«Io consento che voi vi guadagnate il diritto di estrarla dal fodero» replicò Stilgar, e mentre un mormorio di protesta si alzava nella stanza, alzò una mano sottile, venata di scuro. «Vi ricordo che questa è la lama di un uomo che vi ha offerto la sua amicizia.»
Vi fu un attimo di sospensione. Paul studiò l’uomo e percepì il potere che s’irradiava da lui. Era un condottiero… un condottiero Fremen!
Un uomo al centro della tavola, sul lato opposto a quello di Paul, mormorò: «Chi è lui per dirci quali diritti abbiamo su Arrakis?»
«È stato detto che il Duca Leto governa col consenso dei suoi sudditi» ribatté il Fremen. «Così devo spiegarvi qual è per noi il punto: una certa responsabilità incombe su coloro che hanno visto un cryss» lanciò una cupa occhiata a Idaho: «Essi ci appartengono. Non possono lasciare Arrakis senza il nostro consenso».
Halleck e alcuni altri fecero il gesto di alzarsi, infuriati. Halleck ringhiò: «Spetta al Duca decidere…»
«Un momento, prego» l’interruppe Leto e il suono della sua voce li fermò. La situazione non deve sfuggirci di mano, pensò. Si rivolse al Fremen: «Signore, io onoro e rispetto la dignità personale di chiunque rispetti la mia. Io ho contratto un debito con voi. Io pago sempre i miei debiti. Se è vostro costume che questo coltello debba restare, qui, nel fodero, ebbene, sono io, allora, a ordinare che vi rimanga. E se esiste qualche altro modo, per noi, di onorare l’uomo che è morto al nostro servizio, ebbene, voi dovete soltanto dirlo».
Il Fremen fissò il Duca, poi lentamente scostò il velo, rivelando un naso sottile, una bocca dalle labbra tumide e una barba d’un nero brillante. Deliberatamente, si chinò sopra il tavolo e sputò sulla superficie liscia.
Mentre tutti gli uomini intorno al tavolo stavano per balzargli addosso, la voce di Idaho tuonò: «Fermi!»
Nell’atmosfera improvvisamente carica di tensione, Idaho disse: «Ti ringraziamo, Stilgar, per il dono dell’umidità del tuo corpo. Lo accettiamo nello spirito con cui è stato offerto». E Idaho a sua volta sputò sul tavolo, davanti al Duca. E aggiunse, all’indirizzo di quest’ultimo: «L’acqua è preziosa su questo pianeta, Signore. Questo è un segno di rispetto».
Leto si rilassò sulla sedia e colse lo sguardo di Paul: c’era un sorriso amaro sul volto del figlio. Ma ugualmente sentì che la tensione stava allentandosi, man mano i suoi uomini capivano.
Il Fremen fissò Idaho: «Ti sei condotto assai bene nel mio sietch, Duncan Idaho. C’è forse un legame di lealtà fra te e il Duca?»
«Mi sta chiedendo di mettermi al suo servizio, signore» disse Idaho.
«Accetterebbe una duplice lealtà?» chiese Leto.
«Desiderate che io vada con lui, signore?»
«Desidero che sia tu a decidere» disse Leto, e non riuscì a dissimulare la tensione della voce.
Idaho studiò il Fremen. «Mi accetteresti in queste condizioni, Stilgar? Ci saranno dei momenti in cui dovrò ritornare a servire il mio Duca.»
«Hai combattuto bene, e hai fatto del tuo meglio per il nostro amico» replicò Stilgar. Si voltò verso Leto: «Facciamo così: l’uomo Idaho conserverà il cryss che stringe in mano come segno della sua lealtà verso di noi. Dovrà essere purificato, naturalmente, e i riti dovranno essere osservati, ma questo può essere fatto. Sarà allo stesso tempo Fremen e soldato degli Atreides. C’è un precedente a questo: Liet serve due padroni».
«Duncan?» chiese Leto.
«Capisco, signore.»
«Allora, siamo d’accordo.»
«La tua acqua è nostra, Duncan Idaho» disse Stilgar. «Il corpo del nostro amico rimane al Duca. La sua acqua apparterrà agli Atreides. È un legame fra noi.»
Leto sospirò e lanciò un’occhiata a Hawat, cogliendo lo sguardo del vecchio Mentat. Hawat annuì: aveva un’espressione compiaciuta.
«Aspetterò qui sotto che Idaho si congedi dai suoi amici» riprese Stilgar. «Turok era il nome del nostro amico morto. Ricordatelo, quando sarà il momento di liberare il suo spirito. Voi siete amici di Turok.»
Si voltò per uscire.
«Non volete fermarvi con noi?» domandò Leto.
Il Fremen lo guardò, sistemò il velo davanti al viso con gesto disinvolto, mettendo qualcosa a posto sotto di esso. Paul colse l’immagine di un tubo sottile.
«C’è una ragione perché io resti?» chiese il Fremen.
«Vorremmo onorarvi» spiegò il Duca.
«L’onore esige che io sia altrove» disse il Fremen. Lanciò un’altra occhiata a Idaho, si voltò e uscì a grandi passi, superando le guardie.
«Se gli altri Fremen sono come lui, faremo grandi cose insieme» disse il Duca.
Idaho replicò, in tono asciutto: «È un buon esempio, signore».
«Hai ben capito quello che dovrai fare, Duncan?»
«Sarò il vostro ambasciatore presso i Fremen, signore.»
«Molto dipende da te, Duncan. Ci occorreranno almeno cinque battaglioni di questa gente, prima dell’arrivo dei Sardaukar.»
«Questo richiederà un certo lavoro, Signore. I Fremen sono molto indipendenti.» Idaho esitò. «E c’è un’altra cosa. Uno dei mercenari che abbiamo abbattuto cercava di strappare questa lama al nostro amico Fremen che è morto. Il mercenario ha detto che c’è un premio di un milione di solari al primo uomo che procuri agli Harkonnen anche un solo cryss.»
Leto si raddrizzò, sorpreso. «Perché mai desiderano a tal punto una di queste lame?»
«Il coltello è un dente affilato del verme delle sabbie. È l’emblema dei Fremen, Signore. Con esso, un uomo dagli occhi azzurri potrebbe penetrare in qualsiasi sietch. Io verrei imprigionato e sottoposto a un duro interrogatorio, se non fossi conosciuto. Io, infatti, non ho l’aspetto di un Fremen. Ma…»
«Piter de Vries» disse il Duca.
«Un uomo dall’astuzia diabolica, mio Signore» confermò Hawat.
Idaho fece scivolare il coltello col suo fodero sotto la tunica.
«Difendi quel coltello» gl’intimo il Duca.
«Capisco, mio Signore.» Accarezzò il trasmettitore appeso alla cintura. «Vi invierò un rapporto il più presto possibile. Thufir ha il mio numero di codice. Usate il linguaggio da battaglia.» Salutò, si voltò e si affrettò dietro Stilgar.
I suoi passi risuonarono a lungo nel corridoio. Il Duca e Hawat si scambiarono un’occhiata. Sorrisero.
«Abbiamo molto da fare, signore» disse Halleck.
«E io vi distraggo dai vostri compiti» replicò il Duca.
«Ho i rapporti sulle basi avanzate» riprese Hawat. «Volete ascoltarli la prossima volta, signore?»
«Ci vorrà molto?»
«In poche parole, signore, si dice tra i Fremen che vi fossero più di duecento di queste basi avanzate, costruite su Arrakis durante il periodo in cui l’intero pianeta era una Stazione Sperimentale Botanica del Deserto. Sembra che tutte siano state abbandonate, ma alcuni rapporti indicano che sono state sigillate, prima.»
«L’equipaggiamento è ancora all’interno?»
«Sì, secondo i rapporti di Duncan.»
«Dove si trovano?» domandò Halleck.
«La risposta è invariabilmente: ’Liet lo sa’» disse Hawat.
«Dio lo sa» mormorò Leto.
«Forse no, signore» replicò Hawat. «Anche voi avete sentito che Stilgar ha usato quel nome. Forse si riferiva a una persona che esiste veramente.»
«Servire due padroni» fece Halleck. «Sembra una citazione religiosa.»
«Tu dovresti saperlo» disse il Duca.
Halleck sorrise.
«Questo Arbitro del Cambio» riprese Leto, «l’ecologo imperiale, Kynes… non dovrebbe sapere dove si trovano le basi?»
«Signore» lo mise in guardia Hawat, «questo Kynes è un servo dell’Impero.»
«Ma è così lontano dall’Imperatore…» ribatté Leto. «Io voglio quelle basi. Sono senz’altro piene di materiale che possiamo recuperare e utilizzare per riparare le nostre macchine.»
«Signore! Quelle basi sono ancora legalmente un feudo dell’Imperatore!»
«Il clima, qui, è abbastanza selvaggio da distruggere tutto» disse il Duca. «Possiamo sempre incolpare il clima. Cercate questo Kynes, o almeno informatevi se queste basi esistono veramente.»
«Potrebbe essere pericoloso impadronirsene» replicò Hawat. «Duncan è stato esplicito: queste basi, o l’idea che esse rappresentano, hanno un significato profondo per i Fremen. Toccando quelle basi, ce li faremo nemici.»
Paul guardò i volti degli uomini che lo circondavano, vide l’attenzione con la quale seguivano ogni parola. Sembravano profondamente scossi dall’atteggiamento di suo padre.
«Ascoltalo, Padre» disse Paul a voce bassa. «Dice la verità.»
«Signore» proseguì Hawat, «quelle basi potrebbero fornirci il materiale indispensabile a riparare ogni macchina che ci è stata lasciata, e tuttavia, per ragioni strategiche, potrebbero risultare al di fuori della nostra portata. Sarebbe azzardato muoverci senza saperne molto di più. Questo Kynes ha l’autorità di un Giudice dell’Impero, non dobbiamo dimenticarcene. E i Fremen gli obbediscono.»
«In questo caso, usate la massima delicatezza» disse il Duca. «Voglio soltanto sapere se queste basi esistono.»
«Come voi volete, Signore.» Hawat tornò a sedersi e abbassò gli gli occhi.
«Benissimo» continuò il Duca. «Noi tutti sappiamo quello che ci aspetta: molto lavoro. Siamo allenati a questo. Abbiamo una certa esperienza. Sappiamo qual è il premio e conosciamo perfettamente i rischi. Ciascuno di voi ha i suoi compiti.» Fissò Halleck. «Gurney, prima di tutto risolvi la questione dei contrabbandieri.»
«’Andrò dai ribelli che abitano la terra arida’» intonò Halleck.
«Un giorno ti coglierò senza una citazione e sembrerai nudo!» esclamò il Duca.
Vi furono risate intorno al tavolo, ma Paul sentì lo sforzo dietro di esse.
Il Duca si voltò verso Hawat: «Thufir, organizza un altro posto di comando per le comunicazioni e le informazioni, su questo piano dell’edificio. Quando sarà pronto, voglio vederti».
Hawat si alzò, gettò uno sguardo intorno alla stanza come cercando un appoggio. Poi si voltò e si diresse verso l’uscita. Tutti gli altri si alzarono in gran fretta, con un frastuono di sedie smosse e gli si precipitarono dietro in disordine.
Tutto finisce nella confusione, pensò Paul. I suoi occhi fissarono la schiena degli ultimi che uscivano. In tutte le precedenti occasioni, le riunioni si erano concluse in un’atmosfera decisa, incisiva. Qui, tutto sembrava essersi afflosciato, consunto dalle sue stesse insufficienze e dalla mancanza di accordo.
Per la prima volta, Paul prese in considerazione la concreta possibilità di una sconfitta… non perché avesse paura o a causa degli avvertimenti della Reverenda Madre. Egli semplicemente affrontava quest’idea dopo aver valutato personalmente la situazione.
Mio padre è disperato, disse tra sé. Le cose non vanno affatto bene per noi.
E Hawat. Si ricordò all’improvviso di come il vecchio Mentat si fosse comportato durante la conferenza: impercettibili esitazioni, segni d’inquietudine. Hawat era profondamente preoccupato.
«È meglio che tu rimanga qui per questa notte, figlio mio» disse il Duca. «In ogni caso, manca poco all’alba. Informerò tua madre.» Si alzò in piedi lentamente, rigido. «Perché non avvicini quelle sedie e non ti distendi a riposare un po’?»
«Non sono stanco, Padre.»
«Come vuoi.»
Il Duca incrociò le mani dietro la schiena e cominciò a passeggiare su e giù accanto al tavolo.
Come una belva in gabbia, pensò Paul.
«Discuterai con Hawat la possibilità che ci sia un traditore?» gli domandò Paul.
Il Duca si arrestò davanti al figlio e parlò, rivolto alle finestre buie: «Abbiamo discusso questa possibilità molte volte».
«La vecchia sembrava così sicura di sé» disse Paul, «e il messaggio che Mamma…»
«Abbiamo preso ogni precauzione» replicò il Duca. Si guardò intorno, e Paul gli vide la luce selvaggia dell’animale braccato negli occhi. «Tu resta qui. Ci sono alcune questioni a proposito dei posti di comando che voglio discutere con Thufir.» Si voltò e uscì a grandi passi dalla stanza, rispondendo con un rapido cenno al saluto delle guardie.
Paul fissò il punto dov’era suo padre fino a pochi istanti prima. Gli sembrò che quel punto fosse vuoto da lungo tempo, ancora prima che suo padre lasciasse la stanza. E ricordò l’avvertimento della vecchia: «… per il padre, no».
Il primo giorno che Muad’Dib percorse le vie di Arrakeen con la famiglia, alcuni di quelli che incontrò lungo la strada, ricordando la leggenda e la profezia, si azzardarono a gridare «Mahdi!». Ma le loro grida erano più una domanda che una affermazione, poiché essi potevano soltanto sperare che egli fosse colui che era stato annunciato come il Lisan al-Gaib, la Voce di un Altro Mondo. La loro attenzione era stata attirata anche dalla madre, perché avevano sentito dire che era una Bene Gesserit. ed era evidente ai loro occhi che anch’essa era un Lisan al-Gaib.
Il Duca trovò Thufir nella stanza d’angolo che gli aveva indicato la guardia. Si udiva il trambusto degli uomini che stavano sistemando gli apparecchi di comunicazione nella stanza accanto, ma c’era abbastanza silenzio. Il Duca si guardò attorno, mentre Hawat si alzava da una scrivania piena di carte. Era una stanza dalle pareti verdi, e oltre alla scrivania conteneva tre sedie a sospensione, con la «H» degli Harkonnen cancellata alla meno peggio da una mano di vernice.
«Sono sedie assolutamente sicure» disse Hawat. «Dov’è Paul, Signore?»
«L’ho lasciato nella sala delle conferenze. Voglio che si riposi un po’, senza che ci sia io a distrarlo.»
Hawat assentì, si diresse verso la porta della stanza accanto, la chiuse e interruppe così lo sfrigolio dei disturbi audio.
«Thufir» disse Leto, «le scorte imperiali di spezia e quelle degli Harkonnen hanno attirato la mia attenzione.»
«Mio Signore?»
Il Duca strinse le labbra. «Un magazzino può sempre venire distrutto» alzò una mano, obbligando Hawat al silenzio. «No, lasciamo stare le scorte dell’Imperatore. Ma anche lui sarebbe felice se gli Harkonnen si trovassero in imbarazzo. E il Barone, come potrebbe lamentarsi pubblicamente della distruzione di uno stock che ufficialmente non può possedere?»
Hawat scosse il capo. «I nostri uomini sono troppo pochi, signore.»
«Prendi alcuni degli uomini di Idaho. E forse qualcuno dei Fremen potrebbe gradire un viaggio lontano da questo pianeta. Un’incursione su Giedi Primo… Una simile diversione comporterebbe sicuri vantaggi tattici, Thufir.»
«Come voi desiderate, mio Signore.» Hawat distolse lo sguardo, ma il Duca percepì ugualmente il nervosismo del vecchio, e pensò: Forse sospetta che io non abbia fiducia in lui. Dev’essere al corrente che mi hanno informato della presenza di traditori. Bene, è meglio calmare subito le sue paure.
«Thufir» riprese il Duca, «dal momento che tu sei uno dei rari uomini nei quali io posso avere completamente fiducia, c’è un’altra questione da discutere. Sappiamo entrambi quanto si debba vigilare per impedire che i traditori s’infiltrino nelle nostre file… Ma ho ricevuto due nuovi rapporti.»
Hawat si voltò di scatto e lo fissò.
Il Duca gli ripeté il racconto di Paul.
Ma invece di produrre in Hawat l’intensa concentrazione Mentat, questi rapporti servirono soltanto ad aumentare la sua agitazione.
Leto lo studiò, e dopo un po’ gli disse: «Vecchio, tu mi stai nascondendo qualcosa. Avrei dovuto sospettarlo quand’eri così nervoso alla riunione. Che cosa c’è, dunque, di così grave da aver paura di dirmelo davanti a tutti?»
Le labbra macchiate di Hawat si chiusero in una lunga linea sottile, circondata da rughe. Il suo viso restò rigido, mentre diceva: «Mio Signore, in verità, non so come riferirvelo».
«Ci siamo spartiti un bel po’ di cicatrici, io e te, Thufir» replicò il Duca. «Sai che puoi affrontare qualsiasi argomento con me.»
Hawat continuò a fissarlo, e pensò: È così che lo preferisco. Questo è l’uomo d’onore che invita a servirlo con la più grande lealtà. Perché mai debbo ferirlo?
«Ebbene?» disse il Duca.
Hawat scrollò le spalle: «È il frammento di un messaggio che abbiamo estorto a un corriere Harkonnen. Il messaggio era destinato a un agente di nome Pardee. Abbiamo buone ragioni di credere che Pardee fosse l’uomo più importante nell’organizzazione clandestina degli Harkonnen, quaggiù. Il frammento… è una cosa che potrebbe avere gravi conseguenze, o nessuna, a seconda dell’interpretazione».
«Che cosa c’è di tanto delicato in quel messaggio?»
«Frammento di messaggio, mio Signore. È incompleto. Era un minimicrofilm al quale era fissata, come il solito, una capsula distruttrice. Siamo riusciti a bloccare l’acido qualche istante prima che lo corrodesse del tutto. Ne è rimasto un frammento, ma molto indicativo.»
«Sì?»
Hawat s’inumidì le labbra: «Dice: ’ …eto non lo sospetterà mai, e quando il colpo gli sarà inferto da una mano amata, la sua stessa origine basterà a distruggerlo’. Il messaggio aveva il sigillo personale del Barone, e io l’ho autenticato».
«Il tuo sospetto è ovvio» disse il Duca. La sua voce era gelida.
«Avrei preferito tagliarmi il braccio piuttosto che ferirvi così, mio Signore, ma se io…»
«Lady Jessica» disse Leto. Il furore salì dentro di lui, consumandolo. «Non potevi strappare la verità a quel Pardee?»
«Sfortunatamente, Pardee non era più tra i vivi quando abbiamo intercettato il corriere. E questi, ne sono certo, non sapeva quello che portava.»
«Capisco.»
Leto scosse la testa, pensando: Che lurido affare! Non può esserci nulla di vero. Conosco la mia donna.
«Mio Signore, se…»
«No!» urlò il Duca. «C’è un errore in tutto questo, un…»
«Non possiamo ignorarlo, mio Signore.»
«È con me da sedici anni! Ha avuto innumerevoli possibilità per… Tu stesso hai svolto l’inchiesta alla Scuola!»
Hawat parlò con amarezza: «Certe cose possono essermi sfuggite».
«È impossibile, ti dico! Gli Harkonnen vogliono distruggere l’intera stirpe degli Atreides, e questo significa anche Paul. Hanno già tentato una volta. Potrebbe una donna cospirare contro il proprio figlio?»
«Forse non cospira contro suo figlio. E il tentativo di ieri potrebbe essere stato un astuto diversivo.»
«Non può essere stato un diversivo.»
«Signore, essa dovrebbe ignorare tutto dei suoi genitori, ma se invece…? Se fosse orfana, diciamo, a causa degli Atreides?»
«Avrebbe già agito molto tempo fa. Un veleno nel bicchiere… Un pugnale nella notte. Chi avrebbe avuto migliori occasioni?»
«Gli Harkonnen vogliono distruggervi, mio Signore. Le loro intenzioni non sono soltanto quelle di uccidere. C’è tutta una gamma di sottili sfumature nel kanly. Questo potrebbe essere il capolavoro delle vendette.»
Le spalle del Duca si curvarono. Chiuse gli occhi, e apparve vecchio e stanco. Non può essere, pensò. Lei mi ha aperto il cuore.
«Quale miglior modo di distruggermi che seminare sospetti sulla donna che amo?» chiese.
«Ho considerato anche questo» disse Hawat, «e tuttavia…»
Il Duca aprì gli occhi, fissò Hawat e pensò: Lascia che sia lui a sospettare. Il sospetto è il suo mestiere, non il mio. Forse, se io do l’impressione di credere a tutto questo, qualcun altro commetterà un’imprudenza…
«Che cosa suggerisci?» bisbigliò il Duca.
«Per ora, una sorveglianza continua, mio Signore. Dovrebbe essere controllata in ogni momento. Mi occuperò personalmente perché sia fatto senza dare nell’occhio. Idaho sarebbe la persona ideale per questo lavoro: forse tra una settimana o due potrà ritornare. C’è un giovane tra gli uomini di Idaho che abbiamo addestrato, che potrebbe essere il suo sostituto ideale tra i Fremen. Ha un dono naturale per la diplomazia.»
«Non mettere in pericolo il nostro collegamento coi Fremen.»
«Naturalmente no, Signore.»
«E Paul?»
«Forse potremmo avvertire il dottorYueh.»
Il Duca voltò le spalle a Hawat. «Lascio la cosa nelle tue mani.»
«Userò discrezione, mio Signore.»
Almeno posso contare su questo, pensò Leto. E disse: «Esco fuori. Se hai bisogno di me, sarò all’interno del campo. La guardia può…»
«Mio Signore, prima che voi ve ne andiate, ho qui una filmclip che vorrei leggeste. È una prima analisi approssimativa della religione dei Fremen. Ricordate? Mi avevate chiesto di preparare un rapporto.»
Il Duca si fermò e parlò senza voltarsi: «Non può aspettare?»
«Certamente, mio Signore. Voi però mi avevate chiesto che cosa stessero urlando. ’Mahdi!’, urlavano, e questa parola era indirizzata al Giovane Duca. Quando…»
«A Paul?»
«Sì, mio Signore. Una loro leggenda, una profezia, afferma che giungerà un condottiero, figlio di una Bene Gesserit, il quale li guiderà alla vera libertà. È il tema abituale del messia.»
«Pensano che Paul sia questo… questo…»
«Lo sperano soltanto, mio Signore» Hawat gli tese la capsula con la filmclip.
Il Duca la prese e l’infilò in tasca. «La guarderò più tardi.»
«Certo, signore.»
«In questo momento ho bisogno di un po’ di tempo per… pensare.»
«Sì, mio Signore.»
Il Duca respirò profondamente e uscì a grandi passi. Giunto nel corridoio, girò a destra e s’incamminò, le mani incrociate sulla schiena, senza badare molto a dove andava. C’erano altri corridoi, scale, terrazze e atrii… Gente che lo salutava e si faceva da parte per lasciarlo passare.
Qualche tempo dopo ritornò nella sala delle conferenze: le luci erano spente e Paul dormiva sul tavolo; il mantello di una guardia era stato disteso su di lui e uno zaino gli faceva da cuscino. Il Duca si avviò in punta di piedi verso il fondo della sala e uscì sulla terrazza che dava sul campo di atterraggio. Una sentinella sull’angolo della terrazza, riconoscendo il Duca al debole riflesso delle luci sul campo, scattò sull’attenti.
«Riposo» mormorò il Duca. Si appoggiò al freddo metallo della balaustra.
Il silenzio che precedeva l’alba regnava sulla depressione desertica. Alzò lo sguardo: sopra di lui, le stelle erano come un manto di pagliuzze scintillanti su uno sfondo azzurro cupo. Bassa sull’orizzonte a sud, la seconda luna brillava in un alone di polvere… Una luna malsana, dalla luminosità spettrale.
Mentre il Duca la fissava, la luna sprofondò dietro le rocce del Muro Scudo trasformandolo in una parete scintillante; nell’improvvisa, profonda oscurità, al Duca parve che una mano di ghiaccio lo stringesse. Rabbrividì.
La rabbia lo afferrò.
Questa sarà l’ultima volta che gli Harkonnen mi hanno dato la caccia, perseguitandomi, ostacolandomi. Sono mucchi di sterco col cervello di un cerusico di villaggio! Ma io, qui combatterò la mia battaglia! E pensò ancora, con amarezza: Dovrò governare con l’occhio e con gli artigli… come il falco sugli uccelli più deboli. Inconsciamente la sua mano accarezzò il simbolo del falco sulla tunica.
A oriente, la notte si stemperò in un alone grigio, poi un’opalescenza simile a quella di una conchiglia marina offuscò le stelle. Infine, l’intero orizzonte frastagliato risplendette del bagliore dell’alba.
La scena era di una tale bellezza da afferrare tutta la sua attenzione.
Quale artista, pensò, può uguagliare un simile splendore?
Non avrebbe mai immaginato che quel pianeta potesse offrire uno spettacolo così bello come quell’orizzonte rosso, dentato, e il riflesso porpora e ocra delle rocce. Oltre il campo di atterraggio, dove l’impalpabile rugiada notturna aveva risvegliato la linfa vitale dei frettolosi semi di Arrakis, vide fiorire enormi chiazze rosse, sulle quali avanzava una lunga trama violetta… come i passi di un gigante invisibile.
«È un’alba meravigliosa, signore» disse la guardia.
«Sì.»
Il Duca annuì, pensando: Forse si può anche amare questo pianeta. Forse può anche diventare una buona patria per mio figlio.
Poi vide le figure umane che si muovevano nei campi di fiori, spazzandoli con degli strani arnesi simili a roncole: i raccoglitori di rugiada. L’acqua era talmente preziosa su Arrakis che perfino la rugiada veniva raccolta.
Ma può essere anche un mondo ripugnante, concluse il Duca.
Probabilmente non c’è momento più terribile, nella nostra vita, di quello in cui si scopre che nostro padre è un uomo…. in carne e ossa.
«Paul» disse il Duca, «devo fare una cosa odiosa, ma è necessario.»
Era in piedi accanto al rivelatore portatile di veleni, nella sala delle conferenze, mentre facevano colazione. I bracci sensori dell’apparecchio pendevano inerti sopra il tavolo, ricordando a Paul uno strano insetto appena morto.
Lo sguardo del Duca era rivolto fuori della finestra, sul campo di atterraggio e sui vortici di polvere sullo sfondo del cielo.
Paul stava osservando una moviola, con una breve filmclip sulle pratiche religiose dei Fremen. La filmclip era stata compilata da uno degli esperti di Hawat, e Paul si turbò quando vi scoprì dei riferimenti a se stesso:
«Mahdi!»
«Lisan al-Gaib!»
Gli bastava chiudere gli occhi per udire nuovamente gli urli della folla. Così, è questo che sperano, pensò. E ricordò quello che la Reverenda Madre aveva detto: Kwisatz Haderach. Il ricordo risvegliò in lui la sensazione del terribile scopo, popolando quello strano mondo di impressioni familiari che tuttavia non riusciva a comprendere.
«Che cosa odiosa» fece il Duca.
«Che intendi dire?»
Leto si voltò e guardò suo figlio. «Gli Harkonnen pensano d’ingannarmi distruggendo la mia fiducia in tua madre. Essi ignorano che sarebbe più facile farmi perdere ogni fiducia in me stesso.»
«Non capisco.»
Nuovamente Leto guardò fuori della finestra. Il sole bianco era già alto, nel suo quadrante mattutino. La luce lattea metteva in risalto un ribollire di nubi polverose che galleggiavano sui canyon profondamente incisi del Muro Scudo.
Lentamente, parlando a bassa voce per dominare l’ira, il Duca riferì a Paul il messaggio, spiegandogli il suo misterioso contenuto.
«Per la stessa ragione dovresti diffidare di me» disse Paul.
«Devono credere di esserci riusciti» replicò il Duca. «Devono credermi tanto pazzo da pensarlo possibile. Deve sembrare vero. Neppure tua madre dev’essere informata di questo intrigo.»
«Ma, Padre, perché?»
«La reazione di tua madre non dev’essere una finzione. Oh, essa potrebbe recitare magnificamente… ma troppe cose sono in gioco. Devo smascherare il traditore. È necessario che siano convinti di avermi preso in trappola. È meglio ferirla così, piuttosto che farla soffrire cento volte di più, dopo.»
«Ma perché dirlo a me? Io potrei parlare.»
«Tu sei fuori da questa faccenda» disse il Duca. «E manterrai il segreto. È indispensabile» si avvicinò alla finestra e parlò senza voltarsi. «Però se mi accadesse qualcosa, potrai dire la verità… che non ho mai dubitato di lei, neppure per un attimo. Voglio che lei lo sappia.»
Paul colse pensieri di morte dietro alle parole di suo padre e si affrettò a replicare: «Non ti accadrà nulla, Padre. Io…»
«Silenzio, figlio mio.»
Paul contemplò la schiena di suo padre, cogliendo la fatica nel modo in cui teneva curvi il collo e le spalle, e nella lentezza dei suoi movimenti.
«Sei soltanto un po’ stanco…»
«Sì, sono stanco» disse il Duca, «moralmente stanco. La malinconica degenerazione delle Grandi Case ormai ha raggiunto anche me. Ed eravamo così potenti, in passato!»
Paul replicò con rabbia: «La nostra Casa non è degenerata!»
«Davvero?»
Il Duca si voltò e guardò in faccia suo figlio, gli occhi cerchiati di nero e una cinica smorfia sulla bocca: «Dovrei sposare tua madre, farne la mia Duchessa… E tuttavia, la mia condizione di celibe fa sì che alcune Case sperino ancora di potersi alleare con me sposandomi a qualche loro figlia» scosse le spalle. «Così, io…»
«La mamma me l’ha spiegato.»
«La lealtà a un capo? È la sua aria spavalda che gliela conquista» continuò il Duca. «Io, dunque, ho cercato di essere il più possibile spavaldo.»
«Tu comandi bene» protestò Paul. «Tu governi ancora meglio. Gli uomini ti seguono pieni di ardore e ti amano.»
«Il mio servizio di propaganda è uno dei migliori» disse il Duca e si voltò nuovamente a studiare il paesaggio, là fuori. «Vi sono immense possibilità per noi, qui su Arrakis, più di quante l’Impero abbia mai sospettato. E tuttavia vi sono dei momenti in cui penso che avremmo fatto meglio a fuggire, a diventare dei rinnegati. A volte vorrei che fosse possibile confonderci col popolo e ritornare nell’anonimato, essere meno esposti a…»
«Padre!»
«Sì, sono stanco» replicò il Duca. «Lo sai che stiamo già utilizzando i residui della spezia come materia prima per fabbricare pellicole per film?»
«Padre?»
«Non possiamo assolutamente farne a meno» spiegò il Duca. «Altrimenti, come potremmo inondare le città e i villaggi con le nostre informazioni? La gente deve sapere quanto io la governi bene. E come potrebbe saperlo, se non glielo diciamo noi?»
«Dovresti prenderti un po’ di riposo» disse Paul.
Di nuovo il Duca guardò in faccia suo figlio: «Dimenticavo un ultimo, grande vantaggio di Arrakis: la spezia è dovunque, qui. La mangi e la bevi in ogni cosa. E ho scoperto che questo dà una certa immunità naturale nei confronti di alcuni fra i più comuni veleni del Manuale degli Assassini. E inoltre, la necessità di controllare ogni singola goccia d’acqua fa sì che tutto il cibo (le colture del lievito, gli idroponici, gli impianti chimici) sia sotto la più stretta sorveglianza. Ci è impossibile sterminare buona parte della popolazione, avvelenandola, ma neppure possiamo essere uccisi. Arrakis ci obbliga a essere onesti e morali».
Paul fece per ribattere, ma il Duca l’interruppe: «Devo avere qualcuno con cui confidarmi, figlio mio». Sospirò, e guardò nuovamente il paesaggio arido, dove perfino i fiori erano scomparsi, calpestati dai raccoglitori di rugiada o bruciati dal sole. «Su Caladan avevamo con noi la potenza del mare e del cielo. Qui, invece, dobbiamo ottenere la potenza del deserto. Questa è la tua eredità, Paul. Che cosa farai se dovesse accadermi qualcosa? La tua Casa non sarà rinnegata, ma sarà una Casa di guerriglieri, cacciata, perseguitata…»
Paul cercò invano una risposta. Non aveva mai visto suo padre così abbattuto.
«Per conservare Arrakis» riprese il Duca, «si è costretti a decisioni che distruggono il rispetto di te stesso.» Indicò fuori della finestra lo stendardo verde e nero degli Atreides, che pendeva flaccidamente da un’asta, sul bordo del campo di atterraggio: «Quell’onorato stendardo un giorno potrebbe diventare il simbolo di un’infinità di brutte cose».
Paul aveva la gola secca. Le parole di suo padre gli parvero futili, piene di un fatalismo che gli procurava una sensazione di vuoto nel petto.
Il Duca prese di tasca una pillola antifatica e l’inghiottì. «Forza e paura» disse, «gli strumenti del governo. Darò ordine che sia intensificato il tuo addestramento alla guerriglia. Quella filmclip che hai lì… ti chiamano ’Mahdi’ e ’Lisan al-Gaib’… in caso estremo, potrai far conto anche su questo.»
Paul fissò suo padre, e vide che le spalle gli si raddrizzavano: la pillola funzionava a meraviglia. Ma non dimenticò le sue espressioni di dubbio e paura.
«Perché mai ritarda, questo ecologo?» brontolò il Duca. «Avevo detto a Thufir di portarmelo qui subito.»
Mio padre, l’Imperatore Padiscià, mi prese un giorno per mano, e io capii, grazie agli insegnamenti di mia madre, che era turbato. Mi condusse nella Galleria dei Ritratti, fino all’egoritratto del Duca Leto Atreides. Notai subito la forte rassomiglianza tra i due uomini: mio padre e l’uomo dell’immagine. Tutt’e due avevano lo stesso volto sottile ed elegante, dominato dagli stessi occhi gelidi. «Principessa, figlia mia» disse mio padre, «quanto avrei voluto che tu fossi più vecchia quand’è venuto per quest’uomo il momento di scegliersi una moglie!» Mio padre aveva settantun anni, a quel tempo, e non sembrava più vecchio dell’uomo del ritratto. Io avevo soltanto quattordici anni, e tuttavia ricordo di aver capito in quell’istante quanto mio padre avrebbe desiderato in segreto che il Duca fosse suo figlio, e quanto odiasse in realtà le necessità politiche che li rendevano nemici.
Il primo incontro con la gente che doveva tradire sconvolse il dottor Kynes. Si vantava di essere uno scienziato, per il quale le leggende erano soltanto degli interessanti indizi che rivelavano le radici di una cultura. E tuttavia, il ragazzo impersonava l’antica profezia con tale precisione! Aveva gli «occhi interrogativi» e l’aria di «candore riservato».
Certo, la profezia non precisava se la Dea Madre doveva arrivare insieme con il Messia, o esibirLo sulla scena in un secondo tempo. Ma la corrispondenza tra le persone e la profezia c’era, ed era strana.
L’incontro avvenne a mattino inoltrato davanti all’edificio amministrativo del campo di atterraggio di Arrakeen. Un ornitottero privo d’insegne era accovacciato al suolo, lì accanto, e ronzava debolmente, pronto a spiccare il volo, come un uccello sonnolento. Una guardia Atreides era al suo fianco, la spada sguainata, circondata dalla leggera distorsione dell’aria dovuta allo scudo.
Kynes sorrise furtivamente, e pensò: le tempeste di Arrakis riserbano loro delle grosse sorprese, per quanto concerne gli scudi!
Il planetologo alzò una mano, accennando alle guardie Fremen di ritirarsi. Avanzò a lunghi passi verso l’ingresso dell’edificio (una sorta di buco nero nella roccia rivestita di plastica). Era così esposto, quell’edificio monolitico… pensò. Così indifeso, se confrontato a una caverna…
Un movimento all’entrata attirò la sua attenzione. Si fermò e ne approfittò per aggiustarsi il vestito e la tuta distillante sulla spalla sinistra.
La porta si aprì completamente e ne uscirono alcune guardie Atreides, tutte pesantemente armate: storditori a lenta scarica, spade e scudi. Dietro di esse comparve un uomo alto, simile a un falco, pelle e capelli scuri. Indossava un jubba col blasone degli Atreides ricamato sul petto, ed era chiaramente impacciato dall’indumento insolito, che tendeva, su un lato, ad avviluppargli le gambe della tuta distillante. Procedeva rigido, senza agilità.
Accanto all’uomo, camminava un giovane con gli stessi capelli neri ma dal viso più tondo. Sembrava un po’ piccolo per la sua età (Kynes sapeva che aveva quindici anni). Ma il ragazzo aveva un portamento sicuro, una naturale predisposizione al comando, come se avesse il potere di distinguere, di riconoscere intorno a lui molte cose invisibili agli altri. Indossava un jubba simile a quello del padre, e tuttavia con tanta naturalezza da far pensare che l’avesse sempre indossato.
«Il Mahdi conoscerà cose che gli altri non sapranno vedere» diceva la profezia.
Kynes scosse la testa. Sono soltanto uomini, disse tra sé.
Insieme con i due, e anch’egli vestito per il deserto, c’era un uomo che Kynes riconobbe: Gurney Halleck. Kynes respirò profondamente per calmare il proprio risentimento nei confronti di Halleck, il quale l’aveva istruito su come comportarsi col Duca e il suo erede.
«Chiamerai il Duca ’Mio Signore’. Meglio ancora ’Nobile Nato’, ma è riservato normalmente alle occasioni più ufficiali. Il figlio può essere chiamato ’Giovane Duca’ o ’Signore’. Il Duca è uomo assai clemente, ma non concede molta familiarità.»
E Kynes pensò, mentre guardava il gruppo avvicinarsi: Impareranno presto chi è il padrone su Arrakis. Hanno ordinato a quel Mentat d’interrogarmi per una buona metà della notte? Vogliono solo che io li guidi a ispezionare qualche miniera della spezia? Sul serio?
L’importanza delle domande di Hawat non era sfuggita a Kynes. Volevano le basi imperiali. Era evidente che ne erano stati informati da Idaho.
Ordinerò a Stilgar di tagliare la testa a Idaho e d’inviarla al suo Duca! imprecò Kynes tra sé.
Erano ormai a pochi passi da lui; i loro stivali facevano crepitare la sabbia.
Kynes s’inchinò: «Mio Signore, Duca».
Mentre si avvicinavano, Leto aveva studiato la solitaria figura accanto all’ornitottero: alto, magro, rivestito dall’ampio abito del deserto sulla tuta distillante, stivali bassi. Aveva fatto scivolare il cappuccio sulle spalle e il suo velo pendeva da un lato, rivelando lunghi capelli color sabbia e una corta barba. Gli occhi imperscrutabili sotto le folte sopracciglia, azzurro su azzurro. Tracce di nero macchiavano ancora le sue palpebre.
«Voi siete l’ecologo» disse il Duca.
«Qui preferiamo il vecchio titolo, mio Signore» replicò Kynes. «Planetologo.»
«Come preferite» rispose il Duca. Si voltò verso Paul: «Figlio mio, questo è l’Arbitro del Cambio, il giudice delle dispute, l’uomo che ha il compito di vegliare che ogni formalità sia soddisfatta per il nostro insediamento nel feudo». Fissò nuovamente Kynes. «Questo è mio figlio.»
«Signore» disse Kynes.
«Voi siete un Fremen?» chiese Paul.
Kynes sorrise: «Sono accettato sia nel sietch che nel villaggio, Giovane Duca. Ma sono al servizio di Sua Maestà; sono il Planetologo Imperiale».
Paul annuì, affascinato dal potere che sembrava irradiarsi da quell’uomo. Halleck aveva indicato Kynes a Paul da una delle finestre più alte dell’edificio amministrativo. «Quell’uomo laggiù, con la scorta di Fremen… quello che ora avanza verso l’ornitottero.»
Paul aveva studiato Kynes per qualche istante, col cannocchiale, notando la bocca diritta e sottile e la fronte alta. Halleck gli aveva bisbigliato all’orecchio: «Strano tipo. Quando parla, le sue parole sono chiare, precise, distaccate, senza alcuna nebulosità. Come tagliate col rasoio».
E il Duca alle loro spalle aveva commentato: «Il tipico scienziato».
Ora, a pochi passi dall’uomo, Paul percepiva la forza che si sprigionava da Kynes, l’urto della sua personalità. Sembrava un uomo di sangue reale, nato per comandare.
«Credo di dovervi ringraziare per le tute distillanti e i jubba» disse il Duca.
«Spero che vadano bene, mio Signore» replicò Kynes. «Sono opera dei Fremen, che hanno cercato di rispettare il più possibile le misure fornite dal vostro uomo qui presente, Halleck.»
«Avevate detto che non avreste potuto portarci nel deserto se non avessimo indossato questi abiti» insistette il Duca. «Ma noi possiamo portare molta acqua. Non intendiamo restar fuori a lungo, e comunque avremo una copertura aerea… la scorta che vedete sopra di noi in questo momento. È poco probabile che ci costringano ad atterrare.»
Kynes lo fissò. Considerò lo strato di carne, ricco d’acqua, che fasciava il corpo di quell’uomo, e disse, gelido: «Non si parla mai di probabilità, su Arrakis, ma soltanto di possibilità».
Halleck s’irrigidì. «Rivolgetevi al Duca dicendo ’Mio Signore’!»
Leto gl’indirizzò il suo gesto personale intimandogli di smetterla. «Noi siamo nuovi, qui, Gurney. Dobbiamo fare delle concessioni.»
«Come volete, Signore.»
«Vi siamo molto obbligati, dottor Kynes» continuò Leto. «Non dimenticheremo questi abiti e il vostro vivo interesse per la nostra sicurezza.»
Impulsivamente, Paul citò la Bibbia Cattolica Orangista: «’Il dono è la benedizione del donatore’».
Le parole risuonarono alte nell’aria immobile. I Fremen che Kynes aveva lasciato all’ombra dell’edificio amministrativo si riscossero e balzarono in piedi, bisbigliando eccitati. Uno di essi gridò: «Lisan al-Gaib!»
Kynes si girò di scatto e li respinse con un gesto imperativo della mano. I Fremen tornarono indietro mormorando tra loro e si accovacciarono nuovamente nell’ombra.
«Molto interessante» disse Leto.
Kynes fissò duramente il Duca e suo figlio. «Molti dei nativi del deserto sono superstiziosi» disse. «Non dovete badare a quel che dicono. Non sono pericolosi.» Ma ripensò alle parole della leggenda: «Ti daranno il benvenuto con le sacre parole e i tuoi doni saranno una benedizione».
Il giudizio di Leto su Kynes, basato in parte sul breve rapporto a voce di Hawat (guardingo e molto sospettoso) si cristallizzò all’improvviso: quest’uomo è un Fremen. Kynes era arrivato con una scorta Fremen: questo poteva significare che i Fremen stavano mettendo alla prova la loro nuova libertà di entrare nelle aree urbane, ma la scorta sembrava piuttosto una guardia d’onore. E a giudicare dai suoi modi, Kynes doveva essere un uomo orgoglioso, abituato ad agire liberamente. Il suo linguaggio e i suoi modi erano tenuti a freno soltanto dai suoi sospetti. La domanda di Paul era stata diretta e pertinente.
Kynes era diventato in tutto e per tutto un abitante del pianeta.
«Non dobbiamo partire, signore?» chiese Halleck.
Il Duca annuì. «Piloterò il mio ornitottero. Kynes può star seduto accanto a me, per guidarmi. Tu e Paul vi sistemerete sui sedili posteriori.»
«Un momento, per favore» interloquì Kynes. «Col vostro permesso, Signore, devo controllare che le tute siano in ordine.»
Il Duca fece per replicare, ma Kynes insistette: «Mi preoccupo per la mia pelle quanto per la vostra, mio Signore. So perfettamente quale gola verrebbe tagliata, se dovesse accadervi qualcosa mentre siete affidati a me».
Il Duca si accigliò, e pensò: È un momento delicato! Se rifiuto, potrei offenderlo, e il planetologo potrebbe essere un uomo d’incommensurabile valore per me. E tuttavia, permettergli di penetrare il mio scudo, di toccare la mia persona, quando io so ancora così poco di lui…
Il pensiero gli era balenato nella mente e la decisione doveva essere immediata. «Siamo nelle vostre mani» disse il Duca. Fece un passo avanti e aprì il vestito e vide Halleck che si alzava sulla punta dei piedi, guardingo e pronto a scattare. «E se volete essere così gentile» proseguì il Duca, «gradirei anche una completa spiegazione della tuta, da una persona che la conosce così intimamente.»
«Certamente» disse Kynes. Infilò la mano sotto il jubba, cercando le chiusure sulla spalla, e continuò a parlare mentre esaminava la tuta: «Essenzialmente è un tessuto a vari microstrati, che insieme fa da filtro ad alta efficienza e da scambiatore di calore». Aggiustò le chiusure sulla spalla. «Lo strato a contatto con la pelle è poroso. Qui avviene la traspirazione, che raffredda il corpo… un normale processo di evaporazione, o quasi. Gli altri due strati…» (Kynes strinse il pettorale) «… contengono filamenti per lo scambio del calore e i precipitatori del sale. Il sale viene così recuperato.»
Invitò il Duca ad alzare le braccia e questi eseguì, dicendo: «Molto interessante».
«Respirate profondamente» gli ordinò Kynes.
Il Duca obbedì.
Kynes studiò le chiusure sotto le ascelle. «I movimenti del corpo, ma soprattutto la respirazione e un certo effetto osmotico» riprese Kynes, «sono più che sufficienti a fornire l’energia di pompaggio.» Allargò leggermente il pettorale. «L’acqua recuperata circola e finisce nelle tasche di raccolta, dalle quali la si succhia grazie a questo tubo fissato sul collo.»
Il Duca girò il mento per vedere l’estremità del tubo: «Semplice ed efficiente» commentò. «Un ottimo lavoro d’ingegneria.»
Kynes si piegò a esaminare le chiusure sulle gambe: «L’orina e le feci sono trattate nelle imbottiture delle cosce» disse, e si alzò, tastando il rivestimento del collo, alzandone una sezione quadrata. «In pieno deserto, dovete portare questo filtro sul viso e questo tampone nelle narici, fissati a questi tubi. Si inspira attraverso il filtro, con la bocca e si espira attraverso il naso. Con una tuta Fremen in buone condizioni non perdereste più di un ditale di umidità al giorno… anche se voi vi smarriste nel Grande Erg.»
«Un ditale al giorno» ripeté il Duca.
Kynes premette un dito contro la fronte della tuta e disse: «Qui lo sfregamento potrebbe produrre irritazione. In questo caso, ditemelo e la stringerò».
«Vi ringrazio» fece il Duca. Mosse le spalle mentre Kynes indietreggiava, e si sentì molto meglio. Il vestito lo faceva sentire a suo agio, adesso, più stretto e meno irritante.
Kynes si voltò verso Paul: «Adesso, un’occhiata anche a voi, giovanotto».
Un brav’uomo, pensò il Duca, ma dovrà imparare a rivolgersi a noi come si deve.
Paul restò impassibile mentre Kynes ispezionava la sua tuta. Indossare quell’indumento dalla superficie liscia e crocchiante gli aveva dato una strana sensazione. Nella sua conoscenza sapeva di non aver mai indossato una tuta distillante, prima d’ora. E tuttavia ogni suo movimento, mentre si aggiustava le cinghie adesive sotto la guida inesperta di Gurney, gli era sembrato naturale e istintivo. Quando aveva stretto il pettorale per ottenere la massima azione pompante dal movimento respiratorio, aveva saputo benissimo quello che stava facendo, e perché. Quando aveva sistemato le cinghie sul collo e sulla fronte stringendole al massimo, aveva saputo che ciò era indispensabile per evitare le vesciche.
Kynes si raddrizzò e indietreggiò, perplesso. «Avete già indossato una tuta distillante?»
«Questa è la prima volta.»
«Allora, qualcuno l’ha aggiustata per voi?»
«No.»
«I vostri stivali da deserto sono infilati in modo da scorrere liberamente sulle caviglie. Chi ve l’ha insegnato?»
«Mi è sembrato il modo giusto.»
«Certamente lo è!»
E Kynes si sfregò il viso, pensando alla leggenda: «Conoscerà i vostri usi come se fosse nato tra voi».
«Stiamo perdendo tempo» disse il Duca. Fece un gesto in direzione dell’ornitottero in attesa e marciò verso di esso. Rispose con un cenno del capo al saluto della guardia, salì a bordo, applicò la cintura di sicurezza, controllò i comandi e gli altri strumenti. L’apparecchio cigolò, quando gli altri salirono a bordo.
Kynes si applicò la cintura e cominciò a esaminare la confortevole cabina dell’ornitottero: il morbido rivestimento grigio verde, gli strumenti scintillanti, l’aria pulita e rinfrescante che gli filtrò nei polmoni nel medesimo istante in cui gli sportelli si chiusero e si misero in moto i ventilatori.
Così elegante e comodo! pensò.
«Tutto a posto, signore» disse Halleck.
Leto aprì il flusso d’energia, le ali si alzarono a si abbassarono una, due volte… In dieci metri di corsa, balzarono in aria, le ali tese, i razzi posteriori che li spingevano in alto, sibilando dolcemente.
«A sud-est» disse Kynes, «sull’altro lato del Muro Scudo. È lì che ho detto al vostro Maestro delle Sabbie di concentrare tutto il materiale.»
«Benissimo.»
Il Duca s’innalzò finché l’ornitottero non fu circondato su ogni lato dagli altri apparecchi che si erano subito disposti in formazione di copertura.
«Il disegno e la tecnica costruttiva di queste tute distillanti indicano un’alta tecnologia» osservò il Duca.
«Uno di questi giorni vi farò visitare una fabbrica sietch» disse Kynes.
«Sarà molto interessante» dichiarò il Duca. «Ho visto che questi vestiti sono confezionati anche in alcune città di guarnigione.»
«Sono copie scadenti» replicò Kynes. «Ogni uomo, su Dune, che ci tenga alla pelle, indossa una tuta Fremen.»
«E manterrà la sua perdita d’acqua a un ditale al giorno?»
«Con una tuta indossata secondo le regole, la visiera frontale stretta, tutte le chiusure in ordine, la maggior perdita d’acqua avverrà attraverso il palmo delle mani» spiegò Kynes. «Si possono anche infilare dei guanti, se non si devono eseguire con le mani alcuni lavori delicati. Ma la maggior parte dei Fremen, nel deserto, usa strofinare le proprie mani col succo delle foglie di rovo creosoto. Rallenta la traspirazione.»
Lo sguardo del Duca si abbassò a sinistra, sul paesaggio contorto del Muro Scudo: voragini di roccia torturata, chiazze gialle e brune solcate da crepacci neri. Era come se qualcuno avesse scagliato giù dallo spazio quell’immenso massiccio, il quale si era conficcato in quel punto, frantumandosi.
Attraversarono una depressione poco profonda, nella quale lunghe dita di sabbia grigia colavano giù da un canyon rivolto a sud. Un delta asciutto che si stagliava sul fondo scuro della roccia.
Kynes, immobile, pensava a tutta quella pelle grassa, impregnata d’acqua, che aveva sentito sotto le tute distillanti. Essi indossavano cinture scudo sopra i vestiti, alla vita portavano storditori a scarica lenta e appesi al collo avevano trasmettitori miniaturizzati di emergenza. Sia il Duca sia suo figlio portavano pugnali ai polsi infilati nei foderi e i foderi sembravano assai consumati. Questa gente aveva colpito Kynes con la sua combinazione di delicatezza e di forza. Possedevano un aspetto scattante che non aveva nulla da spartire con quello degli Harkonnen.
«Quando presenterete il vostro rapporto sul Cambio all’Imperatore, gli direte che abbiamo osservato tutte le regole?» domandò Leto. Lanciò un’occhiata a Kynes, poi si concentrò nuovamente sulla guida.
«Gli Harkonnen se ne sono andati, voi siete venuti» disse Kynes.
«E tutto è stato fatto come doveva esser fatto?»
Kynes s’irrigidì per un attimo, stringendo la mascella: «Come Planetologo e Arbitro del Cambio io dipendo direttamente dall’Impero… mio Signore».
Il Duca sorrise cupamente: «Ma noi sappiamo entrambi come stanno le cose».
«Devo ricordarvi che Sua Maestà appoggia il mio lavoro?»
«Davvero? E in che cosa consiste?»
Nel breve silenzio che seguì, Paul pensò: Mio padre esagera, con Kynes. Fissò Halleck, ma il menestrello guerriero stava contemplando il paesaggio desolato.
«Naturalmente» riprese Kynes, a bassa voce, «voi vi riferite ai miei lavori di planetologo.»
«Naturalmente.»
«Consistono soprattutto in biologia e botanica delle terre aride… e un po’ di geologia, perforazioni della crosta e qualche esperimento. Non si esauriscono mai le possibilità di un pianeta.»
«Voi fate ricerche anche sulla spezia?»
Kynes si girò, e Paul notò la linea dura del suo profilo. «Che curiosa domanda, mio Signore.»
«Ricordate, Kynes, che adesso questo è il mio feudo. I miei metodi differiscono da quelli degli Harkonnen. Non m’importa se voi studiate la spezia, sempre che dividiate con me i risultati» fissò il planetologo: «Gli Harkonnen non incoraggiavano affatto le ricerche sulla spezia, non è vero?»
Kynes lo fissò a sua volta, in silenzio.
«Potete parlare apertamente» disse il Duca, «senza alcun timore per la vostra vita.»
«La Corte Imperiale è veramente molto lontana» mormorò Kynes, e pensò: Che cosa si aspetta, dunque, quest’invasore impregnato d’acqua? Crede che io sia così pazzo da unirmi a lui?
Il Duca ebbe una risatina, riportando tutta la sua attenzione sulla rotta: «Mi sembra di aver sentito una nota amara nella vostra voce, signore. Ci siamo precipitati su questo mondo con la nostra banda di assassini addomesticati, non è vero? E ci aspettiamo che voi capiate subito che siamo diversi dagli Harkonnen?»
«Ho letto la propaganda con la quale avete inondato sietch e villaggi» replicò Kynes. «’Amate il buon Duca! Le nuove guarnigioni…’»
«Questo, poi!» urlò Halleck. Si era riscosso dalla contemplazione del paesaggio, precipitandosi in avanti.
Paul fu pronto ad afferrargli il braccio.
«Gurney!» esclamò il Duca. Si voltò per un attimo a guardarlo: «Quest’uomo ha servito per lungo tempo gli Harkonnen».
Halleck tornò a sedersi. «Già.»
«Quel suo uomo, Hawat, è molto astuto» disse Kynes. «Ma le sue intenzioni sono fin troppo chiare.»
«Ci aprirà quelle basi, allora?» chiese il Duca.
«Appartengono a Sua Maestà» replicò asciutto Kynes.
«Ma nessuno le usa.»
«Potrebbero servire.»
«Sua Maestà è d’accordo?»
Kynes lo fissò duramente. «Arrakis potrebbe essere un paradiso se i suoi governanti non si occupassero soltanto di arraffare la spezia!»
Non ha risposto alla mia domanda, disse tra sé il Duca. E domandò: «Com’è possibile che un pianeta diventi un paradiso, senza denaro?»
«Ma che cos’è il denaro, se non vi procura i servizi di cui voi avete bisogno?»
Basta così! pensò il Duca. E disse: «Discuteremo di questo un’altra volta. Se non mi sbaglio, ci stiamo avvicinando al bordo del Muro Scudo. Mantengo la stessa rotta?»
«La stessa rotta» mormorò Kynes.
Paul guardò fuori dal finestrino. Sotto di loro, la parete scoscesa precipitava in pieghe contorte verso un pianoro completamente spoglio che terminava con un bordo aguzzo. Oltre il bordo, le dune a forma di mezzaluna, simili a unghie, si allineavano fino all’orizzonte: qua e là comparivano masse confuse, macchie scure le quali indicavano qualcosa che non era sabbia. Forse rocce affioranti. In quest’aria soffocante, Paul non avrebbe potuto giurarlo.
«Non ci sono piante laggiù?» chiese.
«Qualcuna» disse Kynes. «A questa latitudine la vita è rappresentata soprattutto da quelle che noi chiamiamo ’ladri d’acqua’… sono piante che si depredano a vicenda dell’umidità, inghiottendo fin la più piccola traccia di rugiada. Alcune zone del deserto brulicano di vita. Ma tutte queste creature hanno imparato a sopravvivere ai rigori del deserto. Se voi foste intrappolati laggiù, dovreste imitare queste forme di vita o morire.»
«Volete dire derubarci dell’acqua l’uno con l’altro?» chiese Paul. L’idea gli parve oltraggiosa e il tremito della voce tradì l’emozione.
«Lo si fa» disse Kynes. «Ma questo non è esattamente il significato delle mie parole. Vedete, il mio clima esige un particolare atteggiamento verso l’acqua. Si pensa all’acqua, sempre. Non si spreca nulla che contenga dell’umidità.»
Il Duca pensò: Il mio clima!…
«Due gradi più a sud, mio Signore» disse Kynes. «C’è una burrasca in arrivo da ovest.»
Il Duca annuì. Aveva scorto in lontananza un turbinio di sabbia arancione. Fece ruotare l’ornitottero e osservò il riflesso aranciato della polvere sulle ali degli apparecchi di scorta che imitavano la sua manovra.
«Questo dovrebbe consentirci di evitare la tempesta» fece Kynes.
«Volare in mezzo a questa sabbia dev’essere pericoloso» disse Paul. «Può veramente intaccare i metalli più duri?»
«A quest’altezza non è sabbia, ma polvere» spiegò Kynes. «Il pericolo più grave è la mancanza di visibilità, oltre alla turbolenza e alle valvole di aspirazione che s’incrostano.»
«Assisteremo all’estrazione della spezia, oggi?» chiese Paul.
«Molto probabilmente» confermò Kynes.
Paul si rilassò sul sedile. Si era servito delle domande e della sua percezione superiore per compiere quella che sua madre chiamava la ’registrazione’ di una persona. Ora, aveva Kynes: il tono della voce, ogni più piccolo particolare del suo viso e del suo modo di muoversi. Una piega innaturale sulla manica sinistra del suo vestito rivelava la presenza di un coltello in un fodero. La sua vita era curiosamente rigonfia. Si diceva che gli uomini del deserto indossassero una cintura imbottita nella quale infilavano gli oggetti di prima necessità. Forse il rigonfiamento era dovuto a una cintura di questo tipo… certamente non era dovuto a una cintura scudo. Una spilla di rame con incisa l’immagine di una lepre chiudeva il vestito di Kynes all’altezza del collo. Un’altra spilla, più piccola ma con la stessa immagine incisa, pendeva da un angolo del cappuccio, sulla spalla.
Halleck si contorse sul sedile accanto a Paul, raggiunse il compartimento sul retro e ne tirò fuori il suo baliset. Kynes lo guardò un attimo mentre accordava lo strumento, poi si dedicò nuovamente alla rotta.
«Che cosa ti piacerebbe sentire, Giovane Duca?» chiese Halleck.
«Scegli tu stesso, Gurney.»
Halleck avvicinò l’orecchio alla cassa armonica e cominciò a strimpellare e a cantare sommessamente:
«I nostri padri hanno mangiato la manna del deserto,
Nelle distese ardenti flagellate dal vento.
Signore, salvaci tu da questa terra orribile!
Salvaci tu… oh, salvaci tu
Da questa terra arida e assetata».
Kynes lanciò un’occhiata al Duca: «Voi viaggiate con pochissime guardie, mio Signore. Tutti i vostri uomini sono forniti di tanto talento in campi così diversi?»
«Gurney?» Il Duca soffocò una risata. «Gurney è unico. Mi piace averlo accanto per i suoi occhi. Poche cose gli sfuggono!»
Il planetologo si accigliò.
Senza perdere una battuta della sua canzone, Halleck continuò:
«Poiché io sono come un gufo del deserto, ohò!
Oh, sì, come un gufo del deserto!»
Il Duca si piegò in avanti, staccò un microfono dal quadro dei comandi, lo attivò e disse: «Capo a scorta Gemma. Oggetto volante a nove ore, settore B. L’avete identificato?»
«È soltanto un uccello» l’interruppe Kynes, e aggiunse: «Avete occhi acuti».
L’altoparlante crepitò, quindi: «Scorta Gemma. Oggetto esaminato al massimo ingrandimento. È un grosso uccello».
Paul aguzzò gli occhi nella direzione indicata e distinse una macchiolina: un punto che si muoveva a intermittenza, e capì quanto suo padre era teso, tutti i sensi all’erta.
«Ignoravo che esistessero uccelli così grandi in pieno deserto» disse il Duca.
«È probabilmente un’aquila» fece Kynes. «Numerose creature si sono adattate a questi luoghi.»
L’ornitottero sorvolò un pianoro roccioso completamente spoglio. Paul guardò giù da duemila metri di quota, e vide scivolare irregolarmente sul suolo le ombre del loro velivolo e della scorta. Il suolo, là sotto, sembrava piatto, ma l’irregolarità delle ombre rivelava il contrario.
«Qualcuno è mai uscito vivo dal deserto?» chiese il Duca. Halleck smise di suonare e si piegò in avanti per udire la risposta.
«Non dall’alto deserto» disse Kynes. «Vi sono uomini che sono usciti vivi dalla zona secondaria, molte volte. Sono sopravvissuti attraversando le aree rocciose, dove i vermi non giungono.»
Il timbro della voce di Kynes aveva attirato l’attenzione di Paul. Sentì i suoi sensi risvegliarsi, nel modo in cui erano stati addestrati.
«Ah, i vermi» fece il Duca. «Voglio vederne uno, il più presto possibile.»
«Forse ne vedrete uno oggi» disse Kynes. «Dove c’è la spezia, ci sono i vermi.»
«Sempre?» chiese Halleck.
«Sempre.»
«C’è forse una relazione fra i vermi e la spezia?» chiese il Duca.
Kynes si voltò e Paul vide che storceva le labbra mentre rispondeva: «Essi difendono le sabbie della spezia. Ogni verme ha un suo… territorio. E per quanto riguarda la spezia… chi lo sa? Gli esemplari che abbiamo esaminato ci fanno sospettare che avvengano complicate reazioni chimiche nel corpo dei vermi. Abbiamo trovato tracce di acido cloridrico nel sistema circolatorio e acidi più complessi altrove. Vi procurerò una mia monografia su questo argomento».
«E gli scudi non servono contro di loro?» disse il Duca.
«Gli scudi!» Kynes sogghignò. «Azionate uno scudo in una zona dove ci siano vermi e il vostro destino sarà segnato. Quando uno scudo è in azione, i vermi ignorano i confini territoriali e si precipitano da ogni parte per attaccarlo. Nessun uomo munito di scudo è sopravvissuto a un simile attacco.»
«Allora, come si catturano i vermi?»
«L’unico modo possibile per uccidere e preservare un verme completo consiste nel sottoporre ogni singolo segmento a una scarica elettrica ad alta tensione» spiegò Kynes. «È possibile stordirli o farli a pezzi con l’esplosivo, ma ogni segmento conserva una vita propria. Eccettuate le atomiche, non conosco esplosivi abbastanza potenti da distruggere completamente un verme. È incredibile quanto siano resistenti.»
«Perché non si è fatto nessuno sforzo per sterminarli?» chiese Paul.
«Costerebbe troppo» rispose Kynes. «L’area da bombardare sarebbe troppo vasta.»
Paul tornò a rilassarsi sul suo sedile d’angolo. Il suo senso della verità, la percezione di ogni più piccola sfumatura, gli diceva che Kynes mentiva, o diceva soltanto mezze verità. E pensò: Se c’è una relazione fra la spezia e i vermi, uccidere i vermi vorrebbe dire distruggere la spezia.
«Molto presto, nessuno sarà più costretto a salvarsi da solo nel deserto» disse il Duca. «Basterà azionare queste piccole trasmittenti appese al collo e i soccorsi si precipiteranno. Fra qualche giorno tutti i nostri lavoranti le porteranno. Organizzeremo uno speciale servizio di salvataggio.»
«Assai lodevole» replicò Kynes.
«Dal vostro tono direi che non siete d’accordo» fece il Duca.
«D’accordo? È naturale che sia d’accordo, ma non sarà un grande aiuto. L’elettricità statica delle tempeste di sabbia cancella la maggior parte dei segnali. Mette fuori uso i trasmettitori. È già stato sperimentato, capite? Arrakis non dà tregua a nessuno strumento. E se un verme vi sta dando la caccia, non c’è molto tempo. Non più di quindici, venti minuti.»
«Che cosa consigliereste?» chiese il Duca.
«Voi chiedete un consiglio? A me?»
«Sì. Nella vostra veste di planetologo.»
«E sareste disposto a seguirlo?»
«Se lo troverò sensato.»
«Molto bene, mio Signore. Non viaggiate mai da solo.»
Il Duca distolse la sua attenzione dai comandi: «Tutto qui?»
«Tutto qui. Non viaggiate mai da solo.»
«E che cosa succede se una tempesta ci divide dagli altri e ci costringe a fermarci?» domandò Halleck. «Non c’è proprio niente da fare?»
«Niente è un termine troppo vago.»
«Ma voi, cosa fareste?» chiese Paul.
Kynes si voltò verso il ragazzo, fissandolo freddamente, poi rivolse nuovamente la sua attenzione al Duca: «Prima di tutto, proteggerei l’integrità della mia tuta distillante. Se mi trovassi tra le rocce, in una zona non battuta dai vermi, resterei accanto al velivolo. Se invece mi trovassi tra le sabbie, in una zona aperta, mi allontanerei dalla macchina il più rapidamente possibile. Una distanza di mille metri sarebbe sufficiente. Poi mi nasconderei sotto il mio vestito. Il verme avrebbe il mio apparecchio, ma non si accorgerebbe di me».
«E poi?» chiese Halleck.
Kynes scrollò le spalle: «Aspetterei che il verme se ne fosse andato».
«Tutto qui?»
«Quando il verme se n’è andato, si può cercare di salvarsi camminando» spiegò Kynes. «Bisogna camminare adagio, evitando i tamburi delle sabbie, le maree di polvere, e dirigersi verso la più vicina zona rocciosa. Vi sono molte di queste zone. Si può riuscire.»
«’Tamburi delle sabbie?’» chiese Halleck.
«È un effetto della sabbia supercompressa. Anche il passo più leggero la fa rimbombare. E i vermi accorrono da ogni parte.»
«E le ’maree di polvere’?» disse il Duca.
«Certe depressioni del deserto si sono completamente riempite di sabbia, col passare dei secoli. Alcune sono così ampie che si verificano al loro interno correnti e maree. Tutte inghiottono l’ignaro che vi si addentra.»
Halleck ricadde indietro e ricominciò a pizzicare il baliset. Cantò:
«Bestie selvagge del deserto cacciano laggiù,
Aspettando l’ignaro che vi passi accanto.
Oh-h-h, non tentare gli dèi del deserto,
Vuoi forse lasciare il tuo epitaffio solitario?
I pericoli del…»
S’interruppe e si piegò nuovamente in avanti: «Una nube di polvere davanti a noi, signore!»
«L’ho vista, Gurney.»
«È quello che stiamo cercando» disse Kynes.
Paul si alzò sul sedile, aguzzando gli occhi, e vide una nuvola gialla che rotolava sulla superficie del deserto, circa trenta chilometri davanti a loro.
«Uno dei vostri trattori» riprese Kynes. «Si è appoggiato sulla superficie, e questo vuol dire che è sopra la spezia. La nuvola è sabbia che viene espulsa dopo essere stata centrifugata per estrarne la spezia. Nessun’altra nuvola le assomiglia.»
«Distinguo dei velivoli, là sopra» disse il Duca.
«Ne vedo due… tre… quattro» confermò Kynes. «Sono ricognitori. Controllano che non vi siano segni dei vermi, qui intorno.»
«’Segni dei vermi?’» chiese il Duca.
«Precipitandosi verso il trattore, il verme crea un’onda di sabbia in superficie. Ma a volte i vermi viaggiano troppo in profondità, e l’onda è invisibile. Per questo i ricognitori sono anche muniti di sonde sismiche.» Kynes scrutò il cielo. «Ci dovrebbe essere un’ala in volo qui attorno, ma non la vedo.»
«I vermi arrivano sempre, non è così?» chiese Halleck.
«Sempre.»
Paul si chinò a toccare la spalla di Kynes. «Quanto territorio occupa ogni verme, di solito?»
Kynes si accigliò. Questo ragazzo continuava a fare domande da adulto.
«Dipende dalla dimensione del verme.»
«In quale rapporto?» disse il Duca.
«Quelli più grossi possono controllare fino a trecento, quattrocento chilometri quadrati. I più piccoli…» s’interruppe, mentre il Duca innestava di colpo i razzi frenanti. Il velivolo s’impennò, i razzi di coda si spensero, le ali si distesero al massimo e cominciarono a battere l’aria. L’apparecchio era diventato un puro ornitottero: il Duca lo arrestò nell’aria, tenendo al minimo il battito delle ali, e indicò un punto con la mano sinistra, oltre il trattore, in direzione est.
«È il segno di un verme?»
Kynes si piegò davanti al Duca e aguzzò gli occhi. Paul e Halleck, stretti uno accanto all’altro, l’imitarono: Paul notò che la loro scorta, sorpresa dall’improvvisa manovra, li aveva sopravanzati, ma ora stava tornando indietro. Il trattore era davanti a loro, lontano ancora tre chilometri.
Nella direzione indicata dal Duca, le dune a mezzaluna formavano una lunga distesa di ombre ricurve fino all’orizzonte: tra esse si disegnava una linea diritta che si perdeva in lontananza e all’estremità più vicina una cresta di sabbia, un monticello allungato che si muoveva verso di loro. Ricordò a Paul la scia di un grosso pesce che nuotasse a pelo dell’acqua.
«Un verme» confermò Kynes. «Uno dei più grossi» si voltò, staccò il microfono dal quadro dei comandi, scelse un nuovo campo di frequenze, consultò la mappa tesa fra due rulli, sulle loro teste, e lanciò un appello: «Chiamo trattore in Delta Ajax Nove. Avvistato segno del verme. Trattore in Delta Ajax Nove. Segno del verme. Rispondete» aspettò.
L’altoparlante crepitò, poi una voce: «Chi chiama Delta Ajax Nove? Passo».
«Sembra che se la prendano calma» commentò Halleck.
Kynes parlò nel microfono: «Volo non registrato. Tre chilometri a nordest. Segno del verme su rotta d’intersezione. Contatto stimato tra venticinque minuti».
Un’altra voce rombò nell’altoparlante: «Qui Controllo Ricognizioni. Avvistamento confermato. Restate in linea per conferma del contatto» una pausa, poi: «Contatto fra meno di ventisei minuti. La stima era assai accurata. Chi è su quel volo non registrato? Passo».
Halleck si era slacciato la cintura e si fece avanti, tra il Duca e Kynes: «È la frequenza normale di lavoro, Kynes?»
«Sì, perché?»
«Chi sta ascoltando?»
«Solo la squadra che lavora in questa zona. Diminuisce le interferenze.»
L’altoparlante crepitò di nuovo, poi: «Qui Delta Ajax Nove. A chi va il premio per questo avvistamento? Passo».
Halleck guardò il Duca.
Kynes disse: «Chi dà per primo l’allarme ha diritto a un premio proporzionale al raccolto della spezia. Vogliono sapere…»
«Dite pure chi ha avvistato per primo quel verme» l’interruppe Halleck.
Il Duca assentì.
Kynes esitò, poi alzò il microfono: «Premio di avvistamento al Duca Leto Atreides. Duca Leto Atreides. Passo».
La voce dell’altoparlante risuonò piatta, e in parte distorta da una serie di scariche: «Ricevuto. Grazie».
«Ora» ordinò Halleck, «dite che si dividano il premio. Dite che questo è il desiderio del Duca.»
Kynes respirò profondamente, poi: «Il Duca desidera che questo premio sia diviso fra tutti. Ricevuto? Passo».
«Ricevuto e grazie.»
«Mi sono dimenticato di dirvi» aggiunse il Duca, «che Gurney ha anche un particolare talento per le pubbliche relazioni.»
Kynes fissò Halleck, perplesso.
«Questo servirà a far sapere agli uomini che il Duca si preoccupa per la loro sicurezza» spiegò Halleck. «La voce si spargerà. Era una frequenza usata solo in zona di lavoro… ed è improbabile che gli agenti degli Harkonnen abbiano potuto ascoltare.» Alzò gli occhi verso la copertura aerea: «E siamo una forza piuttosto notevole. È valsa la pena rischiare».
Il Duca inclinò l’ornitottero verso la nuvola di sabbia sollevata dal trattore. «Che succede, adesso?»
«C’è un’ala in volo qui vicino» disse Kynes. «Scenderà e solleverà il trattore.»
«Che cosa accadrebbe, se l’ala si guastasse?» chiese Halleck.
«Una certa quantità di materiale va sempre perduta…» replicò Kynes. «Portatevi più vicino al trattore, mio Signore. È uno spettacolo interessante.»
Il Duca si accigliò e si dette da fare coi controlli mentre entravano nella zona di turbolenza sopra il trattore.
Paul guardò giù: vide la sabbia che continuava a venire espulsa dal mostro di metallo e plastica sotto di loro. Aveva l’aspetto di un gigantesco coleottero azzurro e bruno, con numerose zampe meccaniche che si protendevano intorno ad esso, azionate da cingoli. Vide il becco di un gigantesco imbuto rovesciato conficcato nella sabbia scura, nella parte anteriore.
«Un terreno ricco di spezia, a giudicare dal colore» disse Kynes. «Continueranno a estrarla tino all’ultimo istante.»
Il Duca caricò le ali e le irrigidì per calarsi più rapidamente, poi si stabilizzò a bassa quota, tracciando cerchi concentrici intorno al trattore. Lanciando occhiate a sinistra e a destra vide che la scorta girava sopra di loro, mantenendo la quota.
Paul studiò la nuvola gialla eruttata dagli orifizi del trattore, poi alzò gli occhi sul deserto verso la scia del verme, sempre più vicina.
«Non dovremmo sentirli chiamare l’ala?» domandò Halleck.
«Normalmente l’ala è su un’altra frequenza» disse Kynes.
«Non dovrebbero esserci due ali a disposizione per ogni trattore?» chiese il Duca. «Ci sono ventisei uomini in quella macchina, laggiù, senza contare tutto il materiale.»
Kynes replicò: «Voi non avete sufficiente esperien…»
S’interruppe. Una voce infuriata esplose nell’altoparlante: «Nessuno di voi vede l’ala? Non risponde.»
Vi fu un torrente di crepitii e di scariche, poi rimbombò un segnale d’emergenza, vi fu un attimo di silenzio, quindi la prima voce gridò: «Tutti a rapporto per numero d’ordine! Passo».
«Qui Controllo Ricognizioni. L’ultima volta che ho visto l’ala era piuttosto alta e volava verso nordovest. Ora non la vedo più. Passo.»
«Ricognitore Uno: negativo. Passo.»
«Ricognitore Due: negativo. Passo.»
«Ricognitore Tre: negativo. Passo.»
Silenzio.
Il Duca guardò in basso: l’ombra dell’ornitottero stava passando proprio sopra il trattore.
«Solo quattro ricognitori. Esatto?»
«Esatto» disse Kynes.
«Noi disponiamo in tutto di cinque ornitotteri» continuò il Duca. «Sono grandi. Se ci stringiamo, possiamo caricare tre persone in più per ogni apparecchio. I loro ricognitori dovrebbero riuscire a caricarne un paio ciascuno.»
Paul calcolò mentalmente: «Ne restano tre».
«Perché non ci sono due ali per ogni trattore?» urlò il Duca.
«Non ci sono abbastanza macchine di riserva» disse Kynes.
«Una ragione di più per proteggere quelle che abbiamo!»
«Dov’è finita quell’ala?» domandò Halleck.
«Forse è stata costretta ad atterrare in qualche parte al di fuori del nostro campo visivo» disse Kynes.
Il Duca afferrò il microfono, poi esitò, il pollice sull’interruttore: «Com’è possibile che i ricognitori abbiano perso di vista un’ala?»
«Tutta la loro attenzione è concentrata sul terreno, per i segni del verme» spiegò Kynes.
Il Duca fece scattare l’interruttore e parlò: «Qui il vostro Duca. Stiamo scendendo per prelevare la squadra di Delta Ajax Nove. Tutti i ricognitori hanno l’ordine di fare altrettanto. I ricognitori scenderanno sul lato est. Noi scenderemo a ovest. Passo» fece scattare il microfono sulla sua frequenza personale e ripeté l’ordine per la scorta aerea, poi ripassò il microfono a Kynes.
Kynes tornò sulla frequenza di lavoro e una voce tuonò nell’altoparlante:
«… un carico quasi completo di spezia! Abbiamo un carico quasi completo di spezia! Non possiamo lasciarlo a quel maledetto verme! Passo».
«Al diavolo la spezia!» abbaiò il Duca. Afferrò nuovamente il microfono: «Troveremo sempre dell’altra spezia! I nostri apparecchi hanno posti per tutti, tranne tre. Tirate le pagliuzze o decidete nel modo che vi sembra migliore. Ma dovete venire, questo è un ordine!» Sbatté il microfono nelle mani di Kynes, e mormorò: «Scusatemi» mentre Kynes si succhiava le dita contuse.
«Quanto tempo?» chiese Paul.
«Nove minuti» disse Kynes.
Il Duca riprese: «Questo ornitottero è più potente degli altri. Se decolliamo coi jet e le ali a tre quarti, possiamo far entrare un uomo in più».
«La sabbia è troppo cedevole» disse Kynes.
«Con quattro uomini in più, rischiamo di rompere le ali decollando coi razzi, Signore» insisté Halleck.
«Non questo ornitottero» ribatté il Duca. Azionò nuovamente i comandi, mentre la macchina planava accanto al trattore. Le ali si alzarono, frenando l’apparecchio il quale, dopo un’ultima scivolata, toccò terra a una ventina di metri dal trattore.
L’enorme trattore era silenzioso, adesso, e la sabbia non turbinava più intorno ai suoi orifizi. Si udiva soltanto un lieve ronzio meccanico, che si fece più intenso quando il Duca aprì lo sportello.
Immediatamente un denso e penetrante odore di cinnamomo li investì.
Con un sonoro battito di ali anche i ricognitori planarono sulla sabbia, sull’altro lato del trattore. La scorta del Duca discese a sua volta in picchiata.
Paul contemplò l’immensa mole del trattore, accanto al quale gli ornitotteri sembravano minuscoli moscerini al cospetto di un mostruoso scarabeo.
«Gurney, tu e Paul scaraventate fuori i sedili posteriori» ordinò il Duca. Piegò le ali a tre quarti, manualmente, fino alla giusta angolazione e verificò i controlli dei jet. «Perché diavolo non escono da quella macchina?»
«Sperano ancora che l’ala arrivi» disse Kynes. «Hanno ancora qualche minuto.» Fissò il deserto verso est.
Tutti guardarono nella stessa direzione: non c’era alcun segno del verme, ma l’aria era carica di ansia.
Il Duca prese il microfono, lo regolò sulla sua frequenza e ordinò: «Due di voi scaraventino fuori i loro generatori a scudo. In ordine di numero. In questo modo potrete caricare un uomo in più. Non lasceremo nessun uomo a quel mostro».
Tornò sulla frequenza di lavoro e urlò: «Bene, voi di Delta Ajax Nove! Fuori subito! Questo è un ordine del vostro Duca! Muovetevi o taglierò in due quel trattore con un laser!»
Un portello si aprì di colpo vicino al muso del trattore, un altro all’estremità posteriore e un terzo in alto. Uomini schizzarono fuori, ruzzolando poi sulla sabbia. Un uomo alto, avvolto in una tuta da lavoro tutta rattoppata, fu l’ultimo a emergere. Saltò prima su un cingolo e poi sulla sabbia.
Il Duca riagganciò il microfono al quadro di comando e si sporse fuori su un gradino della scaletta e urlò: «Due di voi in ciascuno dei vostri ricognitori!»
L’uomo con la tuta rattoppata divise la sua squadra in gruppi di due e li spinse verso i velivoli in attesa sull’altro lato.
«Quattro da questa parte!» urlò il Duca. «Quattro in quell’altra macchina!» Puntò il dito verso uno degli ornitotteri di scorta. Le guardie stavano appunto scaricando all’esterno il generatore dello scudo. «Quattro in quella macchina laggiù!» Indicò un altro ornitottero di scorta che aveva già scaricato il suo generatore. «E tre negli altri! Correte, specie di cani della sabbia!»
L’uomo alto finì di contare quelli della sua squadra e si avvicinò trascinandosi sulla sabbia, seguito da tre dei suoi compagni.
«Sento il verme, ma non riesco a vederlo» disse Kynes.
Quindi anche gli altri lo sentirono: uno sfregamento, un crepitio ancora distante ma che cresceva d’intensità.
«Che maniera balorda di lavorare!» imprecò il Duca.
Gli ornitotteri cominciarono a battere le ali, sollevando ondate di sabbia. Il Duca ripensò alle giungle del suo pianeta natale, quando, emergendo all’improvviso in una radura, branchi di avvoltoi spiccavano il volo precipitosamente dalla carogna di un toro selvatico.
I lavoratori della spezia scivolarono faticosamente lungo il fianco dell’ornitottero e cominciarono ad arrampicarsi dietro il Duca. Halleck li aiutò, tirandoli su e spingendoli sul fondo del velivolo.
«Su, ragazzi» esclamò, «più presto, più presto!»
Paul, schiacciato in un angolo da quegli uomini ansanti, percepì l’odore della paura e vide che due fra essi avevano le tute distillanti semiaperte sul collo. Ne prese nota mentalmente, per il futuro. Suo padre doveva imporre una disciplina più rigorosa per le tute distillanti. Gli uomini diventano trascurati se non si vigila su queste cose.
L’ultimo uomo arrivò ansante sul retro, e disse: «Il verme ci è quasi addosso, decolliamo!»
Il Duca scivolò al suo posto, accigliandosi: «Abbiamo ancora tre minuti, secondo la stima originaria. Esatto, Kynes?» chiuse lo sportello, lo controllò.
«Esattamente, mio Signore» rispose Kynes, e pensò: Questo Duca non perde mai la testa!
«Tutto a posto, signore» esclamò Halleck.
Il Duca annuì, osservò l’ultimo degli apparecchi di scorta che s’involava. Regolò l’accensione, diede un’ultima occhiata alle ali e agli strumenti, poi inserì la sequenza per i jet.
Il decollo schiacciò con violenza contro i sedili sia il Duca che Kynes e costipò energicamente tutti gli altri. Kynes considerò il modo con cui il Duca maneggiava i controlli: con delicatezza e la massima sicurezza. L’ornitottero era in aria, adesso, e il Duca seguiva attentamente i suoi strumenti, senza perdere d’occhio le ali, su entrambi i lati.
«Siamo molto pesanti, signore» disse Halleck.
«Ma ampiamente nei limiti di questo apparecchio» replicò il Duca. «Non avrai creduto, per caso, che volessi rischiare la vita dei miei passeggeri, Gurney?»
Halleck sogghignò. «Neppure per un istante, Signore.»
Il Duca manovrò l’apparecchio lungo un’ampia curva, fin sulla verticale del trattore.
Paul, schiacciato in un angolo contro il finestrino, guardò giù verso la macchina silenziosa. Il segno del verme si era interrotto a circa quattrocento metri dal trattore. Ora sembrava che ci fosse una certa turbolenza tutto intorno alla grande macchina.
«Il verme è sotto il trattore» disse Kynes. «Ora assisterete a uno spettacolo che pochi uomini hanno visto.»
Tutto intorno al trattore si formarono rigonfiamenti di sabbia che disegnarono varie ombre. L’enorme macchina cominciò a sprofondare, inclinandosi verso destra. Un gigantesco vortice di sabbia cominciò a formarsi sullo stesso lato. Girò sempre più velocemente, scagliando sabbia e polvere per centinaia di metri all’intorno.
Poi lo videro!
Una voragine si formò nel deserto. La luce del sole scintillò sulle sue pareti. Il diametro del foro era almeno il doppio della lunghezza del trattore, stimò Paul. Fissò affascinato la macchina che scivolava in quell’apertura, nel cuore di un’autentica tempesta di polvere e di sabbia. Il foro si richiuse.
«Mio Dio, che mostro!» mormorò un uomo, accanto a Paul.
«Tutta la nostra spezia!» grugnì un altro.
«Qualcuno pagherà per questo» disse il Duca. «Ve lo prometto.»
Nella voce priva d’espressione di suo padre, Paul percepì un’ira profonda. Si accorse di condividerla. Un simile spreco era criminale!
Nel silenzio che seguì, si udì la voce di Kynes: «Benedetto sia il Creatore e la Sua acqua. Benedetta la Sua venuta e la Sua partenza. Possa il Suo passaggio purificare il mondo. Possa Egli conservare il mondo per il Suo popolo».
«Che cosa state dicendo?» gli chiese il Duca.
Ma Kynes restò silenzioso.
Paul osservò gli uomini stretti intorno a lui. Fissavano spaventati la nuca di Kynes. Uno di loro bisbigliò: «Liet».
Kynes si voltò, accigliato. L’uomo, confuso, cercò di nascondersi.
Un altro degli scampati cominciò a tossire: una tosse secca e aspra. Qualche istante dopo, ansimò: «Maledetto questo buco infernale!»
L’uomo alto, l’ultimo a uscire dal trattore, intervenne: «Stai calmo, Coss! Non fai altro che peggiorare la tua tosse.» Si fece strada nella ressa finché non fu accanto al Duca. «Voi siete il Duca Leto, immagino» disse. «Siete voi che dobbiamo ringraziare per averci salvato la vita. Prima del vostro arrivo, eravamo perduti.»
«Silenzio, uomo, lascia che il Duca guidi la sua macchina» mormorò Halleck.
Paul lanciò un’occhiata a Halleck. Anche lui aveva visto i muscoli contratti sul volto di suo padre. Si doveva agire con cautela, quando il Duca era infuriato.
Leto fece uscire l’ornitottero dalla sua traiettoria circolare, ma subito lo arrestò sulla verticale per esaminare meglio qualcosa che si muoveva nella sabbia sottostante. Il verme si era ritirato in profondità, e ora, non lontano dal punto dove si era trovato il trattore fino a qualche istante prima, si scorgevano due figure che si dirigevano verso nord, allontanandosi dalla depressione. Sembrava che scivolassero tra le dune, sollevando appena qualche granello di sabbia.
«Chi sono quei due, laggiù?» urlò il Duca.
«Due apprendisti» disse l’uomo alto. «Erano venuti con noi per vedere, Signore.»
«Perché nessuno mi ha detto niente?»
«Sono loro che hanno voluto correre il rischio, Signore» insistette l’uomo da duna.
«Mio Signore» intervenne Kynes, «essi sanno che c’è ben poco da fare per gli uomini intrappolati nel territorio dei vermi.»
«Manderemo un apparecchio dalla base a prenderli!» ribatté bruscamente il Duca.
«Come volete, mio Signore» disse Kynes. «Ma è probabile che, quando la macchina arriverà non ci sarà più nessuno da salvare.»
«Manderò una macchina lo stesso» ripeté il Duca.
«Erano proprio accanto al punto da cui è uscito il verme» disse Paul. «Come hanno fatto a fuggire?»
«Le dimensioni di quella voragine ingannano» spiegò Kynes.
«Signore» intervenne Halleck, «state sprecando troppo carburante.»
«Ho visto, Gurney!»
Il Duca fece ruotare il velivolo verso il Muro Scudo. La scorta discese dalla quota di osservazione e si dispose ai suoi fianchi.
Paul ripensò a quello che avevano detto l’uomo da duna e Kynes. Percepiva solo mezze verità e menzogne complete. I due uomini erano fuggiti sulla sabbia con tanta sicurezza, muovendosi in un modo chiaramente calcolato per non attirare il verme dalle profondità in cui si trovava…
Fremen! Il pensiero folgorò Paul. Chi altri avrebbe potuto muoversi con tanta disinvoltura sulla sabbia? Chi altri sarebbe sfuggito al terrore… sapendo di non essere in pericolo? Essi sanno come vivere laggiù! E come superare in astuzia un verme!
«Che cosa facevano quei Fremen sul trattore?» chiese Paul.
Kynes si girò di scatto.
Anche l’uomo da duna si girò verso Paul, sbigottito (occhi azzurri nell’azzurro). «Chi è questo ragazzo?» domandò.
Halleck si intromise tra l’uomo e Paul. «Questi è Paul Atreides, l’erede del Duca.»
«Perché mai afferma che c’erano dei Fremen sul nostro trattore?»
«Corrispondono alla descrizione» disse Paul.
Kynes sbuffò: «Non si può identificare un Fremen con una sola occhiata!» fissò l’uomo da duna: «Tu, chi erano quegli uomini?»
«Amici di uno dei nostri, semplicemente» rispose l’uomo. «Amici venuti da un villaggio che volevano vedere le sabbie della spezia.»
Kynes si voltò: «Fremen!»
Ma ricordò le parole della leggenda: «Il Lisan al-Gaib vedrà attraverso ogni sotterfugio».
«Con tutta probabilità a quest’ora sono morti, Giovane Duca» disse l’uomo da duna. «Perché dir male di loro?»
Ma Paul avvertì la falsità delle loro voci e la minaccia che aveva mosso istintivamente Halleck al suo fianco, per proteggerlo.
Paul continuò: «Un luogo terribile per morire».
Senza voltarsi, Kynes replicò: «Quando Dio ha stabilito che una creatura muoia in un certo luogo, fa in modo che la sua volontà la conduca in quel luogo».
Leto si voltò e fulminò Kynes con lo sguardo.
E Kynes, restituendogli l’occhiata, si sentì improvvisamente sconvolto per una cosa che non aveva previsto: Questo Duca era molto più preoccupato per gli uomini che per la spezia. Ha rischiato la vita, e quella di suo figlio, per salvarli. Ha avuto un solo gesto di stizza per la perdita del trattore pieno di spezia. Ma la minaccia che incombeva sugli uomini lo ha mandato in bestia. Un simile capo potrebbe assicurarsi una lealtà fanatica. Sarebbe difficile sconfiggerlo.
Contro la sua volontà e contro ogni precedente giudizio, Kynes fu costretto ad ammettere dentro di sé: Mi piace questo Duca.
La grandezza è un’esperienza transitoria. Ed è inconsistente, legata com’è all’immaginazione umana che crea i miti. La persona che sperimenta la grandezza deve percepire il mito che la circonda. Deve pensare a quanto è proiettato su di lei, e mostrarsi fortemente incline all’ironia. Questo le impedirà di credere anch’essa a quello che pretende di essere. L’ironia le consentirà di agire indipendentemente da se stessa. Se invece non possiede questa qualità, anche una grandezza occasionale può distruggerla.
Nella sala da pranzo della grande dimora di Arrakeen, le lampade a sospensione che erano state accese per contrastare la rapida oscurità della notte illuminavano col loro giallo splendore la testa nera del toro dalle corna insanguinate, riflettendosi sul cupo ritratto a olio del Vecchio Duca.
Sotto questi talismani, le candide tovaglie sembravano risplendere intorno al riflesso brunito delle argenterie degli Atreides, disposte in ordine perfetto sulla grande tavola: piccoli arcipelaghi di preziose stoviglie in attesa accanto a calici di cristallo, davanti a sedie di legno massiccio. Il classico candeliere centrale era spento e la sua catena ritorta saliva verso le ombre del soffitto, dov’era stato dissimulato il meccanismo del rivelatore di veleni.
Il Duca, immobile sulla soglia, ispezionò la tavola, pensando al rivelatore di veleni e a quello che significava nella loro società.
Tutto in perfetta armonia, pensò. È possibile definirci in base al nostro linguaggio, ai differenti modi precisi e delicati con i quali amiamo somministrare una morte traditrice. Forse qualcuno proverà il chaumurky, questa sera: il veleno delle bevande? O sarà il chaumas: il veleno delle pietanze?
Scosse la testa.
Davanti ad ogni sedia, sulla tavola, una caraffa colma d’acqua. C’era abbastanza acqua, su quella tavola, valutò il Duca, da consentire a una famiglia povera di Arrakis di vivere per più di un anno.
Accanto a lui, vicino alla porta, due bacinelle rivestite di smalto giallo verde, ciascuna con la sua rastrelliera di asciugamani. La governante gli aveva spiegato che era costume, per gli ospiti al castello, immergere cerimoniosamente le mani in una bacinella, rovesciando parecchie scodelle d’acqua sul pavimento, asciugandosi poi le mani e gettando l’asciugamano nella pozza d’acqua sempre più larga, sul pavimento. Dopo il banchetto, i mendicanti si riunivano là fuori per strizzare l’acqua dagli asciugamani.
Com’è tipica di un feudo Harkonnen, pensò il Duca, qualsiasi degradazione che la mente umana riesca a concepire! Respirò a fondo; sentì la rabbia afferrarlo allo stomaco.
«Questa usanza finisce qui» mormorò.
Vide una cameriera (una di quelle vecchie asciutte e rugose che la governante aveva raccomandato) che si dirigeva verso l’ingresso delle cucine, davanti a lui. Il Duca alzò la mano e le fece un cenno. La cameriera uscì dall’ombra, scivolando lungo la tavola per raggiungerlo. Il Duca notò il suo viso, simile al cuoio, e gli occhi azzurri sul fondo azzurro.
«Il mio Signore desidera?» Teneva la testa abbassata, gli occhi socchiusi.
Il Duca fece un rapido gesto: «Porta via questi catini e questi asciugamani!»
«Ma… Nobile Nato…» alzò la testa e lo fissò, a bocca aperta.
«Conosco l’usanza» gridò il Duca. «Porta subito questi catini alla porta d’ingresso. Durante il banchetto, finché non sarà finito, tutti i mendicanti che verranno riceveranno una tazza piena d’acqua. Hai capito?»
Il suo viso simile al cuoio rivelò un turbine di emozioni: delusione, rabbia… Improvvisamente il Duca intuì che la donna aveva previsto di vendere l’acqua spremendola da quegli asciugamani calpestati, strappando qualche moneta ai miserabili che si fossero presentati alla porta. Forse anche questa era un’usanza.
Il suo volto si rabbuiò e ringhiò: «Metterò un uomo di guardia per assicurarmi che i miei ordini siano rispettati».
Si voltò di scatto e percorse a lunghi passi il corridoio che portava alla Grande Sala. I ricordi si agitavano nella sua mente, confusi come il mormorio di vecchie donne sdentate. Sconfinate distese d’acqua, di onde; giorni d’erba e non giorni di sabbia, e tutte le estati risplendenti che gli erano passate accanto in un attimo, come foglie nell’uragano.
Tutto finito.
Divento vecchio, pensò. Ho sentito la mano gelida della morte. E dove l’ho mai sentita? Nella rapacità di una vecchia!
Nella Grande Sala, Lady Jessica era al centro di un folto gruppo intorno al caminetto, dove crepitava un grande fuoco che illuminava di riflessi arancione i gioielli, i merletti, i tessuti preziosi. Riconobbe nel gruppo un fabbricante di tute distillanti di Carthag, un importatore di apparecchi elettronici, un convogliatore d’acqua la cui dimora estiva sorgeva accanto ai suoi impianti nella zona polare, un rappresentante della Banca della Gilda (magro e distaccato, come sempre), un commerciante di pezzi di ricambio per le apparecchiature estrattive della spezia, una donna sottile, dai lineamenti duri, il cui servizio di accompagnamento per i visitatori provenienti da altri pianeti era notoriamente una copertura per operazioni di contrabbando, spionaggio e ricatto.
La maggior parte delle donne nella Sala sembrava prodotta da un unico stampo, per uno scopo preciso: decorative, perfette fin nei minimi dettagli, una strana mescolanza di virtù intoccabile e di sensualità.
Anche senza il suo rango di padrona di casa, Jessica avrebbe dominato il gruppo. Non portava alcun gioiello e si era rivestita di toni caldi: il lungo vestito risplendeva quasi di un color fiamma e un nastro bruno come la terra era annodato intorno ai capelli color del bronzo.
Leto capì che lei voleva rimproverarlo, in questo modo elusivo, per la sua recente freddezza. Sapeva che lui la preferiva così vestita, una sinfonia di colori intensi.
Leggermente in disparte, Duncan Idaho, nella sua uniforme scintillante, il volto impassibile, i capelli neri e riccioluti perfettamente pettinati. Aveva lasciato i Fremen per ordine di Hawat: «Col pretesto di proteggerla, terrai Lady Jessica sotto continua sorveglianza».
Il Duca si guardò intorno.
In un angolo della sala, Paul era circondato da un gruppo di giovani delle famiglie più ricche di Arrakeen. A poca distanza, tre ufficiali della Casa. Il Duca osservò in particolare le fanciulle. Un ricco bottino di caccia per un erede ducale! Ma Paul trattava tutte allo stesso modo, nobilmente riservato.
Porterà bene il titolo, pensò il Duca, e con un brivido capì che anche questo era un pensiero di morte.
Paul scorse il padre sulla soglia ed evitò il suo sguardo. Osservò invece il gruppo degli invitati, le mani ingioiellate strette intorno ai bicchieri (e la discreta sorveglianza dei minuscoli rivelatori di veleni dissimulati tutto intorno). Paul provò un improvviso disgusto per tutte quelle bocche instancabili. Non erano altro che maschere a buon mercato, le quali nascondevano pensieri infetti: voci blateranti che si alzavano per cancellare lo squallido silenzio dei loro cuori.
Sono d’umor nero, pensò Paul, e si chiese che cosa avrebbe detto Gurney in proposito.
Conosceva l’origine di questa amarezza. Non avrebbe voluto partecipare a quella serata formale, ma suo padre era stato inflessibile: «Tu hai un rango, una posizione da difendere. Sei abbastanza adulto per farlo. Sei quasi un uomo, ormai».
Paul vide suo padre avanzare, ispezionare rapidamente la sala e quindi avvicinarsi al gruppo che circondava Lady Jessica.
Mentre Leto si avvicinava, il convogliatore d’acqua stava chiedendo: «È vero che il Duca vuole istituire un controllo del clima?»
«I miei progetti non giungono fino a questo punto» disse la voce del Duca, dietro le sue spalle.
L’uomo si voltò e lo fissò col suo viso tondo e abbronzato. «Ah, il Duca. Sentivamo la vostra mancanza.»
Leto guardò Jessica: «C’era una cosa che andava fatta». Rivolse nuovamente la sua attenzione al convogliatore d’acqua e descrisse quanto aveva deciso per le due bacinelle. «Per quanto mi riguarda, quella vecchia usanza finisce qui.»
«È un ordine ducale, mio Signore?»
«Lo lascio alla vostra… ah… coscienza» disse il Duca. Si voltò, poiché aveva visto Kynes avvicinarsi al gruppo.
«Penso che sia un gesto molto generoso» interloquì una delle donne del gruppo, «offrire acqua a…» Qualcuno la zittì.
Il Duca studiò Kynes, osservando che il planetologo indossava una uniforme bruno-scura, di vecchio stampo, con le spalline del Servizio Imperiale e una microscopica goccia d’oro sul colletto, che indicava il suo rango.
Il convogliatore d’acqua insistette con acrimonia: «Il Duca intende forse criticare i nostri costumi?»
«Questo costume è stato cambiato» replicò Leto. Salutò Kynes con un lieve cenno del capo e notò che Jessica si era accigliata. Aggrottare le sopracciglia non è da lei, pensò, ma servirà ad alimentare le voci di un attrito fra noi.
«Col permesso del Duca» riprese il convogliatore d’acqua, «vorrei approfondire il discorso sui costumi.»
Leto percepì l’improvvisa untuosità della sua voce e il silenzio del gruppo, mentre tutte le teste, nella sala, si volgevano verso di loro.
«Non è quasi l’ora di cena?» disse Jessica.
«Ma il nostro ospite ci ha posto una domanda» rispose Leto. E guardò il convogliatore d’acqua, mentre quel viso rotondo, i grandi occhi e le labbra tumide gli richiamavano alla mente il rapporto di Hawat: «…e questo convogliatore d’acqua è un uomo da sorvegliare. Ricordate il suo nome: Lingar Bewt. Gli Harkonnen l’hanno usato, ma senza mai controllarlo completamente».
«Le usanze relative all’acqua sono così interessanti» disse Bewt, e un sorriso si disegnò sul suo volto. «Sono curioso di sapere cosa intendete fare della serra annessa a questa casa. Continuerete per molto a ostentarla davanti a tutti… mio Signore?»
Leto dominò la rabbia, mentre fissava l’uomo. I pensieri gli turbinavano nella mente. C’era voluto del coraggio per sfidarlo nel suo stesso castello, specialmente ora che la firma di Bewt figurava su un contratto di lealtà. Certo, quell’uomo sembrava godere di un certo potere personale. L’acqua, in questo mondo, era potenza. Se gli impianti dell’acqua fossero stati minati, e pronti ad essere distrutti, a un segnale… A giudicare dal suo aspetto, quell’uomo sarebbe stato capace di farlo. La distruzione degli impianti dell’acqua avrebbe quasi certamente segnato la fine di Arrakis. Questa doveva essere la minaccia che Bewt aveva usato con gli Harkonnen.
«Il mio Signore e io abbiamo altri progetti per la nostra serra» intervenne Jessica. Sorrise a Leto: «Intendiamo conservarla, certo, ma soltanto a nome del popolo di Arrakis. Il nostro sogno è che un giorno il clima possa cambiare al punto che sia possibile far crescere dovunque, all’aperto, queste piante».
Sia benedetta! pensò Leto. Vediamo come l’inghiotte il nostro convogliatore d’acqua.
«Il vostro interesse per l’acqua e il controllo del clima è ovvio» disse il Duca. «Vi consiglio di orientare diversamente i vostri interessi. Un giorno l’acqua non sarà più una merce preziosa, su Arrakis.»
E pensò ancora: Hawat deve raddoppiare i suoi sforzi per infiltrarsi in questa organizzazione dei Bewt. E dobbiamo raddoppiare subito la sorveglianza sui nostri impianti dell’acqua. Nessuno può tenere una simile spada di Damocle sulla mia testa!
Bewt annuì, continuando a sorridere: «Un bel sogno, mio Signore» fece un passo indietro.
Leto si accorse allora dell’espressione sul volto di Kynes. L’uomo stava guardando Jessica, e sembrava trasfigurato: come un uomo innamorato… o sorpreso in una trance religiosa.
I pensieri di Kynes erano stati travolti dalle parole della profezia: «E divideranno con voi il vostro sogno più prezioso». Parlò direttamente a Jessica: «Ci avete forse portato la via più breve?»
«Ah, dottor Kynes» disse il convogliatore d’acqua. «Siete venuto, dunque; avete interrotto le scorribande con quella orda di Fremen. Molto gentile da parte vostra!»
Kynes scambiò con Bewt uno sguardo indecifrabile, e replicò: «Nel deserto si dice che il possesso di grandi quantità d’acqua porta l’uomo a fatali imprudenze».
«C’è un mucchio di detti strani, nel deserto» ribatté Bewt, ma la sua voce tradì l’incertezza.
Jessica si avvicinò a Leto e fece scivolare la mano sotto il suo braccio, cercando disperatamente di dominarsi. Kynes aveva detto: «La via più breve». Nell’antica lingua, queste parole potevano esser tradotte con «Kwisatz Haderach». La strana domanda del planetologo sembrava essere sfuggita all’attenzione degli altri e ora Kynes stava curvandosi verso una delle donne del gruppo, prestando orecchio a qualche pettegolezzo sussurrato.
Kwisatz Haderach, pensò Jessica. Forse la nostra Missionaria Protectiva ha seminato anche qui la leggenda? Questo pensiero riaccese in lei le segrete speranze che nutriva per Paul. Potrebbe essere lo Kwisatz Haderach. Sì, potrebbe esserlo.
Il rappresentante della Banca della Gilda stava conversando col convogliatore d’acqua, e la voce di Bewt risuonò per un istante sul brusio della conversazione: «Molte persone hanno cercato di cambiare Arrakis».
Il Duca notò fino a qual punto Kynes fosse sensibile a queste parole, raddrizzandosi di scatto e abbandonando la dama e i suoi frivoli conversari.
Nell’improvviso silenzio che seguì, un soldato della Casa in tenuta da valletto si schiarì la gola, alle spalle di Leto, e annunciò: «La cena è servita, mio Signore».
Il Duca lanciò un’occhiata interrogativa a Jessica.
«Il costume, su questo mondo, impone che il padrone e la padrona di casa seguano i loro ospiti verso la tavola» disse lei con un sorriso. «Cambiamo anche questa usanza, mio Signore?»
Lui replicò, gelido: «Mi sembra un buon costume. Per ora lo lasceremo immutato».
L’illusione che io la sospetti di tradimento dev’essere mantenuta, pensò, e guardò gli ospiti che passavano accanto a loro: Chi tra voi crede a questa menzogna?
Jessica avvertì il suo distacco e una volta ancora si chiese la ragione, come aveva fatto assai spesso in quella settimana: Agisce come un uomo in lotta con se stesso. È forse perché ho organizzato questa serata così presto? E tuttavia, anche lui sa quant’è importante che cominciamo subito a mescolare i nostri ufficiali e i nostri uomini con i notabili di Arrakis. Noi teniamo il posto del padre e della madre per tutti loro. Niente potrebbe confermarlo meglio di queste riunioni di società.
Leto, nell’osservare gli ospiti che gli passavano accanto, ricordò le parole di Thufir Hawat, al primo annuncio dell’avvenimento: «Signore, lo proibisco!»
Un sorriso amaro comparve sul volto del Duca. Che scena, era stata! E quando il Duca si era mostrato irremovibile nella sua decisione di presenziare alla cena, Hawat aveva scosso a lungo la testa: «Ho una brutta sensazione, mio Signore» aveva detto. «Le cose si muovono troppo rapidamente su Arrakis. Non è il modo di agire degli Harkonnen. Non lo è affatto.»
Paul passò accanto a suo padre, scortando una giovane donna di mezza testa più alta di lui. Lanciò un’occhiata gelida a suo padre e nello stesso tempo annuì a qualcosa che la ragazza gli aveva detto.
«Suo padre è un fabbricante di tute distillanti» disse Jessica. «Mi dicono che solo un pazzo si farebbe cogliere nel deserto indossando una delle tute di quell’uomo.»
«Chi è l’uomo con la cicatrice sul volto, davanti a Paul? Non riesco a identificarlo.»
«Un invitato dell’ultimo momento» bisbigliò Jessica. «L’ha introdotto Gurney. È un contrabbandiere.»
«Gurney l’ha invitato?»
«Dietro mia richiesta. È stato garantito da Hawat, anche se penso che non ne sia stato molto entusiasta. Il contrabbandiere si chiama Tuek: Esmar, Tuek. È una potenza, nel suo ambiente. Qui lo conoscono tutti. È stato ospite nella maggior parte delle dimore.»
«Perché è qui?»
«Tutti si faranno la stessa domanda» replicò Jessica. «Tuek seminerà dubbi e sospetti solo per il fatto di essere presente. Farà credere, inoltre, che tu sia deciso a far rispettare i tuoi ordini contro la corruzione anche con l’appoggio dei contrabbandieri. Quest’ultima cosa è piaciuta a Hawat.»
«Non sono sicuro che la cosa piaccia a me.» Salutò con un cenno del capo una coppia che passava e vide che nella Sala restavano solo pochi invitati. «Perché non hai invitato anche qualche Fremen?»
«C’è Kynes» rispose lei.
«Sì, c’è Kynes» disse il Duca. «Mi hai preparato qualche altra piccola sorpresa?» La condusse in coda al corteo, verso la sala del banchetto.
«Tutto il resto è normalissimo» rispose Jessica.
E pensò: Mio caro, non capisci che questo contrabbandiere dispone di astronavi veloci e potrebbe essere corrotto? Che dobbiamo tenere aperta una via di fuga? Una porta per uscire da Arrakis se tutto il resto dovesse fallire?
Mentre facevano ingresso nella sala da pranzo, Jessica liberò il braccio e Leto l’aiutò a sedersi. Poi il Duca si diresse alla sua estremità della tavola. Un valletto era pronto a porgergli la sedia. Tutti gli altri si accomodarono con un fruscio di tessuti e un rumore di sedie smosse, ma il Duca restò in piedi. Fece un gesto con la mano, e i soldati della Casa in tenuta da valletti, tutt’intorno alla tavola, fecero un passo indietro e scattarono sull’attenti.
La stanza piombò in un silenzio inquieto.
Jessica, dall’altra estremità della tavola, percepì un leggero tremito agli angoli della bocca di Leto e gli vide le guance avvamparsi di rabbia. Che cosa mai lo ha fatto infuriare? si chiese. Certamente non il fatto che io abbia invitato il contrabbandiere.
«Alcuni» disse il Duca, «hanno contestato il fatto che io abbia soppresso il costume dei catini. Questo è il mio modo di dirvi che molte cose cambieranno.»
Un silenzio imbarazzato regnò lungo la tavola.
Credono che sia ubriaco, pensò Jessica.
Leto alzò la sua caraffa d’acqua, tenendola alta in modo che scintillasse alla luce delle lampade sospese. «Quindi, come Cavaliere dell’Impero» disse, «brindo alla vostra salute.»
Gli altri afferrarono le loro caraffe, continuando a fissare il Duca. Nell’improvvisa immobilità, una lampada sospesa si mosse lievemente sospinta da un alito d’aria proveniente dal corridoio. Le ombre giocarono sui lineamenti da falco del Duca.
«Qui sono e qui resto!» gridò il Duca.
Vi fu un movimento, bloccato a metà, di tutte le caraffe verso la bocca… ma il Duca aveva ancora il braccio alzato. «Il mio brindisi è una di quelle massime così care ai vostri cuori: ’Sono gli affari che fanno il progresso! Dovunque, la fortuna passa!’»
Inghiottì una lunga sorsata.
Gli altri si unirono a lui, scambiandosi occhiate interrogative.
«Gurney!» chiamò il Duca.
La voce di Halleck giunse da un’alcova, da qualche parte dietro di lui: «Sono qui, mio Signore!»
«Cantaci una canzone, Gurney.»
Un accordo in minore del baliset risuonò nell’alcova. A un gesto del Duca i servitori cominciarono a sistemare sul tavolo i piatti con le vivande: lepre del deserto arrostita in salsa cepeda, aplomage siriano, chukka glassato, caffè con melange (un denso odore di cinnamomo aleggiò in tutta la sala), un’autentica oca alla creta servita con vino frizzante di Caladan.
E il Duca era ancora in piedi.
Mentre gli ospiti aspettavano, l’attenzione divisa fra i piatti prelibati davanti a loro e il Duca in piedi, Leto disse: «Ai vecchi tempi era un preciso dovere del padrone di casa intrattenere gli ospiti secondo il suo talento». Strinse ferocemente la caraffa, al punto che le giunture delle sue dita divennero bianche. «Io non posso cantare, ma vi dirò le parole della canzone di Gurney. Consideratelo un altro brindisi… un brindisi a tutti coloro che sono morti per condurci fin qui.»
Intorno alla tavola tutti si agitarono, inquieti.
Jessica abbassò lo sguardo, osservando quelli seduti accanto a lei: il convogliatore d’acqua con la sua dama, il rappresentante della Banca della Gilda, pallido e austero (sembrava uno spaventapasseri, col suo lungo viso dagli occhi stralunati), Tuek, il volto coriaceo attraversato dalla cicatrice, gli occhi interamente azzurri rivolti in basso.
«’Contatevi, amici… soldati da lungo tempo non più passati in rivista!’» declamò il Duca. «’Il vostro destino è un fardello di dolore e di dollari. Le loro anime pesano sui vostri monili d’argento. Contatevi, amici… soldati da lungo tempo non più passati in rivista! A ciascuno il suo tempo, senza ingiuste pretese o frodi. Non più le lusinghe della fortuna. Contatevi, amici… soldati da lungo tempo non più passati in rivista! Quando il nostro tempo finisce col suo ultimo sogghigno, dite addio alla fortuna e ai suoi inganni!’»
Il Duca lasciò che la sua voce si spegnesse lentamente sull’ultimo verso, e inghiottì un’abbondante sorsata dalla sua caraffa, appoggiandola poi con violenza sul tavolo. L’acqua schizzò fuori dall’orlo e inzuppò la tovaglia.
Gli altri bevettero in silenzio, imbarazzati.
Ancora una volta il Duca sollevò la sua caraffa, e questa volta la vuotò per metà sul pavimento, sapendo che tutti gli altri, intorno alla tavola, avrebbero dovuto fare lo stesso.
Jessica fu la prima a seguire il suo esempio.
Per un attimo il tempo sembrò fermarsi, prima che gli altri cominciassero a vuotare le loro caraffe. Jessica vide che Paul, seduto accanto al padre, stava studiando le reazioni intorno a lui. Scoprì inoltre di essere affascinata da quanto stavano rivelando le reazioni degli ospiti… specialmente le donne. Questa era acqua pulita, potabile, non già un asciugamano inzuppato. La riluttanza a gettarla via traspariva dal tremito delle mani, dal ritardo delle loro reazioni, dalle risatine nervose… tutto rivelava la violenza che dovevano fare a se stesse. Una delle dame lasciò cadere la caraffa per terra e voltò la testa quando il suo compagno la raccolse.
Kynes, tuttavia, attirò più di tutti la sua attenzione. Il planetologo esitò, poi vuotò la sua caraffa in un contenitore nascosto sotto la giacca. Sorrise a Jessica, quando la sorprese a guardarlo, e alzò la caraffa vuota verso di lei in un brindisi silenzioso. Non sembrò per nulla imbarazzato dal suo gesto.
La musica di Halleck si diffondeva nella sala, ma non più in chiave minore: era vivace e cadenzata, ora, come se Gurney cercasse di risollevare gli spiriti.
«Che il banchetto cominci» disse il Duca, e sprofondò nella sua sedia.
È infuriato, e incerto, pensò Jessica. La perdita di quel trattore lo ha colpito più profondamente del necessario. Dev’esserci qualcos’altro, in quella perdita. Agisce come un uomo disperato. Afferrò la forchetta, sperando con quel gesto di nascondere la sua improvvisa amarezza. E perché non dovrebbe? È veramente disperato.
Prima lentamente, poi con crescente animazione, la cena ebbe inizio. Il fabbricante di tute distillanti si complimentò con Jessica per la bravura del cuoco e per il vino.
«Li abbiamo portati entrambi da Caladan» rispose Jessica.
«Superbo!» commentò il fabbricante, gustando il chukka. «Semplicemente superbo! E non una sola goccia di melange, qua dentro… Uno finisce per stancarsi, trovando la spezia dappertutto!»
Il rappresentante della Banca della Gilda si rivolse a Kynes: «Mi dicono, dottor Kynes, che un altro trattore è stato inghiottito da un verme».
«Le notizie fanno presto a viaggiare» disse il Duca.
«Allora è vero?» insistette il banchiere, rivolgendosi a Leto.
«Naturalmente è vero!» replicò bruscamente il Duca. «E quella maledetta ala trasporto è scomparsa. Com’è possibile che un apparecchio di quelle dimensioni scompaia?»
«Quando il verme è arrivato» spiegò Kynes, «non era più possibile salvare il trattore.»
«Una cosa simile non dovrebbe poter accadere!» ripeté il Duca.
«Nessuno ha visto scomparire l’ala?» chiese il banchiere.
«I ricognitori di solito tengono gli occhi puntati sulla sabbia» disse Kynes. «Danno la caccia ai segni del verme. L’equipaggio di un’ala è formato di solito da quattro uomini: due piloti e due tecnici. Se uno o due uomini fossero al soldo dei nemici del Duca…»
«Ahhh, vedo» esclamò il banchiere. «E voi, come Arbitro del Cambio, sosterreste l’accusa?»
«Devo considerare la mia posizione con particolare cautela» replicò Kynes, «e certamente non la discuterò qui a tavola.» Questo pallido scheletro d’uomo! Sa perfettamente che questo è il tipo d’infrazione che mi hanno imposto d’ignorare.
Il banchiere sorrise e rivolse nuovamente ogni sua attenzione al piatto.
Jessica si ricordò di una lezione alla Scuola Bene Gesserit. Una lezione di spionaggio e controspionaggio. Una Reverenda Madre dal volto roseo e soddisfatto le aveva istruite, con una voce allegra che era curiosamente in contrasto con l’argomento trattato: «C’è un fatto da prendere in considerazione per qualsiasi Scuola di spionaggio e controspionaggio, ed è il tipo di reazione, fondamentalmente uguale per tutti i diplomati di queste scuole. Ogni disciplina ristretta lascia il suo stampo sugli studenti. Uno stampo suscettibile di analisi e quindi di previsione.
«Le motivazioni, infatti, saranno simili in tutti gli agenti di spionaggio. Ciò significa che anche in Scuole diverse, o con scopi opposti, certe motivazioni saranno identiche. Prima di tutto imparerete a isolare questi elementi nella vostra analisi; all’inizio, con schemi d’interrogatorio che tradiranno l’orientamento interiore degli interrogati; poi esaminando attentamente il modo in cui pensano e si esprimono i soggetti sotto analisi, naturalmente tramite la loro inflessione di voce e le forme espressive da loro usate».
Jessica rabbrividì sentendo quanto aveva percepito, mentre era seduta a tavola con suo figlio, il Duca e gli invitati ascoltando il rappresentante della Banca della Gilda.
Quell’uomo era una spia degli Harkonnen. Aveva le forme espressive di Giedi Primo… abilmente mascherate, ma ugualmente inconfondibili per la sua percezione addestrata.
Significa forse che la stessa Gilda ha preso posizione contro la Casa degli Atreides? si chiese. Il pensiero la sconvolse. Mascherò l’emozione chiedendo che le portassero un altro piatto e dedicò tutta la sua attenzione all’uomo, sperando che tradisse le sue intenzioni. Porterà la conversazione su argomenti in apparenza banali, ma con implicazioni minacciose, disse tra sé. Questo è il suo stampo d’azione.
Il banchiere inghiottì, sorseggiò il vino e sorrise a qualcosa che gli aveva detto la dama alla sua destra. Sembrò prestare orecchio per un attimo a un uomo all’altra estremità della tavola, il quale stava spiegando al Duca come le piante native di Arrakis non avessero spine.
«Mi piace studiare il volo degli uccelli su Arrakis» disse il banchiere, rivolgendosi a Jessica. «Tutti i nostri uccelli, naturalmente, sono mangiatori di carogne e molti possono vivere senz’acqua perché sono bevitori di sangue.»
La figlia del fabbricante di tute distillanti, seduta fra Paul e suo padre all’altra estremità del tavolo, fece una smorfia accigliandosi e replicò: «Oh, Soo-Soo, voi dite le cose più disgustose!»
Il banchiere sorrise: «Mi chiamano Soo-Soo perché sono il consigliere finanziario del Sindacato dei Venditori Ambulanti d’Acqua». E, mentre Jessica continuava a guardarlo in silenzio, spiegò: «Il grido dei venditori d’acqua: ’Soo-Soo Sook!’» E imitò il richiamo con tale perfezione che molti intorno al tavolo scoppiarono a ridere.
Jessica percepì la vanagloria nella sua voce, ma notò in particolare che la giovane donna era intervenuta come a un segnale, come se tutto il dialogo fosse stato preparato in anticipo, per consentire al banchiere di gridare il suo richiamo. Jessica fissò Lingar Bewt. Il magnate dell’acqua aveva aggrottato le sopracciglia, concentrandosi sul piatto. Jessica sapeva fin troppo bene che il banchiere in realtà aveva detto: «Anch’io controllo la fonte ultima del potere su Arrakis, l’acqua!»
Anche Paul aveva percepito la falsità nella voce della sua compagna e si avvide che sua madre stava seguendo la conversazione con l’attenzione di una Bene Gesserit. D’impulso decise di contrattaccare per costringere l’avversario a una risposta chiarificatrice. Si rivolse al banchiere:
«Volete forse dire, signore, che questi uccelli sono cannibali?»
«È una strana domanda, Giovane Duca» rispose il banchiere. «Io ho detto soltanto che bevono il sangue. Non è necessario che sia il sangue di quelli della loro razza, no?»
«Non era affatto una strana domanda» ribatté Paul, e Jessica notò la tagliente incisività della sua replica, frutto del suo addestramento. «Quasi tutte le persone istruite sanno che per un organismo giovane la massima competizione viene dagli esseri della sua specie.» Ostentatamente infilò con la forchetta un boccone sul piatto della sua giovane compagna e lo inghiottì. «Mangiano allo stesso piatto. Le loro necessità sono identiche.»
Il banchiere s’irrigidì e fissò torvamente il Duca.
«Non commettete l’errore di considerare mio figlio un fanciullo» disse il Duca. E sorrise.
Jessica con una rapida occhiata studiò gli invitati e vide che Bewt si era rasserenato, mentre Kynes e Tuek, il contrabbandiere, sogghignavano.
«È una precisa legge ecologica» confermò Kynes, «che il Giovane Duca sembra aver capito molto bene. La lotta tra i vari elementi della vita è la lotta per l’energia libera di un sistema. Il sangue è una fonte d’energia molto efficiente.»
Il banchiere depositò la forchetta nel piatto e replicò, in tono irato: «Si dice che quei pezzenti dei Fremen bevano il sangue dei loro morti!»
Kynes scosse la testa e riprese col tono di un conferenziere: «Non il sangue, signore, ma tutta l’acqua di un uomo, al suo ultimo istante, appartiene al suo popolo… alla sua tribù. È una necessità, quando si vive ai bordi della Grande Distesa. Tutta l’acqua è preziosa, laggiù, e il corpo umano è composto per il settanta per cento del suo peso di acqua. Un morto, sicuramente, non ne ha più bisogno».
Il banchiere appoggiò ambedue le mani sul tavolo ai lati del piatto, e Jessica pensò che fosse sul punto di scostare la sedia e di andarsene, in preda a un accesso di rabbia.
Kynes guardò Jessica: «Perdonatemi, mia Signora, se ho parlato di un argomento così sgradevole a tavola, ma vi era stata riferita una menzogna ed era necessario smentirla».
«Siete vissuto così a lungo coi Fremen da perdere ogni sensibilità!» ribatté il banchiere con voce stridula.
Kynes lo fissò con calma, studiando il volto pallido e tremante: «Mi state forse sfidando, signore?»
Il banchiere s’irrigidì. Deglutì, poi disse in fretta: «Naturalmente, no. Non mi permetterei mai d’insultare così i nostri ospiti».
Jessica percepì la paura nella voce dell’uomo, la lesse nel suo viso, nel suo respiro, nel battito di una vena alla tempia. L’uomo aveva terrore di Kynes!
«I nostri ospiti sono in grado di decidere da soli quando sono stati insultati» disse Kynes. «Sono coraggiosi e capiscono quando è necessario difendere l’onore. Siamo tutti testimoni del loro coraggio, per il solo fatto che sono qui… ora… su Arrakis.»
Jessica vide che Leto stava godendosi la scena. La maggior parte degli altri, tuttavia, no. Tutti, intorno alla tavola, sembravano sul punto di fuggire. Tenevano le mani nascoste. Le uniche eccezioni degne di nota erano Bewt, che sorrideva apertamente allo sconforto del banchiere, e il contrabbandiere Tuek, che sembrava fissare Kynes in attesa di un segnale. Quanto a Paul, guardava Kynes con sconfinata ammirazione.
«Allora?» disse Kynes.
«Non intendevo offendere» mormorò il banchiere. «Se ho dato l’impressione di essere offensivo, accettate le mie scuse.»
«Liberamente date, liberamente accettate» dichiarò Kynes. Sorrise a Jessica e riprese a mangiare, come se niente fosse accaduto.
Jessica vide che, contemporaneamente, il contrabbandiere si era rilassato. Prese nota mentalmente: quell’uomo aveva tutto l’aspetto di un aiutante pronto a balzare in aiuto di Kynes. Tra lui e Kynes c’era un qualche tipo di accordo.
Leto giocherellò con la forchetta guardando Kynes e meditando. Il suo modo di comportarsi stava a indicare che aveva cambiato atteggiamento nei confronti della Casa degli Atreides. Kynes gli era sembrato scostante durante il viaggio attraverso il deserto.
Jessica accennò ai servitori che portassero altro cibo e bevande. Comparvero langue de lapin de garenne con vino rosso e una salsa di funghi servita a parte.
Lentamente la conversazione riprese, ma Jessica percepì l’agitazione, sotto il brusio delle voci, e qualcosa d’impacciato; vide che il banchiere mangiava in un silenzio imbronciato. Kynes lo avrebbe ucciso senza esitare, pensò. Nel comportamento di Kynes tutto indicava una facile disposizione all’omicidio. Poteva uccidere con estrema facilità, e indovinò in questo una caratteristica dei Fremen.
Jessica si rivolse al fabbricante di tute distillanti, alla sua sinistra, e disse: «L’importanza dell’acqua su Arrakis è una continua fonte di meraviglia, per me».
«È molto importante, infatti» assentì l’uomo. «Che cos’è questa pietanza? È deliziosa.»
«Lingue di coniglio selvatico in una salsa speciale» rispose lei. «Una ricetta molto antica.»
«Vorrei proprio saperla.»
Jessica annuì: «Ve la farò avere».
Kynes guardò Jessica e disse: «Chi è appena arrivato su Arrakis spesso sottovaluta l’importanza dell’acqua in questo mondo. Vedete, qui noi dobbiamo affrontare la Legge del Minimo».
Dal tono della sua voce, lei capì che la stava mettendo alla prova, e rispose: «’La crescita è limitata dall’elemento essenziale che è presente in minor quantità.’ È appunto la condizione più sfavorevole che determina il tasso di crescita».
«È raro incontrare un membro delle Grandi Case che sia al corrente dei problemi planetologici» replicò Kynes. «Su Arrakis, la condizione più sfavorevole è l’acqua. E ricordate che la crescita stessa può produrre condizioni sfavorevoli, a meno che non sia condotta con estrema cautela.»
Jessica percepì un messaggio nascosto nelle parole di Kynes, ma non riuscì ad afferrarlo. «La crescita» replicò. «Volete forse dire che Arrakis potrebbe avere un ciclo d’acqua meglio organizzato per consentire agli uomini condizioni di vita più favorevoli?»
«Impossibile!» abbaiò il convogliatore d’acqua.
Jessica rivolse la sua attenzione a Bewt: «Impossibile?»
«Impossibile su Arrakis. Non date retta a questo sognatore. Tutte le prove di laboratorio sono contro di lui.»
Kynes fissò Bewt, e Jessica si accorse che tutte le altre conversazioni intorno alla tavola si erano interrotte, mentre la gente si concentrava su questo nuovo scontro.
«Le prove di laboratorio ci nascondono un fatto assai semplice» disse Kynes. «Il fatto è questo: si tratta di problemi che hanno avuto origine e perdurano all’esterno, dove piante a animali conducono un’esistenza normale!»
«Normale!» sbuffò Bewt. «Non c’è niente di normale su Arrakis!»
«Proprio il contrario» ribatté Kynes. «Certe armonizzazioni vitali potrebbero essere instaurate quaggiù, lungo linee di sviluppo autosufficienti. È unicamente questione di capire i limiti del pianeta e le pressioni che si esercitano su di esso.»
«Non sarà mai fatto» disse Bewt.
Il Duca improvvisamente ricordò quando Kynes aveva cambiato il suo atteggiamento verso di loro: era stato nel momento in cui Jessica aveva parlato di conservare le piante della serra nel nome del popolo di Arrakis.
«Che cosa è necessario per mettere a punto un sistema autosufficiente, dottor Kynes?» domandò Leto.
«Se riusciamo a far sì che almeno il tre per cento delle piante di Arrakis produca composti di carbonio commestibili, allora avremo innescato un sistema ciclico» spiegò Kynes.
«E l’acqua è l’unico problema?» chiese ancora il Duca. Sentì l’eccitazione di Kynes, e lui stesso vi partecipò.
«Quello dell’acqua fa dimenticare gli altri problemi» continuò Kynes. «Questo pianeta ha molto ossigeno, ma non le altre caratteristiche che normalmente l’accompagnano: una vita vegetale assai sviluppata e importanti sorgenti di anidride carbonica, per esempio fenomeni vulcanici. Su vastissime aree di Arrakis avvengono fenomeni chimici del tutto insoliti.»
«Avete un progetto pilota?»
«Abbiamo impiegato molto tempo per mettere a punto l’Effetto Tansley… esperimenti in miniatura a livello dilettantesco, dai quali però la mia scienza può ora dedurre le applicazioni pratiche.»
«Non c’è abbastanza acqua» insistette Bewt. «Non c’è abbastanza acqua. È tutto.»
«Mastro Bewt è un esperto d’acqua» disse Kynes. Sorrise e riprese a mangiare.
Il Duca fece un gesto violento con la mano, e gridò: «No! Esigo una risposta! C’è abbastanza acqua, dottor Kynes?»
Kynes fissò il suo piatto.
Jessica studiò il gioco delle emozioni sul suo viso. Sa nasconderle molto bene, pensò. Ma ormai l’aveva fin troppo ben registrato e capiva che Kynes si era pentito delle sue parole.
«C’è abbastanza acqua?» ripeté il Duca.
«È… possibile» disse infine Kynes.
Finge di essere incerto! pensò Jessica.
Col suo acuto senso della verità, Paul ne afferrò il motivo nascosto e fu costretto a far ricorso a tutto il suo addestramento per mascherare l’eccitazione. C’è acqua a sufficienza. Ma Kynes non vuole che si sappia!
«Il nostro planetologo fa anche altri sogni molto interessanti» riprese Bewt. «In compagnia dei Fremen sogna… di profezie e di messia.»
Risate soffocate si levarono dai punti più imprevisti, intorno alla tavola. Jessica si stupì… avevano riso il contrabbandiere, la figlia del fabbricante di tute distillanti, Duncan Idaho e la donna dal misterioso servizio di scorta.
La tensione è curiosamente distribuita questa sera, disse tra sé. Accadono troppe cose che ignoro. Devo procurarmi nuove fonti d’informazione.
Gli occhi del Duca corsero da Kynes a Bewt, a Jessica. Si sentì stranamente trascurato come se gli fosse sfuggito qualcosa di vitale. «Possibile» mormorò.
Kynes proseguì rapidamente: «Forse dovremmo discutere di tutto questo in un’altra occasione, mio Signore. Ci sono tanti…»
Il planetologo s’interruppe, mentre un soldato in uniforme Atreides, comparso all’improvviso alla porta di servizio, fu fatto passare dalla guardia e si avvicinò di corsa al Duca. L’uomo si piegò e sussurrò qualcosa al suo orecchio.
Jessica identificò le insegne di Hawat sul berretto dell’uomo e cercò di dominare la sua inquietudine. Si rivolse alla dama che accompagnava il fabbricante di tute distillanti (una donna piccola dai capelli scuri, un viso di bambola e occhi leggermente bistrati).
«Avete appena toccato il cibo, mia cara» le disse. «Posso ordinare qualcosa per voi?»
La donna fissò per un attimo il fabbricante di tute, poi rispose: «Non ho molta fame…»
Improvvisamente il Duca balzò in piedi accanto al soldato e parlò con un aspro tono di comando: «Tutti restino seduti. Scusatemi, ma c’è qualcosa che richiede la mia personale attenzione». Si scostò dal tavolo: «Paul, prendi il mio posto, per favore».
Paul si alzò. Avrebbe voluto chiedere a suo padre per quale ragione doveva assentarsi, ma sapeva di dover agire nel modo più solenne. Per cui si avvicinò alla sedia di suo padre e si sedette.
Il Duca, allora, si voltò verso l’alcova dov’era Halleck e gli disse: «Gurney, per favore, prendi il posto di Paul. Non dobbiamo essere in numero dispari a tavola. Quando la cena sarà finita, forse ti chiederò di portare Paul al campo. Tienti pronto per la mia chiamata.»
Halleck emerse dall’alcova. Era in alta tenuta, ma il suo aspetto sgraziato sembrava fuori posto in mezzo all’eleganza scintillante della Richece di Arrakis. Appoggiò il baliset alla parete, si diresse verso la sedia che Paul aveva occupato e si sistemò.
«Non c’è ragione di allarmarsi» disse ancora il Duca, «ma devo chiedere a ciascuno di voi di non allontanarsi finché le mie guardie non garantiranno che non c’è pericolo. Sarete perfettamente al sicuro, qui, e sbrigheremo subito questo piccolo contrattempo.»
Paul afferrò le parole in codice di suo padre: guardie… pericolo… sicuro… subito.
Era un problema di sicurezza, non di violenza. Vide che anche sua madre aveva afferrato il messaggio. Entrambi si rilassarono.
Il Duca fece un ultimo cenno con il capo, si voltò e uscì dalla porta di servizio seguito dal soldato.
Paul disse: «Prego, continuate pure la vostra cena. Mi sembra che il dottor Kynes stesse parlando dell’acqua».
«Potremmo discuterne un’altra volta?» fece Kynes.
«Ma certamente» acconsentì Paul.
Jessica notò con orgoglio la dignità di suo figlio, la sua maturità.
Il banchiere afferrò la sua caraffa e accennò con essa a Bewt: «Nessuno di noi può superare Mastro Lingar Bewt, quanto a linguaggio fiorito. Ci si potrebbe quasi convincere che aspiri al rango delle Grandi Case. Avanti, Mastro Bewt, a voi questo brindisi. Forse potrete esibire qualche perla di saggezza per questo ragazzo che dev’essere trattato come un uomo».
Sotto la tavola Jessica strinse i pugni. Vide Halleck fare un cenno a Idaho e i soldati lungo le pareti tendere i muscoli, pronti a balzare.
Bewt lanciò un’occhiata velenosa al banchiere.
Paul guardò a sua volta Halleck, notò la posizione difensiva delle guardie, poi fissò il banchiere finché l’uomo abbassò la caraffa. Allora disse: «Una volta, su Caladan, vidi il corpo di un pescatore annegato. L’avevano appena ripescato. Egli…»
«Annegato?» (era la figlia del fabbricante di tute distillanti).
Paul esitò, poi: «Sì, immerso nell’acqua fino a morirne. Annegato».
«Che modo interessante di morire…» commentò lei.
Il sorriso di Paul s’indurì. Riportò la sua attenzione al banchiere: «C’era una cosa interessante, su quest’uomo: le ferite alle spalle… Erano state prodotte dai ramponi degli stivali di un altro pescatore. L’annegato era insieme con molti altri pescatori sulla barca… (un apparecchio per viaggiare sull’acqua)… che era affondata… sprofondata sott’acqua. Uno degli uomini che avevano aiutato a recuperare la salma disse di aver visto segni simili alle ferite del morto molte altre volte: volevano dire che un altro pescatore, sul punto di affogare, si era sforzato di stare in piedi sulle spalle di quel disgraziato nel tentativo di raggiungere la superficie… di raggiungere l’aria».
«Perché mai ci raccontate tutto questo?» chiese il banchiere.
«Mio padre, in quell’occasione, fece un commento interessante. Disse che se un uomo, sul punto di affogare, si arrampica sulle spalle di un altro per salvarsi è comprensibile, ma è intollerabile quando il fatto accade in un salotto!» Paul esitò quel che bastava perché il banchiere indovinasse il seguito. Poi: «Io vorrei aggiungere: quando accade al tavolo di un banchetto!»
La sala piombò nel più completo silenzio.
Temerario, pensò Jessica. Questo banchiere potrebbe essere di un rango abbastanza alto per sfidare mio figlio. Vide che Idaho era pronto a scattare. Anche i soldati erano in allarme. Gurney aveva gli occhi puntati sugli uomini che lo fronteggiavano.
«Ah-ah-ah-aaaaah\» Tuek, il contrabbandiere, rovesciato all’indietro, rideva senza alcun ritegno.
Sorrisi nervosi comparvero tutto intorno alla tavola.
Bewt sogghignò a sua volta.
Il banchiere, che aveva spinto indietro la sedia con un gesto impulsivo, fissava Paul con occhi carichi di odio.
Kynes commentò: «Chi stuzzica un Atreides, lo fa a suo rischio e pericolo».
«È forse un costume degli Atreides quello d’insultare i propri ospiti?» chiese il banchiere.
Prima che Paul potesse rispondere, Jessica si piegò in avanti e disse: «Signore?» E pensò: Dobbiamo sapere quale sia il gioco di questa creatura degli Harkonnen. È qui per provocare Paul? Ha forse chi l’aiuta?
«Mio figlio ha parlato in termini generici; voi vi riconoscete?» continuò. «Che affascinante rivelazione!» Fece scivolare una mano verso il cryss che portava legato al polpaccio.
Il banchiere la fulminò con un’occhiata. Paul, a sua volta, si era leggermente scostato dalla tavola, preparandosi all’azione. In codice, la parola termini significava: Preparati alla violenza.
Kynes a sua volta fissò Jessica, perplesso, e fece un impercettibile gesto a Tuek.
Il contrabbandiere balzò in piedi, alzò la caraffa e disse: «Brindo alla salute di Paul Atreides, ancora un ragazzo nell’aspetto, ma già un uomo per le sue azioni».
Perché s’immischiano? si chiese Jessica.
Il banchiere si voltò verso Kynes e Jessica vide il terrore che riaffluiva nel volto mortalmente pallido dell’uomo della Gilda.
Intorno alla tavola la gente cominciò a rispondere al brindisi.
Quando Kynes ordina, gli altri obbediscono, pensò Jessica. Ci ha appena detto che è dalla parte di Paul. Qual è il segreto del suo potere? Certamente, non è dovuto al fatto che è l’Arbitro del Cambio. È un incarico temporaneo. E neppure perché è al servizio dell’Imperatore.
Tolse la mano dal cryss e alzò la caraffa verso Kynes, che ricambiò il gesto.
Solo Paul e il banchiere (Soo-Soo! che soprannome idiota! pensò Jessica) erano rimasti a mani vuote. Il banchiere teneva ancora gli occhi puntati su Kynes. Paul fissava il suo piatto.
Stava pensando: Avevo la situazione in pugno. Perché hanno interferito? Lanciò un’occhiata all’ospite più vicino: Preparati per la violenza? Da parte di chi? Certamente non dal banchiere.
Halleck si agitò e parlò senza rivolgersi a nessuno in particolare, fissando un punto al di sopra delle teste degli ospiti: «Nella nostra società la gente non dovrebbe offendersi così presto. Spesso è un suicidio». Si voltò verso la figlia del fabbricante di tute, seduta al suo fianco: «Non lo pensate anche voi, signorina?»
«Oh, sì, in verità io sono d’accordo con voi» rispose la ragazza. «C’è troppa violenza. Mi fa star male. Molte volte non c’è nessuna intenzione di offendere, ma la gente muore lo stesso. Non ha senso.»
«Davvero, non ha senso» confermò Halleck.
Jessica giudicò perfetto il modo in cui la ragazza recitava, e pensò: Quella piccola donna dalla testa vuota non è affatto una piccola donna dalla testa vuota. E allora, vide la minaccia e capì che anche Halleck se n’era accorto. Avevano tentato d’intrappolare suo figlio col sesso. Jessica si rilassò. Suo figlio era stato probabilmente il primo ad accorgersene. Il suo addestramento non aveva certo trascurato un argomento così importante!
Kynes si rivolse al banchiere: «Non dovreste forse scusarvi un’altra volta?»
Il banchiere si voltò verso Jessica e con un sorriso forzato le disse: «Signora, temo di aver ecceduto coi vostri vini. Voi servite vini assai potenti alla vostra tavola, e io non vi sono abituato».
Jessica percepì il veleno nelle sue parole e gli rispose in tono soave: «Quando s’incontrano estranei bisognerebbe far uso di una grande comprensione per capire i loro costumi e il loro diverso modo di vivere».
«Grazie, mia Signora» rispose il banchiere.
La dama dai capelli scuri, la compagna del fabbricante di tute, si piegò verso Jessica e le disse: «Il Duca ha accennato al fatto che saremmo stati al sicuro, qui. Spero che la sua assenza non significhi nuove battaglie».
L’hanno istruita perché porti la conversazione su questo argomento, pensò Jessica.
«Probabilmente è una cosa senza importanza» rispose. «Ma vi sono tanti particolari che richiedono la presenza del Duca, in questi momenti. Finché continua l’inimicizia fra gli Atreides e gli Harkonnen, la prudenza non è mai troppa. Il Duca ha pronunciato il giuramento kanly. Non lascerà che un solo agente degli Harkonnen rimanga in vita, su Arrakis». Fissò il banchiere della Gilda: «E l’Intesa, naturalmente, lo appoggia in questo». Si voltò verso Kynes: «Non è forse così, dottor Kynes?»
«In verità è così» disse Kynes.
Il fabbricante di tute accennò discretamente alla sua compagna, che si risollevò e disse: «Credo che mangerò qualcosa, adesso. Un po’ di quel delizioso uccello che ci è già stato servito prima».
Jessica fece un segno a uno dei servitori, poi si rivolse al banchiere: «E voi, signore, prima stavate parlando degli uccelli e delle loro abitudini. M’interessa molto tutto ciò che riguarda Arrakis. Ditemi, dove si trova la spezia? I cacciatori si addentrano forse nelle profondità del deserto?»
«Oh, no, mia Signora» rispose il banchiere. «Noi sappiamo molto poco dell’alto deserto. E quasi nulla delle regioni meridionali.»
«C’è una leggenda nella quale si parla di una Grande Madre della spezia, nei territori meridionali» intervenne Kynes, «ma io sospetto che si tratti soltanto dell’immaginazione di qualche cantastorie. Qualche cacciatore della spezia più coraggioso degli altri penetra ogni tanto nella fascia centrale, ma è estremamente pericoloso. La navigazione è incerta, le tempeste assai frequenti. Le vittime si moltiplicano drammaticamente man mano ci si allontana dal Muro Scudo. Non è molto conveniente avventurarsi troppo a sud. Forse, se avessimo un satellite meteorologico…»
Bewt alzò gli occhi e parlò a bocca piena: «Dicono che i Frernen arrivino fin laggiù, che vadano dovunque e che abbiano scoperto dei soak e dei pozzi a risucchio perfino alle latitudini meridionali».
«’Soak’ e ’pozzi a risucchio’?» chiese Jessica.
Kynes si affrettò a spiegare: «Solo voci incontrollate, mia Signora. Sono cose che si trovano su altri mondi, ma non su Arrakis. Un soak è un punto dove l’acqua trasuda alla superficie, o quasi, e dov’è possibile trovarla in base a certi segni. Un pozzo a risucchio è un soak dov’è possibile per una persona risucchiare l’acqua attraverso una cannuccia… Almeno, questo è quanto si dice».
L’inganno è fin troppo evidente nelle sue parole, pensò Jessica.
Perché mente? si chiese Paul.
«Com’è interessante» riprese Jessica. E pensò ancora: «Questo è quanto si dice…» Che strano modo di parlare hanno qui. Se sapessero quanto esso rivela del modo in cui sono legati alle superstizioni!
«Ho sentito che avete un detto» fece Paul. «’La buona creanza viene dalle città, la saggezza dal deserto.’»
«Vi sono molti detti, su Arrakis» replicò Kynes.
Prima che Jessica potesse formulare un’altra domanda un servitore s’inchinò accanto a lei e le porse un messaggio. Jessica l’aprì, riconobbe la scrittura del Duca e i segni in codice. Lo lesse.
«Sarete tutti felici di apprendere» disse, «che il nostro Duca vi rassicura. La faccenda che lo ha allontanato da noi è sistemata. L’ala trasporto che mancava è stata trovata. Un agente degli Harkonnen aveva sopraffatto l’equipaggio, pilotando la macchina fino a una base dei contrabbandieri, sperando di poterla vendere laggiù. Sia l’uomo che la macchina sono stati restituiti ai nostri soldati.» Accennò con la testa in direzione di Tuek.
Il contrabbandiere rispose al cenno.
Jessica ripiegò il messaggio e l’infilò in una manica.
«Sono lieto che non vi sia stata una battaglia in campo aperto» disse il banchiere. «La gente desidera ardentemente che gli Atreides portino pace e prosperità!»
«Specialmente la prosperità» aggiunse Bewt.
«Possiamo servire il dessert, adesso?» chiese Jessica. «Ho chiesto al nostro chef una ghiottoneria di Caladan: riso pungi in salsa dolsa.»
«Ha un suono meraviglioso» replicò il fabbricante di tute. «È possibile averne la ricetta?»
«Qualsiasi ricetta vogliate» rispose Jessica, registrando l’uomo per parlarne più tardi con Hawat. Il fabbricante di tute era un piccolo, timoroso arrampicatore sociale, e poteva essere comperato.
Intorno a lei la conversazione riprese: «Un tessuto così adorabile…» «Un abito in tinta, per questi gioielli…» «Un aumento di produzione nel prossimo trimestre…»
Jessica si concentrò sul suo piatto, pensando alla parte in codice del messaggio di Leto: «Gli Harkonnen hanno cercato d’introdurre un carico di fucili laser. Li abbiamo catturati, ma ciò significa che altri carichi sono passati. Certo, non giudicano molto importanti gli scudi. È necessario stare più attenti».
Jessica ripensò ai laser. L’abbagliante luce di un laser poteva tagliare qualsiasi sostanza, sempre che non fosse schermata. Il fatto che l’interferenza del raggio con uno scudo fosse in grado di far esplodere sia lo scudo sia il laser non sembrava impensierire gli Harkonnen. Perché? Un’esplosione laser-scudo comportava sempre un fattore indeterminabile: poteva uccidere soltanto il tiratore e il suo bersaglio, oppure rivelarsi più potente di un’esplosione atomica.
C’erano troppi fattori ignoti che la rendevano inquieta.
Paul disse: «Non ho mai dubitato che avremmo ritrovato l’ala. Quando mio padre affronta un problema, lo risolve. Gli Harkonnen se ne stanno accorgendo soltanto adesso».
Si sta vantando, pensò Jessica. Non dovrebbe vantarsi. Nessuno che questa notte sia costretto a dormire nelle profondità del sottosuolo come unica precauzione contro i laser ha il diritto di vantarsi.
«Non c’è scampo: noi paghiamo la violenza dei nostri antenati.»
Jessica udì il tumulto nella Grande Sala e accese la lampada al suo letto. L’orologio non era regolato sull’ora locale: dovette sottrarre ventun minuti per sapere che erano le due di notte.
Il clamore era forte e confuso.
Un attacco degli Harkonnen? si chiese.
Scivolò fuori del letto e consultò gli schermi di controllo per sapere dove si trovavano i familiari. Vide Paul che dormiva in una stanza, al livello inferiore dei sotterranei, rapidamente trasformata in una camera da letto. Il fracasso non arrivava fin là. Non c’era nessuno nelle stanze del Duca: il letto era intatto. Era ancora al campo?
Mancavano ancora gli schermi per la parte anteriore della casa.
Immobile al centro della stanza Jessica ascoltò.
Udì una voce che urlava parole incoerenti. Qualcuno chiamò il dottor Yueh. Jessica afferrò la vestaglia, l’infilò sulle spalle, calzò un paio di pantofole e si allacciò il cryss alla gamba.
Di nuovo una voce chiamò il dottor Yueh.
Jessica si strinse la cintura della vestaglia e uscì nel corridoio. Poi un pensiero la folgorò: Forse Leto è ferito!
Il corridoio sembrò allungarsi sotto i suoi passi precipitosi. Superò l’arcata, attraversò in un balzo la sala da pranzo, corse lungo il passaggio che conduceva alla Grande Sala. L’atrio era vividamente illuminato, tutte le lampade accese.
Alla sua destra, accanto all’ingresso principale, due soldati sembravano lottare con Duncan Idaho. La sua testa penzolava in avanti. La scena piombò in un improvviso silenzio carico d’ansia.
Uno dei soldati gridò a Idaho, in tono accusatore: «Hai visto che cosa hai fatto? Hai svegliato Lady Jessica!»
I grandi arazzi si agitavano alle spalle degli uomini, gonfiandosi e indicando la porta principale che era rimasta aperta. Non c’era segno né del Duca né di Yueh, Mapes era immobile in un angolo, fissando Idaho con occhi gelidi. Indossava una veste bruna con un bordo ricamato e calzava stivali da deserto, slacciati.
«Così, ho svegliato Lady Jessica» mormorò Idaho. Alzò gli occhi al soffitto e tuonò: «La mia spada ha bevuto il suo primo sangue su Grumman!»
Grande Madre! È ubriaco! pensò Jessica.
Il volto scuro e rotondo di Idaho era contorto in una smorfia, i suoi capelli, arricciati come il vello di un nero caprone, erano impastati di fango. La sua tunica strappata mostrava la camicia indossata per il banchetto.
Jessica si avvicinò.
Una delle guardie accennò col capo verso di lei, senza mollare la presa.
«Non sapevamo cosa fare di lui, mia Signora. Stava facendo un gran baccano qui davanti alla porta, rifiutandosi di entrare. Abbiamo avuto paura che accorressero i nativi e che lo vedessero. Non sarebbe stato bene per noi. Ci avrebbe procurato una brutta nomea.»
«Dov’è stato?» chiese Jessica.
«Ha scortato a casa una delle giovani dame dopo il banchetto, mia Signora. Ordini di Hawat.»
«Quale giovane dama?»
«Una delle ragazze della scorta. Capite, mia Signora?» Lanciò un’occhiata a Mapes e abbassò la voce. «Tocca sempre a Idaho la sorveglianza delle signore.»
Jessica pensò: Davvero! Ma perché è ubriaco?
Si accigliò e si voltò verso Mapes: «Mapes, porta uno stimolante. Suggerisco la caffeina. Forse è avanzato del caffè di spezia.»
Mapes scosse le spalle e si diresse verso la cucina, sbattendo sul pavimento gli stivali slacciati.
Idaho girò faticosamente la testa e fissò Jessica: «Ho ucciso… più di trecento uomini… per il Duca» balbettò. «Volete sapere… perché sto… fuori?… Non riesco a vivere… qui sopra. E neanche… là sotto. Che posto è diventato… questo, eh?»
Un rumore proveniente da una porta laterale della Sala attirò l’attenzione di Jessica. Si voltò e vide Yueh che si avvicinava, impugnando con la mano sinistra la valigetta medica. Era vestito di tutto punto, anche se pallido e stanco. La losanga del tatuaggio gli spiccava sulla fronte.
«Il caro… dottore!» urlò Idaho. «Come la va… dottore? L’uomo del gesso… e… della pillola?» Fissò Jessica con gli occhi stralunati: «Mi… sto comportando da idiota, no?»
Jessica aggrottò le sopracciglia e restò silenziosa, chiedendosi: Perché mai Idaho dovrebbe ubriacarsi? Lo hanno forse drogato?
«Troppa birra di spezia» disse Idaho, tentando di raddrizzarsi.
Mapes stava ritornando con una tazza fumante. Si fermò incerta dietro al dottor Yueh. Guardò Jessica, che scosse la testa.
Yueh mise in terra la valigetta, salutò con un cenno Jessica e disse: «Birra di spezia, eh?»
«La migliore… che ho mai bevuto» balbettò Idaho. Cercò di mettersi sull’attenti. «La mia… spada… ha bevuto il sangue per la prima volta su Grumman! Ho ucciso un… Harkonnen. L’ho ucciso… per il Duca.»
Yueh si girò, vide la tazza nelle mani di Mapes: «Che cos’è?»
«Caffeina» disse Jessica.
Yueh prese la tazza, la porse a Idaho: «Bevila».
«Non voglio… più bere!»
«Bevila, ti dico!»
La testa di Idaho ciondolò verso Yueh. Mosse un passo in avanti, trascinando con sé la guardia. «Sono enormemente… stufo di far piacere… all’Universo… Imperiale, dottore. Per una volta… faremo a modo mio.»
«Dopo che avrai bevuto questo» gli ingiunse Yueh. «È caffeina.»
«Marcio come il resto, in questo posto! Quel maledetto… sole è troppo chiaro! Niente ha il colore giusto! Tutto sbagliato…»
«Beh, è notte, adesso» disse Yueh, con voce tranquilla. «Fai il bravo, bevi. Ti sentirai molto meglio.»
«Non voglio sentirmi meglio!»
«Non possiamo star qui a discutere tutta la notte» intervenne Jessica. E pensò: Questo richiede un trattamento di shock.
«Non c’è ragione che voi rimaniate, mia Signora» disse Yueh. «Posso occuparmene io.»
Jessica scosse la testa. Fece un passo in avanti e schiaffeggiò con violenza Idaho.
Questi crollò all’indietro trascinando con sé la guardia, e la fissò con uno sguardo d’odio.
«Non è questo il modo di agire nella dimora del Duca!» gli rinfacciò lei. Strappò la tazza dalle mani di Yueh, rovesciando una parte del caffè, e la tese a Idaho: «Adesso, bevi! È un ordine!»
Idaho sussultò e si raddrizzò, fissandola minacciosamente. Parlò lentamente, con fredda determinazione: «Non accetto ordini da una spia degli Harkonnen!»
Yueh s’irrigidì e si voltò verso Jessica.
Era pallida come un morto, ma annuì lentamente. Tutto era chiaro, adesso… ora capiva finalmente tutte quelle allusioni vaghe e frammentarie che aveva colto, gli ultimi giorni, nelle parole e nel comportamento di quelli che la circondavano. Una collera immensa la sconvolse: se ne sentì quasi travolta. Dovette far ricorso a tutto il suo addestramento Bene Gesserit per calmare il polso e rallentare il respiro. Ma anche così, sentì il fuoco interiore divampare in lei.
Tocca sempre a Idaho la sorveglianza delle signore!
Fissò Yueh. Il dottore abbassò gli occhi.
«Tu lo sapevi?» gli chiese.
«Ho… ho sentito delle voci, mia Signora. Ma non ho voluto aggiungere questa alle vostre preoccupazioni.»
«Hawat!» gridò Jessica. «Voglio che Thufir Hawat sia condotto immediatamente alla mia presenza!»
«Ma, mia Signora…»
«Immediatamente!»
Dev’essere stato Hawat, pensò. Un simile sospetto viene senz’altro da lui. Altrimenti, sarebbe stato scartato!
Idaho scosse la testa e mormorò: «Buttate via quella maledetta roba».
Jessica guardò la tazza che stringeva in mano e improvvisamente ne scagliò il contenuto in faccia a Idaho: «Chiudetelo in una camera degli ospiti nell’ala est» ordinò. «Lasciate che smaltisca la sbornia!»
Le guardie la fissarono con aria infelice. Uno dei due azzardò: «Forse è meglio portarlo da qualche altra parte, mia Signora. Potremmo…»
«Deve restar qui!» ribatté Jessica, bruscamente. «Qui c’è un lavoro per lui.» La sua voce trasudava amarezza: «È così in gamba a sorvegliare le signore!»
La guardia deglutì.
«Sapete dov’è il Duca?» chiese Jessica.
«È al Posto di Comando, signora.»
«Hawat è con lui?»
«Hawat è in città, mia Signora.»
«Portate qui Hawat, subito» ordinò Jessica. «Lo aspetterò nel mio salotto.»
«Ma, mia Signora…»
«Se necessario, chiamerò il Duca. Ma spero che non sia necessario. Non vorrei disturbarlo per una cosa del genere.»
«Sì, mia Signora.»
Jessica gettò la tazza vuota nelle mani di Mapes, e incontrò il suo sguardo, azzurro sull’azzurro.
«Puoi ritornare a letto, Mapes.»
«Siete sicura di non aver bisogno di me?»
Jessica sorrise trucemente: «Ne sono sicura».
«Forse potreste aspettare fino a domani» disse Yueh. «Potrei darvi un sedativo, e…»
«Voi ritornerete nel vostro appartamento e mi lascerete sbrigare questa faccenda a modo mio.» Gli batté la mano sul braccio per temperare l’asprezza delle parole. «Questo è l’unico modo.»
Improvvisamente, a testa alta, si voltò e si diresse con passo regale alle sue stanze. Fredde pareti… corridoi… una porta dall’aspetto familiare… Aprì la porta, entrò e la chiuse dietro di sé con un tonfo. Jessica restò immobile in mezzo alla stanza, guardando con ferocia la finestra schermata del suo salotto. Hawat! È forse lui al soldo degli Harkonnen? Vedremo.
Jessica si avvicinò alla poltrona, comoda e di antica foggia, rivestita di pelle ricamata di schlag. La spostò in modo da controllare la porta. Fu acutamente conscia, all’improvviso, della presenza del cryss allacciato col fodero alla gamba. Staccò il fodero e lo allacciò al braccio saggiandone il peso. Ancora una volta si guardò intorno registrando nella sua mente l’esatta posizione di ogni oggetto, in caso di emergenza: la sedia all’angolo, gli scanni addossati al muro, i due tavoli, il sithar sul piedistallo, accanto alla porta della camera da letto.
Le lampade a sospensione irradiavano una luce rosa pallida. Jessica abbassò la luce, prese posto nella poltrona, accarezzandone l’imbottitura, apprezzandone, in questa occasione, la regale pesantezza.
Ora, che venga pure, disse tra sé. Succederà quello che succederà. E si preparò ad aspettare al modo Bene Gesserit, accumulando pazienza e conservando le forze.
Più presto di quanto non si aspettasse, sentì bussare alla porta. Al suo comando Hawat entrò.
Lei lo guardò senza muoversi dalla poltrona e percepì nei suoi movimenti la presenza vibrante di un’energia dovuta alla droga e la fatica che questa nascondeva. Gli occhi acquosi di Hawat scintillavano. La sua pelle coriacea appariva leggermente giallastra alla luce delle lampade e una macchia larga e umida spiccava sulla manica del braccio dov’era nascosto il coltello.
Jessica sentì l’odore del sangue.
Indicò con la mano uno degli scanni e disse: «Siediti di fronte a me».
Hawat s’inchinò e obbedì. Quel pazzo ubriaco di Idaho! pensò. Studiò il volto di Jessica, chiedendosi come avrebbe potuto salvare la situazione.
«È indispensabile un chiarimento fra noi» cominciò Jessica.
«Che cosa vi preoccupa, mia Signora?» Hawat si sedette, le mani sulle ginocchia.
«Non fare l’ingenuo con me!» replicò lei bruscamente. «Se Yueh non ti ha detto perché ti ho fatto chiamare, allora ti avrà informato una delle tue spie, qui in casa. Non pensi che dovremmo essere onesti almeno su questo, fra noi?»
«Come desiderate, mia Signora.»
«Prima di tutto rispondi a una mia domanda» disse lei. «Sei forse diventato una spia degli Harkonnen?»
Hawat sobbalzò sulla sedia, il volto cupo per l’ira: «Osate insultarmi così?»
«Siediti» gl’intimò Jessica. «Tu mi hai insultato così.»
Lentamente Hawat tornò a sedersi.
E Jessica, leggendo i segni su quel volto che conosceva così bene, si concesse un profondo sospiro. Non è Hawat.
«Ora so che sei ancora fedele al Duca» disse. «Sono pronta perciò a perdonare il modo in cui mi hai insultata.»
«C’è forse qualcosa da perdonare?»
Jessica aggrottò le ciglia, e pensò: Devo giocare la mia carta? Devo parlargli della figlia del Duca che porto in seno da alcune settimane? No… perfino Leto non lo sa. Questo servirebbe soltanto a complicargli la vita, a distrarlo in un momento in cui deve concentrarsi per garantire la nostra sopravvivenza. C’è ancora tempo per farne uso.
«Una Veridica potrebbe risolvere la questione» disse Jessica, «ma non abbiamo qui nessuna Vendica qualificata dal Gran Consiglio.»
«Come voi dite, non abbiamo una Veridica.»
«C’è forse un traditore, fra noi? Ho studiato la nostra gente con la massima cura. Chi potrebbe essere? Non Gurney. E certamente non Duncan. I loro luogotenenti non hanno una posizione strategica che li faccia prendere in considerazione. E non sei tu, Thufir. Non può essere Paul. So di non essere io. Il dottor Yueh, allora? Devo chiamarlo e sottoporlo alla prova?»
«Sapete che sarebbe inutile» disse Hawat. «È condizionato dal Gran Collegio. Di questo ne sono certo.»
«Per non citare il fatto che sua moglie era una Bene Gesserit trucidata dagli Harkonnen» replicò Jessica.
«È dunque questo che le è accaduto!»
«Non hai sentito l’odio nella sua voce, quando pronuncia il nome degli Harkonnen?»
«Lo sapete che io non ho l’orecchio» disse Hawat.
«Che cosa ti ha fatto sospettare così indegnamente di me?» chiese Jessica.
Hawat si rabbuiò: «Mia Signora, voi mettete il vostro servitore in una posizione impossibile. Prima di tutto io sono fedele al Duca».
«Sono pronta a perdonare parecchio, per questa tua fedeltà.»
«Devo chiedervi ancora una volta: c’è forse qualcosa da perdonare?»
«Stallo» disse lei.
Lui scosse le spalle.
«Allora parliamo di qualcos’altro per un minuto» disse Jessica. «Duncan Idaho, quel guerriero tanto ammirato, la cui abilità di guardiano e sorvegliante è tanto stimata. Questa notte ha ecceduto in qualcosa chiamata birra di spezia. Dai rapporti, ho appreso che altri si sono lasciati inebetire da quell’intruglio. È vero?»
«Voi avete letto i rapporti, mia Signora.»
«Appunto. Questi eccessi non ti sembrano un sintomo, Thufir?»
«Mia Signora, voi parlate per enigmi.»
«Usa le tue abilità di Mentat» lo rimbeccò Jessica bruscamente. «Qual è il problema di Duncan e degli altri? Te lo posso dire in tre parole: non hanno casa.»
Hawat puntò l’indice in basso: «Arrakis! Arrakis è la loro casa!»
«Arrakis è un mondo sconosciuto! Caladan era la loro casa, ma noi li abbiamo strappati di là. Non hanno casa. E hanno paura che il Duca tradisca la loro fiducia.»
Hawat s’irrigidì: «Un simile discorso da parte di uno dei miei uomini basterebbe a…»
«Oh, piantala, Thufir. È disfattismo o tradimento per un dottore diagnosticare correttamente la malattia? La mia unica intenzione è di guarirla, questa malattia.»
«Il Duca ha incaricato me di occuparmi di simili faccende.»
«Ma tu capisci certamente quanto io sia preoccupata per gli sviluppi di questa malattia» replicò Jessica. «E forse mi concederai una certa abilità in questo campo.»
Devo somministrargli uno shock? si chiese. Ha bisogno di una scossa violenta, di qualcosa che riesca a staccarlo dalla consueta routine.
«Le vostre preoccupazioni potrebbero essere interpretate in molti modi diversi» disse Hawat. E scrollò ancora le spalle.
«Allora, tu mi hai già condannata?»
«Naturalmente no, mia Signora. Ma non posso permettermi di correre alcun rischio, vista la situazione.»
«Una minaccia alla vita di mio figlio ti è sfuggita sotto il naso proprio in questa casa» lei disse. «Chi ha corso il rischio?»
Il volto s’incupì: «Ho presentato le mie dimissioni al Duca».
«Le hai forse presentate a me… o a Paul?»
La sua furia era sul punto di esplodere, adesso. Lo tradivano il suo ansito, le narici dilatate, lo sguardo fisso. Jessica percepì il rapido pulsare di una vena sulla tempia.
«Io appartengo al Duca» dichiarò, mangiandosi le parole.
«Non c’è nessun traditore» replicò Jessica. «La minaccia è altrove. Forse i laser. Forse correranno il rischio d’introdurre qualche laser di nascosto, puntandolo contro lo schermo di questa casa, con un meccanismo a tempo. Forse…»
«E chi sarebbe in grado di provare, dopo l’esplosione, che non erano bombe atomiche?» ribatté lui. «No, mia Signora, non rischieranno niente di così illegale. Le radiazioni persistono. Le prove sono difficili da cancellare. No. Rispetteranno quasi tutte le formalità. C’è un traditore. Dev’esserci.»
«Tu appartieni al Duca» lo canzonò lei. «Lo distruggeresti, sforzandoti di salvarlo?»
Hawat respirò profondamente, quindi: «Se voi siete innocente, mi scuserò con voi, nel modo più umiliante».
«Parliamo di te, adesso, Thufir» disse Jessica. «Gli esseri umani vivono meglio quando ognuno ha il suo posto, quando ognuno sa qual è la sua posizione nello schema delle cose. Distruggi il posto e avrai distrutto anche la persona. Tu e io, Thufir, fra tutti quelli che amano il Duca, ci troviamo nella posizione ideale per distruggerci a vicenda. Non mi sarebbe fin troppo facile sussurrare i miei sospetti all’orecchio del Duca, durante la notte? E in quali momenti pensi che sia più sensibile a questi sussurri, Thufir? Devo essere più esplicita?»
«Mi state minacciando?» ringhiò Hawat.
«No davvero. Ti faccio semplicemente notare come qualcuno ci stia attaccando attraverso la posizione stessa delle nostre esistenze. È astuto, diabolico. Ti propongo di neutralizzare questo attacco organizzando diversamente le nostre vite, cosicché non esista più alcuno spiraglio per pugnalarci alle spalle.»
«Voi mi accusate di aver sussurrato sospetti senza fondamento?»
«Senza fondamento, sì.»
«Intendete controbatterli coi vostri sussurri?»
«È la tua vita, Thufir, che è fatta di sussurri, non la mia.»
«Allora mettete in dubbio le mie capacità?»
Jessica sospirò. «Thufir, voglio che tu consideri quanta parte hanno le tue emozioni personali in tutto questo. L’essere umano, quello naturale, è un animale privo di logica. Tu proietti la tua logica in tutti i tuoi problemi, e questo è innaturale, ma tuttavia essa è tollerata perché è utile. Tu sei la logica personificata: un Mentat. E tuttavia le soluzioni dei tuoi problemi sono concetti i quali, in un senso molto reale, si proiettano fuori di te, e devono essere osservati, studiati, esaminati sotto tutti gli angoli possibili.»
«Credete forse di potermi insegnare il mio mestiere?» disse lui, sdegnosamente.
«Tu puoi applicare la tua logica a qualsiasi cosa, fuori di te» continuò Jessica. «Ma è una caratteristica umana il fatto che i nostri problemi personali, quelli che più s’identificano con noi stessi, sono i più difficili da esaminare con la nostra logica. Abbiamo la tendenza a ricercarne le cause intorno a noi, accusando tutto e tutti, salvo la cosa ben reale e profondamente radicata in noi, che ci consuma.»
«Voi cercate deliberatamente di farmi dubitare dei miei poteri di Mentat» ribatté Hawat con voce stridula. «Se dovessi scoprire che uno dei nostri tenta di sabotare così un’arma qualsiasi del nostro arsenale, non avrei esitazioni a denunciarlo e a distruggerlo!»
«I migliori tra i Mentat conservano un salutare rispetto per le probabilità di errore nei loro calcoli.»
«Non ho mai detto altrimenti!»
«Allora, studia quei sintomi che abbiamo entrambi osservato: l’ubriachezza fra i nostri uomini, le liti… Il modo in cui si scambiano pettegolezzi e voci infondate su Arrakis, ignorando le più semplici…»
«Si annoiano, ecco tutto» ribatté lui. «Non cercate di distraimi tentando di rendere misterioso un fatto banale.»
Lei lo fissò, pensando agli uomini del Duca che, nelle baracche, ruminavano sui loro guai, al punto che la tensione si percepiva, lì al castello, quasi come da un isolante bruciato. Stanno diventando come gli uomini delle leggende prima della Gilda, pensò. Come gli uomini di quel perduto esploratore stellare, Ampoliros… nauseati del loro viaggio, eternamente alla ricerca. Sempre preparati e mai pronti.
«Perché non hai mai voluto servirti completamente delle mie capacità nel tuo servizio per il Duca?» insistette lei. «Hai forse paura che una rivale metta in pericolo la tua posizione?»
Lui la fissò torvamente; i suoi vecchi occhi fiammeggiavano. «Conosco un po’ dell’addestramento che il Bene Gesserit dà a voi…» s’interruppe, accigliandosi.
«Continua, dillo» disse lei. «… a voi streghe.»
«Conosco un po’ del vero addestramento che ricevete» replicò Hawat. «Si è manifestato in Paul. Io non mi lascio ingannare da quello che le vostre Scuole dicono al pubblico, che voi esistete solo per servire.»
Lo shock dev’essere brutale, ed è quasi pronto per riceverlo, pensò Jessica.
«Tu mi hai sempre ascoltata con rispetto durante le sedute del Consiglio. E tuttavia molto raramente hai tenuto conto delle mie opinioni. Perché?»
«Non mi fido dei vostri moventi Bene Gesserit» disse lui. «Anche se voi credete di poter guardare nel cuore di un uomo, anche se siete convinta di spingere un uomo a fare esattamente quello che…»
«Thufir! Povero imbecille!»
Lui la fulminò con lo sguardo, gettandosi indietro sulla sedia.
«Qualsiasi diceria tu abbia udito sulle nostre Scuole» disse Jessica, «la verità è molto più grave. Se io volessi distruggere il Duca… o te, o qualsiasi altra persona vicino a me, tu non potresti fermarmi.»
E pensò: Perché permetto che l’orgoglio mi faccia dire cose simili? Non è questo il modo in cui sono stata addestrata. Non è così che posso colpirlo.
Hawat fece scivolare una mano sotto la tunica, dove nascondeva un piccolo proiettore di dardi avvelenati. Non porta scudo, pensò. Che stia soltanto vantandosi? Potrei uccìderla adesso… ma, ah… quali sarebbero le conseguenze se mi sbagliassi?
Jessica vide il gesto della sua mano e disse: «Preghiamo perché la violenza non sia mai necessaria fra noi».
«Preghiera lodevole.»
«Intanto il male si diffonde fra noi. Ti chiedo ancora: non è forse più ragionevole supporre che gli Harkonnen abbiano seminato i loro sospetti per metterci l’uno contro l’altra?»
«Siamo di nuovo in stallo» fece Hawat.
Lei sospirò, pensando: È quasi pronto.
«Il Duca e io siamo come il padre e la madre per il nostro popolo. La posizione…»
«Non vi ha sposata.»
Jessica si costrinse alla calma. Una buona risposta, pensò.
«Ma non sposerà nessun’altra» rispose. «Non finché io sarò viva. E, come ho detto, noi siamo come dei tutori. Spezzare quest’ordine naturale, disturbare, confonderci e dividerci… quale obiettivo più allettante per gli Harkonnen?»
Hawat indovinò a che cosa tendeva il suo discorso e socchiuse gli occhi come per intimidirla.
«Il Duca?» continuò Jessica. «Un bersaglio invitante, certo, ma nessuno, forse con l’unica eccezione di Paul, è meglio sorvegliato. Io? Senza dubbio li tento, ma sanno che le Bene Gesserit sono bersagli difficili. E c’è un bersaglio ancora migliore, una persona alla quale i doveri creano, necessariamente, una mostruosa cecità. Una persona per cui sospettare è naturale come respirare. Che trascorre l’intera sua vita tra le insinuazioni e i misteri.» Puntò la sua mano contro di lui: «Tu!»
Hawat quasi balzò dalla sedia.
«Non ti ho ancora congedato, Thufir!» gli intimò Jessica.
Il vecchio Mentat ricadde quasi di colpo sulla sedia, tanta fu la rapidità con cui i suoi muscoli lo tradirono.
Jessica sorrise senza gioia. «Adesso ti sei accorto del vero addestramento che ci vien dato.»
Hawat cercò d’inghiottire senza riuscirci. L’intimazione di Jessica era stata regale, perentoria: un tono, un modo irresistibili. Aveva sentito il proprio corpo obbedirle prima ancora di poter pensare. Niente avrebbe potuto impedirlo, né la logica, né il furore… niente. E tutto questo rivelava una conoscenza profonda, sensibile della persona alla quale si era rivolta, un controllo così completo che lui non l’avrebbe mai creduto possibile.
«Ti ho già detto, prima, che noi due dovremmo capirci» riprese Jessica. «Volevo dire che tu dovresti capire me. Io ti capisco già. E ora ti dico: la tua fedeltà al Duca è l’unica garanzia che tu hai con me.»
Lui la guardò, inumidendosi le labbra.
«Se io desiderassi un fantoccio, il Duca mi sposerebbe subito» continuò Jessica. «Potrebbe anche convincersi di averlo fatto di sua spontanea volontà.»
Hawat chinò la testa, e la fissò con occhi socchiusi. Solo il più rigido controllo lo tratteneva dal chiamare le guardie. Il controllo… e ora il sospetto che quella donna avrebbe potuto impedirlo. Un brivido gli corse lungo la schiena, pensando al modo in cui lei l’aveva controllato. In quell’attimo di esitazione avrebbe potuto estrarre un’arma e ucciderlo!
È forse vero che ogni essere umano è vittima di questa cecità? si chiese. È possibile che ognuno di noi possa essere indotto ad agire prima di poter resistere? L’idea gli dette il capogiro. Chi potrebbe mai fermare una persona dotata di un simile potere?
«Hai intravisto il pugno nel guanto del Bene Gesserit» disse ancora Jessica. «Pochi, dopo averlo intravisto, sopravvivono. E quello che ho fatto è una cosa relativamente semplice, per noi. Non hai ancora sperimentato tutto il mio arsenale: pensaci.»
«Perché non distruggete i nemici del Duca?» chiese Hawat.
«Vorresti davvero che li distruggessi? Facendo così del Duca un debole, un uomo che dipenda da me, per sempre?»
«Ma un simile potere…»
«Il potere è un’arma a doppio taglio, Thufir» disse Jessica. «Tu pensi: ’Come dev’esser facile, per lei, crearsi uno strumento umano per poi affondarlo nelle viscere del nemico.’ È vero, Thufir, perfino nelle tue viscere. E tuttavia, che cosa otterrei? Se un certo numero di Bene Gesserit facesse questo, non diventerebbero sospette tutte le Bene Gesserit? Noi non lo vogliamo, Thuflr. Non desideriamo distruggere noi stesse» annuì: «Sì, è vero, noi esistiamo soltanto per servire».
«Non posso rispondervi» fece Thufir. «Voi lo sapete.»
«Non dirai a nessuno quello che è accaduto qui. Io ti conosco bene Thufir e sono sicura che non parlerai.»
«Mia Signora…» Il vecchio cercò ancora d’inghiottire, ma la sua gola era secca. E pensò: Ha grandi poteri, è vero. Ma non servirebbero forse a renderla uno strumento ancora più formidabile per gli Harkonnen?
«Il Duca potrebbe essere distrutto con uguale rapidità sia dai suoi amici che dai suoi nemici» disse Jessica. «Spero che ora esaminerai fino in fondo le ragioni di questo sospetto e lo cancellerai.»
«Se risulterà infondato.»
«Se» lo canzonò lei.
«Se» ripeté lui.
«Sei tenace.»
«Prudente» la corresse, «e consapevole della possibilità di un errore.»
«Allora ti farò un’altra domanda. Che cosa significa per te il fatto di trovarti di fronte a un altro essere umano, e che tu sia legato e senza possibilità di difesa, mentre l’altro ti tiene un coltello alla gola… e tuttavia egli non ti uccide, ti libera dai tuoi legami e ti offre il coltello perché tu lo usi a tuo piacimento?»
Jessica si alzò lentamente dalla poltrona, gli voltò le spalle e poi disse: «Ora puoi andare, Thufir».
Il vecchio Mentat si alzò a sua volta, esitò, le sue mani si mossero verso l’arma mortale nascosta nella tunica. Si ricordò dell’arena e del padre del Duca (che era stato un coraggioso, lasciando perdere i suoi difetti), e del lontano giorno della corrida: la bestia nera e feroce era rimasta immobile, con la testa piegata, confusa. Il Vecchio Duca aveva girato la schiena alle sue corna, con la cappa ripiegata audacemente sul braccio, mentre gli evviva tuonavano sulle tribune.
Io sono il toro e lei è il matador, pensò Hawat. Ritirò la mano dall’arma e considerò il sudore che luccicava sul palmo.
Seppe allora, qualunque cosa i fatti avessero dimostrato alla fine, che non avrebbe mai dimenticato questo istante e che la suprema ammirazione che provava per Lady Jessica non sarebbe mai venuta meno.
In silenzio, si voltò e uscì della stanza.
Jessica smise di osservarlo dal riflesso della finestra e si voltò a guardare la porta chiusa.
«Ora» bisbigliò, «pensiamo a qualche misura adeguata.»
Lotti coi sogni?
Ti batti con le ombre?
Cammini come dormendo?
Il tempo è scivolato via.
La vita ti è stata rubala.
Indugiavi per delle inezie,
Vittima della tua follia.
Leto, in un piccolo studio della sua casa, studiava un messaggio alla luce di un’unica lampada sospesa. Mancava ancora qualche ora all’alba, ed era molto stanco. Un uomo dei Fremen lo aveva consegnato a una guardia, all’ingresso principale, pochi istanti prima, quando il Duca era appena ritornato dal quartier generale. Il messaggio diceva: «Una nube di fumo di giorno, una colonna di fuoco, la notte».
Non c’era firma.
Che cosa significa? si chiese.
Il messaggero si era dileguato senza aspettare la risposta, prima ancora che potessero interrogarlo. Era scomparso nella notte come un’ombra fumosa.
Leto infilò il pezzo di carta in una tasca della tunica, con l’intenzione di farlo vedere a Hawat. Rimosse una ciocca di capelli dalla fronte e sbadigliò, sospirando. L’effetto delle pillole antifatica cominciava a esaurirlo. Erano passati due lunghi giorni dal banchetto, e ancora di più da quando aveva dormito l’ultima volta.
E oltre ai problemi militari c’era stata quella penosa discussione con Hawat, e il rapporto del suo incontro con Jessica.
Devo forse svegliare Jessica? si chiese. Non c’è più alcuna ragione di giocare al segreto con lei. O forse sì?
Maledetto quel Duncan Idaho!
Scosse la testa: No, non Duncan. Sono io che ho sbagliato a non confidarmi con Jessica fin dall’inizio. Devo farlo ora, prima che nascano altri danni.
La decisione lo fece sentir meglio: attraversò la Grande Sala e s’incamminò lungo il corridoio, verso l’ala occupata dalla sua famiglia.
Alla svolta, dove il corridoio si biforcava con quello di servizio, si fermò: un rumore strano, come un miagolio, si fece udire in qualche punto del corridoio di servizio. Leto portò la mano sinistra all’interruttore della cintura scudo e fece scivolare il kindjal nella mano destra. Il coltello gli diede un senso di sicurezza. Quello strano lamento lo aveva fatto rabbrividire.
Silenziosamente il Duca s’inoltrò nel corridoio di servizio, maledicendo l’illuminazione inadeguata. Piccole lampade a sospensione erano state sistemate a intervalli di otto metri e regolate al minimo. Le cupe pareti assorbivano la luce.
Nella penombra, davanti a sé, Leto intravide una forma sul pavimento. Il Duca esitò: fu sul punto di attivare lo scudo, ma vi rinunciò perché avrebbe ostacolato i suoi movimenti, gli avrebbe impedito di sentire bene… e perché la cattura di quel carico di armi laser lo aveva riempito di dubbi.
Con passo leggero scivolò verso la forma oscura e vide che era un corpo umano, il volto schiacciato al suolo. Leto brandì il coltello e girò il corpo col piede e si curvò per distinguerne il volto alla fioca luce. Era il contrabbandiere Tuek, con una macchia umida sul petto. I suoi occhi senza vita erano vuoti e tenebrosi. Leto sfiorò la macchia: era ancora calda.
Com’è possibile che quest’uomo sia morto qui? si chiese Leto. Chi l’ha ucciso?
Lo strano lamento si ripeté, più forte, nell’oscurità. Proveniva dal corridoio laterale che conduceva ai locali, al centro della dimora, dov’era installato il generatore principale dello scudo che rivestiva l’intero edificio.
Sempre con una mano all’interruttore della cintura e impugnando con l’altra il kindjal, il Duca scavalcò il corpo e avanzò silenziosamente nel corridoio, scrutando oltre l’angolo, verso la stanza del generatore. Un’altra forma confusa giaceva sul pavimento a pochi passi di distanza: da essa proveniva il lamento. La forma strisciava verso di lui con penosa lentezza.
Leto represse un improvviso terrore, si precipitò in avanti e si accovacciò accanto alla figura strisciante. Era Mapes, la governante Fremen, i capelli scarmigliati intorno al volto, i vestiti in disordine. Una macchia scura dai riflessi opachi le gocciolava lungo la schiena fino ai fianchi. Leto le sfiorò una spalla e Mapes si sollevò sui gomiti, fissandolo coi suoi occhi simili a buie ombre di vuoto.
«V… voi» ansimò. «Uc… cisa guardia… mandato… cercare… Tuek… Fugga… M… mia Signora… lei… lei… qui… no…» rovesciò in avanti, la sua testa batté sulla pietra.
Leto le appoggiò le dita alla tempia: ogni battito era cessato. Considerò la macchia scura: Mapes era stata pugnalata alla schiena. Da chi? La sua mente era un turbine di pensieri. Voleva dire che qualcuno aveva ucciso la guardia? E Tuek… era stata Jessica a chiamarlo? Perché?
Fece per alzarsi: in quell’istante, un sesto senso lo avvertì: portò di scatto la mano allo scudo. Troppo tardi! Un colpo violento gli tramortì il braccio, che gli ricadde sul fianco. Sentì un vivo dolore: vide il dardo che gli sporgeva dalla manica. La paralisi cominciò a diffondersi: fece uno sforzo terribile per alzare la testa e ispezionare il corridoio.
Yueh era lì, immobile, davanti alla stanza del generatore. Sul suo viso si rifletteva la luce gialla dell’unica lampada sospesa sopra la porta. Dalla stanza, dietro di lui, non proveniva alcun suono… nessun brusio del generatore.
Yueh! il pensiero folgorò Leto. Ha sabotato i generatori della casa! Siamo senza difesa!
Yueh avanzò verso il Duca, infilando in tasca una pistola a dardi.
Leto scoprì che riusciva ancora a parlare, e rantolò: «Yueh! Com’è possibile?» Poi la paralisi lo raggiunse alle gambe e lo fece scivolare a terra, con la schiena appoggiata alla parete.
Il volto di Yueh era pieno di tristezza quando si curvò a toccare la fronte di Leto. Il Duca scoprì che riusciva a sentire il tocco, ma era qualcosa d’infinitamente remoto…
«Ho usato una droga selettiva» spiegò Yueh. «Potete parlare, ma non ve lo consiglio.» Lanciò un’occhiata lungo il corridoio e si curvò nuovamente su Leto. Estrasse il dardo e lo scagliò lontano. Il suono del dardo sul pavimento sembrò al Duca lontano, soffocato.
Non può essere stato Yueh, pensò Leto. È condizionato.
«Come?» bisbigliò.
«Desolato, mio caro Duca, ma vi sono cose molto più forti di questo» (si toccò il tatuaggio sulla fronte). «Anch’io lo trovo molto strano… una rivincita della mia coscienza piretica… ma desidero uccidere un uomo. Sì, lo desidero veramente. E niente potrà impedirmi di farlo.»
Guardò il Duca. «Oh, non voi, caro Duca. Il Barone Harkonnen. Io desidero uccidere il Barone.»
«Il Bar…one Har…»
«Per favore, state calmo, mio povero Duca. Non avete molto tempo. Quel dente posticcio che vi ho messo in bocca dopo la caduta, a Narcal… Quel dente va sostituito. Fra un attimo vi addormenterò e vi sostituirò quel dente.» Aprì la mano e guardò qualcosa. «Un esatto duplicato, e una perfetta contraffazione del nervo, al centro. Sfuggirà a tutti i normali rivelatori e perfino a un rapido esame. Ma se voi stringerete con violenza la mascella, l’involucro si frantumerà. Soffiando a viva forza l’aria dai polmoni voi diffonderete tutt’intorno un gas velenoso… mortale.»
Leto fissò Yueh: lesse la follia nei suoi occhi e vide il sudore che gli gocciolava dalla fronte e dal mento.
«In ogni caso voi siete condannato, mio povero Duca» disse Yueh. «Ma voi avvicinerete il Barone, prima di morire. Il Barone crederà che voi siate istupidito dalle droghe e che sia impossibile un qualsiasi attacco da parte vostra. E voi, effettivamente, sarete drogato e legato. Ma un attacco può assumere le forme più strane. Voi vi ricorderete del dente. Il dente, Duca Leto Atreides. Vi ricorderete del dente.»
Il vecchio dottore si curvò lentamente su di lui fin quasi a sfiorarlo, finché il suo volto e i suoi baffi spioventi campeggiarono davanti agli occhi sempre più offuscati del Duca.
«Il dente» mormorò Yueh.
«Perché?» bisbigliò Leto.
Yueh appoggiò un ginocchio sul pavimento: «Ho concluso un patto di Shaitan col Barone. E devo esser certo che abbia rispettato il suo impegno. Quando lo vedrò, lo saprò. Quando guarderò in faccia il Barone, saprò! Ma non potrei mai presentarmi a lui senza il mio riscatto. Voi siete il mio riscatto, povero Duca. E lo saprò non appena l’avrò visto. La mia povera Wanna mi ha insegnato molte cose, e una di queste è la certezza della verità, oltre ogni dubbio, quando la tensione è più forte. Non sempre è possibile, ma quando vedrò il Barone… lo saprò!»
Leto cercò di vedere il dente sul palmo di Yueh. Tutta la situazione sembrava un incubo. Era impossibile!
Le labbra purpuree di Yueh si contrassero in un sogghigno: «A me non sarà consentito avvicinarmi al Barone, poiché in tal caso lo farei io stesso. No, mi terranno a una distanza di sicurezza. Ma voi… ah, voi, la mia arma adorata! Il Barone vorrà vedervi da vicino… per goderne, per vantarsi un po’».
Leto era quasi ipnotizzato da un muscolo sul lato sinistro della mascella di Yueh. Il muscolo si contorceva ogni qualvolta l’uomo apriva la bocca.
Yueh gli si avvicinò ancora di più. «E voi, mio caro Duca, mio prezioso Duca, voi dovete ricordarvi di questo dente.» Glielo fece vedere, stringendolo tra il pollice e l’indice: «Sarà l’unica cosa che vi rimarrà».
La bocca di Leto si mosse senza emettere alcun suono. Poi: «Rifiuto».
«Ah, no! Voi non dovete rifiutare, poiché in cambio di questo piccolo servigio io farò una cosa per voi. Io salverò vostro figlio e la vostra donna. Nessun altro è in grado di farlo. Saranno condotti dove nessun Harkonnen potrà raggiungerli.»
«Come… loro… salvi?» bisbigliò Leto.
«Facendoli credere morti e trasportandoli segretamente tra genti che estraggono il coltello al solo nome degli Harkonnen, che odiano gli Harkonnen al punto che brucerebbero una sedia dove si sia seduto un Harkonnen, o spargerebbero il sale dove ha camminato un Harkonnen.» Sfiorò la guancia di Leto: «Sentite qualcosa sulla guancia?»
Il Duca scoprì di non poter rispondere. Percepì una lontana sensazione, come di qualcosa che veniva tirato via. Vide le mani di Yueh ricomparire stringendo fra le dita l’anello col sigillo ducale.
«Per Paul» disse Yueh. «Tra poco voi perderete i sensi. Addio, mio povero Duca. Quando c’incontreremo la prossima volta non avremo il tempo di conversare.»
Un freddo glaciale salì dalla mascella del Duca verso le guance. L’oscurità del corridoio sembrò concentrarsi in un punto, al centro del quale vi erano soltanto le labbra purpuree di Yueh.
«Il dente!» sussurrò Yueh. «Ricordate il dente!»
Dovrebbe esistere una scienza dell’infelicità. La gente ha bisogno di tempi difficili e di oppressione per sviluppare i propri muscoli psichici.
Jessica si svegliò al buio, con una vaga premonizione nella calma assoluta che la circondava. Non riuscì a capire come mai la sua mente e il suo corpo fossero così intorpiditi. La sua pelle si aggricciava dalla paura; le vibravano i nervi. Pensò di mettersi a sedere e di accendere la luce, ma qualcosa la trattenne. C’era un sapore… strano nella sua bocca.
Tum-tum-tum-tum!
Una monotona successione di tonfi, da una direzione imprecisata. Da qualche punto nell’oscurità.
Un momento di attesa che sembrò eterno, pieno di movimenti e fruscii.
Cominciò a percepire il proprio corpo e si rese conto di avere i polsi e le caviglie legati e un bavaglio alla bocca. Era distesa sul fianco, con le mani legate dietro la schiena. Saggiò la resistenza dei legami e si rese conto che erano fibre di krimskell, che l’avrebbero stretta ancor di più se si fosse messa a tirare.
E ricordò.
C’era stato un movimento nell’oscurità della sua camera; qualcosa di umido e pungente le era stato spinto sul viso, riempiendole la bocca; delle mani l’avevano afferrata. Le era mancato il respiro… Alla prima inspirazione aveva percepito la presenza del narcotico in quella cosa bagnata. Aveva perso conoscenza, sprofondando in un nero abisso di terrore.
È venuto il momento, pensò. Com’è stato semplice vincere una Bene Gesserit! È bastato il tradimento. Hawat aveva ragione.
Si sforzò di non tirare i legami.
Questa non è la mia camera da letto, pensò. Mi hanno portata altrove.
Lentamente riuscì a controllarsi e a riacquistare la calma interiore.
Prese coscienza dell’odore del suo stesso sudore, mescolato all’emanazione chimica della paura.
Dov’è Paul? si chiese. Mio figlio… che cosa gli avranno fatto?
Calma.
Si sforzò per riacquistarla, servendosi degli antichi insegnamenti.
Ma il terrore incombeva così vicino.
Leto? Dove sei, Leto?
Si accorse che l’oscurità stava diminuendo. All’inizio vi furono ombre. Le dimensioni si divisero, divennero tante acute spine di percezione. Bianco. Una linea sotto la porta.
Sono sul pavimento.
Gente che camminava. Percepiva le vibrazioni.
Jessica respinse il ricordo del terrore. Devo essere calma e sul chi vive, pronta a tutto. Potrebbe presentarsi un’unica possibilità. Di nuovo lottò per la calma interiore.
Il battito del cuore le tornò regolare, segnando il tempo. Contò alla rovescia. Sono rimasta priva di sensi per circa un’ora. Chiuse gli occhi, concentrò l’attenzione sui passi che si avvicinavano.
Quattro persone.
Analizzò le differenze dei loro passi.
Devo far finta di essere ancora svenuta. Si rilassò sul gelido pavimento, provando la prontezza dei riflessi. Udì una porta che si apriva, percepì attraverso le palpebre un aumento dell’intensità luminosa.
Dei passi si avvicinarono. Qualcuno si fermò accanto a lei, sovrastandola.
«Siete sveglia» disse una voce di basso. «Non fingete.»
Jessica aprì gli occhi.
Il Barone Vladimir Harkonnen la sovrastava. Guardando intorno, lei riconobbe la stanza del sottosuolo dove Paul aveva dormito, vide la sua branda su un lato… vuota. Lampade a sospensione furono portate dentro dalle guardie e sistemate intorno alla porta aperta. Nel corridoio la luce era così intensa che le fecero male gli occhi.
Fissò il Barone. Portava una mantellina gialla che si rigonfiava sui sospensori portatili. Le sue guance grasse da cherubino erano sovrastate da due occhi neri simili a quelli di un ragno.
«La droga era a tempo» tuonò il Barone. «Sapevamo il minuto esatto in cui vi sareste svegliata.»
Com’è possibile? si chiese Jessica. Avrebbero dovuto sapere il mio peso esatto, il mio tasso di metabolismo, il mio… Yueh!
«È veramente un peccato che dobbiate restare imbavagliata» continuò il Barone. «Avremmo avuto una conversazione così interessante!»
Yueh è l’unico, pensò Jessica. Ma come?
Il Barone lanciò un’occhiata alle sue spalle, verso la porta: «Entra, Piter».
Lei non aveva mai visto l’uomo che entrò in quel momento e che si mise al fianco del Barone, ma il suo viso le era noto… e il suo nome: Piter de Vries, il Mentat Assassino. Lo studiò: sembianze da falco. Gli occhi azzurro inchiostro avrebbero potuto farlo credere nativo di Arrakis, ma le sottili differenze nei movimenti e nell’atteggiamento lo smentivano. E la sua pelle era troppo gonfia d’acqua. Era alto e sottile e vagamente effeminato.
«È un peccato che non si possa conversare con voi, Lady Jessica» ripeté il Barone. «Tuttavia, siamo al corrente delle vostre possibilità.» Si rivolse al Mentat: «Non è forse vero, Piter?»
«Come voi dite, Barone» disse Piter.
Aveva una voce da tenore che le sfiorò la spina dorsale come una doccia gelida. Non aveva mai udito prima una voce così agghiacciante. Per un’adepta del Bene Gesserit quella voce urlava: Assassino!
«Ho una sorpresa per Piter» disse il Barone. «Lui crede di esser venuto qui a raccogliere il suo premio… voi, Lady Jessica. Ma voglio dimostrargli una cosa: che lui, in realtà, non vi desidera.»
«State forse scherzando con me, Barone?» chiese Piter, e sorrise.
Vedendo quel sorriso, Jessica si chiese come mai il Barone non balzasse immediatamente in posizione di difesa contro Piter. Poi si disse di no. Il Barone non poteva leggere quel sorriso: non aveva ricevuto l’Addestramento.
«Sotto molti aspetti Piter è un ingenuo» continuò il Barone. «Non vuole confessare a se stesso che voi, Lady Jessica, siete un pericolo mortale. Vorrei mostrarglielo, ma sarebbe un rischio insensato.» Il Barone sorrise a Piter, il cui volto era impenetrabile. «Io so quello che Piter vuole veramente. Piter vuole il potere.»
«Mi avete promesso che avrei avuto… lei» disse Piter. La sua voce da tenore aveva smarrito in parte il suo freddo riserbo.
Jessica avvertì i segni premonitori nella voce dell’uomo, e non poté fare a meno di rabbrividire mentalmente. Com è possibile che il Barone abbia trasformato un Mentat in questa belva?
«Ti do una scelta, Piter» disse il Barone.
«Quale scelta?»
Il Barone fece crocchiare le sue grosse dita. «Questa donna e l’esilio dall’Impero, o il Ducato degli Atreides su Arrakis, per governarlo a nome mio nel modo che ti sembrerà più opportuno.»
Jessica osservò gli occhi da ragno del Barone che studiavano Piter.
«Potresti essere Duca in tutto, qui, salvo il nome.»
Il mio Leto è morto, allora? si chiese Jessica. Un silenzioso lamento s’innalzò in qualche punto della sua mente.
Il Barone concentrò tutta la sua attenzione sul Mentat. «Cerca di capire te stesso, Piter. Tu la vuoi perché era la donna di un Duca, un simbolo del suo potere: bellissima, utile, meravigliosamente addestrata per il suo ruolo. Ma un intero Ducato, Piter! È molto di più di un simbolo, è la realtà! Con esso potresti avere molte donne e… ancora di più.»
«Voi non state scherzando con Piter?»
Il Barone si girò con quella leggerezza da ballerino che gli davano i sospensori: «Scherzare, io? Ricorda: io ho rinunciato al ragazzo. Hai sentito quello che il traditore ha rivelato sull’addestramento del piccolo. Sono uguali, madre e figlio… entrambi mortali». Il Barone sorrise. «Adesso devo andare. Ti manderò la guardia che ho scelto per questo incarico. È sorda come una campana. I suoi ordini sono di accompagnarti per il primo tratto del tuo viaggio verso l’esilio. Ucciderà questa donna se si accorgerà che ti sta controllando. Non ti permetterà di toglierle il bavaglio finché non avrai abbandonato il suolo di Arrakis. Se invece sceglierai di non andartene… ha altri ordini.»
«Non uscite» disse Piter. «Ho fatto la mia scelta.»
«Ah, ahhh!» ridacchiò il Barone. «Una decisione così rapida vuol dire una sola cosa.»
«Prenderò il Ducato» disse Piter.
Jessica pensò: Piter non sa che il Barone sta mentendo? Ma come potrebbe saperlo? È un Mentat degenere.
Il Barone guardò Jessica: «Non è meraviglioso come io conosco Piter? Ho scommesso col mio maestro d’armi che questa sarebbe stata la scelta di Piter. Ah, bene! Ora me ne vado. Così è molto meglio. Ah, molto meglio. Voi capite, Lady Jessica? Non ho alcun rancore verso di voi. Questa è una necessità. È molto meglio che sia così. Sì. E non ho veramente ordinato che voi foste uccisa. Quando mi chiederanno cosa vi è accaduto, potrò scrollare le spalle, in tutta sincerità».
«Lasciate la cosa a me, allora?» chiese Piter.
«La guardia che ti manderò eseguirà i tuoi ordini» disse il Barone. «Qualunque cosa tu decida, sei tu il giudice» fissò Piter: «Sì, non mi sporcherò le mani di sangue, in questa occasione. La decisione è tua. Sì, non voglio saper nulla. Aspetterai che me ne sia andato per fare quello che hai deciso. Sì. Allora… ah, sì. Sì. Bene».
Teme le domande della Veridica, pensò Jessica. Chi? Ah, la Reverenda Madre Gaius Helen, certamente! Se il Barone sa di dover rispondere alle sue domande, allora anche l’Imperatore è coinvolto in tutto questo. Ah, mio povero Leto!
Con un’ultima occhiata a Jessica il Barone si voltò e uscì. Lei lo seguì con lo sguardo, pensando: È proprio come mi aveva detto la Reverenda Madre… C’è un avversario troppo potente.
Due soldati degli Harkonnen entrarono. Un terzo, il cui volto era una maschera di cicatrici, s’immobilizzò accanto alla porta con in pugno una pistola laser.
Il sordo, pensò Jessica, studiando quel volto martoriato. Il Barone sa che su qualsiasi altro uomo potrei usare la Voce.
Faccia Sfregiata fissò Piter: «Abbiamo il ragazzo su una barella, qui fuori. Quali sono i vostri ordini?»
Piter si rivolse a Jessica: «Avevo pensato di legarvi a me con una continua minaccia sulla testa di vostro figlio, ma credo di capire che non avrebbe funzionato. Ho consentito alle emozioni di offuscare la mia mente. Cattiva politica per un Mentat». Guardò i primi due soldati, girandosi poi verso il sordo perché questi potesse leggergli sulle labbra: «Portali nel deserto, come il traditore ha suggerito per il ragazzo. Il suo piano è buono. I vermi distruggeranno ogni prova. I loro corpi non saranno mai più trovati».
«Non volete liquidarli voi stesso?» chiese Faccia Sfregiata.
Legge le labbra, pensò Jessica.
«Seguo l’esempio del mio Barone» disse Piter. «Portali dove ha detto il traditore.»
Jessica percepì il severo controllo Mentat nella voce di Piter: Anche lui ha paura della Veridica.
Piter scrollò le spalle, si voltò e uscì. Esitò sulla soglia e Jessica pensò che volesse tornare indietro per guardarla un’ultima volta, ma Piter andò via senza più voltarsi.
«A me non piacerebbe affatto trovarmi faccia a faccia con quella Veridica, dopo il lavoro di questa notte» disse lo Sfregiato.
«È assai improbabile che tu t’incontri mai con quella vecchia strega» ribatté uno dei soldati. Si avvicinò alla testa di Jessica: «Basta con le chiacchiere. Tu, prendila per i piedi…»
«Perché non li uccidiamo qui?» chiese lo Sfregiato.
«Uno sporco lavoro» disse il primo soldato. «A meno che tu non voglia strangolarli. Io preferisco un lavoro ben fatto, pulito. Li scaraventiamo nel deserto, come ha detto il traditore, li colpiremo una, due volte e lasceremo ogni cosa ai vermi. Niente da pulire, dopo.»
«Già… hai proprio ragione.»
Jessica li ascoltava, osservando, registrando. Ma il bavaglio le impediva di usare la Voce. E c’era anche il sordo.
Faccia Sfregiata infilò il laser nella fondina e l’afferrò per i piedi. La sollevarono come un sacco di farina, le fecero attraversare la porta e la fecero cadere su una lettiga a sospensione, accanto a un’altra figura legata. Mentre la voltavano, per evitare che cadesse, lei vide il volto del suo compagno… Paul! Era legato, ma non imbavagliato. Il suo volto era a non più di dieci centimetri dal suo; aveva gli occhi chiusi e respirava regolarmente.
È drogato? si chiese.
I soldati sollevarono la lettiga e gli occhi di Paul si aprirono per un’infinitesima frazione di secondo… buie fessure che la fissavano.
Non deve provare la Voce! supplicò lei, in silenzio. Il soldato sordo!
Gli occhi di Paul si chiusero.
Si era servito del respiro controllato per calmare la mente, ascoltando i suoi rapitori. Il sordo costituiva un problema, ma Paul sapeva controllare la propria disperazione. La tecnica Bene Gesserit che sua madre gli aveva insegnato, per calmare la mente, gli consentiva di mantenersi perfettamente sveglio e calmo e pronto a sfruttare ogni opportunità.
Paul rischiò nuovamente e socchiuse gli occhi per guardare la madre. Non sembrava ferita. Tuttavia era imbavagliata.
Si chiese chi l’avesse catturata. Quanto a lui era fin troppo chiaro… era andato a letto inghiottendo una pillola, secondo le prescrizioni di Yueh, per poi svegliarsi legato su quella lettiga. Anche a sua madre era accaduto lo stesso? La logica indicava che il traditore era Yueh, ma non ci si poteva ancora pronunciare definitivamente su questo punto. Incomprensibile… un dottore Suk, un traditore!
La lettiga s’inclinò leggermente mentre i soldati Harkonnen la facevano scivolare attraverso una porta per uscire all’aperto, alla luce delle stelle. Uno dei sospensori raschiò contro la porta. Poi procedettero sulla sabbia che scricchiolava sotto i loro passi. Un’ala d’ornitottero comparve sopra di loro, oscurando le stelle. La lettiga venne appoggiata al suolo.
Gli occhi di Paul si aggiustarono alla debole luce. Faccia Sfregiata aprì lo sportello dell’ornitottero e guardò dentro, nella verde penombra del quadro di comando.
«È questo l’orni?» chiese voltandosi a guardare le labbra dei compagni.
«Il traditore ha detto che è stato preparato per il deserto.»
Lo sfregiato annuì: «Ma è uno di quelli che usano per i collegamenti brevi. C’è posto soltanto per due, là dentro».
«Due bastano» replicò quello che portava la lettiga avvicinandosi al sordo perché potesse leggergli le labbra. «Possiamo occuparcene noi due, d’ora in poi, Kinet.»
«Il Barone mi ha detto di assicurarmi della loro sorte» ribatté lo sfregiato.
«Di che cosa ti preoccupi?» disse il terzo soldato.
«Lei è una strega Bene Gesserit… Ha dei poteri.»
«Ahhh…» Quello che reggeva la lettiga si fece il segno del pugno accanto all’orecchio. «Una di loro, eh? Capisco quello che vuoi dire.»
Il soldato dietro di lui grugnì: «Sarà carne per i vermi fra poco. Sono convinto che neppure una strega Bene Gesserit abbia dei poteri contro quei grossi vermi. Eh, Czigo?» Diede una gomitata al collega della lettiga.
«Già» bofonchiò l’altro. Mise giù la lettiga, afferrò Lady Jessica per le spalle. «Vieni, Kinet. Accompagnala tu, se ci tieni veramente a vedere come finisce.»
«Gentile da parte tua invitarmi, Czigo» ringhiò lo sfregiato. Jessica si sentì sollevare, l’ombra dell’ala vorticò su di lei… poi le stelle. Fu spinta sul retro dell’ornitottero; le controllarono polsi e caviglie sempre stretti dal krimskell e allacciarono la cinghia. Paul fu spinto accanto a lei; anche la sua cinghia fu allacciata. Jessica notò che era legato con semplice corda.
Lo sfregiato (il sordo chiamato Kinet) prese posto davanti. Il portatore della lettiga, Czigo, girò intorno all’apparecchio e si sedette accanto a lui.
Kinet chiuse lo sportello dalla sua parte e si piegò sui controlli. L’ornitottero spiccò il volo con le ali ripiegate, dirigendosi a sud verso il Muro Scudo. Czigo batté una mano sulla spalla del compagno e gli disse: «Perché non ti volti e non tieni d’occhio quei due?»
«Sai la strada?» replicò Kinet, continuando a fissargli le labbra.
«Ho sentito anch’io il traditore, come te.»
Kinet fece ruotare il sedile. Jessica vide la luce delle stelle riflettersi sul laser che impugnava. I suoi occhi andavano abituandosi alla pallida luminosità dell’ornitottero, ma il volto dello sfregiato continuava a restare nell’ombra. Jessica saggiò la cinghia del suo sedile e scoprì che era allentata. Sentì che la cinghia era ruvida contro il suo braccio sinistro e si rese conto che era stata quasi completamente troncata e si sarebbe spezzata del tutto con uno strappo improvviso.
Qualcuno è stato in questa macchina e l’ha preparata per noi? si chiese. Chi? Lentamente allontanò i suoi piedi legati da Paul.
«È proprio un peccato sprecare una donna così bella» disse lo sfregiato. «Non te la sei mai fatta, una della nobiltà?» Si voltò a guardare il pilota.
«Le Bene Gesserit non sono tutte nobili» ribatté quest’ultimo.
«Ma hanno tutte un aspetto da nobili.»
Può distinguermi bene, pensò Jessica. Sollevò le gambe legate fino ad appoggiarle sul sedile, raggomitolandosi e fissando lo sfregiato.
«Veramente carina, no?» disse Kinet. S’inumidì le labbra. «È proprio un peccato.» Guardò Czigo.
«Stai pensando quello che penso io?» fece il pilota.
«Chi lo saprebbe mai? Dopo…» Kinet scrollò le spalle. «Non mi sono mai fatto una nobile. Forse non avrò mai più una possibilità come questa.»
«Se osi toccare mia madre…» ringhiò Paul e fulminò lo sfregiato con lo sguardo.
«Ehi!» scoppiò a ridere il pilota. «Il cucciolo abbaia. Ma non può mordere!»
Jessica pensò: Paul alza troppo la Voce. Ma potrebbe funzionare.
Continuarono a volare in silenzio.
Questi poveri idioti, pensò Jessica osservando le guardie e rievocando nella sua mente le parole del Barone. Saranno uccisi non appena avranno confermato il successo della loro missione. Il Barone non vuole testimoni.
L’ornitottero sorvolò l’orlo del Muro Scudo e Jessica distinse una distesa di ombre disegnate dalla luna sotto di loro.
«Qui dovrebbe essere abbastanza lontano» disse il pilota. «Il traditore ha detto di scaricarli sulla sabbia da qualsiasi parte vicino al Muro Scudo.» L’ornitottero si precipitò verso le dune, poi si arrestò sulla verticale.
Jessica vide che Paul applicava l’esercizio respiratorio per riacquistare il dominio di sé. Aveva chiuso gli occhi, ma li riaprì. Jessica lo fissò: non poteva aiutarlo. Non ha ancora il pieno controllo della voce, pensò. Se fallisce…
L’ornitottero rullò all’improvviso sulla sabbia e Jessica, guardando dietro di sé a nord verso il Muro Scudo, vide un’ombra alata che si adagiava lassù, nascondendosi.
Qualcuno ci segue, pensò. Chi? E ancora: Quelli che il Barone ha incaricato di sorvegliare questi due. E a sua volta qualcun altro li sorveglia.
Czigo bloccò i razzi e le ali. Il silenzio li avvolse.
Jessica girò la testa. Scorgeva all’esterno, oltre lo sfregiato, il debole riflesso di una luna che stava per sorgere all’orizzonte, una cresta rocciosa color del ghiaccio, solcata da dune sabbiose.
Paul si schiarì la gola.
Il pilota disse: «Adesso, Kinet?»
«Non lo so, Czigo.»
Czigo si voltò: «Ahhh, guarda». Tese la mano verso la gonna di Jessica.
«Toglile il bavaglio» ordinò Paul.
Jessica sentì le parole rimbalzare nell’aria. Il tono, l’intensità erano eccellenti… taglienti, imperativi. Un tono un po’ meno acuto sarebbe stato ancora migliore, comunque avrebbe colpito ugualmente lo spettro uditivo dell’uomo.
Czigo allungò una mano verso il bavaglio stretto intorno alla bocca di Jessica e cominciò a districarlo.
«Fermo!» gli ordinò Kinet.
«Ah, chiudi il becco!» ribatté Czigo. «Ha le mani legate.» Sciolse il nodo e il legaccio ricadde al suolo. I suoi occhi luccicarono mentre esaminava Jessica.
Kinet lo afferrò per un braccio: «Senti, Czigo, non c’è bisogno di…»
Jessica torse il collo e sputò fuori il bavaglio. Parlò a bassa voce, in tono intimo: «Signori, non c’è bisogno di battersi per me». E allo stesso tempo si contorceva tutta a beneficio di Kinet.
Vide che la tensione fra i due aumentava e sapeva che in quel preciso istante si erano convinti dell’assoluta necessità di battersi per averla. Il loro disaccordo non aveva bisogno di altre motivazioni. Nelle loro menti stavano già battendosi per averla.
Offrendo il viso alla luce degli strumenti per essere ben sicura che Kinet le leggesse le labbra, disse ancora: «Non dovete litigare». I due si staccarono ancora di più l’uno dall’altro, guardandosi con fare sospetto. «Vale forse la pena battersi per una donna?» lei concluse.
Per il solo fatto di aver parlato e di esser lì presente, essa era la causa vivente della loro disputa.
Paul strinse le labbra, sforzandosi di stare zitto. Aveva sfruttato la sua unica possibilità, la Voce. Ora… tutto dipendeva da sua madre, la cui esperienza era talmente più grande della sua.
«Già» disse lo sfregiato, «non c’è alcun bisogno di battersi per…»
La sua mano guizzò verso il collo del pilota, ma il colpo fu parato da un lampo metallico che intercettò il braccio e proseguì il movimento, conficcandosi con violenza nel petto di Kinet.
Lo sfregiato lanciò un grido soffocato e si accasciò contro lo sportello.
«Mi credevi così stupido da non conoscere questo trucco?» disse Czigo. Sollevò la mano e la lama di un pugnale scintillò alla luce della luna.
«Ora il cucciolo» disse ancora, curvandosi verso Paul.
«Non c’è bisogno di farlo» mormorò Jessica.
Czigo esitò.
«Non preferisci che io lo faccia spontaneamente?» chiese Jessica. «Dai una possibilità al ragazzo.» Le sue labbra si piegarono in un sorriso, come se lo schernisse: «Non avrà molte speranze là fuori, sulla sabbia. Dagli soltanto questa possibilità e…» (sorrise ancora) «… potresti scoprire che ne è valsa la pena.»
Czigo si guardò a destra e a sinistra e riportò la sua attenzione su Jessica. «Ho sentito quello che accade a un uomo nel deserto» fece. «Il ragazzo potrebbe preferire il pugnale.»
«Chiedo troppo?» implorò Jessica.
«Stai cercando d’ingannarmi?» disse Czigo.
«Non voglio veder morire mio figlio» replicò Jessica. «È un inganno, questo?»
Czigo si rialzò, fece scattare la serratura dello sportello, afferrò Paul e lo trascinò sopra il sedile, spingendolo per metà all’esterno. Impugnò il coltello, pronto a usarlo: «Che cosa farai, cucciolo, se ti taglierò le corde?»
«Si allontanerà di corsa verso quelle rocce, laggiù» disse Jessica.
«Lo farai, cucciolo?» chiese Czigo.
La voce di Paul era sufficientemente ringhiosa: «Sì».
L’uomo abbassò il coltello e troncò i legami delle gambe. Paul sentì la mano sulla schiena che lo spingeva giù, verso la sabbia: finse di urtare contro lo stipite e di muovere istintivamente le braccia legate, si girò, come per sostenersi, e scalciò violentemente.
L’alluce era puntato con estrema precisione, frutto di lunghi anni di esercizio, come se tutto il suo addestramento fosse concentrato in quell’attimo. Quasi ogni muscolo del suo corpo cooperò per piazzarlo al punto giusto. L’alluce colpì l’addome di Czigo, sotto lo sterno, e proseguì verso l’alto, sopra il fegato, penetrando con forza tremenda nel diaframma e fracassando il ventricolo destro del cuore.
Con un urlo che subito si spense in un gorgoglio, Czigo fu proiettato all’indietro sopra i sedili. Paul, impossibilitato a usare le mani, precipitò sulla sabbia, rimbalzando e rotolando su se stesso con tanta energia da potersi rialzare immediatamente. Si tuffò nuovamente nella cabina, trovò il coltello e lo strinse fra i denti perché sua madre tagliasse i propri legami. Poi Jessica lo afferrò a sua volta e liberò le mani del figlio.
«Avrei potuto cavarmela da sola» lei lo rimproverò. «Avrebbe comunque tagliato i miei legami. È stato uno stupido rischio.»
«Ho visto la possibilità e ne ho fatto uso.»
Lei sentì il rigido controllo della sua voce e disse: «C’è il segno della Casa di Yueh sul soffitto di questa cabina».
Paul alzò lo sguardo e vide il simbolo ricurvo.
«Usciamo ed esaminiamo questo velivolo» disse Jessica. «C’è un fagotto sotto il sedile del pilota. L’ho sentito quando siamo entrati.»
«Una bomba?»
«Non credo. C’è qualcosa di strano, qui.»
Paul balzò sulla sabbia e Jessica lo seguì. Si voltò, spinse la mano sotto il sedile cercando il fagotto. Sfiorò col viso i piedi di Czigo e sentì che il fagotto era umido mentre lo toglieva: si rese conto che era il sangue del pilota.
Spreco di umidità, disse tra sé, poiché questo era il modo di pensare su Arrakis. Si guardò intorno, vide la scarpata rocciosa che spuntava dal deserto come una spiaggia dal mare e più lontano i solchi verticali scavati dal vento. Si girò, mentre sua madre alzava il fagotto per estrarlo completamente dall’ornitottero, e la vide immobilizzarsi e fissare qualcosa oltre le dune, in direzione del Muro Scudo. Guardò a sua volta, e vide un’altra macchina volante che puntava su di loro, e si rese conto che non avrebbero avuto il tempo di togliere i corpi da questo ornitottero e fuggire.
«Corri, Paul!» gridò Jessica. «Sono gli Harkonnen!»
Arrakis insegna la mentalità del coltello — tagliare ciò che è incompleto, e dire: «Ora è completo perché finisce qui».
Un uomo con l’uniforme degli Harkonnen si arrestò in fondo al corridoio e fissò Yueh, abbracciando in un solo sguardo il corpo di Mapes, la figura distesa del Duca e Yueh in piedi accanto a lui. L’uomo impugnava un laser con la destra. Emanava una sensazione di brutalità, di durezza e di arroganza che fecero rabbrividire Yueh.
Sardaukar, pensò Yueh. Un Bashar, a giudicare dal suo aspetto. Probabilmente uno di quelli inviati dall’Imperatore a controllare come vanno le cose, qui. Non importa quale uniforme indossino: niente può mascherarli.
«Tu sei Yueh» disse l’uomo. Occhieggiò l’anello della Scuola Suk che tratteneva i capelli del dottore, fissò per un attimo la losanga tatuata sulla sua fronte e poi puntò gli occhi in quelli di Yueh.
«Io sono Yueh» confermò il dottore.
«Puoi rilassarti, Yueh» replicò l’uomo. «Quando hai annullato gli scudi della casa siamo subito entrati. Tutto è sotto controllo adesso. È questo il Duca?»
«Questo è il Duca.»
«Morto?»
«Soltanto privo di sensi. Suggerisco di legarlo.»
«Che cosa hai fatto a questi altri?» Lanciò un’occhiata nel corridoio, al cadavere di Mapes.
«Mi dispiace» mormorò Yueh.
«Ti dispiace?» lo beffeggiò il Sardaukar. Fece un passo avanti e considerò il Duca Leto. «Così, questo è il Duca Rosso?»
Se avevo ancora dei dubbi sull’identità di quest’uomo, le sue parole sono sufficienti a eliminarli, pensò Yueh. Soltanto l’Imperatore chiama così gli Atreides.
Il Sardaukar allungò una mano verso il corpo del Duca e strappò via la rossa insegna del falco. «Un piccolo ricordo» spiegò. «Dov’è l’anello col sigillo del Duca?»
«Non l’ha» disse Yueh.
«Lo vedo bene!» ribatté il Sardaukar.
Yueh s’irrigidì e inghiottì: Se insistono e fanno venire una Veridica, scopriranno subito quello che ho fatto dell’anello, l’ornitottero… e tutto finirà.
«A volte il Duca affida l’anello a un messaggero, come garanzia che un ordine proviene veramente da lui» spiegò Yueh.
«Un messaggero davvero fidato» mormorò il Sardaukar.
«Non legate il Duca?» azzardò Yueh.
«Per quanto tempo resterà ancora incosciente?»
«Più o meno due ore. Non sono stato così preciso col dosaggio, come per la donna e il ragazzo.»
Il Sardaukar sospinse il Duca con un piede: «Non c’è nulla da temere da lui, neppure quando sarà sveglio. Quando si sveglieranno la donna e il ragazzo?»
«Tra dieci minuti.»
«Così presto?»
«Mi è stato detto che il Barone sarebbe arrivato subito.»
«È vero. Tu aspetterai fuori, Yueh.» Lo fissò duramente. «Fuori!»
Yueh guardò Leto: «E…»
«Sarà consegnato al Barone tutto legato come un arrosto pronto per il forno.» Ancora una volta il Sardaukar fissò la losanga tatuata sulla fronte di Yueh: «Sanno chi sei. Sarai al sicuro in questi corridoi. Non c’è più tempo per le chiacchiere, traditore. Sento che gli altri stanno arrivando».
Traditore, pensò Yueh. Chinò gli occhi e passò davanti al Sardaukar: questo era soltanto l’inizio. Così la storia l’avrebbe ricordato: Yueh il traditore.
Scavalcò altri corpi prima di raggiungere l’ingresso principale e li guardò temendo che uno di essi potesse essere quello di Paul o di Jessica. Erano tutti soldati della casa, oppure indossavano la divisa degli Harkonnen.
Le guardie degli Harkonnen puntarono le armi quando uscì dalla porta principale, nella notte rischiarata dalle fiamme. Le palme lungo la strada erano state incendiate per illuminare la casa. Il fumo nero delle sostanze infiammabili sparse sulle piante s’innalzava nel cielo attraverso le lingue di fuoco arancione.
«È il traditore» disse qualcuno.
«Il Barone vorrà vederti presto» replicò un altro.
Devo raggiungere l’ornitottero, pensò Yueh. Devo nascondere il sigillo ducale dove Paul possa trovarlo. Il terrore gli contorse le viscere: Se Idaho sospetta di me o diventa impaziente… Se non aspetta e si precipita nel punto sbagliato… Jessica e Paul non sfuggiranno al massacro. Sarà negato al mio atto anche il più piccolo sollievo.
Una delle guardie Harkonnen lo afferrò per le braccia e lo scaraventò in un angolo: «Aspetta là!»
Improvvisamente, Yueh si sentì perduto in questi luoghi di distruzione, senza che nulla gli fosse risparmiato, senza che gli fosse concessa la minima pietà. Idaho non deve fallire!
Un’altra guardia lo urtò e abbaiò: «Stai alla larga, tu!»
Anche se ho assicurato il loro trionfo, ora mi disprezzano. Yueh si raddrizzò, mentre lo spingevano, riacquistando un po’ della sua dignità.
«Aspetta che venga il Barone!» gl’intimò un ufficiale con voce ringhiosa.
Yueh annuì, ma con lentezza calcolata percorse tutta la parte anteriore della casa e si tuffò nell’ombra, girando l’angolo non più illuminato dalle palme fiammeggianti. Rapidamente, con ansia crescente, Yueh si diresse verso il cortile, sul retro, sotto la serra, dove era in attesa l’ornitottero… l’apparecchio destinato a portar via Paul e la madre.
Una guardia era immobile all’ingresso posteriore della casa: la sua attenzione era concentrata sul corridoio illuminato e sugli uomini che si affaccendavano nelle perquisizioni.
Com’erano sicuri di sé!
Yueh restò nell’ombra, scivolando verso l’ornitottero; aprì lo sportello sul lato opposto a quello della guardia. Allungò una mano sotto i sedili per assicurarsi che ci fosse lo zaino Fremen che aveva nascosto in precedenza, ne alzò un lembo e fece scivolare all’interno la mano. Sentì la carta di spezia, dove aveva scritto il messaggio, incresparsi sotto le dita: vi avvolse l’anello. Tolse la mano e richiuse il lembo.
Delicatamente, Yueh accostò il portello dell’ornitottero, rifece la strada fino all’angolo della casa e ricomparve alla luce delle fiamme.
Ora è fatta, pensò.
Nuovamente costeggiò le palme fiammeggianti. Avvolse strettamente il mantello intorno al corpo e fissò le fiamme. Presto lo saprò. Presto vedrò il Barone e allora lo saprò. E il Barone… incontrerà un piccolo dente.
Una leggenda racconta che nell’istante in cui il Duca Leto Atreides morì, una meteora attraversò il cielo sul palazzo dei suoi antenati, a Caladan.
Il Barone Vladimir Harkonnen era in piedi accanto a un oblò del trasporto leggero che aveva deciso di usare come posto di comando. Fuori dell’oblò vide la notte di Arrakeen illuminata dalle fiamme. La sua attenzione si concentrò sul lontano Muro Scudo, dove la sua arma segreta stava operando. L’artiglieria pesante.
I cannoni facevano saltare pezzo per pezzo le caverne dove i soldati del Duca si erano ritirati per l’ultima, disperata resistenza. Lampi lenti e misurati di luce arancione e una pioggia di rocce e polvere visibile per brevi attimi alla luce delle esplosioni… e gli uomini del Duca venivano sigillati per sempre là dentro, destinati a morire di fame, come animali sorpresi nella tana.
Il Barone poteva udire il rimbombo lontano, il fremito che gli veniva trasmesso dal metallo della nave: bruuum… bruuum… E poi: BRUUUM-brum!
Chi avrebbe mai pensato di far rivivere l’artiglieria in quest’epoca di scudi? pensò con un breve scoppio d’ilarità nella mente. Ma era prevedibile che gli uomini del Duca si sarebbero precipitati verso quelle caverne. E l’Imperatore apprezzerà la mia astuzia, che ha preservato le nostre comuni milizie.
Regolò uno dei sospensori che salvaguardavano il suo corpo della spinta della gravità. Un sorriso gl’increspò le labbra tendendo la pelle delle sue guance grassocce.
Peccato distruggere soldati in gamba come quelli del Duca! Il suo sorriso si allargò. Peccato dover essere crudeli! Annuì. Ma i fallimenti si condannavano da soli. L’intero universo era lì, a portata di mano dell’uomo che sapeva prendere la decisione giusta. I conigli andavano spaventati, fatti correre ai loro buchi. Altrimenti, come sarebbe stato possibile dominarli, allevarli? S’immaginò i suoi soldati che spaventavano i conigli. Pensò: I giorni sono colmi di un dolce ronzio, quando vi sono abbastanza api che lavorano per te.
Una porta si aprì dietro di lui. Il Barone, prima di voltarsi, occhieggiò il riflesso sull’oblò oscurato dalla notte.
Piter de Vries avanzò nella stanza seguito da Umman Kudu, il capitano della guardia personale del Barone. Oltre la soglia, altri uomini si muovevano. Avevano tutti un muso da montone che in sua presenza si trasformava, cautamente, in pecora.
Il Barone si voltò.
Piter sfiorò con una mano una ciocca di capelli in un gesto ironico di saluto. «Buone notizie, mio Signore. I Sardaukar hanno portato qui il Duca.»
«Naturalmente» borbottò il Barone.
Studiò la maschera cupa che si disegnava sul volto malvagio ed effeminato di Piter. E gli occhi: due fessure d’un azzurro profondo.
Dovrò sbarazzarmene molto presto, pensò il Barone. Tra poco non mi servirà più a nulla e sarà una minaccia per la mia persona. Prima, tuttavia, dovrà farsi odiare dal popolo di Arrakis. E allora… accoglieranno il mio caro Feyd-Rautha come un salvatore!
Il Barone puntò gli occhi sul capitano delle guardie, Umman Kudu: i muscoli delle sue mascelle erano simili a forbici, il mento alla punta di uno stivale… un uomo di cui ci si poteva fidare, poiché i suoi vizi erano ben conosciuti.
«Prima di tutto» disse il Barone, «dov’è il traditore che mi ha consegnato il Duca? Devo consegnare al traditore il suo premio.»
Piter fece un mezzo giro su se stesso e fece un gesto alle guardie, là fuori.
Vi fu un po’ di trambusto, poi Yueh varcò la soglia. I suoi movimenti erano rigidi e tesi. I baffi quasi gli coprivano le labbra purpuree. Solo i suoi vecchi occhi sembravano vivi. Yueh fece tre passi nella stanza e si fermò obbedendo a un gesto di Piter, e restò immobile fissando il Barone oltre lo spazio vuoto.
«Ahhh, il dottor Yueh.»
«Mio Signore Harkonnen.»
«Ci avete consegnato il Duca, a quanto ho inteso.»
«La mia metà del patto, mio Signore.»
Il Barone fissò Piter.
Piter annuì.
Il Barone guardò nuovamente Yueh: «Il patto rispettato alla lettera, eh? E io…» Sputò fuori le parole: «Che cosa dovevo fare, in cambio?»
«Voi lo sapete molto bene, mio Signore Harkonnen.»
E Yueh, finalmente, ricominciò a pensare. Sentì il silenzio gravargli insopportabile nella mente: il tradimento si leggeva in ogni parola del Barone, in ogni suo atto. Wanna era morta… si trovava ormai al di là delle loro mani, per sempre. Altrimenti avrebbero ancora cercato di tenere in pugno il debole dottore. Ma tutto era finito, adesso.
«Davvero?» disse il Barone.
«Avevate promesso di liberare la mia Wanna dalla sua agonia.»
Il Barone annuì. «Oh, sì. Adesso ricordo. L’ho promesso. È stato proprio così che abbiamo vinto il Condizionamento Imperiale. Voi non sopportavate di vedere la vostra strega Bene Gesserit contorcersi tra gli amplificatori di dolore di Piter. Bene, il Barone Vladimir Harkonnen mantiene sempre le sue promesse. Vi garantii che l’avrei liberata dalla sua agonia e che vi avrei permesso di raggiungerla. E così sarà.» Fece un rapido gesto a Piter.
Gli occhi azzurri di Piter divennero vitrei. I suoi movimenti divennero simili a quelli di un felino: il coltello nelle sue mani scintillò come un artiglio mentre si piantava nella schiena di Yueh.
Il vecchio s’irrigidì, continuando a fissare il Barone.
«Ora, raggiungila!» esclamò il Barone.
Yueh rimase in piedi, ondeggiando. Le sue labbra si mossero con estrema precisione e la sua voce sillabò: «Voi… credete… di avermi sconfitto… Voi… credete… che non… sapessi… cosa avrei… procurato… alla mia Wanna…»
Si abbatté al suolo. Senza piegarsi o afflosciarsi. Crollò come un albero troncato alla base.
«Ora raggiungila» ripeté il Barone. Ma le sue parole risuonarono spente. Yueh aveva suscitato in lui un presentimento. Guardò Piter, che ripuliva la lama con uno straccio, e vide i suoi occhi azzurri socchiudersi, soddisfatti.
Ecco come uccide, pensò il Barone. Buono a sapersi.
«Ci ha veramente consegnato il Duca?» domandò.
«Sì, mio Signore» disse Piter.
«E allora portalo qui!»
Piter lanciò un’occhiata al capitano delle guardie il quale si voltò per ubbidire.
Il Barone fissò ancora il corpo di Yueh sul pavimento. Era crollato tutto di un pezzo: come una quercia, non come un uomo provvisto di ossa.
«Non ho mai avuto fiducia in un traditore» disse. «Neanche in un traditore creato da me.»
Guardò fuori dell’oblò, nelle tenebre della notte. Quell’immenso, tranquillo sacco di carbone là fuori era suo. Il Barone lo sapeva. Non si udiva più il martellare dell’artiglieria contro le caverne del Muro Scudo: le bocche delle tane erano state sigillate. All’improvviso la mente del Barone non riuscì a concepire niente di più bello del nero assoluto, come là fuori. A meno che non fosse bianco su nero. Bianco lucido. Bianco porcellana.
Ma c’era ancora quella sensazione di dubbio.
Che cosa intendeva dire quell’idiota di dottore? Naturalmente poteva già aspettarsi che cosa gli sarebbe accaduto, alla fine. Ma quella frase… Voi credete di avermi sconfitto.
Cos’aveva voluto dire?
Il Duca Leto Atreides entrò. Le sue braccia erano legate con catene, il suo volto d’aquila era imbrattato di polvere. La sua uniforme era strappata là dove qualcuno gli aveva tolto l’insegna. C’erano altri strappi lungo la cintura, là dove lo scudo era stato tolto senza allentare prima i legacci dell’uniforme. Gli occhi del Duca erano vitrei, lo sguardo di un pazzo.
«Ooooh!» disse il Barone. Esitò, respirando a fondo. Sapeva di aver parlato a voce troppo alta. L’incontro, atteso da tanto tempo, aveva perduto molto del suo sapore.
Maledetto quel dottore, per tutta l’eternità!
«Credo che il nostro buon Duca sia drogato» disse Piter. «È così che Yueh ce l’ha consegnato.» Piter si voltò verso il Duca: «Non siete forse drogato, mio caro Duca?»
La voce era lontanissima. Leto poteva sentire le catene, il dolore ai muscoli, le labbra screpolate, le guance ardenti, l’aspro sapore della sete che risuonava come una sfida nella sua bocca. Ma era sordo, e i suoni gli giungevano come attraverso una coperta.
«Che cosa è accaduto alla donna e al ragazzo, Piter?» chiese il Barone. «Niente ancora?»
La lingua di Piter guizzò sulle sue labbra,
«Tu hai sentito qualcosa!» l’interpellò bruscamente il Barone. «Che cosa?»
Piter lanciò una rapida occhiata al capitano delle guardie, poi guardò di nuovo il Barone: «Gli uomini incaricati del lavoro, mio Signore, sono stati… ehm… trovati…»
«Bene, riferiscono che tutto si è svolto in modo soddisfacente?»
«Sono morti, mio Signore.»
«Certo che sono morti! Quello che voglio sapere è…»
«Li abbiamo trovati morti, mio Signore.»
Il volto del Barone divenne livido: «E la donna e il ragazzo?»
«Nessuna traccia, mio Signore, ma c’era un verme. È arrivato mentre stavamo ispezionando la zona. Forse è andata proprio come volevamo, un incidente. È possibile che…»
«Non viviamo di possibilità, Piter. Che cosa è successo a quell’ornitottero scomparso? Questo non suggerisce nulla al mio Mentat?»
«Uno degli uomini del Duca è ovviamente fuggito con esso, mio Signore. Ha ucciso il nostro pilota ed è fuggito.»
«Quale uomo del Duca?»
«È stata un’uccisione pulita, silenziosa, mio Signore. Hawat, forse, o Halleck. Possibilmente Idaho. O uno qualunque dei primi luogotenenti.»
«Possibilità» borbottò il Barone. Guardò la figura oscillante e drogata del Duca.
«La situazione è sotto controllo, mio Signore» insistette Piter.
«No, non lo è! Dov’è quello stupido planetologo? Dov’è l’uomo chiamato Kynes?»
«Abbiamo ricevuto informazioni su dove trovarlo e l’abbiamo mandato a chiamare, mio Signore.»
«Non mi piace il modo in cui il servo dell’imperatore ci aiuta» mormorò il Barone.
Erano come parole filtrate attraverso uno strato di cotone, ma alcune di esse fiammeggiavano nella mente di Leto. La donna e il ragazzo… nessuna traccia. Paul e Jessica erano fuggiti. E il destino di Hawat, Halleck e Idaho restava un’incognita. C’era ancora speranza.
«Dov’è l’anello col sigillo ducale?» domandò il Barone. «Non ha niente al dito.»
«Il Sardaukar ha detto che non l’aveva quando è stato catturato, mio Signore» dichiarò il capitano delle guardie.
«Hai ucciso il dottore troppo presto» disse il Barone. «È stato un errore. Avresti dovuto avvertirmi, Piter. Ti sei mosso troppo precipitosamente, compromettendo il successo della nostra operazione.» Aggrottò le sopracciglia. «Possibilità!»
Il pensiero continuò a vibrare nella mente di Leto: Paul e Jessica erano fuggiti! E c’era qualcos’altro nella sua memoria: un patto. Poteva quasi ricordarlo…
Il dente!
Cominciò a ricordare: una capsula di gas mortale a forma di dente.
Qualcuno gli aveva ingiunto di ricordare il dente. Il dente era nella sua bocca. Poteva sentirne la forma con la lingua. Tutto quello che doveva fare era morderlo con forza.
Non ancora!
Qualcuno gli aveva detto di aspettare finché non fosse stato vicino al Barone. Chi era stato a dirglielo? Non riusciva a ricordare.
«Quanto tempo resterà drogato così?» chiese il Barone.
«Forse un’altra ora, mio Signore.»
«Forse» borbottò il Barone. Di nuovo si voltò verso l’oblò e l’oscurità della notte. «Ho fame» disse.
Quella forma grigia e confusa, laggiù, è il Barone, pensò Leto. La forma sembrava danzare avanti e indietro, insieme con la stanza. E la stanza si espandeva e si contraeva. La luce aumentava e diminuiva. Poi scomparve del tutto.
Il tempo, per il Duca, era una successione di strati. Li stava risalendo uno a uno. Devo aspettare.
C’era un tavolo. Leto lo vide molto chiaramente. E un uomo enormemente grasso sull’altro lato del tavolo e i resti di un pasto davanti a lui. Leto capì di essere seduto dalla parte opposta dell’uomo grasso, sentì le catene, le cinghie che legavano il suo corpo alla sedia e un formicolio che l’invadeva. Capì che era passato del tempo, ma quanto?
«Credo che si stia svegliando, Barone.»
Una voce insinuante… Piter.
«Lo vedo, Piter.»
Un brontolio di basso: il Barone.
Leto sentì che quanto lo circondava si faceva più netto. La sedia sotto di lui divenne più solida, i legami più taglienti.
Ora vedeva chiaramente il Barone. Osservò i movimenti della sua mano: un tocco sforzato… orlo di un piatto… il manico di un cucchiaio, un dito che seguiva la piega di una guancia.
Leto fissò affascinato la mano che si muoveva.
«Voi mi potete sentire, Duca Leto» disse il Barone. «So che mi potete sentire. Voglio sapere dov’è la vostra concubina e quel ragazzo che vi ha generato.»
Nessun gesto sfuggiva a Leto, ma le parole lo attraversarono come una lenta risacca. È vero, allora. Non hanno né lui né Jessica.
«Qui non stiamo giocando!» urlò il Barone. «Tu lo sai!» Si curvò verso Leto, studiandone il viso. Dispiaceva molto al Barone non poter trattare la faccenda in forma privata, fra loro due soltanto. Mostrare un nobile in queste condizioni creava un pessimo precedente.
Leto sentì che riacquistava le forze. Ora il ricordo di quel dente falso risplendeva nella sua mente come un faro luminoso nella notte. La capsula a forma di nervo all’interno del dente… il gas venefico… ora ricordò chi aveva inserito quell’arma mortale nella sua bocca.
Yueh.
Il ricordo offuscato di un corpo inerte, trascinato sotto i suoi occhi fuori da quella stanza, aleggiò nella sua mente. Era il corpo di Yueh, lo sapeva.
«Senti quel rumore, Duca Leto?» chiese il Barone.
Leto acquistò coscienza, allora, di un grido simile al richiamo notturno di una rana: l’agonia di qualcuno.
«Abbiamo catturato uno dei tuoi uomini travestito da Fremen» spiegò il Barone. «Ci è stato facile scoprirlo: gli occhi, naturalmente. Egli insiste nel dire che è stato inviato tra i Fremen per spiarli. Ma io sono vissuto per un certo periodo su questo pianeta e so che non si spia questa feccia del deserto. Dimmi una cosa: hai forse comperato il loro aiuto? Hai mandato la tua donna e tuo figlio tra essi?»
Leto sentì la paura afferrarlo al petto. Se Yueh li ha mandati tra le genti del deserto… non smetteranno di cercarli finché non li avranno trovati.
«Avanti, avanti» disse il Barone, «non abbiamo molto tempo e il dolore è rapido. Per favore, non costringermi a questo, mio caro Duca.» Il Barone fissò Piter, che si trovava alle spalle del Duca. «Piter non ha sottomano tutti i suoi strumenti, ma sono convinto che saprebbe improvvisare.»
«Improvvisare a volte è meglio, Barone.»
Che voce insinuante e subdola! Leto l’aveva sentita sfiorargli l’orecchio.
«Tu avevi un piano d’emergenza» insistette il Barone. «Dove hai mandato la tua donna e il ragazzo?» Fissò la mano di Leto: «Non hai più l’anello. L’hai dato al ragazzo?»
Il Barone piantò gli occhi in faccia a Leto.
«Non rispondi?» ringhiò. «Vuoi forse costringermi a fare una cosa che odio? Piter userà dei metodi semplici e diretti. Sono d’accordo anch’io che a volte sono i migliori, ma non è bene, no, che tu sia sottoposto ad essi!»
«Sego bollente sulla schiena, forse, o sulle palpebre» disse Piter, «e su qualche altra parte del corpo. È particolarmente efficace, soprattutto quando il soggetto ignora in quale punto sarà versato la prossima volta. È un buon metodo, e c’è una sorta di bellezza nel disegno delle vesciche che si formano sulla pelle. Non è così, Barone?»
«Squisito» replicò il Barone, acido.
Quelle dita! Leto guardò le mani grassocce, i gioielli scintillanti sulle mani paffute da bambino… il modo in cui si muovevano continuamente.
L’urlo d’agonia che proveniva dalla stanza accanto penetrava i nervi del Duca. Chi avranno preso? si chiese. Idaho?
«Credimi, cher cousin» ripeté il Barone, «non voglio arrivare a questo.»
«Pensate ai messaggi nervosi, che corrono dalla zona toccata a chiedere un aiuto che non può venire…» disse Piter. «C’è dell’arte, in tutto questo!»
«Sei un grande artista» grugnì il Barone, «ma adesso abbi la decenza di star zitto!»
Leto improvvisamente si ricordò di una citazione che Gurney Halleck aveva ripetuto una volta, davanti a una fotografia del Barone: «Ed ero sulla spiaggia e vidi un mostro uscire dal mare… e sulle sue teste il nome dell’empietà».
«Stiamo sprecando tempo, Barone» disse Piter.
«Forse.»
Il Barone annuì. «Leto, mio caro, sai che alla fine ci dirai dove si trovano. A una certa intensità del dolore, parlerai anche tu.»
E probabilmente ha ragione, pensò Leto. Se non fosse per il dente… e per il fatto che in realtà io non so dove si trovino.
Il Barone afferrò una fetta di carne e se la cacciò in bocca, masticandola lentamente e inghiottendola. Dobbiamo provare una nuova tattica, pensò.
«Osserva questo prigioniero che nega di essere in vendita» disse. «Osservalo bene, Piter.»
E il Barone pensò: Sì, guardalo! Quest’uomo che crede di non poter essere comprato. Ed è qui prigioniero, mentre migliaia di suoi frammenti vengono venduti al dettaglio ad ogni istante della sua vita! Se ora lo afferrassimo e lo scuotessimo, risuonerebbe a vuoto! Venduto! Che differenza fa, se muore in un modo o in un altro?
Il rumore da rana, sullo sfondo, cessò.
Il Barone vide Umman Kudu, il capitano delle guardie, comparire sulla soglia e scuotere la testa. Il prigioniero non aveva dato l’informazione voluta. Un altro fallimento. Basta temporeggiare con questo idiota del Duca! Questo stupido, molle idiota il quale non si rende conto di quanto l’inferno sia vicino a lui… lo spessore di un nervo!
Questo pensiero calmò il Barone, vincendo la sua riluttanza a sottoporre un nobile alla tortura. Si vide improvvisamente nelle vesti di un chirurgo che stesse per praticare infinite dissezioni col suo agile bisturi… tagliando via la maschera agli idioti e rivelando l’inferno sottostante.
Conigli, tutti conigli!
E come si acquattavano tremando, non appena vedevano un carnivoro!
Leto tenne lo sguardo fisso attraverso la tavola, chiedendosi che cosa aspettasse. Il dente avrebbe posto fine a tutto molto rapidamente. Ma, nell’insieme, la sua vita era stata bella. Gli ritornò alla memoria un aquilone sospeso nel cielo azzurro mare di Caladan e Paul che rideva di gioia guardandolo. E il sole all’alba, qui su Arrakis… e i colori cangianti del Muro Scudo soffusi nell’alone di polvere.
«Tanto peggio» borbottò il Barone. Si spinse indietro, si alzò con leggerezza, spinto dai sospensori, ed esitò, notando un cambiamento nell’espressione del Duca. Vide che Leto aveva respirato profondamente e che la sua mascella si era irrigidita. Un muscolo fremette e il Duca chiuse la bocca.
Quanta paura! pensò il Barone.
Terrorizzato all’idea che il Barone potesse sfuggirgli, Leto morse con violenza la capsula celata nel dente e la sentì spezzarsi. Aprì la bocca ed espulse il vapore pungente che già sentiva formarsi sulla sua lingua. Il Barone sembrò diventare più piccolo, come una figura vista in un tunnel che si restringesse. Leto percepì un respiro affannoso accanto al suo orecchio… La voce insinuante: Piter.
Ho preso anche lui!
«Piter, che cosa succede?»
La voce rimbombò lontana.
Leto scivolò rapido attraverso i ricordi… simili all’antico brontolio delle vecchie sdentate. La stanza, il tavolo, il Barone, due occhi atterriti… azzurri nell’azzurro… tutto si schiacciò intorno a lui in una simmetrica distruzione.
C’era un uomo col mento simile alla punta di uno stivale, un pupazzo che cadeva. Il pupazzo aveva il naso storto a sinistra: un metronomo, immobilizzato per sempre all’inizio della sua risalita. Leto sentì l’acciottolio delle stoviglie… così lontano… un rombo nelle sue orecchie. La sua mente era un pozzo senza fondo, che raccoglieva tutto. Tutto quello che era sempre esistito: ogni urlo, ogni bisbiglio, ogni… silenzio.
Gli rimaneva un unico pensiero. Leto lo percepì come qualcosa senza forma, un groviglio di luce nera: Il giorno modella la carne, la carne modella il giorno. Il pensiero lo colpì con un senso di completezza che, lo sapeva, non sarebbe mai riuscito a spiegare.
Silenzio.
Il Barone era in piedi, schiacciato con la schiena contro la sua porta privata, nel piccolo vestibolo dietro la tavola. L’aveva chiusa dietro di sé con un tonfo e sprangata su una stanza piena di morti. I suoi sensi gli dicevano che le guardie stavano accorrendo da ogni parte. L’ho respirato? si chiese. Qualsiasi cosa fosse, ha raggiunto anche me?
Riuscì nuovamente a percepire i suoni… e ricominciò a ragionare. Sentì qualcuno che gridava degli ordini: maschere antigas… tenete le porte chiuse… azionate i ventilatori.
Sono crollati subito! pensò. Io sono ancora in piedi. Respiro ancora. Per l’inferno! C’è mancato poco!
Ora poteva analizzare l’accaduto. Il suo scudo era in funzione, regolato al minimo ma sempre a sufficienza per rallentare lo scambio molecolare attraverso la barriera energetica. E si stava scostando dalla tavola… quello, e il singhiozzo di Piter che aveva spinto il capitano delle guardie a balzare in avanti, verso la morte. Il caso, e l’avvertimento nel rantolo del morente… Questo gli aveva salvato la vita. Il Barone non provò alcuna gratitudine per Piter. Quell’idiota si era lasciato uccidere. E quello stupido capitano delle guardie! Aveva garantito di aver perquisito tutti, prima di condurli alla presenza del Barone! Com’era stato possibile che il Duca…? Nessun avvertimento, neppure il rivelatore di veleni sopra la tavola… finché non era stato troppo tardi. Ma come?
Beh, ora non ha importanza, pensò il Barone, mentre la sua mente si calmava. Il nuovo capitano delle guardie comincerà il proprio lavoro cercando la risposta a questa domanda.
Percepì un’attività più intensa, fuori, nel corridoio, intorno all’angolo presso il quale si apriva la stanza della morte. Il Barone spinse l’altra porta e uscì. I servitori lo circondarono, immobili e in silenzio, in attesa delle sue reazioni.
Il Barone… sarà furioso?
Il Barone si rese conto che erano passati pochi secondi dall’istante in cui era fuggito da quell’orribile stanza.
Alcune delle guardie tenevano le armi puntate contro la porta. Altri invece presidiavano, feroci, il corridoio vuoto che si prolungava oltre la curva.
Un uomo uscì a grandi passi dall’angolo: la maschera antigas gli pendeva dal collo appesa alle cinghie e aveva gli occhi fissi ai rivelatori di veleni disposti a intervalli regolari in alto, sul soffitto del corridoio. Aveva i capelli gialli, il volto piatto con due occhi verdi. Rughe sottili s’irradiavano tutto intorno alle sue labbra grosse. Aveva l’aspetto di una creatura acquatica capitata per caso tra gli animali terrestri.
Il Barone fissò l’uomo che si avvicinava, ricordandone il nome: Nefud, Iakin Nefud. Caporale delle guardie. Nefud si drogava con la semuta, la droga musicale che operava nel più profondo della coscienza. Un’utile informazione.
L’uomo si arrestò davanti al Barone, scattando sull’attenti. «Il corridoio è sicuro, mio Signore. Ero di guardia, là fuori, e ho capito subito che era un gas letale. I ventilatori della vostra stanza aspiravano l’aria da questo corridoio.» Alzò gli occhi al rivelatore che sovrastava il Barone. «Neppure una traccia del gas è sfuggita. Abbiamo completamente ripulito la vostra stanza. Quali sono gli ordini?»
Il Barone riconobbe la voce dell’uomo: quella che aveva gridato gli ordini. Efficiente, pensò.
«Sono tutti morti là dentro?» chiese.
«Sì, mio Signore.»
Beh, bisogna adattarsi, pensò il Barone.
«Per prima cosa» disse, «mi congratulo con te, Nefud. Sei il mio nuovo capitano delle guardie. E spero che avrai imparato la lezione… la morte del tuo predecessore.»
Il Barone vide la consapevolezza della nuova posizione prender corpo nella mente del neo capitano. Nefud capiva che non sarebbe mai più rimasto senza semuta.
Nefud annuì. «Il mio Signore sa che mi dedicherò interamente alla sua sicurezza.»
«Sì, bene. Parliamo di affari, adesso. Sospetto che il Duca avesse qualcosa in bocca. Tu scoprirai di che cosa si trattava, come è stato usato, chi l’ha aiutato a nasconderlo là dentro. Prenderai ogni precauzione…»
Si arrestò. Un rumore confuso proveniva dal corridoio, alle sue spalle. Le guardie alla porta dell’ascensore che conduceva ai livelli inferiori della fregata spaziale cercavano di trattenere un colonnello Bashar alto e slanciato che era appena balzato fuori dalla cabina.
Il Barone non riconobbe il volto del colonnello Bashar: magro e simile al cuoio, la bocca che sembrava uno squarcio e una macchia d’ombra al posto degli occhi.
«Toglietemi le mani di dosso, banda di avvoltoi!» ruggì il colonnello, e spinse via le guardie con violenza.
Ah, uno dei Sardaukar, pensò il Barone.
Il colonnello Bashar si avvicinò a grandi passi, e gli occhi del Barone si ridussero a due fessure sottili, piene di apprensione. Gli ufficiali Sardaukar lo riempivano d’inquietudine. Tutti avevano un aspetto che li faceva sembrare parenti del Duca… del defunto Duca. E che modi!
Il colonnello Bashar si piantò a mezzo passo dal Barone, le mani sui fianchi. Le guardie, perplesse, gli si piazzarono alle spalle.
Il Barone notò l’assenza di qualsiasi saluto, i modi sdegnosi tipici dei Sardaukar, e la sua inquietudine aumentò. C’era un’unica legione di Sardaukar (dieci brigate) su Arrakis, per dar manforte alle truppe degli Harkonnen, ma il Barone non s’illudeva. Quella singola legione era perfettamente capace di rivoltarsi contro gli Harkonnen e di trionfare.
«Dite al vostri uomini che non devono cercare d’impedirmi di vedervi!» ringhiò il Sardaukar. «Quanto ai miei uomini, vi hanno portato il Duca Atreides prima che io potessi discutere con voi la sua sorte. Lo facciamo adesso.»
Non devo perdere la faccia davanti ai miei uomini, pensò il Barone.
«E allora?» La sua voce era fredda e controllata: il Barone ne fu orgoglioso.
«Il mio Imperatore mi ha incaricato di assicurarmi che suo cugino muoia pulitamente, senza soffrire» dichiarò il colonnello Bashar.
«Questi erano gli ordini che anch’io avevo ricevuto dall’Imperatore» mentì il Barone. «Credete forse che li avrei disobbediti?»
«Riferirò all’Imperatore quello che avrò visto con i miei stessi occhi!» ribatté il Sardaukar.
«Il Duca è già morto» annunciò bruscamente il Barone, e congedò l’uomo con un gesto.
Il colonnello Bashar restò piantato davanti a lui. Non un battito di ciglia, non il più piccolo fremito di un muscolo indicarono che avesse notato il congedo. «Come?» ringhiò.
Davvero questo è troppo! pensò il Barone.
«Per sua propria mano, se volete proprio saperlo. Si è avvelenato.»
«Voglio vedere il corpo!» insistette il Sardaukar.
Il Barone alzò gli occhi al soffitto, fingendo esasperazione, mentre i suoi pensieri galoppavano: Maledizione! Questo Sardaukar è troppo sveglio. Vedrà la stanza senza che nulla sia stato spostato!
«Subito!» urlò il Sardaukar. «Voglio vederlo con i miei occhi!»
Non c’è modo d’impedirlo, si disse il Barone. Il Sardaukar avrebbe visto tutto. Avrebbe saputo che il Duca aveva ucciso degli Harkonnen… e che il Barone era sfuggito alla morte per un soffio. C’erano ancora i resti della sua cena, come prova, e il corpo del Duca al centro della stanza, circondato dai morti.
Impossibile evitarlo.
«Non voglio sentire scuse» insistette rabbiosamente il colonnello Bashar.
«Non si tratta di scuse» replicò il Barone, e fissò gli occhi di ossidiana del Sardaukar. «Non ho nulla da nascondere al mio Imperatore.» Fece un cenno a Nefud: «Il colonnello Bashar deve vedere tutto, subito. Fallo entrare da quella porta, Nefud».
«Da questa parte, signore» disse Nefud.
Lentamente e con insolenza il Sardaukar girò intorno al Barone e si fece largo a spintoni tra le guardie.
Insopportabile, pensò ancora il Barone. Ora l’Imperatore saprà come io abbia fallito. Lo giudicherà un segno di debolezza.
Era angosciato: l’Imperatore e i Sardaukar erano uguali nel loro sdegno per le debolezze. Il Barone si morse il labbro inferiore, consolandosi col fatto che, almeno, l’Imperatore non era al corrente della scorreria degli Atreides su Giedi Primo, e della distruzione dei depositi di spezia degli Harkonnen.
Sia maledetto quel perfido Duca!
Il Barone fissò le schiene che si allontanavano: l’arrogante Sardaukar, il tarchiato ed efficiente Nefud.
Dobbiamo adattarci, pensò il Barone. Dovrò mettere Rabban un altra volta al governo di questo maledetto pianeta. Senza limitazioni: dovrò usare il mio stesso sangue Harkonnen per mettere Arrakis nelle condizioni di accettare Feyd-Rautha. Maledetto Piter! Si è fatto uccidere prima che io avessi finito di usarlo!
Il Barone sospirò.
Devo mandar subito qualcuno su Tleilax per avere un Mentat. Non c’è dubbio che ne avranno già uno nuovo, pronto per me.
Una delle guardie accanto a lui tossì.
Il Barone si voltò: «Ho fame».
«Sì, mio Signore.»
«E voglio divertirmi, mentre voi ripulite la stanza e studiate tutti i suoi segreti per me!» gridò, infuriato.
La guardia abbassò gli occhi: «Quale divertimento desidera il mio Signore?»
«Sarò nella mia camera da letto» disse il Barone. «Portami quel giovane che abbiamo comperato su Gamont, quello con gli occhi adorabili… Drogalo, soprattutto. Non ho voglia di fare la lotta.»
«Sì, mio Signore.»
Il Barone si voltò, e cominciò a spostarsi saltellando sui suoi sospensori, verso le sue stanze. Sì, pensò, quello con gli occhi così adorabili, quello che assomiglia tanto al giovane Paul Atreides…
O mari di Caladan,
O gente del Duca Leto…
La cittadella di Leto è caduta,
Caduta per sempre…
Paul sentì che tutto il suo passato, tutta la sua vita prima di quella notte, erano diventati come la sabbia che scivola in una clessidra. Sedeva accanto a sua madre, stringendosi le ginocchia, all’interno di una specie di tenda di tessuto e plastica: una tenda distillante che avevano trovato insieme con le tute Fremen (subito indossate) nello zaino estratto dall’ornitottero.
Non c’era alcun dubbio, nella mente di Paul, su chi aveva nascosto lo zaino stabilendo con cura la rotta dell’ornitottero che li aveva trasportati fin laggiù.
Yueh.
Il dottore, il traditore li aveva spediti direttamente nelle mani di Idaho. Paul guardò fuori, attraverso il lato trasparente della tenda distillante, le rocce illuminate dalla luce della luna che circondavano il rifugio dove Duncan Idaho li aveva nascosti.
Mi nascondo come un ragazzo, io che ora sono il Duca, pensò Paul. Questo pensiero lo rodeva interiormente, ma non poteva negare che nascondersi era la cosa più saggia.
Qualcosa era accaduto alla sua percezione, quella notte: vedeva con assoluta chiarezza tutte le circostanze e gli avvenimenti intorno a lui. Si sentì incapace di arginare quel flusso di dati. Con fredda precisione, ogni nuovo elemento si addizionava alla sua conoscenza, e i calcoli sembravano concentrarsi nel punto focale della sua coscienza. Aveva i poteri di un Mentat, e più ancora.
Paul ripensò all’istante di rabbia impotente, quando quell’ornitottero sconosciuto era sbucato fuori dalla notte precipitandosi su di loro, calandosi come un falco gigantesco sopra il deserto, mentre il vento sibilava fra le sue ali. Qualcosa aveva folgorato il suo spirito. L’ornitottero era scivolato sulla sabbia, dritto su di loro, giù per un’immensa duna, enorme al confronto delle due figure che correvano: sua madre e lui. Paul ricordò l’odore di zolfo bruciato causato dal violento attrito dei pattini del veicolo sulla sabbia crepitante.
Sua madre, lui lo sapeva, si era voltata, convinta di dover affrontare un laser nelle mani dei mercenari Harkonnen, e aveva invece riconosciuto Duncan Idaho che si sporgeva fuori dallo sportello dell’ornitottero, urlando: «Muovetevi! C’è un segno del verme a sud!»
Ma Paul aveva indovinato fin dal primo momento chi pilotava l’ornitottero. Tanti piccoli dettagli sul modo di guida, l’atterraggio fulmineo: indicazioni così impercettibili che neppure sua madre le aveva notate, ma che avevano fornito a Paul l’esatta consapevolezza di chi sedeva ai comandi.
Sull’altro lato della tenda distillante, Jessica si mosse, e disse: «Ci può essere un’unica spiegazione. Gli Harkonnen si erano impadroniti della moglie di Yueh. Lui odiava gli Harkonnen! Non posso sbagliarmi su questo. Hai letto il suo messaggio. Ma perché ci ha salvati dal massacro?»
L’indovina soltanto adesso, e con difficoltà, pensò Paul. E questo pensiero fu uno shock per lui. Paul aveva capito ogni cosa con perfetta naturalezza, semplicemente leggendo il messaggio che aveva accompagnato l’anello ducale col sigillo.
«Non cercate di perdonarmi», aveva scritto Yueh. «Non voglio alcun perdono. Il mio fardello è già abbastanza grave. Ho agito senza animosità e senza alcuna speranza di comprensione. È stato il mio tahaddi al-burhan, la mia prova suprema. Vi lascio il sigillo ducale degli Atreides come testimonianza che dico il vero: quando leggerete questo messaggio, il Duca Leto sarà morto. Possa consolarvi la mia dichiarazione che non è morto da solo; colui che odiamo più di tutti è morto con lui.»
Non c’era firma, ma non c’erano dubbi su quella calligrafia familiare: Yueh.
Ricordando il messaggio, Paul rivisse l’improvvisa angoscia che lo aveva colpito: qualcosa di strano, di acuto, che sembrava manifestarsi al di fuori della sua nuova agilità mentale. Aveva letto che suo padre era morto, riconoscendo l’autenticità di quelle parole, ma le aveva percepite come una pura informazione da incasellare nella sua mente per usarla in seguito.
Ho amato mio padre, pensò Paul, e seppe che era vero. Dovrei piangerne la scomparsa. Dovrei sentire qualcosa.
Ma non sentiva nulla, fuorché: È una notizia importante.
Era soltanto un fatto, come gli altri.
Per tutto quel tempo la sua mente aveva continuato ad accumulare impressioni sensorie, estrapolando e calcolando.
Le parole di Halleck gli ritornarono alla mente: L’umore va bene per le bestie o per fare all’amore. Non è fatto per chi combatte.
Forse e proprio così, disse Paul tra sé. Piangerò la morte di mio padre più tardi… quando ne avrò il tempo.
Ma la fredda decisione del suo essere non rivelò alcuna flessione. Intuì che la sua nuova consapevolezza era soltanto un inizio e che sarebbe aumentata. L’impressione di uno scopo terribile, che aveva sperimentato per la prima volta durante la sua ordalia con la Reverenda Madre Gaius Helen Mohiam, tornò ad afferrarlo. La mano destra, la mano che ricordava il dolore, gli prudeva e pulsava.
Significa forse, questo, essere lo Kwisatz Haderach? s’interrogò.
«Ho creduto per un attimo che Hawat avesse commesso un altro errore» disse Jessica. «Ho pensato che Yueh non fosse un dottore Suk.»
«Era come lo pensavamo… e qualcosa di più» replicò Paul, e pensò: Perché è così lenta nel vedere le cose? E continuò: «Se Idaho non riuscirà a raggiungere Kynes, noi saremo…»
«Non è la nostra unica speranza» ribatté Jessica.
«Non intendevo questo» disse Paul.
Lei percepì la metallica durezza della sua voce, il tono imperioso, e lo scrutò nel cupo grigiore della tenda distillante. Paul era un profilo stagliato contro le rocce inondate dai raggi della luna, che spiccavano al di là del lato trasparente della tenda.
«Altri uomini di tuo padre saranno fuggiti» riprese Jessica. «Dobbiamo riunirli, trovare…»
«Dobbiamo cavarcela da soli» ribatté Paul. «La nostra prima preoccupazione saranno le atomiche di famiglia. Dobbiamo riaverle, prima che gli Harkonnen comincino a cercarle.»
«È assai improbabile che le trovino» disse Jessica, «là dove le abbiamo nascoste.»
«Niente dev’essere lasciato al caso.»
Jessica pensò: Usare la minaccia delle atomiche di famiglia! Una minaccia all’intero pianeta e alla spezia, ecco quello che ha in mente! Ma in questo caso può sperare soltanto nella fuga e nella vita senza nome di un rinnegato.
Le parole di sua madre avevano suscitato un altro pensiero in Paul: in quanto Duca, si preoccupava per tutta la gente che si era sperduta quella notte nel deserto. Una Grande Casa ha la sua forza nella sua gente, pensò Paul. E ricordò le parole di Hawat: È triste separarsi dalla gente: un luogo è soltanto un luogo.
«Si servono dei Sardaukar» disse Jessica. «Bisognerà aspettare che i Sardaukar siano partiti.»
«Credono di averci in trappola tra il deserto e i Sardaukar» replicò Paul. «Vogliono che non sopravviva uno solo degli Atreides… Sterminio totale! Non devi far conto sul fatto che qualcuno dei nostri riesca a salvarsi.»
«Ma non potranno continuare per molto, esponendo così l’Imperatore in questo affare.»
«Davvero?»
«Alcuni dei nostri riusciranno a fuggire.»
«Davvero?»
Jessica girò il capo, spaventata dall’amarezza e dalla durezza di suo figlio, avvertendo l’intenso lavorio della sua mente per il calcolo di ogni probabilità. Seppe che la mente di Paul aveva distanziato la sua; Paul, ora, vedeva più lontano di lei. Lei stessa aveva contribuito ad addestrare l’intelligenza che gli consentiva di farlo, ma scoprì di averne paura. I suoi pensieri cercarono allora, disperatamente, il riparo perduto che per lei era stato il Duca, e le lagrime le bruciarono gli occhi.
Così doveva essere, Leto, disse tra sé. «Un tempo per l’amore e un tempo per il dolore.» Si accarezzò il ventre, acutamente conscia dell’embrione che portava in sé. Ho la figlia degli Atreides che mi è stato ordinato di generare, ma la Reverenda Madre si sbagliava: una figlia non avrebbe salvato il mio Leto. Questa bambina è soltanto la vita che si prolunga verso il futuro, in una realtà di morte. L’ho concepita d’istinto e non per obbedienza.
«Prova ancora il comunicatore» disse Paul.
La mente continua a lavorare, qualsiasi cosa si faccia per trattenerla, pensò Jessica.
Afferrò la piccola ricevente che Idaho aveva lasciato e fece scattare l’interruttore col pollice. Una luce verde si accese sul davanti dello strumento. Scricchiolii metallici uscirono dall’altoparlante. Ridusse il volume, variando la sintonia. Una voce che parlava il linguaggio di battaglia degli Atreides risuonò nella tenda:
«…indietro, e raggruppatevi sulla cresta. Fedor a rapporto: nessun sopravvissuto a Carthag, la Banca della Gilda è stata saccheggiata».
Carthag, pensò Jessica. Un feudo degli Harkonnen!
«Sono i Sardaukar… State attenti ai Sardaukar vestiti con le uniformi Atreides. Sono…»
Qualcosa rimbombò nell’altoparlante, poi, silenzio.
«Prova le altre frequenze» disse Paul.
«Capisci cosa vuol dire?» chiese Jessica.
«Me l’aspettavo. Vogliono che la Gilda ci consideri responsabili del saccheggio della banca. Con la Gilda contro di noi, siamo intrappolati su Arrakis. Prova le altre frequenze.
Jessica soppesò le parole: «Me l’aspettavo». Che cos’era accaduto a suo figlio? Lentamente, Jessica ritornò alla ricevente, intercettando sprazzi di violenza, le poche voci che ancora gridavano nel linguaggio da battaglia degli Atreides: «… ritiratevi!… cercate di riunirvi a… bloccati in una grotta sul…»
Non c’era alcun dubbio, invece, sull’esultanza vittoriosa degli Harkonnen che si rovesciava fuori dalle altre frequenze. Ordini secchi, rapporti di battaglie. Non ce n’era abbastanza perché Jessica potesse registrare e decodificare la lingua, ma il tono era ovvio.
Gli Harkonnen avevano vinto.
Paul afferrò lo zaino appoggiato accanto a lui e lo scosse: sentì il rumore gorgogliante dei due literjon pieni d’acqua. Respirò profondamente, alzò lo sguardo verso il lato trasparente della tenda, sulla scarpata rocciosa che si delineava contro le stelle. Con la sinistra saggiò la chiusura a sfintere all’ingresso della tenda. «Sarà l’alba tra poco» disse. «Possiamo aspettare tutto il giorno Idaho, ma non un’altra notte. Nel deserto bisogna viaggiare di notte e riposare all’ombra quando il sole è alto.»
Le antiche prescrizioni s’insinuarono nella mente di Jessica: Senza una tuta distillante un uomo seduto all’ombra, nel deserto, ha bisogno di cinque litri d’acqua al giorno per mantener costante il peso del suo corpo. Percepì la superficie liscia ed elastica della tuta distillante sulla sua pelle e pensò che la loro vita dipendeva completamente da quell’indumento.
«Se ce ne andiamo di qui, Idaho non ci troverà più.»
«Ci sono troppi modi per far parlare un uomo» replicò Paul. «Se Idaho non sarà ritornato prima dell’alba, dobbiamo considerare la possibilità che l’abbiano catturato. Quanto credi che riuscirebbe a resistere?»
La domanda non aveva bisogno di risposta e Jessica tacque.
Paul dissigillò la borsa e ne estrasse un micromanuale munito di un quadrante luminoso e di una lente, Lettere verdi e arancione gli balzarono agli occhi: Literjon, tende distillanti, capsule energetiche, tubi recupero, boccaglio da sabbia, binocoli, pezzi di ricambio per tute distillanti, pistole a tinta, carte sink, tamponi, parabussola, ami da creatore, martellatori, zaino, colonne di fuoco…
Tante cose, per sopravvivere nel deserto!
Qualche istante dopo, mise il micromanuale da parte, sul pavimento.
«Dove possiamo andare?» chiese Jessica.
«Mio padre parlava di potere del deserto» rispose Paul. «Gli Harkonnen non possono governare questo pianeta senza di esso. Non hanno mai governato questo pianeta né lo faranno mai. Neppure con diecimila legioni di Sardaukar.»
«Paul, tu non puoi veramente pensare.»
«Abbiamo tutte le prove» ribatté Paul. «Proprio qui, in questa tenda: la tenda stessa, questa borsa e il suo contenuto, queste tute distillanti. Sappiamo che la Gilda esige un prezzo proibitivo per i satelliti meteorologici. Sappiamo che…»
«Che cosa hanno a che fare i satelliti meteorologici con tutto questo?» disse Jessica. «Non possono…»
S’interruppe.
Paul percepì le sue reazioni, con la mente ipersensibile, e valutò ogni più piccolo dettaglio. «Vedi» riprese. «I satelliti osservano il suolo sottostante. Vi sono cose nelle profondità del deserto che non devono venire osservate.»
«Sospetti che la Gilda controlli questo pianeta?»
Era così lenta…
«No!» esclamò Paul. «I Fremen! Pagano la Gilda per poter operare in tutta segretezza, con una moneta che è liberamente a disposizione di chiunque abbia il potere del deserto… la spezia! E non è una ipotesi di seconda approssimazione, ma l’unica possibile soluzione. Fidati.»
«Paul» disse Jessica, «non sei ancora un Mentat, non puoi sapere…»
«Non sarò mai un Mentat» replicò Paul. «Sono qualcos’altro… un capriccio di natura.»
«Paul! Come puoi…»
«Lasciami solo!»
Le girò le spalle, fissando la notte. Perché non posso piangere? pensò. Sentì ogni fibra del suo essere anelare a quello sfogo, ma gli sarebbe stato negato per sempre.
Jessica non aveva mai percepito un’angoscia così profonda nella voce del figlio. Avrebbe voluto capirlo, stringerlo fra le braccia, confortarlo, aiutarlo… ma nel medesimo istante sapeva che non avrebbe potuto far nulla. Doveva risolvere i suoi problemi da solo.
Il manuale che Paul aveva estratto dallo zaino Fremen continuava a brillare debolmente sul pavimento della tenda. Lo prese in mano, guardò la pagina sulla quale era aperto, e lesse: «Manuale del Deserto Amico, questo luogo pieno di vita. Ecco l’ayat e il burhan della Vita. Credi, e al-Lat non ti consumerà mai».
Assomiglia al Libro di Azhar, pensò Jessica, ricordando i suoi studi dei Grandi Segreti. È forse possibile che Arrakis sia stato visitato da un Manipolatore di Religioni?
Paul tirò fuori dal sacco la parabussola, poi la cacciò dentro di nuovo e disse: «Pensa a tutti questi apparecchi Fremen e alle loro funzioni così precise. Sono l’indizio di una tecnologia ineguagliata, ammettilo. La cultura che ha prodotto questi oggetti tradisce una profondità insospettabile».
Esitando, ancora preoccupata dalla durezza della sua voce, Jessica ritornò al libro e studiò il disegno di una costellazione visibile da Arrakeen: «Muad’Dib: il Topo». La coda puntava a nord.
Paul si voltò nuovamente verso l’oscurità della tenda e osservò il profilo della madre appena delineato dalla debole luminosità del manuale. Ora è tempo di esaudire il desiderio di mio padre, pensò. Devo comunicarle il suo messaggio mentre ha ancora tempo per il dolore. Più tardi, il dolore ci sarebbe d’impaccio. Questa logica precisa lo colpì.
«Madre» disse.
«Sì?»
Jessica sentì che la sua voce era cambiata e una morsa gelida l’afferrò alle viscere. Non era mai stata testimone di un controllo così ferreo.
«Mio padre è morto» disse Paul.
Lei cercò nella sua mente di collegare i fatti tra loro… fatti su fatti, secondo la Via Bene Gesserit di valutare gli eventi. E la risposta era lì: la sensazione di una perdita terribile.
Annuì, incapace di parlare.
«Mio padre mi aveva incaricato di trasmetterti un messaggio» riprese Paul, «se gli fosse accaduto qualcosa. Temeva che tu potessi credere che non avesse fiducia in te.»
Quell’inutile sospetto, pensò Jessica.
«Voleva che tu sapessi che non ti ha mai sospettata» disse ancora Paul, e le spiegò l’inganno, aggiungendo: «Voleva assolutamente che tu sapessi che ha sempre avuto la più completa fiducia in te, che ti ha sempre amata e adorata. Ha detto che avrebbe diffidato piuttosto di se stesso che di te e che aveva un solo rimpianto: quello di non averti fatto la sua Duchessa».
Lei si asciugò le lagrime che le scorrevano sulle guance e pensò: Che stupido spreco di acqua! Ma valutò esattamente il pensiero: il tentativo di cancellare il dolore con la collera. Leto, mio Leto, pensò, quali cose orribili noi facciamo a quelli che amiamo! Con un gesto impulsivo spense il piccolo quadrante luminoso del manuale.
Cominciò a singhiozzare.
Paul percepì il dolore della madre, ma dentro di sé sentì il vuoto. Non provo alcun dolore, pensò. Perché, perché? La sua incapacità a provar dolore gli parve un terribile difetto.
«Un tempo per vincere, un tempo per essere sconfitti», pensò Jessica. Una frase della Bibbia Cattolica Orangista: «Un tempo per conservare, un tempo per gettar via; un tempo per l’amore e un tempo per l’odio; un tempo per la guerra, un tempo per la pace».
La mente di Paul continuò a funzionare, gelida, precisa. Vide le vie che si aprivano davanti a loro. Senza neppure l’aiuto del sogno, la sua prescienza gli rivelò, consapevolmente, quasi tutti i futuri possibili, ma con qualcosa in più, una frangia di mistero… come se la sua mente fosse sprofondata in qualche strato senza tempo, nella quale gli echi del futuro rimbalzavano confusi.
Improvvisamente, come se avesse trovato la chiave indispensabile, la mente di Paul salì un altro gradino sulla scala della consapevolezza. Sentì che stava avvinghiandosi a questo nuovo livello, a questo precario sostegno, guardandosi intorno. Gli parve di trovarsi al centro di una sfera, da cui le strade s’irradiavano in tutte le direzioni… ma questa era soltanto una pallida immagine delle sue sensazioni.
Si ricordò di aver visto, una volta, un fazzoletto di garza gonfiato dal vento, e percepiva il futuro così, il contorcersi di una superficie gonfia e flessibile come quella del fazzoletto.
Vide della gente.
Sperimentò il calore e il freddo d’infinite probabilità.
Riconosceva i nomi e i luoghi, provava innumerevoli emozioni, innumerevoli notizie gli giungevano dalle fonti più oscure e inesplorate. C’era tutto il tempo per esplorarle, saggiarle, toccarle, ma non per rimodellarle.
Il tutto era uno spettro di possibilità, dal passato più remoto al futuro più lontano… dal quasi certo al più improbabile. Vide la propria morte in un numero infinito di modi. Vide nuovi pianeti, nuove civiltà.
Gente.
E ancora gente.
Moltitudini impossibili a numerarsi e tuttavia la sua mente ne percepiva chiaramente l’esistenza.
Perfino gli uomini della Gilda.
E pensò: La Gilda… questa è forse una strada per noi. Lì la mia diversità sarebbe accettata come qualcosa di prezioso, di familiare… sempre a condizione di poter disporre di una scorta della cosa essenziale: la spezia.
Ma lo spaventò l’idea di trascorrere l’intera vita con la mente brancolante in quel groviglio dei possibili futuri che serviva a guidare le navi spaziali. Era un modo, tuttavia. E, affrontando questo futuro possibile con gli uomini della Gilda, riconobbe la natura della sua diversità. Ho un’altra vista. Vedo un altro paesaggio, un altro mondo, tutte le infinite vie possibili.
Questo pensiero lo rassicurò e lo spaventò insieme. Troppe vie, in quel suo modo diverso di vedere, continuavano a sprofondare o a dileguarsi.
Così, rapida com’era venuta, la sensazione lo abbandonò e si rese conto che l’intera esperienza era durata un battito del suo cuore.
E tuttavia, la sua coscienza ne era stata sconvolta, abbagliata come da una luce terrificante. Si guardò intorno.
La notte avvolgeva ancora la tenda distillante, circondata dalle rocce. Percepì ancora, acuto, il dolore di sua madre.
E anche l’assoluta mancanza di dolore dentro di lui… Come una cavità profonda, la sua mente, separata dal resto, continuava implacabile, sempre uguale, a ricevere i dati, a valutarli, a calcolarli, ponendosi le domande e risolvendole quasi come un Mentat.
Ma erano pochi i Mentat che avessero accumulato una simile abbondanza di dati. E non per questo la profonda cavità della sua mente era più sopportabile. Sentì che qualcosa doveva spezzarsi. Era come se il meccanismo a orologeria di una bomba avesse cominciato a ticchettare dentro di lui e continuasse a farlo senza alcun riguardo per i suoi desideri. Captò le impercettibili variazioni intorno a sé… un leggero aumento dell’umidità, la temperatura più bassa di una frazione di grado, il lento avanzare di un insetto sulla tenda distillante, il solenne ingresso dell’alba in quell’angolo di cielo stellato visibile attraverso il lato trasparente della tenda.
Il vuoto era insopportabile. Il fatto di sapere come il meccanismo a orologeria fosse stato messo in moto non faceva alcuna differenza. Poteva guardare al proprio passato e vederne l’inizio: l’addestramento, l’affinarsi dei talenti, la sollecitazione perfettamente graduata delle discipline più sofisticate, perfino la scoperta della Bibbia Cattolica Orangista in un momento critico… e infine, la spezia. E poteva anche guardare avanti a sé (la direzione più terrificante), e vedere dove tutto ciò conduceva.
Sono un mostro! gridò dentro di sé. Un capriccio di natura!
«No!» disse. E ancora: «No, no, NO!»
Scoprì che stava tempestando di pugni il pavimento della tenda (quell’implacabile parte di lui stesso registrò tutto questo come un interessante dato emotivo, e l’integrò agli altri fattori).
«Paul!»
La madre era al suo fianco e gli aveva afferrato i polsi; il suo viso era una macchia grigia che lo scrutava, «Paul, che cosa c’è che non va?»
«Tu!»
«Sono qui, Paul» disse lei. «Tutto è a posto.»
«Che cosa mi hai fatto?» gridò Paul.
In un lampo di comprensione Jessica percepì le radici lontane della sua domanda. «Ti ho messo al mondo» rispose.
Il suo istinto e le sue conoscenze sottili le avevano detto che questa era la miglior risposta per calmarlo. Paul sentì le mani della madre che lo stringevano e cercò di mettere a fuoco il profilo confuso del suo viso. (Alcuni segni genetici, nella struttura del volto di lei, vennero esaminati sotto un nuovo angolo dalla sua mente in continua attività, le informazioni furono aggiunte agli altri dati, e come risultato finale giunse la risposta.)
«Lasciami» intimò lui.
Lei sentì la durezza tagliente della sua voce, e obbedì. «Vuoi dirmi che cosa c’è che non va, Paul?»
«Sapevi quello che facevi quando mi hai addestrato?»
Non c’è più alcuna traccia di fanciullezza nella sua voce, pensò Jessica. E rispose: «Avevo sperato quello che ogni genitore spera… che tu saresti stato superiore… diverso».
«Diverso?»
Lei percepì l’asprezza nella sua voce, e continuò: «Paul, io…»
«Tu non volevi un figlio!» ribatté lui. «Tu volevi uno Kwisatz Haderach! Tu volevi un maschio Bene Gesserit!»
Lei indietreggiò davanti a tanta amarezza. «Ma, Paul…»
«Ti sei mai consultata con mio padre, per questo?»
Lei rispose a bassa voce, anche a causa del suo recente dolore: «Qualsiasi cosa tu sia, Paul, la tua eredità ti viene sia da tuo padre che da me».
«Ma non l’addestramento! Non quelle cose che hanno risvegliato il… dormiente.»
«Il dormiente?»
«È qui.» Si mise una mano sulla testa, e poi sul petto. «In me. E continua, continua, e continua e continua e…»
«Paul!»
Lei capì che suo figlio era sull’orlo di un attacco isterico.
«Ascoltami» disse Paul. «Tu volevi che la Reverenda Madre sapesse dei miei sogni? Ora mi ascolterai al suo posto. Ho appena avuto un sogno da sveglio. Sai perché?»
«Calmati» disse Jessica. «Se c’è…»
«La spezia» l’interruppe Paul, vivacemente. «La spezia è dovunque, qui… l’aria, il suolo, il cibo. La spezia geriatrica. È come la droga delle Veridiche. È un veleno!»
Jessica s’irrigidì.
La voce di Paul si abbassò in un mormorio: «Un veleno» ripeté. «Un veleno così elusivo, insidioso… irreversibile. E non uccide, a meno che non si smetta di prenderlo. Non potremo mai più lasciare Arrakis, a meno che non portiamo un frammento di Arrakis con noi.»
La presenza terrificante della sua voce non tollerava repliche.
«Tu e la spezia» continuò Paul. «La spezia trasforma chiunque, anche a piccole dosi, ma, grazie a te, io ho vissuto questa trasformazione in perfetta coscienza. Non posso ricacciarla nell’inconscio, dove ogni sua intromissione può essere soffocata. Io posso vederla.»
«Paul, tu…»
«Io la vedo, ti dico!»
Lei percepì la follia nella sua voce; non sapeva più che fare.
Ma lui parlò di nuovo: il controllo ferreo riprese il sopravvento. «Siamo intrappolati qui.»
Siamo intrappolati qui. Jessica fu d’accordo.
E accettò la verità delle sue parole. Nessuna pressione del Bene Gesserit, nessun artificio o inganno, avrebbe potuto costringerli a lasciare completamente Arrakis: la spezia era un tossico. Il suo corpo lo aveva saputo molto prima che la sua mente se ne accorgesse.
Così, siamo qui per passarvi l’intera nostra vita, concluse Jessica. Su questo pianeta infernale. Questo mondo è pronto per noi, se riusciremo a sfuggire agli Harkonnen. E non c’è alcun dubbio sulla mia funzione: una giumenta destinata a preservare un’importante linea genetica, per il Piano Bene Gesserit.
«Devo parlarti del mio sogno a occhi aperti» disse Paul. (Ora c’era del furore nella sua voce.) «Per esser certo che non dubiterai delle mie parole, ti dirò questo, prima di tutto: io so che darai alla luce una figlia, mia sorella, qui su Arrakis.»
Jessica appoggiò le mani al pavimento e si strinse contro la parete ricurva della tenda per calmare una fitta di paura. Nessuno avrebbe potuto sapere, ancora, che era incinta. Solo il suo addestramento Bene Gesserit le aveva permesso di leggere i primi deboli sintomi sul suo corpo e di avvertire la presenza di un embrione, di pochi giorni soltanto.
«’Solo per servire’» bisbigliò, ripetendo il motto delle Bene Gesserit. «Noi esistiamo solo per servire.»
«Troveremo una casa tra i Fremen» riprese Paul. «Dove la vostra Missionaria Protectiva ci ha creato un rifugio.»
Hanno aperto una strada per noi nel deserto, disse Jessica, tra sé, ma com’è possibile che lui sappia della Missionaria Protectiva? Le era sempre più difficile dominare il terrore davanti alla schiacciante diversità di suo figlio.
Paul studiò quell’ombra confusa che era sua madre e ne percepì ogni paura e ogni reazione con la sua nuova consapevolezza, come se si stagliassero contro una luce accecante. Cominciò a provare per lei una punta di compassione.
«Non posso ancora dirti quello che accadrà» continuò Paul. «Non posso dirlo neppure a me stesso, anche se l’ho visto. Questo senso del futuro… sembra che io non abbia alcun controllo su di esso. Si manifesta, ed è tutto. L’immediato futuro… diciamo, un anno… posso vederne una parte, una strada larga come la nostra Central Avenue, su Caladan. Ma altre cose non riesco a distinguerle, sono nell’ombra… come al di là di una collina…» (e di nuovo pensò alla superficie di un fazzoletto di garza rigonfiata dal vento) «…e vi sono ramificazioni…»
Tacque di colpo, mentre i ricordi di ciò che aveva visto lo travolgevano. Nessun sogno presciente, nessuna esperienza della sua vita passata lo avevano preparato a questo: ora ogni velo era stato strappato, totalmente, così rivelando il tempo in tutta la sua nudità.
Nel rivivere l’esperienza riconobbe il suo terribile scopo: l’irresistibile pressione della sua vita che si estendeva in una bolla sempre più immensa, mentre davanti ad essa il tempo si ritirava…
Jessica cercò il controllo della luce e l’azionò.
Una debole luce verde ricacciò le ombre calmando le sue paure. Fissò il volto di Paul, i suoi occhi… lo sguardo interiore. Seppe dove aveva visto un simile sguardo: le documentazioni dei disastri… il volto dei fanciulli che avevano conosciuto la fame o le più terribili ferite. Gli occhi: pozzi senza fondo; la bocca: una linea dura e diritta; le guance profondamente incavate.
Lo sguardo di chi ha visto cose terribili, pensò. Di chi affronta la certezza della sua mortalità.
Non era più un bambino.
I significati nascosti delle parole di Paul cominciarono a chiarirsi nella sua mente, cancellando ogni altra cosa. Paul aveva guardato in avanti, aveva visto una via di fuga!
«C’è un modo di sfuggire agli Harkonnen» disse Jessica.
«Gli Harkonnen!» la schernì suo figlio. «Scaccia dai tuoi pensieri quelle caricature d’esseri umani!» La fissò, studiando i contorni del suo viso alla debole luce della tenda. Quei contorni la tradivano.
Lei replicò: «Non dovresti riferirti alle persone chiamandole esseri umani senza…»
«Non essere così certa, quando devi tracciare dei confini» l’interruppe Paul. «Portiamo il nostro passato con noi. E, madre mia, c’è una cosa che non sai e dovresti sapere: noi siamo Harkonnen!»
La mente di Jessica fece una cosa spaventosa: si svuotò totalmente, come se avesse voluto scacciare qualsiasi sensazione. Ma la voce di Paul continuava implacabile, trascinandola con lui.
«La prima volta che sarai davanti a uno specchio, studia il tuo viso. Ora, invece, studia il mio. I segni sono qui, evidenti, se non acciechi te stessa. Guarda le mie mani, la forma delle mie ossa. E se nulla di tutto questo ti convince, allora credimi sulla parola. Ho percorso i sentieri del futuro. Ho visto una registrazione. Ho tutti i dati: noi siamo Harkonnen.»
«Un… ramo rinnegato della famiglia» disse Jessica. «È questo, non è vero? Qualche cugino Harkonnen che…»
«Tu sei la figlia del Barone» dichiarò Paul, e mentre Jessica si premeva le mani contro la bocca, proseguì: «Il Barone ha sperimentato molti piaceri in gioventù, e una volta ha perfino acconsentito a farsi sedurre. Ma è stato soltanto per le necessità genetiche del Bene Gesserit. Era una di voi».
Il modo in cui pronunciò voi la colpì come uno schiaffo. Ma la mente di Jessica aveva ripreso a funzionare: non poté negare le sue parole. Troppe fila sparse del suo passato ora si riunivano insieme, acquistando significato. La figlia che il Bene Gesserit voleva… non doveva servire a porre fine all’antica ostilità fra gli Atreides e gli Harkonnen, ma unicamente per fissare qualche fattore genetico delle loro discendenze. Quale? Cercò affannosamente una risposta.
Come se leggesse nella sua mente, Paul disse ancora: «Credevano che fossi io. Ma io non sono quello che si aspettavano e sono arrivato prima del mio tempo. E non lo sanno».
Jessica lottò per non gridare.
Grande Madre, è lo Kwisatz Haderach!
Gli sembrò d’esser nuda davanti a lui perché comprese che nulla, o quasi, era nascosto ai suoi occhi. E questo, appunto, era l’origine prima della sua paura.
«Tu pensi che io sia lo Kwisatz Haderach» disse Paul. «Cancella quest’idea dalla tua mente. Io sono qualcosa d’inatteso.»
Devo farlo sapere a una delle Scuole, pensò Jessica, affannosamente. Il Registro delle Unioni potrebbe rivelare ciò che è accaduto.
«Sarà troppo tardi quando sapranno che io esisto» continuò Paul.
Lei cercò di distrarlo, abbassò le mani e chiese: «Troveremo rifugio tra i Fremen?»
«I Fremen hanno un detto che attribuiscono allo Shai-hulud, il Vecchio Padre Eternità, e che dice: ’Sii pronto ad apprezzare ciò che incontri’.»
E pensò: Sì, madre mia, tra i Fremen. Ti verranno gli occhi azzurri e crescerà un callo sul tuo adorabile naso, dove sarà fissato il tubo del filtro della tuta distillante… e darai alla luce mia sorella, Santa Alia del Coltello.
«Se non sei lo Kwisatz Haderach, che cosa sei?» chiese Jessica.
«Non puoi saperlo» rispose Paul. «Lo crederai soltanto quando lo vedrai.»
E pensò: Sono un seme.
Improvvisamente vide quanto fosse fertile il terreno sul quale era caduto, e, rendendosi conto di questo, il suo terribile scopo lo soverchiò, insinuandosi in quello spazio vuoto dentro di lui. minacciando di soffocarlo di dolore.
Aveva visto la strada di fronte a lui dividersi in due rami principali. In uno di questi egli incontrava il vecchio, crudele Barone, esclamando: «Ehi, nonno!» Egli detestò questa diramazione con tutte le sue forze, al punto che la nausea lo travolse.
L’altro sentiero s’inoltrava tra macchie d’un confuso grigiore, interrotte qua e là da scoppi di violenza. E all’improvviso la visione d’una religione guerriera, un fuoco che si spargeva nell’universo con lo stendardo verde nero degli Atreides sventolante alla testa di onde di fanatici ebbri del liquore della spezia. Gurney Halleck e pochi altri fra gli uomini di suo padre (un gruppo sparuto) al centro dell’orda, tutti contrassegnati dal simbolo del falco ispirato all’altare consacrato al teschio del Duca Leto.
«Non posso andare in quella direzione» mormorò, «anche se è quella che vogliono le vecchie streghe della tua Scuola.»
«Non ti capisco, Paul» disse la madre.
Tacque. Egli era un seme, e pensò a questa coscienza razziale che aveva sperimentato all’inizio come un terribile scopo. Scoprì di non poter più odiare né il Bene Gesserit, né l’Imperatore e neppure gli stessi Harkonnen. Erano tutti coinvolti nell’ineluttabile spinta della razza a rinnovare la propria eredità dispersa, incrociandosi, mescolando le stirpi in un gigantesco ribollire genetico. E la razza conosceva soltanto una via… quella antica, sperimentata e sicura che travolgeva ogni ostacolo: il jihad.
Io non posso scegliere questa strada.
Ma nuovamente, nelle profondità del suo spirito, balzò vivido il tempio col teschio di suo padre e la violenza trascinante dello stendardo verde nero.
Jessica si schiarì la gola, preoccupata per il suo silenzio: «Allora… i Fremen ci daranno ospitalità?»
Paul alzò lo sguardo, e attraverso la verde luminosità della tenda fissò il suo viso dai tratti raffinati, patrizi: «Sì» disse, «è una delle strade.» Annuì. «Mi chiameranno… Muad’Dib, ’Colui che Indica la Strada’. Sì, così mi chiameranno.»
E chiuse gli occhi, pensando: Ora, padre mio, posso piangerti. E sentì le lagrime scorrergli sulle guance.